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Italian Pages 150/151 [151] Year 2016
John Meyendorff
Lo scisma tra Roma e Costantinopoli
EDIZIONI QIQAJON COMUNITÀ DI BOSE
LO SCISMA TRA ROMA E COSTANTINOPOLI
Presso le nostre edizioni Bartholomeos I, La via del dialogo e della pace O. Clßment, Il respiro dell’oriente. Il volto dell’ortodossia nella storia K. Koch, Il cammino ecumenico A. Mainardi, Insieme verso l’unitÜ. L’esperienza monastica e il cammino ecumenico E. Morini, vicina l’unitÜ tra cattolici e ortodossi?. Le scomuniche del 1054 e la riconciliazione del 1965 Il nostro Catalogo generale aggiornato à disponibile sul sito www.qiqajon.it
AUTORE: TITOLO: CURATORE: COLLANA: FORMATO: PAGINE: TRADUZIONE: IN COPERTINA:
John Meyendorff Lo scisma tra Roma e Costantinopoli Antonio Rigo SpiritualitÜ orientale 21 cm 150 dall’inglese a cura di Emanuela Cosentino e Riccardo Larini Pietro e Andrea, icona, Abbazia di Novalesa, Torino
Prima edizione digitale: 2016 ß 2005, 2016 EDIZIONI QIQAJON
COMUNITA` DI BOSE 13887 MAGNANO (BI) Tel. 015.679.264 - Fax 015.679.290
isbn 978-88-8227-737-6
JOHN MEYENDORFF
LO SCISMA TRA ROMA E COSTANTINOPOLI Introduzione di Antonio Rigo
EDIZIONI QIQAJON COMUNITA` DI BOSE
INTRODUZIONE
Sotto molti aspetti Meyendorff fu l’ultimo rappresentante della comunitÜ russo-ortodossa dell’emigrazione, con radici che affondavano profondamente nella cultura russa. Allo stesso tempo egli fu il piô americano di quella generazione, americano e francese, russo e greco. Sarebbe necessario che un qualche storico futuro tracci una storia completa dell’ortodossia orientale nell’emisfero occidentale, una storia che ha compiuto esattamente due secoli il 24 settembre 1994, bicentenario della missione Kodiak. Inizia con gruppi nazionali isolati l’uno dall’altro oltre che dal resto della vita americana e oggi ha raggiunto un punto nel quale la realtÜ dell’esperienza ortodossa detiene un posto di onore all’interno dell’intera comunitÜ religiosa del nord e del sud America. In questa storia la generazione intermedia ha avuto un ragguardevole gruppo di leaders, tra i quali l’arcivescovo Iakovos e la triade dei padri Florovsky, Schmemann e Meyendorff. Grazie alla loro opera l’ortodossia americana (e la cristianitÜ americana) non sarÜ piô la stessa1.
Con queste commosse parole, senz’altro evocatrici di un grande ciclo che racchiude i destini della diaspora russa in Europa e oltre e la lunga marcia dell’ortodossia nel continente americano, Jaroslav Pelikan ricordava il collega e amico da po1 J. Pelikan, “In memory of John Meyendorff”, in New Perspectives on Historical Theology. Essays in Memory of John Meyendorff, a cura di B. Nassif, Eerdmans, Grand Rapids-Cambridge 1996, pp. 8-9.
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co scomparso. John Meyendorff (17 febbraio 1926 - 22 luglio 1992)2 nato in Francia (Neuilly-sur-Seine) da una famiglia di emigrati russi, dopo gli studi a Parigi presso l’Institut Saint Serge e la Sorbonne, si era stabilito negli Stati Uniti, svolgendo la sua opera di insegnamento e di ricerca presso il Saint Vladimir’s Theological Seminary (New York) e numerose universitÜ americane (Columbia University, Fordham University, Dumbarton Oaks a Washington D. C.). Allo stesso tempo le sue preoccupazioni e i suoi sforzi erano rivolti alla vita ecclesiale: nel seminario ortodosso di Saint Vladimir, nella chiesa ortodossa d’America, nel Consiglio mondiale della chiese, nella federazione mondiale della gioventô ortodossa (Syndesmos) della quale era stato uno dei fondatori nel 1952, eccetera. GiÜ soltanto le vicende esteriori di questa biografia ben rappresentano il coronamento di una stagione nota da un lato per la sua collocazione nelle tappe della diaspora ortodossa, come la scuola parigina dell’Institut Saint Serge, e dall’altro come l’etÜ del ritorno ai padri della teologia ortodossa, tramite un nuovo “ellenismo cristiano” e una sintesi neopatristica. In questo movimento, inaugurato nelle accademie e nelle universitÜ della Russia pre-rivoluzionaria e che raggiunge la sua maturitÜ verso la
2 Sul quale abbiamo consultato “Protopresbyter John Meyendorff”, in St. Vladimir’s Theological Quaterly 36 (1992), pp. 180-192; P. Lazor, “Father John Meyendorff. Our Teacher”, in Letter from St. Vladimir’s Orthodox Theological Seminary, october 1992; D. Obolensky, “John Meyendorff (1926-1992)”, in Sobornost 15 (1993), pp. 44-51; B. Dupuy, “Le Pàre Jean Meyendorff”, in Istina 38 (1993), pp. 351-369; L. Shaw, “John Meyendorff and the Heritage of the Russian Theological Tradition”, in New Perspectives on historical Theology, pp. 10-42; R. Slesinski, Essays in Diakonia. Eastern Catholic Theological Reflections, Lang, New York 1998, pp. 83-91; P. Morelli, s.v. “Meyendorff John”, in Lexikon. Dizionario dei teologi, a cura di L. Pacomio e G. Occhipinti, Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 885-887; E. G. Farrugia, s.v. “Meyendorff John”, in Lexikon für Theologie und Kirche, Herder, Freiburg 1998, t. 7, col. 223; Id., s.v. “Meyendorff John”, in Dizionario enciclopedico dell’oriente cristiano, a cura di E. G. Farrugia, Pont. Institutum Orientalium Studiorum, Roma 2000, pp. 490-491; J. H. Erickson, John Meyendorff (1976-1992), in Pioneers of Byzantine Studies in America, a cura di J. W. Barker, Hakkert, Amsterdam 2002, pp. 197-206; http://www.svots.edu/ Faculty/John-Meyendorff/.
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metÜ del secolo appena trascorso, alcuni nomi sono solitamente affiancati a quello di John Meyendorff: Georgij Florovskij, Vladimir Lossky, Nikolaj Afanas’ev, Alexander Schmemann, Sergej Verkhovskij e Paul Evdokimov. Meyendorff fa suo il programma di un “ellenismo cristiano” (e non di un “cristianesimo ellenico” o ellenizzante), del quale spiega cosç il significato e i fini: La chiesa à consegnata alla veritÜ che i padri hanno preservato nelle loro lotte, e questa veritÜ non puð essere conosciuta e compresa se non si entra nella “mente” dei padri, diventando loro contemporanei nello spirito e, quindi, facendo in modo di diventare “greci” come essi lo erano. La nostra teologia oggi deve rimanere in accordo con le loro posizioni: tutti i teologi ortodossi devono quindi diventare “greci” in questo senso3.
Se la necessitÜ del ritorno ai padri, dell’epoca patristica ma anche dei secoli successivi, costituisce uno dei grandi filoni della ricerca e dell’attivitÜ scientifiche di Meyendorff ed à alla base dei suoi studi, intrapresi fin dai giovani anni, su Gregorio Palamas e su altri momenti e percorsi della teologia ortodossa a Bisanzio, la questione dello scisma tra le chiese d’oriente e occidente e i problemi connessi (in particolare quello del primato di Roma)4 hanno un peso e un ruolo altrettanto significativi nella sua opera. La sua attenzione alle vicende storiche che hanno condotto alla rottura tra Costantinopoli e Roma, presente anche in studi dedicati in apparenza ad altre tematiche, non si risolve in una curiositÜ antiquaria ed erudita, ma à sempre accompagnata dagli interrogativi e dalle speranze dell’oggi. 3 J. Meyendorff, Catholicity and the Church, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood (NY) 1983, p. 47. 4 Al quale egli consacra un contributo specifico: St. Peter in Byzantine Theology, in J. Meyendorff, N. Afanassief, R. P. A. Schmemann, N. Kouloumzine, The Primacy of Peter, The Faith Press, London 1963, pp. 7-29.
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Questa raccolta di studi, apparsi in sedi e momenti diversi, à l’unico volume di John Meyendorff dedicato esplicitamente a questo tema. Costantinopoli e Roma rappresentano quindi due poli contrapposti, a fianco dei quali ne emergerÜ un altro, la “terza Roma”, Mosca5. John Meyendorff inizia la sua analisi, concorde con gli storici piô avvertiti, da una constatazione: lo scisma tra chiesa d’oriente e occidente non à individuabile in un momento della storia, in una data precisa, sia essa il 1054 – reciproche scomuniche tra il patriarca Michele Cerulario e il legato pontificio Umberto da Selvacandida – o il 1204 – quarta crociata e conquista occidentale di Costantinopoli –, ma à piuttosto il risultato di un progressivo estrangement tra le chiese d’oriente e d’occidente (cf. infra, cc. i, iii), e poi della successiva “percezione della differenza”6 che conduce addirittura alla redazione di veri e propri cataloghi delle divergenze, oramai intese come posizioni erronee, se non eretiche. In questo, John Meyendorff fa propria la lezione di Yves Congar il quale in un illuminante contributo aveva mostrato che quanto si indica come scisma ci appare come costituito dall’accettazione di una situazione nella quale ciascuna parte della cristianitÜ vive, si comporta e giudica senza tenere conto dell’altra. Allontanamento, provincialismo, situazione di non-rapporto, stato di ignoranza reciproca; una parola inglese, difficilmente traducibile, esprime tutto questo, la parola estrangement. Lo scisma orientale si à prodotto con un estrangement progressivo e si à costituito con l’accettazione di questo estrangement7.
5 Questione toccata di sfuggita in queste pagine, ma sulla quale cf. la ricerca specifica, Byzantium and the Rise of Russia. A Study of Byzantino-Russian Relations in the Fourteenth Century, Cambridge University Press, Cambridge 1981. 6 Mutuiamo il termine da G. Dagron, “La perception d’une diffßrence: les dßbuts de la ‘querelle du purgatoire’”, in Actes du XVe Congràs International d’tudes Byzantines. Athànes 1976, IV. Histoire, Communications, Athinai 1980, pp. 84-92. 7 Y. Congar, Neuf cent ans apràs. Note sur le “schisme oriental”, in L’glise et les ßglises. 1054-1954: neuf siàcles de douloureuse sßparation entre l’Orient et l’Occident. tudes et
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I fattori e i motivi di tale “estraneamento” sono senza dubbio molteplici (ecclesiologici, politici, culturali, eccetera), ma le sue radici vanno ricercate in un’epoca-chiave, ben anteriore alle date solitamente avanzate quando si parla di “scisma” tra oriente e occidente. Un’epoca-chiave, nella quale emergono alcune linee di tendenza il cui esito sarÜ in seguito decisivo, che à individuabile, secondo John Meyendorff, nei secoli iv e v, un periodo ... nel corso del quale la chiesa, con la sua teologia, le sue istituzioni, la sua liturgia e la sua azione sociale, era inseparabile dalla societÜ nel suo insieme, nel quadro dell’impero romano e delle strutture politiche ereditate dall’ideologia romana. Questo periodo rimane cruciale per comprendere la chiesa oggi, non soltanto a ragione delle relazioni specifiche che esistevano tra la chiesa e lo stato, ma anche a ragione delle opzioni dottrinali decisive che furono allora prese, a ragione degli scismi che dividevano i cristiani e che esistono ancora oggi e perchß la chiesa, inseparabile dalla sua tradizione, non puð risolvere i suoi problemi attuali senza riferirsi costantemente a questi secoli decisivi e formativi8.
Si puð dire che tutto inizia allora (e forse in germe anche prima) con la divisione dell’impero in due parti e la fondazione di Costantinopoli e in particolare con il concilio di Calcedonia del 451, vero spartiacque decisivo, non solo perchß “questo concilio si trova all’origine di una divisione tragica del cristianesimo orientale”9 a causa delle diverse dottrine cristologiche, ma anche perchß quanto viene allora stabilito rappresenta la base di ogni possibile rapporto successivo tra Roma e la “nuova Roma”, travaux offerts Ü Dom Lambert Beauduin I, ditions de Chevetogne, Chevetogne 1954, pp. 7-8. 8 J. Meyendorff, Unitß de l’Empire et divisions des chrßtiens. L’glise de 450 Ü 680, Cerf, Paris 1993, p. 11. 9 Ibid.
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Costantinopoli. Si tratta, in ultima analisi, del ben noto passaggio del canone 28: Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell’antica Roma perchß la cittÜ era cittÜ imperiale. Per lo stesso motivo i 150 vescovi diletti da Dio [di Costantinopoli 381] concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l’imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell’antica cittÜ imperiale di Roma, uguali privilegi anche in campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella.
A questo principio, meglio a questa ecclesiologia “imperiale”, si viene a opporre da parte occidentale, da Roma, un nuovo principio, quello dell’“apostolicitÜ”, secondo il quale à la fondazione di una chiesa da parte di un apostolo a dare il rango a una chiesa. Principio questo, in veritÜ, incomprensibile in oriente dove molte chiese potevano rivendicare un’origine apostolica, ma di contro adatto all’occidente, dove la sola Roma poteva nei fatti vantare una fondazione apostolica. All’idea di una chiesa “imperiale” Roma rispose con il cosiddetto Decreto gelasiano: “La santa chiesa romana fu posta a capo delle altre chiese non da qualche concilio, ma ricevette il primato per bocca del nostro Signore e salvatore: ‘Tu sei Pietro e su questa pietra edificherð la mia chiesa’”. E anche nell’esegesi di Matteo 16,13-19 e sulla successione di Pietro, l’oriente e l’occidente divergeranno via via sempre di piô (cf. infra, c. i). Con il contrapporsi delle due ecclesiologie, e le rivendicazioni di apostolicitÜ10, lo “scisma” tra Costantinopoli e Roma à giÜ in linea teorica consumato: allo scorrere del tempo, ai diversi cammini intrapresi da oriente e occidente e agli avvenimenti ec-
10 John Meyendorff su questo punto ha sempre riproposto i risultati delle ricerche di F. Dvornik, in particolare The Idea of Apostolicity in Byzantium and the legend of the Apostle Andrew, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1958.
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clesiastici (riforma gregoriana), e soprattutto politici piô tardi, il compito di sanzionarlo. Il seguito del libro di John Meyendorff à dedicato a questi diversi percorsi di oriente e di occidente in etÜ medievale secondo la loro successione cronologica: una rapida presentazione della teologia bizantina (cf. infra, c. ii)11, la “teologia” monastica bizantina (esicasmo) versus la scolastica e il tomismo (cf. infra, c. iii), la teologia e l’ideologia imperiale tra xi e xiii secolo e i rapporti con l’occidente (cf. infra, c. iv), la teologia orientale del xiii secolo in oriente e la contemporanea realtÜ occidentale delle universitÜ e dei nuovi ordini religiosi (cf. infra, c. v). Il volume, cosç articolato, oltre a presentare una rilettura della teologia e della storia della chiesa bizantine12, ripercorre in ultima analisi le successive tappe del distacco, dell’estrangement per parlare con Congar, e illustra la progressiva percezione, da una parte e dall’altra, delle differenze che sembrano oramai separare in modo irreparabile. Di fronte a questa nuova consapevolezza ci furono tentativi di riavvicinamento e di (ri)unione a Lione (1274) prima e a Firenze (1439) poi. Tentativi maldestri e destinati al fallimento, come egli sottolinea in un paragrafo del capitolo dedicato proprio a tale vicenda: “Cosa non accadde a Firenze” (cf. infra, c. vi). Alla conclusione di questo percorso John Meyendorff si pone infine alcuni interrogativi sull’oggi:
11 Alla quale aveva dedicato una celebre monografia: Byzantine Theology. Historical Trends and Doctrinal Trends, Fordham University Press, New York 1974, tr. it. La teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali, Marietti, Casale Monferrato 1984. 12 Il rapido progredire degli studi negli ultimi decenni ha reso logicamente datati certi dettagli e alcuni tra i giudizi espressi su singoli personaggi poco condivisibili. Cosç, per esempio, le opere di Teolepto di Filadelfia (infra, pp. 61 e 113) sono state edite, cf. Theoleptos of Philadelpheia, The Monastic Discourses, a cura di R. E. Sinkewicz, Pontifical Institute for Medieval Studies, Toronto 1992; per gli “umanisti” (infra, pp. 113-114 e 129) cf. ora G. Podskalsky, Von Photios zu Bessarion. Der Vorrang humanistisch geprØgter Theologie in Byzanz und deren bleibende Bedeutung, Otto Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2003; per Bessarione (infra, pp. 73-74) cf. A. Rigo, “Bessarione tra Costantinopoli e Roma”, in Bessarione di Nicea, Orazione dogmatica sull’unione dei Greci e dei Latini, a cura di G. Lusini, Vivarium, Napoli 2001, pp. 19-68.
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lecito affermare ... che nel 1438-1439 le due metÜ del cristianesimo erano piô lontane ed estraniate l’una dall’altra di quanto non lo siano oggi. Infatti, se si considerano quegli ortodossi ai quali sta veramente a cuore la causa dell’unitÜ cristiana e se, d’altra parte, ci si richiama alla conoscenza e all’esperienza spirituale di quei leaders occidentali, studiosi e teologi (purtroppo non molto numerosi) che hanno capito la natura e le implicazioni dell’esperienza ecclesiale ortodossa, allora un vero dialogo à certamente possibile13.
Questo duplice livello dei compiti e dei fini della sua opera che emerge con chiarezza ci appare come una costante della sua intera produzione. L’indagine non si deve limitare a un’investigazione di tipo scientifico, erudito e documentario, ma deve anche tradursi in uno strumento utile per la vita e le sfide del tempo presente. Principio che sarÜ ancora una volta ribadito da John Meyendorff in uno dei suoi ultimi libri: Lo studio della storia della chiesa non avrebbe senso se non comportasse una ricerca dei principi ecclesiologici coerenti e permanenti, radicati nella santa Tradizione, ma di frequente sommersi dalla massa delle “tradizioni umane”. In questo senso, la storia della chiesa à lo strumento indispensabile per ogni ricerca legittima di una teologia dell’unitÜ cristiana14.
13 Infra, p. 148. 14 J. Meyendorff, Unitß de l’Empire et divisions des chrßtiens, p. 400.
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NOTA EDITORIALE
I capitoli i-iii e v-vi sono tratti dalla raccolta di saggi: J. Meyendorff, Rome, Constantinople and Moscow. Historical and Theological Studies, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood 1996, pp. 7-53 e 73-111. Mentre il capitolo i à qui pubblicato per la prima volta, gli altri sono giÜ apparsi in: Schools of Thought in the Christian Tradition, a cura di P. Henry, Fortress, Philadelphia 1984, pp. 65-74 (c. ii); Christian Spirituality, II. High Middle Ages and Reformation, a cura di J. M. Raitt in collaborazione con B. McGinn e J. Meyendorff, Crossroad, New York 1987, pp. 439-453 (c. iii); Major Papers of the Seventeenth International Byzantine Congress, A. D. Caratzas, New Rochelle 1986, pp. 669-682 (c. v); Christian Unity. The Council of Ferrara-Florence, 1438/9-1989, a cura di G. Alberigo, Leuven University Press, Leuven 1991, pp. 153-175 (c. vi). Il capitolo iv à la relazione tenuta da Meyendorff al XV Congresso internazionale di studi bizantini, svoltosi ad Atene nel 1976, edita poi in The Byzantine Legacy in the Orthodox Church, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood 1982, pp. 67-85.
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I ROMA E COSTANTINOPOLI
Tutti gli storici sono oggi concordi nel ritenere che lo scisma, che assunse in seguito la forma di una separazione permanente tra l’oriente e l’occidente cristiani, non avvenne all’improvviso. Fu il risultato di un progressivo estrangement (termine inglese adottato per l’occasione dal teologo francese Yves Congar) e non puð nemmeno essere datato. GiÜ tra il iv e il ix secolo le chiese di Roma e di Costantinopoli avevano spesso conosciuto lunghi periodi di separazione. A volte furono eresie sostenute nella capitale dell’impero d’oriente, e giustamente rifiutate da Roma, a causare quei primi conflitti (arianesimo, 335-381; monotelismo, 533-680; iconoclasmo, 723-787 e 815-842). A volte Roma e Costantinopoli assunsero atteggiamenti differenti riguardo all’oikonomæa ecclesiale (la posizione “neo-nicena”, ereditata dai padri cappadoci, 381-400 ca.; l’atteggiamento da adottare nei confronti dell’Henotikïn, di cui a volte si parla come dello “scisma acaciano”, 482-518), e la comunicazione per queste ragioni fu interrotta. Qualunque fosse il tema e di chiunque fosse la colpa, à chiaro che dietro al dibattito su un concreto problema teologico o disciplinare si celava una differenza che si stava via via sviluppando: a occidente si riteneva che l’autoritÜ fosse conferita all’antica capitale in virtô della sua “apostolicitÜ”, mentre a oriente era l’idea di consenso conciliare a prendere sempre piô il sopravvento.
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Strutture imperiali contrapposte ad “apostolicitÜ” Il sistema di una “pentarchia” di patriarchi, accettato de facto in oriente nel v secolo prima che venisse formalmente incluso nei testi legali e canonici del vi e vii secolo, era basato su un’interpretazione del famoso canone 6 del concilio di Nicea (325). Appellandosi ad “antiche consuetudini” (archaåa ßthe), quel canone accordava “privilegi” alle chiese di Alessandria e di Antiochia, adducendo Roma come precedente e come modello1. In oriente, i “privilegi” di quelle tre chiese erano intesi come un riconoscimento dell’importanza sociale, economica e politica delle tre rispettive cittÜ. Quando Costantinopoli divenne una “nuova Roma” fu quindi del tutto naturale riconoscerne anche la nuova importanza. Cosç nel 381 fu stabilito che “il vescovo di Costantinopoli deve avere il primato d’onore (tÜ presbeæa tÞs timÞs) dopo il vescovo di Roma, perchß quella cittÜ à la nuova Roma”2. Nel 451, il concilio di Calcedonia confermð tale decisione, esprimendo con chiarezza ancor maggiore la visione prevalente in oriente, secondo cui “i padri giustamente hanno concesso privilegi al trono dell’antica Roma” (cið significa che quei privilegi non risalivano ai tempi apostolici). Esso trasformð altresç quello che in precedenza era un semplice primato d’onore di Costantinopoli in poteri canonici all’interno di un territorio ben definito – le diocesi imperiali del Ponto, dell’Asia e della Tracia – giustificando i nuovi diritti “patriarcali” dell’arcivescovo della capitale con il fatto che “la cittÜ [di Costantinopoli] à onorata dalla presenza dell’imperatore e del senato”, al pari di Roma3. La motivazione politica, o semplicemente frutto di un certo pragmatismo sociale, dell’elevazione di Costantinopoli era quindi chia1 “Epeidà kaç tî en Rhïme episkïpo tð toioýtou synethßs estin” (G. A. Rhallis, M. Potlis, S÷ntagma tîn theæon kaç hierîn kanïnon II, Chartophylax, Athinai 1852, p. 128). 2 Ibid., p. 173. 3 Ibid., pp. 280-281.
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ra. Agli occhi degli orientali, cið non contraddiceva in alcun modo il canone 6 di Nicea, che fu interpretato in maniera altrettanto pragmatica. Si ritenne alquanto naturale che la “nuova Roma” dovesse avere gli stessi privilegi dell’“antica”, unendosi quindi al gruppo delle sedi “privilegiate”, che presto assunsero il titolo di “patriarcati”, alle quali venne peraltro aggiunta Gerusalemme, grande centro di pellegrinaggi ai luoghi santi. A Roma tuttavia vigeva un’altra logica. Il cosiddetto Decretum Gelasianum4, un documento composito di oscure origini che rifletteva la visione prevalente nei circoli papali, proclamava: “La santa chiesa romana fu posta a capo delle altre chiese non da qualche concilio, ma ricevette il primato per bocca del nostro Signore e salvatore: ‘Tu sei Pietro e su questa pietra edificherð la mia chiesa...’”. Il Decretum fornisce anche una propria interpretazione del canone 6 di Nicea: le tre chiese, i cui “privilegi” sono riconosciuti dal canone – Alessandria, Roma e Antiochia –, sono tutte sedi petrine: Pietro morç a Roma, ma predicð anche ad Antiochia, e il suo discepolo Marco fondð la chiesa di Alessandria. A Roma questa interpretazione sarÜ sostenuta per secoli, da Leone Magno (440-461) nonchß dai grandi papi del medioevo, a dispetto della sua artificiositÜ. sufficiente che la chiesa di Alessandria sia stata fondata da un discepolo di Pietro per motivarne i “privilegi” su quella di Antiochia? La morte di Pietro a Roma à forse un fattore ecclesiologicamente piô importante della morte di Gesô stesso a Gerusalemme? 4 Testo in Das Decretum Gelasianum, a cura di E. von Dobschütz, Hinrichs, Leipzig 1912. Il testo del Decretum à composito e ci sono problemi di datazione. Attribuito a papa Gelasio I (492-496) in taluni manoscritti, à ritenuto da alcuni studiosi contemporanei un documento di papa Ormisda (514-523); cf. P. Batiffol, Le siàge apostolique, Lecoffre-Gabalda, Paris 1924, pp. 146-150; F. Dvornik, The Idea of Apostolicity in Byzantium and the Legend of the Apostle Andrew, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1958, pp. 56-88. C’à tuttavia vasto consenso (Turner, Chapman, Caspar, Kidd) nel sostenere l’ipotesi che il nucleo del documento, se non addirittura l’intero testo, risalga a papa Damaso I (366-384) e rifletta l’opposizione di quest’ultimo contro il concilio del 381, che sostenne, contro i desideri di Roma e di Alessandria, i “neo-niceni” e formulð il celebre canone 3 di quel concilio, che proclamava Costantinopoli nuova Roma.
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Sia come sia, le due diverse interpretazioni del canone 6 di Nicea evidenziano la vera questione tra Roma e Costantinopoli, tra l’occidente e l’oriente, quella che alla fine avrebbe portato allo scisma. Tra gli storici, à stato Frantisek Dvornik a individuare in modo inequivocabile la distinzione esistente tra il principio “apostolico” usato per giustificare non solo il potere di Roma ma anche quello di altre chiese, e il principio di “accomodamento”, universalmente accettato in oriente, per il quale i “privilegi” delle chiese sono basati su realtÜ storiche, non sulla loro fondazione apostolica. Alcune chiese possono appellarsi ad “antiche consuetudini” per rivendicare concreti diritti, ma simili rivendicazioni necessitano di essere formalmente sanzionate dai concili5. Anche perchß di chiese storicamente fondate da apostoli se ne possono trovare ovunque in oriente (Efeso, Tessalonica, e molte altre, senza parlare di Gerusalemme), ma la fondazione apostolica non era di per sß sufficiente a giustificare una primazia. Non vi à dubbio che tanto Alessandria quanto Costantinopoli divennero potenti centri patriarcali non sulla base dell’“apostolicitÜ”, bensç, de facto, a motivo della loro influenza sociale, culturale e politica6. L’esistenza di questi due principi ecclesiologici contrapposti l’uno all’altro non impedç tuttavia che la comunione e l’unitÜ ecclesiale tra oriente e occidente fossero mantenute per molti secoli. Indubbiamente a Roma la convinzione che la fondazione petrina sia la base reale e decisiva dell’autoritÜ romana à molto antica. Il prestigio morale e dottrinale della chiesa romana quale testimone di una successione apostolica risalente agli apostoli Pietro e Paolo, appare giÜ in Ireneo nel ii secolo7. Simili accenni contenuti nei documenti piô antichi, assumono la forma di una
5 Cf. in particolare F. Dvornik, Byzance et la primautß romaine, Cerf, Paris 1964. 6 La leggenda della visita di Andrea a Bisanzio si trova in tardivi documenti apocrifi (cf. F. Dvornik, The Idea of Apostolicity, pp. 181-222). 7 Cf. Adversus haereses III,1-5.
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rivendicazione logica presso i vescovi romani del iv e v secolo. Le rivendicazioni piô esplicite sono espresse da Leone Magno. Per Leone, Pietro, che il Signore “costituç principe dell’intera chiesa”8, ha un successore, il vescovo di Roma, che occupa “il seggio di Pietro”9. La sua reazione all’adozione a Calcedonia del canone 28 dimostra che il papa comprese il punto di vista di coloro i quali affermavano che il primato romano – come il nuovo primato di Costantinopoli – fosse legato alla presenza dell’imperatore, e deliberatamente rifiutð tale posizione. Tra l’altro, a quel tempo, la residenza imperiale occidentale era stata spostata a Ravenna e gli imperatori avevano abbandonato l’antica capitale. Tuttavia, secondo Leone, “il beato Pietro, mantenendo la forza che ha ricevuto, simile a quella di una roccia, non abbandona il governo della chiesa che gli à stato affidato”10. In maniera significativa Leone, nel descrivere il ruolo del papa, usa il termine principatus – un titolo in genere riservato agli imperatori (anche Pietro à, per lui, princeps, “principe”) –, al posto del piô antico e riconosciuto termine di primatus usato per indicare i primati ecclesiastici11. ovvio che Leone non pensava seriamente a un’assunzione del potere imperiale, e sarebbe stato molto sorpreso se avesse saputo quale uso si sarebbe fatto delle sue parole nei secoli a venire per giustificare l’autoritÜ papale. Egli non faceva che dare il via a un processo attraverso il quale gradualmente la persona e il prestigio del vescovo di Roma avrebbero assunto dimensioni “imperiali”. Di fatto, nell’occidente cristiano, invaso e dominato dai barbari, l’impero avrebbe cessato di esistere pochi decenni dopo, nel 476, e l’autoritÜ dei legittimi eredi dei cesari, ora residenti a Costantinopoli, avrebbe 8 “Quem totius ecclesiae principem fecit” (De natali ipsius sermo 4,4, SC 200, Cerf, Paris 1973, p. 272). 9 “Petri sedem” (cf. De natali ipsius sermo 2,2, SC 200, p. 250). 10 De natali ipsius sermo 3,3, SC 200, p. 258. 11 Su questo punto si veda la mia discussione del problema in Unitß de l’empire et divisions des chrßtiens, Cerf, Paris 1993, p. 147.
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conservato di lç a breve un valore puramente simbolico. Saranno i papi a colmare il conseguente vuoto politico e culturale. Il conflitto che esisteva tra oriente e occidente a proposito delle due “Rome”, e che appare con tanta ovvietÜ quando si confrontano i testi del Decretum Gelasianum da una parte e il canone 3 di Costantinopoli I e il canone 28 di Calcedonia dall’altra, à quindi piuttosto notevole. Tale conflitto, continuamente in procinto di esplodere, fece sempre da sfondo ai numerosi conflitti particolari tra Costantinopoli e Roma, soprattutto allo “scisma acaciano”. Come si riuscç a evitare uno scontro aperto tra le parti? Cið fu probabilmente possibile per una combinazione, da entrambe le parti, di realismo politico, deliberata moderazione ideologica, nonchß di qualche malinteso. A papa Leone il realismo politico non era certo estraneo. Egli conosceva e riconosceva appieno il potere “imperiale” di Costantinopoli. In un sermone, nel quale veniva ripresa la visione di Eusebio di Cesarea, egli cosç poteva esprimersi: stata la provvidenza divina a far sorgere l’impero romano, la cui crescita si à estesa a tal punto da rendere ogni razza e ogni popolo vicino e confinante. Per questo fu estremamente conveniente all’economia divina che molti regni fossero riuniti sotto un unico governo, e che la predicazione, destinata al mondo intero, potesse raggiungere in modo rapido tutti i popoli resi facilmente accessibili perchß soggetti al governo di un unico stato12.
A Teodosio II egli scrive che la sua anima imperiale “non à soltanto imperiale, ma anche sacerdotale”13, e a Marciano augura “oltre alla corona imperiale anche la palma sacerdotale”14. Fu 12 In natali apostolorum Petri et Pauli 2, SC 200, p. 50. 13 Acta conciliorum oecumenicorum II,4, a cura di E. Schwartz, De Gruyter, Berlin 1927, p. 3. 14 Ibid., p. 64.
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quindi difficile per lui opporsi alla logica del canone 28 di Calcedonia, e quando decise di protestare, lo fece adducendo solo argomenti che sapeva sarebbero stati capiti in oriente, e che richiedevano da parte sua una certa moderazione ideologica. La sua argomentazione si riferisce esclusivamente alla lettera del canone 6 di Nicea: ci sono tre, e non quattro o cinque, chiese “munite di privilegi”, non di piô. Ad Anatolio di Costantinopoli egli scrive: “Il concilio niceno à stato dotato da Dio di cosç alti privilegi che le decisioni ecclesiastiche ... incompatibili con i suoi decreti sono del tutto false e prive di autoritÜ”15. Senza dubbio, nella sua mente (in pectore!), Leone credeva alla propria autoritÜ “petrina” come vescovo di Roma, ma sapeva altresç che il riferimento a Nicea avrebbe avuto molto piô peso in oriente, e cosç preferç usare argomenti che potevano verosimilmente condurre al consenso. In altre parole, per amore dell’unitÜ della chiesa, egli adottð un atteggiamento che era realistico, ma che non era del tutto coerente16. Una ricerca altrettanto decisiva del consenso esisteva anche a Costantinopoli. Il desiderio di ottenere l’approvazione della chiesa romana per decisioni dottrinali e disciplinari prese da concili orientali era genuino, non tanto per l’“apostolicitÜ” di Roma, quanto perchß il mondo “romano” doveva rimanere unito. Ritenuto essenziale per la manifestazione dell’universalitÜ 15 Lettera ad Anatolio di Costantinopoli, ibid., p. 60; cf. altri testi simili citati in J. Meyendorff, Unitß de l’empire, pp. 168-169. 16 L’ambivalenza degli atteggiamenti papali nel v secolo, che si spostarono dall’affermazione dell’autoritÜ petrina alla ricerca di un consenso e viceversa, à ben descritta da K. F. Morrison, Tradition and Authority in the Western Church, 300-1140, Princeton University Press, Princeton 1969, pp. 77-94. La moderazione di Leone à anche riconosciuta da autori come M. Jugie (Le schisme byzantin. Aper¾u historique et doctrinal, Lethielleux, Paris 1941, pp. 16-19), A. Wuyt (“Le 28e canon de Chalcßdoine et le fondement du primat romain”, in Orientalia christiana periodica 17 [1951], pp. 265-282) e H. Herman (“Chalkedon und die Ausgestaltung des kostantinopolitanischen Primats”, in A. Grillmeier, H. Bacht, Das Konzil von Chalkedon II, Echter, Würzburg 1953, pp. 465-466). Per una discussione obiettiva del problema, si veda A. de Halleux, “Le dßcret chalcßdonien sur la prßrogative de la Nouvelle Rome”, in Ephemerides theologicae lovanienses 64 (1988), pp. 288-323.
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cristiana, il consenso ecclesiale doveva includere Roma e l’occidente. Quindi le proteste di Leone ebbero effetto. Il canone 28 non apparve negli elenchi canonici che furono pubblicati immediatamente dopo il concilio. Ricomparve soltanto nel vi secolo17, quando le proteste papali poterono essere trascurate giacchß in Italia, sotto Giustiniano, era stato ristabilito il dominio bizantino. Perfino la collezione latina nota come Prisca lo include. Inoltre, l’episcopato bizantino si mostrð spesso disposto a riconoscere la dignitÜ “petrina” del vescovo di Roma. Lo faceva per amore del consenso, ma spesso senza comprendere la serietÜ delle rivendicazioni romane. Di fatto, a causa delle innumerevoli sedi “apostoliche” dell’oriente, le rivendicazioni di “apostolicitÜ” non avevano un gran peso, e un riconoscimento verbale delle rivendicazioni petrine di Roma aveva agli occhi dei vescovi bizantini poche reali conseguenze. In alcuni casi furono gli imperatori a imporre loro il consenso con l’occidente. Cosç nel 518, allorchß Giustino I e suo nipote Giustiniano si accingevano a ristabilire la comunione con Roma dopo lo scisma acaciano (senza dubbio in vista dell’imminente riconquista bizantina dell’Italia, allora in mano agli ostrogoti), ai vescovi bizantini fu chiesto di firmare un libellus nel quale promettevano “di seguire in tutto la sede apostolica ... nella quale persiste la piena e vera forza della religione cristiana”18. Tuttavia, la firma apposta da Giovanni di Costantinopoli à articolata in modo particolare, ed à utile a illuminare la nostra comprensione dei rapporti tra le due “Rome”: “Io dichiaro – scrive – che quella sede dell’apostolo Pietro e quella di questa cittÜ imperiale sono una 17 Cioà nel S÷ntagma in quattordici titoli (cf. V. V. Benesˇevicˇ, Kanonicˇeskij sbornik v xiv titulov, Vajsberga i Kirsˇbauma, Sankt-Peterburg 1905, p. 155); sull’argomento si veda anche F. Dvornik, “The see of Constantinople in the First Latin Collections of Canon Law”, in Zbornik Radova Vizantolosˇkog Instituta 8 (1963), pp. 97-101. 18 Collectio Avellana, Epist. 16B, a cura di O. Günther, Tempsky-Freytag, Wien 1898, p. 520.
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sola cosa”19. La chiara implicazione à che puð esistere una sola Roma e un solo impero romano, e che il prestigio politico e l’apostolicitÜ sono altresç inseparabili. Se si decide di considerare il vescovo romano come un successore di Pietro, si deve dire lo stesso del vescovo di Costantinopoli. In epoca medievale, questa logica venne applicata all’interpretazione della cosiddetta Donatio Constantini, che si riteneva non fosse indirizzata soltanto al vescovo di Roma, ma anche al patriarca della “nuova Roma”. Il patriarca Michele Cerulario, in particolare, considerð se stesso un successore del papa romano e il canonista Teodoro Balsamone lo criticð aspramente per queste sue pretese20. L’ascesa della “nuova Roma” non veniva dunque automaticamente interpretata come una sfida al prestigio dell’“antica Roma”, poichß Costantinopoli andava vista come una cittÜ “gemella”, e non come una rivale. Ad ogni modo à chiaro che l’esercizio di una certa moderazione e i tentativi di accomodazione tra queste due interpretazioni del primato – la rivendicazione “apostolica” di Roma e il criterio imperiale addotto da Costantinopoli per giustificare la propria posizione – non potevano bastare in sß a dirimere il dilemma ecclesiologico che in tale questione ormai si palesava. Ulteriori sviluppi delle idee, occorsi soprattutto in occidente, renderanno l’accomodamento sempre piô difficile.
19 “Illam sedem apostoli Petri et istius augustae civitatis unam esse definio” (ibid., Epist. 159, p. 608); su questo punto si veda il commento di P. L’Huillier in La collßgialitß episcopale. Histoire et thßologie, Cerf, Paris 1965, p. 340. 20 Come à noto, la Donatio à un falso dell’viii secolo, che racconta il battesimo leggendario dell’imperatore Costantino da parte di papa Silvestro I e le concessioni accordate al papa da parte dell’imperatore. Tali concessioni comprendevano in particolare il palazzo del Laterano e alcuni privilegi imperiali.
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Sviluppi ecclesiologici Vi era un’implicazione nell’elevazione della sede di Costantinopoli al rango di un primato “ecumenico”, dietro alla sola sede di Roma, che se si desiderava mantenere l’unitÜ e la comunione nella chiesa andava assunta da tutti tramite un processo consensuale. Tale implicazione era che qualsiasi chiesa locale fosse in linea di principio elevabile a un’analoga posizione di guida nel cristianesimo, sempre che tale elevazione corrispondesse alla volontÜ di Dio, espressa dal consenso di tutte le altre chiese e sanzionata dai concili. Consenso che nel caso di Costantinopoli esisteva, e che dunque non rendeva necessaria una sua origine apostolica, poichß, con le parole di Cipriano di Cartagine, l’“episcopato à uno solo e i singoli nella propria parte lo posseggono tutto intero (in solidum)”21. Sarebbe in realtÜ necessario uno studio dettagliato delle fonti onde accertare l’esistenza di un ampio consenso in oriente e in occidente sulla natura fondamentale dell’episcopato. Posso fornire solamente alcuni riferimenti che, a mio parere, mostrano in maniera sufficiente il consenso che permise il permanere cosç a lungo dell’unitÜ tra oriente e occidente. Nel pensiero di Cipriano, l’unico episcopato aveva avuto origine nel ministero dell’apostolo Pietro, e quindi ogni vescovo, all’interno della propria comunitÜ, sedeva sulla “cattedra di Pietro (cathedra Petri)”22. Yves Congar ha percið ragione di af21 De catholicae ecclesiae unitate 5, in Cipriano, Opere, a cura di G. Toso, Utet, Torino 1980, p. 182. Su questo punto, si vedano le mie osservazioni in “The Council of Constantinople of 381 and the Primacy of Constantinople”, in Les ßtudes thßologiques de Chambßsy, II. La signification et l’actualitß du II e concile oecumßnique pour le monde chrßtien d’aujourd’hui, Centre Orthodoxe du Patriarcat oecumßnique, Chambesy 1982, pp. 399-413. 22 Tale significato del famoso passo del De catholicae ecclesiae unitate di Cipriano à inconfutabile, soprattutto a partire dalla pubblicazione degli studi di M. Bßvenot (cf. la sua Introduzione alla traduzione del De unitate edita nella collana Ancient Christian Writers, Newman, Westminster, MD, 1957).
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fermare che “cið che à originato in Matteo 16 à l’episcopato”23. L’idea che Pietro, il quale presiedeva la comunitÜ originaria di Gerusalemme attorniato dagli altri apostoli, come descrivono gli Atti, sia il modello di qualsiasi vescovo che presiede la chiesa “cattolica” in ogni luogo, attorniato dai suoi presbiteri, à un’immagine ecclesiologica fondamentale nel primo millennio cristiano24. interessante notare come nella tradizione liturgica occidentale Matteo 16,13-19 fosse la pericope evangelica prevista per la liturgia dell’ordinazione episcopale25. Ambrogio di Milano, parlando di Pietro e dei vescovi, proclama che quanto Pietro ricevette personalmente, à stato ricevuto anche da tutti loro26. Questa à anche l’opinione di Beda il Venerabile e di molti altri autori latini. Tuttavia, accanto alla tradizione che vedeva in Pietro il primo vescovo, va detto pure che la chiesa romana era ritenuta quella che godeva di una speciale “prossimitÜ” con Pietro (ecclesia propinqua Petro), a motivo della presenza della tomba di quest’ultimo sul colle Vaticano. Naturalmente, per Ireneo la chiesa di 23 L’ecclßsiologie du haut Moyen-Age, Cerf, Paris 1968, p. 138. Certo, per Cipriano la chiesa romana rimane la ecclesia principalis unde unitas sacerdotalis exorta est (la chiesa principale [o originale] da cui proviene l’unitÜ del sacerdozio), anche se quest’ultimo passo sembrerebbe alludere all’espansione missionaria del cristianesimo nei paesi latini mediante la predicazione di Pietro e Paolo a Roma, e non a un potere amministrativo. Infatti, nella sua disputa con il vescovo di Roma Stefano, Cipriano attacca quest’ultimo perchß “rivendica la successione di Pietro ... e cosç facendo introduce molte nuove pietre e pretende che la moltitudine delle chiese siano nuove costruzioni (se successorem Petri tenere contendit ... multas alias petras inducat et ecclesiarum multarum nova aedificia constituat)” (Ep. 75,17). Davvero, per Cipriano, tutte le chiese, e non soltanto Roma, sono “edificate su Pietro”. Il suo vero scopo nel De unitate à difendere i propri diritti episcopali, e non quelli di Roma, contro i seguaci di Novaziano, e per lui “la sede di Pietro” à la sua stessa sede di Cartagine. 24 Questa à anche l’intuizione principale dell’“ecclesiologia eucaristica” propria dell’ortodossia contemporanea; cf. N. Afanassieff, L’glise du Saint-Esprit, Cerf, Paris 1975; J. Zizioulas, Being as Communion. Studies in Personhood and the Church, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood 1983, pp. 49-64. 25 Cf. A. Dold, Das Ølteste Liturgiebuch der lateinische Kirche, Kunstverlag, Beuron 1936, p. 51. 26 Cf. De dignitate sacerdotali 2, PL 17,570A. La maggior parte degli studiosi ritiene oggi improbabile l’attribuzione ad Ambrogio di questo libello [N.d.C.].
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Roma era ancora la chiesa di Pietro e Paolo, e le tombe di entrambi gli apostoli, testimoniando la posizione di Roma quale sola chiesa “apostolica” in occidente, erano oggetto di pellegrinaggi e devozioni. Gradualmente, perð, proprio perchß Pietro fu visto come modello dell’episcopato, il prestigio e l’autoritÜ del vescovo di Roma divennero associati soltanto a Pietro, mentre Paolo passð, in qualche modo, in secondo piano27. Si tratta di uno sviluppo “mistico”, sostenuto in particolare da uomini come Leone28. Faccio uso in quest’occasione del termine “mistico” seguendo Yves Congar, poichß l’idea che il vescovo di Roma sia – in un modo molto speciale – un successore di Pietro, non à il risultato di un’analisi esegetica o di qualche speculazione teologica. Di fatto, tale carattere “mistico” dell’idea contribuç probabilmente all’impiego che gli orientali ne faranno senza difficoltÜ ogni volta che vorranno (o si troveranno nella necessitÜ di ottenere) il sostegno e la simpatia dei papi. E davvero un simile riconoscimento della successione di Pietro a Roma non era nß teologicamente sbagliato, dal momento che ogni vescovo occupava “il seggio di Pietro”, nß storicamente infondato, giacchß esisteva una credenza diffusa riguardo alla presenza della tomba di Pietro (e Paolo) a Roma. Inoltre, dal punto di vista orientale, se una simile autoritÜ mistica esisteva, essa non comportava alcun potere amministrativo nß l’infallibilitÜ, ma soltanto un prestigio morale e dottrinale e una sorta di leadership profetica, giustificata dal fatto che Roma si era schierata in modo decisamente coerente dalla parte dell’ortodossia al 27 Cf. su questo punto E. Lanne, “L’glise de Rome, ‘a gloriosissimis duobus apostolis Petro et Paulo Romae fundatae et constitutae ecclesiae’”, in Irßnikon 49 (1976), pp. 275-322, e piô recentemente P. Grelot, “Pierre et Paul, fondateurs de la ‘primautß’ romaine”, in Istina 27 (1982), pp. 228-268. 28 Y. Congar, L’ecclßsiologie, p. 139. Teologi non romani, come ad esempio il grande Agostino, nelle loro numerose menzioni esegetiche di Mt 16,18 associano il passo alla “chiesa” senza alcun accenno a Roma (cf. A.-M. La Bonnardiàre, “Tu es Petrus. La pßricope Matthieu 16,13-23 dans l’oeuvre de St. Augustin”, in Irßnikon 34 [1961], pp. 451-499).
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tempo delle controversie ariane e delle altre grandi controversie cristologiche. Dal iv fino all’xi secolo, il vescovo di Roma non possedette nß tanto meno reclamð un potere “patriarcale” sull’intero occidente. vero che, in particolare a partire dalla formalizzazione sotto Giustiniano dell’idea di “pentarchia”, cioà della preminenza di cinque “patriarcati” (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme) all’interno dei confini imperiali, gli orientali diedero in qualche modo per scontata l’esistenza di un patriarcato occidentale. In realtÜ non esisteva alcuna istituzione del genere. Occasionalmente il vescovo di Roma veniva omaggiato come “patriarca” e la sua residenza al Laterano designata come il “patriarcato”, ma la sua giurisdizione “patriarcale”, cioà nella fattispecie il diritto di ordinare metropoliti (come Costantinopoli ordinava metropoliti per Asia, Ponto e Tracia, o Alessandria ordinava tutti i vescovi dell’Egitto dove non c’erano metropoliti regionali), non si estendeva su tutto l’occidente, ma era limitata a dieci province che coincidevano tradizionalmente con la giurisdizione del prefetto di Roma. I vescovi di quelle province erano conosciuti come suburbicari. Le loro diocesi erano dislocate nell’Italia centrale e meridionale, in Sicilia e in Corsica. Esse costituivano il “patriarcato” romano e i loro vescovi erano tenuti a partecipare ai sinodi romani29. Il papa, con il permesso imperiale, nominava anche dei “vicari” in alcune localitÜ lontane, quali Arles in Gallia, e Tessalonica in Macedonia, ma tali vicari non erano ordinati da lui, bensç eletti localmente. La loro relazione speciale con Roma consisteva solo in una loro esenzione dalla responsabilitÜ giudiziaria dinanzi al sinodo locale: potevano essere giudicati soltanto da Roma. Secondo la definizione del concilio di Sardica (341), il papa godeva anche di un piô ampio e alquanto vago diritto di ricevere 29 Cf. P. Gaudemet, L’ßglise dans l’empire romain, iv e-v e siàcles, Sirey, Paris 1958, p. 445.
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appelli contro le decisioni sinodali regionali. Ma questo diritto non era universalmente riconosciuto e in Africa venne perfino formalmente rifiutato30. In ogni caso, Roma non possedeva nessun diritto “patriarcale” su Milano, Aquileia, la Gallia, la Spagna e perfino l’Inghilterra, sebbene in quest’ultimo paese la chiesa degli anglosassoni fosse stata stabilita dalla missione papale di Agostino. In tutti questi paesi le chiese locali erano totalmente indipendenti o “autocefale” (per usare la recente terminologia orientale)31. Nel caso di papa Gregorio Magno (590-604) à possibile discernere con maggiore chiarezza come i papi furono in grado di combinare il loro essere in senso “mistico” – in modo eminente – “successori di Pietro”, con il pieno rispetto per il senso universalmente sostenuto di identitÜ e uguaglianza dell’episcopato. Cið à rilevabile nella famosa corrispondenza di Gregorio con l’imperatore Maurizio e con Eulogio, patriarca di Alessandria, nella quale il papa protesta contro l’uso del titolo di “patriarca ecumenico” da parte del suo collega di Costantinopoli. Nonostante Gregorio mostri di fraintendere in modo piuttosto sorprendente l’autentico significato dell’aggettivo “ecumenico” nel contesto bizantino32, il punto in questione gli dÜ l’opportunitÜ di sconfessare, per quanto lo riguarda, qualsiasi ambizione a una “giurisdizione universale”. Dopo aver promesso di non usare piô quel titolo scrivendo a Costantinopoli, quando Eulogio di Alessandria omaggia lo stesso Gregorio come papa uni-
30 Per il famoso rifiuto del transmarinum judicium da parte degli africani, si veda la lettera Optaremus (Mansi, Collectio conciliorum IV,515-516; cf. J. B. Brisson, Autonomisme et christianisme dans l’Afrique romaine de Septime Sßvàre Ü l’invasion vandale, De Boccard, Paris 1958, pp. 233-234). 31 Cf. i dati nel mio libro Unitß de l’empire, pp. 75-82, 145-166, 334-352. 32 Una trattazione ben documentata del titolo puð essere trovata in H.-G. Beck, Kirche und theologische Literatur im byzantinischen Reich, C. H. Beck, München 1959, pp. 63-64. Riferendosi alle dimensioni sociali e politiche incluse nel ministero del patriarca che risiede nella capitale dell’oikoumßne, il titolo non implicava alcuna pretesa da parte dell’arcivescovo di Costantinopoli di assumere la posizione di “vescovo universale”.
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versale (presumibilmente usando il termine ampiamente accettato: oikoumenikðs pÛpas), Gregorio à indignato: Questa parola di comando vi chiedo di tenerla lontana dal mio udito, perchß so chi sono io e chi siete voi: per il posto che occupate mi siete fratello, per la condotta mi siete padre. Io non ho comandato, ma ho cercato di indicare cið che mi sembra utile ... nß con me nß con alcun altro dovete scrivere qualcosa di simile ... Non stimo essere onore quello per cui so che i miei fratelli perdono l’onore loro dovuto. Il mio onore à l’onore della chiesa universale. Il mio onore à il solido vigore dei miei fratelli ... Se la santitÜ vostra mi chiama papa universale, nega di essere cið che in me proclama di universale33.
Questo esempio indica bene come l’autocoscienza “mistica” dei papi34 non li condusse, nel corso di questi primi secoli, a tradurre tale autocoscienza nella rivendicazione di un potere formale, disciplinare o dottrinale. Nelle isole britanniche e in particolare in Germania, nel corso della lotta tra le tradizioni dell’irlandese Colombano e le pratiche romane (difese soprattutto da Bonifacio, l’apostolo della Germania), ebbe luogo una graduale transizione, che portð a una piô chiara espressione delle pretese papali. Per promuovere in occidente l’unitÜ dottrinale e disciplinare, Bonifacio si riferç costantemente all’universale autoritÜ petrina di Roma. Dopo il 742, per ispirazione di Bonifacio, fu previsto che tutti i metropoliti dell’occidente ricevessero un pallium da Roma quale segno della giurisdizione di quella cittÜ35. precisamente in quel momento che Roma, abbandonata dall’impero iconoclasta di Bisanzio, cercð protezione pres33 Ep. VIII,29, in Gregorio Magno, Lettere (VIII-X), a cura di V. Recchia, CittÜ Nuova, Roma 1998, p. 83. 34 Lo stesso Gregorio certamente continuð a possedere questa autocoscienza e a esprimerla nelle sue lettere; si veda per esempio P. Conte, Chiesa e primato nelle lettere dei papi del secolo vii, Vita e Pensiero, Milano 1971, pp. 192-201. 35 Cf. testo e attestazione in Y. Congar, L’ecclßsiologie, pp. 204-205; J. Meyendorff, Unitß de l’empire, pp. 349-352.
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so i franchi. Fu cosç che venne preparata la scena per un confronto innanzitutto politico, ma che si sarebbe avvalso anche di argomenti dottrinali (il Filioque), caratterizzato da una feroce competizione tra l’impero franco e Bisanzio. Il pontificato di papa Niccolð I (858-867) e il suo conflitto con il patriarca Fozio (857-867) à il primo grande esempio di un confronto ecclesiastico che gradualmente portð allo scisma. In questo caso, perð, fu ancora il consenso a prevalere. Sotto papa Giovanni VIII, soprattutto al grande concilio di Santa Sofia (879-880), ebbe luogo una riconciliazione tra Roma e Costantinopoli, sulla base della versione originale del Credo (senza il Filioque) e di un reciproco riconoscimento della paritÜ tra le due “Rome” in materia disciplinare36. Questo fu l’ultimo importante successo del principio di consenso, sul quale si basava l’unitÜ tra oriente e occidente nei primi secoli. Ma dopo che l’imperatore Enrico III impose a Roma un papato “riformato” (1046), non furono piô possibili consensi politici. Il senso “mistico” del primato petrino, sul quale Gregorio Magno si trovava d’accordo, un primato che per essere effettivo aveva bisogno di una “ricezione” nel quadro dell’unitÜ episcopale, divenne con Gregorio VII (1073-1085) un potere istituzionale, stabilito da Dio e non negoziabile37. 36 Su questi sviluppi, si veda anzitutto F. Dvornik, Lo scisma di Fozio. Storia e leggenda, Edizioni Paoline, Roma 1953; piô specificatamente, sul concilio dell’879-880, si veda J. Meijer, A Successful Council of Union. A Theological Analysis of the Photian Synod of 879-880, Patriarchikon Hydrima Paterikon Meleton, Thessaloniki 1975; cf. infra, n. 38. 37 Questo contrasto tra Gregorio I e Gregorio VII à descritto in modo chiaro nel libro molto suggestivo di J.-M. R. Tillard, Il vescovo di Roma, Queriniana, Brescia 1985, pp. 59-74; per il periodo di transizione, si veda H. M. Klinkenberg, “Der rìmische Primat im 10. Jahrhundert”, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 72. Kanonische Abteilung 41 (1955), pp. 1-57. In questo sviluppo, fu importante il ruolo dei cosiddetti Decreti pseudo-isidoriani, composti in una localitÜ ignota da un anonimo falsario intorno all’850 d.C.; tali decreti, infatti, presentano il potere di Roma e del clero, quali risultano nella definizione programmatica dei riformatori, come uno stato di cose che risale alle origini della chiesa (si veda la buona analisi di Y. Congar, L’ecclßsiologie, pp. 226-232).
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Se per l’occidente cristiano l’evoluzione ecclesiologica puð essere descritta secondo queste linee, si puð parlare di un qualche sviluppo anche nelle visioni dell’oriente? Le condizioni storiche erano ovviamente diverse. Nei secoli v e vi il sistema imperiale era ancora in vigore, mentre in occidente stava scomparendo con l’instaurazione dei regni “barbarici”. Il sistema imperiale implicava che i quattro patriarcati orientali mantenessero, entro i rispettivi limiti, molta piô centralizzazione di quanta non ne esistesse in occidente. La “pentarchia” dei patriarcati era intesa per assicurare in modo ordinato la comunicazione con il centro imperiale e quale modello di rappresentanza ai concili ecumenici. Sfortunatamente, giÜ nel vi secolo si trattava piô di teoria che di pratica, poichß nei patriarcati di Alessandria e di Antiochia una proporzione molto vasta dei fedeli (in Egitto la stragrande maggioranza) appoggiava il monofisismo e i patriarchi calcedonesi sopravvivevano solo con il sostegno imperiale, e dunque la loro indipendenza nelle questioni ecclesiastiche era fortemente scemata. Nel vii secolo, con la conquista musulmana, la loro influenza fu del tutto soppressa. Le opinioni indipendenti che il patriarca Pietro di Antiochia espresse nell’xi secolo a proposito dei rapporti con Roma, dopo la riconquista bizantina della Siria, costituiscono un’eccezione. Fu quindi inevitabile per il patriarca della “nuova Roma” diventare l’unico reale portavoce dell’oriente e, cosa ancora piô importante, l’unico centro di espansione missionaria del cristianesimo ortodosso. Mentre dal iv al vi secolo, in oriente, nell’orbita di Alessandria (Etiopia, Nubia) e di Antiochia (Georgia, Persia, India) erano apparse nuove chiese, le spettacolari attivitÜ missionarie che presero il via nell’Europa orientale sotto l’egida di Costantinopoli nel ix secolo crearono chiese che avrebbero seguito esclusivamente il modello costantinopolitano. Soltanto nel xv secolo anche la chiesa russa si sarebbe impegnata nell’espansione missionaria, continuata fino all’epoca moderna. 31
Nei rapporti con l’occidente, Costantinopoli agç come la vera guida dell’intero oriente. Cið fu particolarmente evidente durante il concilio di Santa Sofia (879-880), che fu un accordo bilaterale tra i due centri praticamente equivalenti di Roma e Costantinopoli, guidati da papa Giovanni VIII e dal patriarca Fozio38. L’autoritÜ e il potere effettivo del “patriarca ecumenico” durante tutto il periodo medievale e fino alla caduta di Costantinopoli (1453) rimasero sempre inseparabili da quelli dell’imperatore. In tutte le epoche il famoso testo della sesta Novella dell’imperatore Giustiniano, promulgata nel 535, costituç la base ideologica sulla quale si fondavano i rapporti tra imperatore e patriarca: Ci sono due grandi doni che Dio, nel suo amore per l’umanitÜ, ci ha concesso dall’alto: il sacerdozio (hieros÷ne) e la dignitÜ imperiale (basileæa) ... Se il sacerdozio à in tutto libero da biasimo e possiede l’accesso a Dio, e se gli imperatori amministrano equamente e con giudizio lo stato affidato alla loro cura, ci sarÜ una benefica sinfonia (symphonæa tis agathß ), e ogni sorta di beneficio sarÜ accordato al genere umano39.
L’inscindibilitÜ delle due funzioni e la loro reciproca dipendenza sarÜ riaffermata in ogni epoca, per esempio anche nel periodo critico che seguç alla presa di Costantinopoli da parte dei crociati (1204) e nell’incertezza che ne derivð riguardo alla successione imperiale. Fu l’elezione del legittimo patriarca a Nicea ad assicurare il prevalere della dinastia lascaride nicena rispetto ai rivali (soprattutto epiroti) di quest’ultima40. Ma se à vero che 38 Canone 1, G. A. Rhallis, M. Potlis, S÷ntagma II, p. 705. Il testo, significativamente, à legato alla disciplina non solo dei chierici che operano nell’ambito dei confini patriarcali di Roma e Costantinopoli, ma parla in modo universale di coloro che risiedono in “Asia, Europa o Libia”. 39 Corpus iuris civilis, III. Novellae, Weidmann, Berlin 1902, pp. 35-36. 40 Cf. A. Karpozilos, The Ecclesiastical Controversy between the Kingdom of Nicea and the Principality of Epirus (1217-1233), Kentron Byzantinon Ereunon, Thessaloniki
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senza il patriarcato la legittimazione imperiale non era possibile, altrettanto vero era il contrario: nel 1393, rifiutando la richiesta del gran principe russo Basilio I che chiedeva il permesso di menzionare nelle commemorazioni liturgiche il patriarca ma non l’imperatore, il patriarca Antonio dichiarð: “ impossibile avere un patriarca senza un imperatore”, perchß l’imperatore à “l’imperatore dei romani, cioà di tutti i cristiani”41. Molti storici occidentali, quando parlano del sistema bizantino dei rapporti chiesa-stato, lo descrivono come il modello “cesaropapista” per antonomasia. Una simile definizione à tuttavia alquanto imprecisa, poichß presuppone che i bizantini ammettessero l’esistenza di un potere infallibile assoluto: la persona dell’imperatore. Una simile ammissione non avvenne mai. Nel testo della Novella di Giustiniano, il potere imperiale à condizionato dall’esercizio “equo e con giudizio”; e, dato ancora piô importante, decreti conciliari, testi liturgici usati ogni giorno e molti testi agiografici riportavano profusamente ed esplicitamente eventi riguardanti imperatori caduti nell’eresia (Costanzo II nel monotelismo, Leone III e Costantino V nell’iconoclasmo, e via dicendo), che erano diventati veri e propri “tiranni” (t÷rannoi). Il “dono” divino accordato all’imperatore comportava, naturalmente, la sua assunzione di un ministero carismatico di guida all’interno dell’universale societÜ cristiana considerata nel suo complesso, comprese dunque le questioni della chiesa universale42. Ma il suo potere era condizionato dalla sua orto1973; cf. anche J. Meyendorff, Byzantium and the Rise of Russia, Cambridge University Press, Cambridge 1981, pp. 254-256. 41 Acta patriarchatus Constantinopolitani I, a cura di F. Miklosich e J. Müller, Carolus Gerold, Wien 1860, pp. 188-192; cf. D. Obolensky, The Byzantine Commonwealth. Eastern Europe, 500-1453, Weidenfeld & Nicolson, London 1971, pp. 264-265, e J. Meyendorff, Byzantium and the Rise of Russia, pp. 254-256. 42 Associato generalmente agli scritti di Eusebio di Cesarea, dove quest’ultimo, nel tipico linguaggio ellenistico, esalta il ruolo dell’imperatore Costantino, il ruolo “carismatico” dell’imperatore viene cosç descritto dal canonista Balsamone (secolo xii): “L’imperatore non à sottomesso a leggi o canoni; egli puð promuovere un episcopato a metropolia e puð togliere questa al suo metropolita; egli puð anche dividere i territori
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dossia, e sebbene molti imperatori tentarono di definire l’ortodossia, cið riuscç loro solo quando ai loro tentativi seguç un consenso conciliare: lo si puð vedere soprattutto in occasione dei dibattiti cristologici del v e vi secolo43, e in episodi come la resistenza della chiesa contro l’unione di Lione (1274). L’imperatore doveva seguire la disciplina ecclesiale anche nella sua vita privata, e poteva affrontare la scomunica se vi contravveniva, come accadde all’imperatore Leone VI (886-912) e a Giovanni I Zimisce (969-976). Inoltre gli scritti dei padri della chiesa (Giovanni Crisostomo, Massimo il Confessore), la cui autoritÜ poteva sempre essere invocata, mantenevano chiaramente la prioritÜ delle questioni spirituali e dell’ortodossia dottrinale rispetto agli interessi degli imperatori44. L’idea, formulata da Giustiniano, di una “sinfonia” tra imperatore e patriarca, à un’idea morale che non fornisce definizioni giuridiche o vie legali per la soluzione dei conflitti. Sembra che la societÜ bizantina, la quale riconosceva il costante e quotidiano coinvolgimento di Dio nella propria esistenza concreta, preferisse lasciare quest’area come uno spazio riservato alla diretta oikonomæa divina. In realtÜ, l’impero stesso mancava del fondamento legale che a noi sembrerebbe necessario. Molto cosciente dell’importanza della legge romana nella vita della societÜ, esso episcopali, nominare vescovi e metropoliti, autorizzare vescovi a prestare servizi in altre diocesi senza l’autorizzazione dei vescovi locali e svolgere altre funzioni appartenenti ai vescovi ... Senza elezione, egli puð promuovere vescovi o patriarchi” (Commento al canone 16 [18-22] di Cartagine, in G. A. Rhallis, M. Potlis, S÷ntagma III, pp. 349-350). La normale procedura per l’elezione di un patriarca di Costantinopoli era la nomina di tre candidati da parte del sinodo, tra i quali l’imperatore ne sceglieva uno. L’imperatore confermava anche l’elezione dei papi romani durante l’occupazione bizantina dell’Italia (secoli vi-viii). 43 Cf. J. Meyendorff, “Emperor Justinian, the Empire and the Church”, in Dumbarton Oaks Papers 22 (1963), pp. 45-60. 44 “L’ufficio che prevale nella chiesa ... primeggia sugli uffici civili tanto quanto il cielo primeggia sulla terra” (Giovanni Cristostomo, In Epist. II ad Cor. 15,4, PG 61,507); “Nessun imperatore era in grado di convincere i padri pneumatofori perchß giungessero a un’accordo con gli eretici ... compito dei sacerdoti indagare e definire quel che riguarda i dogmi della chiesa cattolica” (Acta Maximi, PG 90,109-172).
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non sviluppð mai una legge di successione per gli imperatori, lasciando la differenza tra un sovrano legittimo e un usurpatore al discernimento della volontÜ divina espresso attraverso l’accettazione o “ricezione” popolare. per questo che gli imperatori, che allora nominavano i patriarchi, dovevano a loro volta dipendere (spesso per la loro stessa sopravvivenza) dal sostegno e dalla cooperazione della chiesa. Ad eccezione dei canoni conciliari che ne definivano la giurisdizione patriarcale in Asia Minore (canone 28 di Calcedonia), vi erano in realtÜ pochi testi che definivano i poteri del “patriarca ecumenico”. La cosiddetta Epanagoghà toý nïmou, uno statuto del ix secolo il cui autore puð essere stato il patriarca Fozio ma il cui preciso statuto giuridico non à chiaro, descrive i rispettivi doveri dell’imperatore e del patriarca. Il testo lascia trasparire come l’autore, a seguito delle attivitÜ palesemente cesaropapiste degli iconoclasti, volesse ridurre i poteri discrezionali imperiali. Imponendo doveri all’imperatore (che doveva essere “versato nei dogmi della santa TrinitÜ”), esso definisce il patriarca l’“immagine vivente di Cristo”45. Questo titolo, attribuito al patriarca, conduce alcuni autori a considerare l’Epanagoghß come un’espressione del “papismo” bizantino, ma cosç sarebbe solo se il testo fosse un documento ecclesiastico atto a descrivere il ruolo del patriarca rispetto agli altri vescovi. L’Epanagoghß, invece, à un documento dello stato che fornisce una descrizione del ruolo politico e sociale del patriarca ecumenico, il cui ruolo come vescovo della capitale, sempre vicino all’imperatore, era quello di proiettare l’“immagine di Cristo” nella vita dello stato. I testi ecclesiastici che menzionano il patriarca di Costantinopoli non lo presentano mai in termini “papali”, e spesso insistono nel limitare il suo potere. Teodoro Balsamone, il famoso canonista del xii secolo che si vanta di essere 45 “Eikðn zîsa Christoý” (Epanagoghà toý nïmou II,5,III,1, in Jus graecoromanum II, a cura di P. Zepos, Phexis, Athinai 1931, pp. 241-242).
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“un puro costantinopolitano” e il cui scopo à di assicurare che l’arcivescovo di Costantinopoli “goda di tutti i diritti accordatigli dai canoni divini senza scandalo”46, si fa dovere di ricordare ai suoi lettori le umili origini storiche della chiesa della capitale e i limiti dei suoi poteri canonici. Prima del 381, egli scrive, “la cittÜ di Byzas non era un arcivescovato, ma un [semplice] vescovo veniva ordinato in essa dal metropolita di Eraclea”. Dopo essere diventato patriarca nel 451, l’arcivescovo non ordina tutti i vescovi del Ponto, della Tracia e dell’Asia, bensç solo i metropoliti. Egli non li nomina: si tengono elezioni locali con tre candidati, uno dei quali viene poi scelto per l’ordinazione da parte dell’arcivescovo della capitale imperiale47. Balsamone, inoltre, riconosce chiaramente la centralizzazione patriarcale come una novitÜ, ricordando che nella legislazione nicena del 325 tutti i metropoliti erano “autocefali”, cioà eletti dal loro proprio sinodo, e continua citando esempi di chiese autocefale la cui esistenza non aveva niente a che fare con Costantinopoli: Non siate sorpresi se troverete anche altre chiese autocefale (ekklesæas autokephÛlous), per esempio le chiese di Bulgaria, di Cipro e di Iberia [cioà la Georgia]. Perchß l’arcivescovo di Bulgaria [cioà di Ocrida] venne onorato dall’imperatore Giustiniano48 ... Mentre il terzo concilio onorð l’arcivescovo di Cipro49 ... e un decreto (diÛgnosis) del sinodo di Antiochia onorð [il capo del]la chiesa d’Iberia. detto infatti che nei giorni del santissimo patriarca Pietro di Teopoli, la grande 46 Commento al canone 28 di Calcedonia, in G. A. Rhallis e M. Potlis, S÷ntagma II, pp. 285-286. 47 Commento al canone 2 del Costantinopolitano I, ibid., pp. 174-175. 48 Il riferimento à qui alla dichiarazione dei patriarcati autocefali o degli arcivescovi di Ocrida di avere ereditato i diritti di Justiniana Prima, cittÜ natale di Giustiniano. Su Ocrida cf. H. Gelzer, Der Patriarchat von Achrida. Geschichte und Urkunden, Teubner, Leipzig 1902; I. Snegarov, Istorija na Ohridskata arhiepiskopija-patriarsˇija I, Gutenberg, Sofija 1924; A. Karpozilos, The Ecclesiastical Controversy. 49 Canone 8 del concilio di Efeso, in G. A. Rhallis e M. Potlis, S÷ntagma II, pp. 205-206.
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Antiochia, ci fu una disposizione conciliare che affermava che la chiesa di Iberia, allora sottomessa al patriarca di Antiochia, doveva essere libera e autocefala50.
Il conflitto che opponeva Costantinopoli e Roma fece sorgere un dibattito ecclesiologico sul significato dei testi petrini addotti dal papa per giustificare il suo primato. Furono queste polemiche che portarono alcuni autori bizantini a invocare la leggenda, riferita da Eusebio di Cesarea (iv secolo), della fondazione della chiesa di Bisanzio ad opera dell’apostolo Andrea, che “chiamato per primo” portð suo fratello Pietro a Gesô (cf. Gv 1,41). Tuttavia, l’argomento prevalente tra i teologi bizantini era che il vescovo dell’“antica Roma” avesse il diritto di essere considerato storicamente come successore di Pietro, ma che non fosse il solo a poter avanzare tale pretesa. Ogni vescovo sedeva secondo loro sulla cattedra di Pietro51, compresi i vescovi dell’“antica” e della “nuova” Roma. Se entrambi avevano ricevuto una primazia cið era avvenuto per decisioni imperiali (si alludeva qui alla Donatio Constantini) o per decreti conciliari. La straordinaria sopravvivenza del patriarcato ecumenico dopo la presa di Costantinopoli da parte dei partecipanti alla quarta crociata (1204) dev’essere riconosciuta come un fatto storico degno di nota dal quale emerge come, nonostante il suo legame istituzionale con l’impero, la chiesa avesse conservato una propria indipendenza e vitalitÜ. Sia durante l’occupazione latina (1204-1261) che nel periodo paleologo (1261-1453), allorchß l’impero fu ridotto a poco piô di un’ombra politica, il patriar50 Si discute se il patriarca Pietro al quale Balsamone si riferisce sia Pietro il Fullone (secolo v) o Pietro III (1052-1056); in merito si veda M. Tarchnisvili, “Die Entstehung und Entwicklung der kirchlichen Autokephalie Georgiens”, in Le Musßon 73 (1960), pp. 107-126; cf. anche C. Toumanoff, “Caucasia and Byzantium”, in Traditio 27 (1972), pp. 167-169. 51 Cf. il mio articolo “San Pietro, il suo primato e la sua successione nella teologia bizantina”, in Il primato di Pietro nel pensiero cristiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna 1965, pp. 587-614; anche J. Darrouzàs, “Les documents byzantins du xiie siàcle sur la primautß romaine”, in Revue des ßtudes byzantines 23 (1965), pp. 42-88.
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cato continuð a esercitare grande autoritÜ negli stati ortodossi e diretta giurisdizione su un vasto territorio dell’Europa orientale. Cosç come la chiesa romana, usando il proprio prestigio spirituale durante le invasioni barbariche in occidente (secoli v-vi), aveva colmato il vuoto politico e culturale causato dal collasso della Roma imperiale, ora anche il patriarcato ecumenico rivendicava nuovi poteri e influenza politica. Questo sviluppo appare con particolare chiarezza nelle attivitÜ di patriarchi di origine monastica, insediati a seguito della vittoria esicasta degli anni 1347-1351. Per citare solo un esempio, nel 1370 il patriarca Filoteo Kokkinos, scrivendo ai principi russi nel tentativo di convincerli a obbedire al metropolita di Kiev (che risedeva a Mosca), nominato dal patriarcato, definisce i poteri universali di Costantinopoli in termini che non sarebbero stati sconfessati dai papi romani: Da quando Dio ha chiamato la nostra umiltÜ alla guida di tutti i cristiani che si trovano sulla faccia della terra in qualitÜ di avvocato e guardiano delle loro anime, tutti costoro dipendono da me (pÛntes eis emà anakßintai), padre e maestro di loro tutti ... Tuttavia, poichß à al di lÜ delle possibilitÜ di un uomo debole e povero percorrere tutta la terra abitata, la nostra umiltÜ sceglie i migliori tra gli uomini, i piô eminenti nella virtô, li stabilisce e li ordina come pastori, maestri e presbiteri, e li invia fino ai confini dell’universo52.
improbabile, naturalmente, che un simile documento diplomatico e disciplinare, indirizzato a dei russi, avesse lo scopo di rispecchiare accuratamente una determinata teologia dell’episcopato. Niceta di Ancira, un autore dell’xi secolo, descrive le funzioni patriarcali in modo alquanto diverso: 52 F. Miklosich, J. Müller, Acta patriarchatus Constantinopolitani I, p. 521; sulla politica di Filoteo in Russia, si veda il mio libro Byzantium and the Rise of Russia, pp. 173-199.
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Non esagerare l’importanza del titolo di patriarca che gli à concesso. Perchß ogni vescovo à chiamato “patriarca”53, e titoli di precedenza sono comuni a tutti noi, dal momento che tutti i vescovi sono padri, pastori e maestri ... Perchß l’imposizione delle mani à la stessa per tutti e la nostra partecipazione alla divina liturgia à identica e tutti pronunciano le stesse preghiere54.
L’atteggiamento di Filoteo, quindi, riflette probabilmente una situazione de facto piô che una teoria ecclesiologica. interessante notare che un discepolo e successore di Filoteo, il quasi contemporaneo patriarca Antonio, scrivendo agli stessi russi affermerÜ di nuovo con grande forza l’universale significato dell’impero, inseparabile dall’autoritÜ del patriarca ecumenico55. Tuttavia, quando giungerÜ la fine ultima dell’impero nel 1453, il patriarcato, all’interno del mondo ortodosso ora dominato dagli ottomani (e che quindi escludeva la Russia), assumerÜ il ruolo che energici patriarchi del xiv secolo, come Filoteo, avevano preparato: un ruolo di guida sociale, culturale e politica. Significativamente, un simile ruolo sarÜ sia compreso sia confermato nei termini della legge islamica dai sultani turchi, i quali per l’appunto confermeranno le funzioni particolari del patriarca quale capo di tutta la comunitÜ (o millet) cristiana, stabilendo un regime che à sopravvissuto fino all’epoca moderna56.
53 Niceta fa riferimento poi a un passo di Gregorio di Nazianzo, che si rivolge al proprio padre, un vescovo, definendolo “patriarca” (cf. Orationes 43,37). 54 J. Darrouzàs, Documents inßdits d’ecclßsiologie byzantine, Institut fran¾ais d’ßtudes byzantines, Paris 1966, pp. 222-224. 55 Cf. supra, n. 41. 56 Cf. su questo S. Runciman, The Great Church in Captivity. A Study of the Patriarchate of Constantinople from the Eve of the Turkish Conquest to the Greek War of Indipendence, Cambridge University Press, Cambridge 1968, pp. 165-185.
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Scisma e tentativi di unione Il graduale estrangement tra Roma e Costantinopoli à radicato in molteplici questioni storiche, culturali e, di fatto, teologiche. Alcune di esse sembrano oggi abbastanza futili, altre – in particolare le dimensioni teologiche coinvolte nell’interpolazione nel Credo della parola Filioque – sono di natura molto seria. Tuttavia, il motivo per cui simili differenze, piô o meno importanti, portarono allo scisma, dev’essere analizzato in campo ecclesiologico. Oriente e occidente smarrirono i mezzi per superare le difficoltÜ che li separavano. In oriente non esistevano alternative alla conciliaritÜ per risolvere i problemi che inevitabilmente sorgevano nei rapporti tra le chiese locali. In occidente un’alternativa esisteva: obbedienza e comunione con la “sede di Pietro”. Per tutto il primo millennio della storia cristiana, sebbene la teoria “petrina” del primato romano stesse lentamente ma nettamente emergendo, la conciliaritÜ alla fin fine trionfð in ogni conflitto particolare. Un simile atteggiamento, adottato dai primi papi, tendente al compromesso, divenne perð inaccettabile per il papato “riformato” dell’xi secolo. Considerato sotto questa luce, l’incidente del 1054 – che non puð essere considerato la vera data dello scisma – nondimeno rispecchið in maniera emblematica uno stato di cose che stava rendendo irraggiungibile l’unitÜ della chiesa. I criteri di una simile unitÜ stavano ormai chiaramente divergendo. Tutti i numerosi tentativi di unione intrapresi piô tardi, e soprattutto nei secoli xii, xiv e xv, non riuscirono nell’impresa di affrontare direttamente e candidamente la differenza di ecclesiologie. Cið à vero in particolare nel caso del tentativo di unione che piô si avvicinð al successo: il concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439). Sebbene la procedura adottata fosse inizialmente conforme al modello orientale – un concilio, non un semplice 40
riconoscimento dell’autoritÜ papale –, i risultati furono tali che il loro unico effetto pratico fu la soppressione in occidente dell’opposizione antipapale dei “conciliaristi”. In realtÜ, un vero dibattito sul problema dell’autoritÜ non ebbe luogo, e gli orientali non sembrarono, in tale circostanza, consapevoli degli agonizzanti dibattiti sull’autoritÜ della chiesa che stavano avendo luogo nell’Europa occidentale57. Dopo la caduta di Costantinopoli (1453), Roma e l’oriente bizantino ebbero storie separate. chiaro perð, specialmente dopo il Vaticano II, come il dialogo tra il cattolicesimo e l’ortodossia sia oggi incentrato esplicitamente e implicitamente sulla questione dell’autoritÜ nella chiesa e della conciliaritÜ. Si tratta dello stesso problema che era in gioco nei rapporti medievali tra Roma e Costantinopoli. Mentre l’ortodossia riconosce chiaramente come sola base del primato di Costantinopoli le decisioni conciliari che definiscono l’esercizio della sua autoritÜ, tali decisioni potranno mai essere ritenute altrettanto decisive nella conformazione del primato di Roma? Che tipo di conciliaritÜ à compatibile con la rivendicazione “carismatica” dell’apostolicitÜ petrina che per la fede di tanti cristiani occidentali à stato un rifugio sicuro, ma che per molti altri ha costituito invece una pietra d’inciampo spirituale?
57 Cf. infra, capitolo vi, “A Firenze ci fu un incontro tra oriente e occidente?”, pp. 117-148.
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II BISANZIO, CENTRO DEL PENSIERO TEOLOGICO NELL’ORIENTE CRISTIANO
Fondata nel iv secolo come “nuova Roma” sul Bosforo per fungere da nuova capitale dell’impero romano cristiano, Costantinopoli (Bisanzio) divenne gradualmente ma inevitabilmente anche il principale centro intellettuale del cristianesimo orientale. Mutilato nel v secolo di tutta la sua metÜ occidentale, l’impero sopravvisse per secoli, unito dai tre elementi che generalmente sono considerati costitutivi della civiltÜ “bizantina”: la fede cristiana, la tradizione politica romana e la lingua greca. Si dovrebbe sempre ricordare, perð, che l’uso del greco come lingua ufficiale dello stato e principale canale della creativitÜ intellettuale non implicava che la societÜ cristiana bizantina fosse uno stato-nazione greco. Il suo carattere multietnico e multiculturale sopravvisse fino alla metÜ del medioevo. Armeni, siri, slavi, georgiani e rappresentanti di altri gruppi etnici trovarono la loro via di accesso nella gerarchia sociale bizantina e, quando le circostanze politiche lo permisero, formarono stati indipendenti che tuttavia continuarono a considerarsi parte del cristianesimo che gravitava attorno a Bisanzio e membri delle strutture canoniche della chiesa ortodossa. SarÜ ancora da Bisanzio che l’intero “Commonwealth bizantino”1 riceverÜ nor-
1 Dalla nota definizione di D. Obolensky, nel suo libro The Byzantine Commonwealth.
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me della tradizione, modelli del pensiero religioso e criteri di organizzazione della liturgia e della spiritualitÜ. Nel v secolo, l’oriente cristiano era ancora policentrico: le tradizioni esegetiche e teologiche non erano le stesse ad Alessandria, ad Antiochia o nella Mesopotamia di lingua siriaca. Tuttavia, gli amari antagonismi generati dalle controversie cristologiche e il conseguente scisma monofisita, al quale una maggioranza di siri ed egiziani si mostrð favorevole, indebolirono in maniera sostanziale gli antichi centri intellettuali del medio oriente. La conquista musulmana del vii secolo li isolð completamente da Costantinopoli. Le due “Rome” – l’“antica” sul Tevere e la “nuova” sul Bosforo – rimasero a fronteggiarsi all’interno dell’ortodossia imperiale. Negli anni dell’imperatore Giustiniano (527-565), periodo cruciale nella costruzione della civiltÜ bizantina medievale, la teologia della chiesa di Costantinopoli tentð coscienziosamente di sintetizzare le tradizioni antagoniste provenienti dal passato e di superare la loro tendenza a creare divisione. Nella stessa Costantinopoli l’influsso prevalente era stato quello antiocheno. Il grande Giovanni Crisostomo (ca. 347-407, arcivescovo dal 393 al 404) e lo sfortunato Nestorio († ca. 451, arcivescovo dal 428 al 431) avevano ricevuto entrambi la loro formazione ad Antiochia, avevano portato nella capitale le tradizioni esegetiche e liturgiche della Siria e avevano stabilito una solida tradizione cristologica che sarebbe diventata poi nota con il nome di “calcedonese”. Cið nonostante, nel vi secolo la cristologia associata ad Alessandria venne accettata come modello a causa delle politiche unioniste (oggi diremmo “ecumeniche”) di Giustiniano, che miravano a placare i monofisiti. Simili tendenze sincretistiche erano ovviamente il risultato del ruolo unificatore svolto su vasta scala dalla capitale imperiale. Proprio come Roma in occidente, Costantinopoli non poteva esercitare la sua autoritÜ “ecumenica” senza tentare di riconciliare e fare da arbitro (ruolo che escludeva l’adozione unilaterale di un 44
particolare orientamento teologico). Degno di nota à il fatto che il risultato non fu un compromesso ibrido, bensç un’autentica sintesi2. La capitale imperiale era la sede delle istituzioni accademiche piô avanzate: una universitÜ, organizzata nel 425 per decreto di Teodosio II, e che continuð a esistere in modo intermittente fino al medioevo, e una scuola patriarcale per l’istruzione dell’alto clero3. Anche in altre cittÜ esistevano scuole e alcuni monasteri erano centri di studi teologici; tuttavia, l’influenza di tali istituzioni – secolari o ecclesiastiche – non puð essere paragonata all’impatto che esercitarono le universitÜ medievali dell’occidente dopo il xii secolo. L’universitÜ imperiale di Costantinopoli contribuç a conservare la tradizione classica dell’antichitÜ greca in una ristretta e aristocratica cerchia di intellettuali. Vi si insegnavano “la grammatica e la retorica dell’antica Grecia”, ed essa licenziava uomini “atti a servire negli ambienti piô riservati e cruciali dell’amministrazione imperiale e nei piô elevati ranghi della chiesa”, ma “la loro cultura era impenetrabile al vasto pubblico, perchß si esprimeva in una lingua morta e presupponeva un corpo 2 Cf. J. Meyendorff, Cristologia ortodossa, Ave, Roma 1974, pp. 63-114; per simili valutazioni della teologia bizantina si veda anche Id., La teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali, Marietti, Casale Monferrato 1984, e la voce “Byzanz”, in Theologische RealenzyklopØdie VII,4-5, De Gruyter, Berlin-New York 1981, pp. 500-532. Per una storia generale delle tendenze e delle idee, si veda J. Pelikan, The Christian Tradition, II. The Spirit of Eastern Christendom (600-1700), Chicago University Press, Chicago 1974. Riferimenti e bibliografia in H.-G. Beck, Kirche und theologische Literatur, e per il periodo tardo medievale G. Podskalsky, Theologie und Philosophie in Bizanz. Der Streit um die theologische Methodik in der spØtbyzantinischen Geistesgeschichte (14./15. Jh.), seine systematischen Grundlagen und seine historische Entwicklung, C. H. Beck, München 1977. 3 Cf. Codex Theodosianus 14,9,3 e 6,21,1; F. Fuchs, Die hìheren Schulen von Konstantinopel im Mittelalter, Teubner, Leipzig-Berlin 1926; L. Brßhier, “Notes sur l’histoire de l’enseignement supßrieur Ü Constantinople”, in Byzantion 3 (1926), pp. 72-94, e 4 (1927/1928), pp. 13-28; Id., “L’enseignement classique et l’enseignement religieux Ü Byzance”, in Revue d’histoire et de philosophie religieuses 21 (1941), pp. 34-69; F. Dvornik, “Photius et la rßorganisation de l’acadßmie patriarcale”, in Analecta bollandiana 68 (1950), pp. 108-125.
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di conoscenze arcane”4. A eccezione del patriarca Fozio (ca. 810-895, patriarca dall’856 all’867 e dall’877 all’886), la cui competenza enciclopedica e il cui coinvolgimento ecclesiastico influenzarono il pensiero religioso, nessuno degli intellettuali legati all’universitÜ puð essere additato come influente teologo. Alla stregua di Michele Psello (1018-1078), essi limitarono i loro scritti quasi esclusivamente a questioni filosofiche o retoriche. E quando osarono esprimere convinzioni filosofiche in termini teologici si trovarono ad affrontare la condanna ecclesiastica. Quindi, alla vigilia del periodo in cui l’occidente avrebbe rivolto l’attenzione alla filosofia degli antichi per entrare nella grande epoca della scolastica, la chiesa di Bisanzio rifiutava solennemente qualsiasi sintesi di tal genere tra la mentalitÜ greca e il cristianesimo, rimanendo legata alla sintesi raggiunta nel periodo patristico5.
Si puð tuttavia affermare che la teologia ebbe un’evoluzione creativa grazie all’influsso della scuola patriarcale di Costantinopoli o dell’universitÜ imperiale? Non sembra. L’unico periodo per il quale possediamo testimonianze storiche su un ruolo attivo svolto dagli insegnanti “patriarcali” nei dibatti teologici à il xii secolo; ma tali dibattiti, per quanto condotti a un elevato livello di sofisticazione, riguardarono la sfera strettamente antiereticale e scolastica6. La creativitÜ teologica, come vedremo piô avanti, si stava manifestando altrove. 4 C. Mango, “Discontinuity with the Classical Past in Byzantium”, in Byzantium and the Classical Tradition. Thirteenth Spring Symposium of Byzantine Studies, a cura di M. Mullett e R. Scott, Center for Byzantine Studies, Birmingham 1981, pp. 49-50. 5 Cf. J. Gouillard, “Le Synodikon de l’orthodoxie, ßdition et commentaire”, in Travaux et mßmoires 2 (1967), pp. 305-324; si veda anche C. Niarchos, “The Philosophical Background of the Eleventh Century Revival of Learning in Byzantium”, in Byzantium and the Classical Tradition, pp. 127-135. 6 Cf. J. Meyendorff, La teologia bizantina, pp. 80-81.
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I dati piuttosto scarsi di cui disponiamo riguardo al rapporto tra teologia e studio a Bisanzio, spiegano le opinioni molto contraddittorie espresse dagli storici a proposito della civiltÜ cristiana bizantina. Gli storici dell’illuminismo (Voltaire, Gibbon) disprezzavano la “medievale barbarie” di Bisanzio, pur attribuendole il merito (molto limitato) di aver custodito e preservato i manoscritti degli antichi autori greci. Nel xix secolo il ripristino degli studi bizantini partç dalle stesse premesse: a Bisanzio “la letteratura classica greca era la base dell’istruzione pubblica”7, e Bisanzio fu addirittura additata come la vera fonte del rinascimento italiano, poichß aveva trasmesso l’ereditÜ greca all’occidente. Di recente, perð, à stato riconosciuto in modo piô chiaro l’atteggiamento sistematicamente critico della chiesa bizantina nei confronti dell’antico ellenismo. Quale fu allora il reale contributo della Bisanzio cristiana? Fu soltanto una civiltÜ volta al passato, reazionaria e ultraconservatrice, dimentica dell’antichitÜ e sprezzante della cristianitÜ cattolica? Secondo uno storico moderno, “non ci possono essere dubbi che dietro la finta facciata classica di Bisanzio si celi una realtÜ molto diversa”8. Qual era questa realtÜ? Non à questa la sede per affrontare la questione in tutti i suoi aspetti, ma dobbiamo limitarci a un solo punto: la natura dell’esperienza bizantina della fede cristiana e, quindi, della teologia ortodossa bizantina. Abbiamo giÜ osservato come questa teologia non venisse elaborata in primo luogo nelle scuole. Non la si riteneva una disciplina scientifica, insegnata secondo una metodologia accademica, ma piuttosto un sistema di veritÜ, appreso leggendo la Scrittura (o ascoltandola in chiesa), nella preghiera liturgica e personale, ascoltando omelie o studiando sotto la guida di un 7 R. Browning, “The Patriarchal School at Constantinople in the Twelfth Century”, in Byzantion 32 (1962), pp. 167-202, e 33 (1963), pp. 11-40. 8 C. Mango, “Discontinuity”, p. 50.
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maestro, la cui competenza non era soltanto intellettuale ma anche spirituale. Possiamo dire che analogo fu l’atteggiamento generale verso la teologia anche in occidente, prima della scolastica. Agostino non la pensava in modo diverso. In un certo senso, Bisanzio preservð il rapporto tra rivelazione cristiana e pensiero secolare che esisteva nella tarda antichitÜ. Illustrerð questa comprensione cristiana bizantina, e piô generalmente orientale, della teologia procedendo in tre punti.
Teologia come esperienza o comunione “La tradizione orientale non ha mai operato una netta distinzione tra mistica e teologia, tra esperienza personale dei misteri divini e dogma proclamato dalla chiesa”9. GiÜ i padri cappadoci, in particolare Gregorio di Nazianzo (329-389), impiegavano il termine theologhæa per alludere alla contemplazione della divina TrinitÜ piuttosto che ai discorsi intellettuali sulla TrinitÜ stessa. Nei testi bizantini, quindi, il titolo di teologo à riservato innanzitutto a Giovanni evangelista, a Gregorio di Nazianzo e anche al mistico Simeone, conosciuto come “il Nuovo Teologo” (949-1022). Cið che chiaramente sottostÜ al titolo di “teologo” non à l’erudizione scientifica in campo teologico, ma la consapevolezza contemplativa della VeritÜ divina. Evagrio Pontico (346-399), amico dei padri cappadoci e primo grande maestro di spiritualitÜ monastica, usava una famosa espressione: “Se sei teologo preghi veramente. Se preghi veramente sei teologo”10. Per lo stesso Evagrio, questa affermazione aveva un peculiare significato origenista e neoplatonico che 9 V. Lossky, La teologia mistica della chiesa d’oriente, Il Mulino, Bologna 1967, p. 4. 10 La preghiera 60, a cura di V. Messana, CittÜ Nuova, Roma 1994, p. 102.
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qui non discuteremo; nella piô tarda tradizione della spiritualitÜ orientale, tuttavia, l’unione di teologia e preghiera affermerÜ semplicemente il carattere esperienziale o “mistico” della teologia cristiana: la conoscenza di Dio era ritenuta inseparabile dalla santitÜ. Un tale approccio alla teologia comportava il pericolo di un certo soggettivismo e di un individualismo spiritualistico. Il “teologo” non veniva di fatto visto come uno “gnostico”, dotato del privilegio esoterico di conoscere Dio? E, di fatto, l’ambito monastico del iv secolo, all’interno del quale la comprensione “mistica” della teologia veniva fortemente affermata, aveva prodotto anche il movimento noto come “messalianismo”. I messaliani rifiutavano i sacramenti della chiesa istituzionale, in particolare il battesimo, e ritenevano che la preghiera personale fosse l’unico mezzo necessario ed efficace di comunione con Dio11. Ma la chiesa bizantina era consapevole di tale pericolo. Il messalianismo fu ripetutamente condannato sotto diversi punti di vista dottrinali, ma soprattutto perchß riteneva la conoscenza di Dio un conseguimento personale, ascetico, indipendente dalla natura sacramentale della chiesa. La chiesa, invece, affermava che la vita divina e la conoscenza di Dio erano doni, gratuiti e comuni a tutti i battezzati, seppur dipendenti anche da uno sforzo spirituale personale12. Tale dibattito intorno al messalianismo e all’esperienza spirituale si protrasse, implicitamente o esplicitamente, lungo tutta
11 Sul messalianismo à disponibile un’abbondante letteratura secondaria, ma molte questioni connesse al movimento sono ancora controverse, in particolare il significato degli scritti attribuiti a Macario il Grande e identificati come “messaliani” da numerosi studi moderni; tra gli altri cf. H. Dìrries, Die Theologie des Makarios/Symeon, Vandenhoeck, Gìttingen 1978. Cf. la mia opinione sul tema in “Messalianism or Anti-messalianism? A Fresh Look at the ‘Macarian’ Problem”, in Kyriakon. Festschrift Johannes Quasten II, a cura di P. Granfield e J. A. Jungmann, Aschendorff, Münster 1970, pp. 585-590. 12 Relativamente all’insegnamento di Gregorio Palamas su questo punto, si veda J. Meyendorff, A Study of Gregory Palamas, Faith Press, London 19742, pp. 161-162.
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la storia della Bisanzio cristiana. E sebbene il messalianismo venne rifiutato nella sua forma eretica antiecclesiale, la natura profetica ed esperienziale della teologia non fu mai ripudiata.
Speculazione teologica positiva e trascendenza divina In un commento spesso citato a Qohelet 3,7, “c’à un tempo per tacere e un tempo per parlare”, Gregorio di Nissa (ca. 330-ca. 395) scrive: Nei discorsi intorno a Dio, se si vuole investigare la sua essenza, allora à tempo di tacere. Se invece il discorso verte sui vari modi del suo operare (enßrgheia), la cui conoscenza à accessibile anche a noi, allora à tempo di parlare delle sue potenti operazioni, di narrare le sue imprese, di annunziare le sue meraviglie, spingendo fino a questo il discorso13.
La nozione che la divina essenza sia totalmente al di lÜ della conoscenza o della comunione create e che Dio possa essere partecipato solo attraverso la sua “grazia” o “energia”, era chiaramente espressa dai padri cappadoci del iv secolo, negli scritti dello Pseudo-Dionigi (inizio del vi secolo) e da Massimo il Confessore (ca. 580-662); nel tardo medioevo, essa fu pienamente sviluppata da Gregorio Palamas (ca. 1296-1359). Cið che era in gioco non era solamente una teologia “apofatica” o “negativa” in quanto tale. L’apofatismo era necessario come liberazione della mente attraverso l’eliminazione di tutti i concetti che identificano Dio con cið che egli non à, quindi 13 Gregorio di Nissa, Omelie sull’Ecclesiaste 7, a cura di S. Leanza, CittÜ Nuova, Roma 1990, p. 159.
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come liberazione da ogni idolatria. Ma la vera esperienza, e di conseguenza la vera teologia, andavano oltre l’apofatismo concettuale: si trattava di un’esperienza positiva della trascendenza divina, o di una “conoscenza attraverso l’ignoranza”. “L’atto di subire la negazione nella visione spirituale, negazione legata alla trascendenza dell’Oggetto, differisce dalla teologia negativa ed à superiore ad essa”. Visione di Dio e comunione con lui non possono mai implicarne un possesso: “Nella visione spirituale la luce trascendente di Dio appare soltanto il piô totalmente nascosta”14. Quindi, visione e comunione non sono forme di una conoscenza creata naturale, bensç sono “vita in Cristo”, nell’umanitÜ deificata del Logos incarnato. Questo modo di comprendere la trascendenza divina implica la natura esperienziale della teologia, descritta sopra, ma elimina anche in linea di principio la possibilitÜ di integrare la teologia in un sistema filosofico preesistente. Qualunque influenza la filosofia greca, soprattutto il neoplatonismo, possa infatti avere avuto su particolari aspetti del pensiero patristico greco, la posizione ufficiale della chiesa su di essa fu critica. Nel 1082, in occasione del processo di un intellettuale neoplatonizzante, Giovanni Italo, uno speciale anatema, ripetuto annualmente in tutte le chiese la prima domenica di Quaresima, condannð l’“empio insegnamento degli elleni”15. Considerata in prospettiva storica, questa rinuncia formale, nell’xi secolo, all’ereditÜ filosofica greca nella Bisanzio di lingua greca, offre un contrasto degno di nota con la quasi simultanea “scoperta” di Aristotele nell’occidente latino, alla vigilia della grande sintesi tra filosofia e teologia nota con il nome di scolastica. Paradossalmente, nel medioevo, l’oriente era diventato meno “greco” dell’occidente. 14 Triadi 2,3,31, in Grßgoire Palamas, Dßfense des saints hßsychastes, a cura di J. Meyendorff, Spicilegium sacrum lovaniense, Louvain 19732, p. 49. 15 J. Gouillard, “Le Synodikon de l’ortodhoxie”, p. 57.
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Il problema dell’autoritÜ dottrinale nella chiesa bizantina Non c’à mai stato alcun dubbio riguardo al fatto che la Scrittura sia il criterio supremo della veritÜ cristiana. I padri del iv e v secolo furono prima di tutto degli esegeti, come dimostra anche solo la mole dei commenti scritturistici da loro prodotti. La stessa tradizione esegetica continuð nel periodo medievale. L’oriente greco, tuttavia, impiegð piô tempo dell’occidente per giungere a regolare la questione del canone: variazioni, concernenti in particolare lo statuto del canone “piô lungo” dell’Antico Testamento e dell’Apocalisse, esistettero fino all’viii secolo. Il concilio in Trullo (692) accettð un canone che includeva libri del canone “piô lungo”, perfino il Terzo libro dei Maccabei, ma omise Sapienza, Tobia e Giuditta. Giovanni Damasceno (ca. 675-ca. 753) non volle includere Sapienza e Qohelet, sebbene li considerasse “degni di ammirazione”16. Queste esitazioni, che ebbero fine con l’accettazione generale del canone “piô lungo” (sebbene l’Apocalisse non sia mai entrata nell’uso liturgico), non causarono molti dibattiti o controversie; il che indica chiaramente come la chiesa e la sua tradizione non dipendessero da un canone fisso di testi ispirati, ma fossero invece considerate fonti sufficienti della veritÜ cristiana, in continuitÜ con la chiesa apostolica. I vescovi erano, naturalmente, i normali testimoni della tradizione. Il concilio episcopale (o “sinodo”) in una determinata area geografica e il concilio ecumenico su scala mondiale, erano convocati per risolvere difficoltÜ, appianare dispute e assumere le necessarie decisioni dottrinali. Assai significativamente, tuttavia, ogni concilio dell’era bizantina enfatizzð che non stava cambiando nulla nel contenuto o nel significato della fede “un 16 Giovanni Damasceno, La fede ortodossa 4,17, a cura di V. Fazzo, CittÜ Nuova, Roma 1998, p. 289.
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tempo consegnata ai santi” e che nuove definizioni dottrinali venivano elaborate con riluttanza, solo per respingere i malintesi della fede apostolica palesati dagli eretici17. Ma questo atteggiamento dei concili, deliberatamente conservatore, non impedç loro di sanzionare nuove terminologie (per esempio la dottrina delle “due nature” a Calcedonia nel 451) o di dare nuove interpretazioni a definizioni precedenti (per esempio la sanzione data a un’interpretazione “cirilliana” di Calcedonia a Costantinopoli nel 553) o di dichiarare addirittura in modo formale di “sviluppare” una formula dottrinale del passato18. I concili costituivano quindi il mezzo normale con cui la chiesa esercitava la propria responsabilitÜ nella custodia della vera fede. L’autoritÜ magisteriale dell’episcopato non soppresse perð mai – nß si sostituç a – una comprensione della fede cristiana quale esperienza accessibile alla chiesa in quanto comunitÜ e a ogni cristiano come esperienza personale della veritÜ. Cið spiega perchß cosç spesso ci si riferç alla tradizione liturgica come a un’autoritÜ a fianco della Scrittura e dei padri19 o perchß, in situazioni estreme, un santo poteva opporre la propria esperienza profetica e la propria convinzione ispirata a quella dei vescovi. Quando Massimo il Confessore fu messo dai suoi giudici monoteliti dinanzi al fatto che l’intero episcopato, compreso manifestamente il vescovo di Roma, aveva accettato il monotelismo, rispose parafrasando Galati 1,8: “Lo Spirito santo anatematizza persino gli angeli, se essi pronunciano insegnamenti contrari al kßrygma”20. 17 Cosç, per esempio, il preambolo della definizione calcedoniana (451), in Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di G. Alberigo et al., Istituto per le scienze religiose, Bologna 1973, p. 84. 18 La dottrina delle “energie increate”, formulata nel 1351, era vista come uno “sviluppo” (anÛptyxis) del decreto sulle due energie e le due volontÜ di Cristo emanato dal sesto concilio ecumenico (680); cf. il Tomos synodikos del 1351, in PG 151,722B. 19 Si vedano per esempio i riferimenti liturgici negli scritti di Gregorio Palamas contro Barlaam: Triadi, in Grßgoire Palamas, Dßfense II, p. 746. 20 Acta Maximi, PG 90,121C.
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Cið spiega il motivo per cui nell’ortodossia bizantina i pronunciamenti emanati da un concilio necessitano ancora di una “ricezione” ecclesiale, non nei termini di un referendum democratico, ma nel senso di una sanzione da parte dello Spirito santo che parla attraverso l’intera chiesa. La veritÜ teologica non puð essere concepita come un sistema di concetti che possono essere insegnati come una disciplina scolastica, nß puð essere ridotta a pronunciamenti d’autoritÜ del magisterium; à proprio innanzitutto per questo che la creativitÜ in campo teologico nella Bisanzio medievale venne largamente favorita e sviluppata nei circoli monastici. A partire da Massimo il Confessore, i grandi nomi della teologia bizantina sono nomi di monaci (Simeone il Nuovo Teologo, Gregorio Palamas), mentre le figure non monastiche, come Fozio o i numerosi polemisti antilatini o i canonisti del xii secolo, si limitarono alla preservazione scientifica, intelligente ma essenzialmente conservativa, del depositum fidei. Tale tendenza conservatrice à rispecchiata, per esempio, nella seguente solenne istruzione, emanata dal concilio in Trullo (692): necessario per coloro che presiedono le chiese ... istruire tutto il clero e il popolo ... attingendo alla divina Scrittura i pensieri e i giudizi di veritÜ, ma non superando i limiti ora fissati, nß deviando dalla tradizione dei padri timorati di Dio. Ma se emerge un qualsiasi argomento concernente la Scrittura, esso deve essere interpretato solo come i luminari e i maestri della chiesa hanno esposto nei loro scritti; lasciate che essi (i vescovi) si distinguano per la loro conoscenza degli scritti patristici piuttosto che per la composizione di trattati frutto della loro mente21.
Tuttavia, quando Gregorio Palamas, nella sua controversia con Barlaam il Calabro sulla conoscenza di Dio, sollecitð e ot21 Canone 19, in K. Rhallis, M. Potlis, S÷ntagma II, p. 346.
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tenne il sostegno dei monaci del Monte Athos, il Tomo aghioritico (ossia della Santa Montagna) redatto in quell’occasione (1340) proclamð la legittima esistenza nel Nuovo Testamento di un ministero profetico che parlasse con autoritÜ delle realtÜ del regno futuro, cosç come nell’Antico Testamento i profeti avevano annunciato la venuta di Cristo. Tale profezia del Nuovo Testamento, responsabilitÜ particolare dei monaci, non era necessariamente legata a formule del passato, ma parlava della veritÜ sulla base di una diretta esperienza spirituale. Cosç scrive Palamas: Le dottrine della chiesa sono formulate come si conviene, note a tutti e proclamate apertamente. Ma, al tempo della legge mosaica, questi dogmi erano misteri intravisti nello Spirito soltanto dai profeti. Cosç, le buone cose promesse ai santi nel tempo che verrÜ (cf. Gc 2,5), sono i misteri della comunitÜ dell’Evangelo, concessi a e intravisti da quelli che, almeno un poco, possiedono ora, in primizia, la visione dello Spirito22.
La creativitÜ della teologia monastica a Bisanzio, nonostante la sua unilateralitÜ per certi aspetti, fu quindi basata su una “gnoseologia escatologica” inseparabile dalla nozione secondo cui la comunitÜ cristiana anticipa sacramentalmente il regno di Dio. Questo à il motivo per cui il concetto di “misticismo”, che nel nostro linguaggio moderno designa religiositÜ individualistica ed emozionale, à inadeguato se applicato alla teologia e alla spiritualitÜ cristiane orientali, a meno che non sia riferito al mystßrion “di Cristo e della chiesa” (Ef 5,32), e a meno che non implichi le dimensioni escatologica, sacramentale ed ecclesiale della conoscenza teologica.
22 Gregorio Palamas, SyngrÛmmata II, a cura di P. Chrestou, Oikos Kyromanos, Thessaloniki 1966, p. 567.
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III DUE VISIONI DELLA CHIESA. ORIENTE E OCCIDENTE ALLA VIGILIA DELL’EPOCA MODERNA
La Bisanzio medievale considerava la propria civiltÜ cristiana come il compimento definitivo della storia. Dando vita a una “nuova Roma” sul Bosforo, si riteneva che l’imperatore Costantino avesse realizzato il piano divino che era stato lo scopo dell’incarnazione stessa: inaugurare il regno di Dio sulla terra. L’impero resistette un intero millennio senza mutare il contenuto fondamentale di questa visione, che cið nonostante venne sfidata sia all’interno che all’esterno. Internamente, le Scritture cristiane, la tradizione liturgica e la costante presenza profetica dell’ascetismo monastico indicavano un’escatologia differente: il regno di Dio era distinto dall’impero terreno e doveva ancora venire. Esternamente, i confini e l’influenza di Bisanzio si riducevano sempre piô e Dio sembrava non voler contrastare la conquista islamica di vaste aree tradizionalmente cristiane. Fino al xiii secolo, gli orientali continuarono a ritenere l’occidente cristiano parte dell’oikoumßne stabilita da Dio: i latini erano fratelli che avevano leggermente deviato, erroneamente influenzati dalle idee “barbare”, ma destinati a riunirsi al mondo cristiano romano, quale era stato concepito fin dal iv secolo. Ai bizantini veniva ricordata questa indelebile speranza ogni volta che entravano in Santa Sofia, che ascoltavano le affermazioni liturgiche sull’universalitÜ dell’impero e che contemplavano le 57
figure imperiali di Costantino e Giustiniano rappresentate nei mosaici posti sopra le porte della loro cattedrale. I tragici eventi del xiii secolo sembrarono porre fine al sogno. Nel 1204 i crociati latini saccheggiarono la “nuova Roma”. Un imperatore franco sedette sul trono di Costantino e un patriarca veneziano occupð il seggio che era stato di Crisostomo e di Fozio. Inoltre, nel 1240 i mongoli conquistarono la Russia – la vasta e promettente conquista missionaria della Bisanzio ortodossa – e le chiese-figlie di Bulgaria e Serbia vacillarono nella loro fedeltÜ all’ortodossia. Pareva che l’universalismo imperiale bizantino fosse stato sostituito per sempre da un orbis christianorum latino, capeggiato dal papa, che affrontava da solo sia l’impero tataro che i turchi musulmani. Per i cristiani d’oriente le uniche alternative sembravano essere o l’integrazione spirituale, politica e culturale nel cristianesimo latino, oppure il potere degli imperi asiatici. Questi importanti eventi, e le relative fondamentali questioni spirituali, influenzarono in modo decisivo l’approccio dei cristiani orientali all’escatologia e li obbligarono a ridefinire la loro identitÜ spirituale. Naturalmente, nel 1261 la cittÜ di Costantinopoli fu riconquistata dai greci e, fino al 1453, la debole dinastia degli imperatori paleologi tentð di mantenere il decaduto prestigio della “nuova Roma”, pur riuscendovi solo in modo simbolico. La forza reale e la capacitÜ di recupero del cristianesimo orientale furono merito della chiesa stessa, all’interno della quale le posizioni di comando erano occupate dai rappresentanti di un forte risveglio monastico legato all’esicasmo.
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La rinascita esicasta stato sovente notato che l’oriente cristiano, al contrario dell’occidente, non sviluppð mai ordini religiosi che esercitassero il loro ministero al di lÜ dei confini diocesani, indipendentemente dai vescovi locali. Difatti, la legislazione canonica bizantina prevedeva la giurisdizione episcopale su tutte le comunitÜ monastiche locali, e i monaci bizantini raramente contemplavano nelle loro regole fini educativi o missionari, caratteristici degli ordini latini, sia medievali che moderni, piô votati all’attivismo. In pratica, perð, vi erano alcune eccezioni. Per esempio il monastero di Studios, guidato dal suo grande igumeno Teodoro, era diventato nel tardo secolo viii una sorta di “chiesa nella chiesa”, dotato di un programma espressamente elaborato per influenzare la societÜ. Analogamente, e perfino su scala piô ampia, il movimento molto spesso definito come “esicasta” porterÜ a compimento nel xiv secolo un esteso rinnovamento spirituale in tutto l’oriente ortodosso. Il ruolo di tale movimento puð essere paragonato, ad esempio, a quello espletato dalla riforma cluniacense in occidente. Sebbene le posizioni ideologiche e i contesti storici dei due movimenti siano chiaramente differenti, in entrambi i casi si affermð una leadership monastica che, monopolizzando in modo sempre piô crescente le alte cariche ecclesiastiche, riuscç a stabilire una serie di prioritÜ in grado di anteporre i valori spirituali alle contingenze socio-politiche del tempo. La primitiva storia dell’“esicasmo” à stata ampiamente studiata, come pure la sua espressione dottrinale riflessa negli scritti teologici di Gregorio Palamas1. Tuttavia, per comprendere ap1 Cf. J. Gribomont, “Monasticism and Asceticism, I. Eastern Christianity”, e K. Ware, “Ways of Prayer and Contemplation, I. Eastern”, entrambi in Christian Spirituality, I. Origins to the Twelfth Century, a cura di B. McGinn e J. Meyendorff, Crossroad, New York 1985, pp. 86-112 e 395-414; cf. anche G. Mantzaridis, “Spiritual Life in Palamism”, in Christian Spirituality, II. High Middle Ages and Reformation, pp. 208-222.
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pieno la vasta influenza spirituale che tale movimento esercitð, à importante rendersi conto che il termine esicasmo puð essere usato solo in senso molto ampio per indicare il movimento che qui ci interessa. Gli esicasti, ossia gli eremiti contemplativi del Monte Athos, ritenevano che la vita divina fosse immediatamente accessibile a coloro che vivono “in Cristo”, e tra i seguaci di questa idea si contavano teologi laici (come Nicola Cabasilas), guide politiche, nonchß ecclesiastici i quali, una volta raggiunti i piô alti gradi delle gerarchie ecclesiastiche o civili, non potevano essere piô considerati eremiti o mistici nel senso comune del termine2. Essi erano direttamente coinvolti nella vita sociale, culturale e politica del loro tempo, perseguendo concreti fini pratici. Ma in tali attivitÜ avevano adottato prioritÜ comuni e fondamentalmente spirituali che spiegano la loro identitÜ come movimento e la coerenza della loro azione3. Le decisioni dei concili “palamiti” costantinopolitani del 1341, 1347 e 1351, possono essere sostanzialmente sintetizzate nella semplice affermazione che l’esperienza e la conoscenza di Dio sono immediatamente accessibili a tutti i cristiani; che il perseguimento di una simile esperienza à un’espressione della stessa fede cristiana; che la fede non à una congettura intellettuale, ma piuttosto una visione della stessa VeritÜ; e che la vita sacramentale à una condizione necessaria per l’autentica esperienza cristiana. Problemi teologici piô tecnici, quali la distinzione palamita tra l’essenza e le energie divine, erano le conseguenze terminologiche, e non la causa, del realismo esperienziale confermato dai concili. Il fatto che simili opzioni, spiritualmente significative, furono assunte da parte della chiesa ortodossa bizantina prima della metÜ del xv secolo à certamente connesso a
2 Cf. a questo proposito l’introduzione a J. Meyendorff, Byzantine Hesychasm. Historical, Theological and Social Problems, Variorum, London 1974. 3 Cf. il capitolo “Victory of the Hesychasts in Byzantium. Ideological and Political Consequences”, in J. Meyendorff, Byzantium and the Rise of Russia, pp. 96-118.
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una forte rinascita del monachesimo e a un rinnovato riconoscimento della leadership spirituale monastica. La rinascita fu legata a sua volta agli eventi catastrofici menzionati in precedenza: l’impero e l’orgoglio culturale di Bisanzio erano stati mandati in frantumi dalle conquiste latine e dalla minaccia turca. Non era rimasta alcuna vera Üncora di salvezza all’infuori della chiesa ortodossa. Ma la forza della chiesa non veniva percepita tanto nelle strutture contingenti dell’impero, quanto nelle sue tradizioni escatologiche, mistiche e ascetiche custodite dai monaci. Intorno al 1338 Gregorio Palamas, nelle sue Triadi che difendevano gli esicasti dagli attacchi di Barlaam, il “filosofo” dell’Italia meridionale, offre un elenco molto significativo di guide spirituali ritenute da lui e dai suoi discepoli i modelli del movimento. I piô importanti nella lista sono vescovi dalla ferrea volontÜ e socialmente impegnati come Teolepto di Filadelfia (1250-1321/1326) e, soprattutto, il patriarca Atanasio I (1289-1293; 1303-1310). Riformatore ascetico e severo, Atanasio, da patriarca, aveva paternalisticamente edotto l’imperatore Andronico II riguardo alle questioni politiche, aveva speso grosse somme di denaro per opere filantropiche, frenato i funzionari ecclesiastici che badavano solo al proprio interesse, e imposto la disciplina nei monasteri4. Altri patriarchi di Costantinopoli, soprattutto nel periodo seguente alla vittoria palamita del 1347 (Isidoro, Callisto, Filoteo), seguirono l’esempio di Atanasio, perlomeno nelle intenzioni. La prioritÜ attribuita agli interessi spirituali, caratteristica del movimento esicasta, si manifestð anche nell’opposizione – tradizionale presso i monaci orientali – agli interessi umanistici per la cultura greca antica e per la filosofia. Non che Palamas e i
4 Su Atanasio cf. The Correspondence of Athanasius I, Patriarch of Constantinople, a cura di A.-M. Maffry Talbot, Dumbarton Oaks, Washington 1975, e J. L. Boojamra, Church Reform in the Late Byzantine Empire. A Study for the Patriarchate of Athanasios of Constantinople, Patriarchikon Hydrima Paterikon Meleton, Thessaloniki 1982.
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suoi discepoli si mostrassero dei sistematici oscurantisti. Nelle loro trattazioni teologiche essi impiegavano un linguaggio e dei concetti filosofici, ma si opponevano a quanti cominciavano a concepire l’impero bizantino come uno stato “greco”, nel cui quadro Costantinopoli era considerata la “nuova Atene”. Un simile nazionalismo secolare, che stava emergendo nell’ßlite intellettuale bizantina – segno della fine del medioevo –, si espresse politicamente nei tentativi di unione della chiesa ottenuti tramite la resa dottrinale alla teologia latina nella speranza di ottenere in cambio la sopravvivenza culturale e politica di Bisanzio. Contrari a simili tentativi, gli esicasti promossero nuove forme di universalismo ortodosso. Sul Monte Athos monaci greci, slavi, moldavi, siriani e georgiani venivano educati a uno spirito comune dall’adozione di una medesima spiritualitÜ e di valori condivisi. Era quindi inevitabile che non soltanto il patriarca di Costantinopoli scelto tra le loro file, ma anche i patriarchi bulgari (Eutimio), gli arcivescovi serbi (Sava) e i metropoliti “di Kiev e di tutta la Russia” (Cipriano) promuovessero un simile ordine di prioritÜ nell’intero mondo ortodosso. Tali prioritÜ comprendevano l’unificazione liturgica basata sull’Ordo (Typikïn) di San Sabba in Palestina, la comune fedeltÜ al patriarcato di Costantinopoli (nonchß al riconoscimento simbolico dell’imperatore bizantino quale “imperatore di tutti i cristiani”) e un comune atteggiamento di riserva nei confronti dell’unione con il papato, i cui promotori erano motivati piô da ragioni politiche che teologiche. Analogamente a cið che era capitato in occidente nell’xi secolo con Cluny, in oriente fu il Monte Athos a costituire il centro indiscusso del movimento monastico, sebbene al di lÜ dei suoi confini non godesse di un formale potere disciplinare. La “Santa Montagna”, come veniva chiamata, si trovava nel nord della Grecia. L’intero territorio della penisola apparteneva alle numerose comunitÜ monastiche organizzate in cenobi o in eremi. Ogni comunitÜ era governata dal proprio igumeno, ma tutti 62
i monasteri riconoscevano l’autoritÜ di un unico “igumeno generale”, il prïtos. Sia nella varietÜ delle forme monastiche, sia nel suo stile di vita generale, la Santa Montagna à sopravvissuta fino ai nostri giorni. Nei secoli xiv e xv, dall’Athos il monachesimo si diffuse nei Balcani e in Russia. L’influenza athonita si estese grazie ai monaci itineranti e attraverso i libri. Traduzioni in slavo ecclesiastico vennero compiute sia all’Athos, sia a Costantinopoli, sia da monaci in grado di parlare il greco che vivevano in Serbia, Bulgaria o Russia. Le dimensioni di questo nuovo influsso di letteratura spirituale greca hanno spinto gli storici a parlare di una “seconda” influenza bizantina, o slavo-meridionale, sulla Russia (la prima era quella seguita al “battesimo della Rus’” nel 988). La maggior parte delle opere tradotte in quel periodo sono scritti dei padri greci, a volte di quelli siriaci, del periodo patristico classico, ma anche testi bizantini medievali quali gli Inni di Simeone il Nuovo Teologo o gli scritti sulla preghiera degli esicasti del xiv secolo. I trattati piô difficili e puramente teologici, come le opere di Palamas, erano al di lÜ della comprensione della maggior parte dei lettori slavi e di fatto non necessari, giacchß tra gli slavi i princçpi dell’esicasmo non erano intellettualmente minacciati. Tali trattati, percið, non vennero tradotti. Con quest’unica eccezione, dunque, la biblioteca ordinaria di un monastero serbo, bulgaro o russo di quel periodo era identica quanto ai contenuti a quella di un insediamento monastico athonita, o di un monastero ubicato a Costantinopoli, a Patmos o sul Sinai. Lo sviluppo piô spettacolare legato alla rinascita esicasta fu probabilmente la diffusione del monachesimo nella Russia settentrionale. Sergio di Radone° (ca. 1314-1392) à ritenuto il padre della “Tebaide del Nord”, come si cominciava a chiamarla in quegli anni. La laura della TrinitÜ, da lui fondata a nord-est di Mosca, divenne la casa madre di oltre 150 monasteri, fondati nel xiv e xv secolo dai discepoli di Sergio nelle foreste setten63
trionali. Sia gli eremiti che i sostenitori della vita comune poterono riferirsi allo stesso Sergio come a un modello5. La sua Vita – opera di un discepolo, Epifanio il Saggio, ed esempio dello stile di quell’epoca – descrive l’inizio della sua avventura monastica definendola una vita di “solitudine” (bezmolvie, l’equivalente slavo del greco hesychæa) durante la quale, imitando i padri egiziani che erano vissuti in compagnia delle bestie selvagge, Sergio si fece amico un orso. Il biografo sottolinea costantemente le virtô di semplicitÜ, umiltÜ e amore fraterno che caratterizzavano Sergio e racconta alcuni esempi delle sue esperienze mistiche. Inoltre, il suo amore per il lavoro manuale e il suo talento organizzativo lo aiutarono a diventare – su diretta indicazione del patriarca di Costantinopoli – il fondatore della vita cenobitica nel suo monastero. Nello spirito degli esicasti bizantini suoi contemporanei, Sergio fu coinvolto nella vita sociale e politica del suo tempo. Condividendo le opinioni del metropolita Cipriano, un bulgaro strettamente legato alla leadership ecclesiale di Bisanzio, egli sostenne l’unitÜ della chiesa di Russia – le cui diocesi erano situate nei principati di Mosca e Lituania, perennemente in lotta tra di loro – e benedisse le truppe moscovite alla vigilia della loro prima vittoriosa battaglia contro i tatari (1380). La storia del monachesimo russo dell’epoca à quindi piuttosto conforme all’ideologia monastica delle terre di lingua greca: la sottolineatura mistica ed escatologica conduce a un sentimento di indipendenza spirituale dalle contingenze storiche, ma non implica una pietistica assenza di coinvolgimento o un’indifferenza nei confronti della storia. 5 Sul monachesimo durante quel periodo cf. in particolare I. Smolitsch, Russisches Mìnchtum. Entstehung, Entwicklung und Wesen, 988-1917, Augustinus, Würzburg 1953, pp. 79-100; cf. anche G. P. Fedotov, The Russian Religious Mind, II. The Middle Ages. The Thirteenth to the Fifteenth Centuries, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1966, pp. 195-264 (cf. ora San Sergio e il suo tempo, a cura di N. Kauchtschischwili e A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1996 [N.d.C.]).
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Un altro straordinario esempio del contagioso zelo spirituale di quel periodo à il ripristino delle attivitÜ missionarie. Sebbene siano giunti a noi soltanto alcuni cenni riguardo alle varie azioni intraprese in tal senso dal patriarca di Costantinopoli, gli archivi attestano la fondazione di nuove diocesi nel lontano Caucaso e in Valacchia, terra di lingua romena a nord del Danubio. Nella Russia settentrionale recentemente colonizzata, un discepolo e amico di Sergio che aveva appreso il greco, Stefano di Perm (1340-1396), presiedette alla traduzione delle Scritture e della liturgia nella lingua di una tribô finnica, quella dei Sirieni, per i quali inventð anche uno speciale alfabeto, prima di diventare il loro primo vescovo. Cið conferma che la tradizione dell’utilizzo delle lingue locali in terra di missione, i cui primi esempi erano stati Cirillo e Metodio nel ix secolo, à ancora pienamente accettata nella prassi di questo periodo tardo-medievale. Il quadro della spiritualitÜ cristiana orientale nei secoli xiv e xv sarebbe incompleto se non facessimo almeno un cenno agli sviluppi occorsi in campo artistico parallelamente allo sviluppo dei movimenti intellettuali e spirituali di quel tempo. Caratterizzando l’opera degli artisti greci durante la cosiddetta “rinascita” paleologa, Andrß Grabar scrive: “Li vediamo prefigurare le scoperte di Cavallini e Giotto e, allo stesso tempo, quelle dei pittori italiani del xv secolo, che faranno rivivere il grande stile della pittura classica”6. Chiunque abbia una certa familiaritÜ con i capolavori dell’arte cristiana del xiii, xiv e xv secolo che si svilupparono a Bisanzio e nelle terre slave, à consapevole dello stile innovativo, costituito dal senso del movimento e dalla prossimitÜ alla vita di cui sono permeate tali opere, in netto contrasto con la piô solenne e severa arte bizantina del x o dell’xi secolo. 6 A. Grabar, “The Artistic Climate in Byzantium during the Paleologan Period”, in The Kariye Djami IV, a cura di P. Underwood, Bollingen Foundation, New York 1975, pp. 7-8.
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Alcuni autori moderni hanno tentato di stabilire un legame diretto tra il rinnovamento spirituale stimolato dall’esicasmo e questi sviluppi artistici. Altri, al contrario, ritengono che l’ascesi monastica ebbe un effetto soffocante sull’arte e che la rinascita paleologa rifletta il nuovo interesse per l’antichitÜ classica proprio degli umanisti bizantini. Ma puð bastare uno solo dei termini di questa alternativa semplicistica per spiegare un’arte che fu fondamentalmente cristiana e spesso monastica, senza mai diventare realmente un’“arte rinascimentale”? Inoltre, per quanto l’influenza dell’antichitÜ sia innegabile in molti casi specifici – come il famoso monastero di Chora (Kariye Djami) a Costantinopoli – non c’à motivo di credere che un simile interesse avrebbe potuto motivare committenti e artisti slavi di Macedonia o essere alla base degli straordinari risultati del grande Andrej Rublev nella lontana Moscovia. quindi molto piô probabile che il rinnovamento artistico, che ebbe origine in una Bisanzio politicamente moribonda e quindi si diffuse nell’ortodossia slava, sia stato l’espressione di una nuova consapevolezza che la comunione con Dio era possibile, che dipendeva dalla risposta umana alla grazia divina, che il senso greco dell’humanum, ereditato dall’antichitÜ, non era stato soppresso ma piuttosto rinnovato e trasfigurato dall’esperienza cristiana. Cosç, il messaggio del risveglio artistico riflettß una spiritualitÜ cristiana che, dalla sua vittoria sull’iconoclasmo, aveva imparato a esprimersi con immagini e colori altrettanto bene che con parole o concetti, e che quindi aveva qualcosa da dire non solo a uno spirito umano disincarnato, bensç alla totalitÜ dell’esistenza umana, assunta da Dio in Gesô Cristo.
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Oriente e occidente: il divorzio graduale Tutti gli storici moderni concordano su un punto negativo: lo scisma tra Roma e Bisanzio, i due centri della cristianitÜ nell’alto medioevo, non puð essere associato a un particolare evento e ancor meno a una data ben precisa. Si tratta piuttosto di un divorzio progressivo – un estrangement, nell’espressione di Yves Congar – che comincið con le tensioni teologiche emerse durante il periodo dei concili ecumenici e con lo sviluppo di una diversa comprensione del ruolo dell’autoritÜ nella chiesa. Le due metÜ del cristianesimo ruppero la comunione l’una con l’altra in numerose occasioni finendo ogni volta per riconciliarsi, finchß l’incidente, relativamente minore, del 1054 venne a costituire de facto una rottura definitiva tra Roma e Costantinopoli. Cið non significa che l’una o l’altra parte ritenessero ormai impossibile una riconciliazione; le due visioni ecclesiologiche, quella orientale e quella occidentale, si stavano perð orientando decisamente in direzioni diverse. Con la riforma gregoriana, le crociate, il papato “imperiale” di Innocenzo III, l’ascesa della scolastica e delle universitÜ e, nel xiv secolo, le varie tendenze intellettuali che culminarono nel conciliarismo e nel grande scisma d’occidente, il cristianesimo latino ritenne di essere un modello di unitÜ autosufficiente. L’oriente, nel frattempo, si dimostrð invece piuttosto allergico agli sviluppi istituzionali occorsi in occidente, soprattutto al centralismo papale, dal momento che la teologia monastica trionfante a Bisanzio nel xiv secolo enfatizzava gli elementi mistici ed escatologici della fede cristiana rispetto ai princçpi legali e razionali dominanti nelle istituzioni ecclesiastiche e nelle scuole occidentali. Teologi di entrambe le parti si impegnarono innanzitutto nelle polemiche intorno al tema del Credo di Nicea-Costantinopoli. Nell’occidente latino il suo testo originale, che affermava la processione dello Spirito santo “dal Padre” (cf. Gv 15,26), era 67
stato interpolato con il famoso termine Filioque, cosicchß i cristiani latini confessavano la “duplice” processione dello Spirito “dal Padre e dal Figlio”. Qualunque fosse stato il motivo originario dell’interpolazione (che molto probabilmente ebbe inizio in Spagna nel vii secolo), i suoi apologisti la giustificavano riferendosi alla dottrina trinitaria di Agostino, il quale aveva enfatizzato l’unitÜ essenziale della divinitÜ, di modo che il Padre e il Figlio, essendo uno nell’essenza, costituivano un’unica fonte dello Spirito. In oriente, invece, la concezione normativa della TrinitÜ divina era quella dei padri cappadoci del iv secolo. Per costoro, l’identitÜ personale, o “ipostatica”, del Padre, del Figlio e dello Spirito costituiva la primaria rivelazione ed esperienza cristiana, mentre l’essenza divina comune alle tre persone era di per sß trascendente e ignota all’uomo, essendo manifestata solamente attraverso le energie divine7. Dietro al tema del Filioque si celava quindi una divergenza sulla comprensione di Dio. Le due concezioni – la cappadoce e l’agostiniana – ebbero conseguenze dirette sulla spiritualitÜ cristiana8. L’aggiunta del Filioque a un Credo comune, approvato dai concili ecumenici, era effettivamente stata fatta in modo unilaterale, e dunque sollevava il problema dell’autoritÜ nella chiesa. Sebbene il fatto fosse accaduto in maniera spontanea, probabilmente a causa di un malinteso, in remote aree del mondo cristiano latino, la sua accettazione da parte dei vescovi di Roma nell’xi secolo aggiunse alla questione una nuova dimensione. Il 7 Su questo argomento si veda Th. Hopko, “The Trinity, I. The Trinity in the Cappadocians”, in Christian Spirituality, I. Origins to the Twelfth Century, pp. 260-276; cf. anche G. Mantzaridis, “Spiritual Life in Palamism”. 8 La polaritÜ esistente tra le due concezioni à stata nettamente stabilita giÜ nell’opera di Th. de Rßgnon, tudes de thßologie positive sur la Sainte Trinitß, V. Retaux, Paris 1892. Per dibattiti recenti sull’importanza dell’argomento, cf. K. Rahner, “Il Dio trino come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza”, in Mysterium salutis, II/1. La storia della salvezza prima di Cristo, Queriniana, Brescia 1969, pp. 401-507; D. Staniloae, Theology and the Church, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood 1981. Esse coesistettero all’interno del cristianesimo finchß il dibattito sull’interpolazione non focalizzð l’attenzione polemica sulle loro divergenze.
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papa, in virtô della propria autoritÜ petrina, aveva il diritto di modificare unilateralmente il Credo ecumenico? La questione dottrinale del Filioque divenne quindi, dal punto di vista orientale, la pietra di paragone del dibattito sull’autoritÜ papale, dibattito che, naturalmente, si manifestð in molti altri modi, compresa l’approvazione data da papa Innocenzo III alla presa di Costantinopoli da parte dei crociati (1204) e la nomina di un patriarca latino nella cittÜ imperiale. Una questione centrale riguardante l’esperienza cristiana stava ormai emergendo: la fede dipendeva da un criterio istituzionale assoluto e legalmente definito come il papato? Poteva un simile criterio risultare piô affidabile dei concili, ponendosi al di sopra di essi, dei padri e, infine, di quella conoscenza di Dio che, come mostravano gli esicasti, apparteneva a ogni cristiano inserito nel corpo sacramentale della chiesa? Cristo aveva forse conferito all’apostolo Pietro un’autoritÜ formale e assoluta? E tale autoritÜ veniva trasmessa esclusivamente ai vescovi di Roma? L’oriente aveva sempre riconosciuto ai papi una certa autoritÜ morale e una certa responsabilitÜ, e aveva fatto affidamento su di loro per assicurare un consenso universale sulle questioni controverse, ma il papato medievale, postgregoriano, stava formulando il proprio potere in termini radicalmente nuovi. Dietro i contrasti politici e culturali dell’epoca emergevano due visioni della chiesa: secondo l’una, la chiesa era un custode scelto da Dio dell’ordine e della veritÜ, che richiedeva l’obbedienza a un capo visibile; secondo l’altra, ordine e unitÜ visibile erano stati assicurati dapprima dal potere ovviamente fallibile ma praticamente utile degli imperatori cristiani, e ora, con il collasso dell’impero, erano garantiti dalla chiesa intesa come comunione mistica, all’interno della quale l’ordine sacramentale e l’integritÜ dottrinale, come nei primi secoli del cristianesimo, potevano essere assicurati solo attraverso un consenso che coinvolgesse sia l’episcopato che il popolo. Il contrasto emerge nei molti contatti e dibattiti del tempo, ed à rilevabile altresç nel modo in cui venivano compresi i tre 69
principali testi petrini del Nuovo Testamento (Mt 16,18-19; Lc 22,32; Gv 21,15-17). La tradizione romana, la quale riteneva che le parole di Cristo rivolte a Pietro fossero applicabili esclusivamente al vescovo di Roma, era ormai accettata come ovvia da tutto l’occidente. In oriente, i passi petrini erano in genere compresi nel contesto della vita di ogni chiesa locale, o perfino del singolo fedele. Origene (iii secolo), ad esempio, aveva visto in Pietro il modello di ogni credente: la fede rende “pietra” (pßtra) ogni cristiano, il quale con essa riceve anche le chiavi per accedere al regno dei cieli9. Piô spesso, nella tradizione patristica, Pietro à considerato il primo “vescovo”, incaricato di ammaestrare e nutrire il gregge della sua comunitÜ locale quale capo e presidente dell’assemblea eucaristica. Questa tradizione, espressa nel iii secolo da Cipriano di Cartagine, si basava sull’idea che in ogni chiesa “cattolica” il vescovo, assiso sulla “cattedra di Pietro”, presiede la comunitÜ dei fedeli. Era questo il modello ecclesiale ancora vigente a Bisanzio. La presenza del corpo di Pietro a Roma, dove egli era morto, faceva di Roma un centro di pellegrinaggio e contribuiva al suo prestigio morale, ma la presenza spirituale di “Pietro” fu una realtÜ sperimentata in ogni chiesa, realtÜ incarnata nel ministero del vescovo locale. Nelle loro polemiche contro le rivendicazioni papali, gli autori bizantini del xiv e del xv secolo non negano la particolare e, di fatto, unica posizione di Pietro in seno al collegio degli apostoli, ma mettono in dubbio l’idea di una successione esclusiva di Pietro nella sola Roma. Per questo Nilo Cabasilas, vescovo tessalonicese del xiv secolo, scrive: Pietro à veramente sia apostolo che capo degli apostoli, ma il papa non à nß un apostolo (perchß gli apostoli nominarono pastori e maestri, non altri apostoli), nß capo degli apostoli. 9 Cf. Hom. in Mt 12,10-11, in Origene, Commento al vangelo di Matteo I, CittÜ Nuova, Roma 1998, pp. 292-297.
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Pietro à il maestro dell’intero universo ... mentre il papa à solo vescovo di Roma10.
I ripetuti tentativi di negoziare l’unione della chiesa furono avviati dagli imperatori bizantini alla ricerca di un sostegno militare e politico da parte dell’occidente contro la minaccia musulmana. Tali tentativi furono ben accolti dai papi, che nondimeno insistettero sull’accettazione formale e definitiva da parte dei bizantini delle posizioni dottrinali e della struttura ecclesiastica del cristianesimo latino. L’opposizione scaturç generalmente, sia nelle terre greche sia in quelle slave, da uomini di chiesa i quali chiedevano che l’unione non fosse una semplice resa, ma che potesse essere discussa dalle due chiese in un concilio aperto e libero. La vittoria del “conciliarismo” in occidente creð una situazione totalmente nuova, che permise di superare il punto morto che si era creato in precedenza. A seguito dei colpi inferti alla chiesa dal “grande scisma”, che negli anni successivi al 1378 oppose a piô riprese papi e antipapi, a Costanza (1414-1418) venne accettata la superiore autoritÜ dei concili ecumenici rispetto al papato. Martino V, il papa la cui elezione rappacificð in occidente i partiti rivali, sottoscrisse il decreto Frequens, con il quale il papato veniva reso responsabile davanti a un concilio da riunirsi a intervalli regolari. Cið rese altresç possibile l’unico tentativo autentico e rappresentativo di tenere un concilio ecumenico che comprendesse, come nel primo millennio della storia cristiana, i delegati di entrambe le chiese, quella orientale e quella occidentale. Il raduno conciliare, che si tenne in due cittÜ italiane, Ferrara e Firenze (1438-1440), fu la conseguenza di una sostanziale concessione papale alle prospettive ecclesiologiche orientali. Fino ad allora, i papi avevano ritenuto che le differenze tra orien-
10 Nilo Cabasilas, De primatu papae, PG 149,704D-705A.
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te e occidente fossero non negoziabili e che l’oriente non avesse altra alternativa che accettare la fede della sede di Pietro e l’autoritÜ papale nella sua concezione occidentale. A Ferrara-Firenze, le due parti si incontrarono senza precondizioni; di fatto, la chiesa latina accettð che il concilio venisse considerato l’“ottavo”, ossia che fosse visto come la continuazione della tradizione comune che si era espressa l’ultima volta nel concilio di Nicea del 787, il “settimo” concilio (quello che aveva condannato l’iconoclasmo). Gli sviluppi teologici ed ecclesiologici occidentali intervenuti tra il 787 e il 1438 venivano in tal modo posti implicitamente in discussione. Tale importante vantaggio iniziale, favorevole alla causa dell’unione, non venne tuttavia sfruttato adeguatamente durante i lunghi dibattiti che ebbero luogo nelle due cittÜ italiane. La grande divergenza spirituale ormai esistente tra i due mondi e le diverse metodologie teologiche resero difficile la reciproca comprensione. Al concilio, la posizione latina fu presentata e difesa da eredi della scolastica latina, i quali non usarono soltanto l’autoritÜ della tradizione ma anche argomenti filosofici, in modi che suonavano alquanto estranei alla mentalitÜ ortodossa bizantina. “Perchß Aristotele? Non va bene Aristotele”, mormorava uno sconcertato delegato della lontana Georgia, mentre il domenicano Giovanni di Torquemada disquisiva riguardo a sottigliezze teologiche11. La lunga discussione sul purgatorio fu un altro esempio che illustra la diversitÜ di approcci alla basilare esperienza cristiana. Sebbene le due parti fossero d’accordo sulla possibilitÜ e sulla necessitÜ di pregare per i morti, esse comprendevano in modi diversi la natura della “purificazione” richiesta
11 L’incidente à riportato nelle memorie di un delegato greco, Silvestro Syropoulos (cf. V. Laurent, Les “Mßmoires” du grand ecclßsiarque de l’ßglise de Constantinople, Sylvestre Syropoulos, sur le concile de Florence, Pont. Institutum Orientalium Studiorum, Roma 1971, p. 464).
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alle anime dei defunti. La visione, piuttosto legalistica, difesa dai latini, insisteva sul fatto che la giustizia divina necessitasse una piena soddisfazione dei peccati per i quali non era stata scontata una penitenza adeguata durante la vita terrena del penitente. Tale visione si scontrava con la concezione greca, ereditata da Gregorio di Nissa, secondo la quale la comunione con Dio à una crescita senza fine nella purezza, e tale crescita, presupposto della vita spirituale, continua di fatto anche dopo la morte. Ma la delegazione orientale a Firenze non fu unita. Mentre la maggior parte dei delegati, di per sß mal preparati per i dibattiti teologici, era dominata dal desiderio di fuggire la minaccia turca, i portavoce intellettuali appartenevano a due gruppi distinti, giÜ divergenti ancor prima che avessero inizio le discussioni conciliari. Marco Eugenico, metropolita di Efeso, rappresentava la rinascita monastica o esicasta. Egli concepiva la veritÜ cristiana come un qualcosa di pienamente rivelato ed esperito; il luogo di tale esperienza, naturalmente, era per lui la chiesa ortodossa. Nell’ordine delle sue prioritÜ, la fede veniva chiaramente prima della convenienza politica, e la sopravvivenza di Bisanzio all’incombente assalto dei Turchi non era un prezzo sufficiente per un compromesso dottrinale. Egli non era tuttavia un fanatico. Sinceramente impegnato nei negoziati per l’unione e – forse ingenuamente – speranzoso di persuadere i latini che la veritÜ vivente si trovava nell’ortodossia, fu lui a tenere, all’arrivo della sua delegazione a Ferrara, l’elogio ufficiale di papa Eugenio IV. L’altro partito greco, rappresentato da Bessarione, metropolita di Nicea, era allineato al pensiero di Barlaam il Calabro, che un secolo prima era stato l’avversario di Gregorio Palamas. Diffidente dinanzi al misticismo monastico, il partito di Bessarione era appassionatamente devoto al pensiero e alla cultura dell’antichitÜ greca. Per Bessarione, la stessa rivelazione cristiana era inseparabile dalla sua incarnazione nella filosofia cristiana 73
greca, ed egli non riusciva a immaginare alcuna prospettiva di sopravvivenza per il cristianesimo sotto il giogo islamico. Inoltre, la reviviscenza filosofica della scolastica latina, come pure l’ammirazione per tutte le ereditÜ greche che egli aveva riscontrato nel rinascimento italiano, lo convinsero che la salvezza poteva venire solo dall’occidente, nonostante il Filioque. La posizione di Bessarione era condivisa anche da altri, compreso in particolare Isidoro, metropolita “di Kiev e di tutta la Russia”. L’accettazione finale, dietro le insistenze dell’imperatore, di una formula di unione da parte di Bessarione e Isidoro, portð anche la maggior parte degli ormai psicologicamente esausti delegati greci a firmare il documento. Solo Marco rifiutð. Il decreto di unione affermava le posizioni occidentali sul tema del Filioque: si definç che lo Spirito santo procede dal Padre e dal Figlio “come da un unico principio (sicut ab uno principio)” e l’interpolazione del Credo fu proclamata “legittima”. Il decreto esprimeva inoltre la dottrina occidentale del purgatorio e, ulteriore dettaglio non di minor conto, proclamava che il papa era veramente “vicario di Cristo”, in possesso del “pieno potere (plena potestas)” di governare e pascere la chiesa universale. Quest’ultimo punto risuonð come un messaggio in codice che sanciva la fine del conciliarismo occidentale. Il concilio di Firenze stava infatti ricusando il regime approvato a Costanza che aveva reso il papa responsabile di fronte a un concilio da convocarsi a intervalli regolari. Cosç, secondo la piô recente e, in generale, piô positiva valutazione del concilio di Firenze, lo scopo dichiarato di quell’assemblea – l’unitÜ tra oriente e occidente – non fu raggiunto, e l’intero oriente si ritrovð in pratica dietro al rifiuto espresso da Marco di Efeso12. Oltre a cið, sui due temi del purgatorio e dell’autoritÜ papale il decreto del concilio non segnð soltanto il ri-
12 Cf. J. Gill, Il concilio di Firenze, Sansoni, Firenze 1967, pp. xv-xvi.
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fiuto del conciliarismo, ma anche l’adozione di una teologia che, un secolo piô tardi, avrebbe fornito a Martin Lutero le ragioni principali per la sua opposizione e il suo rifiuto del sistema ecclesiale latino del medioevo. Concepito come serio tentativo di restaurare l’unitÜ cristiana, il concilio si concluse seminando i germi di ulteriori scismi.
L’oriente entra nei suoi secoli bui I tentativi di unione del xiv e xv secolo mantennero ampiamente la divaricazione esistente tra oriente e occidente: motivati da ragioni politiche, essi mancarono di quella apertura teologica che à condizione necessaria per un autentico dialogo. Il risultato sarebbe stato probabilmente diverso se gli scontri avessero coinvolto non solo politici ecclesiastici e teologi scolastici, ma anche uomini piô rappresentativi delle autentiche tradizioni spirituali – per esempio, in occidente, i seguaci della spiritualitÜ francescana o del misticismo della scuola renana –. interessante notare al riguardo che recenti scoperte archeologiche hanno individuato affreschi raffiguranti san Francesco in una chiesa greca di Costantinopoli e che alcuni reperti archeologici narrano della presenza di eremiti italiani i quali, partecipando ai dibatti del concilio, furono formalmente rimproverati dai rappresentanti della curia papale perchß esprimevano simpatia per le posizioni dei greci13. Queste oscure informazioni possono essere giÜ una lontana anticipazione dello straordinario interesse, 13 C. L. Striker-Y. K. Kuban, “Work at Kalenderhane Camii in Istanbul. Second Preliminary Report”, in Dumbarton Oaks Papers 22 (1968), pp. 185-193, ill. 23-26. Gli affreschi erano stati dipinti probabilmente durante l’occupazione latina (1204-1261), ma vennero conservati anche dopo il ritorno dei greci; cf. anche V. Laurent, Les “Mßmoires”, p. 342.
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espresso da molti nell’occidente contemporaneo, per la spiritualitÜ del monachesimo orientale del xiv secolo. Tale interesse à peraltro ricambiato, per citare solo un caso, nella ricerca, piena di coinvolgimento personale, del teologo ortodosso palamita Vladimir Lossky su Meister Eckhart14. A dispetto di tali potenziali opportunitÜ, la caduta di Costantinopoli sotto il giogo turco mise fine nel 1453 alla maggior parte dei contatti diretti tra i cristiani d’oriente e quelli d’occidente. L’occidente entrð in un periodo di brillante attivitÜ culturale, ma si trovð anche ad affrontare l’incipiente secolarizzazione; esso intraprese una notevole espansione missionaria, ma soffrç la tragedia di ulteriori scismi. Guardando indietro alla storia del rinascimento e del post-rinascimento, scopriamo oggi quanto al cristianesimo occidentale mancassero la spiritualitÜ, l’ecclesiologia e la teologia dell’oriente per bilanciare alcune delle sue opzioni piô unilaterali. Nel medesimo periodo, l’oriente greco fu costretto a rinunciare al progresso intellettuale e a impegnarsi, all’interno di comunitÜ fortemente ghettizzate, in una lotta per la mera sopravvivenza in una societÜ dominata dall’islam. indubbio che tale sopravvivenza non sarebbe stata possibile senza la straordinaria ricchezza dell’esperienza liturgica bizantina e senza la leadership spirituale, che non cessð di prosperare nei monasteri, offerta dai seguaci della rinascita esicasta del xiv secolo. Solo la Russia potß presto iniziare a svilupparsi in un impero cristiano eurasiatico; tuttavia anche la sua chiesa, come avvenne per i greci e per gli slavi dei Balcani, rimase fino al xix secolo dipendente per la propria vita spirituale dalle tradizioni bizantine medievali. Cosç, la spiritualitÜ occidentale perse molte delle sue radici orientali, mentre l’oriente rimase in disparte e lontano dagli eventi che diedero forma all’epoca moderna.
14 V. Lossky, Thßologie nßgative et connaissance de Dieu chez Maåtre Eckhart, Vrin, Paris 1960.
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IV CRISI IDEOLOGICHE A BISANZIO DAL 1071 AL 1261
L’anno 1071, segnato dalla battaglia di Mantzikert e dalla caduta di Bari, vide la fine del potere imperiale di Bisanzio quale era stato stabilito da Basilio II e dai suoi predecessori; altre catastrofi, di natura piô eminentemente politica – soprattutto, l’arrivo dei crociati e la costituzione dell’impero latino sul Bosforo – sarebbero sopraggiunte piô tardi. Bisanzio non cessð tuttavia di ricoprire quel ruolo di guida intellettuale e ideale che a lungo l’aveva caratterizzata. Anzi, quasi al contrario, il debole stato governato dai Comneni, dagli Angeli, dai Lascaridi di Nicea, e piô tardi dai Paleologi, esercitð un’influenza intellettuale sull’intera Europa orientale nonchß sull’occidente latino talvolta superiore a quella esercitata dal potente impero della dinastia macedone. Bisanzio, ovviamente, essendo divenuta piô debole e meno autonoma, non si limitava ormai piô, nelle nuove condizioni in cui versava, a conservare l’ereditÜ del proprio passato, ma si trovava anche a subire l’influenza occidentale. Tale processo di scambio à un tratto che segna in modo peculiare il periodo di cui stiamo trattando. In quest’epoca mi pare emergano due significative tendenze ideologiche atte a farci comprendere la societÜ bizantina e la sua influenza al di lÜ di quei limiti geografici e cronologici che potremmo propriamente definire “bizantini”: la teoria imperiale e i rapporti con l’occidente latino. 77
La crisi nell’ideologia imperiale Bisanzio non rinuncið mai all’ideale romano di un impero universale, che da Eusebio di Cesarea era stato interpretato come la stessa provvidenziale espressione del potere terreno di Cristo. Ogni anno, il giorno di Natale, l’inno rivolto a Cristo e attribuito all’imperatore Leone VI proclamava: Quando Augusto regnð da solo sulla terra, i molti regni dell’uomo cessarono, e quando tu ti facesti uomo dalla Pura, i molti dài dell’idolatria furono distrutti. Le cittÜ del mondo furono poste sotto un unico regno universale e le nazioni credettero in un’unica e sovrana divinitÜ1.
Quest’inno – e molti altri di analoga portata, ripetuti costantemente nel corso della celebrazione liturgica nelle principali feste della chiesa – restava sicuramente impresso nella mente del bizantino medio, forse in misura ancor maggiore rispetto alle Novellae di Giustiniano e ad altri testi giuridici che pure riflettevano la medesima ideologia politica. I testi legali, tuttavia, continuarono a svolgere la loro funzione ispiratrice dei pronunciamenti ufficiali bizantini sulla natura del potere imperiale. Ancora nel 1395, nella famosa lettera inviata al gran principe russo Basilio I, il patriarca Antonio, citando la Prima lettera di Pietro: “Temete Dio, onorate l’imperatore (tðn Theðn phobeåsthe, tðn basilßa timÚte)” (1Pt 2,17), sottolineava che l’imperatore à e rimane uno, cosç come Dio à uno: “L’imperatore i cui decreti, ordinanze e comandi sono accolti in tutto l’universo; l’impera1 Dai vespri di Natale della liturgia bizantina.
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tore, e il solo imperatore, del quale i cristiani ovunque fanno menzione”2. A Bisanzio si manteneva invero una certa coerenza ideologica riguardo alla percezione della funzione imperiale, a cui peraltro si affiancð, negli ultimi secoli dell’impero, un permanente stato di crisi, dovuto alla sempre piô crescente divaricazione tra il mito e la realtÜ. A dire il vero, l’idea di un impero universale alleato a una chiesa universale era giÜ un mito all’epoca di Costantino e Giustiniano, anche se Giustiniano – come pure Basilio II – disponeva di sufficiente forza e prestigio da far sç che le sue rivendicazioni risultassero almeno potenzialmente plausibili. Dopo il 1071, perð, tale potenzialitÜ si dissolse, e nel 1204 fu un altro mito a riportare sotto ogni profilo la vittoria: il mito di un’universalitÜ guidata dal papato romano. Gli storici osservano che i bizantini, per quanto inflessibili nella loro difesa di un unico e universale impero cristiano quale norma della teoria politica, erano in realtÜ piuttosto realistici e flessibili nella concreta messa in pratica di tale ideale. Ad esempio, la Realpolitik li costrinse nel x secolo a riconoscere l’esistenza di un “imperatore dei bulgari (basileôs boulgÛron)”, dotato di un ruolo sussidiario nella “famiglia di nazioni” guidata dall’“imperatore dei romani”, la cui residenza si trovava a Costantinopoli3. Nel periodo comneno, la flessibilitÜ bizantina subç un’estensione ben maggiore, arrivando a integrare il principio occidentale del vassallaggio feudale. Al posto di un riconoscimento formale del proprio potere imperiale, Alessio I ottenne dai capi della prima crociata un giuramento di fedel-
2 F. Miklosich, J. Müller, Acta patriarchatus Constantinopolitani II, Carolus Gerold, Wien 1862, p. 192. Cf. l’ottima rassegna sulla concezione bizantina dell’imperium in D. M. Nicol, “The Byzantine View of Western Europe”, in Greek, Roman and Byzantine Studies 8 (1967), pp. 315-339. 3 Cf. soprattutto G. Ostrogorsky, “Die byzantinische Staatenhierarchie”, in Seminarium Kondakovianum 8 (1936), pp. 41-61, e D. Obolensky, The Byzantine Commonwealth, p. 385.
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tÜ, basato su un sistema di obblighi reciproci. Questi erano compresi in modo piuttosto diverso dalle due parti, e in simili condizioni il rapporto non poteva certo durare a lungo. Analogamente, la signoria feudale che Giovanni II e Manuele I furono in condizione di esercitare (per un tempo assai breve) sui principi crociati, non era certo paragonabile alla restaurazione dell’antico dominio romano sul Mediterraneo orientale, ma era implicitamente una graduale accettazione da parte degli stessi imperatori bizantini del pluralismo politico sviluppatosi in seno all’unico mondo cristiano. Certo, gli imperatori Comneni non dimenticarono le pretese universali dei loro predecessori, e cercarono di realizzarle in particolare mediante contatti diretti con il papato. Nel 1141, l’imperatore Giovanni II propose a papa Innocenzo II di restaurare l’unitÜ politica e religiosa del mondo cristiano sotto la duplice guida di se stesso e del pontefice4. Era lo schema di Giustiniano, riproposto cercando peraltro di tener conto, nelle mutate circostanze, della nuova coscienza monarchica del papato medievale, e dunque omettendo la menzione dell’antica “pentarchia” dei patriarchi. L’imperatore Manuele I profuse molte energie per la medesima causa dell’unitÜ imperiale universale, ma per lui, come per suo padre, cið significava o un accordo bilaterale con l’imperatore germanico (da cui l’alleanza stretta con Corrado III), oppure, di fronte all’ostilitÜ mostratagli dal successore di Corrado, Federico Barbarossa, un rinnovamento delle proposte indirizzate al papa (questa volta Alessandro III), sull’esempio di Giovanni II. Ma come sono contrastanti i resoconti bizantini e quelli occidentali dei medesimi tentativi diplomatici! Il Liber pontificalis parla di Manuele mosso dall’ansia 4 Il testo à disponibile in S. Lampros, “Autokratïron toý Byzantæou chrysïboulla kaç chrysÚ grÛmmata anapherïmena eis tàn hßnosin tîn ekklesiîn”, in Nßos Hellenomnßmon 2 (1914), pp. 109-111; cf. F. Dìlger, Regesten der Kaiserurkunden des ostrìmischen Reiches von 565-1453 II, Oldenburg, München-Berlin 1924, nrr. 1302 e 1303. Per la data, si veda G. Ostrogorskij, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1968, p. 345.
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“di portare all’unione la sua chiesa greca con la venerabile chiesa romana, madre di tutte le chiese”5. Dall’altra parte, lo storico contemporaneo Giovanni Cinnamo, che era un segretario di Manuele (basilikðs grammatikïs) e dunque riportava sicuramente i pensieri e le intenzioni del governo bizantino, loda il suo signore Manuele I per aver restituito a papa Alessandro il trono (del quale questi era stato privato per mano di Federico), e ricorda in modo retorico al papa che non spetta a lui “insediare imperatori” (basilßas probeblÞsthai), ma che piuttosto à egli stesso a essere debitore di Costantino e dei suoi successori per il trono su cui siede e la dignitÜ che gli à concessa6. Dando per certa l’opinione bizantina secondo cui l’origine del primato romano risaliva alla Donatio Constantini, e non percið a san Pietro, Cinnamo accusa l’imperatore germanico di aver usurpato il diritto imperiale di nominare i papi7. Dunque gli imperatori Comneni (Alessio, Giovanni e soprattutto Manuele) non erano dei meri utopisti. Essi cercarono a piô riprese di adattare l’idea giustinianea di un impero cristiano mondiale alle realtÜ del loro tempo. Provarono a stabilire rap-
5 Vita di Alessandro III a cura del cardinal Boso, in Le Liber pontificalis II, a cura di L. Duchesne, Thorin, Paris 1957, p. 415. 6 Cf. Ioannis Cinnami Epitome: rerum ab Ioanne et Alexio Comnenis gestarum 5,7, a cura di A. Meineke, Weber, Bonn 1836, p. 220. 7 Ibid., pp. 228-229; sulla recezione della Donatio tra i bizantini, si veda P. J. Alexander, “The Donation of Constantine at Byzantium and its Earliest Use against the Western Empire”, in Zbornik Radova Vizantolosˇkog Instituta 8 (1968), pp. 12-25. Analogamente a quanto avveniva in occidente, la Donatio veniva interpretata ora a favore della supremazia del potere imperiale su quello religioso (come nel caso di Cinnamo), ora invece in difesa dei privilegi inalienabili della chiesa. Quest’ultimo caso à ben rappresentato dal patriarca Michele Cerulario (cf. Balsamone in G. A. Rhallis, M. Potlis, S÷ntagma I, p. 147); si veda anche la notevole croce dell’xi secolo (forse appartenuta a Cerulario) adorna delle immagini di Costantino e di papa Silvestro I, e che in realtÜ rappresenta Isacco Comneno e Michele Cerulario. La croce si trova ora a Dumbarton Oaks (cf. pubblicazione e commento a cura di R. J. H. Jenkins e E. Kitzinger in Dumbarton Oaks Papers 21 [1967]). Sulla comprensione che Cerulario aveva del proprio ruolo e della propria dignitÜ, si veda in particolare N. Suvorov, Vizantijskij papa: iz istorii cerkovno-gosidarstvennych otnosˇenij v Vizantii, Universitetskaja tipografija, Moskva 1902 (in particolare, sul suo impiego della Donatio, cf. pp. 114-115 e 127-130).
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porti di tipo feudale con i principi occidentali. Quando se ne presentð loro l’occasione, avvicinarono l’impero germanico prospettando un condominio mondiale. Si dichiararono inoltre disposti a operare un certo riconoscimento del nuovo papato centralista e monarchico, sorto alla fine dell’xi secolo. Tutti questi tentativi fallirono perchß la concezione bizantina di un universalismo romano e cristiano era ideologicamente incompatibile sia con l’una che con l’altra delle due alternative occidentali: quella germanica e quella papale. La Bisanzio del xii secolo era ormai troppo debole perchß i suoi sogni di un’unitÜ politica mondiale potessero competere in maniera sufficiente con quelli di altre potenze; tuttavia, essa fece qualche ultimo tentativo di colmare il divario creatosi tra i suoi sogni e la realtÜ, e cið le va accreditato. Fu solo nel 1182, con il massacro perpetrato dai latini a Costantinopoli, e infine nel 1204, che il sogno si scontrð con l’evidenza della sua definitiva sconfitta. Continuð a sopravvivere, ma unicamente come sogno. Chi poteva incarnare legittimamente l’imperium di Costantino e Giustiniano dopo il marzo del 1204? Spesso si à riconosciuto che la feudalizzazione delle campagne bizantine nel periodo comneno permise un transizione abbastanza morbida dal dominio bizantino a quello latino. Il sistema economico non ebbe bisogno di radicali mutamenti politici. Ma che dire dei contenuti ideologici del nuovo sistema politico ora vigente nei territori dell’impero bizantino? Ben pochi greci o slavi dei Balcani riconobbero mai come legittima l’elezione di Baldovino delle Fiandre. Erano tuttavia decisamente piô numerosi tra le loro file quelli disposti ad accettare – per lo meno provvisoriamente – l’idea di una monarchia politica universale del papa di Roma, secondo quella che, in linea di principio, risultava essere l’ideologia ufficiale dell’occidente latino. Nel 1204, Calojan di Bulgaria fu incoronato re da un cardinale romano, e il suo esempio fu seguito nel 1217 da Stefano 82
Prvovencˇani di Serbia. Piô tardi, nel 1253, à il principe russo Daniele di Galicˇ a ricevere a sua volta una corona da Innocenzo IV. Nessun elemento teologico era in questione in tali accomodamenti, causati unicamente da “ragioni politiche”: “Nß i bulgari, nß i serbi, nß i russi occidentali si mostrarono seriamente intenzionati a rinunciare alla fede ortodossa che i loro antenati avevano ricevuto da Costantinopoli”8. Una simile accettazione de facto delle nuove realtÜ politiche à altrettanto evidente tra i greci. Nel 1206, una lettera del clero greco di Costantinopoli, scritta da Nicola Mesarites e indirizzata al papa, prospettava la possibilitÜ di far commemorare il nome di Innocenzo III nelle chiese greche alla fine dell’ufficio, quando si era soliti cantare il polychronismïs all’imperatore (Innokentæou despïtou pÛppa tÞs presbytßras Rhïmes pollÜ tÜ ßte). Cið avrebbe espresso l’imperium politico del papa. La commemorazione del suo nome nell’anafora liturgica, invece, avrebbe dovuto attendere fino a quando non fosse stata raggiunta l’unione ecclesiastica e dottrinale9. La miopia delle politiche papali, assieme alla debolezza e all’inettitudine dei latini che governavano Costantinopoli, resero presto vani questi accordi di natura pratica. La successione imperiale comincerÜ allora a essere rivendicata dai Grandi Comneni di Trebisonda, dagli Angeli dell’Epiro e dai Lascaridi di Nicea. Se si lasciano da parte le pretese dei primi, la cui importanza non trascenderÜ mai l’ambito locale, ci si trova innanzi all’interessante e ideologicamente importante disputa tra l’Epiro e Nicea. L’esito della sfida portð a una nuova situazione politica, in cui i ruoli rispettivamente dell’imperatore e della chiesa risultavano modificati in misura significativa a favore della chiesa, che in larga parte finirÜ per rimpiazzare l’imperatore qua8 D. Obolensky, The Byzantine Commonwealth, p. 240. 9 PG 140,297C; cf. P. L’Huillier, “La nature des relations ecclßsiastiques grßco-latines apràs la prise de Constantinople par les Croisßs”, in Akten des XI. internationalen Byzantinisten-Kongresses 1958, a cura di F. Dìlger, C. H. Beck, München 1960, pp. 317-318.
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le punto focale dell’unitÜ tra le nazioni ortodosse dell’Europa orientale. Fin dai tempi di Leone I (457-474), gli imperatori bizantini erano stati probabilmente incoronati all’atto del loro insediamento dal patriarca di Costantinopoli10. Nell’xi secolo, vi era chi pretendeva che la legittimitÜ di un imperatore fosse inseparabile dalla sua incoronazione ad opera del patriarca11. Ad ogni modo, dato che la nomina degli stessi patriarchi dipendeva in larga misura dagli imperatori, l’antico criterio romano – proclamazione da parte dell’esercito e del senato – rimaneva de facto quello piô decisivo, e l’incoronazione non faceva che sanzionare tale proclamazione12. Nel xiii secolo, la lotta tra gli Angeli e i Lascaridi rese la faccenda piô complessa. Nel 1208, Teodoro I Lascaris fu non solo incoronato ma anche unto con il santo crisma (m÷ron) dal patriarca Michele Autoreiano a Nicea13. Tale pratica fu probabilmente introdotta per emulare gli imperatori latini di Costantinopoli14, ma comportava altresç una santificazione e una consacrazione della persona dell’imperatore da parte 10 Cf. G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, p. 53, che riprende W. Ensslin, “Zur Frage nach der ersten Kaiserkrìnung durch den Patriarchen und zur Bedeutung dieses Aktes im Wahlzeremoniell”, in Byzantinische Zeitschrift 42 (1942), pp. 101 ss. 11 In tal senso, ad esempio, il patriarca Alessio Studita (1025-1043) sfidava i suoi detrattori, che gli negavano la sua personale canonicitÜ, dicendo che, se egli non era il legittimo patriarca, neppure erano legittimi gli imperatori che egli aveva incoronato, ossia Costantino VIII, Romano III e Michele IV (Georgius Cedrenus Ioannis Scylitze ope II, a cura di I. Bekker, Weber, Bonn 1839, pp. 517-518); cf. N. Skabalanovicˇ, Vizantijskoe gosudarstvo i cerkov’ v xi veke od smerti Vasilija II: bolgarobojca do vocarenija Alekseja I. Komnena, Eleonskogo, Sankt-Peterburg 1884, pp. 49-66. 12 Cf. P. Charanis, “Coronation and Its Constitutional Significance in the Later Roman Empire”, in Byzantion 15 (1940-1941), pp. 49-66. 13 I testi in cui si parla di questa unzione sono a volte interpretati in senso metaforico; cf. M. Angold, A Byzantine Government in Exile. Government and Society under the Lascarids of Nicaea (1204-1261), Oxford University Press, Oxford-London 1975, pp. 43-44. Tuttavia, alla luce della controversia tra Demetrio Chomatianos di Ocrida e il patriarca Germano II (cf. infra) riguardo al potere di consacrare il santo crisma, non vi à dubbio che esso venisse impiegato a Nicea (ma non a Tessalonica) per l’unzione degli imperatori. 14 G. Ostrogorsky, “Zur Kaisersalbung und Schilderhebung im spØtbyzantinischen Krìnungszeremoniell”, in Historia 4 (1955), pp. 246-256.
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della chiesa in un senso che mai era stato sottolineato nei precedenti periodi bizantini. L’unzione con il santo crisma, normalmente usato soltanto una volta in occasione del battesimo, veniva ora reiterata all’incoronazione dell’imperatore. Il progressivo indebolimento del potere e del prestigio politico degli imperatori portava a dare nuova enfasi al loro ruolo religioso e mistico, e quindi a fare maggiormente affidamento sul vettore di tale potere mistico, ossia la chiesa. Come à noto, dopo che ebbe preso Tessalonica nel 1224, il despota Teodoro Angelo, governatore dell’Epiro, fu incoronato “imperatore dei romani” da Demetrio Chomatianos, arcivescovo di Ocrida15. Non era certo la prima volta che nella storia bizantina la corona imperiale si trovava a esser contesa tra diversi pretendenti. Tuttavia à la prima volta che una tale disputa assumeva la forma di un dibattito teologico e canonico, riguardante non solo la fonte della legittimitÜ imperiale, ma anche l’autoritÜ del “patriarca ecumenico”. Gli antichi testi canonici definiscono il potere dell’arcivescovo di Costantinopoli come un’autoritÜ che gli deriva unicamente dall’importanza politica della capitale imperiale16; nel xiii secolo, perð, la situazione risulta capovolta. Teodoro Lascaris riceve a Nicea la legittimazione imperiale dalla sua incoronazione per mano di un patriarca in esilio. In cið il rapporto diarchico tra l’imperatore e il patriarca à certamente riaffermato, ma la bilancia della loro rispettiva importanza pende ora a favore del patriarca. Il significato e le impli15 Sulla data esatta di questo evento, cf. L. Stiernon, “Les origines du despotat d’pire”, in Actes du XII e Congràs d’ßtudes byzantines (Ochride, 10-16 septembre 1961) II, Comitß yougoslave des ßtudes byzantines, Beograd 1964, pp. 197-202, e A. Karpozilos, “The Date of Coronation of Theodore Doukas Angelos”, in Byzantina 6 (1974), pp. 253-261. 16 Cf. in particolare il celebre canone 28 del concilio di Calcedonia (451): “Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell’antica Roma, perchß la cittÜ era cittÜ imperiale. Per lo stesso motivo i 150 vescovi [di Costantinopoli, 381] diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l’imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell’antica cittÜ imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella”.
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cazioni di tale evento vennero contestati con competenza ed energia dai dotti canonisti che sostenevano la causa di Michele Angelo dell’Epiro. Non mi à possibile sviluppare in questa sede i dettagli della controversia17. Il principale portavoce della causa epirota, Demetrio Chomatianos, arcivescovo di Ocrida, sostenne quanto segue: 1) l’incoronazione degli imperatori e la nomina dei patriarchi a Nicea à altrettanto irregolare quanto l’incoronazione di un imperatore a Tessalonica da parte dell’arcivescovato autocefalo di Ocrida18; 2) il patriarca di Costantinopoli non gode di alcun diritto esclusivo di benedire il santo crisma, impiegato sia per il battesimo che per l’unzione degli imperatori. Qualsiasi vescovo (Chomatianos richiama giustamente il canone 7 di Cartagine e la Gerarchia ecclesiastica dello Pseudo-Dionigi) ha il potere di impartire tale benedizione19, e ad ogni modo all’incoronazione di Michele Angelo non à stato impiegato il santo crisma (m÷ron) battesimale – non à infatti questa la prassi tradizionale – ma solo dello speciale olio (ßlaion) santo20; 17 Cf. D. M. Nicol, “Ecclesiastical Relations between the Despotate of Epirus and the Kingdom of Nicaea in the Years 1215 to 1230”, in Byzantion 22 (1952), pp. 206-228, e Id., The Despotate of Epiros, Blackwell, Oxford 1957, pp. 24-102, dove l’episodio à presentato in modo a mio parere esagerato come un vero e proprio “scisma”, mentre in realtÜ non avvenne mai alcuna rottura della comunione tra Nicea e i “vescovi dell’occidente” (ossia quelli dell’Epiro e dell’arcivescovato autocefalo di Ocrida); cf. anche J. H. Erickson, “Autocephaly in Orthodox Canonical Literature to the Thirteenth Century”, in St. Vladimir’s Theological Quarterly 15 (1971), pp. 28-41, e soprattutto A. Karpozilos, The Ecclesiastical Controversy. 18 Demetrio Chomatianos, Lettera a Germano II, in Analecta sacra et classica Spicilegio solesmensi parata, a cura di J. B. Pitra, Roger et Chernowitz, Paris 1891, coll. 489-490. 19 La prassi bizantina che riserverÜ al patriarca il privilegio di benedire il crisma non à antecedente il ix secolo. Cf. L. Petit, “Le pouvoir de consacrer le sainte chrÞme”, in Echos d’Orient 3 (1899-1900), pp. 1-7; E. Herman, “Wann ist die Chrysmaweihe zum ausschliesslichen Vorrecht der Patriarchen geworden?”, in Sbornik Prof. P. Nikov, s.n., Sofija 1939, estratto da Izvestija na Bulgarskovo Istoricˇesko Druzestvo 16-18 (1939), pp. 509-515. 20 Cf. Demetrio Chomatianos, Lettera a Germano II, col. 493.
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3) nel normale esercizio dei suoi poteri, il patriarca di Costantinopoli non ha alcun diritto di violare i territori appartenenti alla giurisdizione di altre chiese autocefale – specialmente quella di Ocrida21 –, e anche all’interno dei limiti geografici del suo stesso patriarcato, egli dovrebbe preoccuparsi piô dell’unitÜ spirituale che del proprio potere legale di nominare i metropoliti22. degno di nota il fatto che i vescovi “occidentali”, nonostante la loro opposizione alle politiche di Nicea, non negarono mai la legittimitÜ del patriarca costretto all’esilio. In realtÜ tale legittimitÜ non fu mai contestata da parte di nessun paese ortodosso, e nel gioco diplomatico dell’epoca risultð essere la carta vincente a disposizione di Nicea. Con una serie di mosse brillanti, Nicea riconobbe un arcivescovo autocefalo di Serbia a Pec´ e quindi un nuovo patriarca di Bulgaria a Trnovo23. In tal modo riconosceva altresç le realtÜ politiche del xiii secolo (piuttosto che i privilegi legittimi ma astratti rivendicati da Choma21 Ocrida era stata la residenza del patriarca bulgaro al tempo dello zar Samuele (974-1014). Dalla distruzione dell’impero di Samuele ad opera di Basilio II, il patriarcato fu soppresso, ma l’“arcivescovato” di Ocrida rimase autocefalo (cf. in particolare B. Granic, “Kirchengeschichtliche Glossen zu den von Kaiser Basileios II. dem autokephalen Erzbistum von Achrida verliehen Privilegien”, in Byzantion 12 [1937], pp. 215 ss.), anche se ormai gli arcivescovi greci erano alquanto dipendenti da Costantinopoli. Si vedano le annotazioni di Chomatianos nella sua Lettera a Germano II, col. 495. Per Chomatianos, tuttavia, il prestigio e i diritti di Ocrida non sono una mera conseguenza del separatismo bulgaro, bensç una venerabile istituzione canonica messa in atto da Giustiniano stesso quando accordð l’indipendenza ecclesiastica a Giustiniana Prima, suo luogo natale, conferendole la giurisdizione sulla maggior parte della penisola balcanica (Novella 131); da cui il titolo ufficiale di “arcivescovo di Giustiniana Prima e di tutta la Bulgaria” (cf. Lettera a Germano II, col. 479 e 481). Cf. V. N. Zlatarski, “Prima Justiniana im Titel des bulgarischen Erzbischofs von Achrida”, in Byzantinische Zeitschrift 30 (1929-1930), pp. 484-489. 22 Cf. il Pittakion del sinodo dei vescovi riuniti ad Arta (1225), edito da V. Vasilievskij in “Epirotika”, in Vizantijskij vremennik 3 (1896), pp. 484-489. 23 In entrambi i casi il patriarcato trasgredç i diritti formali proclamati da Chomatianos, dal momento che sia Pec´ che Trnovo erano localizzate nel territorio dell’arcivescovato di Giustiniana Prima e del precedente patriarcato di Ocrida. Si vedano le proteste di Chomatianos: “La Serbia finisce cosç sotto l’eparchia del trono di Bulgaria” (Lettera a san Sava, in Analecta sacra et classica Spicilegio solesmensi parata, col. 384); “Trnovo, infatti, à parte della nostra eparchia” (Lettera a Germano II, col. 496).
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tianos a favore del suo arcivescovato “bulgaro” di Ocrida). Queste mosse palesano come il patriarcato stesse di fatto abbandonando le politiche ecclesiastiche di stampo centralista ormai impossibili da perseguire nel xiii secolo, e come in questo senso stesse seguendo almeno alcuni dei consigli dati da Chomatianos e dai vescovi “occidentali”, anche se le manovre patriarcali erano dirette contro questi ultimi. Politicamente, le sorti dell’Epiro volsero presto al peggio, e con esse tramontarono anche le rivendicazioni dell’arcivescovo di Ocrida. Da un punto di vista ideologico, perð, le questioni poste da Chomatianos erano reali. La disintegrazione di un oikoumßne governato da un imperatore e un patriarca era ormai irreversibile, e l’approdo a una pluralitÜ di “imperi” e “patriarcati” un processo inevitabile. I vescovi dell’“occidente” (ossia dell’Epiro e della Macedonia), quando espressero retoricamente la loro indignazione per la pronta disponibilitÜ di Nicea a riconoscere titoli imperiali ai latini e ai bulgari ma non a Teodoro Angelo di Tessalonica, riflettono questa nuova ideologia politica. Scrivono infatti: Lasciamo dunque che l’azimita, che riconosce dignitÜ imperiale soltanto a Costantinopoli, colui che à corrotto nella fede, sia chiamato basileþs, e lasciamo pure che Asen lo Scita, che si à impossessato dei Balcani, sia chiamato “altissimo basileþs” a parole e per iscritto, ma colui che ha ricevuto dai suoi avi [ossia Teodoro Angelo] la dignitÜ imperiale e che dunque rivendica giustamente tale titolo, sia invece ignorato24!
In mezzo a questa pluralitÜ di imperi, che di fatto erano stati-nazione, l’“imperatore dei romani” non poteva che esercitare una preminenza di onore ed essere il capo nominale di un “commonwealth”. Poco alla volta egli si abituð a considerare 24 “Epirotika”, p. 292.
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se stesso anzitutto come il capo della nazione greca. A Nicea i termini HellÛs, Hellenßs, Hßllen e anche Graikïs divennero sempre piô frequenti non solo nella stretta cerchia dei piô raffinati umanisti, ma anche nei documenti e nelle storie ufficiali, per designare l’impero “romano” e i suoi abitanti25. Il dotto monaco Niceforo Blemmide, amico influente di Giovanni Vatatzes e tutore di Teodoro II Lascaris, obiettð con fermezza e con successo contro le sanzioni ecclesiastiche ipotizzate contro l’Epiro, partendo dall’ipotesi che l’Epiro avesse lo stesso diritto all’esistenza dello stato niceno26, e scrisse il suo Basilikðs andræas, “Il modello di un imperatore”, istruzione pedagogica indirizzata a Teodoro II, senza alcun rimando all’universalismo imperiale e adducendo esempi tratti anzitutto dalla storia classica e biblica e applicabili a qualsiasi guida nazionale27. Tuttavia, l’idea di un mondo cristiano universale non scomparve nel xiii secolo. A Nicea, e dopo il 1261 nella riconquistata Costantinopoli, suo testimone e propugnatore sarÜ piô il patriarcato che non lo stesso impero. Se il potere amministrativo diretto del patriarca era ormai ridotto, particolarmente nei Balcani (sebbene si estendesse ancora a vaste aree al di lÜ del Danubio e a tutta la Russia!), tuttavia in Serbia, in Bulgaria, a Trebisonda, nell’area caucasica e nel Medio oriente musulmano esso era ancora considerato il centro del mondo ortodosso. All’imperatore continuava a spettare l’ultima parola nella nomina dei patriarchi, ma il patriarcato quale istituzione aveva un maggiore potere morale e un campo d’azione piô vasto rispetto alla cancelleria imperiale. Esso proclamð di frequente la propria responsabilitÜ 25 Su questo sviluppo una buona panoramica delle fonti e della letteratura à disponibile in M. Angold, A Byzantine Government in Exile, pp. 28-33; cf. anche A. Vakalopoulos, Origins of the Greek Nation, Rutgers University, New Brunswick 1970. 26 Niceforo Blemmide, Curriculum vitae et carmina, a cura di A. Heisenberg, Teubner, Leipzig 1896, pp. 45-46. 27 Oratio de regis officiis, PG 142,611-674. La fondamentale monografia su Blemmide à quella di V. I. Barvinok, Nikifor Vlemmid, Petr Barskii, Kiev 1911; altra bibliografia in H.-G. Beck, Kirche und theologische Literatur, pp. 671-673.
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sovranazionale e universale28, e avocð a sß in alcune occasioni il ruolo di difensore ideologico dell’imperatore29. Le conseguenze ideologiche e pratiche di questa situazione sono fondamentali per capire la storia dell’Europa orientale nel xiv e xv secolo, come pure la sopravvivenza di “Bisanzio dopo Bisanzio”.
Crisi nei rapporti con l’occidente latino Le ricerche storiche sull’origine e il significato dello scisma tra Bisanzio e Roma degli ultimi decenni hanno giustamente messo in rilievo le crociate e il sacco di Costantinopoli del 1204 come i momenti culminanti nei quali l’animositÜ nazionale e culturale tra latini e greci rese lo scisma una realtÜ irreversibile. Quel che à certo à che nß la controversia tra il patriarca Fozio e papa Niccolð I – risanata durante il concilio di unione dell’879-88030 – nß l’incidente del 1054 possono essere considerate le vere date dello scisma. Nel 1089, quando l’imperatore Alessio I, interessato a infrangere l’alleanza tra il papato e i normanni, ricevette alcuni legati di Urbano II e consultð il sinodo di Costantinopoli a proposito dello status delle relazioni tra le chiese, negli archivi del patriarcato non venne trovato alcun documento ufficiale riguardante lo scisma, e il patriarca Nicola III 28 Si veda ad esempio la rivendicazione avanzata da Germano II, patriarca niceno (1222-1240), di poter esercitare la propria autoritÜ tra crimei, armeni, georgiani, russi e cristiani di Gerusalemme, nell’articolo di R. Loenertz, “Lettre de Georges Bardanes, mßtropolite de Corcyre, au patriarche oecumßnique Germain II”, in Epeterçs hetareæas byzantinîn spoudîn 33 (1964), pp. 96-97. 29 Si veda ad esempio la lettera del patriarca Antonio citata piô sopra. 30 Relativamente a questo punto, gli studi di F. Dvornik, confermati da V. Grumel e altri, sono sostanzialmente inattaccabili. Cf. F. Dvornik, Lo scisma di Fozio, ma anche le significative tesi di J. Meijer, A Successful Council of Union, nonchß le mie osservazioni sullo stesso argomento: “glises-soeurs: implications ecclßsiologiques du Tomos Agapis”, in Istina 20 (1975), pp. 35-46.
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indirizzð una lettera a Roma in cui offriva il ripristino delle relazioni a condizione che il papa confessasse la fede ortodossa31. Ovviamente, agli occhi dei bizantini, tra le chiese non esisteva alcuno “scisma” formale, ma vi era piuttosto un estrangement che avrebbe potuto essere ricucito con la semplice, seppur ufficiale, rimozione del Filioque dal Credo dei latini. I piô illuminati uomini di chiesa bizantini (Pietro di Antiochia, Teofilatto di Ocrida), concordavano nel ritenere che le questioni liturgiche sollevate da Michele Cerulario (come ad esempio l’uso di pane azimo per l’eucaristia) non fossero realmente importanti. Tuttavia, se consideriamo in modo unitario il periodo tra il 1071 e il 1261, non vi troviamo forse un fattore decisamente ideologico che, in aggiunta ai fattori nazionale e politico legati alle crociate, rendeva ormai la riconciliazione tra le chiese radicalmente piô difficile di quanto non fosse stata in precedenza? Tale nuovo fattore, ovviamente, esisteva davvero, e consisteva nella teoria e nella prassi del papato “riformato” da Gregorio VII e Innocenzo III. Abbiamo giÜ notato come durante il periodo comneno la diplomazia bizantina si fosse resa conto del cambiamento occorso in occidente consistente nelle nuove rivendicazioni politiche del papato; nella misura in cui queste riguardavano soltanto l’occidente latino, essa era pronta a riconciliarsi con tali rivendicazioni. Si potrebbe perfino dedurre che i bizantini preferissero trattare con il papa quale “imperatore de facto dell’occidente”, piuttosto che con il piô aggressivo imperium germanico. La principale difficoltÜ e la fondamentale fonte di incomprensione
31 Si vedano i documenti che si riferiscono a questo episodio in W. Holtzmann, “Unionsverhandlungen zwischen Kaiser Alexis I und Papst Urban II im Jahre 1089”, in Byzantinische Zeitschrift 28 (1928), pp. 38-67; cf. V. Grumel, J. Darrouzàs, Les regestes des actes du patriarchat de Constantinople III, Socii assumptionistae chalcedonenses, Paris 1947, nr. 953, pp. 48-49, e B. Leib, “Les patriarches de Byzance et la politique religieuse d’Alexis Comnàne (1081-1118)”, in Recherches de science religieuse 40 (1951-1952), pp. 214-218.
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risiedevano tuttavia nel fatto che il papato riformato comprendeva il proprio potere come fondato ideologicamente sull’idea della successione petrina della chiesa di Roma, stabilita per decreto divino (e non sulla Donatio Constantini, come i bizantini avrebbero ammesso senza difficoltÜ), e riteneva percið che tale potere non potesse essere limitato geograficamente al solo occidente latino32. Non à tanto compito degli storici quanto piuttosto dei teologi determinare se questo nuovo sviluppo del papato medievale fu un risultato della primitiva struttura cristiana della chiesa, o se la conseguente reazione bizantina fu dettata da un legittimo istinto di conservazione oppure costituç un atto di ribellione scismatica. comunque un dato storico il fatto che nel 1204 “era la prima volta che ai greci veniva offerta la diretta applicazione della teoria papale della supremazia universale di Roma”33. Mai prima di allora il papa aveva confermato un imperatore di Costantinopoli o nominato un patriarca della “nuova Roma”. Innocenzo III, per quanto grande potesse essere stato il trauma morale causatogli dalle imprese dei crociati nella cittÜ, ritenne proprio diritto divino il fatto di poter esercitare il potere di giurisdizione sull’oriente. Le sue opinioni in proposito sono chiare: “[Il papa,] in virtô della sua autoritÜ pontificia, nomina patriarchi, primati, metropoliti e vescovi; in virtô del suo potere regale, nomina senatori, prefetti, giudici e notai”34. Tra questa visione ideologica e quella dei bizantini non si dava naturalmente compatibilitÜ. Le antiche polemiche tra greci e latini presero cosç una nuova direzione, riconoscendo finalmente, do32 Il contrasto fra i termini del Dictatus papae di Gregorio VII e quelle che i bizantini consideravano “normali” relazioni con l’occidente à ben sottolineato da F. Dvornik, Byzance et la primautß romaine, p. 137. 33 D. Nicol, “The Fourth Crusade and the Greek and Latin Empires, 1204-1261”, in The Cambridge Medieval History IV/1, Cambridge University Press, Cambridge 1966, p. 302. 34 Sermo VII in festo S. Silvestri pontificis maximi, citato da A. Fliche, V. Martin, Storia della chiesa, X. La cristianitÜ romana (1198-1274), Saie, Torino 1979, p. 47.
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po secoli di discussione sul Filioque e su questioni disciplinari, il soggiacente problema dell’autoritÜ della chiesa. Oggi in genere gli storici riconoscono che molto presto nella storia del cristianesimo – certamente giÜ nel iv secolo – in oriente e in occidente sorsero tendenze diverse riguardo ai criteri di determinazione delle chiese locali suscettibili di esercitare un primato. L’occidente insisteva sull’idea della fondazione apostolica, che equivaleva in pratica a considerare Roma la sola “sede apostolica” dell’occidente, dal momento che non esiste menzione di nessun’altra chiesa fondata dagli apostoli nel mondo mediterraneo occidentale. In oriente, invece, dove la “fondazione apostolica” poteva essere rivendicata da dozzine di comunitÜ locali (Antiochia, Efeso, Corinto e, certamente, la stessa Gerusalemme), l’adozione dell’“apostolicitÜ” quale criterio per il primato sarebbe risultata insignificante. Il potere effettivo di alcune chiese sulle altre fu quindi determinato dal corso della storia (spesso dall’imperatore) e sancito da decreti conciliari. Tale à certamente l’origine del primato di Costantinopoli, la “nuova Roma”35. Si deve tuttavia rilevare che queste due idee del primato, sebbene durante il primo millennio si siano scontrate di frequente nel corso di numerosi conflitti tra le chiese, non vennero tuttavia mai dibattute per il puro gusto di farlo. Ai vescovi dell’“antica Roma” mancava chiaramente il potere per imporre la loro opinione sugli orientali, mentre i bizantini parevano ignorare le vere implicazioni dell’“idea petrina”, visto che spesso la usavano in modo retorico nei loro rapporti con il vescovo di Roma quando era loro interesse farlo. Nel 1204, la cosa si affermð con una violenza catastrofica e deplorevole. stato assodato come sia quell’anno a segnare il 35 Risalente al concilio di Costantinopoli del 381, convocato da Teodosio I. La migliore descrizione dell’opposizione tra il criterio “apostolico” del primato e l’idea bizantina dell’empirico “accomodamento” à reperibile in F. Dvornik, The Idea of Apostolicity; cf. Id., Byzance et la primautß romaine, pp. 27-55, nonchß il mio libro Orthodoxy and Catholicity, Sheed & Ward, New York 1966, pp. 49-78.
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vero inizio, da parte dei polemisti bizantini, della diretta messa in discussione del primato romano36. In realtÜ, discussioni sul primato avevano avuto luogo nel xii secolo, giÜ nel 1112, in occasione della visita a Costantinopoli di Pietro Grossolano, arcivescovo di Milano, e in una serie di occasioni seguite a quell’incontro37. ovvio, tuttavia, che prima dell’emergere del papato riformato nel tardo secolo xi e prima che gli eventi del 1204 facessero precipitare il dibattito in maniera ancor piô drammatica, le due parti non avevano mai avuto un confronto diretto ed esplicito sulla questione. E dato che tali eventi, in particolare la nomina di un patriarca latino e l’insediamento di una gerarchia latina negli stati conquistati dai crociati, erano giustificati secondo Roma dai poteri conferiti per diritto divino al papa in quanto successore di Pietro, era inevitabile che il dibattito avrebbe finito per vertere su questa base teologica addotta dai latini. Non possiamo qui discutere in dettaglio gli argomenti esegetici, ecclesiologici e canonici addotti dai polemisti greci. Non tutti sono naturalmente di uguale valore e pertinenza. comunque degno di nota il fatto che il principale accento della polemica bizantina non fosse diretto contro l’idea del primato dell’apostolo Pietro in seno al collegio degli apostoli di Gesô, di cui narra il Nuovo Testamento, bensç contro l’idea latina della successione di Pietro nella sola Roma, la quale, naturalmente, non ha alcun fondamento scritturistico. I bizantini ritengono che la successione petrina sia presente in ogni chiesa locale che confessa la fede di Pietro. Scrive Nicola Mesarites nel 1206: Voi cercate di presentare Pietro come maestro della sola Roma, mentre i divini padri parlarono della promessa fattagli
36 Cf. il mio articolo “San Pietro, il suo primato e la sua successione nella teologia bizantina”. 37 J. Darrouzàs, “Les documents byzantins du xiie siàcle sur la primautß romaine”, in Revue des ßtudes byzantines 23 (1965), pp. 42-88.
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dal Salvatore come di una promessa dotata di un significato cattolico e riferita a tutti coloro che hanno creduto e credono. Ascrivendo tale promessa alla sola Roma, voi vi costringete a un’interpretazione limitata e falsa. Se cið fosse vero, sarebbe impossibile a ogni chiesa cristiana, e non soltanto a quella di Roma, possedere rettamente il Salvatore, e a ogni chiesa di essere fondata sulla Roccia, ossia sulla dottrina di Pietro, conformemente alla promessa38.
Questa idea della successione di Pietro in ogni chiesa implica naturalmente che se una chiesa viene elevata in onore e potere cið non dipende da Pietro, ma dalle circostanze storiche, e Roma non costituisce un’eccezione. Significativamente, la crisi del 1204 e le sue conseguenze non chiusero tutte le porte al dialogo sul primato romano tra greci e latini. Sebbene molte polemiche siano da quel momento in poi caratterizzate da acredine e animositÜ nazionalistiche, vi furono anche occasioni in cui gli uomini di chiesa bizantini accettarono di parlare di una successione petrina, condizionata dal ripristino della fede di Pietro (da cui il continuo ritorno alla questione del Filioque, che i bizantini ritenevano un’alterazione della “fede di Pietro”) e localizzata a Roma attraverso il consenso della tradizione ecclesiale piô che per decreto divino. Tale consenso, dice Simeone di Tessalonica nel xv secolo, puð essere restaurato se prima verrÜ ristabilita l’unitÜ della fede39.
38 “Neue Quellen zur Geschichte des lateinischen Kaisertums und der Kirchenunion, II. Die Unionverhandlungen 30. Aug. 1206”, in Bayerische Akademie der Wissenschaften, Philos.-Philolog. und Hist. Klasse, Abhandlungen (1923), pp. 34-35; cf. molti altri testi analoghi nel nostro studio “San Pietro, il suo primato e la sua successione nella teologia bizantina”. Forse la critica piô acuta e articolata dell’opinione latina secondo la quale il vescovo di Roma ha l’esclusivo privilegio di essere il successore di Pietro, si trova nelle lettere del patriarca Giovanni Camatero a papa Innocenzo III, che furono scritte prima della conquista di Costantinopoli, nel 1200; il testo originale delle lettere à stato edito da A. Papadakis, A. M. Talbot, “John X Camaterus Confronts Innocent III. An Unpublished Correspondence”, in Byzantinoslavica 33 (1972), pp. 26-41. 39 Dialogus contra haereses 29, PG 155,120-121.
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Conclusioni Una panoramica esauriente della vita intellettuale nell’impero bizantino tra il 1071 e il 1261 avrebbe dovuto coprire le questioni dibattute e risolte durante il periodo in questione, soprattutto quelle incluse nel Synïdikon dell’ortodossia40. Negli ultimissimi anni ha avuto luogo un’abbondante pubblicazione di testi e studi analitici riguardanti queste tematiche. Esse comprendono: 1) la costante preoccupazione delle autoritÜ civili ed ecclesiastiche bizantine di fronte ai movimenti spiritualisti ed “entusiastici”, definiti con il nome di “messaliani”, “bogomili” o addirittura “pauliciani”, le cui dottrine e i cui atteggiamenti sono talvolta pressochß impossibili da distinguere rispetto ad analoghi fenomeni emersi in alcune cerchie mistiche del monachesimo ortodosso41; 2) il continuo dibattito sulle questioni cristologiche e gli argomenti ad esse correlati, quali la “divinizzazione” dell’uomo e i suoi fondamenti nella vita liturgica e sacramentale della chiesa, dibattito emerso per esempio nella condanna ad opera del sinodo di Costantinopoli di Eustrazio di Nicea, Soterico Panteughenos, Costantino di Corfô e Giovanni Eirenikos42; 40 Questo fondamentale documento riguardante la vita ecclesiale e intellettuale di Bisanzio à ora disponibile in un’edizione critica corredata da un eccellente commento a cura di J. Gouillard, “Le Synodikon de l’orthodoxie”, pp. 1-316. 41 Sulla questione si veda la recente e accurata monografia curata da M. Loos, Dualist Heresy in the Middle Ages, Akademia, Praha 1974, nella quale à riportata la bibliografia ad essa precedente. Cf. in particolare J. Gouillard, “L’hßrßsie dans l’empire byzantin des origines au xiie siàcle”, in Travaux et mßmoires 1 (1965), pp. 312-324; D. Angelov, Il bogomilismo, un’eresia medievale bulgara, Bulzoni, Roma 1979; N. Garsoian, “Byzantine Heresy. A Reinterpretation”, in Dumbarton Oaks Papers 25 (1971), pp. 85-113; Id., “L’abjuration du moine Nil de Calabre”, in Byzantinoslavica 34 (1974), pp. 12-26; tra i lavori piô datati, S. Runciman, The Medieval Manichee. A Study of the Christian Dualist Heresy, Cambridge University Press, Cambridge 1947, e D. Obolensky, The Bogomils. A Study in Balkan Neo-manichaeism, Cambridge University Press, Cambridge 1948. 42 Su questi dibattiti, si veda in particolare J. Gouillard, “Le Synodikon de l’orthodoxie”, e anche il mio studio Cristologia ortodossa, pp. 225-242.
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3) l’altrettanto incessante dibattito sul valore dell’antica filosofia greca, in particolare del platonismo, per il pensiero cristiano. I processi a Giovanni Italo (1076-1077, 1082), successore di Michele Psello quale h÷patos tîn philosïphon (che si risolsero con la dura condanna del platonismo), inclusi nel Synïdikon dell’ortodossia, costituirono il vertice di una polarizzazione che vedeva contrapposti i dotti umanisti agli ecclesiastici conservatori43. L’atteggiamento negativo verso la filosofia greca, implicitamente contenuto in una simile decisione, à in netto contrasto con il rinnovamento degli studi filosofici che segnarono in occidente l’inizio del grande periodo della scolastica. Il cristianesimo bizantino non era disposto ad accettare una nuova sintesi tra la filosofia e la fede oltre a quella realizzata dai padri del iv-vii secolo. Si attende un’ulteriore discussione di questi temi. In questa sede mi limito a menzionarli in maniera sommaria, perchß lo studio delle principali crisi che attraversarono la visione ideologica bizantina – in particolare la crisi dell’ideologia imperiale e l’acuto confronto con l’occidente latino – vanno esaminate sullo sfondo piô generale della visione intellettuale bizantina. degno di nota il fatto che le tre questioni testß menzionate – lo spiritualismo “messaliano”, la questione cristologica e la visione cristiana dell’ellenismo – riflettevano dibattiti che avevano avuto inizio giÜ nel iv secolo. Qualunque fosse il suo approccio alle realtÜ dei secoli xii e xiii, Bisanzio rimase anche la personificazione della permanenza del proprio passato e della sua continuitÜ.
43 Bibliografia e commento in J. Gouillard, “Le Synodikon de l’orthodoxie”, pp. 188-202.
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V LA TEOLOGIA NEL XIII SECOLO. CONTRASTI METODOLOGICI
Il sacco di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204 e l’invasione mongola dell’Europa orientale furono eventi catastrofici che misero in forse l’esistenza stessa del cristianesimo orientale quale entitÜ sociale e culturale. Esso sopravvisse, nondimeno, preservando per di piô una ragguardevole continuitÜ teologica. Lo stesso secolo xiii vide emergere nell’occidente latino un nuovo e dinamico quadro per la creativitÜ intellettuale, nelle universitÜ e negli ordini religiosi, che cambið radicalmente il modo di “fare” teologia presso i latini. Nel contesto di quel periodo, lo stesso termine “teologia” richiede una spiegazione. Nella societÜ bizantina – come pure nel primo medioevo occidentale – concetti teologici, convinzioni e credenze erano praticamente presenti in tutti gli aspetti della vita sociale o individuale. Non erano utilizzati soltanto nei sinodi episcopali o nei dibattiti polemici tra rappresentanti di chiese divise, nß erano meramente racchiusi in trattati, omelie, antologie e collezioni patristiche. Venivano piuttosto ascoltati e cantati quotidianamente, perfino dagli illetterati, nell’innografia della chiesa. Era inevitabile ritrovarli anche nelle questioni politiche, che si basavano su una visione religiosa della regalitÜ. Per limitarci al xiii secolo, à sufficiente ricordare il dibattito sull’uso del santo crisma (m÷ron) nell’unzione degli imperatori, e quindi sulla natura e il significato del crisma stesso, che vide 99
protagonista Demetrio Chomatianos in occasione dell’incoronazione di Teodoro Lascaris a Nicea (1208)1. Presupposti teologici erano a dire il vero implicati anche in realtÜ economiche e sociali, come dimostrano ad esempio l’atteggiamento della chiesa nei confronti dell’usura, o le richieste connesse con il matrimonio, o il fondamento religioso della regolamentazione delle proprietÜ ecclesiastiche, o, ancora, la matrice teologica delle varie forme dell’arte e dell’iconografia. quindi molto difficile dare una definizione realmente precisa e chiaramente delimitata del termine “teologia” nel contesto bizantino o in quello del primo medioevo occidentale. Tuttavia, proprio nel xiii secolo, tra l’occidente latino e il nuovo oriente greco (e slavo) si venne a determinare una divaricazione istituzionale, sociale e concettuale. La prima parte di questo capitolo mira a far emergere questo nuovo contrasto. Le due sezioni successive, invece, affronteranno brevemente il confronto teologico tra oriente e occidente nel xiii secolo e il nuovo emergere di una teologia “monastica” nel mondo bizantino.
L’occidente: universitÜ e ordini religiosi Una breve di papa Innocenzo III, emanata intorno al 1211, diede uno status legale e canonico allo Studium parisiense, corporazione di maestri e studenti che a Parigi impartivano e ricevevano lezioni sotto gli auspici della cattedrale o del monastero di Sainte-Geneviàve. La breve stipulava che un “prefetto” della nuova universitÜ l’avrebbe rappresentata alla corte papale. Nel 1 Cf. su questo tema A. Karpozilos, The Ecclesiastical Controversy, oltre al capitolo precedente della presente raccolta.
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1215 un legato pontificio, Robert de Courson, approvð gli statuti dell’universitÜ. Sebbene anche il re Filippo Augusto riconoscesse la nuova istituzione, fu il decreto papale a darle una valenza universale. L’“universalitÜ” nel mondo latino del xiii secolo era tuttavia un concetto relativo. In ogni caso, la visione universale dell’occidente era definita senza alcun riferimento alla tradizione dell’oriente. Essa era dominata dall’interesse della chiesa latina per l’integritÜ della propria tradizione, che non era sfidata dai greci quanto piuttosto da un flusso di idee veramente rivoluzionarie che stavano emergendo dalla traduzione di Aristotele dall’arabo in latino, e dall’introduzione – insieme a questa traduzione – della filosofia araba radicata nel neoplatonismo. Per usare un’espressione di tienne Gilson: “Lo Studium parisiense à una forza spirituale e morale il cui significato piô profondo non à nß parigino nß francese, ma cristiano ed ecclesiale. Divenne un elemento della chiesa universale esattamente come il clero e l’impero”2. L’espansione incredibile delle conoscenze e della metodologia contenute nelle idee e nei testi resi da poco disponibili non fu affrontata, nel cristianesimo latino, con i vecchi modelli e le forme ereditate dalla tarda antichitÜ, bensç attraverso la creazione di nuovi strumenti e nuove istituzioni, generando nuove forme di pensiero e di creativitÜ intellettuale, che dovevano tuttavia essere dirette e controllate dal magisterium della chiesa. Questa nuova iniziativa all’insegna della creativitÜ, destinata ad avere una cosç fondamentale importanza per lo sviluppo dell’Europa moderna, pose lo Studium allo stesso livello del Sacerdotium e dell’Imperium. Secondo il cronista francescano Giordano di Giano, le tre istituzioni furono come le fondamenta, i muri e il tetto di un unico edificio – la chiesa cattolica –, che 2 . Gilson, La filosofia nel medioevo: dalle origini patristiche alla fine del xiv secolo, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 476.
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senza la loro cooperazione non avrebbe potuto configurarsi in modo corretto nß avere un adeguato sviluppo3. Sebbene le due universitÜ inglesi create pochi decenni piô tardi a Oxford e Cambridge fossero meno strettamente legate al magisterium romano, esse riflettevano la stessa tendenza di base alla sistematizzazione e al professionalismo. Le conseguenze, per la stessa natura della teologia, furono radicali: essa divenne una scienza – la piô alta di tutte, naturalmente – nei confronti della quale le altre discipline, comprese la filosofia e le scienze naturali, dovevano fungere da ancelle. Era insegnata da professionisti dotati di licenza in una specifica facoltÜ, la facoltÜ di teologia, il cui insegnamento veniva supervisionato, su base regolare, dal magisterium della chiesa. Tale supervisione era diretta e concreta. Nel 1215, il legato papale Robert de Courson proibç a Parigi l’insegnamento della fisica e della metafisica. Nel 1228, papa Gregorio IX ricordð alla facoltÜ che la teologia doveva dirigere le altre scienze, come lo spirito dirige la carne, e nel 1231 ammonç i maestri di teologia a “non tentare di apparire come dei filosofi”4. Cið nonostante, anche se queste ammonizioni papali chiarirono l’esigenza che lo Studium agisse in accordo con il Sacerdotium, il principale risultato del lavoro delle universitÜ fu una nuova sintesi creativa, nota come scolastica ed esemplificata nel modo migliore dall’opera di Tommaso d’Aquino: una sintesi tra rivelazione cristiana e filosofia greca, chiaramente distinta sia dall’ereditÜ platonica di Agostino, sia dall’ereditÜ greca di Origene e dei padri cappadoci del iv secolo, che erano ritenute il principale criterio di ortodossia in oriente. Un altro fattore decisivo che accrebbe lo sviluppo della teologia come professione fu il sorgere degli ordini religiosi, istituzione anch’essa sconosciuta in oriente e il cui ruolo nell’istru3 Citato da . Gilson, ibid. 4 Cf. i testi citati in . Gilson, ibid., pp. 477-478.
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zione e nello sviluppo delle scuole teologiche sarÜ straordinario. Nel 1216 papa Onorio III sancç formalmente l’esistenza dell’ordine dei predicatori – i “domenicani” –, che rese a tal punto obbligatorio lo studio della teologia per i propri membri che sette di loro, in quello stesso anno, partirono alla volta di Parigi. Mezzo secolo piô tardi la teologia di un grande domenicano – Tommaso, per l’appunto – avrebbe dominato il mondo latino. Anche l’ordine di Francesco, sotto il suo “secondo fondatore”, Bonaventura (1217-1274), divenne tra i principali promotori degli studi teologici. Perfino i cistercensi seguiranno l’orientamento generale stabilendo case di studio a Parigi e a Oxford, dove priori sia domenicani che francescani avevano ottenuto il quasi totale monopolio nell’insegnamento della teologia. Un simile professionalismo scolastico – un monopolio clericale della cultura latina – fu pressochß estraneo ai bizantini. In oriente, non soltanto chierici e monaci, ma anche laici – compresi imperatori e funzionari dello stato – potevano dedicarsi alla teologia e pubblicare trattati. Non esistevano scuole teologiche organizzate. La teologia era considerata la forma piô alta di conoscenza, ma non al pari di una “scienza” tra le altre che potesse essere appresa a scuola. La scuola patriarcale di Costantinopoli non si sviluppð mai nel senso di un focolaio di nuove idee teologiche. Essa forniva in primo luogo amministratori ecclesiastici e canonisti5. Nel xii secolo, nella capitale bizantina avevano avuto luogo dibattiti molto sofisticati ai quali avevano preso parte Eustrazio di Nicea (1117), Soterico Panteughenos (1155-1156), Costantino di Corfô e Giovanni Eirenikos (1167-1170), ma tali dibattiti non furono che le conseguenze delle antiche controversie cristologiche, riguardanti i dialoghi con gli armeni6: nulla di realmente inerente ai problemi del mo5 Cf. R. Browning, “The Patriarchal School”. 6 Il miglior studio recente a proposito di questi dibattiti, i cui risultati vennero conservati nel Synïdikon dell’ortodossia, à J. Gouillard, “Le Synodikon de l’orthodoxie”.
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mento. I giganteschi sviluppi intellettuali prodottisi in occidente sembrarono semplicemente ignorare Bisanzio. Nel 1347, dopo tutti gli eventi del xiii secolo, l’aristocratico bizantino Demetrio Cidone à sorpreso quando scopre che i latini “mostrano grande sete di avanzare in quei labirinti di Aristotele e Platone, per i quali il nostro popolo non ha mai mostrato interesse”7. Se si considerano le biografie dei due principali teologi greci del xiii secolo, Niceforo Blemmide e Gregorio di Cipro, che furono direttamente coinvolti con i latini, si scopre che nessuno dei due ricevette una formazione teologica sistematica, paragonabile a quella che la nascita della scolastica stava rendendo disponibile alla loro controparte latina. Entrambi erano uomini alquanto dotti, ma la loro istruzione era stata acquisita con metodi identici a quelli usati sin dalla tarda antichitÜ in diversi luoghi e sotto singoli maestri. La teologia, in quanto disciplina formale, non à nemmeno menzionata nel curriculum seguito da Blemmide sotto un certo Monasteriotes a Brusa, sotto numerosi maestri non meglio identificati a Nicea, sotto Demetrio Karykes (che fu formalmente investito del prestigioso titolo di h÷patos tîn philosïphon a Smirne), sotto il proprio padre (con il quale studið medicina) e sotto un certo Prodromos in una piccola cittÜ sul fiume Skamandron. Alla corte dell’imperatore Giovanni Vatatzes a Nymphaeum vennero messe alla prova le sue capacitÜ retoriche, prima che egli entrasse in un monastero dove infine, per conto proprio, si dedicð allo studio della Scrittura e degli scritti dei padri8. Gregorio di Cipro, poi patriarca 7 Apologia I, in G. Mercati, Notizie di Procoro e Demetrio Cidone, Manuele Caleca e Tedoro Meliteniota ed altri appunti per la storia e la letteratura bizantina del secolo xiv, Biblioteca apostolica vaticana, CittÜ del Vaticano 1931, p. 366; cf. anche F. Kianka, “The Apology of Demetrius Cydones”, in Byzantine Studies 8 (1980), pp. 57-71. 8 Cf. Niceforo Blemmide, Autobiographia sive curriculum vitae necnon Epistula universalior, a cura di J. A. Munitiz, Brepols, Turnhout 1984, pp. 4-15. A proposito degli studi secolari nell’impero niceno, si veda in particolare M. A. Andreeva, Ocˇerki po kul’ture vizantijskogo dvora v xiii veke, Kr. Cˇeska Spol. Nauk, Praha 1927, nonchß M. Angold, A Byzantine Government in Exile, pp. 174-181.
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di Costantinopoli, nella sua Autobiografia9, non menziona affatto la formazione teologica, bensç riferisce di una certa istruzione elementare in una scuola latina sotto l’arcivescovo latino di Nicosia, seguita da un vagabondare alla ricerca di conoscenza, che infine acquisç soprattutto sotto l’umanista Giorgio Acropolita a Costantinopoli (1267-1274). Ai migliori teologi bizantini dell’epoca non mancarono la sofisticatezza e le informazioni di base sulla filosofia greca e sulla tradizione teologica dei padri. Tuttavia, incontrando i loro colleghi latini, laureati presso le universitÜ occidentali, si scontrarono non solo con professionismo e abilitÜ argomentative senza precedenti nel cristianesimo, ma anche con un senso di autosufficienza accademica e culturale che sovente li sconcertð, mettendoli ancor di piô sulle difensive nei riguardi del cristianesimo latino. Fino alla seconda metÜ del xiv secolo non venne fatto alcun reale tentativo da parte di nessun teologo greco di apprendere l’autentica sostanza della teologia e dei metodi intellettuali latini. La traduzione greca del De Trinitate di Agostino da parte di Massimo Planude († 1310) rimase il lavoro di un isolato umanista, la cui opera non venne quasi mai usata dai teologi bizantini10.
Incontri teologici L’instaurazione nel 1204 dell’impero latino a Costantinopoli e dei diversi principati latini in oriente, come pure l’espansione 9 La tradition manuscrite de la correspondance de Grßgoire de Chypre patriarche de Constantinople (1283-1289), a cura di W. Lameere, Insititut historique belge de Rome, Bruxelles 1937, pp. 176-191. 10 Si à ipotizzato che le “immagini psicologiche” agostiniane della TrinitÜ, apprese dalle traduzioni di Planude, abbiano ispirato un passo dei Capita di Gregorio Palamas. Ma il parallelismo à piuttosto superficiale (cf. M. E. Hussey, “The Palamite Trinitarian Models”, in St. Vladimir’s Theological Quarterly 16 [1972], pp. 83-89).
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dell’impero mercantile delle repubbliche marinare italiane, non facilitarono i dialoghi intellettuali fraterni tra greci e latini11. Gli intellettuali greci che disponevano di capacitÜ teologiche se ne andarono alla volta di Nicea o dell’Epiro. Il clero che rimase sotto l’occupazione latina lottð per il mantenimento della propria identitÜ ortodossa. Obbligato a impegnarsi in varie forme di compromessi istituzionali o canonici12, non era pronto per il dialogo o la competizione accademica. L’evento senza precedenti dell’insediamento di un patriarca latino, il veneziano Tommaso Morosini, in Santa Sofia, formalmente confermato da Innocenzo III, provocð una rinnovata e piô articolata polemica greca contro l’interpretazione latina del primato “petrino”13. Ma il problema trinitario connesso all’aggiunta latina del Filioque al Credo niceno-costantinopolitano rimaneva ancora, come in passato, il nucleo di tutti i dibattiti teologici, che avrebbero continuato ad aver luogo all’interno e all’esterno dei confini dell’impero latino. Naturalmente, à impossibile prendere qui in esame tutti questi incontri ed episodi14. Ci limitiamo ai tre piô importanti: 11 Sul periodo, cf. K. M. Setton, The Papacy and the Levant (1204-1571) I, The American Philosophical Society, Philadelphia 1976. 12 Cf. per esempio le dispute di Nicola Masarites a Costantinopoli nel 1206 (A. Heisenberg, “Aus der Geschichte und Literatur der Palaiologenzeit”, in Sitzungsberichte der bayerischen Akademie der Wissenschaften, Philos. und Hist. Klasse 5 [1922], ripubblicato a Londra nel 1973), e una curiosa lettera del clero greco di Costantinopoli a Innocenzo III, che accetta di commemorare il papa come guida secolare, ma non come autoritÜ ecclesiastica (PG 140,297C; cf. P. L’Huillier, “La nature des relations ecclßsiastiques grßco-latines”, pp. 317-318). 13 Cf. il mio articolo, “San Pietro, il suo primato e la sua successione nella teologia bizantina”. 14 Per la bibliografia di base, cf. V. I. Barvinok, Nikofor Vlemmid i ego socˇinenija, Tip. Petr Barskij, Kiev 1922: uno studio molto serio che merita una ripubblicazione; I. E. Troitsky, “K istorii spora ob ischo°denij Sv. Ducha”, in Kristianskoe cˇtenie 1 (1889), pp. 338-377, 581-605; 2 (1889), pp. 280-352, 520-570; D. J. Geanakoplos, Emperor Michael Palaeologus and the West, 1258-1282. A Study in Byzantine-Latin Relations, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1959; J. Gill, Byzantium and the Papacy, 1198-1400, Rutgers University, New Brunswick 1979; A. Papadakis, Crisis in Byzantium. The Filioque Controversy in the Patriarchate of Gregory II of Cyprus (1283-1289), Fordham University, New York 1983; numerosi articoli di D. M. Nicol pubblicati in Byzantium. Its Ecclesiastical History and Relations with the Western World, Variorum, London 1986.
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1) gli incontri a Nicea e a Nymphaeum nel 1234, che testimoniarono un primo approccio tra i greci e la nuova generazione di teologi “scolastici” latini; 2) l’incontro a Nicea tra un legato di Innocenzo IV, il francescano Giovanni di Parma, e Niceforo Blemmide; 3) gli eventi legati al concilio di Lione (1274). Durante il concilio vero e proprio non ebbe luogo alcun dibattito teologico, ma il decreto formale di unione fu seguito da una prolungata crisi all’interno della chiesa bizantina, che si concluse con una decisione conciliare che definiva la posizione della chiesa bizantina sul tema del Filioque. I dibattiti del 1234 presero origine dalla corrispondenza tra papa Gregorio IX e il patriarca Germano II. Il papa nominð due domenicani e due francescani come portavoce della chiesa latina, mentre la parte greca venne rappresentata dal patriarca stesso. Di fatto, i portavoce del punto di vista greco furono due laici: Demetrio Karykes (il “console dei filosofi”) e il giovane Niceforo Blemmide. L’imperatore Giovanni Vatatzes presiedeva. Nel corso di piô di quattro mesi15 i dibattiti riguardarono il tema del Filioque e, per l’insistenza dei greci, l’uso del pane non lievitato nell’eucaristia dei latini. Nelle discussioni con i frati, il primo portavoce greco, Karykes, rimase totalmente confuso, ma un documento scritto sottoposto da Blemmide dimostrð l’inconciliabilitÜ delle due rispettive posizioni. Anche i dibattiti a Nicea tra Giovanni di Parma e i greci (1250), come riferisce il principale partecipante greco, lo stesso Niceforo Blemmide – divenuto nel frattempo ieromonaco – non portarono ad alcun accordo, ma concentrarono la discussione sui testi patristici greci che descrivevano lo Spirito santo come “operante attraverso il Figlio (di’hyioý)”. I latini usarono testi di questo tipo per avallare la loro posizione. Operante “attraverso 15 Il rapporto dei frati al papa à stato pubblicato da G. Golubovic in Archivium franciscanum historicum 12 (1919), pp. 428-465; cf. un’edizione piô antica in G. D. Mansi, Collectio conciliorum XXIII,279-320D.
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il Figlio”, dicevano, à lo stesso che procedente “attraverso il Figlio”, perchß “attraverso”, in questo contesto, ha lo stesso significato di “da”. Nelle sue repliche pubbliche ai teologi latini, Blemmide tentð di dimostrare che il problema non stava nel trovare sinonimi accomodanti, bensç nel preservare le caratteristiche ipostatiche o personali di ciascuna persona divina. Di fatto, come molti studiosi oggi possono condividere16, il vero tema soggiacente ai dibattiti sul Filioque era la reale differenza tra la visione latina – agostiniana – della TrinitÜ quale singola essenza dotata di caratteri personali intesi come rapporti, e lo schema greco ereditato dai padri cappadoci, i quali consideravano la singola essenza divina come totalmente trascendente e le Persone divine, o hypostÛseis – ognuna con caratteristiche uniche e immutabili – come rivelanti in se stesse la tripersonale vita divina. I greci non avrebbero compreso l’argomentazione latina che affermava: il Padre e il Figlio sono un’unica essenza; quindi sono l’unica fonte dello Spirito, il quale procede “da entrambi” (a Patre Filioque). Blemmide rimase fedele allo schema trinitario greco. Tuttavia, dopo i suoi colloqui con i latini nel 1234 e nel 1250, si dedicð fermamente alla causa dell’unitÜ della chiesa e difese l’idea che l’immagine della processione dello Spirito “attraverso il Figlio” potesse servire da ponte fra le due teologie. In due brevi trattati, indirizzati rispettivamente a un amico, Giacobbe arcivescovo di Ocrida, e all’imperatore Teodoro II Lascaris (che da lui era stato istruito e per il quale scrisse anche un libro intitolato Basilikðs andræas, “Il modello di un imperatore”), Blemmide raccolse testi patristici che impiegavano la formula “attra16 “La filosofia latina considera la natura in sß e procede all’agente; la filosofia greca considera prima l’agente e passa attraverso di lui per trovare la natura. I latini pensano la personalitÜ come un modo della natura; i greci pensano la natura come il contenuto della persona” (Th. de Rßgnon, tudes de thßologie positive sur la Sainte Trinitß, p. 433); cf. anche J. Meyendorff, La teologia bizantina, pp. 218-230.
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verso il Figlio” e attaccð quei greci che, a motivo del loro zelo antilatino, si rifiutavano di darle sufficiente importanza17. In generale, e giÜ con Fozio, la posizione greca consisteva nel distinguere tra la processione eterna del Figlio dal Padre, e l’invio nel tempo dello Spirito attraverso il Figlio e per mezzo del Figlio. Tale distinzione tra la processione eterna e le manifestazioni temporali era tra i bizantini la spiegazione consueta dei numerosi passi del Nuovo Testamento nei quali Cristo à descritto come colui “che dona” e “che invia” lo Spirito, e in cui lo Spirito à detto “Spirito del Figlio”. Nelle sue lettere all’arcivescovo Giacobbe e all’imperatore Teodoro Lascaris, tuttavia, Blemmide evitð intenzionalmente la distinzione tra eternitÜ e tempo: la formula patristica “attraverso il Figlio” rifletteva sia i rapporti eterni tra le Persone divine sia i livelli dell’“economia divina” nel tempo. Con il suo approccio Blemmide sperava di soddisfare entrambe le parti: “I nostri tempi ci chiedono di chiamare molte persone alla concordia in Cristo”, scrive18. In tal modo egli metteva in discussione l’ostinato difensivismo dei polemisti bizantini, i quali si appellavano all’opposizione tra l’“eterno” e il “temporale” nei rapporti trinitari. La venuta dello Spirito attraverso Cristo non era forse una manifestazione della vita eterna di Dio? E in tal modo non manifestava quindi gli eterni rapporti 17 De processione S. Spiritus oratio I, PG 142,553-565; De processione S. Spiritus oratio II, PG 142,565-584. I trattati erano rapporti privati, non destinati a vasta circolazione. Secondo Niceforo Gregoras, egli li scrisse “segretamente” (lÛthra: Byzantina hist. 5,6, PG 148,269A). La vita e il pensiero di Blemmide sono stati controversi durante la sua esistenza terrena, nel corso della generazione successiva (Pachymeres, Gregoras), e infine tra gli storici delle epoche posteriori alla sua. L. Allatius riteneva che egli fosse un cripto-latino (cf. De ecclesiae occidentalis abque orientali perpetua consensione, apud Jodocum Kolcovium, Coloniae 1648, pp. 712 ss.). E. Voulgaris (“AnÛkrisis perç Nikephïrou toý Blemmædou”, in Iosàph Bryennæou tÜ Paraleipïmena III, Leipzig 1784, pp. 307-400) e A. Dimitrakopoulos (Ekklesiastikà Bibliothàke I, Bigandos, Leipzig 1866, pp. 25-34) lo vedevano come un leale ortodosso. Per giudizi moderni sui suoi trattati a Giacobbe e all’imperatore Teodoro, si veda V. I. Barvinok, Nikofor Vlemmid, pp. 109-145 e J. Gill, Byzantium, pp. 152-157. 18 De processione S. Spiritus oratio I, PG 142,560B.
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tra le Persone divine? Ma allora – alcuni suoi lettori avrebbero potuto chiedergli –, non avevano ragione i latini nel parlare di processione eterna dello Spirito dal Padre e dal Figlio? Blemmide rimase sempre fedele alla visione patristica greca dei rapporti personali nella TrinitÜ19. Ma la sua era una mente in ricerca, a cui piaceva affrontare qualche rischio. Tuttavia non ebbe mai nß il tempo nß l’opportunitÜ di trarre tutte le conclusioni della sua ricerca. Altri l’avrebbero fatto, ma in direzioni diverse. Nel 1274, l’imperatore Michele VIII Paleologo firmð una confessione di fede redatta, in piena conformitÜ con la teologia latina, da quattro frati domenicani inviati espressamente a Costantinopoli da papa Gregorio X. La firma, posta anticipatamente, rese l’imperatore eleggibile per partecipare, tramite delegati, al concilio ecumenico di Lione, dove, senza ulteriori discussioni, fu proclamata un’unione tra le chiese. Sfortunatamente la confessione, sotto l’ovvia influenza del nuovo approccio sistematico alla teologia invalso nella scolastica occidentale, comprendeva anche un nuovo elemento che formalmente non era mai stato dibattuto in precedenza tra oriente e occidente: la dottrina latina del purgatorio20. Il tema rimarrÜ in agenda fino al concilio di Firenze. Non à ovviamente possibile trattare in questa sede di tutti i partecipanti e dei vari dibattiti stimolati a Bisanzio dall’unione 19 Lo espresse con vigore nel suo trattato Sulla fede (Perç pæsteos), una sorta di testamento lasciato alla sua comunitÜ monastica prima di morire (PG 142,585-605). Sembra decisamente inutile supporre che egli “modificð le sue opinioni certamente una volta, forse due” ( J. Gill, Byzantium and the Papacy, p. 152). 20 Il testo della confessione à reperibile in H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum, a cura di P. Hünermann, Edb, Bologna 1995, pp. 486-488, nrr. 851-861. Sembra che la prima menzione del purgatorio come problema ecumenico apparve nel 1235-1236, quando un francescano, fra’ Bartolomeo, comincið a interrogare su questo tema un ambasciatore greco, il metropolita di Corfô, Giorgio Bardane, a Orvieto (cf. M. Roncaglia, Georges Bardanàs mßtropolite de Corfou et Barthßlemy de l’ordre franciscain, Tipografia “S. Nilo”, Roma 1953; si veda anche J. M. Hoeck, R. J. Loenertz, Nikolaos-Nektarios von Otranto, Abt Casole, Buch-Kunstverlag, Ettal 1965, p. 155).
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di Lione. Disponiamo di un’abbondante letteratura secondaria al riguardo21. Desidero solamente evidenziare un fatto: la divergenza decisiva tra i due principali protagonisti greci – Giovanni Beccos e Gregorio di Cipro – era basata sulle opinioni espresse da Niceforo Blemmide, dalle quali essi trassero conclusioni differenti. Beccos, a seguito della lettura di Blemmide22, si convinse che la formula “attraverso il Figlio”, giacchß designava la processione eterna dello Spirito, giustificava pienamente il Filioque latino. Promosso al patriarcato da Michele VIII, egli divenne il grande difensore del decreto di Lione. Gregorio di Cipro, successore ortodosso di Beccos e antico partigiano dell’unione, nonchß a sua volta un indubbio lettore di Blemmide, accettð l’idea di quest’ultimo secondo cui la formula “attraverso il Figlio” rifletteva l’eterna vita divina, ma tuttavia rifiutð di seguire Beccos nel campo latino; la sua resistenza alla concezione latina della TrinitÜ si basava sulla distinzione tra la natura di Dio e i suoi charæsmata o l’“eterna manifestazione (ßkphansis aædios)”: i divini, eterni charæsmata dello Spirito, egli proclamava, sono in realtÜ manifestati “attraverso il Figlio”, ma la personale esistenza “ipostatica” dello Spirito à dal Padre, il quale à l’unica fonte e origine personale del Figlio e dello Spirito, in quanto persone23. La teologia di Gregorio di Cipro provocð notevoli discussioni a Costantinopoli, anticipando i dibattiti del secolo seguente tra Palamas e i suoi avversari24, ma venne approvata dal concilio delle Blacherne nel 128525.
21 L’ultimo studio ben documentato à A. Papadakis, Crisis in Byzantium. 22 G. Pachymeres, De Michaele et Andronico palaeologis libri tredecim I, a cura di I. Bekker, Weber, Bonn 1835, p. 381. 23 Blemmide non aveva stabilito alcuna distinzione tra lo Spirito come persona e i charæsmata. E neppure Beccos lo aveva fatto (cf. A. Papadakis, Crisis in Byzantium, p. 98, n. 3). Tale distinzione à il principale contributo di Gregorio di Cipro. 24 Molti testi sono raccolti in V. Laurent, J. Darrouzàs, Dossier grec de l’Union de Lyon (1273-1277), Institut fran¾ais d’ßtudes byzantines, Paris 1976. 25 Il testo del Tomos à in PG 142,233-246; tr. ingl. in A. Papadakis, Crisis in Byzantium, pp. 155-165.
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Teologia monastica Usiamo in questa sede l’aggettivo “monastico” in mancanza di un termine piô adeguato. Vero à che la teologia bizantina del tempo à spesso associata all’“esicasmo” – movimento fatto risalire agli scritti di Niceforo l’Esicasta e di altri autori spirituali della fine del xiii secolo, che promuovevano la recitazione della “preghiera di Gesô” con l’ausilio di un metodo psicosomatico –; tuttavia, la tendenza teologica rappresentata nel xiv secolo dal palamismo non à coestensiva nß identica rispetto al misticismo ascetico individuale evocato dal termine “esicasmo”26. Lo stesso Palamas, quando si riferisce alle recenti “autoritÜ”, nomina in particolare Teolepto di Filadelfia e il patriarca Atanasio I27, mentre il suo principale discepolo, Filoteo Kokkinos, si riferisce a Gregorio di Cipro28. Gli antecedenti della rinascita teologica del xiv secolo non sono quindi esclusivamente “monastici”. Cið nonostante, nel periodo paleologo la chiesa bizantina giunse gradualmente a essere dominata dal clero monastico. Tale dominio divenne veramente totale nel 1347 con la vittoria nella guerra civile da parte di Giovanni Cantacuzeno, ma il processo era giÜ cominciato con il patriarcato di Atanasio I (1289-1293, 1303-1310). Questa tendenza “monastica” si sviluppð contemporaneamente a una rinascita teologica non direttamente legata ai negoziati di unione o alle polemiche anti-latine, ma che emerse piuttosto nell’ambito della chiesa bizantina 26 Cf. il mio articolo “Is Hesychasm the Right Word?”, in Okeanos. Essays Presented to Ihor Sˇevcˇenko on His Sixtieth Birthday by His Colleagues and Students, a cura di C. Mango e O. Pritsak, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1983, pp. 447-457. 27 Triadi 1,2,12 e 2,3, in G. Palamas, Dßfense, pp. 99 e 323-324. 28 Contra Gregoram antirrh. VI, PG 151,915CD; cf. un altro teologo palamita, Giuseppe Calothetos, Vita di Atanasio, in Ioseph Kalothetou syngrammata, a cura di D. B. Tsamis, Kentron Byzantinon Ereunon, Thessaloniki 1980, p. 428. L’antipalamita Acindino à comprensibilmente un critico di Gregorio di Cipro (cf. J. Meyendorff, Introduction Ü l’ßtude de Grßgoire Palamas, Seuil, Paris 1959).
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stessa, come riflesso dei suoi interessi intellettuali e spirituali nonchß dei temi sociali del momento. Il suo orientamento consisteva nel porre un forte accento su spiritualitÜ e pratica sacramentale, come evidenziano le opere – in larga parte inedite – del metropolita di Filadelfia Teolepto (ca. 1250-ca. 1324)29, o il dinamico e a volte fanatico attivismo del patriarca Atanasio30. Nel tardo xiii secolo, tuttavia, il principale tema teologico che si poneva all’attenzione di ciascuno di tali autori era connesso con l’ordinamento della chiesa e con l’ecclesiologia: il prolungato “scisma arsenita”, la cui direzione era stata ancora una volta prevalentemente monastica, invocava spesso l’autoritÜ “spirituale” di uomini “santi” contro la responsabilitÜ sacramentale e canonica dei vescovi. Uomini come Teolepto e Atanasio, che non sempre si trovavano d’accordo su metodi e persone, furono nondimeno interessati a riformare simultaneamente l’episcopato e i monasteri, ed entrambi ritennero molti vescovi e monaci indegni della loro vocazione o incapaci di comprendere i rispettivi ruoli e le rispettive responsabilitÜ in seno alla chiesa. interessante osservare come la maggior parte degli scritti bizantini dell’epoca sia di indole “ecclesiologica”, ma non si preoccupi del primato papale tanto quanto invece à dedita alle questioni interne della stessa chiesa orientale31. L’orientamento dei teologi, spirituale ma al tempo stesso sociale e riformista, e che io 29 L’interessante personalitÜ di Teolepto richiederebbe ulteriori studi, come si puð dedurre da quelli preliminari di S. Salaville (cf. in particolare due articoli in Revue des ßtudes byzantines 5 [1947], pp. 101-115, 116-136; si veda anche Id., “Un directeur spirituel Ü Byzance au dßbut du xvie siàcle: Thßolepte de Philadelphie”, in Mßlanges J. de Ghellinck II, Duculot, Gembloux 1951, pp. 877-887), di V. Laurent (“Les crises rßligieuses Ü Byzance. Le schisme anti-arsßnite du mßtropolite Thßolepte de Philadelphie”, in Revue des ßtudes byzantines 18 [1960], pp. 45-54) e di D. Constantelos (“Mysticism and Social Involvement in the Later Byzantine Church. Theoleptus of Philadelphia, a Case Study”, in Byzantine Studies 6 [1979], pp. 49-60). 30 La personalitÜ di Atanasio à diventata molto piô conosciuta dopo la parziale pubblicazione dei suoi scritti a opera di A. M. Maffry Talbot (The Correspondence of Athanasius I, Patriarch of Constantinople). Cf. anche J. L. Boojamra, Church Reform in the Late Byzantine Empire. 31 Cf. J. Darrouzàs, Documents inßdits d’ecclßsiologie byzantine, pp. 86-106, 340-413.
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definisco “monastico”, contrasta in un certo senso con quello di scrittori o intellettuali come Niceforo Blemmide. Tale contrasto anticipa il confronto, che comincerÜ con maggior chiarezza nel xiv secolo, tra i cultori dell’insegnamento “ellenistico” secolare e i palamiti. A dispetto della grande differenza di struttura intellettuale e di approcci metodologici alla teologia tra gli “scolastici” di professione dell’occidente e i sofisticati studiosi dell’antica Bisanzio, la massiccia presenza ecclesiastica latina in oriente, dalla Palestina alla Grecia fino ai centri commerciali italiani sulle coste settentrionali del mar Nero, rese il xiii secolo un tempo di incontri inevitabili. Nelle aree occupate dai latini, l’animositÜ tra le due comunitÜ non precluse incontri amichevoli a livello di pietÜ popolare: la popolazione locale poteva usare la traduzione greca della messa romana32, mentre alcuni latini amavano le icone bizantine e giunsero perfino a commissionarne33. Possiamo essere certi che se al posto di dibatti formali ufficiali tra teologi sulla questione del Filioque fossero stati possibili incontri piô spontanei tra i primi francescani e gli esicasti bizantini, il dialogo avrebbe seguito direzioni in qualche misura diverse. Ma non sappiamo nulla riguardo a simili incontri, e le condizioni storiche e culturali del tempo non li favorirono. Ai teologi latini di professione veniva comandato di rifiutare le posizioni greche sulla base delle acquisizioni delle nuove sintesi scolastiche: allo stesso Tommaso d’Aquino venne chiesto di preparare un dossier anti-greco per il concilio di Lione34. I maggiori ordini religiosi – domenicani, francescani e cistercensi – fondarono
32 Cf. A. Heisenberg, “Aus der Geschichte”, pp. 46-52. 33 Cf. K. Weitzmann, “Icon Painting in the Crusader Kingdom”, in Dumbarton Oaks Papers 22 (1966), pp. 81-83. 34 Cf. A. Dondaine, “‘Contra Graecos’. Premiers ßcrits polßmiques des Dominicains d’Orient”, in Archivium fratrum praedicatorum 21 (1951), pp. 320-446; Id., “Nicholas de Crotone et les sources du ‘Contra errores Graecorum’ de Saint Thomas”, in Divus Thomas 28 (1950), pp. 313-340.
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centri nella Romania caduta sotto il dominio occidentale35. La casa domenicana a Pera, fondata sotto l’impero latino sul Corno d’Oro dirimpetto a Costantinopoli, rimase attiva anche dopo il 1261 e servç da principale punto di contatto tra gli intellettuali bizantini e la chiesa latina. Ci furono risultati concreti? Sç, nei termini di una generica adozione da parte di alcuni greci della visione tomista e latina del mondo. Da parte latina non ci furono reali “movimenti” tendenti a scoprire che l’unitÜ cristiana poteva consistere in qualcosa di diverso rispetto alla semplice “conversione” dei greci (reductio Graecorum). La parte ortodossa, tuttavia – da Blemmide a Gregorio di Cipro e a Palamas – superð gradualmente uno stato puramente difensivo, scoprendo che il reale problema del Filioque non stava tanto nella formula in sß, quanto piuttosto nella definizione di Dio quale actus purus delineata nel De ente et essentia di Tommaso d’Aquino, a fronte della piô personalistica visione trinitaria ereditata nel mondo bizantino dai padri cappadoci36.
35 Cf. R. J. Loenertz, Byzantina et franco-graeca, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1970 (articoli sui domenicani, pubblicati tra il 1935 e il 1966); D. J. Geanakoplos, “Bonaventura, the Two Mendicant Orders, and the Greeks at the Council of Lyons (1274)”, in Studies in Church History 13 (1976), pp. 183-211; B. M. Bolton, “A Mission to the Orthodox? The Cistercians in Romania”, ibid., pp. 169-181. 36 Cf. le osservazioni di J. M. Hussey, che nel suo brillante libro The Orthodox Church in the Byzantine Empire, Clarendon Press, Oxford 1986, pp. 248-249, conducono a conclusioni analoghe.
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VI A FIRENZE CI FU UN INCONTRO TRA ORIENTE E OCCIDENTE?
Il dialogo contemporaneo tra il cattolicesimo e l’ortodossia si basa inevitabilmente su una certa visione storica del cristianesimo: quella secondo cui alla comunione esistente nel corso del primo millennio di storia cristiana tra quel che definiamo l’oriente e l’occidente, seguç uno stato di graduale estrangement e di scisma tra i due poli della cristianitÜ a partire dall’xi secolo. Quanti tra noi hanno realmente a cuore l’unitÜ cristiana cercano di riscoprire le linee guida teologiche ed ecclesiologiche che permisero, nel corso della prima metÜ della storia cristiana, il permanere della comunione sacramentale e di una comune testimonianza di fronte al mondo, le linee di quel periodo in cui, come Giovanni Paolo II ha piô volte avuto occasione di dire, la chiesa “respirava con entrambi i suoi polmoni”. Certamente à vero che oggigiorno, soprattutto nel xx secolo, le categorie di oriente e di occidente sono state storicamente e culturalmente obliterate: la posizione occupata dai due continenti americani, dall’Africa e dall’Asia, assieme alla scomparsa (avvenuta ormai da molto tempo) dell’impero bizantino e all’universale adozione de facto delle metodologie intellettuali coniate in Europa occidentale nel xix secolo, rendono in qualche modo fittizia una netta distinzione tra “oriente” e “occidente” cristiani. Questa nuova situazione ci fornisce gli strumenti necessari per comprendere meglio la nostra storia comune nel corso del primo 117
millennio, insieme alla natura del tragico estrangement che in seguito prevalse. Senza dubbio il concilio di Ferrara-Firenze, svoltosi nel tardo medioevo, fu il tentativo piô significativo di invertire il corso della storia e ritrovare l’unitÜ della fede e la comunione tra quelli che all’epoca erano ancora, in modo piuttosto netto, un “oriente” e un “occidente”. Le procedure e il protocollo adottati in tale assise diedero l’illusione di una riunificazione tra le due metÜ della cristianitÜ. Oggigiorno, la nostra conoscenza dei dibattiti assembleari di allora à molto piô completa che non al tempo delle interminabili polemiche, che si protrassero per secoli, tra i loro sostenitori e i loro oppositori. Attualmente abbiamo a disposizione non soltanto i testi di tutti i documenti importanti nelle edizioni vaticane, mirabili per la loro completezza, ma anche gli inizi di un approccio piô globale alla storia del concilio. Uno dei principali meriti di Joseph Gill, in particolare, à di aver situato Firenze all’interno del suo specifico sfondo occidentale, quale conclusione della lotta condotta dal papato contro i conciliaristi e quale vittoria di quello che Gill definisce “l’ordine tradizionale della chiesa”1. Questa piô ampia visione, che Joseph Gill presenta da un punto di vista occidentale, à un’eccellente base – realmente necessaria – per un’ulteriore “globalizzazione” della storia del concilio e per una visione piô completa delle realtÜ del mondo ortodosso di quell’epoca. In questo capitolo farð alcune osservazioni preliminari orientate alla comprensione della conciliaritÜ in oriente e a cið che sarebbe potuto o sarebbe dovuto accadere in un autentico concilio di unione. 1 “Il grande risultato del concilio, per l’occidente, fu che esso assicurð la vittoria del papato nella lotta di quest’ultimo contro il concilio, nonchß la sopravvivenza dell’ordine tradizionale della chiesa” ( J. Gill, Il concilio di Firenze, pp. 363-415). La questione à espressa in termini altrettanto chiari nell’opera di Gill intitolata Constance et BÚle-Florence (ditions de l’Orante, Paris 1965), nono volume della collana Histoire des conciles oecumßniques, curata da G. Dumeige, come pure in altre pubblicazioni dello stesso autore dedicate all’“evento” di Firenze.
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Firenze: la realizzazione delle speranze bizantine L’accezione con la quale i bizantini usavano il termine “ecumenico” implicava una particolare visione (bizantina) della societÜ cristiana. Gli storici ne hanno sovente evidenziato la connotazione politica “imperiale”. Lo testimonia tra gli altri un testo dello storico Cedreno (xi secolo): “I concili”, egli scrive, “venivano detti ecumenici perchß i vescovi di tutto l’impero romano vi erano invitati per mezzo di ordini imperiali e in ciascuno di essi ... aveva luogo una discussione sulla fede e un voto, ossia venivano promulgate formule dogmatiche”2. Rimane inteso implicitamente che le chiese locali, guidate dai loro vescovi, sono tenute insieme dalla fede comune espressa dai concili, ma anche che tale consensus à raggiunto nel quadro dell’oikoumßne: un “mondo” diventato ufficialmente cristiano dai tempi di Costantino e all’interno del quale l’imperatore era il simbolo e l’incarnazione dell’unitÜ sociale e religiosa. Come tutti sappiamo, il sistema à stato spesso descritto (e condannato) come “cesaropapismo”; tuttavia, à difficile sostenere che meriti tale definizione. Nella memoria della cristianitÜ bizantina vi erano certamente imperatori che avevano abusato della loro funzione (e che erano quindi stati chiamati “usurpatori”, t÷rannoi) – Costanzo I, Valente, Costanzo II, Costantino V Copronimo e altri ancora – e di concili da essi convocati che, di fatto, erano stati degli pseudo-concili. Quindi, di per sß, nß l’imperatore nß i concili potevano essere automaticamente degni di fede. Altro elemento essenziale della visione bizantina del mondo era un’immutabile percezione dei confini tradizionali dell’im2 Compendium historiarum I,3, a cura di I. Bekker, Weber, Bonn 1838, p. 39. Su questo punto si veda un eccellente studio di J. Anastasiou, “What is the Meaning of the Word ‘Ecumenical’ in Relation to the Council?”, in Councils and the Ecumenical Movement, WCC Publications, Genàve 1968, pp. 27-31; cf. anche J. Meyendorff, Living Tradition, St. Vladimirs’s Seminary Press, Crestwood 1978, pp. 45-62.
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pero. In nessuna epoca – nemmeno nei secoli xiv e xv – i bizantini abbandonarono l’idea che l’impero includesse sia l’oriente che l’occidente, che idealmente i suoi territori comprendessero tanto la Spagna quanto la Siria, e che l’“antica Roma” rimanesse in qualche modo la sua fonte storica e il suo centro simbolico, nonostante il trasferimento della capitale a Costantinopoli. Vi furono polemiche teologiche contro i “latini”, odio popolare contro i “franchi”, soprattutto dopo le crociate, risentimento contro la colonizzazione commerciale delle terre bizantine da parte dei veneziani e dei genovesi, ma la visione ideale dell’impero universale rimase espressa soprattutto nella esclusiva legittimitÜ “romana” dell’imperatore bizantino. Nel 1393 il patriarca Antonio di Costantinopoli, nella sua lettera (spesso citata) al gran principe Basilio I di Mosca che lo sollecitava a non opporsi alla commemorazione liturgica dell’imperatore nelle chiese russe, esprime la convinzione totalmente irrealistica ma incrollabile che l’imperatore sia “imperatore e autocrate dei romani, cioà di tutti i cristiani”; che “in ogni luogo e sotto ogni patriarca, metropolita e vescovo il nome dell’imperatore à commemorato ovunque ci siano dei cristiani” e che “perfino i latini, che non hanno alcuna comunione con la nostra chiesa, gli prestano la stessa subordinazione, come facevano nei tempi passati, quando erano uniti a noi”3. Caratteristicamente, il patriarca conserva l’idea che esista un’unitÜ imperiale nonostante lo scisma che divide le chiese. Un elemento di questa visione imperiale – e quindi “ecumenica” – del mondo cristiano à la cosiddetta “pentarchia”, cioà l’idea che la chiesa “ecumenica” sia guidata dai cinque patriarchi di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalem-
3 La lettera à conservata nel registro patriarcale pubblicato in F. Miklosich, I. Müller, Acta patriarchatus Constantinopolitani II, pp. 188-192. I passi rilevanti sono tradotti da J. W. Barker, Manuel II Palaeologus (1391-1425). A Study in Late Byzantine Statesmanship, Rutgers University, New Brunswick 1969, pp. 106-109.
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me. La formazione dello schema “pentarchico” ebbe luogo giÜ nel iv secolo, con privilegi speciali (presbeæa) riconosciuti ai primati delle piô importanti cittÜ dell’impero: prima a Roma, Alessandria e Antiochia (concilio di Nicea, 325); poi a Costantinopoli come “nuova Roma” (concilio di Costantinopoli I, 381); e infine anche a Gerusalemme (concilio di Efeso, 431). Una certa “sacralizzazione” del numero cinque apparve poi nella legislazione di Giustiniano, promulgata dal concilio in Trullo (692)4. Ma la “pentarchia” era allora considerata elemento essenziale dell’ecclesiologia? Non si puð certo affermarlo. Tuttavia divenne un importante fattore nella comprensione bizantina di che cosa fosse un concilio “ecumenico”, per il quale era necessaria la presenza dei cinque patriarchi o dei loro rappresentanti, perfino quando le sedi orientali di Alessandria e di Antiochia cessarono di fatto di essere influenti. In ogni caso, nel medioevo, questi due elementi connessi l’uno all’altro – la teorica legittima giurisdizione dell’imperatore bizantino sull’occidente e il perdurante rispetto per la pentarchia, della quale il vescovo di Roma era l’elemento guida – trasformarono in necessitÜ il fatto che un concilio propriamente ecumenico includesse il vescovo di Roma (nonostante lo scisma) e i quattro patriarchi orientali (sebbene tre di essi guidassero ormai chiese a malapena esistenti). Ho citato la “pentarchia” come idea para-ecclesiologica, perchß esistevano concetti ecclesiologici reali che i bizantini ortodossi consideravano molto seriamente: per esempio, la possibilitÜ da parte della chiesa ortodossa di fissare temi dottrinali in modo definitivo mediante una procedura sinodale che non necessitava nß di un concilio “ecumenico”, nß di un intervento della pentarchia. Il cosiddetto Synïdikon dell’ortodossia, che veniva periodicamente aggiornato, era una delle principali testimo4 La letteratura storiografica sulle origini e il significato della “pentarchia” à abbondante; per la soluzione di base di molti problemi à assai utile il libro di F. Dvornik, The Idea of Apostolicity; cf. anche J. Meyendorff, Orthodoxy and Catholicity.
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nianze di tale certezza dottrinale, senza la quale una chiesa non puð essere veramente la chiesa di Cristo5. Un’altra importante dimensione ecclesiologica che i bizantini comprendevano bene – sebbene furono obbligati a rinunciarvi nel periodo tardo medievale – à la comunione eucaristica come condizione per l’attivitÜ conciliare. La koinonæa dell’assemblea costituiva realmente la base sulla quale la conciliaritÜ trovava la propria ragion d’essere6. Comunque sia, se l’unitÜ doveva essere ripristinata, Bisanzio riteneva che un “concilio ecumenico” in grado di riunire oriente e occidente fosse il fine piô logico, e di fatto necessario, da perseguire. C’era perfino un precedente: il concilio dell’879-880 che aveva sancito la riconciliazione tra papa Giovanni VIII e il patriarca Fozio. Tale concilio si era attribuito il titolo di “ecumenico”, e di fatto aveva ottemperato i requisiti istituzionali di un concilio degno di tale qualifica. Nelle fonti bizantine à spesso citato come un “concilio di unione”. Tuttavia, la comunione eucaristica tra Fozio e i legati papali era stata ripristinata prima che le stesse procedure conciliari avessero avuto inizio7, cosç che il concilio in quanto tale era stato il concilio di una chiesa unita. Nel 1438 non ci fu unitÜ eucaristica tra oriente e occidente, il che puð spiegare almeno in parte perchß durante i preliminari di Firenze i greci non invocarono il precedente dell’879-880. Naturalmente, i bizantini sapevano peraltro che la controparte latina da tempo non considerava piô valido il concilio “foziano”8 e che sarebbe quindi stato inutile ripresentarlo come un’autoritÜ riconosciuta da entrambe le parti. 5 Cf. J. Gouillard, “Le Synodikon de l’orthodoxie”. 6 Cf. J. Zizioulas, “The Development of Conciliar Structures to the Time of the First Ecumenical Council”, in Councils and the Ecumenical Movement, p. 41. 7 Cf. il Commonitorium papale con le istruzioni dettagliate ai legati, nonchß F. Dvornik, The Photian Schism, pp. 184-185. 8 Frantisek Dvornik ha mostrato tuttavia in modo convincente come il concilio dell’879-880 fosse riconosciuto sia in oriente sia in occidente sino alla fine dell’xi secolo, quando i riformatori gregoriani del diritto canonico lo sostituirono nei loro elenchi con il concilio “ignaziano” dell’869-870 (The Photian Schism, pp. 309-330). Il concilio
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Cið che ha un significato rilevante, tuttavia, à che nel corso del xiv secolo – perfino dopo le crociate, l’insediamento di una gerarchia latina in oriente e il fallimento dell’unione di Lione –, la principale speranza dei bizantini restasse quella di un concilio di unione, che essi non mancarono di riproporre a piô riprese ai papi. Non vi à dubbio, naturalmente, che tali proposte, come tutti gli altri negoziati del periodo in vista dell’unione, erano pesantemente condizionate dal bisogno di ottenere l’aiuto occidentale contro l’avanzata turca. Ma l’idea di un concilio era sollecitata anche dalle cerchie ortodosse piô responsabili, contrarie a schemi puramente politici come quelli dell’imperatore Michele VIII nel tardo xiii secolo, schemi che sarebbero stati equivalenti a una diretta e incondizionata sottomissione all’autoritÜ papale. Non à certamente possibile passare in rassegna in questa sede tutte queste proposte9, e dunque mi riferirð solo ad alcune di esse, che sono i diretti preliminari di cið che avvenne a Firenze. 1) Nel 1339 (o forse prima), il famoso Barlaam il Calabro presentð al sinodo costantinopolitano un progetto di unione basato sulla convocazione di un concilio ecumenico insieme all’occidente. Gli fu permesso di portare il suo progetto a papa Benedetto XII ad Avignone. Barlaam aveva un suo particolare approccio al tema del Filioque e sperava che la disputa trinitaria potesse essere accantonata e praticamente ignorata (a patto che i latini sopprimessero il Filioque dal Credo!) durante i dibattiti del progettato concilio; ma, a suo parere, non esisteva alcuna foziano à ancora menzionato con carattere di autoritÜ nel Decretum di Ivo di Chartres (1094). L’argomento fu brevemente sollevato a Firenze, giacchß Cesarini e Crisoberga si riferirono al concilio ignaziano come all’“ottavo ecumenico”, incorrendo perð nel rimprovero di Marco Eugenico, il quale ricordð loro la sua cancellazione da parte del concilio dell’879-880 (Concilium florentinum. Documenta et scriptores. Serie B V/1, Acta graeca, Pont. Institutum Orientalium Studiorum, Roma 1952, pp. 90-91, 135). 9 Cf. la panoramica di fatto completa di D. M. Nicol, “Byzantine Requests for an Ecumenical Council in the Fourteenth Century”, in Annuarium historiae conciliorum 1 (1969), pp. 69-95.
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possibilitÜ che l’oriente potesse accettare un’unione senza un concilio10. Egli fu rimproverato da Benedetto XII, il quale non era disposto ad ammettere alcun dibattito su veritÜ giÜ definite dalla sede romana11. 2) Se Barlaam puð essere considerato una figura piuttosto periferica, lo stesso non si puð dire dell’imperatore Giovanni VI Cantacuzeno, personalitÜ politica e intellettuale di prim’ordine che sostenne il partito monastico e contribuç alla vittoria finale del palamismo nel 1351. Assunto il potere immediatamente dopo una guerra civile, egli entrð nel 1347 in diretto contatto con papa Clemente VI, al quale offrç di tenere un concilio, preferibilmente a Costantinopoli, indicando altresç come possibili sedi anche l’isola di Eubea, in mano ai latini, oppure Rodi12. Nonostante la reazione, tarda (giunta nel 1350) e senza alcun impegno, dei legati papali, egli continuð a insistere sul concilio. A differenza di Barlaam, Giovanni non proponeva di marginalizzare i temi dottrinali, bensç esprimeva la necessitÜ di una “corretta definizione della fede”. Condannando esplicitamente i modi usati dal suo predecessore Michele VIII, che aveva imposto una decisione con la forza, egli esprimeva la propria disponibilitÜ “a sottoscrivere qualsiasi cosa fosse accolta dai vescovi e dagli altri esperti nella dottrina”. Anticipando direttamente i negoziati che precederanno Firenze, egli scrive: “Se il papa à d’accordo, incontriamoci a metÜ strada, in qualche punto sulla 10 Cf. C. Gianelli, “Un progetto di Barlaam Calabro per l’unione delle chiese”, in Miscellanea Giovanni Mercati III, Biblioteca apostolica vaticana, CittÜ del Vaticano 1946, pp. 57-208; il testo latino di Barlaam indirizzato al papa si trova in PG 151,1331-1342. Sulle opinioni unioniste di Barlaam si veda anche J. Meyendorff, “Un mauvais thßologien de l’unitß: Barlaam le Calabrais”, in L’glise et les ßglises II, ditions de Chevetogne, Chevetogne 1955, pp. 47-64. 11 Riguardo alle proposte di Barlaam, il papa scrisse nel settembre 1339 a Filippo, re di Francia: “Gli abbiamo detto che un tal genere di diversitÜ non à in alcun modo tollerabile nella chiesa (Diximus diversitatem hujusmodi fore nullatenus in ecclesia tolerandam)” (Raun. Annales, anno 1339, § 27). 12 Testi dei rapporti e lettere in R. J. Loenertz, “Ambassadeurs grecs aupràs du pape Clßment V (1348)”, in Orientalia christiana periodica 19 (1953), pp. 178-196.
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costa, nel quale egli potrÜ portare il clero occidentale e io i patriarchi e i loro vescovi; credo che allora Dio ci guiderÜ alla veritÜ”13. La risposta non arrivð da Clemente VI, ma dal suo successore, Innocenzo VI, soltanto nel 1352, che espresse una gioia in un certo senso presuntuosa perchß i greci avrebbero potuto ravvedersi dai loro “errori”, ma senza fare alcun accenno a un possibile concilio14. 3) Cantacuzeno ebbe una nuova occasione di realizzare il suo progetto nel 1367, quando, ormai monaco, ma ancora molto influente a Bisanzio, egli incontrð un altro legato papale, Paolo, che era anche patriarca titolare (latino) di Costantinopoli. Usando espressioni pressochß identiche a quelle del 1350, egli rifiutð di nuovo l’idea di un’unione imposta mediante un decreto imperiale, proclamð la necessitÜ di un libero dibattito teologico sui temi dottrinali e, cosa molto significativa, sottolineð la necessitÜ di un concilio pienamente rappresentativo. Riconoscendo che una rappresentanza puramente “pentarchica” sarebbe stata insufficiente – a motivo dell’autoritÜ meramente nominale dei patriarchi orientali –, egli sollecitð non soltanto la presenza di tutti i metropoliti del patriarcato ecumenico, che comprendeva le “distanti” metropolie di Russia, Trebisonda, Alania e Zecchia, ma anche quella del catholicos di Georgia, del patriarca di Trnovo e dell’“arcivescovo” di Serbia15. Di nuovo, il suggeri-
13 Giovanni VI Cantacuzeno, Histor. IV,9, a cura di L. Schopen, Weber, Bonn 1832, vol. III, pp. 59-60. 14 Citato in R. J. Loenertz, “Ioannis de Fontibus Ord. Praedicatorum epistula ad abbatem et conventum monasterii nescio cujus Constantinopolitani”, in Archivium fratrum praedicatorum 30 (1960), p. 164. 15 Testo edito da J. Meyendorff, “Projets de concile oecumßnique en 1367: un dialogue inßdit entre Jean Cantacuzàne et le lßgat Paul”, in Dumbarton Oaks Papers 14 (1960), pp. 147-177 (commento anche in Id., “Jean-Joasaph Cantacuzàne et le projet de concile oecumßnique en 1367”, in Akten des XI. internationalen Byzantinisten-Kongresses 1958, pp. 363-369). Il titolo di “arcivescovo”, nel caso della Serbia, denota il non riconoscimento del “patriarcato” instaurato da Stefano Dusˇan nel 1346. Ma il conflitto per il patriarcato di Pec´ non era, agli occhi di Cantacuzeno, una ragione sufficiente per escludere la chiesa serba dal progettato concilio.
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mento che il concilio potesse tenersi a Costantinopoli o in una cittÜ “vicino al mare” anticipava i negoziati precedenti Firenze. Le proposte di Cantacuzeno del 1367 giungevano in un momento drammatico: suo genero, l’imperatore Giovanni V Paleologo, era appena tornato da una fallimentare e umiliante visita in Ungheria, dove si era recato in cerca di aiuto militare, ma dove, non essendo disposto a una previa conversione al cattolicesimo romano, aveva ricevuto un ferreo rifiuto. La gerarchia palamita della chiesa bizantina, di stampo conservatore, capeggiata dal patriarca Filoteo Kokkinos, appoggiava pienamente l’idea di un concilio. Si conserva una lettera di Filoteo all’arcivescovo di Ocrida con la quale lo invitava al concilio e gli descriveva il progetto in questi termini: “Siamo d’accordo con i messi papali che se al concilio emergerÜ dalle divine Scritture che la nostra dottrina à superiore a quella dei latini, essi si uniranno a noi e condivideranno la nostra confessione [di fede]”16. Tuttavia, anche Kokkinos si scontrð con un non possumus di papa Urbano V, espresso in lettere personali indirizzate all’imperatore, al patriarca e ad altri ufficiali bizantini, e con l’appello all’incondizionata “sottomissione” a Roma. 4) Il “grande scisma” d’occidente (1378-1417) cambið radicalmente le regole del gioco per cið che riguardava il mondo latino, tanto che eminenti uomini di chiesa orientali cominciarono addirittura a nutrire speranze ancor maggiori che si potesse giungere a un concilio di unione. Sappiamo, per esempio, di un tentativo intrapreso nel 1396 dal metropolita Cipriano di Kiev e di tutta la Russia. Bulgaro di nascita, Cipriano era stato tra i collaboratori del patriarca Filoteo Kokkinos ed era un amico intimo dell’ultimo patriarca di Trnovo, Eutimio. Dopo grandi sforzi, in seguito alle vicissitudini della diplomazia ecclesiastica bizantina in Europa orientale, aveva assunto la sede di Kiev, che univa
16 F. Miklosich, I. Müller, Acta patriarchatus Constantinopolitani I, p. 492.
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sotto la propria giurisdizione tutte le diocesi della Rus’, sia quelle situate in Moldavia che quelle nei domini polacco-lituani. Mantenendo la residenza principale a Mosca, egli viaggið spesso nelle zone “occidentali” della sua metropoli e fu “un grande amico (phælos pol÷s)” del re Iagellone di Polonia, nonostante la conversione di quest’ultimo dall’ortodossia al cattolicesimo (1386)17. Fu senza dubbio in queste zone di quel paese che i bizantini ancora chiamavano “Russia” – paese guidato da un monarca cattolico con propensioni conciliariste e una popolazione ortodossa assai numerosa – che Cipriano programmð il suo concilio, insieme al re Iagellone. Questa volta il rimprovero giunse dal patriarca Antonio di Costantinopoli: con lettere indirizzate a Cipriano e al re, Antonio definç il progetto inappropriato e chiese invece aiuto militare18. Tuttavia l’idea di Cipriano non fu immediatamente scartata. Un altro metropolita di Kiev (non canonico), Gregorio Tsamblak19, visitð il concilio di Costanza nel 1417 e fu solennemente ricevuto da papa Martino V, ma suggerç anche che i negoziati di unione includessero rappresentanti dell’intera chiesa orientale20. 17 Su Cipriano e il suo tempo si veda J. Meyendorff, Byzantium and the Rise of Russia, pp. 226 ss. e D. Obolensky, Ritratti dal mondo bizantino, Jaca Book, Milano 1999, pp. 193-219. In D. S. Lichacev, Slovar’ kni°nikov i kni°nosti drevnej Rusi, II,1. Vtoraja polovina xiv-xv v., Nauka, Sankt-Peterburg 1988, pp. 464-475, à anche apparso un inventario completo di dati biografici e documentari fornito da G. M. Prochorov. 18 F. Miklosich, I. Müller, Acta patriarchatus Constantinopolitani II, pp. 280-282, 282-285. 19 Bulgaro come Cipriano, che egli ammirava enormemente, Gregorio era una delle figure letterarie di maggior spicco del mondo slavo. Il gran principe lituano Vitovt aveva appoggiato la sua elezione alla sede di Kiev mediante un concilio di vescovi della Russia occidentale (1415), in segno di sfida al metropolita greco Fozio, che, come i suoi predecessori, risiedeva a Mosca. L’elezione costituç una sfida diretta al patriarcato, che venne formalmente accusato di simonia, corruzione e incoerenze amministrative (testo in Russkaja istoriceskaja biblioteka IV, Akademija Nauk, Sankt-Peterburg 1880, coll. 307-314). Logicamente, Gregorio fu scomunicato da Fozio e deposto dal patriarca Giuseppe II nel 1416 (cf. ibid., coll. 315-360). 20 La visita à descritta nella Cronaca del concilio di Costanza di Ulrich Richental (cf. The Council of Constance. The Unification of the Church, a cura di J. H. Mundy e K. M. Woody, Columbia University Press, New York 1961, pp. 105, 176-178) e nelle Gesta del concilio redatte dal cardinale francese Guillaume Filastre (ibid., pp. 434-437).
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5) Le speranze bizantine di un concilio “ecumenico” di unione finalmente diventarono una possibilitÜ concreta dopo la vittoria del conciliarismo a Costanza. Papa Martino V, eletto in quel concilio, non era piô in condizione di esigere la semplice accettazione dell’obbedienza papale da parte dei greci, dal momento che egli stesso, in virtô dei decreti conciliari da lui approvati, era costretto in materia di fede a “obbedire” a un concilio. Nei negoziati che si inizið sollecitamente a condurre, il vecchio schema proposto da Cantacuzeno nel 1350, e di nuovo nel 1367, servç sempre come base per la posizione greca, in particolare l’ipotesi di tenere un concilio in una cittÜ “vicino al mare”, in modo che i delegati orientali potessero rimanere abbastanza prossimi alle loro navi, pronti a tornare indietro in caso di fallimento dell’unione. Probabilmente questo punto ebbe un certo peso, se à vero che i greci scelsero di tenere il concilio con papa Eugenio piuttosto che con i conciliaristi di Basilea, che li invitavano a mettersi in viaggio verso luoghi remoti al di lÜ delle Alpi. Inoltre, sempre in accordo con i piani di Cantacuzeno, ci fu un serio sforzo perchß la delegazione orientale non fosse composta soltanto sulla base di una rappresentanza formale dei “quattro patriarchi”, ma in modo piô realistico e piô rappresentativo21: non furono inclusi soltanto i “lontani” metropoliti di Trebisonda e soprattutto di Russia, ma anche il metropolita di Moldovalacchia (Romania). Le chiese slave dei Balcani erano giÜ sotto il dominio turco, cosç dalla Serbia e dalla Bulgaria non venne nessuno (il metropolita Ignazio di Trnovo, che faceva parte della delegazione, non era un patriarca, come al tempo di Cantacuzeno, ma un vescovo greco che viveva a Costantinopoli). 21 Fu ovvio a tutti che la rappresentanza dei patriarchi “orientali”, esistenti poco piô che formalmente, poteva solo essere nominale e non determinata da parte dei patriarchi stessi, bensç da parte di Costantinopoli che aveva un ruolo di guida. Furono nominati procuratori – Bessarione, Isidoro, Marco, Dionisio di Sardi, Dositeo di Monembasia – che spesso cambiarono sia prima sia durante il concilio (cf. J. Gill, Il concilio di Firenze, pp. 79, 112, 296, eccetera).
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Significativamente perð, la presenza dei delegati del catholicos di Georgia fu assicurata. Per quanto importante fosse, raggiungere questa estensione geografica della delegazione non fu probabilmente un compito tanto cruciale quanto quello che gli organizzatori dovettero affrontare per assicurare la partecipazione al concilio di tutte le varie sfumature teologiche presenti nella stessa chiesa bizantina. Tra i vescovi non c’erano evidentemente molti buoni teologi, come dimostrð al concilio il comportamento passivo della maggior parte di essi. Cosç fu deciso di compiere un’affrettata consacrazione in sedi importanti – Nicea, Efeso e Kiev – di due leader intellettuali (Bessarione e Marco Eugenico) e di un diplomatico di grande esperienza (Isidoro). Le loro tre ordinazioni furono fatte nel 1437, alla vigilia del concilio. Quindi la delegazione comprendeva, nella persona di Bessarione, un eminente “umanista” nella tradizione di Metochite e Gregoras, come pure, nella persona di Marco di Efeso, un autorevole portavoce della teologia palamita e monastica. La tendenza tradizionale o “conservatrice” fu allora rafforzata dall’inclusione di monaci athoniti in rappresentanza dei monasteri della Grande Lavra, di Vatopedi e di San Paolo. ben evidente come tra gli ortodossi fosse ampiamente diffusa l’opinione, sostenuta nel xiv secolo da Filoteo Kokkinos, secondo la quale un concilio potesse portare alla vittoria le posizioni bizantine, cosicchß i latini avrebbero accettato la comprensione ortodossa del Filioque e dell’ecclesiologia22. La speranza che l’unione potesse essere discussa liberamente, in modo conciliare – e che non avrebbe semplicemente significato l’accettazione della fede “latina” at-
22 Tali erano realmente le speranze di Marco di Efeso, formulate a piô riprese, nel suo appello scritto a papa Eugenio a Ferrara su suggerimento del Cesarini (Quae supersunt actorum graecorum concilii Florentini, a cura di J. Gill, Pont. Institutum Orientalium Studiorum, Roma 1953, pp. 28-34). Anche Isidoro accettð l’onere di assicurare una vittoria dell’ortodossia al concilio, quando si accinse a persuadere il gran principe a sostenerlo (cf. la seconda Sofiiskaja letopis’, in Pol’noe sobranie Russkich letopisej VI, Archeograficeskaja komissija, Sankt-Peterburg 1846, col. 152).
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traverso l’obbedienza al papa – sembrava assicurata dalla partecipazione di uomini come Marco di Efeso. Nonostante le brutte esperienze delle crociate, dell’unione di Lione e di diverse situazioni locali – per esempio, nei domini ungheresi o a Cipro, dove il latinismo si stava imponendo con la forza – molti ritenevano che al concilio fosse ancora possibile una vittoria dell’ortodossia. Inoltre, tutti comprendevano il mutamento radicale che si era verificato nell’atteggiamento del papato: esso ora accettava l’idea di un concilio in cui ogni questione che separava oriente e occidente avrebbe potuto essere incondizionatamente dibattuta, con uguali opportunitÜ concesse ad ambo le parti. Questo fu di fatto l’impegno dei papi Martino V ed Eugenio IV, che avevano accettato la dottrina “conciliarista” approvata a Costanza e a Basilea, e che erano quindi, in via di principio, pronti a parlare e non solo a dettare condizioni, come avevano fatto i loro predecessori Benedetto XII e Urbano V.
Cosa non accadde a Firenze Esaminando i dibattiti di Firenze à inutile dire che il concilio affrontð alcune questioni senza risolverle e ne risolse altre senza discuterne. I due dibattiti piô lunghi, sostanzialmente teologici, furono quelli sul Filioque e sul purgatorio. Quest’ultimo palesð una differenza fondamentale negli approcci alla dottrina della salvezza e alla metodologia teologica. Esso sfocið in una definizione che avrebbe avuto conseguenze piuttosto imbarazzanti al tempo della Riforma, dal momento che fornç le basi teologiche per la dottrina delle indulgenze, e che oggi à sostenuta a stento dal magistero cattolico (per esempio, l’affermazione che le anime non battezzate “discendono immediatamente all’inferno”). Nel dibattito sulla processione dello Spirito san130
to, entrambe le parti mancavano della prospettiva storica che oggi ci permette di riconoscere appieno l’esistenza in oriente e in occidente di due teologie trinitarie divergenti. Nessuna delle parti fu in grado di affrontare le domande reali: entrambe le tradizioni sono legittime e quindi complementari, oppure sono in realtÜ incompatibili? E se sono entrambe legittime, à giusto dogmatizzarne una, come Firenze finç per fare? La questione risolta a Firenze fu quella del governo della chiesa, appassionatamente dibattuta in occidente nel corso del “grande scisma” cominciato nel 1378. Il movimento conciliarista offriva una soluzione: la supremazia dei concili sul papa. Al contrario, il concilio di Firenze redasse una definizione che faceva uso di tutte le espressioni chiave atte a giustificare la monarchia papale: il papa à il “successore di Pietro”, il “vero vicario di Cristo”, il “capo della chiesa tutta” e possiede pieno potere (plena potestas) nel pascere e governare la chiesa universale. Al concilio, la questione del primato romano e della sua natura sorse soltanto nei giorni precedenti la firma. Cið che sappiamo delle alquanto imbarazzanti discussioni dell’ultimo minuto non lascia intendere che i greci avessero una qualche reale comprensione delle controversie occidentali che in quel tempo stavano opponendo il papa al concilio di Basilea. Il loro atteggiamento fu puramente difensivo: come salvaguardare il piô possibile una struttura ecclesiastica orientale a loro familiare, basata sui canoni degli antichi concili ecumenici e sulla pentarchia. Essi chiesero e ottennero che ambigui riferimenti a quelle istituzioni venerabili e antiche fossero aggiunti alla chiara ed esplicita definizione del potere papale. Latini e greci potevano facilmente interpretare tali riferimenti in modi diversi. In ogni caso, le nomine senza precedenti, che fecero seguito al concilio, di due metropoliti orientali – Bessarione e Isidoro – al cardinalato romano, enfatizzarono il fatto che il papato, come era ormai definito dal concilio, non era il papato dei primi secoli, bensç un’istituzione radicalmente rimodellata dalle riforme gregoriane, dai de131
cretalisti del xiii secolo e dai canonisti del xiv. Ormai il papato stava uscendo vittorioso anche dalla lotta anti-conciliarista. La reale unitÜ della chiesa non richiede soltanto formule comuni, miranti a risolvere difficoltÜ particolari, ma anche un comune sensus ecclesiae, un’amorosa sollecitudine per un’unica chiesa che tutti, insieme, possano riconoscere. Per raggiungere tale sensus comune, il concilio di Ferrara-Firenze avrebbe dovuto costituire un incontro tra l’oriente e l’occidente quali essi erano realmente all’epoca. Ma non fu cið che avvenne. Da parte orientale, uno sforzo era stato fatto dalle autoritÜ di Costantinopoli per riunire una delegazione veramente rappresentativa, ma l’esito di tale sforzo era stato soltanto parziale: la maggior parte del gruppo era costituito dall’immediato entourage dell’imperatore e del patriarca, cioà da una piccola schiera di uomini disperati provenienti dalla cittÜ assediata e agonizzante di Costantinopoli. Pochi di loro avevano competenze teologiche. Marco Eugenico fu un’eccezione pressochß unica, in quanto egli aveva indubbiamente “radici” nelle masse popolari e avrebbe goduto in seguito della loro fiducia. Sul versante latino, i vescovi erano praticamente tutti italiani, tranne pochi, isolati e non rappresentativi prelati provenienti da Francia, Spagna, Irlanda, Portogallo e Polonia, ma nessuno dall’impero o dall’Inghilterra. Papa Eugenio era stato sfidato dal concilio di Basilea ed era un esule perfino da Roma e dagli stati pontifici, dove subiva l’opposizione della famiglia Colonna. I teologi latini che presero parte al concilio in qualitÜ di portavoce, comprendevano soltanto quelli che erano, o da poco erano diventati, tenaci sostenitori della posizione papale contro i conciliaristi. Il primo tra loro, Cesarini, era stato un accanito sostenitore del conciliarismo a Basilea, ma da poco si era unito alle file papali. In simili condizioni, era possibile un dialogo profondo? In realtÜ, gli stessi greci non chiedevano un dialogo serio. Quanto sapevano della profonda crisi in cui versava l’occidente? I loro diplomatici (compreso Isidoro) erano stati a Costanza e a 132
Basilea, ma l’estrangement intellettuale e spirituale era andato troppo oltre per loro perchß si rendessero conto di cið che realmente stava accadendo nella chiesa d’occidente, a livello intellettuale, spirituale e teologico. Della grande massa degli scritti latini di quell’epoca – soprattutto quelli riguardanti la struttura e la riforma della chiesa – nessuno era stato tradotto in greco. Quei pochi intellettuali greci che conoscevano il latino sembravano essere stati impressionati dall’approccio fondamentalmente positivo della scolastica latina alla filosofia greca, ma non compresero mai le implicazioni istituzionali degli sviluppi teologici occidentali del loro tempo. Come à noto, il dibattito in occidente si concentrava in prevalenza sul potere nella chiesa e nella societÜ. Le forme del potere venivano definite anzitutto in termini giuridici, si parlasse del potere del re, del potere “apostolico” del papa o del potere collettivo dei concili. Alcuni studiosi sostengono l’ipotesi che il tomismo, con la sua dottrina riguardo alla legge naturale, avesse giÜ fornito le basi teologiche per la “secolarizzazione” del potere, sebbene per Tommaso Dio fosse il creatore della natura (e del potere “naturale”) e il potere fosse autonomo solo in modo relativo. Ad ogni modo, il legame tra Dio e “natura” fu reciso dalla prevalente influenza, nel xiv secolo, di Marsilio di Padova e Guglielmo di Ockham, i quali promossero una visione “naturale” della societÜ, della quale la stessa chiesa visibile era una parte, e in cui le strutture di potere e le relazioni interpersonali dovevano essere regolate dalla legge23. Si puð discutere naturalmente se il tomismo sia direttamente da biasimare per la secolarizzazione delle strutture ecclesiali nell’occidente medievale; ma per accertarsi delle dimensioni del problema, a Firenze, sarebbe stato necessario un dialogo tra tomisti e palamiti. La que23 Cf. in particolare W. Ullmann, Medieval Political Thought, Penguin, Harmondsworth 1975, pp. 184-185; si veda anche Id., Origins of the Great Schism. A Study in Fourteenth Century Ecclesiastical History, Archon Books, Hamden 1967, soprattutto l’appendice sul cardinale Zabarella, pp. 191-231.
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stione di tanto in tanto fece capolino nelle discussioni, ma fu deliberatamente sorvolata, per evitare di dover affrontare apertamente un altro punto di formale disaccordo teologico tra le due parti24. Di fatto, nessuno desiderava un dialogo di questo tipo, nß era pronto ad affrontarlo. Tomismo o no, à ovvio che a partire dall’xi secolo il papato aveva assunto in occidente un ruolo nuovo e molto piô “secolare”25, e che questo nuovo potere – sebbene sostenuto dalle stesse argomentazioni scritturistiche e patristiche del primato romano – aveva assunto caratteri direttamente ispirati alla monarchia imperiale. In tale contesto, il pensiero ecclesiologico e canonico in occidente comincið a definire sistematicamente il potere del papa in materia giurisdizionale e amministrativa come chiaramente distinto dalle sue funzioni sacramentali quale vescovo di Roma. La nozione di corpus Christi – concetto eucaristico, biblico – venne gradualmente applicata non solo alla chiesa in quanto comunitÜ sacramentale, ma anche alla societÜ cristiana universale. L’eucaristia era ancora il “vero” corpo di Cristo (corpus verum), ma la chiesa universale, che comprendeva “la gigantesca gestione legale ed economica sulla quale riposava la ecclesia militans”26, e della quale il papa era il capo visibile, era il “corpo mistico (corpus mysticum)”. 24 Cf. J. Gill, Il concilio di Firenze, pp. 213 ss. 25 “L’xi secolo inizið con un impero fiorente in oriente e un papato debole e inefficace in occidente. Si concluse con un papato estremamente potente in occidente, e un impero che lottava duramente per riaffermare se stesso e ripristinare le proprie decadute fortune in oriente. Qualunque cosa si possa pensare dello scisma del 1054, che esso sia stato l’atto finale che strappava la tunica di Cristo, o che sia stato invece soltanto uno sfortunato e sintomatico incidente, à significativo che esso avvenne alla metÜ di quel secolo” (D. M. Nicol, “Byzantium and the Papacy in the Eleventh Century”, in Journal of Ecclesiastical History 13 [1962], p. 20). 26 E. H. Kantorovicz, The King’s Two Bodies. A Study in Medieval Political Theology, Princeton University Press, Princeton 1957, p. 197; cf. anche H. de Lubac, Corpus mysticum, Jaca Book, Milano 1982, pp. 83-106, che scrive di un curioso incrociarsi (chassß-croisß ) in questo sviluppo, e G. B. Ladner, “The Concepts: ecclesia, christianitas, plenitudo potestatis”, in Sacerdozio e regno da Gregorio VII a Bonifacio VIII, Pontificia universitÜ gregoriana, Roma 1954, pp. 49-77.
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La nozione secondo cui il “potere di giurisdizione” del papa era indipendente dal suo “potere di ordinazione” (posseduto da ogni vescovo) ebbe un grande sviluppo nel xiv secolo, quando la residenza del papa non era di fatto piô Roma – di cui egli era vescovo –, bensç Avignone. I canonisti cominciarono a dibattere la questione: chi possiede il “potere di giurisdizione” quando il trono papale à vacante? E alcuni risposero: il collegio dei cardinali. Comprensibilmente ai cardinali piaceva l’idea di esercitare simili poteri, il piô diffusamente possibile, e cið portð a lunghe vacanze... Inoltre, fu ammesso che un papa, dal momento della sua elezione, avesse giÜ pieni poteri giurisdizionali, anche se non era un vescovo. Egli governava la chiesa mentre la sua consacrazione episcopale avrebbe avuto luogo alcuni mesi piô tardi. Da questi argomenti, Giovanni di Parigi potß concludere che “il potere di giurisdizione puð essere conferito solamente con l’elezione umana e il consenso”27. quindi comprensibile che coloro i quali in occidente si opponevano al potere papale, spaventati a causa dei suoi abusi e fiduciosi nella “volontÜ del popolo”, finissero per sostenere una “teoria conciliare” la quale affermava che il papa, nel suo potere giurisdizionale, amministrativo e magisteriale, à responsabile davanti a un concilio generale, dal momento che quei poteri gli sono concessi con l’elezione. questa la teoria che fu approvata a Costanza e a Basilea a seguito del “grande scisma”, teoria che metteva in opera un sistema di governo ecclesiale alquanto secolare28 (o relativamente parlando “democratico”) e che rifiutava la monarchia papale... Non sembra che tra i bizantini ci fosse una reale consapevolezza riguardo ad alcuno di questi sviluppi; o, se c’era, non con-
27 Cf. B. Tierney, Foundations of the Conciliar Theory. The Contribution of the Medieval Canonists from Gratian to the Great Schism, Cambridge University Press, Cambridge 1955, p. 175. 28 Secondo B. Tierney, Foundations, esso segue i modelli del diritto societario medievale.
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tribuç affatto alle loro argomentazioni a Firenze. Era tuttavia possibile raggiungere un sensus ecclesiae comune senza una qualche comprensione comune della questione del potere nella chiesa, che in occidente stava creando un tale scompiglio e addirittura uno scisma? Considerando la situazione storica in prospettiva, si puð comprendere per quale ragione i greci scelsero infine di partecipare al concilio optando per la posizione papale. Non solo veniva offerta loro la possibilitÜ di tenere l’assemblea in una cittÜ “vicino al mare”, ma inoltre il sistema che aveva prevalso a Basilea, con rappresentanti per “nazioni”, sembrava essere incompatibile con l’autocoscienza greca secondo cui l’imperatore bizantino era ancora il capo nominale della cristianitÜ universale e la delegazione orientale rappresentava l’“altra metÜ” della chiesa. Sembrava che se i greci fossero andati a Basilea, sarebbero stati soltanto una nazione fra le “nazioni”. A Ferrara, invece, vennero riconosciute sia la dignitÜ imperiale di Giovanni VIII Paleologo, sia la “pentarchia” dei patriarchi. Un protocollo accettabile, ma nessun dibattito ecclesiologico... Eppure, non vi à dubbio che una partecipazione orientale alle controversie che stavano lacerando la cristianitÜ occidentale avrebbe potuto essere estremamente costruttiva, contribuendo al superamento di almeno alcune contraddizioni e al ristabilimento di un certo equilibrio. Analizzando oggi le posizioni iniziali di personaggi poi condannati come eretici, quali Wycliff e gli hussiti o Gioacchino da Fiore, o tentando di stabilire paralleli tra la testimonianza degli spirituali francescani e molte forme di spiritualitÜ monastica non convenzionali ma ampiamente accettate in oriente, o guardando oggettivamente alle comprensioni critiche, e in genere molto “occidentali”, della prima tradizione cristiana espresse da Marsilio di Padova o Giovanni di Parigi, non possiamo negare di trovarci di fronte a una vera tragedia spirituale: nessuno di quei cristiani occidentali, le cui intenzioni erano spesso cosç auten136
tiche, aveva la benchß minima reale conoscenza del cristianesimo orientale; di conseguenza, restð loro inaccessibile qualsiasi alternativa ecclesiologica alle forme piô autoritarie del sistema papale medievale29. Altrettanto tragico fu l’atteggiamento strettamente difensivo, disinformato e in certa misura provinciale degli uomini di chiesa orientali che si recarono a Ferrara-Firenze: fortemente condizionati dai propri interessi, essi erano ovviamente incapaci di comprendere le vere realtÜ del cristianesimo occidentale. Ma forse à ingiusto biasimarli per aver ignorato i movimenti intellettuali e spirituali dell’Europa settentrionale e centrale. Cið che essi avrebbero potuto fare, tuttavia – sulla base della loro propria tradizione, che conoscevano bene – era produrre una diagnosi della dottrina del potere papale quale venne presentata loro al concilio, e focalizzare di conseguenza il dibattito sul vero punto nodale: la dicotomia tra le funzioni sacramentali (potestas ordinationis) e i poteri magisteriali del papa. Se esisteva una tradizione ecclesiologica fermamente sostenuta in oriente, era proprio quella dell’impossibilitÜ di una simile dicotomia. Forse l’indicazione piô chiara in direzione dell’unitÜ dei poteri sacramentali e magisteriali di tutti i vescovi puð essere scorta nelle argomentazioni contro le rivendicazioni del primato ro-
29 Contatti tardivi furono stabiliti nel 1451 tra gli utraquisti moravi e gli ortodossi antiunionisti di Costantinopoli, capeggiati, dopo la morte di Marco Eugenico, da Gennadio Scholarios. Un certo Costantino Platris, presbitero utraquista, venne perfino formalmente accolto nella chiesa ortodossa di Costantinopoli (cf. M. PaulovÛ, “L’empire byzantin et les Tchàques avant la chute de Constantinople”, in Byzantinoslavica 14 [1953], pp. 158-225). Il contatto naturalmente avvenne troppo tardi e al di fuori del contesto “ecumenico” che poteva essere esistito in precedenza. In realtÜ à il decreto di Firenze che rese impossibile uno spirito “ecumenico”. Recentemente L. M. Clucas ha stabilito un parallelismo tra l’esicasmo bizantino e le teorie di Gioacchino da Fiore (“Eschatological Theory in Byzantine Hesychasm. A Parallel to Joachim da Fiore”, in Byzantinische Zeitschrift 70 [1977], pp. 324-346). Ma contatti diretti sono molto poco probabili. Per un utile e ben documentato esame delle tendenze occidentali che si opponevano all’autoritarismo papale, si veda G. Leff, “The Apostolic Ideal in Later Medieval Ecclesiologies”, in Journal of Theological Studies 18 (1967), pp. 58-82.
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mano medievale. L’argomentazione consisteva nel negare che l’apostolo Pietro appartenesse solo a Roma, non solo perchß egli era stato a Gerusalemme e ad Antiochia (At 1-10; 15; eccetera) prima di giungere nella capitale imperiale, ma perchß Pietro à il modello di ogni vescovo in seno alla comunitÜ che questi presiede. Questa primitiva idea cristiana era stata chiaramente formulata da Cipriano nel iii secolo: ogni vescovo che presiede la propria diocesi occupa la “cattedra di Pietro”30. Essa ricorre in molti contesti inattesi, compresi gli scritti agiografici. Secondo Gregorio di Nissa, Cristo “attraverso Pietro ha dato ai vescovi le chiavi degli onori celesti”31, e perfino lo Pseudo-Dionigi si riferisce all’immagine di Pietro quando descrive la sua “gerarchia” ecclesiastica32. In realtÜ, questa visione del ministero di Pietro perpetuato in tutti i vescovi, ereditata da Cipriano, era quella prevalente anche in occidente, come à ben dimostrato dai numerosi testi pazientemente raccolti da Yves Congar33. L’idea che ci fosse un potere “petrino” indipendente e separabile dalla perpetuazione sacramentale dell’episcopato à totalmente estranea all’ecclesiologia cristiana delle origini. Ogni volta che i bizantini discutevano direttamente la successione di Pietro nella chiesa, essi sottolineavano il ministero universale di tutti gli apostoli, Pietro incluso; il ministero distintivo e sempre locale e sacramentale dei vescovi, inseparabile dalla comunitÜ di ogni vescovo; il fatto che Roma non potesse rivendicare la successione di Pietro solo per se stessa, e che una simile successione, a Roma come in ogni altro luogo, fosse condizionata dalla confessione di fede di Pietro; e, infine, che ogni vescovo di fede ortodossa possedesse “il potere delle chiavi” 30 Dopo gli studi di A. d’Alàs, P.-Th. Camelot e soprattutto P. Bßvenot sull’ecclesiologia di Cipriano, non ci puð essere alcun dubbio circa la concezione della cathedra Petri nei suoi scritti. 31 De castigatione, PG 46,312C. 32 De ecclesiastica hierarchia VII,7, PG 3,561-564. 33 L’ecclßsiologie du haut Moyen-Age, pp. 138-151.
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conferito da Cristo a Pietro34. interessante notare che praticamente tutte queste argomentazioni sono le stesse alle quali ricorre Marsilio di Padova35, con la differenza che Marsilio ammette la separazione tra i poteri sacramentale e giurisdizionale, e di conseguenza cerca un sistema amministrativo basato non sui carismi sacramentali, bensç su un sistema rappresentativo creato dalla congregatio fidelium, anticipando direttamente la Riforma protestante. chiaro, quindi, che un autentico incontro ecclesiologico tra oriente e occidente nel xv secolo non sarebbe sfociato in un avallo del conciliarismo occidentale da parte dell’oriente. Proprio come l’odierno dialogo cattolico-ortodosso, esso si sarebbe messo a esplorare i modelli di governo ecclesiale del primo millennio. La delegazione greca tentð di fare esattamente questo quando, alla conclusione del concilio, le venne presentato per la firma il testo sul primato romano. Praticamente all’ultimo minuto, nel decreto fu fatto riferimento agli “atti” dei concili ecumenici e ai “santi canoni” come quadro nel quale doveva essere esercitata la plena potestas papale. Ma, agli occhi dei lettori occidentali, il riferimento era alquanto innocuo, dal momento che la terminologia papale, con i suoi concetti chiave, era pienamente integrata nel decreto. Il concilio aveva totalmente sconfessato il conciliarismo e, come oggi gli storici riconoscono, il suo solo traguardo storico fu il salvataggio del potere papale, fino al momento in cui sarebbe stato sfidato in modo ancor piô radicale un secolo piô tardi.
34 Per uno studio di tutti questi argomenti dei polemisti bizantini, tra i quali, nel xiv secolo, si possono annoverare Barlaam il Calabro e Nicola Cabasilas, si veda il mio articolo “San Pietro, il suo primato e la sua successione nella teologia bizantina”. 35 Cf. G. Leff, “The Apostolic Ideal”, pp. 62-63.
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Il mondo ortodosso verso il 1440 e la reazione russa GiÜ ho evidenziato il fatto che da parte della leadership politica ed ecclesiastica bizantina era stato fatto un reale sforzo per assicurare che la delegazione che si recð al concilio fosse pienamente rappresentativa dei vari gruppi e delle diverse tendenze esistenti nel cristianesimo orientale. Tuttavia, guardando al mondo ortodosso della metÜ del xv secolo, si puð immediatamente cogliere lo iato psicologico esistente tra i gruppi relativamente piccoli dei rappresentanti ufficiali che giunsero a Ferrara e le masse del clero e dei fedeli che vivevano sotto l’occupazione musulmana o in Russia. Assediati in una cittÜ praticamente priva di abitanti36, la corte imperiale e il patriarcato, mentre mantenevano il loro prestigio simbolico, rappresentavano un piccolo gruppo elitario che aveva tutto da perdere se i turchi avessero occupato la cittÜ. Le masse, al contrario – sia in Asia Minore che nel Medio oriente e, successivamente, nei Balcani –, avevano giÜ cominciato ad accettare la necessitÜ di sopravvivere sotto il dominio musulmano37. importante ricordare che la maggior parte dei soldati che costituivano l’esercito di Mohammed il Conquistatore nel 1453 erano cristiani reclutati nei territori imperiali giÜ conquistati in precedenza. Era questa gente, come pure le lontane societÜ di Russia, Georgia o Trebisonda, da vincere alla causa dell’unione se si voleva che il concilio fosse accettato dalla chiesa nella sua globalitÜ. Si puð allora capire molto bene per quali ragioni, per questa massa di popolazione ortodossa, il messaggio negativo che Marco di Efeso portð da Firenze, sostenuto come era dalle comunitÜ monastiche spiritual-
36 La popolazione di Costantinopoli era scesa a non piô di 50 000 abitanti. 37 GiÜ nel 1354 Gregorio Palamas, prigioniero dei turchi per un anno, scrive alla sua chiesa di Tessalonica descrivendo l’esistenza relativamente prosperosa dei cristiani sotto il giogo ottomano.
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mente influenti, fu molto piô comprensibile e accettabile che non l’idea di un governo papale. La fede ortodossa non poteva esser tradita per amore dell’opinabile e problematica sopravvivenza di un impero morente. La reazione russa andrebbe interpretata nella stessa prospettiva. Tuttavia l’opinione, spesso sostenuta, secondo la quale il gran principe di Mosca stesse aspettando un’opportunitÜ per autoproclamarsi salvatore della vera ortodossia, in opposizione sia a Bisanzio che all’occidente, rappresenta un anacronismo storico. L’autoaffermazione religiosa e politica moscovita, che assunse presto forme messianiche con la teorizzazione di una “terza Roma”, à la conseguenza, e non la causa, degli eventi occorsi alla metÜ del xv secolo. Nel 1425-1447, ancora sotto il controllo dei mongoli, il Gran principato di Mosca era nel turbine di una lunga e sanguinosa crisi dinastica. Il gran principe Basilio II venne accecato dal suo antagonista, Dmitrij Sˇemjaka (1446), prima di riuscire a riprendere il proprio trono. Per tutto il xiv secolo, nonostante numerosi e aspri conflitti, il patriarcato di Costantinopoli aveva rafforzato il proprio controllo amministrativo su quella che le fonti bizantine hanno sempre definito “Russia” (Rosæa), una nazione politicamente divisa tra il Gran principato moscovita, la Lituania e la Polonia. Tale controllo era esercitato dal “metropolita di Kiev e di tutta la Russia” che – con la benedizione del patriarcato – risiedeva a Mosca. Cið implicava per la Moscovia il sostegno politico bizantino. Un simile sostegno divenne particolarmente significativo dopo il 1386, anno in cui Lituania e Polonia vennero riunite sotto un unico monarca cattolico, e il gran principe di Mosca acquisç un certo monopolio dell’ortodossia. Le imponenti figure di due metropoliti di Kiev, Cipriano (1375-1406) e Fozio (1408-1431), approvarono e svilupparono contatti e collaborazioni tra Costantinopoli e Mosca, mentre furono nel contempo molto interessati al destino della vasta popolazione ortodossa di Polonia e Lituania, terre in cui entrambi 141
si recarono a piô riprese38. qui, e non a Mosca, che ebbe luogo una prima ma effimera ribellione contro il controllo ecclesiastico bizantino, con l’elezione non canonica di un metropolita separato, Gregorio Tsamblak (1414-1418), il quale, come abbiamo visto, si recð in visita al concilio di Costanza (1417). Nel 1437, il gran principe Basilio rinnovð la propria lealtÜ alle autoritÜ bizantine, accettando come metropolita un altro greco, Isidoro. La politica di alternanza tra titolari greci e russi, seguita nel corso dei secoli xiii e xiv39, avrebbe esigito un candidato russo dopo Fozio, morto nel 1431. In realtÜ, la nomina di un metropolita russo (il vescovo di Smolensk, Gerasimo, nominato dalla Lituania) aveva avuto luogo a Costantinopoli, ma durante la sua breve reggenza (1434-1435) egli non aveva esteso la propria giurisdizione su Mosca, bensç soltanto sulle diocesi di Lituania e di Novgorod. Con la nomina di Isidoro, il gran principe moscovita sostenne economicamente i progetti di unione della chiesa e permise a una folta delegazione (con duecento cavalli) di recarsi al concilio. Quando Isidoro ritornð (1441), le autoritÜ moscovite dovevano aver ricevuto molte informazioni a proposito dell’esistenza di un’opposizione greca al decreto di Firenze e del rammarico espresso da molti firmatari. Non à necessario alcuno stato d’animo particolarmente “messianico”, anti-bizantino o anti-occidentale per spiegare l’espulsione di Isidoro, soprattutto dal momento che la sua espulsione fu seguita da quasi otto anni di studio della situazione. Dato che l’unione non era ancora stata proclamata in forma ufficiale, il gran principe scelse diplomaticamente di ignorarla. 38 Cf. J. Meyendorff, Byzantium and the Rise of Russia, in particolare pp. 245-260. 39 Su questa deliberata linea di condotta testimoniata da un testo di Niceforo Gregoras e sulla sua importanza per i legami tra Costantinopoli e Mosca, si veda D. Obolensky, “Byzantium, Kiev and Moscow. A Study of Ecclesiastical Relations”, in Dumbarton Oaks Papers 11 (1957), pp. 23-78, e J. Meyendorff, Byzantium and the Rise of Russia, p. 88.
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Nel 1441, in una rispettosa lettera al patriarca Metrofane, egli lo pregava di autorizzare la nomina di un metropolita, eseguita nel nostro paese. La necessitÜ di un lungo e difficile viaggio (fino a Costantinopoli e ritorno), l’invasione degli Agareni senza Dio nel nostro mondo cristiano, i problemi e le lotte che avvengono nelle terre vicine e la moltiplicazione delle forze in campo, sono i motivi della nostra richiesta40.
Metrofane era un sostenitore dell’unione e, ovviamente, non rispose. Nel 1448, infine, Giona fu intronizzato come “metropolita di Kiev e di tutta la Russia” da parte di un sinodo di vescovi russi. Ma le autoritÜ russe continuarono a tenere un atteggiamento diplomatico deliberatamente “ingenuo”. Nel 1451 Basilio invið una lettera a Costantino, il nuovo imperatore bizantino, rivolgendosi a lui con tutti i titoli consueti: Preghiamo la vostra santa maestÜ di non accusarci di disprezzo, perchß ci siamo comportati come abbiamo fatto, senza consultarci con la vostra signoria ... [Anche se solo adesso, dopo l’intronizzazione di Giona], la piô santa metropolia della Russia richiede e cerca la benedizione della santa, ecumenica, cattolica e apostolica chiesa della Sapienza di Dio a Costantinopoli, e si sottomette ad essa in accordo con l’antica ortodossia.
Basilio allude poi significativamente ai “disaccordi sorti di recente” e usa un ultimo argomento per spiegare la mancanza di comunicazioni con il patriarcato: “Non sappiamo se ci sia un patriarca nella cittÜ-regina, poichß non abbiamo alcuna no40 Testo in Russkaja istoriceskaja biblioteka VI, coll. 525-536.
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tizia nß da lui nß da altri, e non conosciamo il suo nome”41. C’era del vero nell’ultima frase, visto che il patriarca Gregorio, favorevole all’unione, nel 1451 era stato costretto a lasciare la capitale per Roma e non era stato eletto alcun successore. Ad accrescere esageratamente la posizione di Mosca contribuç il fatto che l’elezione di Giona venne riconosciuta nei territori polacco-lituani. Re Casimiro IV, sostenitore del concilio di Basilea, gli aveva confermato in modo ufficiale l’investitura42, e Giona assunse formalmente la giurisdizione sulle diocesi ortodosse in Lituania e in Polonia, oltre che in Moscovia. A confronto di cið che a Costantinopoli accompagnð l’insediamento dei patriarchi indipendenti di Bulgaria e Serbia, l’azione di Mosca nel 1448 – dato in particolare il pretesto formale fornito dalle impreviste circostanze dell’unione – à segnata infatti da una certa nostalgia per i bei tempi, quando la chiesa di Costantinopoli esercitava in Russia un’autoritÜ materna. Per quanto diversi, vi si devono anche sentire echi piô nazionalistici, sebbene non confermati in ambiti ufficiali. Essi appaiono in due serie di fonti: 1) i resoconti dei chierici russi che avevano accompagnato Isidoro a Firenze indicano che essi avevano seguito la linea del loro metropolita al concilio e, nel caso del vescovo Abramo di Suzdal’, avevano formalmente firmato il decreto. Proprio come i vescovi greci e gli ufficiali che al loro ritorno decisero di ritrattare la firma, questi chierici russi dovevano presentare una ra41 Ibid., coll. 583-586. Una delle copie di questa lettera giunta fino a noi reca la nota “Non spedita”. Tale nota costituisce l’argomento principale addotto da Ja. S. Lur’e per dubitare dell’autenticitÜ dell’intera corrispondenza ufficiale tra Mosca e Costantinopoli del periodo 1448-1453 (Slovar’ kni°nikov i kni°nosti drevnei Rusi, vyp. 2, pp. 420-422, e il suo studio “Kak ustanovilas’ avtokefalija ruskoj cerkvi v xv-m veke?”, in Vspomogatel’nye istoricˇeskie discipliny 203 [1991], pp. 181-198). Tuttavia, che le lettere siano state spedite o meno, esse rappresentano chiaramente l’atteggiamento ufficiale, all’insegna del temporeggiamento, adottato a Mosca in quel periodo. Ma Lur’e mostra in modo piuttosto convincente che non ci fu un impegno ufficiale di Costantinopoli per nominare Giona come successore di Isidoro. 42 Russkaja istoricˇeskaja biblioteka VI, coll. 563-572.
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gione plausibile per i loro capricci. I greci, di solito, e in modo poco convincente, facevano riferimento a ricatti fisici e morali esercitati su di loro dai latini. I russi invocarono l’insensibilitÜ di Isidoro e il “tradimento” dei greci. Un autore, rivolgendosi retoricamente all’imperatore Giovanni VIII Paleologo, esclama: “Che cosa hai fatto? Hai scambiato la luce con le tenebre; al posto della legge divina hai accolta la fede latina; al posto di veritÜ e giustizia, hai amato adulazione e falsitÜ”43. E dal momento che i bizantini stessi avevano insegnato ai russi che l’imperatore di Costantinopoli era l’“imperatore di tutti i cristiani” e che “à impossibile per i cristiani avere la chiesa ma non avere l’imperatore”, ma anche che “i cristiani rifiutano gli imperatori eretici”44, esisteva una base ovvia e inevitabile per procedere a una translatio imperii. Giacchß Basilio II di Mosca aveva sostenuto la vera fede, era adesso un “nuovo Costantino”, il “grande sovrano, lo zar russo incoronato da Dio”45. Il metropolita Giona, scrivendo al principe Alessandro di Kiev, attribuç a sua volta a Basilio II il merito di aver imitato i suoi “antenati”: l’imperatore Costantino e il principe Vladimiro46; 2) questo atteggiamento di autoaffermazione fu decisamente rafforzato dopo la caduta di Costantinopoli (1453) e la nomina nel 1458 di un altro metropolita di Kiev all’interno del dominio di re Casimiro di Polonia, che nel frattempo aveva pienamente riconosciuto l’autoritÜ romana. La consacrazione del nuovo metropolita – Gregorio Bolgarin, un ex diacono di Isidoro – fu eseguita dal patriarca uniate di Costantinopoli Gregorio Mammas, in quel momento in esilio a Roma. Tale azione fu intrapre-
43 Slovo izbrano, in A. N. Popov, Istoriko-literaturnyj obzor drevnerusskich polemicˇeskich socˇinenij protiv latinjan, Tip. T. Rus’, Moskva 1875, pp. 372-373. 44 Cf. la famosa lettera scritta nel 1391 dal patriarca Antonio a Basilio I di Mosca (cf. supra, n. 3). Sulle circostanze della lettera e il probabile ruolo del metropolita Cipriano, si veda J. Meyendorff, Byzantium and the Rise of Russia, pp. 255-256. 45 Slovo izbrano, p. 113. 46 Lettera del 1451, in Russkaja istoricˇeskaja biblioteka VI, coll. 559-560.
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sa in virtô di un decreto di papa Callisto III, che divideva ecclesiasticamente “Russia superiore” (governata “dal monaco scismatico Giona, figlio dell’iniquitÜ”) e “Russia inferiore” (con il nuovo metropolita Gregorio a Kiev sotto il dominio polacco)47. Questo decreto illustrava quale poca attenzione il papa avesse per il decreto di Firenze, che garantiva “diritti e privilegi” ai patriarchi orientali: la metropolia di Kiev era stata divisa per decreto papale, non per una decisione del patriarca (anche se uniate), sebbene quest’ultimo abbia poi effettuato la consacrazione di Gregorio. All’epoca, tuttavia, il decreto ebbe scarsi effetti. Il nuovo metropolita Gregorio abbandonð la giurisdizione papale nel 1470 e riconobbe l’autoritÜ del patriarca ortodosso di Costantinopoli, ora sotto il dominio turco. A Mosca, perð, i documenti ufficiali cominciarono a emettere severi moniti contro “Gregorio, il piô diabolico discepolo di Isidoro, venuto in Lituania da Roma”48. Poichß di fatto l’ortodossia del metropolita di Kiev non fu in discussione dopo il 1470, il titolo di “Kiev” venne tranquillamente fatto cadere dal titolo di “metropolita di tutta la Russia” risiedente a Mosca49, il che significava un riconoscimento de facto di una metropolia di Kiev separata sotto Costantinopoli. Sotto il figlio di Basilio II, Ivan III il Grande, il principato moscovita comincið a crescere diventando un vero e proprio impero. I gran principi non scoraggiarono le idee che alludevano a una translatio imperii, ma nemmeno le fecero mai formalmente proprie. Esse apparvero non solo negli scritti del monaco Filofej di Pskov – il quale ipotizzava che Mosca fosse la “terza Ro47 Documenta pontificum romanorum historiam Ucrainae illustrantia (1075-1953) I, a cura di A. Wleykyj, Sumptibus Ucrainorum apud exteres degentium, Roma 1953, p. 46. Cf. un’informata discussione di questi eventi in O. Halecki, From Florence to Brest (1439-1596), Sacrum Poloniae Millennium, Roma 1958, pp. 84-86. 48 Lettera del metropolita Giona ai vescovi di Lituania, in Russkaja istoricˇeskaja biblioteka VI, col. 621. 49 Cf. A. Ja. Sˇpakov, Gosudarstvo i cerkov’ v ich vzaimnych otnosˇenijach v moskovskom gosudarstve I, Tip. Technik, Odessa 1912, p. xviii.
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ma”, ma anche l’ultima, perchß la parusia era vicina –, bensç anche nella corrispondenza diplomatica del senato veneziano, indirizzata a Ivan in relazione al suo matrimonio con Zoe-Sofia, nipote dell’ultimo imperatore bizantino50. In nessun momento, tuttavia, la translatio imperii divenne una dottrina politica ufficiale: gli zar russi non assunsero mai il titolo di “imperatori romani” – come una translatio formale avrebbe richiesto – e ritennero che il loro titolo significasse l’instaurazione di una monarchia nazionale “di tutta la Russia”, non un impero cristiano universale. Cosç Ivan IV si assicurð di ottenere le benedizioni dei patriarchi orientali dopo la sua incoronazione nel 1547, e l’instaurazione del patriarcato di Mosca nel 1588 fu effettuata da Geremia II di Costantinopoli. Nei termini della storia generale della chiesa russa, la rescissione dei legami amministrativi con Costantinopoli era storicamente inevitabile. La tradizione cristiana orientale che immaginava la cristianitÜ mondiale come un’associazione di chiese locali unite nella fede e nei sacramenti era un modello generale che doveva necessariamente valere anche per la Russia. Tuttavia, in pratica, l’elezione di Giona nel 1448 implicava che la chiesa divenisse soggetta, almeno nei suoi vertici, al potere arbitrario degli zar, via via piô forte e sempre piô secolarizzato. E cið comportava inoltre che le sarebbe venuta a mancare quell’indipendenza di cui avevano goduto i “metropoliti di Kiev e di tutta la Russia” quando potevano agire quali rappresentanti di un distante centro bizantino e conservare la missione universale, transnazionale e transetnica della chiesa in Europa orientale.
50 Il metropolita Teodosio (1461-1464) ne fa ancora uso, ma non piô Filippo I (1467-1473).
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Conclusione: che dire a proposito di Firenze? Come ho tentato di mostrare in questo capitolo, un concilio ecumenico di unione rappresentð, nel cristianesimo orientale, un’autentica speranza, sostenuta da molti suoi leaders e teologi nel periodo successivo alle crociate. Il concilio, che alla fine si tenne a Ferrara e a Firenze, rifletteva, d’altro canto, un’autentica concessione dell’occidente alle posizioni ecclesiologiche dell’oriente: il concilio si riunç, almeno in via di principio, come l’“ottavo” concilio, prospettando teoricamente la possibilitÜ di risolvere tutti i problemi che dividevano le chiese e senza essere vincolato dalle unilaterali soluzioni occidentali che erano state adottate tra l’xi e il xv secolo. E tuttavia la tragedia avvenne perchß non vi fu un autentico incontro tra le due tradizioni. Nß fu affrontata l’agitazione interiore dell’occidente, che in sß era una conseguenza dello squilibrio ecclesiologico legato allo scisma tra oriente e occidente. Nß, infine, vi fu nella delegazione orientale la capacitÜ teologica, l’informazione necessaria e il coraggio spirituale per affrontare i problemi reali. lecito affermare, effettivamente, che nel 1438-1439 le due metÜ del cristianesimo erano piô lontane ed estraniate l’una dall’altra di quanto non lo siano oggi. Infatti, se si considerano quegli ortodossi ai quali sta veramente a cuore la causa dell’unitÜ cristiana, e se, d’altra parte, ci si richiama alla conoscenza e all’esperienza spirituale di quei leaders occidentali, studiosi e teologi (purtroppo non molto numerosi) che hanno capito la natura e le implicazioni dell’esperienza ecclesiale ortodossa, allora un vero dialogo à certamente possibile. Dato che Firenze, esaminata in prospettiva storica, si à rivelata un fallimento per ragioni teologiche e spirituali che oggi siamo in grado di comprendere, la nostra responsabilitÜ dinanzi alle questioni che ancora ci dividono, diventa oggi ancor piô grande. 148
INDICE
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INTRODUZIONE
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NOTA EDITORIALE
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I. ROMA E COSTANTINOPOLI Strutture imperiali contrapposte ad “apostolicitÜ” Sviluppi ecclesiologici Scisma e tentativi di unione
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II. BISANZIO, CENTRO DEL PENSIERO TEOLOGICO NELL’ORIENTE CRISTIANO Teologia come esperienza o comunione Speculazione teologica positiva e trascendenza divina Il problema dell’autoritÜ dottrinale nella chiesa bizantina
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III. DUE VISIONI DELLA CHIESA. ORIENTE E OCCIDENTE ALLA VIGILIA DELL’EPOCA MODERNA La rinascita esicasta Oriente e occidente: il divorzio graduale L’oriente entra nei suoi secoli bui IV. CRISI IDEOLOGICHE A BISANZIO DAL 1071 AL 1261 La crisi nell’ideologia imperiale Crisi nei rapporti con l’occidente latino Conclusioni V. LA TEOLOGIA NEL XIII SECOLO. CONTRASTI METODOLOGICI L’occidente: universitÜ e ordini religiosi Incontri teologici Teologia monastica
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VI. A FIRENZE CI FU UN INCONTRO TRA ORIENTE E OCCIDENTE? Firenze: la realizzazione delle speranze bizantine Cosa non accadde a Firenze Il mondo ortodosso verso il 1440 e la reazione russa Conclusione: che dire a proposito di Firenze?