L'utopia cinematografica
 8838900051, 9788838900051

  • Commentary
  • Versione migliorata
  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Guido Aristarco

L’utopia cinematografica Sellerio editore Palermo

1984 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo 1986 Seconda edizione

Indice

L’utopia cinematografica Nota introduttiva

13

L’estetico e l’incarico sociale

22

L’aura e la sua caduta - La doppia mimesi - Nel segno del film - Il donde e il dove della semiologia - Il piccolo e il grande schermo — Il soggetto della storia

Ejzenàtejn e il punteggio di Amburgo

78

Strutture epifaniche, lutto e utopia

92

L’influsso di Pirandello - Serafino Gubbio operatore - Insod­ disfazione per la « realtà prima » — Le « possibilità impossibili » - Singolo Assoluto, miracolo e Grazia — Pensare e non essere pensati - Rosebud — Il cerchio e la beffa - Crepuscolo dei vinti-vincitori - Una regressione da Marx a Freud — Barocco e travestimento dell’io — Un personaggio che ha trovato l’autore - Un ulteriore approdo a Brecht

Una costituzione più democratica di altre

189

Oltre l’ideologia della barbarie

219

Nel sistema e contro il sistema - La deviazione staliniana — Immaginario collettivo e persuasori occulti - I linguaggi ma­ lati e il loro opposto

Indice dei nomi

271

Indice dei film

279

L’utopia cinematografica

a mia figfia Tiziana

La nostra concezione della storia è però pròna di tutto una direttiva per lo studio, e non una leva per fare delle costruzioni alla maniera dello hegelianismo. Bisogna ristudiare tutu la storia, bisogna indagare nei particolari le condizioni di esistenza delle diverse formazioni sociali, prima di tentare di dedurre da esse le concezioni politiche, giuridiche, estetiche, filosofiche, religiose, ecc. che ne derivano [...] Secondo la concezione materiali­ stica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la ripro­ duzione della vita reale. Di più non fu mai affer­ mato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l'unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. ENGELS

I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratu però di mutarlo. MARX

Il mondo d’oggi può essere espresso anche per mezzo del teatro [ael cinema], purché sia visto come un mondo suscettibile di cambiamento. BRECHT

Nota introduttiva

Nel descrivere l’essenza del denaro, il suo potere universalmente sovvertitore, Marx — come noto — rimanda a due citazioni tratte dal Faust di Goethe e da Timone di Atene di Shakespeare. «Ciò che è mio mediante il denaro, ciò che io posso pagare, e cioè che il de­ naro può comprare, questo sono io, il possessore del denaro stesso»; così egli inizia il commento al passo dello scrittore tedesco? « Quan­ ta è la forza del denaro tanta è la mia forza. Le proprietà del denaro sono proprietà, forze essenziali mie, appartenenti a me, suo posses­ sore. Ciò che io sono e posso non è quindi assolutamente determi­ nato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la donna più bella. Quindi non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, la sua forza repellente è distrutta dal denaro. Io, come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gam­ be, e quindi non sono storpio; io sono un uomo cattivo, disonesto, privo di coscienza, privo di intelligenza, ma il denaro è tenuto in onore e quindi lo è anche il suo possessore ». Il denaro è il bene supremo e quindi il suo possessore è buono - continua Marx; il denaro, per di più, mi solleva dalla pena di essere disonesto, e quindi mi si presume onesto; io sono privo di intelligenza, ma il denaro è l’intelligenza vera di tutte le cose: «come potrebbe il suo posses­ sore essere privo di intelligenza? Inoltre il denaro può comprarsi gli uomini più intelligenti e chi ha potere sugli esseri più intelligenti! Io, che mediante il denaro posso tutto ciò a cui il cuore umano aspira, non posseggo forse tutte le umane facoltà? E allora non tra­ sforma forse il mio denaro tutte le mie deficienze nel loro oppo­ sto? ». Se il denaro è il legame che mi collega alla vita umana, alla so­ cietà, alla natura e agli uomini, non è esso - domanda Marx - il 1 Marx cita il seguente passo della parte i, scena iv del Faust di Goethe: «Che diavolo! Certo mani e piedi e testa e sedere, sono tuoi! Ma pure, tutto quello che lietamente mi godo è forse perciò meno mio? Se posso pagarmi sei stal­ loni, le loro forte non sono forse le mi^? Ci corro sopra e sono a posto come se avessi ventiquattro gambe . *

15

legame di tutti i legami? Non può forse sciogliere e annodare tutti i legami? E non è perciò anche l’elemento universale di divisione? «Esso è la vera moneta divisionale, così come il vero elemento di legame, la forza galvanochimica della società ». E qui che Marx - ap­ punto nel passo tratto da Timone di Atene1 - sottolinea come Sha­ kespeare metta in rilievo particolarmente due proprietà del denaro: « 1. Esso è la divinità visibile, la trasformazione di tutte le pro­ prietà umane e naturali nel loro opposto, lo scambio e il sovverti­ mento generali delle cose; esso afiratella le cose incompatibili. 2. È la meretrice universale, l’universale mezzano degli uomini e dei po­ poli ». Il sovvertimento e lo scambio di tutte le qualità umane na­ turali, l’affratellamento delle cose incompatibili - la forza divina del denaro risiede nella sua essenza in quanto essenza generica estraneata (alienante e alienantesi) degli uomini; esso è il potere espropriato dell’umanità, specifica Marx. « Ciò che io non posso come uomo, e che quindi non possono tutte le mie forze essenziali individuali, io lo posso mediante il denaro. Il denaro, dunque, trasforma ciascuna di queste forze essenziali in ciò che essa non è in se stessa, e cioè nel suo opposto ». Il denaro, in quanto mezzo e potere generale este­ riore, non derivante dall’uomo come uomo né dalla società umana come società, di trasformare l’idea nella realtà, e la realtà in una semplice idea, trasforma parimenti - continua Marx - le forze es­ senziali reali sia umane che naturali in idee meramente astratte e perciò in imperfezioni e tormentose chimere;.e tramuta in forze e poteri reali le reali imperfezioni e chimere, le forze realmente prive di efficienza dell’individuo, esistenti soltanto nell’immaginazione di quest’ultimo. «Non fosse che per questa sola sua caratteristica, es­ so è quindi davvero il sovvertimento generale delle individualità,2 2 Ecco i due brani riportati dall'atto iv, scena in, del Timone di Atene'. « Oro? Prezioso, brillante, tosso oro? No, dei, non è vana la mia supplica... Tanto di quest'oro fa bianco il nero, bello il brutto, buono il cattivo, giovane il vecchio, valoroso il codardo, nobile il plebeo... Esso allontana il prete dall’altare, strappa il guanciale da sotto il capo di cni non è ancora guarito; sì, questo rosso schiavo scio­ glie e annoda i sacri legami, benedice il maledetto, rende amabile la lebbra, onora il ladro e gli dà rango, inchini e autorità nel consiglio dei senatori; esso porta spa­ simanti alla vedova carica d’anni; colei che è mandata via con disgusto, marcia e fetente di piaghe e d’ospedale, esso la ringiovanisce come un fiore di maggio. Dan­ nato metallo, meretrice comune degli uomini che metri in discordia i popoli». «Tu, dolce regicida, nobile strumento di divisione tra figlio e padre! Splendido profanatore della più pura alcova! Valoroso Marte! Seduttore eternamente ardente e teneramente amato, il cui rosso sembiante scioglie la neve sacra nel grembo puro di Diana! Visibile deità, che strettamente affratelli le cose incompatibili e ie co­ stringi a baciarsi! Tu parli in ogni lingua, per ogni scopo! Oh tu, pietra di para­ gone dei cuori! Pensa, l’uomo, il tuo schiavo si ribella? Consuma la tua forza a confonderli tutti, cosicché le bestie abbiano l’impero del mondo! ».

14

sovvertimento che le tramuta nel loro opposto e alle loro proprietà conferisce proprietà che vi contraddicono ». Come tale forza sovvertitrice, il denaro appare anche di fronte all'individuo e ai legami sociali che affermano di essere delle entità per sé, aggiunge .Marx. « Esso trasforma la fedeltà in infedeltà, l’a­ more in odio, l’odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, il servo in padrone, il padrone in servo, la stupidità in intelligenza, l’intelligenza in stupidità. Poiché il denaro, come concetto reale e in atto del valore, scambia, inverte tra loro tutte le cose, esso è la confusione e Vinversione universale di tutte le cose e quindi è il mondo sovvertito, la confusione e l’inversione di tutte le qualità na­ turali e umane». Chi può comprare il coraggio è coraggioso anche se è vile, conclude a riguardo Marx, poiché « il denaro si scambia non contro ima qualità determinata, contro una cosa determinata, contro qualcuna delle forze essenziali umane, ma contro tutto il mondo oggettivo naturale e umano; esso, quindi, scambia, guardato dal punto di vista del suo possessore, ogni proprietà contro ogni proprietà od oggetto, anche se essi si contraddicono; esso è l’affra­ tellamento delle cose incompatibili; costringe a baciarsi cose che si contraddicono ».’ Non c’è dubbio che il denaro - i molti milioni, miliardi che nor­ malmente occorrono per realizzare un film - sia il bene supremo, il legame di tutti i legami, la forza galvanochimica, la «divinità» del cinema: non c’è mezzo di comunicazione, di trasmissione, di espres­ sione che più di questo (insieme con la tv) abbia bisogno di capi­ tali; non la letteratura, la poesia, il teatro, la musica, la pittura. E delle idee del capitalismo, del neocapitalismo e dell’imperialismo, esso è (con la tv) il massimo divulgatore, persuasore spesso occulto. Infatti «le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La clas­ se che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali man­ cano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio ». Gli individui che compongono 3 Cfr. Manoscritti economico-filosofici del 1844.

15

la classe dominante - aggiungono Marx ed Engels nell'ideologia te­ desca - posseggono tra l’altro anche la coscienza, e quindi pensano; «in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro esten­ sione e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti, come pro­ duttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo: è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell’epoca». Sottoposto alla schiavitù e al dominio del capitale, più degli al­ tri mass media il cinema (con la tv) ha immani possibilità di men­ tire, di manipolare la realtà, di sostituire l’apparenza alla verità, di stravolgere la democrazia effettiva, concreta, in democrazia formale, fittizia. La classe dominante, al tempo stesso potenza materiale e potenza spirituale, assume direttamente e principalmente il film nel­ l’esercizio delle tecniche ideologiche del dominio, e tra le idee di questo dominio perpetua il mito primo, da cui dipendono e deri­ vano tutti gli altri e sul quale poggiano le élites al potere e del po­ tere: il mondo è quello che è e nulla l’uomo può fare per modifi­ carlo. A sostegno del proprio sistema, essa nasconde le ragioni della nascita di questo e degli altri miti, e del loro perdurare; ignora o combatte la tesi marxiana secondo la quale «i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo». Con quell’« universale mezzano» e «universale meretrice» die è il denaro, le case di produzione prostituiscono in genere il «collet­ tivo » - le persone che contribuiscono alla realizzazione di un film — abbassandolo a un livello antiprogressista e spesso mercantile; pos­ sono comprare e comprano i cineasti più intelligenti trasformandone tutte le proprietà umane e naturali nel loro opposto. La fedeltà a un programma - in chi era partito bene intenzionato - in infedeltà a quel programma; l’amore per un cinema altro, diverso, in odio per il film nuovo e originale ormai divenuto angosciosa chimera, e que­ sto odio si tramuta cinicamente in amore per quelle opere che si vo­ levano combattere; così le virtù di partenza, gli ideali, si convertono in vizi, e i compromessi imposti e accettati in virtù; l’intelligenza in stupidità e la stupidità in intelligenza con l’ex nemico per sod­ disfarlo; colui che è padrone di se stesso in servo, e quale subalterno ben pagato in padrone. Quanti cineasti, che pure erano riusciti in qualche modo a com­ battere il sistema fuori del sistema o anche dentro di esso, sono stati e sono vittime di tali contrapposizioni, della forza sovvertitrice del capitale. Davvero lo scambio di tutte le qualità umane natu­ rali, l’affratellamento delle cose incompatibili - la forza divina del 16

denaro risiede nella sua essenza in quanto essenza generica estraneata (alienante e alienantesi) degli uomini. E davvero, anche se « la domanda esiste pure per colui che non ha denaro», questa sua do­ manda spesso «è un semplice essere ideale che per me, per un terzo, non ha effetto, non ha esistenza e che, quindi, anche per me resta irreale, privo di oggetto »: la « differenza tra la domanda ef­ fettiva, fondata sul denaro, e la domanda senza effetto, fondata sul mio bisogno, sulla mia passione, è la differenza che esiste tra es­ sere e pensare, tra la semplice idea che esiste in me e l’idea quale è come oggetto reale per me e fuori di me ». Se io ho vocazione per lo studio - esemplifica Mane - ma non ho denaro per questo, non ho alcuna vocazione per lo studio, cioè non ho alcuna vocazione ef­ ficace, vera; « per contro, se non ho realmente alcuna vocazione per lo studio, ma ho la volontà e il denaro, ho una vocazione efficace ». Si dirà: ma queste sono cose, fenomeni che accadono nel cine­ ma occidentale, e in particolare il « supercapitalismo americano ha tutti i diritti di fungere da un tale modello negativo». Non è pro­ prio così. Senza avanzare schematiche equivalenze, essi si verificano, in forme e modi diversi, anche nelle società postrivoluzionarie, e non da oggi. Si vedano, proprio in questo volume, quanto diceva Majakovskij sulla nuova estetica dei dichés, su «cinema e vino» e in occasione del decimo anniversario dell’Ottobre; i film non rea­ lizzati o mutili di EjzenStein e le difficoltà incontrate da Dovienko; il cosiddetto disgelo e la denuncia del « culto della personalità »; il « punteggio di Amburgo » descritto da Sklovskij. Come dimenticare le «caramelle» che questi denunciava negli anni Venti? «Quando entrai nello stabilimento cinematografico, la prima cosa che mi colpì fu un odore di caramella. Infatti le pellicole cinematografiche ven­ gono incollate con l’essenza di pera, che naturalmente odora di ca­ ramella. Questa fragranza penetra nella stanza del regista e nella testa dello sceneggiatore. L’aroma di caramella potrà essere elimi­ nato dalla cinematografia sovietica solo con la utilizzazione del ma­ teriale storico autentico. Le esigenze politiche del giorno d’oggi coin­ cidono in parte con l’esigenza artistica. Il problema non è evitare le opere su ordinazione, ma sfruttare l’ordinazione per fini d’arte». Come fece appunto e per esempio EjzenStejn. Che lo si voglia ammettere o no, la censura esiste, e non solo da oggi, anche nell’Urss e negli altri paesi dell’Est. Le cose non sono andate esattamente come aveva desiderato Trodcij: «La nuo­ va classe, la nuova vita, i nuovi vizi e la nuova ottusità esigono che li si faccia uscire dal mutismo, e quando questo avverrà, otterremo una nuova arte teatrale poiché senza procedimenti nuovi non si può 17

rappresentare l’ottusità nuova. Quanti nuovi giovin signori aspettano con trepidazione di essere incarnati sulla scena, quante disgrazie de­ rivano dall’ingegno o dalla smania di ingegno, e come sarebbe bello se per la Russia sovietica passasse un revisore teatrale. Non parlate, per favore, della censura teatrale perché non è vero. Naturalmente, se la vostra commedia vorrà dire: u Ecco a che punto ci hanno ri­ dotti: torniamo indietro al vecchio e caro nido nobiliare ”, la cen­ sura tirerà il collo a una simile commedia e farà bene. Se, invece, la vostra commedia dirà: “ Stiamo costruendo ima nuova vita e in­ tanto quanta vecchia e nuova porcheria, viltà e bassezza abbiamo intorno: mettiamoci a spazzarla ”, la censura non porrà ostacoli, e se ne porrà, lo farà per stupidità, e contro questa censura lotteremo insieme». Eppure di quali e quante stupidità si rese responsabile la burocrazia cinematografica sovietica, quante volte, nell’applicare vol­ garmente il «realismo socialista», ha dimenticato e dimentica gli avvertimenti degli stessi Marx ed Engels sulla «rappresentazione realistica di personaggi e avvenimenti storici», o le parole conclu­ sive di Engels in una lettera a Lassalle: « Tra noi la critica, nell’in­ teresse del partito stesso, è ormai da anni necessariamente il più pos­ sibile aperta»? Queste premesse potrebbero portare a concludere che anche per noi l’utopia (e non soltanto quella cinematografica) abbia un solo significato, quello comune, etimologico: «che non è in nessun luo­ go»; che noi si vagheggi e si proponga con Tommaso Moro una «nuova isola» irraggiungibile, nella quale situare film «saggi», «forti e belli», o una cinelandia del Sole alla Campanella, o un Salento o una Icaria come quelle descritte da Fénelon e Cabet. «È vero che ci si può immaginare dei mondi possibili, senza colpa e senza infelicità», scrive Leibniz, «e che se ne potrebbe fare come dei Romanzi, delle Utopie, dei Sévarambes ». Ma noi non vogliamo affatto immaginare un cinema «perfetto, seducente ma irrealizzabi­ le». Che fare? Di fronte alla «critica negativa» di Adorno, il suo totale pessimismo, sta l’ottimismo di un Benjamin, temperato dalla postilla al famoso saggio sull’opera d’arte nell’epoca della sua ripro­ ducibilità tecnica. Al cinema inteso come assoluta conferma dell’alie­ nazione, come persiane di ferro che mettono l’uniforme all’occhio — sia esso « escape » o « message » in quanto entrambi bugiardi, se­ condo la legge del denaro che costringe « a baciarsi » cose in anti­ tesi, o che tali dovrebbero essere - si contrappone una quantità vista come qualità, ipotesi tuttavia ancora assai lontana: anche qui si ve­ rifica uno sconvolgimento che tramuta la cosiddetta democratizza­ zione dell’arte attraverso il film, nel suo opposto. Tra Adorno e Be­ 18

njamin si pone, possiamo dire, Brecht, in particolare quando afferma che i princìpi del suo teatro «epico» sono estensibili al cinema. Marx così concludeva il saggio sul potere universalmente sovver­ titore del denaro: «Se poni come presupposto l’uomo in quanto uomo, il suo rapporto con il mondo in quanto rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto contro amore, fiducia soltanto con­ tro fiducia, ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo arti­ sticamente educato; se vuoi esercitare un’influenza su altri uomini, devi essere un uomo che agisce suscitando interesse e favore in al­ tri uomini. Ogni tuo rapporto con l’uomo e la natura deve essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto del tuo volere, della tua reale vita individuale. Se tu ami senza suscitare amore, se, cioè, il tuo amore come amore non produce una corri­ spondenza d’amore, se, nella tua manifestazione vitale di uomo che ama, non ti rendi un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’in­ felicità». Certo il mondo d’oggi appare lontano, sempre più lon­ tano da tutto questo: ne dà una drammatica testimonianza e in­ sieme un’acuta analisi l’Adomo non soltanto di Minima moralia. E tuttavia rimane valida per noi, e non soltanto per noi, la tesi marxia­ na sulla necessità di modificare, e non soltanto descrivere il mondo; tesi dalla quale Brecht trae la sua per il teatro, e che possiamo tra­ sferire al cinema: «Il mondo d’oggi può essere espresso anche per mezzo del teatro, purché sia visto come un mondo suscettibile di cambiamento». Ed egli aggiunge: «Una discussione sulla forma at­ tuale della nostra società, o anche soltanto sulla condizione dei suoi componenti meno importanti, costituirebbe immediatamente e irre­ parabilmente una minaccia totale alla forma di questa società stes­ sa ». Non si tratta di comporre « romanzi » su una futura società ideale: « il socialismo scientifico studia il movimento reale che porta alla trasformazione della società». Con Brecht non ci illudiamo di pretendere che la censura poli­ tica venga respinta per motivi artistici (contro tale censura non ha davvero valore alcun argomento di natura estetica), o di fare dei capitalisti dei pedagoghi, il che equivarrebbe a «incitarli al sabo­ taggio». £ comunque possibile — ed è già accaduto, anche nei pe­ riodi più neri — aggirare l’ostacolo ricorrendo a un linguaggio esopiano: la storia del cinema non è soltanto negazione. Einstein di­ ceva che è più facile rompere l’atomo che il pregiudizio. E tuttavia si intende rispondere, almeno in parte in senso positivo, tra l’altro e in primo luogo alla domanda posta scetticamente da più parti: «Quale prospettiva si può intravedere in un sistema che comporta la sclerosi della comunicazione? ». Anche se il panorama odierno ai 19

presenta assai precario, non tutti soggiacciono alle lusinghe dell’in­ dustria culturale e si trasformano « in funzionari stipendiati », per­ dono « ogni impulso proprio e ogni forza di resistenza » al mito pri­ mo sulle «possibilità impossibili» di modificare la realtà. Dell’uto­ pia qui viene dunque assunto non il significato comune, etimologico, negativo, ma l’accezione positiva: non intesa come .«ricetta per le cucine dell’avvenire » bensì quale « risultato lontano ma non im­ maginario, obiettivo storico», funzione stimolante all’attività pro­ gressista o marxista. E certo qualcosa è già stato fatto in questa direzione: ci sono stati e ci sono (basti pensare a certe giovani ci­ nematografìe dell’America Latina) cineasti nei quali era ed è pre­ sente l’«utopia concreta» nell’accezione di Bloch, «la forza latente ma operante di una realtà ultima che influisce concretamente su quella attuale ». Continuazione e integrazione del mio precedente Marx, il ci­ nema e la critica del film (Milano, Feltrinelli, 1979), nello scegliere e raccogliere testi da me redatti negli anni Sessanta e Settanta4 su temi che più hanno caratterizzato il mio percorso intellettuale, que­ sto volume non è, seguendo un genere oggi molto di moda, una raccolta antologica di scritti occasionali e vari, ma intende essere una sorta di « diario in pubblico » - dove le note a piè pagina sono spesso più lunghe dei testi stessi - della mia attività teorica e ope­ rativa. Mi sono messo dinanzi a me stesso, alla metodologia in cui cerco di calarmi, per riconsiderare appunto quei temi legandoli ad un unico filo «rosso»: l’apporto, nel discorso estetico e critico, di autori quali (oltre a Marx) Lukàcs, Majakovskij, Brecht, Benjamin, Hauser, Adorno, Pirandello, Freud: l’«aura» e la sua caduta, la doppia mimesi, l’arte moderna « nel segno del film », il di là da noi stessi; e di registi come Ejzenàtejn e Chaplin, Antonioni e Bergman, Pasolini, Bunuel, i Taviani, il sottovalutato Orsini de 1 dannati del­ la terra', e ancora e tra l’altro: il neorealismo e il cinema degli anni Cinquanta in Italia, la deviazione staliniana e il cosiddetto «culto della personalità » visto come copertura di una problematica assai più ampia, l’« immaginario collettivo » dei persuasori occulti, i linguaggi malati che sono sani e quelli ritenuti sani che sono malati. E, non ultimo, il «soggetto della storia». Dall’estetico all’incarico sociale, 4 Per il mensile «Comunità» e in particolare per il bimestrale «Cinema Nuo­ vo ». Ho aggiunto alcuni elzeviri apparsi su « La Stampa » - la cui terza pagina aveva raggiunto in quegli anni, con la direzione Giulio De Benedetti, un posto ragguar­ devole, - due interventi pubblicati su «L’Europeo Ricerche» e «Bianco e Nero» nonché un estratto dalla « Postface 1970 » della edizione francese di Marx, il cine­ ma e la critica del film (Marx, le cinéma et la critique de film, Paris, Minard, 1972).

on

dal « punteggio di Amburgo » alle « strutture epifanicbe », dal « lut­ to del cielo» e dell'alternativa all’oltre l’ideologia della barbarie, dalle «possibilità impossibili» alle «possibilità possibili»: cioè, e per l’appunto, all’utopia? Scriveva Brecht: « Le medicine costose e le istruzioni precise non sempre servono, mio giovane amico, ma ciò che si deve pretendere da un medico è che accerti la vera causa del male. Per guarire qual­ cuno occorre anzitutto una diagnosi esatta. E per fare una diagnosi esatta occorrono non soltanto solide cognizioni di medicina ma an­ che un effettivo interesse a che l’ammalato guarisca. Non basta che uno sia medico, egli deve anche saper essere utile ». Non sono certo un medico, né pretendo di aver dato una diagnosi esatta e tanto me­ no indicato una terapia sicura; mi auguro soltanto che le pagine che seguono possano essere in qualche modo utili. Torino, luglio 1979

9 E in particolare oggi, in momenti in cui, tra tante operazioni assai dubbie e negative, certa critica (in pieno accordo con il capitale) sostiene come realtà posi­ tiva - «la caratteristica che differenzia il cinema calle altre arti» - essere «il film soltanto o quasi un fatto commerciale», ed esalta la banalità e lo stereotipo, la nuova «estetica dei clichés». E allo squillo da «sinistra»: «è proprio questa banalità che oggi si deve recuperare», risponde da destra lo squillo:. «Possiamo dire che il linguaggio degli stereotipi è, se non Punico, uno degli specifici del film [...] Lo stereotipo è l’amore per il cinema che va di là dall’autore singolo» (Cfr. tra l’altro Cinema italiano. Ma cos’è questa crisi?, (Bari, Laterza, 1979 e II cinema vuol dire..., Milano, Garzanti, 1979).

21

L’estetico e l’incarico sociale

L'aura e la sua caduta

Al pari di altri intellettuali, e filosofi in ispecie, Benedetto Croce fu pigro spettatore cinematografico; al film, tuttavia, non negò valore e possibilità artistiche. Forse non è inutile ricordare anche Patteg­ giamento da lui assunto a riguardo, il peso che ancor prima, e mag­ giormente, la sua estetica ebbe nel «giustificare» appunto il film come arte. Sull’atteggiamento personale si hanno due testimonianze. La prima, indiretta, riferita da Emilio Cecchi nel giugno 1946 su « Mercurio »: dieci anni avanti, avendo avuto egli occasione di interro­ garlo sul cinema, Croce gli rispose, con «qualche meraviglia» del Cecchi stesso, che a «quella fusione di dramma o racconto e di im­ magini visive, non gli pareva potersi negare piena qualità d’arte». Ancor più meravigliato, ma per altri motivi, Carlo L. Ragghianti: come il filosofò avrebbe potuto formulare così il giudizio, definire il film-arte integrazione di espressioni poetiche e figurative? Quanto gli viene attribuito dal Cecchi, aggiunge, è un ircocervo, un pasticcio estetizzante e decadente che contraddice la stessa linguistica gene­ rale del Croce, il quale, neanche dormendo, si sarebbe macchiato di cotanto errore. E il Ragghianti riferisce per quale ragione il filosofo, che in pas­ sato aveva inteso i film quale divertimento sullo stesso piano di ro­ manzi e novelle extrartistiche, pur inesperto non solo di cinema ma anche di arti figurative e della loro critica, si mostrava tuttavia così sicuro e convinto nell’assegnare valore a un film. Egli gli aveva man­ dato alcuni suoi saggi sul «nuovo» mezzo espressivo, scritti per l’appunto intorno al 1933-34, e Croce, leggendoli, si era posto e chiarito i problemi del film e del teatro come spettacolo. « Per quan­ to gli era dato di giudicare, riteneva ciò che avevo scritto rispondere alla concreta qualità dei fenomeni indagati, e che comunque le mie deduzioni estetiche erano esatte e da lui condivise », riporta il Rag­ ghianti. E aggiunge: incuriosito, il filosofo si fece consigliare qual­ 22

che film che potesse documentarlo sulla validità di quei saggi, e vide un’opera di Chaplin, intendendone subito la trasfigurazione par­ ticolare, la disciplina artistica, nonostante la novità dell’esperienza; volle ulteriormente informarsi, e lesse anche un trattato del grande regista e teorico Pudovkin.1 Cecchi aveva male inteso, o riferito in modo inesatto il giudizio di Croce? A chiarire la questione, interviene la seconda testimo­ nianza, questa volta diretta: un breve scritto del filosofo, ima let­ tera a Luigi Chiarini, allora direttore di « Bianco e Nero », che ave­ va ospitato l’articolo di Ragghiami, apparsa sulla rivista stessa nel dicembre 1948, e poi raccolta, col titolo II cinematografo e la teoria estetica, nel secondo volume di Terze pagine sparse * «Io non ri­ cordo con quale riferimento dissi le parole che il Cecchi ha pubbli­ cate », premette il Croce; « ma, poiché egli le ricorda, non mi resta se non concludere che in quel momento formulai in modo non esatto il mio pensiero. Per quanto l’uomo pensi (diceva il mio maestro Antonio Labriola), macchina pensante non diventa mai». Ma ciò non ha importanza, prosegue Croce; e sottolinea di es­ sersi spacciato, con un rifiuto radicale, di tutte le controversie cui danno origine i cosiddetti « mezzi » espressivi, circa la loro distin­ zione e opposizione, e la possibilità e il modo del loro legame per concorrere a un effetto artistico. Le difficoltà che par che sorgano e si atteggino come derivanti da essi, escludendo essi stessi ogni fonda­ mento di verità - prosegue - non sono logicamente risolvibili, ma ap­ partengono al farsi dell’opera d’arte e le risolve solo il gusto e il genio artistico. Le distinzioni delle arti, poesia, musica, pittura e via dicendo - aggiunge il Croce - rendono servigio pratico per la classificazione, e cioè per l’esame delle opere d’arte dall’esterno, ma non valgono di­ nanzi alla semplice realtà che ogni singola opera ha la sua propria fisionomia e tutte la stessa natura, perché tutte sono alla pari poe­ sia o, se così piace meglio dire, tutte musica o tutte pittura, e simili. «Dunque, un film, se si sente e si giudica bello, ha il suo pieno diritto, e non c’è altro da dire». L’intervento del Croce mise fine alla controversia, venne a ri­ confermare, e forse con qualche meraviglia non del solo Cecchi, la cittadinanza del film come arte. Ma se l’intervento diretto del filo­ sofo si fece attendere, pronta e solerte fu la mobilitazione della sua estetica promossa per il cinema. Già nel lontano 1926, dalle pagine1 1 Carlo L. Ragghiami, Croce e il film come arte, in «Bianco e Nero», Roma, a. ix, n. 8, ottobre 1948. * Bari, Laterza, 1955.

23

del milanese «Il Convegno» di Enzo Terrieri, Antonello Gerbi dà Tavvio a quell’operazione. Le arti, scrive, sono ignote alla filosofia del bello: non hanno esistenza reale: c’è l’arte, e noi possiamo dire che tale è il Partenone; ma le cosiddette arti - la pittura, la scultura, ecc. - sono semplici raggruppamenti di comodo, concetti empirici. Possiamo giudicare infatti un certo quadro, una particolare statua belli, continua Gerbi; ma sostenere che bella è la pittura o la scul­ tura, è frase vuota, né vera né falsa in quanto insignificante. L’este­ tica (ed egli allude tout court a quella crociana) ci proibisce pure di dire che il cinema è arte: arte sono le opere, non i mezzi tecnici con cui esse vengono prodotte; un film, non il cinema. Questo è una nuova tecnica, un nuovo strumento di espressione; al pari della me­ trica, della pittura a olio, del cemento armato permette di fissare certe impressioni e di ottenere certi effetti, ma non può avere di per sé la virtù di creare il bello: la bellezza è sempre prodotto dell’artista. E nel cinema, un poeta può trovare la pienezza della sua espressione: le «intuizioni» cinematografiche sono possibili. L’operazione del Gerbi nasce da una duplice esigenza. Da una parte sostenere la legittimità del film come arte; dall’altra opporsi agli entusiasmi senza riserve, alle virtù miracolistiche che i mistici, specie francesi, proprio in quegli anni andavano attribuendo al nuo­ vo mezzo. Alla confusione, alle idee sommarie oppone criteri «più sottili e canoni più rigorosi sul preciso terreno dell’estetica crocia­ na», e il suo scritto Teorie sul cinema * fa testo. A esso rimanda esplicitamente nel 1931 Giacomo Debenedetti, già da tempo con­ vertitosi al film, di cui mette in evidenza risorse ed equivoci. Il film esprime sentimenti e affetti, scrive: è la risultante sui generis di un’invenzione poetica e attiva e di una testimonianza documenta­ ria; la sua più grande forza è di scaturire dall’occhio visionario e creativo di un poeta combinato con l’occhio, che può sembrare mec­ canico e senza anima, della macchina da presa. Sennonché l’autentico regista trova nell’obiettivo un nuovo occhio, il suo, ne fa uno stru­ mento esplorativo, che segue i desideri di osservazione e di scoperta, percorre le strade dell’inquietudine umana, per riportarne tali do­ cumenti che forse il palpito dei nostri stessi desideri, i soprassalti della nostra stessa inquietudine ci avrebbero impedito di fissare.4 La mobilitazione dell’estetica crociana per il cinema continua con • Antonello Gerbi, Teorie sul cinema, in