Hegel e il divenire. Ontologia e logica della contraddizione
 9788861291010

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Federico Perelda

Hegel e il divenire Ontologia e logica della contraddizione

Prima edizione: maggio 2007

© Copyright 2007 by CLEUP sc “Coop. Libraria Editrice Università di Padova” Via G. Belzoni, 118/3 – Padova (Tel. 049/650261) www.cleup.it Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese

le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.

Premessa Questo volume è la rielaborazione della mia dissertazione di dottorato, intitolata Ontologia hegeliana delle contingenza, discussa a Venezia qualche anno fa. Di essa è stato relatore il prof. Emanuele Severino. Il presente saggio è anzitutto un’indagine su Hegel, ma ha sullo sfondo un confronto ideale tra la logica e l’ontologia hegeliane da una parte, e il nucleo del pensiero di Emanuele Severino dall’altra. Peraltro, dall’interpretazione severiniana di Hegel mi discosto significativamente; inoltre, credo che Hegel possa rispondere a molte critiche mossegli da Severino e che i due si fronteggino alla pari rispetto al tema della contraddizione. Nondimeno, le analisi testuali e teoriche che compio qui sono profondamente debitrici nei confronti dell’opera e degli insegnamenti di Emanuele Severino. Sono molte le persone che devo ringraziare, a vario titolo: anzitutto i proff. Luca Illetterati e Luigi Perissinotto per lo scambio scientifico, i molti consigli e soprattutto l’amichevole sostegno; i proff. Franco Chiereghin e Francesca Menegoni, per alcuni istruttivi colloqui; il prof. Vittorio Hösle, per alcune importanti conversazioni e per avermi invitato qualche anno fa a prender parte a un seminario all’Università di Notre Dame; i partecipanti ai seminari di studi hegeliani a Padova, e quelli del seminario analitico, nella stessa città; i colleghi veneziani, per i molti stimolanti colloqui. Gli studi e le pubblicazioni di Francesco Berto sono stati per me importanti, pur avendo noi opinioni alquanto diverse su Hegel. Ringrazio poi gli amici più cari, tutti insieme, per i nostri colloqui, filosofici e non; e una persona speciale, conosciuta tre anni fa, sperando abbia di me buon ricordo. Una volta ancora, poi, sono grato ai miei genitori, sempre pronti a sostenermi, e a mio fratello, col quale, non so come mai, ultimamente vado più d’accordo.

P.S. Mi sarebbe piaciuto far leggere questo volume al prof. Italo Valent, purtroppo scomparso qualche anno fa.

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Abbreviazioni I. KANT, Critica della ragion pura, 1989. G.W.F. HEGEL, Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello Schelling, 1971a. E G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, con le aggiunte. Parte prima: la scienza della logica, 1981, §§ 1-244; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), 1996, §§ 255 ss. FN G.W.F. HEGEL, Filosofia della Natura. Quaderno jenese (18051806), 1994. JSW II, JSW III G.W.F. HEGEL, Jenaer Systementwurfe II. Logik, Metaphysik, Naturphilosophie, 1971; Jenaer Systementwürfe III. Naturphilosophie und Philosophie des Geistes, 1976. LMJ G.W.F. HEGEL, Logica e metafisica di Jena (1804-05), 1982. LPD G.W.F. HEGEL, Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio, 1970b. Monl. ANSELMO D’AOSTA, Monologio e proslogio, 2002. P G.W.F. HEGEL, Platone, 1998. POM B. RUSSELL, The Principles of Mathematics, 1903. PS I, PS II G. GIANNANTONI (a cura di), I Presocratici. Testimonianze e frammenti, 1990. RSF G.W.F. HEGEL, Rapporto dello scetticismo con la filosofia, (1970a). RZL G.W.F. HEGEL, Hegels Raum-Zeit Lehre, 1985. SF G.W. LEIBNIZ, Scritti filosofici, 2000. SL G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, 1924-25. SP I. KANT, 1990. T L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, 1961. W G.W.F. HEGEL, Werke, 1969-72. WL I, WL II, WL III G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik. Die Lehre vom Sein (1932), 1990; Wissenschaft der Logik. Die Lehre vom Wesen (1813), 1992; Wissenschaft der Logik. Die Lehre vom Begriff (1816), 1996. WL IA G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik. Die Lehre vom Sein (1812), 1986. VL G.W.F. HEGEL, Vorlesungen. Ausgewählte Nachschriften und Manuskripte, vol. 10, Vorlesungen über die Logik. Berlin 1831, nachgeschrieben von Karl Hegel, 2001. CRP D

Avvertenza Le citazioni provengono dalle traduzioni italiane, se esistenti. I brani tratti dalle opere di Hegel hanno in genere sia il rimando sia alla traduzione italiana, sia all’edizione tedesca di riferimento. Nel caso della Wissenschaft der Logik, testo che ha particolare rilievo in queste indagini, riporto in pedice anche il numero di riga. 4

1 1.1

INTRODUZIONE

In medias res

C’è una casa, per esempio quella in cui in ora mi trovo. Ma non c’è sempre stata: prima di venire costruita non c’era e in un futuro più o meno remoto sarà distrutta. Questa casa non è, evidentemente, eterna. Sorte simile hanno moltissime altre cose: uomini, città, pianeti, stelle ecc.; mentre destino diverso hanno, forse, entità meno tangibili come i numeri, le idee (la giustizia, la bellezza, ecc.), le quali, secondo alcuni, sono eterne. Ora, in generale, le cose che sono, ma che sarebbero potute non essere; che prima di esistere non c’erano, e che dopo un periodo di esistenza cesseranno di essere, sono dette tradizionalmente contingenti1. Contingente è anzitutto quel che è nel tempo, per un certo tempo. Ed è nel tempo ciò che è soggetto a mutamento. Ora, le questioni del tempo e del mutamento sono fra le più fondamentali e le più difficili da risolvere della filosofia. La ragione di ciò sta in una tensione tra, da un lato, l’idea di variazione, insita nella nozione di mutamento; e, dall’altro, certi concetti logici. Partiamo da questi ultimi. Uno dei principi basilari nella comprensione della realtà è quello di determinatezza. Un gatto non è un pianeta, il numero tredici non è la torre Eiffel, io non sono Napoleone, Socrate non è sia seduto che in piedi. Si potrebbe esprimere questo principio, in prima approssimazione, dicendo che ogni cosa è sé stessa e non un’altra cosa, e che ogni cosa è tale e qual è e non altrimenti. Questo principio, a ben vedere, riunisce in un’unica intuizione tre aspetti: l’autoidentità di ciascuna cosa, la differenza numerica dalle altre e la determinatezza predicativa (se qualcosa è fatto in un certo modo, non è fatto altrimenti). Senza questo principio, la realtà è inintelligibile. Certo, possono esserci problemi nello stabilire esattamente che cosa sia qualcosa, come sia fatto; ma, in generale, vige la presunzione (realistica) che in qualche modo le cose siano fatte, e che le difficoltà stiano eventualmente nel conoscere ed esprimere come lo siano. Vengo ora al primo lato della tensione, l’elemento della variazione. Il mutamento consiste nel prodursi di una differenza riferita a una medesima cosa – differenza che si esprime mediante la negazione: qualcosa che prima non esisteva, inizia ad esistere; qualcosa che prima non era un cert’altra cosa, poi lo diventa; qualcosa che prima era fatto

1 Intendo qui in prima approssimazione per contingente ciò che c’è, ma che sarebbe potuto non essere, e che potrà cessare di essere. Questo termine non ha avuto, nel corso della storia del pensiero, significato univoco. Su questo tema si veda l’ampia voce Kontingenz dello Historisches Wörterbuch der Philosophie, di J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di), (1976), vol. 4, coll. 102738. Sulle teorie medievali segnalo, anche per le referenze bibliografiche, S. KNUUTTILA (1982), in part. p. 289 n. e ss. Di carattere generale H. SCHEPERS (1963); con particolare riferimento a Leibniz, ID. (1965, pp. 195 ss.), e ivi, p. 198 n. 7 per ulteriori rimandi bibliografici.

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in un certo modo, poi non è più identico a com’era prima. Un modo molto generale per esprimere queste variazioni è fare riferimento all’essere e al non-essere, secondo i vari significati di queste parole. Questo riferimento non è un arbitrio dei filosofi, ma ciò che avviene nel senso e nel linguaggio comuni. Diciamo infatti che prima una certa cosa non c’era; o che qualcosa ora è così e così, e prima no; o che un tempo questa cosa era ben diversa da com’è ora. I tre principali significati del verbo essere – esistenziale, predicativo e identificativo – sono egualmente coinvolti nel mutamento, anche se in modo diverso. La tensione cui accennavo, tra variazione e determinatezza, sorge per il fatto che i termini di essere e non essere sono opposti, incompatibili. Questa radicale alterità – radice del principio di determinatezza – è peraltro il presupposto di ogni divenire. Infatti, ha senso parlare di mutamento, di qualunque genere esso sia, solo se inizio e risultato non coincidono, non sono identici. Per esempio, solo quel che non esiste già può iniziare ad esistere; solo un uomo che non sia già ricco può diventare ricco, e così via. La questione allora è la seguente. Da un lato il mutamento presuppone l’alterità tra inizio e risultato, tra essere e non-essere (nei vari significati della parola essere), e in questo ben si accorda col principio di determinatezza; ma dall’altro consiste nel passaggio tra l’uno e l’altro. Un passaggio in cui l’alterità viene meno e si fa identità2: quel che non c’era diventa esistente; quel che non era in un certo modo, lo diventa, ecc. D’altra parte, se vige l’alterità, se l’essere non è il non essere, sembra impossibile ogni passaggio tra l’uno e l’altro, e dunque ogni mutamento. Come potrebbe, infatti, qualcosa, l’essere, diventare il suo opposto, qualcos’altro, il non-essere (o viceversa)? Se l’essere e il non essere (di qualcosa, nei sensi esistenziale, predicativo, ecc.) sono termini opposti, l’uno respinge l’altro e non può mai diventare l’altro. Giacché diventare l’altro significa diventare identici ad esso. Ciò però è del tutto escluso dal principio di determinatezza. Il mutamento, in altre parole, presuppone ma al contempo sopprime la diversità tra inizio e risultato. Questa tensione è, nella sua formulazione fondamentale, il problema del divenire. 1.2

Quel che ne pensa Hegel

Tale questione è stata sollevata nell’antichità – essa corrispondendo, in buona sostanza, all’idea degli Eleati che il divenire sia intrinsecamente paradossale. A questi problemi sono state proposte delle soluzioni, tra le quali spicca, per la sua grande importanza, quella di Aristotele. Essa consiste fondamentalmente nel pensiero che l’aporia dianzi delineata sia apparente, derivando da un’analisi concettuale inadeguata del divenire (gli Eleati sbagliavano le premesse e conducevano male i ragionamenti,

Per questa tesi rimando a E. SEVERINO (1995). Sono debitore nei confronti di questo e di altri testi di Severino per buona parte delle analisi che presento nei capitoli seguenti. 2

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sosteneva Aristotele). Rettamente concepito, invece, il divenire è del tutto coerente e reale. Questo pensiero aristotelico è divenuto una specie di dato acquisito in filosofia, e non è più stato seriamente messo in discussione. Tuttora, nei tratti fondamentali (la teoria della sostanza come sostrato), gode mutatis mutandis di vasto seguito. Eppure c’è chi si è opposto – prendendo le distanze da Aristotele, dalla sua logica, dalla tradizione che ne è seguita. Tra questi critici spicca Hegel, figura preminente della fronda. Egli ha riportato la questione del divenire alla sua formulazione aporetica iniziale, eleatica, traendone le estreme conseguenze. Come e perché abbia fatto questo, sarà l’oggetto di ampia parte del presente volume. Per ora mi limito a richiamare alcuni capisaldi della questione. Se chiediamo a Hegel, in un dibattito ideale, che cosa siano il tempo, il movimento, il divenire, otteniamo delle risposte sorprendenti. Consideriamo, per esempio, la sua teoria del moto. Secondo una concezione molto antica e tuttora in voga (oggi definita la standard view) il moto consiste nell’occupare un oggetto posizioni diverse in tempi diversi. Ma Hegel avversa questa tesi, ritenendola insoddisfacente, e la corregge con un’aggiunta che ne infirma un elemento centrale: la non contraddizione. Mi soffermo su questo punto. Quando un oggetto occupa la stessa posizione in tempi diversi, è fermo. Per es., se un’ora fa ero qui, adesso sono ancora qui, e lo sono stato anche nel frattempo, allora non mi sono mosso da qui – almeno da un’ora a questa parte. Durante questo tempo sono stato fermo; e lo sono stato, in particolare, in ogni intervallo, piccolo quanto si voglia, compreso in quell’ora. Consideriamo invece il caso di un oggetto che si muove. Esso, fintanto che è in moto, occupa posizioni differenti. La cosa, fin qui, è banale. Ma occorre prestare attenzione a una precisazione: l’oggetto occupa sì posizioni diverse, ma in tempi diversi; altrimenti in un unico e medesimo tempo sarebbe e non sarebbe in un certo luogo; ma ciò è contraddittorio e inammissibile. Per esempio, se mi sposto da Venezia a Padova in un’ora, io, in quel tempo, considerato come un’unità, sono e non sono a Venezia (o a Padova). Ma questa contraddizione è apparente, derivando da un descrizione inappropriata della situazione. Per ovviare a ciò, il tempo complessivo va suddiviso in intervalli sufficientemente piccoli (al limite in degli istanti), tali che io, in ciascuno di essi, occupi una e una sola posizione. Così si può dire che prima ero a Venezia e poi a Padova, e nei tempi intermedi in luoghi intermedi (supponendo il mio viaggio senza soste). In ogni caso, non sono al contempo qui e lì. Ricapitolando: nel tempo totale dello spostamento, muta sì la mia posizione; ma questo tempo deve essere composto da intervalli sufficientemente piccoli, al limite da istanti, durante i quali io sono in uno e un solo luogo – pena la contraddizione. In questi intervalli, si potrebbe dire, sto fermo. Il movimento, allora, sembra avere una natura duplice: di essere dinamico nel tempo totale ma statico negli intervalli costitutivi più brevi. Questa duplicità suscita delle perplessità: com’è possibile che movimento e stasi abbiano le stesse caratteristiche negli intervalli di tempo sufficientemente brevi, differendo però nell’arco di tempo complessivo? In fondo, il lasso totale si suppone costituito da istanti o intervelli, e questa totalità non pare essere nulla più dell’unione delle parti. Un’ora ammonta, in ultima analisi, a sessanta minuti primi o a tremilaseicento 7

minuti secondi, ecc. Com’è, dunque, che quel che non vale per i costituenti vale per la totalità? Per considerazioni simili a queste la concezione del moto dianzi delineata, quella standard, è stata già nell’antichità bersaglio di alcune penetranti critiche, divenute molto famose. Mi riferisco ai ragionamenti di Zenone. Questi ha ritenuto che con quell’idea di moto si finisca col dover pensare che un oggetto stia sempre fermo. Infatti, se l’oggetto (presunto) in moto sta fermo in ogni intervallo immaginabile del tempo in cui si muove, allora sta anche fermo per tutto quel tempo; ma ciò che sta sempre fermo non si muove mai. Al paradosso sono state proposte molte soluzioni, sin dall’antichità, ma esso è ancor oggi, nonostante tutto, un autentico rompicapo3. Torniamo a Hegel. Egli raccoglie la sfida del paradosso di Zenone, rovesciandone le conclusioni. Per lui i ragionamenti di Zenone non sono sofismi né confutazioni della realtà del movimento, bensì autentiche verità. Infatti, se un oggetto si muove, certamente è in luoghi diversi in tempi diversi; ma questo, come si diceva, non basta. In tal modo, infatti, si cadrebbe nel paradosso che l’oggetto, fermo in ogni istante, starebbe sempre fermo. Prendiamo il treno che mi porta da Venezia a Padova. Per Hegel esso non si muove soltanto perché prima è qui e poi è lì, ma proprio e solamente perché, in un unico e medesimo tempo (istante), esso è e non è in un certo luogo, sotto il medesimo rispetto. Nell’istante del moto (in tutti gli istanti di moto) l’oggetto non è fermo: la natura dinamica del moto riguarda sia la totalità del tempo che i suoi intervalli o istanti costitutivi. Riguarda la totalità, proprio perché riguarda i costituenti. Con ciò però si afferma una patente contraddizione: quella di essere e non essere in un certo luogo nel medesimo tempo e sotto il medesimo rispetto. Hegel ne è del tutto consapevole, ed infatti qualifica «l’esterior moto sensibile» come la più semplice realizzazione della contraddizione, quella empiricamente constatabile. Del pari, il tempo è, per lui, in modo ancor più generale, «la pura contraddizione esistente»: «il tempo è quel che in quanto è, non è, e in quanto non è, è. L’essere si converte immediatamente in non-essere, e altrettanto il non-essere in essere». Testi ed esempi di tal fatta sono numerosi, e saranno oggetto di indagine nei prossimi capitoli. 1.3

Quel che pensiamo noi di Hegel

Queste tesi di Hegel sulla natura del moto, del tempo, del divenire, ecc., sono sorprendenti e hanno attirato l’attenzione di filosofi ed esegeti. Infatti, l’affermazione che esista qualcosa come il contenuto di una contraddizione comporta la smentita del celeberrimo principio di non contraddizione – quello che le persone di buon senso e la stragrande maggioranza dei filosofi (con qualche eccezione), tengono come la prima bus-

La bibliografia sul tema è considerevole, spaziando dagli studi storici a quelli di carattere logico-matematico. Qui menziono solo W. C. SALMON (2001), che contiene alcuni dei contributi recenti più noti e importanti. Il dibattito è in fieri. 3

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sola dei loro ragionamenti. L’idea generale è che una contraddizione non possa mai esser vera, e che quando un ragionamento si imbatte in essa, qualcuna delle premesse debba essere rigettata. Tale principio ha un’importanza fondamentale, che certo non sfugge ad uno Hegel. Proprio perciò la posizione hegeliana deve essere considerata con attenzione. Lo farò nei capitoli che seguono; qui mi limito a osservare quanto segue, per dare un’idea della questione. Per Aristotele il principio di contraddizione è il più noto e saldo di tutti, perché è innegabile. Su ciò lo Stagirita non è mai stato significativamente avversato (a parte qualche sparuta voce contraria). Non desta meraviglia, allora, che le prese di posizione di Hegel a favore della contraddizione abbiano avuto un effetto dirompente, suscitando notevoli sforzi interpretativi. A prenderle sul serio, infatti, si finisce con l’avversare il principio cardine di ogni logica e del buon senso, mettendo così a repentaglio la plausibilità della proposta teorica avanzata, qualunque essa sia. Nessuna teoria gode di molto credito includendo una contraddizione tra i suoi asserti. Insomma: non ci si mette a cuor leggero contro il principium firmissimum, poiché ciò costa uno sforzo teorico notevolissimo, dagli esiti (posto che ve ne siano) del tutto incerti. Proprio per evitare l’idea che Hegel sia un sostenitore di assurdità, molte letture del pensiero hegeliano hanno mirato a smorzare i toni, sostenendo che la contraddizione di cui parla Hegel non riguardi direttamente la realtà, bensì solamente la comprensione inadeguata di essa. Le cose non sono davvero contraddittorie (non ci sono stati contraddittori di cose; non ci sono contraddizioni vere); al più ci sono pensieri contraddittori sulle cose, fintantoché queste non vengono concepite adeguatamente, i pensieri rivisti e corretti, le contraddizioni espunte. Hegel, cioè, per queste letture, nonostante le sue ripetute ed enfatiche espressioni a favore delle contraddizioni, non intende realmente sostenere che il divenire, il tempo, ecc. realizzino delle contraddizioni – qualsiasi cosa ciò possa voler dire –, scardinando il più saldo di tutti i principi. Piuttosto, è solo quando il divenire, il tempo o quant’altro sono concepiti in modo inadeguato che essi appaiono sotto il segno della contraddizione. Ma tale segno è indice di insufficienza e falsità. Nessuna contraddizione è il punto d’arrivo, la verità; ma uno stato passeggero dei pensieri, uno «stato transitorio di parossismo morboso» o un «crampo mentale» (per approfittare di un’espressione di Wittgenstein). In altre parole ancora: per quanto complesse possano essere le tesi hegeliane su tempo, cambiamento, moto, finitezza, libertà o altro ancora, e per quanto tortuoso possa essere il procedimento concettuale che, secondo Hegel, va intrapreso, resta vero, secondo queste tendenze interpretative, che per Hegel si deve da ultimo pervenire a una concezione della realtà esente da contraddizioni. In tal modo, al pensiero di Hegel potranno essere mosse quante critiche si vorranno, dai punti di vista più diversi; ma non quella di avere davvero messo a repentaglio l’incondizionata verità del principio di contraddizione. Chi lo pensasse starebbe equivocando testi e spirito del filosofo di Stoccarda, cosicché Hegel non sarebbe in alcun modo il pazzo, di cui parlano Platone e Aristotele, che voglia sostenere che il pari è dispari, il bue il cavallo, l’uomo una nave trireme. Al contrario: in fin dei conti, da un punto di vista logico, ontologico e metodologico, Hegel resta un buon aristotelico, so-

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lo particolarmente esigente e sofisticato. Chiamerò questo genere di interpretazioni del pensiero hegeliano coerentiste. Ora, io non condivido questo orientamento interpretativo, e in questo volume mi propongo, tra le altre cose, di illustrare, testi alla mano, come e perché questo genere di letture siano, a mio giudizio, insostenibili. A questo proposito desidero fare alcune precisazioni. Affrontando tali questioni, non si tratta soltanto di stabilire che cosa abbia veramente detto Hegel. Non ne va soltanto di una corretta, scrupolosa esegesi dei testi hegeliani – spesso davvero ostici, divisi tra opere frammentarie e testi organici dati alle stampe, tra prime e seconde edizioni, tra appunti presi dagli studenti e scritti di sicuro suo pugno. Certo, l’esegesi è un compito importante, poiché l’interpretazione coerentista, per quanto plausibile di per sé, si scontra con una serie di affermazioni testuali, specifiche o programmatiche, che affermano esplicitamente le contraddizioni. Di tali luoghi, la lettura coerentista si propone di offrire una lettura che li renda innocui rispetto al tema della contraddizione; ma così facendo, a mio avviso, finisce con il delineare uno Hegel di fantasia. Sono troppi i passi di segno contrario, e troppo espliciti, perché quell’interpretazione possa tenere (al di là della sua plausibilità teoretica interna). 1.4

La questione della contraddizione

In ogni caso, richiamare che cosa davvero abbia detto Hegel, per quanto fondamentale, è solo una parte del compito. Infatti, quando in questione è la concezione generale della realtà, quando si deve rispondere a domande su che cosa siano l’essere, l’ente, che cosa siano il tempo e il divenire, ecc., ebbene, in tali casi, accertare che un filosofo come Hegel abbia infranto esplicitamente il principio di contraddizione, non basta per intendere il suo pensiero. Giacché si tratta poi di capire, entro e fuori delle tesi hegeliane, come sia possibile sostenere la realtà delle contraddizioni. Infatti, che cosa vuol dire che un oggetto è e non è in un certo luogo? Che cosa significa che una cosa quando è non è? Che cosa si intende affermando che una cosa è l’altro di sé stessa, o che tutte le cose sono in sé stesse contraddittorie? Ed è sensato accusare Kant di «tenerezza» per le cose del mondo, quando questi ascrive soltanto al pensiero, e non anche alla realtà, le contraddizioni in cui necessariamente finiscono i ragionamenti metafisici? Più in generale, è davvero pensabile, immaginabile, una contraddizione (il contenuto di essa)? Si può sensatamente sostenere che il principio di non contraddizione non sia universalmente valido? La posta in giuoco, nel decidere della plausibilità delle interpretazioni di Hegel, si alza. 1.5

Tagliare il ramo su cui si è seduti

Torniamo ad Aristotele. Questi, com’è noto, pensava che chi nega il principio di non contraddizione si trovi in una situazione che lo mette in iscacco. È come se uno tagliasse il ramo su cui è seduto. Questo negatore, infatti, pretendendo comunque di star dicendo qualcosa di preciso – la negazione del principio e non qualsiasi altra cosa; 10

e pretendendo anzitutto di non starsene zitto –, implicitamente fa uso di quel principio. Il quale appunto stabilisce la determinatezza delle cose, e quindi anche, in particolare, la determinatezza di quelle cose che sono i significati delle parole, delle affermazioni e dei pensieri. Il negatore, dunque, presuppone la validità di quel che si propone di negare, e lo nega allora sempre e comunque solo a parole, parlando a vanvera. La situazione è un po’ come quella di chi dice: «io non sto parlando». Costui, mentre lo dice, afferma una cosa necessariamente falsa, poiché il contenuto della sua affermazione è incompatibile con l’atto del proferimento di essa. Ora, le argomentazioni di Aristotele, refutative e trascendentali insieme, hanno avuto e tuttora hanno un peso enorme, ma non sono oro colato: non esistono sancta sanctorum in filosofia. Soprattutto in tempi recenti sono state messe in discussione. In ogni caso, stante la loro grandezza, le tesi hegeliane che movimento, tempo, divenire (e molto altro) siano contraddizioni, non possono essere prese alla leggera, soprattutto una volta che si sia rifiutata l’interpretazione coerentista. 1.6

Coerentismo, contraddizione e speculativo

Sull’interpretazione coerentista tornerò alla conclusione del volume. Qui mi limito ad alcune considerazioni. Io non ritengo le tesi del coerentismo del tutto sbagliate; semmai le credo insufficienti, ma su un punto cruciale. Il coerentismo, fondamentalmente, descrive il rapporto tra astratto e concreto (come si dice in gergo). Se vige l’idea (olistica, monistica) che certe determinazioni siano essenzialmente interconnesse, ogni considerazione di esse che ignori quest’aspetto – ogni considerazione isolante, astratta – ne è un’alterazione, uno snaturamento. Il risultato è che questo modo isolante di vedere le cose va incontro a difficoltà concettuali, incongruenze, contraddizioni. La ragione di ciò è che se una certa relazione è costitutiva per qualcosa, non si può pensare di avere a che fare con quel qualcosa indipendentemente da quella relazione. Piuttosto, ciò con cui si ha a che fare non è quel qualcosa, anche se lo si scambia per esso; oppure si ha a che fare con esso, senza poterlo riconoscere per tale, dal momento che si misconosce ciò che ne è condizione costitutiva. Per contro, solo la considerazione globale di quell’insieme di determinazioni interconnesse non incappa in questi inconvenienti, proprio poiché espone quelle determinazioni con tutte le loro condizioni costitutive. Fin qui, nulla da obiettare (se non sull’intera premessa circa l’interconessione tra determinazioni, ma questa è un’altra questione). Hegel però non si ferma qui, e con buone ragioni. Infatti, la struttura di questa interconnessione rende problematico lo statuto di ciascuna determinazione. Si può infatti chiedere, per avere le idee più chiare: queste determinazioni esistono di per sé? Sono davvero diverse le une dalle altre? Si vorrebbe dir di sì, poiché la totalità non è un intero monistico che cancelli le determinazioni (come il «rigido» di Parmenide e Spinoza); d’altra parte, si riconosce che nessuna determinazione è e sussiste indipendentemente dalle altre. Esse sono unite in modo da essere tutt’uno – donde figure concettuali come l’identità nella differenza (o la differenza nell’identità), le quali, a ben vedere, sono assai problematiche – a meno di non accettarle e invocarle come formule magiche del pensiero dialettico, sul significato del11

le quali, pertanto, non ci si deve interrogare. Dire infatti che due determinazioni si coappartengono significa dire che sono e non sono due. Bisogna dire tutt’e due le cose. Infatti, supponiamo siano date due determinazioni cosiffatte; ora, se uno chiedesse: ma insomma, sono diverse? Che gli si risponderebbe? Se si dicesse: sì, lo sono! Allora, intendendo la diversità come la intende l’impianto logico tradizionale, si replicherebbe che dunque l’una non è l’altra; l’essere (la realtà, la quiddità) dell’una cade fuori dall’essere dell’altra (Hegel dice: fallen auseinender). Ma se sono due entità diverse in questo senso, allora l’altra è appunto solo altro, negazione (in senso ontologico) rispetto alla prima, e in quanto tale, non incide nell’essere di questa. L’individuazione dell’una prescinde da quella dell’altra. Aliud-aliud: qui c’è una cosa, lì ce n’è un’altra, e ciascuna è sé stessa indipendentemente dall’altra; e questo è tutto, proprio perché sono l’una altra per l’altra. Ma non è questo che si vuol dire, quando si afferma che le determinazioni sono essenzialmente connesse, che si coappartengono. Si vuol dire piuttosto che l’altro incide nell’esser sé della cosa. Dunque questo altro non «cade fuori» di essa. L’alterità giuoca un ruolo essenziale nell’individuazione. Benissimo! Ma se due determinazioni si coappartengono in questo senso, allora si deve dire che esse, pur essendo in qualche senso diverse, non lo sono nel senso consueto dell’essere diversi, il quale consiste in una nonidentità sostanziale (essere due entità, due sostanze). Con queste considerazioni, beninteso, non intendo avversare il monismo hegeliano, argomentando a favore dell’atomismo (per es. di un Russell, per citare un autore che aveva ben chiare le idee su questo punto); bensì richiamare l’attenzione sul fatto che, una volta che si aderisca a una concezione olistica o monistica delle determinazioni, non si può poi più far valere la «logica dell’intelletto», astratto o concreto che sia. Né si può pensare che la «ragione», che per la dottrina dialettica prende il posto dell’intelletto e lo sopravanza, sia grosso modo la logica di prima, quella dell’intelletto, ma vestita a festa per le grandi occasioni. No, si tratta di qualcosa di profondamente diverso. Non vale più che una cosa è solo sé stessa e non un’altra cosa; poiché la coappartenenza ontologica – qualsiasi cosa ciò voglia dire – smentisce la struttura dell’alterità, del «cader fuori». Si devono rivedere le concezioni di identico e diverso – ciò che Hegel appunto dice di fare. Hegel pensa che Kant avesse avuto in mano, col principio della sintesi a priori, il fondamento del pensiero speculativo; solo, non l’aveva riconosciuto nel suo valore, come chi avesse in mano un oggetto d’oro e lo scambiasse per princisbecco. Ora, a Hegel della sintesi a priori importa la struttura logica di legame interno tra determinazioni differenti. Tale struttura è per lui la «dualità nell’unità»: i due nell’uno. Identità nella differenza. Sintesi originaria tra diversi; differenza che scaturisce entro l’unità, senza attingere nulla dal di fuori (il che poi è il procedimento dialettico, l’«andamento irresistibile», analitico e sintetico, come lo definisce Hegel). Un’identità che si sdoppia. Anche qui: si può convenire o meno con le pretese filosofiche di Hegel; si può pensare che tutto questo sia campato in aria, o che sia perlomeno fortemente condizionato da certi presupposti logici discutibilissimi; o, invece, che sia l’autentica verità. In ogni caso, quale che sia il grado di verità di questi filosofemi, mi pare che la struttura dello speculativo (la dualità nell’unità) cui Hegel allude non sia descrivibile altrimenti che come una contraddizione, in cui i due termini sono e non sono lo stesso: sono lo stes12

so, perché sono «momenti» della stessa sostanza; non sono lo stesso, poiché la loro identità non è una vuota tautologia. E i due lati coincidono. Non a caso, per Hegel, la definizione più generale («la prima e più pura») dell’assoluto è data dalla formula quasi arcana di «identità della identità colla non identità»; e non a caso «il pensiero speculativo consiste nel tener ferma la contraddizione e sé in essa». Hegel ha pensato questo, a vari livelli, con la sua teoria della antinomia come forma di complementazione: a un enunciato va affiancata la sua negazione; entrambi vanno tenuti per veri, e la loro unità logica va affermata da un terzo enunciato. Ma ciascun elemento di questa terna di enunciati afferma in modo incompleto, unilaterale, la stessa cosa. Su ciò, farò ritorno nella seconda parte del volume. Per ora credo possa bastare. 1.7

Triangolazione

Torniamo al divenire. La posizione hegeliana assume uno spicco particolare se la si considera in riferimento sia all’eleatismo che ad Aristotele (rappresentativo di un’ampia tradizione di pensiero, che giunge fino ad oggi), quasi fosse l’esito di una specie di triangolazione. Parmenide, e più in generale gli Eleati, ritennero il divenire intrinsecamente paradossale, e perciò irreale. Platone e Aristotele (e prima di loro certi pensatori presocratici), pur riconoscendo la complessità della questione, avevano ritenuto la posizione degli Eleati il frutto di un abbaglio. Con buona pace di Parmenide e dei suoi seguaci, tempo e divenire, rettamente intesi, non sono affatto paradossali. Non c’è alcuna ragione a priori per negarli, dichiarandoli illusori. E poiché essi, per giunta, sono attestati dai sensi, a maggior ragione sono del tutto reali. Insomma, a sentir Aristotele: tanto clamore per nulla! Ora, da un lato Hegel sposa l’idea di Parmenide che, nonostante tutto, tempo e divenire siano davvero paradossali, contengano una contraddizione. Non è possibile, infatti, concepire un autentico divenire se non infrangendo, in qualche punto della teoria, il principio di contraddizione. Dall’altro, però, condivide con Platone, Aristotele, gran parte dei filosofi, e col senso comune, l’idea che tempo e divenire siano del tutto reali – con buona pace di Parmenide e dei suoi seguaci. Per Hegel, allora, il divenire è paradossale e reale. La realtà del divenire è la realtà della contraddizione: «la contraddizione esistente». Da questo punto di vista, Hegel avversa le posizioni sia di Parmenide che del fronte aristotelico, accomunate dal pensiero che nessuna contraddizione possa mai essere vera, ma divise sulla questione se il divenire implichi o meno una contraddizione. 1.8

Dedurre il divenire

Ma c’è dell’altro. Hegel si distingue dai suoi ideali interlocutori, in particolare dal fronte aristotelico, anche perché non pensa che tempo e divenire siano semplicemente un fatto attestato dai sensi. La posta in giuoco – la realtà della contraddizione – è troppo alta per essere una questione solamente empirica. Hegel, infatti, com’è noto, pensa 13

che il divenire sia deducibile a priori, dalla semplice nozione di essere. Essere, nulla, divenire: questa è la prima e infinitamente discussa triade categoriale della sua logica. Ma, in generale, anche andando oltre essa nel corso del sistema (ed io ritengo sia necessario farlo, poiché gli argomenti dell’incipit della logica non sono ineccepibili), vale per Hegel che il divenire è una verità di ragione, radicata nella struttura dell’essere delle cose, nella loro determinatezza – nella struttura per la quale sono le une diverse dalle altre. Si avanza così al cuore dell’ontologia di Hegel – alla sua concezione dell’ente, nella cosiddetta dottrina dell’essere della Scienza della logica; e ai concetti di determinatezza, di autoidentità e differenza reciproca delle cose, nella dottrina dell’essenza. Approfondendo questi aspetti, si può comprendere che cosa voglia dire che una contraddizione sia reale, che qualcosa sia o diventi l’altro di sé stesso. Secondo le analisi che seguiranno, per Hegel il divenire e contingenza sono insiti nella struttura dell’ente, del suo esser sé. In tal modo, nelle teorie di Hegel, i due lati della tensione di cui si diceva, il principio di determinatezza da una parte, e il passare dell’essere nel non essere dall’altra, vengono uniti, integrati. Solo un pensare astratto li oppone, appunto perché pensa astrattamente le opposizioni. L’idea che ogni cosa sia sé stessa e non un’altra cosa richiede così di essere rivista. Su queste tesi hegeliane tornerò in seguito diffusamente. In ogni caso, senza un completamento teorico che discuta il significato e la portata della contraddizione, l’accertamento se Hegel davvero abbia sostenuto che il divenire è la contraddizione esistente è un compito interpretativo certo importante, ma di per sé poco fruttuoso. Dire che le contraddizioni sono reali, senza avere una teoria intorno alla contraddizione, e dunque intorno alla identità e alla determinatezza, è sì una mossa filosoficamente controcorrente, e forse in questo seducente (per chi subisca il fascino di queste tendenze) o irritante, ma comunque alquanto vaga. 1.9

Dire la contraddizione

Il problema, a questo punto, è se davvero chi nega il principio di contraddizione seghi il ramo su cui è seduto; la questione è dire la contraddizione. Forse è vero che per affermare che le contraddizioni sono reali, questo dire non dev’essere a sua volta contraddittorio – e ciò in parte dà ragione a Aristotele. Non si può, in altre parole, tagliare il ramo su cui si è seduti pretendendo di non cadere. Ma si può dire che questa impossibilità è un limite espressivo, e, stando da questa parte del limite (ovvero usando la logica dell’intelletto e spingendola ai suoi limiti) dire che la verità sta oltre esso. Si deve dire in modo incontraddittorio la realtà delle contraddizioni. Si usano l’intelletto e la sua logica come un piedistallo per guardare oltre, mostrando che l’intelletto e la sua logica hanno il singolare destino di contraddirsi, di sprofondare. Questo problema, di grande complessità, ai limiti dell’assurdo, è articolato da Hegel nei termini della sua teoria della verità speculativa come antinomia. Per Hegel, infatti, le verità speculative sono antinomie, non la soluzione di ogni contraddizione (cosa che le interpretazioni coerentiste sembrano dimenticare vistosamente). Bisognerà trattare anche di questo, e lo farò nelle sezioni conclusive. 14

Peraltro, il problema hegeliano di dire la contraddizione trova, a mio avviso, ampliamento teorico di grande importanza nel dibattito contemporaneo in logica, dove si fanno strada correnti come il dialetheismo e le logiche paraconsistenti. Si tratta di orientamenti di pensiero e di sistemi formali che danno cittadinanza alla (verità della) contraddizione, contravvenendo ai divieti aristotelici, senza però venire travolti dalle contraddizioni e relegati all’insignificanza. Questi recenti orientamenti, insomma, sembrano smentire l’antica profezia che il negatore del principio di contraddizione stia segando il ramo su cui siede, e ciò li rende molto interessanti per interpretare, da un punto di vista teorico almeno, il pensiero hegeliano. 1.10 Struttura del volume Questo volume è diviso in più parti. Nella prima traccio in termini storici e teorici il problema del divenire, principalmente nel contesto del pensiero greco. Non mi propongo ovviamente di compiere un’analisi storiografica minuziosa, ma di delineare l’ossatura di un problema di fondamentale importanza. Nella seconda parte mi dedico al pensiero di Hegel, facendo un’analisi di alcuni importanti passi dei suoi testi. Dapprima considero le sue tesi sul movimento, sul tempo e sul divenire in generale, nonché la interpretazione hegeliana dell’eleatismo. Con ciò svolgo quel compito esegetico di cui dicevo sopra: illustrare che Hegel ha effettivamente pensato che movimento, tempo e divenire realizzino la contraddizione. Nella terza parte inizia l’indagine sulle nozioni di ente e della sua identità, sul principio di determinatezza, entro il pensiero hegeliano. In queste pagine illustro la mia tesi che Hegel concepisce l’ente, la sua determinatezza (la sua autoidentità), in modo da radicarvi il divenire, la contingenza, passando attraverso la nozione di contraddizione. Le analisi prendono in considerazione certi scritti giovanili, toccano quelli jenesi e poi si riferiscono principalmente alle dottrine dell’essere e dell’essenza della Scienza della logica. Da ultimo mi propongo di fare un bilancio della posizione hegeliana sul tema del divenire e della contraddizione, con alcune considerazioni teoretiche che richiamano il dibattito attuale.

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2 2.1

IL DIVENIRE NELLA STORIA

Gli «antichi pensatori»

Il problema dianzi delineato ha avuto un’importanza centrale nella storia del pensiero. È stato discusso per la prima volta (per quel che ci è dato di sapere) nelle scuole filosofiche preplatoniche, culminando col divieto di Parmenide di pensare che l’essere non sia, e dunque di pensare il divenire – almeno secondo le più tradizionali interpretazioni di quel che ci è stato tramandato del suo poema sulla natura. Il divieto di Parmenide è una specie di punto di svolta per l’impostazione del problema. Ma il pensiero che sta alla base della tesi di Parmenide costituisce lo sfondo delle riflessioni dei Presocratici (particolarmente degli Ionici). Significativamente Aristotele afferma che «coloro che per primi filosofarono [...] credono che nulla si generi e nulla si distrugga» (Metaf. I, 3, 983 b 6 ss.). Altrove – e poi in molti altri luoghi1 – ricorda che «è dottrina comune a quasi tutti i filosofi naturalisti [scil. i Presocratici] che nulla derivi da ciò che non è e che tutto derivi da ciò che è» (Metaf. XI, 6, 1062 b 24 ss.). È ancora Aristotele a indicare le difficoltà che, stante quell’assioma, si pongono nel pensare il divenire. Egli le espone delineando la storia del pensiero filosofico a lui precedente quale una serie di tentativi vòlti a conciliare l’evidenza del divenire da un lato, e la verità che l’essere è altro dal non-essere dall’altro. Eppure, secondo Aristotele, nessuno di quei tentativi è stato risolutivo. Parmenide ha risolto la questione a monte, negando ogni divenire (almeno secondo le interpretazioni più tradizionali, date da Platone, Aristotele e Hegel2). Nel celebre frammento 8, infatti, si legge che l’essere è vincolato ad essere e a restar sé stesso, e che perciò è «incorruttibile e ingenerato». Ogni sua generazione e corruzione, infatti, implica l’identità di esso col non-essere, il suo diventare, o esser stato, il non-essere – cosa impossibile, vietata dal principio che nega che « le cose che non sono siano » (fr. 7, 1; PS I, p. 273). Questo principio di opposizione tra essere e non-essere avrebbe in Parmenide anche anche la conseguenza di negare ogni molteplicità – secondo le intepretazioni più tradizionali, perlomeno. Comunque, sia o meno Parmenide un monista assoluto3, certamente ciò che per lui è la realtà, l’«essere», non diviene, poiché non può cessare di esser sé, di esser essere, diventando non-essere. L’essere, in altre parole, non è soggetto al tempo.

Cfr. infra il brano cit. a p. 19 e nota 7 p. 19. Per queste interpretazioni, cfr. L. RUGGIU (1991); per l’interpretazione hegeliana in particolare, che conferma quella platonico-aristotelica, cfr. L. RUGGIU (2000), anche per gli ampi riferimenti bibliografici. 3 Si tratta di un tema assai discusso. Cfr. tra gli altri E. BERTI (1970), (1987, pp. 13-22), e, anche per una rassegna e discussione delle varie posizioni, L. RUGGIU (1991) – il quale propende per un’interpretazione non rigidamente monistica dell’ontologia parmenidea. 1 2

17

Com’è noto, Empedocle, Anassagora e gli Atomisti hanno cercato di tener fermo questo principio, ma anche di ammettere il divenire (oltre che la molteplicità degli enti). La loro preoccupazione è stata quella di elaborare una teoria per cui, anche se le cose divengono, non ne va del loro essere. Ovvero: pur le cose mutando, l’essere non diviene non-essere, né il non-essere viene ad essere. Ammoniva Empedocle, confermando il principio di Parmenide, che sono stolti coloro che «si aspettano che nasca ciò che prima non è / o che qualcosa muoia e si distrugga del tutto. Da ciò che infatti non è è impossibile che nasca / ed è cosa irrealizzabile e non udita che l’ente si distrugga» (fr. 11 e 124; PS I, 375). La soluzione che egli aveva proposto, com’è noto, era pensare che il mutamento, la generazione e la corruzione delle cose, non riguardi queste stesse prese singolarmente, ma i composti cui esse danno luogo aggregandosi. Un composto può formarsi o disgregarsi; ma in questo processo gli elementi costituenti (o radici, UKL]ŇPDWD: acqua, aria, terra e fuoco) permangono ciò che sono, ossia sono ingenerati e incorruttibili. L’annullamento, la «morte», se si considera quel che davvero c’è, è allora solo una parvenza – donde la stoltezza di chi crede che la vera realtà, quella degli elementi primari, possa nascere e perire. Recita un altro frammento: «non vi è nascita di nessuna delle cose / mortali, né fine alcuna di morte funesta, / ma solo c’è mescolanza e separazione di cose mescolate, / ma il nome di nascita, per queste cose, è usato dagli uomini» (fr. 8; PS I, p. 374). Anassagora, similmente, pur proponendo una dottrina significativamente diversa di ciò che costituisce la realtà, sostiene che in generale «nessuna cosa nasce né perisce, ma da cose esistenti [ogni cosa] si compone e si separa. E così [gli Elleni] dovrebbero propriamente chiamare il nascere comporsi, il perire separarsi» (fr. 17, PS II, p. 608)5. Il nascere non è il venire ad essere in modo assoluto da parte di qualcosa, ma il comporsi di un aggregato, i cui elementi preesistevano; e il perire, similmente, riguarda il composto, non i suoi elementi. Composizione e separazione sono l’unico modo di intendere il divenire senza che sia intaccato, almeno apparentemente, quel che qui si è chiamato il principio di identità o determinatezza dell’essere, per il quale qualcosa non è un’altra cosa, né il proprio nulla. Anche gli Atomisti – Democrito in particolare – sviluppano quest’idea che il mutamento non incida nella vera realtà delle cose: gli atomi sono gli elementi del cosmo che possono combinarsi variamente, dando luogo ad aggregati che poi si disgregano; ma gli atomi, in ogni processo, presi singolarmente, permangono ciò che sono. Il mutamento, per questi pensatori, non rende dunque l’essere non-essere; non rende, p. es., un atomo un non-atomo. Esso riguarda un «accidente» dell’essere (delle radici, delle omeomerie, degli atomi o di quant’altro) ovvero la particolare, accidentale configurazione di unione o separazione degli elementi. Lo sforzo di questi filosofi, ri-

4 5

Molti interpreti hanno sostenuto doversi leggere il fr. 12 di seguito al fr. 11. Pregnante anche il fr. 10 (PR I, p. 375), commentato da un dossografo anonimo. 18

tenendo che il divenire sia solamente una «modificazione di stato»6 della realtà primaria, è quindi la conciliazione di essere e divenire – come ha scritto Aristotele in quel luogo cui s’è già fatto cenno: la maggior parte di coloro che per primi filosofarono pensarono che principi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre. (Metaf. I, 3, 983 6 ss.)7

La realtà primaria non si genera né si distrugge, ma si «conserva sempre», «permane identica»; al più ne «trasmutano» le «affezioni», che sono le variazioni della combinazione dei costituenti della realtà, non la realtà medesima. Questo pensiero – che è in nuce il pensiero della sostanza, della sua conservazione nel mutare delle determinazioni accidentali – trova sviluppo ed approfondimento con Platone e Aristotele. Sarà quest’ultimo a elaborare compiutamente la teoria della sostanza quale sostrato permanente del mutamento, principalmente nel primo libro della Fisica; ma già Platone introduce quello schema triadico che poi si ritrova nelle teorie aristoteliche. 2.1.1

Platone, Aristotele e il principio del sostrato

Il concetto di sostanza come sostrato del mutamento è stato perfezionato da Aristotele, ma è largamente anticipato da Platone, com’è riconosciuto dagli interpreti. Nel Fedone Platone sostiene l’incompatibilità tra idee opposte, quali p. es. la grandezza e la piccolezza. Queste non possono essere dette l’una dell’altra, tanto che le si consideri come idee, quanto che le si consideri «in noi» (102 d), ovvero esemplificate nel mondo delle cose sensibili. «[L]a grandezza, appunto in quanto è grande, non può sopportare in alcun modo di essere piccola. E similmente la piccolezza [...] non vorrà mai né essere né diventare grande. E così nessuno dei contrari [...] vorrà essere o divenire [...] il proprio contrario» (102 e). Stante quest’incompatibilità, pare impossibile che il piccolo si faccia grande, che il piccolo acquisisca la grandezza; che di esso si possa dire che ha ricevuto la grandezza. Anche nel Sofista viene ribadita questa tesi, là dove Platone esclude l’universale koinonia o rapporto di inerenza tra determinazioni, perché altrimenti di una determinazione si potrebbe affermare la contraria, p. es. dicendo (relativamente

È la teoria di Democrito: cfr. PS II, p. 682. «[È] convinzione comune a tutti i fisici [scil. i Presocratici, part. gli Ionici] [...] che “dal nulla non deriva nulla”» (Fisica I 4, 187 a 28 - 30). Alcuni capitoli dopo si legge che «coloro che per primi hanno indagato filosoficamente [...] affermano che nessuna delle cose che sono né si genera né si distrugge [...]. E così [...] si spinsero fino ad affermare che “il molteplice non esiste”, ma “solo l’essere è”» (Fisica I 8, 191 a 25 ss.), con evidente allusione agli Eleati. Qui Aristotele lega evidentemente l’assioma che ex nihilo nihil fit all’ontologia monista. 6 7

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a due dei generi sommi) che la quiete è movimento8. Il problema è allora: se la piccolezza non può diventare grandezza (se il piccolo non può diventare il grande), e viceversa, come possono esservi accrescimento e diminuzione? Platone scioglie questa difficoltà. Egli mostra che alla base di essa sta un’improprietà linguistica che nasconde la vera struttura del mutamento. Infatti, quando si dice «il piccolo» è diventato grande, non si parla della piccolezza come tale, bensì – seppure in forma indiretta – di qualcosa che possiede la piccolezza, di qualcosa che è piccolo; ed è questo, che dapprima possiede la piccolezza, a cessare di essere piccolo e a farsi poi grande – non già la piccolezza come tale. Non l’un contrario diventa l’altro, il piccolo il grande; bensì un ente terzo, diverso da quei due, passa dal rapporto con l’uno al rapporto con l’altro. da uno stato all’altro La difficoltà, dunque, è sorta per il fatto che si è parlato delle cose coi nomi della qualità contrarie che le cose possiedono o hanno posseduto («il piccolo», «il grande»)9, sì che è sembrato che il passaggio di una cosa da uno stato all’altro fosse il passaggio di un contrario all’altro – ciò che invece è impossibile, giacché «il contrario stesso non può mai diventare contrario a se medesimo, né quello che è in noi, né quello che è nella sua natura» (103 b)10. La soluzione di questa difficoltà è dunque consistita (1) nello scioglimento dell’ambiguità linguistica; (2) nell’ulteriore chiarimento che «da cosa contraria nasce cosa contraria» (103 b) – ovvero che in ogni mutamento c’è una terza cosa, altra dai contrari, che passa dall’uno all’altro –; e (3) nel pensare che questa cosa si conservi. Perciò Socrate può affermare: «io, pur avendo accolto e ricevuto la piccolezza, resto sempre quello che sono, lo stesso Socrate di prima». Ovvero: il mutamento è (per attenersi al lessico impiegato da Aristotele nel formulare quel pensiero dei Presocratici che prelude al suo concetto di sostanza) una «trasmutazione» di ciò che permane sostanzialmente sé stesso. Un simile pensiero si riscontra anche in un passo del Gorgia. La strategia è mostrare che determinazioni contrarie non possono essere presenti al medesimo tempo in un certo soggetto, il quale al più passerà dall’una all’altra, perdendo l’una e acquisendo l’altra. Per es., si trovano «in stati contrari coloro che stanno bene e coloro che stanno male» (Gorg. 495 e); il rapporto è «il medesimo» (ib.) di quello che c’è «fra la salute e la malattia» (ib.). I principi di non contraddizione e del terzo escluso (lì formulati anche mediante degli esempi) escludono che ad un medesimo soggetto possano competere al contempo determinazioni opposte: «infatti l’uomo non può certamente essere, ad un tempo, sano e ammalato; né può, ad un tempo, liberarsi dalla malattia e dalla salute»11

Cfr. Sofista 252 d, 255 d e passim. Cfr. Fedone 102 c. 10 Poco oltre si legge: «“dunque – concluse Socrate – su questo siamo senz’altro d’accordo, ossia che un contrario non potrà mai essere contrario di se medesimo”. “Perfettamente d’accordo”, rispose Cebete» (103 c). 11 Platone qui afferma che se «sano» e «ammalato» sono determinazioni opposte, incompatibili, allora è impossibile che un soggetto le possieda entrambe (principio di non contraddizio8 9

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(Gorg. 495 e). Se un uomo è malato, p. es., di oftalmia – prosegue il Gorgia – non può avere al contempo gli occhi sani; e se ha gli occhi sani quell’uomo non ha l’oftalmia; e costui o avrà gli occhi sani o non li avrà. Platone, quindi, indica che quando un uomo si libera da una certa condizione acquisisce quella contraria: guarendo dall’oftalmia un uomo ha gli occhi sani; perdendo la salute agli occhi, acquisisce l’oftalmia, laddove appunto queste due determinazioni, così come gli stati cui esse danno luogo, sono opposte12. Il divenire consiste appunto nel fatto che «l’uomo contrae l’una e perde l’altra e viceversa» (ivi, 496 b). Questo risultato viene esteso ad altri casi: è così anche per la forza e la debolezza, la velocità e la lentezza, i beni e i mali, la felicità e l’infelicità. Chiede Socrate retoricamente: «quando si acquisiscono gli uni non si perdono gli altri?» (ib.) «Certamente», gli vien risposto. Anche in questi ragionamenti è chiaramente indicato che il divenire riguarda sì il passaggio tra contrari, ma relativamente al possesso di essi da parte di un elemento terzo fungente da sostrato: un certo uomo è sano o malato, e può perdere la salute e ammalarsi, o perdere la malattia e acquisire la salute. Sul fatto che Platone anticipi Aristotele nel formulare la nozione di sostanza c’è larga concordia tra gli interpreti13. 2.1.2

Aristotele:il confronto con gli Eleati e la polivocità dell’essere

Aristotele conviene con Platone e con i primi pensatori – e cioè coi fisici, come egli li chiama – sul fatto che «è impossibile che i contrari possano subire affezioni l’uno dall’altro» (Fisica I 7, 190 b 34); essi «non possono derivare l’uno dall’altro» (Fisica I 5, 188 a 30). Infatti, stante la contrarietà di grandezza e piccolezza, o – seguendo Aristotele – di «densità» e «rarità» (rarefazione), «odio» e «amore», «si sarebbe in difficoltà a

ne), e che non ne possieda neppure una (principio del terzo escluso). 12 Nel Protagora vien detto, più d’una volta, che «per ognuno dei contrari esiste un unico contrario e non molti» (Prot. 332 c). 13 D. Ross spiega chiaramente che nei passi citati «Socrate mostra che [...] [la] mutua repulsione delle Idee contrarie è perfettamente compatibile con [...] [il fatto] che le cose nascono dai loro contrari. Una cosa contraria (enantion pragma) può derivare dalla cosa a lei contraria, una cosa caratterizzata da una qualità può, cioè, trovarsi ad essere caratterizzata da una qualità contraria; una qualità però non può divenire il proprio contrario (103 a 4 - c 2). E in questo brano è forse possibile rintracciare l’origine della dottrina aristotelica secondo cui il mutamento è sempre mutamento di una materia che permane e che cessa di essere caratterizzata da una tra due qualità contrarie per divenire caratterizzata dall’altra. La distinzione tra enantia, “i contrari”, e ta enantia pragmata o ta echousa ta enantia, “le cose contrarie” o “le cose aventi i contrari”, tracciata da Platone è equivalente a quella di Aristotele, anche se espressa con termini differenti» (D. ROSS 1951, p. 59). Cfr. anche I. DÜRING (1966, p. 269), E. BERTI (1987, p. 80). Pure Severino sostiene quest’idea, affermando che «già in Platone sono presenti tutti i fattori che intervengono nella deduzione aristotelica del sostrato» (E. SEVERINO 1995, p. 56) del mutamento, riscontrando nel testo platonico formulazioni linguistiche che paiono l’archetipo della definizione aristotelica di sostanza come to ti en einai (cfr. ivi, p. 58). 21

dire o come la densità per natura agisce sulla rarità [rarefazione], oppure questa sulla densità. Lo stesso vale per ogni coppia di contrari. Infatti l’Amore [la forza di unificazione] non rende unitario l’Odio [la forza di disgregazione], né può operare qualcosa a partire da questo, né l’Odio dall’Amore» (Fisica I 6 24 ss.)14. L’impossibilità che un contrario divenga il proprio contrario «vale per ogni coppia di contrari», e dunque anzitutto per ciò che è massimamente contrario: l’essere e il non-essere, considerati in senso assoluto. Il non-essere in senso assoluto non diviene come tale essere, né accade il contrario: questo, che è l’assioma dei primi pensatori, viene da Aristotele certamente mantenuto: «anche noi affermiamo che “nulla diviene dal non essere in senso assoluto”» (Fisica I 8, 191 b 14-15). E Aristotele tien fermo anche il principio del terzo escluso: «noi non eliminiamo in nessun modo il principio che “ogni cosa o è, o non è”» (Fisica I 8, 191 b 28). Lo sforzo di Aristotele (e di Platone) – proseguendo quello della seconda scuola dei fisici (Empedocle, Anassagora, Democrito, ecc.) – è da un lato offrire una spiegazione del divenire che non infranga l’assioma degli antichi pensatori che ex nihilo nihil fit, perfezionato col divieto di Parmenide di identificare essere e non-essere; dall’altro evitare le conseguenze che da quell’assioma gli Eleati avevano tratto, ovvero la negazione del divenire e il più rigido monismo. Aristotele si confronta con le dottrine degli Eleati sia nel primo libro di Fisica che in quello di Metafisica. Egli sostiene quel che si era dianzi prospettato, ovvero che il ragionamento che sancisce l’impossibilità del divenire (1) muove da premesse false, e (2) è condotto in modo errato. Perciò Aristotele lo rifiuta. Ma il senso generale della presa di posizione di Aristotele è una diversa semantizzazione dell’essere. Parmenide, come dice Aristotele, «assume che “essere” si dice in senso assoluto» (Fisica I 3, 24), quello per opposizione al non-essere; ma per lo Stagirita questo è un errore: l’essere «si dice in molti modi» (ib.), principalmente secondo le categorie. Già con ciò le premesse del ragionamento sono significativamente mutate. Ma in questa riflessione – lasciando da parte i tratti più specifici delle considerazioni aristoteliche, legate alla sua dottrina delle categorie – è fondamentale il pensiero seguente (illustrato in Fisica I): il fatto che una cosa non sia un’altra cosa non significa che l’una è l’essere tout court, e che l’altra è il non-essere. In tal modo, infatti, potrebbe esserci solamente una cosa, quella identificata con l’essere. Anzi, potrebbe esistere soltanto l’essere e nient’altro, dal momento che se la cosa di cui si predica l’essere fosse diversa dall’essere stesso, essa sarebbe non-essere. Ma ciò comporterebbe l’assurdità di riferire l’essere al non-essere, come illustra Aristotele delineando criticamente il pen-

14 Rarefazione e Condensazione sono secondo Anassimandro quei processi che, modificando la concentrazione dell’aria, unica sostanza, danno origine alle differenze qualitative (fuoco, acqua, terra, ecc.); Amore e Odio sono invece le forze cosmiche contrarie che secondo Empedocle tendono a unire o a separare gli elementi fondamentali ingenerati e imperituri (acqua, aria, terra, fuoco).

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siero degli Eleati15. Per questa strada si arriva al monismo assoluto, secondo l’interpretazione più tradizionale data del pensiero di Parmenide, della quale Aristotele è un esponente. La via d’uscita è una diversa semantica dell’essere e del non-essere, secondo una diversità logicamente anteriore a quella dei «molti modi» con cui si dice l’essere nel contesto aristotelico. Si tratta della teoria di origine platonica16 – da Aristotele accolta e confermata, anche se mai esplicitamente menzionata –, che distingue tra il senso assoluto e il senso relativo del non-essere17. È sì vero che l’essere è e il non-essere non è, come diceva Parmenide; ma fino a un certo punto. Infatti, anche il non-essere è, c’è (con buona pace di Parmenide), purché questo non-essere venga inteso non già come il niente, come il non-essere in senso assoluto, bensì come un certo altro essere, ovvero come un non-essere relativo: «niente infatti impedisce che, se non esiste il non-essere assoluto, tuttavia non possa esistere come un certo non-essere» (Fisica I 3, 187 a 6 s.). A dire il vero, nella sua confutazione del monismo eleate, Aristotele procede anzitutto assumendo la propria dottrina delle categorie. Ciò però limita la portata dei suoi ragionamenti alla condivisione di questo presupposto, come molti interpreti hanno affermato18. Comunque, il rilievo che il non-essere può venire inteso come un altro esse-

Cfr. Fisica I capp. 2 e 3. Cfr. Sofista 257 b, 258 b e passim. Su di essa si farà ritorno parlando di Hegel. 17 E. Berti è invece dell’avviso che Aristotele non condivida la mossa platonica di introdurre accanto al genere dell’ente quello del non-ente, pur intendendolo come altro, quale soluzione ai paradossi dell’eleatismo. Per Aristotele, infatti, questa strategia ricade entro l’eleatismo. L’ente, invece, è differenziato in sé stesso, per via della sua intrinseca polivocità che lo salvaguarda dal monismo, non già dal di fuori, mediante il non-ente. Anche se il non-ente non esistesse, l’ente sarebbe nondimeno molteplice, poiché resterebbe la differenza entro i sensi dell’essere: cfr. E. BERTI (2004), p. 351 s. 18 Aristotele nel confutare gli Eleati assume anzitutto la propria dottrina delle categorie: «il punto di partenza [...], dal momento che “ciò che è” si dice in molti modi, è di domandare in che modo essi [scil. gli Eleati] intendono la loro affermazione: “tutte le cose sono uno”» (Fisica I 2, 21 ss.), considerato che pure l’«esser uno» si dice in molti modi (cfr. Fisica I 2, 7). Lo Stagirita chiede se l’essere degli Eleati sia sostanza o qualità o quantità – domanda che, tolta la dottrina specificamente sua delle categorie, non ha molto senso. È vero che concede la premessa degli Eleati che l’essere si dica in senso assoluto, mostrando come da essa non seguano le presunte conseguenze; ma, in generale, il confronto di Aristotele con l’Eleatismo non pare davvero approfondito. Afferma I. Düring: «la critica [scil. di Aristotele] agli Eleati è [...] filosoficamente [...], in contrasto con la discussione nel Parmenide platonico, [...] priva di rilievo: Aristotele non compie alcun tentativo di affrontare Parmenide sul suo stesso terreno» (I. DÜRING 1966, p. 263): «il problema ontologico di fondo non lo interessa» (ib.). Similmente pensa T. Irwin che «Aristotele non mostra [...] perché gli Eleati dovrebbero accettare le dottrine che li condannerebbero all’incoerenza. Gli Eleati potrebbero essere d’accordo con Aristotele sul fatto che le loro conclusioni sono in conflitto con le opinioni comuni [...], ma affermare che le loro premesse sono razionalmente incontrovertibili, e le argomentazioni [...] valide. Aristotele [...], per 15 16

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re consente, per Platone e per Aristotele, di pensare la molteplicità degli enti senza contraddizione. Ora, questa semantizzazione dell’essere e del non-essere è un primo passo per pensare il divenire, questo presupponendo molteplicità e diversità. Infatti: inizio e risultato del mutamento, si diceva, devono essere diversi19 – altrimenti, se una cosa permanesse nel (presunto) risultato immutata, tale e quale è all’inizio, non ci sarebbe alcun divenire. Ciò vale per Aristotele così come per Hegel, come si vedrà. Ma questo primo passo (la semantizzazione dell’essere introdotta da Platone, che smentisce in parte l’assioma di Parmenide) è insufficiente, poiché, così come l’essere in senso assoluto non può diventare non-essere (e viceversa), neppure un certo essere può diventare senz’altro ciò che non è, il non-essere (o un cert’altro essere). Questo pensiero, infatti, riferirebbe a un certo essere, a una certa cosa o sostanza, quell’identificazione tra essere e nonessere che l’assioma dei primi pensatori (con Parmenide in testa) vieta. Infatti: un certo essere sorgerebbe dal (suo) nulla, o cadrebbe nel nulla, in modo assoluto. 2.1.3

La sostanza come sostrato

Per risolvere questa seconda difficoltà, Aristotele elabora un’articolata teoria del divenire, che contiene sì una certa eterogeneità di elementi, come si vedrà, ma che nel suo nucleo ripropone le tesi dei fisici e di Platone circa la necessaria esistenza di un sostrato che permanga nel suo mutamento. Peraltro, Aristotele, illustrando la storia del problema, mostra da un lato che la propria teoria si pone al culmine di uno sforzo secolare di pensiero, accogliendone gli elementi positivi (ancorché insufficienti); e dall’altro che essa, sulla base delle distinzioni semantiche intorno alla nozione di essere (la dottrina delle categorie, ecc.), risolve tutte le aporie che i predecessori avevano lasciato irresolute perché «costretti dall’inesperienza su una via sbagliata» (Fisica I 8, 191 26 s.). Il primo elemento della teoria aristotelica è l’idea che il divenire sia legato al rapporto di contrarietà. Egli con ciò si vuole riallacciare alla tradizione a lui precedente – probabilmente alla tavola pitagorica degli opposti e ad Eraclito. Ma le tesi dei prede-

mostrare che le premesse degli Eleati sono false, ricorre semplicemente ad opinioni comuni, senza fronteggiare le argomentazioni che un Eleate potrebbe fornire per abbandonare le opinioni comuni. Alcune delle argomentazioni potrebbero forse essere usate per stanare gli Eleati [...], ma Aristotele non le usa a tal fine» (T. IRWIN 1988, p. 89). Cfr. anche E. BERTI (2004, p. 357). 19 Non a caso Aristotele, per illustrare la nozione di mutamento (NLQēVLV, che indica, con certune oscillazioni, ogni forma di mutamento: generazione e corruzione, moto locale, crescita e deperimento, alterazione qualitativa), richiama, anche se con dubbia pertinenza (cfr. I. DÜRING 1966, p. 354 s.), la dottrina dei generi sommi di Platone, interpretando il pensiero di quest’ultimo al modo per cui il mutamento sarebbe «“alterità”, “ineguaglianza” e “non-essere”» (Fisica III 2, 201 b 20). 24

cessori vengono da Aristotele alquanto trasfigurate e piegate ai suoi propri scopi, come gli studiosi hanno messo in luce20. Egli infatti lega il rapporto di contrarietà alla regolarità dei mutamenti naturali, per confermare la tesi che il divenire avvenga tra termini sì diversi, ma non disparati: non accade, infatti, che una cosa qualsiasi divenga una qualsiasi altra cosa21, che p. es. un vitello divenga un albero. Piuttosto, un bue genera un bue, un uomo un altro uomo, ecc. Non accade che l’acqua fredda diventi oro, bensì che al più si scaldi; né accade che un uomo ignorante diventi un autocarro, ma al più che egli divenga sapiente22. Quel che accade, dunque, in generale è che qualcosa passa da uno stato allo stato cosiddetto contrario, potendo assumere anche gli stati intermedi (che l’acqua gelida diventi, anziché subito bollente, anche solo appena tiepida, ecc.). Aristotele chiede, retoricamente: come potrebbe infatti ciò che è bianco generarsi da musico, a meno che non capiti accidentalmente che ciò che è non-bianco, oppure ciò che è nero, sia musico. Ma il bianco si produce da ciò che è non-bianco, e non da un non-bianco qualsiasi [scil. dal contraddittorio del bianco, ovvero da qualsiasi cosa che ricade nell’insieme di tutto ciò che non è il bianco: una montagna, un’astronave, il mio computer], ma dal nero o da qualcosa che è intermedio tra bianco e nero; e il musico diviene dal non-musico, e non da qualunque cosa che sia non-musico, ma dall’immusico, oppure da uno stato intermedio tra questi, se ne esiste uno. (Fisica I 5, 188 a 35 - b 3)23

Il problema comunque, nei suoi termini generali, è che se un uomo ignorante diviene dotto, ciò non può voler dire, per Aristotele, che l’ignoranza si è fatta sapienza, né che l’uomo dotto sia venuto dal nulla, giacché dal nulla non viene proprio nulla24. (Né può voler dire che l’uomo ignorante si sia annientato). La soluzione di Aristotele, allora, consiste nell’idea che il mutamento preveda sempre, oltre ai due termini contrari, un terzo elemento fungente da sostrato, che permane identico nel corso del mutamento25. Infatti, «in tutto ciò che è sottoposto a divenire, [...] vi deve essere qualcosa che sem-

Cfr. p. es. I. DÜRING (1966, p. 265). Cfr. Fisica I 5, 188 a 33 ss., 188 b 3 ss. 22 Gli interpreti hanno rilevato che quest’insistenza sul rapporto di contrarietà è in parte un ingiustificato retaggio dalla tradizione. Cfr. p. es. I. DÜRING (1966, p. 372), nonché T. IRWIN (1988, p. 91 n.), il quale rimanda per una critica più circostanziata a D. BOSTOCK (1982, pp. 190 ss.). 23 Cfr. anche Metaf. XII 2, 1069 b 3 ss. 24 Irwin chiarisce così: «l’aporia sorge dal fatto che le cose sembrano venire all’essere o a partire da ciò che è o a partire da ciò che non è, nei sensi che comportano l’impossibilità del divenire. Possiamo dire “l’uomo non musico diviene musico” (p. es. 190 a 4-5); e poiché l’uomo non musico è svanito, il divenire sembra realizzarsi a partire da ciò che non è – [d’altra parte] non si realizzerebbe [alcun divenire] se l’uomo non musico permanesse per tutto il tempo. In modo simile, quando diciamo “è divenuto musico da non musico”, niente del non musico rimane quando il musico è venuto all’essere, e così il divenire sembra realizzarsi a partire da ciò che non è» (T. IRWIN 1988, p. 108). 25 Colgo l’occasione per ricordare che il tema dell’identità delle sostanze nel tempo è ampiamente discusso nel dibattito contemporaneo in filosofia analitica. Per alcuni ragguagli, rispetto all’ampio spettro di posizioni, rimando a E. J. LOWE (1998) e M. LOUX (2002). 20 21

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pre fa da sostrato a ciò che diviene» (Fisica I 7, 190 a 13 ss.); in altre parole: «è necessario che ci sia un sostrato che muta da un contrario all’altro, perché i contrari non mutano» (Metaf. XII 2, b 6 s.). Il mutamento, però, non concerne il sostrato in sé stesso: il sostrato né si annulla né si genera – e in ciò resta confermato l’assioma dei primi pensatori, che Aristotele vuole tener fermo. Piuttosto, il mutamento concerne il possesso o meno di una certa determinazione (la forma) da parte del sostrato. Il mutamento riguarda cioè l’entità composta da un lato dal sostrato e dall’altro dalla forma o dalla privazione di questa: «tutto ciò che diviene, è sempre qualcosa di composto» (Fisica I 7, 190 b 12 s.). Sostrato, forma e privazione sono gli elementi semplici rispetto all’entità composta – laddove, afferma Aristotele, «con “termine semplice”, io indico dunque come semplice e “uomo” [il sostrato] e “non-musico” [la privazione], e ciò che diviene, cioè “musico” [la forma]. “Composto” è l’unione di ciò che diviene [il sostrato] e di ciò che è divenuto [la forma]» (Fisica I 7, 190 a 1-5)26. In tal modo l’uomo dotto si genera dall’uomo non-dotto, dall’uomo ignorante, non dal nulla; così il mutamento è «da ciò che è non essere in senso accidentale» (Fisica I 8, 191, 14-15), non certo dal non-essere in senso assoluto. Infatti, il termine iniziale del mutamento è sì il non-essere, ma rispetto all’essere istruiti e da parte di un certo uomo, che è qualcosa e non un nulla. Quindi, per questa teoria di Aristotele, è tanto vero che l’essere si genera dall’essere (e, reciprocamente, il non-essere dall’essere), quanto che no, purché si distinguano i vari sensi di queste espressioni27. Il divenire è perciò sempre da qualcosa a qualcosa – solo che questi termini vengono qualificati come essere o come non-essere rispetto alle determinazioni accidentali opposte che acquisiscono o perdono. Per es., un uomo dotto, che è un certo essere, deriva da un altro essere, cioè da un uomo (quello stesso di prima), ancorché non dotto. Ma vale anche il contrario, ovvero che un uomo dotto derivi dal non-essere, ovvero dal non esser dotto da parte di quello stesso uomo. Quindi, in questo secondo senso, un essere deriva dal non-essere. Ma, in generale, a divenire un uomo dotto non è il nulla, il non-essere in senso assoluto, bensì qualcosa, un uomo non già dotto. Inoltre, un architetto può diventare malato, ma non primariamente in quanto è architetto, bensì in quanto è anzitutto sano. Ovvero: l’essere sano, invece che malato, non compete di per

26 Quando si dice che un non-istruito diviene istruito, o che un uomo diviene istruito «occorre [...], mediante un’omogenea attribuzione predicativa, convertire un diveniente semplice in un diveniente composto» (W. WIELAND [1970], p. 147), ovvero si deve sottintendere che principio e risultato del divenire sono dei composti: un uomo non-istruito diviene un uomo istruito. 27 Spiega chiaramente J. L. Ackrill: «solo ciò che non è così-e-così può diventare così e così. Ciò che diventa un uomo musico è un uomo non-musico – e un uomo non musico è qualcosa che è (un uomo), ma che viene descritto facendo riferimento a qualcosa che non è (la musicalità in lui). Pertanto il punto di partenza del cambiamento è in un certo senso ciò che è, in un altro ciò che non è» (J. L. ACKRILL 1981, p. 61).

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sé all’essere architetto, ma accidentalmente. È dunque in senso accidentale che un architetto s’ammala. Ma in quanto l’architetto era anzitutto un uomo sano, s’ ammalava per sé, nel senso che è qualcosa di sano che può ammalarsi (mentre per un uomo sano è del tutto accidentale essere architetto, e per un architetto è del tutto accidentale l’essere malato). E l’esempio può essere considerato per altri casi: un uomo sano può costruire case; ma lo farà in modo accidentale, ovvero in quanto si dà il caso che quest’uomo sano sia anche architetto. Mentre compete di per sé agli architetti il poter costruir case. In questo caso, la coppia concettuale costituita dalle nozioni per sé e per accidente è riferita sia a determinazioni sostanziali che accidentali, e consente di considerare in modi diversi ciò da cui ha origine il divenire e ciò in cui questo termina28. Grazie a questa teoria del senso accidentale versus essenziale o per sé dell’essere, secondo i vari significati di essere, Aristotele scioglie le presunte aporie del divenire. Fondamentale è che il divenire sia da qualcosa a qualcosa, sempre e comunque. Mai dal nulla all’ente o dall’ente al niente. [Q]uando diciamo che “una cosa semplice” [p. es. un uomo] è divenuta qualcosa, da un lato essa rimane invariata, dall’altro no. Infatti l’uomo, mentre diviene “uomo musico”, rimane stabile come uomo, mentre il “non-musico” e l’“immusico” non rimane immutato [...]. [I]n tutto ciò che è sottoposto al divenire [...] vi deve essere qualcosa che sempre fa da sostrato a ciò che diviene. (Fisica I 7, 190 a 9 ss.)

Aristotele ritiene di evitare la contraddizione (che qualcosa venga dal nulla, l’essere dal non-essere) introducendo il sostrato come elemento terzo rispetto alle determinazioni opposte che esso acquisisce o perde – proprio come fa Platone. Infatti, oltre ai contrari – che la tradizione aveva posto quali principi, e per Aristotele con ragione29 – «è necessario introdurre qualcosa d’altro che faccia da sostrato, e quindi i principi sono tre» (Fisica I 7, 191 a 16): i due contrari e il sostrato. Il divenire è un avvicendamento di contrari rispetto al sostrato che permane identico. Quest’ultimo è la sostanza, poiché le sostanze «sono gli oggetti stessi che, trasformandosi, possono accogliere i contrari: ciò che è divenuto freddo, da caldo che era, si è trasformato (essendosi modificato qualitativamente), e lo stesso si dica per l’oggetto che da bianco è divenuto nero [...]. [O]gni sostanza col subire una trasformazione può essa stessa accogliere i contrari» (Cat. V 4 b 30 ss.). Peraltro, secondo Aristotele, le sostanze non hanno contrario, nel senso che «una sostanza non è contraria ad una [altra] sostanza» (Fisica I 6, 189 a 32): un bue non è il contrario di una lucertola, pur essendo entrambi animali (ovvero pur condividendo il genere), né lo è di una casa, o di una stella fissa. Quindi, se pure il divenire è passaggio tra contrari, esso non è il passaggio da sostanza a sostanza contraria (che non esiste)30,

Cfr. E. BERTI (2004), p. 376. Cfr. Fisica I 5, 188 a 19 ss. 30 A dire il vero, come rileva T. IRWIN (1986, p. 92 n. 65), Aristotele sostiene sì in Categorie (e altrove) che le sostanze non hanno contrario (cfr. Cat. 3 b 24; Fisica I 6, 189 a 29), ma attraverso una generalizzazione dall’esempio della sostanza uomo: «alle sostanze spetta altresì il non 28 29

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ma da un certo stato di un sostrato sostanziale, allo stato opposto. (Questa tesi in verità crea più di qualche problema nel caso della generazione e corruzione delle sostanze, come si vedrà). Va notato che è probabilmente per la necessità che ci sia un sostrato che Aristotele valorizza il pensiero che il divenire avvenga tra contrari e non tra contraddittori o in generale tra determinazioni disparate. Come si è richiamato precedentemente, Aristotele insiste su questo punto, rammentando che questa tesi è stata ampiamente sostenuta nel passato. A dire il vero, sulla base della semplice struttura del divenire – ovvero che esso debba procedere da qualcosa a qualcos’altro –, non è immediato che i due termini debbano essere contrari (ovvero costituiscano la differenza massima entro un genere comune). Infatti, la condizione generale (da qualcosa a qualcos’altro) è soddisfatta anche da termini disparati, come un uomo e un autocarro. È chiaro che è fisicamente impossibile che un uomo diventi un autocarro, però la tesi di Aristotele non è così limpida, anche perché egli ha due teorie sulla contrarietà, proprie in un caso degli enunciati (come tutti i gatti sono neri, nessun gatto è nero), e in un altro delle specie entro il genere (bianco, nero)31. Ora, senza discutere queste teorie di Aristotele sull’opposizione per contrarietà relative agli enunciati quantificati e ai termini, la loro compatibilità e omogeneità, mi pare che il punto fermo sia ora il seguente. Probabilmente, ad Aristotele importa che i contrari possano condividere qualcosa, il loro genere appunto – mentre ciò non vale per i termini contraddittori o disparati. E poiché il divenire è intelligibile solo se in esso qualcosa permane, le determinazioni che si avvicendano devono poter inerire a questo sostrato permanente, ossia devono poter avere qualcosa in comune. Questa esigenza, allora, esclude che inizio e risultato del divenire siano termini contraddittori – giacché in tal caso non potrebbero inerire entrambi al medesimo sostrato, e il divenire stesso non potrebbe avere sostrato permanente alcuno, risultando essere l’impossibile passaggio dal non-essere all’essere in senso assoluto. C’è insomma un’analogia tra il fatto che il genere accoglie specie contrarie, e il fatto che la sostanza-sostrato possa accogliere delle determinazioni differenti che si avvicendano. Oltre alla sostanza, nel mutamento permane anche, in un certo senso, la forma, la quale né sì genera né si annienta. Essa, infatti, prima di venire acquisita da qualcosa, preesisteva in altro, nell’altra sostanza causa del mutamento. Aristotele qualifica come forma la determinazione positiva che viene acquisita o perduta, e come privazione la mancanza di essa. La privazione è il non-essere della forma, e in questo senso non è

avere alcun contrario. In effetti, che cosa potrà mai essere contrario alla sostanza prima, per esempio un determinato uomo?» (Cat. V 3 b 24 ss.). Si tratta, secondo Irwin, di una «generalizzazione affrettata» (T. IRWIN 1986, p. 92 n. 65), neppure del tutto coerente con l’affermazione che i quattro corpi semplici (acqua, aria, terra e fuoco) stanno in rapporto di contrarietà (seppure limitatamente) (cfr. Gener. e corr. 335 a 3-6). 31 Cfr. Cat. VI 6 a 17. 28

un termine positivo. La privazione è per sé «non essere»32, ovvero non-essere assoluto; ma è il non-essere assoluto della forma, non della cosa, del sostrato. Quindi, quando il sostrato è affetto dalla privazione, p. es. della sapienza, esso non è affatto sapiente, non ha in alcun modo la sapienza: la sapienza in esso è niente. Ma ciò non fa di esso sostrato un nulla, cosicché esso può ben costituire il termine positivo, l’essere onde deriva quell’altro termine positivo che è il risultato del divenire. E il termine positivo costituente l’inizio è non-essere solo rispetto alla forma, non già assolutamente; donde l’ammissibilità che il divenire sia un provenire dal non-essere in senso relativo. Ciò costituisce un guadagno sulle concezioni dei predecessori. 2.1.4

Alcune difficoltà

Si possono sollevare alcune perplessità intorno ai concetti di privazione e di nonessere relativo. Anzitutto, il concetto di privazione è derivato e secondario rispetto a quello di forma. Infatti Aristotele ammette che il fatto che ci siano due contrari (p. es. il caldo e il freddo, l’esser musico e l’essere immusico), oltre al sostrato, «non è necessario, giacché uno dei due contrari potrà effettuare il cambiamento o con la sua assenza o presenza» (Fisica I 7, 191 a 6 ss.). Vale a dire: è vero che la privazione è lo stato di mancanza di una certa forma da parte di un sostrato (è «l’assenza di ogni figura, forma e ordine» - Fisica I 7, 190 b 15). Però è difficile pensare che la privazione sia una qualifica ontologica e non solamente logica, una proprietà genuina delle cose33. Infatti: quel che davvero esiste sono i sostrati, colle loro proprietà (quest’uomo, bianco e musico, o nero e immusico, oppure questo calorifero, caldo e di metallo); non anche presunte «non proprietà» da essi possedute, o il «non possesso» da parte di essi delle proprietà. Mentre se qualcosa è bianco possiede (in una prospettiva realista) la bianchezza – che è una realtà, una perfezione –, se qualcosa non lo è non possiede la perfezione opposta, la non-bianchezza. La non bianchezza è un predicato, cui non corrisponde alcuna proprietà positiva. Perciò lo stesso Aristotele esprime una certa perplessità riguardo al numero degli elementi: se essi siano solo il sostrato e la forma, e cioè due, o anche la privazione, e dunque tre34. Inoltre, più in generale, il ricorso alla nozione di privazione non sembra risolvere radicalmente l’aporia della generazione dal nulla (KDSOēJHQHVLV): con la privazione, infatti, Aristotele vorrebbe mostrare che il divenire non è dal non-essere all’essere (assoluti), ma dalla privazione all’essere. Solo che la privazione è definita proprio come non-

32 Cfr. Fisica I 8, 191 b 15 e ivi I 9, 192 a 5; Metaf. V 22, b 22 ss., in cui il significato di privazione è esteso sino a quello per cui si dice che una pianta è priva di occhi. 33 Cfr. I. DÜRING (1966, p. 266), il quale nota che «al tempo in cui [Aristotele] dettava queste conferenze, non esisteva un limite netto fra logica e ontologia; tuttavia Aristotele deve aver capito che VWHUēVLV[privazione] era un concetto logico, stoicheion [elemento] invece era chiaramente ontologico» (ib.). 34 Cfr. Fisica I 6, 189 b 27 ss.

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essere assoluto. Certamente, la privazione non esiste di per sé, ma è sempre affezione di un sostrato, il quale permane in ogni fase del suo divenire; è la privazione di qualcosa in qualcosa. Ma proprio perciò esso sostrato resta in sé immodificato: il divenire concerne le proprietà del sostrato (o il possesso di esse), le quali sono altro da esso, non esso medesimo, come prima si è detto (altrimenti esso, acquisendole o perdendole, non potrebbe restare sé stesso, ovvero non potrebbe fungere da elemento che permane identico). Nel divenire dunque, bisogna distinguere due componenti: il sostrato e lo stato accidentale di esso. Il sostrato muta sì relativamente ad altro, ma in sé resta tale quale è. Invece, lo stato accidentale, ancorché proprio del sostrato, passa dal non-essere in senso assoluto, qual è la privazione, all’essere in senso altrettanto assoluto, qual è la non-privazione, ovvero l’essere, la realtà positiva della forma. Quindi, tornando all’esempio: quando un uomo diviene dotto, da ignorante che era, il suo esser dotto prima non era in alcun modo – mentre l’uomo certamente sì (è infatti il sostrato). Ne segue che l’uomo dotto deriva sì dall’uomo che già c’era, quanto al suo esser uomo; ma dal non-essere assoluto dell’esser dotto, rispetto al suo esser diventato dotto. La sapienza dell’uomo, allora, nonostante tutto, si genera in modo assoluto, se prima quell’uomo non era già sapiente. La difficoltà del divenire non sembra dunque davvero risolta dalla teoria aristotelica ma solamente spostata o camuffata trattando il non-essere di qualcosa come una determinazione positiva (la privazione appunto). Aristotele peraltro ammette che la nozione di privazione desti sorpresa35. Un’altra tesi che Aristotele adduce a spiegazione del divenire è che esso sia il passaggio dalla potenza all’atto di qualcosa da parte di qualcos’altro. Egli pensa che questa seconda teoria offra una spiegazione equivalente alla precedente: in un caso per spiegare il mutamento si ricorre alla tesi dei tre principi (sostrato, forma, privazione), mentre nell’altro «è possibile dare una spiegazione delle stesse cose introducendo il riferimento a potenza e atto» (Fisica I 8, 191 b 28 s.). Un uomo che è in potenza sapiente (ovvero che può diventare sapiente, può istruirsi, perché è intelligente) diviene sapiente in atto acquisendo la sapienza36; lo diviene, perché la sapienza che egli era in potenza

Cfr. Fisica I 8, 191 b 17. Sul tema si farà ritorno in seguito. Cfr. E. SEVERINO (1972), (1995). La sorpresa resta negli interpreti contemporanei: Düring afferma che la soluzione di Aristotele al problema del divenire facendo ricorso alla nozione di privazione «è una soluzione puramente parvente, fondata sul nebuloso concetto di “assenza di una proprietà”» (I. DÜRING 1966, p. 267). Altrove lo studioso ha notato che Aristotele nel libro lambda di Metafisica ha «una concezione grossolanamente materialistica della relazione fra forma, materia e privazione» (ivi, p. 241). In quel contesto, soggiunge Düring, il fatto che Aristotele «annoveri persino la privazione tra gli aitia, è cosa che si può comprendere solo alla condizione di tener conto della situazione storica. Ciò che qui egli voleva sottolineare era appunto la teoria di forma-privazionemateria, con cui voleva risolvere la questione, a quel tempo estremamente attuale, della KDSOē genesis» (ib.). 36 Aristotele non sembra fornire definizioni prime di potenza ed atto, ma le chiarisce con un richiamo all’intuizione, per induzione da casi particolari: «non bisogna cercare definizione di 35

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divine sapienza in atto, esistente. Il mutamento, in questo modo, è il passaggio di un sostrato dall’essere in potenza qualcosa all’esserlo in atto – e anche in questo caso potenza ed atto si rapportano come contrari rispetto al sostrato, sì che pure questa descrizione del mutamento conferma la tesi che esso è il passaggio tra opposti da parte di un sostrato37. Ci sono poi altre questioni, note agli studiosi, p. es. su quale sia, nel caso del divenire sostanziale, l’autentico sostrato. Aristotele fa l’esempio della statua che viene ottenuta fondendo una certa massa di bronzo. Ora: la statua è la sostanza individuale, e Aristotele vorrebbe che fosse sempre una sostanza individuale a fungere da sostrato. Tuttavia, nel caso considerato, è il bronzo, una materia, ad essere il sostrato del processo di fusione, sostrato del quale la statua bell’e fatta pare essere solamente uno stato accidentale. Aristotele ha difficoltà a porre come sostanze prime le sostanze individuali che si generano e corrompono, dal momento che questi processi richiedono un sostrato (o nei casi limite un unico sostrato: la materia prima, hyle) cui le forme sostanziali ineriscono al pari di una coppia di opposti stati accidentali di individui. Questa difficoltà però è una interna alla pretesa di Aristotele di qualificare certi enti come sostanze prime, e non infirma il generale schema triadico del divenire38. 2.2

Ripresa. Il principio della sostanza.

Il principio della sostanza quale sostrato del mutamento è, come si è visto, molto antico. Lo si ritrova fin nei Presocratici e presenta, al di là delle differenze specifiche, alcuni tratti costanti lungo l’intera storia della filosofia. La rarefazione e la condensazione di Anassimandro, la composizione e scomposizione di Empedocle, la diversa proporzione dei semi negli oggetti o omeomerie delle dottrine di Anassagora, la diversa aggregazione e separazione degli atomi di Democrito: tutte queste nozioni sono figure o variazioni di una medesima concezione del mutamento, per la quale le differenze riguardano la quantità e le proporzioni di elementi che in sé stessi permangono immutati. Il divenire, per questi Presocratici, è una redistribuzione quantitativa degli elementi. Aristotele invece lo concepisce come una redistribuzione qualitativa39.

tutto, ma bisogna accontentarsi di comprendere intuitivamente certe cose mediante l’analogia. E l’atto sta alla potenza come ad esempio chi costruisce sta a chi può costruire, chi è desto a chi dorme, chi vede a chi ha gli occhi chiusi ma ha la vista, e ciò che è ricavato dalla materia alla materia [...]. Al primo membro di queste differenti relazioni si attribuisca la qualifica di atto e al secondo quella di potenza» (Metaf. V 6, 1048 a 37 - b 6). 37 Cfr. Metaf. XII 2, 1069 b 15 ss. 38 Sulle difficoltà di Aristotele a far valere le sostanze prime e non la materia quali sostrato, cfr. T. IRWIN (1988, p. 111 e passim). 39 Cfr. I. DÜRING (1966, pp. 238-9 e passim): «l’eredità di Parmenide può essere concretizzata nella formulazione di tre questioni: 1) il problema dell’intelligibilità del mutamento, o – per dire il altro modo – del processo della natura; 2) la relazione fra le cose sensibili, mutevoli e 31

2.3

Creazione dal nulla

Il pensiero della conservazione sostanziale dell’essere nel mutamento costituisce un filosofema che attraversa l’intera storia del pensiero. Lo si ritrova, mutatis mutandis, anche nella filosofia recente e contemporanea. Un punto di discontinuità è però rappresentato dall’influenza del pensiero cristiano della creatio ex nihilo40, il quale modifica significativamente lo status quaestionis. È controverso se la nozione di creazione dal nulla sia effettivamente attestata nell’antico testamento. Certamente – anche prescindendo dal tema dell’origine del mondo dal caos, di cui parla Esiodo – già in Platone si trova la figura della creazione (genesis), ma per lui essa è l’atto con cui il Demiurgo plasma la preesistente materia, tenendo le idee come modello. Le idee dunque, insieme con la preesistenza della materia, limitano le possibilità creative del Demiurgo. Anche il Dio di Aristotele è causa del movimento e quindi del divenire del mondo; ma l’essere sostanziale del mondo, nel cosmo aristotelico, è eterno, al pari di Dio. Il Dio giudaico e cristiano invece non conosce limiti, né in una sostanza preesistente, né in un mondo ideale cui conformarsi nell’atto creativo. La creazione che egli compie è dal nulla41. Ma ciò è proprio la smentita dell’assioma che nulla viene da nulla.

transeunti e l’essere vero che viene postulato; è quello che noi chiamiamo il problema ontologico; 3) la questione di come si giunga alla conoscenza, cioè il problema gnoseologico. Tutte le interpretazioni presocratiche del processo della natura si risolvono nell’affermazione che è possibile conciliare la generazione, il mutamento e la corruzione con l’idea dell’immutabilità dell’universo in quanto totalità. Ciò che è comune alle diverse teorie è che i processi naturali sono intesi come una qualche forma di ridistribuzione quantitativa» (ivi, p. 238). Dopo aver illustrato la peculiarità della posizione di Platone nel risolvere l’eredità di Parmenide, Düring afferma, relativamente ad Aristotele, che «il suo modo di pensare è in realtà vicino alla filosofia ionica della natura ma, in contrasto con i presocratici, egli intende i processi della natura come processi qualitativi» (ivi, p. 239). 40 Il tema della creazione dal nulla è vastissimo – anche solo in ambito più strettamente filosofico, senza cioè considerare quello teologico. Per una rassegna storica delle tesi, cfr. l’accurata voce creazione (Schöpfung) dello Historisches Wörterbuch der Philosophie, di J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di), 1992, vol. 8, coll. 1390-1413. Inoltre, cfr. il numero monografico di Filosofia e teologia del 1997, a cura di M. Ruggenini e L. Samonà, con numerosi interventi, tra cui quello di G. RUSSINO (1997), particolarmente significativo per il tema presente. 41 La creazione entro il Cristianesimo non fu concepita immediatamente come procedente dal nulla; almeno per i primi secoli, fino al Medioevo, fu intesa variamente. Il tema è vastissimo e mi limito ad alcuni cenni, giovandomi della voce Schöpfung di J. Köhler. Questi afferma (cfr. J. RITTER, K. GRÜNDER [a cura di], 1992, vol. 8, col. 1396) che solo a partire dalla seconda metà del II sec. il termine demiurgo perse il significato di colui che plasma la materia preesistente per assumere quello di creatore. Fu però Teofilo di Antiochia il primo che, contrastando la teoria della preesistenza della materia dei platonici e di Ermogene, affermò che «Dio ha prodotto l’ente dal niente (epoiese ex ouk onton ta onta)»; laddove invece altri, come p. es. Filone di Alessandria, pur consentendo con la creazione dal nulla, non escludevano la preesistenza della ma32

In effetto, nella teologia e nell’ontologia dei filosofi cristiani si incontrano non poche difficoltà nel conciliare il principio ontologico che l’essere non proviene dal nulla (fondato a sua volta sul principio che l’essere non è non-essere) colla tesi della creazione dell’essere dal niente. Per illustrare queste difficoltà nonché gli sforzi per risolverle vorrei prendere in considerazione tre autori, Anselmo d’Aosta, Leibniz, Wolff.. 2.4

Anselmo d’Aosta

Il Monlogion di Anselmo è un tensto canonico per questo tema. Egli muove dalla considerazione che le cose del mondo, non avendo in sé stesse la loro ragion d’essere, sono in base ad altro, per altro; dunque esistono «in virtù della somma sostanza» (Monl. § 7), che è l’ente necessario, Dio. Ciò va affermato perché anche concedendo che «la totalità delle cose, visibili e invisibili, deriva da una certa materia» (ib.), nel senso che hanno la materia per sostrato, non si ha con ciò una spiegazione, giacché si tratta poi di dire «da dove provenga questa [...] materia della massa del mondo» (ib.), dal momento che essa non è «la somma sostanza», ovvero l’ente necessario. Quindi, se anche la materia – sia essa o meno sostrato di tutte le cose – non è di per sé stessa essente, allora alla domanda circa l’origine di tutte le cose si deve rispondere, secondo Anselmo, colla tesi che «la somma essenza ha prodotto da sola, per se stessa e dal nulla, una massa tanto grande di cose» (ib.), ovvero l’intero mondo (materia inclusa). Questa è la tesi di Anselmo sull’origine del mondo. Il problema è renderla compatibile con l’assioma che dal nulla non proviene nulla. Anselmo infatti si interroga su che cosa voglia dire che qualcosa deriva dal nulla, e come ciò sia possibile, dal momento che il nulla non è qualcosa42. Infatti, se il nulla è

teria. Agostino pensò ancora alla creazione come al conferimento divino delle forme alla materia informe; mentre Scoto Eriugena parlò della creazione come dell’attività di Dio produttrice di tutto ciò che è, in quanto essa fa passare ciò che è dal non essere all’essere (cfr. ivi coll. 13991400). Vi fu anche chi, come Boezio di Dacia, sotto l’influenza della filosofia della natura aristotelica e dei commenti arabi ad Aristotele, negò valore filosofico alla creazione dal nulla, relegando questo concetto alla teologia. Tommaso d’Aquino ribadì la nozione di creazione dal nulla (cfr. S.cGent. II, 16 s.), ritenendola non la mutazione di una sostanza preesistente (generatio), ma il portare nell’essere l’intera sostanza di una cosa: «creazione dal nulla, produzione dell’ente in quanto è ente secondo tutta la sua sostanza» (cfr. G. ALLEGRO 1997, p. 83 n. 11 – il passo pare tratto da S.c.Gent. II), giacché «creare è propriamente causare o produrre l’essere delle cose» (S. Th. I, q. 45, a. 6; cit. in G. ALLEGRO 1997, p. 83). Anche Ockham ha ribadito la creazione dal nulla delle cose, secondo un atto divino arbitrario soggetto solamente al principio di non contraddizione. 42 Sulla concezione del nulla in Anselmo, e sull’aporia da lui sollevata che nihil è una parola che non designa nulla, ma che però proprio in ciò ha un positivo significato, cfr. Th. KOBUSCH, autore della voce Nichts, Nichtseindes, in J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di), (1984), vol. 6, coll. 812-3. 33

qualcosa, «tutte le cose fatte dal nulla sono fatte a partire da qualcosa» (ivi, § 8) – il che si oppone alla dottrina della creazione. Ma se il nulla «non è qualcosa, [allora,] poiché non si può intendere come da ciò che non esiste assolutamente provenga qualcosa, dal nulla non proviene nulla: come dicono tutti: dal nulla, nulla» (ib.) – e ciò del pari smentisce la tesi della creazione. Anslemo dunque tiene fermo l’assioma che da nulla non proviene nulla, pur essendo esso almeno apparentemente in contraddizione con la tesi della creazione. Il compito allora è mostrare come la contraddizione non sia reale, e cioè come il principio della creazione da un lato e il principio dell’ex nihilo dall’altro siano compatibili. A questo scopo egli svolge dei ragionamenti, il cui senso generale è il seguente. Anzitutto vengono distinti più sensi per i quali si dice che qualcosa è fatto dal nulla. Uno di questi – il quale dovrebbe avere il ruolo risolutivo – è quello per cui la cosa «è stata fatta, ma [...] non c’è alcuna cosa donde sia derivata. Con un simile significato, si dice che un uomo contristato senza una causa si contrista di nulla» (ib.). Se si intende in questo modo l’idea che «che tutte le cose che sono, tranne la somma sostanza, sono state fatte dal nulla, ossia non da qualcosa» (ib.), allora, secondo Anselmo, non si ha più «nulla d’inconveniente» (ib.), ovvero di contraddittorio, a pensare che il mondo derivi dal nulla. Infatti: «non incoerentemente [...] e senza alcuna contraddizione, le cose che sono state fatte dalla sostanza creatrice si possono dire fatte dal nulla, in quel modo in cui si usa dire che uno, da povero, diventa ricco, e che riceve dalla malattia la salute» (ib.). Poco oltre Anselmo ribadisce: «in questo modo [...] si può intendere non incoerentemente che l’essenza creatrice ha fatto la totalità delle cose dal nulla [...]; cioè: le cose che prima erano nulla, ora sono qualcosa» (ib.). Questo tentativo di Anselmo lascia però insoddisfatti, almeno per le due seguenti ragioni. La prima è che la presunta soluzione di Anselmo, compiuta attraverso una precisazione linguistica, è apparente. Egli infatti riconosce che il nulla non è qualcosa, e che dunque dal nulla non sorge nulla. Perciò riconosce anche l’incompatibilità tra questi assiomi e la tesi della creazione dal nulla. Ritiene tuttavia che questa contraddizione, l’inconveniens, sparisca se viene accuratamente precisato il significato dell’espressione: «esser fatti di o da nulla». Eppure, a guardar bene, l’accezione da lui precisata (quella indicata qui sopra, che è la terza nell’elenco da lui proposto), ritenuta capace di sciogliere la difficoltà, non smentisce la tesi che il nulla sia il non-essere di qualcosa. Infatti: se qualcuno si contrista senza causa, si contrista sì per nulla; ma ciò non vuol dire che la persona fosse già triste, anche prima di diventarlo. Piuttosto, vuol dire – oltre che la tristezza è immotivata – che quella tristezza prima era nulla (in quella persona), che non era già in alcun modo. (Si potrebbe dire, aristotelicamente, che colui che diviene triste, prima di diventarlo era affetto dalla privazione della tristezza; ma la privazione è nonessere per se della forma, è il non essere affatto di essa, come si è visto). Il problema, quindi, non è affatto risolto dalla tesi di Anselmo, giacché la tristezza – ciò che nel ra-

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gionamento di Anselmo è l’omologo delle cose, dell’essere del mondo43 – viene ad essere assolutamente, senza prima essere in alcun modo (così come la persona che si rattrista, prima non era in alcun modo triste). La tristezza (in quel sostrato umano), così come, seguendo l’analogia, l’essere delle cose, viene ad essere dal nulla, e per di più senza una ragione (e ciò va peraltro affermato per consentire l’assoluta libertà della creazione divina). La seconda ragione per cui la tesi di Anselmo lascia insoddisfatti è che là dove la contraddizione sembra risolta, lo è perché Anselmo introduce esempi di divenire che sono di tipo aristotelico, sostanzialistico, e dunque non assoluto. Per questo tipo di esempi il divenire di qualcosa ha sempre un termine precedente, un qualcosa da cui procede. Ma ciò è ben diverso dalla tesi che la creazione è un esser stati fatti «dal nulla, ossia non da qualcosa» (ib.). Infatti, dire che un uomo diventa ricco, da povero che era, significa presupporre l’esistenza di un sostrato, quel certo uomo, che dapprima è affetto dalla privazione della ricchezza (e dunque ricco in potenza), ma che poi acquisisce la ricchezza (la quale passa all’atto). Per seguire Anselmo: «chi prima era povero, ora è quel ricco che prima non era; e chi prima aveva una malattia, ora ha quella salute che prima non aveva» (ib.). Si tratta con tutt’evidenza di esempi che illustrano la teoria aristotelica del divenir qualcosa da qualcosa (come la formulazione linguistica stessa attesta: chi prima era... ora è quel...), e non di qualcosa dal nulla; mentre invece quegli esempi vengono introdotti surrettiziamente come delucidazione della tesi che «l’essenza creatrice ha fatto la totalità delle cose dal nulla» (ib.), ovvero senza alcun sostrato preesistente. D’altra parte, se la creazione avesse un sostrato, si tratterebbe di capire di quale sostrato si parli, e quale ne sia l’origine (infatti: il sostrato è a sua volta creato o ingenerato e imperituro?). Se il sostrato fosse Dio medesimo, allora la creazione non sarebbe la creazione del mondo, di qualcosa di diverso da Dio, ma una modificazione di Dio, e ciò porterebbe a delle forme di panteismo (come in Spinoza) dalle quali i teorici cristiani della creazione vogliono ben distinguersi. Gli esempi di autori e testi che trattano del problema della creazione da un punto di vista metafisico potrebbero essere moltiplicati senz’alcuna difficoltà. Basti ricordare la tesi di Tommaso che la creazione del mondo avviene come la produzione dal nulla dell’ente in quanto è ente secondo tutta la sua sostanza. Ma non è questo il luogo per diffondersi su questo tema. Importa piuttosto la tesi generale che la metafisica creazionistica di derivazione giudaico-cristiana ammette appunto la creazione dal nulla (secondo la formula per cui l’ente ha esistenza mediante la creatio ex nihilo sui et subiecti, la creazione dal nulla di sé e del sostrato); perciò quella metafisica si trova nella difficoltà di conciliare questo dogma con il principio che dal nulla non viene nulla. Quel che pare, in generale, è che si debba ammettere, con la creazione del mondo dal nulla, una specie di deroga alla validità del principio che dal nulla non viene nulla;

Anselmo vorrebbe infatti che le cose vengano dal nulla così come una persona diventa triste per nulla. 43

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mentre invece il principio torna a valere entro il mondo, una volta che è stato creato. Cosicché si ha poi, per il divenire del mondo, il recupero totale dello schema triadico del divenire (sostrato, forma, privazione), compiutamente formulato da Aristotele. Si ritrova questo duplice atteggiamento, di revoca e conferma, in molti filosofi – persino in Anselmo, il quale asserisce che «non può esservi dubbio, se non per una mente irrazionale, che tutte le cose create permangono e perseverano nell’essere, finché sono, in quanto sono sostenute da quello stesso ente che le ha fatte essere, dal nulla, ciò che sono» (ivi, § 13). Mette conto di notare che la seconda parte di quest’affermazione – quella per cui le cose create permangono nell’essere in virtù dell’ente che le ha fatte essere – contiene un’importante tesi che si ritrova poi in molti esponenti della metafisica moderna, come Cartesio, Malebranche e Leibniz, per i quali il Dio creatore mantiene continuamente nell’essere ciò che ha creato (creazione continua) – giacché, se non lo facesse, la creatura tornerebbe ad essere nulla. Questo pensiero si intende comprendendo la natura essenzialmente contingente della creatura. Quel che è creato è contingente, ossia di per sé può anche non essere. Esso è di per sé niente, ovvero non è di per sé – dal momento che prima era assolutamente niente, e che c’è solo per il fatto che è stato creato. D’altra parte, il fatto che un’entità contingente sia stata creata, non fa di essa qualcosa che esiste di per sé o in base a sé – ovvero un’entità necessaria. Perciò, quel che è, ma che di per sé sarebbe anche potuto non essere, quando c’è deve essere continuamente mantenuto nell’essere, ovvero dev’essere continuamente creato da parte di ciò che l’ha fatto passare dal nulla all’essere. Questo pensiero, che ha considerevole importanza in Tommaso, e poi, tra gli altri, in Cartesio, Malebranche, Spinoza, Leibniz (il quale non a caso parla di un Dio esistentificante44) ecc., deriva appunto dal radicamento della convinzione che le sostanze non sono elementi imperituri, come invece avevano pensato i fisici antichi e poi anche Platone e Aristotele (pur con tutte le loro differenze). Per questi pensatori cristiani, medioevali e moderni, non solo le combinazioni degli elementi, ma anche questi stessi, le sostanze, lungi dall’essere ingenerati e incorruttibili, sono contingenti, poiché create dal nulla.

44 Cfr. M. RUGGENINI (1993). Spinoza espone chiaramente la questione: «Dio non è soltanto causa perché le cose comincino ad esistere; ma anche perché perseverino nell’esistere, ossia (per usare un termine scolastico) che Dio è causa dell’essere delle cose. Infatti, sia che esistano, sia che non esistano, ogni qual volta poniamo mente alla loro essenza troviamo che essa non implica né l’esistenza né la durata; e perciò né della loro esistenza né della loro durata può essere causa la loro essenza, ma soltanto dio alla cui sola natura appartiene di esistere» (B. SPINOZA 1988, p. 107, ovvero Eth. I, prop. XXIV, cor.).

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2.5

Leibniz

La deroga esplicita al principio che dal nulla non viene nulla si trova anche in un metafisico come Leibniz. Certamente, anche Leibniz tien fermo il principio per cui il mutamento – o quanto meno un certo tipo di mutamento – ha un sostrato, cosicché l’essere sostanziale si conserva. Ma per Leibniz ci sono appunto diversi tipi di mutamento, a seconda del sostrato. Un primo tipo di mutamento riguarda i composti di sostanze semplici. Per Leibniz, infatti, «vi sono dei composti» (Mon. § 2; SF III, p. 453), e «il composto non è altro che un ammasso, o aggregatum, di semplici» (ib.). Così il mutamento che li riguarda consiste nella aggregazione o separazione delle sostanze semplici, le quali in questo processo permangono ciò che sono, analogamente agli atomi di Democrito45. Per esempio, un gregge di pecore può formarsi o venir meno – anche se esso per Leibniz non è nulla più che l’insieme delle pecore, non è una vera entità (arena sine calce). Inoltre c’è per Leibniz il mutamento riguardante le sostanze semplici stesse. Esso è la variazione delle loro proprietà o affezioni (o rappresentazioni) accidentali. Anche questo mutamento ha un sostrato che permane identico: la sostanza individuale stessa. «[R]itengo [...] accordato che ogni ente creato è soggetto al mutamento, di conseguenza anche la monade creata» (Mon. § 10; SF III, p. 454). Certamente, anche in questo tipo di mutamento «qualcosa muta e qualcosa permane: di conseguenza bisogna che nella sostanza semplice vi sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché non vi siano parti» (Mon. § 13; SF III, p. 453). Vale a dire: non il caldo diventa freddo, ma la sostanza calda si raffredda, appunto perché qualcosa muta solo in quanto qualcos’altro, il soggetto del mutamento, permane. E poiché le monadi sono sostanze semplici e dunque permanenti, di esse «non c’è [...] da temere la dissoluzione, né esiste un modo concepibile in cui una sostanza semplice possa perire naturalmente. Per la stessa ragione, non v’è modo in cui una sostanza possa avere inizio naturalmente, dato che non potrebbe essere formata per composizione» (Mon. §§ 4-5; SF III, p. 453). Con ciò Leibniz conferma il filosofema che la sostanza ultima è il sostrato permanente. Questa riflessione però non è sviluppata al punto da fare delle monadi qualcosa di ingenerato e incorruttibile, così come avviene invece per gli elementi ultimi del cosmo dei fisici antichi, e (nonostante tutte le differenze) per gli elementi corrispettivi delle teorie di Platone e di Aristotele. Infatti, le monadi stesse – le quali, in quanto sostanze semplici, non possono essere soggette al mutamento nel senso della composizione e disgregazione – divengono anche nel senso che sono (possono essere) create d’un tratto, ex nihilo, o all’inverso annichilite. «[T]utte le monadi create [...] sono produzioni [di Dio] e nascono, per così dire, per continue folgorazioni della divinità» (Mon. § 47; SF III, p. 460). Con una «folgorazione» la monade viene ad essere, da nulla assoluto che era (e nel nulla finisce quando è annichilita). Ancora: «una sostanza non può aver ini-

45

Cfr. Mon. §§ 1-9. 37

zio se non per creazione, né perire se non per annichilimento» (Disc. § 9; SF II, p. 269)46. Dunque per Leibniz – nonostante egli tenga fermo entro il mondo creato il principio della sostanza, rispondente all’assioma che dal nulla non possa derivare nulla – qualcosa (la sostanza semplice, la monade) deriva dal nulla, e nel nulla può finire, in senso assoluto, conformemente alle tesi della metafisica e teologia creazioniste47. È lo stesso di quel che pensava Anselmo quando affermava che «le cose che prima erano nulla, ora sono qualcosa». 2.6

Wolff

Queste tesi sono ribadite, p. es., da Christian Wolff. Anche per lui, anzitutto, «gli enti semplici sono completamente distinti dagli enti composti» (MT § 82). Gli enti composti possono avere sia delle variazioni accidentali (di grandezza, figura, posizione nello spazio, ecc.48), sia «possono avere un’origine e una fine» (ivi, § 64). Queste però non consistono nell’uscir fuori dal nulla, o nel farvi ritorno, da parte dell’ente, bensì – rispettivamente – nell’aggregarsi di elementi semplici, e nel venir meno delle unità così prodottesi. In questa generazione e corruzione degli enti composti, gli enti semplici costituenti sono l’elemento permanente. Perciò, davvero «l’ente composto può essere qualcosa di nuovo» (ivi, § 87), oppure «cessa di esistere» (ivi, § 64), quando «le parti di cui esso consta [...] coesistono in un modo diverso che in precedenza» (ib.) – ovvero danno luogo ad una certa unità prima non sussistente, oppure cessano di dar luogo ad una tale unità. Invece «l’ente semplice non ha nulla di nuovo. Infatti è già stato presente prima nell’ente composto, e quindi non può cominciare ad esistere soltanto adesso» (ib.). Vale a dire: l’ente semplice non ha un divenire proprio. Tutt’al più si può dire che deriva da un ente composto perché era una delle parti che lo costituivano e in cui s’è disgregato (al modo per cui p. es. un mattone deriva da un muro, quando questo muro venga abbattuto); ma ciò non fa dell’ente semplice qualcosa che prima non fosse già. Perciò si deve ammettere che un ente semplice «non può cominciare ad esistere soltanto adesso».

46 «Si può dire pertanto che le monadi non potrebbero avere inizio e fine che d’un tratto: ossia non potrebbero iniziare se non per creazione, né finire se non per annichilazione» (Mon. § 6; SF III, p. 453). 47 Sulla metafisica creazionistica di Leibniz e sul nichilismo di fondo di essa, retaggio ed espressione della tradizione giudaico cristiana, cfr. l’intervento di M. RUGGENINI (1993) che pone in luce il nichilismo dell’ontologia della tradizione cristiana e moderna, rispetto a quella classica. 48 Cfr. MT § 72.

38

Peraltro, il nulla è definito come «ciò che né esiste né è possibile» (ivi, § 28)49. (Questa definizione fa il paio con quella per cui l’ente è tanto ciò che è reale quanto ciò che è solo possibile, dal momento che anche il possibile ha una certa realtà: quella delle perfezioni che lo compongono, come aveva affermato Leibniz nel § 44 di Monadologia). Ora, poiché «l’impossibile non può essere e, di conseguenza, non può diventar qualcosa, neanche il nulla può diventar qualcosa» (ib.). Wolff dunque conferma il principio che dal nulla non viene nulla, ma lo afferma a maggior ragione: egli associa al nulla l’impossibilità di essere, nel senso che sono nulle le cose impossibili – come i cerchi quadrati o i numeri maggiori di sé stessi. È allora del tutto evidente che ciò che è nulla non possa in alcun modo cominciare ad essere, poiché si tratta di cose che per definizione è impossibile che siano. Eppure, malgrado l’ente semplice non possa iniziare ad esistere – poiché non deriva né dal composto (che lo presuppone), né dal semplice (questo non essendo composto) – Wolff nondimeno infrange l’assioma dell’ex nihilo nihil fit. Egli pone la seguente alternativa: «un ente semplice è o [1] senza inizio [...] e [...] è necessario, oppure [2] ha dovuto cominciare a esistere una volta, mentre prima non esisteva» (ivi, § 89). La seconda alternativa sembra trasgredire il principio che dal nulla non viene nulla. Infatti, per ritenerla possibile, Wolff ricorre a due tesi ausiliarie: la prima è che [2.1] il sorgere di un ente non è dal nulla assoluto, ma dalla sua possibilità (come per Leibniz, d’altra parte); la seconda è [2.2] l’esistenza di Dio. La prima di queste tesi ausiliarie viene in soccorso al contrasto tra creazione e negazione del passaggio tra essere e nulla, facendo sì che il venire ad essere da parte di qualcosa non sia dal nulla, ma dalla possibilità della cosa. Vale a dire: dell’ente, prima che esistesse, c’era già la sua possibilità, ovvero la sua essenza («l’essenza di un ente è la sua possibilità» - ivi, § 35) – laddove l’essenza è un insieme (esaustivo) di proprietà50. La possibilità dell’ente (e non il niente) è il termine onde origina il sorgere dell’ente. Certo, Wolff ammette che «qualcosa non ancora esiste per il fatto che [...] è possibile» (ivi, § 13), bensì quando alla possibilità si aggiunge «qualcosa di più [...] mediante cui il possibile ottenga il suo compimento. E questo compimento [...] è [...] ciò che chiamiamo realtà» (ivi, § 14). Peraltro, «tutto ciò che è reale è anche possibile» (ivi, §15), e ciò esclude che il reale possa derivare dal nulla, facendo circolo con la definizione per cui il nulla coincide con l’impossibile. Il venire ad essere da parte di qualcosa, perciò, secondo queste definizioni, «è qualcosa di diverso dal sorgere di qualcosa dal nulla» (ivi, § 28), appunto perché tale venire ad essere muove dal regno del possibile, mentre il nul-

49 Sul significato di nulla nella filosofia scolastica tedesca, cfr. la voce Nichts, Nichtseiendes di Th. KOBUSCH, in J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di)(1984), vol. 6, coll. 820-3; su Wolff cfr. part. ivi, col. 822. 50 Per una tradizione realistica che da Scoto giunge sino a Leibniz e oltre, ogni proprietà è una realitas una quidditas, una essentia; cfr. infra pp. 146 e ss.

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la è l’impossibile. In altre parole: il sorgere dell’ente non è il passaggio dal nulla all’essere; «non è l’impossibile che diventa qualcosa» (ib.). Eppure, prima che un ente iniziasse ad esistere, e malgrado fosse già la sua essenza (che è necessaria ed eterna)51, «nulla di esso esisteva realmente» (ivi, § 28). Perciò Wolff deve ammettere che quando qualcosa inizia ad esistere esso lo fa dalla precedente nullità di sé. Certo, quest’affermazione non è aderente alle scelte terminologiche di Wolff, il quale identifica il nulla con l’impossibile, e l’ente col reale o col possibile52; eppure egli distingue il reale dal possibile per il fatto che del possibile nulla esiste realmente, cosicché finisce col riproporre entro il dominio dell’ente (che per lui include, s’è visto, reale e possibile) quella distinzione tra il nulla e l’essere che pareva bandita. Consideriamo infatti l’intero quadro delle definizioni: il nulla è l’impossibile; l’ente è sia il possibile che il reale; il venire ad essere è il passare non già dal nulla all’essere – la qual cosa vorrebbe dire dall’impossibile al possibile e al reale –, ma è il passare, entro il dominio dell’ente, dal possibile al reale. Eppure il possibile è il nulla del reale, nel senso che nulla di una cosa solamente possibile è anche reale. Perciò il passare dal possibile al reale comporta – nonostante tutte le accurate precisazioni terminologiche di Wolff – che qualcosa, di cui «nulla» esiste realmente, cominci ad essere realmente. La quale cosa è il passaggio dal non-essere in senso assoluto all’essere, contrariamente a tutti gli sforzi di Wolff tesi ad evitarlo. La seconda tesi ausiliaria, che Wolff impiega per sciogliere la difficoltà del pensiero del sorgere dell’ente semplice, è l’esistenza di Dio. Infatti, dopo avere ribadito che «dal nulla non può sorgere qualcosa» (ivi, § 89), soggiunge che allora «deve esistere un ente mediante cui possa sorgere qualcosa che prima non c’era» (ivi, § 89), identificando questo ente con Dio. Che la metafisica abbia fatto ricorso a Dio nel tentativo di superare quest’aporia è cosa notissima53, così come è altrettanto noto che questo ricorso è il ricorso ad un deus ex machina, ovvero l’elevazione stessa della formulazione di un problema a sua soluzione. In ogni caso Wolff riconosce che un ente semplice «non può sorgere in modo comprensibile» (ivi, § 90), né «intelligibile» (ivi, § 91). Questa incompatibilità e initelligibilità è la riproposizione dell’impossibilità di conciliare la creazione dal nulla con l’assioma che dal nulla non viene nulla. 2.7

Il principio della sostanza in Kant

L’antico principio che il mutamento è possibile in quanto riguarda il formarsi o il disgregarsi di entità composte da elementi più semplici e permanenti resta in generale confermato nell’ontologia moderna e contemporanea. Anche Kant, nell’ambito della filosofia critica, lo reputa un fondamentale principio della logica trascendentale, quello

Cfr. MT §§ 38-40. «Chiamiamo ente tutto ciò che può essere, sia reale o no» (MT § 16). 53 Si tratta della tesi interpretativa, diffusa da Heidegger, per cui la metafisica è ontoteologia. 51 52

40

della permanenza della sostanza, costituente la prima analogia dell’esperienza. Nella filosofia di Kant il principio della sostanza è legato al tema della percezione del tempo, poiché quest’ultimo non può essere avvertito di per sé, ma solo in relazione alla modificazione di un sostrato. «Il permanente, quindi, in relazione col quale soltanto possono esser determinati tutti i rapporti temporali [...], è la sostanza nel fenomeno; cioè il reale di esso, che rimane sempre identico come sostrato di ogni cangiamento» (CRP p. 196). Il principio della sostanza è tale, per Kant, da escludere il venire ad essere e il cessare di essere in modo assoluto. Come egli scrive: «la proposizione: “nulla vien da nulla” è un’altra conseguenza del principio della permanenza, o piuttosto dell’esistenza permanente del soggetto proprio dei fenomeni» (ivi, p. 198), laddove «l’interna necessità di permanere è [...] inseparabile da quella di esser sempre stato» (ib.). Perciò, per Kant, non solo nulla viene da nulla – giacché qualcosa è «sempre stato» –, ma neppure qualcosa può diventare nulla: queste due affermazioni sono inseparabili54. Infatti, «se noi volessimo far nascere cose nuove (quanto alla sostanza) [...] verrebbe meno ciò che soltanto può rappresentare l’unità del tempo, cioè l’identità del sostrato del tempo, come ciò in cui tutti i cangiamenti trovano la loro unità universale» (ib.). La posizione di Kant al proposito non è però così limpida, giacché in essa sono intrecciate alcune questioni gnoseologiche sulle condizioni di esperienza del tempo e del mutamento, con altre questioni, ontologiche, sulla possibilità che qualcosa si muti. Infatti, nel caso in cui si supponga che «qualcosa cominci ad essere assolutamente» (ivi, p. 200), si deve ammettere un tempo in cui la cosa prima non era in alcun modo. Tuttavia, in un tempo siffatto, in cui non c’è nulla, nulla può essere percepito; quindi neppure tale tempo è percepibile («un tempo vuoto [...] non è oggetto di percezione» ib.55). Perciò, onde poter ammettere che «qualcosa cominci ad essere assolutamente», si deve presupporre che qualcosa fosse già prima, e che questo qualcosa sia ciò che permane al sorgere della nuova cosa, cosicché «il nuovo [...] [è] solo una determinazione del vecchio come permanente. Altrettanto si dica del cessare» (ib.). Ora, come si diceva, Kant in questo ragionamento sembra avere attenzione soprattutto per le condizione di esperibilità del mutamento; giacché affermare che qualcosa deve preesistere, acciocché si possa fare esperienza dell’assoluto incominciare ad essere da parte di qualcosa (d’altro), non significa che il preesistente sia il sostrato ontologico del qualcosa che comincia ad essere, e quindi tanto meno smentisce che qualcosa cominci ad essere dal suo assoluto esser nulla. Anzi, il ragionamento di Kant è teso proprio a rendere possibile l’esperienza dell’assoluto cominciare ad essere da parte di qualcosa, ritenendone condizione necessaria la preesistenza di qualcos’altro. Il ragionamento di Kant, per dirla in termini aristotelici, sembra ammettere che un uomo musico possa derivare dal nulla assoluto, anziché da un uomo non musico, purché ci sia comunque qualcos’altro

54 55

Cfr. CRP p. 198. «[I]l tempo non può per sé essere percepito» (CRP p. 195). 41

rispetto a cui l’inesistenza prima e l’esistenza poi dell’uomo musico vengono determinate (nella sequenza temporale) e rilevate. 2.8

Russell e Wittgenstein

Come si diceva, il principio della sostanza, per il quale possono mutare solamente le entità complesse, si ritrova fin nell’ontologia contemporanea. Il caso di Wittgenstein è emblematico, anche perché a proposito di lui e di Russell si è soliti far riferimento alla teoria dell’atomismo logico per caratterizzare le loro posizioni, istituendo così un parallelismo con l’antica dottrina dei Presocratici. Anche per Wittgenstein il mutamento riguarda le entità complesse, che egli chiama fatti. Il mondo consta di fatti, si divide in fatti56, e un «fatto è il sussistere di stati di cose» (T 2), laddove «lo stato di cose è un nesso d’oggetti. (Enti, cose)» (T 2.01). Poco oltre si legge che «nello stato di cose gli oggetti sono in una determinata relazione l’uno all’altro57» (T 2.031), e che «la configurazione degli oggetti forma lo stato di cose» (T 2.0272). Inoltre – e ciò è della massima importanza – per Wittgenstein, «l’oggetto è semplice» (T 2.02), purché si consideri ciò che autenticamente è un oggetto58. Ora, il prodursi di un fatto, l’accadere o cominciare ad essere di uno stato di cose, non è il cominciare ad essere di tutto ciò che lo compone, nel modo in cui lo compone. Consideriamo uno stato di cose, come p. es. quello che Socrate è musico. Suoi componenti sono: Socrate e l’esser musico. (Probabilmente Wittgenstein non riconoscerebbe quest’esempio come calzante, poiché né Socrate né l’esser musico sono oggetti semplici. Ma per il tipo di discorso che qui si ha in vista questa circostanza è irrilevante, poiché relativamente alla complessità della circostanza che Socrate è musico, Socrate e l’esser musico sono elementi semplici). Ora, per Wittgenstein, il cominciare a sussistere di questo stato di cose non è il cominciare ad essere di Socrate, dell’esser musico e della loro unità o «determinata relazione» (T 2.031) in modo assoluto, da nulla che sarebbero dovuti essere. Allo stesso modo, se Socrate cessa di essere musico – se il fatto che Socrate sia musico non sussiste più (o, meglio: se non sussiste più quello stato di cose, giacché un fatto è per definizione «il sussistere di stati di cose», cosicché la sussistenza va riferita propriamente agli stati di cose, non ai fatti) –, non è che, oltre alla

Cfr. t 1-1.2, 2.04. In tedesco non c’è la parola «relazione» poiché questo concetto è reso dal verbo: «Im Sachverhalt verhalten sich die Gegenstände in bestimmter Art und Weise zueinander». La sostantivizzazione del verbo mi pare però del tutto corretta. 58 Benché Wittgenstein non fornisca esempi di oggetti (né di fatti, salvo qualche accenno sparso non contenuto nel Tractatus), sembra doversi escludere che un oggetto della vita quotidiana, come p. es. un tavolo, possa essere considerato come un oggetto semplice. Gli autentici oggetti sono significati dai «segni semplici», ovvero dagli autentici «nomi», che figurano in una proposizione «completamente analizzata»: cfr. T 3.201. 56 57

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loro «determinata relazione» che li compone in unità, anche Socrate e l’esser musici cessino di esistere, e che magari Socrate, quel Socrate che prima era musico, venga sostituito da un altro individuo, simillimo al precedente (diverso per il fatto di non essere musico) eppure numericamente differente. Infatti, se con l’iniziare ad essere (a sussistere) da parte uno stato di cose anche tutto ciò che lo compone iniziasse o cessasse di essere, allora degli oggetti semplici bisognerebbe dire che, quando un fatto accade, essi cominciano ad essere in modo assoluto, da nulla che erano; e che, quando lo stato di cose cessa di sussistere, essi diventano niente, da enti che erano. Ma ciò per Wittgenstein non è possibile. Infatti, il divenire per lui consiste non già nel venire ad essere o nel cessare di essere di oggetti semplici quando comincia o cessa di essere il composto cui danno luogo, ma nel prodursi o nel venir meno della «determinata relazione» tra oggetti semplici che costituisce uno stato di cose possibile. Gli oggetti semplici, in ogni caso, ci sono, esistono; tanto che lo stato di cose sussista, quanto che non. Per es., tanto che Socrate sia o diventi musico, quanto che non lo sia o cessi di esserlo, ci sono sia Socrate che l’esser musico (così come per Aristotele, d’altra parte). Si può allora dire, in generale: quando un fatto accade, uno stato di cose diventa sussistente; ma gli oggetti semplici che lo costituiscono c’erano già prima e continueranno ad essere anche quando lo stato di cose dovesse venir meno. Il mutamento interessa le entità complesse, nel senso che coll’accadere di un fatto si produce, viene ad essere effettivamente, in rerum natura, la «determinata relazione» che caratterizza un possibile nesso di oggetti; ed essa torna ad essere una mera possibilità quando lo stato di cose non è più sussistente. Coerentemente con la più antica tradizione, dunque, Wittgenstein ripropone entro la sua ontologia il pensiero che il mutamento presuppone un elemento sostanziale (gli oggetti semplici) che permane invariato al variare delle sue configurazioni (gli stati di cose, i fatti). Ed infatti, proprio dopo aver affermato che «l’oggetto è semplice», egli asserisce che «gli oggetti formano la sostanza del mondo» (T 2.021), e che «perciò non possono essere composti» (ib.). La ragione, espressa da quel «perciò», è appunto che solo i composti mutano, mentre i loro elementi permangono del tutto immutati in ogni possibile situazione (di composizione o giustapposizione), sia questa effettiva (ovvero riguardi fatti accaduti o che accadranno) o puramente logica (ovvero riguardi gli stati di cose che, anche se possibili, non accadranno mai). Wittgenstein esplicita questo pensiero affermando che «la sostanza [scil. l’insieme degli oggetti] è ciò che sussiste indipendentemente da ciò che accade» (T 2.024), precisando poi che «l’oggetto è il fisso, il sussistente; la configurazione è il vario, l’incostante» (T 2.0271). Wittgenstein non afferma esplicitamente che il principio della sostanza (inteso al modo sopra indicato, quale permanenza o immutabilità degli oggetti semplici) si deve all’impossibilità che qualcosa diventi nulla o provenga dal nulla. Piuttosto, il suo ragionamento si fonda sulla circostanza che le proposizioni abbiano senso, ovvero possano essere vere o false. Tale situazione postula tuttavia che ogni costituente linguistico abbia significato, ovvero stia per qualcosa (di esistente – anche se questa precisazione, entro il pensiero di Wittgenstein, è ridondante e forse, a rigor di termini, persino illegittima). Infatti, anche quando una proposizione da vera che era è divenuta falsa – p. es. perché il mondo è mutato, e un fatto è venuto meno –, essa deve nondimeno avere senso, 43

giacché una proposizione vera e una proposizione falsa dicono lo stesso, ovvero rappresentano il medesimo stato di cose59. Che poi quest’ultimo sussista, ciò è una circostanza contingente del mondo, indipendente dalla logica. Ma l’aver una proposizione senso dipende dall’aver i suoi costituenti linguistici (logicamente ultimi) significato (oltre che dalla sintassi logica), e ciò postula che esistano tutte quelle entità di cui i costituenti linguistici sono segno. (Wittgenstein, peraltro, considera anche l’eventualità che il senso di una proposizione dipenda e sia garantito dal senso di un’altra proposizione, invece che dalla sostanzialità del mondo; ma questo rimando non può essere infinito, giacché, se una qualche proposizione da ultimo non avesse senso di per sé, «sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mondo (vera o falsa)» - T 2.0212)60. Ma anche la giustificazione che il mondo deve avere una sostanza affinché le proposizioni abbiano significato è una riproposizione in modo indiretto della tesi che ex nihilo nihil fit. Infatti, se dei complessi si distruggesse un elemento semplice e perciò sostanziale, accadrebbe che una qualche proposizione non avrebbe più senso, poiché il costituente linguistico, che prima nominava quel termine, non avrebbe più significato. Questo pensiero è formulato chiaramente dallo stesso Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche – in una fase del suo pensiero, dunque, in cui era divenuto critico verso l’impostazione ontologica e semantica del Tractatus (verso l’impostazione per la quale il significato di un nome è il «portatore» di quel nome, ciò per cui quel nome sta). Nondimeno, il passo delle Ricerche in cui Wittgenstein espone retrospettivamente il suo pensiero è istruttivo: “ciò che i nomi del linguaggio designano dev’essere indistruttibile: infatti si deve poter descrivere anche la situazione in cui tutto ciò che è distruttibile è distrutto. E in questa descrizione ci saranno parole; e ciò che ad esse corrisponde non può essere distrutto, poiché altrimenti le parole non avrebbero significato”. Non posso segar via il ramo sul quale sono seduto. (L. WITTGENSTEIN 1953, § 55)

Anche Russell, come si diceva, esprime un pensiero simile. Egli pensa che vi siano dei composti – i fatti, le proposizioni61 –, costituiti da «termini». Il Russell dei Principles of Mathematics definisce «termine qualsiasi entità che possa essere oggetto di pensiero o possa trovarsi in una proposizione vera o falsa, o possa essere contata come uno. Questa, perciò, è la parola più ampia nel vocabolario filosofico» (POM § 47); tra i suoi sinonimi, precisa, c’è quello di «entità» (ib.). I termini sono dunque i costituenti ultimi della realtà, e tra di essi sono annoverati sia gli individui che gli universali (o, col lessico del Russell di allora, le «cose» e i «concetti»)62. Ora, Russell, nel contesto della sua

Cfr. T 4.0621, e le corrispondenti parti delle Note sulla logica (1913). Cfr. T 2.021-2.0212. Su questo tema, su quello dell’atomismo e della sostanza in Wittgenstein, e più in generale sull’ontologia del Tractatus, cfr., tra le numerose pubblicazioni, P. FRASCOLLA (2000), part. pp. 87 e ss. 61 In Russell si registra una certa oscillazione al proposito, poiché egli inizialmente non parla di fatti e sembra ritenere le proposizioni non qualcosa di linguistico, bensì di reale. In seguito muterà in parte teoria e lessico. Ma questi ripensamenti non sono rilevanti per ciò di cui si sta discutendo. 62 Ho precisato le distinzioni di Russell nel mio F. PERELDA (2003), pp. 139 ss. 59 60

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polemica contro il monismo degli idealisti, critica la tesi che un termine, quando acquisisce o cessa di avere una relazione con un altro termine, venga intrinsecamente modificato. Non importa qui illustrare questa tesi da lui avversata, bensì considerare la posizione propria di Russell, poiché essa conferma il pensiero della sostanza. Egli la sintetizza così: la nozione che un termine possa venire modificato sorge dal trascurare di osservare le autoidentità eterne di tutti i termini e di tutti i concetti logici, i quali soltanto formano i costituenti delle proposizioni. Ciò che vien chiamato modificazione consiste semplicemente nell’avere in un dato istante, ma non in un altro, qualche relazione specifica [some specific relation] con qualche altro termine specifico; ma il termine, che qualche volta ha e qualche volta non ha la relazione in questione, deve essere sempre lo stesso, altrimenti esso non sarebbe quel termine che ha cessato di avere quella relazione. (POM § 426)

Altrove questa tesi è rafforzata dal pensiero che «ogni termine è immutabile e indistruttibile. Ciò che un termine è, è; nessun cambiamento può venire concepito in esso senza distruggerne l’identità e renderlo un altro termine» (POM § 47). E poiché il principio di identità è da Russell tenuto fermo, un termine non può diventare un altro termine, e nemmeno può diventar niente (dal momento che il niente è comunque altro da un qualsiasi termine, e che sinonimo della parola termine è la parola «entità»)63. Perciò il mutamento non riguarda i termini, facendoli venire ad essere da nulla che erano, o rendendoli nulla dopo che sono esistiti, bensì i complessi. Anche in Russell, dunque, vige il principio della sostanza, atomisticamente concepito: i termini o elementi di per sé «immutabili» e «indistruttibili» si combinano dando luogo all’essere di un complesso (un fatto, una proposizione). E il venir meno di questo non è il cessare di essere dei suoi componenti, ma il disgregarsi dell’unità in cui erano congiunti. In ogni caso essi – siano o meno uniti – preesistono e continuano ad esistere. Sono, come dirà poi Wittgenstein, la «sostanza» del mondo. E così come in Wittgenstein gli oggetti si uniscono secondo una «determinata relazione»64, i termini di cui parla Russell si combinano secondo una «qualche relazione specifica». È stato notato che entro l’ontologia del Tractatus non si può, a rigor di termini, dire che gli oggetti ci sono od esistono, non potendo mai essere possibile l’opposto. Infatti questa situazione, per essere descritta, richiederebbe ancora nomi, e questi dovrebbero avere significato; ma ciò comporta l’esistenza delle entità da essi designate, contrariamente all’ipotesi formulata65. Perciò la sussistenza e la sua negazione sono proprie dei

63 La parola nulla non è bandita dal lessico filosofico di Russell, allo stesso modo della parola ente. Anzi, egli riprende le più antiche aporie del non-essere, discutendole da un punto di vista logico-semantico: cfr. POM § 73. 64 «Si rapportano in un determinato modo», bisognerebbe dire, per avere massima aderenza al testo tedesco. 65 È quel che si indicava prima come il ragionamento di Wittgenstein intorno alla sostanza.

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composti, degli stati di cose66. Ancora una volta, è lo stesso Wittgenstein, retrospettivamente, a formulare questo pensiero nelle Ricerche: se tutto quello che chiamiamo “essere” e “non essere” consiste nel sussistere e nel non sussistere di connessioni tra elementi, non ha alcun senso parlare dell’essere (o del non essere) di un elemento; così come non ha senso parlare di distruzione di un elemento se tutto ciò che chiamiamo “distruggere” consiste nella separazione di elementi. (L. WITTGENSTEIN 1953, § 50)67

Si potrebbe accodare Russell a questa concezione, senza forzature. Sulla base di queste considerazioni, è stato affermato che gli oggetti del Tractatus (e, si potrebbe dire, anche i termini di Russell) sono non già eterni, ma atemporali, fuori del tempo, dal momento che il mutamento riguarda non essi, ma i loro composti. Qualcosa di simile vale per la sostanza di Aristotele (per ciascun singolo mutamento): non già il sostrato come tale, in sé, muta, bensì il rapporto tra il sostrato e la forma. In sé il sostrato permane tale e quale era, non subisce alcuna modificazione. Per es., se Socrate diventa musico, il sostrato del divenir musico è proprio lo stesso, sia nell’inizio che nel risultato del mutamento: è quel Socrate. È vero che per Aristotele – a differenza che per certi Presocratici o per Russell e Wittgenstein – ciò che in un mutamento funge da sostrato può essere a sua volta il prodotto di un mutamento, essendovi anche la generazione e la corruzione delle sostanze semplici a partire dalla materia prima. Ma se in un mutamento il sostrato in sé si alterasse, se diventasse sostanzialmente un altro, allora, tornando all’esempio di prima, non sarebbe Socrate, proprio lui, a diventare musico, ma un’altra cosa o persona, un’altra entità. Se il sostrato in sé mutasse, nel risultato non sarebbe Socrate ad essere musico, ma un altro individuo, p. es. Callia. (È questo poi il senso del ragionamento di Russell sul fatto che l’acquisizione o la perdita di una relazione – p. es. quella del possesso della proprietà di essere musici – non modifica menomamente i relata della relazione stessa – i quali sono l’individuo, la sostanza prima Socrate, da un lato, e la proprietà o forma dell’esser musici, dall’altro –, altrimenti non si potrebbe nemmeno dire che il mutamento – inteso come perdita o acquisizione di una relazione con un altro termine – ha interessato una certa cosa, fungente da sostrato)68. Si comprendono quindi le ragioni che escludono dal mutamento – e dunque dal tempo – ciò che, permanendo invariato, è «il fisso, il sussistente», il termine indistruttibile, il sostrato, l’atomo, l’elemento – o ciò che, per quanto diversamente venga chiamato, è l’elemento invariante nel mutamento. Ma si potrebbe anche dire, con Kant, l’opposto, ovvero che solo quel che permane muta: tutto ciò che muta resta, e soltanto la sua condizione muta. E poiché il mutamento, di cui è parola, non riguarda se non le determinazioni che possono cessare o sorgere [ovvero il possesso di uno stato accidentale, formando un complesso]; così noi possiamo dire con espressione di apparenza paradossale: solo il permanente (la sostanza) [quel che sarebbe oltre il mutamento e il tempo] subisce mutamento,

Cfr. P. FRASCOLLA (2000, p. 104 ss.). Par davvero di risentire Empedocle ed Anassagora: cfr. supra p. 18 e passim. 68 Cfr. F. PERELDA (2003), cap. I. 66 67

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il mutevole [il complesso di sostanza e accidente] non subisce alcun mutamento, ma una vicenda, poiché certe determinazioni cessano ed altre ne sorgono. (CRP pp. 199-200)

In effetto, è tanto vero che gli elementi semplici in sé non mutano, perché restano ciò che sono al variare delle loro configurazioni; quanto che subiscono mutamento (anche se non intrinseco), appunto perché essi si uniscono in un composto, oppure perdono quest’unità. Kant ritiene questa circostanza – il fatto che quel che resta, e dunque non muta, sia ciò che muti – un’«espressione di apparenza paradossale»; ma la contraddizione è risolta distinguendo i rispetti: in sé i termini non mutano (come teneva a precisare Russell, giacché se essi mutassero in sé, intrinsecamente, non si potrebbe dire rispetto ad essi che ha avuto luogo un mutamento); ma mutano piuttosto rispetto ad altro69. Anzi, il mutamento è proprio il prodursi o il venir meno di questi rispetti, del «rapportarsi in modi particolari», come diceva Wittgenstein, o delle «relazioni specifiche», come le chiamava Russell, che li uniscono nel formare un composto. In senso proprio è solo il composto che come tale muta, viene ad essere o cessa di essere. 2.9

Ontologicamente rilevante

Il pensiero che unisce tutte queste spiegazioni del divenire, da Empedocle a Wittgenstein, pur tra ampie diversità, è che col divenire la realtà – quel che è ritenuto essere autenticamente l’essere – permane sostanzialmente ciò che è. Esso non diventa nulla, ma si conserva; al più subisce al più una «trasmutazione accidentale» (Aristotele) o una «vicenda» (Kant). La domanda che si pone, a questo punto, investe la rilevanza ontologica dell’aspetto accidentale della sostanza (intendendo per sostanza tutto ciò che si conserva: p. es. l’insieme di tutti gli elementi, o degli atomi, o delle sostanze individuali e delle forme, o degli oggetti semplici, dei termini indistruttibili, ecc.). In effetto, pare che a questo aspetto accidentale venga tanto concessa quanto revocata la rilevanza ontologica. La ragione è che altrimenti si ripropone il problema iniziale che il divenire viene inteso quale il diventare il proprio opposto da parte dell’ente, il diventare non-essere da parte dell’essere, e viceversa. La ragione per riconoscere rilievo ontologico a questo «aspetto accidentale» della sostanza – a ciò che assolve la funzione di «aspetto accidentale», nelle diverse ontologie – è che esso consente di spiegare il mutamento, di intendere un mutamento quale effettivo, e non solo come una parvenza di mutamento (come un mutamento parvente). Per es., attenendosi alle ontologie dei Presocratici, se le specifiche combinazioni degli elementi di Empedocle, dei semi di Anassagora, degli atomi di Democrito non fossero ontologicamente rilevanti, allora la circostanza in cui fossero congiunti sarebbe eguale a quella in cui fossero disgiunti. Se lo stato di aggregazione tra elementi non ha rilievo ontologico, non produce nulla di diverso quando sussiste anzi che non. Ma poiché il dive-

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Cfr. E. SEVERINO (1995), (1998, pp. 263-4). 47

nire è anzitutto il prodursi della diversità tra uno stato iniziale e uno stato finale (appunto perché qualcosa diviene qualcos’altro), allora, se nel divenire gli elementi fungenti da sostrato (atomi, semi, sostanza prima e forma, sostanze individuali, oggetti semplici, ecc.) permangono immutati, deve essere lo stato della loro configurazione a variare, cosicché lo stato di aggregazione iniziale deve essere diverso da quello finale. Due atomi uniti non solo lo stesso che due atomi disuniti: se le due circostanze fossero del tutto identiche, il prodursi dell’unione tra due atomi non comporterebbe alcuna variazione rispetto alla loro semplice giustapposizione, e il prodursi della loro unione sarebbe solamente un divenire apparente, una parvenza. Se invece sussiste effettivamente una diversità tra inizio e fine, allora ciò in cui essa consiste – ovvero ciò che realizza lo stato di aggregazione, qualunque cosa esso sia (e, in generale, non può essere altro che una relazione) – non può essere niente, non può essere ontologicamente irrilevante. È vero che in certi casi alcune differenze sono ontologicamente irrilevanti: p. es., la differenza tra il descrivere una distanza con gli anni luce o con i centimetri non è significativa: pur variando l’ordine di grandezza, la lunghezza non muta. Invece, se due atomi si aggregano, se degli elementi si compongono, il mondo è oggettivamente diverso, se e poiché è riconosciuto esserci stato, con questo passaggio, un reale mutamento. La ragione è che per tutte le teorie considerate, dai Presocratici a Russell, il mutamento consta nell’unione e disunione di elementi (oltre che, per certuni, nella creazione dal nulla, e nell’annichilimento, con molte incoerenze). Per questo va riconosciuto rilievo ontologico al modo della sostanza, al prodursi o disgregarsi di un composto. 2.9.1

Rilevanza ontologica nell’atomismo logico

Si riscontra questo pensiero nitidamente, p. es., in Wittgenstein. Due stati di cose aventi gli stessi costituenti a e b sono certamente diversi. La loro diversità non è apparenza, non è ontologicamente irrilevante – prova ne sia il fatto che uno stato di cose, se si realizza, rende vera una proposizione, e falsa la negazione di quella. Se l’oggetto a è connesso con b, è vera la proposizione che dice che a è b, e falsa la sua negazione che dice che a non è b. Se invece quegli oggetti non sono connessi, vale il contrario: è vera la proposizione negativa e falsa l’affermativa. Si tratta di una differenza nel mondo, oggettiva, la quale consiste nella sussistenza o meno di un determinato stato di cose. Ma questa sussistenza non è altro che la sussistenza di una determinata relazione che connette gli oggetti formando dei complessi fattuali. Essa è l’unica autentica differenza tra l’accadere e il non accadere di un certo fatto, giacché in entrambi i casi tutti gli altri costituenti, gli oggetti semplici (a e b), ci sono, sono egualmente dati. La determinata relazione (che corrisponde a quel che Russell chiamava la «relazione specifica») dev’essere qualcosa, un ente – per quanto possa essere di genere o tipo essenzialmente diverso da quello degli altri costituenti. Giacché se fosse ontologicamente nulla sarebbe del tutto indifferente il suo essere o meno, analogamente al caso dello zero che, sottratto o sommato ad un numero, non produce con ciò alcuna differenza. In tal modo, però, lo stato di unione tra a e b non sarebbe differente da quello della loro separazione (giustapposizione), e le proposizioni affermative vere rispecchierebbero il 48

mondo allo stesso modo delle loro negazioni. Perciò è proprio l’essere o meno della più generale sintesi tra elementi a stabilire la differenza tra l’accadere di un fatto anzi che non; e se quest’ultima differenza è riconosciuta, è oggettiva, allora deve essere riconosciuta rilevanza ontologica allo specifico rapportarsi tra elementi, alla «specifica relazione» (attenendosi a questo gergo dell’atomismo logico). 2.9.2

Rilevanza ontologica in Aristotele

Considerazioni analoghe possono essere svolte per Aristotele. Infatti, benché sostrato e forma preesistano alla loro combinazione (la forma, prima di venire acquisita da un sostrato, preesiste in un altro sostrato) e continuino ad esistere anche dopo che la loro eventuale connessione è venuta meno, non si può considerare nulla o ontologicamente irrilevante questa loro combinazione o sintesi, altrimenti il Socrate che diventa musico, acquisendo la forma dell’esser musico, non diverrebbe nulla di diverso dal Socrate che non è musico, dal Socrate affetto dalla privazione dell’esser musico. Ciò vorrebbe poi dire che l’essere musici, l’unione espressa dal verbo essere, non sarebbe assolutamente nulla, non sarebbe un’unione oggettiva, reale70. E ciò farebbe sì che il dire che a è b sia lo stesso che il dire che a non è b, mentre per Aristotele questi due enunciati (singolari) sono antifatici, contraddittori: perciò non possono dire il medesimo. Questa contraddittorietà non è solamente grammaticale o logica, ma reale, oggettiva, poiché i due enunciati descrivono situazioni oggettivamente opposte, come Aristotele stesso afferma. Essi sono l’uno la negazione dell’altro (a è b, a non è b); perciò se l’uno è vero l’altro è falso, valendo in generale la bivalenza e il terzo escluso (a parte il difficile caso degli enunciati al futuro, che si può qui tralasciare). Ora, «il vero ed il falso non sono nelle cose […] ma solo nel pensiero» (Met. VI, 4, 1027 b 25-6) che le pensa, descrive. Giacché questi pensieri a proposito delle cose possono dire ciò che è così com’è, oppure altrimenti. Nel primo caso pensiero e relativo enunciato sono veri, nel secondo falsi, poiché «il vero è l’affermazione di ciò che è realmente congiunto e la negazione di ciò che è realmente diviso; il falso è, invece, la contraddizione di questa affermazione» (Met. VI, 4, 1027 b 20 ss.). In breve: se le cose sono p. es. Socrate e l’esser musico, a e b, allora dire che a è b, se a è unito a b, è dire il vero, e falsa è l’affermazione contraria (a non è b); mentre se Socrate non è unito all’esser musico, allora è vero dire che a non è b, e falso dire che lo è.

Che il verbo essere per Aristotele non significhi nulla di specifico è vero (cfr. De Int. III, 16 b 22), ma non nel senso che esso sia una ridondanza linguistica, bensì in quello per cui esso non significa nulla più della pura relazione tra elementi. Gli altri verbi, infatti, come p. es. sorridere o telefonare sono anche nomi, in quanto significano le azioni del sorridere e del telefonare (quei verbi sono, diremmo oggi, nomi, rispettivamente, di proprietà o di relazioni) oltre che, nella loro forma declinata, la connessione di ciò al soggetto (all’oggetto designato da questo). Ma il verbo essere non nomina alcuna specifica proprietà o relazione: indica solamente la pura relazione tra elementi. Su ciò rimando al mio F. PERELDA (2003, pp. 168 ss.). 70

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Già da queste definizioni di enunciato, pensiero, e di verità e falsità emerge che l’opposizione tra un enunciato e la sua negazione, così come la corrispondente tra verità e falsità, si imperniano sulla separazione versus unione delle cose oggetto di discorso e pensiero. Per Aristotele «alcune cose sono sempre unite ed è impossibile separarle, e altre sono sempre separate ed è impossibile unirle» (Met. IX, 10, 1051 b 9 ss.). Per es. è sempre vero che quattro è pari, perché non è possibile separare l’esser pari dal numero quattro. Ma «altre cose [...] possono trovarsi nei due modi opposti, e se se l’essere consiste nell’essere unito mentre il non-essere consiste nel non essere unito [...], allora circa le cose che possono trovarsi nei due modi opposti, la stessa opinione e il medesimo discorso possono diventare veri e falsi» (ib.). Ora, il passare da parte di un’opinione da vera a falsa (o viceversa) si deve al mutare dell’essere unite o separate delle cose oggetto di discorso. Queste dunque nell’uno e nell’altro caso ci sono, si conservano; ma non evidentemente la loro unione o separazione. Tutto il peso della differenza tra stati accidentali delle cose, tra vero e falso, tra affermazione e negazione, grava dunque sulla differenza tra l’essere unite e l’essere separate delle cose; sulla differenza dunque tra l’esserci di una relazione che le unisce e il suo non esserci. La quale relazione dunque non può essere ontologicamente irrilevante. Se lo fosse, tutte le differenze sin qui rilevate verrebbero meno. Lo si evince anche da altri passi, in particolare da uno in cui Aristotele attribuisce lo stato di opposizione non solo agli enunciati (opinioni, pensieri, discorsi) e ai relativi valori di verità, ma anche, in modo derivato, ai modi di essere delle cose. Egli, infatti, dopo avere precisato che affermazione e negazione sono proprie di enunciati e non delle cose che «stanno sotto» (Cat. X, 12 b 5-16), appunto perché queste cose non sono discorsi, soggiunge: «tuttavia anche queste cose sono dette opporsi come l’affermazione e la negazione, giacché anche in questi casi il modo dell’opposizione è lo stesso. Infatti come l’affermazione si oppone alla negazione, per es. “sta seduto – non sta seduto”, così si oppongono le cose che stanno sotto ad entrambe, “lo stare seduto – il non stare seduto”» (ib.). Aristotele esclude che due enunciati logicamente contraddittori possano essere entrambi veri («proposizioni che sono manifestamente contraddittorie [...] non possono essere vere insieme» - Metaf. IV, 1012 b 1-2), giacché «è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto» (Metaf. III, 1005 b 19-20). Ora, poiché un enunciato negativo, apofatico, esprime secondo Aristotele la separazione dei costituenti71, bisogna riconoscere che ciò che «sta sotto» un enunciato affermativo vero è l’insieme delle cose in quanto sono

71 «L’affermazione è il giudizio, che attribuisce qualcosa a qualcosa. La negazione è invece il giudizio, che separa qualcosa da qualcosa» (De Int. VI, 17 a 25-6). L’enunciato che il cielo è azzurro presuppone che il cielo e l’azzurro siano, ma afferma inoltre che sono anche connessi; anche l’enunciato che il cielo non è azzurro presuppone che il cielo e l’azzurro siano, ma nulla di più; anzi, esclude che siano connessi; esclude che la loro connessione esista.

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unite, mentre ciò che «sta sotto» un enunciato negativo vero è l’insieme delle cose in quanto sono separate, giustapposte. Anche qui, l’oggettiva differenza tra le due situazioni – innegabile, poiché negarla vorrebbe dire rendere entrambe vere due enunciazioni contraddittorie, e dunque negare il principio di contraddizione –, ebbene, quella differenza è data dalla sussistenza in un caso e dalla insussistenza nell’altro di una connessione, un’unità tra il sostrato e la forma. E se le proposizioni contraddittorie si oppongono, così come si oppone quel che ad esse «sta sotto» (ciò che con altro gergo si direbbero gli «stati di cose», i «fatti»), allora non può essere negata rilevanza ontologica a quell’unità dei costituenti, espressa (o che può essere espressa) dal verbo essere72. Ricapitolando: quanto un enunciato affermativo da falso che era diventa vero, lo diviene perché il sostrato (che nell’enunciato comprare come soggetto: p. es. Socrate o Callia), acquisisce una certa proprietà (in sé preesistente). L’acquisizione di quella proprietà è il non esser più separati di tale proprietà o forma da un lato, e del sostrato dall’altro. Dunque una certa relazione o sintesi tra il sostrato e la forma viene ad essere. Tornando allo schema di sostrato, forma e privazione, si può esporre al cosa anche così: quando una cosa si determina in un certo modo, l’entità composta che ne risulta deriva sì in parte dalla cosa che già era, e per altra parte dalla privazione (della forma); ma appunto quel modo (la forma), in cui la sostanza viene ad essere, è all’inizio solo privazione, e cioè nulla in senso assoluto; cosicché l’acquisizione della forma da parte del sostrato – il venire ad avere il sostrato una certa forma, l’esserci della forma relativamente ad un certo sostrato – si genera dal nulla assoluto – contrariamente alle intenzioni di Aristotele, ma certo attenendosi al dettato aristotelico. In altre parole: se il mutamento interessa le entità composte di sostrato e forma, col divenire ne va dell’essere o non essere della relazione che unisce gli elementi, componendoli in un tutto73. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, incalzando le varie ontologie e teorie del divenire dei vari filosofi. Ma quel che importa qui stabilire è che il mutamento è effettivo, reale, nella misura in cui ciò che compone gli elementi semplici in un’unità ha rilievo ontologico, è qualcosa e non un nulla, mera ridondanza linguistica. Se il mutamento è reale, qualcosa nonostante tutto muta effettivamente, venendo ad essere o cessando di essere, in modo assoluto.

72 Non tutti gli enunciati contengono, in greco, in latino e anche in italiano, il vero essere. Socrate sorride, p. es., non lo contiene. Eppure per Aristotele, e poi per un’intera tradizione logica, quest’enunciato può venire ricondotto alla forma normale copulativa con una parafrasi come: Socrate è sorridente. Cfr. De Int. X, 19 b 21 e ivi XII, 21 b 9-10; Metaf. V, 1017 a 27-30; Fisica I, 2 185 b 29-30. 73 Per questa tesi rimando anzitutto ed in modo fondamentale a E. SEVERINO (1995).

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2.10 Ontologicamente irrilevante D’altra parte, si diceva, viene anche negata la rilevanza ontologica di questo qualcosa che, aggiungendosi agli elementi permanenti, li compone in unità. Infatti: se si ammette rilevanza ontologica a questa componente sintetizzante, bisogna riconoscere che quando gli elementi, da disuniti che erano, si uniscono, questa loro unità prima non preesisteva in alcun modo. Infatti, se anch’essa fosse preesistita alla loro unione, allora tutto quel che diviene c’era già prima: non solo gli elementi sostanziali, ma anche la loro specifica combinazione, il loro «connettersi in un determinato modo». In tal caso, tra inizio e risultato del divenire non c’è differenza. Immaginiamo p. es. che in una certa fase del cosmo democriteo gli atomi si combinino in un certo modo. Ora, se si tiene ferma l’idea che questa combinazione fosse già, che gli atomi fossero già così combinati – poiché non si vuole ammettere che questa unione sia sorta dal nulla –, allora non si può più affermare che la combinazione raggiunta nel risultato produca uno stato atomico diverso da quello che si aveva all’inizio. Si deve dire piuttosto che il mutamento è del tutto apparente. In termini aristotelici: se un uomo, che diviene ricco, era già ricco, nello stesso modo e nello stesso senso in cui lo diviene, allora questo divenire è del tutto apparente, giacché quell’uomo in verità rimane tale e quale era (ricco). Piuttosto, perché davvero un uomo diventi ricco, prima non doveva essere ricco, ma povero. Tuttavia poiché in entrambi i casi (quello in cui l’uomo è ricco, e quello in cui non lo è) sia sostrato che la forma (l’uomo e la ricchezza) di per sé sussistono, allora l’unità tra i due (tra l’uomo e la ricchezza) – quell’unità espressa dal verbo essere, cui corrisponde la differenza tra un enunciato affermativo (catafatico) e uno negativo (apofatico) – prima non esisteva in alcun senso. Bisognerebbe allora riconoscere che se il divenire è reale, non tutto si conserva tale e quale era, giacché qualcosa, ovvero la connessione tra gli elementi sostanziali – quel qualcosa cui si deve la differenza tra inizio e risultato –, proviene dal non-essere assoluto, e in esso fa ritorno, quando un certo complesso si scioglie. Questo pensiero è in genere lasciato in ombra nelle teorie sul divenire, giacché quel qualcosa che costituisce l’unità del complesso è desostanzializzato, non è ritenuto a pieno titolo un ente. Ciò si deve a più ragioni, tra cui quella fondamentale è di evitare, nella delineazione della struttura di un complesso, un regresso infinito simile a quello dell’antica aporia del «terzo uomo». Infatti, se si dice che due elementi a e b di per sé sono separati, giustapposti, appunto perché il loro legame è contingente, si riconosce che, perché a e b si producano in un’unità e formino un complesso, è necessario un terzo elemento, ovvero una certa relazione r, diversa da essi, che li unisca. Ma in tal caso si pone la difficoltà che tale relazione è soltanto un terzo ulteriore elemento, logicamente interte, il quale, per porre in sintesi a con b, deve essere posto in relazione con essi da ulteriori relazioni, e queste da altre relazioni ancora, e così via, espandendo all’infinito il plesso relazionale. Per questa ragione, la sintesi tra elementi non è solitamente ritenuta a sua volta un elemento al pari di quel che connette; e se quel che è connesso è la «sostanza» in senso lato (ovvero tutto quel che si combina, permanendo), la relazione tra elementi – tra la sostanza e i suoi «modi» o «accidenti», tra sostrato e forma – non è ritenuta esse52

re a sua volta una sostanza (ovvero né atomo, né elemento, né modo o forma, né oggetto semplice, ecc.). La difficoltà è notevole, e sono state proposte diverse teorie per risolverla74. Ora, senza affrontare questo tema, che esula dalla presente trattazione, mette conto di notare che questa difficoltà costituisce una ragione per la de-sostanzializzazione della «determinata relazione» tra elementi di un complesso (o di ciò che nelle varie altre ontologie ne assolve in modo più o meno esplicito la funzione), e cioè per reputare ontologicamente irrilevante la sintesi tra elementi, evitando così anche il paradosso di dover concedere che essa sia un ente che viene dal niente e vi fa ritorno. Infatti, delle sorti ontologiche di quel che è ontologicamente irrilevante non c’è in alcun modo da preoccuparsi. Eppure, per quanto ciò che realizza l’unità di un complesso possa essere qualcosa sui generis rispetto agli elementi veri e propri – onde evitare il regresso dianzi descritto – , l’elemento unificante non può essere ontologicamente nullo, non può esser niente. Infatti, se fosse niente, non si spiegherebbe il divenire; la spiegazione del divenire quale ricombinazione degli elementi sostanziali non potrebbe essere sensatamente sostenuta. E ciò vorrebbe dire o che la spiegazione di ciò in cui consiste il divenire, tenendo fermo il principio che ex nihilo nihil fit, deve ancora esser data (cioè che non è data attraverso la tesi della ricombinazione ontologicamente irrilevante di elementi sostanziali in senso lato); oppure che il divenire è solamente apparenza. Quest’ultima (presunta) spiegazione, poi, sarebbe la negazione del divenire, non la sua ammissione e spiegazione. D’altra parte, se ciò che realizza l’unità di un complesso è qualcosa, esso esce dal nulla e finisce nel nulla, si annienta. Non gli altri elementi – questo bisogna concederlo–, ma esso certamente sì – questo bisogna ammetterlo. Ciò però palesemente contraddice il principio che ex nihilo nihil fit. Le spiegazioni del divenire che hanno introdotto la distinzione tra gli elementi sostanziali (quali che siano) e la componente accidentale e mutevole degli stessi (la loro combinazione), si trovano allora inaspettatamente nella stessa difficoltà cui dovevano por rimedio. Esse hanno, dunque, solamente spostato il problema. Quel che non si voleva accadesse per gli enti semplici, il venire dal nulla e il diventar nulla, accade all’elemento costituente i complessi di enti sostanziali. Ciò vale per tutte le spiegazioni del divenire quale ricombinazione (quantitativa, qualitativa) di elementi, da Empedocle a Wittgenstein75.

Ho illustrato i termini teorici della questione, e i suoi sviluppi storici in Frege, Russell e Wittgenstein, in F. PERELDA (2003, capp. II e III). 75 Larga parte delle considerazioni svolte sono debitrici nei confronti di E. Severino. Questi (relativamente ad Aristotele) pone il caso di una cosa (una sostanza) bianca, che cessa di essere tale; la domanda è: «quando questa cosa, che ora è bianca, non è più bianca, che ne è di questacosa-bianca? Si badi: non si domanda che ne sia della cosa e del suo color bianco (che possono continuare ad esistere separatamente, anche quando la cosa non è più bianca), ma si domanda che ne sia di quella sintesi specifica, che è costituita da questa-cosa-bianca. Quando questa cosa 74

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I precedenti ragionamenti hanno portato al seguente dilemma: se l’unità tra elementi non è qualcosa, non si spiega il divenire; se invece è qualcosa, non si può concepire il divenire senza smentire il principio che ex nihilo nihil fit – nonostante il ricorso alla teoria della sostanza e nonostante tutte le intenzioni contrarie76. 2.11 Tempo e contraddizione Un’altra (proposta di) soluzione della contraddizione del divenire consiste nel ricorso alla serialità delle determinazioni temporali. Il tempo, secondo le riflessioni aristoteliche rimaste paradigmatiche, è inscindibilmente connesso al mutamento77. Quest’ultimo è anzitutto alterazione di un qualcosa, in tutto o in parte. Il problema, allora, è come conciliare la diversità che si produce col mutamento con l’identità della cosa

non è più bianca, questa sintesi non è più, non esiste più. “Non esiste più” significa: “La sintesi è diventata un niente” (anche se i suoi elementi continuano ad esistere). Anche qui: quando la cosa non è più (o non è ancora, o in quanto potrebbe non essere) bianca, quel non-niente che è la sintesi è diventata un niente» (E. SEVERINO 1982, p. 310). Severino riprende la questione in molti altri luoghi. Al pensiero di Empedocle, ritenuto del tutto paradigmatico, sono dedicate le analisi di ID. (1985, cap. III); mentre ancora relativamente ad Aristotele, cfr. ID. 1980, p. 155 e passim, e 1995, pp. 54-63, part. 62-3, dove peraltro il tema è esposto anche in termini del tutto generali, con l’esempio del cielo che si rannuvola, da sereno che era: «se il cielo sereno, in quanto tale [in quanto cioè sereno] non fosse diventato nulla, non potrebbe diventare cielo nuvoloso. In questo divenire il cielo permane, cioè non diventa nulla [e, per Aristotele e per altri, permane anche l’esser sereno]; ma è necessario che divenga nulla la relazione tra il cielo e il sereno [...]. Il “sostrato” (il cielo), che permane, non diventa nulla, ma diventa nulla la relazione che il sostrato ha con una certa forma (il sereno)» (E. SEVERINO 1995, pp. 17-8). Questo ragionamento vale per ogni spiegazione del divenire quale ricombinazione di elementi permanenti, e anche per l’idea della fisica contemporanea che il mutamento sia solo una trasformazione energetica (cfr. ivi, pp. 18-9). Quel che varia da una particolare ontologia ad un’altra sono le specifiche realtà candidate ad essere, rispettivamente, il sostrato sostanziale permanente e la sua modificazione accidentale; costanti restano i reciproci rapporti tra il primo e la seconda. 76 Che questo secondo corno del dilemma sia e debba rimanere un pensiero nascosto entro la storia dell’ontologia, si deve, secondo Severino, alla circostanza che il divenire quale andare e uscir fuori dal niente è stato ritenuto un’evidenza, e per di più incontraddittoria. Perciò, se si fosse ammesso che il divenire comunque comporta contraddizione (ossia il passaggio, l’identificazione tra essere e non-essere, perlomeno riguardo a quell’ente che è la connessione degli elementi permanenti dei composti), si sarebbe dovuta respingere la verità della presunta evidenza del divenire. Al tema è dedicata la più ampia parte degli scritti di Severino; tra questi, sulla necessaria latenza del pensiero della contraddittorietà del divenire, cfr. in part. ID. (1982, pp. 415-34). 77 Cfr. Fisica IV, capp. 10 e ss.; in part. cap. 11, in cui si legge che «il tempo non è movimento» (219 a 1-2), bensì qualcosa di esso; segue la celebre definizione che «in effetti il tempo è questo: il numero del movimento secondo “prima” [SUƼWHURQ, l’antecedente] e “poi” [hýsteron, il successivo]» (219 b). 54

con sé stessa, identità pure presupposta dal mutamento. La diversità, infatti, è dovuta al fatto che qualcosa, divenendo, diviene altro; mentre l’identità si deve alla presenza del sostrato che, permanendo, resta identico a sé stesso. Ma l’identità del sostrato si deve anche, più in generale, al fatto su cui insisteva Russell che in tanto si può dire che un qualcosa è mutato, in quanto si tiene ferma l’identità sostanziale di quel qualcosa con sé stesso. Questo ragionamento vale anche senza aderire alla tesi di Aristotele che il divenire sia il passaggio di un sostrato da una certa condizione a quella opposta (dal caldo al freddo; da non-musico a musico, ecc.). Infatti, anche se un uomo potesse diventare, oltre che dotto (da ignorante che era), pure un autocarro (contrariamente alle nostre aspettative, alle tesi di Aristotele e alle leggi di natura), sarebbe purtuttavia quell’uomo a diventare un autocarro. È di lui che si direbbe che è diventato un autocarro, non di qualcosa che già fosse un autocarro. In generale: se A diventa B, B è in certo modo A, altrimenti non si direbbe di A che è diventato B. Lo si dovrebbe dire allora di qualcos’altro, p. es. di un certo C. Ma ciò non farebbe che spostare la questione. Infatti, si dovrebbe dire di C che, divenendo B, è diventato identico a B. Oppure, se si negasse che, quando A diventa B, A è in certo modo B, si dovrebbe allora dire semplicemente che A è A, e che B è B, senza che il primo sia diventato il secondo (ma questa non è un’affermazione del diventare B da parte di A, bensì una negazione di divenire). Questa struttura – messa in rilievo dal ragionamento di Russell sull’estrinsecità delle relazioni78 – è il senso più radicale dell’identità sottesa al mutamento, e cioè del pensiero della permanenza della sostanza. Il quale dunque vige anche prescindendo dalla tesi specificamente aristotelica (benché largamente condivisa) che il mutamento sia il passaggio di un sostrato tra termini opposti. Ora, se qualcosa è sé stesso e non altro, come può avere determinazioni differenti (opposte)? Ciò non sembra affatto possibile. Eppure quando qualcosa diviene, qualcosa è qualcos’altro, in tutto o in parte. In tal modo, il Socrate giovane è vecchio; Napoleone vivo è morto; questa casa esiste e anche non. Si tratta di contraddizioni, evidentemente. Rispetto a ciò, è proprio il pensiero della serie temporale a venire in soccorso. Lo si può formulare come segue: è vero che qualcosa può essere e anche non essere, o può essere in un certo modo e anche non, ma solo in tempi diversi: in un tempo una cosa c’è, in un altro non c’è; in un tempo è in un certo modo, in un altro è altrimenti.

78 Cfr. F. PERELDA (2003, cap. I). Russell richiede che il mutamento non alteri intrinsecamente i termini tra cui vige, onde poter dire di essi che sono mutati. Con ciò Russell non nega affatto il mutamento, ma appunto lo concepisce come il prodursi o disfarsi di entità composte, per tramite del prodursi o venir meno di relazioni esterne tra i costituenti. Il fatto che le relazioni siano esterne garantisce l’autoidentità dei costituenti, ovvero l’effettivo permanere della sostanza, e cioè il pensiero della sostanza tout court.

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Alcune delle prime formulazioni del cosiddetto principio di non contraddizione contengono espressamente questo riferimento al tempo. Lo include la prima formulazione (accettabilmente compiuta) del principio di non contraddizione, quale la si trova nell’Eutidemo di Platone. In questo dialogo Socrate afferma: «è impossibile che la stessa cosa sia e non sia» (Eutid. 293 d), facendo seguire l’esempio conseguente che «non potrei, infatti, avere scienza e non averla nello stesso tempo [hama]» (ib.). C’è poi il già citato passo del Gorgia: «l’uomo non può certamente essere, ad un tempo [hama], sano e ammalato» (Gorgia 495 e). Platone poi nella Repubblica afferma, più in generale ancora, che «è chiaro che la stessa cosa non può contemporaneamente [hama] fare o subire cose contrarie sotto lo stesso aspetto e in rapporto alla stessa cosa» (436 b). Quindi le cose contrarie possono sì riguardare la «stessa cosa» sotto lo stesso aspetto, ma solo se «non contemporaneamente», ovvero solo se in tempi diversi. Questo principio, proprio col medesimo rispetto temporale, è ribadito poco oltre: non si può esser convinti «che una identica realtà possa rimanere se stessa e nel contempo [hama] subire o essere, o fare cose opposte nella medesima sua parte e per il medesimo rispetto» (436 e 437 a). Anche qui si esclude che cose contrarie possano essere fatte o subite da una stessa cosa in un medesimo tempo. In tempi diversi invece è possibile. Molto esplicito è poi Platone nel Parmenide, là dove, considerando l’ipotesi che l’uno partecipi del tempo, ritiene necessaria la dislocazione in tempi diversi dell’essere e del non essere dell’uno: è infatti necessario che esso «in un certo momento partecipi dell’essere e in un altro momento, invece, in quanto non è, non partecipi dell’essere» (155 e 6-8). Egli insiste su questo concetto, formulando in modo retorico la domanda seguente: «potrà dunque [scil. l’uno], nel momento stesso in cui partecipa, non partecipare e nel momento stesso in cui non partecipa, partecipare?» (155 e 8-10). La risposta, se mai ve ne fosse bisogno, è netta: «Non potrà» (ib.). Platone formula poi, nella frase seguente, una teoria generale al proposito: «dunque [l’uno] in un certo tempo partecipa e in un altro non partecipa, perché soltanto in questo modo può partecipare e non partecipare della medesima cosa» (155 e 8-11). Il riferimento al tempo è incluso anche nella celeberrima, canonica formulazione aristotelica del principio di non contraddizione. La legge suprema, il primo degli assiomi, recita infatti che «è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo [hama], appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto (e si aggiungano pure tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere, al fine di evitare difficoltà di indole dialettica)» (Metaf. IV, 3 1005 b 19-22). «Ad un tempo», ovvero nello stesso tempo, è impossibile, p. es., che Socrate sia giovane e vecchio, sia in piedi e seduto, sia sposato e non sposato. In tempi diversi però Socrate è sia giovane che vecchio, sia in piedi che seduto, sia non sposato che sposato. Peraltro, Aristotele sembra essere stato dell’opinione, come si è veduto, che gli enunciati possano cambiare valore di verità. Ciò vuol dire che quando è vero l’enunciato asserente che Socrate è seduto, deve

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essere falso l’enunciato che Socrate non è seduto, e viceversa. Questi, che sono enunciati contraddittori (antifatici), non possono essere entrambi veri simultaneamente79. In altri contesti teorici, soprattutto contemporanei, il riferimento al tempo è introdotto come un’ulteriore specificazione del contenuto proposizionale, cosicché l’enunciato viene «indicizzato» temporalmente (ovvero, il tempo dell’evento enunciato è in certo modo parte del contenuto enunciativo), e non muta di valore di verità. Esponendo quest’idea in modo molto semplice, se si dice che Socrate è seduto, indicando le ore precise in cui questi lo è, si proferisce un enunciato che, se vero, è eternamente tale – indipendentemente dal fatto che Socrate prima sia seduto ma poi si alzi e passeggi. Questo però è un diverso modo di far uso del riferimento temporale per sciogliere la contraddizione. A partire dalla formulazione aristotelica, il principio di non contraddizione ha avuto lunga storia, venendo ora assimilato al principio di identità (a partire da certa tradizione scotista), ora integrato col principio del terzo escluso o di bivalenza80. Per i nostri scopi, un luogo particolare di questa evoluzione è la Critica della ragion pura, in cui Kant afferma doversi espungere dalla formulazione del principio di contraddizione proprio il riferimento al tempo. Egli scrive che «il principio di contraddizione, in quanto principio semplicemente logico, non deve assolutamente limitare le sue enunciazioni ai rapporti di tempo» (CRP p. 173). Questa posizione – che peraltro sembra smentire altre formulazioni dei rapporti tra principio di contraddizione e tempo, presenti in diverse opere kantiane (specialmente precritiche)81 – è stata variamente interpretata. In

79 G. SASSO (1996, cap. I), in un saggio densamente teoretico, discute e critica il riferimento aristotelico al tempo per l’esclusione della simultanea inerenza, al medesimo soggetto, di predicati opposti. Egli prospetta l’alternativa (ivi, p. 42 e passim) se quell’esclusione di predicati opposti (se detti simultaneamente del medesimo) sia essa stessa nel tempo o invece fuori dal tempo. Per ciascuna possibilità ne ricava delle difficoltà che rendono quell’alternativa aporetica, e con essa, par di capire, la stessa nozione di tempo. Cfr. inoltre, per una prosecuzione della discussione sulla formulazione aristotelica del principio di non contraddizione e sul riferimento al tempo, ivi, p. 225 ss. 80 Cfr. per alcune indicazioni infra nota 71 p. 117. 81 Nella Nova Dilucidatio il principio di contraddizione è formulato anche al seguente modo: «“è impossibile nello stesso tempo essere e non essere”» (SP p. 12) – laddove l’«impossibile [è] ciò che contraddice a se stesso, vale a dire che si immagina che simultaneamente sia e non sia» (ib.). Anche nel saggio sulle Grandezze negative si trova il riferimento al tempo nell’enunciare il principio di non contraddizione, nell’esempio che «un corpo che sia in moto, e contemporaneamente non sia in moto, non è nulla» (SP p. 255), nel senso che è proprio nulla. In particolare è nella Dissertatio del 1770 – come ha messo in rilievo F. VOLPI (1981), pp. 252-3 – che Kant afferma l’ineliminabilità del riferimento al tempo, asserendo non solo l’originarietà del concetto di tempo rispetto ai principi della ragione, ma anche che il «principio di contraddizione lo presuppone [scil. il tempo] e lo implica come sua condizione. Infatti A e non A non s’oppongono se non quando vengono pensati simultaneamente (cioè nello stesso tempo) dello stesso soggetto; possono invece convenirgli successivamente (cioè in tempi diversi)» (I. KANT 1975, V, p. 54). Poco oltre si legge

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generale, sembra che Kant, nella Ragion pura, volesse «purificare» quanto più possibile la logica (generale) da ogni implicazione metafisica, privando il principio di (non) contraddizione di portata conoscitiva nell’ambito delle proposizioni sintetiche, tra cui quelle di esperienza82 (laddove la metafisica del razionalismo aveva ritenuto analitica ogni proposizione vera83). Le differenti formulazioni date da Kant del principio di contraddizione sono dibattute dagli studiosi, in particolare per mettere in luce i mutamenti della logica kantiana, se questa fosse maggiormente allineata con Aristotele nel periodo. Kant sembra tendenzialmente ridurre la non contraddizione, che è un principio che riguarda le predicazioni, al principio di identità, che riguarda i termini84. Stante la complessità del quadro teorico in cui è collocato il principio kantiano di contraddizione, sia nelle formulazioni «aristotelizzanti» che in quelle più razionalistiche, l’espunzione del riferimento al tempo attuata da Kant non vuol dire, comunque, che questi ammetta che un medesimo soggetto possa avere predicati contraddittori. Anzi, per lui è proprio il tempo a sciogliere questa contraddizione – in ciò esplicitando un pensiero che restava prevalentemente implicito lungo l’intera tradizione85. «Per es., un uomo che è giovane non può nello stesso tempo essere vecchio, ma egli può benissimo esser in un tempo giovane, e in un altro non giovane, cioè vecchio» (CRP p. 173). Eppure, come si è visto, «il principio di non contraddizione, in quanto principio semplicemente logico, non deve assolutamente limitare le sue enunciazioni ai rapporti di tempo: quindi una tale formula è affatto contraria allo scopo di esso» (ib.). Forse la ragione per quest’espunzione sta nel fatto che il tempo può benissimo rientrare nei rispetti logici della predicazione86. Ma forse

«è dunque assurdo voler armare la ragione contro i postulati puri del tempo (come la continuità ecc.), giacché seguono leggi che non sono precedute da nulla [...], e la stessa ragione nell’uso del principio di contraddizione non può fare a meno dell’appoggio di quel concetto [scil. di tempo]» (ivi p. 56). 82 Cfr. F. VOLPI (1981). 83 Basti leggere lo scritto Primae veritates di Leibniz. Ho esposto questi temi in un saggio contenuto in un volume miscellaneo a cura del prof. L. Perissinotto e mia, di prossima pubblicazione per i tipi del Poligrafo, Padova. 84 È vero tuttavia che dietro questa riduzione di Kant sta il principio di ragion sufficiente di Leibniz e l’idea della verità come inerenza, per la quale ogni predicato vero è contenuto nella nozione completa del soggetto. In tal modo ogni predicazione vera è un’identità parziale, e la composizione di predicati nel formare il soggetto restituisce la sinteticità predicativa della formulazione aristotelica. Ma questa questione, per quanto interessante, non riguarda direttamente le presenti indagini. 85 Il tema è discusso, da un punto di vista teoretico non meno che critico, da G. SASSO (1996, cap. III). 86 Tugendhat sostiene che «il tempo, in realtà, è solo un rispetto tra gli altri, secondo il quale un predicato non può convenire e insieme non convenire a un oggetto. [...] Aristotele avrebbe dunque potuto rinunciare all’aggiunta “al contempo”, contenuta nella seconda aggiunta “secondo il medesimo rispetto”» (E. TUGENDAT, U. WOLF [1983, p. 54]). 58

l’espunzione si deve anche al fatto che il riferimento al tempo è indice dell’accidentalità del nesso predicativo – giacché, p. es., se qualcuno è giovane per un certo tempo, non lo è sempre. Anche le spiegazioni addotte da Kant, per quanti discutibili, procedono in questa direzione. Ora, riprendendo il discorso precedentemente lasciato in sospeso, non sarebbe difficile illustrare un folto elenco di autori e di luoghi a testimonianza dell’idea che la serie temporale sia ciò che scioglie la contraddizione del mutamento, dislocando in tempi diversi la diversità dell’identico, il fatto che una certa cosa è prima sé stessa e poi qualcosa di diverso (in tutto o in parte). Appunto la distinzione tra il «prima» e il «poi» impedisce la contraddizione. O perlomeno così si è a lungo ritenuto. Si tratta allora di vedere se questa soluzione sia congrua, se il tempo sia tale da sciogliere la contraddizione, se esso stesso sia scevro di contraddizione; o se invece la contraddizione del mutamento non sia invece solo spostata, ad una contraddizione che si ripropone entro il tempo o come tempo. 2.12 L’«istante» di Platone Platone, a quanto pare, ha nutrito dubbi in proposito. Nella seconda parte del Parmenide si trova una discussione sulla natura del «passare» da uno stato all’altro, sulla natura dell’«istante» (exaiphnês) in cui tale passaggio avviene, quando si avvicendano i diversi tempi durante i quali un qualcosa è in un certo stato anzi che non. Si tratta di un brano assai discusso, anzitutto perché è controverso se appartenga alla seconda serie delle deduzioni in cui si è soliti dividere il dialogo – quella in cui si esaminano le conseguenze dell’ipotesi affermativa: «se l’uno è», in rapporto al proprio opposto, ai «molti» –, oppure se costituisca una specie di intermezzo a sé stante87. In quel passo, comunque – come si è visto in parte in precedenza – Platone afferma la fondamentale tesi che l’uno è nel tempo solo a condizione che partecipi dell’essere e del non-essere in tempi diversi, ovvero che in un tempo sia e in un altro non sia. Questo è «l’unico modo» in cui qualcosa «può partecipare e non partecipare della medesima cosa». Platone prosegue poi indicando una serie di determinazioni che, pur essendo opposte, possono essere riferite alla medesima cosa, purché in tempi diversi: l’essere e il non-essere, mediante il nascere e il perire; l’esser-molti e l’esser-uno, mediante il disgregarsi dell’unità di un complesso e l’unirsi dei molti; l’esser simile e dissimile, me-

87 Per alcune prime indicazioni, si veda F. FRONTEROTTA (1998) che fornisce, intorno alla collocazione del passo, utili riferimenti bibliografici. Fronterotta in particolare segnala sul tema del tempo L. BRISSON (1970-71). Cfr. pure E. BERTI (1975), G. CASERTANO (1998), nonché l’utile introduzione di F. FERRARI (2004, part. p. 148 ss.). Di particolare rilievo la monografia di N. STROBACH (1998) dedicata al tema dell’istante del cambiamento, nella cui prima parte, di carattere storico, viene indagata analiticamente la posizione di Platone (cfr. infra nota 92).

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diante l’assimilazione e la diversificazione; l’esser maggiore o minore o uguale, mediante l’accrescimento, la diminuzione, l’eguaglianza; ecc. Evidentemente, in base alla teoria generale dei diversi rispetti temporali, se qualcosa si è accresciuto ed è divenuto maggiore di altro, non è più minore di questo; similmente, se degli elementi si sono uniti, formando un’unità, la loro molteplicità intesa come giustapposizione è perita, ecc. Platone dunque sostiene esplicitamente i principi di non contraddizione e del terzo escluso, relativamente ad una serie temporale. Attenendosi al suo esempio, non è possibile che qualcosa sia simultaneamente in moto e anche non in moto, ovvero in stasi – e ciò è sancito dal principio di non contraddizione (le cui formulazioni platoniche abbiamo già visto). D’altra parte, in ogni momento, qualcosa o è in moto, o non lo è, ovvero è fermo, e altrettanto vale per qualsiasi altra coppia di determinazioni mutuamente esclusive (maggiore, non maggiore; simile, dissimile; unito, disgiunto, ecc.) – e ciò è sancito dal principio del terzo escluso, la cui validità è confermata coll’affermazione che «non c’è nessun tempo in cui sia possibile che qualcosa contemporaneamente né si muova né stia fermo» (156 c 6-7). Eppure, ciò non rende pienamente conto del tempo. Quest’ultimo, infatti, non è solo l’essere una cosa in un certo modo in un dato tempo, e in un altro modo in un altro tempo, ma appunto il passare di uno stato nell’altro. Oppure, se si lega ogni stato al suo istante (il quale è come un’istantanea che ritrae uno stato di cose), il tempo è il passare, il distruggersi, di un istante nell’altro successivo, come rilevava Aristotele88. Altrimenti il tempo sarebbe una serie di istanti-punti statici, senza movimento, senza avvicendamento. D’altra parte, un tempo senza avvicendamento non è tempo, ma stasi. Ne segue, allora, che l’idea che il tempo possa togliere la contraddizione è dovuta alla dimenticanza di quest’essenza per così dire negativa del tempo, per la quale il presente, quel che è presente, cessa di essere, diventando un passato, quel che non è più: «perisce», come dice Platone. E quel che non è ancora sopraggiunge e si fa essere, diventa presente: «nasce». Un’essenza, questa del tempo, la quale, lungi dal rimuovere la contraddizione, è invece, come penserà Hegel, intrinsecamente contraddittoria. Platone, si diceva, solleva il difficile problema riguardante l’avvicendamento dei tempi diversi, proprio nel contesto in cui sembrava che la diversità dei tempi avesse risolto ogni contraddizione. Si tratta infatti di capire in che cosa consista questo avvicendamento, «dove» esso «abbia luogo», e perché finisca col riprodurre quella contraddizione che sembrava tolta. Due sembrano i capisaldi del ragionamento del Parmenide: 1) il mutare è il passare da uno stato ad un altro stato, diverso ed opposto al precedente: «star fermo prima e successivamente muoversi e muoversi prima e successivamente fermarsi, queste cose sarà impossibile che esso [scil. l’uno, ma si può dire: qualcosa in generale] le subisca senza mutare» (156 c 2-5). Ovvero: se lo stato di alcunché rimane il medesimo, non c’è

88

Cfr. Fisica IV, 218 a ss., nonché infra pp. 63 ss. 60

mutamento (e tempo); viceversa, se c’è mutamento, lo stato non è rimasto lo stesso. 2) In ogni tempo un qualcosa è in uno e in un solo stato, ché altrimenti sarebbero violati i principi di contraddizione e del terzo escluso. Il problema allora è: come e in «quale tempo» avviene il mutare («e allora quando muta?» - 156 c 8), ovvero l’«avvicendamento» dei tempi? Nel tempo – concepito come insieme di «luoghi» in cui trovano posto gli «stati» delle cose – non c’è «spazio» alcuno per il mutamento89. Così pare almeno. Quest’ultimo, infatti, richiede in certo modo la compresenza (e pure la separazione) di due stati differenti (e incompatibili). Infatti, se ci si attiene ad uno di essi solamente, non c’è mutamento, secondo quel ch’è affermato dalla prima premessa. Consideriamo il caso di Socrate il quale, da seduto che era, si alza in piedi. Ora, com’è che egli «passa» dall’essere seduto allo stare in piedi? Non passa finché è comodamente seduto, e neppure dacché è già saldamente in piedi. Infatti, fintanto che è seduto, resta seduto e basta. D’altra parte, se Socrate è (già) in piedi, il passaggio, se mai c’è stato, è già avvenuto, e l’affermazione che Socrate è in piedi, da sola, non lo testimonia. Semmai lo presuppone. Il passaggio da uno stato all’altro, dunque, non è più l’esser seduto, né ancora lo stare in piedi, ma è in qualche modo l’uno e l’altro. Nel passare Socrate ha qualcosa dell’esser seduto, poiché non è ancora in piedi, non è ancora compiutamente nello stato successivo. Ma ha pure qualcosa dell’esser in piedi, in quanto se non l’avesse, Socrate sarebbe ancora del tutto seduto, e tale resterebbe, senza passare all’esser in piedi. Tuttavia nel passaggio il nostro Socrate non è propriamente né in piedi né seduto90.

In quest’espressione – ed anche in altre precedenti – si presenta la tendenza a rappresentare il tempo alla stregua dello spazio, quasi che i tempi diversi fossero come dei «luoghi» differenti in cui vengono allocati gli stati differenti delle cose. Una cosa determinata in un certo modo occupa un «luogo temporale», differente da un altro. 90 Questa contraddizione potrebbe venire imputata al fatto che si è data una descrizione imprecisa del moto, senza considerarne la natura. Socrate non è né ancora seduto né ancora in piedi, poiché esistono degli stati intermedi: Socrate è accovacciato, è flesso, sta distendendo il suo corpo, ecc., cosicché la contraddizione pare dovuta al fatto che «in piedi» e «seduto» sono determinazioni insufficienti a determinare la posizione di Socrate, come quando si dice che una cosa è verde ma anche no, se è verdastra e non si hanno altri nomi a disposizione oltre a quello di verde. Eppure, siano date anche tutte le situazioni intermedie, il discorso si ripropone: in che cosa consiste il passare da una di esse alla successiva? Si assumano anche tutti i gradi intermedi di un movimento; se ne considerino due prossimi quanto si vuole: a e b. Questi sono diversi; e in che cosa consiste il passaggio da a a b (laddove b è non-a, lo stare nello stato b esclude lo stare nello stato a; oppure, tornando in modo equivalente agli istanti, l’istante b non è l’istante a)? È evidente che la questione del passaggio si ripropone daccapo. (Che poi b non sia l’immediato successore di a perché il tempo è continuo, non cambia nulla: basta che b sia un istante successivo ad a, e non importa quanto grande sia la loro differenza, e se per ogni differenza data se ne possa indicare una minore). 89

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Per il mutare, allora, si deve considerare in uno, in una sola circostanza, sia lo star seduto di Socrate, sia il suo essere in piedi: A e non-A. Un membro solo di questa congiunzione non è affatto un passare, proprio come l’esser seduto o l’essere in piedi di Socrate non sono il suo alzarsi, sono una stasi e non un movimento. In questo «passare» viene allora smentito il principio di non contraddizione: Socrate è seduto, ma anche non; è in piedi, ma anche non. E viene smentito pure il principio del terzo escluso: Socrate non è né in piedi né seduto91. Questo passare allora non è in nessun tempo – poiché in ogni tempo Socrate è in un solo modo, o in piedi o seduto: «non c’è nessun tempo in cui sia possibile che qualcosa contemporaneamente né si muova né stia fermo». Platone chiama questo «luogo» fuori del tempo, in cui un tempo passa nell’altro, «l’istante» (exaiphnês): l’istante infatti sembra significare qualcosa di questo genere: ciò a partire da cui muta passando nell’una o nell’altra di due condizioni. Infatti non muta [l’uno, qualcosa] a partir dallo star fermo quando è ancora fermo [ossia, se qualcosa che è fermo resta fermo, non si muta in qualcosa in movimento] né muta a partire dal movimento [fermandosi] quand’è ancora in movimento; anzi questa natura un po’ stupefacente dell’istante si situa tra il movimento e la quiete, senza essere in alcun tempo, e procedendo dall’uno in direzione dell’altro [da uno stato all’opposto] ciò che si muove muta passando nello star fermo e ciò che sta fermo passando nel muoversi. [...] Anche l’uno allora, se appunto sta fermo e si muove, muterà passando nell’una o nell’altra condizione, perché solo così potrà fare l’una e l’altra cosa, ma mutando muta istantaneamente e quando muta, non può essere in alcun tempo e in quell’istante né si muoverà né starà fermo. (156 d 2 – e 7)

Nell’«istante» o «attimo» qualcosa né si muove né sta fermo; ma non c’è alcun tempo in cui sia possibile che qualcosa né si muova né stia fermo. Perciò l’istante è fuori dal tempo, se il tempo è inteso come una serie di «luoghi» stabili e determinati92. Eppure l’istante è ciò in cui i tempi si avvicendano; è il luogo, o il non-luogo (se nella associazione tempo-spazio ad ogni spazio corrisponde una parte del tempo), in cui il

Di diverso avviso, p. es. E. BERTI (1975, pp. 317-8). La monografia di N. STROBACH costituisce, per quel che ne so, la più ampia discussione del tema (cfr. anche la recensione di L. JANSEN [2001]). Strobach per intendere la posizione di Platone interseca due distinzioni: la prima riguarda il mantenimento o meno delle leggi di non contraddizione (LNC), del terzo escluso (LTE) e la nozione di negazione. In questo modo ci sono tre posizioni: la posizione A in cui vige una logica bivalente ma per gli «istanti» vengono sospese sia LNC sia LTE. La posizione B in cui ci sono tre valori di verià e viene sospesa solo la LTE (non la LNC), ma si rinuncia alla doppia negazione. La posizione C impiega uno speciale predicato di negazione che ha delle somiglianze con la nozione aristotelica di privazione, e mantiene sia LNC sia LTE. La seconda distinzione riguarda la concezione delle parti temporali e dell’«istante», se le prime siano intese come dei «lassi» di tempo o meno e se l’«istante» del cambiamento sia o meno fuori della serie temporale. LD SRVL]LRQH ơ LQWHQGH L WHPSL cronoi) come degli istanti puntuali e l’«attimo» (o «istante», exaiphnes) come fuori dal tempo; la posizioQHƢLQWHQGHLQYHFHLWHPSLFRPHGHOOHGXUDWHHO·©DWWLPRªFRPHIXRULGDOWHPSR,QWHUVHFDQGR questi due tipi di classificazione si ottengono sei posizioni. Secondo Strobach quella che meglio rappresenta Platone è la sesta, ottenuta combinando la posizione C FRQODƢ/HSUHVHQWLLQGDJini invece mirano a rappresentare Platone secondo la combinazione Aơ. 91 92

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tempo manifesta la propria natura negativa, tale per cui il presente, ciò che è, trascorre e non è più. Le parti del tempo, i «tempi diversi» sciolgono la contraddizione dell’avere le cose mutevoli determinazioni opposte, la contraddizione del passaggio dall’essere al nonessere, quella vietata da Parmenide e dall’assioma degli antichi pensatori che dal nulla non viene nulla. Ma il tempo stesso, in quanto avvicendamento, passaggio delle sue parti, ripropone la contraddizione, giacché l’un tempo diviene l’altro, passa nell’altro. Il passaggio, l’«istante» in cui avviene, fa collidere gli opposti che la diversità delle dimensioni temporali teneva separate, producendo contraddizione. 2.13 Aristotele e l’estaticità del tempo Aristotele, si è visto, formula il principio di non contraddizione con particolare riguardo ai rispetti temporali. Anche per lui il tempo risolve la contraddizione, dislocando gli opposti in tempi diversi. Lo stesso esporrà Kant, in maniera più esplicita. Eppure, anche in Aristotele la natura del tempo presenta una compresenza di determinazioni opposte, riproducendo la contraddizione che il tempo stesso dovrebbe risolvere. La natura del tempo è infatti, anche per Aristotele, estatica, ovvero negativa, distruttrice93. La definizione che Aristotele dà del tempo è celebre: «il tempo è questo: il numero del movimento secondo “prima” (próteron) e “poi” (hýsteron)» (Fisica IV, 11 219 b 2-3). In questa definizione il «prima» e il «poi» non sono immediatamente determinazioni di tempo (altrimenti la definizione sarebbe circolare), ma anzitutto di spazio (il precedente e il successivo), ovvero sono le determinazioni spaziali che fungono da riferimento per considerare il movimento di qualcosa: un oggetto che si muove è in un certo luogo in un dato tempo, e in un altro luogo in un tempo successivo. In tal modo, la numerazione dei luoghi è il fondamento per la numerazione temporale, che costituisce appunto «il numero del movimento»94. Tralasciando le questioni più specifiche della teoria aristotelica, mette conto di notare come lo Stagirita pensi che il tempo debba seguire, conformarsi (akolouthein – 219 a 10 ss.)95 al divenire – essendone «qualcosa»: il numero – mediante la grandezza su cui

93 «Ogni cambiamento è per natura distruttore [ekstatikon, estatico]. Nel tempo infatti tutte le cose si generano e si corrompono» (Fisica IV, 13 222 b 16-17). 94 Cfr. Fisica IV, 11 219 a 15 ss. Il tema del tempo in Aristotele è stato oggetto di numerosi studi. E. BERTI (1995), testo che è una breve ed agile esposizione della mataria, fa menzione dei principali studiosi del tema (A. Torstrik, H. Carteron, N. Abbagnano, D. Ross, J. M. Dubois, P. F. Conen, W. Wieland, J. Moreau, L. Ruggiu, H. Berrau, A.-J. Festugière, J. Hintikka, G. E. L. Owen, V. Goldschmidt, R. Sorabji, R. Brague, G. Verbeke). Richiamo tra gli altri in particolare L. RUGGIU (1970), (1997a), R. BRAGUE (1982) che tratta del tema anche in Platone, nonché A. GIORDANI (1995), che compila pure una significativa bibliografia ragionata. 95 Per alcune indicazioni sul significato di questo verbo e sul suo valore in queste pagine aristoteliche, cfr. p. es. A. GIORDANI (1995, p. 44 n. 58).

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il movimento si attua. Ora, poiché «il movimento è sempre altro e altro (alle kai alle), così anche il tempo è sempre altro e altro» (Fisica IV, 11 219 b 9). Il tempo ha dunque un carattere di essenziale alterità derivante dall’alterità di cui consiste il mutamento, che è appunto diventar altro da sé (nel caso del movimento: mutare di luogo, trovarsi in un altro luogo). Qualcosa diviene altro, muta; e il tempo, numerando le fasi del mutamento, è il trascorrere di esse. In generale, è perché c’è mutamento che c’è tempo, essendo il tempo «qualcosa» del mutamento. E il mutamento è per Aristotele un dato originario dell’esperienza96. Il fatto è che le diverse determinazioni di quel che muta vengono dislocate in tempi diversi, essendo appunto impossibile che allo stesso convenga e non convenga una stessa determinazione nello stesso tempo, al contempo. La diversità dei tempi scioglie la contraddizione. Ora Socrate è in piedi, ora è seduto – e il primo «ora» è diverso dal secondo, cosicché questa diversità di tempo funge da diversità di rispetto logico, impedendo il prodursi della contraddizione. Aristotele qui la pensa come Platone (e come Kant, e come moltissimi altri). Eppure sembra che la contraddizione del divenire si riproponga nella figura dell’ora, del nûn, per il carattere della sua intrinseca negatività. Aristotele ascrive infatti all’istante (1) il carattere dell’identità, giacché l’«ora» è sempre tale: quel che c’è è il presente; ma anche (2) il carattere della differenza, mutando in continuazione ciò che è «ora»: «l’“ora” [nûn] è per un verso identico, mentre per altro verso non lo è. In quanto esso è in un essere nella successione, è differente (questo è infatti l’essenza dell’“ora”), mentre in quanto “ciò che già era sempre essente” [hode pote on esti to nûn] esso è identico» (Fisica IV 11, 219 b 12-5)97. Ora, è vero che si possono distinguere i sensi per cui l’istante è identico e diverso; ma con ciò non fa che spostare il problema a quest’ultimo senso che corrisponde a quello della intrinseca negatività dell’istante e del tempo in generale. Ogni istante, infatti, si distrugge e diventa l’istante successivo, diverso dal precedente, pur essendoci sempre un «ora», ovvero la dimensione della presenza (che è quel «ciò che è sempre» o essente «di volta in volta», «in ogni momento» – pote –, l’ora appunto, il nûn). Altrimenti, se l’ora che è non si distruggesse, se in esso o con esso non si producesse la differenza tra il prima e il poi, tra il próteron e l’hýsteron, non trascorrerebbe alcun tempo. Ci sarebbe un’assoluta fissità. Ma questa differenza tra il prima e il poi si produce in o con ciascun ora, in ciascun istante presente (in o con ciascuna delle differenze che l’ora quale «sempre identico» può assumere), come negazione del presente stesso, quale sua natura estatica (questo è appunto il suo distruggersi). Non avviene in tempi diversi, giacché, se le differenze temporali di cui si parla – il prima e il poi – fos-

Cfr. Fisica II, 1 193 a 6. Commenta questo passo con chiarezza E. BERTI (1995, pp. 28-9), il quale propone questa traduzione, significativamente diversa: «ma l’adesso [nûn] in un senso è lo stesso, in un altro non è lo stesso; in quanto infatti è sempre in un altro, è diverso (questo era il suo essere adesso), mentre considerato come ciò che l’adesso è in un momento qualsiasi, è lo stesso» (ivi, pp. 28-9). 96 97

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sero rigidamente distinte e non avessero alcun punto in cui una di esse, essendo – essendo l’«ora presente» –, cessasse di essere facendosi l’istante diverso e successivo, ebbene se questo autonegarsi non avvenisse, allora il tempo sarebbe composto da una serie di parti fissamente essenti, statiche, e non si saprebbe dire come queste trascorrano, come l’una sia ma (poi) non sia più: non si saprebbe dire come l’una passi nell’altra – e il tempo, con ciò, trascorra. Gli istanti dovrebbero «venir messi in moto» da una dinamicità ad essi esteriore, la quale sarebbe poi il tempo autentico – così come avviene per Platone, per il quale l’avvicendarsi dei diversi tempi avviene al di fuori dall’insieme delle «parti» temporali fisse, accadendo nell’«istante» in cui queste si avvicendano, e in cui la non contraddizione e il terzo escluso vengono meno. Inoltre, se ciascun «ora» dapprima fosse e poi non fosse più – come anche sembrano suggerire le formulazioni linguistiche abituali –, si starebbe presupponendo con ciò un tempo ulteriore, di secondo livello, il quale «ospiterebbe» la durata degli «istanti» del tempo entro cui avvengono gli accadimenti. Vale a dire: qualcosa avviene in un certo istante e questo istante a sua volta «è» per o in un certo tempo, prima e dopo il quale non è. Ciò però, oltre che essere paradossale in sé stesso – non sembra infatti ammissibile che le determinazioni del tempo siano a loro volta temporalmente determinate, così come invece lo sono gli eventi che esse, per così dire, ospitano – non fa che spostare il problema di cui si va ragionando, da come un istante del tempo ordinario divenga il successivo, a come l’istante del tempo sovraordinato – in cui sarebbe saldamente allocato un certo nûn, un certo «ora» che viene detto essere «per un certo tempo» – divenga l’istante successivo (ancora una volta della temporalità sovraordinata). Quel carattere di «trascorrimento» che Platone riconosce all’«istante» – per lui fuori dal tempo, ma capace di avvicendare i differenti tempi «statici» in cui le cose sono in stati determinati – Aristotele lo attribuisce al nûn, all’istante temporale, all’«ora»98. Questo «è per un verso sempre identico, per altro verso no, alla pari di ciò che è mosso» (Fisica IV 219 b 31-3). Ora, Aristotele ritiene sì che identità e differenza competano all’istante secondo rispetti diversi; eppure, il rispetto per cui esso è sempre diverso è la negatività o estaticità, l’autonegazione o autotrascendimento dell’«ora» che, essendo, simul – ossia in sé stesso, immediatamente – si differenzia, cessando di essere. Se infatti l’ora – non l’ora in generale, ma il singolo istante – perdurasse, non si negasse, non diventasse un «poi» (un «già»), esso non trascorrerebbe, e non passerebbe tempo. Ma il tempo è proprio il passare di ogni «ora» nell’«ora» successivo, mentre e in tanto che quel primo ora è. Il non esser più (o il dover non esser più) è insito nell’essere stesso dell’ora, conformemente al farsi altro di qualcosa che diviene, del cui divenire il tempo è numero. Come si è veduto, «il movimento è sempre altro e altro (alle kai alle), così anche il tem-

E. BERTI (1995, pp. 35-6) segnala che il carattere di stretta corrispondenza fra la trattazione aristotelica nella Fisica e la trattazione platonica dell’«improvvisamente», ossia dell’«istante» che è fuori dal tempo, è stata messa in evidenza da G. E. L. OWEN (1961). 98

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po è sempre altro e altro». L’esser sempre «altro e altro» del tempo è la sua natura estatica99. La natura estatica è però una natura negativa, ovvero di negazione di sé, del fatto che qualcosa è e non è sé stesso. Certo, anche riguardo agli eventi si dà differenza (negazione). Infatti, il Socrate che è seduto non è del tutto il Socrate che non è più (o ancora) seduto, ma in piedi; tuttavia l’elemento di differenza, in questo caso, non produce contraddizione perché si dà nel tempo, si disloca in tempi diversi – così almeno vogliono pensare i filosofi da Platone a Kant, e poi anche oltre. L’elemento identico è Socrate; la diversità è sì data, ma è relativa a tempi diversi. Tuttavia i tempi trascorro-

A. Giordani sottolinea la natura estatica (negativa) del tempo, affermando che il tempo «come numero del divenire kàta tò nûn pròteron kaì hýsteron è sempre differente, secondo il differenziarsi dell’unità del nûn [...]; la differenziazione del nûn è la temporalizzazione del tempo [...]: la differenziazione del nûn si fonda sulla struttura identico-differente del nûn, per cui la differenza strutturale è condizione della differenziazione [...]. Il tempo [...] non è prima come nûn per poi differenziarsi in nûn differenti, ma è in se stesso differenza del nûn in quanto nun-ek. L’essere estatico del tempo nell’estasi del nûn definisce l’orizzonte del tempo» (A. GIORDANI 1995, p. 201). Giordani tuttavia non reputa che la duplice natura, di essere identico e anche in sé stesso diverso, ovvero la natura estatica del tempo – e anzitutto dell’istante – sia contraddittoria, proprio perché c’è una diversità dei rispetti per cui l’istante è sempre identico e sempre diverso (cfr. ivi, p. 134). Ciò, nonostante Giordani tenga bene in vista l’elemento della «identità differente e la differenza dell’identico» (ivi, p. 136), propria del mutevole e dell’istante, e anche il fatto – in certo modo equivalente – che le differenze, o i differenti istanti, vadano in certo modo identificati, per cui l’un istante, che non è l’altro, diviene l’altro, altrimenti non passerebbe tempo, ma si avrebbe una serie di punti-istanti statici – e ciò, come egli riconosce, porterebbe in vari modi alla «impossibilità del divenire» (ib.). Secondo Giordani, tuttavia, «la contraddizione relativa al tempo è tolta nella misura in cui il nûn assume la funzione di medio per la predicazione di identità e alterità rispetto al tempo» (ivi, p. 107). Questo però sembra spostare la contraddizione al nûn, e perciò, egli ammette, «risulta [...] necessario dimostrare l’incontraddittorietà della stessa predicazione in relazione al nûn: bisogna dimostrare che il nûn è in sé in grado di supportare predicati contraddittori» (ib.); ma questa possibilità «è già stata posta nel momento in cui sono stati differenziati gli aspetti propri del nûn, in relazione ai quali sono stati predicati i termini “identità” e “alterità”» (ib.). Ovvero: l’«ora» è sempre identico in quanto sempre presente, ovvero in quanto c’è sempre un presente; ma sempre diverso quanto al suo essere («il nûn quanto all’ò pote òn è identico; in nûn quanto all’einai è altro» - ivi, p. 109), poiché ogni istante è diverso da un altro, precedente o successivo. Ma è proprio entro questo secondo rispetto – l’essere l’istante diverso da sé, il differenziarsi di esso da sé in sé, il sopprimersi in sé stesso, trascorrendo in un altro istante – che si costituisce la contraddizione per cui del medesimo, dell’istante, si deve dire che, essendo, non è. Certo, tutti gli istanti potrebbero essere numerati e ciò appunto confermerebbe la loro diversità. Dove dunque la contraddizione, se t1W2 ecc.? Risposta: proprio nel fatto che gli istanti si avvicendano, che l’uno diventa l’altro. Altrimenti non ci sarebbe mai flusso, trascorrimento temporale. E il fatto che l’uno divenga l’altro, che l’istante che non è ancora presente divenga presente è proprio quell’elemento della loro identità (di diversi) che produce la contraddizione. 99

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no, e il trascorrere è insisto in ogni tempo, in ogni istante di tempo (benché per Aristotele l’istante non sia davvero una parte del tempo, così come il punto non è parte della linea, anche se l’istante può essere individuato nel flusso temporale, così come un punto in una linea)100. E dell’istante non si può dire che prima è e poi non è più, e che il suo essere e non-essere (l’essere e il non-essere del medesimo istante) non producono contraddizione poiché sono relativi a tempi diversi, allo stesso modo che l’essere seduto e l’essere in piedi di Socrate stanno in tempi diversi. Non lo si può dire, perché nel caso dell’istante si renderebbe quest’ultimo qualcosa di statico, che andrebbe riferito ad un tempo ulteriore che lo facesse scorrere (come fa Platone, introducendo l’«istante» fuori dal tempo, in cui avviene il passaggio tra stati o tempi, tra parti del tempo)101. Ma con questo secondo tempo, introdotto per far avvicendare i tempistatici della prima temporalità (come i fotogrammi di una pellicola), il problema sarebbe solamente spostato: si dovrebbe infatti trovare nel presente (nella natura dei suoi istanti, del nûn) di questa (seconda) serie temporale il fatto che esso mentre è non è, poiché trascorre102. E il trascorrere è il non esser più di ciò che è – simul, nello stesso istante: mentre è. L’istante è il suo trascorrere. Ma ciò non consente più il dislocare il suo essere e non-essere in tempi diversi, così come si è fatto per i diversi stati di Socrate. Anche in Aristotele, dunque, nel suo «ora», si produce qualcosa di analogo all’«istante» di Platone, cosicché sembra dubbio che effettivamente i rispetti temporali possano sciogliere davvero la contraddizione, se è la temporalità stessa ad avere struttura contraddittoria.

100 Aristotele insiste sul fatto che l’istante non è una parte del tempo, ovvero che il tempo non si compone di istanti (cfr. Fisica IV 11 219 b 35 ss.; «il tempo non è composto da istanti, né la linea da punti, né il movimento da movimenti elementari» - Fisica VI, 10 241 a 2 ss.), e sul fatto che l’istante non è divisibile (cfr. Fisica VI 3, 233 b 34 ss.). L’istante è un limite, unendo e separando passato e futuro (è «fine del passato e inizio del futuro» - Fisica IV, 219 a 35 s., VI, 233 b 35 ss.), così come, analogamente, il punto lo è rispetto a due parti estese di una linea. Per comprendere questo senso dell’essere limite occorre approfondire la teoria aristotelica della continuità e della potenzialmente infinita divisione, ovvero dell’infinita divisibilità, che Aristotele espone principalmente in Fisica VI. Sulla concezione aristotelica del continuo e dell’infinito cfr. il recente, interessante contributo di A. MORETTO (1995), anche per le ricche ed aggiornate indicazioni bibliografiche. 101 Forse non è del tutto corretto dire che Platone immerge le parti temporali in un tempo ulteriore; ma è certo vero che di autenticamente temporale, dinamico, estatico, nella sua teoria, per come la si è prospettata qui, c’è solo l’«istante». Il tempo, inteso come fluire, si trova lì, non nei «tempi» che per mezzo dell’istante vengono fatti avvicendare. 102 Hegel, come si vedrà, esplicita questo pensiero dell’impossibilità del ricorrere a un’ulteriore serie temporale per risolvere la natura contraddittoria del «trascorrere» del tempo.

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3 3.1

DIVENIRE E TEMPO IN HEGEL

Preliminare

Hegel sostiene in generale che il divenire sia contraddizione, abbia struttura contraddittoria (antinomica), ovvero consista in una negazione dell’identità. Egli tratta della questione all’inizio della Logica, nella cosiddetta prima triade, le cui determinazioni concettuali sono l’essere, il nulla e il divenire. Egli sostiene altresì la derivabilità del divenire dalle nozioni astratte di essere e di nulla. Si tratta di una tesi su cui gli interpreti si sono a lungo confrontati, dividendosi per ragioni esegetiche e teoriche. A questo proposito vorrei sostenere le seguenti tesi. Anzitutto vorrei (1) illustrare mediante un’analisi testuale la concezione hegeliana del divenire come contraddizione genuina. Il divenire nel modo più generale, e il tempo che di esso è la forma astratta, sono contraddizioni. Lo sono in modo genuino, ovvero non sono contraddizioni apparenti dovute ad una loro concettualizzazione ancora impropria. Col divenire la contraddizione è reale. In secondo luogo, in accordo per una ragione o per l’altra con una folta schiera di interpreti, vorrei sostenere (2) che la deduzione del divenire presente nella cosiddetta prima triade non è convincente poiché è basata su un ragionamento paralogistico (proprio attenendosi ai significati dei termini posti da Hegel), come cercherò di illustrare. Questa seconda questione non smentisce in ogni caso la prima tesi: anche se la deduzione del divenire offerta nella prima triade non è cogente, resta vero che Hegel concepisce il divenire come contraddizione, al modo illustrato nelle pagine iniziali della logica. La seconda questione semmai induce a cercare altrove, nella Logica, le ragioni per il divenire dell’essere. Esse si trovano là dove Hegel illustra la natura dell’ente, la struttura della determinatezza di esso e della sua autoidentità – tanto nella dottrina cosiddetta dell’essere (nel primo libro della logica, insomma), colle nozioni di esserci ed di altro, realtà e negazione, esser-in-sé e esser-per-altro, finito e infinto, ecc.; quanto, e forse ancora più approfonditamente, nella dottrina dell’essenza (nel secondo libro), colle determinazioni della riflessione: identità, differenza, opposizione e contraddizione. Credo che queste indagini hegeliane costituiscano la vera deduzione della contingenza dell’ente, e dunque del suo divenire, per il fatto che giungono alla tesi che l’ente nel suo essere determinato è «l’altro di sé stesso», che «tutte le cose sono in sé stesse contraddittorie», ovvero che la determinatezza dell’ente è una struttura antinomica. Prima però di esporre queste tesi, illustrerò le concezioni hegeliane del movimento spaziale (locale) e del tempo. La ragione di ciò è che movimento e tempo, pur essendo nell’impianto hegeliano delle nozioni derivate rispetto al divenire nella sua massima generalità (il primo ne è un caso particolare, il secondo la forma astratta), presentano il divenire in modo tangibile, immediatamente sensibile. Inoltre fin dall’antichità sono stati dei topoi della discussione filosofica relativamente alla contraddittorietà e dunque all’ammissibilità del divenire.

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3.2

Il moto locale

Con Hegel si ha la ripresa delle tematiche del movimento e della contraddizione, in modo esplicito e centrale rispetto all’ontologia e alla logica. Egli condivide appieno l’idea che il movimento, il divenire siano contraddizione (anche se bisognerà indagare in dettaglio che cosa sia per Hegel la contraddizione). Ma non per questo egli ritiene che il movimento non sia, come invece in certo modo avevano pensato gli Eleati attenendosi strenuamente al pensiero dell’identità espresso nel divieto di Parmenide. Hegel sostiene in più luoghi la contraddittorietà del moto locale, ovvero di quel tipo di movimento che per Aristotele è paradigmatico nell’analisi del concetto di tempo. Hegel tratta della questione in modo rilevante là dove discute i paradossi di Zenone relativi al movimento – in particolare il terzo, cosiddetto «della freccia»1. Questo paradosso ci è tramandato da Simplicio, forse più accuratamente ancora che da Aristotele, al seguente modo: Il ragionamento di Zenone, assumendo che tutto ciò che è lungo uno spazio uguale a sé o si muove o è in quiete, e che nulla si muove nell’istante, e che sempre il mosso è lungo uno spazio uguale a sé in ogni istante, pare che proceda così: la freccia che si muove, che è in ogni istante lungo uno spazio uguale a sé, non si muove dal momento che nulla si muove nell’istante; ma ciò che non si muove è in quiete, dal momento che tutto si muove o è in quiete; allora la freccia che si muove finché si muove è in quiete per tutto il tempo della traslazione. Ma che c’è di più paradossale di una cosa simile?2

L’assunzione generale del ragionamento – caduta la quale, secondo Aristotele, esso perde il suo valore – è che il tempo si componga di istanti indivisibili, atomi di tempo3. Un’ulteriore assunzione, che specifica la precendente, è che l’istante non abbia durata (non è un lasso di tempo). Data una qualsiasi unità di tempo, p. es. minuti secondi, l’istante dura 0 sec. Ciò vuol dire che nell’istante la freccia, per quanto rapido possa essere il suo presunto moto, non avanza di un millimetro, giacché, per così dire, non ha tempo per muoversi. Per questo vien detto che in ciascun istante la freccia occupa un luogo equiesteso ad essa (l’istante, per usare un metafora, è come una fotografia «istantanea» in cui il movimento degli oggetti, p. es. un’auto in corsa, è «bloccato», a differenza di quelle fotografie il cui tempo di posa non è sufficientemente breve e gli oggetti in movimento paiono avere una «scia», occupare un luogo maggiore della loro estensione). Ora, prosegue il ragionamento, se nell’istante non c’è moviemento, e il tempo si compone di istanti, in nessun tempo (in nessuna delle parti del tempo) la freccia si muove. Essa dunque non si muove mai. Ma se l’oggetto non è mai in moto, non varia

1 Per una discussione delle aporie di Zenone e dell’interpretazione datane da Hegel, cfr. P. EISENHARDT (1989) e G. HEINEMANN (1989). 2 Simplicio, In Arist. Phys., 1011, 19, PS I, pp. 296-7. 3 Il paradosso è «conseguenza della tesi che il tempo è composto da istanti; se non si concede questa premessa, l’argomentazione non starà in piedi» (Fisica VI, 239 b 30 ss.). E per Aristotele il tempo non si compone affatto di istanti, come s’è accennato (cfr. supra nota 100 p. 67). Per la trattazione aristotelica delle aporie di Zenone, cfr. M. SCHRAMM (1962).

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mai la sua posizione e cioè non si muove affatto. Ciò voleva costituire, probabilmente, una riduzione all’assurdo del concetto di movimento. Questo ragionamento costituisce il pendant dei primi due paradossi – quelli del corridore che deve raggiungere il traguardo e di Achille che tenta di superare la tartaruga. In entrambi i casi, infatti, il ragionamento fa perno sul fatto che qualcosa (il corridore, Achille) deve percorrere le infinite distanze intermedie che lo separano da qualcos’altro (la meta, la tartaruga): prima la metà del tragitto, poi la metà di quello restante, poi ancora la metà di questo, e così via. Ma mentre questi ragionamenti assumono l’idea dell’infinita divisibilità di spazio e di tempo, poggiando sull’inesauribilità delle distanze intermedie ancora da percorrere (le quali, per quanto piccole, sono tuttavia infinite), quello della freccia, all’opposto, insiste sull’idea che l’infinita divisione di spazio e tempo abbia termine in elementi indivisibili: gli istanti e i punti4. Questi paradossi hanno dato luogo, nel corso dei secoli, a numerose riflessioni. Le considerazioni aristoteliche sono state a lungo ritenute paradigmatiche. In buona sostanza, esse si basano sulla contestazione della attualità dell’infinito, e, nella fattispecie, dell’attualità della infinita divisione. Il fatto che qualcosa possa essere suddiviso non significa che lo sia effettivamenente. Si tratta in questo caso di una possibilità che resta sempre tale. La matematica moderna, invece, li ha risolti facendo ricorso al calcolo infinitesimale, mostrando la convergenza di una serie infinita verso un limite. Per es., è vero che Achille deve percorrere la serie infinita delle distanze volta a volta intermedie tra la posizione già raggiunta e il traguardo – distanze che sono ciascuna la metà di quella precedentemente percorsa5 –; ma questa serie infinita di addendi di valore decrescente converge in un limite, che è appunto la distanza complessiva che separa la partenza dal traguardo; e questa distanza, nonostante possa essere infinitamente suddivisa, è finita. È questo un risultato che probabilmente si poteva stabilire anche nell’antichità, con delle disequazioni6. Nondimeno, al di là della possibilità di calcolare un tale valore, resta controverso, allora come ora, il problema di quale sia la natura dell’infinito, se potenziale (come per Aristotele7, ripreso in tempi recenti), o attuale (com’è per larga parte del pensiero matematico dopo Cantor), e se solo l’assunzione di un certo tipo di infinito consenta di non incappare nel paradosso. In ogni caso, Hegel riprende la soluzione aristotelica: «la soluzione generale che Aristotele diede [...] consiste nell’affermare che spazio e tempo non sono infinitamente divisi, ma solo divisibili» (LSF I, pp. 295-6; W 18.308). E il fatto che siano divisibili non

Cfr. C. B. BOYER (1968, p. 89); ma anche Hegel: LSF I, pp. 302-3. Per es., se il traguardo dista 100 metri, deve prima percorrere 50 metri, e poi 25, e poi 12,5 ecc. Il suo tragitto equivale dunque alla serie infinita ½+1 4+1 8+1 16+1 n ecc., con n che tende all’infinito. Il limite della serie è appunto 100. 6 Probabilmente quel che lasciava sconcertati gli antichi era il fatto che una somma di addendi in numero infinito potesse dar luogo ad un risultato finito. 7 Cfr. p. es. Fisica VIII, 8, 263 a 11 ss. Sulla concezione aristotelica del continuo e dell’infinito cfr. il già citato A. MORETTO (1995). 4 5

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significa che siano anche divisi, appunto perché la divisibilità è la possibilità della prosecuzione di un certo procedimento (di divisione o di accrescimento), e dunque una modalità, non il fatto che il procedimento sia tutto già eseguito in rebus: non è la caratteristica di una realtà. (La divisibilità è una proprietà modale degli oggetti, non una proprietà reale di essi, si potrebbe dire). Da questo punto di vista, Hegel sostiene una concezione potenziale dell’infinito, con Aristotele e con certe tendenze della matematica contemporanea (con gli Intuizionisti, ripresi anche da Wittgenstein); ma non in modo ortodosso. Infatti, il punto per lui è che nel concetto di divisibilità della grandezza (spaziale, temporale) sono contenuti due concetti che si oppongono, ovvero la continuità e la discretezza. Precisare l’esatto significato di questi concetti in Hegel è cosa complessa e per gli scopi presenti neppure necessaria; basti dire che si tratta di aspetti inseparabili della grandezza: la discretezza è il fatto che ciascun elemento è sé stesso e non un altro, è un’unità (potendo venire contato come «uno»). La continuità invece è l’eguaglianza astratta di ciascun elemento, di ciascun «uno», con ogni altro elemento. Perciò continuità e discretezza esistono «soltanto come momenti, non [...] in sé e per sé. Io posso divider la materia all’infinito, ma non posso altro che poterlo fare; effettivamente non la divido all’infinito» (ivi, p. 296; W 18.309). La ragione di ciò è che «l’infinito consiste appunto nel fatto che nessuno dei suoi momenti ha realtà. Non si giunge mai al punto che uno di essi, né il limite assoluto [la discretezza], né l’assoluta continuità, sia e si realizzi realmente, per modo che scompaia l’altro momento. Sono due assolutamente opposti, ma come momenti, cioè nel concetto semplice o nell’universale» (ivi, pp. 296-7, W 18.309). Ora, la questione che qui importa è che cosa pensi Hegel del movimento locale (e non già del continuo o dell’infinito). Egli afferma che «concepire il movimento significa esprimerne l’essenza in forma di concetto» (ivi, p. 297), ovvero, secondo la sua tesi sulla natura di spazio e tempo, «come unità della negatività e della continuità» (ib.) – laddove la negatività è lo stesso che la discretezza. Ora, se il moto è caratterizzato dallo spazio e dal tempo, e questi contengono essenzialmente negatività e continuità, esso presenta i caratteri della contraddizione, appunto perché negatività, ovvero discretezza, e continuità sono l’una la negazione dell’altra. Perciò, nel voler «concepire il movimento» si presenta la contraddizione che pertiene al tempo e allo spazio, per cui l’elemento che li compone è sé stesso, ma anche non. Questa contraddizione si configura in modo specifico relativamente al moto, ed essa è proprio ciò che Zenone aveva giustamente messo in rilievo. Per la concezione comune, ingenua, del movimento – di cui Hegel offre un’esposizione –, esso non è proprio nulla di contraddittorio: «Quando noi vogliamo in generale raffigurarci chiaramente il movimento, diciamo che il corpo è in un luogo e poi va in un altro luogo» (ivi, pp. 300-1; W 18.313). In tal modo, i rispetti temporali diversi (prima, poi) distendono la contraddizione della diversità delle determinazioni spaziali (qui, là). Ma se si isolano i luoghi così come gli istanti, allora il movimento è, per così dire, paralizzato, e ha

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dunque ragione Zenone, coll’argomento della freccia, a mostrare che esso diventa impossibile8. Il fatto è, in termini hegeliani, che questo modo di concepire il moto considera della grandezza solamente la discretezza, la negatività, senza tener conto della componente opposta ma altrettanto essenziale: la continuità. Questa concezione ingenua ancorché usuale del mutamento va dunque rivista. Pertanto, se il movimento è possibile – e lo è perché è reale9 – si deve ridurre all’assurdo non già che il movimento

È certo degno di nota che B. Russell abbia difeso il punto di vista zenoniano, avversando le soluzioni aristoteliche. Egli ha ritenuto del tutto corretta l’analisi zenoniana del mutamento, secondo la quale esso è solamente un insieme ordinato infinito e continuo di correlazioni spazio-temporali (al tempo t1 l’oggetto O occupa la posizione s1; al tempo t2 l’oggetto O occupa la posizione s2, ecc.). Il problema, semmai, è avere una buona concezione del continuo spaziale e temporale – concezione della quale gli antichi non disponevano ma che è stata raggiunta coi lavori dei grandi matematici dell’Ottocento. Afferma Russell che «Weierstrass, col bandire rigorosamente tutti gli infinitesimali, ha finalmente mostrato che noi viviamo in un mondo immutabile, e che la freccia, in ogni singolo istante del suo volo, è realmente in quiete. L’unico punto in cui Zenone probabilmente sbagliava era nell’inferire (posto che l’abbia fatto) che, non essendovi mutamento, il mondo debba rimanere nel medesimo stato tanto in un momento quanto nell’altro. Questa conseguenza non deriva assolutamente da quelle premesse e su questo punto il professore tedesco è più costruttivo dell’ingegnoso greco» (POM § 327). Per Russell – conformemente al senso dei paradossi di Zenone, ma considerandone positivamente anziché negativamente i risultati – non c’è alcuno stato di moto da parte dell’oggetto in movimento, giacché il tempo si compone di istanti e in ogni istante (che non ha parti) l’oggetto mobile, p. es. la freccia, è fermo (altrimenti sarebbe violato il principio di contraddizione). Russell discute le antinomie di Zenone anche altrove, contestando le soluzioni aristoteliche: cfr. p. es. B. RUSSELL (1914, cap. VI). È peraltro singolare che lo sviluppo della teoria dei limiti sia additato da Russell quale soluzione antiaristotelica dei paradossi zenoniani. Infatti è vero, come afferma L. L. Radice, che «Weiestrass [...] elimina dal calcolo infinitesimale ogni riferimento tanto a quantità sempre più piccole, “evanescenti” ma non nulle, gli ambigui “infinitesimi in atto”, quanto agli infiniti dati in atto» (L. L. RADICE 1981, pp. 40-1); ma d’altro canto ciò pare essere «in un certo senso il trionfo di Aristotele. Nell’ambito dell’infinito puramente potenziale viene finalmente sistemato quel calcolo che era stato senza dubbio favorito dalle “fantasie” di un Galileo e di un Leibniz» (ivi, p. 41), ovvero il calcolo cosiddetto infinitesimale. Certamente, come ricorda lo stesso Radice subito di seguito, saranno poi due allievi di Weiestrass – del «liquidatore di infinitesimi e infiniti in atto nella tecnica matematica» (ib.) –, G. Cantor e R. Dedekind, a riproporre l’infinito attuale. Cfr. sulla posizione di Russell infra nota 56 p. 107. La posizione di Russell viene discussa, da punti di vista diversi, tra gli altri da G. PRIEST (1985), (1987, cap. 12) e da N. STROBACH (1998), che critica l’autore precedente. 9 «Non si tratta di stabilire se vi sia movimento, se siffatto fenomeno vi sia; che vi sia movimento, è accertato dai sensi allo stesso modo come questi attestano l’esistenza degli elefanti» (LSF I, p. 293). Certamente, Hegel non intende muovere dalla constatazione del movimento, né nella filosofia della natura, né nella logica là dove tratta del divenire: egli pretende di dedurlo. Ma neppure nega che il movimento sia attestato dai sensi. 8

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sia, come fece Zenone, ma o (1) che la freccia sia ferma nell’istante, o (2) che l’istante sia un qualcosa di fisso, statico. Queste due opzioni sono peraltro equivalenti, trattando il medesimo problema da lati differenti. «La cosa, in quanto si muove, ha in lei stessa la sua dialettica, e il movimento è l’alienarsi da sé [Sich anders Werden]» (ivi, p. 293; W 18.305), il diventar-altro. Ma se si resta sempre eguali a sé, non si muta mai; quindi, perché vi sia mutamento, la diversità di luogo non va semplicemente riferita alla diversità dei tempi (istanti), togliendo la contraddizione del diventar altro: così si finisce col negare il mutamento, proprio come aveva indicato Zenone. All’opposto: «muoversi significa essere in questo punto e anche non esservi, e quindi essere contemporaneamente in due luoghi; in questo consiste la continuità dello spazio e del tempo, senza cui non sarebbe possibile il movimento» (ivi, p. 301; W 18.314) – laddove la continuità è la struttura di astratta identità di un’unità con un’altra unità (ovvero la diversità e non-diversità di diversi in sé eguali, se si vuole)10. «Zenone nella sua consequenzialità mantenne i due punti [di luogo, di tempo] rigorosamente uno di fronte all’altro [gegeneinandergehalten]» (ib.), ovvero si attenne alla sola diversità, al solo rapporto negativo di esclusione tra punti e istanti, senza considerare il momento opposto della continuità: «Zenone dà valore soltanto al limite, alla divisione, al momento della discrezione dello spazio e del tempo in tutta la sua determinatezza» (ib.). Da ciò discenderebbe il carattere paradossale del suo argomento. In questi ragionamenti di Hegel giuoca sicuramente un ruolo centrale la sua teoria, certo affatto particolare, della discretezza e della continuità. Ma li si comprende anche dal punto di vista di cui si diceva: se le determinazioni del movimento sono rigidamente separate nella diversità degli istanti, e questi vengono intesi come «luoghi» temporali diversi, allora non si comprende in che cosa consista il movimento, dal momento che l’essere di ciascun istante pare essere assoluto, e il tempo paralizzato. Il «passare» da uno stato all’altro è lo spostarsi dell’oggetto, ma se le posizioni dell’oggetto sono rese relative agli istanti, il movimento dell’oggetto dipende dal «passare» degli istanti, dal diventare ciascun istante un altro istante. E questo diventare l’un istante l’altro non può avvenire in momenti diversi, poiché, come si è detto, ciò significa presupporre un tempo ulteriore in cui avverrebbe questo passare di istanti – tempo ulteriore relativamente al quale si proporrebbe daccapo, immutata, la questione di che cosa voglia dire il suo trascorrere11. Perciò c’è movimento o in quanto in ciascun istante l’oggetto «si

Astratta identità qui vuol dire che due punti o istanti in sé stessi paiono del tutto identici. Un qualsiasi punto dello spazio, in quanto punto, è identico a un qualsiasi altro. Ciò è tipico di tutto ciò che Hegel chiama «quantità pura». 11 Sul rimando ad una temporalità ulteriore che faccia trascorrere gli istanti, si farà ritorno più oltre. Invece, il sospetto che l’eliminazione della contraddizione (eliminazione che per Hegel caratterizza la logica dell’«intelletto»), fissando ogni stato di mondo ad un istante, finisca col paralizzare tempo e movimento non è solo hegeliano. A detta di molti, la logica cosiddetta classica si caratterizza per l’astrazione dal tempo, nel senso che è valida per descrivere o verità in10

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temporali o situazioni sincroniche. Come ha affermato M. L. DALLA CHIARA SCABIA (1974, p. 86), «la logica formale sarebbe per sua natura incapace di cogliere il divenire del reale». Gli approcci al tempo offerti dalla logica contemporanea, infatti, sono stati o di carattere in certo modo conservatore quale quello di W. v. O. QUINE (1960), il quale ha impiegato la strategia di indicizzare il valore di verità degli enunciati ad un tempo determinato, rendendoli così eternamente veri o eternamente falsi, quasi si trattasse di enunciati matematici (p. es. parafrasando un enunciato come «Casare morì nel 44 a. C.» con l’enunciato «è atemporalmente vero dell’anno 44 a.C. che Cesare morì in questa data»). Oppure gli approcci sono stati di altro carattere, come quelli avanzati da Prior, il quale, con numerosi interventi tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60 (tra cui A. PRIOR [1967]), ha esteso il simbolismo logico inserendovi locuzioni temporali, operatori temporali («sarà vero che..», «era vero che..») non estensionali, nel senso che il valore di verità degli enunciati ottenuti col loro impiego non dipende strettamente da quello degli enunciati cui sono applicati. (Sul ciò, per alcuni ragguagli, cfr. S. HAACK [1978, pp. 187-93], C. MANGIONE, S. BOZZI [1993, pp. 727 ss.], e l’antologia curata da C. PIZZI [1975]). Come ricorda Dalla Chiara Scabia, la logica, in generale, ha impiegato la semantica dei mondi possibili di Kripke per trattare il tempo, pensando che il mutamento del mondo sia descrivibile come una serie di mondi possibili temporalmente indicizzati. Relativamente a ciò, nota la studiosa, «un problema importante delle logiche temporali riguarda il concetto di “istante” [...] mutuato dalla descrizione fisico-matematica classica dei fenomeni soggetti a mutamento e fondato sull’ipotesi di atomi di tempo (gli istanti appunto) nei quali non possono avvenire mutamenti (può valere ancora [...] il paragone della freccia di Zenone). L’applicazione kripkiana di questo punto di vista si realizza nell’ipotesi che ogni mutamento sia descrivibile attraverso un insieme di trasformazioni istantanee caratterizzate dai cambiamenti dei valori di verità delle proposizioni del linguaggio nei diversi stati di mondo Mi, dove ogni Mi [ovvero stato di mondo all’istante i], in quanto realizzazione tarskiana (bivalente) gode tanto del principio di non contraddizione [...] quanto del principio del terzo escluso» (M. L. DALLA CHIARA SCABIA 1974, p. 87). Ma proprio perché a questi approcci sembra sfuggire «il divenire del reale» – proprio perché il movimento non sta nel mondo, in nessun stato di mondo – altri (a partire da G. H. v. WRIGHT [1969]) hanno proposto di ricorrere alla nozione di «tempuscolo, inteso come un intervallo di tempo ƅW “sufficientemente breve”» (ib.), onde «descrivere una situazione di mutamento all’interno di un tempuscolo ƅW senza ricadere nella suddivisione di ƅW in atomi di tempo» (ib.). Il tempuscolo individua una «zona» temporale in cui avviene il passaggio da uno stato di mondo all’altro (da un mondo possibile a un altro mondo possibile), passaggio in cui vige un certo stato di cose ma anche non, appunto perché in esso tempuscolo si attua il passaggio dall’uno stato all’altro. In tale «zona» vige l’ipotesi che «valga simultaneamente ơ e –ơ e [che] tale zona non sia ulteriormente divisibile in due zone in cui valga definitamene ơ o –ơ. In altri termini un mutamento può implicare una contraddizione» (ivi, p. 88). Mette conto di notare che «relativamente ai mondi MƅW [ovvero agli stati di transizione] non sono più validi i principi di non contraddizione e del terzo escluso» (ib.). Mi paiono tutt’altro che superficiali le consonanze tra la proposta della logica contemporanea del «tempuscolo» come fase di transizione tra fasi «statiche» del tempo e la figura dell’«istante» del Parmenide platonico. Sulla trattazione logica contemporanea del tema del mutamento, relativamente a Hegel e alla contraddizione, va altresì menzionato l’interessante contributo di S. ROGOWSKI (1979), nonché quello di S. BERNINI (1982), sui quali ci sarà occasione di tornare. Cfr. nota successiva. 75

muove», ovvero occupa sia un certo luogo che quello successivo (tesi 1); oppure in quanto gli «istanti» (entro cui gli oggetti sarebbero «fermi») trascorrono, e cioè in quanto un istante diventa in sé stesso l’istante successivo (tesi 2). Hegel insiste in più luoghi sull’essere il concetto del movimento locale una contraddizione; non soltanto nelle Lezioni sulla storia della filosofia, ma anche in testi sicuramente di suo pugno come la Grande Logica o l’Enciclopedia. In quest’ultima si legge che «il movimento entra nell’antinomia zenoniana, che è insolubile se i luoghi vengono isolati come punti spaziali, e i momenti del tempo come punti temporali; e la soluzione dell’antinomia, cioè il movimento è da comprendere solo così, che spazio e tempo in sé sono continui, e il corpo che si muove è insieme e non è nel medesimo luogo, cioè è insieme in un altro [tesi 1], e così lo stesso punto del tempo [Zeitpunkt, istante] è e insieme non è, cioè è un altro [tesi 2]» (E § 298, aggiunta). Vale a dire, riepilogando i risultati: se le diverse posizioni dell’oggetto vengono dislocate in tempi diversi – onde fugare la contraddizione della loro inerenza al medesimo (cioè l’eventualità che un oggetto sia qui e lì tout court, simul) –, si deve tuttavia comprendere la natura negativa, estatica del tempo stesso (su cui, relativamente a Hegel, si farà ritorno in seguito), per la quale l’istante non è qualcosa che stia per sé, ma diventa in sé stesso un altro istante, mentre è (non in un tempo successivo). Oppure, se si tien dietro alla natura puntuale dell’istante, si deve comprendere che nel medesimo istante, così come nell’«istante» di Platone, qualcosa è e non è in un certo luogo, appunto perché qualcosa – o la posizione o il tempo, il «luogo temporale» cui essa viene riferita, allocata – deve pur «passare», «trascorrere», divenir altro: ma appunto divenir altro nel medesimo rispetto per cui è sé, senza più distinzione di tempi in cui è in un modo e poi in un altro. Si tratta, con tutta evidenza, di una contraddizione12. E infatti Hegel, proprio nella dottrina dell’essenza, dove discute la contraddizione, afferma essere la contraddizione

Ne afferra perfettamente il senso, mi pare, il logico S. ROGOWSKI (1979) che conferendo veste formale a certi filosofemi hegeliani dell’inizio della logica ha conseguito nel sistema così ottenuto dei teoremi che sono altrettanti capisaldi della logica hegeliana. Relativamente al movimento, egli opportunamente oppone le concezioni di Hegel e di Russell. Quest’ultimo infatti consapevolmente fu avversario della dialettica e per così dire campione della «logica dell’intelletto». Afferma Rogowski: «la concezione hegeliana del movimento e del mutamento è non statica (nel senso di B. Russell). La sua essenza consiste nel concetto dell’esistenza di mutamenti attuali e di stati di movimento. Se la teoria statica del mutamento si può interpretare (con una certa libertà) dicendo che, in base ad essa, il mondo “in realtà” è immutabile e we live in an unchanging world [POM § 327], allora la teoria non statica di Hegel è una teoria che afferma la mutabilità attuale “vera” della realtà. Secondo essa il mondo non solo è diverso in tempi diversi, ma diviene anche diverso» (S. ROGOWSKI 1979, p. 135), ovvero nel medesimo tempo si produce come diverso da sé, originando contraddizioni. Insiste infatti il logico polacco affermando che «se il principio di contraddizione ha un’interpretazione ontologica, nella quale si parla in modo sensato della non esistenza di cose che possiedono e non possiedono qualche 12

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«il principio di ogni muoversi, muoversi che non consiste se non in un esplicarsi e mostrarsi della contraddizione. Persino l’esterior moto sensibile non è che il suo esistere immediato» (SL p. 491; WL II, p. 6038-9). A quest’affermazione segue l’illustrazione di ciò in cui consiste propriamente la contraddizione del moto: qualcosa si muove, non in quanto in questo Ora è qui, e in un altro Ora è là, ma solo in quanto in un unico e medesimo Ora è qui e non è qui, in quanto in pari tempo è e non è in questo Qui. Si devono concedere agli antichi dialettici le contraddizioni ch’essi rilevavano nel moto, ma da ciò non segue che pertanto il moto non sia, sebbene anzi che il moto è la contraddizione stessa nella forma dell’esserci [daß die Bewegung der daseiende Widerspruch selbst ist]13. (SL p. 491.; WL II, p. 612-9)

A parziale conclusione di quanto sopra esposto, vorrei ribadire l’equivalenza di questa concezione hegeliana del moto quale contraddizione con l’idea platonica che il mutamento avvenga in «luogo» fuori dal tempo, nell’«istante» (exaiphnês), in cui gli stati (o tempi) mutano, e in cui perciò vengono meno i principi di non contraddizione e del terzo escluso. In un passo cui s’è già in parte fatto riferimento, Hegel afferma: quando noi vogliamo in generale raffigurarci chiaramente il movimento, diciamo che il corpo è in un luogo, e poi in un altro luogo; in quanto si muove esso non è più nel primo, ma non è neppure nel secondo; se fosse in uno dei due, sarebbe in quiete. Ma dove si trova dunque? Dire che è in mezzo ai due punti, è lo stesso che dir niente, giacché in mezzo ad essi sarebbe sempre in un posto, e risorgerebbe la stessa difficoltà. (LSF 1, p. 300-1; W 17.)

La soluzione hegeliana non è tanto la frammentazione del movimento in un’infinita pluralità di punti statici, poiché in nessuno di essi avviene il movimento14.

proprietà, allora la tesi della contraddittorietà del movimento afferma in maniera altrettanto sensato che quello che sta divenendo possiede e non possiede una qualche proprietà» (ivi, p. 136). Di recente anche altri studiosi di logica hanno ripreso il tema; dopo von G. H. v. WRIGHT (1969), cui si riferisce M. L. DALLA CHIARA SCABIA (1974), si registra un interesse per es. in G. Priest. Questi, insieme a Routley, afferma p. es., indicando nella posizione eraclitea uno dei prodromi della logica paraconsistente, che «nel cambiamento [...] c’è in ogni fase un momento in cui quel che muta è in entrambe le cose: in un dato stato, giacché esso l’ha appena raggiunto, ma anche non è in quello stato, poiché non è in condizione di stasi bensì di mutamento attraverso ed oltre quello stato» (G. PRIEST, R. ROUTLEY, J. NORMAN [a cura di] 1989, p. 7). Priest in un suo precedente libro aveva peraltro distinto la concezione cinematica del movimento – quella appunto che consiste nella mera coordinazione dei luoghi agli istanti (attribuita a Russell) – dalla propria, argomentando in vario modo che la concezione cinematica non rende in alcun modo ragione del movimento, prestando il fianco alle obbiezioni di Zenone, in particolare all’argomento della freccia (G. PRIEST 1987, p. 217 e passim). La concezione cinematica rende impossibile il moviemento; per ovviare a ciò si deve ammettere, con Hegel, che il movimento sia contraddittorio. 13 Der daseiende Widerspruch vuol dire: la contraddizione che c’è, che esiste, esistente. Così come possono esistere cento talleri. 14 Hegel con quelle parole anticipa il pensiero di quei logici contemporanei che fanno ricorso alla nozione di «tempuscolo» quale «zona» della serie temporale, in cui il mondo non è rigidamente determinato negli stati di cose, e che non è riducibile a presunti stati di cose intermedi rigidamente determinati. Il tema del movimento e più in generale del divenire in Hegel è stato 77

Quest’ultimo, invece, come s’è detto, «significa essere in questo punto e anche non esservi, e quindi esser contemporaneamente in due luoghi» (ib.): si tratta di una figura del tutto simile a quella dell’«istante» platonico. La concezione hegeliana del movimento ha poi delle consonanze con l’idea aristotelica dell’estaticità del tempo, per la quale l’«ora» si fa sempre altro da sé. Questa convergenza di concezioni15, per cui non si danno mutamento e tempo se non come contraddizioni, si dispone frontalmente rispetto all’idea tradizionale che il tempo stesso tolga, risolva la contraddizione del mutamento, la serie temporale dislocando nelle sue diverse parti le opposte determinazioni di una cosa. 3.3

Il divenire quale contraddizione

Dopo aver considerato la concezione hegeliana del moto, riproducente le aporie degli antichi, ci si può ora volgere alla più generale idea di divenire, del quale il moto locale è solamente un caso particolare. Il divenire, il Werden, costituisce la terza categoria della Logica hegeliana, quella che chiude la triade iniziante con l’essere e il nulla. Qui vorrei illustrare, contestualmente, le due tesi seguenti: 1) che Hegel concepisce il divenire come la contraddittoria identità di essere e non-essere; e 2) che la derivazione del divenire, che si presume attuata con la prima triade, non è cogente, ma paralogistica. Questa seconda tesi non smentisce la prima, nel senso che anche se quella deduzione non è valida, nondimeno il divenire è per Hegel una contraddizione. 3.4

L’inizio logico quale identità di identici: il puro essere

Il divenire si affaccia nella logica hegeliana quale il risultato delle prime due categorie, dell’essere e del nulla; esso è dunque parte integrante di quel problematico inizio della logica hegeliana su cui è ora opportuno soffermarsi, per l’implesso di questioni che ne derivano16. Com’è noto, Hegel richiede che la scienza filosofica non abbia al-

oggetto di rigorosa trattazione logica da parte di S. ROGOWSKI (1979, pp. 127- 49; specificamente sulle aporie di Zenone e la trattazione hegeliana, cfr. pp. 139 ss.). 15 Su questa convergenza si farà ritorno. La richiama anche un attento studioso della tematica del tempo, L. RUGGIU (2002, p. 178). Sulla contraddizione hegeliana del movimento e le tematiche platoniche, cfr. anche F. CHIEREGHIN (2001). 16 La prima triade della logica hegeliana è stata oggetto di innumeri discussioni e scritti, specialmente in Italia. Oltre ai testi monografici, di impostazione storica e teorica, si trovano importanti riflessioni e prese di posizione anche in scritti di ispirazione più ampia dedicati a Hegel, all’idealismo o al pensiero metafisico in generale. Senza in alcun modo propormi di farne una rassegna ragionata, rammento qui i contributi – significativi per le proposte teoriche o per lo scrupolo esegetico – di D. HENRICH (1964); J. BIARD, D. BUVAT et al., (1981-83), I pp. 3361; W. WIELAND (1973); D. ALEKSANDROWICZ (1975); M. THEUNISSEN (1980, part. cap. II); Th. KESSELRING (1981), D. WANDSCHNEIDER (1995, part. cap. III), L. LUGARINI (1998, pp. 78

cun presupposto. Infatti, quel che sta a fondamento di ogni altra scienza non può presupporre nulla: né il proprio contenuto, né un qualsivoglia metodo di indagine. Infatti, se vi fosse un qualche dato iniziale – un assioma, un contenuto tratto in qualche modo dall’esperienza – varrebbe il seguente dilemma: o quel dato iniziale è fatto valere senz’altro, senz’alcuna giustificazione, in modo immediato; oppure con una qualche ragione, in modo mediato. Nel primo caso l’intera scienza dipende da un presupposto ingiustificato – giacché per Hegel è falso che ci siano contenuti immediati, tali per cui non ci sia bisogno di mediazione, giustificazione17. Nel secondo caso sembrerebbe esserci una scienza anteriore, capace di stabilire quale debba essere il fondamento di tutto; ma allora il problema dell’inizio è solamente spostato a ciò che costituisce il fondamento di questa scienza più originaria, del quale bisognerà a sua volta render conto. Oppure, sempre nel secondo caso, bisogna svolgere il percorso logico per intero, andando alla ricerca delle ragioni, del fondamento dell’inizio, senza già presupporlo – la qual cosa è quel che in un certo senso fa Hegel con la sua logica, la quale solo nel risultato addiviene al fondamento. È questo un tema molto noto e dibattuto, riguardante le esigenze, i propositi e i presupposti della Logica hegeliana. Ma qui una tale questione interessa marginalmente, per il solo fatto che Hegel la risolve affermando che l’inizio della logica non può essere altro che la nozione del puro essere. La quale poi coincide con quella presunta opposta di puro nulla, e entrambe si risolvono in quella di divenire. Le ragioni per iniziare con l’essere sono, riferite assai brevemente, le seguenti. Dal dilemma dell’inizio (del cominciamento, come si dice in gergo hegeliano) – e cioè se esso sia fatto valere immediatamente, come un presupposto ingiustificato, o mediatamente, a ragion veduta – si esce in un certo senso attenendosi all’aporia medesima, assumendo come inizio il concetto stesso dell’assoluta assenza di contenuto, della mancanza di ogni determinazione. [I]l cominciamento dev’essere un cominciamento assoluto [...]. Non può così presupporre nulla, non deve esser mediato da nulla, né avere alcuna ragion d’essere. Anzi dev’esser esso stesso la ragione d’essere o il fondamento di tutta la scienza. Dev’esser quindi semplicemente un immediato, o, meglio, soltanto l’immediato stesso. Come non può avere una determinazione di fronte ad altro, così non può nemmeno avere alcuna determinazione in sé, non può racchiudere alcun contenuto, perché una tal determinazione o contenuto sarebbe una distinzione e un riferirsi di diversi l’uno dall’altro, e perciò una mediazione. Il cominciamento è dunque il puro essere. (SL 57; WL I, pp. 5831-592).

Ciò con cui propriamente inizia la logica è dunque la nozione dell’«immediato stesso», il cui contenuto logico è il puro essere. Questa nozione giuoca un ruolo fondamentale

143 ss.); F. CHIEREGHIN (2000), con ampia ed aggiornata bibliografia. Al tema dell’inizio è dedicata la ricognizione complessiva di G. MOVIA (1986-87) e (2000a), in cui si trovano precisi ed abbondanti riferimenti bibliografici. Per il particolare rilievo che l’interpretazione e la valutazione teoretica dell’incipit della logica hegeliana ha avuto sulla filosofia italiana, in particolare su quella idealistica, cfr. V. VITIELLO (2003). 17 Cfr. F. PERELDA (2003, pp. 380 ss.). 79

nella presunta deduzione hegeliana del divenire; perciò è opportuno precisarne il significato. Anzitutto, dell’indeterminato si danno molteplici figure (sia all’inizio della Logica che nel seguito): il «sapere puro» (SL p. 55; WL I, p. 5816-17), il «pensare come tale» (ib.), il puro Io nella sua autoeguaglianza (Io=Io)18, «l’indifferenza o identità assoluta» (E § 86 n.), il «puro, vuoto intuire stesso» (SL p. 70) o il «vuoto pensare» (ib.). Nonostante questa relativa varietà di figure, ciascuna di esse ha per contenuto logico il puro essere: «l’essere è il primo pensiero puro, e ogni altro termine, poi, con cui si voglia cominciare (sia l’Io=Io, l’indifferenza assoluta o Dio stesso) è [...], quanto al suo contenuto di pensiero, [...] proprio soltanto l’essere» (E § 86 agg. 2, p. 262; W 8.185-6). Un tema particolare è poi il rapporto tra puro pensare e puro essere. Questo rapporto è l’anello di raccordo (invero assai problematico) della Logica speculativa con la Fenomenologia19. Hegel sa perfettamente che il puro essere nonostante l’assoluta semplicità non è una nozione immediata per la coscienza; anzi, si deve percorrere l’intero cammino descritto nella Fenomenologia per innalzarsi al sapere assoluto, al «concetto della scienza» (SL p. 29-30; WL I, p. 328), ossia a quella forma di sapere che ha consapevolezza intorno alla propria oggettività, e il cui contenuto logico è l’identità ancora del tutto vuota di pensiero ed essere. Anche Fichte, che inizia con l’autoidentità dell’Io, inizia in verità con una nozione speciale di Io sconosciuta alla coscienza empirica ed esito di un processo riflessivo ed astraente, in un certo senso analogo a quello del cammino fenomenologico. Anche Fichte, dunque, secondo Hegel, inizia in verità col pensiero puro20: Se l’Io=Io o anche l’intuizione intellettuale vengono veramente presi come ciò che soltanto può esser primo, in questa prima e pura immediatezza non vi è altro che l’essere, così come, viceversa, l’essere puro, una volta considerato non più come questo essere astratto, ma come l’essere che contiene in sé la mediazione, è il puro pensiero o intuizione pura. (E § 86 n.)

Cfr. SL pp. 62 ss., E § 86 n. Per l’importanza del tema e la ricchezza delle implicazioni storiche e speculative rimando all’agile scritto di V. VITIELLO (1990), che tratta la questione con particolare riferimento alla posizione di Bertrando Spaventa; inoltre cfr. ID. (1997) e (2003). Qust’ultimo tratta della ricezione e discussione dell’hegelismo in Italia, dedicando ampio spazio alla questione dell’inizio e del rapporto tra fenomenologia e logica. Cfr. inoltre L. LUGARINI (1998, pp. 113 ss.), il quale mette in luce i ripensamenti hegeliani (cfr. part. ivi, p. 133) – intercorsi tra la prima edizione della logica e la sua revisione, rimasta incompiuta – relativi alla questione se l’autentico inizio sia il puro essere o invece il concetto stesso (il puro pensiero), con un significativo spostamento del baricentro della logica hegeliana, sbilanciata dalla parte del concetto. Peraltro, già H. MARCUSE (1932, pp. 50-1), richiamandosi alla Fenomenologia, aveva indicato essere l’inizio della logica, più che il puro essere, la pura categoria, ovvero, in termini kantiani, l’appercezione trascendentale. 20 Cfr. SL pp. 62-4, in cui Hegel afferma essere l’Io di Fichte non «l’Io ordinario della nostra coscienza» (ivi, p. 63; WL I, p. 665), ma l’«Io astratto» (ib.), prodotto mediante il «sollevamento alla posizione del sapere puro» (ib.) 18 19

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Vale a dire: quando il pensiero considera sé medesimo, senza pensare nulla, e considera questa propria vuota autoidentità, esso pensa la vuota indeterminatezza dell’essere. E questa è poi lo stesso che la nozione del tutto astratta di cosa in sé21, ovvero dell’ente spogliato di ogni determinazione qualitativa, quantitativa, categoriale in generale: del qualcosa non resta che il suo puro essere, di cui non si può dir nulla (poiché non c’è nulla da dire)22. Il puro essere non è dunque l’essere concreto delle cose (che pure certamente sono); non si declina al plurale (non è un essere nel senso invece in cui un tavolo, un uomo sono degli esseri); non è l’essere di qualcosa. Il puro essere non ammette molteplicità, distinzione interna o esterna (diversità entro o oltre sé). L’essere «è l’immediato, l’ancora assolutamente indeterminato» (SL p. 85; WL I, p. 8721-2). Questa nozione di immediatezza, di puro essere, è quella soggiacente al più rigido monismo, per il quale non esiste che un’unica sostanza del tutto indeterminata – come avviene in Parmenide o in Spinoza, secondo Hegel. «Essere, puro essere, – senza nessun’altra determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è simile soltanto a sé stesso [...]; non ha alcuna diversità né dentro di sé, né all’esterno» (SL p. 70; WL I, p. 7122-26). Hegel precisa che questa nozione non è neppure prodotta per astrazione rispetto alle molteplici determinazioni, considerando il loro comune essere e prescindendo dalla specificità di ciascuna – al modo con cui Tommaso aveva pensato la nozione di ens communis. La nozione di indeterminato quale il prodotto di un’astrazione dalle determinazioni si affaccia solo nella dottrina dell’essenza; qui invece si ha a che fare con una nozione di indeterminato che dovrebbe persino precedere la comparsa della nozione di determinazione: ciò che è privo di determinazioni, come appunto il termine iniziale con cui abbiamo a che fare, è l’immediato, non è l’assenza di determinazioni, è l’assenza di determinazioni anteriore ad ogni determinatezza, è ciò che è privo di determinazioni come termine primissimo. Ma noi chiamiamo questo temine l’essere. L’essere di cui qui si parla non è qualcosa di cui si possa avere sensazione, intuizione o rappresentazione, ma è il pensiero puro, e, come tale, costituisce l’inizio. Anche l’essenza è qualcosa privo di determinazioni, ma è quel privo di determinazioni che include già in sé la determinazione come qualcosa di superato, proprio in quanto è passato attraverso la mediazione. (E § 86, agg. 1; W 8.184)

Comunque, nonostante questa precisazione – quasi una sottigliezza, sorretta dalla speciale impalcatura della Logica hegeliana e dalle distinzioni tra le sue parti o «sfere» – Hegel afferma che «il risultato dell’astrazione da tutto ciò che è, è anzitutto l’astratto essere, l’essere in generale» (SL p. 91; WL I, p. 936-7). La mancanza di distinzione dell’essere (entro ed oltre esso) lo assimila alla pura, astratta identità senza alcuna differenza, giacché nell’assoluta indistinzione non c’è diversità (la qual cosa è una tautologia), e, mancando questa, non si ha altro che il tentativo di pensare la vuota identità

Cfr. E § 87. La cosa in sé è inconoscibile non perché non abbiamo le risorse per conoscerla, ma perché nell’astratta nozione delle cose private di ogni loro determinazione è ovvio che non ci sia alcuna determinazione da conoscere. Cfr. F. PERELDA (2003, p. 335 n.). 21 22

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con sé dell’indeterminazione. In più luoghi Hegel ribadisce che col puro essere si pensa solamente una vuota identità. A dire il vero, l’identità è una figura relazionale (in termini hegeliani: riflessiva) che perciò trova posto nella cosiddetta sfera dell’essenza (molte pagine dopo); ma per l’omologia tra le «sfere» della logica hegeliana (essere, essenza, concetto), che ripercorrono lo stesso cammino più volte, a livelli logici differenti, si può ben dire che il puro essere corrisponde alla pura identità, e viceversa23. Questa corrispondenza è così serrata che la categoria della pura identità si trova proprio nel pensiero con cui la storia della filosofia autenticamente s’inizia (secondo Hegel), ovvero nell’Eleatismo, e nel monismo parmenideo in particolare. Hegel infatti, com’è noto, sostiene una corrispondenza tra lo sviluppo storico e quello logico della filosofia, di modo che all’inizio logico non può che far riscontro l’inizio storico. Scrive Hegel che «quello che è il primo nella scienza, si dové mostrare storicamente come il primo. E come primo del sapere del pensiero dobbiamo noi riguardare l’uno o l’essere eleatici» (SL p. 78; WL I, p. 7930-2). «Furono gli Eleati i primi ad enunciare il semplice pensiero del puro essere, soprattutto Parmenide» (SL pp. 71-2)24. Ma appunto per Hegel il principio sotteso al monismo parmenideo o spinoziano (panteistico) è «l’identità astratta» (SL p. 73; WL I, p. 7428), l’identità che prescinde dalla differenza, originando appunto la «veduta filosofica, per cui vale come un principio che l’essere è soltanto essere e il nulla soltanto nulla» (SL p. 73; WL I, p 742629), e che «merita il nome di sistema dell’identità» (ib.). L’inizio storico della filosofia testimonia la corrispondenza tra puro essere e pura identità. Sulla posizione di Parmenide, rispetto a queste analisi hegeliane, ci sarà occasione di tornare. 3.5

Il nulla

Nell’essere affatto indeterminato, s’è detto, non è possibile distinguere nulla: non è l’essere dell’ente determinato, molteplice; bensì puro essere. A rigore, dunque, in esso, con esso, non c’è nulla, e perciò Hegel afferma l’equivalenza tra ciò che questa nozione di essere esprime, e quel che esprime la nozione, solo apparentemente opposta, di nulla, di Nichts: Nulla, il puro nulla. È semplice eguaglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto; indistinzione in se stesso. [...] [I]l nulla [...] è lo stesso vuoto intuire o pensare, quel medesimo vuoto intuire e pensare ch’era il puro essere. – Il nulla è così la stessa determinazione o meglio assenza di determinazione, e dunque in generale lo stesso, che il puro essere. (SL p. 70; WL I p. 725-18)

23 «L’identità è dapprima quello che antecedentemente avevamo come essere» (E § 115, agg. p. 313) 24 Molto chiara la precisazione che si legge nell’aggiunta all’Enciclopedia: «l’inizio della logica è identico a quello della storia vera e propria della filosofia. Tale inizio lo troviamo nella filosofia eleatica e, più precisamente, nella filosofia di Parmenide, che intende l’assoluto come l’essere quando dice: soltanto l’essere è, e il nulla non è» (E § 86 agg. 2, p. 261; W 8.185).

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Quest’identità di essere e nulla è stata infinitamente commentata; mi pare però che il modo più semplice per intenderla sia pensare che essere e nulla come indeterminati sono espressioni sinonime, significanti l’assoluta mancanza di contenuto (anche se in modo forse un po’ differente). Quest’interpretazione è tra l’altro confermata, mi pare, da quel che Hegel afferma subito dopo: «il puro essere e il puro nulla son dunque lo stesso. Il vero non è l’essere né il nulla, ma che l’essere, – non passa, – ma è passato, nel nulla, e il nulla nell’essere» (SL p. 71; WL I, p. 7220-23). Essere e nulla sono lo stesso poiché significano il medesimo: la pura indistinzione, presa positivamente col primo (con l’essere, assimilabile, nonostante tutto, all’ens communis), e presa negativamente col secondo (col nulla, assimilabile al nihil privativum di cui Kant parla nella Ragion pura25 riprendendo una distinzione invalsa nel razionalismo moderno tedesco26). E il fatto che l’una non già trapassi, ma sia già trapassata nell’altra significa appunto che esse designano il medesimo, e che tra di esse il passaggio è del tutto ovvio, analitico27; significa che, in un certo senso, non c’è affatto un passaggio – se per esso si intende un’effettiva mediazione, ovvero il passaggio ad altro28: l’essere è proprio ciò che è assolutamente privo di determinazioni, e anche il nulla è la medesima assenza di determinazioni. La loro distinzione è quindi soltanto una distinzione opinata [gemeinter], la distinzione del tutto astratta che, allo stesso tempo, non è una distinzione. [...] Nel caso dell’essere e del nulla la loro distinzione consiste nella sua mancanza di un punto d’appoggio [Bodenlosigkeit], e proprio perciò non è una distinzione, perché entrambe le determinazioni sono qui la medesima mancanza di un punto di appoggio». (E § 87, agg., pp. 263-4; W 8.187)

3.6

Identità di identici

Si chiarisce allora un punto fondamentale, su cui convergono larga parte dei richiami fatti in precedenza: l’identità di essere e nulla prospettata da Hegel all’inizio della logica non è l’identità di opposti¸ma l’identità di identici: «la loro distinzione è [...] soltanto [...] opinata, la distinzione del tutto astratta che [...] non è una distinzione». La ragione per cui Hegel sostiene quell’identità – a questo punto solo apparentemente paradossale – è appunto che i suoi termini, rappresentando entrambi la figura dell’indeterminatezza, designano il medesimo: «la medesima assenza di determinazioni», «la medesima mancanza di un punto di appoggio».

Si tratta di una nota all’appendice, dedicata ai concetti anfibolici, dell’analitica trascendentale. Cfr. CRP p. 281 s. 26 Cfr. Th. KOBUSCH, autore della voce Nichts, Nichtseindes, in J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di), (1984), vol. 6, coll. 812-3. 27 Cfr. E § 87 n. 28 «La mediazione è un dare inizio e un essere avanzati fino a un secondo termine, in modo che questo secondo termine è soltanto in quanto si è giunti ad esso, movendo da un termine che nei suoi riguardi è altro» (E § 12). 25

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Mette conto di notare che quest’inizio con l’essere (o, se si preferisce, con il nulla – in generale: con l’indeterminato) non vuol dire che un siffatto essere ci sia. Anzi, le nozioni di essere e nulla, proprio a cagione dell’indeterminatezza significata, non possono che essere astrazioni, enti di ragione29. Esse perciò manifestano una profonda instabilità (aporeticità), non appena vengono fatte valere assolutamente, come avviene all’inizio della logica; e sono proprio queste contraddizioni a promuovere l’avanzamento logico. Il quale da un lato sancisce la non verità di quelle nozioni per sé prese, smentendo la definizione che l’essere (il tutto) sia solamente puro essere30; e dall’altro indica la loro astrattezza, ovvero il fatto che esse, lungi dal valere per sé, vanno comprese sulla base di altro. L’essere va definito altrimenti che come puro essere; va compreso piuttosto come essere determinato. La ragione dell’avanzamento oltre l’indeterminato è fondamentale. Essa – considerata ad ampio raggio, un poco discostandosi dal dettato hegeliano – consiste in una specie di contraddizione performativa tra il contenuto e la forma di quelle nozioni. Il loro contenuto, infatti, è la nozione di indeterminato, di indistinzione. Ma esse in tanto l’esprimono, in quanto lo determinano, l’esprimono determinatamente – ovvero in quanto esse sono quel contenuto e non un’altra cosa. In particolare, esse non sono la nozione opposta di determinatezza. Perciò, da un punto di vista formale, anche la nozione di indeterminato o di puro essere presuppone, esige la distinzione tra concetti, nozioni, enti – e dunque la determinatezza dell’essere. Solo in quanto così distinta e determinata, la nozione di indeterminato è quel che è. Si ritrova questo ragionamento quando Hegel afferma che i risultati dell’astrazione (il puro io, il puro essere, la vuota indistinta identità) «sono espressamente determinati come indeterminati, ciò che, per tornare alla forma sua più semplice, è l’essere. Ma appunto questa indeterminatezza è quel che costituisce la determinatezza dell’essere [puro]. Poiché l’indeterminatezza è opposta alla determinatezza» (SL p. 90; WL I, p. 9133-38). Certo, il puro essere è l’essere indeterminato, non altro: non un televisore, non un numero primo, non lo spirito assoluto. È determinato come l’indeterminato e ciò lo

«È questa indeterminatezza o negazione astratta, che l’essere ha così in se stesso, ciò che la riflessione tanto esterna quanto interna enuncia, in quanto pone l’essere come eguale al nulla, ossia lo dichiara un vuoto “ente di ragione”» (SL p. 90). 30 Hegel in più luoghi afferma che a ciascuna categoria può esser fatto corrispondere una proposizione che ha per soggetto l’intero e per predicato la categoria stessa. Senza pretese di completezza, menziono i seguenti: «l’essere stesso, altrettanto come le successive determinazioni non solo dell’essere, ma le determinazioni logiche in generale, possono essere considerati come le definizioni dell’assoluto» (E § 85). Cfr. anche la dottrina dell’essenza in cui si legge tra l’altro che «l’essere, l’essere determinato etc. sono come determinazioni logiche in generale altrettanti predicati di tutto. Secondo la sua etimologia e secondo la definizione di Aristotele la categoria è quello che si dice o si afferma di ciò che è». (SL p. 455; WL II, p. 2512-16). Ancora nell’Enciclopedia si trova l’esplicita annotazione che «i diversi gradi dell’idea logica possono essere considerati come una serie di definizioni dell’assoluto» (E § 160, agg., p. 379). 29

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rende distinto da qualsiasi altra cosa – in particolare dalla nozione di determinazione, di essere determinato. Esso è dunque l’indeterminato in quanto è determinato, e ciò (sotto certe condizioni) è una contraddizione. Questa, per essere risolta, smentisce trascendentalmente la premessa ond’è derivata, ovvero l’idea che l’essere, la realtà siano indeterminati; che l’indeterminatezza possa essere la natura dell’essere. La rettifica, infatti, consiste nel concepire da un lato la determinatezza quale natura universale dell’essere (appunto perché tutto è determinato, anche l’opposto del determinato), e dall’altro l’indeterminatezza quale una nozione astratta (un ente di ragione), che si ottiene quando dall’essere determinato (dall’ente) si prescinde dalla sua determinatezza31. L’essere puro è – si potrebbe dire con altro gergo – una nota caratteristica della più concreta nozione di essere-determinato (di ente), analogamente al caso della nozione di animale rispetto a quella di cane e gatto. E allo stesso modo che non esistono animali non specificati (ogni animale è un gatto o uno struzzo o una formica, ecc.), così non c’è l’essere indeterminato (se non appunto come nozione astratta, ente di ragione). Questo passaggio dall’essere alla sua determinatezza è cruciale perché rappresenta la ragione puramente logica, a priori, del passaggio da un’ontologia monistica a una pluralistica, ovvero, in termini storici, da Parmenide al pluralismo degli atomisti, e di Platone e Aristotele. Hegel svolge dunque una confutazione del monismo assoluto analoga a quella condotta da Platone nel Parmenide e nel Sofista, e da Aristotele nei primi libri di Fisica e Metafisica. Ora, Hegel com’è noto, e come si vedrà in seguito più in dettaglio, pensa che l’identità di essere e nulla sia il divenire. Ma nell’identità dell’essere e del nulla indeterminati, prospettata all’inizio della logica, la figura del divenire non può trovare alcuno spazio. Infatti, il divenire presuppone la differenza tra un inizio e un risultato. Qualcosa diventa qualcos’altro, mentre ciò che resta sé stesso non diviene. Per es.: non costituisce un divenire il diventar saggio da parte di un saggio. Ora, il divenire, in questo inizio logico, dovrebbe essere il passaggio tra l’essere e la sua negazione. Ma se l’uno e l’altra sono indeterminati, sono identici (è proprio questa la tesi hegeliana), essi non possono costituire i termini differenti di inizio e di risultato che il divenire come tale presuppone. Se infatti l’essere diventa non-essere, ma il non essere non differisce dall’essere, allora il diventar non-essere da parte dell’essere non è un diventare altro da ciò che l’essere già era. E quindi questo divenire è solamente apparente, presunto. Inesistente. D’altra parte, il problema non è lessicale. Infatti, una volta compreso che il nulla indeterminato non può rivestire il ruolo di risultato del divenire dell’essere, essendo la stessa cosa del diveniente, non si tratta di cercare quale altra cosa possa mai essere questo risultato, che cosa sia l’essere una volta che è divenuto, e quale nome possa avere, diverso da quello di «non-essere». Questa ricerca non ha alcun senso proprio perché, se l’essere è indeterminato, non c’è alcuna differenza in assoluto (non c’è la

31

Tra i molti scritti, cfr. L. LUGARINI (1998, pp. 150 ss.), nonché F. PERELDA (2003, p. 556

ss.). 85

struttura del differire), e dunque neppure quella differenza, strutturale al divenire, tra inizio e risultato, comunque li si voglia concepire (essere, non-essere; qualcosa, qualcos’altro) e comunque li si voglia chiamare. Per questa ragione l’identità di essere e nulla prospettata all’inizio della logica non è il divenire. 3.7 La rappresentazione dell’inizio: il divenire quale contraddizione assoluta D’altra parte Hegel non concepisce davvero il divenire come identità di identici. Anche per Hegel, infatti, il divenire è il diventare altro. Anzi, egli pensa a tal punto che il divenire sia diventar altro, da ritenere che esso abbia una struttura autenticamente contraddittoria. Questa viene delineata già in un significativo preambolo alla Grande logica in cui si analizza la nozione di inizio, di cominciamento (Anfang). Il contesto è la replica di Hegel ad alcune possibili critiche all’identità di essere e nulla. Egli invita i suoi critici a iniziare, se lo preferiscono, anzi che con quell’identità, con la nozione stessa di inizio, di cominciamento (Anfang), e a farne un’analisi. Hegel cioè chiede: che cosa vuol dire, in generale, cominciare, avere inizio, anche per la coscienza pre-filosofica? La risposta a questa domanda, promette Hegel, metterà in luce che l’inizio racchiude proprio quell’identità di essere e nulla che veniva criticata, sicché questi avversari dovranno ricredersi, ammettendo per valido l’inizio hegeliano. Qui, per le presenti indagini, non importa tanto considerare se questo modo di procedere sia una via percorribile per iniziare la scienza o soltanto un’arguzia di Hegel. Interessa piuttosto mettere in luce che proprio secondo le analisi di Hegel la nozione di divenire (seppure nella forma specifica dell’avere inizio, del cominciare) è una struttura che identifica essere e nulla intesi come opposti, e dunque una struttura contraddittoria. Ciò probabilmente non porta acqua al mulino dell’incipt hegeliano della logica, come Hegel invece pretende. È vero, infatti, che l’analisi della nozione di inizio, di cominciare ad essere, mette in luce l’identità dell’essere col nulla, ma non quale quell’identità di identici in cui consiste l’incipit della Logica; bensì quale identità (contraddittoria) di diversi – come pure lo stesso Hegel riconosce. Anche per Hegel, infatti, come si vedrà tra breve, il divenire – e l’avere inizio, il cominciare ad essere, è un tipo di divenire, opposto al cessare di essere (Hegel, conformemente alla tradizione, chiama l’uno il sorgere e l’altro il perire) – ebbene, anche per Hegel il divenire presuppone la variazione di quel che è, il passaggio dall’essere al non-essere o viceversa – intesi però non quali vuote indeterminatezze, bensì quali essere e non-essere determinati e perciò affatto opposti. Se l’essere e il non-essere coinvolti nel divenire non fossero differenti, cominciamento e risultato sarebbero identici e non ci sarebbe alcun divenire. Da qui il sospetto che la deduzione hegeliana del divenire entro la prima triade sia paralogistica.

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3.8

Identità di opposti

Veniamo all’analisi hegeliana. Hegel muove dall’assunzione della «rappresentazione di un semplice cominciamento come tale. Si tratta dunque solo di vedere che cosa abbiamo noi in questa rappresentazione» (SL p. 59; WL I, p. 634-7). Anticipando l’esito di questa ricognizione, si può dire quanto segue. Per prima cosa, l’iniziare ad essere da parte di qualcosa presuppone, come si è già detto, la diversità tra il non-essere del qualcosa: il non-essere e l’essere della cosa non possono essere identici. L’afferma Hegel apertis verbis: «l’uno non è quello che è l’altro» (E § 88 n. 1). Se lo fossero, sarebbe lo stesso che una cosa sia o non sia, che io esista o meno, che questa casa stia in piedi o crolli, ecc. Certo, si potrebbe ammettere un tale caso se per es., per un malinteso linguistico, l’essere (di qualcosa) designasse lo stesso che il non-essere, o viceversa; in ogni caso, impiegando i termini in questo modo, non si potrebbe più descrivere la situazione in cui qualcosa inizia effettivamente ad essere. Pertanto, se si vuol concepire e descrivere il divenire, si deve riconoscere ed esprimere linguisticamente la differenza tra essere e non-essere, «la loro completa diversità [daß sie schlechthin verschieden sind]» (E § 88 n. 1). Inoltre, per seconda cosa, oltre alla diversità dell’essere e del non-essere (di qualcosa, di ciò che inizia o cessa di essere), deve ammettersi anche la loro identità nel «punto» (SL p. 72; WL I, p. 7416) – o, platonicamente, nell’«istante» – in cui ha «luogo» il cominciare ad essere (o il cessare di essere) da parte di qualcosa. Giacché, se l’essere o il non-essere di qualcosa restassero sempre tali e non passassero mai nell’opposto, non diventassero l’opposto, non si facessero mai identici all’opposto – se, nel caso dell’iniziare, il non-essere non si facesse mai identico all’essere –, allora non avverrebbe mai alcun mutamento. Nulla comincerebbe ad essere. È sin d’ora chiaro che l’identità di essere e non-essere che il divenire comporta è l’identità non di termini sinonimi, quali invece sono l’essere e il nulla astratti, ma di termini diversi, opposti e contraddittori. Perciò l’identità in cui il divenire consiste – attraverso cui il divenire passa e si realizza – è una negazione dell’identità: è la negazione di quell’identità per la quale l’essere è l’essere e non è il non-essere, un tavolo è un tavolo e non uno sgabello, e l’esistenza di un tavolo non è eguale alla situazione in cui quel tavolo non c’è, non esiste affatto. Quell’identità di cui consiste il divenire è la negazione dell’identità sancita dal divieto di Parmenide, insomma. Inoltre, il divenire nel suo complesso consiste di una contraddizione ancora maggiore, quella che da un lato afferma la diversità di essere e non-essere, giacché senza quest’ultima non si può avere passaggio ad altro; e dall’altro la nega, poiché il «passaggio» è proprio il prodursi dell’identità tra l’essere e il non-essere, tra uno stato e l’altro. Dopo queste anticipazioni sugli esiti della ricognizione hegeliana intorno a ciò che si ha in mente colla nozione di cominciamento, sarà agevole seguire le riflessioni hegeliane.

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3.9

Essere e nulla determinati

Una prima descrizione del cominciare, dell’iniziare, è da Hegel fatta al modo seguente: «nulla è ancora, e qualcosa deve divenire. Il cominciamento non è il puro nulla, ma un nulla da cui deve uscire qualcosa. Dunque anche nel cominciamento è già contenuto l’essere» (SL p. 59; WL I, p. 638-11). Il proposito di Hegel è evidentemente mostrare che con la nozione di inizio si hanno sia l’essere che il nulla. Essi sono inclusi nell’inizio come eguali e anche come diseguali – essendo ciò la contraddizione in cui consiste il divenire. Ma quel che si deve notare anzitutto è che le nozioni di essere e nulla qui in giuoco, tanto che vengano distinte quanto identificate, sono opposte: non sono certo l’essere e il nulla indeterminati di cui Hegel parla nell’autentico inizio della logica. Lo si desume da vari indizi e da esplicite affermazioni: nell’inizio «non c’è ancora nulla (es ist noch Nichts), e qualcosa (Etwas) deve divenire»; quindi, anzitutto, si tratta, nel divenire, del nulla di qualcosa, non del nulla indeterminato. Inoltre, se e poiché, con l’iniziare ad essere da parte di qualcosa, il nulla del suo inizio non è un nulla che resti tale bensì «un nulla da cui deve uscire qualcosa», allora – stante questa diversità tra quel che è e quel che ne deve risultare, venir fuori – l’esser-qualcosa, il qualcosa, non è lo stesso che il nulla, l’esser nulla, il non-essere. L’ente non è lo stesso che il niente. Quindi è vero che «nel cominciamento è già contenuto l’essere»; ma non certo come nell’incipit della logica, in cui sono contenuti l’essere e il nulla per il semplice fatto che tra di essi non c’è alcuna reale differenza (la differenza è solamente «opinata», estrinseca, lessicale). Dunque si deve sì ammettere che «il cominciamento contien dunque l’uno e l’altro, l’essere e il nulla; è l’unità dell’essere col nulla» (SL p. 59; WL I, p 6311-12); ma l’essere e nulla affatto differenti, come afferma Hegel stesso: «l’essere e il nulla son nel cominciamento come diversi» (SL pp. 59-60; WL I, p. 6315-16). Si tratta ora di intendere questa differenza, che è per i più del tutto ovvia. Anzitutto, per essere differenti, essere e nulla devono essere determinati; ma di questa loro determinatezza – fondamentale, per intendere il discorso – Hegel parla oltre il preambolo ora in esame, nelle annotazioni alla figura del divenire. In queste insiste, replicando ai suoi critici, sulla diversità tra le nozioni di essere e nulla indeterminati da un lato, e le nozioni di essere e nulla determinati dall’altro. Quei suoi critici invece si riferiscono a queste ultime, e perciò fraintendono il senso delle affermazioni hegeliane, distorcendole. Essi infatti muovono sì dall’identità di essere e nulla, seguendo Hegel; ma ne concepiscono i termini in modo determinato (come si fa di solito, peraltro), quali l’essere e il nulla di qualcosa. Da questa malintesa identità traggono poi delle conseguenze la cui palese falsità viene ritorta, col meccanismo della riduzione all’assurdo, contro l’identità da Hegel propugnata. Hegel allora ribatte che queste critiche confondono l’essere e il nulla puri – di cui si tratta all’inizio della logica, e che sono identici in quanto indeterminati –, con l’essere e il nulla determinati, che sono nozioni più ricche e complesse (concrete), le quali trovano sì posto nella logica, ma solo in seguito. La questione sta evidentemente molto a cuore a Hegel, il quale ci torna su circa sei volte nel volgere di poche pagine. Non è qui possibile considerare tutti i luoghi partitamene (né ne varrebbe la pena farlo, credo). Alcuni cenni dovrebbero bastare. Nella 88

prima delle quattro celebri note al divenire Hegel esordisce precisando che «il nulla si suol contrapporre al qualcosa (Etwas). Ma qualcosa è già un ente determinato (bestimmtes Seiendes), che si distingue da un altro qualcosa, e così anche il nulla contrapposto al qualcosa è il nulla di un certo qualcosa, un nulla determinato (bestimmtes Nichts)» (SL p. 71; WL I, p. 731-3). Dunque: è vero che il qualcosa s’oppone al nulla; ma in quest’opposizione sono in giuoco non già il puro essere e il puro nulla, bensì «un ente determinato» e «un nulla determinato». Il nulla identico con l’essere non è dunque il nulla che s’oppone al qualcosa – e dunque non è il nulla da cui il suo opposto, il qualcosa, deve uscir fuori iniziando ad essere. Perciò Hegel, a scanso di equivoci, propone di chiamare anche «non-essere» (SL p. 71; WL I, p. 739) (Nichtsein) o semplicemente «Non» (ib.; WL I, p. 7318) (Nicht) il nulla indeterminato, riservando la parola nulla, Nichts al «nulla determinato» che s’oppone – e non già s’identifica! – all’essere determinato, all’ente. È questa certo una precisazione opportuna, vanificata in parte dalla successiva considerazione che la parola Nichtsein, contenendo una particella negativa, allude proprio alla negazione dell’essere propria dell’essere determinato, e quindi significa il nulla determinato, quello coinvolto nel divenire e che non è affatto identico con il puro essere. Ma quest’inopportuna rettifica fa parte degli aspetti paralogistici degli argomenti hegeliani, sulla cui illustrazione si farà ritorno. Quindi, ricapitolando: Sein e Nichtsein (o Nicht) sono identici, perché indeterminati; ma bestimmtes Seiendes e bestimmtes Nichts, essere determinato e nulla determinato, non lo sono affatto. Il ragionamento dei critici prima schematizzato è p. es. il seguente: «essere e non essere sono lo stesso; dunque è lo stesso che io sia o non sia, che questa casa sia e non sia, che questi cento talleri siano, o non siano, nel mio patrimonio» (SL p. 74; WL I, p. 7610-13)32. Poiché sembra palesemente assurdo che sia lo stesso che io sia o non sia, che questa casa sia e anche no, dev’essere negata la premessa onde questa conclusione discende, ovvero che essere e nulla siano il medesimo. Così argomentano i critici di Hegel. Il quale non contesta la validità del ragionamento in sé stesso (nonostante alcune riserve sul senso dell’esistenza, che qui possono essere tralasciate), ma ritiene che esso non si applichi alla premessa da lui sostenuta: «questa conclusione o applicazione di quella proposizione ne cambia completamente il senso. La proposizione contiene le pure astrazioni dell’essere e del nulla; l’applicazione [a me, a questa casa, ai cento talleri] ne fa un determinato essere e un determinato nulla. Ma, come si è detto, qui non si parla di un essere determinato» (ib.; WL I, p. 7614-18). Il fatto è che «si sostituisce surrettiziamente una distinzione piena di contenuti alla vuota distinzione di essere e nulla» (E § 88, n. 2), giacché «le astrazioni dell’essere e del nulla cessano tutte e due di essere astrazioni, in quanto acquistano un contenuto determinato; l’essere è allora realtà, il determinato essere di cento talleri [o di me, o della casa], e il nulla è negazione, il determinato non essere di cotesti talleri. [...] Il loro essere o non essere non è che mutamento; essi sono stati trasportati nella sfera dell’essere determinato» (SL p. 76; WL I, p. 7812-24).

32

Cfr. anche E § 88 n 2. 89

L’equivoco sorge dal fatto che l’ipotetico avversario di Hegel dapprima muove da un esempio concreto di determinato essere e di determinato non-essere, come nel caso di cento talleri, o di una casa; ma in seguito tralascia il determinato esserci, presente in tali esempi, e si attiene semplicemente all’essere e al non essere, come viceversa scambia quell’astratto essere e nulla, che si tratta di intendere [scil. nell’identità del cominciamento], in un essere e nulla determinato, ossia un esserci. Soltanto l’esserci contiene la differenza reale dell’essere e del non essere, vale a dire un qualcosa e un altro. È questa differenza reale che sta dinanzi alla rappresentazione, e non già l’essere astratto e il puro nulla, colla loro differenza semplicemente presunta [gemeinte]. (SL p. 76-7; WL I, p. 7831-39) Se l’essere e il nulla avessero qualche determinatezza, per cui si distinguessero, allora [...] sarebbero un essere e un nulla determinati, e non già quel puro essere e quel puro nulla, che qui [scil. nel cominciamento] sono ancora. La lor differenza è quindi intieramente vuota. Ciascuno dei due è in egual maniera l’indeterminato. (SL pp. 81-2; WL I, p. 8336-843)33 Quando in generale viene introdotto surrettiziamente nell’essere e nel nulla qualcosa di concreto, allora questo modo sconsiderato di procedere porta come di consueto a rappresentarsi – e a farne oggetto di discorso – qualcosa di completamente diverso da ciò che è in questione e che nel caso specifico è soltanto l’essere e il nulla. (E § 88 n.)

I passi su cui Hegel insiste su questo equivoco sono davvero numerosi. Evidentemente Hegel reputa la differenza tra essere e nulla astratti versus determinati fondamentale per intendere e legittimare l’inizio della sua logica. Ma quelle precisazioni sono altresì fondamentali per intendere quale coppia di concetti sia davvero presente nella figura del divenire. Hegel peraltro l’ha detto a chiare lettere: il mutamento è l’essere o nonessere di qualcosa, p. es. dei cento talleri; intercorre tra nozioni che, esprimendo la determinatezza dell’essere, degli enti, non sono affatto equivalenti, sinonime. La loro differenza – tra l’essere e il non-essere, tra la realtà e la negazione, tra il positivo e il negativo34 – non è «semplicemente presunta», bensì del tutto reale, imprescindibile, costitutiva. Se il mutamento è reale, deve esserci una differenza effettiva tra il prima e il poi, tra la situazione in cui i cento talleri ci sono, esistono, e quella in cui non ci sono (più o ancora), non esistono. Questo è l’essere (e il non-essere) coinvolto nel mutamento: quello determinato, per cui l’essere non è affatto il non-essere. Lo afferma, ancora una volta, lo stesso Hegel: «è nel divenire, che l’essere e il nulla sono come diversi: il divenire è solo in quanto essi son diversi» (SL p. 82; WL I, p. 848-10). E sempre a proposito di essere e nulla, si legge ancora che «il divenire [...] riposa sulla loro differenza» (SL p. 99; WL I , p. 10025-26).

Come si è detto, Hegel insiste nel ripetere quest’importante precisazione; nelle annotazioni al divenire ho contato circa sei riprese di questo tema, ma forse un’analisi mirata potrebbe metterne in luce ancor di più. 34 Realtà e negazione, positivo e negativo sono tutte figure dell’essere e del non-essere determinati; l’ultima coppia di concetti, poi, occorre, a rigore, solo nella logica dell’essenza, giusta la sua struttura intrinsecamente relazionale (riflessiva); ma la corrispondenza tra queste figure concettuali, se mai ve ne fosse bisogno, è affermata dallo stesso Hegel: SL p. 73; WL I, p. 7514. Inoltre, cfr. SL p. 109; WL I, p. 10834-40. 33

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Sulla base di questa semantizzazione, non è affatto lo stesso «se la mia casa, il mio patrimonio, l’aria che respiro, questa città, il diritto, il sole, lo spirito, Dio, siano o non siano» (E § 88, n. 2): non si costruiscono case già esistenti, ma case che prima di essere costruite non esistono affatto; così come non si accumulano patrimoni che già ci sono, perché a diventar ricco è l’uomo che prima era povero; l’uomo affetto dalla privazione della ricchezza, ovvero l’uomo la cui ricchezza era niente (in senso assoluto). 3.10 Ripresa. Il paralogismo e la contraddizione del divenire Possiamo tornare ora a quel preambolo alla logica in cui Hegel vuol analizzare l’idea di inizio. Si era visto che il cominciare contiene l’essere e il nulla come diversi: all’inizio, quando la cosa non c’è ancora, si ha il (determinato) nulla di essa; ma poi, quando la cosa è sorta, si ha l’opposto, il suo essere: la cosa c’è, esiste. Il nulla dell’inizio, però, non è un nulla che resti tale, giacché «a un certo punto», ad un certo momento, quando accade il divenire, quel nulla diventa essere. Anzi, il divenire, nella fattispecie dell’iniziare, accade proprio quando il nulla cessa di essere nulla: rompe la barriera che lo separa dall’essere, infrangendo il divieto di Parmenide, ed esso – il nulla determinato della cosa, il nulla che era nulla, assolutamente opposto all’essere – diventa il suo opposto: non resta più solamente nulla, ma si fa essere, il determinato essere della cosa. A diventare essere – si badi – non è l’essere; a diventare esistente non è la cosa già esistente: questo non sarebbe proprio alcun divenire, ma un restare quel che si è. Pare dunque che il divenire consista da un lato nel presupporre la diversità tra termini, tra inizio (nulla) e risultato (essere), ma dall’altro nel cancellarla, per il fatto che l’uno diventa l’altro, il nulla si fa essere. Termini presupposti come diversi s’identificano. Questa identificazione dei diversi è la contraddizione in cui consiste il divenire (così per Hegel, almeno). Hegel, infatti, delinea il cominciamento come una contraddizione, la seguente: esso è «un non essere, che è in pari tempo essere, e un essere, che è in pari tempo non essere» (SL p. 59; WL I, p. 6312-14)35. Ma, nonostante quest’identità (dell’essere che è in pari tempo non essere, e viceversa), l’essere e il nulla sono nel cominciamento come diversi [unterschieden]; poiché il cominciamento accenna [weist auf, rinvia] a qualcos’altro; è un non essere che si riferisce all’essere come a un altro; ciò che comincia non è ancora; va soltanto, all’essere [geht .. dem Sein zu, si avvia all’essere]. Il cominciamento contiene dunque l’essere come quello che si allontana [entfernt] dal non essere, o lo toglie via [aufhebt] considerandolo come contrapposto a lui. (SL pp. 59-60; WL I, 6315-21)

In questo passo Hegel insiste sulla diversità di essere e non-essere – alla fine afferma che sono opposti –; ma questa diversità non resta tale, bensì è il sostrato per quella loro identificazione in cui consiste il cominciare: all’inizio «l’iniziante [das Anfangende] non è ancora», perché è nulla. Ma questo nulla non resta nulla: «va all’essere», giacché dal

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Risuonano queste formulazioni nelle varie definizioni di tempo: cfr. infra p. 104. 91

nulla «deve scaturire qualcosa», se qualcosa deve davvero cominciare. Andando all’essere, l’iniziante s’«allontana dal non essere» col quale coincideva all’inizio – quando esso ancora non era, ed era in tutto e per tutto nulla. In generale, come Hegel afferma qualche pagina dopo, trattando tematicamente del divenire, «il divenire importa che il nulla non resti nulla, bensì passi nel suo altro, nell’essere» (SL p. 72; WL I, p. 74911). Si tratta di capire questo «passaggio», che cosa avvenga in esso. E al proposito bisogna ripetere, parafrasare, adattandolo alle categorie hegeliane, quanto aveva scritto Platone nel Parmenide a proposito dell’«istante», ovvero del «punto» in cui avviene il mutamento. In esso il nulla si fa essere. Questo vale sia in termini assoluti, nei quali pone ora Hegel la questione, ovvero quale esistenza e non esistenza di qualcosa nella sua globalità; sia in termini relativi, ovvero per il mutamento di qualcosa di cui varia una caratteristica accidentale. È in questi termini, ovvero secondo l’essere inteso in modo relativo, che Platone tratta la questione nel passo ricordato, o Aristotele in altri passi. Ma anche assumendo il mutamento come accidentale, e dunque l’essere e il non-essere come relativi, si ha la loro identificazione. Infatti, per dirla con Aristotele: quando un uomo povero diventa ricco, il non-essere per sé in cui consiste la privazione della ricchezza (di quell’uomo) diventa l’opposto, l’essere della ricchezza. Infatti è vero, come s’è detto, che per Aristotele è un certo uomo a diventare ricco da povero che era prima, e che esso in quanto uomo non sorge dal nulla: quell’uomo, infatti, come tale, a prescindere da ricchezza e povertà, resta tale e quale. Ma è anche vero che la privazione della forma diventa presenza della forma, che il non-essere assoluto in cui consiste la privazione diventa esserci della forma. Ovvero, l’essere della forma (nel sostrato) risulta dal non-essere assoluto di essa (dalla privazione). Hegel ritiene che la teoria della sostanza, secondo cui il divenire non comporta passaggio tra essere e non-essere in senso assoluto, sia ingannevole. Egli infatti prende in considerazione la proposizione già aristotelica: «“qualcosa viene soltanto da qualcosa”» (E § 88, n. 5, p. 267) e il presunto accordo di essa col principio che «“da nulla non viene nulla”» (ib.). Per Hegel però l’accordo, se considerato rigorosamente, è così stretto che il primo principio non fa che ribadire il secondo il quale «sopprime il divenire; infatti ciò da cui qualcosa diviene e ciò che diviene, sono la stessa cosa; si ha a che fare soltanto con il principio della identità astratta dell’intelletto» (ib.), che è «il principio del panteismo» (ib.) – e panteismo ed eleatismo sono per Hegel tutt’uno. L’idea di Hegel, in altre parole, sembra essere che se il divenire è davvero conservativo in tutto e per tutto, allora nulla diviene. Invece, c’è divenire solo nella misura in cui qualcosa inizia ad essere non essendo già prima o si distrugge dopo essere stato. E se la sostanza già c’era, non è essa a divenire (lo sopporta, casomai). Ad essere investiti dal divenire sono semmai i suoi aspetti accidentali, il cui cominciare o cessare di essere va allora inteso in

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senso assoluto. (E se la forma si conserva, non si conserva il possesso o meno di essa da parte della sostanza)36. In ogni caso, tornando al cominciare, non c’è semplicemente una scansione tra il nulla prima e l’essere poi, giacché nel passaggio tra il prima e il poi il nulla si fa essere. Se l’essere diventasse essere, non ci sarebbe alcun iniziare, ma un restare quel che si è. Così come, per ricordare le considerazioni riferite all’«istante» del Parmenide, è un Socrate seduto ad alzarsi, non un Socrate che sia già in piedi. Ma, inoltre, quello che comincia è già; in pari tempo, però, non è ancora. Nel cominciamento dunque, questi opposti, l’essere e il non essere, sono immediatamente uniti. Vale a dire che il cominciamento è la loro unità indifferente, indistinta. (SL p. 60; WL I, p. 6322-25)

L’iniziante è e non è («è già... non è ancora»): l’iniziare è un venire ad essere, quindi un niente che non già resta niente, ma che è – diviene – essere; giacché se restasse niente, non ci sarebbe alcuna differenza tra cominciamento e risultato. E qui non si possono distinguere dei tempi diversi, quello in cui dapprima c’è il nulla e quello poi in cui c’è la cosa: stiamo considerando appunto quel tempo – l’«istante» – in cui l’ente da niente che era «si avvia» all’essere; il tempo in cui dal niente sorge qualcosa; il tempo in cui il non-essere si fa essere. Prima di questo tempo il non-essere era soltanto nonessere; dopo questo tempo l’essere sarà essere. Ma in quel tempo il niente si fa ente, cosicché quel che comincia è ma in pari tempo non è. Perché ci sia divenire, allora, secondo Hegel, si deve smentire Parmenide ed affermare la contraddizione, della quale qui è data una formulazione particolarmente incisiva e, si potrebbe dire, dirompente. Questa formulazione richiama peraltro un’espressione che corre lungo l’intero arco della sua filosofia, fin dagli scritti jenesi, preconizzata in quelli francofortesi (sulla quale si farà poi ritorno). L’analisi del cominciamento ci darebbe quindi il concetto dell’unità dell’essere e del non essere [determinati, e dunque diversi, opposti], – o in forma riflessa, il concetto dell’unità dell’esser differente e del non esser differente [di essere e nulla determinati], – oppur quello dell’identità della identità colla non identità. Questo concetto si potrebbe riguardare come la prima e più pura (cioè più astratta) definizione dell’Assoluto. (SL p. 60; WL I, p. 6326-32)

Sulla struttura di quest’antinomia si farà ritorno in seguito; basti per ora notare che qui sono presenti le tre seguenti formule. L’unità dell’essere e del non-essere, che è una contraddizione se l’unità è identificativa – e c’è ragione perché lo sia, come s’è veduto. L’unità dell’esser differente e del non essere differente. Qui i due termini possono essere intesi sia in sé, nel senso per cui si parla delle nozioni di differenza e di identità tout court, che vanno unite (identificate); sia relativamente alle nozioni di essere e nonessere (determinati). Questa formulazione, comunque la si intenda, è detta da Hegel essere «in forma riflessa» poiché fa uso di concetti riflessivi ovvero relativi: di relazioni, in altre parole, quali sono l’identità e la differenza. Qui, in questa formula, l’unità di differenza e non differenza è un’unità identificativa – poiché il divenire è identità di diversi,

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Cfr. supra p. 29 e p. 47 ss. 93

secondo quel che s’è veduto. L’intera formula esprime dunque (se intesa in questo modo) una contraddizione. Ma già uno dei suoi membri è in sé una contraddizione, se è vero, come qui si è inteso, che il non esser differente vige tra essere e non-essere determinati, ovvero tra termini differenti, opposti. Questa struttura doppiamente contraddittoria è poi del tutto esplicita nella terza delle formulazioni incluse nel passo hegeliano in analisi. L’identità dell’identità con la non-identità. Anche in questo caso, per «identità» può intendersi sia l’identità in termini assoluti, quale nozione logica, sia l’identità di essere e non-essere determinati, dell’essere e del non-essere di qualcosa. Il divenire dunque, per quest’ultima formulazione, consta di due lati, logicamente contraddittori. Da una parte esso presuppone necessariamente la non-identità di essere e non-essere di qualcosa, il loro essere diversi, il loro respingersi. Ma d’altra parte esso comporta, è, la loro identità, ovvero il farsi essere da parte del nulla della cosa, il diventare identico all’essere da parte del nulla. Che questa sia una contraddizione, è evidente. Su di essa si farà ritorno in seguito. Questo è l’esito della ricognizione hegeliana sulla figura del cominciare, qual essa si presenta alla coscienza comune. In verità, con essa Hegel non trova affatto l’unità di essere e nulla dell’inizio della sua logica, come invece pretenderebbe. Certo, nel divenire c’è l’identità di essere e nulla; ma di essere e nulla quali affatto diversi – donde la contraddizione –, non di essere e nulla quali identici perché indeterminati. Quindi questa ricognizione hegeliana ha mancato il suo scopo; ma è certamente istruttiva per comprendere il concetto hegeliano di divenire, il quale resta confermato dalla sezione tematica della logica ad esso dedicata, come ci si appresta a vedere. 3.11 Il divenire nella prima triade Il punto di partenza per giungere al divenire è l’identità di essere e nulla astratti e indeterminati; un’identità di termini identici, sinonimi, diversi solo lessicalmente – come se si dicesse che uno scapolo è un uomo non sposato. Hegel intende muovere da quest’identità per concludere al divenire, anche questo consistendo dell’identità di essere e nulla. Solo che nella prima identità i termini hanno il significato di essere del tutto identici, mentre nella seconda no, cosicché il ragionamento è paralogistico. E come Hegel sia addivenuto alla determinatezza dell’essere, che è presupposto per il suo non essere niente, qui non appare affatto. Ecco intanto le parole di Hegel, solo in parte già considerate: il puro essere e il puro nulla son dunque lo stesso. Il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere, – non passa, – ma è passato, nel nulla, e il nulla nell’essere. In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi ch’essi non son lo stesso, ch’essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire; movimento in cui l’essere e il nulla son differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo risoluta (SL p. 71; WL I, p. 7220-32)

La premessa del ragionamento hegeliano è chiara: l’identità, la sinonimia di essere e nulla indeterminati. «In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indi94

stinzione, ma [...] ch’essi sono assolutamente diversi»; poco oltre si legge che tra di essi vige il rapporto di opposizione, come peraltro era stato affermato nel preambolo37. Ora, donde Hegel cavi fuori questa assoluta diversità, non identità, non appare chiaro. D’altra parte, va notato qui subito, se anche Hegel esplicitasse nel presente contesto quel ragionamento cui s’è accennato che guida il passaggio di questa prima triade alla figura della determinatezza dell’essere, al Dasein (e si potrebbe discutere se non sia il Dasein l’inizio logico vero e proprio, dal momento che è la prima figura logica irrevocabile, basilare38: ogni essenzialità è determinata, come qualsiasi cosa d’altronde), ebbene, anche se lo facesse, non perciò egli avrebbe spiegato perché mai un essere e un nulla determinati, diversi, opposti come realtà e negazione, positivo e negativo, dovrebbero anche essere identici – il divenire consistendo in quest’identità. In altre parole: anche se Hegel dal puro essere giungesse (come di fatto giunge) alla determinatezza dell’essere, non sembra affatto che in ciò stesso possa anche affermare che l’essere determinato è nel divenire, che l’ente è diveniente, ovvero che l’essere e il nulla determinati devono anche, in questa loro diversità, identificarsi. In realtà Hegel risponde a questa questione, ma lo farà poi, in tutt’altro modo, come si vedrà. Il fatto è che Hegel nel suo preambolo alla logica è proceduto in termini aristotelici: ha assunto il divenire dal dominio della rappresentazione (dall’esperienza), ovvero come qualcosa di noto di per sé39, e ne ha fatto un’analisi. Questa ha condotto all’idea che il divenire sia identità di diversi, di essere e di non-essere. Ma ora Hegel, lasciatosi alle spalle il preambolo, e dovendo procedere con maggior rigore, muove dall’inizio logico, dall’identità di identici, dall’identità di essere e nulla indeterminati: come da essi si cava fuori la loro determinatezza? E su che base poi il doversi identificare dei diversi? L’identità è presupposta: è il presupposto di partenza; ma da essa si ottiene il divenire solo se si cambia il significato di essere e di nulla, da indeterminati a determinati, e se si impiega la loro iniziale identità come medio. Questo scambio, però, è un paralogismo40 (lo stesso poi che Hegel rimprovera ai suoi critici, come si è veduto). Qui dunque Hegel non deduce affatto il divenire. Peraltro, questa è una critica che in molti modi gli è stata mossa fin da subito, ricevendo veste canonica negli scritti di

37

L’uno è il Gegenteil dell’altro (cfr.

WL I,

p. 7227), e perciò essi sono Entgegengesetzten (ivi, p.

6323). Cfr. infra nota 51 p. 102. Aristotele infatti afferma: «per quanto ci riguarda [...] poniamo come assunto di fondo [...] che le cose che esistono per natura, o tutte o alcune, sono in movimento: questo è attestato dall’esperienza» (Fisica I 2, 185 a 12 ss.), ovvero è un dato originario, che non ha senso voler dimostrare (proprio in quanto originario: cfr. Fisica II 1, 193 a 6). 40 Il ragionamento sarebbe dunque il seguente: 1) assunzione del puro essere; 2) identità di essere e nulla puri; 3) definizione del divenire come identità dell’essere col nulla; 4) affermazione del divenire dell’essere. Il punto è che l’identità di cui si parla alla premessa 2 è diversa da quella di cui si parla alla premessa 3, donde il paralogismo. 38 39

95

Trendelenbug41. Questi riteneva che se il presupposto del ragionamento è l’unitàidentità di essere e nulla indeterminati, è del tutto statica e da lì non si cava fuori nessun divenire, a meno di non attingerlo altrove, mediante l’intuizione empirica – la qual cosa è poi quel che fa Aristotele esplicitamente, senza pretendere di dare del divenire deduzione logica (anzi, sostiene Aristotele, non si può proprio pretendere di dedurlo). Il fatto è, però, che Hegel deduce validamente la determinatezza dell’essere, e non già perché nell’essere indeterminato sia contenuta la determinatezza dell’ente, ma, all’opposto, perché esso indeterminato è in certo modo contenuto nella determinatezza: è anch’esso qualcosa di determinato, come s’è veduto (e non è altro che una nozione astratta determinta). Non si tratta – è evidente – di una derivazione analitica, deduttiva. Se si pretendesse una tale deduzione, non si potrebbe fare alcun passo oltre il puro essere – ed Hegel lo sa benissimo, riconoscendo che avrebbero allora ragione Parmenide e Spinoza a pensare che il puro essere, la sostanza indeterminata, sia tutto quel che c’è; che il cominciamento è il primo e l’ultimo42. Né si tratta di fare un altro inizio con l’ente, dopo quel primo fatto con l’essere, giacché esso non sarebbe che un secondo e indebito cominciamento. 3.12 Parmenide, Eraclito, ex nihilo nihil fit e creatio ex nihilo Ma se da un lato la deduzione hegeliana del divenire è persino affrettata, compiuta nel volgere di poche righe, sono invece assai lunghe le annotazioni di cui Hegel l’ha corredata. In esse, in particolare, si insiste sul senso dell’identità dell’essere con sé stesso e sulla sua alterità rispetto al non-essere – sul divieto di Parmenide, insomma. Si tratta di una discussione alquanto istruttiva per il tema in esame. Il Parmenide di Hegel, così come quello di Platone e di Aristotele, è quello del monismo assoluto: l’essere è solamente sé stesso, senza molteplicità e divenire. Hegel, come si è detto, riconosce in Parmenide l’inizio logico della filosofia ovvero il pensiero dell’essere indeterminato e dell’altrettanto indeterminata identità. A dire il vero questa lettura presenta qualche incongruenza, poiché per Hegel il divenire importa che l’essere sia determinato, e poi che gli opposti essere e non-essere siano anche identificati. Ne segue, però, che anche la negazione del divenire, imposta dal divieto di Parmenide, semantizza l’essere allo stesso modo. Infatti è perché l’essere è rigidamente altro dal non-essere che l’uno non può diventare l’altro. Ma se essere e nulla sono differenti, allora, entro e fuori del discorso hegeliano, sono determinati. La formula con cui Hegel esprime il divenire quale l’identità di identità e non-identità è allora il rovesciamento (la negazione) del divieto di Parmenide, dal punto di vista delle nozioni logiche riflessive (identità, diversità).

41 42

Cfr. A. TRENDELENBURG (1840, II, p. 366 e ss.). Cfr. F. PERELDA (2003, pp. 556 ss.). 96

L’incongruenza della lettura hegeliana, dunque, è che se davvero Parmenide esprimesse (come Hegel pretende) il pensiero del puro essere indeterminato, dell’«essere rigido» (E § 88, agg., p. 268), corrispondente all’identità del tutto astratta43, allora l’Eleate non potrebbe affatto pervenire al pensiero dell’immutabilità dell’essere e negare il divenire. Questa infatti è dovuta all’assoluta ed incondizionata opposizione dell’essere al non-essere – opposizione che però presuppone la determinatezza di entrambi, di essere e di non-essere. In altre parole: o Parmenide tutela l’irriducibile diversità di essere e non-essere, vietando nel modo più assoluto ogni commercio tra i due ed affermando l’immutabilità dell’essere; ma allora li deve concepire come differenti ed opposti, con buona pace di Hegel e dell’associazione che questi fa tra l’essere parmenideo e il puro essere della Logica. Oppure Parmenide concepisce l’essere come indeterminato, come vuole Hegel; ma allora vien meno il principio di opposizione al non-essere, e dunque, entro l’impianto concettuale hegeliano, la negazione del divenire (e il divenire stesso). È dunque difficile conciliare in modo rigoroso le categorie logiche che Hegel attribuisce al monismo di Parmenide col modo con cui Hegel stesso presenta la posizione filosofica dell’Eleate. A riprova di ciò, basti leggere quei passi delle Lezioni sulla storia della filosofia in cui Hegel, parlando di Eraclito44, ne loda l’attitudine speculativa giacché «in Eraclito incontriamo per la prima volta l’idea filosofica nella sua forma speculativa [...]. Qui vediamo finalmente terra» (LSF I, p. 307; W 18.320). Eraclito, infatti, ha concepito il divenire quale suprema «verità dell’essere» (LSF I, p. 311; W 18.324), quale «determinazione fondamentale di tutto ciò che è» (E § 88, agg., p. 268). In tal modo è proceduto oltre l’inconsistente indistinzione dell’essere, affermando «la sua identità – posta nel divenire – con il nulla» (ivi, p. 269). Ma l’identità posta nel divenire è l’identità di essere e nulla determinati e dunque diversi. Mentre Parmenide – rifiutando che l’essere possa diventare, e dunque essere il non-essere – resta, rispetto ad Eraclito, un pensatore ancora acerbo che si attiene alle rigide opposizioni dell’intelletto. La differenza tra Parmenide, gli Eleati in generale, ed Eraclito sta allora nel rifiuto del divenire e della contraddizione da parte dei primi, e nell’affermazione dell’uno e dell’altra da parte del secondo – non nella concezione dell’essere. «In Eraclito abbiamo un passaggio assoluto nell’opposto» (LSF I, p. 312; W 18.326), dell’essere nel non-essere, «passaggio al quale non pervenne Zenone, che si fermò alla tesi “da niente non viene niente”»

Il puro essere è lo stesso che la pura identità dell’intelletto cosiddetto (da Hegel) astratto, quello che reputa che una cosa sia l’identità e altra cosa la differenza, e che non scorge che così non si pensa nulla di identico a sé, non si pensa l’identità di qualcosa; anzi, non si pensa proprio nulla – donde appunto l’identità di essere è nulla indeterminati. È perciò significativa l’affermazione di Hegel che si legge nelle Lezioni sulla storia della filosofia che «il ragionare di Parmenide [...] era puro intelletto astratto» (LSF I, p. 307; W 18.320), quello dell’identità senza differenza; e dunque quello dell’essere identico col non-essere. 44 Sull’interpretazione hegeliana di Eraclito, cfr. E. BERTI (1987), C. VIANO (2000). Sul rapporto tra Hegel e i Presocratici cfr. i vari contributi in A. MOVIA (a cura di) (2000). 43

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(ib.). In altre parole: chi nega il divenire, affermando che l’essere non è il non-essere, e perciò che, a maggior ragione, dal nulla non viene fuori l’essere – come pare abbiano fatto il Parmenide storico, anche secondo la lettura hegeliana45, e Zenone – ebbene, questi deve concepire l’essere e il nulla come differenti. Ma questa differenza consta solamente se li si concepisce come determinati, non al modo per cui essi sarebbero sinonimicamente identificati46. Forse, dal punto di vista hegeliano, si potrebbe imputare a Parmenide di aver voluto negare il divenire senza averne i mezzi concettuali: col più assoluto monismo non si concepisce un essere che s’opponga al nulla. Parmenide avrebbe operato al di sopra delle sue possibilità, in un certo senso. Ma Hegel non svolge quest’argomentazione. In ogni caso, al di là di queste discutibili incongruenze, dalla discussione di Hegel della posizione di Parmenide emerge chiaramente un punto: chi nega il divenire nega una contraddizione, quella dell’identità dei diversi nella quale il divenire (anche per Hegel) consiste. Perciò, per lui, non si può da una parte preservare il principio di identità e non contraddizione, attenendosi all’idea che l’essere è essere e mai non-essere, ma dall’altra affermare l’esistenza del divenire. Prova ne sia il fatto che il principio che l’essere è l’essere – il principio delle filosofie dell’identità, ancorché astratta47 – è alla radice, ad opinione di Hegel, dell’antico assioma che ex nihilo nihil fit, il quale comporta la negazione di ogni divenire: ex nihilo nihil fit – è una delle proposizioni a cui in metafisica venne attribuita una grande importanza. Ma o in questa proposizione non v’è da veder altro che la vana tautologia che nulla è nulla, oppure, se il divenire vi deve avere un significato reale, non vi è anzi in essa alcun effettivo divenire, giacché in quanto per quella proposizione da nulla vien soltanto nulla, il nulla vi riman nulla. (SL p. 72; WL I, p. 743-9)

Invece, come s’è già illustrato, per Hegel «il divenire importa che il nulla non resti nulla, ma passi nel suo altro, nell’essere» (ib.). L’autoidentità del nulla e dell’essere con sé medesimi – intesi come determinati e dunque come differenti (e vanno intesi come differenti se si sta parlando del divenire, anche negativamente) – importa che l’essere non divenga (identico al) non-essere, e viceversa; essa nega il divenire. Infatti, se l’essere

Sull’interpretazione hegeliana di Parmenide, cfr. A. CAVARERO (1984) e (1988), inoltre G. PRAUSS (1966), M. THEUNISSEN (1980, pp. 95 ss.), K. DÜSING (1983, pp. 42 ss), V. HÖSLE (1984, p. 143 ss), E. BERTI (1987), L. RUGGIU (2000) con ampia ed aggiornata bibliografia. 46 Afferma Ruggiu che «Hegel non assume nella propria scienza l’essere parmenideo come esso si è storicamente determinato, ma lo costituisce in modo tale che [...] possa risultare [...] una proiezione dell’“essere” quale appare in quanto cominciamento della scienza hegeliana. [...] [L]a stessa semantizzazione dell’essere in riferimento al “nulla” è intesa in senso hegeliano, come “nulla di determinato”, non in senso parmenideo; questo rende possibile la loro intercambiabilità sulla base dell’identità di significato» (L. RUGGIU 2000, p. 59) – identità di significato che invece per Parmenide non consta affatto. 47 «La veduta filosofica, per cui vale come un principio che l’essere è soltanto essere e il nulla soltanto nulla, merita il nome di sistema dell’identità. Questa identità astratta è l’essenza del panteismo» (SL p. 73). 45

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diventa non-essere, l’essere è il non-essere, è identico al non-essere. E se si volesse smorzare quest’affermazione (palesemente contraddittoria) dicendo che, quando l’essere diventa non-essere, non si ha che l’essere è identico al non-essere, ma soltanto che il non-essere è il non-essere, bisognerebbe poi spiegare in che senso quest’ultima affermazione – quella che il non-essere è il non-essere (e che l’essere invece è l’essere) – sia un’affermazione di divenire. Evidentemente non lo è. Hegel è ben consapevole che ribadendo l’autoidentità del nulla e dell’essere (intesi come diversi) con sé stessi, non si può ammettere il divenire. Infatti, rimprovera di ambiguità o addirittura di inconseguenza coloro che hanno voluto da un lato tener fermo l’antico assioma che ex nihilo nihil fit – il quale è tutt’uno con questa posizione della rigida non identità di essere e non-essere –, ma dall’altro ammettere il divenire. I rimproveri s’appuntano anzitutto contro la metafisica creazionistica la quale deve, relativamente alla creazione, ammettere una specie di deroga al principio che da nulla non viene nulla, e dunque contestualmente una deroga al principio di identità, ammettendo che in quel caso almeno il non-essere si faccia essere (creatio ex nihilo): quando la metafisica posteriore, soprattutto la cristiana, rigettò la proposizione che dal nulla venisse nulla, essa affermò un passaggio dal nulla all’essere. Per quanto ora, questa proposizione fosse da lei presa sinteticamente o in guisa semplicemente rappresentativa [scil. assunta dalla dogmatica religiosa e dall’esegesi biblica, e non già dedotta da principi puramente metafisici], pur nondimeno [...] è contenuto un punto in cui l’essere e il nulla coincidono [einen Punkt .. worin Sein und Nichts zusammentreffen], e la loro differenza sparisce. (SL p. 72; WL I, p. 7411-18)

Qui Hegel è molto preciso: con la creatio ex nihilo non si ha soltanto un punto di unione di essere e nulla, ma un punto in cui essi coincidono (treffen zusammen), sono il medesimo: l’essere è il non-essere, pur essendo essi determinati. E sono determinati perché c’è divenire e dunque passaggio, diversità tra inizio e risultato. Identità di differenti, contraddizione. Per evitare la contraddizione bisogna negare la creatio ex nihilo, vistosa affermazione del divenire (si tratta in fondo della DSOēJHQHVLV degli antichi), opponendole il principio che ex nihilo nihil fit. Chi consente col principio che «l’essere è soltanto l’essere, e non già il contrario di se stesso» (SL p. 96; WL I, p. 9724) non può poi anche ammettere il divenire, attingendolo dall’esperienza, dalla rappresentazione. Hegel perciò rimprovera esplicitamente di incoerenza quelli che da un lato sentenziano come suprema verità che l’essere è essere, il nulla nulla, e che l’uno non è l’altro; ma dall’altro ammettono anche, inopinatamente, il divenire delle cose, traendolo dall’esperienza. La loro logica confligge con l’esperienza. E qui, a rigor di logica, bisogna scegliere: o la logica o l’esperienza. Essere o parmenidei o eraclitei. Il principio che ex nihilo nihil fit non può affatto venire addomesticato. Sbagliano dunque quei metafisici che pensano di farlo, inclusi Platone, Aristotele e poi tutti gli altri a seguire48:

È vero che Platone e Aristotele non volevano certo sostenere il divenire ex nihilo, ma nondimeno anche il divenire accidentale ex quo è per Hegel un passaggio tra essere e non-essere assoluti. 48

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la vera e propria importanza della proposizione: Dal nulla non vien nulla [Aus Nichts wird Nichts], il nulla è appunto nulla [Nichts ist eben Nichts] sta nell’opposizione sua contro il divenire in generale [das Werden überhaupt] e con ciò anche la creazione del mondo dal nulla. Coloro, che vanno fino a riscaldarsi per affermar la proposizione che il nulla è appunto nulla, non si accorgono che con ciò aderiscono all’astratto panteismo degli Eleati, e, sostanzialmente, anche a quello spinozistico. (SL pp. 72-3; WL I, p. 7418-29)

Perciò, a proposito della «dialettica contro il divenire» – ovvero della posizione eleatizzante – Hegel afferma: questa dialettica è almeno più conseguente delle riflessioni della rappresentazione. Per la rappresentazione val come perfetta verità che l’essere e il nulla sian soltanto separati. Ma d’altra parte la rappresentazione lascia valere come determinazioni parimenti vere il cominciare (Anfangen) e il cessare (Aufhören), e in queste ammette così di fatto l’essere e il nulla come non separati. (SL p. 97; WL I, p. 985-11)

E se questi sono ammessi come «non separati», sono coincidenti, identici. «Nella supposizione dell’assoluta scissione dell’essere dal nulla, [...] il divenire è assolutamente [...] qualcosa d’incomprensibile [...]; l’incomprensibile è appunto questa contraddizione» (ib.) consistente nella diversità e nell’identificazione insieme di essere e nulla. 3.13 Divenire, determinatezza In conclusione vorrei richiamare l’attenzione sulla deduzione del divenire. Quel che Hegel effettivamente consegue colla prima triade è la determinatezza dell’essere. Egli con ciò pretende di dedurre anche il divenire; anzi, che la determinatezza dell’essere risulti dal divenire. Questo passaggio viene illustrato in una sezione di raccordo, in cui Hegel dapprima illustra i momenti del divenire, e poi ne annuncia lo scomparire e il quietarsi nella determinatezza del risultato, la quale è la determinatezza dell’essere tout court. Il divenire quale unità identificativa di essere e nulla ha due possibili direzioni o versi (Richtungen, indirizzi), a seconda che sia passaggio dal nulla all’essere, dando luogo al nascere (Entstehen); o dall’essere al nulla, dando luogo al perire (Vergehen). L’un indirizzo è il perire. L’essere passa nel nulla; ma il nulla è anch’esso l’opposto di se stesso, il passar nell’essere, il nascere. Questo nascere è l’altro indirizzo. Il nulla passa nell’essere; ma l’essere, parimenti, toglie via se stesso, ed è anzi il passar nel nulla, il perire. (SL pp. 98-9; WL I, p. 1003-8)

Nascere e perire «non si tolgon via reciprocamente» (ib.): non è il nascere a contrastare il perire o viceversa, giacché ciascuno di essi, secondo Hegel, ha in sé la tendenza all’opposto. Questo accade giacché il divenire stesso, di cui essi sono le direzioni, «contien [...] l’essere e il nulla come due unità tali, che ciascuna è essa stessa unità dell’essere e del nulla» (ivi, p. 98; WL I, p. 9927-28). Il divenire ha insomma un interno «equilibrio, in cui si pongono il nascere e il perire» (ivi, p. 99; WL I, p. 10013-14). Eppure per Hegel il divenire di alcunché non è incessante, bensì «si raccoglie anche in unità quieta. [...] Il divenire è una sfrenata inquietudine che precipita (zusammensinkt) in un resultato calmo» (ib.) Questo «resultato calmo», spiega Hegel, è «l’essere-sparito [Verschwundensein], ma non come un nulla» (ib.). Ovvero: il divenire è sì «lo sparire dell’essere nel nulla, e del nulla nell’essere, e lo sparire, in generale, di essere e nulla» (ib.; WL I, p. 10022-26). Ma non perciò è incessante, continuando a convertire senza posa

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il nulla in essere e l’essere in nulla. In un certo senso diviene persino il divenire, ossia passa al non-divenire, al «resultato calmo». Il venir meno del divenire, il suo cessare quietandosi in un risultato stabile, Hegel lo chiama «il dileguarsi del divenire [das Verschwinden des Werdens], o il dileguarsi del dileguarsi stesso [Verschwinden des Verschwindens selbst]49» (ib.). Ma il venir meno del divenire non consuma tutto l’essere, facendo sì che non ne resti nulla, nel modo più assoluto – come in quei ragionamenti cosmologici e teologici, in cui si fa l’ipotesi che se tutto l’essere fosse diveniente, ci sarebbe prima o poi un tempo in cui non esisterebbe più nulla, tutto essendo diventato niente. Né il venir meno del divenire riconduce alla situazione iniziale della logica in cui il nulla è indeterminato, pura vuotezza di contenuto («così sarebbe soltanto un ricadere nell’una delle determinazioni già tolte, non un resultato del nulla e dell’essere» - ib.). Il cessare del divenire approda invece, ancorché faticosamente, ad un «resultato quieto»: «il divenire, il passare così in quell’unità dell’essere e del nulla, che ha la determinazione dell’essere, ossia ha la forma dell’immediata unilaterale unità dei due momenti, è l’esser determinato [das Dasein]» (ivi, p. 100; WL I, p. 100-1). Le ragioni per cui il divenire approda all’essere determinato, invece che al nulla determinato – o invece di non approdare proprio da nessuna parte, di non avere alcun «resultato quieto», riproponendosi col divenire del divenire esso medesimo divenire – non appaiono qui, in questa sezione importante, eppure da Hegel sbrigativamente trattata, del tutto chiare. Esse hanno infatti suscitato la perplessità degli interpreti 50; ma sull’essere determinato, ovvero sull’ente, si farà presto ritorno.

Il Verschwinden è un momento del divenire: il cessare o perire. A. Moni lo traduce elegantemente con dileguare; ma ciò fa perdere il rapporto lessicale con la distinzione dei momenti del divenire da Hegel fatta poco prima. Letteralmente, dunque, Hegel afferma che il divenire, che si attua nelle due direzioni di nascere e perire, perisce esso stesso, è sottoposto a sé medesimo, perendo (e forse anche nascendo, in modo relativo a qualcosa, quando questa si muta). 50 Sulla problematicità dell’inizio hegeliano, in part. della sezione di cui stiamo trattando, ha richiamato l’attenzione F. CHIEREGHIN (2000, pp. 45-71). Egli nota anzitutto che il verbo zusammensinken, con cui Hegel esprime l’approdare del divenire al «resultato quieto» dell’essere determinato – reso in italiano con sprofondare –, significa propriamente accasciarsi, stramazzare a terra esausti; sicché la «quiete» del risultato, posto anche che sia effettiva, non è certo facilmente raggiunta. Si tratta, in altre parole, di una scelta lessicale da cui traspaiono le consistenti difficoltà teoriche che Hegel vorrebbe nascondere. Chiereghin, infatti, dubita che il dileguare del dileguare possa davvero approdare a quel «resultato quieto»: «perché mai» – chiede Chiereghin – «nel dileguarsi del dileguarsi della differenza tra essere e nulla dovrebbe prodursi un risultato calmo, in cui essere e nulla si compongono nel primo, precario, ma decisivo equilibrio del Dasein? Quale garanzia c’è che il dileguarsi del dileguarsi non riproponga semplicemente se stesso e quindi una differenza tra essere e nulla che non è quella del Dasein, ma di nuovo quella dell’inizio, la quale, nell’atto di proporsi, scompare nell’insostenibile vertigine del divenire? Così, a partire dalla formula principe della negatio negationis, che riassume in sé tutte le altre, è lecito chiedersi se essa, una volta applicata non a un qualsivoglia essere determinato, ma 49

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Discostandosi un poco dalle dottrine hegeliane, si può dire che certamente il rapporto tra divenire e determinatezza c’è, anche se non è reciproco. Infatti, se c’è divenire, l’essere è sicuramente determinato, essendo che il divenire è sempre da qualcosa a qualcos’altro, dall’inizio a un risultato da esso diverso (ci sia o meno un sostrato che permane identico, non importa). Questo è stato affermato da Hegel numerose volte, come si è detto. Ma non vale immediatamente l’affermazione reciproca. Formulando la questione con una domanda, posto che l’essere sia determinato – e questa è la prima verità persuasivamente acclarata da Hegel51 –, perché questo determinato essere dovrebbe divenire? Non se ne vede la ragione, soprattutto se ci si attiene all’idea hegeliana che il divenire implichi contraddizione, essendo l’identificarsi di essere e nulla intesi quali affatto diversi (e necessariamente vanno intesi così, come s’è detto). Se l’essere determinato è tutt’altro che il suo altro, ed è in particolare tutt’altro che il nulla, non si vede perché si dovrebbero trasgredire il divieto di Parmenide, l’identità e la non con-

all’indeterminatezza dell’inizio, dia realmente quel positivo risultato che Hegel intende ottenere o, al contrario, se il negare la negazione non sia propriamente nient’altro che un continuare a negare» (ivi, p. 65). Chiereghin incentra qui, nella specifica questione del passaggio dal divenire all’essere determinato, il più ampio tema di cui essa è in un certo senso il prototipo, ovvero la tesi cruciale di Hegel che la negazione della negazione è anche un’affermazione, e non semplicemente un’ulteriore, fors’anche sterile negazione: «il dileguarsi del dileguarsi, la negazione della negazione, che dovrebbero assicurare il passaggio dal divenire al Dasein, in realtà non assicurano nulla, anzi, rendono ancora più evidente il salto che separa il pensiero dell’inizio da qualunque altro pensiero successivo alle aporie che rendono impraticabile il primo» (ib.). Per parte mia, ritengo che Hegel convincentemente possa superare l’inizio con l’essere e nulla indeterminati, approdando all’essere determinato, appunto dichiarando quell’iniziale semantizzazione dell’essere un abbaglio, ovvero che essi sono astrazioni, enti di ragione, se e poiché anche quella semantizzazione è un significato determinato. In questo ragionamento però – ch’è di tipo elenctico – il divenire non giuoca proprio alcun ruolo. Per quel che riguarda il ruolo della negazione e la positività di questa, ho esposto il mio punto di vista in F. PERELDA (2003, cap. VIII). 51 Il Dasein è per così dire l’inizio vero e proprio della logica, perché è irrevocabile e trascendentale: ogni cosa, ogni ente, ogni categoria è qualcosa di determinato. A dirlo, se mai ve ne fosse bisogno, è lo stesso Hegel, il quale, a proposito dell’unità di essere e nulla determinati prodottasi col divenire, costituente ogni determinatezza come realtà e negazione, positivo e negativo, ecc., afferma che «questa unità di essere e nulla sta ormai una volta per sempre per base qual verità prima, costituendo l’elemento di tutto quel che segue, tutte le ulteriori determinazioni logiche (senza contare il divenire stesso), l’esser determinato, la qualità, in generale tutti i concetti della filosofia» (SL pp. 73-4; WL I, p. 7522-6). Inoltre, poiché la determinatezza si compone di essere e non-essere, realtà e negazione, va ricordata l’affermazione hegeliana, altrettanto significativa e appena precedente quella citata, che «in nessun luogo, né in cielo né in terra v’è qualcosa che non contenga in sé tanto l’essere quanto il nulla» (ivi, p. 73), e dunque non v’è nulla che non sia determinato. Dell’«unità del non essere coll’essere» costituente l’ente, afferma poi che è essa la «base, dalla quale [l’essere e il nulla] non escon più prendere il significato astratto di essere e nulla» (ivi, p. 102; WL I, p. 10225-7), e che su di essa «s’impiantano tutte le ulteriori determinazioni» (ivi, p. 105; WL I, p. 10510-1). 102

traddizione, e affermare che l’ente che è diventi niente; che il niente che non è, invece che restare niente, diventi essere. Certo, assentendo con queste perplessità sulla convertibilità di essere e non-essere, il senso delle quali è condensato nell’antico assioma che ex nihilo nihil fit, si perviene secondo Hegel al panteismo, ovvero alla negazione radicale di ogni divenire. Si torna a Parmenide, insomma. Ma almeno si preserva l’identità dell’ente e la sua determinatezza. Solo che per Hegel una tale identità è del tutto astratta. In ogni caso, se la deduzione del divenire offerta nella prima triade lascia insoddisfatti, allora non c’è reciprocità nell’implicazione tra divenire e determinatezza dell’essere52. O forse, secondo Hegel, c’è – solo che gli argomenti in favore di essa si trovano altrove, non in quella prima triade. Li cercheremo fra breve.

52 La questione del ruolo del divenire rispetto alla determinatezza dell’essere è stata oggetto di numerose discussioni. Poiché da molti punti di vista la deduzione del divenire appare gracile, come anche qui s’è mostrato, alcuni interpreti hanno proposto di intendere il divenire quale l’immagine del divenire puramente logico, come l’archetipo del movimento del concetto che da una determinata nozione passa all’opposta. La logica hegeliana avrebbe inizio allora proprio presentando la nozione generale di movimento logico, di quel movimento che, una volta generato e inteso, intesse ogni successivo passaggio. E il primo passaggio all’opposto che si ha nella logica Hegel è proprio il passaggio dall’essere puro all’essere determinato. Per quest’interpretazione il divenire è allora una pseudo- o meta-categoria, quella del «passaggio all’essere determinato» (così l’ha definita McTaggart, ripreso da E. CASSIRER 1906-7, III, 2, p. 422). Quest’interpretazione ha il vantaggio di aggirare molte spinose questioni; ma ha lo svantaggio di non render conto di molti passi hegeliani assai espliciti in direzione opposta; e, più in generale, da un punto di vista teoretico, ha il difetto di trascurare il proposito di Hegel di trattare all’inizio della logica le più fondamentali ed elementari nozioni ontologiche, quali appunto quelle di essere, nulla, divenire, essere determinato (ente), ecc., in modo corrispettivo rispetto alla prima evoluzione storica del pensiero filosofico. H. G. GADAMER (1971), per parte sua, intende quale pseudo-categoria non già il divenire, ma l’essere e il nulla: in un certo senso, il vero cominciamento avviene secondo lui – che insiste sulla centralità del movimento del pensiero, e sul fatto che il pensare è determinare – solo col divenire (cfr. ivi, p. 95), mentre invece «essere e nulla debbono [...] essere trattati piuttosto come momenti analitici nel concetto del divenire. [...] Essere e nulla, [...] in virtù della loro differenziazione, si distinguono soltanto nel puro e pieno contenuto del concetto del “divenire”» (ivi, p. 96). Questa interpretazione, iniziando col divenire, offre in certo modo soluzione a uno dei problemi che aveva sollevati Trendelenburg (e con lui un’intera schiera di interpreti), ovvero come dal puro essere, identico col puro nulla, come da quell’unità statica, esca fuori il divenire. Infatti per Gadamer «la domanda di come dall’essere e dal nulla venga fuori il divenire non ha più significato. Perché una tale domanda implica che vi sia un pensare che per così dire non avrebbe ancora iniziato a pensare» (ivi). Ma Gadamer, iniziando col divenire, dovrebbe allora rispondere alla domanda perché s’inizi con esso, ovvero donde egli l’abbia tratto, questo divenire. La domanda canonizzata da Trendelenburg, una volta scomposta nei suoi rami (donde il determinato? Donde il divenire?), nonostante la suggestiva proposta esegetica e teorica di Gadamer, si ripropone, nella sua seconda forma (donde il divenire?) al mutato contesto, restando legittima quanto ancora senza risposta.

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3.14 La contraddizione del tempo Il divenire per Hegel è contraddizione, appunto perché è passaggio tra essere e non-essere: l’uno diviene l’altro, il proprio opposto, ciò che in alcun modo non è. A questa contraddizione gli antichi avevano posto soluzione da un lato col pensiero della conservazione sostanziale dell’essere, e dall’altro con il pensiero che gli opposti essere e non-essere si avvicendino nel tempo – col pensiero, in altre parole, che il tempo distenda la contraddizione del divenire. Per Hegel invece il tempo, lungi dal risolvere la contraddizione, è la contraddizione stessa, è la «pura contraddizione esistente» (FN p. 10; JSW III, p. 116). Con ciò egli sembra riproporre la figura dell’istante platonico come essenza stessa del tempo. Hegel ha trattato tematicamente del tempo più volte: negli abbozzi jenesi, nella filosofia della natura dell’Enciclopedia, nelle lezioni berlinesi e occasionalmente anche in altre opere, in cui ne tratta in rapporto allo Spirito, all’eternità e alla storia – senza contare poi che Hegel accenna ad una trattazione, mai scritta, dedicata esclusivamente alla metafisica del tempo. Vi sono significative differenze tra queste esposizioni – e gli interpreti non hanno mancato di metterle in luce. Nondimeno l’idea che il tempo sia contraddizione, nonché i termini in cui questa consiste, sono delle costanti delle varie analisi hegeliane, sì che per gli scopi presenti si può far uso di tutte le fonti disponibili utili53. Un passo molto noto dell’Enciclopedia afferma che «il tempo è l’Essere che, quando è, non è, e quando non è, è. Il tempo è il Divenire intuito» (E § 258). È anzitutto la prima parte di quest’affermazione ad attirare l’attenzione, poiché consta di una duplice contraddizione. Vien detto infatti di qualcosa, dell’essere, che simultaneamente è e non è; di esso si afferma e si nega, al contempo, e sotto il medesimo rispetto, il predicato di esistenza. Questo è il primo lato della contraddizione, rispetto al quale il secondo è affatto simmetrico. Infatti, dire che l’essere è anche quando non è, è daccapo negare e affermare il predicato di esistenza. Aristotele, basandosi sul principio di non contraddizione, o offrendone una diversa formulazione, aveva affermato l’opposto: «che ciò che è sia, quando è, e che ciò che

53 I testi cui farò riferimento sono la sezione dedicata alla meccanica del terzo abbozzo jenese di sistema (recentemente tradotto anche in italiano), il testo dell’Enciclopedia, e le due differenti trascrizioni delle lezioni di Hegel sulla filosofia della natura, risalenti al semestre 1821/’22, pubblicate solo nel 1985 a cura di W. Bonspien. Le differenze, messe in luce dagli studiosi, tra le varie esposizioni consistono p. es. nella progressiva separazione tra il tempo della natura, confinato da Hegel sempre di più alla dimensione della presenza, dell’adesso, e il tempo dello spirito, in cui trovano spazio le altre dimensioni temporali (il passato, e dunque la storia, il futuro) e l’eternità. Per la trattazione del tempo negli scritti jenesi, e per i relativi, ricchi rimandi bibliografici, cfr. G. RAMETTA (1989), L. RUGGIU (2002), nonché, più in generale sul tema del tempo in Hegel, G. SEVERINO (1997), M. MONALDI (2000, pp. 201 ss., part. 228 ss. e pp. 239 ss.), R. MORANI (2002).

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non è non sia, quando non è, risulta certo necessario» (De Int. 19 a 22 ss.). Ovvero: è necessario che l’essere sia, quando è; ed è necessario che non sia, quando non è. Ciò, si badi, non significa che quel che è sia necessariamente (lo precisa Aristotele subito di seguito), ma che è necessaria l’alternativa che o qualcosa sia o non sia, laddove l’operatore modale (è necessario che) governa l’intera disgiunzione, senza venire riferito distributivamente ai singoli disgiunti – la qual cosa sarebbe una fallacia logica54. Dunque, negar questo, che quel che è sia mentre è, e che quel che non è non sia fintanto che non è, è allora affermare l’impossibile ovvero una patente contraddizione – almeno per Aristotele. Questa contraddizione – che Aristotele vieta e invece Hegel afferma – viene tradizionalmente risolta (anche nella formulazione aristotelica) distinguendo i rispetti temporali: si può sì affermare e anche negare il predicato di esistenza, ma si devono riferire affermazione e negazione a tempi differenti – giacché il tempo ha proprio questa funzione: risolvere la contraddizione. L’essere, un essere, qualcosa, è quando è, e mentre è non può non essere; all’opposto, quando non è, non è, e non può essere55. Eppure per Hegel è il tempo stesso a riproporre la contraddizione che i differenti rispetti temporali dovrebbero sciogliere. Naturalmente, la contraddizione di Hegel non sorge perché egli neghi i rispetti temporali, ovvero la diversità dei tempi, il prima e il poi, il presente, il passato e il futuro. Egli non trascura il tempo: non è tutto simultaneo, per Hegel. Piuttosto, egli ritiene che sia la natura stessa del tempo a produrre e insieme a nientificare le differenze temporali medesime. La contraddizione del divenire lungi dall’esser risolta dalla serialità temporale si ripropone in essa.

La necessità che ciò che è sia, quando è, e viceversa, è qualche volta definita (forse impropriamente) necessità ipotetica, giacché non sancisce l’assoluta, incondizionata necessità che quel che è sia, e non possa invece, in un altro tempo, in mutate circostanze, smettere di essere; ma solamente che è impossibile che qualcosa sia e non sia, esista e non esista, al contempo. Questa necessità ipotetica, o della disgiunzione, si può esprimere simbolicamente così: ɷ x Fx v – x Fx) – laddove la necessità è espressa dal simbolo “ɷµHO·HVLVWHQ]DGLTXDOFRVDYLHQH resa con il quantificatore esistenziale vincolante una variabile su cui è espressa una qualche predicazione (eventualmente l’autoidentità). Da quella formula non si può ricavare la distribuzione dell’operatore modale all’interno della parentesi anteponendolo ai singoli disgiunti; non si può, in altre parole, ricavare: (ɷ x Fx v ɷ– x Fx). 55 E. SEVERINO (1982, pp. 21-22 e passim) ha messo in luce che anche in questo pensiero si annida una contraddizione, più profonda della precedente, all’origine dell’autentico nichilismo. La contraddizione di Hegel, per un Aristotele, sarebbe infatti la mancata considerazione dei diversi rispetti temporali; ma anche tenendo conto di essi, si pensa nondimeno che possa esservi un tempo in cui qualcosa (questa casa, i cento talleri, io; in generale) possa non essere. In quel tempo non è il nulla a esser nulla, e dunque a esser sé stesso; ma qualcosa, un essere, sì che nel tempo in cui l’essere non è, l’essere è sé stesso e anche il proprio opposto, l’essere è l’essere ma anche il nulla – donde appunto il pensiero nichilistico che l’essere come tale sia o possa essere nulla. 54

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Si è riportata prima quella definizione hegeliana di tempo, tratta dall’Enciclopedia. Essa fa il paio con numerose altre che corrono lungo l’intera produzione hegeliana. In un abbozzo jenese, p. es., Hegel non soltanto definisce il tempo in termini antinomici ma afferma esplicitamente essere quella definizione una contraddizione: il tempo «è l’essere esistente, che immediatamente non è, e il non essere esistente che altrettanto immediatamente è; esso è la contraddizione esistente» (FN p. 10; JSW III, p. 114-6). Inoltre, nella prima delle trascrizioni delle lezioni del semestre invernale 1821/’22 si legge che «l’astratto mutamento [Veränderung, alterazione], il fatto che qualcosa immediatamente non sia, in quanto esso è, e viceversa, costituisce il tempo» (RZL p. 50). Poco oltre Hegel soggiunge che «il tempo è dunque in generale questo processo del convertirsi [Umschlagen] dell’essere nel nulla» (ivi, p. 52), e ribadisce il concetto affermando che «nel tempo c’è assoluta inquietudine [Unruhe], quel che è non è, in quanto è; è un fuoco, in cui ogni differenza [Unterschied] istantaneamente si consuma. Quel che ora è posto, immediatamente non è più» (ivi, p. 55). Nella seconda trascrizione, si legge similmente: «il tempo è quel che in quanto è, non è, e in quanto non è, è. L’essere si converte [schlägt.. um] immediatamente in non-essere, e altrettanto il non-essere in essere» [ivi, p. 70]. «Il tempo stesso è dunque precisamente il volgersi [Umschlagen] dell’essere nel non-essere e del non-essere in essere» (ivi, p. 72). Queste formulazioni, con tutta chiarezza, insistono consapevolmente nell’essere il tempo immediata conversione di essere e non-essere. Immediata significa: nello stesso tempo. Mentre l’essere è, non è; essendo, non è; e viceversa. Non in tempi successivi. Su questo punto Hegel è molto chiaro, contraddicendo Aristotele. 3.15 Il tempo non è nel tempo Si potrebbero estrapolare numerose altre affermazioni dello stesso tenore; ma quel che importa è il fondamentale rilievo che il tempo non può consistere di intervalli ciascuno dei quali resterebbe ciò che è nel tempo in cui è. Secondo quest’idea, infatti, si produrrebbe il seguente rapporto tra divenire e tempo. Nel divenire si danno stati di cose differenti, p. es. (a) Socrate in piedi e (b) Socrate seduto. A Socrate però non convengono senz’altro le determinazioni opposte, appunto perché queste sono collocate in diverse parti del tempo, cosicché in un tempo tx Socrate è seduto e nel tempo ty è in piedi. In tal modo, in ogni parte di tempo Socrate ha una e una sola determinazione, non anche l’opposta. Ma in tal modo sono le stesse parti di tempo ad essere nel tempo, presupponendo con ciò una temporalità più originaria che ha rispetto ad esse la stessa funzione che il tempo ordinario ha rispetto agli eventi: distendere la contraddizione. Ma questo tentativo di soluzione appare insostenibile – come il ragionamento che segue si propone di illustrare. Si può accostare (come fece Bergson) questa concezione a quel che avviene in una pellicola cinematografica. Un fotogramma riprende un oggetto in una sua precisa fase, lo raffigura in modo affatto statico, del tutto determinato (senza contraddizione, dunque). Il movimento è paralizzato. Al fotogramma della pellicola corrisponde l’istante o segmento della serie temporale in cui si dà un certo stato di cose. Ma, come anche questo accostamento suggerisce, in tale concezione l’istante-fotogramma – entro il 106

quale vige l’assoluta stasi e non c’è alcuno stato di cose contraddittorio – è del tutto fisso. Nel caso della pellicola cinematografica, perché si abbia movimento occorre che la serie dei fotogrammi sia messa in moto dal di fuori, venendo fatta scorrere, mediante un meccanismo di trascinamento, davanti alla luce che li proietta. Di dinamico in tutto ciò c’è solo lo scorrimento dei fotogrammi, il moto della pellicola (impresso esternamente), giacché nei fotogrammi c’è assoluta stasi. Ora, fuor di metafora, se ogni istante o parte di tempo è saldamente per il tempo in cui è, allora la serie temporale così intesa è sì immune da contraddizione, ma è paralizzata alla stregua dei fotogrammi, e occorre un ulteriore motore che metta in moto gli istanti, li faccia avvicendare56. Questo ulteriore motore non può che essere un ulteriore

56 Una simile concezione del tempo è richiamata da S. BERNINI (1982) il quale ha dato una veste formale al discorso hegeliano sul divenire e sul tempo. «Un intuitivo oggetto U in divenire [Socrate, p. es.] è interpretato [...] come una funzione F (i) = Ui degli istanti i di una data struttura temporale» (ivi, p. 43) seriale e lineare, da Bernini precedentemente assiomatizzata. Ciò vuol dire che «se pensiamo gli istanti come interi positivi, allora “tutto” U è identificabile in una classe di oggetti del tipo {U1, U2, ...}. Gli oggetti Ui sono intesi essere oggetti atemporali. [...] [C]iascun Ui [è] la specificazione al tempo i del diveniente U, come un momento perfettamente definito della sua storia. [...] In generale, quindi, il divenire di un oggetto si risolve nel succedersi temporale di una serie di luoghi dell’intelletto [...] e l’inquietudine del mondo si risolve in pluralità di luoghi» (ib.). In altre parole: un certo U1 è Socrate all’istante i1, p. es. Socrate seduto; un altro U2 è Socrate all’istante i2, p. es. Socrate in piedi, ecc. Bernini poi illustra come si produca una contraddizione, in termini formali, quando si esprime la presunta tendenza degli oggetti atemporali a urgere oltre sé, a modificarsi: «ciò che si muove “internamente”, ovvero è necessitato a evolversi, pare produca la contraddizione. [...] [Un tale oggetto] è sé e la necessità di non esser sé, di superarsi. In base alla precedentemente esposta concezione descrittiva del divenire come pluralità di luoghi dell’intelletto è banale ridurre siffatta “contraddizione”, dietro opportune convenzioni, a un puro problema di definitezza semantica delle proposizioni, o se vogliamo, di confusione di ambito di riferimento delle proposizioni» (ivi, pp. 46-7). Infatti, un luogo dell’intelletto raccoglie le fasi di un oggetto in divenire fino ad un determinato istante (è una specie di «storia» di un oggetto). Anzi, propriamente si hanno tanti oggetti intemporali quanti sono gli istanti, e un luogo dell’intelletto ne è una collezione. Questo insieme verifica o falsifica tutte le proposizioni ad esso relative; ma né verifica né falsifica una proposizione che riguardi l’oggetto in un istante successivo a quelli relativi a un certo luogo dell’intelletto – a una certa «storia»: una proposizione che riguardi oggetti non definiti in un certo luogo dell’intelletto non è semanticamente definita, dal momento che un luogo dell’intelletto è lo stesso che un universo del discorso. Bernini mette in dubbio la contraddizione hegeliana, di cui pure fornisce plausibile formalizzazione, poiché mette in dubbio una delle premesse ond’essa scaturisce, ovvero il presunto «aspirare» di uno stato di cose a diventar altro da sé. «Se ciascun oggetto Uk è un quieto atomo atemporale, l’aspirare ad altro non può essere concepito come sua “interna” proprietà, come qualcosa per cui Uk arriva a diversificare sé da sé; bensì come un esplicito collegamento relazionale R (Uk, Uk+1) con un diverso» (ivi, p. 49). Bernini sembra essere dell’opinione che la nozione di serie ordinata degli istanti sia sufficiente a spiegare il tempo; che non sia necessario spiegare come e perché un istante si distrugga per diventare l’istante successivo. Peraltro di si-

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tempo, capace di produrre l’avvicendamento degli istanti che contengono gli eventi, scandendo il prima e il poi degli eventi e degli istanti: ora un istante è, ma poi non è più; c’è un momento in cui un istante c’è, e un momento in cui non c’è più. E come gli eventi sono rappresentati staticamente nei fotogrammi di una pellicola, così gli istanti degli eventi sono a loro volta relativi a dei tempi; e come i fotogrammi della pellicola sono mossi dal motore, così gli istanti degli eventi vengono fatti avvicendare da un flusso temporale ad essi esterno, rispetto ad essi più originario. Ma con ciò il problema del flusso delle parti del tempo è solo spostato, da quello della temporalità iniziale a questa seconda e più originaria rispetto alla quale si riproporrebbe daccapo l’intero discorso fin qui condotto. Ci si potrebbe chiedere, infatti, se gli istanti di questa temporalità sovraordinata, che scandiscono il prima e il poi degli istanti del tempo in essa contenuto, siano a loro volta parti statiche, o se invece ciascuno di essi mentre è si neghi e divenga un altro istante. Nel primo caso si toglie la contraddizione, ma col ricorso ad una temporalità terza ancora superiore, e poi a una quarta, e così via, all’infinito. Nel secondo caso si avrebbe che un istante non è mentre è; che esso si nega da sé, diventando nulla e diventando l’istante successivo. Sempre in questo caso il ricorso ad una temporalità sovraordinata (che corrisponderebbe a ciò che fa scorrere i fotogrammi statici, al moto esterno della pellicola), non ha prodotto alcun risultato capace di risolvere la contraddizione, ma ha soltanto spostato il problema.

mile opinione era B. Russell (richiamato anche da L. Rogowski, G. Priest, N. Strobach e da molti altri) che, trattando del movimento e delle antiche aporie messe in luce da Zenone, riteneva che questi avesse avuto ragione nell’indicarne la natura apparentemente paradossale. Russell annuncia di condividere «una teoria del mutamento che può venir definita statica, dato che ammette la giustezza dell’osservazione di Zenone» (POM § 332) che «la freccia nel suo volo è immobile» (ib.). Così per Russell «dobbiamo del tutto respingere la nozione di uno stato di moto. Il moto consiste semplicemente nell’occupazione di posti differenti in istanti differenti, occupazione soggetta alla continuità [...]. Non esiste transizione da posto a posto» (ivi, § 447). Inoltre, se il tempo si compone di istanti e in ciascun istante un oggetto occupa lo spazio che occupa, senza variazione, allora «non esiste qualcosa di simile alla velocità, salvo che nel senso di un numero reale che è il limite di una serie di quozienti» (ib.). Russell in altre parole perviene al «rigetto della velocità e della accelerazione come fatti fisici» (ib.). Ora, prescindendo dello specifico delle tesi di Russell, va notato che per esse, così come per il ragionamento delineato da Bernini, il movimento si compone effettivamente di fasi del tutto statiche serialmente ordinate; il problema semmai, come indica Russell, è avere una buona teoria sulla continuità e sulle relazioni. In entrambi i casi, però, il movimento e il tempo giungono dal di fuori, come un motore che mette in moto la pellicola composta dagli istanti-fotogrammi. Bernini infatti rifiuta che in uno stato dell’intelletto ci sia qualcosa per cui un oggetto diversifica sé da sé. Forse queste concezioni possono fornire un’ottima descrizione matematica del moto, ma non spiegano per quale ragione un istante si succeda all’altro, come un qualcosa si alteri, dal momento che l’avvicendamento degli istanti è demandato alla loro relazione seriale, della quale non vien detto nulla. Queste descrizioni, cioè, non dicono nulla sulla natura del tempo. 108

Il tempo invece è in sé stesso processo, flusso; esso è il suo trascorrere, il trascorrere delle sue presunte parti, e questo trascorrere consiste appunto nel diventare essere da parte di ciò che non è ancora, da parte del futuro; e nel diventare non-essere, ovvero passato, da parte di quel che è divenuto essere, presente. Un presente che non trascorresse mai; un futuro che restasse sempre tale, senza mai diventare presente; un passato che non fosse mai stato presente, ebbene queste dimensioni temporali non costituirebbero il tempo, poiché tutto sarebbe e resterebbe tale e quale è. Se dunque il tempo non è nel tempo, allora è proprio del tempo che l’istante mentre è divenga non-essere; che il presente mentre è divenga niente, divenga passato; che questo diventar passato da parte del presente non avvenga dopo che il presente è stato, ma mentre è. Si deve dunque riconoscere quel che aveva affermato Hegel, ovvero che «il tempo è quel che in quanto è, non è, e in quanto non è, è. L’essere si converte [schlägt.. um] immediatamente in non essere, e altrettanto il non essere in essere». La qual cosa poi vuol dire che non si può ricorrere ai diversi rispetti temporali per risolvere la contraddizione propria del tempo. Che il tempo non sia nel tempo, Hegel l’afferma chiaramente: «non ci si può rappresentare una sequenza di essere e non-essere entro il tempo. L’essere e il non-essere non si avvicendano in modo che i momenti seguano l’uno all’altro; questi momenti non sono nel tempo, l’uno e l’altro [scil. essere e non essere] sono egualmente immediatamente [gleich unmittelbar]» (RZL p. 51). Nell’altra redazione si legge: «non ci si deve raffigurare [il tempo] come se una sequenza di essere e non-essere fosse posta nel tempo; non ci sono due tempi, un essere e un non-essere. Quel che si sussegue sono gli istanti (Jetzt), un tale essere, il quale non è in quanto è, e che è in quanto non è» (ivi, p. 71). Si possono dunque distinguere sì i tempi, gli istanti in cui le cose esistono oppure non esistono, o sono in un certo modo o in altro modo; ma questo non preserva dalla contraddizione, poiché è proprio dei tempi, degli istanti, trascorrere, ovvero essere e simul anche non essere, mentre sono, immediatamente. La natura fuggevole dell’istante è ciò su cui s’impernia la trattazione hegeliana del tempo57.

57 Nelle Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio si trova un interessante passaggio che riguarda lo scorrere del tempo e l’idea ingenua – della rappresentazione, dell’intelletto – che ci sia un tempo in cui l’«ora» è, cosicché l’intera serie temporale viene immersa in un’ulteriore temporalità che misura il tempo in cui le determinazioni della precedente sono. Hegel ribadisce che non c’è un tempo entro cui un istante è, e dopo il quale non c’è più: l’istante, l’ora presente si toglie da sé; mentre è non è. Afferma Hegel che «ciascuno è abbastanza avanti per dire: “il tempo passa”. Se tra il finito [scil. ciò che è nel tempo, che è contingente] e il suo passare si introduce l’adesso [das Jetzt], e perciò all’essere deve essere posto un “alt” [Halt], si dirà: “il finito passa ma adesso è”; ma quest’adesso è tale che non solo passa, bensì è già passato nel mentre è: l’adesso, nel mentre io ne parlo e ne ho coscienza, non è più lui, ma un altro» (LPD p. 141; W 17.478).

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3.16 Le dimensioni del tempo e l’«ora» «Le dimensioni del tempo sono presente, futuro e passato» (RZL p. 52), ovvero l’essere ora, il non essere ancora e l’essere già stato. Ma il «il tempo è continuo allo stesso modo dello spazio» (ivi, p. 51), e «futuro e passato [...] sono uniti nell’ora (Jetzt)» (ivi, p. 71) – essendo appunto che l’ora, il presente, è il discrimine tra futuro e passato (come in Aristotele)58. Ma futuro e passato propriamente non sono: «né il passato né il futuro sono, bensì solo il presente» (ivi, p. 71); questo è «l’immediato scomparire dell’uno nell’altro» (ib.). È in esso, nell’ora, che l’essere passa immediatamente nel nonessere e viceversa: «l’ora non è al di fuori del passato e del futuro, bensì è solo il processo del coincidere dei due in uno, il processo del sorgere e perire» (ivi, p. 71). Hegel sembra concepire dunque il presente come una specie di limite tra passato e futuro, non come una dimensione stante per sé; d’altra parte il presente è ciò che è; ma, allo stesso modo, il presente è ciò la cui natura è di trascorre, di non essere più. Il sorgere e il perire sono, rispettivamente l’incominciare ad essere e il cessare di essere. E l’ora, l’istante presente, è proprio l’incominciare ad essere da parte del nonessere rappresentato dal futuro: «il nulla [Nichts] che è destinato a convertirsi in essere, è il futuro» (RZL p. 52); ma allo stesso modo l’ora è anche il cessare di essere da parte dell’essere presente, il suo diventare non-essere, ovvero il diventare passato. Perciò l’ora è il volgersi, il convertirsi di essere e non-essere, in entrambe le possibili direzioni: «l’ora trascorre [vergeht], ovvero è destinato a non essere. Un non-essere è destinato a prendere il suo posto, allo stesso modo che esso ha occupato il posto di un nonessere. Un altro prende il suo posto, un altro il quale è ancora solamente non-essere, è il futuro» (ivi, p. 52). Ma appunto «passato e futuro sono congiunti nell’ora, il quale non è nulla di quieto, bensì passaggio [Übergang] del qualcosa nel nulla e del nulla nel qualcosa, è l’unità di entrambi i movimenti» (ivi, p. 52). La convergenza di futuro e passato nell’ora è peraltro un concetto che si ritrova già negli abbozzi jenesi59. 3.17 Tempo e divenire Perché ci sia tempo, occorre poter differenziare il prima dal poi, il passato dal futuro, l’essere dal non-essere. Questo d’altra parte non è un risultato speciale che Hegel

Le consonanze della trattazione hegeliana del tempo con quella aristotelica sono state messe in evidenza dagli studiosi dopo che M. Heidegger, in Essere e tempo e poi anche altrove, ha richiamato l’attenzione su di esse, affermando che la teoria hegeliana del tempo è una specie di traduzione in termini dialettici di quella aristotelica, e che entrambe riproducono la concezione ordinaria e spazializzata del tempo (cfr. M. HEIDEGGER 1927, §§ 82 ss.). La fondatezza delle tesi heideggeriane è stata più volte discussa, anzitutto da J. DERRIDA (1968). Sull’intera questione, anche per i precisi rimandi bibliografici, cfr. L. RUGGIU (1998a) e (2002). 59 Cfr. JSW III, p. 12 -13 , FN p. 11. 26 10 58

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acquisisca nelle analisi sul tempo: il tempo ha stretto rapporto col divenire – proprio col divenire di cui Hegel parla nella logica, nonostante le differenze e le precisazioni che pure vanno riconosciute60. Il divenire è il passare dall’essere al nulla e dal nulla all’essere; ma del nulla e dell’essere determinati e dunque affatto diversi. È il processo con cui una certa casa è, viene ad essere, venendo costruita; o con cui diventa nulla, se viene abbattuta. E anche per Hegel c’è un rapporto essenziale tra divenire e tempo, come

60 Di avviso nettamente contrario (tra gli altri) F. Chiereghin il quale afferma che «il concetto di divenire, proprio perché appartiene alle pure essenzialità logiche, non è affetto da alcuna determinazione temporale. Anche se Hegel usa espressioni che possono richiamare il movimento, e quindi il tempo (il divenire come “trapasso” dell’essere nel niente e del niente nell’essere; il divenire come “irrequietezza” che si volge contro se stessa ecc.), il realtà il vero e proprio concetto del divenire è quello di “unità dell’essere e del nulla” e, pur con tutte le difficoltà che gravano sull’astratto concetto di “unità”, esso mostra a sufficienza come il divenire non abbia alcun rapporto col tempo e col movimento, ma appartenga allo sviluppo atemporale del pensiero in se stesso» (F. CHIEREGHIN 1994, pp. 17-8). Ora, pur concordando con Chiereghin su tutte le differenze che vanno riconosciute tra la figura logica del divenire e quella del tempo – differenze che sono anzitutto, entro il sistema di Hegel, topologiche e dunque anche concettuali (il divenire è la terza categoria della logica, la quale logica è in certo modo antecedente la creazione del mondo, quale eterna verità vera in sé stessa, mentre il tempo compare nella meccanica, ovvero nella filosofia della natura) –, non sono tuttavia d’accordo colla sua affermazione (se l’ho intesa rettamente) che il divenire di cui parla Hegel nella logica sia il divenire puramente logico, e non invece il divenire delle cose del mondo. Il divenire quale terza categoria della logica è sì il divenire logico, ma non nel senso che esprima solamente le trasformazioni logiche dell’andamento categoriale, bensì nel senso che è il divenire trattato logicamente, ovvero concettualmente: è il concetto del divenire. Allo stesso modo, quando Hegel nella logica parla, p. es., del meccanicismo, non parla del meccanicismo della sua logica (ovvero dell’idea che l’impianto categoriale si regoli in modo meccanicistico, posto che quest’idea possa avere un qualche senso), ma parla in termini puramente logici del meccanicismo del mondo. D’altra parte, tutta la discussione sul divenire, che Hegel affronta nella logica e specialmente nelle quattro annotazioni di cui s’è qui parlato abbondantemente, fa riferimento non già al divenire inteso quale passaggio logico tra categorie (il quale passaggio peraltro dovrebbe essere, nello specifico hegeliano, la forma della derivazione, della deduzione delle stesse, e dunque il metodo dialettico), bensì al divenire reale, esprimendone le pure essenzialità quali il cominciare ad essere e il cessare di essere da parte di qualcosa (di me, di una casa, ecc.). Il richiamo a Parmenide, quale negatore del divenire, nonché all’assioma ex nihilo nihil fit, quale eguale negazione, è indicativo: Parmenide e quell’assioma non sono negatori di un divenire logico, ovvero di procedure dimostrative, quali che siano (analitiche, dialettiche); ma del divenire delle cose nel tempo; del fatto che qualcosa possa prima essere e poi non più, o viceversa. D’altra parte, il successivo richiamo a Eraclito mi pare ancora una volta indice del fatto che ciò di cui parla Hegel sia proprio il divenire temporale delle cose, il «fuoco» che le consuma. Nelle Lezioni sulla logica del 1831, nella trascrizione di K. Hegel, figlio del filosofo, Eraclito è menzionato quale filosofo i cui principi sono il divenire e il tempo: «Eraclito afferma anche che il tempo è il principio, [il] tempo è proprio questo divenire, nient’altro che un’altra intuizione del divenire» (VL p. 104). Sul tema del tempo in Hegel, cfr. anche G. RAMETTA (1989, in part. cap. II).

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già per Aristotele: «le cose si mutano» – afferma Hegel – «e questo loro mutare stesso, considerato astrattamente, è il tempo. Non c’è dunque alcun mutamento al di fuori del tempo. Tutte le cose che si mutano sono temporali. [...] Là dove non c’è alcun mutamento, non c’è tempo» (RZL p. 53). La differenza tra tempo e mutamento, divenire, è che «il tempo è in generale l’astratto divenire nella natura. Intuendo il mutamento astratto, abbiamo l’intuizione del tempo» (ivi, p. 70). «Solo l’intelletto tiene separate [hält... auseinander] le astrazioni di essere e non essere» (ivi, p. 71). Ne sono coerente espressione l’eleatismo anzitutto, e poi l’atteggiamento dell’intera tradizione filosofica di tenere saldo (con scarsa coerenza, se si vuole anche affermare il divenire) l’assioma che ex nihilo nihil fit – come s’è veduto. Ma «la loro verità [di quelle astrazioni] è il divenire, del quale abbiamo intuizione nel tempo» (ib.)61. Altrove Hegel precisa i rapporti tra l’intuizione, il tempo e il divenire, affermando appunto che il tempo è il «divenire intuito» (E § 258), il «sensibile non-sensibile» (ib.), intendendo appunto che il tempo è la forma astratta della processualità del divenire reale, offerta all’intuizione62. Sono le cose che divengono, che mutano; ma la forma del loro mutare è il tempo. 3.18 Negatività del tempo Quel che importa tenere in vista, di questo rapporto tra divenire e tempo, è che il tempo riproduce la medesima struttura antinomica del divenire – il tempo essendo, come direbbe Aristotele, qualcosa del divenire, ed il divenire essendo contraddizione. Infatti, nel tempo si ha la medesima differenza tra essere e nulla presupposta e affermata nel divenire, nonché la medesima cancellazione di quella differenza – cancellazione nella quale pure il divenire consiste, esso identificando essere e nulla. Anzitutto l’elemento della differenza. Per l’istante presente, per l’ora (lo Jetzt), non è lo stesso essere o meno: esso (nella sua specificità) è quando è presente, e ciò lo differenzia dal passato e dal futuro. Questa è la differenza tra essere e non-essere caratterizzante le dimensioni temporali63, sulla quale Hegel insiste in più luoghi: il passato è ciò che non è più, il presente è ciò che è, il futuro è il non esser ancora. Ma accanto alla non-identità c’è l’elemento dell’identità dei non-identici, ovvero la negazione della differenza: «il tempo è la differenza che annienta sé stessa [der sich selbst vernichtende Unterschied], la differenza che si rapporta puramente a sé stessa, dunque immediatamente il togliere del differente [das Aufheben des Unterschiedenen], un essere che

61

Affatto convergenti le espressioni della prima trascrizione delle stesse lezioni: cfr. RZL p.

52. 62 Questa tesi è in certo modo un riferimento a Kant che riteneva essere il tempo una forma dell’intuizione. Sul rapporto tra tempo e concetto, cfr. anzitutto L. RUGGIU (1998a), anche per l’ampio corredo bibliografico; nonché, tra gli altri, B. DI GIOVANNI (1970) e (1982), L. LUGARINI (1981), G. SEVERINO (1997), R. MORANI (2002). 63 Cfr. p. es. RZL p. 52.

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è l’autotogliersi della differenza [ein Sein, das das sich selbst Aufheben des Unterschieds ist]» (RZL p. 55). Questo di Hegel è certamente un modo ostico di esprimersi. D’altra parte, egli stesso ammette che è proprio «l’immediato avvicendarsi dell’essere e del nonessere a far sì che il tempo sia difficile a comprendersi» (ivi, p. 51). In verità, pare che questo carattere di immediatezza dell’avvicendamento voglia dire che non ci sia avvicendamento alcuno: non c’è prima l’essere dell’ora, poi il suo non-essere, come si è veduto, bensì coincidenza di essere e non-essere – la qual cosa è proprio una contraddizione, e le contraddizioni, com’è noto, sono certo difficili a comprendersi. La negatività costituisce la natura del tempo64. Ma la negatività qui è anzitutto il fatto che, se ci sono divenire e tempo, allora l’essere, nel «passaggio» tra uno stato e l’altro, nel trascorrere dell’istante, è il suo opposto, è il non-essere, e viceversa. La negatività è la contraddizione esistente per cui «l’Essere [...], quando è, non è, e quando non è, è». Oppure, per dirla in altro modo, essa è il togliersi da sé della differenza tra essere e non-essere, cosicché che l’ente diviene niente o viceversa. Ancora: è il sopprimersi da sé dell’essere di ogni istante, dal momento che l’istante è il venire ad essere del futuro e l’andare nel niente da parte del presente. Come già nella trattazione aristotelica, la negatività del tempo emerge in modo particolare nella natura dell’istante. Val la pena soffermarsi. Nel testo jenese Hegel perviene a determinare la temporalità attraverso le aporie dello spazio, assimilando la dimensione del presente all’«uno». Sono queste deduzioni tortuose, poi diversamente elaborate in altri testi, sulle quali non intendo trattenermi, non essendo indispensabile per le presenti analisi. È invece rilevante l’esito di quei ragionamenti relativamente alla qualificazione del presente, il quale viene assimilato all’«uno»: «questo uno è, esso è immediato; giacché la sua autoeguaglianza è proprio l’immediatezza; esso è il presente. Questo ora esclude assolutamente da sé ogni altro, esso è assolutamente semplice65» (FN p. 10; JSW III, p. 1119-21). Con ciò Hegel sta indicando nell’istante presente un’unità semplice, indivisa, che esclude da sé altre le dimensioni temporali, il passato e il futuro. Il presente è l’essere che è, e che al pari dell’unità, dell’«uno», non ha interna molteplicità, escludendo da sé ogni altro ovvero differendo dal non-essere di passato e futuro. Il presente appare come un punto di una retta, del tutto semplice ed eguale a sé stesso. Eppure la sua natura non è quella di stare, di essere, altrimenti non trascorrerebbe. Piuttosto, esso è affermazione altrettanto che negazione di sé: «questa semplicità e suo essere è altrettanto l’immediatamente negativo della sua immediatezza [ovvero del suo positivo essere], il suo togliere di sé stesso [Aufheben seiner selbst]» (ivi, p. 11-2). È sorprendente questa qualificazione del presente come un che di semplice, di essente, tale però che, immediatamente, di per sé anche non è, si toglie, nega sé stesso. Per-

Cfr. RZL p. 50. Certo, il tempo ha la negatività, ma non è la negatività (su ciò, cfr. L. RUGGIU [1998a], [2002]), la quale propriamente è il concetto medesimo. 65 A margine del foglio Hegel annotava: «contraddizione di pura differenza e autoeguaglianza pure» (JSW III, p. 11, n. 4). 64

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ciò il presente ha natura negativa. Come gli studiosi hanno messo in luce66, la negazione dell’essere del presente non si deve ad altro che al presente medesimo, al suo essere. Non che questo chiarisca la ragione di un tale negarsi, ma la focalizza radicandola nel presente medesimo. Questo tratto dell’autonegazione ha ulteriore riscontro nel testo e nelle tesi hegeliane col pensiero dell’immanenza del futuro nel presente. Nell’immagine consueta del tempo, il presente è ciò che è ora, l’essere che c’è; mentre il futuro sopraggiunge su di esso, negandolo, negandone la presenza e facendo di esso un passato – quasi che invece il presente, in questa concezione ingenua, se non ci fosse quell’intervento scalzante del futuro, potesse continuare ad esserci avendo di per sé il carattere della stabilità. La qual cosa apparirebbe poi strana, dal momento che ciò che costringerebbe il presente a deporre il carattere dell’esistenza e a diventare un non-essere sarebbe il futuro, ossia un non-essere assoluto: non si capirebbe, in altre parole, come ciò che non c’è possa avere forza e potenza tali da annientare quel che c’è. Quest’immagine del trascorrere del tempo, dunque, già solo per questo, si mostra gracile rispetto ad un’analisi concettuale. Per ragioni simili a queste, Hegel pensa che il futuro sia non già esterno, ma immanente al presente: non sopraggiunge come qualcosa di estrinseco, come una specie di «potenza estranea» nientificante. Il futuro piuttosto altro non è che la natura immediatamente negativa del presente: «il futuro è perciò immediatamente nel presente, poiché esso è il momento del negativo nel presente stesso; l’ora è altrettanto essere che dilegua, come il non-essere è immediatamente rovesciato nel suo proprio contrario, nell’essere» (ivi, p. 1214-17)67. Affermazioni dello stesso tenore si trovano anche in un

Cfr., tra gli altri, le recenti indagini di M. MONALDI (2000, p. 240 e passim). M. MONALDI (2000, p. 242 e ss., part. p. 243 n. 92), commenta attentamente questo passo, chiedendosi che rapporto venga in esso indicato tra futuro, presente e passato. Poco plausibile è secondo lui l’interpretazione che Hegel pensi semplicemente ad una specie di «cambio di posto» tra dimensioni temporali, per cui il futuro scalzerebbe il presente, prendendone il posto; e il presente, negandosi, diventerebbe passato. Giacché, secondo Monaldi Hegel «non è interessato a ricostruire il tempo empirico da un presente (a) a un altro presente (b), finendo magari per essere costretto a evidenziare una differenza qualitativa tra i due presenti come porzioni reali del tempo [...]: la differenza qualitativa riguarda le dimensioni temporali, non i singoli ora dei presente intratemporali che si succedono» (ivi, p. 234 n. 92). A questo proposito si può osservare quanto segue. Forse ha ragione Monaldi a ritenere che Hegel non abbia in vista solamente il «cambio di posto» e il tempo empirico; ma certamente ha in vista anche essi, giacché pure per Hegel il futuro diventa presente e il presente passato. Non si vede, poi, che altro tempo vi sia oltre a quello empirico: come indicava Aristotele, il tempo è unico, e non ci sono «molti tempi» simultanei (anche se differenti dimensioni dell’essere possono diversamente subire la temporalità: ci sono enti che vengono trascinati via, ed altri che si realizzano nel tempo, pervenendo al loro compimento, alla loro «verità»; di ciò stesso il testo di Monaldi è un’ottima illustrazione). D’altra parte, pensare che il presente, l’ora, sia volta a volta diverso, perché diversi sono gli «ora» specifici che si succedono; eppure anche sempre identico, giacché l’«ora» è sempre tale, eb66 67

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precedente testo jenese, nel quale si legge che «l’ora è immediatamente l’opposto di sé stesso, il negarsi» (JSW II, p. 19417-18). Il futuro è ciò cui il presente non può opporre resistenza; giacché il futuro è l’essenza del presente, il quale di fatto è il non-essere di sé medesimo. Togliendosi così il presente, in quanto il futuro piuttosto diviene in esso, è questo futuro stesso; o questo futuro di fatto pure non è il futuro, è quel che toglie il presente, ma in quanto esso è questo, il semplice che nega in modo assoluto, è piuttosto il presente il quale però allo stesso modo è secondo la sua essenza il non-essere di sé stesso, o il futuro. (JSW II, p. 19424-28)

Si tratta di espressioni astruse, che mirano tuttavia a collegare presente e futuro in modo che l’auto-negazione del presente faccia spazio al sopravvenire del futuro, e che il futuro non sia altro che questa autonegazione del presente. Hegel sostiene altresì che il rapporto negativo sia duplice: in quanto il presente è negato, sopraggiunge il futuro; ma anche quest’ultimo si nega proprio perché sopraggiungendo non è più futuro, ma il nuovo presente: l’ora ha in sé stesso il suo non-essere, e si converte immediatamente in altro, ma quest’altro, il futuro, cui il presente si fa identico, è immediatamente l’altro di sé stesso, giacché esso ora è il presente; ma non è quel primo ora, quel concetto di presente, ma un ora che è divenuto a partire dal [primo] presente mediante il futuro, un ora in cui si sono tolti sia il futuro che il [primo] presente in egual modo. (JSW II, p. 1951-6)

Ancora poco oltre Hegel ribadisce l’essenza negativa del presente: «l’ora è nella sua essenza relazione assolutamente negativa; avendo questa sua essenza o interiorità, è l’essere di quest’essenza; questa sua essenza è il suo non-essere, o l’essere del futuro interno all’ora» (JSW II, p. 19518-20). Con un accostamento tra coppie di concetti tutt’altro che casuale e sul quale si farà ritorno, si può indicare un’analogia nei rapporti tra il finito e l’infinito da un lato, e il tempo e il suo trascorrere dall’altro, al modo seguente: così come il futuro, inteso quale negazione del presente, è la natura di quest’ultimo, allo stesso modo «il finito non vien tolto dall’infinito quasi da una potenza estranea [einer außer ihm vorhandenen Macht] che fosse data fuori di lui, ma è la sua infinità, di toglier via se stesso» (SL I, p. 149; WL I, p. 14538-462) – giacché l’infinito non è, rispetto al finito, per nulla una «potenza estranea [eine fremde Gewalt una violenza esterna]» (SL I, p. 139; WL I, p. 13626). Anche nei testi successivi, tramandatici come trascrizioni delle lezioni, si ritrova il tema della natura qui detta negativa, estatica – per dirla con Aristotele – del tempo: la fuggevolezza di esso, del presente, che cessa di essere non appena ha iniziato ad esser essere. Anzi, non c’è propriamente un indugiare nell’essere da parte del presente. Il diventare non-essere da parte dell’essere (presente) è simultaneo al suo essere. Il quale essere non è altro che l’esser divenuto essente, presente, da parte del futuro ossia del non-essere. «In quanto dico l’ora, esso già non è più, non viene posta da esso alcuna interruzione. Questo flusso, questa eguaglianza degli ora, [ovvero] il fatto che ciascuno

bene ciò non fa che ribadire la concezione aristotelica dell’istante come sempre identico e sempre diverso. Effettivamente, le consonanze tra le teorie aristoteliche e quelle hegeliane sono tutt’altro che superficiali. 115

toglie sé stesso e ne produce un altro, [è presente]68» (RZL, p. 51). In quanto dico: «ora», l’ora non è più69, ma non perché la sua durata sia troppo breve perché io me ne accorga, ma perché è la sua natura quella di cancellarsi. Esso si toglie da sé, «toglie sé stesso e ne produce un altro». 3.19 Tempo e divenire: ripresa La concezione di Hegel del tempo quale contraddizione – tanto che la si condivida, quanto che no – è certo coerente con la sua concezione del divenire. In entrambi si ha il continuo (rastlos) e immediato convertirsi (umschlagen) di essere e nulla intesi come non-identici, come opposti. Qui e là io amo la libertà La domanda che sorge è: perché essere e non-essere, se sono diversi, opposti, dovrebbero «convertirsi» l’uno nell’altro? Perché, se l’uno non è l’altro, non è assolutamente l’altro, essi dovrebbero passare l’uno nell’altro e, passando, dovrebbero l’uno diventare l’altro, identici l’uno all’altro? Infatti, la ragione più o meno esplicita per cui antichi e moderni, da Parmenide in poi, pensano che l’essere non possa diventare il proprio opposto, è che esso, se lo diventasse, diventerebbe identico a questo, sì che si violerebbe il principio di identità per il quale qualcosa è sé stesso e non l’altro da sé – e tantomeno qualcosa è (il) niente. Nessun pensatore della tradizione razionalistica in senso lato ha inteso violare apertamente questo principio (a parte il caso della riproposizione da parte della teologia cristiana della figura della KDSOēJHQHVLV, della genesi assoluta dal nulla, con la figura della creazione). A dire il vero, nella storia del pensiero si trova anche un altro percorso, in certo modo parallelo a quello del razionalismo, che ha inteso l’unità eraclitea degli opposti come loro coincidenza, scardinando i capisaldi del pensiero aristotelico, ovvero l’impossibilità che qualcosa sia il proprio opposto, abbia predicati opposti. Si tratta di una tradizione che attingendo ad Eraclito – o fondandosi su una certa interpretazione dei suoi frammenti – si conduce su, attraverso il Neoplatonismo e i pensatori del Rinascimento, fin all’Idealismo tedesco, ergendo a principio supremo l’unità degli opposti intesa però come loro identità (coincidentia oppositorum), e avversando quindi i divieti della tradizione logica aristotelica70. Ma a parte questa tradizione, gli sforzi – coronati

Integrazione del curatore W. Bonspien. Questa natura fuggevole dell’ora è esposta da Hegel anche nell’esordio della Fenomenologia, nella critica alla certezza sensibile. 70 Allude significativamente a questa tradizione, radice di certi pensieri hegeliani, L. LUGARINI (1998, pp. 54 ss.), il quale cita con competenza e acume certi scritti di Cusano e di Bruno. Quanto a Hegel, Lugarini afferma che questi già «nei suoi primi anni di Jena [...] appare inserito in un filone di pensiero eterogeneo rispetto a quello di cui sono principio l’identità dell’intelletto e la non contraddizione e del quale è nerbo il reciproco escludersi degli opposti. È un filone che, di là da Bruno e Cusano, rimanda a sorgenti neoplatoniche e in definitiva alle lontananze preasistoteliche del pensiero di Platone e a quelle, presocratiche, del pensare eracli68 69

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o meno da successo, non importa – sono stati quelli di conciliare il divenire, e persino il divenire ex nihilo della creazione, col principio di identità, col pensiero che l’essere è sé stesso, non anche il suo opposto. Il divenire per Hegel è la «contraddizione esistente», palese violazione del divieto di Parmenide (divieto che nemmeno il parricidio platonico del Sofista ha in questo senso violato). Sul significato preciso della contraddizione in Hegel si farà ritorno; ma è rilevante che Hegel tenda ad assimilare il principio di contraddizione a quello di identità, del quale il primo è secondo lui una formulazione negativa e perciò ai suoi occhi più ricca, articolata. Hegel infatti, dallo Scritto sulla differenza su su fino alla Scienza della logica, ha simbolizzato il principio di identità come «A=A [...] espressione della vuota tautologia» (SL p. 459), del quale «l’altra forma [...] A non può essere insieme A e non-A, ha una forma negativa; si chiama il principio di contraddizione» (ivi, p. 463). Il principio di contraddizione pare dunque sancire per Hegel – prima ancora che l’impossibilità che a una stessa cosa convenga e anche non convenga un certo predicato, com’è per la formulazione aristotelica – l’esplicitazione, esposta in forma negativa, dell’inviolabilità dell’identità di una cosa con sé. Se e poiché una cosa è eguale a sé stessa (principio di identità), allora non può essere (eguale a) sé stessa e anche (eguale a) ciò che le è diverso (principio di contraddizione)71.

teo» (ivi, p. 60). Che la logica e l’ontologia hegeliane si allineino non già con quelle platonicoarisoteliche (come invece vorrebbe Hegel), ma con un filone diverso avente la sua origine in Eraclito, è opinione anche di K. DÜSING (1984), il quale afferma che «Hegel, in particolare col pensiero del positivo significato ontologico della contraddizione, giunge ad una teoria ontologica altra rispetto a quella di Platone o di Aristotele, e con la sua propria concezione ad una parziale restituzione della dottrina eraclitea, oltre la cui semplicità ontologica egli però procede oltre, dispiegando l’intero regno delle determinazioni ontologiche» (ivi, p. 316). 71 Su queste formulazioni ci sarebbe molto da dire; ma mette conto subito di notare, a ulteriore conferma dell’apparentamento dei principi di identità e contraddizione nel pensiero di Hegel, che il nome di principio di contraddizione, nella logica di Jena, è persino impiegato, nel titolo di un paragrafo, in modo sinonimico rispetto al principio di identità. Cfr. JLM p. 130, it. 126. Peraltro, l’idea che il principio di identità abbia tanto una formulazione positiva quanto una negativa – qualche volta assimilata al principio di contraddizione – si ritrova nella tradizione razionalistica tedesca facente capo a Leibniz, il quale p. es. nei Nuovi saggi, lib. IV, cap. II, § 1, distingue le verità primitive identiche positive – delle quali il prototipo è «A è A» – da quelle «identiche negative che derivano [...] dal principio di contraddizione» (SF II, p. 343), tra le quali annovera l’esempio: «ciò che è A non potrebbe essere non-A» (ib. p. 344). Sulla matrice razionalistica dell’apparentamento del principio di contraddizione a quello di identità, si veda, per un utile rinvio alle fonti (Cartesio, Leibniz, Wolff, Baumgarten, Kant, nonché la logica di Porto Reale, e poi Fichte e Schelling), F. LONGATO (1977, p. 155 n. 104), oppure ID. (1982, p. 458 n. 69). E. BERTI (1987, p. 154 n. 25) richiama significativamente l’opinione di Abbagnano che l’assimilazione del principio di contraddizione a quello di identità sia stata preparata dalla scolastica scotista e occamista, riferendo la formulazione di Antonio Andrea detto lo «Scotello» († 1320), il quale affermava esplicitamente la priorità del principio «l’ente è l’ente» su quello che è 117

Raccogliendo le indicazioni qui accennate, segue che, se e poiché in Hegel il principio di contraddizione esprime in forma negativa quello di identità, allora, dal momento che per Hegel tempo e divenire hanno la struttura della contraddizione, essi hanno altresì la struttura della negazione dell’identità, ovvero la forma dell’identificazione di qualcosa al suo altro, e più in generale dell’identificazione dell’ente al niente. D’altra parte, come si vedrà, Hegel svolge, relativamente al principio di identità, una serie di critiche che ne sconfessano la presunta inderogabile validità; e ciò è perfettamente coerente con l’idea che il divenire e il tempo siano reali, e che la loro natura sia quella di essere negazione dell’identità. (E si ricordi che la rigida identità dell’essere con sé stesso, e l’assoluta differenza di esso dal non-essere è da Hegel riguardata come l’assioma stante alla base del panteismo eleatico o spinozista che «sopprime il divenire»)72. Ora, la domanda dianzi formulata, come sia possibile che l’essere si faccia nulla e viceversa, se essere e nulla sono diversi ed opposti, viene incalzata ed approfondita dalla seguente: qual è per Hegel il senso, il significato dell’essere, tale per cui l’essere possa divenire – e dunque possa divenire identico a, possa essere – il non-essere? Che cosa sono l’essere, l’ente, se possono diventare niente, e se il niente può diventare essere, producendosi evidentemente e necessariamente in questo «passare» la «contraddizione esistente»? Questa domanda sul significato o l’essenza dell’ente ci conduce ora ad affrontare il cuore dell’ontologia hegeliana, là dove Hegel, nella Logica, espone che cosa sia l’essere e come esso venga semantizzato73. Un primo passaggio di questa teoria s’è qui già considerato: dalla nozione di indistinto essere, che si rivela da subito intrinsecamente aportetica e astratta, si passa alla nozione di essere determinato. Questo primo passaggio è internamente articolato in modo da includere la nozione di divenire, quasi che in esso passaggio si dovesse appunto tematizzare il «passare» stesso delle nozioni logiche

impossibile che la stessa cosa simultaneamente sia e non sia (cfr. N. ABBAGNANO [1971, p. 458]). La voce identità del dizionario dell’Abbagnano riferisce peraltro altri luoghi significativi, della filosofia medievale, moderna e contemporanea, in cui sono attestate l’elevazione dell’identità a principio logico, e l’assimilazione ad essa del principio di non contraddizione, nonché più in generale la relazione tra i due principi. 72 Cfr. supra p. 92, p. 100 e passim. 73 La logica hegeliana è, si sa, un’ontologia. Lo stesso Hegel afferma che la metafisica dopo Kant s’è trasformata in logica. Certo, ci si potrebbe interrogare sulla ragione per cui Hegel voglia chiamare la sua ontologia o filosofia prima logica, scienza della logica, anziché appunto ontologia o filosofia prima. Le ragioni di questa scelta non sono affatto casuali, ma radicate nella concezione hegeliana della filosofia. Nondimeno, non smentiscono che la logica hegeliana sia un’ontologia, tratti di ciò che tradizionalmente era di competenza dell’ontologia o filosofia prima o metafisica generale e speciale (secondo quel che lo stesso Hegel afferma). Per un primo rimando bibliografico, cfr., tra i molti possibili, A. NUZZO (1997), e, per una prospettiva storico-genetica, F. CHIEREGHIN (1992); entrambi i testi sono corredati di ampia bibliografia. Ho esposto il mio punto di vista in F. PERELDA (2003, cap. V). 118

le une nelle altre. Vale a dire: non soltanto coll’incipit della logica si assiste ad un procedimento logico, ma avviene anche che la prima figura categoriale dell’avanzamento, quella che segue l’incipit col puro essere, sia proprio la figura del divenire, quella cioè dell’avanzamento medesimo, il quale dunque non resta inespresso, sullo sfondo, ma, avvenendo, è immediatamente tema dell’avanzare logico-concettuale stesso. Avanzando, si mette subito a tema l’avanzare. Come si è detto, non è da escludersi che Hegel intenda con la nozione di divenire quale si presenta nella prima triade anche il divenire solamente logico, atemporale delle categorie. Ma, pur dovendosi tenere presente questa possibilità, non si può negare, per l’insieme degli esempi, dei riferimenti e dei concetti da Hegel addotti nel trattare il tema, che il divenire che s’affaccia nella prima triade sia il divenire dell’essere, articolato in sorgere e perire, nel venire ad essere da parte di ciò che non era, e nel cessare di essere da parte di ciò che era. Si tratta del divenire temporale insomma, di cui s’è già detto74. Eppure, nonostante l’importanza di quelle prime sezioni, esse non sono decisive per la deduzione del divenire, dal momento che, come s’è cercato di illustrare, gli argomenti colà addotti sono paralogistici. La presente indagine è invece guidata dalla convinzione che l’autentica deduzione del divenire si trovi nel seguito della dottrina dell’essere e in alcune fondamentali sezioni della dottrina dell’essenza, le quali dell’ontologia hegeliana costituiscono per così dire il baricentro. È a tali parti della logica di Hegel che ci si deve allora volgere. Nel far ciò si terranno presenti anche altri scritti hegeliani, in certo modo minori, nei quali sono formulati (con una chiarezza forse ineguagliata anche nelle opere maggiori) dei filosofemi costituenti una specie di nucleo invariante del pensiero di Hegel. Questa specie di nucleo invariante è composto da un’insieme di tesi che da un lato riguardano le nozioni di determinazione, di ente, di negazione e di limite; e dall’altro attengono la critica di Hegel ai principi logici, alle cosiddette «legge del pensiero», quali la legge dell’identità, della non contraddizione e del terzo escluso. Questi principi, tradizionalmente, sono stati intesi nella loro portata ontologica come i supremi custodi della determinatezza degli enti, ovvero del rapporto tra una cosa e il suo altro, tra ciò che una cosa è e ciò che non è, tra l’essere e il non-essere, vietando ogni commercio tra i due ambiti – quel commercio che secondo Parmenide, Platone, Aristotele, e anche secondo Hegel, avviene se si intende il divenire in senso assoluto. L’ambito delle nozioni ontologiche di ente, di essere determinato, di limite, di negazione ha evidentemente una certa parentela con quello delle nozioni più schiettamente logiche, da Hegel denominate «riflessive» perché relazionali, di identità, differenza e dei principi che ad esse sono legati, ovvero le leggi di identità, di contraddizione e del terzo escluso. Questa parentela è in verità molto stretta non soltanto nel solco della tradizione ontologica, ma anche entro la sistematica hegeliana matura – ovvero nella Grande Logica e nella Logica dell’Enciclopedia –, trovando peraltro anticipazioni negli

74

Cfr. supra nota 60 p. 111 e passim. 119

scritti giovanili. È lo stesso Hegel ad affermare – se mai ve ne fosse bisogno – la corrispondenza di certe nozioni della logica dell’essere con certe altre della logica dell’essenza, al punto che c’è persino da chiedersi per quale ragione la trattazione della materia – rispondente alla domande: che cos’è l’ente?, quali ne sono le leggi e i principi? – debba venire duplicata e scissa in luoghi separati e distanti. Le ragioni di questa separazione sono complesse; un loro chiarimento richiederebbe di affrontare il tema dell’impianto della logica hegeliana, la sua evoluzione, e non da ultimo la sua plausibilità. Non è qui possibile intraprendere un tale compito, anche perché in larga parte esula dagli scopi della presente indagine. Ciò però costituisce un problema relativamente all’avanzamento delle presenti indagini, giacché da un lato, al di fuori della sistematica hegeliana, la separazione tra le nozioni schiettamente logiche e quelle ontologiche appare scarsamente motivata (e forse anche inutile); ma dall’altro non si possono nemmeno confondere del tutto i piani, facendo convergere in un unico punto focale nozioni e temi che Hegel ritiene distinti e intrinsecamente differenti. Oltre a questo problema riguardante l’ordinamento hegeliano dei concetti (per il quale, p. es., non si può del tutto assimilare la nozione di ente a quella della sua identità), c’è poi quello della cronologia e della genesi dei testi. Hegel tratta di questi temi già nei cosiddetti scritti giovanili, negli abbozzi di sistema (prima dunque di avere concepito la Fenomenologia75), poi nella cosiddetta Propedeutica e infine nelle opere maggiori, la Grande e la Piccola Logica. Rispetto a questo problema, una considerazione del nostro tema che si soffermasse cronologicamente su ciascun testo sarebbe sì rispettosa dei criteri storico-genetici, ma avrebbe il difetto di dover ripetere più volte temi ed argomenti che ricorrono appena variati nei vari testi; senza contare poi che non è mio scopo analizzare la storia e la genesi testuale del pensiero di Hegel. Per l’intreccio delle questioni, storico-genetiche da un lato, teoretiche e sistematiche dall’altro, cercherò una soluzione intermedia, che possa illustrare la risposta di Hegel alla domande qui sopra poste – che cos’è l’ente? Quali ne sono i principi? – in modo da considerare prima le nozioni più schiettamente ontologiche (nell’economia del pensiero hegeliano), e poi quelle logiche, cercando peraltro di seguire, in ciascun raggruppamento, un ordine cronologico. Questa divisione non sarà rigida, non essendolo neppure nell’effettiva scrittura hegeliana.

Il ruolo della Fenomenologia quale spartiacque del pensiero e del sistema hegeliano, verso il quale da un lato gli scritti teoretici precedenti dovevano convergere per trovare la loro base e premessa, e a partire dal quale, dall’altro, era poi possibile svolgere il sistema, è stato approfondito, con numerosi e importanti scritti, da F. CHIEREGHIN (1980), (1982), (1997). 75

120

4

LA SEMANTIZZAZIONE HEGELIANA DELL’ESSERE I: PRIMI SCRITTI

Nella ricognizione del concetto hegeliano di ente prescindo qui da ciò che si potrebbero chiamare gli albori della speculazione hegeliana, ovvero gli scritti del periodo francofortese. Le ragioni per quest’omissione sono che quegli scritti sono intrisi di temi e di figure non propriamente logico-ontologici (l’amore, la vita, ecc.); non paiono ancora teoreticamente saldi e non mostrano un lessico già sedimentato. In genere, in essi si cerca l’anticipazione di ciò che Hegel svilupperà compiutamente in seguito; perciò mi pare abbiano un interesse prevalentemente storico. Peraltro, ci sono ben degli studi che hanno messo in luce l’importanza della gestazione del pensiero hegeliano e la consistenza dei temi trattati in questi primi frammenti1. 4.1

Scritto sulla differenza

Con lo Scritto sulla differenza (ovvero Differenza fra il sistema filosofico di Fiche e quello di Schelling) si entra in medias res rispetto ai nostri temi. Sono da subito presenti il tema della contraddizione e quello dell’identità, riferibili al senso della determinatezza dell’ente, e perciò interpretabili in senso schiettamente logico e ontologico. Il tema della contraddizione, inoltre, fa qui il paio con quello dell’antinomia, del quale Hegel scrive in modo significativo nel pressoché coevo Rapporto dello scetticismo con la filosofia, prendendo posizione nei confronti della tradizione di ascendenza kantiana da un lato e aristotelica dall’altro. Nello Scritto sulla differenza, prima pubblicazione di Hegel, è contenuto una critica frontale alla proposizione o legge di identità. Sul testo hegeliano si farà ritorno analiticamente tra breve. In prima approssimazione si può dire che la legge di identità viene ritenuta in sé stessa falsa, unilaterale, e perciò bisognosa di essere completata, integrata, con quella della non-identità ovvero con la legge di contraddizione – e non già di non-contraddizione! Questa tesi appare, fuor della cerchia degli studiosi di Hegel, astrusa quando non assurda; d’altra parte entro quella cerchia è stata sottoposta a continui sforzi interpretativi per renderla plausibile, ovvero per smorzarla in modo da non essere la radicale smentita dell’impianto logico aristotelico, ma solamente delle concezioni astratte, inadeguate di esso. A sostegno di ciò si può aggiungere che gli argomenti di Hegel a favore della negazione dell’identità per mezzo della complemetanzione con la non-identità

Relativamente al tema che sarà poi qui discusso con una certa ampiezza, cfr. il documentato e recente lavoro di S.-J. KANG (1999), che dipana la questione della contraddizione in Hegel legandola alla figura della riflessione e alla sua evoluzione. In particolare, il primo capitolo è dedicato ai cosiddetti scritti teologico-giovanili. 1

121

appaiono alquanto gracili, facilmente controvertibili. In tal modo, sembra scarsamente plausibile che egli volesse davvero negare il «principio più saldo di tutti», il principio di non contraddizione, e l’apparentato principio di identità. Eppure queste interpretazioni, mi pare, non rendono giustizia al pensiero di Hegel. Certamente, gli argomenti da lui addotti necessitano di adeguato approfondimento, onde non venire sbrigativamente scalzati da considerazioni relativamente semplici, persino banali. Ma una volta fatto questo, si comprende che il proposito hegeliano non è offrire una semplice rettifica alle cattive formulazioni del principio di identità. Se così fosse, Hegel non sarebbe davvero un avversario della logica dell’identità e della non-contraddizione (e del terzo escluso, e di quant’altro), ma un suo sostenitore. La critica sarebbe rivolta solo verso le formulazioni inadeguate. Certo, si potrebbe discutere se effettivamente le formulazioni hegeliane siano un gran guadagno, o se invece quelle tradizionali non fossero già sufficienti; si potrebbe discutere, insomma, se la posizione hegeliana non sia un gran baccano per nulla. Ma Hegel, se si comprende il suo affondo contro l’identità, non intende affatto ripristinarla ad un livello concettuale più elevato, immune dalle critiche che possono essere fatte valere nei confronti di posizioni ingenue. Secondo Hegel vanno tenute ferme e l’identità e la non-identità; tutt’e due, ovvero due enunciati che sono l’uno la negazione dell’altro. Secondo Hegel va tenuta ferma una contraddizione, proprio al posto dell’identità. Di più: uno dei lati della contraddizione, il principio opposto all’identità, è già di per sé una contraddizione. La posizione hegeliana è quindi una contraddizione duplicata, intensificata, e di ciò Hegel è del tutto consapevole. Mi pare quindi assai difficile intepretare questa affermazione hegeliana della contraddizione come una rettifica del consueto principio di identità, sostanzialmente concordante con esso. Nondimeno, la posizione Hegel necessita di venire illustrata analiticamente. In particolare, sono gli , così come gli argomenti che egli adduce, i quali, a prima vista, paiono banali e facilmente smentibili. È perciò opportuno tenere in vista lo sfondo di uno scritto come quello al quale ci stiamo volgendo, sfondo rispetto al quale sarà poi possibile incrementare gli argomenti hegeliani, ricorrendo anche ad altri testi. 4.2

Lo sfondo

Lo sfondo delle riflessioni hegeliane è quello kantiano della possibilità o impossibilità di cogliere l’incondizionato. Se c’è conoscenza, c’è un fondamento per ogni sapere, giacché la conoscenza è un sapere certo, giustificato (credenza vera e giustificata, secondo l’antica definizione). Ciò origina un regresso delle ragioni, degli argomenti probanti, il quale prima o poi deve avere un punto di arresto in un principio primo, incondizionato, assoluto – altrimenti tutto il conoscere è letteralmente infondato2. Kant, com’è noto, non riteneva possibile che del principio, dell’incondizionato, ci potesse

2

Ho trattato della questione altrove: cfr. il mio F. PERELDA (2003, cap. V, part. pp. 381 ss.). 122

essere conoscenza epistemica, scientifica; ma l’intento dei filosofi postkantiani era proprio quello di rimodellare il sistema kantiano offrendogli nuove basi. Lo Hegel del 1801 che redige lo Scritto sulla differenza in un certo senso muove da qui, intrecciando delle considerazioni di carattere epistemico intorno alla struttura fondativa del conoscere, con altre di tipo ontologico sulla natura della determinatezza. Il problema epistemico è il seguente: da un lato la conoscenza razionale presuppone che ci sia il fondamento incondizionato, ma dall’altro non può averne conoscenza scientifica, ragionata, dal momento che del fondamento non possono esserci ragioni, giustificazioni, pena un regresso infinito. La conoscenza del fondamento, semmai, è demandata a un sapere immediato, non giustificato, all’intuizione intellettuale, all’autoevidenza. La questione ontologica invece è l’aspetto particolare delle riflessioni hegeliane. Secondo Hegel l’intelletto conosce attraverso la determinazione di concetti e del loro nesso in proposizioni. Nel complesso l’intelletto è governato dalle più tradizionali leggi del pensiero: i principi di identità, di non-contraddizione e del terzo escluso. Il carattere generale della conoscenza è allora la determinazione, la limitazione: qualcosa è quel che è non essendo qualcos’altro; è determinato in un certo modo escludendo le altre determinazioni. Se questo è il tratto distintivo del conoscere, del pensare, ogni oggetto appare, in quanto è determinato, qualcosa di finito, di limitato. Questa struttura diventa problematica nel caso dell’incondizionato, dell’assoluto – e in ciò si intrecciano la prospettiva epistemica ed ontologica. Da un lato si deve presupporre l’incondizionato come condizione di ogni conoscere; ma dall’altro esso non è pensabile nel senso di determinabile coi mezzi dell’intelletto, della razionalità. Infatti, nella misura in cui l’incondizionato fosse reso oggetto del pensiero intellettuale, delle sue categorie, verrebbe determinato rispetto ad altro (al condizionato), e dunque da questo limitato. Ma la limitazione, l’esser condizionati, sono caratteri contrari rispetto all’essere incondizionati ed assoluti. Perciò, ne conclude Hegel, l’incondizionato sfugge alla determinazione razionale. 4.3

Pars destruens, pars construens

In questo contesto Hegel svolge per così dire una pars destruens e una pars construens rispetto alla conoscenza. La pars destruens è l’indicazione dell’intrinseca manchevolezza del conoscere intellettuale. Queste riflessioni in particolare s’imperniano nella critica alla legge di identità, tradizionalmente ritenuta la suprema legge dell’intelletto, secondo la quale esso non deve contraddirsi. Al contrario di ciò, Hegel intende mostrare che l’identità, lungi dall’essere assoluta, necessita di completarsi colla sua negazione, e che tanto l’una quanto l’altra vanno tenute per vere, producendosi con ciò un’autentica antinomia. In punto di maggiore interesse per le presenti indagini sta qui, nel senso del ragionamento per cui la determinazione è strutturalmente costituita per mezzo di un’opposizione; l’identità per mezzo della differenza. Questo è l’assioma su cui Hegel edifica la sua critica alla conoscenza razionale dell’incondizionato e al principio di identità. L’altro lato delle riflessioni hegeliane non è una vera e propria pars construens, ma la valorizzazione dello scardinamento stesso del presunto fondamento del pensiero intel123

lettuale, delle «leggi del pensiero». L’antinomia, infatti, è in certi casi un banale errore del modo di condurre i ragionamenti. Ma in altri casi è radicata profondamente nelle categorie e nelle leggi della razionalità medesima, proprio come aveva mostrato Kant nella dialettica trascendentale illustrando l’inevitabilità ovvero la necessità delle contraddizioni della ragion pura; o come ancor meglio aveva fatto vedere Platone nella seconda parte del Parmenide3, in cui ogni ipotesi dicotomica ha, secondo Hegel, esito negativo. Ebbene, l’antinomia, quando è non accidentale, ma ragionata, non è la bancarotta del pensiero, ma indice degli intrinseci limiti dell’intelletto, e dunque manifestazione di ciò che lo trascende e che ne è il fondamento. L’incondizionato appare allora sia in forma antinomica, sia come l’intrinseca antinomicità della razionalità intellettiva. La figura dell’antinomia – ma sul senso dell’antinomia si farà presto ritorno, per circoscriverlo adeguatamente – è per così dire il non plus ultra del pensiero riflessivo, la soglia ove esso si interdice alludendo ad altro. Ma la comprensione di questo altro, per lo Hegel degli scritti critici, è ancora demandata all’intuizione intellettuale, ad un atto non più discorsivo, ragionato. C’è davvero dell’ineffabile, si potrebbe dire, citando Wittgenstein. Tuttavia, scopo delle presenti indagini non è indagare la questione, qui appena accennata, in modo inadeguato, della conoscenza dell’incondizionato per questo primo Hegel e per l’eredità kantiana; bensì illustrare la critica hegeliana al principio di determinazione ontica e categoriale. Vorrei quindi ripercorrere ora le tesi dianzi annunciate volgendomi al testo hegeliano. 4.4

Determinazione quale opposizione

In questo scritto viene chiaramente formulato un principio che si potrebbe chiamare di determinazione per opposizione, e ne vengono tratte le conseguenze. Del principio stesso, tuttavia, non vengono offerte giustificazioni. Esso è, per dir così, un assioma già all’opera. In questo scritto, inoltre, il principio viene delineato in contrapposizione alla sua negazione, ovvero al principio di semplice determinazione dell’ente per identità con sé. Vorrei allora procedere al seguente modo: dapprima illustrare il principio di determinazione per opposizione, quindi indicarne le conseguenze ovvero la struttura antinomica. Poi vorrei soffermarmi sulla sua opposizione al principio di identità e quindi sulla critica che Hegel svolge a quest’ultimo. Il principio di determinazione per opposizione si trova ripetutamente formulato; Hegel sembra assumerlo come un assioma evidente, del quale non si deve dare giustificazione. Lo si potrebbe riassumere dicendo che qualcosa è sé stesso non essendo il suo altro. Ciò appare banalmente vero; ma il senso che Hegel pensa in questo principio è l’idea che il rapporto negativo, oppositivo, tra il qualcosa e il suo altro, sia costi-

3

Sull’interpretazione hegeliana del Parmenide, cfr. infra n. 25 p. 145. 124

tutivo per il qualcosa. Non si tratta cioè dell’idea che qualcosa sia anzitutto sé stesso e che perciò, sulla base di questa precostituita identità, anche e secondariamente non sia il suo altro, in modo che l’identità con sé preceda questo rapporto di alterità. No, per Hegel il rapporto di opposizione è definitorio per l’essere di qualcosa, non semplice conseguenza. Afferma Hegel: «ciascun essere, poiché è un posto, è un opposto, un condizionato e un condizionante» (D p. 18; W 2.26). Analizzando questo passo, troviamo l’idea fondamentale che ciascun ente (jedes Sein) sia, come tale, un che di posto (gesetzt), un positivo, e dunque in ciò stesso contrapposto (entgegengesetztes) ad altro. L’essere determinato e molteplice, in quanto è, è già essenzialmente, nella sua (presunta) semplicità, relativo ad altro, per il semplice fatto di essere, di esser-sé. Non c’è semplicità che non sia al contempo relatività ad altro; e questa relatività è rapporto di posizione e contrapposizione, di limitazione e condizionamento, al contempo. Poco oltre si legge che «ogni essere [...] prodotto dall’intelletto è un determinato e ha un indeterminato di fronte e dietro a sé; la molteplicità dell’essere si trova, incerta, fra due notti, poggia sul nulla, dacché l’indeterminato è per l’intelletto nulla e nel nulla finisce» (ivi, p. 19). 4.4.1

Conseguenze

Da ciò seguono alcune conseguenze. La prima è che nessun ente è autonomamente sussistente, è sostanza, se una sostanza è ciò che è e sussiste per sé. Niente di determinato è in sé stesso assoluto, poiché ogni determinazione è limitazione e condizionamento. La seconda conseguenza è che l’esposizione ragionata della struttura dell’ente deve riflettere entrambi i lati ond’esso è costituito: l’essere e il non-essere. Perciò, secondo Hegel, «l’intelletto completa [vervollständigt] queste sue limitazioni col porre le limitazioni opposte come condizioni» (ib.). Porre l’essere di A è anche porre, anzi, contrapporre ad esso il suo altro, non-A. Una terza conseguenza è il regresso infinito. Infatti, questo completamento non è mai l’esaustione del compito intrapreso, giacché la posizione da parte dell’intelletto dell’«opposta limitazione» è egualmente determinante; è la posizione di qualcosa che è del pari determinato – e dunque posto e contrapposto ad altro. Così pure le «opposte limitazioni» «hanno bisogno dello stesso completamento e il compito dell’intelletto si estende all’infinito» (ib). In tal modo l’intelletto, giacché «la sua essenza tende ad una generale determinazione» (ivi, p. 19), ha sempre in vista, in prima battuta, la determinatezza dell’essere, e solo in seconda battuta l’esser posto di questo, ovvero l’altro che lo circonda e onde è determinato. L’intelletto è perciò avvinto in un regresso infinito, sospinto di determinazione in determinazione, e così via. Questo regresso potrebbe sembrare un’operazione soggettiva, un arbitrio: come afferma Hegel, «la riflessione sembra così solo un’attività dell’intelletto» (ib.), quasi senza riscontro nella natura delle cose. In verità il regresso è necessitato dal rapporto oppositivo, sottostante la positività dell’ente e costitutivo per essa. In questo regresso sta «la segreta efficacia della ragione» (ivi, p. 19) che scalza il presunto primato dell’esser sé, e della positività della determinazione, rispetto al negativo. Eppure l’intelletto non esce dalla serie delle limita125

zioni, non perviene, in quanto determina e si volge ad un contenuto, escludendo l’altro da esso, a ciò che è la ragione stessa del determinare e del determinato, ovvero il rapporto oppositivo medesimo: la pervicacia dell’intelletto ha il potere di lasciar sussistere l’una accanto all’altra, non unificate, le opposizioni di determinato e di indeterminato, di finitezza e di infinitezza data, e di mantenere l’essere contro il non-essere, che è altrettanto necessario all’intelletto. Poiché la sua essenza tende ad una generale [durchgängig, senz’eccezione] determinazione, ma il suo determinato è immediatamente limitato da un indeterminato, il suo porre e determinare non assolvono mai il proprio compito; nell’avvenuto porre e determinare stessi c’è un non-porre [Nicht-Setzen] e un indeterminato e perciò sempre di nuovo il compito di porre e di determinare. (ib.)

Un’ulteriore conseguenza è l’inacessibilità dell’incondizionato da parte del conoscere razionale. «L’assoluto deve essere costruito per la coscienza, questo è il compito della filosofia» (D p. 18; W 2.25), afferma Hegel. Ma questo compito, nella misura in cui viene eseguito razionalmente, con un pensiero che impiega concetti determinati e altrettanto determinati giudizi, non può essere eseguito. Hegel infatti soggiunge: vi è però una contraddizione in ciò, dal momento che sia il produrre che i prodotti della riflessione non sono che limitazioni. L’assoluto deve essere riflesso, posto; ma così l’assoluto non è stato posto, bensì tolto; poiché in quanto è stato posto, è stato limitato. La mediazione di questa contraddizione è la riflessione filosofica. (ib.)

La mediazione della contraddizione, attuata dalla riflessione filosofica, è in verità relativa: non risolve la contraddizione fino al punto da offrire una conoscenza razionale, discorsiva eppure incontraddittoria dell’assoluto. A ciò s’è già fatto cenno. 4.4.2

Contro le filosofie dell’identità

Il principio di determinazione per opposizione è una concezione della determinazione ontica e categoriale dell’ente per la quale il non-essere dell’ente, l’infinito altro dall’ente, è altrettanto necessario di quanto lo è l’essere dell’ente medesimo, giacché sia l’ente che il suo altro sono e si danno nel rapporto di opposizione. Fuori del loro rapporto oppositivo, non sono dati positivamente né l’uno né l’altro. Come dicevo, questa tesi è affermata come un assioma da Hegel fatto valere in polemica con i tentativi condotti dalla filosofia a lui coeva di esprimere con una sola proposizione il fondamento assoluto, la suprema verità. Hegel allude a Fichte, ma ancor di più, probabilmente, a Schelling. Questi aveva appena pubblicato l’intervento Esposizione del mio sistema filosofico sostenendo il primato assoluto della legge dell’identità: «la suprema legge per l’essere della ragione, e, giacché nulla è fuorché la ragione, per tutto l’essere [...], è la legge dell’identità; la quale riguardo a tutto l’essere è espressa da A=A» (F. W. J. SCHELLING 1969, § 4). Nell’annotazione si legge inoltre: «la proposizione A=A, è l’unica verità [...]. Chiamo una tale verità eterna, non nel senso empirico, ma nel senso dell’Assoluto» (ib.). Di più: «L’identità assoluta è solo sotto la forma della proposizione A=A» (ivi, § 15), e «l’identità assoluta È solo sotto la forma di un’identità dell’identità» (ivi, § 16, agg.

126

2)4. Ora, è vero che Schelling pensa l’identità assoluta non solo come un’identità formale, ma come la matrice dell’identità che si offre nell’io, quale l’aveva illustrata in quell’altro suo scritto precedente, intitolato Dell’io come principio della filosofia. Nell’Esposizione nondimeno Schelling sembra volgere verso l’ontologia, verso l’essere quel che nello scritto anteriore era ancora prerogativa dell’io, e dunque stava entro i limiti della filosofia trascendentale5. In ogni caso, non soltanto Schelling pensa che la verità suprema sia esprimibile attraverso una proposizione assolutamente ovvero incondizionatamente vera, senza residui, ma reputa altresì che tale verità sia proprio l’identità, anzi l’identità di un’identità. 4.5

Contro l’identità

È forse avendo presente questi temi schellingiani che Hegel svolge il suo attacco frontale all’identità. In questo caso l’assioma di determinazione per opposizione è fatto valere come la base su cui impostare il rovesciamento del principio logico e ontologico di identità e di non-contraddizione. Secondo Hegel ogni «proposizione è sottoposta alla legge dell’intelletto di non contraddirsi, di non togliersi» (D p. 27; W 2.36); eppure, secondo lui, «si può dimostrare molto facilmente che un pensato, che la proposizione esprime, è condizionato da un altro opposto e quindi non è assoluto: di questo opposto alla proposizione viene dimostrato che esso deve venir posto, che quindi quel pensato, che la proposizione esprime, è nullo» (ib.; W 2.36-7). Hegel sta con ciò enunciando lo scardinamento del principio di noncontraddizione inteso in senso aristotelico, unito dunque alla legge del terzo escluso. Il bersaglio è il principio dell’antifasi, per il quale dati due enunciati, l’uno dei quali sia la negazione dell’altro, uno solo può venire affermato (come vero) mentre l’altro deve venire escluso. Qui invece si afferma, si pone un certo contenuto; ma si afferma pure, si pone, anche il suo opposto, negazione del precedente. Lo scardinamento avviene proprio perché vige il principio di determinazione per opposizione . Infatti, se ogni essere è un posto e quindi è solo in un rapporto di opposizione al suo contrapposto, allora nessun contenuto basta a sé stesso, tanto meno un contenuto che si presume possa essere la chiave di volta del sistema delle verità (il principio di identità e di non

4 Ha richiamato assai opportunamente l’attenzione su questi passi di Schelling, proprio in riferimento allo hegeliano Scritto sulla differenza, L. LUGARINI (1998, p. 44 e passim). 5 Nel § 7 dello scritto Sull’io come principio della filosofia Schelling rifiuta la priorità della formula dell’identità A=A sull’io; all’opposto «soltanto l’IO è ciò che conferisce unità e permanenza a tutto quel che è; l’identità appartiene soltanto a quel che è posto nell’Io e soltanto in quanto è posto nell’Io. Ogni forma dell’identità (A=A) è perciò essa stessa fondata solo attraverso l’Io assoluto» (1980, p. 52); Schelling esclude che detta forma possa precedere l’Io stesso. Ma i caratteri che in questo saggio Schelling attribuisce all’Io, quale anteriore fondamento dell’identità stessa, si ritrovano poi quali attributi dell’identità nello scritto di pochi anni successivo, Esposizione del mio sistema filosofico.

127

contraddizione). Sul piano enunciativo, poi, ancor meno basta a sé stessa una proposizione che volesse esprimere per sé sola quel presunto contenuto; proposizione che dovrebbe avere significato e valenza autonomi – la cui verità, in altre parole, dovrebbe essere assoluta e incondizionata. Hegel cioè contesta il principio dell’antifasi anzitutto per le proposizioni cosiddette vere a priori, e a maggior ragione per quella che di tutte dovrebbe essere la base, ovvero l’identità, la legge della non-contraddizione. Piuttosto «una proposizione o [...] una definizione [...] è in fondo un’antinomia» (D p. 27; W 2.37), soprattutto trattandosi di contenuti filosofici, di filosofia prima, «speculativa». Torna qui il tema dell’antinomia, che necessita di alcune precisazioni, per intendere adeguatamente la portata del discorso, fin dove Hegel spinge la sua critica ai principi logici. 4.6

Excursus: opposizione e antinomia

Lo sfondo concettuale e lessicale è ancora una volta kantiano, e si radica principalmente nella dialettica trascendentale kantiana. Il filosofo di Königsberg6 aveva introdotto già nel Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative (1763) una serie di distinzioni riguardanti i tipi di opposizionie, riprese e confermate poi nella Ragion pura. Nel primo capitolo del Tentativo egli afferma che «due cose, di cui l’una annulla ciò che è posto dall’altra, sono opposte» (SP p. 255); a questa definizione ancora piuttosto generale segue subito la precisazione che «tale opposizione è duplice: o logica per contraddizione, o reale, cioè senza contraddizione» (ib.). L’opposizione logica «consiste nell’affermare e negare contemporaneamente un predicato di una cosa» (ib.): si tratta della più tradizionale delle contraddizioni, che si ha quando si dice p. es. che un corpo è in movimento e non è in movimento, nello stesso tempo e sotto il medesimo rispetto. Di un medesimo soggetto viene affermato e anche negato un certo predicato. «La conseguenza di tale nesso logico è nulla (nihil negativum irrepraesentabile)» (ib.), nel senso che non esiste né può esistere un siffatto corpo che sia e anche non sia in moto: «un corpo in moto è qualcosa, un corpo, che non è in moto, è anche qualcosa (cogitabile); ma un corpo che sia in moto, e contemporaneamente non sia in moto, non è nulla» (ib.) – nel senso che un tale corpo non c’è né può esserci, nel modo più assoluto: coincide con il nulla negativo, di cui non c’è alcuna rappresentazione. «La seconda opposizione, reale, è quella in cui due predicati di una cosa siano opposti, ma non per il principio di contraddizione. Anche qui l’uno annulla ciò che è posto dall’altro, ma la conseguenza è qualcosa (cogitabile)» (ib.). L’opposizione reale trova riscontro in certe situazioni empiriche, quando p. es. due forze si oppongono per verso rispetto al loro punto di applicazione. Ciascuna di esse è qualcosa; ma se nessuna prevale, poiché sono di eguale intensità, in quell’opposizione non si ha alcun risultato. Se p. es. un oggetto è tirato in una direzione e anche nell’opposta con eguale forza,

6

Cfr. sul tema L. LUGARINI (1996). 128

l’oggetto è fermo: «conseguenza ne è la quiete, la quale è qualcosa (repraesentabile). [...] Anche qui la conseguenza è nulla, ma in un significato diverso che nella contraddizione» (ib.). Anzi, qui non si ha proprio nessuna contraddizione logica e perciò il risultato è qualcosa. Nell’opposizione reale, a differenza che in quella logica, ambedue i predicati sono qualcosa; «l’uno non nega ciò che è affermato dall’altro, il che è impossibile, ma sono affermativi ambedue i predicati» (ivi, p. 256). La «loro conseguenza è nulla», perché si neutralizzano; e il significato di una tale nullità è l’elisione, che «equivale a quello di negazione (negatio), mancanza, assenza» (ivi, pp. 256-7). L’opposizione reale ha particolare rilievo in matematica, afferma Kant, in fisica, nelle scienze naturali e poi in filosofia morale. L’opposizione logica è invece una situazione in cui qualcosa è affermato e negato, sicché si produce un’effettiva contraddizione, nel segno dell’antifasi di cui tratta Aristotele nel De Interpretatione e altrove. «Nell’annullamento per contraddizione invece c’è il nulla assoluto. [...] È concepibile che un certo moto non sia, ma che esso sia e non sia allo stesso tempo è inconcepibile» (ivi, p. 256). L’opposizione logica è poi ulteriormente suddivisa da Kant nella Critica della ragiona pura in opposizione analitica e opposizione dialettica. L’opposizione analitica è una genuina contraddizione, mentre quella dialettica è in un certo senso un’opposizione sì logica, ma parvente, nel senso che può essere risolta affermando non già la verità di una delle due proposizioni e la falsità dell’altra, bensì la falsità di entrambe le proposizioni ovvero negandole entrambe – cosa invero sorprendente, se si tratta effettivamente di un’opposizione logica (giacché di due proposizioni contraddittorie, l’una è vera e l’altra è falsa). Kant richiama a questo proposito Zenone, poiché «è sembrato che egli abbia voluto negare affatto due proposizioni tra loro contraddittorie, ciò che è assurdo» (CRP p. 408). Kant impiega la parola antinomia in modo del tutto sinonimico a quello di contraddizione. Per lui in particolare l’antinomia (Antinomie) è la contraddizione (Widerspruch) che si produce nel conflitto (Widerstreit) che la ragione ha con sé stessa, quando essa, applicando le categorie non ai fenomeni ma alle cose in sé, produce delle deduzioni corrette che hanno però esiti contraddittori (antinomici, appunto): la pura ragione dimostra che il mondo è sia finito che infinito nello spazio e nel tempo; che esso deve constare di parti semplici, ma anche no, ecc. Si tratta di proposizioni che sono l’una la negazione dell’altra, ma che apparentemente la ragione riesce a dimostrare, donde appunto il conflitto della ragione con sé stessa, scandito nelle quattro antinomie, ovvero contraddizioni, relative alle quattro idee cosmologiche. La soluzione pensata da Kant è che in questi casi sia possibile ritenere falsi entrambi i corni del dilemma, contrariamente a ciò che prescriverebbe il principio del terzo escluso, per il quale di due proposizioni opposte contraddittorie, o vale l’una o vale l’altra, tertium non datur. Il fatto è che per Kant l’intero soggetto delle proposizioni può venire revocato: nel caso considerato, il mondo quale totalità non si dà punto, non è oggetto di conoscenza, quindi, tolto il soggetto, si possono considerare false tutte le predicazioni che lo riguardano, anche se logicamente opposte. «Due giudizi [...] tra loro opposti dialetticamente possono essere tutti e due falsi, perché l’uno non contraddice semplicemente all’altro, ma dice qualcosa di più che non occorra alla contraddizione» (CRP p. 410); quel che dice di più è una certa circostanza che può essere rifiutata, e che però costi129

tuisce il fondamento (Grund) per l’ulteriore opposizione logica. Per esempio, il quesito se il mondo come totalità sia finito o infinito nello spazio e nel tempo presuppone che tale mondo esista; se si nega questo, i due enunciati possono essere entrambi falsi; similmente, il quesito se una certa rosa odori bene o odori male deve avere una soluzione positiva o negativa, posto che tale rosa abbia un qualche odore; se si nega questo, che la rosa abbia un odore, entrambi quegli enunciati sono falsi. La logica contemporanea, in particolare le indagini di Russell sul riferimento e sulle tecniche di parafrasi di enunciati che contengono nomi vacui («l’attuale re di Francia è calvo», «l’attuale re di Francia non è calvo», quando non c’è alcun re di Francia), hanno valorizzato questa tesi kantiana (e neppure solo kantiana), conferendo ad esse una rigorosa veste logica7. 4.7

Contro l’identità. Ripresa

Torniamo ora a Hegel, il quale già negli scritti giovanili, p. es. in Glauben und Wissen, aveva impiegato questo lessico kantiano, riferendosi alle nozioni di Widerstreit, Widerspruch, e di Antinomie. D’altra parte, pare che Hegel già nello Stift di Tubinga avesse ascoltato degli insegnamenti sulla dottrina kantiana dell’antinomia, e li avesse poi approfonditi per proprio conto8. Va nondimeno riconosciuto che in quei frammenti l’uso dei termini non è del tutto congruente con la dottrina kantiana, venendo alquanto influenzato da Hölderlin. Nello Scritto sulla differenza però l’uso hegeliano dei termini è ormai irreggimentato, e la contraddizione acquisisce, a detta degli studiosi, un particolare rilievo sistematico. Si tratta di vedere in che cosa consista questa teoria hegeliana per cui ogni proposizione va sviluppata secondo una complementarietà colla negazione, producendo un’antinomia, ovvero un’opposizione logica. Si era precedentemente considerata la tesi programmatica di Hegel per cui «una proposizione o [...] una definizione [...] è in fondo un’antinomia»; a dire il vero, come tale andrà sviluppata, giacché la consueta razionalità («il sano intelletto umano») pensa, all’opposto, che la legge suprema di ogni proposizione sia quella che ancora Kant aveva enunciato quale «principio supremo di tutti i giudizi analitici» e non solo di essi, dal momento che «nessuna conoscenza gli si può opporre senza annientare se stessa» (CRP

In effetti la logica kantiana condivide il cosiddetto «assioma di Aristotele» che nessun predicato possa esser vuoto, onde possa valere il quadrato di opposizione aristotelico e certe leggi di subalternazione. Ciò fa sì che non si possa davvero affermare che non ci sia nulla che soddisfi il predicato di «essere il mondo», ovvero che si possa negare del tutto che esista il mondo. L’impegno ontologico della logica aristotelica e kantiana è in altre parole più consistente di quello della logica di Russell, che si limita a dover concedere l’esistenza di almeno un individuo. A rigore, quindi, Kant non può sostenere la sua soluzione delle antinomie dialettiche tenendo per valida la sua logica (e cioè il quadrato aristotelico di opposizione). 8 Cfr. S.-J. KANG (1999, p. 25) e ivi, nota 8 per ulteriori referenze bibliografiche. 7

130

p. 172). Si tratta del principio che «“a nessuna cosa conviene un predicato che le contraddica”» (ib.), e che Hegel aveva richiamato affermando che ogni proposizione «è sottoposta alla legge dell’intelletto di non contraddirsi, di non togliersi». Ora, proprio queste leggi della razionalità impediscono che una proposizione possa manifestare l’opposizione insita in ogni cosa, in ogni posto, sì che allora si deve ricorrere allo sviluppo del contenuto implicito di una determinazione o di un contenuto proposizionale affiancandolo con l’opposto: «la riflessione non è in grado di esprimere la sintesi assoluta in una proposizione, se è vero che questa proposizione deve valere per l’intelletto come una proposizione vera e propria» (D p. 28; W 2.37), e dunque essere «sottoposta alla legge dell’intelletto di non contraddirsi, di non togliersi». Perciò alla riflessione non resta che «separare ciò che è uno nell’assoluta identità ed esprimere la sintesi e l’antitesi separatamente in due proposizioni, in una l’identità, nell’altra la scissione» (D p. 28). Hegel svolge questo ragionamento riguardo al principio di tutti i principi razionali, ovvero all’identità. Gli argomenti che Hegel adduce in queste pagine non sono facilmente comprensibili; anzi, sembrano poter essere facilmente negati da considerazioni logiche abbastanza elementari. Tuttavia, alla luce di quanto detto, la questione dovrebbe apparire chiara. Il nucleo di essa è che la determinazione, la limitazione è in pari tempo rinvio all’altro; la posizione dell’essere è rinvio al non essere. Perciò un principio logico ed ontologico che enunci solamente l’essere della cosa, dell’ente, restringendolo al semplice esser sé, senza alcun riferimento all’essenziale altro, al non-essere – rispetto a cui l’ente che vien posto è contrapposto –, ebbene un tale principio non può che essere inadeguato rispetto alla struttura dell’ente. Tale principio perciò risulta astratto, falso. Questa è in estrema sintesi la posizione hegeliana. La quale si basa però su degli assunti che qui sono stati accennati ma non ancora analizzati: (1) da un lato che l’«altro» rispetto al qualcosa sia necessario per la determinazione del qualcosa stesso, ovvero che il rapporto di diversità contribuisca essenzialmente all’individuazione dell’ente; (2) dall’altro che questo rapporto di rilevanza dell’altro rispetto al qualcosa stesso non sia un semplice rapporto di alterità ma anche di identità, tale appunto da originare un’antinomia, una contraddizione. Su questi due assunti si farà ampiamente ritorno, dovendo venire illustrati principalmente nelle opere della maturità. Ma se non li si tiene presenti, non si comprendono le tesi hegeliane di scardinamento dell’identità e della non-contraddizione. È importante tenere presente però che ora non si tratta più soltanto di affiancare a un qualunque contenuto proposizionale anche la sua negazione, producendo un’antinomia e dunque contravvenendo al principio di identità e di noncontraddizione. Ora è lo stesso principio di non-contraddizione a venire formulato in modo antinomico, a sottostare alla legge della complementazione. Ora l’attacco alla legge dell’identità è del tutto frontale. 4.8

Svolgimento della critica all’identità

Il principio di identità A=A ha dunque, nella misura in cui A è un qualcosa di determinato, è un ente, una specie di secondo lato in ombra, implicitamente contenuto 131

dietro quello manifesto e al quale non si riflette mai. È compito della riflessione filosofica portarlo in luce, smentendo la presunta assolutezza dell’identità: «in A=A, come principio di identità, si riflette all’esser-posto-in-rapporto [Bezogensein]; e questo rapportare, questo esser uno, l’eguaglianza, è contenuto in questa pura identità; si fa astrazione da ogni disuguaglianza» (D p. 28; W 2.37). Precisa Hegel: «A=A, espressione dell’assoluto pensare o ragione, per quella riflessione formale che si esprime in proposizioni d’intelletto, ha soltanto il significato dell’identità intellettuale [Verstandesidentität], dell’unità pura, cioè di un’unità tale che in essa si fa astrazione dall’opposizione» (ib.; W 2.37-8). È evidente che Hegel giudica «intellettuale» l’identità «pura» espressa dalla formula dell’uguaglianza, perché presuppone che soggiacente alla positività dell’ente ci sia la relazione di «opposizione», onde quell’identità «pura», che lascia cadere l’elemento dell’alterità e dunque l’intera opposizione, fa astrazione – opposizione che è rapporto oppositivo ad altro nel determinare qualcosa, e dunque nel determinare qualcosa come sé stesso. Infatti «la ragione non si trova espressa in questa unilateralità dell’unità astratta» (ib.), appunto perché la ragione ha perlomeno il sentore dell’opposizione originaria – opposizione che è in pari tempo unità, persino identità degli opposti (come si vedrà): non è certo lo stare un termine da una parte e l’altro dall’altra; non è giustapposizione, ma un legame essenziale per l’essere dell’uno e dell’altro. «[E]ssa [ragione] postula anche il porre di ciò da cui nella pura uguaglianza veniva fatta astrazione, il porre l’opposto» (ib.). Ma la posizione di quest’opposto non è la posizione di qualcos’altro nella sua presunta indifferenza rispetto al primo contenuto: se fosse così, allora i due contenuti, il qualcosa e il suo altro, sarebbero effettivamente indipendenti l’uno dall’altro. No, la tesi hegeliana è che la posizione di «ciò da cui nella pura uguaglianza veniva fatta astrazione» non sia la posizione di altro dalla cosa, ma sia in certo modo la posizione concreta della cosa stessa – altrimenti la posizione di questo altro non sarebbe affatto necessaria per la posizione della cosa, per la sua determinazione. Questo altro concorre essenzialmente all’individuazione di essa determinazione. Perciò quest’altro fa in certo modo parte dell’essere della cosa. Essa non prescinde dal suo altro, essendovi invece legata dal nesso oppositivo, il quale, in modo contraddittorio, esclude le due cose l’una dall’altra, ma anche le fa convergere in un’unità, appunto perché se quest’esclusione fosse assoluta, allora una cosa sarebbe una cosa, e l’altra cosa soltanto un’altra cosa, e ciascuna cosa sarebbe del tutto autonoma, per sé stante – cosa che invece, come s’è visto, Hegel esclude. Questo pensiero della duplice natura del legame oppositivo, di essere esclusione ed inclusione al contempo, corre su da questi primi scritti fino alla Grande logica ed è anzi il motivo che conduce le determinazioni della riflessione della logica dell’essenza a sfociare nella figura della contraddizione – del tutto coerentemente. Qui questo tema lo si trova per così dire all’opera, senza essere esso stesso oggetto di riflessione. Per questa ragione un’analisi specifica di esso è rimandata alla considerazione dei testi successivi. La ragione postula la posizione di ciò da cui la posizione dell’identità di qualcosa con sé fa astrazione, ovvero la «disuguaglianza» (D p. 28). Hegel ha sostenuto la tesi generale che «si può dimostrare molto facilmente che un pensato, che [...] [una] proposizione [speculativa] esprime, è condizionato da un oppo132

sto e quindi non è assoluto», cosicché «quel pensato, che la proposizione esprime, è nullo». Questa tesi contravviene palesemente al principio di identità per cui qualcosa è sé stesso e non un’altra cosa. Perciò Hegel affronta il tema dell’identità, ovvero il principio che vieterebbe quell’annullamento da Hegel teorizzato. In effetti, se il principio di identità fosse incondizionatamente vero, non potrebbe aver luogo proprio alcun annullamento. Il compito di Hegel è quindi mostrare che la sua tesi vale anzitutto per l’identità medesima, la cui posizione dev’essere, com’egli ha annunciato, anche posizione della «disuguaglianza», implicitamente contenuta nell’identità. Ogni pensato contiene il suo opposto proprio perché l’identità stessa contiene la disuguaglianza. Il modo con cui ora Hegel illustra questa tesi è però insoddisfacente, prestando il fianco a delle obbiezioni di carattere logico-semantico relativamente elementari. Questo non smentisce immediatamente le tesi hegeliane, ma richiede che esse vengano incrementate ricorrendo ad argomenti esposti altrove con maggior rigore. 4.9

Identità e non identità

L’identità stessa è un’antinomia, ovvero si compone più o meno implicitamente di aspetti, enunciati contraddittori, antifatici. L’identità perciò è in sé stessa anche disuguaglianza. Questo è ciò che Hegel deve dimostrare. Ora, nell’enunciato A=A dov’è la disuguaglianza? Non se ne intravvede nemmeno il barlume. Hegel ritiene invece che essa sia presente nella molteplicità ovvero nella diversità delle occorrenze del segno «A», ovvero del nome indicante l’oggetto di cui si enuncia l’esser sé, di cui si enuncia l’identità. Con A=A si enuncia che A è sé stesso, non altro; eppure «il primo A è soggetto, il secondo oggetto» (D p. 28; W 2.38)9. C’è dunque per Hegel palesemente una «differenza» tra il primo e il secondo A, e «l’espressione per la loro differenza è A non è = A10 o A=B» (ib.). Il ricorso a degli indici numerici per distinguere le occorrenze di A può giovare: in A=A, A occorre due volte, due essendo i termini della relazione di identità: A1=A2. Ma se due sono gli A, allora è palese che l’uno non è l’altro, questa circostanza venendo espressa dalla disuguaglianza: A1$2. Ora, se A1=A2 è l’effettivo contenuto dell’enunciato di identità, ma in verità vale che A1$2, allora sembrerebbe che, quando si dice che A=A, si dica anche che A è eguale a qualcosa che non è A, ovvero un certo B – donde la traduzione hegeliana di A=A in A=B. Accade, allora, che in quanto si dice che A è eguale a sé, si dice che esso

9 K. DÜSING (1976, p. 96) rammenta che quest’interpretazione dell’enunciazione dell’identità richiama le critiche di Hölderlin a Fichte e all’identità Io=Io; cfr. ivi, p. 96 n. 98 per i ragguagli bibliografici. 10 Mi discosto dalla traduzione italiana di R. Bodei il quale impiega l’espressione «A$» per rendere «ist A nicht = A», trasformando dunque, come ha notato L. LUGARINI (1998, p. 47 n. 13) un enunciato negativo (fuor dei simboli: «A non è eguale ad A») in un enunciato affermativo («A è diverso da A»).

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è eguale ad altro da sé (a B, in quanto B non è A), ovvero che non è eguale a sé. L’antinomia è palese. Infatti questo principio, per cui «A non è =A o A=B» per Hegel «contraddice senz’altro il precedente [A=A]; in esso si astrae dall’identità pura e si pone la non-identità, la forma pura del non-pensare, mentre il primo principio è la forma del “pensare puro”, il quale è qualcosa di diverso dal pensare assoluto, dalla ragione» (ib.). Hegel riconosce che il pensiero della non-identità di qualcosa con sé non sia autenticamente pensabile, essendo appunto la negazione della legge del pensiero; esso è la «forma pura del non-pensare». Eppure è implicito nel pensiero dell’identità e viene rivelato dalla riflessione. La pura identità, ovvero il pensare puro, è un’astrazione dal suo complemento, dalla non-identità, tanto quanto questa, l’espressione del nonpensare, è astrazione dall’identità pura. La sola non-identità non è la verità. Eppure anche in essa la riflessione può scorgere l’opposto, ovvero il pensiero dell’“identità pura”, analogamente a quel che ha fatto relativamente all’identità. Come in A=A si è rinvenuta la disuguaglianza, così in A non è =A o in A=B si può rinvenire l’identità: è ciò che fa la riflessione, ancora una volta: «in A non è =A , o in A=B, è posta anche l’identità, il rapportare, lo = del primo principio, ma solo soggettivamente, cioè solo in quanto il non-pensare è posto dal pensare» (ib.). Hegel ritiene, come appare dal prosieguo, che il rilevamento dell’opposto del contenuto esplicito di un certo enunciato nell’enunciato medesimo, ovvero della disuguaglianza in un enunciato di identità e dell’identità in un enunciato di disuguaglianza, sia in larga misura l’esito di una riflessione estrinseca rispetto all’enunciato considerato. È questo un tema di notevole rilievo per lo Hegel di quegli anni, ed è alla radice della distinzione che egli faceva tra logica da un lato e metafisica dall’altro, ovvero tra un sistema della riflessione – in cui questa, applicandosi esternamente ai contenuti dell’intelletto, li rovescia nell’opposto, mostrandone l’insita antinomicità –, e un sistema della ragione – nei cui contenuti c’è sviluppato questo rapporto all’altro, alla loro negazione. In seguito la riflessione sarà da Hegel ritenuta immanente ai contenuti medesimi, e verrà abolita la distinzione tra logica e metafisica; il punto di svolta sarà l’elaborazione della Fenomenologia dello spirito e la riflessione sul punto di vista onde è condotto il discorso filosofico sull’assoluto. Ma da questo tema dello sviluppo della riflessione nella parabola del pensiero hegeliano si può qui per larga parte prescindere11. Del principio opposto all’identità Hegel afferma che «è incondizionato quanto il primo, e in quanto tale è condizione del primo, come il primo è condizione del secondo» (D p. 28). «Entrambi i principi sono di contraddizione, ma in senso inverso. Il primo, il principio di identità, dice che la contraddizione =0; il secondo, in quanto vie-

F. CHIEREGHIN (1982), (1992) lo illustra e analizza con grande competenza ed acume. Come si è detto, il tema della riflessione nella parabola del pensiero hegeliano è il tema conduttore del volume di S.-J. KANG (1999). 11

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ne riferito al primo, dice che la contraddizione è altrettanto necessaria quanto la noncontraddizione» (ib.). Il primo principio afferma che una cosa è identica a sé stessa; il secondo ne è negazione, ovvero afferma che una cosa non è sé stessa, che è identica ad altro, a ciò che le è diverso. «L’uno e l’altro, in quanto principi, sono per sé leggi di eguale potenza» (ib.). Hegel poi afferma che il secondo principio, essendo negazione del primo, in certo modo ne esprime anche il contenuto, come negato appunto, sicché quel secondo principio espone maggiormente la struttura dell’antinomia; esso «è la più alta espressione possibile della ragione mediante l’intelletto» (D p. 29). Quest’andamento argomentativo viene ripreso e ribadito da Hegel anche ad anni di distanza, nella Grande Logica, senza sostanziali modificazioni. Per es., nella seconda annotazione alla categoria del divenire, Hegel, a proposito dell’enunciato che l’essere è identico al nulla, è lo stesso che il nulla, afferma che si tratta di un’espressione imperfetta, perché in essa «l’accento viene infatti posto di preferenza su quel lo stesso [...]. Il senso sembra quindi essere, che la differenza venga negata; mentre invece si presenta anch’essa immediatamente nella proposizione» (SL p. 79 s.); perciò, a ben vedere, «in quanto ora la proposizione: essere e nulla è lo stesso, esprime l’identità di queste determinazioni, ma nel fatto le contiene anche come diverse, cotesta proposizione si contraddice in se stessa» (ivi, p. 80). Anche qui si trova ribadito il rinvenimento della differenza in seno all’identità, nella molteplicità dei relata: A1 e A2. L’antinomia nello Scritto sulla differenza così come nella Scienza della logica è evidentemente costituita da un lato dal principio di identità e dall’altro dalla sua negazione, dal principio di contraddizione che «dice che la contraddizione è altrettanto necessaria quanto la non-contraddizione». Questo secondo principio è poi in sé stesso contraddizione. L’antinomia cioè è costituita non semplicemente da due proposizioni, l’una negazione dell’altra, che però singolarmente prese potrebbero essere entrambe ammissibili (vere); ma da una tautologia e da una contraddizione. Eppure i principi sono di eguale «potenza», ovvero, mi pare si possa interpretare, di eguale valore. D’altra parte, Hegel ha insisto anche altrove – nel Rapporto dello scetticismo con la filosofia, coevo allo Scritto sulla differenza – sull’essere la legge di identità o non-contraddizione una legge dell’intelletto, laddove per contro le verità speculative la trasgrediscono necessariamente. Perciò Hegel ha valorizzato il principio scettico dell’isostenia12, per il quale vale una tesi e anche l’opposta. L’isostenia è in negativo la manifestazione delle verità speculative. Richiamare contro di esso la necessità della non-contraddizione è per Hegel inefficace, dacché il cosiddetto principio di [non-] contraddizione ha [...] per la ragione una così scarsa verità anche formale, che al contrario ogni proposizione di ragione deve contenere, riguardo ai concetti, una trasgressione [Verstoß] di esso: il dire che una proposizione è puramente formale significa ch’essa, posta per sé soltanto, senza che venga affermata ugualmente la proposizione oppostale per contraddizione, è proprio per questo falsa. Riconoscere il principio di [non-] contraddizione come principio formale significa dunque riconoscerlo insieme come falso. (RSF p. 80; W 2.230)

12

Cfr. RSF p. 80; W 2.230. 135

A tanto giunge lo Hegel di questi primi scritti. Eppure, come si diceva, gli argomenti hegeliani espliciti paiono scarsamente efficaci. Egli doveva controvertere l’enunciato di identità in quello della non-identità, mostrando che implicitamente il primo afferma anche la differenza di qualcosa da sé. Hegel aveva rinvenuto questa differenza, si diceva, nella molteplicità numerica delle occorrenze di A nell’enunciato d’identità A=A, in cui A come soggetto e A come predicato son due A diversi. Per attenersi alla pura identità, senz’alcuna differenza, e dunque per non cadere in contraddizione, si dovrebbe dire solo A, e non predicar nulla. Ma dir solo A – posto che ciò voglia dire qualcosa – non è enunciare l’identità di A con sé stesso, come invece si voleva. Pare quindi che se si enuncia l’identità, ci si imbatta, in ciò stesso, nella differenza, ovvero nella negazione dell’identità, e che quindi si debbano tenere insieme l’identità e il suo opposto, l’identità e la non-identità, in un unico enunciato, in un unico pensiero. Nel medesimo appaiono l’identità e la non-identità, proprio come afferma Hegel con la nota formula, che compare qui nello Scritto sulla differenza, per la quale «l’assoluto stesso è [...] l’identità dell’identità e della non-identità; opporre ed esser-uno sono contemporaneamente in esso» (D p. 79; W 2.96). Poco oltre si legge che la ragione «pone come identici gli opposti non soltanto nella forma del conoscere, ma anche nella forma dell’essere, [...] pone come identici identità e non-identità» (D p. 81; W 2.98). Queste espressioni – certamente paradossali, eppure da Hegel impiegate con sicura intenzione – si ritrovano, come s’è visto, anche nella Scienza della logica, colà impiegate per esprimere in forma riflessa (relazionale) la struttura contraddittoria del divenire, e ritenute essere la più generale definizione dell’assoluto. Esse peraltro richiamano altre espressioni, presenti nei frammenti del periodo francofortese, in cui Hegel allude ad un’unità di opposti i quali, in ragione del loro legame essenziale, sono e non sono opposti e distinti. Tali formulazioni si presentano nel frammento del 1798 intitolato Die Liebe13, e poi più compiutamente nel Systemfragment del 1800, in cui Hegel, per esporre la struttura organica della vita e dell’assoluto, ricorre all’espressione: «legame del legame e del non-legame [die Verbindung der Verbindung und der Nicht-Verbindung]» (W 2.422). A detta degli studiosi, si tratta del prototipo dell’espressione dianzi considerata che ricorrerà poi nello Scritto sulla differenza e nella Grande logica. Certo, affermare il legame tra il legame e il non-legame, qualsiasi cosa ciò voglia dire, non è propriamente affermare un’antinomia – e ciò ha indotto alcuni a ritenere che non già queste prime formulazioni vadano considerate quali l’anticipazione, non ancora perfezionata, di quelle antinomiche che seguiranno; ma, al contrario, che quelle successive siano l’espressione logicamente enfatica di un pensiero che si trovava esposto più semplicemente e coerentemente in quei frammenti giovanili. Per es. alcuni ritengono che nella formula «identità di identità e non-identità» la prima occorrenza della parola «identità» abbia un significato diverso da quello delle occorrenze successive, e significhi più generalmente «unità», «connessione», «legame». Dire infatti che l’identità e la non-identità

13

Cfr. W 2.244-50. 136

sono legate non significa dire che sono identiche, dal momento che il legame potrebbe essere di differenza, di opposizione. In generale: dire che gli opposti sono uniti non significa dire che sono identici, e l’unità degli opposti non è la loro coincidenza. E Hegel non vorrebbe allora davvero sostenere che gli opposti sono identici, ma solamente che sono uniti, che non sono giustapposti, disgiunti. Eppure si tratta, mi pare, di sforzi interpretativi che non fanno giustizia al pensiero di Hegel al quale non semplicemente sono sfuggite qua e là delle espressioni logicamente enfatiche e in fondo anche irrigorose, che scambiano l’esser in rapporto con l’identità. Piuttosto, egli ha espressamente teorizzato, in più luoghi, il pensiero dell’antinomia e della contraddizione. Lo si è visto relativamente al moto locale, al divenire, al tempo. Ora lo si sta vendendo, con questa prima ricognizione negli scritti pre-fenomenologici, relativamente al concetto di ente, di determinazione. Inoltre, anche nella formulazione francofortese del «legame del legame e del non-legame» si può rinvenire una certa tensione logica, essendo che il «non-legame», come tale, dovrebbe essere appunto scisso, assoluto, e non già connesso ad altro – in particolare al «legame». Certo, si tratterebbe qui di comprendere se il «non legame» sia un concetto che raccoglie sotto di sé le entità irrelate, senza far parte di questo novero, oppure se esso stesso sia irrelato; giacché, come insegnava Platone, in certi casi non è contraddittoria la predicazione tra opposti, se questa riguarda i concetti e non le cose. I generi sommi presentati nel Sofista si predicano (largamente, pur con alcune limitazioni) gli uni degli altri: l’identità della diversità e viceversa, senza che perciò quel che è identico sia diverso. Ma è difficile poter stabilire se Hegel pensasse a questo. Peraltro, proprio a seguito di quel passo della Grande Logica dianzi riferito in cui Hegel riprende le tesi dello Scritto sulla differenza, si trova ribadita la tesi dell’antinomia delle proposizioni speculative in generale, e dell’identità in particolare. Per Hegel in generale «il giudizio è una relazione identica fra soggetto e predicato. [...] [Ma] se il contenuto ora è speculativo, anche il non identico, del soggetto e del predicato, è un momento essenziale; ma questo nel giudizio non è espresso» (ib.), ovvero resta implicito in quel giudizio che dice semplicemente A=A, nella forma di A1=A2. Questa nonidentità può peraltro essere espressa da un altro giudizio, atto appunto a mettere in luce quel che – per dirla con Wittgenstein – nel giudizio precedente si mostrava (la differenza tra A1 e A2) ma non veniva detto (venendo enunciata l’identità, l’«=»). Come afferma Hegel, rispetto alla proposizione che l’essere è lo stesso che il nulla, nell’intento di esprimere la verità speculativa, a contesto difetto si ripara anzitutto coll’aggiungere la proposizione opposta, cioè che essere e nulla non son lo stesso [...]. Ma così sorge un altro difetto, il difetto cioè che queste proposizioni non son fra loro collegate, epperò presentano il contento soltanto nell’antinomia, mentre d’altra parte il contenuto loro si riferisce a uno stesso, e le determinazioni, che si trovano espresse nelle due proposizioni, debbono assolutamente essere unite. (SL p. 80, WL I, p. 8221-29)

Si può qui prescindere dal problema – presentato da Hegel peraltro già nello Scritto sulla differenza – che ogni esposizione proposizionale degli aspetti contraddittori, antinomici, insiti in una proposizione speculativa, sia esposta alla tendenza isolante dell’intelletto. Infatti, una volta enunciata la negazione di un principio, si deve anche enunciare che l’una e l’altra proposizione, quella affermativa e quella negativa, dicono il medesimo, la medesima verità; ma questa terza proposizione è a sua volta altra dalle 137

prime due, sicché ci vorrebbe una quarta proposizione che enunciasse l’unità di tutte, ecc. Ora, a parte questo tema dell’enunciazione dell’unità degli enunciati antinomici, resta il punto fondamentale che, relativamente ad una proposizione speculativa, «quanto ciò che si dichiara è esatto, altrettanto esso è falso; perché una volta che dallo speculativo si sia presa una proposizione, bisognerebbe almeno tener conto insieme anche dell’altra e dichiararla» (SL p. 81). Si tratta, in buona sostanza, della riproposizione del principio del completamento, della Vervollständigung, di un enunciato con la sua negazione, tenendo entrambi come veri. 4.10 Considerare uno come due: alcuni precedenti Il sospetto che nella formulazione dell’identità sia contenuto un elemento che ne contraddice il contenuto si ritrova già nella Metafisica di Aristotele, poi anche in Tommaso e non da ultimo in Russell. Nel V libro di Metafisica, cap. 9, Aristotele presenta (tra l’altro) i significati di identico: tra questi c’è l’identità per sé, e in particolare l’identità che diremmo individuale, di «una sola cosa» (Metaf. 1018 a 8 s.). Aristotele afferma: è chiaro che l’identità è una unità d’essere o di una molteplicità di cose [quando sono specificamente identiche o sostanzialmente identiche, pur essendo molte14], oppure di una cosa sola, considerata, però, come una molteplicità: per esempio come quando si dice che una cosa è identica a sé stessa, nel qual caso essa viene considerata appunto come due cose. (Metaf. 1018 a 8 ss.)

Il rilievo di Aristotele è che in quanto di qualcosa si afferma l’identità, si «duplica» la cosa considerandola una volta come il referente e una volta come il relatum della relazione di identità, la quale è appunto una relazione binaria: qualcosa è identico a qualcosa. Il qualcosa, pur essendo sé stesso, viene considerato due volte e dunque «come due cose». Ora, considerare ciò che è uno, e di cui si enuncia appunto l’esser sé, come due cose è palesemente violare l’identità (o quel che con essa si vorrebbe intendere). La quale peraltro sembra ormai più presunta che reale, dal momento che non si riesce, a quanto pare, neppure a formularla nella sua supposta purezza, ovvero quale l’identità che respinge da sé ogni diversità, che dice l’esser sé e che, se anche dovesse far riferimento all’esser-altro, lo farebbe negativamente, negando appunto che la cosa sia il suo altro. Ma appunto considerare ciò che è uno come due è negare la singolarità numerica dell’ente: come altri ha affermato in riferimento a questo passo aristotelico, «che l’uno sia due – che qualcosa sia posto come altro da sé; che l’identità sia differenza – è l’essenza stessa della contraddizione»15. Forse Aristotele ha ritenuto che questa duplicazione avvenga solo nel pensiero che considera16 l’ente nel suo esser sé, e non già nelle cose. E pure Tommaso, interpretando quel passo, pensa che la relazione di identità

Si tratta dell’identità per specie: molti cavalli sono eguali per il fatto che sono tutti della medesima specie: il cavallo. 15 E. SEVERINO (1995, p. 108). 16 Cfr. E. SEVERINO (1995, p. 108). 14

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sia non già una relazione reale, ma solo di ragione17, appunto perché «l’intelletto assume come due ciò che quanto alla cosa è uno»18. Questo pensiero della duplicazione dell’identico nell’esprimere l’identità, contravvenendole, e dunque producendo un’antinomia, corre su fino al pensiero contemporaneo. Lo affronta esplicitamente B. Russell, e in parte anche L. Wittgenstein. Mi pare che le considerazioni di Russell siano però anche risolutive dell’aspetto logicolinguistico della presunta difficoltà, quello su cui peraltro si basa Hegel per mostrare il carattere antinomico dell’identità. Vorrei perciò ora riferire brevemente intorno al modo con cui Russell espone e risolve il paradosso dell’identità. Nei Principles of Mathematics Russell, relativamente alle «relazioni di un termine con se stesso» (POM § 198), afferma che esse, «in qualsiasi sistema, costituiscono una grave difficoltà logica» (ib.) per la quale «ad esse dovrebbe venire negata, se possibile, validità filosofica». Viene immediatamente citato il caso esemplare dell’identità: «persino quando la relazione asserita è l’identità, vi devono essere due termini identici, i quali risultano perciò non assolutamente identici» (ib.). Vi devono essere due termini poiché per definizione una relazione ha almeno un referente e un relatum. Ciò è alla base della «tentazione ad affermare che nessun termine può venir posto in relazione con se stesso» (ivi § 95). D’altra parte, se questa tentazione fosse fondata, ovvero se nessun termine potesse venir posto in relazione con se stesso, non potremmo mai essere in grado di asserire l’identità di un termine con se stesso, dato che questa identità è evidentemente una relazione. Ma dato che una nozione come l’identità esiste, e dato che sembra un fatto innegabile che ogni termine sia identico con se stesso, dovremo ammettere che un termine possa aver relazione con se stesso. (ib.)

La difficoltà è esposta anche altrove nel testo, in modo pregnante: alla domanda se l’identità sia o no una relazione, e se un tale concetto addirittura esista, non è facile rispondere. Si potrebbe dire, infatti, che l’identità non è una relazione, dato che, quanto viene asserita giustamente, abbiamo soltanto un unico termine, mentre per una relazione si richiedono due termini. Anzi, potrebbe insistere un oppositore, l’identità non può essere, a rigore, proprio nulla: è ovvio infatti che due termini non sono identici; né può essere identico un termine, perché con che cosa sarebbe identico? Tuttavia l’identità dev’essere qualcosa. (POM § 64)

Eppure, ragiona Russell, se un termine può avere relazione con sé stesso e questa relazione è l’identità, «vi devono essere due termini identici, i quali risultano perciò non assolutamente identici». La difficoltà rimane. Ma Russell per risolverla non imbocca la

Cfr. E. SEVERINO (1996, pp. 108-9). L’identità non è per Tommaso l’unica relazione di ragione: lo sono pure la relazione tra la somiglianza e le singole cose simili, il rapporto di una cosa attualmente esistente con un ente non esistente, e il rapporto tra dei meri enti di pensiero, come il genere e la specie; cfr. la voce Relation di B. MOJSISCH in J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1992, col. 588). Peraltro la posizione di Tommaso non è dominante nel Medioevo: Scoto, p. es., ha ritenuto essere identità, diversità, eguaglianza e disuguaglianza, somiglianza e dissomiglianza immediatamente presenti nell’ente come tale (cfr. ivi, col. 591). 18 TOMMASO D’AQUINO, In duodecibus libros Metaphysicorum Aristoteles expositio, cit. da E. SEVERINO (1995, p. 108). 17

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strada del ritenere la relazione di identità un ente di ragione, dal momento che la tesi che le relazioni siano mentali è insoddisfacente. Infatti, ragiona Russell, se le relazioni fossero soltanto mentali, le proposizioni che le asseriscono sarebbero false. Se si dice, p. es., che «A è alla sinistra di B», e si reputa che la relazione essere alla sinistra non sia un’entità effettiva, bensì mentale, allora in realtà quella relazione tra A e B non sussiste; nella realtà A non è alla sinistra di B. Ciò però rende falsa ogni proposizione che affermi quella relazione, dal momento che non corrisponde alla realtà. «Se credo che A sia il padre di B, quando in realtà non è così, la mia credenza è erronea [...]. Pertanto questa prima classe di relazioni non ha alcuna validità, e consiste soltanto in un insieme di credenze errate» (POM § 425). Analogamente, se l’identità è una relazione di ragione – come hanno pensato Tommaso, interpretando Aristotele, forse lo stesso Aristotele, e poi molti altri, onde appunto evitare che ciò che è inteso esser uno sia posto come due – allora le entità, considerate in sé stesse, a parte rei, non sono identiche. Forse non è neppure falso che lo siano, e dunque vero che non lo siano – come invece sostiene Russell –, dal momento che se l’identità è una relazione solo mentale, allora, probabilmente, non è né vero né falso che le cose siano identiche o non-identiche. In altre parole, l’identità e il suo contrario non si applicano alle cose; sono, come le qualità secondarie di Epicuro e Galilei, determinazioni che stanno nell’osservatore. Certo, si tratta di una posizione indesiderabile. Russell ha affermato: «è ovvio infatti che due termini non sono identici; né può essere identico un termine, perché con che cosa sarebbe identico?». Ciò è probabilmente lo sfondo delle riflessioni del Wittgenstein del Tractatus sull’identità. Egli afferma, in una sibillina sezione dell’opera: «detto di passaggio: dire di due cose, che esse sono identiche, è un nonsenso [Unsinn]; e dire di una, che essa è identica a se stessa, dice nulla [sagt gar nichts]» (T 5.5303). Com’è noto, Wittgenstein avversa la cosiddetta «interpretazione oggettuale» dell’identità sostenuta da Frege e da Russell, per la quale l’identità è effettivamente una relazione reale che un oggetto, ogni oggetto, ha con sé medesimo (anche se qui resta ancora da chiarire, per l’interpretazione oggettuale, come essa sia possibile, senza incorrere nella duplicazione dell’identico). Infatti, «che l’identità non è una relazione tra oggetti è evidente» (T 5.5301). Alcune delle ragioni di quest’avversione di Wittgenstein nei confronti dell’identità sono peculiari del suo pensiero, perché fondamentalmente legate all’idea che, se esistessero enunciati atomici dotati di senso esprimenti l’identità, come A=A, allora, per la definizione stessa del senso di un enunciato, dovrebbe potersi contemplare la possibilità della loro falsità: essi sarebbero potuti essere falsi o potrebbero diventarlo, giacché nessun enunciato atomico è vero necessariamente. È dunque l’ipotesi stessa della sensatezza di un enunciato di autoidentità ad apparire assurda, comportando l’ammissione della reale possibilità che un oggetto possa essere diverso da sé, anche se ciò di fatto non dovesse mai accadere. Inoltre, gli enunciati di identità parrebbero essere un mez-

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zo per asserire l’esistenza di qualcosa19 – esistenza che però non può venire espressa, giacché non è affatto contingente (gli oggetti sono la sostanza del mondo: non possono non esserci, sono semplicemente dati, al di là dell’esistenza e della non esistenza le quali piuttosto riguardano gli stati di cose, ovvero le combinazioni di oggetti)20. Wittgenstein pensa che non ci debba essere un segno per l’identità, l’«=», ma che questa divenga manifesta mediante l’identità – o, meglio, l’unicità – segnica; egli afferma: «eguaglianza d’oggetto esprimo mediante eguaglianza di segno, e non mediante un segno d’eguaglianza; diversità d’oggetti, mediante diversità di segni» (T § 5.53). In altre parole: per non incorrere nella «duplicazione» dell’identico – oltre che per evitare altre difficoltà specifiche del logicismo – Wittgenstein ritiene che l’identità si manifesti con l’unicità segnica: se nessun oggetto ha più di un nome, allora l’uso di nomi diversi indica la diversità di oggetti, e l’uso di un unico nome indica che si sta parlando dello stesso oggetto. Non è qui il caso di discutere in dettaglio le considerazioni di Wittgenstein sull’identità, anche perché sono, in certa misura, specificamente legate al confronto con le posizioni espresse da Russell nei Principia Mathematica21. Tuttavia il rifiuto wittgensteiniano del discorso intorno all’identità, in base alla considerazione che «dire di due cose, che esse sono identiche, è un nonsenso; e dire di una, che essa è identica a se

Per es. per Russell l’affermazione che esiste qualcosa si rende con: x x=x è (che si può leggere come: «c’è qualcosa [di identico a sé]»). Wittgenstein invece interpreta quell’enunciato simbolizzato come l’affermazione che c’è qualcosa di identico, e simmetricamente ne interpreta la negazione non già al modo per cui non c’è nulla, ma a quello per cui non c’è nulla che sia identico a sé: quella negazione continuerebbe ad esser vera se esistessero cose diverse da sé stesse (cfr. T 5.5352). 20 Cfr. P. FRASCOLLA (2000, p. 202), e supra p. 42 ss. 21 In particolare Wittgenstein avversa la versione russelliana dell’identità perché legata a doppio filo al principio di identità degli indiscernibili, per il quale due cose sono identiche se e solo se hanno le medesime proprietà (e relazioni). Wittgenstein rifiuta questo principio perché non gli sembra metafisicamente, logicamente, necessario (cfr. T 5.5302). Vale a dire: deve essere ammissibile che due oggetti A e B possano avere tutte le stesse proprietà senza perciò essere lo stesso oggetto, anche se ciò non dovesse mai accadere. E la teoria dell’identità deve poter render conto di questa circostanza, non già negarla ab origine. Russell rispose a queste critiche ribattendo che se quegli oggetti, nonostante l’identità di proprietà, fossero diversi, tra di essi dovrebbe vigere la relazione di diversità. Ciò vorrebbe dire che l’oggetto A avrebbe però la proprietà di essere diverso da B, proprietà che B non possiederebbe perché non differisce da sé stesso. (La proprietà di differenza sarebbe ricavata dalla relazione di differenza tenendone fermo un termine). Lo stesso dovrebbe dirsi di B rispetto ad A, col predicato «diverso da A». Quindi, contrariamente all’ipotesi, quegli oggetti avrebbero diversità attributiva. Cfr. B. RUSSELL (1959, pp. 174 ss.); Russell aveva già formulato l’argomento in ID. (1900, pp. 106 ss., part. p. 108). Il ragionamento di Russell, che assimila la relazione di diversità alle consuete proprietà o qualità dei termini, è stato messo in dubbio più volte, in stretta connessione col dibattito sull’identità degli indiscernibili; su ciò cfr. M. CARRARA (2002, pp. 34 ss.). 19

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stessa, dice nulla», non pare risolutivo. Wittgenstein infatti non ritiene semplicemente falsa, ma addirittura un nonsenso l’affermazione che due cose siano identiche. È un nonsenso che, tanto per fare un esempio, Parigi sia Londra, il bue sia il cavallo, un uomo una nave. Se infatti un’affermazione del genere fosse semplicemente falsa, dovrebbe comunque sussistere la circostanza che sarebbe potuta essere vera, giacché per Wittgenstein tutte le proposizioni atomiche, in quanto hanno senso, hanno la possibilità di essere tanto vere quanto false. D’altra parte, l’enunciato di identità neppure può considerarsi sempre vero, necessariamente vero, alla stregua di una tautologia – e, simmetricamente, la sua negazione come sempre falsa, alla stregua di una contraddizione –: un enunciato di identità è una proposizione atomica, e come tale ha valore di verità contingente. Eppure, l’eventualità che due cose possano essere identiche – che Parigi, che non è Londra, possa essere Londra – è anche per Wittgenstein, a quanto pare, del tutto assurda. Sembra allora che questo rifiuto riguardo alla possibilità di parlare sensatamente dell’identità dipenda dal fatto che, nell’impianto logico del Tractatus, non si riesca a esprimere con adeguata forza la negazione dell’assurdità che due cose possano essere una, se non appunto nella forma di una proposizione contingente, contingentemente vera. In altre parole: la negazione dell’assurdità, se formulata con la logica del Tractatus, è troppo debole: non è a priori, non ha il sigillo della necessità. Perciò Wittgenstein imbocca la strada del divieto generale di parlare dell’identità. Resta però il sospetto che così non si sia risolto ogni problema, ma semmai lo si sia occultato. Infatti, proprio il divieto di parlare dell’identità sembra fondato su un divieto ancora maggiore, che resta e deve restare inespresso, ovvero quello che non possa mai essere che due cose siano una: è perché questo è del tutto assurdo, infatti, che Wittgenstein sembra censurare i discorsi intorno all’identità, i quali, formulati entro il logicismo del Tractatus, finirebbero per comprometterla. In altre parole: Wittgenstein nega la sensatezza degli enunciati di identità perché o direttamente, mediante la duplicazione dell’identico (cui accenna pure Russell nei Principles), o indirettamente, in ragione della loro solo contingente verità, sembrano ammettere che due cose siano una, e cioè la negazione dell’autoidentità delle cose. Ciò vuol dire, però, che comunque l’autoidentità è ritenuta un principio innegabile, ancorché presupposto ed inespresso. La via intrapresa da Russell per risolvere la difficoltà è una più attenta considerazione dei ruoli logici e semantici dei termini che occorrono negli enunciati. Anzitutto si tratta di comprendere su che cosa verta una proposizione, e tra che cosa intercorra l’identità enunciata. Essenziale a questo scopo è la nozione di denotazione: i termini linguistici stanno in generale per qualcos’altro, lo significano, lo denotano. Si dice che un concetto denota quando, se esso compare in una proposizione, la proposizione non verte sul concetto, ma su un termine connesso in un certo modo peculiare nel concetto. Se dico: “incontrai un uomo”, la proposizione non parla di un uomo: questo è un concetto che non va a passeggio per le strade, ma vive nel chimerico limbo dei libri di logica. Quello che incontrai era un cosa, non un concetto, un uomo effettivo con un sarto e un conto in banca o un’osteria e una moglie ubriaca. (POM § 56)

Anche altrove, nel carteggio con Frege, Russell ribadisce questa sua idea: per lui effettivo costituente della proposizione che il Monte Bianco è alto più di 4000 metri è proprio il Monte Bianco, non l’espressione linguistica «il Monte Bianco» la quale si 142

compone di parole, non di terra, boschi, rocce e nevi. E ancor meno è un componente della proposizione – diceva Russell in polemica con Frege – il pensiero associato a quell’espressione, che starebbe a far da tramite tra il monte stesso e le parole che lo nominano22. In generale, per Russell, «una proposizione, a meno che per caso non verta sulla lingua, non racchiude in se stessa delle parole: racchiude entità indicate dalle parole» (POM § 51). A ben vedere, si tratta della distinzione tra uso e menzione di un termine linguistico, già precorsa dalla teoria medioevale della suppositio. 4.11 Soluzione logico-semantica Ora, tornando al problema della duplicazione dell’identico: in un enunciato di identità ci sono due occorrenze del medesimo. Ora, forse che questo significa che si sta duplicando ciò che è uno? Che la differenza si annida nell’enunciazione dell’identità, in modo da scardinarla, da produrre un’antinomia, sol che si sviluppino adeguatamente questi due aspetti contrapposti, come vuole Hegel? Sembra di no, se si tiene conto di ciò su cui verte un enunciato di identità. Quel che in esso è molteplice è l’occorrenza del nome: A, Giovanni, ecc. A=A, Giovanni è Giovanni. Ma se è riconosciuto che le parole significano altro da sé, come già richiedeva Platone nel Sofista (giacché negare che le parole significhino altro significa negare che le parole siano parole), allora si deve comprendere che un enunciato di identità non asserisce l’esser uno dei segni o delle parole che figurano nella proposizione, ma l’esser uno di ciò che quei segni significano. E non c’è alcuna contraddizione nel pensare che i segni possano essere molti e che ciononostante quel che da essi è significato sia uno: la molteplicità numerica delle occorrenze di un segno non comporta menomamente il moltiplicarsi dell’oggetto designato dal segno. Con ciò, l’argomento di Hegel per mostrare la struttura antinomica dell’identità, esposto nello Scritto sulla differenza e poi anche, senza sostanziali modifiche, nella Grande Logica23, viene drasticamente ridimensionato se non liquidato. Peraltro, che gli argo-

Russell, in una lettera del 12 dicembre 1904, replicando a Frege, affermava: «ritengo che lo stesso Monte Bianco, nonostante tute le sue distese di neve, è una componente di ciò che propriamente viene affermato nell’enunciato “il Monte Bianco è alto più di 4000 metri”. Non si afferma il pensiero, che è questione psicologica privata: quello che si afferma è l’oggetto del pensiero e questo è a mio giudizio un certo complesso (un enunciato oggettivo, si potrebbe dire), di cui il Monte Bianco stesso è una componente. Se non si conviene su ciò si giunge alla conclusione che non sappiamo in generale nulla sul Monte Bianco» (lettera contenuta in: G. FREGE 1976, p. 222). 23 Cfr. la seconda annotazione alla categoria divenire, in cui Hegel, a proposito dell’enunciato che l’essere è lo stesso che il nulla, afferma che si tratta di un’espressione imperfetta, perché in essa «l’accento viene infatti posto di preferenza su quel lo stesso [...]. Il senso sembra quindi essere, che la differenza venga negata; mentre invece si presenta anch’essa immediatamente nella proposizione» (SL p. 79 s.); perciò, a ben vedere, «in quanto ora la proposizione: essere e nulla è lo stesso, esprime l’identità di queste determinazioni, ma nel fatto le contiene anche come diverse, 22

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menti dello Scritto sulla differenza, ed altri consimili, non siano persuasivi è opinione condivisa anche da esperti studiosi24. 4.12 Limite e contraddizione: la speculazione jenese Il proposito di Hegel era di sostenere l’antinomicità dell’identità. Certo è che Hegel nello Scritto sulla differenza non sembra offrire argomenti persuasivi; non sembra davvero in grado di «dimostrare facilmente» che la proposizione o legge d’identità contiene l’opposto, originando un’antinomia. Piuttosto, si è appigliato alla diversità di occorrenze di un segno per rinvenire nell’enunciato di identità la presenza dell’opposta determinazione della differenza, così da sostenere che l’enunciato di identità è un’antinomia. Ma si tratta di un argomento facilmente controvertibile. Basta introdurre delle semplici distinzioni semantiche come quelle tra uso e menzione, segno e denotazione, oppure le teorie medioevali della suppositio, distinguendo la suppositio formalis personalis dalla suppositio materialis o simplex. Le vere ragioni dello scardinamento hegeliano del principio dell’identità, inteso ontologicamente, e della metafisica fondata su di esso (sostanzialmente panteistica, eleatico-spinoziana), vanno ricercate altrove. Anzitutto, nel principio per cui determinare qualcosa è essenzialmente determinarlo nel rapporto di opposizione. E questo principio trova interessanti approfondimenti in scritti di poco posteriori a quelli sin qui considerati: negli abbozzi jenesi, ai quali ora vorrei volgermi. La cosiddetta Logica e metafisica di Jena (1804-05) è uno scritto ricco di indicazioni per comprendere la concezione hegeliana dell’ente. Benché il testo pervenutoci sia lacunoso, mancandone i primi fogli, è verisimile pensare, seguendo le fondate congetture degli studiosi, che esso iniziasse sulla falsariga dell’andamento teoretico della seconda parte del Parmenide platonico (dialogo che a quel tempo Hegel teneva nella massima

cotesta proposizione si contraddice in se stessa» (ivi, p. 80). Per Hegel in generale «il giudizio è una relazione identica fra soggetto e predicato. [...] [Ma] se il contenuto ora è speculativo, anche il non identico, del soggetto e del predicato, è un momento essenziale; ma questo nel giudizio non è espresso» (ib.), ovvero resta implicito in quel giudizio. Questa non identità può essere espressa da un altro giudizio, atto appunto a mettere in luce quel che – per dirla con Wittgenstein – nel giudizio precedente si mostrava ma non veniva detto. 24 Per es. K. DÜSING (1976, p. 98 n. 87) ritiene fallace la deduzione hegeliana, giacché – se intendo bene le considerazioni dell’autorevole studioso – la differenza cui allude Hegel, per la quale da A=A si deduce A=B, laddove B è inteso come non-A, ebbene quella differenza riguarda la differenza di posto, che non è semanticamente decisiva. Inoltre, per Düsing, da A=B si può dedurre A=A e viceversa solo se B è inteso come una nota caratteristica di A. In ogni caso «gli enunciati non si contraddicono l’un l’altro. Nel primo caso il soggetto A non ha il medesimo significato in entrambi gli enunciati, cosicché i predicati opposti per contraddizione A e non-A si rapportano a diversi soggetti. Nel secondo caso i predicati B e A non si escludono a vicenda, bensì B dev’essere incluso in A» (ivi, pp. 98-9, n.). 144

considerazione, come s’è detto)25, e dunque con una nozione di unità o di essere del tutto assoluta, concepita senza riferimento ad altro, qual è appunto quella della prima ipotesi, per la quale ci si chiede «se l’Uno è Uno, che cosa ne consegue per l’Uno considerato in sé»26. Quest’idea di un’unità ovvero di un essere che è sé stesso immediatamente, senza riferimento all’altro, anzi, prescindendo dal riferimento all’altro, si condensa nella nozione di rapporto semplice e si approfondisce in quella di limite. Il rapporto semplice è l’idea che qualcosa sia sé stesso nella sua pura positività, autoidentità, nel mero esser sé stesso (nel semplice rapporto a sé, appunto) – invece che in un rapporto essenzialmente oppositivo rispetto al non-essere, rispetto all’altro. La strategia di Hegel – per come la si può comprendere in queste ostiche pagine – è scandita in più fasi. Dapprima viene introdotta la nozione di determinazione concepita nel suo rapporto semplice a sé, nel suo limite – concezione per la quale ogni cosa è solamente sé stessa fuori da ogni rapporto negativo, oppositivo, rispetto al suo nonessere. In seguito, questa nozione viene approfondita, mostrando che si rovescia nell’opposta concezione che l’ente non è una determinazione fondata sopra la sua mera positività, ma che è determinato in quanto la positività è sottesa, intessuta, da un rapporto oppositivo, negativo, per il quale l’altro è altrettanto essenziale all’ente quanto il suo positivo essere. Donde appunto la contraddizione, poiché l’ente è così tanto il suo essere quanto anche il suo non-essere. Hegel, nell’esordio del testo pervenutoci, delinea la concezione ingenua dell’essere dell’ente, propria del rapporto semplice:

25 Hegel interpretava negativamente tutti gli esiti delle deduzioni delle ipotesi della seconda parte del Parmenide, dialogo che per lui rappresentava il sistema dello scetticismo, in cui veniva mostrata l’antinomicità delle determinazioni intellettuali. La logica di Jena, che precedeva la Metafisica, aveva proprio un compito analogo a questo che Hegel rinveniva nel Parmenide: mostrare l’antinomicità dei concetti dell’intelletto. Alla loro affermazione doveva seguire l’egualmente valida negazione, secondo il procedimento della complementazione col negativo, la Vervollständigung, cui s’è accennato in precedenza. Cfr. F. CHIEREGHIN (1982, p. 227 ss.), il quale afferma che «è difficile [...] sopravvalutare l’importanza che il Parmenide di Platone e in particolar modo la sua seconda parte hanno avuto nella concezione della funzione della logica jenese e della sua interna articolazione» (ivi, p. 230). Chiereghin ha trattato autorevolmente il tema in numerosi scritti, tra cui ID. (1966) e il recente (1995). L’interesse di Hegel per il Sofista trova invece maggiori testimonianze nella Enciclopedia e nella Grande Logica. 26 Cfr. Parmenide 137c – 142a. Ancora Chiereghin afferma che «se ci riferiamo alla fase più avanzata dell’elaborazione della tematica logica e metafisica [...], e cioè alla redazione del 1804/05, si può facilmente arguire, pur mancando essa proprio della parte iniziale, che la trattazione logica cominciava con un omaggio al Parmenide platonico. Dovendo iniziare dall’immediato, da ciò che è senza riferimento ad altro, senza distinzione d’esterno e d’interno, di essenza e di appartenenza [...], questo non è altro che l’unità. [...] Il riferimento più naturale è allora alla prima ipotesi del Parmenide, dove è posto a tema l’uno nella sua immediata e indistinguibile unità con l’essere, un’unità che rende contraddittoria qualunque forma di predicazione e che costringe quindi a passare oltre tale ipotesi insostenibile» (F. CHIEREGHIN 1982, p. 231).

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nel limite è posto il nulla della realtà e della negazione e l’essere loro al di fuori di questo nulla; [...] il limite esprime il concetto di qualità come l’essere per sé delle determinatezze in modo tale che le due determinatezze sono poste in esso ognuna per sé, indifferente l’una di contro all’altra, sussistente l’una al di fuori dell’altra. (LMJ p. 11)27

Il limite è in generale il rapporto di differenza tra determinazioni: l’una non è l’altra. In esso l’una cessa di essere quel che è; ed oltre esso c’è l’altro dalla cosa, che qui viene anche detto il negativo, la negazione. Il limite è come un confine territoriale, che distingue due ambiti, in esso cessando lo spazio di ciascuno ed originandosi quello dell’altro. Già in questo passo Hegel fa uso delle nozioni di realtà e negazione, alle quali peraltro si è già fatto ricorso nelle nostre parole di commento. Questa coppia concettuale è della massima importanza, e si riscontra costantemente nella logica e nell’ontologia hegeliane, a partire almeno da questi testi jenesi sino alla Grande Logica. Ed è proprio nella Scienza della logica che Hegel, com’è noto, riferisce l’affermazione di Spinoza che omnis determinatio est negatio, ovvero che ogni determinazione è (una) negazione, ritenendo quest’affermazione di un’«importanza infinita» (SL p. 108)28. Poiché l’intera questione si impernia intorno al rapporto negativo tra realtà e negazione (o come tale può venire esposta), è opportuno dedicare un breve approfondimento a queste nozioni. 4.13 Digressione: realtà e negazione Nei testi hegeliani la nozione di realtà s’accompagna ed oppone a quella di negazione. Hegel stesso offre una breve panoramica sul significato del termine. Solitamente per realtà s’intende l’esistenza effettiva, empirica, di contro a quella fittizia, illusoria. Si fa quest’uso della parola quando si afferma, p. es., che i sogni sono non sono reali. Altre volte invece si attribuisce la vera realtà ad un modello rispetto al quale l’esistente empirico appare inadeguato, una copia imperfetta29. Hegel tuttavia non pensa a queste accezioni della parola realtà, attenendosi piuttosto al suo significato più originario che ha avuto lungo corso nella tradizione filosofica.

27 Dello Jener Systementwurfe II riferisco qui solamente il numero di pagina dell’ottima traduzione italiana Logica e metafisica di Jena 1804-05, a cura di F. Chiereghin, giacché a margine dei fogli di questa sono indicate le corrispondenze con la paginazione dell’edizione tedesca di riferimento. 28 Spinoza, nell’epistola L afferma: «giacché dunque la figura non è altro che determinazione e la determinazione negazione, allora la figura non potrà essere null’altro, come detto, che una negazione». H.-J. Gawoll, curatore dell’edizione tedesca della Wissenschaft der Logik, annota (cfr. WL I, p. 458) che l’espressione determinatio est negatio si trova già in Jacobi. Hegel ne fa uso nella prima edizione della sua Scienza della logica; mentre la formula omnis determinatio est negatio si trova per la prima volta in una recensione di Hegel a Jacobi del 1817 e poi nella seconda edizione della Logica. 29 Cfr. SL p. 106.

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Duns Scoto e la sua scuola30 hanno durevolmente codificato una precisa concezione del significato di realitas. Scoto intende la realitas entro la dottrina delle formalitates. La realitas non coincide con la res, con la cosa, pur essendo oggettivamente in essa. Inoltre, la realitas viene anche concepita come separata dalla cosa; ma non perciò ha esistenza solo mentale. Le realitates sono allora le caratteristiche oggettive di una cosa – quel che noi oggi diremmo le proprietà –, così come poi le si troveranno p. es. in Leibniz, giacché esse non hanno immediatamente a che fare con l’esistenza di qualcosa, ma anzitutto con la definizione dell’individuo, e dunque, nel contesto scotista prima e leibniziano poi, con la delineazione della sua ecceitas. Questa, l’ecceitas, è peraltro definita ultima realitas entis, ovvero l’ultimo carattere definitorio dell’ente, specificante gli altri, le altre realitates più generali31. «Si trova ancora una testimonianza assai chiara di questo uso linguistico scotista di realitas nel “Lexicon philosophicum” di J. Micraelius32: “realitas è qualcosa nella cosa. Perciò possono esser poste in ciascuna cosa molte realitates [...]. Le realitates talora sono da distinguersi dalla cosa in cui sono. Così nell’uomo ci sono le realitates di essere-razionale, di essere-animale, di essere-sostanza»33. Sinonimi di realitas sono dunque, con diverse sfumature, essentia, aliquitas, quidditas34. Un altro lessico filosofico del XVII sec., quello di S. Chauvin35, fornisce una chiara indicazione del significato di realitas per la tradizione scotiana e scolastica in senso lato (fin nei suoi più tardi esponenti come F. Suarez): realitas è un diminutivo di res. E viene distinta dagli scotisti, che per primi hanno inventato questa parola, da res, giacché la res è quel che può essere per sé [..] e non è parte di una res; mentre per contro la realitas è qualcosa che è meno di una res. E perciò pongono in ciascuna res molteplici realitates, che con altro nome chiamano con formalitates: nell’uomo ci sono p. es. secondo l’opinione degli scotisti numerose realitates: la sostanzialità, l’esser-vivente, l’esser dotato di anima sensitiva, e da ultimo l’ultima realitas, la quale come ultima differenza costituisce l’esser-uomo, e cioè la razionalità36.

Cartesio impiega il termine réalité sempre accompagnato da un aggettivo: formale, oggettiva, soggettiva, nel quadro concettuale del problema delle idee. «Al pari di Descartes, Spinoza interpreta la realitas come “entitas”, ma l’equiparazione di “perfectio”,

Mi giovo, per quasi tutte le informazioni che seguono, della ricca voce realitas del già menzionato dizionario Historisches Wörterbuch der Philosophie, redatta con ammirevole competenza da J.-F. COURTINE, in J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1992, coll. 178-85). 31 Cfr. J.-F. COURTINE, in J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1992, coll.179-80). 32 Johannes Micraelius (grecizzazione di Lütkeschwager, 1597-1658) è noto come lessicografo di filosofia e teologia, soprattutto per il suo Lexicon philosophicum terminorum philosophis usitatorum (Jena 1653, poi ristampato e ampliato, Stettin, 16622; rist. anastatica Stern, Düsseldorf, 1966). 33 J.-F. COURTINE, in J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1992, col.180); il passo di Micraelius è tratto dal Lexicon Philosophicum, (1966), col. 1203. 34 Cfr. J.-F. COURTINE, in J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1992, col.180). 35 Stephanus (Etienne) Chauvin fu autore di un Lexicon rationale sive Thesaurus philosophicus, (Rotterdam, 1692, poi Leeuwarden, 17132; rist. anastatica Stern, Düsseldorf, 1967). 36 S. CHAUVIN, (1967, pp. 557). 30

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“realitas”, “essentia” resta un elmento fondamentale dell’Ethica: “per realtà e perfezione intendo la stessa cosa”»37. Su questa stessa linea, anzi, con un marcato ritorno al significato scotista, il concetto di realitas è impiegato pure da Leibniz, per il quale la realitas è lo stesso di essenza, quiddità, perfezione, ovvero di proprietà. Lo si riscontra chiaramente nel § 44 di Monadologia, nel quale si dice che anche gli enti solamente possibili contengono un certo grado di realtà, giacché si compongono delle idee o proprietà (requisita rerum) che li definiscono. Qui in Leibniz, ma più in generale in tutta questa tradizione, la realtà non s’oppone alla possibilità né all’esistenza effettiva, ma è lo stesso essere delle essenze. E tuttavia già in Leibniz, con la distinzione tra i fenomeni reali da quelli immaginari, si annuncia quell’altro significato, post-kantiano, di realtà, per il quale la realtà è altro dalla possibilità e dall’esistenza fittizia. D’altra parte, l’uso tradizionale della nozione di realtà sembra potersi riscontrare ancora in Kant. La sua nota critica alla prova ontologica, per la quale è illegittimo inferire dal concetto di Dio inteso come ente perfettissimo, come somma di tutte le realtà o perfezioni (anche qui l’uso tradizionale del termine è evidente), la sua esistenza effettiva, si basa sulla tesi che l’esistenza non è un predicato reale. Questo non vuol dire tanto che essa sia uno pseudo-predicato, quanto che non è un predicato esprimente una quiddità, un’essenza ovvero una proprietà o qualità degli oggetti. Anche Kant quindi, da questo punto di vista, intende il significato di realtà alla stregua di quello di perfezione o essenza, allineandosi con la metafisica scolastica tedesca di Ch. Wolff, A. G. Baumgarten e G. F. Maier, e pure con Leibniz, Spinoza, Suarez e la scuola scotista. Va tuttavia notato che già in Wolff, e poi più marcatamente in Baumgarten e Meier, andasse viepiù affermandosi il concetto di realtà inteso come esistenza della cosa cui la realtà è riferita. Il tema della prova della esistenza di Dio è anche in Hegel significativo per illustrare la nozione di realtà, intesa come sinonimo di perfezione – dovendosi intendere anche quest’ultima nozione in senso ontologico, conformemente alla tradizione ancora una volta scotista, leibniziana, e della metafisica scolastica tedesca38. È a questo significato di realtà che si riferisce Hegel in generale, quando l’oppone alla nozione di negazione. A proposito dell’espressione “realtà” è da ricordare l’antico concetto metafisico di Dio, che venne soprattutto preso a fondamento nella cosiddetta prova ontologica. Dio fu determinato come somma di tutte le realtà, della qual somma si disse che non conteneva in sé alcuna contraddizione, che nessuna delle realtà toglieva l’altra; poiché una realtà era da prendersi solo come una perfezione, come un affermativo, che non racchiudeva negazione alcuna. (SL p. 106)

È palese che qui Hegel intende per realtà la nozione di quiddità, perfezione o essenza, sulla scorta appunto della tradizione scotiana prima e leibniziana poi, giunta sino a

J.-F. COURTINE, in J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1992, coll. 181). Il riferimento per Spinoza è B. SPINOZA (1988, p. 124), ovvero Ethica II, def. 6. 38 Cfr. la voce perfezione, Vollkommenheit di Th. S. HOFFMANN in J. RITTER, K. GRÜNDER, G. GABRIEL (a cura di) (2001, coll. 1115-32). 37

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Hegel attraverso la metafisica di scuola razionalista, e la critica kantiana. È altresì evidente però che Hegel, pur muovendo da quella nozione, non intende mantenerla tale quale era, contestando anzitutto, come si vedrà, che la realtà sia solo qualcosa di affermativo che, come tale, escluda ogni negazione; che la realtà sia ciò che è definito, una determinatezza, un certo qualcosa, ma che abbia la negazione in altro, oltre sé. Anche la nozione di negazione necessita di un chiarimento, per come la intende Hegel. Tradizionalmente39, a partire per lo meno da Aristotele, la negazione (apofasis) è riferita ad enunciati, riguardando la copula. Ci sono enunciati affermativi ed enunciati negativi, e Aristotele si era proposto, nel De Intepretatione, di stabilire quale fosse la negazione logica di un enunciato. In seguito, nel Medioevo, il concetto di negazione è stato esteso anche al predicato, e si sono definiti i predicati negativi in modo alquanto articolato. Aristotele peraltro intende pure la privazione (steresis) come forma di negazione (apofasis), benché nel contesto aristotelico non sia del tutto chiaro, come già richiamato, se la nozione di privazione sia una nozione logica oppure ontologica40. A partire da questa circostanza si affermò una tendenza a intendere la negazione come una nozione non più solamente relativa agli enunciati – ciò che si direbbe il ruolo logico della negazione, la quale inverte il valore di verità di un enunciato (A, non-A), irreggimentata dal principio della bivalenza e dalle leggi della non-contraddizione e del terzo escluso –, ma anche come relativa agli stati di cose e agli enti – ciò che potrebbe chiamarsi l’aspetto ontologico, e dunque affatto reale, a parte rei, della negazione. Nella Scolastica – come altri ha affermato – divenne infatti una questione controversa se la negazione fosse un essente nelle cose o solamente nell’intelletto. Qui si opponevano le “negationes reales” degli Scotisti e i Tomisti. Per Duns Scoto la negazione è un qualche essente nelle cose; in quanto uomo, l’uomo ha la negazione dell’asino in sé, una negazione nella cosa stessa, non meramente nell’intelletto. Egli distingue in questo contesto tre modi con cui una negazione può essere in qualcosa [...]. Due cose sono “negationes” l’una dell’altra, o poiché esse, come uomo e asino, si differenziano solo mediante l’ultima differenza specifica, oppure perché, come uomo e bianco, si distinguono già per i generi sovrastanti41.

È proprio nel solco di quest’impostazione che la negazione diviene a pieno titolo una nozione ontologica, riferita a cose, entità: qualcosa è il negativo, è la negazione di qualcos’altro. Quest’uomo non è questo cavallo, e perciò ne è negazione. La negazione privativa è allora un ens reale, rispetto a cui invece la negazione logica ha solamente esistenza mentale42.

39 Per le informazioni che seguono mi giovo principalmente, ancora una volta, dello Historisches Wörterbuch der Philosophie, di J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1984), alle voci Negation (ivi, coll. 671-86), della quale non è indicato l’autore, e Negation der Negation (ivi, coll. 686-92), redatta da F. Fulda. 40 Cfr. supra nota 33 p. 29 e passim. 41 J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1984, col. 673). 42 Cfr. J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1984, col. 673).

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Sulla scorta di questa concezione, poi, il passo a intendere l’ente come il negativo del negativo è breve. Se qualcosa, non essendo qualcos’altro, ne è il negativo, e se inoltre questo rispetto negativo è reciproco, allora qualcosa, non essendo il suo altro, è il negativo del negativo (altro dall’altro). Come viene testimoniato dallo scotiano Mastrius43, «poiché il non ente è negazione dell’ente, un’entità, che è forma positiva, nega di per sé formalmente questa negazione di sé»44. Mastrius perfino identifica espressamente la essenzialità o quiddità dell’ente con questa negazione del negativo: «la negazione della negazione dell’ente a parte rei formalissime è la stessa quiddità dell’ente»45, e questa negazione è intesa come metafisica, non già come logica. Questa concezione della negazione non fu però universalmente condivisa nella scolastica. Il dissenso, tuttavia, riguardava non tanto la concezione della negazione in quanto riferita a cose, e dunque al di là dell’aspetto enunciativo, ma se essa, in generale, fosse o no qualcosa di solamente mentale. Per Tommaso e la sua scuola, p. es., la negazione è un ente di ragione, al pari dell’identità46; e pure Occam rifiuta di riconoscere realtà extramentale alla negazione, e così Buridano47. In ogni caso, anche entro la tradizione scolastica, nonostante la quiddità, il positivo siano equivalenti alla negazione del negativo, non si può affermare che ci sia una priorità della negazione sul positivo e sull’affermazione. «Sia per i tomisti che per gli scotisti valgono affermazioni come: “l’affermazione per natura precede la negazione”, o come: “la negazione viene riconosciuta mediante l’affermazione”»48. Significativa è poi la posizione di F. Suarez, il quale, nella quinta delle sue Disputazioni metafisiche, trattando dell’unità individuale, mette in relazione l’unità in cui consiste qualcosa – chiamata anche prima negazione, nel senso di non divisibilità dell’individuo –, con la negazione del non-essere di quell’ente (la negazione dell’altro rispetto all’ente). Questa negazione, seconda nell’ordine logico, segue la prima – l’indivisibilità, l’unità intrinseca dell’ente – senza l’aggiunta di nulla (absque addizione ulla positiva), e cioè, si potrebbe forse dire con altro lessico, analiticamente. Tuttavia Suarez, nonostante questa correlazione tra il qualcosa e il suo negativo, tra la prima e la seconda negazione, afferma essere quest’ultima fondata sulla prima: anzitutto l’ente è indivisibilmente sé stesso, e poi è al-

43 Mastrius è il nome latino di Bartolomeo Mastri da Meldola (Forlì) (1602-1673). Francescano, teologo e filosofo, fu il più insigne rappresentante della scuola scotista del XVII sec. E perciò noto anche con l’appellativo di «principe degli scotisti». 44 B. Mastrius, cit. da F. FULDA in J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1984, col. 690). 45 Ib. 46 F. FULDA in afferma che «per Tommaso [...] la “negazione della negazione, mediante la quale di un ente viene negato il non ente” [I Sent., d. 24, q. 1, a. 3, ad 1] è un ente di ragione» (J. RITTER, K. GRÜNDER [a cura di] [1984, col. 690]). 47 Cfr. J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1984, col. 673). 48 J. RITTER, K. GRÜNDER (a cura di) (1984, col. 673); le citazioni sono di Tommaso e Scoto.

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tro da altro. Per lui il negativo è fondato e conseguente l’essere dell’ente, non viceversa49. Anche Suarez dunque mantiene fede al primato del positivo50. Questi riferimenti storici costituiscono certamente lo sfondo della trattazione hegeliana delle nozioni di realtà e di negazione, caratterizzando l’ente quale realtà che si oppone al negativo. Ma il rapporto tra realtà e negazione, positivo e negativo, secondo Hegel, dev’essere inteso ben altrimenti, ben più radicalmente che nella tradizione metafisica. In fondo, nella tradizione, la prima battuta del discorso metafisico è sempre stato l’ente, il positivo. Il negativo – e dunque la possibilità di intendere lo stesso positivo come negativo del negativo, come il risultato di un procedimento logico del negativo – è ciò che s’aggiunge al positivo, come una seconda battuta. Certo, non è così per Hegel – ciò costituendo il nucleo del rivolgimento ontologico da lui compiuto, come ora ci si appresta a vedere. 4.14 Ripresa Nel limite è posto il nulla della realtà e della negazione, ha affermato Hegel. Come si diceva, l’andamento del discorso in queste pagine jenesi muove dalla concezione del rapporto semplice, per poi mostrarne l’insussistenza e affermare l’opposto, ovvero che l’esser sé del qualcosa è essenzialmente uno sporgere da sé, rapporto ad altro. L’ente è un esser sé ma anche no; è un non esser l’altro, ma anche esserlo. È un’antinomia, dunque, come Hegel ha più volte annunciato, per la quale il determinato «è per sé contraddizione assoluta» (LMJ p. 34). Si tratta di vedere ora come Hegel argomenti questo percorso. Egli non intende tanto sostituire una concezione dell’ente con un’altra, bensì mostrare come nella nozione del semplice esser sé della determinatezza, nel rapporto semplice, sia contenuto più di quanto non appaia sulle prime: il rapporto semplice va adeguatamente approfondito, portandone in luce l’autentica struttura. Più volte infatti Hegel, nel volgere di

«[S]ebbene la cosa anzitutto sia, per natura, prima in sé una che distinta dalle altre, tuttavia ciò [scil. l’esser distinti da altro] segue successivamente intrinsecamente dal primo [scil. dall’essere la cosa in sé una], senza alcuna aggiunta positiva che addivenga alla cosa stessa, che è una, ma solo per negazione per la quale, posto l’altro estremo, è vero dire che questo non è quello. E così quello stesso positivo, che fonda l’unità relativamente alla prima negazione o indivisione in sé, fonda di conseguenza la posteriore negazione della distinzione dall’altro, ed in questo senso si è soliti dire, ed è verissimo, che la cosa è distinta dalle altre precisamente in forza di ciò che la costituisce in sé stessa, poiché si distingue per ciò che è» F. SUAREZ (1965 I, p. 166), ovvero Disputationes V, III § 12. (Relativamente alla traduzione di questo passo, ringrazio il dott. Marco Forlivesi per alcune preziose indicazioni terminologiche). 50 Di avviso diverso, mi pare, A. BELLAN (2002, p. 126). Su Suarez, e prima ancora su Scoto e la scuola scotista, relativamente al tema dell’ente, alla realtà e alla negazione, cfr. l’importante volume di L. HONNEFELDER (1990). 49

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poche pagine, insiste sulla necessità che venga «espresso ciò che è veramente posto» (LMJ p. 12) in queste nozioni. Ora, se un ente è determinato, esso è ciò che è e non un’altra cosa. Essendo determinato, limitato, è distinto dal non-essere: A non è non-A (laddove non-A si può anche chiamare B). Nella prima concezione – che potremmo dire, interpretando Hegel, «ingenua» o «intellettuale» – della limitazione, e cioè della negazione che ciascuna determinatezza è nei confronti di un’altra –, «le determinatezze sono poste in esso [limite] ognuna per sé, indifferente l’una di contro all’altra, sussistente l’una al di fuori dell’altra» (LMJ p. 11). L’idea è che un ente solamente realtà positiva. È del tutto vero che una cosa non è un’altra cosa; ma appunto perciò l’una è per l’altra niente. Detto altrimenti: l’essere di una cosa è negazione dell’altra cosa; ma allora quest’altro, il negativo, non è in alcun modo rilevante per la cosa di cui è il negativo: non fa in alcun modo parte dell’essere di quella. Se ne facesse parte, non sarebbe l’altro da quella cosa. Non è che l’altro rispetto a qualcosa sia nulla, non sia affatto; ma è nulla per quel qualcosa, è nulla di quel qualcosa. Questa concezione del rapporto tra l’ente e il suo altro, tra realtà e negazione, si basa sul pensiero che la determinatezza di ciascun ente sia sì un rapporto negativo all’altro, ma del tutto estrinseco – ciò che qui Hegel caratterizza come «rapporto semplice». Il riferimento teorico di queste indagini hegeliane può essere ricondotto alla nota tesi del Sofista con la quale Platone, compiendo un simbolico parricidio nei confronti di Parmenide, afferma l’essere del non-essere51. Parmenide aveva affermato che

51 L’allusione al «parricidio» da parte dello «Straniero di Elea» è contenuta in Sofista 241 d. Questo parricidio è compiuto in verità per poter dare significato agli enunciati falsi. L’idea di base è che la verità coincida con la realtà, l’essere (cfr. p. es. Eutid. 284 c: «parlare di ciò che è e delle cose che sono è dire la verità»); mentre il falso è come le cose non sono, l’inesistente (cfr. Crat. 385 b, 429 d; Carmide 163 b; Sofista 236 e- 246 e). Così, se gli enunciati falsi non indicano la realtà, l’essere, significano il non-essere. Ma del non-essere, come vuole Parmenide, non si può dir nulla. La difficoltà è allora la seguente. Come poter dire sensatamente che un enunciato P (p. es. Teeteto vola) è falso? Infatti, se davvero P fosse falso, esso verterebbe sul non-essere ma così non avrebbe significato alcuno. In tal caso non lo si può neppure dichiarare falso. Che cosa infatti sarebbe falso? Nulla! Invece, se ha senso dichiararlo falso, allora P deve avere qualche significato, designare qualcosa; ma allora esso verte su qualcosa, c’è una realtà che gli corrisponde, e perciò non è falso ma vero, e dev’essere falsa la dichiarazione che P è falso. Con ciò il problema è raddoppiato. Si deve allora ammettere che di nulla si possa dire che è falso: ogni discorso è vero. Questa la posizione dei sofisti. Questa è la difficoltà che Platone si trova a dover fronteggiare; egli la supera semantizzando il non-essere in modo che si possa ammettere senza contraddizione che qualcosa sia falso. Per farlo però deve trasgredire il divieto di Parmenide che il non-essere assolutamente non sia e che di esso non si possa dirne nulla affatto. Col parricidio Platone può dire che l’enunciato Teeteto vola è falso, ma non già perché significhi il niente (che non c’è), e dunque non significhi niente, ma perché significa l’altro da ciò che è. Essere falso vuol dire infatti significare altro da ciò che c’è, non già non significare nulla. La soluzione di Platone non appare però risolutiva perché il non-essere inteso come diverso nondi-

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l’essere è, mentre il non-essere non è. Platone in un certo senso rettifica questo principio, ritenendo che si possa derogare alla seconda parte di esso, a seconda di come si intenda il non-essere. Se quest’ultimo significa il non-esistente, l’assolutamente niente, allora il divieto di predicarne l’essere va mantenuto in vigore, senza dubbio. Ma se invece il non-essere significa l’altro dall’essere, nel senso di ciò che è sì diverso da esso (e da un certo ente), ma nondimeno c’è ed è a sua volta essere, allora si può ben dire che il non-essere, così inteso, è, c’è. Di esso si può predicare l’essere. Questa semantizzazione dell’essere compiuta da Platone è lo sfondo teorico delle presenti considerazioni hegeliane, poiché la determinatezza dell’ente è l’essere esso un essere – altrimenti detto realtà –, distinto dal suo altro che ne è negazione. La struttura della determinatezza è proprio il rapporto tra l’essere e il non-essere quali si configurano nella tesi platonica del parricidio. E Hegel, confrontandosi indirettamente con questa tesi, intende appunto precisare la natura di quel rapporto, mostrandone però la struttura antinomica. Come si diceva, lo Hegel jenese concentra la sua attenzione sul Parmenide anzi che sul Sofista; ma poi, nella Scienza della logica e nell’Enciclopedia, formulerà espliciti richiami alle tesi del Sofista, proprio nella trattazione dell’ente52. Non solo, egli – soprattutto nelle lezioni su Platone – si richiamerà insistentemente alla dottrina dei generi sommi del Sofista, al punto da presumere di riscontrare in essa l’anticipazione della tesi della struttura antinomica dell’ente. Come sanno gli studiosi, Hegel interpreta il Sofista ben oltre il dettato testuale, compiendo vere e propri forzature contraddicenti il senso delle tesi platoniche. Nel far ciò, si era servito della traduzione di Marsilio Ficino (la cosiddetta edizione bipontina); questa conteneva un errore di traduzione che però si prestava ottimamente ai propositi interpretativi hegeliani53. Il confronto con il Platone del Sofista si impernia intorno al rapporto tra l’essere e il non-essere. Infatti, nella riformulazione platonica del principio parmenideo si afferma sì, nella sua (ideale) seconda parte, che anche il non-essere c’è, se il non-essere è (inte-

meno c’è. Invece, il volare di Teeteto non può essere solo qualcosa di diverso dallo stato attuale di Teeteto (che non vola), ma deve essere un non-essere assoluto. Altrimenti Teeteto in qualche modo starebbe volando, e l’enunciato Teeteto vola sarebbe in qualche modo vero. Cfr. per queste considerazioni E. SEVERINO (1980, pp. 145 ss., part. pp. 149-51). Si tratta di un problema – questo della semantica del falso – che si ritrova mutatis mutandis nel pensiero contemporaneo, p. es. in Russell e in Wittgenstein (cfr. il mio F. PERELDA 2003, n. 43 pp. 249 ss.). Relativamente a Platone, cfr. M. FREDE (1992). 52 La letteratura sul tema ha raggiunto ormai una certa ampiezza; cfr. anzitutto, in italiano, K. DÜSING (2001, pp. 13-52), corredato di ampia, aggiornata bibliografia. 53 Il tema verrà ripreso più avanti. Cfr., tra i possibili riferimenti, H.-G. GADAMER (1961), G. DUSO (1967), K. DÜSING (1980), (1983, pp. 55 ss.), R. MILAN, G. MOVIA (2002), V. CICERO (1998), VIELLARD-BARON J.-L. (1996), H. KRÄMER (19893, pp. 283-302) nonché, per altri interventi, il ricco volume collettaneo G. MOVIA (a cura di) (2002); in questo in part. cfr. L. PALUMBO (2002) che si propone di rendere compatibile l’interpretazione di Hegel colla dottrina del Sofista. 153

so come) l’altro; ma poi, una volta concepita la molteplicità degli enti – ciascuno dei quali è, rispetto agli altri, un certo non-essere che è –, viene nondimeno tenuto fermo che l’uno non è l’altro, che l’essere dell’uno non è l’essere dell’altro. Per Platone, infatti, non si può affermare «nemmeno in sogno [...] che in senso assoluto il pari è dispari, o qualche altra cosa del genere» (Teet. 190 b). È infatti inconcepibile che «qualcuno [...] sano o ammalato di mente, osi dire sul serio a se stesso, persuadendosene, che necessariamente il bue è cavallo, o che il due è l’uno» (ivi, 190 c). Questo è impossibile, poiché «qualunque cosa sia diversa, necessariamente è quello che è, cioè diversa da una diversa» (Sof. 254 d), benché in un qualche senso anche l’identico sia diverso54. Anche la trasgressione di Platone al divieto di Parmenide dunque – per la quale «si deve forzare il non-ente, sotto un certo riguardo, ad essere, e l’ente, a sua volta, sotto un certo rispetto, a non essere» (Sof. 241 d) – si configura a sua volta come un rinnovato divieto: quello di pensare che un certo essere sia il suo non-essere (inteso come diverso), che il bue sia cavallo, Socrate una trireme55. Rispetto a ciò Hegel si propone, in un certo senso, di trasgredire anche a questo secondo divieto, interpretando il rapporto negativo tra essere e non-essere, tra realtà e negazione, il limite, in modo antinomico, per cui qualcosa è «l’altro di sé stesso». E sulla base di questo proposito e di certi passi platonici (nell’errata traduzione di Ficino), vuol far sostenere la stessa tesi anche a Platone. Sul confronto con Platone ci sarà occasione di tornare; giacché è ora il caso di seguire Hegel nel rivolgimento del rapporto semplice in antinomia. La tesi hegeliana è mostrare che il rapporto semplice è insufficiente a render conto della determinatezza degli enti. Un ente è qualcosa; un altro ente è un’altra cosa; l’uno è il negativo della realtà dell’altro, e questo rapporto negativo è il loro limite, nel senso che il limite, il «non» dell’uno rispetto all’altro, costituisce la loro reciproca determinatezza. In questa prima concezione realtà e negazione sono due cose affatto diverse; perciò l’una cade fuori dall’altra – usa affermare Hegel, soprattutto nella Grande logica, impiegando il verbo auseinanderfallen. In questo modo, il negativo della realtà non incide nell’essere questa ciò che è: per essa il negativo è proprio nulla, è solamente il negativo, altro da essa. L’essere e il non-essere sono così giustapposti: A e non-A in quanto B. Hegel vuole però mostrare che questa tesi non basta a sé stessa, ovvero che la determinatezza dell’ente è una struttura che richiede molto di più del rapporto semplice (si deve intendere che quella giustapposizione è in verità un’opposizione). Questo sussistere indifferente dell’essere e del nulla e dell’essere delle qualità non esaurisce però l’e del limite; ossia il limite non è soltanto quest’unico lato della realtà (Realität) dell’essere per sé delle qualità contenute in esso; esso sorge dalla negazione e questa consiste soltanto nell’essere fuori di lei della realtà (Realität), ma insieme nel rapporto ad essa. (LMJ p. 11)

54 L’edizione bipontina conteneva un errore di traduzione proprio nel passo in cui Platone espone questo concetto (cfr. Sofista 259 d), omettendo di aggiungere che il diverso è identico non tout court, ma per un certo rispetto, in qualche modo. Cfr. infra pp. 218 ss. 55 Quest’ultimo esempio è, com’è noto, impiegato da Aristotele nel contesto della difesa del principio di non-contraddizione.

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Come altri ha acutamente notato56, il punto focale del discorso è l’«e», l’accostamento estrinseco tra realtà e negazione; il rapporto solamente negativo tra l’una e l’altra, tra il qualcosa e il suo altro. «Il concetto della qualità è di essere solo identica a se stessa, senza riguardo ad altro» (LMJ p. 12), afferma Hegel, esponendo la concezione tradizionale di realtà, quale la si trova per es. in Leibniz. Questi infatti definisce la perfezione – la quale, s’è visto, è sinonimo di realtà –, p. es. in Monadologia (§ 41), come «la grandezza della realtà positiva [...] lasciando da parte i limiti o i confini delle cose che li possiedono» (SF III, p. 459), e altrove come «qualità semplice che sia positiva» (SF I, p. 179), oppure come «quantità di essenza» (ivi, p. 481)57. In queste definizioni di Leibniz la perfezione è puramente positiva, giacché si possono lasciare «da parte i limiti o i confini delle cose». La negazione è semplicemente accostata alla realtà; il loro rapporto è espresso perciò solamente da un «e». La riflessione di Hegel, che scardina la concezione tradizionale dell’ente, sembra constare di più passi. Egli dapprima fa vedere che il rapporto di reciproca esclusione tra realtà e negazione è essenziale, costitutivo per l’ente nella sua determinatezza. La determinatezza dell’ente è data proprio nel rapporto tra realtà e negazione; si condensa in quell’«e», il quale allora è in verità ben di più che mero accidentale accostamento. In seguito, viene mostrato che proprio l’essenzialità di questo rapporto, lungi dal garantire la stabilità della non-contraddizione – ovvero l’identità con sé da parte di ciascuno dei diversi, e la loro reciproca diversità (quell’identità cui alludeva Platone nel Sofista, come si è visto) –, consta invece di una struttura antinomica, componendosi di aspetti in contraddizione l’uno con l’altro. Relativamente al primo passaggio, l’essenzialità del rapporto tra realtà e negazione sembra essere argomentata da Hegel negativamente, mostrando che il rapporto semplice, il semplice riferimento a sé, non è una struttura sufficiente per restituire la molteplicità – e dunque la determinatezza – degli enti. Il semplice riferimento a sé, espresso, per tornare allo Scritto sulla differenza, dalla formula A=A, è l’identità astratta la quale, prescindendo dalla differenza, non è l’identità del determinato con sé, ma l’identità dell’essere che non ha differenze, dell’uno degli Eleati. Hegel qui sembra effettivamente rendere omaggio all’andamento delle ipotesi del Parmenide, la prima delle quali è interpretabile come una resa dei conti con l’eleatismo, contemplando il caso che l’uno sia per sé stesso, senza alcun riferimento ad altro. Ed è noto che quest’ipotesi ha certamente esito negativo, non potendosi dire di tale uno assolutamente nulla. Un simile andamento si ripropone poi anche nella Scienza della logica: il puro essere, che costituisce l’incipit, corrisponde, a detta di Hegel, alla posizione del monismo eleate; ma tale

56 Il riferimento è qui a F. Chiereghin, il quale in numerosi scritti (tra cui: 1981, in part. p. 263; 1992, p. 39; 2001, p. 64 ss.; 2004, p. 80 ss., ripresa del precedente testo) ha richiamato l’attenzione sul fatto che per Hegel la struttura del limite ontico, la struttura della determinatezza, si presenta come contraddizione. 57 Ulteriori indicazioni fornisce Leibniz nel carteggio con Wolff, sollecitato da una richiesta di quest’ultimo.

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essere non è l’essere degli enti. Infatti, acciocché la loro determinatezza sia, sia ammissibile, si deve compiere il parricidio e tenere in vista, oltre che l’essere, anche il nonessere. Di più: si deve pensare che anche il non-essere sia. L’essere, quel che è, essendo molteplice, è declinato al plurale; ciò però significa unire l’essere al suo «non», alla negazione – la quale è ciò attraverso cui l’essere è molteplice. In tanto c’è determinatezza e molteplicità, in quanto un essere non è un altro essere, in quanto l’essere di cui consta un ente non è l’essere di cui consta un altro ente. Senza questo interno intreccio tra essere e non-essere, non c’è pensiero dell’ente. Non c’è, in altre parole, determinazione, ma solo l’uno in sé stesso, senza che i molti siano. Ma l’ipotesi dell’essere inteso come l’uno senza i molti, senza determinazione, è Hegel la scarta fin dall’inizio, nel senso che proprio il primissimo avanzamento della Logica hegeliana è la confutazione della semantica dell’essere del panteismo elate e spinoziano – analogamente a quel che avevano fatto Platone da un lato, con la prima delle ipotesi della seconda parte del Parmenide58, e Aristotele dall’altro, nei primi libri di Fisica e di Metafisica. Pertanto, in ragione del rapporto negativo, è vero che la negazione non è la realtà, l’una escludendo l’altra; ma non al modo per cui la realtà è ciò che è «lasciando cadere» la limitazione e il negativo, come affermava Leibniz, bensì in modo del tutto opposto, proprio rapportandosi ad esso. Con ciò si è guadagnata l’essenzialità del «rapporto negativo». Ora però sorge la domanda: perché mai un tale rapporto, nella sua essenzialità, dovrebbe essere un’antinomia? Anzi, sembrerebbe che una tale idea derivi dallo scambiare l’essere in rapporto di realtà e negazione, con l’essere l’una identica all’altra. Infatti, si può precisare, il riferimento al negativo nel determinare il positivo, nel determinare la realtà dell’ente, è un riferimento che, ancorché essenziale, è appunto negativo, non già identificativo. Dicendo che quel rapporto è essenziale e costitutivo, non si vuole certo dire che la realtà è la negazione, ma appunto che non lo è. Anzi, esso consta nell’essenziale esclusione che la realtà sia negazione, che il bue sia cavallo, che qualcosa sia il suo altro. Eppure per Hegel non ci si può fermare qui. Si deve approfondire il significato implicito in quell’«e». Lo si può fare con una domanda, la seguente. Si ammetta che il

58 A dire il vero, la tesi interpretativa che la prima deduzione della seconda parte del Parmenide sia una confutazione dell’eleatismo da parte di Parmenide-Platone è controversa. D. ROSS (1951, pp. 128 ss.), p. es., non la ritiene fondata, perché da un lato secondo lui non ci sono ragioni testuali per credere che l’ipotesi opposta, a favore del pluralismo, goda, nell’andamento del testo, di maggiore plausibilità («non vi è nulla che dimostri che la conclusione della seconda argomentazione sia per Platone più accettabile di quella della prima» - ivi, p. 132); e dall’altro gli sembra un ingiustificato controsenso credere che Platone faccia compiere a Parmenide una confutazione del proprio pensiero («l’ultima cosa che ci aspetteremmo che Platone facesse sostenere a Parmenide è una confutazione del monismo astratto» - ivi, p. 131). In generale, Ross è a favore di un’interpretazione non propriamente filosofica della seconda parte del dialogo, la quale per lui rappresenta più che altro un esercizio dialettico.

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rapporto tra il qualcosa e il suo altro sia essenziale. Con ciò si dice forse che, dal momento che la negazione non è la realtà, la negazione può esser lasciata cadere e la realtà essere pura realtà, indipendente da quel rapporto negativo? Si vuol forse dire che l’altro dalla cosa, non essendo la cosa, «cade fuori» dalla cosa? Se si riconosce l’essenzialità del rapporto negativo tra realtà e negazione, non si può rispondere positivamente a questa domanda: tale risposta positiva sarebbe la smentita dell’essenzialità del rapporto. Si dovrebbe allora tornare alla concezione dell’ente quale esso è nel «rapporto semplice», per il quale da un lato c’è qualcosa e dall’altro c’è il suo altro, e che l’uno è del tutto indipendentemente dall’altro. Giacché, se il rapporto è ritenuto essenziale, il nesso tra il qualcosa e il suo altro non può essere di indipendenza reciproca. Quindi, se si conviene sul fatto che il nesso tra realtà e negazione è essenziale, non si può poi dire che la negazione «cade fuori» dalla realtà, che l’una non è l’altra. Se invece si vuol negare in ogni modo questa conseguenza, allora bisogna smentire ab origine che il nesso sia essenziale, e tornare al «rapporto semplice»; in più, con la consapevolezza che questo è (almeno secondo i ragionamenti hegeliani) la categoria logica dell’essere degli Eleati, dell’uno senza i molti – non del molteplice. Una posizione insostenibile, dunque. Sembra dunque che Hegel abbia disposto tutte queste nozioni – le categorie dell’«uno» degli Eleati (e della prima ipotesi della seconda parte del Parmenide), dell’uno che è in rapporto ai molti, ovvero del qualcosa e del suo altro – in una specie di piano inclinato, che le fa precipitare le une sulle altre, e tutte verso l’antinomia, apparentemente senza scampo. Infatti, l’esito del riconoscimento che il rapporto tra il qualcosa e il suo altro è originario, essenziale, è che il «non» di cui quel rapporto consiste, separando il qualcosa dal suo altro, sia anche un tenerli insieme. Proprio nel rapporto di esclusione del negativo rispetto alla realtà, quel negativo, la negazione, il non-essere, l’altro, sono tutt’altro che esclusi dalla cosa, giacché concorrono essenzialmente a definirne l’essere. Alla definizione di un ente concorrono tanto la realtà quanto la negazione. Questo vuol dire che la negazione non «cade fuori» dall’essere dell’ente; non è davvero altro dalla realtà. Si comincia allora a intravvedere la struttura antinomica di cui parla Hegel, quella propria del limite. Essa non dipende allora dall’occorrere più volte del medesimo segno nell’enunciato di identità – come invece Hegel ha sostenuto nello Scritto sulla differenza e continua a sostenere nella Scienza della logica, con un’argomentazione facilmente controvertibile –, ma dal fatto che l’esclusione, essendo costitutiva, essenziale, pare rovesciarsi in un’inclusione. Se così non fosse, l’esclusione vorrebbe dire che il negativo può esser lasciato cadere, e si tornerebbe con ciò a un essere privo di differenze. (Questo peraltro è proprio l’andamento argomentativo che Hegel svolge nella Grande logica, nella dottrina dell’essenza, come si vedrà fra breve). L’antinomia viene formulata al modo seguente: la negazione è e non è la realtà; il non-essere non è ed è l’essere. In quanto la realtà non è la negazione, queste si escludono a vicenda; ma in quanto quell’esclusione è essenziale alla determinazione della realtà, la negazione è in certo modo parte dell’ente, non ciò onde esso può prescindere e che può esser lasciato cadere.

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Hegel interpreta questa struttura antinomica come la negazione della presunta autonoma sussistenza del determinato; e poiché il determinato è ciò che è limitato, finito, allora l’antinomia, che ne manifesta la negazione, è la manifestazione dell’infinito. Qualche riscontro testuale potrà ora attestare quel che sinora s’è illustrato: «la vera infinità» – afferma Hegel – «è l’esigenza realizzata che la determinatezza si tolga» (LMJ p. 33); questo togliersi si deve al fatto che l’altro è nel determinato stesso, esso è per sé contraddizione assoluta e questa è la vera essenza della determinatezza, ovvero non che un membro dell’opposizione sia per sé, ma che esso sia soltanto all’interno del suo opposto, che sia solo l’opposizione assoluta. (LMJ p. 33)

Per l’essenzialità del rapporto negativo, i membri dell’opposizione non stanno per sé, indipendenti l’uno dall’altro. Piuttosto, al qualcosa è essenziale il suo non-essere, e quindi l’essere del qualcosa raccoglie in sé questo non-essere: qualcosa è il suo altro, ogni membro dell’opposizione è «all’interno del suo opposto». Questa è una contraddizione, e Hegel lo sa bene: l’opposto, essendo solo all’interno del suo opposto, si annienta il lui, cosi come quest’altro allo stesso modo [sé] stesso; l’opposizione assoluta, l’infinità, è questa riflessione assoluta del determinato in se stesso, determinato che è un altro da se stesso, precisamente non un altro in generale, nei confronti del quale esso sarebbe per sé indifferente, ma il contrario immediato, ed essendo questo, è sé stesso. (ivi, pp. 34-5)

«Il determinato ha come tale nessun’altra essenza che questa assoluta irrequietezza, di non essere ciò che è» (ivi, p. 35). Quest’«irrequietezza», come essenza del determinato, è la «contraddizione assoluta» di cui Hegel ha parlato poco sopra. Essa è insita nel determinato e lo nega, ma non già passando ad un altro determinato, istaurando un processo che da qualcosa passa a qualcos’altro. In tal modo il punto d’arrivo del processo negativo avrebbe gli stessi caratteri di ciò che ne ha costituito il punto di partenza: la determinatezza e la sua contraddizione assoluta. Si tratta di negare non questo o quel determinato, ma la determinatezza stessa, come ciò che si presume sia saldamente in sé. Questa negazione radicale del finito come tale è l’infinità. L’infinità, come questa assoluta contraddizione [che è la «vera essenza della determinatezza»], è perciò l’unica realtà (Realität) del determinato, e non un aldilà ma [...] l’esser fuori di sé nell’essere in sé; in quanto il determinato è uno con il suo opposto, e né l’uno né l’altro sono [autonomamente sussistenti, giusta l’essenzialità del loro rapporto oppositivo], così il loro non essere o il loro essere altro è del pari solo in rapporto ad essi, e ciò è immediatamente anche il contrario di se stesso, vale a dire il loro essere, ambedue tanto immediatamente si pongono quanto si tolgono. (LMJ p. 35)

Per i nostri scopi non è importante insistere sulle ragioni per le quali Hegel, come s’è accennato, qualifica l’antinomia del finito come l’autentico infinito; basti qui registrare quest’uso dei termini, fissando l’attenzione sul fatto che «il determinato è uno con il suo opposto» – una formula ricorrente in queste pagine: poco oltre, infatti, si legge che nell’opposizione «ciò che è in ogni membro è anche nell’altro, ossia in ognuno è posto il suo essere uno con l’altro» (ivi, p. 36), «è posto l’essere uno di ciascuno con l’altro» (ivi, p. 37). Quest’espressione però, nonostante sia ripetuta, è nondimeno ambigua: che qualcosa sia «uno col il suo opposto» non vuol dire immediatamente che i due «sono uno» nel senso che sono la medesima cosa – soprattutto se ciò che li unisce è una relazione di opposizione, una relazione negativa. Ma è proprio qui che si incentra l’antinomia: A non è non-A: questo è il primo passo. Ma se essi sono essenzialmente 158

uniti da questo rapporto negativo, allora nessuno dei due termini è autonomamente sussistente. Questo è il secondo passo. Al quale segue il terzo, per cui «l’altro è nel determinato stesso» ed è «l’altro di se stesso» (LMJ p. 129) – come si legge nella seconda parte dell’opera, nella Metafisica, in cui Hegel riprende il medesimo tema da un punto di vista un poco differente (facendo uso delle determinazioni logiche riflessive, intrinsecamente relazionali, dell’identità, della non-contraddizione e del terzo escluso, analogamente a quel che farà poi nella Grande Logica, distinguendo tra le «sfere» dell’essere e dell’essenza). C’è dunque un’unità maggiore di cui consiste l’opposizione, che è l’«opposizione assoluta», superiore e includente i due sensi per cui un’unità può essere ambiguamente intesa: l’unità come relazione di diversi e l’unità come «esser uno». Quest’unità superiore è l’antinomia, che tiene assieme da un lato il rapporto negativo per cui A non è non-A, e dall’altro l’implicazione di quest’esclusione, per cui, contrariamente all’esclusione medesima, A è non-A. Non soltanto, dunque, i due lati dell’antinomia sono entrambi dimostrabili, come avviene nelle antinomie cosmologiche kantiane e, secondo Hegel, in misura ancora maggiore e più generale, nei dialoghi aporetici platonici (nel Parmenide, anzitutto); ma, cosa altrettanto importante, si implicano reciprocamente: (P -P) (-P P), ovvero P ¯-P. L’unità di cui consiste il rapporto di opposizione implica l’identificazione degli opposti, e questa a sua volta è l’identificazione di diversi (non già di identici), la cui diversità è espressa dall’altro lato dell’antinomia. È esattamente lo stesso di quel che Hegel ha affermato nello Scritto sulla differenza, con la nota formula dell’identità di identità e non-identità, e poi nello Scritto sullo scetticismo, illustrando la struttura generale delle verità speculative. È dunque la coincidentia oppositorum.

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LA SEMANTIZZAZIONE HEGELIANA DELL’ESSERE II: LE OPERE LOGICHE MAGGIORI

Relativamente a quella che si potrebbe definire la trattazione ontologica della determinazione, resta ora da considerare quel che Hegel afferma nelle opere maggiori, ovvero nella Scienza della logica e, più sinteticamente, nell’Enciclopedia. In verità, il nucleo tematico è già stato fissato da Hegel negli scritti precedenti, da noi poc’anzi considerati. Eppure l’ampliato contesto sistematico richiede di considerare daccapo il tema, anche se nelle analisi che seguiranno si potrà procedere più speditamente, giacché alcuni dei punti essenziali sono già stati illustrati. La Grande logica è un’opera la cui complessità richiede alcune precisazioni preliminari, soprattutto quando la si considera per analizzare questioni rispetto alle quali la collocazione sistematica è rilevante. Anzitutto, l’impianto della Scienza della logica, come sanno gli studiosi, è complesso. Si articola secondo alcune divisioni: una maggiore, tra logica oggettiva e logica soggettiva; e una minore, ma parallela alla precedente, tra le «sfere» dell’essere, dell’essenza e del concetto. L’insieme delle prime due sfere costituisce la logica oggettiva, pur essendo la seconda sfera, la dottrina dell’essenza, una specie di raccordo tra la prima e la seconda parte dell’opera, tra logica oggettiva e logica soggettiva1 – soprattutto in considerazione della presenza della cosiddetta «riflessione» (ossia dell’intrinseca relazionalità dei concetti che colà vengono sviluppati) e delle sue «determinazioni». Qui non è possibile addentrarsi nelle ragioni di queste divisioni, né soffermarsi sulla loro presunta originalità, o su quanto invece siano la riproposizione o la trasfigurazione di distinzioni già invalse nella logica di scuola del settecento, presenti in quei manuali di logica che Hegel aveva deprecato per il loro carattere compilatorio2. Per i nostri scopi – che sono illustrare che cosa siano per Hegel l’essere e l’ente, dal momento che egli ritiene possano diventare il loro opposto, il niente –, ci si soffermerà sulla prima parte dell’opera, ovvero sulla logica oggettiva, considerando le «dottrine» dell’essere e dell’essenza. La prima sfera, in buona sostanza, tratta della determinatezza dell’ente da un punto di vista marcatamene ontologico, avendo in vista le nozioni di essere, essere-determinato, realtà e negazione, finito e infinito ecc.; poi, nella dottrina dell’essenza, con la figura della «riflessione» e delle sue «determinazioni», si torna ad affrontare la medesima questione, ma da un punto di vista maggiormente logico, impiegando le nozioni di identità, differenza, opposizione, contraddizione e fondamento. La logica soggettiva espone le figure più complesse e ricche della logica hegeliana; ma relativamente a questi temi ontologici non mi pare che essa aggiunga elementi significativamente innovativi rispetto alle parti precedenti. D’altra parte è lo stesso Hegel ad affermare la corrispondenza dell’ontologia di una volta con la sua logica ogget-

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Cfr. SL p. 435. Su ciò, cfr. F. CHIEREGHIN (1982) e (1992). 161

tiva. Forse si potrebbe ritenere che per i temi presenti abbia un’importanza decisiva ala figura conclusiva della logica hegeliana, l’idea assoluta, che è sostanzialmente l’esposizione del metodo dialettico. Certamente, il metodo dialettico avanza sviluppando la contraddizione – o, forse si deve dire, le contraddizioni – della determinatezza. Ma le ragioni per cui la determinatezza si sviluppa come contraddizione non sono indicate nelle pagine dedicate all’idea assoluta, ma vengono colà presupposte, rimandando implicitamente alla dottrina dell’essere e soprattutto a quella dell’essenza. Il metodo dialettico, per così dire, s’impernia nelle determinazioni della riflessione esposte nella dottrina dell’essenza (nella logica oggettiva, dunque), venendo prefigurato da esse3. A queste precisazioni ne va aggiunta un’altra, di carattere storico. Hegel, alla fine degli anni berlinesi, si era prefissato di approntare una seconda edizione della Grande logica. La morte gli impedì di procedere oltre la revisione del primo libro, la dottrina dell’essere. Ora, tra la prima edizione, del 1812, e la seconda del 1832, ci sono numerose differenze, anche significative, le quali interessano in modo non secondario proprio le sezioni rilevanti per le presenti indagini4. Inoltre, va inoltre tenuto presente che la seconda redazione è sì più ricca ed articolata della precedente, ma anche meno compatta e lineare. Per queste ragioni, nelle presenti indagini, si farà riferimento ad entrambe le edizioni5. 5.1

Dottrina dell’essere

Hegel, in un’annotazione al § 91 dell’Enciclopedia6, offre un efficace sunto di alcune sue tesi: il fondamento di ogni determinatezza è la negazione (omnis determinatio est negatio – come dice Spinoza). L’opinare, che sta al di qua della cerchia del pensiero, considera le cose determinate come soltanto positive e le tiene fisse nella forma dell’essere. Ma con il semplice essere non si conclude nulla, perché il semplice essere [...] è l’assolutamente vuoto ed è, al tempo stesso, inconsistente. (E § 91, agg., p. 272; W 8.196)

Questo passo è istruttivo perché consente di intendere e presentare la concezione hegeliana dell’essere dell’ente come il rovesciamento della concezione tradizionale. La

3 Relativamente al metodo dialettico e ai suoi rapporti con la dottrina dell’essenza, rimando al mio F. PERELDA (2003, cap. VIII). 4 Sulle differenze tra le due edizioni, nel loro complesso, cfr. l’introduzione di F. HOGEMANN, W. JAESCHKE (1990). 5 Ricordo che qui il testo berlinese del 1832 è indicato come WL I, seguito dal numero di pagina. L’aggiunta della lettera A (dunque: WL IA, seguito dal numero di pagina) sta invece ad indicare la prima edizione di Norimberga. 6 Si tratta di una delle cosiddette «aggiunte a voce» riportate dai curatori dell’edizione ottocentesca in aggiunta al testo di sicuro pugno hegeliano. Il loro valore è stato a lungo discusso; in molti casi sono del tutto pertinenti, interessanti ed assai esplicative.

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prima tesi hegeliana è che il fondamento di ogni determinatezza sia la negazione, di contro all’idea che le cose determinate, molteplici e diverse le une dalle altre, siano come tali soltanto positive. È, questa della mera positività, un’idea ingenua, propria della logica dell’«intelletto» il quale «si ferma alla determinatezza fissa e alla sua diversità da altre determinatezze» (E § 80), laddove «una tale astrazione limitata vale per l’intelletto come sussistente ed essente per sé» (ib.). Quest’idea non è propria solo dell’«opinare», della doxa, ma si insinua e sviluppa persino nel pensiero filosofico, in particolare nella «metafisica di una volta»7 – nel razionalismo moderno e in certo pensiero antico. Nel pensiero antico si è concretata, p. es., nella logica aristotelica, governata dai principi di

Che cosa sia per Hegel esattamente la «metafisica di una volta» non è chiarissimo. Egli in più luoghi ne parla come del pensiero metafisico antecedente la critica kantiana (cfr. p. es. E § 27), retto dalla convinzione che «si possa conoscere la verità mediante il riflettere» (ivi, § 26). Tuttavia, poiché questo pensiero non perviene alla formulazione dell’opposizione tra pensiero ed essere, né tanto meno al superamento di essa, esso si fonda su una convizione giusta ma ingenua, e «può essere tanto un filosofare speculativo [...] secondo il suo contenuto, quanto anche può indugiare in determinazioni di pensiero finite» (ivi, § 27). La «vecchia metafisica» (vormalige Metaphysik) è «la semplice prospettiva dell’intelletto riguardo agli oggetti della ragione» (ib.). Altrove Hegel caratterizza la «metafisica di una volta» come pensiero fondato sulla «vecchia logica» intellettuale imperiniata sulla legge del terzo escluso e su altri principi logici (cfr. W 4.459). In generale, la «vecchia metafisica» sembra allora essere ben più estesa della filosofia razionalistica tedesca. Infatti, per alcuni interpreti essa è la metafisica regolata dall’impianto logico e categoriale di ascendenza aristotelica. Questo pare in generale vero; ma poi si resta nel dubbio se annoverare senz’altro anche la filosofia e la metafisica aristoteliche (o platoniche) come «metafisica di una volta» o meno, giacché, secondo Hegel, il pensiero aristotelico è schiettamente speculativo, scartando rispetto alla logica che in esso si trova teorizzata. C’è da chiedersi, nondimeno, se sia schiettamente speculativa tutta la metafisica aristotelica (si ricordi che Hegel conclude l’Enciclopedia con un omaggio ad Aristotele, citando la figura del «pensiero di pensiero»), o solamente una parte; o forse soltanto l’impianto della politica, dove Aristotele privilegia le strutture esplicative di tipo teleologico e organicistico, ovvero quel tipo di unità tra le parti che per Hegel è proprio dell’idea. Certo, la logica aristotelica è un «capolavoro di empiria», come Hegel afferma nelle Lezioni sulla storia della filosofia, ma in essa le nozioni, le categorie, sono trovate bell’e fatte, riscontrate nell’uso linguistico, non certo dedotte. Manca, in un certo senso, la «vita» del concetto. Anzi, la logica aristotelica è percorsa e dominata da rigidità proprie dell’intelletto e Hegel perciò non ne ha un’opinione molto positiva – anche se Aristotele, quale iniziatore della logica, poteva ben essere scusato per questi limiti. Da rimproverare semmai è chi, come Kant, a secoli di distanza, ritiene che la logica non abbia fatto alcun progresso, né tantomeno possa farne. Si può forse iniziare in modo ancora empirico, come ha fatto Aristotele, per «purificare» il linguaggio e fissare i suoi «nodi più fermi» quali altrettante categorie; ma perseverare con questo metodo è fare un torto al pensiero. «Metafisica di una volta», per finire, è certamente la metafisica del razionalismo moderno, in ispecie quella della scuola tedesca, per la stessa ragione per cui Hegel valuta negativamente la logica aristotelica: essa è il dominio dell’intelletto, delle «leggi del pensiero» fatte valere incondizionatamente, ovvero del pensiero che rifugge dalla contraddizione. 7

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(identità e di) non-contraddizione e del terzo escluso (le cosiddette «leggi del pensiero»); nel pensiero moderno è emersa, p. es., nell’insieme dei concetti e dei ragionamenti di cui si compongono le dimostrazioni dell’esistenza di Dio. Per questa concezione, secondo Hegel, se si prescinde dalla diversità accidentale, specifica e generica degli enti, tenendo in vista meramente il loro esser-enti, si ha solamente qualcosa di positivo, l’essere. Non c’è alcuna negazione, ma solo realtà: le cose determinate sono «soltanto positive». Si prendano due entità, di genere e specie diverse. Si può prescindere dalle loro differenze accidentali, e poi da quelle specifiche, e poi persino da quelle generiche; ciò che resta, alla fine di questo processo, è l’essere delle cose, il fatto che esse sono anzitutto e fondamentalmente un qualcosa, un positivo. Continuano, certo, ad essere differenti l’una altra dall’altra (a meno di non voler prescindere anche da questo, giungendo al concetto di vuoto essere indeterminato), al punto che – come suggeriva il pensiero degli Scolastici, in particolare di Scoto e della tradizione che l’ha seguito su fino al razionalismo tedesco – l’una può essere considerata come il negativo dell’altra. E quindi l’una può essere considerata come il negativo del negativo. Eppure, per «la metafisica di una volta», il primato resta al positivo: le negazioni seguono all’esser un qualcosa sé stesso; qualcosa è il negativo del negativo se e poiché anzitutto è un positivo. Certamente, la diversità è negazione, limitazione reciproca; ma questa non interessa il positivo essere di ciascuna cosa: «cade fuori» da esso. Hegel evidentemente ritiene questo un pensiero ingenuo. L’essere che è solamente essere, dunque solamente sé stesso, secondo un semplice riferimento a sé, non è determinato affatto, ma astratto e vuoto, come l’essere degli Eleati: «con il semplice essere non si conclude nulla, perché il semplice essere [...] è l’assolutamente vuoto ed è, al tempo stesso, inconsistente». Ma un tale significato dell’essere, con la prima triade logica, lo si è già lasciato alle spalle, pervenendo all’essere determinato che è unione inscindibile di essere e non-essere. Questo, inteso adeguatamente, è uno dei pensieri fondamentali e maggiormente innovativi dell’ontologia hegeliana. Si tratta ora di delineare quale tipo di unità essa sia, e quale il significato dei termini che occorrono in essa, ovvero che cosa siano l’essere e il non-essere che nella loro «semplice unità» costituiscono la determinatezza. La risposta a questa domanda si trova nel corso della dottrina dell’essere, nella sezione della qualità, dove Hegel definisce la natura di quel rapporto. Giacché, come Hegel stesso annuncia, «l’esser determinato è dapprima nella determinazione unilaterale dell’essere. L’altra determinazione ch’esso contiene, il nulla, vi si mostrerà parimenti anch’essa, contro la prima» (SL p. 103; WL I, p. 10323-26). La prima battuta è dunque il Dasein nella sua immediatezza, ovvero nella «determinazione unilaterale dell’essere»; ma lo sviluppo che ne origina consiste in larga parte nel far emergere da esso e in esso il suo contrario, ovvero la determinazione del non-essere, del nulla. Questo sviluppo, quindi, oltre a delineare la struttura dell’essere determinato, della determinatezza, appare come un cammino verso l’antinomia, mostrando essere il determinato costituito da una struttura in cui essere e non-essere sono egualmente compresenti. Si tratta di quel che prima s’era chiamato il piano inclinato delle determinazioni logico-ontologiche. Il compito è anzitutto mostrare il ruolo costitutivo della negazione per la determinatezza del Dasein, di quel che c’è, dell’ente. Si tratta di un’illustrazione non semplice, dal 164

momento che queste pagine hegeliane hanno una scrittura densa, un andamento argomentativo complesso e talora persino tortuoso. Hegel muove infatti dal Dasein, quale risultato del divenire e unità di essere e non-essere, specificandone la natura. Nel far questo, delinea un percorso che avanza per approssimazioni, integrazioni successive: dapprima si affacciano certi concetti, di cui viene chiarito significato e ruolo; ma poi intervengono altre distinzioni, più esplicative e sottili. Queste da un lato integrano o addirittura scalzano le precedenti; ma dall’altro, a loro volta, cedono presto il campo ad altre nozioni ancora. Ciò origina ad un percorso di continua rettifica concettuale, neppure del tutto lineare – soprattutto, come si diceva, nella seconda edizione dell’opera. In questo cammino si avvicendano, tanto per fare degli esempi, le figure dell’esserci (Dasein), del non-esserci (Nichtdasein) e dell’esser-altro (Anderssein), di realtà e negazione, del qualcosa e dell’altro, dell’essere in sé (Ansichsein) ed essere per altro, dell’essere dentro sé (Insichsein), della determinazione costitutiva (Bestimmung) e della disposizione (Beschaffenheit), della finitezza e della infinitezza, ecc. In molti casi non è facile comprendere l’autentica diversità tra queste nozioni, spesso appaiate, e per quale ragione, dopo che con alcune di esse si è raggiunto un certo grado di articolazione concettuale, sembra che l’andamento subisca un regresso, e che si torni ad uno stadio precedente. D’altra parte, le stesse incertezze di Hegel tra un’edizione e l’altra nell’organizzazione interna di questi capitoli, con lo spostamento di consistenti blocchi concettuali e testuali, sembrano testimoniare che l’avanzamento logico del tema non segue una limpida progressione8. In ragione di questa complessità, trattare il nostro tema seguendo il testo hegeliano passo a passo, facendone un commento, non mi sembra una buona scelta. Una lettura puntuale delle pagine hegeliane, infatti, per quanto rigorosa e scrupolosa, potrebbe non fornire le risposte alle domande che ci si era qui posti. D’altra parte, non si può neppure tralasciare del tutto il percorso indicato da Hegel, badando solamente a quel che ne è il risultato, giacché è solo col percorso che si mostra come una certa tesi si rovesci nell’opposta – attuando quel principio di complementazione tra un’affermazione e la sua negazione che è proprio delle verità speculative. Su quel piano inclinato bisogna scendere in prima persona. L’esposizione terrà quindi presente il percorso effettivo del testo hegeliano, trascegliendone i momenti più significativi. 5.2

Il determinato e la sua contraddizione

Si può, con una semplificazione, riassumere il contenuto di queste pagine hegeliane come lo sviluppo di un ragionamento avente per conclusione un’antinomia. Hegel lo

Ha raffrontato davvicino le due redazioni della sezione della qualità H. KIMMERLE (2000), fornendo anche un’utile tabella in cui vengono confrontate le diverse sequenze concettuali (ivi, p. 169). Sempre relativamente alla qualità, un’esposizione comparata delle due edizioni si trova in L. LUGARINI (1998, pp. 179-238). 8

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espone in modi un po’ diversi nelle due edizioni, e sembra riprenderlo daccapo, più volte, nell’andamento di ciascuna. Per questa ragione vorrei dapprima illustrarlo in termini generali e poi considerarlo più in dettaglio, con maggiore aderenza al testo. La prima premessa è la nuova semantizzazione dell’essere, una volta abbandonata la sua iniziale, vuota indeterminatezza. L’essere determinato, il Dasein, quel che c’è, non è puro essere, bensì qualcosa (anche se la parola qualcosa, Etwas, indica nel testo hegeliano una precisa e strutturata concezione dell’essere determinato, su cui si farà ritorno). La semantizzazione dell’essere come essere determinato è per Hegel correlata all’intendere l’essere come congiunto al non-essere, e, simmetricamente, il non-essere all’essere. Si tratta della già menzionata tesi del Sofista per cui «si deve forzare il nonente, sotto un certo riguardo, ad essere, e l’ente, a sua volta, sotto un certo rispetto, a non essere» (Sof. 241 d). È questa la più generale unità, koinonia, tra essere e nonessere. Tenendo idealmente sullo sfondo questa tesi platonica, Hegel in queste pagine afferma chiaramente che con l’essere determinato è mutato il significato di essere e nonessere: essi non sono più vuoti e coincidenti, ma determinati e differenti. Dunque l’essere significa un certo essere che c’è, l’esserci, il Dasein; mentre il non-essere significa non più (soltanto) il non-essere assoluto, il vuoto nulla, ma l’esser altro. Hegel tuttavia, come si diceva, non si ferma qui, ma procede oltre Platone, oltre la tesi dell’essere come diverso, e del rapporto tra essere e non-essere – pensando peraltro di seguire Platone, o che Platone l’avrebbe seguito in questo avanzamento. Egli intende sostenere che il rapporto tra essere e non-essere, tra l’essere e il non, sia costitutivo per la determinatezza dell’ente. Quindi: non soltanto si dà un rapporto negativo tra l’ente e il suo altro, ma questo rapporto è essenziale e dunque in certo modo immanente all’ente. Questa è la seconda premessa del ragionamento. Il terzo passo, la conclusione, è lo svolgimento della seconda premessa. Se all’esserci, al qualcosa, è immanente il suo altro, questo in certo modo gli inerisce; così il qualcosa è sé stesso e anche il suo opposto, l’altro di sé stesso. Questa situazione aporetica si delinea nella nozione di limite, che Hegel descrive nei termini di una contraddizione. Questo schema di ragionamento viene sviluppato da Hegel almeno due volte nel testo, in entrambe le edizioni. La prima volta esso è basato principalmente sul rapporto di alterità tra determinazioni differenti, per il quale ogni qualcosa riveste il doppio ruolo logico di essere sia un certo essere sia altro, ovvero non-essere. La contraddizione si produce allorquando si cancella, come fa Hegel, la diversità dei rispetti per cui qualcosa è sia essere che non-essere. Platone infatti riteneva che ogni cosa è sì un diverso, ma da un altro diverso; Hegel invece intende quella tesi platonica al modo per cui l’essere determinato – proprio essendo anche un non-essere, un diverso – è diverso in sé, e dunque da sé; è «l’altro di se stesso», donde la contraddizione. La seconda volta il ragionamento approfondisce la struttura interna dell’essere determinato, basandosi sulla concezione concreta di esso, quale negazione della negazione. L’essere determinato ha dunque una duplice componente, affermativa e negativa al contempo, ma in modo che il lato negativo sia costitutivo per quello positivo, essendo che la determinatezza dell’essere è data dalla sua limitazione, ovvero dal non-essere. Il limite di qualcosa è il non-essere del suo altro, e viceversa; ma se il limite tra il qualco166

sa e il suo altro è uno solo, allora il limite di qualcosa è il non-essere non solo dell’altro, ma anche del qualcosa medesimo, donde appunto la contraddizione. Questa seconda versione del ragionamento presuppone la trattazione della struttura interna dell’ente, che nelle due edizioni ha collocazione e andamento differenti nell’impianto complessivo. Dopo queste indicazioni generali, vorrei ora considerare l’andamento del testo hegeliano, facendo all’occorrenza una specie di collazione tra le differenti edizioni. Inoltre, non mi propongo di introdurre una rigida separazione tra i due ragionamenti hegeliani, anche perché essi condividono largamente le loro premesse. Illustrerò dapprima la semantizzazione dell’essere, quindi porrò in evidenza la prima conclusione aporetica, quella imperniata sul doppio ruolo logico del qualcosa; in secondo luogo, delineerò la concezione hegeliana della struttura interna dell’ente e la seconda conclusione aporetica, quella incentrata sulla figura del limite. 5.3

La semantizzazione dell’essere come esser-determinato

La semantizzazione dell’essere dell’ente avviene rendendo essere e non-essere relativi l’uno all’altro, fissando l’uno come un certo essere e l’altro come un certo nonessere, ovvero come esser-altro. Nella prima edizione si legge che «l’esserci [Dasein] è essere con un non-essere» (WL IA, p. 6710); esso «pertanto è per prima cosa quell’unità [scil. di essere e non-essere] non solo come essere, ma altrettanto essenzialmente come Non-essere. O quell’unità è non solo esserci essente, ma anche esserci non essente [nichtseiendes Dasein]: non-esserci [Nichtdasein]» (WL IA, p. 6716-19). C’è dunque sia l’esserci essente, sia l’esserci non essente o il non-esserci essente; ma questo è possibile solo se per non-esserci non si intende il nulla assoluto. Infatti, precisa subito Hegel: «in secondo luogo: il non-esserci non è puro nulla; poiché esso è il nulla in quanto dell’esserci. [...] Il non-esserci è pertanto esso stesso un essere; esso è non-esserci essente [seiendes Nichtdasein]. Un non-esserci essente è esso stesso esserci» (ivi, p. 7627-32). A queste difficili espressioni, che vorrebbero costituire un anello di raccordo con la semantica dell’incipit della logica, succede poi uno sviluppo concettuale e terminologico forse non molto felice di cui qui però importa la conclusione che chiarisce definitivamente di che cosa si stia parlando, secondo la quale «l’esserci è essenzialmente esseraltro [Anderssein]9» (ivi, p. 682-3). Questo rapporto essenziale dell’esserci con l’esser-altro vuol dire che qualcosa è tanto un qualcosa (essere), quanto altro (non-essere) rispetto ad un altro qualcosa, giacché il non-essere di un qualcosa è a sua volta un qualcosa. È quel che si legge, forse più semplicemente, nella seconda edizione: «qualcosa ed altro sono tutti e due in primo

Anderssein può tradursi con esser-altro, come qui propendo a fare, perché le due parole si ricalcano, ma anche altrettanto bene con alterità, come p. es. fa V. Verra nella sua traduzione della Logica dell’Enciclopedia. 9

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luogo degli esserci che sono o dei qualcosa. In secondo luogo ciascun dei due è anche un altro» (SL p. 113). Anche qui, il rapporto è reversibile: «è indifferente quale dei due si chiami per il primo, e solo per ciò, qualcosa» (ib.), come indica l’esempio presente nelle due edizioni che «se noi chiamiamo un certo determinato essere A, e l’altro B, in sulle prime è B, che è determinato come l’altro. Ma anche A è a sua volta l’altro di B. Tutti e due sono in pari maniera altri» (ib.). Hegel richiama l’espressione latina aliud, per cui qualcosa è aliud alium, un altro dagli altri. Poco prima Hegel aveva impiegato una formulazione che trova riscontro nella logica jenese, su cui s’è già richiamata l’attenzione: «Qualcosa ed altro; in sulle prime essi sono indifferenti l’uno a fronte dell’altro» (LMJ p. 172). Con la semantizzazione dell’essere come esserci, e del non-essere come altro, il qualcosa e l’altro sono «indifferenti l’uno a fronte dell’altro», ovvero sono solamente giustapposti, in modo estrinseco: da un lato c’è un qualcosa e dall’altro c’è qualcos’altro, ma l’essere l’uno qualcosa di altro nei confronti dell’altro non è affatto determinante per il qualcosa stesso. Infatti, se poi ci domandiamo quale sia la differenza tra il qualcosa e l’altro, risulta che entrambi sono la stessa cosa, come si vede anche dal latino dove sono entrambi chiamati aliud-aliud. L’altro, rispetto al qualcosa, è a sua volta un qualcosa, e per questo diciamo qualcos’altro; così pure il primo qualcosa, d’altra parte, è esso stesso un altro rispetto all’altro determinato egualmente come qualcosa. (E § 92, agg., p. 274)

L’uno, per l’essere dell’altro (per la realtà di cui questo consiste), è niente, appunto perché ciascuno è solamente sé stesso, non l’altro. La loro relazione negativa, ovvero la loro qualificazione come «un altro», è del tutto estrinseca. Questa veduta è propria, secondo Hegel, del pensiero ingenuo, dell’«intelletto», e della metafisica che di esso ha fatto il proprio principio. In un’aggiunta dell’Enciclopedia si legge che «dal punto di vista della rappresentazione l’essere determinato appare dapprima come semplicemente positivo e, al tempo stesso, come qualcosa che permane quietamente nell’ambito del proprio limite» (E § 92, agg., p. 275). Nella seconda edizione della Scienza della logica si legge: l’esser altro sembra quindi una determinazione estrinseca [fremde Bestimmung] all’esserci così determinato; sembra cioè che l’altro stia fuori dell’un esserci; da un lato, che un esserci sia determinato come altro solo per mezzo del confronto di un terzo; dall’altro lato, che sia determinato come altro solo a cagione dell’altro che è fuori di lui, mente per se stesso non sarebbe tale. (SL p. 113; WL I, p. 1138-13)10

Sembra esserci, per questa concezione, una specie di triangolazione: acciocché qualcosa sia qualificato come altro – e dunque come non-essere, oltre che come essere – ci

10 Un po’ diversa la prima edizione, su cui è ricalcato questo passo: «a questo proposito l’esser altro appare quale una determinazione estranea all’esserci così determinato, o [appare] quale l’altro al di fuori di un esserci; in parte in modo che un esserci viene determinato come altro solo mediante il confronto di un terzo, ma per sé non è un altro, in parte in modo che esso solo a cagione dell’altro che è fuori di lui viene determinato come altro, non in sé e per sé» (WL IA, p. 6826-32).

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vogliono un qualcosa, un altro qualcosa e anche una specie di osservatore esterno. Quest’ultimo rileva o stabilisce che l’un qualcosa è un che di altro rispetto all’altro. Alcuni schiarimenti si trovano, ancora una volta, nelle annotazioni al testo dell’Enciclopedia: Quando diciamo: qualcos’altro – anzitutto pensiamo che qualcosa, preso per sé, sia soltanto qualcosa, e che invece la determinazione di esser un altro gli spetti soltanto mediante una considerazione semplicemente esterna. Così ad es., crediamo che la luna, che è altro dal sole, potrebbe benissimo essere, se il sole non ci fosse. (E § 92, agg., p. 274)

Questa concezione riproduce l’idea, che si trova per esempio in Tommaso e in altri scolastici, che la relazioni di diversità e di identità siano solamente mentali11. Per es.: è solamente per me che considero congiuntamente questi due oggetti, p. es. questo tavolo e questo telefono, che l’uno è altro rispetto all’altro. In sé stessi, a parte rei, sono solamente cose, dei qualcosa, esserci che c’è, seiendes Dasein – non anche negazioni. È solamente nella mia considerazione che una cosa è anche il negativo, il non-essere, l’esser-altro; laddove, al contrario, nulla del contenuto oggettivo di essa è alcunché di negativo. Ciascun oggetto è solamente un insieme, ampio o limitato quanto si voglia, di proprietà – o, per dirla col lessico della «metafisica di una volta», di perfezioni, di realtà, quiddità. A questo proposito, Hegel rileva che pure la «rappresentazione» – ovvero il pensiero ancora ingenuo, non investito dalla riflessione filosofica – ha già il sentore che questa posizione non sia corretta, giacché viene riconosciuto che qualcosa è altro dall’altro: ciascun esserci si determina parimenti, anche per la rappresentazione, come un altro esserci, cosicché non resta più un esserci che sia determinato soltanto come un esserci, che non sia fuori di un esserci, però non sia, esso, un altro. (SL p. 113; WL I, p. 11314-18)

Ma la rappresentazione, pur concedendo questo doppio ruolo logico all’ente, di esser essere e anche non-essere, perviene solamente, secondo quel che afferma Hegel in un passo presente solo nella prima edizione, all’universalità dell’idea che ogni qualcosa è un che di altro; ma non già anche alla necessità di questa qualificazione – necessità che è il contrario dell’accidentalità ovvero della possibilità che sia solo per un osservatore esterno che qualcosa sia un che di altro. Nell’edizione berlinese segue poi l’indicazione

11 Contrariamente a quel che talora si legge, la tesi che per i Medioevali le relazioni siano solamente mentali non è del tutto esatta: B. Mojsisch menziona p. es. la posizione di Jacopo (o Giacomo) Capocci da Viterbo, un agostiniano non distante dal tomismo, per il quale «le relazioni sono principalmente reali, in quanto elementi strutturali dell’universo, garantendo la diversità reale: infatti se la realtà delle relazioni venisse tolta, verrebbe eliminata anche la diversità delle cose» (B. MOJSISCH in J. RITTER, K. GRÜNDER [a cura di] [1992, col. 590]; l’autore indica le fonti in nota). Mojsisch mette in rilievo l’allineamento di questa posizione con quella di Platone: «la diversità implica relazionalità, così come al contrario la relazionalità senza diversità non è possibile» (ib.). Lo studioso menziona inoltre la posizione di D. Scoto, affermando che fu «il più rigoroso sostenitore di un realismo delle relazioni – similmente a Jacopo» (ivi, col. 591).

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di come si rifugga dalla contraddizione originata dal rilievo della compresenza di essere e non-essere nel medesimo esserci, giacché «questa medesimezza delle determinazioni cade però anch’essa soltanto nella riflessione esterna, nel confronto delle due» (SL p. 114). La riflessione esterna fa dunque essere la medesimezza o coincidenza degli opposti solamente soggettiva, un’apparenza, in base a quell’atteggiamento di «tenerezza per le cose» del mondo che Hegel rimproverava a Kant, quanto questi risolveva le antinomie ritenendole il prodotto della ragione che s’allontana dalla realtà. 5.4

Essenzialità della negazione

Hegel invece insiste sulla necessità che qualcosa sia anche altro – e lo sia in sè, per lo stesso rispetto per cui è sé ed è qualcosa, non per o nel confronto operato da un terzo. Questa necessità viene argomentata ex terminis, ovvero in base alla definizione stessa di esserci: «questa necessità sta però in ciò: che s’è indicato nel concetto dell’esserci, che l’esserci come tale è l’altro12, che esso contiene il suo esser-altro in sé» (WL IA, pp. 689). Ora – ci si può chiedere – che cosa vuol dire che l’esserci «contiene il suo esseraltro in sé»? Infatti, la semantizzazione dell’essere come essere determinato e come diverso non sembra essersi spinta, né doversi spingere, a tanto: dire che qualcosa è diverso da altro non è anche dire che qualcosa contiene, è il suo altro – anzi, è proprio dire l’opposto. Eppure Hegel intende approfondire, radicalizzare la tesi di Platone per cui dell’essere è proprio, sotto un certo riguardo, il non-essere – o, più semplicemente, il «non». Hegel esplicita questa sua concezione con delle considerazioni condensate in una nota alla nozione di realtà, qui già richiamata. Torniamo a quanto detto poc’anzi: questo tavolo e questo apparecchio telefonico che mi stanno davanti sono solamente delle cose, dei qualcosa, degli esserci, enti determinati; non anche dei non-esseri. Nessuno di essi contiene alcunché di negativo: se facciamo una lista di tutto ciò che li compone, per l’ontologia tradizionale, troviamo (eventualmente) un sostrato – la sostanza prima, qualunque cosa essa sia – e tutte le proprietà che ineriscono ad esso. Il mio tavolo, p. es. – ammesso che esso sia una sostanza individuale e non un aggregato di sostanze –, è di legno, ha una certa forma, un certo colore, ecc. I costituenti di esso sono realtà positive, perfezioni: esso non sembra contenere alcun non-essere. Da questo punto di vista, una singola cosa (esistente o solo possibile) è un insieme limitato di proprietà. Però, se si pensa alla nozione definita come la somma di tutte le proprietà o realtà o perfezioni, allora essa è ciò che non manca di nulla, per definizione. Il ragionamento, vòlto a dimostrare l’esistenza di Dio, riteneva che tra queste perfezioni dovesse annoverarsi anche l’esistenza, al pari p. es. della rossezza, cosicché sarebbe stato impossibile che tale ente supremo non esistesse. Non importa qui indagare questa seconda tesi, se l’esistenza sia o meno una proprietà, ovvero, come dice Kant, un

12

Si ricordi il passo citato che «l’esserci è essenzialmente esser-altro». 170

«predicato reale». Importa piuttosto il rilievo hegeliano che per tale concezione delle realtà, la limitazione derivi solo dal non possederle tutte: il mio tavolo non è l’ente perfettissimo perché, a differenza di quest’ultimo, non possiede ogni proprietà. Gli enti sono finiti perché in essi le realtà si distribuiscono in modo limitato. Invece l’ente perfettissimo non manca di nulla e perciò è tutto l’essere, senza alcuna limitazione. Ciò è possibile – come rileva Hegel – solo se e poiché si concepisce ciascuna singola realtà o perfezione o quiddità – in breve: ciascun essere – come puramente positivo: in esso non c’è negazione, limitazione. C’è infatti da chiedersi: dove sarebbe mai, p. es. nell’esserrosso, il non-essere? E dov’è il non-essere, nel mio tavolo? Certo, l’esser-rosso, che è una singola perfezione, e il mio tavolo, che ne assomma alcune, sono realtà limitate, finite, e dunque in certo modo affette dalla negazione, proprio perché non sono tutto l’essere, ma solamente una parte. L’ente supremo, invece, assommando ogni realtà, è illimitato e perciò privo di negazioni, appunto perché ogni realtà come tale è solamente positiva. Come spiega Hegel: «Dio fu determinato come somma di tutte le realtà, della qual somma si disse che non conteneva in sé alcuna contraddizione, che nessuna delle realtà toglieva l’altra; poiché una realtà era da prendersi colà come una perfezione, come un affermativo, che non racchiudeva negazione alcuna» (SL p. 106; WL I, p. 1062530). Quel che Hegel nota, avversando frontalmente questa concezione tradizionale di realtà – lo si è veduto in parte anche prima, ma è ora il caso di tornarci su, per comprendere pienamente la portata delle sue tesi –, è che «in questo concetto della realtà si suppone ch’essa rimanga ancora, quando col pensiero si sia soppressa ogni negazione» (ib.). E la soppressione della negazione, intesa al più come limitazione, è ammessa, per questo pensiero metafisico, quando si considera la somma di tutte le realtà, giacché tale somma, non lasciando fuori nulla, è illimitata. Invece, secondo Hegel, è ben prima che, in questa concezione, viene lasciato cadere l’elemento negativo, ovvero nella stessa nozione di realtà come mera positività. Ma, secondo lui, facendo ciò, lasciando cadere la limitazione della realtà – entro o fuori della somma di tutte le realtà, non importa – «è tolta ogni sua determinatezza. La realtà è qualità, esserci. Contien dunque il momento del negativo, e solo per questo è quel determinato che essa è» (SL p. 107; WL I, p. 106). «La realtà, secondo che in quella definizione di Dio viene presa come qualità determinata, cessa, in quanto vien trasportata al di là della sua determinatezza, di esser realtà» (ib.). Ciò non vuol dire che essa, in seguito a questo trasporto, diventi negazione da realtà che era; ma che diventa, senza il «non», essere senza negazione: puro essere, senz’alcun altra determinazione, essendo il «momento del negativo» ciò per cui una cosa «è quel determinato che essa è». L’esito del lasciar cadere il negativo è che il reale «diventa astratto essere. Dio quanto s’intenda come puro reale in ogni reale, o come somma di tutte le realtà, è la stessa indefinitezza e inconsistenza che il vuoto Assoluto, in cui tutto è uno» (ib.). «Quel reale in ogni reale, l’essere in ogni esistere, in cui si do-

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vrebbe aver l’espressione del concetto di Dio, non è altro che l’astratto essere, quello stesso ch’è il nulla» (ib.)13. 5.5

Essere come esser-altro

Perciò va pensato che «l’esserci è essenzialmente esser-altro». Se l’esserci fosse puro essere, pura positività, non sarebbe affatto determinato. La determinatezza dell’ente è propria dell’ente; non è altro da esso: se lo fosse, l’ente non sarebbe determinato. Perciò la negazione, il limite, che definiscono la determinatezza dell’ente, anzi, l’ente tout court, sono uno con l’essere dell’ente, non altro da esso. Di più: è proprio affinché ci sia la distinzione tra l’uno e l’altro, tra ciò che è un qualcosa e ciò che è altro da esso, che si deve pensare quest’immanenza della negazione. Acciocché si possa dire che qualcosa non è qualcos’altro, occorre prima che sia definito l’esser-qualcosa, ovvero la determinatezza della determinazione. E una tale definizione non può esser fatta col solo essere: occorre anche il «non», il non-essere. Infatti – come Hegel afferma esponendo nell’edizione berlinese la qualità – «l’esser determinato» è ciò «in cui si contiene tanto il nulla quanto l’essere» (SL p. 105; WL I, p. 10521-22), laddove il nulla è il non-essere, il «non». Perciò la qualità – che è la figura più semplice, nella redazione berlinese, del determinato esserci – «dev’esser posta anche nella determinazione del nulla, col che la determinatezza immediata o che è, viene posta come una determinazione distinta, riflessa, e il nulla, in quanto è allora il determinato di una determinatezza [das Bestimmte einer Bestimmtheit], è parimenti anch’esso riflesso, una negazione [Verneigung]» (SL p. 105; WL I, p. 10524-28). Il «nulla» inteso come «una negazione» è il «determinato di una determinatezza», ovvero ciò che fa sì che una determinatezza sia tale, sia essere determinato anzi che non14. Se l’essere non avesse un’interruzione, una divisione, e dunque non gli fosse propria, immanente, la negazione, il «non», non vi sarebbero molteplici esseri, ma un solo essere soltanto – così come avviene appunto là dove si pensa all’essere puro, all’«uno» assoluto, senza alcun rapporto coi molti. Senza interruzione, ovvero negazione, si cade nel più astratto monismo – così astratto da essere insostenibile, come hanno ritenuto Platone, Aristotele e anche Hegel. Perciò Hegel sostiene che «il fondamento di ogni determinatezza è la negazione», lodando Spinoza, come s’è visto. Tornando alla nozione di realtà, che la metafisica vo-

Hegel riprende la discussione della nozione tradizionale di realtà – sul significato della quale, entro la storia del pensiero, s’è già detto – anche altrove, nella dottrina dell’essenza, e nella Piccola logica, ribadendo sostanzialmente quel che afferma qui. La somma di tutte le realtà è ricondotta, nell’esordio della dottrina dell’essenza, «alla vuota semplicità» (SL p. 434). Lo stesso è ribadito poi poco oltre, nella terza annotazione alla contraddizione, con delle ulteriori considerazioni su cui si farà ritorno, anche tra breve. Cfr. anche VL p. 107. 14 Nelle Lezioni berlinesi sulla logica (1831) si legge significativamente che «l’essere è nell’esserci [Dasein], ma essere con la negazione, e questa negazione si chiama determinatezza, il nulla avviluppato [eingehüllt] nell’essere» (VL p. 106). 13

172

leva fosse puro essere, Hegel afferma che «la realtà contiene essa stessa la negazione» (SL p. 109; WL I, p. 10928-9). Il limite, la negazione, prima ancora che essere mancanza di realtà, è la costituzione della realtà: «il qualcosa è in grazia del limite ciò ch’esso è» (SL p. 125; WL I, p. 1235-6). È questa un’affermazione che viene ribadita più volte nelle varie redazioni. Nella prima redazione, p. es., si trova l’espressione pregnante che il qualcosa «senza il limite è il suo altro. Il suo [scil. del qualcosa] essere-vòlto-al-di-fuori [Hinausgekehrtsein] di contro ad altro, al non-essere, il quale è il suo limite, costituisce l’essenziale del qualcosa o il suo esserci. Qualcosa è quel che è solo nel suo limite» (WL IA, p. 784-8). Poco sotto si legge che «il limite non è dunque diverso dal qualcosa; questo non-essere è piuttosto il suo fondamento e lo rende ciò che è; il limite costituisce il suo essere» (ib.). Anche l’edizione berlinese ha affermazioni dello stesso tenore15, e là viene specificato anche che «il limite è negazione semplice, ossia è la prima negazione» (SL p. 125; WL I, p. 1237-8) del qualcosa, il «non» che lo riguarda, costituendolo. Nelle annotazioni all’Enciclopedia si legge che «nell’essere determinato la negazione [...] è ciò che noi chiamiamo limite. Qualcosa è quello che è soltanto nel suo limite e mediante il suo limite» (E § 92, agg., p. 273). Il limite, il «non», sembra avere il ruolo della forma sostanziale, che fa essere qualcosa ciò che è. Ma non nel senso che esso sia una determinazione specifica che, inerendo in qualcosa in modo essenziale, lo qualifica come una certa sostanza, p. es. come uomo invece che come pietra; bensì nel senso, più originario e fondamentale, che definisce, costituisce, la molteplicità stessa degli enti, delle sostanze. Il limite è la forma sostanziale più generale poiché genera la diversità delle sostanze, degli enti. La prima edizione della Grande logica contiene ancora alcune utili indicazioni esplicative al proposito. Relativamente alla «necessità» che «l’esserci come tale sia in sé e per sé l’altro, che esso contenga il suo esser-altro in sé stesso» (WL IA, p 691-2) – che pare la necessità di una contraddizione –, Hegel precisa il significato dell’«esser-altro» in un modo che fa diventare la sua affermazione meno paradossale: «l’esser-altro è il nulla essenzialmente come relazione oppure è il separare [Trennen], allontanare [Entfernen, spinger via] da sé stessi» (WL IA, p. 692-4). Anche poco prima egli aveva affermato, in quell’ideale ripercorrimento del parricidio platonico di cui s’è detto, che «l’esseraltro è il nulla, ma quale relazione» (WL IA, p. 6818). Il nulla, il non-essere – che è il limite dell’esser determinato e perciò lo costituisce, che è una «negazione» e il «determinato di una determinatezza» – è una relazione di negazione, ovvero il respinger via da sé, da parte di un qualcosa, il qualcos’altro. Solo respingendo via da sé l’altro, un qualcosa è sé stesso.

15

Cfr. p. es., SL p. 126-7; WL I, p. 12412-13. 173

5.6

Esser l’altro di sé stesso

Eppure Hegel intende mostrare che proprio la struttura di questo «respinger via» della negazione (del rapporto negativo, come si legge anche in queste pagine) sia antinomica. Egli vuol mostrare che il qualcosa, ciò che dovrebbe essere sé e non altro, è «l’altro di sé stesso» – impiegando una formulazione che non ha cessato di suscitare perplessità, dando luogo a numerose interpretazioni. L’argomento hegeliano muove dal punto cui è stata condotta la semantizzazione dell’essere: ogni essere è anche nonessere, e viceversa; ovvero ogni qualcosa è altro e ogni altro è pure un qualcosa. Il doppio ruolo logico di ciascun qualcosa e del suo altro di esser sia qualcosa che altro – doppio ruolo che si palesa anche linguisticamente, nell’espressione qualcos’altro – è da Hegel ritenuto il centro dell’antinomia, proprio perché è un unico e medesimo rispetto quello per cui l’ente è sia qualcosa che altro. In un’annotazione dell’Enciclopedia si trova un’esposizione felicemente sintetica: «il qualcosa ci fa subito pensare a ciò che è altro, e sappiamo che non c’è soltanto qualcosa, ma anche altro. Ma ciò che è altro non è ciò che troviamo in un modo per cui il qualcosa possa essere pensato anche senza questo altro» (E § 92, agg., p. 274), giacché «l’alterità [Anderssein] non è qualcosa di indifferente al di fuori dell’essere determinato, ma un suo proprio momento» (E § 92). In tal modo, come s’è detto, «l’esserci stesso è essenzialmente esser-altro; è passato in esso» (WL IA, p. 697). Attraverso questa qualificazione, che è alla base del «passaggio» dell’esserci nell’esser-altro, Hegel considera il qualcosa come altro, in senso assoluto. Nella prima edizione della Grande Logica si legge che «l’altro è così immediatamente, non relazione a un qualcosa che si trovi fuori di lui, bensì altro in sé e per sé. Ma così esso è l’altro di sé stesso» (WL IA, p. 697-10). La contraddizione dell’esser altro da sé, che è negazione dell’identità, è ribadita poco sotto attraverso l’esposizione di proposizioni contraddittorie, ovvero l’una affermativa e l’altra negativa: «l’esserci si mantiene nel suo nonesserci; è [1] essenzialmente uno con esso e [2] essenzialmente non uno con esso» (ib.). La contraddizione è peraltro raddoppiata: consiste non soltanto in un’antifasi, ma anche nel fatto che una delle due proposizioni è in sé stessa la negazione dell’identità: che qualcosa sia uno col suo non-essere (o non-esserci) è la negazione dell’identità. Quindi l’intera antifasi indicata poc’anzi riproduce quella degli scritti jenesi (ancora menzionata nella Scienza della logica) che affermava l’identità dell’identità e della nonidentità. L’antinomia dianzi delineata è ribadita nel testo subito di seguito, anche se in forma meno diretta. Si legge infatti che «l’esserci sta dunque in relazione al suo esser altro; non è puramente il suo altro; l’esser altro è in pari tempo essenzialmente in esso contenuto, e in pari tempo ancora da lui separato» (ib.)16. L’antinomia, benché non evi-

Questo passo è ripreso ma lievemente modificato nella seconda edizione: si parla del qualcosa anziché dell’esserci, ed è omessa l’essenzialità del contenimento e della separazione. 16

174

dente come nella formulazione precedente, è qui presente come l’essere e il non essere in relazione da parte dell’esserci nei confronti del suo altro. La seconda edizione del testo riprende queste formulazioni, legandole strettamente alla dottrina del Sofista. Come si diceva, Hegel sembra avere ponderato maggiormente su questo dialogo nel periodo della maturità anzi che in quello giovanile17. Afferma Hegel che «l’altro è da prendersi come isolato, come in rapporto a se stesso, cioè astrattamente come l’altro» (SL p. 114; WL I, p. 11227-28), soggiungendo che «questo è l’eteron18 di Platone, che lo contrappone, come uno dei momenti della totalità, all’uno, attribuendo in questo modo all’altro una sua propria natura» (ib.). Prendere l’altro in modo isolato non vuol dire – lo si comprende dal contesto – regredire ad una concezione per cui il qualcosa e l’altro sono indifferenti, irrelati, ma piuttosto tener conto del fatto che il qualcosa è anche in sé altro. L’alterità, l’Anderssein, non è fuori dal qualcosa, ovvero non è altro dal qualcosa stesso. La situazione è allora effettivamente aporetica: proprio perché ogni qualcosa è altro rispetto ad altro, proprio perché un A non è non-A, allora l’alterità non è estranea al qualcosa. Se lo fosse, non si potrebbe dire che il qualcosa è altro dal suo altro; il qualcosa non sarebbe altro, sarebbe indifferente rispetto all’essere esso (un che di) altro. L’esser-altro non è altro dall’esser qualcosa; anzi, l’esser-qualcosa è «passato» nell’esser-altro19: «non resta più un esserci che sia determinato soltanto come un esserci, che non sia fuori di un esserci, epperò non sia, esso stesso, un altro» (SL p. 113; WL I, p. 11315-18). Ma ciò che è «altro per sé» (ib.), ovvero che è in sé l’altro, è «l’altro di se stesso» (ib.): «soltanto così l’altro è inteso come tale, cioè non come l’altro di qualcosa, ma come l’altro in lui stesso [das Andere an ihm selbst], ossia come l’altro di sé stesso [das Andere seiner selbst]» (SL p. 114; WL I, p. 11331-34).

Cfr. K. DÜSING (2001, p. 33 e passim; part. p. 40). Alcuni interpreti nondimeno ritengono che i riferimenti hegeliani siano ancora al Parmenide. Per es. il curatore H.-J. Gawoll dell’edizione tedesca della Wissenschaft der Logik indica come riferimento il passo del Parmenide (143 b); della stessa opinione anche M. THEUNISSEN (1980, p. 262), il quale, contraddicendo il riferimento di D. HENRICH (1974, p. 250), ricorda che Platone nel Sofista oppone l’altro allo stesso, non all’uno, il quale uno nel Sofista non viene punto tematizzato, essendo invece tema del Parmenide. Anche il recente ed interessante studio di A. BELLAN (2002, p. 134 n. 48) menziona al proposito il passo del Parmenide (139 b). K. Düsing per parte sua ha insistito sull’idea che questo passo della Scienza della logica costituisca principalmente un riferimento al Sofista (e comunque, stante la relativa continuità teoretica tra i due dialoghi sostenuta da Hegel, non certo in contraddizione col possibile riferimento al Parmenide): cfr. K. DÜSING (1980, pp. 136 e ss., part. p. 138 n. 91), (1983, p. 93), (2001, p. 47). 19 «Questa relazione negativa dell’esserci, mediante la quale soltanto l’altro può essere pensato, dev’essere assorbita come determinatezza negativa nel concetto dell’altro essente stesso. Quel che resta allora non è più un semplice qualcosa, distinto da altro; piuttosto qualcosa è “passato” in altro. “Passare” qui indica la dissoluzione delle precedenti determinazioni dell’essere in sé semplici e irrelate, in categorie successive; è lo specifico modo della dialettica delle categorie dell’essere in Hegel. – Anche questo passaggio non è platonico, giacché nel Sofista lo stesso non passa nel diverso» (K. DÜSING 1980, p. 142). 17 18

175

Con queste espressioni Hegel riprende la formulazione dell’antinomia della determinatezza dell’ente quale l’aveva esposta nella Logica e metafisica di Jena molti anni prima, ora legandola alla sua personalissima interpretazione della dottrina platonica. Anche in questo caso, si possono sollevare molti dubbi sull’argomentazione hegeliana. Hegel sembra infatti considerare in modo assoluto, irrelativo, la diversità (laddove la diversità, anche per lui, è una nozione intrinsecamente relazionale). Egli la pone in modo che il qualcosa che è altro non sia semplicemente «l’altro di qualcosa», ma sia altro tout court, ovvero altro in sé, e dunque sia in certo modo – restituendo in seconda battuta relazionalità alla nozione di diversità, in modo indebitamente riflessivo – altro da sé. Peraltro, come hanno messo in luce gli studiosi, raffrontando le tesi platoniche e quelle hegeliane, Platone considera sempre la diversità come relazione che ha due relata, senza renderla assoluta come fa Hegel, per il quale essa appare una specie di predicato20. Eppure anche Hegel sa che l’alterità è una relazione: lo afferma proprio in queste pagine, più volte, impiegando espressioni come negative Beziehung, rapporto negativo, per indicare il nesso tra qualcosa e il suo altro; o come, all’opposto, Beziehung auf sich, rapporto a sé, per indicare il rapporto con sé della determinatezza. Anzi, proprio la concezione hegeliana della determinatezza dell’ente è relazionale, essendo che l’ente è fin dall’inizio considerato in opposizione ad altro, e non come qualcosa di meramente positivo, semplice perfezione. Si tratta, con questa concezione, di quel che verrà poi sviluppato compiutamente nella dottrina dell’essenza nei termini della riflessione, ovvero della relazionalità. Ma una distinzione troppo netta tra dottrina dell’essere e dottrina dell’essenza rischia di essere fuorviante: è vero infatti che la riflessione compare nella sfera dell’essenza, qualificandola intrinsecamente; ma è altresì vero che Hegel già in queste pagine impiega e persino tematizza concetti riflessivi, come l’esser-sé e l’esseraltro, corrispondenti all’identità e alla differenza, e si parla del «qualcosa in sé riflesso» (SL p. 125; WL I, p. 12220). In breve: c’è già nella dottrina dell’essere, e particolarmente

20 Platone, come hanno messo in luce gli interpreti, considera la diversità pura nel Parmenide, e tanto l’afferma quanto la nega. In ogni caso non è questa la dottrina platonica del Sofista. Lo spiega con precisione, ancora una volta, Düsing: «particolare attenzione merita il fatto che Platone intende qui nel Sofista il diverso sempre come il diverso in relazione ad altro, ma in nessun modo come diverso in sé o da sé (cfr. 255 d). Questo concetto di un diverso da sé Platone l’aveva ammesso nelle argomentazioni della seconda parte del Parmenide (cfr. soprattutto 146 c); ma in quel contesto era contenuto di una predicazione affermativa nella seconda serie di dimostrazioni, che si contrapponeva senza una espressa distinzione di aspetti ad una predicazione uguale sul piano del contenuto, ma negativa, nella prima serie di dimostrazioni» (K. DÜSING 2001, pp. 44-5). «Proprio [...] [il] concetto di un diverso in sé o da sé, che Platone usa nei paradossi del dialogo Parmenide, egli lo rifiuta nel Sofista; diverso secondo Platone non è un qualcosa in sé o da sé, ma solo da un altro» (ivi, p. 48). Cfr. anche ID. (1980, pp. 137-8).

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nelle pagine che stiamo considerando, una specie di struttura riflessiva ante litteram, più esplicita (secondo alcuni) nella redazione di Norimberga21. Non si può dunque imputare semplicemente a Hegel l’errore di non sapere, o di aver dimenticato, che la diversità è una relazione, e di essersi proposto di considerare l’altro, l’esser-altro, in modo assoluto, isolato, alla stregua di un semplice predicato, nonostante certune affermazioni. Chi sostiene questa tesi22 trascura del tutto il fatto che Hegel sta proprio affermando l’opposto, ovvero che il qualcosa stesso, come tale, è formato, costituito da una relazione – ciò che verrà ampiamente ribadito nella dottrina dell’essenza, della quale la relazionalità è, per così dire, la cifra. Ciò appare ancor più chiaro se si considera che l’antinomia dell’esser l’altro di sé stesso si compone, come già l’antinomia dello Scritto sulla differenza, di due lati, uno dei quali è la conferma del principio platonico che qualcosa non è qualcos’altro, che «qualunque cosa sia diversa, necessariamente è [...] diversa da una diversa» (Sof. 254 d); mentre l’altro lato è il complemento negativo al primo, per cui, essendo questa struttura di diversità essenziale, costitutiva, l’esser-altro è uno con il qualcosa, sicché questo è l’altro da sé. Il primo lato è dunque l’affermazione di una relazione a tutti gli effetti; il secondo ne trae l’estrema, contraddittoria conseguenza. Questo secondo lato, certamente, smentisce il primo, ma non lo cancella; semmai lo completa, secondo appunto la teoria hegeliana dell’antinomia per complementazione. Si trova un’interessante conferma di questa posizione hegeliana intorno alla diversità nella dottrina dell’essenza, là dove Hegel si confronta con Leibniz e col principio di identità degli indiscernibili23. Non è ora il caso di affrontare la fondatezza della lettura di Hegel di questo principio, né la pretesa che egli ha di poter derivare esso, così come altri principi logico-metafisici, dell’applicazione della logica dell’intelletto alle determi-

21 Una delle ragioni di diversità tra le due edizioni è infatti la maggiore insistenza nella prima anzi che nella seconda sull’essere la determinazione, l’ente, il negativo del negativo; nella seconda redazione Hegel ridimensiona questa presenza a livello della dottrina dell’essere della struttura della doppia negazione (cfr. F. HOGEMANN, W. JAESCHKE [1990, part. p. XXIV e ss.], senza tuttavia cancellarla. Sulla presenza di struttura riflessive nella prima edizione, cfr. WL IA, p. 70 (in cui Hegel parla di reflektiertes Dasein, espressione ripresa anche alla pagina successiva), 7413 e 30 (in cui Hegel qualifica i lati del Dasein come Reflexionsbestimmungen, ed il Dasein medesimo come Reflexion in sich), 765 e 7 (dove il qualcosa è delineato come un ritornare a sé, secondo l’andamento della riflessione quale verrà esposto nella dottrina dell’essenza). 22 K. ILTING (1982, pp. 104, 108), p. es., afferma – anche se relativamente alle determinazioni della riflessione – che l’errore di Hegel è ridurre le relazioni, in primis quella di diversità, ai predicati, e che ciò è all’origine della sua teoria delle contraddizione: qualcosa, per il fatto che è diverso da altro, ha (la proprietà della) diversità in sé, intesa in modo irrelativo, ed è perciò diverso da sé: «l’altro di se stesso». Pur in un contesto teorico parzialmente differente, lo stesso pensa Landucci (1978) e (1981). 23 Per il rapporto tra Hegel e Leibniz rimando anzitutto all’ottimo saggio di A. M. NUNZIANTE (2001).

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nazioni riflessive razionali (identità, differenza, ecc.)24. Importa piuttosto che secondo Hegel il principio di identità degli indiscernibili non affermi genericamente che «tutte le cose sono diverse fra loro» (SL p. 470). Infatti questa, così formulata, «è una proposizione molto superflua, perché nel plurale di cose sta immediatamente la pluralità e l’affatto indeterminata diversità» (ib.). L’autentico contenuto del principio invece è «la diversità determinata» (ib.) ovvero la sintesi di eguaglianza e ineguaglianza in un unico e medesimo rispetto25. Questa sintesi è proprio l’unità antinomica che sta alla base della definizione del qualcosa come «altro di se stesso». Infatti da un lato si ammette che qualcosa sia eguale a sé e diverso da altro, in modo appunto che la diversità sia una nozione relazionale: «esso [un qualcosa, A] deve bensì essere diverso non da sé, ma solo da altro» (SL p. 470; WL II, pp. 39-40), riconosce Hegel a chiare lettere, esponendo il principio di identità e diversità, ovvero il primo lato dell’antinomia di cui si diceva. Ma poi egli soggiunge, introducendo il secondo lato dell’antinomia: «come A con sé identico esso è l’indeterminato; ma come determinato è il contrario; ha in lui non più soltanto l’identità con sé, ma anche una negazione, e pertanto una diversità di se stesso da sé» (SL p. 470; WL II, p. 403-6). La prima parte di quest’ultima affermazione, per la quale un A con sé identico è l’indeterminato, si comprende come la tesi che la pura identità è una determinazione categoriale insufficiente per affermare la molteplicità (l’identità con sé di ciascun ente); essa corrisponde piuttosto alla logica del monismo, alla prima ipotesi del Parmenide, alla prima categoria della logica hegeliana. Ma, una volta che s’è introdotta la diversità, del medesimo va detto che è identico e diverso. Diverso da altro, certo; ma proprio perciò anche diverso da sé, essendo che la diversità, l’alterità, gli compete. Seguendo il solco del confronto con Leibniz compiuto da Hegel in queste pagine, si potrebbe dire che qualcosa può essere altro dall’altro solo in quanto l’alterità inerisce al qualcosa, è analiticamente detta di esso. Si potrebbe porre la cosa anche in questo modo: ogni qualcosa è identico e diverso. La tesi hegeliana è che il rispetto per cui qualcosa è in sé è il medesimo di quello per cui il qualcosa è per-altro: non c’è una realtà positiva dell’ente definita di per sé, poiché essa presupporrebbe che la determinatezza dell’essere fosse sciolta dalla negazione; presupporrebbe una determinatezza assoluta, la quale per Hegel è una semplice insensatezza. È infatti solo mediante la negazione, il «non», che si costituisce la determinatezza dell’ente; è in virtù del «respinger via da sé» l’altro, e dunque in virtù dell’esser-altro, che qualcosa è un sé stesso. Si può forse render conto di quest’idea con un esempio. Consideriamo una certa persona, Giovanni. Supponiamo abbia un fratello, Giuseppe. Rispetto a sé Giovanni è Giovanni; rispetto a Giuseppe, ne è il fratello. L’idea di Hegel

Cfr. K. ILTING (1982, pp. 106-7), peraltro critico sulle pretese hegeliane. «Il principio della diversità esprime [...] che le cose son diverse fra loro per l’ineguaglianza, che la determinazione dell’ineguaglianza compete loro non meno che quella dell’eguaglianza, poiché tutte e due insieme costituiscono la differenza determinata» (SL p. 471). L’identità del rispetto logico per cui eguaglianza e ineguaglianza vanno riferite alle cose è affermata da Hegel poco oltre. Cfr. anche infra pp. 212 ss. 24 25

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è che il rispetto per cui Giovanni sia sé stesso sia identico al rispetto per cui è fratello di Giuseppe; che solo dunque in quanto è fratello di Giuseppe, Giovanni sia Giovanni. Il rapporto ad altro è definitorio del rapporto a sé; solo che il rapporto ad altro di cui si va trattando è lo stesso rapporto di alterità, cosicché l’esser-in-sé diventa lo stesso che l’esser-per-altro: non c’è più una diversità di rispetti a qualificare il qualcosa una volta come in sé essente, un’altra volta come ciò che è per-altro. 5.7

La contraddizione della struttura dell’ente determinato

Il secondo modo di formulare l’antinomia si sviluppa a partire dall’analisi della struttura interna dell’essere determinato, culminando con la figura del limite. Tale struttura, nella sua compiutezza, viene raggiunta per gradi nella prima edizione, mentre nella seconda è delineata nel corso di pochi paragrafi e viene ripresa analiticamente poi. Il punto di raccordo tra le due redazioni è la concezione concreta dell’essere determinato, espressa o dalla figura della determinatezza (Bestimmtheit), oppure da quella dell’esserdentro-di-sé (Insichsein), sulla quale si farà ritorno tra breve. Un raffronto tra l’andamento delle due edizioni può essere utile. In entrambi i testi il punto di partenza, assunto come «un che di primo da cui si prendon le mosse» (SL p. 103; WL IA, p. 6622-23; WL I, p. 10324), è l’esserci, l’«esser determinato [Dasein]» (ib.). Nel testo di Norimberga viene sviluppata la sua relazione all’esser-altro, fino a mettere in luce il doppio ruolo logico, dell’esserci e del suo altro, di essere entrambi sia un qualcosa sia un che di altro. Ciò consente di stabilire che l’«esser-per-altro costituisce l’autentica determinazione dell’esserci» (WL IA, p. 6922-23), giacché l’esser-per-altro è appunto la distinzione da altro che costituisce l’esser-in-sé della cosa. Così, alla distinzione tra esserci ed esser-altro, è subentrata quella tra esser-in-sé, Ansichsein, da un lato, e esser-per-altro, Sein-für-Anderes, dall’altro. Questa seconda coppia concettuale – rende noto Hegel con una precisazione conservata anche nella seconda edizione, benché posticipata nell’andamento del testo – differisce dalla prima perché le nozioni in essa contenute esprimono l’essenziale relazione che le unisce e che determina il loro significato, determinando parimenti la struttura dell’ente, la sua determinatezza. L’esser per altro e l’essere in sé costituiscono i due momenti del qualcosa. Quello che qui si affaccia, son due coppie di determinazioni: 1) qualcosa ed altro. 2) Esser per altro ed essere in sé. Le prime due contengono l’irrelatività della loro determinatezza; il qualcosa e l’altro cadono l’uno fuori dell’altro. Ma la lor verità è la lor relazione. L’esser per altro e l’essere in sé sono quindi quelle medesime determinazioni [scil. il qualcosa e altro] poste come momenti di uno stesso, come determinazioni che son relazioni, e che restano nella loro unità, nell’esser determinato. Ciascuno di questi momenti contien quindi in pari tempo in sé anche il suo momento da lui diverso. (SL p. 115; WL IA, pp. 69-70; WL I, p. 114-5)

Alcune pagine dopo, sempre nella prima redazione, Hegel qualifica i momenti o lati costituenti l’unità del qualcosa come «determinazioni riflessive» (WL IA, p. 7413), appunto perché ciascuna di esse contiene, esprime, nel suo significato, la sua relazione essenziale all’altra. In un certo senso, nel progresso del discorso hegeliano, si va viepiù serrando il rapporto tra essere e non-essere, attraverso figure che ne espongono l’essenzialità reciproca, fino a presentarli come interni momenti di un tutto, anzi che come termini giustapposti quali parevano all’inizio. Il rapporto negativo si rivela dunque essenziale: 179

l’essere è nell’esserci esser-in-sé (Ansichsein)26. Giacché l’essere è il rapporto a sé, l’eguaglianza con sé, la quale però ora non è più immediata, bensì è rapporto a sé solo in quanto il non-essere del nonesserci [als Nichtsein des Nichtdasein], (esserci-riflesso). (WL IA, p. 7014-17)27.

Con ciò è giunto a compimento lo sviluppo concettuale definente la struttura dell’essere determinato. L’interno rapporto tra esser-in-sé ed esser-per-altro costituisce la determinatezza, la Bestimmtheit, la cui forma è quella dell’esser-dentro-di-sé28. Ora «l’esserci è esser-dentro-di-sé [Insichsein], e come esser-dentro-di-sé esso è essenteci [Daseiendes] o qualcosa» (WL IA, p. 74). L’esser-dentro-di-sé è dunque il compimento di queste analisi sull’esserci: s’è delineata la figura del qualcosa, dell’ens, il quale è ciò che è sé stesso in quanto respinge via da sé l’altro. Vien perciò ribadito, avendo guadagnato il «punto dell’unità negativa» (WL IA, p. 755), che l’esserci è dunque in quanto qualcosa non l’immediata, essente unità dell’essere e del nulla, bensì, quale esser-dentro-di-sé, esso ha rapporto a sé in quanto è negazione. L’essere del qualcosa consiste dunque non nella sua immediatezza, bensì nel non-essere dell’esser-altro; l’esserci nel qualcosa è dunque passato nel negativo in modo che questo d’ora in poi sta a fondamento. Il qualcosa è esserci solo in quanto esso ha una determinatezza. (WL IA, p. 7510-18).

La seconda redazione compie un percorso un po’ differente, pervenendo tuttavia al medesimo risultato. Come si diceva, il punto di partenza è anche qui l’unità dell’essere e del nulla, costituente l’esserci come «un che di primo». Nella redazione berlinese la figura della determinatezza, della Bestimmtheit, compare quasi da subito, introdotta con l’affermazione che «il non-essere, accolto nell’essere per modo che l’insieme concreto sia nella forma dell’essere, o dell’immediatezza, costituisce la determinatezza come tale» (SL p. 104; WL I, p. 10332.34). Qui «la determinatezza isolata così per sé, qual determinatezza che è, è la qualità, – un che di affatto semplice, immediato» (SL p. 105; WL I, p. 10515-16). Il termine qualità può apparire fuorviante, se lo si considera – come si fa abitualmente, nel solco della tradizione – come esprimente una proprietà o un certo tipo di proprietà delle cose (colore, capacità, figura, ecc.). Infatti, al presente grado delle indagini hegeliane non s’è autenticamente ancora distinto tra il sostrato e le sue proprietà. Tale distinzione verrà indagata solamente nella dottrina dell’essenza. Quel che Hegel intende qui per qualità è la determinazione stessa, intesa come un qualcosa di specifico: «la qualità in generale è la determinatezza immediata identica all’essere. [...] Qualcosa è ciò che è per la sua qualità, e, se perde la sua qualità, smette di essere ciò che è. [...] Così, ad. es., in natura vanno considerate come qualità esistenti i cosiddetti elementi

Ovvero: l’esserci è unità di essere e nulla; ma l’essere s’è specificato come esser-in-sé, e il nulla come esser-per-altro. 27 Il testo prosegue affermando che, simmetricamente, il non-essere contenuto nell’esserci non è semplicemente non-esserci, ma rapporto al non-esserci, ovvero esser-per-altro. 28 In tedesco è relativamente più semplice distinguere tra Ansichsein e Insichsein. In italiano, invece, traducendo il primo con essere-in-sé, ci si trova nella difficoltà di dover tradurre il secondo in modo diverso, senza poterne fare un calco. L’importante è comprendere che mentre l’esser-in-sé esprime un momento del qualcosa, l’esser-dentro-di-sé esprime il qualcosa stesso in quanto sintesi dei suoi momenti dell’esser-in-sé e dell’esser-per-altro. 26

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semplici, l’ossigeno, l’azoto ecc.» (E § 90, agg., pp. 271-2). In questo senso Hegel sembra considerare la qualità non semplicemente come una certa determinazione del qualcosa, ma come la sua proprietà nell’accezione più tradizionale di questo termine: ciò che la cosa ha di proprio, la sua determinazione essenziale29, intesa come tutt’uno con la cosa stessa. Pare che Hegel, in questa primissima indagine sull’ente, impieghi la figura concettuale della qualità per l’opposizione di essa a quella della quantità. Hegel com’è noto, rispetto a Kant, comincia con la prima anzi che con la seconda, giacché qualcosa è anzitutto un certo qualcosa di specifico: una certa sostanza, si potrebbe dire. Per questa ragione si è accostato l’esserci hegeliano al poiòn (il «quale») di Aristotele, ancora indistinto dal tode ti (l’«alcunché di determinato»)30. Poi, del qualcosa, si può considerarne anche la determinazione quantitativa. Ma fondamentale è ciò che il qualcosa è, la sua qualità – benché al presente stato delle indagini non siano ancora investigate né, sul piano ontologico, la struttura attraverso cui qualcosa possiede una proprietà (accidentale o essenziale), né, sul piano logico, la corrispondente struttura della predicazione. E tantomeno si fa qui parola della distinzione tra predicazione accidentale e predicazione essenziale di cui tratta Aristotele all’inizio di Categorie. Qui, per la semplicità e la fondamentalitià delle determinazioni concettuali impiegate – s’è superato l’essere vuoto e indeterminato, l’uno assoluto senza i molti, solo da pochi paragrafi – l’ente è ancora presentato come un tutt’uno con la sua qualità. Ora, «per quanto l’esser determinato è, per altrettanto è desso un non essere, ossia è determinato» (SL p. 105; WL I, p. 1054-5), e questi due aspetti di cui la determinatezza si compone sono la realtà del qualcosa e la negazione: la qualità, presa in modo che valga distintamente come essente, è la realtà; come affetta da quel negare, è in generale una negazione, cioè parimenti una qualità, ma però [...] tale, che ha il significato di una mancanza, e che si determina poi come limite, termine. Tutte e due sono un esser determinato, un esserci. Ma nella realtà coll’accento di esser una qualità che è, riman nascosto ch’essa è la determinatezza, e che però contien anche la negazione; quindi è la realtà che val solo come un che di positivo, da cui è escluso il negare, la limitatezza, la mancanza. La negazione invece, presa qual semplice mancanza, sarebbe quello ch’è il nulla; ma essa è un esserci, una qualità, solo che determinata con un non essere» (SL pp. 105-6; WL I, p. 10529-1062).

Nella prima edizione le figure di realtà e negazione non avevano un tal spicco; qui invece sono i due lati della determinatezza, il suo essere sia essere che non-essere intesi in senso determinato: esser qualcosa, e in ciò stesso esser-altro rispetto ad un altro qualcosa. Hegel espone questa struttura come il qualcosa (Etwas), il quale anche qui, nella seconda redazione, è un esser-dentro-di-sé (Insichsein), ovvero un ente.

29 A questa distinzione tra semplici qualità e proprietà allude lo stesso Hegel quando distingue tra i caratteri permanenti delle cose e quelli che possono mutare senza che la cosa essenzialmente si muti: cfr. SL p. 109. 30 G. MOVIA (1996a, p. 254). Nelle Lezioni sulla logica Hegel accosta la qualità alla nozione di essenza di Aristotele, al to ti en einai, affermando che nella dottrina dell’essere la qualità è considerata intrinsecamente connessa con la cosa («innig verbunden mit dem Sein» - VL p. 95).

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L’esser-dentro-di-sé è la figura concettuale che nella prima edizione esprimeva, quale traguardo di un lungo avvicinamento, la compiuta nozione dell’ente. Qui nella seconda redazione mantiene questo valore, giacché fa il paio con la struttura negativa, di mediazione, dell’ente, il quale è ciò che è in quanto è il non-essere del suo nonessere. Una realtà è un che di negativo rispetto ad un’altra realtà; ma questa seconda realtà è pure un negativo, rispetto alla prima. Con ciò, per così dire, nella delineazione concettuale dell’ente, si tocca terra. Quello dunque che nel fatto abbiam dinanzi è l’essere determinato in generale; [...] non come in sé indistinto [che sarebbe pura realtà, sola perfezione] [...] ma come di nuovo simile a se stesso, per il togliere della differenza, la semplicità dell’esser determinato mediata da questo togliere. Questo esser tolta della differenza è la determinatezza propria dell’esser determinato o esserci. Così esso è un esser dentro di sé. L’essere determinato è un ente determinato, qualcosa. (SL p. 110; WL I, p. 1102-10)

L’esserci non è immediatamente sé stesso, ma solo in quanto è negazione di altro, ovvero negazione di una negazione – in modo mediato, dunque, togliendo il suo altro, negandolo. Perciò, afferma Hegel, «il qualcosa è la prima negazione della negazione, come semplice essente relazione a sé» (SL p. 110; WL I, p. 11011-12). Nella prima edizione Hegel diceva lo stesso, attenendosi però maggiormente alla semantizzazione negativa del verbo essere: aveva affermato, come si ricorderà, che l’esserci è il non-essere di un non-esserci. Ora, relativamente a queste formulazioni hegeliane della seconda redazione (e indirettamente anche della prima), non importa tanto insistere sul fatto, certo importante, che il qualcosa quale negazione della negazione sia, dell’immensa sequenza di duplici negazioni costituenti la Logica hegeliana, la prima; e che dunque esso sia la base ancora generalissima su cui poggia il poderoso sviluppo di tutte le più complesse figure che seguiranno; che esso sia, pur in modo «affatto indeterminato» (SL p. 111; WL I, p. 11028), «il cominciamento del soggetto» (ib.), appunto perché è quella «negativa unità con sé» (ib.) che il soggetto è in forma eminente. Neppure è rilevante per le presenti indagini ciò su cui Hegel richiama l’attenzione, ovvero il distinguere la «negazione prima, o come negazione in generale, dalla negazione seconda, la negazione della negazione» (ib.). Importa piuttosto che il qualcosa sia appunto relazione a sé solo in quanto è negazione della negazione, giacché questo è l’autentico punto di svolta rispetto all’ontologia tradizionale. Come si è detto, si è sempre pensato che un qualcosa non fosse il suo altro, che il bue non fosse il cavallo, che quest’uomo non fosse una nave. Inoltre, ben prima di Hegel si è anche pensato di qualificare il qualcosa come il negativo del negativo, l’altro dall’altro, come s’è veduto. Ma Hegel dice ben di più: afferma che solo come il negativo del negativo il qualcosa è sé stesso. La negazione – duplice o unica, non importa (giacché è il semplice «non» a strutturare il qualcosa e il suo altro: esso è il «respinger via», il «separare», il trennen, l’entfernen tra determinatezze) –, ebbene la negazione è la base o, come dice Hegel altrove, il fondamento dell’essere. Qualcosa è, è essente, in quanto è la negazione della negazione, poiché questa è il ristabilirsi [Widerherstellen] del semplice riferimento a sé. Ma il qualcosa è con ciò anche la mediazione di sé con se stesso. La mediazione di sé con se stesso si trova già nella semplicità del qualcosa [...]. La mediazione con sé è posta nel qualcosa, in quanto questo è determinato come un semplice identico. (SL p. 111; WL I, pp. 1101)

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La struttura che Hegel delinea è quella di un rapporto a sé mediato dal rapporto ad altro – da un rapporto negativo ad altro, che lega sì il qualcosa all’altro, ma per toglierlo, «respingerlo via». Si tratta di una struttura che Hegel nella dottrina dell’essenza definisce «riflessiva», appunto perché la riflessione è – seguendo la metafora dall’ottica – la deviazione o addirittura il tornare indietro di un raggio luminoso quando incontra una superficie riflettente31. È in base al rapporto con altro che «qualcosa è, è essente»; ma ciò vale per ogni qualcosa, anche per l’altro qualcosa, il quale dunque non è precostituito chissà poi come, indipendentemente da questo rapporto negativo. Non c’è nessun ente che sia già «dato» perfettamente, rispetto a cui gli altri enti si rapportino negativamente, mentre esso costituirebbe una specie di incondizionata base dell’essere, a partire dalla quale avrebbe origine la catena dei rapporti negativi di determinazione. Non c’è nulla che sia «un qualcosa di pre-esistente», un Vorausseinedes, afferma Hegel altrove32. È perciò il rapporto negativo, anziché il puro essere (la presunta purezza della realtà), ad essere la base, il fondamento di quel che c’è. La semplice identità del qualcosa è il risultato di una mediazione posta in esso, s’è appena letto (e la dottrina dell’essenza assumerà proprio questo processo mediativo come il punto di vista onde trattare la questione ontologica). Sulla riflessione si farà ritorno; ad essa è comunque legato il concetto del qualcosa, dell’ente, dell’essere-dentro-di-sé. Nella seconda redazione interviene ora – dopo che s’è già conseguita la struttura riflessiva ante litteram dell’essente – la sua articolazione in esser-in-sé (Ansichsein) ed esser-per-altro (Sein-für-Anderes). Questi, s’è visto, sono determinazioni intrinsecamente relazionali («determinazioni che sono relazioni» - SL p. 115), ciascuna delle quali contiene (il rapporto a) l’opposta33, al punto che Hegel, nella prima edizione, ricorreva esplicitamente al termine «Reflexionsbestimmungen», come s’è detto. La figura della duplice negazione viene perfezionata in quella di limite, attraverso l’unità dei momenti del qualcosa, ovvero dell’esser-in-sé e dell’esser-per-altro. Di lì poi si passa alla contraddizione. «Sulle prime l’essere in sé e l’esser per altro son diversi» (SL 116; WL I, p. 1163-4). Sono il medesimo qualcosa, ma considerato una volta in rapporto a sé e una volta in rapporto ad altro. Ciò delinea il doppio ruolo logico del qualcosa, di cui s’è parlato: l’essere ogni qualcosa una realtà ma anche una negazione; un essere ma anche un non-essere. La tesi di Hegel però è che non ci sia alcuna realtà che non sia anche negazione; che una realtà sia negazione non solamente rispetto ad altro, ma lo sia di per sé – altrimenti essa non sarebbe affatto determinata, una determinatezza, bensì puro essere. Il rispetto per cui qualcosa è essere-in-sé è lo stesso per cui è essere-per-altro. Ciò vuol dire che il rapporto negativo contribuisce essenzialmente al principio di individuazione dell’ente: «l’individuo è riferimento a sé per ciò ch’esso pon limiti ad ogni altro. Ma

Cfr. E § 112, agg., p. 307. Cfr. E § 41, agg. 1, p. 194. 33 Cfr. SL p. 115; WL I, pp. 114-5. 31 32

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questi limiti sono con ciò anche limiti dell’individuo stesso, riferimenti suoi ad altro. L’individuo non ha il suo esserci in lui stesso» (SL p. 108; WL I, p. 10821-24)34. Questa mancanza di fondamento in sé dell’ente è un tema decisivo, che vien ripreso da Hegel più volte e che è alla base della trattazione della finitezza qualitativa. Afferma Hegel che «in quanto qualcosa è in un altro o per un altro» (SL p. 116) – e lo è costitutivamente, s’è visto – «è privo del suo proprio essere [entbehrt es des eigenen Seins]» (SL p. 116; WL I, p. 11529-30). 5.8

La contraddizione del limite

In tal modo si perviene a focalizzare il limite, come la stessa negazione limitante e costituente la determinatezza. Della figura del limite s’è in parte già detto; ora ne va posta in luce la contraddittorietà. Il fatto è che il limite, definendo l’essere dell’ente, definendo un A rispetto al non-A, è parte della cosa ma anche no. Ne è parte, poiché è solo nel limite che la cosa è determinata; non ne è parte, poiché il limite è la negazione dell’essere della cosa, è ciò in cui l’essere della cosa cessa e oltre il quale c’è l’altro da essa. Hegel delinea la formazione del limite con una scrittura invero impervia. Dapprima riprende la struttura negativa del qualcosa: in quanto ora l’esser dentro di sé [che è il qualcosa stesso, l’ente, unità di esser-in-sé e di esser-peraltro] è il non essere dell’esser altro che è contenuto in esso, ma insieme, in quanto essente, ne è anche distinto, il qualcosa stesso è la negazione, il cessare di un altro in lui; esso è posto come tale che si conduce negativamente verso di quello, e così appunto si conserva. (SL p. 124; WL i, p. 1222-6)

Quindi Hegel giunge a identificare i rispetti per cui qualcosa è essente in sé ed è peraltro: questo altro, l’esser dentro di sé del qualcosa come negazione della negazione è il suo essere in sé, e nello stesso tempo questo togliere è come semplice negazione in lui, cioè come negazione dell’altro qualcosa a lui esterno. È un’unica determinatezza loro, che è insieme identica coll’esser dentro di sé dei qualcosa, come negazione della negazione, ed anche, in quanto queste negazioni stan l’una contro l’altra come altri qualcosa, stringe assieme da loro stessi e parimenti, ciascuno di esse negando l’altro, li separa uno dall’altro, – il limite. (SL p. 124; WL I, p. 1226-15)

A questo punto son gettate le basi per svolgere la contraddizione del limite. Infatti, «nel limite viene a mettersi in rilievo il non essere per altro, la qualitativa negazione dell’altro, che con ciò è tenuto lontano dal qualcosa in sé riflesso. È da vedere lo sviluppo di questo concetto, sviluppo però che si mostra piuttosto come inviluppo e contraddizione» (ivi, p. 125). Nella prima edizione la contraddizione è sviluppata, schematicamente, al seguente modo: il limite, in quanto è non-essere – il «non» che respinge via i due qualcosa –, è sia il cessare del qualcosa, sia il cessare dell’altro. Qualcosa ha un limite anzitutto di contro ad altro; il limite è il non essere dell’altro, non del qualcosa stesso; il qualcosa non limita con ciò sé stesso, ma il suo altro. Ma l’altro è esso stesso in generale un

Sull’individuazione e le relazioni ad altro in Hegel e in Leibniz, cfr. l’ottimo intervento di P. GUYER (1978), nonché D. INGRAM (1985). 34

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qualcosa, giacché è egualmente esserci. Il limite dunque, che il qualcosa ha di contro ad altro, è anche il limite dell’altro in quanto [è] qualcosa, o quest’altro è il limite di quello stesso attraverso cui esso altro respinge via da sé il primo qualcosa come suo altro, o l’altro è il non-essere di quel qualcosa. Il limite è dunque non solo il non-essere dell’altro, ma anche del qualcosa. (WL IA, pp. 76-7)

La caratterizzazione del limite come non essere sia del qualcosa che dell’altro è della massima importanza, poiché costituisce la premessa fondamentale per lo sviluppo verso l’antinomia. Nel limite infatti il qualcosa e il suo altro hanno non solo la loro determinazione negativa – ossia oltre il limite c’è ciò che essi non sono –, ma anche la loro determinazione positiva – essendo che nel limite è costituito l’essere del qualcosa. Perciò Hegel prosegue le analisi, sviluppando l’antinomia al seguente modo. Egli muove dal doppio ruolo logico del limite, che si può esporre con le due seguenti proposizioni: (1) il limite è il non-essere del qualcosa; (2) il limite è anche il non-essere dell’altro dal qualcosa. Ora, attraverso alcune sostituzioni basate sulle definizioni dei termini e sulla doppia negazione, la proposizione (2) viene sviluppata in modo da contraddire la (1). Infatti: nella (2) occorre il termine «altro dal qualcosa», il quale equivale al «non-essere del qualcosa», per definizione. Sostituendo allora questi termini nella (2), si ottiene: (3) il limite è anche il non-essere del non-essere del qualcosa. Ora, per la regola della doppia negazione, il non-essere del non-essere (del qualcosa) è l’essere (del qualcosa); l’altro dall’altro è il sé. In tal modo la proposizione (3) diventa: (4) il limite è l’essere del qualcosa. L’antinomia si palesa tra le due proposizioni (1) e (4): (1) il limite è il non-essere del qualcosa, ma anche (4) il limite è l’essere del qualcosa; laddove, ripeto, questa seconda è stata ottenuta dalla proposizione (2) per sostituzione dei termini secondo le loro definizioni, e per la regola della doppia negazione35. Hegel espone l’argomento qui così ricostruito in un passo invero complesso: immediatamente in quanto il qualcosa è solo come non-essere dell’altro, così è in lui stesso nonessere, e il limite è allo stesso modo ciò attraverso cui esso stesso viene limitato. Il limite in quanto non-essere è il cessare del qualcosa. Ma in quanto il limite è essenzialmente il cessare dell’altro, il qualcosa è al contempo mediante il suo limite. – L’altro è egualmente non-essere del qualcosa, ma se il limite fosse solo questo non-essere, allora il qualcosa in generale cesserebbe nel suo limite; ma il li-

Qui la regola della doppia negazione non è applicata immediatamente a enunciati, ma a termini, come fa Hegel definendo – come s’è visto poc’anzi – il qualcosa come la negazione della negazione. Si può esprimere lo stesso ricorrendo alle classi: la classe a contiene un solo termine, A; la classe b è la complementare della precedente, contenente tutto ciò che non è A. Le due classi, a e il suo complemento b (o non-a), sono quindi mutuamente esclusive (se qualcosa appartiene all’una, non appartiene all’altra) ma collettivamente esaustive (qualsiasi cosa appartiene o all’una o all’altra). In tal modo il complemento della classe complementare ad a è la stessa classe a. 35

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mite è non-essere del qualcosa solo al modo che esso limite al contempo è non-essere dell’altro, dunque essere del qualcosa. (WL IA, p. 7710-19)

L’antinomia vien da Hegel anche riassunta coll’affermazione che «qualcosa nel suo limite è e non è» (WL IA, p. 7720), ripresa poco oltre, in modo più articolato dalla considerazione che l’esser-dentro-di-sé quale semplice relazione a sé stessi esclude anzitutto l’esser-altro e perciò il limite stesso – quale la relazione all’altro – da sé e dal qualcosa stesso [von sich und aus dem Etwas]. Ma l’eguaglianza con sé del qualcosa poggia sulla sua natura negativa; o il non-essere è qui l’esser-in-sé medesimo; dunque il limite è l’esser-dentro-di-sé. (WL IA, p. 789-15)

Che il non-essere (Nichtsein) sia lo stesso che l’essere-in-sé (Ansichsein) è una contraddizione, giacché l’esser-in-sé è il qualcosa in quanto considerato in sé stesso, è la sua realtà; mentre il non-essere è o l’altro dal qualcosa, o il qualcosa considerato in rapporto ad altro; è negazione insomma. L’identificazione dei due aspetti è perciò l’identificazione di realtà e negazione, di due termini che sono l’uno la negazione dell’altro. Lo stesso viene ribadito alcune pagine dopo, quando Hegel afferma che Qualcosa è determinato, è in sé solo mediante il suo limite; il limite è negazione dell’esser-altro, ma con ciò l’esser altro è la determinazione immanente in sé-essente del qualcosa medesimo. Nel qualcosa infatti non è solo presente l’esser-dentro-di-sé e il suo altro in generale, bensì questo suo altro è la sua determinatezza in-sé-essente, ovvero la determinazione costitutiva [Bestimmung] stessa. Questa perciò è l’esser-dentro-di-sé che si rapporta a sé, il quale però in quanto esser-dentro-di-sé è il suo limite. L’esser-dentro-di-sé eguale a sé stesso si rapporta pertanto a sé stesso come al suo proprio nonessere. (WL IA, p. 845-25)

È perché l’esser-altro è determinazione immanente del qualcosa, che questo è sia il proprio in-sé che il suo esser-altro, ovvero realtà e negazione insieme, l’«altro di sé stesso». Il qualcosa, concretamente concepito, «si rapporta a sé stesso come al suo proprio non-essere», e perciò «manca del suo proprio essere», ciò che costituisce il sigillo della finitezza ontologica dell’ente, proprio in quanto questo è determinato. Il rapporto tra finito e infinito non è tema della presente indagine, anche se esso certamente si radica qui, nella insussistenza o a-sostanzialità della determinatezza, ovvero di ciò che – essendo costitutivamente limitato, determinato – è finito36. La seconda redazione sviluppa l’antinomia in modo abbastanza simile, anche perché molti passi vengono più o meno ricalcati sulla base della prima edizione, con lievi modifiche solamente. L’argomento che sviluppa la contraddizione del limite, e dunque della determinatezza del qualcosa, pare insistere nella redazione berlinese sull’identità del limite tra il qualcosa e il suo altro, tra i due qualcosa, che per esso vengono distinti. Il limite è il medesimo; e tuttavia l’un qualcosa è il non-essere, il negativo dell’altro. Si può schematizzare lo svolgimento dell’antinomia al seguente modo. Si consideri un certo qualcosa, A, e il suo altro, ovvero non-A, che si può anche chiamare B. Anzitutto si fanno valere le definizioni:

Finito e determinato sono per Hegel sinonimi: «l’essere determinato è finito» (E § 92, agg., p. 275). 36

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(1) Il limite di A è il non-essere di B. (2) Il limite di B è il non-essere di A. Si assume quindi il seguente enunciato, argomentato in precedenza e basato sulla definizione del qualcosa come negazione della negazione: (3) L’essere di A è il non-essere di B. Quindi, per sostituzione applicata a (1) e (3), si ottiene: (4) Il limite di A è l’essere di A. A questo punto viene fatta valere l’identità del limite tra A e B: (5) Il limite di A è il limite di B. Ora si applica a (5) la sostituzione de «il limite di B» basata su (2): (6) Il limite di A è il non-essere di A. E di nuovo una sostituzione applicata a (6) de «il limite di A», basata su (4): (7) L’essere di A è il non-essere di A. La proposizione (7) è palesemente una contraddizione, che afferma che qualcosa è l’«altro di sé stesso»37. 5.9

Finitezza, contraddizione, divenire

La contraddizione della struttura della determinatezza dell’ente ha l’evidente significato ontologico di segnarne la contingenza, ovvero il divenir-altro. Hegel lo afferma chiaramente in entrambe le redazioni della Grande logica nonché nell’Enciclopedia. Nel testo di Norimberga la sezione «determinatezza» è articolata significativamente secondo i titoli: (1) limite, (2) determinatezza, e poi (3) modificazione (Veränderung, alterazione, cambiamento). Il tema della modificazione è trattato a seguito di un’ulteriore specificazione dei momenti dell’esser-in-sé e dell’esser-per-altro, propri del qualcosa. Con poche battute – che saranno consistentemente ampliate nella seconda redazione – Hegel qualifica l’in-sé della determinatezza come determinazione costitutiva (Bestimmung), e l’esser-per-altro come disposizione (Beschaffenheit)38. In questo contesto si impernia per una prima volta la questione della modificazione (accidentale). Tuttavia, quel che egli intende con quella coppia di concetti si comprende a mio avviso solo tenendo presente una tesi assai più generale riguardante la natura delle relazioni e la forma delle proposizioni, alla cui illustrazione perciò vorrei ora brevemente volgermi. Per questa tesi, sostenuta da una lunga tradizione e sviluppate poi in modo significativo da Leibniz, le relazioni non sono entità di per sé, ma esprimono in modo indi-

37 Sulla contraddizione del limite, e più in generale del qualcosa, cfr. anche le Lezioni berlinesi sulla logica (1831): VL p. 112 e ss. 38 A. Moni, traducendo la seconda edizione della Wissenschaft der Logik, rende Bestimmung con destinazione e Beschaffenheit con costituzione. Seguo invece la proposta di L. LUGARINI (1998), che mi pare più consona alle intenzioni di Hegel.

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retto le proprietà, la natura dei loro relata, avendo in essi una specie di ancoraggio, il loro fondamento. Come diceva Leibniz, «non si danno denominazioni puramente estrinseche». Le relazioni sono dunque entità mentali; ma non sono arbitrarie, delle fantasmagorie, appunto in ragione del loro fondamento nelle proprietà oggettive delle cose. Non è questo il luogo per approfondire l’argomento, che richiederebbe una lunga discussione39. L’idea è che le relazioni, anche quelle accidentali, essendo fondate su delle proprietà, incidano nella realtà degli individui, in ciò che essi sono non rispetto ad altro, ma in loro stessi. Perciò, se una relazione subisce un mutamento, anche gli individui da essa connessi vengono di conseguenza internamente modificati. Tuttavia, poiché larga parte delle relazioni paiono del tutto accidentali, «esterne», è difficile pensare che il loro mutamento comporti un corrispondente mutamento intrinseco negli individui, come invece si dovrebbe pensare in base alla tesi generale sulla natura delle relazioni. Per es., se sposto una penna da una parte all’altra del mio tavolo, mutano delle relazioni spaziali tra la penna, il tavolo, gli altri oggetti, questa stanza, ecc. Perciò la penna dovrebbe mutare le sue proprietà, in base a questa tesi generale sulle relazioni; eppure questa penna pare in tutto e per tutto la stessa di prima. Per questa ragione già Leibniz aveva distinto diversi tipi di raggruppamenti di proprietà qualificanti un individuo. Egli infatti sembra aver introdotto nella «nozione completa»40 di una sostanza una specie di divisione gerarchica tra un «nucleo», contenente le proprietà più rilevanti, invarianti, da un lato, e una specie di «periferia», contenente le proprietà accidentali, dall’altro, il mutamento delle quali non è compromissivo dell’identità sostanziale. Lo stesso ripropone Hegel qui con la distinzione tra Bestimmung e Beschaffenheit. La prima è la realtà che qualifica la cosa per ciò che essa è: è il suo in-sé (Ansich); la seconda è quella parte della cosa che corrisponde al rapporto ad altro, standone a fondamento. Perciò ogni mutamento che non sia essenziale, che non alteri l’in-sé della cosa, è un mutamento solamente «superficiale», che muta la realtà esteriore della cosa, la sua Beschaffenheit. Eppure, anche quest’ultima è parte della cosa, appunto se e poiché ogni relazione è basata su dei fondamenti interni alla cosa – anche se non tutte le proprietà della cosa sono per essa essenziali. Ogni mutamento è dunque, per Hegel così come per Leibniz, un mutamento intrinseco. Ma non perciò ogni mutamento intrinseco è un mutamento che si potrebbe dire essenziale (appunto se vale la distinzione tra un «nucleo» e una parte più esteriore della cosa). La distinzione tra i due livelli dell’interna realtà del qualcosa è da Hegel delineata molto chiaramente già nella prima redazione: la determinazione costitutiva costituisce l’essere-in-sé del qualcosa. Ma la determinatezza [scil. il qualcosa nella sua interezza] non è solamente essere-in-sé, bensì in quanto limite è anche esser-per-altro […]. La de-

Ho trattato il tema, relativamente alla logica e alla metafisica di Leibniz, in un intervento compreso in un volume miscellaneo, curato dal prof. L. Perissinotto e da me, di prossima pubblicazione. 40 La «nozione completa» di un individuo è l’insieme di tutte le proprietà vere di esso. 39

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terminatezza è anzitutto indifferenza di contro ad altro, e l’altro cade fuori del qualcosa. Ma al contempo, in quanto il limite appartiene al qualcosa stesso, questo ha l’esser-altro in sé. La determinatezza è in questo modo l’esteriore esserci del qualcosa, che certamente è il suo essere, ma che non appartiene al suo essere-in-sé. Così la determinatezza è disposizione [Beschaffenheit]. (WL IA, p. 8011-20)

Hegel prosegue proprio facendo riferimento al fatto che il qualcosa non è solamente «in sé essente» (ib.), ma anche compreso (begriffen) in un «influsso e rapporto esteriore» (ib.). Eppure, come si diceva, anche per Hegel non si danno «denominazioni puramente estrinseche», cosicché quest’influsso esteriore investe sì la realtà del qualcosa, il «suo essere», ma senza intaccare suo «essere-in-sé». Ne investe non la determinazione costitutiva, ma la disposizione: «il rapporto esteriore, da cui dipende la disposizione [Beschaffenheit], e il venir determinati da un altro appaiono come qualcosa di accidentale, poiché appaiono come un che di altro, di esteriore. Ma il qualcosa consiste in ciò, nell’essere consegnato a quest’esteriorità e nell’avere una disposizione» (ib.). L’esteriorità, ovvero il rapporto con altro – e innanzitutto il generico rapporto di alterità – non cadono fuori dell’essere della cosa, ma fan parte della realtà dell’ente. La redazione berlinese aggiunge alle nozioni di determinazione costitutiva e di disposizione alcune importanti precisazioni, su cui si farà ritorno; resta nondimeno confermato il loro significato: la qualità, che è l’in sé nel semplice qualcosa […] si può chiamare determinazione costitutiva [Bestimmung], distinguendola così dalla determinatezza in generale. La determinazione costitutiva è la determinatezza affermativa, come l’essere in sé, a cui il qualcosa nel suo esserci contro il suo intreccio con altro, da cui verrebbe determinato, riman conforme, mantenendosi nella sua eguaglianza con sé, e facendola valere nel suo esser per altro. (SL p. 120; WL I, p. 118-9).

Per tornare all’esempio della mia penna: tutte le sue proprietà intrinseche, che non mutano se io la sposto e cui perciò la penna «riman conforme», fan parte della sua determinazione costitutiva. Invece ciò che è «estrinseco esserci del qualcosa, che è anche un suo esserci, ma non appartiene però al suo essere in sé» (ivi, p. 122; WL I, p. 11937-8), ne è la «disposizione [Beschaffenheit]». Pertanto, la determinazione di luogo in cui poggio la penna fa sì parte di quest’ultima, giacché «è anche un suo esserci» – non essendoci «determinazioni puramente esteriori» –, ma «non appartiene però al suo esser in sé». Che Hegel condivida l’impianto concettuale di questo modo di trattare le relazioni si evince da numerose affermazioni indirette41.

41 La distinzione tra i due «strati» dell’ente – il suo in-sé e il suo esser-per-altro, la sua determinazione costitutiva e la sua disposizione – trova conferma nell’avversione di Hegel alla tesi di Kant che cento talleri reali e cento talleri possibili siano identici quanto al contenuto (cfr. SL p. 74 ss.; WL I, p. 76 ss.). Per Hegel i talleri reali differiscono intrinsecamente da quelli possibili, ma non perché l’esistenza sia per lui un predicato reale, una quidditas, bensì perché i talleri reali a differenza di quelli possibili intrattengono delle relazioni con altri enti – p. es. di contiguità spaziale –, e ciò li modifica internamente (la relazione essendo fondata su proprietà, queste sì reali). È vero che tale alterazione riguarda solamente la disposizione e non già il «nucleo» dell’ente; ma nondimeno modifica il qualcosa rispetto a ciò che esso è nella sua pura possibilità. Afferma Hegel: «quando si presuppone un [..] qualche determinato esistere, questo esistere, es-

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Sulla base di queste nuove determinazioni concettuali, Hegel tratta del mutamento del qualcosa, della sua Veränderung. La quale è dunque un mutamento accidentale, poiché – come afferma Hegel in entrambe le redazioni, pur con qualche differenza – «in quanto qualcosa si muta, il mutamento cade nella disposizione; essa è nel qualcosa quello che diventa un altro. Il qualcosa stesso si conserva nel mutamento, che colpisce soltanto questa instabile superficie del suo esser altro, e non la sua determinazione costitutiva» (SL p. 122; WL I, p. 1208-12). Nella redazione di Norimberga si legge che «il qualcosa si conserva nella modificazione della sua disposizione; [...] è la disposizione del qualcosa, la quale è mutamento» (WL IA, p. 846-7). Quel che Hegel sembra affermare, dunque, è che il mutamento è una variazione delle proprietà accidentali del qualcosa – o forse solo di quelle che fungono da fondamento alle relazioni. È opportuno notare che Hegel specifica qui il divenire nella forma del mutamento, giacché ora il divenire non avviene più tra essere e nulla ancora astratti42, né tra essere e nulla determinati (tra l’essere e il nulla di qualcosa) come quando qualcosa comincia o cessa di essere nella sua interessa. Si tratta piuttosto del divenire tra determinatezze: è l’aristotelico divenire qualcosa da qualcosa, il diventare qualcos’altro da parte di qualcosa.. Hegel lo precisa in entrambe le redazioni. Nella seconda si legge: il qualcosa [...] è in sé anche divenire, però un divenire che non ha più per suoi momenti soltanto l’essere e il nulla. L’uno di questi, l’essere, è ora esserci, e per di più esserci che è. Il secondo è anch’esso un esserci che è, ma determinato come negativo del qualcosa, è un altro. Il qualcosa come divenire è un passare [Übergehen], i cui momenti sono essi stessi dei qualcosa, un passare quindi, che è mutamento [Veränderung] (un divenire diventato già concreto). (SL pp. 111-2; WL I, p. 11118-25)43

Poc’anzi s’è detto che la caratterizzazione del divenire come mutamento che investe la disposizione dell’ente pare corrispondere al divenire accidentale; eppure il divenire – specificato come il mutarsi dell’ente da qualcosa a qualcos’altro – non è affatto accidentale per Hegel, bensì è radicato nella finitezza dell’ente, ovvero nel suo avere un

sendo determinato, sta in una semplice relazione verso un altro contenuto. Per quell’esistere non è allora indifferente che un certo altro contenuto, con cui sta in relazione, sia o non sia, perocché solo per via di tal relazione esso è essenzialmente quello che è» (ib.). A questo proposito Hegel, dopo avere affermato la sua tesi che «un essere determinato [..] è un essere che si riferisce ad altro; è un contenuto che sta in rapporto di necessità con un altro contenuto, col mondo intiero» (ivi, p. 74), richiama la veduta della metafisica razionalistica che «se venisse distrutto un granello di polvere, rovinerebbe l’intero universo» (ib.). (Si tratta di un riferimento indiretto a Leibniz: cfr. il rilievo, questa volta critico, in LSF III, 2, p. 202). 42 Cfr. WL IA, pp. 82-3, in cui Hegel distingue tra «gli astratti momenti dell’essere e del nulla» in cui si scinde il divenire, e quelli che invece costituiscono quel che trapassa (das Übergehende) e che sono essi stessi delle unità di essere e nulla, come l’esserci. 43 Nelle Lezioni berlinesi sulla logica (1831) si leggono utili precisazioni intorno alla differenza tra divenire e cambiare (Werden vs. Veränderung): il divenire è il convertirsi di essere e nulla, secondo le due direzioni del sorgere (venire ad essere) e del perire (cessare di essere) (cfr. VL p. 104), il mutamento è invece un divenire più concreto «poiché nel mutamento c’è già qualcosa che diviene un che di altro. Nel divenire non è affatto contenuto il qualcosa» (VL p. 99). 190

limite, nel suo essere un qualcosa di determinato. Il divenire, ancorché possa essere accidentale, ovvero non modificare sostanzialmente l’ente, non è affatto accidentale nel senso che possa non accadere, che l’ente possa non esserne investito. L’ente in quanto determinato è finito, e dunque mutevole, contingente. Solo l’intelletto astratto che separa l’essere dal nulla, nei vari significati che questi termini hanno assunto fin qui, ritiene che l’ente come tale possa essere immodificabile, imperituro. Solo un’astratta considerazione del costitutivo rapporto tra l’essere e il non-essere del qualcosa reputa che sia un caso, un’evenienza, che il qualcosa si muti, cessi di essere così com’è, o cessi di essere del tutto. Il mutarsi dell’ente, invece, è radicato nel modo più profondo nella struttura dell’ente medesimo, nella sua determinatezza. L’ente è esserci, ovvero essere ma anche non-essere, e perciò diviene altro. Hegel esprime questo pensiero della necessaria contingenza dell’ente in modo molto chiaro, fin dalla prima edizione della Logica, affermando p. es. che in quanto dunque qualcosa nella sua determinatezza è in lui stesso il suo non-essere, ovvero la sua determinatezza è altrettanto l’altro da esso che la determinatezza propria di esso44, è qui perciò posto un divenire, il quale è mutamento. (WL IA, p. 8229-32)

Nella seconda redazione, una prima deduzione del mutamento si trova immediatamente dopo la prima formulazione dell’antinomia dell’esser determinato, quella che si impernia sul doppio ruolo logico del qualcosa di essere sia qualcosa sia altro, e che perciò qualifica il qualcosa come l’«altro di sé stesso». Questa qualificazione conduce al pensiero che il qualcosa sia «quel ch’è in sé assolutamente dissimile, che si nega, quel che si muta» (SL p. 114; WL I, p. 1148-9). Lo sforzo di Hegel è radicare nell’esser altro da sé da parte del qualcosa il suo diventar altro: diventando altro, il qualcosa espone la propria natura (antinomica) di essere appunto l’altro di sé stesso. Il mutarsi del qualcosa è lo sprigionarsi della contraddizione che lo costituisce come ente determinato: diventando altro, esso «va con sé stesso», geht mit sich zusammen, segue la propria natura: [mutandosi, il qualcosa] in pari tempo esso resta identico con sé, poiché quello, in cui si mutava, è l’altro, che non ha verun’altra determinazione oltre a questa di esser altro. Ora quello, che si mutava, non è già determinato in una guisa diversa, ma nella stessa, cioè come altro. Nel suo andar nell’altro non va perciò che con se stesso. (SL p. 114; WL I, p. 1149-14)

È importante rilevare non solo che il qualcosa realizza la propria natura diventando altro da sé; ma anche che in ciò «in pari tempo resta identico con sé», giacché anche l’altro, in cui si muta, è appunto sia un qualcosa a sua volta, sia un che di altro rispetto al primo qualcosa. Hegel propone con ciò una teoria dell’identità che si potrebbe dire ampliata, sovraordinata, perché inclusiva del qualcosa e di quell’altro da esso che è il risultato del suo divenir altro. Nel diventar altro, il qualcosa «resta identico con sé» poiché esso è già in sé l’«altro di sé stesso». Ciò che il qualcosa autenticamente è – per questa teoria hegeliana – non è né il qualcosa che figura all’inizio del divenire (il comincia-

Il passo è invero di difficile traduzione: «Indem [...] seine Bestimmtheit ebensosehr sein Anderes als die seinige ist»; per renderne il senso in italiano, ho sciolto gli aggettivi possessivi ricorrendo a dei complementi di specificazione. 44

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mento), né ciò che esso è divenuto (il risultato), ma appunto l’unità dei due, l’intero diventar altro da sé parte del qualcosa, comprensivo di inizio e risultato. Con altro gergo si potrebbe dire che Hegel sposta il baricentro dell’ontologia dall’identità dei termini del processo, all’identità del processo che li investe. È solo mediante il «diventar altro» che qualcosa realizza la propria natura di «esser altro» già in sé. Questo diventar altro è un rapporto negativo, essendo che il primo qualcosa non è immediatamente il secondo: diventar altro significa infatti non restare ciò che inizialmente si è. Il risultato di questo mutamento, afferma Hegel apertis verbis, «non ha verun’altra determinazione oltre a questa di esser altro». Questo rapporto di alterità è il fatto che l’inizio non è il risultato; che perciò l’uno è negazione dell’altro, che l’uno è negazione del suo negativo. Diventando altro, il qualcosa sprigiona il rapporto della doppia negazione che lo costituisce – quel rapporto che si era detto riflessivo ante litteram. Dopo aver detto che il qualcosa diventando altro va con sé stesso, Hegel afferma: esso [scil. il qualcosa] è posto così come un che di riflesso in sé insieme col togliersi dell’esser altro, come un qualcosa identico con sé, da cui perciò l’esser altro, che è in pari tempo un suo momento, è un che di diverso, che non gli compete in quanto qualcosa. (SL p. 114; WL I, p. 11414-18)

Il qualcosa è posto «come un qualcosa identico con sé» divenendo altro45, appunto perché la sua natura è essenzialmente contingente; e questa natura è tale perché la determinatezza dell’ente è essenzialmente una struttura antinomica, è autonegazione. Si trova conferma di ciò poche pagine dopo, quanto Hegel insiste sul tema della finitezza dell’ente. Quando delle cose diciamo che son finite, con ciò s’intende non solo che hanno una determinatezza, che non solo hanno la qualità come realtà e determinazione che è in sé, non solo son limitate, così da

Che per Hegel il qualcosa realizzi l’identità con sé divenendo altro è una tesi sostenuta da E. SEVERINO (1995), le cui pagine costituiscono certo il riferimento delle presenti analisi. Egli la chiama, in modo pregnante, «autoproduzione dell’identità». Mi pare che il passo poc’anzi riferito sia un ulteriore avvaloramento della tesi di Severino. Tuttavia, per Severino, non è data in Hegel alcuna ragione per cui il qualcosa dovrebbe diventare il suo altro. Severino infatti conviene con quel che Hegel afferma nell’Introduzione alla Grande logica (cfr. SL p. 36) ovvero che è una tautologia che un risultato sia il risultato di un cominciamento; ma non è affatto una tautologia – obbietta Severino – che un qualcosa sia come tale un cominciamento ovvero si produca come l’altro da sé, sprigioni un divenire. Anzi, che qualcosa sia un cominciamento vuol dire che il qualcosa diviene altro; e quando qualcosa è divenuto altro, il qualcosa è (in senso identificativo) quest’altro da sé, e ciò è la negazione di ogni identità con sé, di ogni tautologia. Perciò, che qualcosa divenga altro da sé è del tutto impossibile, ragiona Severino. Perciò Hegel, nonostante le apparenze di deduzione del divenire, lo presuppone, come aveva fatto Aristotele. Qui invece si sono cercate le ragioni del diventar altro da sé da parte dell’ente nella necessità che la determinatezza di esso sia ciò per cui esso è in sé stesso «l’altro di sé stesso» e realizzi quest’alterità divenendo altro. Il fulcro dell’identità è per Severino l’esser sé stessi e non altro; ma proprio questa struttura si rivela, secondo l’interpretazione delle analisi hegeliane qui sostenuta, una struttura antinomica; proprio l’esser-sé-stessi si rivela essere, concretamente inteso, come l’esser sé e l’altro da sé. 45

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avere poi un esserci fuor del lor limite, – ma che anzi la lor natura, il loro essere, è costituito dal non essere. Le cose finite sono, ma la lor relazione a se stesse è che si riferiscono a se stesse come negative, che appunto in questa relazione a sé si mandano al di là di se stesse, al di la del loro essere [über sich, über ihr Sein hinauszuschicken]. Esse sono, ma la verità di questo essere è la loro fine. (SL p. 128; WL I, pp. 125-6)

Hegel dunque esplicita la determinatezza come finitezza, come rapporto negativo, oltre che verso altro, anche e perciò stesso verso sé. Per questa ragione esse «si mandano al di là di se stesse, al di là del loro essere». Infatti nel seguito la finitezza viene esplicitata in termini di divenire, di cessare di essere, da parte di quel che è (e che perciò è finito): il finito non solo si muta, come il qualcosa in generale, ma perisce [vergeht]; e non è già soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l’essere delle cose finite, come tale, sta nell’avere per loro esser dentro di sé [Insichsein] il germe del perire: l’ora della loro nascita è l’ora della lor morte. (SL p. 128; WL I, p. 1266-12)

Con ciò Hegel ha affermato chiaramente che il divenire è per l’ente una necessità. Nelle annotazioni dell’Enciclopedia si legge: noi sappiamo che ogni finito, invece di essere un termine fisso e ultimo, è piuttosto mutevole e transeunte, e questo non è altro che la dialettica del finito, mediante la quale il finito, in quanto in sé è l’altro da sé, viene spinto anche oltre quello che è immediatamente. (E § 81, agg., p. 252)

Poco oltre, nei paragrafi corrispondenti alle sezioni della Grande logica dianzi considerati, si legge daccapo che il limite è contraddizione e che questa importa la contingenza dell’ente, il suo dover diventare altro da sé, sprigionando la sua interna antinomia: se consideriamo [...] ciò che costituisce il limite, troviamo che il limite contiene in sé una contraddizione, e quindi risulta essere dialettico. Da un lato il limite infatti costituisce la realtà dell’essere determinato, ma dall’altro ne è la negazione. (E § 92, agg., p. 274; W 8.197) Viene espressa così in generale la natura del finito che, come qualcosa, non sta semplicemente di fronte all’altro in modo indifferente, ma è in sé l’altro di se stesso, e perciò muta. Nel mutamento si mostra l’interna contraddizione che lo spinge al di là di sé. (ivi, pp. 274-5)

Dopo aver ricordato che la rappresentazione, ovvero la concezione ingenua delle cose, dominata dalla logica astratta dell’intelletto, concepisce «l’essere determinato come semplicemente positivo e, al tempo stesso, come qualcosa che permane quietamente nell’ambito del proprio limite» (ivi, p. 275) – laddove il limite è la negazione che costituisce qualcosa «respingendo via» l’altro da essa –, Hegel soggiunge: sappiamo però che ogni finito (e l’essere determinato è finito) è soggetto al mutamento. Soltanto dal punto di vista della rappresentazione questa mutabilità dell’essere determinato appare come una semplice possibilità, la cui realizzazione non è fondata nell’essere determinato stesso. Ma in effetti il concetto stesso di essere determinato comporta che l’essere determinato muti, ed il mutamento è soltanto la manifestazione di ciò che l’essere determinato è in sé. (ivi, p. 275; W 8.198)46

Nelle Lezioni sulla logica del 1831 si trova un passo in cui è espresso il medesimo concetto, ricorrendo alle peculiarità della terminologia tedesca: «finito, dunque mutevole [endlich, damit veränderlich]; “-evole” [‘lich’] sembra far cenno solamente ad una possibilità, ma il mutamento 46

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Si tratta di affermazioni chiarissime, riportate in nota al paragrafo dai curatori dell’edizione ottocentesca ad integrazione del testo di sicuro pugno hegeliano. 5.10 Essere e contingenza «[O]gni finito è soggetto al mutamento», ha affermato Hegel, giacché «il concetto stesso di essere determinato comporta che l’essere determinato muti», ovverosia «il mutamento è soltanto la manifestazione di ciò che l’essere determinato è in sé». La contingenza dell’ente, la possibilità che l’ente non sia, o divenga altro, è connaturata all’ente medesimo. È connaturata al limite del determinato, ossia al rapporto negativo per il quale un qualcosa non è un’altra cosa, ma la «respinge via da sé». Il qualcosa è così determinato per l’immanenza47 del negativo in esso; in tal modo gli compete «l’inquietudine [...] nel suo limite, in cui è immanente, di essere la contraddizione, che lo spinge oltre se stesso» (SL p. 127; WL I, p. 12426-28). Hegel in più luoghi caratterizza gli enti come contingenti. Intendo qui la contingenza in senso ampio (alla luce delle considerazioni esposte all’inizio) riguardante tanto il divenire sostanziale, il fatto che qualcosa cessi di essere, quanto quello accidentale, il fatto che qualcosa si muti. In ogni caso, infatti, si deve dire che o la cosa come tale o una sua determinazione accidentale contingenti. E contingente, nel secondo caso, è la cosa in quanto era così determinata. Che qualcosa sia contingente, si produca come «l’altro di se stesso», ovvero in generale divenga altro, giusta la sua struttura contraddittoria, non vuol dire che il qualcosa non sia affatto. Anzi, come si è veduto poc’anzi, «le cose finite sono», ovvero esistono – ha affermato Hegel, con un sorprendente uso del verbo essere, impiegato per indicare in questo caso il punto fermo dell’esistenza. Eppure «il contingente» è «un’esistenza che può non essere allo stesso modo che è» (E § 6). Ciò non vuol dire che una cosa sia e non sia al contempo: questo, piuttosto, è il caso del divenire di una cosa, giacché essa, divenendo (nell’atto del divenire), diviene l’altro da sé, e perciò in quel divenire è e non è, è e non è sé stessa – riproducendo quel tipo di situazione contraddittoria cui alludeva Platone nel Parmenide a proposito dell’«istante». Ma, a parte la fase effettiva del mutamento, le cose finite ci sono, esistono; e tuttavia, anche mentre sono, sono contingenti, ovvero in esse è insita la possibilità di non essere. «[L]e cose finite sono mutevoli e passeggere, e cioè [...] l’esistenza è connessa con esse soltanto in modo transitorio e [...] questa connessione non è eterna, ma solubile» (E § 193). Altrove si legge significativamente che «l’essere delle cose esterne [...] è un’apparenza contingente,

appartiene anche così al loro [scil. delle cose] essere in sé» (VL p. 113). 47 Cfr. SL pp. 123-4; WL I, p. 121, in cui Hegel menziona più volte il fatto che la negazione è «immanente» al qualcosa. Perciò, «il qualcosa si riferisce così di per se stesso all’altro, perché l’esser altro è posto in lui come suo proprio momento; il suo esser dentro di sé comprende in sé la negazione mediante la quale esso ha [...] il suo affermativo esserci» (SL p. 124; WL I, p. 121). 194

transeunte – [...] la loro essenza consiste nell’avere soltanto un’esistenza separabile dal loro concetto, dalla loro essenza» (E § 76). Hegel insiste sulla definizione di contingenza come possibilità che il legame di qualcosa con la sua esistenza si possa sciogliere. Nel far ciò, si basa anche su delle analisi linguistiche dei modi con cui si indica la contingenza. «[C]he il mondo sia contingente [zufällig], implica che è qualcosa di soltanto caduco [ein Fallendes], fenomenico, in sé e per sé nullo» (E § 50). Relativamente all’aspetto della fenomenicità del contingente, va detto anzitutto che essa è intesa da Hegel in senso ontologico, non gnoseologico. Lo precisa lo stesso Hegel, richiamandosi al fenomenismo kantiano. Egli conviene con Kant sulla semplice enunciazione che «gli oggetti di cui abbiamo un sapere immediato sono semplici fenomeni» (E § 45, agg., p. 202), ovvero «non hanno il fondamento del loro essere in se stessi, ma in altro» (ib.). Ma si tratta di intendere che cosa davvero voglia dire fenomeno; qui Hegel prende le distanze dall’intera filosofia kantiana: «secondo la filosofia kantiana le cose che sono oggetto del nostro sapere sono fenomeni soltanto per noi, e il loro in sé rimane per noi un al di là inaccessibile» (ib.). Questa di Kant è la concezione gnoseologica del fenomeno, per il quale l’intuizione immediata del mondo sensibile non è la conoscenza delle cose in sé stesse, ma «qualcosa di soltanto nostro» (ib.). Hegel invece pensa che le cose siano fenomeni non tanto per noi, per la conoscenza che ne abbiamo, bensì in sé stesse, a parte rei: le cose sono in sé stesse fenomeni, appunto perché finite e contingenti: «il rapporto in verità è questo: le cose di cui abbiamo un sapere immediato sono semplici fenomeni non soltanto per noi, ma in sé, e la determinazione propria delle cose per cui sono finite è l’avere il fondamento del loro essere non in se stesse» (ib.). Che il finito non sia saldamente essere, ma invece parvenza o fenomeno, è un tema che Hegel riprende in più luoghi. In un’appendice alle Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio, dedicata alla critica kantiana alla prova cosmologica, si legge che il senso dell’affermazione (propugnata dalla rappresentazione e dalla filosofia dell’intelletto): «il finito è, in senso affermativo» (LPD pp. 188-9; W 17.443), va ridimensionato in quello per cui «se si può dire che esso [scil. il finito] esiste, ciò vuol dire solamente che la sua esistenza è solo parvenza [Erscheinung, fenomeno]» (ib.). Per questa ragione – ovvero per il fatto che l’essere delle cose finite è essenzialmente instabile, contingente – Hegel avversa la forma sillogistica conferita alla prova dell’esistenza di Dio che si basa sull’esistenza del mondo contingente, indebitamente assunto come salda premessa del ragionamento. Piuttosto, il contingente è «un non-essere, solamente parvenza» (LPD p. 126; W 17.464). Relativamente alla nozione di contingenza, essa vuol dire, s’è visto, che quel che è contingente, zufällig, è ciò che è ma che può non essere, non essendoci alcun nesso inscindibile tra la cosa e la sua esistenza. Secondo Hegel, è la stessa parola Zufälligkeit, in tedesco usata per significare la contingenza (oltre che casualità), ad esprimere, nel suo etimo, questo concetto dell’instabilità del nesso della cosa con l’esistenza, poiché essa indica il cader giù dall’esistere. Zufall, infatti, da cui deriva Zufälligkeit, è una parola composta dalla preposizione zu unita al verbo fallen che significa cadere, ed è costruita come un calco sulla parola latina accidens. Quest’ultima infatti, a sua volta, è il participio presente del verbo accidĕUH, composto da ad e da cado e che significa cadere addosso, cader giù. 195

Il tedesco, dunque – ma anche il latino, e pure l’italiano con la parola caduco – presenta la nozione di contingenza con una parola il cui etimo e la cui connotazione sono indicative del concetto che per esse viene significato, ovvero di ciò che è legato all’esistenza in modo accidentale, transitorio, dal momento che può cader giù (dall’essere). Hegel lo ribadisce significativamente anche altrove, p. es. nelle Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio. Qui a più riprese insiste sul significato etimologico della Zufälligkeit, affermando, a proposito della possibilità di connotare quel che è finito come ciò che è contingente, che la finità, accolta in quella determinazione del pensiero [scil. la contingenza, la Zufälligkeit], acquista il vantaggio di essere, per così dire, preparata, così che essa indica in se stessa il passaggio nella sua verità: la necessità; già il nome di contingenza [Zufälligkeit] – accidentalità – esprime l’essere determinato in modo che la sua determinatezza è di cadere [zufallen]. (LPD p. 106; W 17.420)

Lo stesso viene ribadito poco oltre, in modo pregnante e a più riprese, insistendo su questi aspetti linguistici. Le cose singole [...] in quanto sono contingenti [als zufällige], sono destinate a cadere [zu fallen], in modo che ciò non accade ad esse a sua volta accidentalmente [zufälligerweise], bensì in modo da costituire la loro natura. (LPD p. 108; W 17.448)48 Il contingente [das Zufallige], il finito, viene espresso come un essere esistente; ma la determinazione del contingente è piuttosto di avere un fine, essere caduco [zu fallen, di cadere giù], avere solo il valore di una possibilità, che può essere come non essere. (LPD p. 125; W 17.463)

La contingenza dell’ente non è affatto a sua volta qualcosa di contingente per l’ente medesimo, ma una sua necessità, la sua natura. Le cose divengono in quanto sono determinate, limitate, finite. «La determinazione, la natura del finito, è di passare, di non essere – cosicché il finito stesso non può essere affatto pensato e rappresentato senza la determinazione del non essere, che sta nel passare» (LPD p. 141; W 17.478). Concepita metaforicamente secondo l’etimo di Zufälligkeit, la contingenza è la possibilità di «cader giù» (o la destinazione a «cader giù») dall’essere col quale la cosa è unita solo accidentalmente ovvero non inscindibilmente; ed è anche la possibilità che la cosa ancora inesistente si unisca con l’essere, divenga essente, e venga dunque sorretta dall’essere. L’essere è come un piano da cui le cose possono cadere o su cui le cose possono sopravvenire49. 5.11 Dottrina dell’essenza: dall’ontologia alla logica Dopo aver considerato le analisi di Hegel relative alle determinazioni ontologiche, si può passare ora all’esame di quelle logiche, benché la distinzione tra i due ambiti – dottrina dell’essere e dottrina dell’essenza – non sia poi così netta come forse l’impianto sistematico hegeliano vorrebbe: già nella sfera dell’essere appena considera-

Mi sono qui significativamente discostato dalla traduzione di G. Borruso. E. SEVERINO (1980, cap. V, 2, p. 145 ss.) rinviene nella tesi aristotelica della declinazione temporale del verbo, nella ptosis appunto, la caduta della determinazione dall’essere. 48 49

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ta era presente, in nuce, la struttura relazionale dell’ente, detta da Hegel stesso riflessiva (benché ante litteram). Inoltre, già s’era parlato sia dell’identità dell’ente con sé, sia, soprattutto, dell’esser-altro che è lo stesso che l’esser-diverso – laddove però identità e diversità, propriamente, sono determinazioni riflessive, di pertinenza della dottrina dell’essenza. D’altra parte, per converso, in quest’ultima farà la sua ricomparsa la figura della determinatezza, ovvero dell’ente concretamente concepito quale unità di realtà e negazione, di esser-in-sé ed esser-per-altro, ovverosia quale esser-dentro-di-sé, sotto le spoglie della figura dell’esser-autonomamente-sussistente, della Selbständigkeit. Peraltro, che vi sia una stretta corrispondenza, quasi una omologia, tra le prime figure delle dottrine dell’essere e dell’essenza è un fatto non soltanto riscontrabile sulla base della lettura e dell’interpretazione del testo, ma anche affermato dallo stesso Hegel, in più luoghi. Per es. nell’Enciclopedia significativamente si legge che nello sviluppo dell’essenza [...] si ripresentano le stesse determinazioni che si sono trovate nello sviluppo dell’ essere, ma in forma riflessa. Così al posto delle forme dell’essere e del nulla intervengono qui le forme del positivo e del negativo, l’uno corrispondente dapprima all’essere privo di opposizioni come identità, l’altro sviluppato (apparendo in sé) come distinzione; così, inoltre, il divenire come fondamento, subito dopo, dell’essere determinato che, come riflesso sul fondamento, è esistenza e così via. (E § 114)50

Nel testo della Grande logica Hegel indica anche la corrispondenza tra la figura dell’infinito e quella della contraddizione51. In generale, c’è una tale affinità tra le figure che compaiono nelle due sfere dell’essere e dell’essenza (tra le prime perlomeno) che c’è da chiedersi per quale ragione questi ambiti vengano separati così nettamente. Non è qui possibile investigare – per ragioni di spazio anzitutto, ma anche perché ciò esula dalle presenti indagini – i rapporti che intercorrono tra la «sfera dell’essere» e quella dell’«essenza»; né le ragioni che hanno indotto Hegel a distinguere la prima dalla seconda, e in particolare a collocare la trattazione delle determinazioni logiche, le «leggi del pensiero» (principi di identità, non-contraddizione, terzo escluso, ecc.) – le quali nelle opere jenesi facevano parte della «metafisica», ovvero del «sistema della ragione» –, nella dottrina dell’essenza anzi che di seguito a quelle ontologiche che abbiamo trattato sin qui. Quel che importa, piuttosto, è stabilire la ragione della differenza tra le determinazioni dell’essere e le corrispondenti dell’essenza. A ciò s’è in parte già accennato: le determinazioni dell’essere hanno esse stesse la struttura dell’esserci – ovvero, in generale, si rapportano le une con le altre come ad altro da sé. Certamente, esse sono essenzialmente connesse le une con le altre; ma nella maggior parte dei casi questo rapporto non è espresso nel significato delle nozioni

50 In un passo della dottrina dell’essere Hegel esplicitamente accosta la realtà al positivo e la negazione al negativo, pur precisando le differenze tra queste figure omologhe: «la negazione sta immediatamente di contro alla realtà. Più oltre, nella sfera vera e propria delle determinazioni riflesse, essa verrà contrapposta al positivo, che è la realtà come riflettentesi nella negazione, – la realtà in cui appare quel negativo, che nella realtà come tale rimane ancora celato» (SL p. 109; WL I, p. 10834-39). Cfr. anche E § 115 agg. 51 Cfr. SL p. 491.

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stesse, nella loro quiddità, si potrebbe dire. A dire il vero, questo sembra valere in generale, ma non per tutti i casi, dal momento che Hegel stesso ha p. es. qualificato, come si ricorderà, le nozioni di esser-in-sé ed esser-per-altro come intrinsecamente relazionali (nella prima redazione come determinazioni riflessive)52, distinguendole proprio per questo dalle nozioni di qualcosa e altro. Comunque, a parte tali casi isolati, è la struttura dell’esserci a costituire la matrice delle nozioni della dottrina dell’essere. Le determinazioni dell’essere cadono le une fuori dalle altre quanto al loro significato esplicito, pur essendo invece essenzialmente connesse – così come lo sono, d’altra parte, tutte le determinazioni della logica (altrimenti non ci sarebbe proprio alcun «andamento irresistibile»). Le determinazioni dell’essenza, invece, hanno il peculiare carattere di essere riflessive, ovvero in sé stesse relazionali: esse perciò appaiono le une nelle altre, giacché, per via della loro intrinseca relazionalità, in ciascuna di esse c’è il rimando all’altra. Afferma chiaramente Hegel, ancora una volta nell’Enciclopedia che «nell’essenza le determinazioni sono soltanto relative» (E § 112), e che in generale l’essenza, la cui struttura è la matrice di tutte le determinazioni che l’innervano, «è relazione a sé stessa, soltanto in quanto è relazione ad altro» (ib.). L’idea che una certa determinazione non soltanto abbia una relazione ad altro, ma la esprima in sé non è un’assoluta novità. Nozioni come quella di padre o di figlio, di sopra o di sotto includono l’una il riferimento all’altra, e sono ciò che la tradizione chiamava determinazioni correlative, e che la logica contemporanea chiama il rapporto tra una relazione e la sua inversa. Ma non si tratta solo di questo. Quel che pare rilevante è che con le determinazioni dell’essenza il riferimento all’altro da sé – e in particolare a ciò che per esse è essenziale – non cada fuori da esse stesse, bensì sia in certo modo parte della loro realtà positiva. In ciò sta l’innovazione della logica dell’essenza: nel fatto che la struttura delle determinazioni s’è ampliata, estendendosi oltre l’immediatezza positiva della determinazione medesima, oltre il fatto ch’essa è una certa determinazione e non un’altra. Una determinazione dell’essenza non è solo un qualcosa, al modo di un esserci, ma è una determinazione ch’è strutturata in modo più complesso, definendo sé stessa attraverso un rapporto essenziale ad altro. Questo rapporto essenziale, costitutivo per la determinatezza e che essa esprime in sé, è la struttura riflessiva. La differenza tra la struttura logica delle determinazioni delle due sfere (essere e essenza), determina anche l’andamento con cui si procede entro ciascuna di esse. Nella sfera dell’essere l’avanzamento logico era un passare ad altro; in quella dell’essenza è un apparire in altro. Traccia efficacemente i caratteri dei due ambiti lo stesso Hegel, in una nota aggiunta al testo dell’Enciclopedia: nell’essenza [...] c’è soltanto relazione. La forma della relazione nell’essere è soltanto come nostra riflessione; invece nell’essenza la relazione è la sua determinazione propria. Se (nella sfera dell’essere) il qualcosa diventa altro, con ciò stesso il qualcosa è scomparso. Nell’essenza invece le cose non stanno così; qui non abbiamo alcun vero altro, ma soltanto diversità, relazione dell’uno al suo altro. Il passare dell’essenza non è dunque un passare, perché nel passare del diverso, il diverso non scompare, ma i

52

Cfr. supra p. 176. 198

diversi rimangono nella loro relazione. [...] Nella sfera dell’essere la relazionalità è posta soltanto in sé; nell’essenza invece è posta. Questa è in generale la differenza tra la forma dell’essere e la forma dell’essenza. Nell’essere è tutto immediato, nell’essenza tutto è relativo. (E § 111, agg., p. 305; W 8.229)

Con la dottrina dell’essenza, le investigazioni ontologiche di Hegel ripartono dunque daccapo, dall’immediatezza della riflessione – anzi che dall’immediato essere. Non si tratta però di una semplice ripetizione del cammino già percorso, ma della ripresa dell’intera questione dell’essere alla luce della sua struttura non più immediata ma riflessa. 5.12 La riflessione e le sue determinazioni Facciamo un passo indietro, tornando alla questione che ci ha spinti sin qui. Hegel pensa che il divenire e il tempo siano contraddizione, identificazione di opposti, essere e non-essere. Lo pensa anche quando il divenire è declinato quale modificazione accidentale di qualcosa. Egli non segue la via di Platone e di Aristotele, e dell’intera tradizione metafisica, cercando di spiegare il divenire senza che questo sia contraddizione. Al contrario, il divenire di Hegel infrange il divieto di Parmenide che l’essere non sia e non possa diventare non-essere. Lo stesso Hegel riconosce che il principio di Parmenide porta al panteismo, alla negazione di ogni divenire. Per via di questa situazione, ci si era interrogati su quale sia per Hegel il significato o il senso dell’essere, tale per cui l’essere, l’ente, può diventare il suo opposto, il non-essere, il niente. Le indagini appena concluse hanno cercato di trovare una risposta a questa domanda investigando la dottrina dell’essere e illustrando la concezione hegeliana dell’essere dell’ente. Ora ci si appresta a considerare che cosa sia per Hegel l’identità dell’ente con sé. Analogamente al caso dell’essere – il quale è anzitutto l’essere dell’ente, ovvero l’essere determinato, semantizzato in un’inscindibile unione di essere e non-essere, realtà e negazione –, si vedrà qui che pure l’identità è determinata, ovvero è l’identità di qualcosa solo nella misura in cui non è pura identità, ma identità rispetto ad una non-identità. E analogamente all’intreccio di essere e di non-essere considerato in precedenza, si vedrà che anche qui il rapporto di identità e non-identità si svilupperà in un’antinomia, confermando sul piano logico che l’ente, l’identità dell’ente, lungi da essere ciò che respinge da sé ogni non-identità, è negazione di sé, è una struttura antinomica che sprigiona la contraddizione dell’identico come il divenire l’altro da sé. Sulla posizione hegeliana intorno all’identità e alla sua negazione si farà ritorno tra breve. È ora necessaria una breve illustrazione della nozione di riflessione, che della trattazione hegeliana delle leggi logiche costituisce la premessa fondamentale. 5.13 Essenza e riflessione La nozione di riflessione è strettamente connessa a quella di essenza. «La verità dell’essere è l’essenza» (SL 433; WL II, p. 3), afferma Hegel all’esordio del secondo libro della logica; e ciò vuol dire, tra le molte cose, che l’intero essere è ora semantizzato nei termini dell’essenza. Qui per «essenza» Hegel intende solo genericamente le determi199

nazioni che tradizionalmente sono dette essere essenziali per le cose, nel senso che fanno di ciascuna cosa ciò che è, al modo delle forme sostanziali aristoteliche. Una tale comprensione è fuorviante, anche se in generale ciò che con la dottrina dell’essenza si ha in vista è un’analisi dell’essere che lo approfondisce, prevedendone una struttura interna. In questo senso, il punto di vista dell’essenza – per come la intende Hegel – è quello per cui l’essere non è qualcosa di immediatamente essente, ma ciò che è un posto, ciò è si dà entro una relazione, e che solo attraverso questa relazione è ciò che è. In ciò forse la nozione hegeliana di essenza si avvicina a quella tradizionale, alla quale Hegel pure fa talora riferimento53: così come per la tradizione un certo essere è ciò che è in quanto ha in sé, entro il proprio essere, una determinazione essenziale che lo rende ciò che è, allo stesso modo per Hegel l’essenza è la struttura attraverso cui l’essere è o c’è. L’essenza non è questa o quell’essenza o forma sostanziale, ma la forma stessa dell’ente, la sua interna struttura. E proprio l’essere dell’ente, il suo esserci, viene ripensato come ciò che è solamente per tramite di una relazione. Vale a dire: l’esserci non ha il significato di ciò che c’è autonomamente; ma di ciò che è il risultato di una mediazione. Hegel lega l’essenza alla riflessione e questa alla negazione54. Si tratta di questioni complesse e discusse, che qui non possono essere approfondite. Basti dire che in queste prime pagine Hegel sembra delineare la genesi della nozione di riflessione proprio attraverso il rapporto che l’essere ha con l’essenza. Questo rapporto sembra sulle prime qualificarsi come quello tra l’essenziale e l’inessenziale, un rapporto per così dire orizzontale tra diversi, come se l’essenziale e l’inessenziale si rapportassero l’un l’altro come un qualcosa e qualcos’altro. Invece quei termini sono affatto correlativi, sicché non corrisponde alla natura di essi e del loro rapporto l’idea che l’essere venga relegato al ruolo dell’inessenziale, per tenere in vista il ruolo dell’essenza come l’essenziale. Quel che davvero rende l’essenza l’essenziale e l’essere l’inessenziale è il loro rapporto: è esso ciò che è veramente essenziale, perché sormontando i suoi termini e costituendo il ruolo dell’uno e dell’altro. Perciò non c’è essenza che non sia essenza dell’essere, e viceversa. Questo rapporto ingloba l’uno e l’altra, ed è esso il vero senso dell’essenza, che si configura come l’apparire dell’inessenziale, dell’essere, per l’essenza, e viceversa. Riassuntivamente Hegel afferma nell’Enciclopedia: «se questo [scil. l’essere] viene preso separatamente dall’essenza, si chiama l’inessenziale. Ma l’essenza è essere-in-sé, è essenziale, soltanto in quanto ha in sé stessa il negativo di sé, la relazione-ad-altro, la mediazione. L’essenza ha quindi in sé l’inessenziale come sua propria apparenza» (E § 114).

53 Cfr. E § 112, agg., p. 308 – là dove Hegel parla di ciò che riunisce sotto di sé una moltitudine, impiegando le espressioni della lingua tedesca Postwesen, Zeitungswesen, ecc. che indicano appunto l’insieme delle cose attinenti le poste, i giornali, ecc. 54 La letteratura sull’argomento è cospicua; tra i molti riferimenti, menziono il classico contributo di D. HENRICH (1978), W. JAESCHKE (1978), H. RADERMACHER (1983), Ch. IBER (1990), A. ARND (1994), nonché i recenti, estesi commentari, forniti di ampi riferimenti bibliografici, di G. M. WÖLFLE (1994) e di K. SCHMIDT (1997).

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È ora questo stesso rapporto ad essere la struttura dell’essenza. Esso è costitutivo per i suoi termini al punto che, come si vedrà, in certo modo li precede; Hegel lo definisce come riflessione: l’essenza è riflessione, il movimento del divenire e del passare, che rimane in se stesso, dove il diverso è determinato assolutamente solo come l’in sé negativo, come parvenza. – Nel divenire dell’essere la determinatezza ha per base l’essere, ed è relazione ad altro. Il movimento riflessivo al contrario è l’altro come la negazione in sé che ha un essere solo come negazione che si riferisce a sé. (SL p. 444; WL II, pp. 13-4)

Quel che precedentemente in un certo senso appariva accadere fuori dell’essere, dall’esserci – il rapporto negativo tra un ente e l’altro –, pur costituendo la determinatezza dell’ente, è ora invece il fondamento, la base costituente l’essere medesimo: la verità dell’essere è l’essenza, e l’essenza è riflessione. La riflessione è un rapporto negativo, ovvero un rapporto che da un lato lega qualcosa a qualcos’altro, ma che dall’altro, essendo negativo, si scioglie, nega sé stesso, si applica a sé stesso. Lega ma al contempo, per sua propria natura, s’interrompe, tornando al punto d’inizio, ripristinando l’inizio. Perciò questo rapporto ha natura riflessiva: torna indietro. Hegel chiarisce questa nozione in un’aggiunta all’Enciclopedia: il punto di vista dell’essenza è, in generale, il punto di vista della riflessione. La parola riflessione viene anzitutto usata a proposito della luce, in quanto la luce nella sua propagazione rettilinea incontra uno specchio e ne viene riflessa. Abbiamo così un raddoppio; una prima volta c’è un immediato, un essente, e una seconda volta c’è lo stesso immediato come mediato, posto. (E § 112, agg., p. 307)

Secondo quest’analogia si deve intendere la natura dell’essere: l’ente è ciò che è non per una sua presunta positività per sé stante, scissa da ogni altra cosa, ma appunto attraverso il rapporto di determinazione, che lega l’ente ad altro «respingendo via» questo altro, appunto perché altro. Il rapporto di determinazione è questo «respinger via», ovvero un rapporto negativo. Esso ha allora per così dire due lati: il primo è connettere qualcosa ad altro; il secondo è scindere al contempo il qualcosa dal suo altro, appunto perché solo per questa scissione, separazione, qualcosa è non l’altro da sé, ma sé stesso. È solo attraverso questi due lati che si costituisce il qualcosa come appunto qualcosa di determinato. Questi due lati sono dunque i due aspetti della negazione: connettere ma anche respingere, ovvero negare la connessione stessa, e, attraverso questa negazione, restituire o costituire la determinatezza della cosa, dell’ente. Con ciò si focalizza, secondo Hegel, il senso della doppia negazione o negazione della negazione, che è negazione di sé, e che attraverso ciò produce il riferimento a sé. Solo che appunto questo riferimento a sé – l’esser sé dell’essente – non è un che di immediato, ma è il risultato del toglimento del riferimento all’altro, è il negativo del negativo. Si comprende allora in che senso «il movimento riflessivo [...] è l’altro come la negazione in sé che ha un essere solo come negazione che si riferisce a sé». Prosegue Hegel affermando che «in quanto questo riferimento a sé è appunto questo negare della negazione, si ha la negazione come negazione, come quello che ha l’essere suo nel suo esser negato [...]. L’altro non è dunque qui l’essere colla negazione o limite, ma la negazione colla negazione» (SL p. 444; WL II, p. 14). È vero che Hegel sottolinea la differenza tra la nozione del negativo quale si presenta qui nella dottrina dell’essenza e il negativo inteso come il limite costituente la determinatezza, presente nella dottrina dell’essere. Ma si tratta di un differente modo, 201

viepiù approfondito ed adeguato, di comprendere la determinatezza dell’ente, nella dottrina dell’essere pensata come limite del qualcosa, negazione giustapposta alla realtà; e nella dottrina dell’essenza appunto come negazione come negazione. È importante comprendere che ora, a differenza che nella dottrina dell’essere, non c’è più alcuna priorità dell’essere sul non-essere, ovvero del qualcosa rispetto al suo altro. Non è che dapprima ci sia qualcosa, un positivo essere, e che accanto ci sia un che di altro, negazione del precedente qualcosa. Certo, anche nella logica dell’essere il qualcosa era stato delineato come negazione della negazione, ovvero in modo riflessivo ante litteram, secondo quanto lo stesso Hegel aveva indicato. Inoltre, anche nella logica dell’essere, il non-essere, la negazione si erano mostrati essere immanenti al qualcosa. Ora però la priorità dell’elemento negativo, della relazione negativa che distingue essere e non-essere, è assoluta. La prima battuta non è più il qualcosa, l’esserci, ma il «non». Non s’inizia dall’esserci per mettere in luce in esso l’immanenza del negativo, bensì dal negativo stesso come ciò onde l’ente è costituito. È perciò il negativo ad essere davvero il fondamento: «il primo [...] rispetto a questo altro, l’immediato o l’essere, è solo questa eguaglianza con se stessa delle negazione con sé, la negazione negata, la negatività assoluta» (ib.). Mi pare che questo passo voglia dire quanto segue: quella di «altro» è una nozione e una denominazione relativa, che qualifica qualcosa per il fatto di non essere un cert’altro qualcosa. Attraverso questa relazione, si è rimandati ad un primo qualcosa, rispetto a cui quel che viene designato come «altro» è altro, cosicché quel primo qualcosa sembra essere un che di primo, l’immediato. Ma non è questa per Hegel l’immediatezza della riflessione. L’immediato, rispetto a ciò che è posto come un che di altro, e dunque in modo relativo, non è un qualcosa che funga da base cui riferirsi negativamente (un certo x rispetto a cui l’altro è il non-x), ma la negazione stessa. Non si tratta insomma del negativo di qualcosa, il quale qualcosa sarebbe una specie di sostrato cui si applica la negazione, precedendola; ma della negazione in quanto tale, considerata in entrambi i suoi lati di connettere e di respingere. Non si dà un qualcosa – il che vuol dire: un essere – che possa essere considerato dapprima come qualcosa, e poi anche negativamente, come altro rispetto ad altro, se preso secondo questo rispetto. Non c’è nessun qualcosa che preceda (in tutto questo discorso l’anteriorità è logica) «il movimento della riflessione» ovvero la struttura della negazione che si applica a sé stessa, negando il negativo. «Non vi è cioè un altro; né un altro da cui essa [scil. la riflessione] ritorni, né un altro in cui ritorni» (SL p. 446; WL II, p. 164-5). Hegel l’afferma chiaramente anche rilevando che mentre nella sfera dell’essere la negazione si applica come ad un sostrato preesistente, invece nella logica dell’essenza il primato è della negazione medesima: nella sfera dell’essere, l’esser determinato o essere era l’essere che aveva in lui la negazione, e l’essere era l’immediato terreno ed elemento di questa negazione, la quale era quindi essa stessa immediata. All’esser determinato o esserci corrisponde nella sfera dell’essenza l’esser posto. Questo è anch’esso un esser determinato, ma il terreno suo è l’esser come essenza, o come pura negatività. (SL p. 451; WL II, p. 2119-25)

Il prius, se mai ce ne dev’essere uno, è il negarsi della negazione, è il «non» che unisce separando, o separa unendo. Solo attraverso il «non» si costituiscono le determina202

tezze positive, essenti, le quali sono dunque, come si vedrà tra breve, dei risultati del movimento logico riflessivo, non un primo immediato. 5.14 Momenti della riflessione La riflessione è un’articolazione logica complessa, che si scandisce in più momenti: la riflessione è anzitutto ponente, in quanto per essa qualcosa vien posto, ossia è affermato come termine di una relazione – negativa, nella fattispecie. Ma con ciò è anche presupponente; giacché si pone qualcosa come ciò che non è un certo altro qualcosa, solo presupponendo appunto un cert’altro termine come dato. D’altra parte, ciò non è neppure possibile, poiché significherebbe che sarebbe già dato qualcosa antecedentemente, al di fuori del rapporto negativo e riflessivo. Invece, questo è l’essenza dell’essere, non c’è niente che lo preceda: come si è detto, non c’è nulla di precostituito che sia già lì e che funga da termine su cui la relazione riflessiva e negativa si imperni. Questa piuttosto è la visione della riflessione esterna, che considera appunto il rapporto negativo come qualcosa che s’aggiunge, sopravviene sulle realtà delle cose, anzi che costituirle. Il senso per cui invece qualcosa è presupposto è che il qualcosa appare come presupposto solo alla conclusione del momento riflessivo: è perché il rapporto negativo costituisce le determinatezze, che esse appaiono come i termini del rapporto, non viceversa. Hegel esprime quest’idea facendo certo delle forzature linguistiche. In un capitolo successivo, dedicato al fondamento, Hegel accenna alla struttura della riflessione affermando ch’essa è «la pura mediazione in generale» (SL p. 497; WL II, p. 661), e poi spiega che «la mediazione pura è soltanto puro riferimento, senza i riferiti [die reine Vermittlung ist nur reine Beziehung, ohne Bezogene]» (ib.). A dire il vero, non sembra avere molto senso parlare di puro riferimento senza i riferiti, di relazione senza relata, giacché una relazione è proprio ciò che vige o può vigere tra dei termini. Certo, si può considerare una relazione in sé, ma si tratta di un’astrazione: per quanto si considerino astrattamente le relazioni «maggiore di» o «geloso di», indipendentemente da ogni esempio che le realizzi, esse non cessano di presupporre dei relata, anche se di fatto potrebbero non venire mai realizzate. La forma relazionale resta sempre xRy. Il fatto è che la relazione della riflessione è la relazione costitutiva dei relata, dell’ente come tale. È la relazione negativa attraverso cui qualcosa è posto come altro da altro. E sia il qualcosa che il suo altro sono costituiti mediante questa negazione: l’altro è dato mediante essa, così come il qualcosa. Perciò non c’è nulla che preesista alla relazione della riflessione. È questo allora il significato dell’espressione per cui la riflessione è una relazione senza relata: questi non sono già dati, se non per tramite di essa. In questo senso Hegel attua un profondo rivolgimento entro l’ontologia: il qualcosa è anzitutto non-essere, prima ancora che essere – appunto stante la priorità dell’essenza, della negazione. Hegel giunge a definire l’essere in termini di non-essere, di nulla, nel senso di «altro». Lo ripete più volte, questo passaggio: l’essenza, oltre che essere una relazione senza relata, nel senso che si è detto, è «il movimento dal nulla al nulla, e così il movimento di ritorno a se stesso» (SL p. 444; WL II, p. 1414-15). Il movimento è dal nulla al nulla, poiché l’essere è anzitutto definito dal suo rapporto negativo: il qualcosa è il non-qualcos’altro. E ciò vale in modo reciproco: il qualcos’altro è il non-qualcosa. Ogni lato 203

della relazione del «non», del «distinguersi da», è definito mediante la relazione stessa, non ha consistenza fuor di essa e dunque non è se non come il negativo dell’altro. L’intera relazione è dunque una relazione tra termini negativi, tra negazioni. Intatti, «l’altro [il qualcos’altro] [...] non è il non essere di un essere, ma è il nulla di un nulla [das Andere [...] ist nicht das Nichtsein eines Seins, sondern das Nichts eines Nichts]» (ib.), appunto perché nessuno dei relata è, ma è qualificato, costituito come il non-essere (come il nulla) dell’altro. Ora, la negazione costituisce i termini, e, in quanto è un rapporto negativo, li lega l’uno all’altro, ma anche li separa. Perciò da un lato «il riferimento del negativo a se stesso è dunque il suo ritorno in sé» (SL p. 445), e dall’altro «questo, di esser la negazione di un nulla, è ciò che costituisce l’essere [die Negation eines Nichts zu sein, macht das Sein aus]. – L’essere è solo come il movimento dal nulla al nulla, ed è così essenza» (SL p. 444; WL II, p. 1419-20). Guadagnando il punto di vista che entrambi i lati della relazione, il qualcosa e il qualcos’altro, sono posti dalla relazione, si guadagna il punto di vista della riflessione determinante, che è il momento conclusivo dell’articolazione della riflessione. La riflessione s’è allora scandita in ponente, presupponente – e dunque esterna –, e poi determinante, costituendo l’impalcatura generale entro cui è considerato l’essere: come essenza appunto, ovvero come ciò che viene posto per tramite di un rapporto negativo che si flette (zurückbeugt) e che ritorna all’inizio: [L]a determinatezza riflessiva […] non è come una essente, quieta determinatezza, che venga riferita a un altro, così che il riferito e il suo riferimento sian diversi uno dall’altro, e quello sia un essente in se stesso, un qualcosa che esclude da sé il suo altro e il riferimento a questo altro. [...] La determinazione riflessiva al contrario ha ripreso in sé il suo esser altro. Essa è esser posto, negazione, che però ricurva [zurückbeugt] a sé la sua reazione ad altro, ed è negazione che è eguale a se stessa, negazione che è unità di se stessa e del suo altro. (SL pp. 453-4; WL II, p. 23-4)55

I momenti attraverso cui si scandisce il movimento della riflessione sono per Hegel le determinazioni di essa. Queste sono le nozioni logiche dell’identità, della differenza, della diversità (eguaglianza e disuguaglianza), dell’opposizione e della contraddizione. Ciascuna di queste nozioni esprime una determinazione o un momento del rapporto della riflessione; perciò Hegel le ha chiamate essenzialità o determinazioni della riflessione. 5.15 Le determinazioni della riflessione La domanda che ci si era precedentemente posti era che cosa siano per Hegel l’essere, l’ente, dal momento che il divenire per lui è la reale conversione dell’essere nel nulla e del nulla nell’essere. Una prima risposta è fornita nella dottrina dell’essere; ma

Pregnante anche questo passo: «Questa eguaglianza con sé o immediatezza non è quindi un primo da cui si cominci e che passi nella sua negazione, né è un essente substrato che si muova attraverso la riflessione, ma l’immediatezza è solo questo movimento stesso» (SL p. 444; WL II, p. 149-13). 55

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poi Hegel mostra che la domanda va convertita nella domanda su che cosa sia l’identità dell’ente56. La risposta a questa seconda domanda ha sempre destato sorpresa, poiché consiste nell’affermazione che l’identità da ultimo è contraddizione, giacché la contraddizione emerge dal seno dell’identità: «la contraddizione [...] non è che lo sviluppo di quel nulla che è contenuto nell’identità e che si affaccia nell’espressione che il principio di identità non dice nulla» (SL p. 490; WL II, p. 5935-38). Il «nulla» contenuto nell’identità è il nulla della «vuota tautologia» A = A, la quale appunto non dice nulla. D’altra parte, Hegel ha sempre caratterizzato – negli scritti precedenti e pure qui nella Grande logica, come s’è veduto in precedenza –, il principio di contraddizione come la forma negativa di quello dell’identità. «A=A [...] [è] espressione della vuota tautologia» (SL p. 459; WL II, p. 2920-21), del quale «l’altra forma [...] A non può essere insieme A e non-A, ha una forma negativa; si chiama il principio di contraddizione» (ivi, p. 463; WL II, p. 3231-33)57. Affermare una contraddizione è quindi negare l’identità. Perciò, affermare che l’identità è contraddizione, significa – proprio nei termini hegeliani – affermare che l’identità è negazione dell’identità, che l’identità nega sé stessa. Con questa presa di posizione Hegel si dispone frontalmente rispetto all’intera tradizione filosofica. Per il pensiero tradizionale la contraddizione può essere tutt’al più solo formulata: in verità, in realtà, non c’è. Il contenuto di una contraddizione è nulla, nihil negativum irrepraesentabile – ribadiva ancora Kant, come si ricorderà. Secondo Hegel, invece, «che la contraddizione non sia una determinazione altrettanto essenziale ed immanente quanto l’identità» (SL p. 490; WL II, p. 60) «è uno dei pregiudizii fondamentali della vecchia logica e dell’ordinaria rappresentazione» (ib.). Piuttosto, «quando si dovesse parlare di un ordine di precedenza e si dovesser tener ferme le due determinazioni [scil. identità e contraddizione] come separate, bisognerebbe prendere la contraddizione come la più profonda e la più essenziale» (ib.). La contraddizione è creduta dal sano intelletto, quello che regge la «metafisica di una volta», come «un’accidentalità, quasi un’anomalia e un transitorio parossismo morboso» (ivi, p. 491; WL II, p. 6022-24) – afferma Hegel con un linguaggio insolitamente icastico. «Si afferma che non v’è nulla di contraddittorio» (ib.), ovvero che nel mondo non esistono cose contraddittorie – che non ci sono cerchi quadrati, insomma. La contraddizione, al più, per questa posizione che Hegel sta tratteggiando, è solamente qualcosa che sta nella mente di chi la pensa; anzi, che non può nemmeno venire pensata, «perché il contraddittorio, si dice, non si può né rappresentare né pensare» (ib.; WL II, p. 6020-21). Non è difficile individuare quale possa essere l’obbiettivo polemico di Hegel, nonostante non ci siano riferimenti diretti. Certo, in generale egli avversa l’intelletto, inte-

L. LUGARINI (1998) ha interpretato le diverse «sfere» o «dottrine» della Scienza della logica come differenti «orizzonti di comprensione dell’essere» entro cui la domanda aristotelica che cos’è l’essere? viene posta e riformulata, ottenendo volta a volta differenti e più articolate risposte. 57 Cfr. supra p. 117 e ivi, nota 71. 56

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so come quel tipo di pensiero che rifugge la contraddizione, che ha per essa una specie di Horror58 e che ritiene che essa non ci sia né possa esserci, se non come maldestra formulazione linguistica. L’ironia di Hegel si estende certamente anche a tutto il pensiero filosofico che diligentemente ha fatto della non-contraddizione il proprio punto fermo. Ma non è fuori luogo qui ricordare, ancora una volta, la posizione di Aristotele il quale nel quarto libro di Metafisica non soltanto reputa il principio di non contraddizione il più saldo di tutti, quello intorno al quale non è possibile trovarsi in errore, difendendolo dai negatori col celebre elenchos; ma pure afferma che della contraddizione non può autenticamente darsi pensiero. In quel contesto infatti lo Stagirita richiama la posizione dei sostenitori delle contraddizioni, i quali sono convinti che «sia possibile credere che la stessa cosa sia e non sia, come alcuni ritengono abbia detto Eraclito» (Metaf. 1005 b 23 ss.). A costoro Aristotele ribatte con ironia, accusandoli di parlare a vanvera, di non saper davvero che cosa dicono: «non è necessario credere tutto ciò che si dice» (Metaf. 1005 b 25-27), appunto perché le contraddizioni possono al più venir dette, ma mai autenticamente credute, pensate. Il loro contenuto non c’è né nella realtà né come contenuto di un’immagine mentale (quale invece potrebbe essere nel caso dell’ircocervo). Infatti, ragiona Aristotele, una convinzione determina la mente di chi la possiede come un’affezione, cosicché chi avesse delle convinzioni contrarie, l’una negazione dell’altra, sarebbe affetto da determinazioni opposte. Ma poiché è impossibile che ad una stessa cosa convengano determinazioni opposte, allora è anche impossibile che qualcuno – un soggetto pensante, una mente – sia convito di una cosa e anche del suo contrario59. Il ragionamento di Aristotele è stato a lungo discusso, relativamente alla sua portata: se voglia dire che mai nessuno può avere convinzioni in conflitto tra di loro, o se invece voglia dire che sia impossibile averne solo nel caso in cui tali convinzioni siano manifestamente in conflitto, ovvero quando la persona sia consapevole del fatto che le sue convinzioni sono in contraddizione l’una con l’altra. Non importa qui approfondire il tema60; certo, la posizione di Aristotele sembra poter essere il bersaglio privilegiato dell’ironia di Hegel. Rispetto alle posizioni dell’intelletto, quella di Hegel è diametralmente opposta. Egli afferma, riferendosi alla possibilità di esprimere le determinazioni logiche in forma di proposizioni assolutamente generali – che hanno per soggetto l’essere, il tutto –, quanto segue: se ora le prime determinazioni riflessive, l’identità, la diversità e l’opposizione vennero formulate in una proposizione, a più forte ragione si dovrebbe raccogliere in una proposizione quella determinazione in cui esse trapassano come nella lor verità, cioè la contraddizione. Si dovrebbe dunque dire: Tutte

Cfr. SL p. 494; WL II, p. 6315. «Se i contrari non possono appartenere insieme ad una stessa cosa [...] e se l’opinione contraria ad un’opinione è l’opinione del contraddittorio, è manifestamente impossibile che una stessa persona creda insieme che una stessa cosa è e non è. Infatti chi si sbagliasse su ciò avrebbe insieme opinioni contrarie» (Metaf. 1005 b 25 ss.) 60 La questione è discussa con competenza e rigore da M. MIGNUCCI (1996). 58 59

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le cose sono in se stesse contraddittorie, e ciò propriamente nel senso che questa proposizione esprima anzi, in confronto con le altre, la verità e l’essenza delle cose. (SL p. 490; WL II, p. 5928-35)

Si tratta effettivamente di una posizione sorprendente. Gli interpreti hanno assunto di fronte a ciò varie posizioni. Alcuni pensano che il concetto hegeliano di contraddizione non sia propriamente logico; in questo caso, la presa di posizione di Hegel non minaccia il millenario pensiero della non-contraddizione. Altri per contro affermano che al fondo ci sia un grosso equivoco, e che Hegel, nonostante l’ambiguità e l’enfasi di certe sue espressioni, confermi tutto sommato il nucleo della posizione di Aristotele. Infatti, la contraddizione in Hegel riguarderebbe solo le concezioni astratte, inadeguate delle leggi logiche e dell’identità; ma l’ultima parola, anche del pensiero dialettico, è per la non-contraddizione. Hegel cioè non penserebbe davvero che tutte le cose siano in sé stesse contraddittorie, ma che lo siano solamente quelle finite – ovvero, secondo quest’interpretazione, le cose in quanto vengono concepite in modo finito, inadeguato. Qualsiasi ragionamento per assurdo passa attraverso una contraddizione, ma appunto la respinge, dichiarando la falsità di essa e di almeno una delle premesse ond’è derivata. Ciò vorrebbe dire, però, che entro lo sguardo infinito non si danno contraddizioni, e cioè che l’ultima parola di Hegel sulla contraddizione è la stessa della «metafisica di una volta», anche se i ragionamenti che stanno alle spalle dell’una e dell’altra sono molto diversi. Altri interpreti ancora sembrano aver assunto una posizione intermedia: Hegel non vuole propriamente affermare che un uomo è una nave trireme, ma neppure consentire con la metafisica dell’incontraddittorio per cui la contraddizione non c’è, è nihil negativum. Piuttosto, egli spinge il pensiero, le determinazioni categoriali, a dei paradossi, in particolare per il fatto che le determinazioni della riflessione, come e più dei generi sommi del Sofista, si applicano le une alle altre e dunque anche a sé stesse. La teoria di Hegel della contraddizione non sarebbe allora così distante dai paradossi logicisemantici in cui si era imbattuto il logicismo del secolo trascorso61.

La letteratura sul tema della contraddizione in Hegel è forse non vastissima, ma certamente ampia. Tra i numerosi scritti, cfr. A. KUHLENKAMPFF (1970), A. SARLEMIJN (1971, part. pp. 81 ss.), il volume collettaneo E. BERTI (a cura di) (1977) che racchiude numerosi interessanti interventi, tra cui R. MILAN (1977), inoltre S. LANDUCCI (1978), E. SEVERINO (1978, pp. 36 ss.), E. BERTI (1980) e (1987, pp. 177 ss.), H. KIMMERLE (1979) e (1986), F. CHIEREGHIN (1981) e (2001), ripresi poi in (2004, pp. 73 ss.), K. DÜSING (1976, pp. 213 ss.) e (1984), M. WOLFF (1981) e (1986), K.-H. ILTING (1982), I. S. NARSKI (1986), V. HÖSLE (1988, p. 161 ss.), V. VITIELLO (1994, part. pp. 37 ss.), A. ARND (1994, pp. 194 ss., part. pp. 209 ss.), D. WANDSCHNEIDER (1991), (1995, part. p. 103 ss.) con ampia bibliografia, nonché L. LUGARINI (1996) e (1998, pp. 277 ss.). Tra gli interventi più recenti, S.-J. KANG (1999) e A. BELLAN (2002, part. cap. IV), Di singolare interesse R. HEISS (1932), su cui richiama opportunamente l’attenzione Hösle, indicando in esso uno studio che confronta la teoria del metodo dialettico, e dunque la contraddizione hegeliana, col problema dell’autoriferimento venuto in luce coi paradossi del logicismo. 61

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Dalle analisi e dai ragionamenti pregressi è chiaro che la lettura che io qui perseguo della Logica di Hegel, anche e soprattutto di questa sezione dedicata alle determinazioni della riflessione, mira a considerare schiettamente logiche (e ontologiche) le nozioni hegeliane di identità e di contraddizione, e a mostrare che l’ultima parola di Hegel in merito non sia l’identità, in concordia con la metafisica di una volta, ma la negazione dell’identità e cioè, anche secondo i termini hegeliani, la contraddizione. Resta da tracciare il cammino con cui l’identità nega sé stessa. 5.16 L’identità L’identità per Hegel è lo stesso che l’intera riflessione, nella sua generalità. La riflessione infatti è il rapporto negativo che lega qualcosa ad altro, ma che, essendo negativo, si toglie, respinge l’altro62. L’identità è qui definita proprio come il risultato del respinger via l’altro, di negare il negativo63: «l’esser altro e la relazione ad altro è scomparsa assolutamente in se stessa nella pura eguaglianza con sé. L’essenza è dunque semplice identità con sé» (SL p. 457). Soggiunge Hegel che «quest’identità con sé è l’immediatezza della riflessione» (SL p. 457), e che essa non è quell’uguaglianza con sé che è l’essere o anche il nulla, ma è l’uguaglianza con sé che, come quella che si stabilisce quale unità, non è un ristabilirsi movendo da altro, ma è questo puro stabilire movendo da sé e in se stesso, l’identità essenziale. (ib.; WL II, p. 2712-16)

L’idea che viene affermata è la differenza tra la mera eguaglianza e l’identità essenziale. Anche l’uguaglianza è una relazione; ma è una relazione che qualcosa avrebbe con sé stesso, senza coinvolgere null’altro. In tal modo, l’eguaglianza trascura che il qualcosa essendo sé stesso è essenzialmente costituito dal rapporto negativo rispetto ad altro; essa non esprime in alcun modo questo rapporto. Invece l’identità di cui si parla qui è l’esser sé che risulta (costituito) dalla negazione dell’esser altro; e dunque è una struttura complessa che lega essenzialmente esser-altro ed esser-sé. Secondo Hegel, la semplice eguaglianza è un’astrazione dall’identità essenziale: è infatti sì possibile esprimere l’eguaglianza di qualcosa con sé, nella nota formula A = A, ma questa è l’eguaglianza

62 Questi due lati del rapporto negativo sono appunto ciò per cui in Hegel si parla del «negativo del negativo» e di doppia negazione, talora con eccessiva insistenza da parte degli interpreti. Non è che ci sia dapprima una negazione ma poi ne sopraggiunga un’altra, chissà poi come e perché, del tutto eguale alla precedente e capace di scalzare quest’ultima. La negazione è in verità una e unica; essa è il «non» che separa, distingue, come anche Hegel afferma: «è essenziale di afferrare la differenza assoluta come semplice. Nella differenza assoluta, l’uno dall’altro, di A e non-A è il semplice Non quello che come tale costituisce la differenza» (SL p. 464; WL II, pp. 33-4), e che quindi, proprio perché separa, nega, scinde la connessione che pure stabilisce separando. 63 Anche in quest’espressione: «negare il negativo» pare ci sia appunto un raddoppiamento della negazione. Ma si tratta appunto dei due momenti della negazione, la quale è da un lato rapporto ad altro, ma dall’altro in ciò stesso esclusione dell’altro.

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di qualcosa di determinato solo se è già costituito il qualcosa come tale. L’eguaglianza, cioè, secondo questa teoria di Hegel, presuppone l’identità essenziale; per sé sola, non è in grado di stabilire l’identità di qualcosa, ma coincide con l’indeterminatezza del vuoto essere o del vuoto nulla. Certo, nel semplice risultato eguaglianza – o identità astratta64 – e identità essenziale coincidono, almeno apparentemente. Infatti, parrebbe che se qualcosa risulta dalla negazione della negazione, quel che resta di un tale procedimento negativo sia semplicemente il qualcosa, la sua realtà, il suo mero esser sé ovvero l’eguaglianza. Ma la negazione (e il negarsi di essa) non è qualcosa di superfluo rispetto al qualcosa, al suo esser sé, bensì di essenziale. Come s’è detto, non c’è nulla di identico che non lo sia per il procedimento negativo, il quale sì si toglie ovvero «rovina immediatamente in se stesso» (SL p. 458), ma non nel senso che è come se non ci fosse mai stato, bensì nel senso che si piega, si flette, e attraverso ciò pone l’ente nella sua identità. Hegel insiste in più luoghi sull’idea che «il semplice essere, eguale a se stesso» (SL p. 447, WL II, p. 171) sia, nonostante tutto, non il semplice esser-sé – come sarebbe in base alla presunta semplice relazione di eguaglianza A=A –, bensì «il ritorno in sé [Rückkehr in sich], il giungere dell’essenza presso di sé [das Ankommen des Wesen bei sich]» (ib.; WL II, pp. 16-7). L’esser sé è un risultato; l’ente non è, ma vien posto. «L’esser determinato è soltanto esser posto; questa è la proposizione dell’essenza dell’esser determinato» (SL p. 451; WL II, p. 212628). Si potrebbe dire che questo è il principio (Satz), l’essenza, dell’esser determinato. 5.17 Dall’identità alla differenza (e viceversa) Hegel indica il passaggio dall’identità alla differenza con tre argomenti. Il primo appare quasi un’analisi della nozione di identità. Se questa è l’identità essenziale, ovvero definita in termini di «negazione», di rapporto che costituisce un qualcosa legandolo all’altro in modo negativo, allora è del tutto ovvio che in tale nozione sia contenuta la differenza. Questa viene così dedotta ex terminis. Anzi, a ben vedere la differenza è alla base della stessa identità, giacché l’identità è il risultato del togliersi della differenza, perché questa è intesa come il rapportare negativo che respinge via il negativo: il distinguere è il porre il non essere come non essere dell’altro. Ma il non essere dell’altro è il togliersi dell’altro e quindi dello stesso distinguere. Così però si ha qui il distinguere come negatività riferentesi a sé, come un non essere che è il non essere di se stesso, un non essere che ha il suo non essere non in un altro, ma in se stesso. Si ha dunque la differenza riferentesi a sé, ossia la differenza pura, assoluta. (SL p. 459; WL II, p. 2827-36)

L’altro argomento con cui Hegel passa dall’identità alla differenza ricorda la dottrina dei generi sommi del Sofista. Anche chi si attiene all’identità astratta e afferma che l’identità è l’identità e nient’altro, nondimeno deve in ciò stesso ammettere che l’identità è diversa da ciò che le è diverso (p. es. dalla differenza), così come che la diffe-

64

Cfr. SL p. 458; WL II, p. 2730 e passim. 209

renza è la differenza e non l’identità. «La differenza è però identica con sé in quanto è non l’identità, ma un’assoluta non identità. La non identità però è assoluta, in quanto non contien nulla del suo altro, ma solo se stessa, vale a dire, in quanto è assoluta identità con sé» (SL p. 459; WL II, p. 293-7). Quest’argomento sembra voler dire che proprio perché la differenza è differenza e non altro, essa è identica a sé, donde appunto il suo legame necessario con l’identità. Il ragionamento è ripreso poco oltre: coloro che distinguono l’identità dalla differenza e «mettono avanti che l’identità non è la diversità, ma che identità e diversità sono diverse» (ib.), «non vedono che appunto qui dicono già che l’identità è un diverso; poiché dicono che l’identità sia diversa dalla diversità» (ivi, pp. 459-60; WL II, p. 29). Un altro argomento, forse meno cogente, è il seguente: se si considera la differenza non di qualcosa da qualcosa, ma in sé stessa, allora si ha una specie di trasformazione della relazione di differenza in una proprietà: il differire in sé stesso. Questo proprio per sua natura si applica a sé medesimo, differendo così da sé. Ne risulta la differenza dalla differenza, ovvero l’identità: la differenza in sé è la differenza che si riferisce a sé stessa e così essa è la negatività di se stessa, la differenza non da un altro, ma di se da se stessa; non è lei stessa ma il suo altro. Ma il differente dalla differenza è l’identità. (SL p. 464; WL II, p. 4320-24)

Lo schema di quest’argomento sembra ricalcare quello impiegato nella dottrina dell’essere, laddove Hegel trattava la figura dell’essere l’altro di sé stesso da parte del qualcosa65 per il fatto che ogni qualcosa è pure un che di altro rispetto al suo altro. In ogni caso, l’argomento sembra incardinato da un lato nel considerare la relazione di alterità o diversità in modo assoluto, come un predicato semplice, e dall’altro poi (e conseguentemente, secondo Hegel) nell’autopredicazione di questo predicato, donde appunto il rovesciamento del diverso nell’identico. In questo secondo passaggio la diversità sembra tornare ad essere una relazione66. Si tratta di un’argomentazione complessa quanto discutibile. In ogni caso, da questa relazione di diversità che unisce identità e diversità – riprendendo la dottrina dei generi sommi – Hegel trae delle conclusioni alquanto paradossali, che egli altrove attribuisce anche a Platone, ma che difficilmente Platone avrebbe condiviso. Su ciò si farà ritorno tra breve. 5.18 Identità e differenza come determinazioni sintetiche L’autentica determinazione presente è dunque l’unione interna dell’identità e della diversità. Questo rapporto – la cui natura resta ancora da approfondire – è la concezione concreta dell’identità e della diversità, ed è chiamato da Hegel indifferentemente identità o differenza, purché autenticamente concepite. In particolare, l’identità ha «natu-

65 66

Cfr. supra p. 175. Cfr. F. Fronterotta (2004). 210

ra non già semplicemente analitica, ma sintetica» (ivi, p. 463; WL II, p. 339-10), appunto perché è l’identità di un differente. Simmetricamente, ogni differente è tale in quanto identico con sé. Per questa concezione sintetica, «la differenza è dunque se stessa e l’identità. Tutte e due insieme costituiscono la differenza; questa è l’intiero e il suo momento» (SL pp. 464-5; WL II, p. 3429-30). E pure «l’identità è parimenti anch’essa il suo intiero e il suo momento» (ib.). Si può chiamare questo plesso concettuale identitàdifferenza o differenza-identità, per rimarcarne il carattere sintetico. L’identità-differenza, a ben vedere, è una relazione affatto particolare, poiché unisce termini che sono a loro volta relazioni, l’identità e la differenza appunto. Non solo: le relazioni minores che in essa figurano sembrano in certo modo essere lo stesso che la relazione maior. Da un lato infatti l’identità concretamente concepita è lo stesso che la differenza, sì che identità e differenza sono tenute assieme dalla relazione di identità (si ricordi la formula: identità dell’identità e della non-identità). Questa dunque è tanto un relatum della relazione di identità-differenza, quanto questa relazione stessa. Dall’altro lato identità e differenza, pur essendo intrinsecamente legate al punto da essere il medesimo, sono pure distinte, e ciò rende anche la relazione di differenza ch’è rapportata all’identità lo stesso che la relazione maior che l’unisce all’identità. L’identità differenza è un’articolazione concettuale che ha la natura dello speculativo, ovvero del «legame più bello», quello della proporzione in cui ogni termine è sia termine che medio tra gli altri termini67. Sull’intreccio e la reciproca predicazione di identità e differenza, si farà ritorno tra breve. Il secondo aspetto qui indicato – il fatto che l’identità-differenza, giusta la sua natura sintetica, abbia dei momenti diversi, la cui diversità dev’essere esposta, articolata – sembra essere all’origine dell’idea che la sintesi di identità-differenza, secondo Hegel, «si rompe [zerfällt] in lei stessa» (ib.). Ovvero: in quanto l’identità-differenza è appunto un complesso, si scandisce in parti diverse, ciascuna delle quali ha una relativa autonomia. In verità sembra aversi qui, dopo che si era conseguita la struttura concreta, relazionale, dell’identità-differenza, l’intervento della riflessione esterna – quello stesso che pure si era interposto tra la riflessione ponente e quella determinante. Il risultato di questa scissione o scomposizione dell’identità-differenza è la considerazione dei suoi momenti ciascuno per sé, l’uno come diverso dall’altro. Con ciò vengono messi a fuoco non soltanto questi momenti in sé stessi, ma anche il tipo di relazione logica che si produce in questa circostanza, ovvero la semplice diversità (Verschiedenheit), che è diversa dalla differenza (Unterschied), e la cui natura ci si appresta ora a considerare.

Il riferimento è all’intepretazione e ripresa hegeliana (cfr. D p. 80) del passo del Timeo 31 c- 32 a. 67

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5.19 Uguaglianza, disuguaglianza e diversità La riflessione esterna è retta dalla relazione di semplice diversità, in base alla quale qualcosa è eguale a sé e diseguale rispetto ad altro, senza che l’eguaglianza con sé sia rilevante per la disuguaglianza, e viceversa. «I momenti della differenza sono l’identità e la differenza stessa. Essi sono diversi come […] come riferentesi a sé. [...] L’identità non è riferita alla differenza, né la differenza all’identità. In quanto così ciascuno di questi momenti è riferito soltanto a sé, essi non son determinati uno rispetto all’altro» (SL p. 466; WL II, p. 35-6). Non è che ora l’identità e la differenza non siano più in rapporto l’una con l’altra; semplicemente sono in un rapporto di esteriore diversità: da un lato c’è l’identità e dall’altro c’è la differenza. L’identità e la differenza concepite in questo modo vengono definite da Hegel nei termini di eguaglianza e disuguaglianza: questa identità estrinseca è l’uguaglianza, e la differenza estrinseca è l’ineguaglianza. – L’eguaglianza è bensì identità, ma solo come un esser posto, come un’identità che non è in sé e per sé. – In pari maniera l’ineguaglianza è differenza, ma come differenza estrinseca, che non è in sé e per sé la differenza dell’ineguale a se stesso. (SL p. 467; WL II, p. 373-8)

Quel che avviene relativamente alle determinazioni concettuali – alle relazioni – di identità e differenza, che ora come eguaglianza e disuguaglianza sono semplicemente diverse, avviene anche sul piano della loro estensione: le cose sono semplicemente diverse se e poiché l’eguaglianza è semplicemente diversa dall’ineguaglianza. La diversità è la relazione negativa intesa come esterna, tale da non contribuire in alcun modo all’individuazione delle cose. Qualcosa è sé stesso e non un’altra cosa, e questo è tutto, nel senso che l’altro da una certa cosa è per essa niente, niente di rilevante: è appunto solamente altro. Che qualcosa sia eguale o no a un altro qualcosa, ciò non riguarda né l’uno né l’altro di essi; ciascuno è riferito soltanto a sé; è in sé e per sé stesso quello che è; l’identità o non-identità come eguaglianza e ineguaglianza è il riguardo di un terzo, che cade fuori di loro. (ib.; WL II, p. 378-13)

Si tratta della veduta molto tradizionale, di cui s’è parlato in precedenza, per cui la caratterizzazione di qualcosa come il negativo di un’altra cosa risiede solamente nell’atto con cui qualcuno confronta le due cose e le descrive come l’una altra dall’altra; ma in sé, ciascuna di esse è solamente positiva. «Un essere determinato e un altro esser determinato sono posti come tali che cadono uno fuori dall’altro [als auseinaderfallend]» (SL p. 464; WL II, p. 348-9), e lo stesso vale per i concetti – le pure essenzialità – di eguaglianza e disuguaglianza, meramente giustapposte: il pensare che si mantiene nella riflessione esterna [...] ha sempre davanti a sé soltanto l’identità astratta, e fuori di essa ed accanto ad essa ha davanti a sé la differenza. Crede che la ragione non sia che un telaio su cui vengano estrinsecamente uniti e intrecciati fra loro l’ordito, in un certo modo l’identità, e poi la trama, cioè la differenza. (SL p. 458; WL II, p. 2726-34)68

Le cose sono semplicemente quello che sono; siamo noi, con una riflessione esterna ad esse, a pensarle come diverse; ma questa loro diversità «è il riguardo di un terzo» –

68

Cfr. ovviamente SL pp. 465 ss.; WL II, pp. 35 ss. 212

un ente di ragione, si potrebbe persino dire. Non c’è nulla, tra le proprietà di una cosa, da cui derivare il suo «non-essere» altro; questo «non-essere», inteso come «disuguaglianza», cade fuori dall’ente semplicemente eguale a sé. 5.20 Critica della riflessione esterna La posizione della riflessione esterna non è per Hegel sostenibile perché è un’astrazione. Egli però deve dimostrarlo e per fare ciò deve spingere la posizione della riflessione esterna ad ammettere come prioritaria almeno una riflessione interna – o, il che è lo stesso, una relazione interna. Hegel cioè deve mostrare che la posizione della riflessione esterna – imperniata sul rapporto della semplice diversità – non basta a sé stessa; che anche solo per affermare la semplice diversità – ovvero che da un lato c’è qualcosa e che dall’altro c’è qualcos’altro, e che la prima cosa non è la seconda – occorre ben più di essa. Deve ciè mostrare che la diversità è preceduta (logicamente) da altre determinazioni logiche, delle quali essa per sé presa non è allora un’astrazione. Il fatto è che la riflessione esterna si impernia sulla separazione: delle cose, delle determinazioni concettuali, dei rispetti logici. È attraverso questo separare – ovvero attraverso la diversità, il cader fuori dei diversi – che la riflessione esterna respinge efficacemente ogni contraddizione, almeno apparentemente: dove sembra che due determinazioni opposte convergano, là interviene una qualche separazione a impedirne l’unione, facendole cadere l’una fuori dell’altra mediante la distinzione di tempi, rispetti, ecc. La critica di Hegel mira a mostrare che questa teoria non è affatto universale, ma che anzi, all’opposto, proprio nel suo punto nevralgico, ovvero nella separazione dell’identità dalla differenza, essa deve ammettere il suo contrario, la non separazione, la riflessione interna. Compiuto questo passo e fatta quindi breccia nella posizione della riflessione esterna, Hegel prosegue i suoi ragionamenti rovesciando intieramente quest’ultima, secondo la teoria della complementazione, per la quale, quando si tratta di verità speculative, l’affermazione di qualcosa va completata con la negazione, e l’una e l’altra vanno tenute salde, implicandosi a vicenda, dando luogo all’antinomia. Un primo argomento di Hegel contro l’idea che eguaglianza e disuguaglianza siano semplicemente diverse e cadano l’una fuori dell’altra – siano giustapposte, insomma, così come lo sarebbero le cose – si basa sulla dottrina dei generi sommi del Sofista. Il punto di vista della riflessione esterna, infatti, non nega che ci sia l’identità e ci sia la differenza (intese come eguaglianza e disuguaglianza); né nega che l’una sia in rapporto all’altra; semplicemente, ritiene che questo rapporto sia di semplice diversità, ovvero nega che ciò che una cosa non è sia rilevante per ciò che la cosa è. Ora, Hegel per svolgere il suo argomento insiste su una parte di quest’ammissione, ovvero che l’identità è in rapporto con la diversità. Giacché questo rapporto, a ben vedere, è il rapporto di diversità medesimo. Si ha così un plesso concettuale costituito da una relazione, che è la diversità, e da due relata, che sono a loro volta due relazioni: la diversità e l’identità. Si potrebbe anche dire che la diversità, in ciò, è relazione di sé all’identità. Fin qui, come si è detto, giunge la dottrina dei generi sommi. Ma Hegel procede ben oltre: dall’ammissione che «l’identità sia diversa dalla diversità» (SL p. 460; WL II, p. 2929-30) egli conclude che «in quanto si deve in pari tempo conce213

der questo come natura dell’identità, in ciò sta che non già estrinsecamente, ma in lei stessa, nella sua natura, l’identità consiste nell’esser diversa» (ib.; WL II, p. 2930-33). L’argomento è molto sintetico, ma efficace. Esso muove dalla premessa che il riconoscimento che «l’identità sia diversa dalla diversità» comporti il riconoscimento che la diversità costituisce la natura dell’identità. Questa tuttavia non è un’affermazione che possa essere immediatamente concessa. A questo proposito altri ha notato che essa contraddice visibilmente lo spirito della teoria platonica dei generi sommi, per la quale certamente si dà una connessione tra di essi (una koinonia, una partecipazione); ma ciò non vuol dire che l’uno sia l’essenza dell’altro, ne costituisca la natura69. Certo, se la diversità fosse l’essenza o la natura dell’identità, si avrebbe effettivamente che nel medesimo – nella nozione di identità, nella sua quiddità – (ci) sarebbero identità e diversità, ovvero determinazioni opposte. Lo stesso poi dovrebbe valere sul piano ontico: una cosa sarebbe sia identica sia, in ciò stesso, diversa, e dunque da ultimo contraddittoria. Si tratta dunque di capire per quale ragione la diversità dovrebbe costituire la natura dell’identità, ossia, in certo modo, far parte inscindibilmente di essa – anziché esser altro da essa, caderne fuori. L’eguaglianza e la disuguaglianza cadono l’una fuori dell’altra, per come sono concepite dalla riflessione esterna. Certo, le cose sono sia eguali che diseguali; ma sono i rispetti diversi a impedire che al medesimo, ad una stessa cosa, competano determinazioni opposte: le cose infatti sono eguali a sé stesse e diseguali rispetto ad altro. Qui i rispetti, gli in quanto, i lati (Rücksichten, Insoferns, Seiten) tengono separate eguaglianza e disuguaglianza e rimuovono la contraddizione. Solo un pensare ingenuo crederebbe che per il fatto che le cose vengono dette identiche e diverse, esse siano identiche ad altro e diverse da sé. Tutto ciò è, ancora una volta, coerente con la dottrina del Sofista: qualcosa è diverso rispetto ad altro, non a sé; ed è identico rispetto a sé, non ad altro. Eppure, secondo Hegel, questo pensiero è incompiuto. Egli lo espone al seguente modo: nella riflessione fatta aliena a se stessa si mostrano dunque l’eguaglianza e l’ineguaglianza come appunto irrelative l’una all’altra, ed essa le separa, in quanto le riferisce ad uno stesso, col mezzo degli in quanto, dei lati e dei riguardi. I diversi, che sono quell’uno stesso cui vengono riferite così l’eguaglianza come l’ineguaglianza, sono dunque da un lato eguali fra loro, dall’altro lato invece son diseguali. L’uguaglianza si riferisce soltanto a sé, e l’ineguaglianza è anch’essa soltanto ineguaglianza. (SL p. 468; WL II, p. 3728-38)

In particolare, le determinazioni dell’eguaglianza e della disuguaglianza sono riferite alle cose per tramite del confronto operato da un terzo, un soggetto pensante. Due cose possono venire considerate come eguali a sé stesse e diverse l’una dall’altra; oppure come in parte eguali, per una caratteristica comune, e in parte diseguali, per un altro

69 Cfr. K. DÜSING (1976, p. 218 e passim), (2001, pp. 43 ss.), nonché H. KRÄMER (19893, pp. 289 ss.) il quale osserva che la posizione platonica – la quale afferma sì una relazione tra l’identità e la differenza, ma senza che sia «speculativa» ovvero in certo modo identificante (a differenza, va da sé, della posizione hegeliana) – sarebbe giudicata da Hegel «una conseguenza della riflessione estrinseca, e, quindi, come una astrazione dell’intelletto» (ivi, p. 291).

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lato. Così «questo riferimento, il confrontare, va dall’eguaglianza all’ineguaglianza, e da questa a quella avanti e indietro. Ma questo riferimento, avanti e indietro, dell’eguaglianza e ineguaglianza è estrinseco a queste determinazioni stesse [...]. Ciascuna, in questo avvicendamento, si presenta immediatamente per sé» (SL pp. 467-8; WL II, p. 3715-21). Hegel intende mostrare che sia in questa comparazione estrinseca sia nell’estrinseco riferimento degli opposti (l’eguale e il diseguale), tenuti separati dai diversi rispetti o lati del confronto, si deve presupporre ed affermare un’unità interna degli opposti, in cui non interviene più alcuna distinzione di rispetti. Essi allora non cadono l’uno fuori dell’altro. Ma se si giunge a mostrare questo – che l’eguaglianza non è semplicemente tutt’altro dalla disuguaglianza, e che, del pari, l’eguale non è tutt’altro da ciò che gli è altro –, allora sembra che quel passaggio che prima Hegel aveva affermato e sulla cui ammissibilità ci si era interrogati sia invece giustificato: appare cioè vero che proprio in quanto l’identità è diversa dalla diversità, e l’identico è diverso dal suo diverso, questa diversità costituisca la natura dell’identità, e il diverso la natura dell’identico – senz’alcuna distinzione di rispetti. Da qui poi non è difficile procedere verso lo sviluppo di una contraddizione. Per dimostrar ciò, egli si basa sul fatto che, anche ammesso che le cose siano sì eguali e diseguali, ma per rispetti diversi, nondimeno eguaglianza e disuguaglianza, almeno nella comparazione, nel soggetto pensante, vengono concepite come immediatamente connesse, come l’una costituente la natura dell’altra. In caso contrario quelle determinazioni perdono il loro significato e non si può più affermare alcuna diversità (tra cose, concetti, rispetti, ecc.). L’argomento di Hegel s’impernia sul rilievo che l’eguaglianza e l’ineguaglianza – l’identità e la differenza, si potrebbe dire, se non fosse per le distinzioni terminologiche introdotte da Hegel – sono in sé stesse l’una il negativo dell’altra. Ciò costituisce, come afferma Hegel, il loro significato. L’identità non sarebbe l’identità se non fosse il negativo della differenza. Queste due determinazioni, allora, non si comportano come due entità disparate che resterebbero ciò che sono anche se l’altra cessasse di essere. Non si rapportano secondo lo stesso rapporto di diversità che c’è tra me e le cose che mi circondano, tra me e l’aria qui attorno, o tra il sole e la luna70. L’identità è essenzialmente la negazione della differenza – altrimenti non è identità. Certo, si potrebbe rilevare, fin qui non s’è detto nulla che faccia apparire anche il solo barlume della contraddizione, appunto perché s’è dichiarato che l’identità in sé stessa non è il suo opposto, che la differenza non è affatto presente nell’identità quale pre-

70 «La coscienza comune considera i distinti come indifferenti l’uno rispetto all’altro. Si dice per es.: io sono un uomo, ed intorno a me c’è dell’aria, dell’acqua, ci sono degli animali, insomma c’è dell’altro in generale» (E § 119, agg. 1, p. 320). «Quando diciamo: qualcos’altro – anzitutto pensiamo che qualcosa, preso per sé, sia soltanto qualcosa, e che invece la determinazione di essere un altro gli spetti soltanto mediante un considerazione semplicemente esterna. Così ad es. crediamo che la luna, che è altro dal sole, potrebbe anche benissimo essere, se il sole non ci fosse» (E § 119, agg., p. 274).

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sunta natura di essa, ma che al più è presente come negata. Eppure, verosimilmente, nel dire che l’identità in sé stessa non è il suo opposto, che la differenza è posta nell’identità come tolta, non si sta affermando che la diversità è semplicemente tutt’altro dall’identità: in tal caso infatti si ricadrebbe nella posizione di chi pensa che da un lato ci sia la pura identità e dall’altro la differenza, e che esse siano del tutto indifferenti l’una rispetto all’altra (che l’una per l’altra sia niente). Invece, perché identità e differenza abbiano senso, occorre che esse siano internamente legate, ancorché negativamente. Questo è quel che Hegel vuole che gli si conceda, intanto. Infatti, dopo aver tratteggiato il caso per cui l’eguaglianza è tenuta separata dall’ineguaglianza per tramite dei rispetti, egli prosegue obbiettando: ma per via di questa lor reciproca separazione esse non fanno che togliersi. Appunto quel che dovrebbe preservarle dalla contraddizione e dalla dissoluzione, che cioè qualcosa è uguale a un altro sotto un riguardo, e sotto in altro riguardo, diseguale, appunto questo tener l’una fuori dell’altra l’eguaglianza e la disuguaglianza è quel che le distrugge. Poiché ambedue [...] son riferimenti reciproci di esser l’uno quel che non è l’altro; uguale non è diseguale, e diseguale non è eguale; ed entrambi hanno essenzialmente questa relazione e fuor di essa non hanno alcun significato. (SL p. 468; WL II, pp. 37-8)71

La situazione pare la seguente: si conceda pure la struttura della semplice diversità: due cose sono eguali e diseguali, ma per rispetti diversi. Nondimeno, se non già le cose, perlomeno l’eguaglianza e la disuguaglianza, in me che faccio il confronto – o in loro stesse se idealmente considerate –, non possono essere semplicemente diverse, quasi che l’una potesse essere senza l’altra. In tal modo «questo tener l’una fuori dell’altra l’eguaglianza e la disuguaglianza [...] le distrugge»; esse fuor della loro «relazione» «non hanno alcun significato». La loro «relazione» è «unità negativa» (SL p. 469; WL II, p. 3825-26) che «è nel fatto la natura dell’eguaglianza e disuguaglianza stesse» (ib.;WL II p. 3826-27). Quindi, acciocché eguaglianza e ineguaglianza mantengano il loro significato, siano ciò che sono, si deve ammettere che almeno per esse vige il rapporto di riflessione interna – contrariamente all’ipotesi che tutte le determinazioni siano semplicemente diverse, cadano le une fuori dalle altre. 5.21 Opposizione Quel che Hegel ha mostrato, se i suoi argomenti sono validi, è che eguaglianza e disuguaglianza non cadono l’una fuori dell’altra, ma si rapportano l’una all’altra in loro stesse, da loro stesse. Il loro rapporto negativo le costituisce, ne costituisce il significato, la quiddità. Il rapporto di diversità fattosi interno, quale definitorio del significato di qualcosa, è chiamato da Hegel opposizione. La ragione è presto detta: gli opposti sono il positivo e il negativo, i quali sono determinazioni concettuali che esprimono nel loro

Lo stesso ragionamento viene ripreso poco oltre, coll’accento però posto sul fatto che perlomeno nella coscienza di chi effettua una comparazione le determinazioni opposte dell’eguale e del diseguale devono rapportarsi immediatamente, senza più essere separate da distinzioni di lati e rispetti: cfr. SL p. 472; WL II, p. 41. 71

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significato il loro interno rapporto di diversità. Non c’è positivo che non si rapporti e opponga a un negativo e viceversa, mentre pareva che i diversi – le cose che si rapportano solo mediante semplice diversità – potessero benissimo sussistere senza alcun riferimento reciproco. Ma Hegel ha mostrato che la diversità deve da ultimo intendersi come opposizione. Infatti, se e poiché l’eguaglianza si rapporta da sé, secondo un’unità negativa, alla disuguaglianza, allora anche l’eguale si rapporta al diseguale – in ragione di quel parallelismo per cui ciò che avviene sul piano dei concetti vale anche sul piano delle loro estensioni. Ora, poiché la relazione – o, per seguire il lessico hegeliano, la riflessione – è interna, con la figura dell’opposizione s’è ricostituita la sintesi interna dell’identità-differenza che pareva essersi «rotta» – e cioè scomposta, allentata – nel semplice rapporto di diversità. L’eguale si rapporta da sé al diseguale, ancorché negativamente – e viceversa. In tal modo ciascuno è sé stesso solo in unità con l’altro, e dunque ciascuno è sia sé stesso che l’intero di cui fa parte. La lor riflessione in sé consiste in ciò, che ciascun momento è il lui stesso l’unità di eguaglianza e disuguaglianza. L’eguaglianza è solo nella riflessione che confronta secondo l’ineguaglianza, ed è quindi mediata dal suo altro momento [...]. In pari maniera l’ineguaglianza è solo in quella medesima relazione riflessiva in cui è l’eguaglianza. (SL p. 473; WL II, p. 4225-30)

A questo passo segue la definizione di cui si diceva: «questa eguaglianza [...] che contiene in lei stessa il riferimento all’ineguaglianza, è il positivo; e così l’ineguaglianza, che contiene in lei stessa il riferimento al suo non essere, all’eguaglianza, è il negativo» (SL pp. 473-4; WL II, p. 431-4). Mette conto di notare che qui Hegel non pensa tanto all’opposizione secondo un significato logico relativo alle negazioni tra enunciati – secondo cioè quel che è stato definito il «quadrato di opposizione»; piuttosto, «l’opposizione è [...] relazione immanente dei diversi [immanente Beziehung der Verschiedenen]» (SL p. 686; WL III, p. 39). Si tratta di un concetto ontologico che ha precisato il rapporto della presunta semplice diversità, incrementandolo, serrandolo, rendendolo immanente, essenziale. «Il positivo e il negativo sono in generale opposti; ossia ciascuno è soltanto l’opposto dell’altro, l’uno non è ancora positivo, e l’altro non ancora negativo, ma entrambi sono negativi uno rispetto all’altro» (SL p. 475; WL II, p. 445-9). Perciò è indifferente che cosa venga considerato come positivo e che cosa come il negativo: «ciascun lato è cosiffatto che può esser preso egualmente tanto come positivo quanto come negativo» (ib.). «Ciascuno è in lui stesso positivo e negativo» (ib.). Il positivo e il negativo corrispondono, a detta di Hegel, alle determinazioni di realtà e negazione proprie della dottrina dell’essere72, solo che i primi, a differenza di queste ultime, esprimono nel loro significato il loro rapporto negativo immanente.

72

SL

p. 109. 217

5.22 La contraddizione dell’identità Attraverso la figura dell’opposizione si è pervenuti a delineare l’unità degli opposti – ovvero dei diversi che però non cadono l’uno fuori dell’altro. Essi sono tenuti assieme da «un solo» rapporto. Si tratta di comprendere che cosa questo voglia dire e implichi, riprendendo anche il modo con cui Hegel intende approfondire la dottrina dei generi sommi del Sofista. Per quest’ultima, l’identità e la differenza si predicano reciprocamente. Ciò però non significa – nelle intenzioni e per il testo di Platone – che il rapporto tra le due sia incondizionato: c’è in fatti un senso per cui la diversità è identica, e un altro senso per cui invece l’identità è diversa. La partecipazione della differenza all’identità è quella per cui la differenza (o la diversità, non importa qui distinguere tra le due) è identica rispetto a sé, non già all’identità. Affermare che il diverso è un identico, non vuol dunque dire che la diversità sia l’identità. La partecipazione inversa, invece, dell’identità alla differenza, è quella per cui l’identità è sì diversa, ma non da sé, bensì rispetto alla differenza. Quel che si ha dunque è un complesso relazionale – quello dell’identità-differenza – per cui la diversità è la relazione che connette diversità da un lato e identità dall’altro, stabilendo appunto che sono diverse, non identiche. Inoltre, entrambe partecipano anche dell’identità, essendo identiche con sé stesse. Ma l’unità che costituisce l’identità-differenza è un’unità negativa, quella per cui la prima non è la seconda. Fin qui Platone, e anche il buon senso. Ma Hegel ha inteso mostrare che questo rapporto, «l’unità negativa», non è tale per cui i suoi termini cadano l’uno fuori dell’altro, bensì è cosiffatto ch’essi si definiscono reciprocamente. La differenza, proprio perché si definisce mediante il rapporto di differenza rispetto all’identità, non cade fuori dall’identità; e così l’identità, per la stessa ragione, non cade fuori della differenza. L’una non è senza l’altra. Identità e differenza sono allora come positivo e negativo, sono «momenti assoluti dell’opposizione; il lor sussistere è inseparabilmente un’unica riflessione; è un’unica mediazione, quella in cui ciascuno è mediante il non essere del suo altro, e quindi mediante il suo altro ossia il suo proprio non essere» (SL p. 474; WL II, p. 441-5). Hegel insiste sul fatto che positivo e negativo, identità e differenza, si definiscono secondo un rapporto unico: espressioni come «unica riflessione», «unica mediazione» si susseguono frequentemente nel testo. Il fatto è che questa mediazione o relazione presenta dei tratti particolari: da un lato è il rapporto negativo che scinde, separa il positivo dal negativo, appunto perché essi in fondo son diversi, l’uno non è l’altro. Dall’altro lato però tale rapporto è esattamente l’opposto di questa scissione, dal momento che questa loro alterità reciproca, che li rende diversi, li unisce in modo che essi si debbano riferire l’uno all’altro nel loro stesso esser sé. Qual è dunque la natura degli opposti? Di opporsi e distinguersi, o di legarsi e partecipare l’uno della realtà dell’altro? La risposta che dà Hegel è: entrambe le cose, che si implicano a vicenda. Infatti, in quanto il positivo non è essenzialmente il negativo, i due si distinguono; ma in quanto il rapporto negativo tra i due è essenziale, non sono altri l’uno per l’altro. Anche qui, si potrebbe tornare a dire che l’un opposto contiene in sé non già l’altro, ma la negazione dell’altro, e ciò toglierebbe ogni apparenza di contraddizione. Ma se così fosse, che cosa vorrebbe dire allora che l’un opposto contiene la negazione dell’altro, contiene l’altro come tolto? Vorrebbe dire forse che 218

l’uno, essendo altro dall’altro, cade fuori dall’altro? Pare di no, perché ciò significherebbe negare ogni essenzialità del legame tra opposti, tra identico e diverso, tra realtà e negazione, tra il qualcosa e il qualcos’altro. Ma questa posizione – quella dell’inessenzialità, per cui l’uno cade fuori dall’altro, è niente per l’altro – la si è già abbandonata. Hegel delinea questo percorso teorico come il cammino (o il piano inclinato) che fa passare dalla diversità all’opposizione e poi da questa alla contraddizione. Il passaggio dalla prima alla seconda s’è illustrato; resta da precisare questo ultimo, che insiste sull’essere il rapporto tra opposti «un’unica riflessione». Il rapporto negativo che lega positivo e negativo non è un rapporto di identità. Quando infatti si rileva che identità e differenza si definiscono essenzialmente in rapporto l’una all’altra, si fa riferimento a quel rapporto di differenza che le distingue ed oppone. Hegel lo chiama «unità negativa dei due» (SL p. 469; WL II, p. 3823). L’«unità negativa» – altra espressione frequentissima in queste pagine – è la stessa negazione propria della dottrina, il «non» che ha due lati, come s’è detto. Da un lato esclude qualcosa da qualcos’altro, appunto i due son perché diversi. Dall’altro però quest’esclusione non realizza la semplice diversità dei diversi, il loro cader fuori l’uno dall’altro. Anzi, poiché l’identità di ciascuno si realizza appunto attraverso la negazione della negazione, attraverso il riferimento all’altro, quest’altro non è affatto escluso, ma in certo modo incluso nella realtà del qualcosa. Perciò si assiste, con l’«unità» negativa, ad un’antinomia: il presentarsi di una situazione e della sua contraria, ovvero dell’esclusione e dell’inclusione (di qualcosa da parte di qualcos’altro) sotto il medesimo rispetto, «in un’unica riflessione», «in un’unica mediazione». Le due situazioni sono espresse da proposizioni che sono l’una la negazione dell’altra. Anzi, come già nelle antinomie delineate negli scritti giovanili e critici, uno dei due lati è in sé stesso una contraddizione. Infatti, la non esclusione dell’altro è l’essere l’altro da sé da parte di qualcosa – e ciò è negazione dell’identità, contraddizione. Hegel delinea questa situazione al seguente modo: La differenza in generale è già la contraddizione in sé; poiché è [1] l’unità di tali che [2] son solamente in quanto non sono uno, – e la [3] separazione di tali che [4] sono solo come separati nella medesima relazione. Ma il positivo e il negativo sono la contraddizione posta, perché come unità negative sono appunto il loro porsi, e in ciò ciascuno è il togliersi e il porre il suo contrario. – Essi costituiscono la riflessione determinante come escludente [ausschließende]73; poiché l’escludere è un unico differenziare, e ciascuno dei differenti è appunto, come esclusivo, l’intero escludere, ciascuno si esclude in lui stesso. (SL p. 482; WL II, p. 518-19)

L’antinomia si palesa soprattutto nella prima parte del discorso qui riferito, là dove Hegel definisce la differenza come contraddizione in sé, poiché essa unisce dei termini che sussistono solo in quanto «non sono uno», ovvero non possono essere uniti. Tali

A. Moni traduce ausschließende con «esclusiva» – parola questa che in italiano, in quello odierno perlomeno, ha un significato diverso rispetto a quello del participio presente del verbo escludere. 73

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termini sono gli opposti, l’eguale e il diseguale, l’identico e il diverso, realtà e negazione, ecc., che si respingono via. Ma essi sono uniti, perché sono solo l’uno per l’altro; eppure, proprio questa relazione che li unifica, allo stesso tempo li separa come «altri», come ciò che non può essere unito. Inoltre, la differenza è contraddizione anche perché separa degli elementi che «sono solo come separati nella medesima relazione», ovvero che non possono davvero essere separati, resi indipendenti l’uno dall’altro. L’antinomia pare dunque persino raddoppiata. Questo pensiero è alla radice della discussa interpretazione o trasfigurazione che Hegel fa della dottrina dei generi sommi. S’è visto che egli espone quest’ultima, seppure indirettamente, giungendo a dire che, poiché l’identità è un diverso, la diversità costituisce la natura dell’identità – affermazione questa invero non platonica. Altrove Hegel, in un passo cui s’è già fatto riferimento74, traduce o forse semplicemente parafrasa un luogo del Sofista in modo però da stravolgerne il senso, per renderlo congruente col suo pensiero dialettico. Si tratta peraltro di uno stravolgimento che Hegel basa su un errore della traduzione di Marsilio Ficino, perfettamente funzionale al discorso hegeliano75. Il quel passo Hegel espone il pensiero dialettico di Platone come lo sforzo di mostrare che l’identico è il diverso tout court, secondo uno stesso rispetto. Il contesto di queste affermazioni è la distinzione platonica tra due tipi di dialettica, quella pura e quella della coscienza ordinaria. Alla coscienza ordinaria si presenta sì l’unità degli opposti, ma sempre come un’unità relativa: una cosa è sia una che molteplice, a seconda che venga considerata nella sua interezza o rispetto alle sue parti. Per es. un’automobile è un’unità, ma racchiude in sé la molteplicità delle sue parti: il motore, le ruote, ecc. Qui i rispetti dell’esser «uno» e delll’esser «molti», ancora una volta, impediscono il prodursi della contraddizione. La dialettica filosofica, invece, ha a che fare con le pure essenzialità; essa deve mostrare – secondo quest’esposizione hegeliana del pensiero di Platone – l’assoluta unità degli opposti, ovvero la loro identità: coincidentia oppositorum. Hegel a questo punto riferisce il testo di Platone, citandolo: «“la cosa veramente difficile consiste nel mostrare che l’Altro (eteron) è Identico, e che l’identico (tauto on) è un Altro, e precisamente sotto un unico e medesimo riguardo”» (P p. 195)76. Questa lettura hegeliana ha dato origine a innumeri discussioni, poiché sovverte il senso del testo platonico. Quest’ultimo infatti rileva sì come difficile compito quello di delineare l’unità degli opposti, ma appunto secondo dei rispetti per cui non si produca contraddizione. Tralasciando le questioni interpretative, quel che importa rilevare è la piena congruenza di questa forzatura di Hegel nel riferire il contenuto del Sofista con quanto sinora messo in luce: proprio perché essenzialmente l’eguale non è il diseguale, il diseguale costituisce la «natura» dell’eguale, ed essi sono uniti «in un’unica riflessione», l’espressione della quale è proprio la negazione della diversità di eguale e diseguale. Questa

Si tratta della parte delle Lezioni sulla storia della filosofia dedicata a Platone; cfr. P p. 195. Cfr. per alcune indicazioni supra nota 53 p. 153. 76 Sof. 259 d. 74 75

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negazione è allora l’identità di eguale e diseguale, l’identità dell’identico e del diverso, quale lato complementare alla loro diversità. Essi sono diversi, e perciò anche non lo sono; e non essendolo, sono diversi. D’altra parte «la differenza è già la contraddizione in sé», ha detto Hegel. Il principio di identità è formulato da Hegel come «A=A», ovvero «tutto è eguale a se stesso» (SL, p. 455); di esso il principio di non contraddizione è solamente la formulazione negativa: «il principio di identità suona [...]: A=A; e, negativamente: A non può essere al tempo stesso A e non A» (E § 115). Ma «questo principio non è una vera legge del pensiero, ma semplicemente la legge dell’intelletto astratto» (ib.). Infatti, ciò che per Hegel è autenticamente l’identità è la circostanza che, dati due diversi, e perciò due opposti, «ciascuno è se stesso e il suo altro» (SL p. 474; WL II, p. 4327-28). Dunque, ciascuno è un A, che è al tempo stesso A e non-A. Per esprimere tutto ciò Hegel aveva già escogitato una formula, mantenuta anche nella Scienza della logica: «identità di identità e non-identità». L’autentica identità (la contraddizione) è per la logica – per la logica dell’intelletto, quello che prova un horror nei confronti della contraddizione – del tutto impensabile. Hegel lo sa bene, riconoscendo che «il pensare, che si mantiene nella riflessione esterna e non conosce altro pensare che quello della riflessione esterna, non arriva ad aver cognizione dell’identità com’è stata qui sopra intesa, ossia dell’essenza, che è lo stesso» (SL p. 458; WL II, p. 2726-29). Rispetto al pensare che si mantiene nella rappresentazione, invece, «il pensare speculativo consiste solo in ciò che tien ferma la contraddizione e nella contraddizione se stesso» (SL p. 492; WL II, p. 6125-26) 5.23 La contraddizione dell’identico Hegel tratta dell’identità dell’ente, dell’identico. La contraddizione dell’identità non è cioè una difficoltà che riguardi solamente la sfera concettuale, quella delle pure essenzialità (identità, diversità, opposizione, ecc.) – quasi che con le determinazioni della riflessione e il loro conflitto si trattasse di una specie di rinnovata dialettica trascendentale, le cui antinomie investirebbero solamente i concetti, e non invece le cose stesse, il mondo dell’esperienza. Le determinazioni della riflessione, per Hegel, non sono affatto determinazioni anfiboliche come lo erano per Kant, bensì del tutto oggettive. A questo proposito giova ricordare che Hegel per un verso apprezza il fatto che Kant abbia ritenuto essere le antinomie della ragione non già un errore accidentale, ma una necessità per il pensiero. Ma per un altro verso rimprovera in più luoghi al filosofo di Königsberg di avere avuto un’eccessiva «tenerezza» per le cose del mondo, preservandole dalle contraddizioni, che vengono invece relegate alla dimensione soggettiva, quella del pensiero che non ha più riferimento alla realtà fenomenica. Per Hegel, al contrario, rispetto all’affermazione che «la contraddizione non si dia, che non esista», va ricordata la natura affatto oggettiva, la portata ontologica delle determinazioni della rifles-

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sione: «una determinazione assoluta dell’essenza si deve riscontare in ogni esperienza, in ogni reale, come in ogni concetto» (SL p. 491; WL II, p. 6027-29)77. Hegel con questa sua tesi si confronta anzitutto con l’Aristotele logico. Per lo Stagirita infatti «ad ogni affermazione risulta contrapposta una negazione, e ad ogni negazione un’affermazione. E la contraddizione dovrà considerarsi appunto questo, ossia l’affermazione e la negazione contrapposte» (De Int. 17 a 33 ss.). Ma il principio di non-contraddizione sancisce appunto che la contraddizione è impossibile, che è impossibile che due proposizioni antifatiche siano entrambe vere – proprio il contrario di quel che sostiene Hegel. Ma Hegel in queste pagine si confronta implicitamente anche e soprattutto coll’Aristotele di Metafisica, il quale nel quarto libro fondava il principio di non-contraddizione sulla necessità di dare un qualche significato determinato ai discorsi, di affermare «qualcosa di determinato [ti horismenon]» (Metaf. 1006 a 25)78. Come si è visto, Hegel s’è confrontato una prima volta con la nozione di determinatezza nella dottrina dell’essere; mentre nella dottrina dell’essenza tratta dell’identità della determinatezza (della riflessione), e la sviluppa fino a mostrare ch’essa è una contraddizione. «La contraddizione» – aveva affermato «non è se non lo sviluppo di quel [...] che è contenuto nell’identità» (SL p. 490; WL II, p. 5935-38). Inoltre, «ogni determinazione, ogni concreto, ogni concetto è essenzialmente un’unità di momenti distinti e distinguibili [scil. esserci ed altro, realtà e negazione, esser-in-sé e esser-per-altro, ecc.], che diventano contraddittorii [...]. La cosa, il soggetto, il concetto è [...] questa unità negativa; è un che di contraddittorio in se stesso [ein an sich selbst Widersprechendes]» (SL p. 494; WL II, p. 63). Resta ora da considerare più in dettaglio in che senso l’ente identico sia «un che di contraddittorio in se stesso». L’identità dell’ente è un’antinomia, non solo nel senso che consta di una congiunzione di proposizioni antifatiche, ma anche nel senso che esse si implicano reciprocamente. Ora, l’identità è una relazione negativa. In quanto la riflessione non è esterna, ciascun membro dell’opposizione ha in sé il riferimento negativo all’altro. Ma «l’altro di sé, che ciascuno contiene, è quindi anche il non essere di quello in cui esso dev’essere contenuto solo come momento. Ciascuno è quindi solo in quanto il suo non essere è, e ciò appunto in una relazione identica» (SL p. 474; WL II, p. 43). I due lati opposti sono dunque l’includere, contenere (Enthalten) e l’escludere (Ausschielessen). Essi si

77 Nella logica di Jena si legge che i momenti del consocere della metafisica, corrispondenti alle determinazioni della riflessione della futura Wissenschaft der Logik «esprimono l’essere assoluto e l’essenza di tutte le cose» (LMJ p. 124). 78 L’interpretazione ontologica del principio aristotelico di non contraddizione è controversa; per E. Berti nondimeno esso «ha un valore fondamentalmente ontologico, ovvero, come si suol dire, è anzitutto una legge dell’essere» (E. BERTI 1987, p. 103). Della stessa opinione p. es. A. Ferrarin il quale afferma che «il cosiddetto principio di Aristotele della non contraddizione non è il principio logico che viene letto tipicamente in Metǐ(VVRQRQè un principio di logica ma è, e viene giustificato dialetticamente come, un principio di determinatezza dell’essere» (A. FERRARIN 2001, p. 194).

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implicano reciprocamente, giacché se l’altro viene escluso (sia questo l’enunciato: P), allora si realizza l’identità quale relazione escludente, negativa. L’esclusione però è essenziale, sì che i due termini non cadono l’uno fuori dall’altro. Ciò comporta che l’altro è contenuto nel suo altro (sia quest’enunciato, negazione del precedente: -P). Perciò vale l’implicazione: (P -P). Tuttavia, in quanto il negativo del qualcosa è incluso in esso (-P), si è realizzata l’identità, la quale consiste nell’esclusione dell’altro (P). Perciò ora vale: (-P P). L’implicazione tra proposizioni contraddittorie è allora reciproca. Afferma Hegel: come questo intero, ciascuno è mediato con sé [a.1] dal suo altro e [b.1] lo contiene. Ma è inoltre mediato con sé [a.2] dal non essere del suo altro; così è unità per sé ed [b.2] esclude da sé l’altro. (SL p. 481; WL II, p. 50).

Aristotele aveva formulato il principio di non-contraddizione al modo seguente: «è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto» (Metaf. 1005 b 19 s.), raccomandando di aggiungere poi «tutte le altre determinazioni» per poter evitare difficoltà di indole sofistica. Ancora una volta, Hegel sembra avere in mente lo Stagirita quando, nell’esporre le contraddizioni dell’identico, aggiunge precisazioni come: «in una relazione identica» (SL p. 474), «secondo lo stesso rispetto» (SL p. 481), ecc., onde fugare ogni dubbio che non si tratti di autentiche contraddizioni logiche. Lo si riscontra nel seguente passo, in cui l’identità dell’ente è formulata attraverso una sequenza di proposizioni manifestamente antifatiche, sotto lo stesso rispetto. In quanto la determinazione riflessiva indipendente – sotto quel medesimo riguardo per cui [a.1] contiene l’altra e perciò [b.1] è indipendente – [a.2] esclude l’altra, allora essa [b.2] esclude da sé, nella sua stessa indipendenza, la propria indipendenza [=b.21 essa non è indipendente]; giacché quest’indipendenza consiste in ciò [c.1] che la determinazione riflessiva contiene in sé la determinazione opposta e solo per ciò [d.1] non è relazione verso un esterno [=d.11 non è semplice eguaglianza con sé], ma consiste anche immediatamente in ciò [d.2] che la determinazione è se stessa ed [c.2] esclude da sé la sua determinazione negativa. Così la determinazione è contraddizione.

Questa è la struttura dispiegata della determinatezza della riflessione, ovvero dell’identico, qualificato come contraddizione. 5.24 Contraddizione e fondamento Com’è noto, Hegel afferma che «la contraddizione si risolve» (SL p. 483). Ma è ben difficile – per ragioni teoriche e testuali insieme – sostenere che una tale soluzione sia il ripristino di un positivo, di un qualcosa di incontraddittorio. Ciò sarebbe la consueta soluzione della contraddizione, la soluzione compiuta dall’intelletto che la reputa un’anomalia del pensiero, uno stato «transitorio e morboso». Qualcosa da evitare insomma. Di fronte ad una contraddizione si pensa che ci sia un errore, che essa sia l’indice della falsità di una delle premesse ond’è stata tratta. Per es., se l’assunzione che 223

la radice del numero 2 sia un numero esprimibile sotto forma di frazione si rivela contraddittoria, quell’assunzione può essere negata. Se però la soluzione della contraddizione della riflessione consistesse in ciò – nel negarla e nel porre al suo posto un qualcosa di positivo e di in contraddittorio – allora l’intera questione dell’identità e della contraddizione sarebbe solamente spostata e riproposta daccapo, col caso di questa nuova determinazione. Così sorgerebbe un’incessante porre e togliere la contraddizione, che avrebbe la forma della cattiva infinità – e l’infinito è proprio la determinazione della sfera dell’essere che corrisponde alla contraddizione dell’essenza, proprio secondo quel che afferma Hegel. Ciò che invece va compreso, per il caso della contraddizione così come per il caso dell’infinito, è che non già questa o quella determinazione (dell’essere o dell’essenza) si nega, riproponendosi poi la negazione rispetto ad un’altra, ma si nega la determinazione come tale. In che cosa dunque consiste la «risoluzione» della contraddizione? Affinché avvenga un superamento della contraddizione, qualcosa deve venire negato, lasciato cadere, e qualcosa deve intervenire per risolvere l’aporia. Quel che vien lasciato cadere, ciò che «cade giù», geht zugrunde, non è la contraddizione, ma la (presunta) salda autonoma sussistenza (Selbständigkeit) dell’esser posto (Gesetzsein); ovvero, in altre parole, la determinatezza sostanziale, l’identità della stessa intesa quale base salda (la quale identità dunque non costituisce la base, il fondamento della logica e dell’ontologia di Hegel). Il testo lo indica chiaramente: «il positivo e il negativo costituiscono l’esser posto della indipendenza; la negazione per opera loro stessi toglie l’esser posto dell’indipendenza. Questo è quel che veramente nella contraddizione cade giù» (SL p. 483; WL II, p. 53). Ciò che la soluzione della contraddizione significa, invece, non è null’altro che «la prossima unità, che viene ad essere mediante la contraddizione» (SL p. 483). Questa prossima unità è chiamata da Hegel «fondamento» insistendo sull’affinità linguistica che si ha in tedesco tra verbo Zugrundegehen, cader giù e la parola Grund, fondamento. «[L]a contraddizione risoluta è dunque il fondamento» (SL p. 485). Ma in che senso il fondamento risolve la contraddizione, proponendo una nuova unità? La risposta è che col fondamento non è che la contraddizione sia tolta, ovvero venga espunta, dichiarata un errore. La contraddizione non viene tolta e relegata all’ambito soggettivo dell’errare, essendo il suo contenuto nullo, il nulla assoluto (come aveva chiaramente indicato Kant, p. es.). Col fondamento piuttosto si pone soltanto l’accento sull’unità dell’intero sviluppo dell’identità come negazione di sé. È in generale la negazione ad essere il fondamento dell’ente e dell’identico; e lo è anche il movimento dall’identità alla negazione dell’identità con cui la negazione – la riflessione – si è articolata: la contraddicentesi opposizione indipendente era dunque già essa stessa il fondamento; sopravvenne soltanto la determinazione dell’unità con se stesso, la quale sorge da ciò che ciascuno degli indipendenti contrapposti toglie se stesso e fa di sé il proprio altro, e con ciò cade giù [zugrunde geht] ma con ciò non fa che in pari tempo fondersi [mit sich selbst zusammengeht] con se stesso. (SL p. 486; WL II, p. 55)

Ciascuno dei due termini dell’opposizione perde il suo presunto essere, stare, «fa di sé il proprio altro»; «cadendo giù» «va con sé stesso», ovvero segue la sua natura. L’espressione mit sich zusammengehen la si era trovata già nella descrizione del divenire del qualcosa, per la quale il divenire era appunto l’«andar con sé», il seguire la propria 224

natura da parte del qualcosa medesimo. E il fondamento, in cui si risolve la contraddizione, è tutt’altro che una base ferma, ma piuttosto «una nuova contraddizione», «il respingere sé da se stesso»: la contraddizione supera se stessa mediante se stessa. La contraddizione superata però non è l’identità astratta, perché questa è solo un lato dell’opposizione [l’altro lato del quale è la differenza]. Il risultato prossimo dell’opposizione posta come contraddizione è il fondamento che contiene in sé tanto l’identità quanto la distinzione come superate. (E § 119, agg. 2, p. 321) Quando si dice che il fondamento è l’unità dell’identità e della distinzione, quest’identità non va intesa come identità astratta, altrimenti avremmo soltanto una nuova denominazione, ma, quanto al nucleo di pensiero, ci sarebbe soltanto quell’identità dell’intelletto che è stata riconosciuta non vera. [...] Il fondamento che dapprima ci è risultato essere il superamento della contraddizione, si manifesta quindi come una nuova contraddizione. Come tale però il fondamento non è ciò che permane quietamente in sé, ma piuttosto il respingere sé da se stesso. (E § 121, agg., p. 323)

L’identico è, in quanto è sé stesso, «qualcosa di autocontraddicentesi»; la «sussistenza indipendente» – ovvero l’esser sé della cosa, l’identità intesa riflessivamente, concretamente – è «l’unità dell’essenza, di essere identica con sé per mezzo della negazione non di un altro, ma di lei stessa» (SL p. 484). In quanto allora qualcosa è identico a sé, è la negazione di sé; oppure: in quanto qualcosa è la negazione di sé, è identico con sé. L’identità è dunque l’autodifferenziarsi, lo stesso che il divenire.

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6

CONCLUSIONE

Concepire il divenire è stata una delle questioni più rilevanti della riflessione filosofica. Relativamente ai protagonisti qui chiamati in causa, si potrebbe esporre la questione al seguente modo. Parmenide ha sancito l’irrealtà del divenire, questo implicando una contraddizione (o una negazione del principio di identità). La tradizione successiva ha preso sì le distanze dall’Eleate, ma solo parzialmente (nonostante certe radicali affermazioni p. es. di Aristotele1). Non ha inteso, infatti, smentire il principio che l’essere non sia il non-essere, bensì negare che il divenire sia o comporti una smentita di quel principio. Così ha pensato un’intera tradizione. Le vie per praticare questa soluzione, secondo la ricostruzione che ho delineato, sono due: (1) il principio della sostanza, (2) la serialità temporale. Ora, se queste soluzioni si mostrano inefficaci, si ripropone il problema che il divenire compromette il principio di opposizione tra essere e non-essere. Questa riproposizione è sostenuta da Hegel, il quale non crede che il divenire abbia struttura incontraddittoria. Anzi, all’opposto, afferma che divenire e tempo contengono essenzialmente delle contraddizioni. Sembra allora che si possa delineare una specie di triangolazione tra le posizioni di Parmenide da un lato, Hegel dall’altro, e dei sostenitori dell’incontraddittorietà del divenire dall’altro ancora (esemplarmente, Platone e Aristotele). Hegel, infatti, da un lato concorda con Parmenide (ma non con Aristotele) nel pensare che divenire e tempo siano contraddizioni; ma dall’altro concorda con Aristotele (e non con Parmenide) nel ritenere che il divenire esista, sia reale. Per Hegel perciò la realtà contiene il divenire, con buona pace di Parmenide; ma contiene anche la contraddizione, con buona pace sia di Parmenide che di Aristotele. Parmenide ed Aristotele infatti concordano nel credere che nessuna contraddizione possa essere reale, mentre dissentono sulla realtà del divenire. 6.1

Realtà della contraddizione

Che cosa voglia esattamente dire che il pensiero hegeliano affermi la realtà della contraddizione non è del tutto chiaro, per due ragioni. La prima, forse secondaria ma non trascurabile, è che Hegel formula il principio di non contraddizione in un modo diverso da quello odierno e da quello aristotelico2: per lui è la versione negativa della legge di identità. Peraltro, va ribadito, l’apparentamento del principio di identità con quello di non-contraddizione non è un’invenzione o una confusione hegeliana, ma si

Cfr. Fisica I 3, 186 a 22 ss. e supra p. 21. Un’interessante indagine sulle formualazioni della legge di (non) contraddizione nel pensiero contemporaneo (con riferimento anche ad Aristotele) si trova in P. GRIM (2004). 1 2

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riscontra a partire dal Medioevo lungo poi il razionalismo moderno3. In ogni caso, Hegel pensa che col divenire e con il tempo si realizzi una trasgressione al principio di identità e di non-contraddizione. E mi pare che questo valga, rispetto al discorso hegeliano, tanto si considerino quei principi come rigidamente distinti, come facciamo noi oggi, quanto come apparentati se non persino identici, come fa Hegel4. La seconda ragione, più radicale, è che non è chiaro, supposto anche di sapere esattamente che cosa siano una contraddizione e una trasgressione del principio di identità, come si faccia a sostenerle. Che cosa vuol dire, infatti, che ci sono delle contraddizioni? E più in dettaglio ancora: che cosa vuol dire il riferimento alla contraddizione delle cose (tutte le cose sono in se stesse contraddittorie, afferma Hegel5), dal momento che contraddittori sono gli enunciati, non le singole entità? Ma prima di affrontare ciò, mi pare vada fatta la seguente riflessione che dovrebbe, credo, fornire degli schiarimenti sul senso e l’ampiezza della contraddizione in Hegel. Ho indicato nel divenire uno dei capisaldi della trasgressione hegeliana al principio di identità e non-contraddizione. Il divenire, infatti, consiste o nel venire ad essere da parte di ciò che era nulla (e viceversa) in senso assoluto, o nell’identificarsi di inizio e risultato (intesi entrambi come dei qualcosa). Il tempo è la forma astratta di questa contraddizione: l’essere che immediatamente non è e il non-essere che immediatamente è, per citare Hegel. La seconda forma di divenire (da qualcosa a qualcosa) è non meno problematica della prima, sia perché identifica qualcosa al suo altro (nel risultato, l’inizio è il risultato), sia perché implica la prima (il divenire assoluto), dal momento che il principio della conservazione della sostanza non pare risolutivo: anche se il divenire è da qualcosa a qualcos’altro, qualcosa (l’unità tra la sostanza e i suoi accidenti, in termini aristotelici) purtuttavia deve diventare niente o uscire dal niente6.

Cfr. supra p. 58 (per Kant), p. 117 (per Hegel) e ivi n. 71 (per la tradizione). Che cosa invece facesse Aristotele non è chiaro, dal momento che egli formula il cosiddetto principio di contraddizione ma non il principio di identità. Secondo alcuni moderni studiosi, peraltro, il principio aristotelico di non contraddizione è diverso dal nostro in quanto è una specie di sintesi della moderna non contraddizione, secondo cui due enunciati contraddittori (antifatici) non possono essere entrambi veri, con la legge del terzo escluso, secondo cui quegli enunciati non possono essere entrambi falsi. Una dettagliata discussione del principio in Aristotele, fornita di utili rimandi bibliografici (alle inGDJLQLGLáXNDVLHZLF]DQ]LWXWWR VLKDLQ V. RASPA (1999, pp. 33-61). Discute poi il principio aristotelico e l’intepretazione diáXNDVLewicz da un punto di vista teoretico E. SEVERINO (2005a). 5 Cfr. il brano dianzi citato, p. 206. 6 Cfr. supra pp. 47 ss. e ovviamente gran parte dei testi di E. Severino qui menzionati i quali variamente insistono sul tema. Ricordo che per Hegel il principio della separazione di essere e nulla espresso dalla massima dell’ex nihilo è incompatibile col divenire in ogni sua forma. 3 4

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6.2

Negazione limitata del principio di contraddizione

Ora, il punto è che anche assumendo che il divenire nelle sue possibili forme sia contraddizione, identificazione di diversi, occorre limitare quest’affermazione, la quale non può significare la totale smentita del principio in discussione. Infatti, acciocché dei diversi possano venire identificati e con ciò si produca una contraddizione (in senso lato), occorre anzitutto che quei diversi siano diversi, non siano il medesimo. I diversi sono: l’essere e il nulla di qualcosa; oppure il qualcosa e l’altro da esso. Infatti: qualcosa diviene qualcos’altro (un altro qualcosa, il nulla di quel qualcosa), solo se inizio e risultato non sono identici. Se tutto resta così com’è, non c’è divenire. Ancora: il prima può diventare il poi e il tempo trascorrere solo se il prima non è già il poi. Quindi la diversità dei diversi è presupposta da quella loro identificazione in cui consiste il loro divenire. Questo è chiaramente riconosciuto da Hegel, come ho cercato di mostrare, egli affermando che l’essere e il nulla coinvolti nel divenire sono determinati e perciò diversi ed opposti7. La negazione hegeliana del principio di identità (e di non-contraddizione) deve dunque essere affiancata dal riconoscimento del valore dell’identità (ovvero della non-identità dei diversi). In altre parole: è vero che i diversi col divenire si identificano; ma anche no. Rovesciando la prospettiva: è vero che i diversi sono diversi, ma anche no (nel divenire, quando le cose divengono). Ora, che i differenti siano differenti ma anche no, è una situazione aporetica, antinomica. La logica (quella che Hegel chiama dell’«intelletto astratto»), sulla base dei principi di non-contraddizione e del terzo escluso, impone di scegliere: di due proposizioni contraddittorie una dev’esser vera e l’altra falsa. Quindi o i differenti sono tali, e non s’identificano; o s’identificano, e sono solo apparentemente differenti. Tuttavia, la verità di uno solo dei corni del dilemma non è compatibile col divenire. Infatti, consideriamo la prima posizione: se i diversi restano tali, se l’essere è l’essere e mai anche non-essere, allora tutto resta tale e qual è. Così però non c’è divenire. Nell’altro caso, se la diversità dei differenti è cancellata, mera parvenza – posto che ciò possa essere sostenuto –, si ha il monismo più assoluto, la «notte in cui tutte le vacche sono nere». Ma anche questo rende impossibile il divenire. Che cosa, infatti, diverrebbe che cosa? Peraltro, la sequenza categoriale della Logica, in cui l’essere determinato è derivato dal divenire come sua condizione, conferma questo pensiero: il divenire presuppone ed afferma la differenza tra inizio e risultato, tra il prima e il poi. Senza determinatezza, niente divenire. Perché ci sia divenire, dunque, vanno affermati entrambi i corni del dilemma: da un lato che i diversi sono diversi; dall’altro che, quando c’è divenire, cessino di essere tali. Ci troviamo di fronte, ancora una volta, al principio hegeliano della complementazione (Vervollständigung), per il quale ad una certa affermazione va affiancata la sua negazione,

7

Cfr. supra pp. 87 ss. 229

ed entrambe vanno tenute ferme (entrambe sono vere, e cioè è vero il loro prodotto logico). Il secondo lato di questa complementazione, come s’è già detto, è in sé stesso una contraddizione (giacché l’affermazione che dei diversi siano identici è di per sé una contraddizione). Quest’esigenza di mantenere anche la differenza dei differenti accanto alla loro identificazione (proprio per sostenere la possibilità della loro identificazione), è una limitazione alla negazione del principio di identità e non-contraddizione (in senso hegeliano, ma anche non). Ciò sembra previsto da Hegel medesimo, a quanto sembra, dal momento quanto dianzi discusso corrisponde al concetto dell’unità di essere e non-essere o, in forma riflessa (secondo cioè le determinazioni relazionali), dell’unità dell’esser differente e del non esser differente. Hegel lo chiama, proprio parlando del divenire, il concetto «dell’identità della identità colla non identità», laddove «questo concetto si potrebbe riguardare come la prima e più pura (cioè più astratta) definizione dell’Assoluto» (SL p. 60; WL I, p. 63)8. Ci si potrebbe chiedere se con ciò Hegel sia quel pazzo, di cui parlavano Platone ed Aristotele, che voglia sostenere che il pari sia il dispari, il bue un cavallo, un uomo una nave. La risposta mi pare negativa9, per la ragione anzidetta (ovvero che ci devono essere delle differenze perché queste, divenendo, possano venire cancellate), e per delle ulteriori ragioni che vorrei ora illustrare, con la consapevolezza di star avanzando un’intepretazione del pensiero hegeliano che si discosta dal dettato esplicito, poggiando su alcune considerazioni teoriche indipendenti. Il principio di non-contraddizione, si diceva, conosce oggigiorno varie formulazioni, lievemente differenti le une dalle altre10. Ci si può attenere alla seguente: due enunciati contraddittori non possono essere entrambi veri. Ciò è esattamente l’opposto del principio di complementazione hegeliano11. Ora, mette conto di notare quanto segue. Non è che per Hegel ogni contraddizione sia vera, debba esser vera (ma su questo punto vorrei tornare tra breve). Le contraddizioni, infatti, riguardano principalmente il più ristretto insieme delle verità cosiddette speculative, metafisiche; le proposizioni filosofiche, insomma. E non ogni verità è speculativa, non ogni proposizione è filosofica (questo l’afferma Hegel esplicitamente riconoscendo all’intelletto un solido ambito di validità). Certo, attraverso esse (alcune di esse, p. es. attraverso la verità che descrive la struttura

Per una discussione di questo passo cfr. supra p. 93 e passim. «“Socrate è una trireme”, o “è vero tutto e il suo contrario [anything goes]” non seguono dalla discussione hegeliana della non contraddizione e dovrebbe persino esser inutile ripeterlo» A. FERRARIN 2001, p. 194). 10 Cfr. p. es. P. GRIM (2004, part. p. 52 s.) che distingue, facendo una disamina di significative testimonianze testuali, quattro gruppi di formulazioni, a seconda della prospettiva semantica, sintattica, pragmatica o ontologica. 11 Il principio hegeliano di complementazione antinomica afferma (pare) persin di più, ovvero che i due enunciati contraddittori si implicano a vicenda: Pȼ-P. Cfr. Th. KESSELRING (1984, p. 98). 8 9

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dell’ente), si giunge a dire che la contraddizione è universale, che tutte le cose sono contraddittorie. Ma anche qui con alcune limitazioni. Infatti anche questo tavolo è contradditorio se ne considero la struttura ontologica di ente, per la quale esso è un’unione contraddittoria di realtà e negazione, positivo e negativo. Se invece lo considero come una banale determinazione empirica, è un tavolo e non un autocarro, o forse è un tavolo e basta. 6.3

Conseguenze delle contraddizioni

Uno dei tratti caratterizzanti il principio di non-contraddizione, da Aristotele in poi, è che se lo si nega non si può più dir nulla di sensato. Ho espresso apposta questa conseguenza in modo generico, poiché può voler dire più cose, e non è detto che vengano egualmente condivise da tutti i sostenitori del principio. Quella conseguenza significare, per es., che è sconveniente negare il principio; oppure che è proprio impossibile farlo, se non a parole. Oggigiorno viene principalmente sostenuta, mi pare, la prima posizione, con riferimento ad una certa concezione della negazione, quella cosiddetta scotiana, per la quale ex falso quodlibet (da un enunciato falso segue qualsiasi cosa). Quest’idea di negazione è sottesa a molti argomenti di uso comune. La si impiega quando p. es., contestando un’asserzione, si dice che se fosse vera, allora si potrebbe affermare tutto e il contrario di tutto. Perciò quell’affermazione deve essere falsa12. Attenendosi alla logica: dalla congiunta affermazione di due enunciati contraddittori, P -P, segue qualsiasi altro enunciato Q13. In tal modo non si può più ragionare14. Altri ha chiamato signifi-

Come si dice proverbialmente: «sì, se fosse come dici tu, allora mia nonna sarebbe un tranvai!». 13 La cosa può essere argomentata in vari modi, a seconda del sistema. Ne indico due. Da una congiunzione contraddittoria come P -P si possono derivare i due singoli enunciati P, -P (p. es. con la regola della eliminazione della congiunzione, nel sistema della deduzione naturale). Ora, dal primo si deriva la formula: P Q, per introduzione della disgiunzione, dove Q è un enunciato qualunque. Valendo però anche -P, discende, dalla disgiunzione precedente, Q (per una banale applicazione di un lemma logico corrispondente al sillogismo disgiuntivo), sì che, se una contraddizione è vera, ogni altro enunciato è dimostrato. L’argomento si può anche esporre altrimenti, ricorrendo al modus ponens: dopo che si son derivati i due enunciati P, -P, da quest’ultimo si ottiene PȺ4 poiché, se -P è vero, da P segue qualsiasi cosa (paradosso dell’implicazione materiale; ex falso quodlibet); d’altra parte, essendo pur vero P, si può applicare il modus ponens e dedurre effettivamente Q. Quindi, se un enunciato contraddittorio fosse vero in una teoria, ogni altro enunciato sarebbe dimostrabile – argomento questo valido accettando la nozione scotiana della negazione e l’implicazione materiale, come avviene in logica classica e in molte altre logiche. 14 Cfr., da un punto di vista strettamente logico, E. CASARI (1997, p. 96 ss.), e l’ottimo, recente F. BERTO (2006), che raccoglie e discute i vari contributi sul tema della contraddizione 12

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cativamente questo principio l’esplosione di una teoria: ammessa una contraddizione, il sistema esplode15. Si è discusso se questo principio sia ciò che da sempre è stato ritenuto la ragione dell’inammissibilità delle contraddizioni, o se invece sia relativamente recente, affermatosi con chiarezza da Boole in poi e in ogni caso seguente certe tesi medioevali (la negazione scotiana, appunto). Aristotele, pare, non l’avrebbe condiviso, anche se non perciò riteneva ammissibili le contraddizioni16. In ogni caso, in tempi recenti si sono introdotte delle soluzioni all’inconveniente dell’esplosione. Per es. la nozione scotiana di negazione è stata messa in discussione. È questa la via intrapresa dalle logiche cosiddette paraconsistenti. Oppure si è concepita la nozione di inferenza valida diversamente rispetto alla logica classica, restringendola, cosicché da una contraddizione non è più derivabile qualsiasi altra proposizione. È questa la via delle logiche cosiddette della rilevanza17. Questi sistemi, seppure in modi diversi, ammettono alcune contraddizioni (non come teoremi, in ogni caso), senza che perciò la teoria giunga al collasso potendosi dire ogni cosa e il suo contrario. 6.4

Negazione circostanziata

Queste posizioni paiono interessanti perché, ammettendo la possibile verità di alcune contraddizioni, sostengono una negazione circostanziata del principio di noncontraddizione. La qual cosa, dopo tutto, è ciò che anche Hegel sembra dover fare. Infatti, relativamente alle contraddizioni, se ne può parlare da un punto di vista che non è già esso stesso una contraddizione. E questo punto di vista dev’esser ben stabilito, giacché ammettere le contraddizioni non è anche non ammetterle, e dev’esser vero che Hegel le ammette e falso che non le ammette. Ci dev’essere, insomma, un punto di vista che si sottrae alla contraddizione, tanto in Hegel quanto in queste logiche, a partire dal quale si affermano le contraddizioni18. Altri, relativamente a Hegel e a que-

entro la logica contemporanea, tracciando anche un bilancio filosofico di più ampio raggio. 15 Cfr. G. PRIEST (2004, p. 24). L’esplosione del sistema era proprio la ragione che K. POPPER (1940) in un suo significativo intervento aveva appuntato contro la dialettica hegeliana. 16 G. PRIEST (2002) offre indicazioni storiche sulla posizione di Aristotele, dei Medioevali e dei contemporanei. 17 Per come ciò avvenga rimando ai testi che trattano le logiche non-standard, come p. es. G. PRIEST (2001), e F. BERTO (2006) 18 In verità c’è chi, come P. GRIM (2004, p. 68 s.), allude ad una specie di coerente travolgimento della negazione principio di contraddizione. Questa, infatti, sarebbe a sua volta affermata e negata, in modo contraddittorio, e questa circostanza contraddittoria subirebbe la stessa sorte, e così via, istituendo un parallelo col paradosso di L. Carrol sul modus ponens (cosiddetto di Achille e la Tartaruga, in onore alle antinomie antiche). Il problema, in fondo, anche per interventi di questo genere, è quello di dire la contraddizione, come cercano di illustrare queste conclusioni. 232

sti temi, ha parlato giustamente di posizione incontraddittoria della contraddizione19. Questa posizione può avvenire solo se la contraddizione è circostanziata, non universale. Questo rilievo mi pare equivalente alle precisazioni di sostenitori delle logiche paraconsistenti i quali ribadiscono che vengono ammesse solo alcune contraddizioni20. 6.5

Un’interpretazione fuorviante

Il fatto che si ammetta in Hegel un punto di vista sottratto alla contraddizione – quello ond’è fatta l’affermazione che ci sono le contraddizioni – non va scambiato con l’idea che la contraddizione riguardi solamente le comprensioni astratte, parziali della verità. È questo un punto importante che vorrei precisare. Per quest’interpretazione – che condivido sì largamente, ma non nella sua interezza (e il dissenso riguarda un punto essenziale) – la contraddizione è solamente uno stato transitorio che inficia le concezioni finite dell’intero, le quali si dimostrano false proprio in ragione della contraddizione in cui s’involgono. Per quest’intepretazione – per una sua certa versione perlomeno, che avevo suggerito di chiamare coerentista – tutte le contraddizioni sono false, anche se l’esser passati per esse è necessario. Il sistema hegeliano, in questa prospettiva, appare come una gigantesca riduzione all’assurdo dell’astratto: fintanto che appaiono contraddizioni si è nell’errore. E la contraddizione va negata, negando la prospettiva parziale ond’essa deriva. Inoltre, la negazione – essendo, secondo le pretese hegeliane, determinata21 –, non soltanto smentisce un’astratta comprensione dell’intero (lato dialettico-negativo), ma consente uno slargamento concettuale, un avanzamento ad una posizione ulteriore (lato positivo-razionale) la quale è

Cfr. F. CHIEREGHIN (1981). Il riferimento è ancora una volta ai citati lavori di G. Priest, ai quali aggiungo il suo recente ID. (2004). Priest ritiene pretestuose molte difese (inclusa quella aristotelica) della legge di contraddizione, poiché scambiano l’insostenibile posizione che afferma che ogni contraddizione sia vera, con la posizione (secondo lui) sostenibile che qualche contraddizione sia vera o possa esserlo. Gli strenui difensori del principio di non contraddizione, in altre parole, attribuiscono scorrettamente all’avversario non la negazione del principio ma la tesi contraria ad esso, per la quale ogni contraddizione è vera. Si comprende questo rilievo di Priest tenendo presente il quadrato di opposizione. Il principio infatti afferma che ogni contraddizione è falsa. Quantificando su enunciati, si può simbolizzare: (x) CxȺ)[ SHUWXWWLJOL[VH[è un enunciato contraddittorio, è falso). Ora, la negazione contraddittoria di questo principio è che qualche contraddizione sia vera (o possa esserlo): x Cx Vx (c’è almeno un x che è una contraddizione e non è falso ma vero – supposto di essere in un contesto bivalente in cui la negazione di un valore produce l’altro). La negazione contraria invece è che ogni contraddizione sia vera (o non-falsa): (x) CxȺQRQ-Fx. Si tratta allora di non scambiare la contrarietà con la contraddittorietà, giacché una proposizione contraria ad un enunciato categorico afferma ben di più della contraddittoria, e Priest non si sente impegnato a sostenerla. 21 Sul senso della determinatezza della negazione cfr. il mio F. PERELDA (2003, cap. VII). 19 20

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a sua volta contraddittoria nella misura in cui è ancora astratta (certo lo è meno della precedente), e cioè non rispecchia completamente la totalità. In tal modo, per approssimazioni successive, si giunge al rispecchiamento totale, alla verità del tutto, nella quale ci si acquieta, non essendoci più nulla di contraddittorio. Ora, non credo che la limitazione alla negazione della legge di non-contraddizione, di cui si ragionava in precedenza, possa essere facilmente identificata o accordata con quest’interpretazione coerentizzante, nonostante le due tesi abbiano dei punti in comune che ora elenco. Un’affinità (non l’unica) consiste nel presupporre ed affermare l’esistenza di un punto di vista diverso e sovraordinato rispetto al dominio della contraddizione, a partire dal quale solamente le contraddizioni possono venire considerate, espresse, teorizzate. Per es., quando si diceva che dev’esser vero che Hegel afferma la verità delle contraddizioni e falso che la nega, si alludeva proprio a questo punto di vista. Un’altra affinità è il comune pensiero che l’astratto (le comprensioni inadeguate dell’intero della verità) sia inficiato dalle contraddizioni, poiché la verità è una totalità organica. Ma queste affinità si fermano qui. Per l’interpretazione coerentizzante, infatti, le contraddizioni vengono tutte negate, espunte, riscattate, proprio perché sono false e il loro contenuto è niente. E lo è proprio perché vige il principio di non-contraddizione. La serie delle contraddizioni è solamente storia dell’errore (istruttiva al modo di una dimostrazione per assurdo). Al contrario, per la posizione qui attribuita a Hegel alcune contraddizioni sono vere, reali. Ciò che la prima posizione nega nel modo più assoluto (che qualche contraddizione sia vera), la seconda invece afferma. Mi vorrei soffermare a discutere quest’interpretazione, poiché nel raffronto con essa emergono il ruolo e la portata della contraddizione in Hegel. Contro l’interpretazione coerentizzante ci sono varie ragioni, che si possono raggruppare in tre ordini diversi. In primo luogo, essa si scontra con affermazioni di Hegel molto chiare a favore della contraddizione, le quali vengono o ignorate o reinterpretate in un modo difficilmente sostenibile, come vorrei mostrare. In secondo luogo, essa non sembra tenere presente che la contraddizione, oltre che essere una figura, per così dire, transcategoriale (o metacategoriale) che si ripropone ad ogni avanzamento logico (stando alla base del meccanismo della riduzione all’assurdo), è pure l’essenza di alcune categorie (il divenire, il limite, il rapporto finito-infinito, le determinazioni della riflessione, la specificazione del concetto, il tempo, ecc.) la cui validità non viene smentita dalle successive ma con esse integrata. La contraddizione, in altre parole, ha un ruolo sia metodologico che tematico. In terzo luogo, mi pare che la stessa idea che le verità parziali siano, in ragione della loro astrattezza, inficiate dalla contraddizione (donde la loro riduzione all’assurdo), si basi su una concezione cosiddetta olistica o idealistica della struttura dell’intero (della verità, delle determinazioni) non descrivibile altrimenti che come contraddizione (e di ciò Hegel è perfettamente consapevole, come mi propongo di illustrare) – donde appunto la natura sui generis delle verità speculative. Vorrei delineare questi tre punti, criticando quell’intepretazione, e illustrando in tal modo la posizione hegeliana, perlomeno per come la vedo io. 234

6.5.1

In favore delle contraddizione

Anzitutto ci sono testimonianze testuali innegabilmente a favore della contraddizione. Hegel, dagli scritti giovanili su fino alle ultime sue pagine, sostiene l’antinomia22 – la necessità e la verità di essa. Egli apertis verbis dichiara che le verità filosofiche sono tali che l’affermazione di qualcosa va completata con la sua negazione, e che entrambi i lati di questa congiunzione vanno tenuti per veri (teoria della complementazione, Vervollständigung). Di più: non soltanto specifiche proposizioni filosofiche, come quelle sulla natura del finito e dell’infinito, dell’essere e del divenire, ecc., ma lo stesso principio di identità e non-contraddizione va completato colla sua negazione23. Dichiara inoltre che la contraddizione è universale, che tutte le cose sono in sé stesse contraddittorie, che la contraddizione è l’anima di ogni essere e di ogni movimento, ecc. Ora, gli interpreti favorevoli ad uno Hegel fautore dell’incontraddittorietà sostengono a questo proposito che la critica di Hegel al principio di identità e noncontraddizione sia a sua volta da intendersi alla luce della tesi che l’astratto è contraddittorio e dunque falso. Perciò anche la critica hegeliana alle leggi logiche sarebbe apparente, proprio in quanto circoscritta alla loro comprensione astratta. In breve: solo le presunte «cattive», astratte formulazioni delle «leggi del pensiero» vengono criticate, ridotte all’assurdo. Nella comprensione globale della verità, invece, quelle leggi vengono ripristinate un livello superiore – quello che ne afferma il contenuto non singolarmente, ma secondo i loro rapporti reciproci. Si tratta, per l’appunto, di superare l’«isolamento» dell’intelletto astratto. Ora, quest’idea, nella sua generalità, è certamente Hegel della più bell’acqua, ed io non intendo negarla. Non nego cioè che Hegel abbia una concezione organica (olistica, monistica, idealistica) delle determinazioni logiche (le pure essenzialità) e delle determinazioni logico-formali in particolare24. Questa concezione è in certo modo la premessa dell’avanzamento logico dall’astratto al concreto. Tuttavia, da un lato non è poi così chiaro (non a me perlomeno) che cosa voglia dire che le leggi logiche alla fine vengano sostenute concretamente anzi che astrattamente, né in che senso la noncontraddizione abbia maggior valore (validità) se sostenuta entro un’ampia trama di rapporti concettuali anzi che per sé presa. Esprimendo questa perplessità con una domanda: che cosa affermerebbe di più e di diverso la formulazione concreta della legge di non contraddizione rispetto a quella astratta? Forse si può anche fornire una risposta persuasiva a questa domanda, indicando che la formulazione astratta non espone

22 Ricordo che la nozione hegeliana di antinomia è mutuata da Kant: si tratta di una contraddizione i cui costituenti sono entrambi dimostrabili e dunque necessari (come per le antinomie cosmologiche kantiane, p. es.). Si dimostra P e anche -P. Solo che Kant risparmiava il mondo dalla verità delle contraddizioni. 23 Cfr. supra pp. 127 ss., part. p. 131, e pp. 218 ss. 24 Hegel, ricordiamolo, critica la loro comprensione astratta, p. es. paragonandola all’intreccio estrinseco di trama ed ordito in un telaio: cfr. SL p. 458; WL II, p. 27.

235

compiutamente le leggi logiche, tralasciando le connessioni senza le quali si finisce per dire il contrario di ciò che si vorrebbe dire. Tuttavia, mi pare che la presunta concreta approvazione di una legge logica, p. es. quella di non-contraddizione, difficilmente possa essere compatibile con le affermazioni di Hegel intorno al valore reale della contraddizione. La differenza tra astratto e concreto non è tale da giustificare la disapprovazione hegeliana versi i principi della logica e della metafisica tradizionali. Detto in altro modo ancora: la tesi secondo cui la contraddizione riguarderebbe solo l’astratto, e dunque anche la concezione astratta della legge di contraddizione (che perciò sarebbe a sua volta contraddittoria), difficilmente s’accorda con le affermazioni hegeliane intorno alla verità delle contraddizioni. Per es., se davvero Hegel pensa che la contraddizione sia solamente indice di finitezza, astrattezza, falsità, non si capisce perché mai egli p. es. irrida Kant, questi reputando le contraddizioni indice dello smarrimento del pensiero anziché la natura delle cose (donde l’ironia di Hegel verso la «tenerezza» kantiana per le cose mondo, preservate dalle contraddizioni). Né si comprende perché dileggi coloro che pensano che la contraddizione sia uno «stato transitorio di parossismo morboso», una specie di paralisi in cui incorre il pensiero quando cozza contro il (presunto) impossibile, avendo imboccato (ancorché forzatamente) una via sbagliata. Giacché appunto una via sbagliata è quella dell’astratto e la contraddizione ne segna appunto l’impercorribilità. Perché dunque Hegel irriderebbe i sostenitori dell’irrealtà delle contraddizioni se anch’egli ne fosse un alfiere? Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ora, dire che le affermazioni di Hegel a favore della contraddizione siano da smorzarsi nel senso che la contraddizione sia regula falsi, riguardi l’astratto, significa sottovalutare largamente il senso e la portata delle affermazioni hegeliane. Forse una tale lettura si può anche fare, ma con la consapevolezza di star largamente riformando l’hegelismo25. Con ciò, lo ribadisco, non sto negando che in Hegel esista la contraddizione dell’astratto (anche a proposito delle leggi logiche), e che sia proprio questa a produrre l’«andamento irresistibile» della «cosa stessa». Tutt’altro. Anzi, è proprio Hegel a sostenere che, diversamente dalle apparenze, è anzitutto nell’astratto che si annida la contraddizione. Viceversa, nell’idea – nell’esposizione del tutto, vera in senso hegeliano (come adeguata con sé) – quella contraddizione è tolta, negata26. Sto invece soste-

Rivolgo questa ed altre obbiezioni a certe letture che per una ragione o l’altra sono inclini a fare di Hegel un pensatore della non-contraddizione. Mi riferisco qui in primo luogo alla recente, innovativa e brillante proposta interpretativa di F. BERTO (2005). Con lui ho avuto più di una discussione sul tema, ma rimando un più puntuale confronto sul suo volume ad un’altra circostanza. 26 Sulla contraddizione dell’astratto cfr. E § 214. Ho illustrato la concezione hegeliana del concreto, il rapporto di questo con l’astratto, le ragioni dell’avanzamento logico, il senso hegeliano di verità (come adeguazione ontologicamente intesa), i ruoli della negazione e della dialettica in F. PERELDA (2003, capp. VI-VIII). 25

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nendo che oltre alla contraddizione dell’astratto, che coll’avanzamento logico viene sì progressivamente emendata, esiste la contraddizione del concreto, del vero, dello speculativo, la quale permane, anzi s’incrementa, e in cui questo s’esprime. 6.5.2

Categorie di contraddizione

Prima di parlar di ciò, vorrei ricordare che entro il concreto sono comprese delle categorie che espongono delle contraddizioni. Infatti, se si chiede a Hegel che cosa sia il divenire, egli, alla luce della più esaustiva esposizione dell’intero della verità, risponde: il passare, l’identificarsi dell’essere nel nulla e del nulla nell’essere (intesi come diversi, opposti). Se gli si chiede che cosa sia il tempo, la risposta è: l’essere che immediatamente non è, e il non-essere che immediatamente è, la contraddizione esistente. Se si domanda che cosa siano il finito o l’infinito, la risposta è che l’uno è l’altro, e viceversa. E così via. La contraddizione, dunque, caratterizza essenzialmente i contenuti speculativi nella loro concretezza. Quindi, anche se la contraddizione della loro comprensione astratta è indice di falsità e viene emendata, non perciò è eliminata ogni contraddizione nel sistema hegeliano, stanti perlomeno i singoli contenuti categoriali da Hegel esposti. Ciò, è vero, non spiega che cosa siano tali contraddizioni, né perché, e in che cosa, la contraddizione del concreto (che va tenuta ferma) si distingua da quella dell’astratto (che invece viene cancellata); e tuttavia ciò è un dato di fatto, che una lettura del pensiero hegeliano non può trascurare. Questa è la seconda ragione per la quale l’interpretazione di cui dicevo non mi pare convincente. 6.5.3

Struttura dello speculativo e contraddizione

C’è poi la terza ragione cui accennavo, la quale si porta proprio sul terreno su cui l’intepretazione coerentizzante vorrebbe basarsi. Non si tratta, infatti, solo di render conto delle numerose affermazioni di Hegel a favore della verità delle contraddizioni, o del fatto che alcuni contenuti categoriali consistano nell’affermazione di contraddizioni, ma di comprendere la struttura dello speculativo approfondendo quella nozione di intero o totalità nel quale tutte le contraddizioni sarebbero riscattate. Laddove infatti una serie di determinazioni o «significati» sono essenzialmente connessi, l’uno non è sé stesso prescindendo dal rapporto con gli altri. Perciò la considerazione isolata di una determinazione è negazione dei nessi in virtù dei quali quella determinazione è ciò che è; cosicché quel che non può esser quella determinazione (la determinazione isolata) viene identificato ad essa. Ciò produce una contraddizione che inficia appunto la concezione astratta, isolante, delle determinazioni. Si tratta, in buona sostanza, della dialettica tra astratto e concreto27.

27

DER

Sulla dialettica tra astratto e concreto, cfr., tra le molte pubblicazioni, D. WANDSCHNEI(1995) e il volume di F. BERTO (2005) che tratta della questione con riferimento 237

Tuttavia, una volta compresa la natura monistica, idealistica o (come si dice oggi) olistica delle determinazioni, e una volta esposto l’intero della verità, non si è espunta ogni contraddizione. Non solo perché Hegel dice esplicitamente che le contraddizioni ci sono, ma per ragioni teoriche insite in ques’idea di totalità. Vorrei illustrare questo punto. L’olismo o monismo può essere esposto in vari modi: come essenzialità delle relazioni, come la tesi della natura interna delle relazioni, o come sostanzialità dell’intero. Infatti, se le determinazioni sono essenzialmente connesse, la sostanza – ciò che c’è e sussiste per sé, ciò che può esser contato come uno – è solamente l’intero. Se è così, ci si può chiedere: un singolo momento è o no qualcosa, nel senso di un ente distinto dagli altri e dal tutto? La risposta è ambigua: è distinto, perché l’intero non è privo di differenze (non è la «notte in cui tutte le vacche sono nere»); ma anche no, nel senso che di per sé è nulla (non c’è), o perlomeno non è ciò che è in quanto connesso colle altre differenze. Detto altrimenti: ci sono le parti del tutto? Sì e no: da un lato sì, perché l’intero è articolato; dall’altro no, perché esse non sono sostanze, di per sé non sussistono. (Che cosa sia la determinazione isolata non è precisato univocamente neppure da Hegel, mi pare)28. 6.5.4

Proposizione speculativa ed antinomia

Le proposizioni speculative – quelle che esprimono le verità filosofiche – rispecchiano questa situazione. Esse sono solo apparentemente attribuzioni di un predicato ad un soggetto, di una proprietà ad un oggetto. Più propriamente, essendo che il nesso è essenziale e che il predicato è ciò che determina il soggetto per ciò che questo è (e viceversa), non ci sono due termini reciprocamente indipendenti che vengono poi anche connessi (come nei legami accidentali, contingenti), ciascuno dei quali sarebbe ciò che è anche fuori dal rapporto con l’altro; bensì determinazioni che esistono, sussistono, solo in relazione reciproca. Il significato (la quiddità, l’intensione, forse si potrebbe dire) dell’una è determinato da e nel rapporto con l’altra; esse stanno in un nesso che altrove ho proposto di chiamare codeterminazione semantica29. Dire che due determinazioni sussistono solo in relazione reciproca significa affermare che la sostanza è il loro intero. Se due determinazioni si codeterminano, per afferrare e dire che cosa sia l’una si deve (più o meno implicitamente) afferrare e dire che cosa sia l’altra. Per es.: l’identità è la non-differenza, e la differenza è la non-identità. Si posson fare esempi meno altisonanti. La nozione o idea di argine rimanda in sé stessa a qualcosa che venga arginato, un corso d’acqua p. es. Certo, un argine è una cosa e un corso d’acqua un’altra co-

all’impostazione logico-analitica. 28 Cfr. F. PERELDA (2003, pp. 460 ss., pp. 470 ss.). 29 Cfr. F. PERELDA (2003, p. 460) 238

sa. Eppure se qualcosa è un argine, lo è relativamente a qualcosa che dovrebbe venire arginato, anche nel caso che qualcosa di fatto non ci fosse, p. es. perché il fiume è in secca o è stato deviato. Infatti, qualcosa è un argine rispetto alla sua funzione reale o possibile di far da argine. Altrimenti che argine sarebbe? In questo come nei casi precedenti, non è possibile sapere che cosa sia l’una determinazione senza afferrare anche l’altra: le due nozioni formano un’unità inscindibile30. Ora, l’unità inscindibile (la codeterminazione semantica) fa il paio con (o è sottesa da) ciò che si potrebbe chiamare coappartenenza ontologica: due significati che si codeterminano non sono due entità distinte, realtà o quiddità davvero differenti, ma un’unica sostanza, giacché né l’una né l’altra sono per sé sussitenti. La sostanza, quel che c’è, è il loro intero. Qui non è in discussione la fondatezza di quest’idea, base del monismo o idealismo hegeliano; ma quale sia la struttura della coappartenenza e come venga espressa in forma proposizionale. Per spiegare questo nesso si ricorre talora alla nozione di predicazione essenziale, a ciò che Aristotele nelle Categorie chiamava «dirsi di». Nonostante certe rassomiglianze, non si tratta della stessa cosa. Predicazioni essenziali sono: Aristotele è uomo (o è umano), i dinosauri sono animali. Qui il predicato costituisce la natura del soggetto: è ciò che rende la cosa quel che è. Ma non sembra valere il contrario. L’umanità è tale anche senza Aristotele, e gli animali non sono necessariamente specificati nei dinosauri, tant’è che questi ultimi si sono estinti, senza che per questo non vi siano più animali. Il legame della proposizione speculativa è invece reciprocamente essenziale, costitutivo. In «A è B», intesa come proposizione speculativa, non è che B esprima soltanto la natura, il nucleo stabile di A. Anche perché B è l’opposto di A, secondo Hegel (e l’essere mammifero non è l’opposto dell’essere delfino). B piuttosto è la condizione dell’essere di A; e lo stesso vale per A nei confronti di B. Consideriamo la proposizione speculativa esprimente la determinatezza dell’essere: «l’essere è determinato». Ora, la determinatezza è tale dell’essere, è l’origine della molteplicità degli enti. In quella proposizione ogni termine è essenziale: l’essere, tale delle determinatezze; la determinazione, propria dell’essere. Il puro essere non c’è né ci può essere, né una determinatezza che non sia essente. Perciò il soggetto è solo in quanto è specificato nel predicato: A (l’essere) è solo in quanto ad esso conviene B (la determinazione); A è solo come A-B, e similmente per B nei confronti di A (e così poi per altre eventuali successive determinazioni). Se soggetto e predicato vengono isolati, si producono delle contraddizioni pragmatiche, o qualcosa di molto simile, e ciò segna l’insussitenza di tali astrazioni (astrattametne considerate). Il rapporto tra determinazioni categoriali (essere, determinazione, finito, infinito, ecc.) è quindi prossimo a quello dell’identità: il loro coappartenersi fa sì che l’una sia un’unica cosa con l’altra, faccia un tutt’uno con l’altra; che unico sia il loro essere. Hegel af-

Hegel, p. es., parla di inseparazione e inseparabilità (Ungetrenntheit und Untrennbarkeit); cfr. SL p. 81; WL I, p. 8316-7. 30

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ferma che l’una si «continua»31 nell’altra. Bisogna intendersi però su che cosa sia l’identità32: non si tratta di un’identità tautologica come: un uomo è un uomo; né di un’identità data attraverso una differenza lessicale solamente (o dei sensi, come in Frege) come nei casi: uno scapolo è un uomo non sposato, Espero è Fosforo (entrambi nomi del pianeta Venere). Questo tipo di identità vale al più per l’intero nel suo insieme, una volta che sia stato esposto e unitariamente denominato: l’idea è l’idea. Ma l’eguaglianza dell’intero con sé non dice nulla del rapporto tra le sue interne determinazioni. Giacché, come dicevo, anche questo rapporto è un’identità, le une coappartenendo alle altre. Avverte Hegel, riferendosi all’eguaglianza, che «l’identità speculativa non è quell’identità banale» (E § 193), appunto perché i termini sono anche diversi. Che cos’è allora l’identità speculativa? È questo il punto cui si deve rispondere, giacché questo è un luogo privilegiato per comprendere la teoria hegeliana dell’antinomia. Hegel non vuole sostenere che finito e infinito siano del tutto la stessa cosa, nomi diversi per il medesimo (come Espero e Fosforo). L’olismo hegeliano non è la soppressione delle differenze («il rigido» del monismo parmenideo o spinoziano) ma la condensazione di esse nell’unità sostanziale. Le differenze ci sono, vengono mantenute e salvaguardate. (Semmai, secondo Hegel, è l’intelletto colla sua logica a condurre al monismo e al panteismo parmenideo e spinoziano). Ma proprio perciò, essendoci differenze, se queste vengono identificate nell’espressione della loro coappartenenza, si produce una negazione della loro non-identità, e cioè una negazione del principio di identità usualmente concepito e formulato. Infatti, s’è detto, il finito non è lo stesso che l’infinito, né l’essere è il concetto, ecc. Eppure, in una struttura idealistica o olistica, il finito è una cosa sola con l’infinito, l’essere è tutt’uno col concetto ecc. Una cosa sola, tutt’uno. Ovvero un’identità di diversi, l’identità nella differenza. Perciò la proposizione speculativa è anche identificazione di diversi, contraddizione33. Soggetto e predicato sono e non sono identici, sono e non sono differenti. L’intera situazione non è esprimibile altrimenti. La proposizione speculativa che esprime la codeterminazione, la coappartenenza, consta più precisamente di due lati, ciascuno dei quali va tenuto fermo: da un lato c’è la differenza tra termini (AB), dall’altro la loro identificazione (A=B) o condensazione in unità34. Entrambi i lati sono veri e vanno tenuti fermi, e ciò può venire affermato da una terza proposizione. La verità speculativa è allora più compiutamente esposta da

Cfr. SL p. 682; WL II, p. 3511; poco oltre si legge che «vi si mantiene» (ib.). Hegel precisa che «è molto importante intendesi adeguatamente sul vero significato dell’identità e, anzitutto, sul fatto che l’identità non deve essere intesa come identità astratta, ossia come l’identità che esclude la distinzione» (E § 115, agg., p. 313). Cfr. anche il corpo principale del medesimo paragrafo. 33 Sulle proposizioni speculative cfr. F. PERELDA (2003, pp. 519 ss.). Le concepisce come delle identità H. G. GADAMER (1961, pp. 17-8). Altrettanto significative le riflessioni di F. CHIEREGHIN (1984, pp. 38 e ss., part. pp. 41-2), 34 L’ha detto Hegel chiaramente già nello Scritto sulla differenza; cfr supra p. 133. 31 32

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tre proposizioni. Le prime due dicono, rispettivamente, l’identità e la differenza; la terza l’implicazione delle prime due (questa triplicità è per Hegel la struttura sillogistica in senso lato della verità). Che poi anche questa terna di proposizioni possa essere fraintesa, sottoposta ad isolamento – trattandosi, nonostante tutto, di singole proposizioni che possono essere giustapposte –, è un’altra questione, riguardante il fatto che l’intelletto è sempre, per dir così, in agguato nel distorcere la verità speculativa, riducendola ai propri canoni. Ma si tratta di una distorsione che ha vita breve, dal momento che l’intelletto presto o tardi si attorce nelle contraddizioni dell’astrattezza, dell’isolamento. Vorrei ora illustrare questi concetti con riferimento ad alcuni testi. Hegel ribadisce la struttura antinomica dello speculativo alla conclusione della Grande Logica trattando del metodo dialettico. Sull’importanza di quest’ultimo e sulla centralità della struttura che esprime neppure sto a neppure soffermarmi. Si tratta in ogni caso di un punto capitale della logica. Al primo momento del procedimento dialettico, proprio dell’intelletto astratto, segue quello dialettico-negativo che produce la negazione della prima determinazione, e dunque una seconda determinazione che colla prima sta in rapporto di opposizione. Si passa in buona sostanza da A a –A ovvero a un certo B. Qui si hanno già codeterminazione semantica e coappartenenza ontologica. Si è già nella concretezza, benché non conclusivamente perfezionata (al primo negativo seguono infatti il secondo negativo e il secondo positivo, nel quadruplice schema della Grande logica). Ora come va formulato questo nesso concreto tra A e –A, tra A e B? La questione della formulazione del nesso è dipendente ovviamente dalla natura di questo nesso. E questa natura è appunto la coappartenenza, non un generico stare in rapporto. Su questa specificità (il cui misconosiamento è fonte di fraintendimenti) tornerò più oltre. Le indicazioni di Hegel sono chiare: quel nesso va formulato con un giudizio che afferma l’identità tra le opposte determinazioni, con l’aggiunta poi della negazione di quel primo giudizio. Ed entrambi i giudizi, affermativo e negativo, vanno tenuti fermi. L’unità tra determinazioni può essere espressa come una proposizione dove l’immediato sia messo come soggetto e il mediato come suo predicato, p. es. il finito è infinito, l’uno è il molto, l’individuo è l’universale. Ma la forma inedequata di tali proposizioni e giudizii dà nell’occhio da sé. Si mostrò trattando del giudizio che la forma di questo [...] è incapace di ricevere in sé lo speculativo e la verità. Bisognerebbe per lo meno mettere accanto a quel giudizio anche il suo complemento, il giudizio negativo. [...] Questa negazione è bensì racchiusa nel contenuto di quelle proposizioni; ma la lor forma positiva contraddice a quel contenuto. Non vien posto dunque ciò che vi è racchiuso; che sarebbe appunto lo scopo per cui si adopra una proposizione. (SL pp. 946-7; WL III, p. 29518-34)

L’allusione ad una precedente trattazione non è specificata. Forse s’intende l’esame del giudizio in generale (nella dottrina del concetto); certo, un riferimento molto pertinente è quello ad un’annotazione alla prima delle verità speculative (l’identità di essere e nulla), annotazione colla quale Hegel fin da subito intende precisare come vadano intese le proposizioni che le esprimono. Della problematicità dell’incipit della Logica (e del fatto che quell’identità sia una verità speculativa solo se essere e nulla sono diversi) s’è già detto. Importa qui considerare solo le precisazioni sull’esposizione proposizionale dello speculativo.

241

Dopo aver affermato che il risultato della speculazione si può esprimere colla proposizione: «l’essere e il nulla son lo stesso» (SL p. 79; WL I, p. 8117), Hegel ravvisa una difficoltà sorgente dal fatto che «l’accento viene posto di preferenza su quel lo stesso» (ib.). Infatti, in generale in una proposizione il predicato dice quel che il soggetto è (ne dice infatti una proprietà accidentale o essenziale). Dunque, se il predicato di quella proposizione è esser lo stesso, essa sembra voler dire che non c’è alcuna differenza tra l’essere e il nulla, quasi fossero nomi diversi per una stessa cosa. Quella proposizione sarebbe allora simile alle seguenti: Roma e la città eterna sono la stessa città, uno scapolo e un uomo non sposato sono lo stesso (genere di persona). Ma intendere così quella proposizione è fraintenderla, avverte Hegel. «Il senso sembra quindi essere, che la differenza venga negata; mentre invece si presenta anch’essa immediatamente nella proposizione» (ib., WL I, p. 8121-23), appunto perché un’identità speculativa non è mera eguaglianza di identici. L’essere, anche se diviene nulla, non è lo stesso che il nulla. (Se già lo fosse non avrebbe alcun senso il suo passare nel nulla. E non ci sarebbe alcun divenire). «[Quell]a proposizione esprime infatti tutte e due le determinazioni, l’essere e il nulla, e le contiene come diverse» (ib.). Solo che la diversità in quella proposizione al più si mostra, tramite la diversità di nomi e di concetti; giacché invece quel che la proposizione dice è solo l’identità (donde il disappunto di Hegel che in una proposizione «non vien posto [...] ciò che vi è racchiuso; che sarebbe appunto lo scopo per cui si adopra una proposizione»). In «A è B», inteso come A=B quel che si dice è l’identità. Per dire la diversità (che si mostra nella diversità tra A e B, che non sono il medesimo) bisogna impiegare un’altra proposizione che espliciti l’implicito della prima. Il fatto che una proposizione abbia un significato implicito altrettanto essenziale di quello esplicito è la ragione dell’inadeguatezza della consueta forma proposizionale nell’espressione delle verità speculative. Sentenzia Hegel (a più riprese): «la proposizione, in forma di giudizio non è atta ad esprimere verità speculative» (ib.). E «la conoscenza di questa circostanza potrebbe servire ad eliminare molti malintesi circa quelle verità» (ib.). Qui si dice: «in forma di giudizio», in opposizione, mi pare, alla forma sillogistica, ovvero allo svolgimento del contenuto implicito di una proposizione speculativa in una terna di giudizi, secondo quel che s’è detto. Il giudizio (speculativo) anzitutto esprime l’identità tra soggetto e predicato («è una relazione identica fra soggetto e predicato» - ib.); ma l’identità speculativa non è un’identità di identici, bensì di diversi, e tale diversità va parimenti affermata: se [...] il contenuto è speculativo, anche il non identico, del soggetto e del predicato, è un momento essenziale; ma questo nel giudizio non è espresso. […] Nell’intento di esprimere la verità speculativa, a cotesto difetto si ripara anzitutto coll’aggiungere la proposizione opposta, cioè che essere e nulla non son lo stesso. [...] Ma sorge così un altro difetto [...] che queste proposizioni non son fra loro collegate, epperò presentano il contenuto soltanto nell’antinomia, mentre d’altra parte il contenuto loro si riferisce a uno stesso, e le determinazioni, che si trovano espresse nelle due proposizioni, debbono assolutamente essere unite. [...] Il torto più comune che viene fatto al contenuto speculativo, è di renderlo unilaterale, vale a dire di porre in rilievo una delle proposizioni in cui si può risolvere. […] [U]na volta che dallo speculativo si sia presa una proposizione, bisognerebbe almeno tener conto insieme anche dell’altra e dichiararla. (SL pp. 80-1; WL I, p. 8220-39)

Dunque anche nella Grande logica c’è un’esplicita conferma della teoria della complementazione, la quale attraversa l’intera parabola del pensiero hegeliano dal primo 242

scritto pubblicato (lo Scritto sulla differenza) all’ultimo (ho citato infatti dalla dottrina dell’essere, di cui Hegel approntò la seconda edizione poco prima di morire). Nel caso presente, le due verità sono che (1) essere e nulla son lo stesso e che (2) essere e nulla non son lo stesso. Si tratta, come afferma Hegel, di un’antinomia, l’unico modo con cui può venire espressa una verità speculativa. Altri non ce ne sono. Mette conto di notare, di passaggio, che il fatto che anche nella Grande logica rivista e corretta si trovi l’affermazione dell’antinomia depone a sfavore di certe intepretazioni dell’evoluzione del pensiero hegeliano. Mi riferisco alle tesi per le quali Hegel solo inizialmente avrebbe affidato la comprensione della verità all’intuizione ineffabile, avendo ritenuto la contraddizione un non plus ultra cui la razionalità intellettuale possa e debba pervenire. In seguito, invece, avrebbe avuto una svolta, grazie alla quale la verità sarebbe divenuta razionalmente comprensibile, sarebbe potuta venire detta, esposta, ciò mutando il ruolo della contraddizione. Ora, non voglio certo negare l’evoluzione del pensiero hegeliano, bensì sostenere che anche per l’ultimo Hegel la verità, sì comprensibile razionalmente, non sia altrimenti dicibile che come contraddizione – contraddizione che l’intelletto rifiuta, e che invece la razionalità del pensiero speculativo afferra, comprende, sostiene. La comprensione razionale della verità, dunque, non sta nei confini irreggimentati della non-contraddizione. Perciò, dal punto di vista di quest’ultima, la contraddizione è del tutto irrazionale, appunto perché contraddittoria. Solo che per Hegel quei confini sono i limiti angusti dell’intelletto astratto. 6.5.5

Altre testimonianze

Prima di passare a una valutazione di questa teoria vorrei richiamare ancora alcuni luoghi. Il primo è la trattazione hegeliana delle proposizoni necessarie. Passando in rassegna le forme proposizionali (o giudicative), Hegel tratta di quella esprimente la categoricità necessaria: tutti gli S sono (necessariamente) P. Egli la intende come un giudizio ipotetico ovvero un’implicazione tra la proprietà S e la proprietà P. Vale a dire: tutti gli S sono (necessariamente) P perché la proprietà S implica la proprietà P (così mi pare si possa interpretare il testo). Si tratta proprio del nesso di codeterminazione semantica. Hegel qui lo intende esplicitamente come una coappartenenza tra determinazioni: «“se A è, è B”; ossia, “l’essere di A non è il suo proprio essere, ma è l’essere di un altro, cioè di B”. – Ciò che è posto in questo giudizio è il nesso necessario di determinatezze immediate» (SL p. 739; WL II, p. 9024-26). Ora, dire che l’essere di una cosa (la sua realtà, quiddità), è l’essere di un’altra, significa dire che – laddove è dato un nesso necessario – dei diversi sono tutt’uno l’uno con l’altro, condividono il medesimo essere. Sono identici, pur essendo diversi. Non c’è altro modo per esprimere questo loro rapporto. Si tratta di una contraddizione, evidentemente, ed infatti Hegel richiama poco oltre due cose importanti che ne dànno conferma. La prima è che una tale struttura contraddice il principio di identità. La seconda è che con ciò si tratta del principio di determinatezza, finitezza, per il quale una cosa è sé stessa e non un’altra cosa. Il principio di identità afferma che A è soltanto A, non B, e che B è soltanto B, non A. Nel giudizio ipotetico[che esprime la codeterminazione, la coappartenenza], all’incontro, è posto dal concetto

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l’essere delle cose finite secondo la loro verità formale, che cioè il finito è il suo proprio essere, ma in parti tempo non è il suo essere, ma è anzi l’essere di un altro. (SL p. 739-40; WL II, p. 917-12)

C’è poi un altro luogo significativo, là dove Hegel interpreta Kant, valorizzandone il principio della sintesi a priori. Questo principio stabilisce la connessione necessaria di determinazioni differenti. Si tratta, in altri termini, della codeterminazione semantica, della coappartenenza ontologica. Hegel però rimprovera Kant di non comprenderne davvero la struttura logica di quel principio che va invece inteso «la dualità nell’unità» (SL p. 671, WL III, p. 2531). È l’identità nella differenza, forma dello speculativo, costituita dai due lati di cui si diceva. 6.5.6

Intelletto e contraddizione

Il concreto, il rapporto essenziale tra determinazioni, ha una struttura che non si può esporre altrimenti che con la complementazione di enunciati antifatici, contraddittori, antinomici. Perciò l’intelletto, quel modo di pensare imperniato nelle consuete leggi logiche, rifiuta le presunte verità speculative. È Hegel il primo a rilevarlo, offrendo chiara descrizione di come ciò avvenga. L’intelletto anzitutto rifiuta come astrusa, assurda, l’idea della verità di una contraddizione. Conseguentemente, dice Hegel, «nel cogliere l’idea filosofica si esercita proprio questa violenza che consiste nello spaccarla a metà» (E § 93)35. Infatti, per la logica tradizionale o è vero qualcosa (P), o è vera la sua negazione (-P); dunque o il finito è eguale all’infinito (e dunque la loro differenza sarà meramente lessicale, poiché altrimenti avremmo una violazione del principio di identità), ed è falso che siano diversi; oppure il finito è davvero diverso dall’infinito, ed allora è falso che siano identici. È vera o l’una o l’altra cosa; non tutt’e due insieme; e tertium non datur. Si tratta in buona sostanza dei principi di non-contraddizione e del terzo escluso. Se li si mantiene, a qualsiasi livello (astratto, concreto), bisogna ribadire (con quanta concretezza si vuole) quel che Hegel fa dire all’intelletto. Ma il pensiero intellettuale, con questa separazione fatta di o...o (scissione, Entzweiung, detta col lessico del primo Hegel), fatta valere in forza delle leggi logiche, si attesta nella posizione (da Hegel chiamata) dell’isolamento o intelletto astratto. Separando le determinazioni, la contraddizione dello speculativo è evitata. La contraddizione viene persino ritenuta dall’intelletto il prodotto della scarsa disciplina del pensiero che p. es. scambia le predicazioni per delle identità. La separazione fatta valere consiste nel tenere separati p. es. finito e infinito, essere e nulla, oggettivo e soggettivo: queste nozioni son cose diverse e non vale la loro identità. Ma l’isolamento, per Hegel, comporta inevitabilmente

35 «Il torto più comune che viene fatto al contenuto speculativo, è di renderlo unilaterale, vale a dire di porre in rilievo soltanto una delle proposizioni in cui si può risolvere» (SL p. 81; WL I, p. 8232-35); «l’astrarre dell’intelletto è un fissarsi forzatamente a una determinatezza, è uno sforzo di oscurare ed allontanare la consapevolezza dell’altra determinatezza che vi si trova» (E § 89, nota).

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presto o tardi (Kant, suo malgrado, docet) delle contraddizioni. Per es., separatezza e opposizione di finito e infinito inducono da un lato ad attribuire alla finitezza una consistenza che secondo il suo concetto non le spetta, e dall’altro a rendere l’infinità qualcosa di limitato dal finito, daccapo in modo incongruo. Donde la contraddizione della separatezza (isolamento). Questa è la contraddizione dell’astratto. Il cui sciogliemento però non consiste nel pensare solamente una relazione, generica o specifica che sia, tra finito e infinito, una loro NRLQē (questa è la posizione cui giunge Platone nel Sofista); bensì nell’affermare che l’uno è tutt’uno, una cosa sola con l’altro, e che dunque il finito è e non è l’infinito (secondo una struttura di identità-differenza che Hegel cerca di rinvenire in Platone, certo in modo forzoso, come s’è visto). Il compito è pensare ed esporre l’intero olistico, l’identità nella differenza, la differenza nell’identità. Ma ciò si può fare solo affermando contraddizioni. È questo stato di cose – la contraddizione del concreto – a risolvere la contraddizione dell’astratto (con buona pace dell’intepretazione coerentizzante di cui si diceva). L’intelletto è recalcitrante a scorgere nella propria posizione un’incongruità – ma un compito del pensare speculativo è mostrargliela. Per contro, l’intelletto vede benissimo la contraddizione della posizione opposta alla propria – la contraddizione che il pensiero speculativo vuol tener ferma come vera. L’intelletto sa infatti che dire che qualcosa, che non è qualcos’altro, è questo qualcos’altro, è dire una contraddizione. E pensa con ciò – spaccando a metà lo speculativo, rimettendo le cose a posto – di aver raggiunto un punto fermo che non si lasci scuotere, ancorandosi al principio più fermo di tutti. Hegel ha un atteggiamento quasi di fastidio nei confronti delle critiche mosse dall’intelletto. Le quali vengono appuntate al pensiero speculativo quasi che quest’ultimo mancasse di buonsenso anziché esser andato, a torto o a ragione, consapevolmente oltre esso. L’intelletto, avversando l’antinomia speculativa (p. es. l’affermazione che il finito è infinito, ecc.), ammaestra che se due determinazioni son diverse, l’una non è l’altra: si passa a insegnare esplicitamente – dando la rispettiva confutazione – all’incirca che il soggetto è diverso dall’oggetto, [...] il finito dall’infinito ecc.; [...] come se qualcuno non sapesse che il soggetto è diverso dall’oggetto, l’infinito dal finito, o si dovesse ricordare alla filosofia, sprofondata nel suo sapere scolastico, che al di fuori della scuola c’è una sapienza per la quale quella diversità è ben nota. (E p. 93)

Ora, lo speculativo conosce bene il principio di diversità del molteplice o la differenza tra predicazione, identità ed esistenza. E non si sogna di negare l’uno o l’altra per avventurismo filosofico. Piuttosto si propone di pensare ciò che anzitutto l’intelletto vorrebbe pensare, senza però essere in grado di farlo – lo sappia e l’ammetta o meno. L’intelletto vorrebbe dire che cosa siano le cose, p. es. che cosa siano l’ente, la sua determinatezza, il finito, l’infinito, il divenire, il tempo, la libertà, la necessità ecc. Ma, secondo Hegel, concepisce tutto ciò in una maniera erronea – anche se inconsapevolmente. L’errore emerge attraverso le contraddizioni dell’astratto, la cui rimozione conduce al concreto e dunque alla complementazione antinomica. Di fronte a questa l’intelletto ha un atteggiamento di ottusa negazione, simile a quella che esso 245

imputa alla speculazione colpevole di non tener conto delle più banali verità. Ma è invece a ragion veduta che la speculazione afferma le contraddizioni. L’inconsapevole semmai è l’intelletto, che non si rende conto della fragilità di ciò su cui poggia. A dire il vero, di questa mancanza di fondamento l’intelletto ha qualche volta sentore quando, p. es. nel calcolo infinitesimale, nelle antinomie della ragion pura o nella nozione di tempo e mutamento, si trova in qualche imbarazzo concettuale. Si aprono, nella sua rete concettuale, delle falle. Ma l’atteggiamento generale non è di tenere per vere le contraddizioni, bensì di negarle (esse sono niente). E se proprio si vuol rendere ragione di questo loro reiterato presentarsi, la cui regolarità potrebbe destare qualche sospetto, al più le si reputa, come fa Kant, un’idiosincrasia del pensiero soggettivo, troppo allontanatosi dalla solida realtà incontraddittoria delle cose (un necessario errare, non un errore accidentale). Esse sono un guaio inevitabile quando il pensiero sta troppo solo con sé stesso, elucubrando al di là dell’esperienza possibile. C’è un passo in cui Hegel descrive chiaramente la contrapposizione tra intelletto e ragione, e il fatto che quest’ultima, superando le contraddizioni dell’astratto, finisce col dover scardinare i principi dell’intelletto invece che ripristinarli ad un livello superiore – come invece vorrebbe l’intepretazione coerentizzante qui discussa. È il seguente: l’intelletto ha buon giuoco nel mostrare che tutto, quello che viene detto dell’idea, è contraddittorio in sé. Ma quest’accusa può essergli ritorta contro altrettanto bene o, meglio, è quello che viene fatto nell’idea; un compito questo che è proprio della ragione, anche se non è certo facile come quello dell’intelletto. – Se l’intelletto mostra che l’idea contraddice se stessa, perché per es. il soggettivo è qualcosa di soltanto soggettivo, e l’oggettivo gli è piuttosto opposto, perché l’essere è qualcosa di completamente diverso dal concetto, e perciò non può venirne ricavato, e, ancora, perché il finito è soltanto finito, ed è proprio il contrario dell’infinito, e, quindi, non identico a esso, e così via attraverso tutte le determinazioni: ebbene la logica mostra piuttosto l’opposto, e cioè che il soggettivo che deve essere soltanto soggettivo, il finito che deve essere soltanto finito, l’infinito che deve essere soltanto infinito, e così via, non hanno alcuna verità, si contraddicono e passano nel loro contrario, sicché questo passare e l’unità nella quale gli estremi sono come superati, come un apparire o come momenti, si rivelano come la loro verità. (E § 214)

L’intelletto ammaestra che il finito è sé e non il suo contrario. Ora, se la logica (speculativa) «mostra l’opposto», che le affermazioni dell’intelletto «passano nel loro contrario», allora si deve dire – per superare le contraddizioni dell’astratto – che il finito è e non è l’infinito, che il soggettivo è e non è l’oggettivo, ecc. Si devono dire, illustrando il superamento dell’intelletto astratto, delle antinomie, delle contraddizioni. È questo il punto su cui vorrei insistere: nessuno ha dubbi sul fatto che il pensiero hegeliano assegni un ruolo importante alle contraddizioni. Ciò su cui si discute è quale sia questo ruolo; se sia transitorio o definitivo, se segno di falsità o di verità. Nel primo caso la contraddizione è riscattata, e si può far valere la tesi che Hegel critichi al più una concezione astratta dei principi logici, riaffermandoli alla fine in una prospettiva superiore. Nel secondo invece la contraddizione non è mai del tutto cancellata. Certo, in questo secondo caso c’è da chiedersi in che cosa sia diversa la contraddizione dell’astratto da quella del concreto; giacché se fossero simili non sembra avere molto senso cancellare la prima per approdare alla seconda. Se il concreto è contraddizione, in che senso esso risolve la contraddizione dell’astratto? Tanto varrebbe allora tenersi la contraddizione dell’astratto. Ma su questa questione tornerei tra breve. 246

Ora, quando ci si trova presso le verità speculative, ci si è lasciati alle spalle l’intelletto astratto, l’isolamento e le sue contraddizioni. Si è nel dominio delle relazioni costituenti la concretezza. Quindi, se in questo dominio vigono le contraddizioni, l’intepretazione coerentizzante del monismo hegeliano, è con ciò stesso smentita. Tale intepretazione, tenendo fermo il principio di contraddizione (richiedendone al più formulazioni più sofisticate, qualsiasi cosa ciò possa voler dire), delinea un tipo di pensiero che per Hegel non è in grado di concepire le verità speculative. Essa ricade nel dominio dell’intelletto che scinde, isola, separa l’antinomia, ritenendo per vero o qualcosa o il suo contrario; non certo entrambi. E un’interpretazione di Hegel che delinei una forma di pensiero da cui Hegel prende esplicitamente le distanze non può certo essere veritiera. A riprova vorrei citare qualche passo hegeliano che descrive i diversi atteggiamenti, dell’intelletto astratto e del pensiero speculativo, di fronte alla contraddizione. Torno alle pagine conclusive della Grande Logica, dove Hegel espone il procedimento dialettico. La prima negazione è il rapporto tra una determinazione e il suo negativo, è il nesso di coappartenenza tra due determinazioni. L’una è l’altra, la sua opposta: così va detto in forma di giudizio. La qual cosa è un’antinomia, come sappiamo. Rispetto a ciò «il pensare formale si fa una legge dell’identità, lascia che il contenuto contraddittorio che ha davanti a sé ricada nella sfera della rappresentazione, nello spazio e nel tempo, dove il contraddittorio viene tenuto in una estrinsecità reciproca» (SL p. 947; WL III, p. 29620-24). Hegel qui descrive il tipico modo di evitare le contraddizioni quando si presentano: pensare che siano un errore dovuto all’aver trascurato la differenza dei rispetti per i quali si dice qualcosa e il suo contrario. E fonti primarie per le diversità dei rispetti sono lo spazio e il tempo. Ieri Socrate era malato, oggi è sano, ecc. Si tratta, secondo Hegel, di espedienti per rifuggere la natura contraddittoria delle cose. Non vedendola, non si vedono le cose nella loro verità. E la ragione per questo distogliemento dello sguardo è proprio che si tiene pervicacemente fermo il principio di identità e di non contraddizione. Quel pensare si dà quindi il fermo principio che la contraddizione non sia pensabile, mentre nel fatto, invece, il pensamento della contraddizione è il momento essenziale del concetto. Anche il pensiero formale effettivamente la pensa; soltanto torce subito via da essa lo sguardo, e con quel dire non fa che passare dalla contraddizione alla negazione astratta. (SL p. 947-8; WL III, p. 29625-31)

La contraddizione non sarebbe pensabile per «quel pensare». Essa è vietata, ne è vietata la verità, cosicché non c’è nulla che corrisponda alla contraddizione. «Se viene mostrato che c’è contraddizione in qualche oggetto o concetto» – afferma Hegel – «si suole trarre la conclusione: “dunque quest’oggetto è nulla”» (E § 89 n.). La qual cosa vuol dire, grosso modo, che non esistono né possono esistere cerchi quadrati, ferri di legno e cose simili. Ribatte Hegel altrove: «ma è uno dei pregiudizi fondamentali della vecchia logica e dell’ordinaria rappresentazione che la contraddizione non sia una determinazione altrettanto essenziale ed immanente quanto l’identità» (SL p. 490; WL II, p. 603-6). «Si afferma, che non v’è nulla di contraddittorio» (ivi, p. 491; WL II, p. 6015-16) appunto perché «quel pensiero si ferma alla considerazione unilaterale della risoluzione della contraddizione nel nulla» (ivi, p. 494; WL II, p. 6318-19). La contraddizione, per quel pensiero, è niente; al più è il prodotto del pensiero soggettivo, come i romanzi e le chi247

mere. Anzi, neppure nel pensiero soggettivo c’è autenticamenente perché, a differenza di un romanzo che ha un contenuto (fantastico), la contraddizione non ne può avere proprio nessuno, e quindi formulandola non c’è proprio nulla da pensare (concepire, rappresentare). Infatti, se non esistono contraddizioni vere, non esistono stati di cose contraddittori, né nelle realtà materiali né in quelle mentali (come ragionava Aristotele36); perciò «il contraddittorio, si dice, non si può né rappresentare né pensare» (ib.). (Rifacendosi a Kant: mentre una chimera è un ente fantastico, un cerchio quadrato è invece Unding, una non-cosa assurda e impossibile, classificata come nulla negativo inimmaginabile). Quel che si dà, eventualmente, è il contraddirsi, il produrre maldestre formulazioni linguistiche di contraddizione. Ora, se Hegel critica la posizione che la contraddizione sia nulla, e contestualmente afferma che le verità speculative sono antinomie vere, mi pare del tutto insostenibile interpretarlo come un difensore, solo particolarmente sofisticato e fantasioso, del principio di non-contraddizione. D’altra parte Hegel afferma che «il pensare speculativo consiste solo in ciò che il pensiero tien ferma la contraddizione e nella contraddizione se stesso» (SL p. 492; WL II, p. 6125-26). Il rapporto tra intelletto e contraddizione è lumeggiato anche in un’aggiunta al § 82 dell’Enciclopedia su cui val la pena indugiare. Lì Hegel insiste sulla questione se lo speculativo sia o meno comprensibile razionalmente, e sulla ragione per cui esso sia stato relegato al dominio dell’ineffabile. Tutto dipende, evidentemente, da quale sia il dominio del razionale – se questo sia fatto coincidere con l’intelletto (la cui legge è la noncontraddizione) o meno. Lo speculativo, dice Hegel, non è null’altro che «quello che in altri tempi […] in relazione alla coscienza religiosa, soleva essere definito mistico» (E § 82, agg.). Questo «è certamente misterioso, ma soltanto per l’intelletto e [...] perché l’identità astratta è il principio dell’intelletto, mentre ciò che è mistico (come equivalente allo speculativo) è l’unità concreta di quelle determinazioni che per l’intelletto valgono soltanto in quanto separate e contrapposte» (ib.). Ora, c’è da chiedersi, perché mai l’intelletto dovrebbe rifiutare un’unità qualificandola come incomprensibile misticheria? La risposta è che quell’unità è una contraddizione – e che le contraddizioni non si capiscono (per la logica dell’intelletto). È proprio perché lo speculativo è un’antinomia, che l’intelletto lo rifiuta. Il pensiero dello Hegel maturo, invece, non ritiene più ineffabile lo speculativo, e del pari non ritiene più la contraddizione la pallida ombra di qualcosa che trascenda la razionalità e il linguaggio. Reputa, all’opposto, lo speculativo razionalmente comprensibile, secondo però una razionalità che si impernia sull’antinomia, non che la cancella. Infatti, prosegue Hegel in quell’aggiunta, se poi quelli che riconoscono come vero ciò che è mistico, si limitano a considerarlo come qualcosa di assolutamente misterioso, questo significa semplicemente da parte loro affermare che il pensare consiste semplicemente nel porre l’identità, e, quindi, per giungere alla verità sarebbe necessario rinunciare al pensiero. (ib.)

36

Cfr. supra p. 206, n. 59 e passim. 248

È questa in certo modo la via della terza posizione del pensiero rispetto all’oggettività, di cui Hegel parla al principio dell’Enciclopedia: il vero trascende il pensiero razionale e di esso non può darsi altro che comprensione intuitiva, ineffabile, appunto perché le leggi del pensare e del dire sono incardinate nell’identità e nella non contraddizione. Se queste leggi fossero l’ultima parola, non resterebbe altro che attenersi ad esse dichiarando la verità suprema qualcosa di mistico e cioè d’incomprensibile. Invece, «il pensiero intellettivo astratto è così poco qualcosa di fisso e di ultimo che piuttosto si mostra come il continuo superare se stesso e rovesciarsi nel suo opposto» (ivi, pp. 255-6). Ciò vuol dire che il divieto di ritenere vere le contraddizioni non è solido, ma superato, e che il pensiero speculativo sopravanza quello intellettuale non perché comprenda in modo incontraddittorio (chissà poi come e perché) ciò che all’intelletto appare erroneamente come contraddizione, ma perché comprende, afferma, sostiene la verità delle contraddizioni (l’intelletto, infatti, c’ha visto benissimo nel ritenere contraddizioni le antinomie speculative). Secondo Hegel, in altre parole, è possibile un pensiero che di fronte alla contraddizione non è affatto interdetto, paralizzato: «tutto il razionale [...] va definito al tempo stesso come mistico, il che significa soltanto che va oltre l’intelletto, ma per nulla affatto che debba essere considerato come inaccessibile e incomprensibile al pensiero» (ib.). Il razionale è il mistico concepito, detto, espresso. Ma mediante la contraddizione. Il pensiero speculativo sostiene la contraddizione. Se non lo facesse, o lo speculativo tornerebbe ad essere una misticheria trascendente, e il pensiero sarebbe solo intelletto; o non ci sarebbe differenza significativa tra la razionalità intellettuale e quella speculativa, contrariamente a quello che Hegel afferma ad ogni piè sospinto: entrambe sarebbero governate dalla noncontraddizione. Ma appunto il pensiero speculativo consiste nel tener ferma la contraddizione e sé in essa. Che può voler dire però che si tien ferma la contraddizione? In parte è già stato detto, ma qualche ulteriore riflessione che si confronti coi divieti a sostenere (pensare, dire, immaginare) la contraddizione va pure fatta. Il divenire implica contraddizione. È così per Hegel; non invece secondo le persuasioni di un’intera tradizione. Di fronte a questo inconveniente si profilano alcune strategie che sembrano alimentare una tensione tra la logica da un lato e l’evidenza dei dati di fatto dall’altro. 6.6

Vittoria della logica. Vie parmenidee

Si potrebbe chiedersi perché mai, stante la riconosciuta contraddittorietà del divenire, non lo si neghi, non se ne neghi la realtà. Lo si potrebbe fare in forza del principio di non-contraddizione, secondo uno spirito aristotelico. Il ragionamento è il seguente. Il principio di contraddizione è il più saldo di tutti, poiché intorno ad esso non è proprio possibile trovarsi in errore. Il divenire appare come contraddizione, ergo, in forza del primo principio e della sua innegabilità, il divenire non può essere reale. In altre parole: se un Aristotele venisse persuaso da un Parmenide a convincersi della contraddittorietà del divenire, quest’Aristotele dovrebbe imboccare una strada che lo porterebbe nei paraggi di Elea. Lo dovrebbe fare, ripeto, se e perché resta convinto che il principio di non contraddizione non sia in alcun modo smentibile. (L’alternativa sarebbe quella di 249

fare una reductio ad absurdum del principio di non contraddizione, più o meno radicale, come vedremo). D’altra parte per Aristotele il divenire è un’evidenza. Anche per Hegel in certa misura lo è. Si constata il divenire così come si constatano gli elefanti37. La soluzione quindi non è dire che il divenire non esista nel modo più assoluto, ma affermare che è parvenza, illusione, come i sogni. Si potrebbe far ciò affermando p. es. che le unità dei complessi, quelle che si producono e disgregano col divenire (giacché invece i sostrati si conservano), non sono ontologicamente rilevanti. E, come s’era detto, il mutamento di ciò che non è ontologicamente rilevante non è ontologicamente rilevante, non è autentico mutamento. E dire che non c’è autentico mutamento è un modo di negare il divenire. Si tratterebbe poi di sondare quanto questo modo sia congruo. Giacché le parvenze sono comunque qualcosa: sono appunto ciò che varia nel dominio dell’illusorio. E questo dominio e la sua variazione non sono a loro volta illusori. Ma se è così, allora esiste, perlomeno relativamente alle parvenze, una variazione che sembra riproporre daccapo l’intero problema38. Comunque, pur coi suoi limiti, questa soluzione eleatizzante sembra praticabile. Al caro prezzo di dichiarare irreali divenire e tempo; ma si tratta di un costo che i filosofi qualche volta sono stati disposti a pagare. 6.7

Vittoria dell’evidenza. Vie eraclitee

L’altra soluzione è affermare la contraddizione del divenire, infrangendo il principio di non-contraddizione. È una soluzione eraclitea, nello spirito, quanto la prima è parmenidea (sempre attenendosi a degli stereotipi, conformi peraltro alla lettura hegeliana di Parmenide e di Eraclito). Ora, questa via ha una diramazione. Una prima possibilità, infatti, è affermare l’innegabilità sia del divenire che del principio di non contraddizione e accettare il conflitto irrisolto tra esperienza e logica. Non è certo una soluzione soddisfacente. L’altra via invece è più radicale: nega il principio di contraddizione. Ovviamente la possibilità di quest’alternativa è subordinata alla possibilità di negare il principio più saldo di tutti. Giacché, se la tesi aristotelica che quel principio non sia in alcun modo smentibile è salda, questa strada è sbarrata. Però, come s’è detto, esiste una lunga tradizione che rispetto ai cardini del pensiero logico, da Parmenide in su, ha costituito una fronda, prendendone le distanze proprio su questa questione39.

Il riferimento è a un passo delle Lezioni sulla storia della filosofia citato dianzi. È opportuno precisare che questa non è la soluzione praticata da E. Severino, la cui posizione non è perciò criticabile da questo punto di vista. Egli intende la variazione come il comparire e lo sparire (a loro volta comparenti e sparenti) degli enti; non come una variazione di parvenze la quale finisce per riproporre il problema del divenire, che doveva evitare. 39 Lo si ricordava con le parole di L. LUGARINI (1998, pp. 54 ss.; cfr. supra n. 70, p. 116), e lo ricorda anche Priest in vari suoi contributi, chiamandola dialetheismo. 37 38

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6.8

Dire la contraddizione

Il problema a questo punto è dire, concepire, sostenere, affermare la contraddizione. Si tratta di un problema, giacché i difensori del principio hanno variamente sostenuto che chi nega il principio non dice nulla. Aristotele infatti paragonava il negatore più agguerrito e coerente del principio di non contraddizione ad una pianta40, poiché la cosa migliore che questi potesse fare era tacere. Ma chi tace, come le piante, non prende posizioni nelle diatribe filosofiche, e perciò non è neppure un temibile avversario41. Oggigiorno, come si diceva, è attribuita al negatore del principio di non contraddizione la responsabilità dell’esplosione del sistema, cosicché il negatore, se vuol percorrere la propria via, daccapo non sostiene nulla (neppure la sua posizione). (Sempre se per sostenere si intende il sostenere qualcosa, l’affermarlo come vero e quindi impegnarsi esplicitamente o implicitamente a rifiutarne la negazione). Il negatore dei tempi di Aristotele non diceva nulla perché taceva; quello odierno non dice nulla perché dice tutto e il suo contrario42. Però non è detto che l’esplosione sia davvero un problema irrimediabile, né che Aristotele abbia poi tutte le ragioni che pretende di avere. 6.9

Rimediare all’esplosione

Certi teorici contemporanei della contraddizione, i sostenitori del pensiero dialettico (del dialetheism)43, hanno esposto dei sistemi capaci di dire la contraddizione. L’hanno fatto perché secondo loro una grande famiglia di logiche (in primis quella classica), irreggimentate da principi (in senso lato) come la non contraddizione, la bivalenza, il terzo escluso, la negazione scotiana, ecc., sono complessivamente incapaci di render conto adeguatamente di certe situazioni come i paradossi logici o il movimento –

È un paragone ripetuto: cfr. Metaf. IV, 1006 a 15; 1008 b 11-12. Cfr. Metaf. 1006 a 11 ss. 42 V. VITELLO in vari suoi scritti (1997), (2003), ha acutamente messo in luce un’altra singolare difficoltà. A voler dire la contraddizione ci si imbatte in un’alternativa. Se si dice la contraddizione in modo coerente, infrangendo il principio di non-contraddizione, allora in certo modo ci si attiene ad esso, proprio per il proposito di esser coerenti. Così però si è incoerenti, perché non lo si sta davvero trasgredendo: esso, il principio che si vuol negare, in fin dei conti governa il modo con cui dovrebbe venire infranto. Se invece la si dice in modo incoerente, allora non si trasgredisce il principio di non-contraddizione, il quale daccapo continua ad avere una sua validità. Questo ragionamento potrebbe esser letto come una difesa elenctica del principio di contraddizione, avendo la forma di un’articolazione della consequentia mirabilis: (-PȺ3 Ⱥ3 PL sembra. Vitiello però non l’intende a questo modo, poiché ci sono ragioni indipendenti che, seguendo Hegel, portano alla negazione del principio di contraddizione. Ci si trova dunque, anche per Vitiello, nell’antinomia. Per dire la contraddizione si devono intraprendere altre strade. 43 Non si tratta dunque degli eredi della tradizione hegeliano-marxiano-francofortese. 40 41

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queste situazioni involgendo la contraddizione. Certo, non tutte le logiche condividono egualmente quei principi; ma per una ragione o per l’altra non ammettono le contraddizioni. Ora, ragionano questi amici delle contraddizioni, poiché i paradossi logici, nonostante tutti i presunti rimedi escogitati, sono inevitabili (i rimedi essendo inutili o addirittura un’aggrvante), e poiché il movimento è un dato di fatto, allora con la contraddizione si deve scendere a patti, in qualche modo. Bisogna intervenire nell’armamentario logico dei sistemi tradizionali, e in modo anche drastico, per modellare una logica capace di convivere con le contraddizioni. Qualche principio o nozione va deposto, p. es. l’universalità della legge di contraddizione, la negazione scotiana, ecc. Non è rilevante qui (lo è invece certamente per la filosofia della logica) seguire nel dettaglio che cosa vada deposto e come il sistema tecnicamente possa funzionare44. Importa piuttosto la mossa generale: accogliere qualcosa come un dato di fatto e poi scendere a patti con esso. Questa mossa è in certa misura aristotelizzante, ma diversamente da come lo era l’alternativa neo eleatica. Con quella si era aristotelici perché si riteneva innegabile il principio di contraddizione, al punto da dichiarare illusorio il divenire; con questa lo si è perché ci si basa su dei dati di fatto (Aristotele diceva: il divenire è noto di per sé), di cui ci si propone di render ragione come si può (se i divieti logici non diventano una camicia di forza). Il principio di contraddizione non è affermato o revocato perché abbiamo delle ragioni a priori in favore dell’una o dell’altra eventualità, ma perché esso è incompatibile con un dato di fatto. In un mondo in cui non ci fosse divenire, in un cielo platonico senza terra sottostante probabilmente non ci sarebbe bisogno di criticarlo, limitarlo. In ogni caso, la possibilità di sistemi teorici in cui esso non vale nella sua universale portata dice che esso non è necessario, un po’ come la possibilità delle geometrie non euclidee ha mostrato che gli assiomi euclidei non sono di per sé necessariamente veri (anche nel caso in cui fossero di fatto veri). Ora il discorso sul principio di contraddizione si allargherebbe troppo per poter trovar posto in queste considerazioni conclusive, nelle quali mi premeva soprattutto di tracciare una mappa delle alternative praticabili. Mette conto ancora di notare alcune cose sulle opzioni teoriche relative a divenire e logica. Ci si può chiedere cioè se l’ammissione della possibilità delle contraddizioni da parte di alcune logiche (ovviando all’inconveniente dell’esplosione così come possono) risulti soddisfacente dal punto di vista aristotelico. E mi pare che questa domanda ne incalzi un’altra, ancora maggiore, sul rapporto tra la verità del principio e la presunta innegabilità della sua formulazione. La prima questione può dirsi così: anche mostrando che si può ragionare nonostante le contraddizioni, un Aristotele ne resterebbe pago? Probabilmente no. Se infatti si concepisce in modo metafisico, ontologico, l’impossibilità della contraddizione, allora il fatto che in un sistema formale si riesca ad ammettere l’assurdo (simbolizzato

44

Lo spiega chiaramente F. BERTO (2006), al quale rimando per ogni approfondimento. 252

da: f) con degli opportuni accorgimenti, senza cioè danneggiare gli altri enunciati, non spiega ancora in che cosa consista, come possano essere inteso ciò che sottostà alla verità di un’enunciazione contraddittoria. In fondo, stiamo parlando di un Unding, di una non-cosa, di un cerchio quadrato. Cose come i cerchi quadrati non esistono e non possono esistere; il problema se enunciati contraddittori infettino o meno le nostre teorie è secondario. Non è che la loro messa in quarantena possa far esistere quel che esistere non può. Questa mi pare la prospettiva aristotelica, in buona sostanza. Però non ogni problema è risolto, dal momento forse anche la difesa aristotelica non si muove su un piano molto diverso da quella contemporanea, riguardante l’impossibilità di dire, formulare la negazione del principio. Parlo di piano perché sembra che da un lato ci sia il contenuto della legge di contraddizione, e dall’altro il problema della sua formulazione linguistica, delle condizioni materiali di questa, ecc. L’impossiibilità di negare il principio sembra avere dei caratteri pragmatici: chi lo nega, per formulare, dire la sua negazione, deve presupporlo. La negazione non avrebbe il senso che ha se non presupponesse il principio. Quindi la negazione ha solo il senso di essere un mero dire senza verità. Ciò però fa pensare che anche in Aristotele le ragioni a sostengno della verità o innegabilità del principio siano la circostanza pragmatica che esso non può essere negato, perché chi lo nega usa parole e dunque deve assegnare a queste dei significati e così usa e presuppone quel che vorrebbe dire invalido. Ciò però fa sorgere qualche sospetto. In generale, sembra che un principio sia vero e lo sia necessariamente (se lo è) del tutto indipendentemente dalla circostanza che qualcuno l’afferri, lo formuli, l’esponga in una lingua o in un’altra, con un simbolismo o con un altro. Le questioni espressive sono esteriori, accidentali rispetto al contenuto. La legge di gravitazione universale, posto che sia vera, è una legge vigente nel mondo delle cose, in silenziosa paziente attesa che qualcosa cada per governarne la caduta. Essa varrebbe anche se nessuno mai la l’avesse formulata. Simile sembra il caso del principio di contraddizione o qualsiasi altro principio oggettivo. Le formulazioni, in greco o in italiano o in un linguaggio simbolico sembrano essere solo un rivestimento esteriore, accidentale, capaci in modo più o meno preciso di esporne il contenuto. In fondo questo è il senso dell’oggettività delle logica. Perciò desta sospetto il fatto che un principio come quello di contraddizione venga argomentato in modo che esso debba valere perché le frasi di chi lo nega non hanno senso se non presupponendolo, cosicché esse non possono che essere un parlare a vanvera (e non solo un parlare contraddittorio, la qual cosa, per un negatore del principio, non è affatto un problema). Le condizioni di significato del linguaggio, gli aspetti pragmatici del dire, del tacere, dell’essere interdetti, persuasi, ecc. sembrano del tutto secondarie ed accessorie rispetto alla verità di una legge logica. Ma appunto la saldezza del principio non è argomentata tenendosi sul piano del suo contenuto, ma sul piano riguardante il fatto che l’enunciazione della sua negazione non è intelligibile se non ricorrendo al principio stesso. Sul principio aristotelico e sulla sua strategia di difesa però c’è un’ampio dibattito e non è possibile qui approfondire la questione.

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6.10 Eraclitismo aristotelico e hegeliano In ogni caso, il modo di procedere muovendo da dati di fatto non è certo quello di uno Hegel. Il quale non afferma il divenire e la sua relativa contraddizione sulla base di un riscontro empirico. C’è il divenire così come ci sono gli elefanti, dunque bisogna smorzare le pretese dei principi logici che poco s’adattano al pensiero del divenire. Egli piuttosto alla negazione del principio perviene del tutto a priori, con delle indagini ontologiche sulla nozione di ente, di determinatezza, di identità, colle quali giuoca una partita con Aristotele (e con un’intera tradizione). Tutte le cose sono contraddittorie perché contraddittoria è la nozione di cosa. Le cose sono sì diverse le une dalle altre, ma la diversità è in verità opposizione e questa è contraddizione, poiché la struttura oppositiva della determinatezza è un’esclusione che in ciò stesso include, e un’inclusione che in ciò stesso esclude. Così ragiona Hegel nella sua logica, a più riprese e a vari livelli, come s’è mostrato. Hegel non pensa che il divenire sia semplicemente un’evidenza cui debba esser dato spazio nel dominio concettuale. In generale, lo spirito della filosofia hegeliana è profondamente diverso: «la filosofia» – egli dice – «non ha da essere una narrazione di ciò che accade, sebbene una conoscenza di ciò che in quello vi ha di vero, e in base al vero dev’essa poi comprendere ciò che nella narrazione appare come un semplice accadere» (SL pp. 664-5; WL III, p. 1913-17). Non si può pensare che il divenire sia semplicemente un’accidente, che tutt’al più lo si riscontri, così come cogli elefanti. Cioè: è chiaro che lo si riscontra, al pari degli elefanti. Ma il divenire – la possibilità di divenire, del mutarsi (dell’umschlagen, diceva Hegel) in non-essere da parte dell’essere e viceversa, ciò che all’inizio ho chiamato contingenza – non è un tratto accidentale dell’essere, ma è inscritto nella semantica dell’essere, nella nozione di essere. È uno dei tratti fondamentali, più profondi dell’essere. Il quale essere è concetto, idea, spirito – è verissimo. Ma nel suo tratto fondamentale è essere che diviene.

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267

8 1

INTRODUZIONE 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 1.7 1.8 1.9 1.10

2

SOMMARIO 5

IN MEDIAS RES QUEL CHE NE PENSA HEGEL QUEL CHE PENSIAMO NOI DI HEGEL LA QUESTIONE DELLA CONTRADDIZIONE TAGLIARE IL RAMO SU CUI SI È SEDUTI COERENTISMO, CONTRADDIZIONE E SPECULATIVO TRIANGOLAZIONE DEDURRE IL DIVENIRE DIRE LA CONTRADDIZIONE STRUTTURA DEL VOLUME

IL DIVENIRE NELLA STORIA

17

2.1 GLI «ANTICHI PENSATORI» 2.1.1 Platone, Aristotele e il principio del sostrato 2.1.2 Aristotele:il confronto con gli Eleati e la polivocità dell’essere 2.1.3 La sostanza come sostrato 2.1.4 Alcune difficoltà 2.2 RIPRESA. IL PRINCIPIO DELLA SOSTANZA. 2.3 CREAZIONE DAL NULLA 2.4 ANSELMO D’AOSTA 2.5 LEIBNIZ 2.6 WOLFF 2.7 IL PRINCIPIO DELLA SOSTANZA IN KANT 2.8 RUSSELL E WITTGENSTEIN 2.9 ONTOLOGICAMENTE RILEVANTE 2.9.1 Rilevanza ontologica nell’atomismo logico 2.9.2 Rilevanza ontologica in Aristotele 2.10 ONTOLOGICAMENTE IRRILEVANTE 2.11 TEMPO E CONTRADDIZIONE 2.12 L’«ISTANTE» DI PLATONE 2.13 ARISTOTELE E L’ESTATICITÀ DEL TEMPO 3

5 6 8 10 10 11 13 13 14 15

DIVENIRE E TEMPO IN HEGEL

17 19 21 24 29 31 32 33 37 38 40 42 47 48 49 52 54 59 63 69

3.1 3.2 3.3 3.4 3.5 3.6 3.7

PRELIMINARE IL MOTO LOCALE IL DIVENIRE QUALE CONTRADDIZIONE L’INIZIO LOGICO QUALE IDENTITÀ DI IDENTICI: IL PURO ESSERE IL NULLA IDENTITÀ DI IDENTICI LA RAPPRESENTAZIONE DELL’INIZIO: IL DIVENIRE QUALE CONTRADDIZIONE

69 70 78 78 82 83

ASSOLUTA

3.8 3.9

IDENTITÀ DI OPPOSTI ESSERE E NULLA DETERMINATI

86 87 88 269

3.10 3.11 3.12 3.13 3.14 3.15 3.16 3.17 3.18 3.19 4

RIPRESA. IL PARALOGISMO E LA CONTRADDIZIONE DEL DIVENIRE IL DIVENIRE NELLA PRIMA TRIADE PARMENIDE, ERACLITO, EX NIHILO NIHIL FIT E CREATIO EX NIHILO DIVENIRE, DETERMINATEZZA LA CONTRADDIZIONE DEL TEMPO IL TEMPO NON È NEL TEMPO LE DIMENSIONI DEL TEMPO E L’«ORA» TEMPO E DIVENIRE NEGATIVITÀ DEL TEMPO TEMPO E DIVENIRE: RIPRESA

91 94 96 100 104 106 110 110 112 116

LA SEMANTIZZAZIONE HEGELIANA DELL’ESSERE I: PRIMI SCRITTI 121 4.1 SCRITTO SULLA DIFFERENZA 4.2 LO SFONDO 4.3 PARS DESTRUENS, PARS CONSTRUENS 4.4 DETERMINAZIONE QUALE OPPOSIZIONE 4.4.1 Conseguenze 4.4.2 Contro le filosofie dell’identità 4.5 CONTRO L’IDENTITÀ 4.6 EXCURSUS: OPPOSIZIONE E ANTINOMIA 4.7 CONTRO L’IDENTITÀ. RIPRESA 4.8 SVOLGIMENTO DELLA CRITICA ALL’IDENTITÀ 4.9 IDENTITÀ E NON IDENTITÀ 4.10 CONSIDERARE UNO COME DUE: ALCUNI PRECEDENTI 4.11 SOLUZIONE LOGICO-SEMANTICA 4.12 LIMITE E CONTRADDIZIONE: LA SPECULAZIONE JENESE 4.13 DIGRESSIONE: REALTÀ E NEGAZIONE 4.14 RIPRESA

5 LA SEMANTIZZAZIONE HEGELIANA DELL’ESSERE II: LE OPERE LOGICHE MAGGIORI 5.1 5.2 5.3 5.4 5.5 5.6 5.7 5.8 5.9 5.10 5.11 5.12 5.13 5.14 5.15

DOTTRINA DELL’ESSERE IL DETERMINATO E LA SUA CONTRADDIZIONE LA SEMANTIZZAZIONE DELL’ESSERE COME ESSER-DETERMINATO ESSENZIALITÀ DELLA NEGAZIONE ESSERE COME ESSER-ALTRO ESSER L’ALTRO DI SÉ STESSO LA CONTRADDIZIONE DELLA STRUTTURA DELL’ENTE DETERMINATO LA CONTRADDIZIONE DEL LIMITE FINITEZZA, CONTRADDIZIONE, DIVENIRE ESSERE E CONTINGENZA DOTTRINA DELL’ESSENZA: DALL’ONTOLOGIA ALLA LOGICA LA RIFLESSIONE E LE SUE DETERMINAZIONI ESSENZA E RIFLESSIONE MOMENTI DELLA RIFLESSIONE LE DETERMINAZIONI DELLA RIFLESSIONE 270

121 122 123 124 125 126 127 128 130 131 133 138 143 144 146 151 161 162 165 167 170 172 174 179 184 187 194 196 199 199 203 204

5.16 5.17 5.18 5.19 5.20 5.21 5.22 5.23 5.24 6

L’IDENTITÀ DALL’IDENTITÀ ALLA DIFFERENZA (E VICEVERSA) IDENTITÀ E DIFFERENZA COME DETERMINAZIONI SINTETICHE UGUAGLIANZA, DISUGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CRITICA DELLA RIFLESSIONE ESTERNA OPPOSIZIONE LA CONTRADDIZIONE DELL’IDENTITÀ LA CONTRADDIZIONE DELL’IDENTICO CONTRADDIZIONE E FONDAMENTO

CONCLUSIONE

227

6.1 REALTÀ DELLA CONTRADDIZIONE 6.2 NEGAZIONE LIMITATA DEL PRINCIPIO DI CONTRADDIZIONE 6.3 CONSEGUENZE DELLE CONTRADDIZIONI 6.4 NEGAZIONE CIRCOSTANZIATA 6.5 UN’INTERPRETAZIONE FUORVIANTE 6.5.1 In favore delle contraddizione 6.5.2 Categorie di contraddizione 6.5.3 Struttura dello speculativo e contraddizione 6.5.4 Proposizione speculativa ed antinomia 6.5.5 Altre testimonianze 6.5.6 Intelletto e contraddizione 6.6 VITTORIA DELLA LOGICA. VIE PARMENIDEE 6.7 VITTORIA DELL’EVIDENZA. VIE ERACLITEE 6.8 DIRE LA CONTRADDIZIONE 6.9 RIMEDIARE ALL’ESPLOSIONE 6.10 ERACLITISMO ARISTOTELICO E HEGELIANO 7

208 209 210 212 213 216 218 221 223

BIBLIOGRAFIA DEI TESTI CITATI

271

227 229 231 232 233 235 237 237 238 243 244 249 250 251 251 254 255

Stampato mese di maggio 2007 presso la CLEUP scarl “Coop. Libraria Editrice Università di Padova” Via G. Belzoni, 118/3 – Padova (Tel. 049/650261) www.cleup.it