Esistenza e morte. Heidegger e Sartre

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INDICE

Ringraziamenti Prefazione, di Marco IvaUo Introduzione

I.

Jx. PROBLBMA DBUA MORTE IN I!.ssERE E TEMPO DI MARTIN HBIDBGCBR

1.

II. 1.

2. 3. 4.

m.

21

Il contesto di pensiero in cui compare

il tema della morte 2. 3. 4.

7 9 15

Il Dasein: l'esistenza e l'essere-nel-mondo L'essere per la morte La chiamata della coscienza come attestazione di una possibilità esistentiva autentica e l'Entschlossenheit

JL PROBLEMA DBUA MORTE NB!:ESSERE EIL NULLA DI JEAN-PAUL $i>.RTRB L'ontologia fenomenologica: dal fenomeno all'essere Il pour-soi. Il nulla e la libertà dell'uomo Il carattere assurdo della morte La morte come trasformazione della vita in destino. Essere-per-altri e relazione con i morti

21 24 29 43 47 47 52 58 67

CoNPRONTI TRA LB DUB PROSPETTIVE.

LA CRITICA DI SARTRE A HBIDBGGBR

75

1.

2. 3. 4. 5.

La mia morte Anticipare e attendere la morte La morte tra appropriazione e alienazione Mancanza e totalità Possibilità

Bibliografia Indice dei nomi

76 78 84 87 92

97 101

Ringraziamenti

Desidero ringraziare la prof.ssa Renata Viti Cavaliere per aver accolto questo libro nella sua Collana "Criterio". Ringrazio, inoltre, la prof.ssa Rosalia Peluso per la sua cortesia. Sono grato al prof. Marco Ivaldo con cui mi sono laureato in Filosofia. Un ringraziamento va, infine, aiproff. Eugenio Mazzarella, Antonello Giugliano, Simona Venezia e Anna Pia Ruoppo per i loro fondamentali corsi universitari su Heidegger che ho seguito all'Università Federico II di Napoli e che mi hanno permesso di addentrarmi nella difficile filosofia di Heidegger.

Prefazione

di Marco Iva/do

Questo libro prende in considerazione in maniera competente e serrata le concezioni della morte di due rappresentanti fondamentali del pensiero filosofico del Novecento: Heidegger e Sartre. Fa questo sulla base di un approccio di largo respiro. Da una parte l'attenzione viene focalizzata su testi, rispettivamente di Heidegger e di Sartre, in cui il tema della morte è fatto oggetto specifico di comprensione, cioè i paragrafi. 4653 di Essere e tempo e il paragrafo intitolato "La mia morte" contenuto nella quarta parte (I, 2) di L'essere e zlnulla. n lettore riceve cosl anche una guida alla lettura di queste complesse ed essenziali riflessioni heideggeriane e sartriane. Dall'altra parte i testi menzionati vengono ampiamente contestualizzati in una sintetica ed efficace ricostruzione delle "ontologie fondamentali" dei due fìlosofì. In entrambi troviamo infatti due comprensioni della morte - tra loro assai diverse, e per molti aspetti opposte - che rinviano a loro volta alla comprensione dell'essere che viene sviluppata nelle loro opere. Da ciò il titolo di questo volume: Esistenza e morte. Infine l'autore enuclea le differenze fondamentali che, per quanto riguarda il problema della morte, emergono fra Heidegger e Sartre. Se il paragrafo di L'essere e il nulla, come è ben noto, è statoanche una reazione e una replica di Sartre alle analisi di Essere e tempo, nel terzo momento di questo Esistenza e morte Heidegger - e non soltanto Sartre - riceve per cosl dire di nuovo la parola e viene costruito

10 un confronto teoretico fra temi che sono caratterizzanti delle due comprensioni della morte. Nei confronti della morte la nostra epoca incarna bene l'approccio alla morte che Heidegger ha considerato come proprio della «quotidianità del Si (man)». Mentre le immagini dei media ci trasmettono uno "scialo di morte" in moltissimi luoghi della terra, la quotidianità si prodiga invece in una «costante tranquillizzazione nei confronti della morte», in una sua rimozione dentro spazi neutri e asettici. L'essere-per-la-morte della quotidianità si presenta cosl come una «fuga costante davanti alla morte», anzi assume la forma di una diversione di fronte a essa, caratterizzata dall'equivoco, dalla comprensione inautentica, dal coprimento, ossia dal tentativo di occultarne la vera natura esistenziale, e non soltanto biologica. Orbene, è singolare che la filosofì.a dei nostri giorni - caratterizzata per la grande parte da ricerche empiriche o logico-formali - segua la quotidianità, o semplicemente la rifletta, nella sua fuga di fronte alla morte. Il Novecento avrebbe fornito a una filosofì.a pensante e rigorosa ampi spunti per riflettere sul lato oscuro della vita, quel lato che a suo modo emerge anche nell'esperienza o nell'anticipazione del morire, che è diverso dal decedere inteso come fatto naturale accertabile con procedimenti appropriati. La filosofia o i filosofi però, almeno in una misura notevole, preferiscono concentrarsi su altri problemi, e giudicano una considerazione pensante della morte come una divagazione "metafì.sica" che non attinge nessuna certezza (come se la certezza fosse declinabile soltanto in senso empirico o logico-formale.). In defì.nitiva vale per essa la parola (certamente suscettibile di ampia meditazione) espressa da Epicuro nella Epistola a Meneceo: il saggio non teme la morte perché sa che la morte è nulla, e «quando noi ci siamo la morte non c'è, e quando la morte c'è noi non siamo più». Ora, può soddisfare questa divisione di campo, di qua no~ di là la morte? È la morte soltanto un fenomeno naturale? Non ha la morte a che fare non solo con i processi immanenti della natura, ma anche con la nostra esistenza, sulla quale fa pesare la minaccia del nonessere? La morte - ha scritto Heidegger - sovrasta l'Esserci.

P!ODUZIONll

19

Heidegger stesso, pur ritenendo giusta la traduzione con >9; questo vuol dire non fermarsi alle determinazioni di ciò che è (l'ente) ma mostrare il senso che ha l'essere di questo ente1°. tica, dell'ente che si ferma ai caratteri dell'ente come tale, senza mettere in questione suo essere; ontologica invece è la considerazione dell'ente che mira ali' essere dell'ente» (G. Vattimo, Introdu:i.ione a Heùhgger, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 21). 7 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p . 17. • Per un confronto tr2 la fenomenologia di Heidegger e Husserl si veda F.-W. VonHemnann, Ilconcettc difenomenolcgia in Heùhgger e Husserl, Il melansolo, Genova 1997. • M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p . 50. 10 «Che cos'è ciò che la fenomenologia deve "lasciar vedere"? [.. .)Si tratterà, evidentemente, di qualcosa che innanzi tutto e per lo più non si manifesta, di qualcosa che resta nascoste rispetto a ciò che si manifesta

a

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Mario Lo ConJe

Lo schema originale dell'opera, riportato nel paragrafo 8 dell'.lntroduzione di Essere e tempo, prevedeva due parti, corrispondenti ai due compiti da assumere nell'elaborazione della domanda sull'essere: una pars construens, una interpretazione dell'Esserci prima preparatoria e poi analizzata a partire dal suo costitutivo carattere temporale per giungere al tempo come orizzonte ultimo della domanda sull'essere, e unapars destruens, una distruzione (Destruktion) della storia dell'ontologia, nel senso di un confronto con le tappe salienti della storia dell'ontologia (Kant, Cartesio, Aristotele) per mostrare che l'essere è stato sempre considerato come ente (nel senso della semplice presenza) e, anche se è stato visto il rapporto essere-tempo, questo è stato sempre interpretato nel senso della presenza, senza mostrare il carattere temporale dell'essere stesso, ciò che Essere e tempo si proponeva di mostrare. Come è noto, però, quest'opera resta incompiuta, infatti si interrompe dopo le prime due sezioni della prima parte.

2. Il Dasein: l'esistenz.a e l'essere-nel-mondo Come si è detto nel paragrafo precedente, l'ente che va interrogato per primo nella domanda circa il senso dell'essere è il Dasein, l'Esserci. Con questo tennine Heidegger indica l'ente che noi stessi sempre siamo, la cui «essenza>Y1 consiste nel suo aver-da-essere (Zu-sein), ovvero nel fatto che questo ente è costituito dal rapportarsi al proprio essere decidendo di esso12 • innanzitutto e per lo pili, in modo da costituirne il senso e il fondamento» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 50-1). 11 La parola essenza va messa tra virgolette perché l'uomo, il Dasein, non ha un'essenza nel senso generico della tradizione filosofica; per esso si può dire che la sua essenza è quella di non aveze un'essenza. 12 Come fa notare F. Volpi nel Glossario a Essere e tempo: «Heidegger [ ... ] intende mostrare che il rapportarsi dell'Esserci al proprio essere non è di tipo constatativo e riflessivo, non avviene mediante una inspectio sui ovvero un ripiegamento su se stesso di tipo teoretico, ma è "pratico-morale» (nel senso dellapr4Xir aristotelica): l'Esserci si rapporta al proprio essere nel senso che se ne assume il peso e decide di esso. ll concetto, che in tedesco

IL PROBLEMA DE.I.LA MORTE IN B5SSII.B B TB.\11'0

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L'Esserci quindi non è un ente fisso e stabile, un che cosa, nel senso della semplice presenza, ma un ente che ha da essere il suo essere, un chi, un'esistenza. Proprio per questo Heidegger può dire che l' «essenza (essentia) di questo ente, se mai si possa parlare di essa, dev'essere intesa a partire dal suo essere (existentia)»1'. Qui però bisogna notare che Heidegger utilizza il tenn.ine "esistenza" in maniera differente dal significato tradizionalmente usato dall'ontologia. Per quest'ultima l'esistenza significa il semplice fatto che qualcosa è, il suo semplice sussistere, la sua semplice presenza (Vorhandenheit) o realtà effettiva (Wirklichkeit, l'actualt"tas latino). Heidegger utilizza invece questo termine per esprimere il poter-essere dell'Esserci (&istem:). Solo l'Esserci umano esiste14, da intendersi «nel senso etimologico di ex-sistere, star fuori, oltrepassare la realtà semplicemente-presente in direzione della possibilità>)15. Di conseguenza, quindi, i caratteri d'essere dell'Esserci non sono descrivibili tramite categorie, che sono le determinazioni d'essere delle cose semplicemente-presenti, ma attraverso esistem:ia!t", che descrivono le sue possibili maniere di essere. Gli esistenziali «a differenza delle categorie che sono determinazioni a priori di un "che cosa" (o "semplice presenza"), sono modalità di auto-comprensione di un "chi", che è proprio solo ali'esserci stesso»16•

è un gerundivo, sottolinea nel contempo l'inaggirabilità di tale autoriferimento pratico-morale: l'Esserci non sceglie di occuparsi o non occuparsi del proprio essere, ma vi si riferisce inevitabilmente, se ne fu carico e ne decide, anche quando tende a sottrarsi al peso di tale decisione rifugiandosi nelle forme di comportamento che l'impersonalità del "Si" {Man) gli mette a disposizione» (ivi, p. 613). "M. Heidesser, Essere e tempo, cit.,p. 60. " «Solo l'uomo esiste. La roccia è, ma non esiste. L'albero è, ma non esiste. Il cavallo è, ma non esiste. L'angelo è, ma non esiste. Dio è, ma non esiste» (M. Heidesser, "Introduzione a: "Che cos'è mebnsica" in M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 2008, p. 326). " G. Vattimo, bttroduxione a Heidegger, cit., p. 21. " C. Esposito, Heidegger, il Mulino, Bologna 2013, p. 72.

26 Inoltre, l'essere di questo ente (l'Esserci) è sempre mio. Ciò vuol dire che l'Esserci non può mai essere inteso come un esemplare di un genere dell'ente interpretato come semplicepresenza. Un esemplare cosi inteso sarebbe indifferente al suo essere17, ma esso si rapporta sempre a se stesso scegliendo cosa fare del proprio essere. Proprio per questa struttura dell'«essersempre-mio» (Jemeinigkeit), quando ci riferiamo all'Esserci è necessario ricorrere al pronome penonale: "io sono", "tu sei". E, aggiunge Heidegger, l'Esserci è sempre mio in una ben precisa maniera di essere, rapportandosi al suo essere come alla sua possibilità più propria. «L'Esserci è sempre la sua possibilità»is, da intendersi non nel senso che l'Esserci ha possibilità come una sostanza possiede le sue proprietà, bensl nel senso che egli può scegliere se stesso conquistandosi o perdendosi, ovvero cogliersi in maniera autenticalj o in maniera inautentica. Proprio questi concetti di autenticità (Eigentlichkeit) e inautenticità (Uneigentlichkeit) come possibilità esistentive dell'Esserci, non riducibili alla rappresentazione di un io stabile, identico a se stesso nel variare delle esperienza vissute, mette in crisi le vie d'accesso tradizionali all'Esserci, che lo riducono a un ente semplicemente presente. L'analitica esistenziale, per Heidegger, si distingue dalle scienze (come l'antropologia, la psicologia o la biologia) che tradizionalmente si occupano dell'uomo. Queste, infatti, non problematizzano la questione dell'essere dell'ente uomo. In fondo, anche Cartesio, non discusse l'essere del sum. «Col cogito sum Cartesio pretende di porre la sua filosofia su basi nuove e più sicure. Ma ciò che questo suo inizio "radicale" lascia indeterminato è il modo di essere della res cogit.ans, più precisamente il senso dell'essere delsum>'l-0 • Per Heidegger, se si «Per l'ente cosl inteso il suo essere è "indifferente" o, meglio ancora, "è" tale che a esso il suo essere non può risultare né indifferente né non indifferente» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 61 ). 17

11IbiJem. 19 EigmJlichkeit ha come radice: ei'gen, proprio. 20

M. Heidegger,Essere e tempo, cit., p. 38.

IL PROBLEMA. Dl!U.A MORn IN Ess= 2

n.>uo

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parte da un io o da un soggetto già dati si manca il contenuto fenomenico dell'Esserci. Per questo egli conia l'espressione Dasein e non usa i concetti impiegati normalmente dalle scienze che si occupano dell'uomo come: soggetto, vita, anima, uomo, spi.rito, coscienza o persona21• Bisogna evitare, per Heidegger, di partire da un'idea dogmatica e non problematizzata dell'Esserci, ma è necessario che la «modalità di accesso e di interpretazione deve piuttosto esser scelta in modo che questo ente possa mostrarsi da se stesso e in se stesso. E in verità l'ente dovrà mostrarsi cosl com'è tnnam:itutto e per lo più, nella suaquctidiam"tà media>>22. n problema dell'essere dell'uomo deve partire dalla quotidianità (Alltaglichkeit) o medietà (Durchschnittlichkeit), dal modo, cioè, in cui l'Esserci, innanzitutto e per lo più, si trova a esistere. Bisogna partire da quella che Heidegger chiama la struttura fondamentale dell'Esserci: l'essere-nel-mondo. Questa espressione indica un fenomeno unitario - infatti Heidegger usa i trattini proprio per designare quella coappartenenza originaria di Esserci e mondo - con cui egli vuole superare la separazione moderna tra soggetto e oggetto, res cogitans e res

extensa. Essere-nel-mondo non vuol dire l'esser dentro (Jnwendigkeit) spaziale di una cosa semplicemente presente in un'altra cosa (mondo) semplicemente presente, ma «abitare nel ...», «avere ___ :I : • à con. .. »2' . f,amwant «Non è quindi per un capriccio terminologico che evitiamo questi termini (come, del resto, le espressioni "vita" e "uomo") quando vosJiamo denotale l'ente che noi stessi siamo» (M. Heidegger,Essere e tempo, cit., p. 65). 22 lvi,p. 30. 23 Nelle conferenze di.KasselHeidegger afferma: «Unaconcezione fondamentaledetermina l'uomo come io. Essa si ricollega a Descartes, che nelle Medita:cioni cerca un fondamento sicuro della certezza e lo trova nel!'ego in quanto res cogitans. A ciò si è richiamata, passando per l'impostazione kantiana, la teoria della conoscenza, che poi cerca di comprendere: come il soggetto partendo da sé giunge ali'oggetto, può conoscerlo. [ ...] Questa concezione, che innanzitutto è dato solo l'io, è acritica. Essa presuppone che la coscienza sia qualcosa come una cassetta, in cui l'io è dentro e la realtà è fuori. Di tutto ciò la coscienza naturale non sa proprio niente. Piuttosto 21

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Mario Lo Conte

L'uomo è nel mondo non come un osseivatore in mezzo a una serie di semplice presenze ma sempre avendo a che fare con qualcosa, nel modo di essere del prendersi cura. Heidegger mette cosl in crisi il primato dell'atteggiamento teoretico dell'uomo, privilegiato dalla tradizione affermando che la theoria è un modo derivato del prendersi cura. L'Esserci è non solo poter-essere, progetto, ma è anche gettato nel Ci, ali'oscuro riguardo la sua provenienza e destinazioneZ-4, come gli rivela la situazione emotiv~ (Be/indlichkeit). Innanzitutto e per lo più, però, l'Esserci tende a decadere2, da se stesso e a perdersi in ciò che incontra nel mondo e di cui si prende cura, a scadere nel mondo del Si (das Man),dove nessuno è se stesso e ciascuno si riduce a vivere un'esistenza impersonale e neutra facendo quello che si fa e pensando quello che si pensa21. La prima sezione di Essere e tempo si conclude con la determinazione dell'essere dell'Esserci come Cura (Sorge) - «essereavanti-a-sé-già-in (un mondo) in quanto esser-presso (l'ente che si incontra dentro il mondo)» - in cui vengono comprese il dato originario dell'esserci è che esso è in un mondo» (M. Heidegger, Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l'attuale letta per una visione storica del mondo, Guida, Napoli 2001). "'«Il puro "che c'è" si manifesta; il donde e il dove restano invece nascosti. [...] Questo carattere dell'essere dell'Esserci, di esser nascosto nel suo donde e nel suo dove, ma di essere tanto più radicalmente aperto in se stesso, questo "che c'è" noi lo chiamiamo l'e..ser-gettato di questo ente nel suo Ci». (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 167-8). "'La situazione emotiva è, perHeidesser, un esistenziale fondamentale. 26 La deiezione (Ve,fallen) dell'Esserci è, per Heidegger, il >'6 • Tuttavia- e qui si svela il legame con il terzo momento della Cura: la deiezione - innanzitutto e per lo più l'atteggiamento assunto dall'Esserci di fronte alla morte è quello della fuga e della diversione. Innanzitutto e per lo più l'Esserci copre il proprio essere per la mort~ 7• «L'Esserci muore effettivamente fintanto che esiste, ma, innanzi tutto e per lo più, nella maniera della deiezione>>'8 • Avendo mostrato i caratteri dell'esistenza, dell'effettività e della deiezione che ineriscono all'essere per la morte, Heidegger

"L'angoscia (Angst) è WlO stato d'animo che va distinto dalla paura (Furch~. Infatti, mentre la paura è sempre paura di qualcosa di determinato, di Wl ente intramondano, l'ansoscia non ha Wl ossetto determinato. " Rovesciare l'angoscia in paura è quello che fu, come vedremo a breve, l'Esserci quotidiano. ' 6 M. Heidesser,&eree tempo,cit., p. 301. ,., «Attraverso il momento della deiezione, infine, l'Esserci comeesserepresso l'ente intramondano, innanzi tutto e per lo più nel modo dell'inautenticità, assume l'opinione del Si, il quale, riguardo alla morte, ritiene che, per quanto sia innegabile il suo verificarsi, essa non sia qualcosa che già ora possa accadere: per il Si, la morte rimane un perenne "non-ancora", che tutt'al più interessa qualcuno degli altri, ma mai il più intimo se stesso. In questo modo la morte rimane ancora la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile,in cui l'Esserci è già sempregettato, ma incontrata nella forma della fuga coprente di fronte ad essa» (U. Ugazio, Il problema della morte nella filcscfia di Heidegger, Mursia, Milano 1976, p. 35-6). "M. Heidesser, &ere etempo, cit., p. 302.

IL PROBLl!M,\ Dlll.LA. MOP.n IN Esss,u; s n.wo

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può cosl concludere: '9. Questa connessione fra l'essere per la morte e la Cura deve ora essere resa visibile nella quotidianità dell'Esserci non solo perché se l'essere per la morte fa parte originariamente dell'Esserci deve essere rintracciato anche nella quotidianità ma anche perché se l'essere per la morte deve fo mire la «possibilità esistenziale di essere un tutto da parte dell'Esserci»'° ciò confermerebbe la tesi che vede nella Cura la «designazione ontologica della totalità delle strutture dell'Esserci»,1. Ora, la domanda che si poneHeidegger è quale sia il modo in cui l'Esserci si rapporta alla morte - la sua possibilità più propria, incondizionata e insuperabile - nella sua quotidianità e quale situazione emotiva gli dischiuda l'abbandono ad essa. Nella quotidianità l'Esserci è a conoscenza della morte come di un evento che accade di continuo; ogni giorno l'Esserci viene a conoscenza di casi di morte: un parente, un vicino, uno sconosciuto muoiono di continuo. La morte è quindi un evento intramondano noto a tutti. L'interpretazione che il Si dà di questo evento è che la morte risulta qualcosa di indeterminato, che, un giorno capiterà anche a noi, ma per ora non ci minaccia in quanto non è ancora presente, «una volta o l'altra si morirà, ma,per ora siè ancora vivi»'2. In questo modo però si ha la convinzione che la morte riguardi il Si anonimo. «Il "si muore" riguarda sempre ciascuno degli altri, lasciandomi ancora sempre essere nella tranquillità delle mie occupazioni quotidiane»''. In questo discorso quotidiano riguardo la morte è evidente come la chiacchiera, l'interpretazione pubblica del Si, è sempre accompagnata dall'equivoco: la morte, che è sempre la mia, e che è caratterizzata dall'insostituibilità, viene assunta come un evento comune che riguarda il Si. Parlando della morte come ,. IbiJem. "'lbiJem. ''lbiJem. 42 lvi, p. 303.

"U. Uga-iio, Ilproblema della mcrte nellafilosofo: di Heidegger, cit., p. 36.

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Marù>LoCc111e

di un caso di morte che capita continuamente, il Si toglie alla morte il suo carattere di possibilità, nascondendo il suo più proprio essere per la morte. Nella quotidianità, quindi, ha luogo una elusione coprente nei confronti della morte che, nota Heidegger, domina cosi ostinatamente da venire addirittura coperta al «morente» stesso. Al morente gli si dice che certamente riuscirà a scampare alla morte e che presto potrà tornare alla vita tranquilla di tutti i giorni. In questo modo il «Si procura una costante tranquilliz-

x.azione nei confronti della morte»64n Si, inoltre, detta" anche il modo in cui ci si deve comportare davanti alla morte e la situazione emotiva da assumere nei suoi confronti. La morte, per il Si, non va «pensata»; pensare alla morte è segno di debolezza e pusillanimità66. Anche la situazione emotiva dell'angoscia, che, come abbiamo visto, rivela l'esser-gettato nella morte, viene coperta

- >8'. La chiamata, allora, pur non essendo progettata dall'Esserci84, va considerata come un fenomeno dell'Esserci stesso e non come la manifestazione di una persona estranea (per esempio di Dio), trovando quindi la sua possibilità ontologica nella struttura della Cura in quanto essere dell'Esserci8'.

" Cfr. i paragrafi 35-37 di Essere e tempo, dove Heidesser analizza l'essere quotidiano del Ci, prendendo in esame la chiacchiera, la curiosità e l'equivoco come sue modalità. "M. Heidesser,Esseree tempo, cit., p. 331. " «La chia.mata non è mai né progettata né preparata né volutamente effettuata da noistessi. "Qualcuno" chiama, contro la nostra attesa e contro la nostra volontà.D'altra parte la chiamata non proviene certamente da un altro che sia nel-mondo-insieme a noi. La chia.mata viene da me e tuttavia da sopra di me» (ivi, p. 329). " «La coscie,wz si n·vela come la chiamata della Cura:. il chiamante è l'Esserciche,nell'esser-gettato(esser-già-in... ),si angoscia perilsuopoteressere. Il richiamato è questo Esserci stessn, chiama~o a destarsi al suo più proprio poter-essere (esser-avanti-a-sé). E il ridestato è l'Esserci che è richiamato dalla deiezione nel Si {esser-già-presso-il mondo di cui ci si prende cura). La chiama•• della coscienza, cioè la coscienza stessa, trova la sua possibilità ontologica nel fatto che l'Esserci è Cura nel fondamento del suo essere» (ivi, p. 332).

IL PROBLEMA OP.IL\ :MOIU'E n, E.ssu.s B TB..VPO

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La chiamata si rivolge all'Esserci in quanto colpevole. La chiamata rivela all'Esserci il suo essere colpevole, cioè che egli è «il (nullo) esser-fondamento di una nullità»" in quanto l'Esserci deve assumere il suo esser-gettato che è il suo fondamento, ma questo non è posto da lui e l'Esserci non può essere signore di questa gettatezza. La comprensione autentica della chiamata della coscienza è il voler-aver-coscienza che, in quanto modalità di apertura dell'Esserci è costituita dalla «situazione emotiva dell'angoscia, dalla comprensione come autoprogettarsi nell'essercolpevole più proprio e dal discorso come silenzio. Questa apertura eminente, autentica, attestata nell'Esserci stesso dalla sua coscienza, cioè iltaciro e pronto all'angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole, è ciò che chiamiamo decisione 87

(Entschlossenheit)»ss. La risposta alla chiamata della coscienza (che non dice nulla e che pone l'Esserci davanti al suo più proprio poter-essere risvegliandolo dalla perdizione nel Si) si ha, dunque, da parte dell'Esserci con la decisione, cioè con la decisione di riprendersi dall'inautenticità del Si pre-correndo la morte (Vorlau/en) in quanto possibilità più propria. Attraverso la decisione l'Esserci non solo può appropriarsi autenticamente di se stesso ma può rapportarsi in maniera autentica anche agli enti intramondani, infatti essa permette quel «recupero della scelta» 89, quella «scelta della scelta», che permette il distacco dal mondo del Si.

86 Ivi, p . .340.

~ Chiodi traduce cosl il termine tedesco Entschlcssmheitusato da Heidesger. Una tradll2:Ìone più corretta potrebbe essere «decisione risoluta» o «risolutezza» perché non si riferisce a un atto esistentivo (in tedesco EntschltiJung) ma a un «habitus>>, a una modalità del!' apertura (Enchlcssenhei't), a quella disposizione fondamentale- a una originaria apertura - che è condizione di possibilità delle singole decisioni. Da notare il legame non solo concettuale ma anche terminologico tra Entschlcssmheit e Enchlcssenhei't, entrambi infatti si riferiscono al verbo schlieftm,. chiudere. • lvi, pp. .35.3-4. ,. «L'Esserci, che comprende la chiamata,ascoltanJo uhbiJisceallapossibilità più propria della sua esistenza. Ha scelto se stesso» (ivi, p . .34.3).

II IL PROBLEMA DELLA MORTE NE L'ESSERE E IL NULLA DI JEAN-PAUL SARTRE

Il più orribile dei mali, la morte, non è dunque nulla per noi; poiché quando noi siamo, la morte non c'è, e quando la morte c'è, allora noi non siamo più. (Epicuro, Lettera a Meneceo, 4, 125)1

1. L'ontologia fenomenologica: dal fenomeno all'essere

L'essere e il nulla, l'opera fondamentale del primo Sartre pubblicata nel 1943, reca come sottotitolo - stranamente omesso nella traduzione italiana - saggio di ontologia fenomenologica 2 • Essa raccoglie e sviluppa gli esiti di uno studio decennale, da parte di Sartre, della fenomenologia husserliana e heideggeriana, sin da quando, nel biennio 1933-34, tramite una borsa di studio, approfondisce a Berlino e a Friburgo il metodo fenomenologico. Epicuro, Lettera a Meneceo, trad. e cura di Ettore Bignone, Laterza, Bari 2003, p. 32. 2 Il sottotitolo, "saggio di ontologia fenomenologica", evidenzia il duplice legame che lesa quest'opera a Husserl, in quanto il metodo usato è quello fenomenologico (anche se Sartre lo moclificherà radicalmente) e a Heidegger, in quanto il discorso sartriano è rivolto ali'essere (l'InlroJuvone ha poi come titoloAli\: ricerca dell'essere). 1

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MarioLoConk

Quello con la fenomenologia è per Sartre un incontro decisivo. Simone de Beauvoir, filosofa femminista e sua compagna di vita (è lei il Castoro' a cui è dedicato il testo) racconta la profonda impressione provocata su Sartre quando il suo amico Raymond Aron, filosofo e sociologo francese, di ritorno dall'Istituto francese di Berlino, gli racconta la posizione originale della fenomenologia per quanto riguarda i rapporti tra la coscienza e il mondo•. Di questo entusiasmo reca traccia il breve scritto Un'idea

fondamentale della fenomenologia di Husserl: l'intenwnalità, pubblicato nel 19.39, ma risalente al suo periodo di studi berlinese, con cui Sartre si sbarazza del pensiero francese idealista o realista, definito come una filosofìa alimentare, reo di aver inteso la filosofia come «mangiare» («l'illusion commune au réalisme et à l'idéalisme, selon laquelle connai"tre, c'est manger>~), secondo cui conoscere è inglobare un oggetto da parte di un soggetto, facendo diventare tutte le cose dei "contenuti di coscienza". Come sottolinea Sergio Moravia, tre sono i debiti di Sartre nei confronti della fenomenologia che possiamo desumere da questo scritto. Innanzitutto il superamento dell'idealismo e del realismo. «La dottrina dell'intenzionalità ha mostrato finalmente qual è • D soprannome si riferiva sia alla sua incessante energia e produttività sia al fatto chebeaver in inglese sisnifica "castoro". • Simone De Beauvoir racconta che «Sartre fu vivamente interessato da ciò che intese dite della fenomenologia tedesca. RaymondAron trascorreva l'anno all'Istituto Francese di Berlino, e,mentre preparava una tesi di storia, studia,,a Husserl. Quando venne a Parigi ne parlò a Sartre. [ ...] Aron indicò il suo bicchiere: "Vedi, mio piccolo compagno, se sei fenomenologo, puoi parlare di questo cocktail, ed è filosofia!" Sartre impallidi, o quasi, dall'emozione; era esattamente ciò che desiderava da anni: parlare delle cose come le si toccano, e che questo fosse filosofu. Aron lo convinse che la fenomenologia rispondeva esattamente alle sue preoccupazioni: superare l'opposizione tra idealismo e realismo, affermare a un tempo la sovranità della coscienza e la presenza del mondo quale si offre» (S. de Beauvoir, L'etàforte, Einaudi, Torino 2016, p. 117). 'J.-P. Sartre, "Un'idée fondamentale dela phénoménologiede Hussetl: l'intentionalité", in SiJualicns, I, Gallimard, Paris 1948, p. 29.

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il vero rapporto fra soggetto e oggetto, fra coscienza e mondo. Essi nascono insieme»6 • L'intenzionalità permette di porre fine all'alternati.va idealista e realista, che considerano, rispettivamente, le cose che noi percepiamo e conosciamo esistenti come idee nella nostra mente o, al contrario, indipendenti da essa, fuori di essa, e con cui si entrerebbe successivamente in rapporto. In secondo luogo «la coscienza si trova tutta negli atti intenzionali che concretamente compie; [. ..] non esiste un' "essenza" sostanziale della coscienza indipendente dalla sua esistenza interamente protesa verso la realtà mondana>9. Troviamo già qui l'idea della coscienza come nulla, tutta protesa nei suoi atti intenzionali verso l'oggetto. La coscienza non è una sostanza indipendente, una res cogitans cartesiana, che contiene delle idee, di cui poi si debba esaminarne se rappresentino o meno la realtà esterna, perché la coscienza non ha un "dentro" («car la conscience n'a pas de "dedans"; elle n'est rien que le dehors d'elle-mfune et c'est cettefuite absolue, ce refus d'~tre substance, qui la contituent comme une conscience»8). Infine, ed è questo il terzo debito, il pensiero di Husserl, permetteva di andare oltre l'epistemologismo e lo gnoseologismo della fì.losofìa francese del tempo. rapporto coscienzamondo, per la fenomenologia, non è riducibile a quello conoscitivo. «La connaissance ou pure "représentation" n'est qu'une des formes possibles de ma conscience "de" cet arbre; je puis aussi l'aimer, la craindre, le ha'ìr>>9. La coscienza non è solo conoscitiva, ci sono anche coscienze affettive; ci si può rapportare al mondo non solo in termini teoretico-epistemologici. I guadagni teorici di questa opera10, come abbiamo ricordato in apertura, frutto dell'incontro con la fenomenologia husserliana, trovano conferma e sviluppo ne L'sere e il nulla.

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'S. Moravia, Introdu:zionea Sartre, Laterza, Bari 1983, p.14.

'Ihidem. • J.-P. Sartre, "Un'idée fondamentalede la phénoménologiede Hussert: l'intentionalité", cit., p. 30. • Ivi,p. 31. 10 Non solo di quest'opera ma anche di altri importanti scritti che Sartre compone prima de L'essen1e il nulla, dicui non possiamo occuparci ma che

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Qui, il punto di partenza è il fenomeno, inteso non kantianamente come Erscheinung (indicante cioè un essere vero al di là di sé) ma come piena positività, come manifestazione dell'oggetto alla coscienza. Scrive infatti Sartre che «la prima conseguenza della "teoria del fenomeno" è che l'apparizione non rinvia all'essere come il fenomeno kantiano al noumeno»11 • Ma allora si pone il problema dell'essere di questo apparire. Se l'essere non rimanda ad altro da sé, come il fenomeno kantiano, ma ciò che è lo è in modo assoluto - il fenomeno si rivela com'è - bisogna interrogarsi sull'essere del fenomeno. Per Sartre, l'essere dell'apparizione non è anch'esso un'apparizione, ovvero l'essere del fenomeno non ha natura fenomenica ma esige la transfenomenicità dell'essere. «L'essere del fenomeno, quantunque coestensivo al fenomeno stesso, deve sfuggire alla condizione fenomenica - il fenomeno esiste solo in quanto si rivela - e che, per conseguenza, eccede e fonda la conoscenza che se ne ha»12• Ridurre l'essere dell'apparizione al suo apparire ci farebbe piombare in un idealismo berkeleyano e nella sua formulazione: esse est percipz; è questo, secondo Sartre, ciò che farà Husserl

vanno tenuti presente. In particolare La trascendance de l'Ego - Esquisse d'une Jescription phénoménologique (trad. it. La trascendem:a dell'Ego, ed. Marinotti, Milano 2011)e quelli sull'immaginazione, L'immagination, Alcan, Paris 1936 (ed.it. L'immagi=icne, Bompiani,Milano 1962) eL'imaginaire. Psychologie phénoménologique Je l'imaginalion, Gallimard, Paris 1940 (ed. it.lmmaginee coscienxa,Einaudi, Torino 1948,oraL'immaginario:psicologia

fenomenologica del/'immagina:rione, Einaudi, Torino 2007). Infatti, come giustamente sottolinea Sergio Moravia, L'essen e ilmJ/a «costituisce lo sviluppo e la sistemazione delle tesi che avevano guidato le ricerche psicologi.che e 6losolìche precedenti. Molti princlpie dottrine portantidell'Essereeil nulla sono quelle incontrate nell'analisi di tali ricerche: la centralità "assoluta" della coscienza, la sua natura "irriflessa", tutta esteriorizzata e risolta nelle proprie relazioni con le "cose" della realtà, l'intenzionalità come modo o atto costitutivo della coscienza, il sossettocome esistenza mondana intimamente libera, e poi il rifiuto di og1li gnoseologi.smo, e ancora la forte istanza antirealistica e anti-idealistica» (S. Moravia, Introdu:done a Sartre, cit., p. 37). 11 J.-P. Sartre, L't=1ree il nulla, cit., p. 14. 12 Ivi, cit., p. 16.

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quando, con la riduzione fenomenologica, considererà il noema da irreale 1'. Al contrario, facendo dipendere l'essere della coscienza dall'oggetto si ricadrebbe in un realismo o oggettivismo inaccettabile, dal momento che la coscienza è un costante andare oltre il fenomeno nella sua possibilità costitutiva di trascenderlo. È necessario, per Sartre, che i due poli della relazione coscienza-mondo, soggetto-oggetto, seppur correlati, conservino una indipendenza. Entrambi i poli devono essere transfenomenici. «Cosi siamo partiti dalla pura apparenza e siamo arrivati in pieno essere>>14• Questi due poli sono l'essere della coscienza che viene chiamato da Sartre per-sé (pour-sot), e l'essere del fenomeno che è detto in-sé (en-soi). Si tratta di una eterogeneità ontologica radicale, di due zone di essere completamente divise, infatti mentre l'in-sé è pura identità con se stesso, statico, increato e atemporale, il per-sé non è mai identico a se stesso, è azione e movimento, si auto-crea continuamente nel tempot'. L' in-sé è la presenza bruta e opaca delle cose su cui la coscienza compie la sua attività intenzionale. Esso è l'essere che è ciò che è, ciò vuol dire che aderisce a se stesso in piena identità e per questo è detto da Sartre opaco e massivo: Ma se l'essere è in sé, vuol dire che non rimanda a sé, come la conoscenza (di) sé1~ questo sé, lo è esso stesso. Lo è al punto che la riflessione continua, che costituisce il sé, si scioglie in una identità. [...] l'essere è opaco a se stesso precisamente perché è ricolmo di se stesso. Questo fatto lo esprimeremo meglio dicendo che l'essere " Perwi commento puntuale dell'opera di Sartre e i suoi rapporti con la fenomenologia husserliana si rimanda a J . S. Catalano, A Commentary on Jean-Paul SIZftre's«Being and Nothingness», Universityof Chicago Press, Chicago-London 1974, 1980. w J.-P. Sartre, L'essere e ,1nulia, cit., p. 29. "Cfr. S. Moravia, lnlrodu;icnea Sartre, cit., p. 41. "Per l'uso che fa Sartre della parentesi in questa espressione - e in quella più generale della "coscienza (di) sé" (ricordiamo che la coscienza non è solo conoscitiva) - si veda il paragrafo 2 di questo capitolo e cfr. J.-P. Sartre, L'essere e il nulia, cit., p. 20.

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è ciò che è. [...] L'essere in sé non ha affatto un di dentro, che si opponga a un di fuori e che sarebbe analogo a un giudizio, una lesse, una coscienza di sé. L'essere in sé non ha segreti: è massivo. [...]È piena positività. Non conosce dunque l'alterità; non si pone mai come altro rispetto a un altro essere; non può sopportare alcun rapporto con l'altro. È se stesso indefinitamente e, nell'esserlo, dà fondo a se stesso. 17

2. Il pour-soi. Il nulla e la libertà dell'uomo Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, Sartre, attraverso il metodo fenomenologico, partendo dal fenomeno, arriva a porre due tipi di essere: l'in-sé e il per-sé. L'in-sé rappresenta l'essere del fenomeno, che, sebbene sia coestensivo al fenomeno, sfugge alla condizione fenomenica e quindi eccede e fonda la conoscenza che se ne ha. In questo modo Sartre evita di ricadere nell'idealismo berkeleyano, di ridurre cioè il fenomeno alla coscienza. La coscienza non è costitutiva del suo oggetto ma è rapporto a un essere trascendente. Il per-sé18 rappresenta invece l'essere della coscienza che, a differenza dell'in-sé che è ciò che è, ha da essere ciò che è, il che signifìca che non coincide mai con sé in piena adeguazione.

J.-P. Sartre, L'essere e il nulla, cit., pp. 32-3. Per quanto riguarda la terminologia, come nota Catalano, i termini "realtà umana'\ "es.sere umano", "per-sé'' e «coscienza", nella filosofia di Sartre, hanno lo stesso sisuifìcato e possono essere usati in maniera interscambiabile con qualche piccola differenza. «The terms "humanreality" and "human being" are the most generai, and with the reservations mentioned above, are used wherever the term "man" would normallysuffice. The term "for-itself" is often used to stress the unique relation ofman to things and to himself. The term "consciousness" refers specifically to thebeing of the man, to that which fust manifests itself as the unique and distinguishing characteristic of the for-itself. In the chapter on the for-itself (Part Two, Chapter One), Sartre will reveal that Jack, possibility, and value are also "aspects" ofman's being» (]. S. Catalano,A CcmmenJary onJean-Paul Sartre's «Being anJ Nothingn=», cit., p. 44). 11

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«"L'essere della coscienza" abbiamo scritto nell'Introduzione, "è un essere il cui essere è in questione nel suo essere">>19. La coscienza è per Sartre, come abbiamo già visto, intenzionale, cioè è sempre diretta verso qualcosa di altro dalla coscienza, è sempre posizionale di un oggetto trascendente, vale a dire che essa non ha un «contenuto». «Un tavolo non è nella coscienza, neppure a titolo di rappresentazione. [. ..] Il primo passo di una filosofia deve dunque essere quello di espellere le cose dalla coscienza>>2°. La coscienza è quindi posizionale dell'oggetto ma nello stesso tempo è anche coscienza non posizionale di se stessa in quanto ogni «esistenza cosciente esiste come coscienza di esistere11». Se, ad esempio, conto le sigarette nell'astuccio ho una coscienza non posizionale della mia attività additiva. Non mi conosco contante pur avendo coscienza di stare contando delle sigarette. Infatti se qualcuno mi chiede cosa stia facendo rispondo prontamente di star contando. Questa coscienza di sé non è per Sartre di tipo conoscitivo12 , non è una coppia del tipo soggetto-oggetto tipico della conoscenza, ma è un «rapporto immediato e non-cognitivo di sé a sé>:P e per questo Sartre, proprio per evitare una considerazione della coscienza come conoscenza di sé usa le parentesi: coscienza (di) sé. Questa coscienza non tetica (o non posizionale) (di) sé è la coscienza immediata, non riflessiva, che rinvia a un cogito pre-riflessivo24 • "J.-P. Sartre, L'esseN e ,tnulla, cit., p. 114. lvi, pp. 17-8. • 1 Ivi, p. 20. 12 «La coscienza non è un modo di conoscenza particolare, chiamato senso interno o conoscenza di sé, è la dimensione d'essere transfenomenica del soggetto. [...) bisogna abbandonare il primato della conoscenza [ ...) Certo la coscienza può conoscete e conoscersi; ma, essenzialmente, essa è qualcosa di diverso da una conoscenza ripiegata su se stessa» (lvi, p.17). z lvi,p. 19. 2.1 Sartre distingue «tre livelli di coscienza (irriflessa, riflettente e riflessa): 1° la coscienza originaria è coscienza irriflessa non posizionale di sé, coscienza di sé in quanto coscien:i:a di un oggetto in generale, coscienza come presenza nel mondo; 2° la coscienza riflettente, sempre non posizio20

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La necessità per la coscienza di essere ciò che non è e di non essere ciò che è, significa che la coscienza non è come l'in-sé, pienezza di essere compatta e infinitamente densa dove non c'è un minimo spazio per il vuoto, bensl che la coscienza non coincide mai con sé; essa è decompressione d'essere e ha un modo di essere completamente differente dall'in-sé; la sua legge d'essere è infatti la presenza a sé. «Usé rappresenta dunque una distanza ideale nell'immanenza del soggetto in rapporto a sé, un modo di non essere la propria cotncidema, di sfuggire all'identità, pur ponendola come unità; insomma un modo di essere in equilibrio continuamente instabile fra l'identità come coesione assoluta senza traccia di diversità, e l'unità come"» sintesi di una molteplicità25». Mentre, quindi, l'in-sé è identico con sé, la coscienza si presenta non come una unità contenente una dualità ma come una dualità che è unità, un riflesso che è la propria riflessione, un rapporto immediato e non conoscitivo con sé. Se l'essere della coscienza è di essere presenza a sé, ciò vuol dire che vi è una fessura nel suo essere, in quanto la presenza presuppone una separazione. Ma cosa separa la coscienza da se stessa? Niente (rien). Niente può separare la coscienza (di) fede dalla fede, «il soggetto e l'attributo sono radicalmente differenti, e questo, tuttavia, nell'unità indissolubile di un medesimo essere>:t'. Questa fessura intracoscienziale è il puro negativo, è il nulla (néant) come nulla d'essere e potere nullifìcante. U per-sé si determina quindi come una carenza di essere (dé/aut d'~e), abitato da una strutturale mancanza27, come nale (o non tetica) di sé, ma posizionale della coscien2a d'ossetto che essa riflette e su cui riflette; 3° la coscienza riflettente si identi.6ca e diviene coscienza che pone se stessa: in questo caso essa è riflessa, ossetto a sé, e può essere il luogo in cui abita l'Io» (G. M. Tortolone, Invito alpensiero Ji Sartre, cit., p. 51). "lvi, p . 117. Ivi, p. 155. 27 Tratteremo della "mancanza" in Sartre nel quarto paragrafo del capitolo terzo. Vedremo che mentre per Sartre la realtà umana è mancanza, per Heidegger essa non può esserlo, a meno di considerare l'uomo una semplice-presenza, cosa errata in quanto l'uomo è esistenza (Existenz).

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testimonia il desiderio in quanto fatto esclusivamente umano, perennemente alla ricerca del proprio completamento28 , di placare l'inquietudine del nulla con la stabilità dell'essere. Ricerca vana, in quanto questa totalità ricercata conterrebbe la sintesi impossibile del per-sé e dell'in-sé. In questo potere nullifìcante consiste la libertà dell'uomo, in questo potere dell'uomo di staccarsi dalle cose, di realizzare una rottura con il dato e di trascenderlo verso un fine progettato29. La libertà si definisce come l'essere stesso dell'uomo, la stoffa del suo essere, e essa «coincide nel suo fondo con il nulla che è nell'intimo dell'uomo>>'O. Proprio in quanto l'uomo è libertà per lui, a differenza delle cose del mondo, l'esistenza precede l'essenza;1, egli non è ma Vedremo nel paragrafo quarto del terzo capitolo come questa totalità a cui il per-s.l tende incessantemente non può mai esser raggiunta, determinando il per-s.1 come coscienza infelice per natura. A differenza di Heidegger, secondo cui l'essere umano può rasgiungere wu totalità. 20 La libertà consiste proprio in questa capacità della coscienza di essere nello stesso tempo tra le cose del mondo e di poterle trascendere, di non essere totalmente assorbita nel!'esistente, come già Sartre aveva dimostrato nelle sue ricerche sull'immaginazione. Ne L'css,,u il nulla scrive: «Tuttavia non è dato alla "realtà umana" di annientare, anche provvisoriamente, la massa d'essere che le è posta di fronte. Può modificare invece i suoi rapporti con questo essere. Per essa, mettere fuori campo un particolare esistente è porsi essa stessa fuori campo in rapporto a questo esistente. In questo caso essa sii sfugge, si è messa fuori portata, si è ritirata alJi là di un nulla. A questa possibilità della realtà umana di secernere un nulla che la isoli, Cartesio, seguendo sii Stoici,ha dato un nome: libertà» (J.-P.Sartre,L'essene il nulla, cit., p. 60). ,. lvi, p. 507. " Questo primato dell'esistenza sull'essenza è di derivazione heideggeriana (cfr, §9 di &ere e tempo). Sartre tt2Ìntendendo questa caratterizzazione heidegge.riana del Dasein incorre nel!'errore di includere Heidegger nel!'esistenzialismo. Nella Lettera sull'wnanismc Heidegger,infatti, mostrerà come questo principio fondamentale del!'esistenzialismo non sia altro che il rovesciamento metafisico della tesi che, da Platone in poi, sostiene che "l'essenza precede l'esistenza". Ma il rovesciamento di wu tesi metafisica resta una tesi metafisica e quindi nel!'oblio della verità del!'essere. E -sistenza va inteso invece, per Heidegger, come stare fuori (Hin-aus-sùhen) nella verità dell'essere. 20

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si fa,2 • L'uomo non avendo una essenza predeterminata, non essendovi una natura umana, sarà solo ciò che avrà progettato di essere. L'uomo, afferma Sartre seguendo Heidegger, è un progetto libero e quindi responsabile delle sue scelte come dimostra l'angoscia in quanto coscienza di libertà, situazione affettiva in cui l'uomo prende coscienza del suo essere assolutamente libero. La libertà, cui Sartre dedica il primo capitolo della parte quarta de L'essere e il nulla, viene definita filosoficamente come autonomia della scelta. Essere libero significa non « "ottenere ciò che si è voluto" ma "determinarsi a volere (nel senso lato di scegliere) mediante se-stessi"»". Questa definizione tecnica gli permette di mantenere il carattere incondizionato della libertà umana e di superare le obiezioni e gli argomenti del senso comune che, ponendo l'accento sulla nostra impotenza, affermano che l'uomo non è libero ma è determinato ad essere quello che è da una serie di fattori condizionanti. Posso scegliere di essere grande se sono piccolo? O di avere delle braccia se sono monco? No, ma questo poco importa perché se la libertà non è ottenere quello che si è voluto, allora il successo non interessa affatto alla libertà; essa, essendo autonomia della scelta, è sempre assoluta. Cosl anche un prigioniero è sempre libero, non «di uscire di prigione, cosa che sarebbe assurda, né [. . .] di desiderare la scarcerazione, cosa che sarebbe lapalissiana, ma che è sempre libero di cercare di evadere (o di farsi liberare), cioè che, qualunque sia la sua condizione, può progettare la sua evasione, e far conoscere a se stesso mediante un inizio di azione il valore del suo progetto>>'4 • " «La libertà umana precede l'essenza dell'uomo e la rende possibile, l'essenza dell'essere umano è in sospeso nella sua libertà. È dunque impossibile distiJlsuere ciò che chiamiamo libertà dall'essere della "realtà umana". L'uomo non è affatto prima, per essere libero Jcpo, non c'è differenza fra l'essere dell'uomo e il suo mere-libero» Q.-P. Sartre, L'essere e ilnull,z, cit.,

p.60).

"lvi, p. 554. "lvi, pp. 554-5.

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Allora il coefficiente di avversità delle cose, ricordato dai deterministi, non è un buon argomento per negare la nostra libertà, in quanto, sostiene Sartre, è proprio a causa della nostra libertà, attraverso cioè la posizione di un fine, che nasce questo coefficiente di avversità. Una roccia, ad esempio, che può manifestarsi come una resistenza e un ostacolo se voglio spostarla, sarà invece di grande aiuto se voglio scalarla per ammirare un paesaggio. È solo la nostra libertà che crea i limiti che incontrerà in seguito, non in senso fì.chtiano, ponendo un non-io contrapposto all'io,5, ma scegliendo il senso con cui il dato bruto in-sé è illuminato dal fine progettato. ndato, l'in-sé bruto, clùarito dal fine liberamente progettato dall'uomo non è affatto un limite perché è proprio grazie a esso che la libertà può nascere come libertà. La libertà, infatti, presuppone l'essere per strapparsi da esso. Non si può evadere da una prigione nella quale non si è stati rinchiusi. La libertà è dunque sempre in situazione. La situazione rappresenta l'insieme dei dati che condizionano l'uomo in quanto libertà progettante. Ma non bisogna confondere la situazione semplicemente con l'in-sé opaco delle cose del mondo; essa è piuttosto l'intersezione tra i progetti liberi dell'uomo e il dato (in-sé)". Questo dato, chela libertà deve chiarire tramite il suo progetto e che rappresenta la fatticità della libertà, cioè il suo essere al mondo in modo contingente e infondato, si manifesta in molti modi: il mio posto, il mio passato, le cose che mi circondano, il mio prossimo e la mia morte. L'analisi di questi elementi in cui l'uomo si trova a agire non avrà altro scopo che quello di mostrare l'assoluta e incondizionata libertà dell'uomo.

., Una libertà che si creasre da sola i suoi ostacoli sarebbe, per Sartre, assurda, in quanto la libertà è spontaneità, presuppone!'esrere per sottrarvisi. (cfc. L'essere e ,tnulla, cit., p. 2.3-6 e p. 555). >' «Noi chiameremo situa:QCM la contingenza della libertà nel plenum dell'esrere del mondo in quanto questo datum, che è presente solo per non costringere la libertà, non si rivela alla libertà che come già chiarito dal fine che essa sceglie» 0 .-P. Sartre,L'~ e il nulla, cit., p . 559).

58 3. Il carattere assurdo della morte La trattazione della morte viene introdotta da Sartre ne L'essere e il nulla per rendere più chiara l'idea di cosa sia una «situazione», quella contingenza della libertà nella pienezza dell'essere su cui ci siamo brevemente soffermati nel paragrafo precedente, e per mostrare come la morte non sia affatto un ostacolo ai liberi progetti dell'uomd7• Tutta l'argomentazione sartriana sulla morte è condotta da una critica alla concezione che Heidegger espone in Essere e tempo, e che è stata oggetto di analisi nel primo capitolo di questo libro; infatti tutto il lungo ragionamento di Sartre termina con: «Cosl dobbiamo concludere contro Heidegger» e in un'intervista del novembre del 1970 con John Gerassi, Sartre scrive: «Allora stavo scrivendo contro Heidegger»ss_ La morte, essendo sempre stata considerata, giustamente o erroneamente, un termine - il termine finale della vita umana - può essere considerata, per Sartre, in due modi; due concezioni che egli definisce realista e idealistico-umanista. Ogni termine, infatti, può essere considerato o aderente al nulla che segue al processo preso in esame o, al contrario, saldato, e quindi appartenente, al processo che termina e che quindi ne rappresenterebbe il significato. Ad esempio, una melodia termina con l'accordo finale; questo accordo è affacciato sul nulla che segue la melodia, il silenzio che ne segue, ma aderisce anche alla melodia, come suo significato. Questo duplice modo di considerare la morte, come termine che aderisce al nulla che segue la vita- come una «porta aperta sul nulla della realtà-umana, qualunque poi fosse questo nulla, o la cessazione assoluta dell'essere o l'esistenza sotto una forma non-umana>~9, come contatto con il non-umano, come «ciò che vi è al di là " «Cosi la morte [...] non mi tecca affatto. La libertà che è mia libertà resta totale e innnita; non che la morte non la limiti, ma perché la libertà non incontra mai questo limite, la morte non è affatto un ostacolo ai miei progetti». Q.-P. Sartre,L'~e ilnuJla, cit., p. 622). ,.J. Gerassi, Parlando con SarJre, il Saggiato.ce, Milano 2011, p. 35. ,. J .-P. Sartre, L'~e il nulla, cit., p . 605.

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del "muro"»◄0 - oppure come termine ultimo che appartiene alla vita e che ne rappresenta il senso, incarna rispettivamente la posizione realista e quella idealistico-umanista della morte. La prospettiva idealistico-umanista, che pretende di recuperare la morte e integrarla nella vita, è stata sostenuta, per esempio, da poeti, romanzieri e filosofi., come Rilke, Malraux o Heidegger; quest'ultimo è colui che ha dato «una forma filosofìca a questa umanizzazione della morte»41 , con la sua formulazione dell'anticipazione (Vorlau/en) della morte. Sartre rifìuta entrambe queste concezioni, realista e idealistico-umanista, della morte, perché, come vedremo a breve, egli non considera la morte come un termine fìnale della vita, non nel senso che pensi che la vita continui dopo la morte, ma nel senso che il carattere indeterminato della morte ne impedisce qualsiasi rapporto con la vita e ne ostacola qualunque carattere di fìne armoniosa. La concezione realista viene rifìutata perché la realtà-umana non può incontrare l'inumano, la realtà-umana nel suo stesso sorgere fa sl che ci sia un mondo, è la realtà-umana che fa venire al reale la "mondanità". Quindi anche se «la morte in-sé fosse un passaggio a un assoluto non umano, bisogna dunque abbandonare ogni speranza di considerare la morte come una finestra su questo assoluto»42 • È questo il tentativo, votato necessariamente al fallimento, del protagonista del racconto Il muro, Pablo Ibbieta, che, come •0

IbiJem. Il riferimento è al racconto intitolatoIl muro, contenuto della

raccolta omonima pubblicata nel 19.39,che narradi tre condannati a morte, durante la guerra civile spagnola, che stanno per essere fucilati dai franchisti. Uno dei condannati, Tom, cerca di immaginare la morte incombente, di comprendere l'esperienza della morte, ma non vi riesce. «È come negli incubi, - diceva Tom. - Si vuole pensare a qualche cosa, tutto il tempo si ha l'impressione di esserci arrivati, di star per capire e poi ecco che tutto scivola via, che ti sfugge ericade» (Jean-Paul Sartre, Il muro, Einaudi, Torino 1995, p. 18) E ancora: «vedro gli otto fucili spianati su di me. Penso che vottò rientrare nel muro, spingerò il muro con la schiena con tutte le mie forze edil muro resisterà, come negli incubi» (Ivi, p. 17) "J-.P. Sartre, L'essere e il nulla, cit., p. 606. .., Ivi,p. 607.

60 scrive lo stesso Sartre, sul soffietto del libro di racconti uscito per Gallimard nel febbraio del 1939, «stanno per fucilare, vorrebbe gettare il suo pensiero dall'altra parte dell'Esistenza e concepire la propria morte. Invano. ..» 4' La concezione umanista viene invece rifiutata negando che la morte appartenga alla realtà-umana; essa non appartiene alla struttura ontologica del per-sé, non può essere considerata come l'accordo finale che pone termine a una melodia. nprimo carattere che ci si impone è il carattere assurdo della morte, il suo essere un fatto contingente, che può venire, dall'esterno, in qualsiasi momento, come ha ben compreso la saggezza cristiana, che parta di essere sempre preparati alla morte, perché essa potrebbe venire da un momento all'altro e, come esemplifìca Sartre nella metafora del condannato a morte: Si è sovente detto che noi siamo nella situazione di un condannato a morte, in mezzo ad altri condannati, che non conosce il giorno della sua esecuzione, ma vede ogni giorno giustiziare i suoi compagni di prigione. Ciò non è però del tutto esatto: bisognerebbe piuttosto confrontarci a un condannato a morte che si prepara coraggiosamente all'ultimo supplizio, che ci mette tutto il suo impegno per far bella figura sul patibolo e che nel frattempo è portato via da una epidemia di febbre spagnola.••

La morte è assurda perché è contrassegnatada quel carattere di contingenza0 che per Sartre interessa tutte le cose. L'assurdo riguarda quel senso di radicale contingenza di ogni cosa che esi"Cit. in J .-P. Sartre, Lettere al Castcro e ad altre amiche, 1926-1963, Garzanti, Milano 1985, p. 728. "J.-P. Sartre, L'~ e il nulla, cit., pag. 607. Questo paragone con il condannato a morte aveva preso "corpon nel racconto IJ muro, cui abbiamo già accennato. .., L'idea del contingente, per Sartre, è una delle dimensioni fondamentali del mondo. Simone De Beauvoir ricorda nelle Conversa:rioni con Sartre - che ebbe a Roma nel 1974 e contenute nel libro La cerimonia degli addii - che Sartre aveva intenzione di fame qualcosa simile al fato per i greci. È lo stesso Sartre a ricordare, sempre in quella conversazione romana, come questa idea delcontingente nacque in lui partendo da un film. La necessità

IL PROBUMAl>BU.A MORTI? mI..:SSSEUs 11.NVLJ..
~2. Solo un avvenimento determinato può essere atteso. Sartre fa l'esempio dell'attesa di un amico alla stazione: posso, per esempio, attendere l'arrivo di un treno da Chartres perché so che ha lasciato la stazione di Chartres e che si sta avvicinando alla stazione di Parigi. «Inoltre posso dire che attendc'J (j'attendre) Pietro e che "mi aspetto (/e m'attends) che il suo treno abbia del ritardo''>Y4 • n ritardo del treno non può essere atteso, è un inconveniente imprevisto, che va sempre tenuto in conto ma che con la sua probabilità si perde nell'indeterminato. Allora la possibilità della mia morte è «del tipo del ritardo probabile dei treni, non del tipo dell'arrivo di Pietro>>5'. Non posso attendere la mia morte perché il suo carattere indeterminato («posso morire centenario o a 37 anni domani>Y6) si configura come imprevedibile. Scrive Sartre: " Scrive Sartre ne La nausea: «La morte poteva venir loro [agli esistenti] solo dall'esterno: solo le arie musicali sanno portare fieramente la loro propria morte in sé come una necessità interna; solo che esse non esistono. Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione» (J.-P. Sartre, La Nausea, cit., p. 191). ,. J-P. Sartre,L'~ e il nulla, cit., p. 609. "La traduzione italiana traduce con "aspetto Pietro" anziché "attendo Pietro", come ci sembra più giusto fare, per non perdere la differenza - non solo tenninologica ma concettuale - proposta da Sartre e tradotta finora con "attendere» e "aspettarsi». "J-P. Sartre,L'~e il nulla, cit. p. 609. [traduzione modificata] ,, J.bi,Je,n. "Ivi, p. 610.

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MarioI.cCcn/4

Forse, mentre scrivo pacificamente in questa camera, lo stato dell'universo è tale che la mia morte si è considerevolmente avvicinata; ma forse, invece, si sta allontanando considerevolmente. Se, per esempio, sto attendendd' (j'attend.s) un ordine di mobilitazione, posso pensare che la mia morte sia prossima, cioè che le possibilità di una morte prossima sono considerevolmente aumentate; ma può anche darsi che in questo stesso momento una conferenza internazionale si sia riunita in segreto e abbia trovato il mezzo di prolungare la pace. Cosi non posso dire che il minuto che passa mi avvicina alla morte.58

È qualitativamente differente, aggiunge Sartre, morire di vecchiaia o morire improvvisamente nel cuore della giovinezza, perché attendere la prima signifìcherebbe accettare la vita come un'impresa limitata, mentre attendere la seconda significa connotare la mia vita come un'impresa mancata. «Se non esistessero che morti per vecchiaia (o per condanna esplicita), potrei attendere la mia morte. Ma la qualità specifica della morte è di poter sempre sorprendere prima di un termine coloro che l'attendono per una certa data>Y9• È solo la sorte che deciderà del carattere della nostra morte, che deciderà se moriremo in giovinezza o di vecchiaia. Certo, una morte di vecchiaia, una morte come quella di Sofocle'°, può sembrare dello stesso tipo dell'accordo di risoluzione della melodia, maè solo una somiglianza apparente dal momento che la «fìne di una melodia, infatti, per conferire il suo signifìcato alla melodia, deve emanare dalla melodia stessa»61, mentre la "La traduzione italiana traduce con "aspettando». Ctt. nota 157. ,.J-P. Sartre, L'essere e il nulla, cit., p. 609-610. [traduzionemodifìcata] Questo carattere di indeterminatezza della morte è evidenziato nel finale del racconto Il mmo, laddove Pablo che sta per essere fucilato a breve, viene "graziato", per aver, indirettamente, rivelato il nascondiglio del suo amico Ramon Griz. La morte di Pablo, che sembrava vicina e imminente, è stata rinviata.

,. IbiJJem.

'° «Beato Sofocle, che morl dopo lunga vita, uomo fortunato e sasgio, autore di molte e belle tragedie». (Frinico, tt.31, K.-A.). 61 J-P. Sartre, L'essere e il nulla, cit., p. 611.

IL PROB.t:EMA.DBll.A. MORIB NEEB.SSSRSElLNUUA

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fine "annoniosa" di Sofocle è frutto del caso, cosl come -l'esempio è di Sartre - se lasciamo cadere dei cubi con le lettere dell'alfabeto l'accostamento di lettere risultante potrà avere solo l'apparenza di una parola. Il carattere di caso e di estraneità della morte, il fatto che venga dal di fuori dei miei progetti fa sl che essa non possa essere considerata come la mia possibilità ma come l'annullamento delle mie possibilità, che quindi non fa parte, come vorrebbe Heidegger, delle mie possibilità. «Cosl, la morte non è la mia possibilità di non realizzare più una presenza del mondo, ma è un annullamento semprepossibile dei miei possibili, che è al di/uori delle mie possibilità»62. Tutto ciò può essere anche visto se partiamo dai significati e dal carattere costituzionale di progetto del per-sé. Se il persé è progetto, se vive sempre nel possibile, includere la morte, come fa Heidegger, nel progetto, significherebbe distruggere il progetto stesso. Come affenna lo stesso Sartre in un'intervista: «la vita è una serie di progetti, e [ .. .] i progetti non comprendono la morte. Allora, perché menzionarla"? Se pensi alla morte, distruggi il progetto»'-'.

"IbiJem. " Qui il riferimento è ad Heidegger, che introducendo la morte nel progetto del Dasein contraddice il concetto stesso di progetto. Come scrive Lorenzo Ramella: «Se il Dasein era per costituzione progetto, individuare nella morte, cioè, nell'assenza toble di ogni progetto, la sua compiuta realizzazione significava, senza ombra di dubbio, dal punto di vista di Sartre, che il filosofo tedesco aveva smentito le sue iniziali premesse o aveva modi.6cato nel momento conclusivo della sua argomentazione i termini fondativi del sistema. Di qui l'impietosa accusa di assurdità che Sartre rivolse, nel 1943, alla dottrina heideggeriarui, accusa, peraltro, del tutto giustificata se si considera che, stantii presupposti assunti da Sartre,Heidegger appariva reo di confutare se stesso nel modo più palesemente contraddittorio ponendo l'identità tra i due termini di per se stessi antitetici come progetto e morte» (L. Ramella, Il soggette e la differenza. La ricexicne del pensiero di Heulegger nella filosofia francese, cit., p. 49). "J. Gerassi, Parlando con Sartre, cit.,pp. 35-6.

66 La morte essendo, nella prospettiva sartriana, legata strettamente al caso non è progettabile, non può far parte del mio progetto perché non compare sul fondamento della mia libertà e quindi non può donare un senso alla vita; un senso può nascere nel mondo solo dalla soggettività stessa". Ogni uomo, per Sartre, realizza il signi.fìcato del suo mondo in piena e assoluta responsabilità. Ad esempio, uno scrittore che decide di dare un senso alla sua vita scrivendo un libro non può essere sicuro che la morte non lo colpirà prima di aver terminato il suo capolavoro e di veder gettato nel vuoto tutta la sua attesa di diventare un grande scrittore. Solo se fossimo noi a scegliere il momento in cui morire, solo se la morte dipendesse dalla nostra libertà allora la morte potrebbe manifestarsi come accordo di chiusura della nostra vita e potrebbe quindi essere vista come ciò che le dona un senso. Che importanza può avere che tutti gli atti della mia vita sono stati liberi se non sarò io a decidere anche del momento della mia morte"? Cosl come - questa è la critica di Sartre a Leibniz'7- non basta dire che tutti i nostri atti sono liberi perché derivano dalla nostra essenza se non siamo stati noi a decidere della nostra essenza e se invece è stato Dio. Progetto e morte sono incompatibili. «Il mio pro-getto verso una morte è comprensibile (suicidio, martirio, eroismo) ma non il progetto verso la mia morte come possibilità indeterminata di non re-

"Ricondurre il senso delle cose (ma anche la cre•azione di valori, la verità ecc.) al sossetto umano fa rientrare Sartre e il suo esistenzialismo, secondo Heideager, nei pensatori metafisici che dimenticando la differenza ontologica riconducono l' essm1 ali'ente. Heidegger prenderà infatti le distanze dall'esistenzialismo nella sua Lettera sull'um4nfsmo. "D suicidio, per Sartre, non risolverebbe nulla in quanto essendo «atto della mia vita, richiede anch'esso un significato che solo l'awenire gli può dare; ma siccome è l'ultimo atto della mia vita, esso si priva di questo avvenire: cosi resta completamente indeterminato. [ ...] D suicidio è un'assurdità che fa sprofondare la mia vita nel!'assurdo» (J.-P. Sartre,L'es,m, e ,t nulla, cit., p. 614). 67 Cfr. Ivi p. 537 e segg.

IL PROBLEMADBUA MORra NE]:ESSERBE lLNVUA

67

alizzare più una presenza nel mondo, perché questo progetto sarebbe distruzione di tutti i progetti»68 •

4. La morte come trasforma:rione della vt'ta t'n destt'no. Essereper-altri e rela:rione con t' morti Se dal suo lato negativo la morte si presenta come l'annullamento delle possibilità del per-sé, dal suo lato positivo essa pone l'essere del per-sé come in-sé, essendo l'annullamento di una nulli.6.cazione che l'essere per sé, fin che è in vita, deve essere. La morte paradossalmente causa il passaggio dal nulla all'essere. n per-sé che sfugge continuamente all'essere infine è. Colui che muore smette di essere coscienza, viene trasformato dalla morte in essere-in-sé, diventa irrimediabilmente un oggetto in balia dell'altro. «Conia morte, scrive Sartre, il per-sé si cambia per sempre in in-sé»69. E ancora: «Al momento della morte, noi st'am0>>70 • L'uomo, sprowisto di una essenza predeterminata, la cui esistenza precede l'essenza, diventa un'essenza solo al momento della morte71• La mia intera vita è, non nel senso che sia diventata una totalità armoniosa, ma il fatto contingente della morte ha arrestato il continuo rinvio del per-sé, cristallizzandolo in un senso provvisorio, accidentalmente passato al definitivo. La morte ha intrappolato il per-sé in un essere definito solo dallo sguardo dell'altro'2.

'- lvi, p. 614. '"lvi, p. 156.

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«[T]he for-itself [•..] becomes an essence only at the moment ofdeath (this is the meanins of the phrase "existence precedes essence")» (Christine Daia}e, ]ean-Paul Sartre, Routledge, London-New York 2010, p. 51). ,. «Un topo in trappola. Son diventato di pubblico dominio», afferma Garcin in Por14 chiusa (J.-P. Sartre, mosche. Por14 chiusa, cit., p. 449). 11

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«La caratteristica di una vita morta è di essere una vita di cui l'altro diventa il guardianm:7', non solo nel senso che l'altro possa decidere di ricostruire esplicitamente la mia vita, come fa uno storico nei confronti di alcune persone di eccezione. Non si può essere prima senza contatto con i morti e in seguito decidere di averne relazione. A causa della mia dipendenza dall'altro nel mio stesso essere74, io sono nel mio stesso nascere in relazione con i morti e non posso non scegliere un atteggiamento nei loro confronti. Anche l'indifferenza verso i morti è comunque un atteggiamento. «In realtà, scrive Sartre, la relazione con i morti - con tutti i morti - è una struttura essenziale della relazione fondamentale che abbiamo chiamata "essere-per-altri". Nel suo sorgere all'essere, il per-sé deve prendere posizione in relazione ai morti»7J. Per comprendere questo aspetto, questo obbligo per il persé di prendere un atteggiamento nei confronti dei morti dobbiamo accennare brevemente all'essere-per-altri. L'essere-per-altri, a cui Sartre dedica la parte terza de L'essere e il nulla, è un altro modo di esistenza fondamentale per la realtà umana. L'uomo non è solo al mondo; oltre all'in-sé incontra anche altri per-sé, altre coscienze, altre realtà umane. Alcuni stati psichici, ad esempio, pur essendo per-sé, rivelano chiaramente un tipo di struttura ontologica radicalmente differente. Sartre considera l'esempio della vergogna. La vergogna implica la presenza di altri76 (autrui), solo di fronte a qualcuno io provo vergogna. Se faccio un gesto volgare, nota Sartre, io nonio giudico,nonmene vergogno, quel gesto semplicemente

,. J .-P. Sartre, L'essere e il nulla, cit., p . 616. " D legame del per-sé >(ivi, p. 411). ,. «Troviamo qui ancora il rapporto orisinale che wùsce la fatticità alla libertà: sces)iamo il nostro attessi-amento verso i morti, ma non può essere che nonne sces)iamo uno» (J.-P. Sartre,L ' = e il nulla, cit., p. 617). n Un'opera di Sartre, una scenessiatura di un film, porta come titolo proprio Les jeauxsont foit (trad. it. "Il gioco è fatto" in J.-P. Sartre, Teatro, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1963), il cui tema è proprio questo aspetto della morte che stiamo considerando in questo paragrafo, quello della morte come una sorta di rivincita dell'in-sé sul per-sé, della morte quindi come cristallizzazione della vita in destino.

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Ma,i,,LoConù

potremmo dire: il suo senso viene modificato dal di fuori e per questo non ne è più responsabile. La vita morta muta senza che il morto ne sia responsabile. n morto muore lasciando la responsabilità a chi gli sopravvive. n morto non fuoriesce dal nostro mondo11°; vi rimane, nella sua opacità di in-sé abbandonato ai significati oggettivi che l'altro gli darà. E' questo il carattere alienante della morte. Se per Heidegger, come abbiamo visto nel capitolo precedente, la morte ha un carattere individualizzante - essa sottrae il Dasein alla dominazione del Si (Man), alla quotidianità e lo trasporta verso l'autenticità per Sartre la morte ha un carattere alienante. «Cosi l'esistenza stessa della morte ci aliena completamente, nella nostra vita, a profitto d'altri. Essere morto è essere in preda ai vivi»s1. Quest'ultima frase sartriana necessita di un chiarimento per evitare che possa essere male interpretata e quindi fraintesa come l'altra famosissima frase «l'inferno sono gli altri», che si trova nell'opera teatrale Porta chiusa. Come lo stesso Sartre spiega82, l'inferno sono gli altri non vuol dire che i nostri rapporti con gli altri sono sempre infernali ma potrebbero esserlo, in vista del nostro legame d'essere con gli altri; questa frase indica solo l'importanza capitale di tutti gli altri per ognuno di noi Gli altri sono importanti per la conoscenza di noi stessi, infatti quando cerchiamo di conoscere noi stessi usiamo le conoscenze che gli altri hanno di noi. Allo stesso modo, il morto resta in preda ai vivi, in mano al trionfo dell'altro non nel senso che l'altro "gioisca" o "tragga vantaggio" dalla sua morte8' ma nel •• A differenza che per Heidegger secondo cui: «ll defunto ha lasciato il nostro "mondo" e l'ha lasciato dietro di sé». (Essere e tempo, cit., p. 2ff7). 11 J.-P. Sartre, L'essere e il nulia,cit., p. 618. 12 «Sono stato capitomale, dirà Sartre nel'65 in una prefazione parlata (in occasione della registrazione su disco di Porta chiusa, che intanto aveva ispirato due film e anche una versionetelevisiva)» (P.A. Rovatti,Prefazione a J.-P. Sartre, Le mosche- Porta chiusa, cit., p. 13). a Come sembra pensare David Couzens Hoy che nel suo sassio "Death• (contenuto in A Ccmpanicn to Phenomenolcgy anJ P.xistenlialism, eclited by Hubert L. Dreyfus, Mark A. Wrathall) manifesta perplessità riguardo questa affermazione sartria112 che verrebbe smentita dalla nostra esperienza quotidiana, in cui i familiari di un morto sono ben lontani dal vedere il

IL PROBLEMA.l>IIUA MOl\'.Il! NE J]ESSERS B lL Nt/UÀ

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senso che la morte solidifica il nostro essere e il significato di essa è rimesso, oramai, agli altri8". L'alienazione di cui Sartre ha parlato a proposito dell'essereper-altri poteva sempre essere nullifì.cata trasformando l'altro in oggetto; il potere nullificante, libero, del per-sé poteva sempre sfuggire all'oggettivazione altrui, all'essere che iosono per l'altro, perché il per-sé non è nulla, sfugge continuamente all'essere. In questo combattimento "oggettivante" con l'altro, ogni per-sé poteva nulli.6.care l'alienazione prodotta dall'altro trasformando l'altro in trascendenza-trascesa. L'oscillamento è costante, finché il per-sé è in vita. La morte dà la vittoria al punto di vista dell'altro, costringe il per-sé morto a restare per sempre alienato, nelle mani dell'altro, trascendenza-trascesa; l'altro scolpisce definitivamente la nostra statua85. Qui bisogna far attenzione a non intendere questo legame come la semplice «sopravvivenza spettrale [del morto] "nella coscienza dell'altro", di semplici rappresentazioni (immagini, ricordi, ecc.) che mi riguardano. Il mio essere-per-altri è un morto come una loro preda. «Normally, howewer, one does not expect one's family or acquaintances to experience one's death as their triumph. Loved ones are also unlikely to think of the deceased as their prey. Sartre' s counterintuitive daim follows only from his pessimistic view that socia! relations are essentially antagonistic» (p. 287). "È il tentativo disperato di Garcin, nella piéce Porta chiura, di farsi riconoscere da Estella come un uomo coraggioso, dal momento che tutti sulla terra lo considerano vigliacco. «Pensano: Garcin è un vile. Mollemente, debolmente. Pur di pensare, comunque, qualche cosa. Garcin è un vile! Hanno stabilitocosl, loro, i colleghi» (J.-P. Sartre,Le nwsche -Porta chiusa, cit., p. 445). «Se ci fosse un'anima, una sola, capace di affermare con tutta la sua forza che [...]del coraggio neho, che sono una persona pulita, sono ... sono certo che sarei salvo» (Ivi, p. 449) E ancora: «Ah tornare ungi.omo solo tra loro. .. che smentita! Ma oramai sono fuori gioco; fanno il conteggio senza curarsi di me; e hanno ragione, visto che sono morto» (Ibitkm ). ., Non a caso, tra gli scarni oggetti di arredamento della camera "infernale" di Porta chiusa vi è una statua di bronzo, a rappresentare che se da vivila coscieru:a poteva sempre nulluìcarel'oggetti,oità posta dagli altri, vanificare gli sforzi medusei dell'altro, da morto non si può che restare irrimediabilmente cristallizzati.

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Ma,;,, Lo Cc,w

essere reale»8'. Come abbiamo visto il mio legame con l'oggettività e l'essere datomi dall'altro è un legame d'essere. I morti non abbandonano il nostro mondo, abbiamo detto. Ma lo popolano non come fantasmi nella memoria dei sopravvissuti, ma come «esseri oggettivi e opachi>>87, ridotti alla pura dimensione di esteriorità, illuminati non più dall'interno ma all'esterno, come nella bella immagine dell'opera Il gioco è fatto, in cui i morti se ne vanno a passeggio per le strade, insieme ai vivi, vestiti con abiti di epoche diverse. La realtà umana, che «in un solo e medesimo nascere deve essere nel suo essere per-séper-altri»88, conia morte, annullandosi la coscienza (il per-sé), si riduce alla sola dimensione dell'essere-per-altri; ma questa dimensione è reale, non uno spettro inconsistente; è ridotta però alla sola dimensione di esteriorità. La morte «conferisce un senso di esteriorità a tutto ciò che vivo in soggettività [ ...] per abbandonarlo, invece, ai signifì.cati ogget#vi che piacerà all'altro di dargli» 89. La morte quindi si rivela come un arresto della mia soggettività, come un annullamento delle mie possibilità verso cui non posso né gettarmici, né attenderla. Allora non può appartenere alla struttura ontologica del per-sé, del mio essere; «è l'altro che è mortale nel suo essere>>90. La nostra stessa morte noi non la conosceremmo se non esistesse l'altro perché non potrebbe mai manifestarsi a noi; semplicemente la nostra morte comporterebbe l'annullamento del per-sé come soggettività signifi.cante, annullamento della coscienza e del mondo. È solo tramite l'altro che la nostra morte può rivelarsi come trasformazione della nostra vita in destino, come oggettivazione permanente del nostro essere esposto ai cambiamenti di signifìcato di cuil' altro liberamente è responsabile; «l'essereper-altri non è una struttura ontologica del per-sé»91•

"Jean-Paul Sartre, L'essen, e il nulla, cit., p. 618-9. ., Ivi, p. 619. ,.lvi, p .268. .. Ivi, p. 619. '° lvi, p . 621. .. Ivi, p. 337.

IL PltOBUM,\DRUA MORI'B NI! ]:BSSERB B IL Nt/1..U

73

Infine bisogna separare, secondo Sartre, l'idea di morte da quella di fìnitezza. Non è la morte che determina la nostra fìnitezza come sostiene Heidegger, che ha costruito su questa equivalenza morte-fìnitezza tutta la sua teoria dell'essere per la morte. La morte è un fatto contingente che discende dalla nostra fatticità; la fìnitezza invece è una struttura del nostro essere che determina la libertà. «In altre parole, larealtà-umana sarebbe fìnita, anche se fosse immortale, perché si rende finita scegliendosi umana. Essere fìnito vuol dire scegliersi>>12. Con l'atto stesso della libertà, con la scelta di un possibile a esclusione di altri possibili, vi è assunzione e creazione della fìnitezza. Con la scelta mi faccio fìnito, ed è per questo che la mia vita diventa unica. Non è la morte a rendere unica la mia vita, come crede anche Malraux, quando afferma che, poiché moriamo e non possiamo tornare indietro sui nostri passi, allora la nostra vita è unica. La fìnitezza riguarda la libertà, la scelta. Anche se fossi immortale, il fatto di aver scelto il possibile B dopo il possibile A, mi rendo fìnito. «Da questo punto di vista l'immortale come il mortale nasce molteplice e si fa uno solo»13• La morte non ha nulla a che vedere con la fìnitezza; essa capita per caso, sopraggiunge nel frattempo arrestando la libertà temporalizzante del per-sé. Allora non c'è posto per la morte nel per-sé; è l'altro che è mortale nel suo essere. n per-sé non può attenderla, né progettarsi verso di essa. La morte non è altro che un aspetto della nostra fatticità e del!'essere-per-altri, è il dato, afferma Sartre. «È assurdo che siamo nati, è assurdo che moriamo»~◄La libertà dell'uomo resta assoluta e infìnita perché la morte non è un ostacolo ai suoi progetti; essa non incontra mai il limite della morte. I progetti dell'uomo sono indipendenti dalla morte, non perché come vogliono i cristiani l'uomo è accecato nei progetti mondani da dimenticare di pensare alla morte in una sorta di fuga nel divertissement pascaliano, ma per principio,

92

lvi, p. 621.

"lhiJem. •• IbiJem.

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perché, come abbiamo già visto, il progetto e la morte (come assenza di ogni progetto) sono antitetici e contraddittod$. Noi, conclude Sartre, «moriamo sempreper soprammercato

(par-dessus le marché)>~.

" Cfr. not2. 167. ,. J.-P. Sartre, L'essere e il nulla, cit., p. 623.

III CONFRONTI TRA LE DUE PROSPEITIVE. LA CRITICA DI SARTRE AHEIDEGGER

Si possono cbssib.care sJi uomini secondo i criteri più fantasiosi: in base as)i umori, alle inclinazioni, ai sogni o alle ghiandole. Si cambia idea come si cambia cravatta; giacché ogni idea, ogni criterio viene dall'esterno, dalle confiaurazioni e dasJi accidenti del tempo. Ma c'è qualcosa che viene da noi stessi, che è noi stessi, una realtà invisibile ma interiormente verificabile, una presenza insolita e perenne, che si può concepire a ogni istante senza che mai si osi ammetterla, e che non ha attualità se non prima del suo compi.mento: è la morte il vero criterio... Ed.è lei, la dimensione più intima di tutti i vi\oi, a separare l'umanità in due ordini cosl irriducibili, cosl lontani l'uno dall'altro che vi è più distan2afra loro che non fra unawoltoio e una talpa, fra una stella e uno sputo.Tra l'uomo che ha il sentimento della morte e quello che non lo ha si spalanca l'abisso fra due mondi non comunicanti; eppure entrambi muoiono; ma l'uno ignorala sua morte, l'altro la conosce; l'uno muore un solo istante, l'altro non cessa di morire ... La loro condizione comune li colloca esattamente agli antipodi l'uno dell'altro; ai due estremi e all'interno di una stessa defuuzione; inconciliabili, essi subiscono il medesimo destino ... L'uno vive come se fosse eterno; l'altro pensa continuamente la propria eternità e la nega in ogni pensiero. (E. Cioran, Sommario di Jecomposi:doM)•

Come abbiamo già fatto notare, nella trattazione sulla mor• te, Sartre prende posizione esplicita contro l'esposizione che

1

E. Cioran, Sommario di decomposi:ricM, Adelphi, Milano 1996,p. 23.

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Heidegger ne dà in Essere e tempo. La sezione stessa dedicata alla morte ha come titolo '. Sartre contesta questo carattere evidenziato da Heidegger affermando che la morte diventa mia solo se la si considera come una possibilità soggettiva; ma allora ogni possibilità,

«Questa possibilità, la morte come la mia morte, sono io stesso. La morte in generale non c'è» (M. Heidesger, Prolegomeni alla stcria delconcelt() di tempo, cit., p . .389). 1 M. Heidesger, Essere e tempo, cit., pp. 288-9. 2

CONF!tONII TRAU!: DUBPRCSPlmlVB

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considerata soggettivamente, cioè dal punto di vista del cogito preriflessivo, è mia e non può essere vissuta da nessun altro. Nessuno può amare per me, se si intende con ciò fare dei giuramenti che sono i miei giuramenti, provare le emozioni (siano pure banali), che sono le mie emozioni. E il "mie" non si riferisce qui affatto a una personalità, conquistata contro la banalità quotidiana (cooa che permetterebbe a Heidegger di controbattere che bisogna appunto che sia "libero per morire" affinché un amore che provo sia il mio amore e non l'amore impersonale), ma molto semplicemente a quella ipseità che Heidegger riconosce espressamente a ogni Dasein - come esistenza autentica o non autentica - allorquando dichiara che "Dasein ist je meines".•

Sartre, quindi contesta l'affermazione di Heidegger che la morte è la possibilità più propria dell'Esserci. Ogni possibilità, considerata soggettivamente, nella visione di Sartre, è propria e invivibile da altri$. Non dobbiamo dimenticare che Heidegger sta cercando di risolvere il problema della totalità dell'Esserci (il cui limite è la morte) e in questo contesto nessuno può assumere il mio morire. Ma, anche non volendo tener conto di questo, è senz'altro vero che nessuno può amare per me, ma si può dare benissimo il caso di un Esserci che nella sua vita non ami nessuno, che trascorra la sua vita senza che la possibilità dell'amore sia tra • J.-P. Sartre, L'essere e il nulla, cit., p. 608. '«Of course, thenon-relationality of death is hardly uniqueto it (Dasein] among our existential possibilities; if no one else can die my death, it is also true that no one else can sneeze my sneezes. However, sneezing fails to exemplify the other two elements in Heidegger's tripartite existential duracterization of death (our very existence as Being-in-the-world is not at issue when we catch a cold, and at the very least it makes sense to imagine a human being who never sneezed). But, in another sense, it is precisely Heidegger's point that the non-relational nature of death highlights an aspect of Dasein's comportment to any and ali of its existential possibilities; for, inmaking concrete Dasein's Being-ahead-of-itself, the fuct that no one can die our death for us merely recalls us to the fuct that our life is ours alone to live» (S. Mulhall, The &utleJge Guidebook I Heulegger's Being anJ Tzme, London-New York 2013, p. 126).

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Mario I.o C,,,w

le sue possibilità'. La morte invece è qualcosa che riguarda l'Esserci nel suo stesso ci. Come scrive Vattimo: La morte è la possibilità più propria dell'esserci: ciò si può vedere testimoniato dal fatto che tutti muoiono, e cioè che tale possibilità è coessenziale all'esserci; ma la radice del fatto empirico che tutti muoiono è che la morte è la possibilità più propria dell'esserci in quanto lo tocca nel suo stesso nella sua stessa essenza di progetto, mentre ogni altra possibilità si colloca all'interno del progetto stesso, come suo modo di determinarsi.7

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Ma la morte è la possibilità più propria dell'Esserci anche, e soprattutto, nel senso che essa risulta la più appropriata al suo essere. Se l'Esserci è poter-essere, possibilità, allora la morte in quanto possibilità eminente (possibilità che resta sempre tale senza nessuna possibilità di attualizzazione) è ciò che connota l'Esserci nella sua «essenza»,in quanto esistenza. Vedremo nel paragrafo terzo di questo capitolo come la morte può assumere questo ruolo di rendere autentico l'Esserci. 2. Anticipare e attendere la morte

Come abbiamo visto nel primo capitolo, per Heidegger un essere per la morte autentico, ovvero una relazione autentica '«Moreover, for Heidegger, it is only death that truly makes me unique. In everythins else that I am I can be substituted by mother. I can say that "I am a teacher" or "I am a millanan" or even "I am the lover of X", but at certain moments in my life I have to realize painfully that in ali these positions I can be replaced. Somebody else could become the teacher, the millanan or even the lover. Yet there is one possibility in which I cannot be replaced and that is in my death. We can besin to see why, therefore, it is only with my death that I can besin to 81'3sp my existence as a whole; that is to say, thatmyexistence becomes a questionfor me. For only inrelation to my death am I truly individualized» (U. Haase, The Qf-tion o/Deatb

in Heidegger's K&ing anJ. Time•,in U. Hasse /W. Large (a cura di),Maunce Blanchot, Routledge, London-New York 2001, pp. 47-8). 7 G. Vattimo, IntroJu:,icne a Heidegger, cit., p. 47.

CONl'ltONI111'AL8 DUBl'IIOSl'BTIMI

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con la morte è possibile solo mantenendo quest'ultima come possibilità, rapporto che egli chiama anticipazione (Vorlaufen ). Nell'essere per la morte «la possibilità deve esser compresa senza indebolimenti comepossibilità, deve esser sviluppata come possibilità e in ogni comportamento verso di essa deve essere

sopportata come possibilità»8 • Proprio per questo l'anticipazione non va confusa né con il suicidio, né con il «pensare alla morte», né infine con l'attesa. In tutti questi casi, infatti, la morte non viene lasciata essere come possibilità ma, al contrario, viene annullata come possibilità e risolta nella realtà. Nel suicidio la morte viene «realizzata», nel «pensare alla morte» e anche nell'attesa, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, ci si concentra sul reale, in quanto attraverso calcoli e speculazioni sul «quando» si svuota la possibilità del suo signifìcato. Ogni attesa (Brwarten) comprende e «ha» il suo possibile in relazione al «se», al «quando» e al «come» esso sarà realmente presente. L'attendere non è soltanto un distacco momentaneo dal possibile per guardare alla sua realizzazione possibile, ma è essenzialmente un esser attento ad essa. Anche nell'attendere hanno luogo un allontanamento dal possibile e un far leva sul reale da cui ci si attende ciò che è atteso. Muovendo dal reale e tendendo a esso, il possibile è risolto nel reale che ci si attende.•

Heidegger si premura, dunque, di far notare tutta la distanza esistente tra l'anticipazione della morte e la sua attesa, eppure Sartre sembra non tenerne conto. Scrive infatti ne

L'essere e tl nulla: Ecco ciò che ha capito la saggezza cristiana, che raccomanda di prepararsi alla morte come se questa potesse sopravvenire da un momento all'altro. Cosi si spera di recuperarla trasformandola in «morte attesa». Seil senso della nostra vita diventai' attesa della morte, questa sopravvenendo non può che apporre il suo sigillo sulla vita.

• M. Heidesser, Essere e tempo, cit., p . .313. •IlnJem.

80 È questo infine ciò che vi è di più positivo nella «decisione risoluta» (Entschlossenheit 10) di Heidegger. Purtroppo sono dei consigli più facili da dare che da seguire, non a causa di una debolezza naturale alla realtà-umana o di un progetto originale di inautenticità, ma della morte stessa. Si può infatti attendere una morte particolare, ma non lamorte.11

La morte non può essere attesa, per Sartre, non perché l'uomo sia troppo debole per poterne sopportare la vista ma perché, potendo essa arrivare da un momento ali'altro, è indeterminata riguardo al suo «quando» e non può essere attesa. Solo un evento determinato può essere atteso: un amico che arriva tra una settimana, uno spettacolo teatrale a cui andrò questa sera ecc. Sartre sembrerebbe, dunque, concordare con Heidegger e la saggezza cristiana circa il carattere indeterminato della morte ma, a ben vedere, le cose stanno diversamente, infatti il carattere di indeterminatezza che Sartre attribuisce alla morte è quello della quotidianità inautentica che pensa alla morte come a un evento che può accadere da un momento all'altro, da Heidegger preso in esame e criticato nelle sue analisi. «L'esplicazione dell'essere-per-la-morte quotidiano si è attenuto alle chiacchiere del Si: un giorno o l'altro si finirà per morire, ma, per ora, ancora no»12. Per Heidegger, invece, è proprio ora che la morte c'è"; essa non è un evento che può sopraggiungere da un momento all'altro. Quella che sopraggiunge cos1 è la morte ontica, il decesso fìsico dell'uomo. Ma l'Esserci, fìnché esiste, «muore effettivamente e costantemente»14•

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L' Entsch/assenheit, come abbiamo visto, è l'attuazione esistentiva

dell'anticipazione (Yorlau/en), il modo in cui '>35. La morte, come possibilità eminente che rimane sempre tale, in quanto non-più di me stesso, permette all'Esserci di appropriarsi del se-Stesso autentico in quanto essere possibile; essa rende visibile l'Esserci nel suo come, nel suo esistere, nel suo poter-essere; solo cosl l'uomo può progettarsi a partire da se stesso e non dal mondo, e divenire autentico%. Per Sartre, al contrario, la morte è un tipo di alienazione che, anziché renderci autentici (propri) come vorrebbe Heidegger, ci consegna nelle mani di coloro che restano in vita. La nostra vita, con la morte, si è cristallizzata in un in-sé, e il suo significato, il senso del mio essere, potrà mutare solo attraverso il punto di vista dell' altro)7• Con la morte il senso della mia vita, dei miei atti, non verrà più da me ma sarà l'altro a assegnargli un signi.6.cato. Sarà l'altro che deciderà d'ora in poi del valore e del significato da dare alle mie azioni; sarà l'altro a decidere se sarò un individuo o se sarò dimenticato e mi fonderò nella massa collettiva anonima degli altri morti. Ancora una volta, la differenza si pone perché i due autori stanno parlando di due cose diverse: in Heidegger si tratta della morte come fenomeno della vita, del morire (Sterben) non del decesso (Ableben), di cui parla invece Sartre. Si tratta, per Heidegger, di come vivere in conformità alla propria «essenza», di ek-sistere, in vista di una comprensione

"M. Heideaser, Essere e tempo, cit., p. 378. «Tuttavia la medesimezza del se-Stesso che esiste autenticamente è separata da un abisso ontologico dall'identità dell'io che permane nel vamre delle sue esperienze vissute» (lvi, p. 162). -" Il Se-stesso, però, non ha niente a che fare con la distinzione di una persona da un'altra, >-4', cosi come Wl frutto immaturo che va verso la maturazione e di cui il nonancora non si aggiunge dall'esterno ma procede da sé verso la maturazione. «O non-ancora costituisce il frutto nel suo modo di essere specifico. [ ...] Parimenti anche l'Esserci, fintanto che è, è già sempre il suo non-ancora»«. Anche se, però, i modi di essere del frutto immaturo e dell'Esserci coincidono perché entrambi sono sempre il loro non-ancora, questo non vuol dire che coincidano anche- nella loro struttura ontologica - riguardo la loro «fine»: la maturazione, nel caso del frutto e la morte, per quanto riguarda l'Esserci. nfrutto alla fine si compie. Possiamo dire lo stesso dell'Esserci? La fine dell'Esserci, la sua morte, è Wl compimento? Non muore di solito l'Esserci nell'incompiutezza? La morte non è qualcosa di non-ancora-presente che si aggiungerà, come estremo non-ancora, alla fine all'Esserci, completandolo come una somma. Pensare in questo modo signifìcherebbe pensare l'Esserci sul modello delle cose, della semplice-presenza (Vorhandenheit) o utilizzabilità (Zuhanden-

heit).

sta-ancora fuori. Questo costante stare-ancora-fuori-di qualcosa signi.6.ca: l'essere dell'esser-ci in quanto cura è, nella misura in cui esso è, sempre incompiulo; sii manca ancora qualcosa, bntantoche esso è» (M. Heidegger, Prolegomeni al/asteria Jel ccncetlc Ji tempo, cit., p. 382). "'M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 292.

"lvi,p.~3.

CONPRONil nA U! DUB PIIOSPl!T11III!

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Bisogna tenere presente la differenza tra «tutto» (Gam:.) e «somma» (Summe)4$. L'Esserci non è alcun processo. Il concetto di «somma» è inadeguato per indicare la totalità dell'Esserci. L'Esserci non è alcwi processo, non si forma per aggiunte successive di parti mancanti, ma «fintanto che è, è già costantemente il suo nonancora, è anche già sempre la sua fine»''· Il non-ancora determina l'esserci come un tutto. Passando a Sartre, egli afferma che il per-sé si configura come carenm di essere (dé/aut d'!tre), owero che la nullifìcazione del per-sé non signilìca wia introduzione del vuoto nella coscienza ma è il per-sé stesso che si autodetermina continuamente a non essere l'in-sé. Che tipo di non esrere èla coscienza? In che modo il per-sé si fa non essere l'in-sé, ossia nega di se stesso di essere l'in-sé? Ci sono molti tipi di non essere. Può esserci una relazione esterna, come quando dico di una penna che non è il libro. Ma esiste anche un tipo di relazione interna. La mancanza, ad esempio, non riguarda solo una relazione esteriore tra due cose ma costituisce la cosa stessa nel suo essere. Se dico che la Venere di Milo è mancante delle braccia, questa non è affatto una relazione esterna tra la Venere e le braccia, ma la Venere ne è