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Italian Pages 274 [287] Year 1993
Quest'Italia
Collana di storia, arte e folclore
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Nei risguardi: Tempio dedicato al Sole da Lucio Domizio Aureliano Prima edizione: ottobre 1993
© 1993 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 88-7983-279-4 Fotocomposizione: Centro Fotocomposizione s.n.c., Città di Castello (PG) Stampato nell'ottobre 1993 presso la Tipolitografia Luciano Chiovini s.r.l., Roma e allestito dalla legataria Segea 200 l, Roma
Romolo A. Staccioli
Roma di ieri Roma di oggi Analogie, ritorni, coincidenze e continuità tra la Roma del passato e quella dei nostri giorni: uno straordinario viaggio della memoria nella vita sempre uguale e sempre diversa della «città eterna»
N ewton Compton editori
alla memoria dell'amico Antonio Greggio un anno dopo
Presentazione
. . . ut possemus aliquando qui et ubi essemus cognoscere
(Cicerone, Acad. 1,3,9)
La presenza della città antica in quella contemporanea è a Roma talmente naturale da apparire scontata e tuttavia essa sfugge, quasi sempre, anche ai romani. Molti non ci fanno caso o la dimenticano; molti addirittura la ignorano. Eppure, essa è concreta e operante, e vi si ri flette, in un'impressionante dimensione di «continuità», una realtà che è fatta di storia e di topografia, di ambiente, di tradizione e di costume, di modo di pensare e di essere: la Roma di ieri in quella di oggi. Vale dunque la pena, di tanto in tanto, richiamare alla memoria questa presenza, attraverso rievocazioni che proprio sulla continuità facciano ieva traendo spunto dall'attualità: quella delle scoperte e degli studi o delle mostre; quella dei luoghi che si ripropongono come «palcoscenico» degli avvenimenti e dei ricordi, non di rado con i medesimi nomi; quella delle ricorrenze che si susseguono senza interruzione e che, avendo a che fare con Roma antica, sono sempre pluricentenarie e spesso più che bimillenarie. È così che il compito delle rievocazioni è stato affidato a una serie di ('rticoli apparsi nell'ultimo quinquennio sulla stampa periodica - il quoti diano Il Tempo e le riviste Roma, ieri oggi domani, Archeoroma, Ulisse e Civita - e dunque legati per definizione al contingente e perciò effimeri, se non fosse che hanno per oggetto una città la quale, pure per defini zione, è «eterna». Solo per questo s'è ritenuto che essi potessero avere sorte migliore di 1quella limitata alla durata d'un giorno o sia pure d'un mese; in ciò confortati dal favore che già accolse un «esperimento» fatto in tal senso ma «in formato ridotto». Gli articoli sono stati ripresi e pubblicati così come apparvero nella loro prima sede, salvo la reintegrazione, qua e là, di qualche piccolo taglio, a suo tempo imposto dalla «tirannia dello spazio», e, natural mente, la correzione dei refusi o di piccole sviste che capitano, tal volta, quando si scrive pur sempre in maniera troppo rapida e magari affret tata. L'ordine di successione è, genericamente, cronologico rispetto allo
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spunto, cioè all'avvenimento, al luogo, al monumento, al personaggio che volta a volta costituisce l'oggetto principale dello scritto; anche se poi i richiami (compresi quelli temporali) si moltiplicano e spesso, sia pure per sommi capi, il discorso s'allarga a una storia dipanatasi in tempi più lunghi, prima e dopo il momento messo a fuoco. Di proposito sono stati lasciati tutti i riferimenti di carattere contin gente, non solo per rispettare fino in fondo i testi originali, ma anche per giustificare e per spiegare (eventualmente con qualche ulteriore precisa zione in nota) i vari interventi. Questi poi, essendo stati concepiti a sé stanti e redatti in tempi (e per motivi) diversi, connessi via via al succe dersi degli accadimenti, presentano talvolta delle ripetizioni o piuttosto delle brevi riprese, accenni e considerazioni presenti anche altrove. Non si tratta di molti casi e, senza che diano troppo fastidio, essi possono servire per collegare meglio tra di loro fatti, luoghi e circostanze che altrimenti potrebbero apparire slegati e indipendenti. Mentre fanno parte di quell'unica realtà storica che le diverse «puntate», tutte insieme, e, sia pure, occasionalmente, si propongono di ricomporre e di far cono scere. Prima di tutto, a coloro che vivono a Roma, siano essi di discen denza romana o soltanto nativi della città oppure arrivativi da fuori, e poi ai tanti «romani» che, oggi come ieri, sono disseminati per il mondo.
Dalla leggenda alla storia
La ricorrenza del «Natale di Roma», ad ogni 21 di aprile, è stata sempre celebrata - non solo nell'an tichità ma anche nell'età moderna (da quando, nella seconda metà del Quattrocento, dopo mille anni d'oblio, tornarono a farlo in privato gli umanisti che si riunivano nella casa di Pomponio Leto) - come la festa della «fondazione» della città. Dunque, per l'appunto, della sua «nascita», intesa come un evento preciso e definito nel tempo. Ci volevano gli scettici e gli epigoni dell'ipercritica positivistica del ì'Ottocento per togliere alla ricorrenza tale significato dopo aver negato ogni validità storica alla tradizione e relegato tutto nella leggenda. Quello che fu così considerato il «mito della fondazione» venne so stituito dall'idea di un'origine di Roma per «progressivo divenire», ossia per un processo evolutivo di formazione, fino al pieno sviluppo della città storica. Salvo poi a discettare fieramente sulla possibilità alterna riva che tale processo fosse da intendere nel senso del graduale accresci mento di un unico abitato originario o dell'altrettanto graduale fusione Ji più villaggi, distinti ma contigui, in via di autonomo e rispettivo ampliamento. Il «momento» dell'avvenuta unificazione (o del compiuto processo evolutivo) sarebbe stato assunto (o scambiato) dagli antichi come quello della «fondazione» e in ogni caso solo in tale senso sarebbe stato pos sibile intendere il «Natale di Roma» e continuare a celebrarlo. Quanto al Palatino, vista l'insiste 1_1z a degli antichi sul ruolo da esso svolto nella nascita della città (al punto che ancora durante l'età imperiale vi era venerata una capanna, continuamente restaurata, indicata come l'abita zione di Romolo ), s'era riconosciuto che il colle doveva essere posto senz'altro al centro della vicenda delle origini come sede del villaggio più importante tra quanti erano sorti nella zona fin dalla tarda età del bronzo, e che, attraverso l'uno o l'altro dei due procedimenti ipotizzati, avrebbe comu pque dato vita alla città. Così sta scritto, più o meno, in tutti i testi seri - dai manuali alle guide
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alle dispense - pubblicati sull'argomento fino ad oggi, cioè fino a molti mesi dopo che alcune fortunate e inattese scoperte archeologiche sono venute a rimettere tutto in discussione e ad indurre gli studiosi a ripen sare alla validità e all'esattezza delle loro «ricostruzioni», a riprendere in mano i libri degli antichi e a confrontare le informazioni in essi contenute con i dati dello scavo, e, finalmente, a ridare credibilità e dignità storica alla tradizione della fondazione. Le scoperte - curiosamente, e malamente, divulgate nel giugno 1 988 dai nostri mezzi di comunicazione di massa solo «di rimbalzo» da quanto pubblicato nel Ne w York Times! - sono av venute negli ultimi tre/quattro anni, manco a dirlo, sul Palatino; o meglio e più precisa mente sulle estreme pendici settentrionali del colle, proprio di fronte alla Basilica di Massenzio, tra l'Arco di Tito e la Casa delle Vestali. Una zona inspiegabilmente trascurata e rimasta quindi inesplorata, benché libera, eppure di estremo interesse, per via della sua ubicazione. Tant'è vero che gli scavi, tuttora in corso, vi hanno rimesso in luce, oltre (e sotto) ai ruderi dei grandi edifici pubblici dell'età imperiale (cost ruiti dai Flavi dopo gli inte rventi di Nerone conseguenti alle distruzioni dell'incendio dell'anno 64), i resti di quello che per quasi seicento anni, dall'età regia fino alla fine della repubblica, fu il «quartiere residen ziale» più importante di Roma. Esso infatti, per essere immediatamente adiacente al Foro, cuore della vita e d ell'attività pubblica cittadina, fu il luogo preferito per le loro dimore dalle grandi famiglie dell'aristocrazia senatoria e dei notabili della città e dello stato (vi abit ò, tra gli altri, Cicerone) . E sono proprio gli avanzi di queste case ad essere tornati alla luce nelle successive stratifi cazioni che dal I secolo scendono fi no al vi a.C. Al di sotto di tutto, però, al primo livello d'occupazione stabile del luogo, direttamente a contatto col suolo vergine, sono state pure riesu mate le inequivocabili testimonianze di un «sistema» di recinzione e di difesa databile all'vm secolo a.C. Si tratta, in particolare, dei res ti di un muro in scaglie di tufo, largo poco più di un metro, la cui parte superiore doveva forse terminare con una palizzata della quale è stata riconosciuta qualche traccia; poi, all'e sterno del muro, di un tratto di fossato ricavato dalla regolarizzazione del letto naturale di un piccolo corso d'acqua che scendeva nell'insella tura tra il Palatino e la Velia per andare ad impantanarsi nella vicina valle del Foro; infine, all'interno del muro, di uno spazio, largo tredici metri e delimitato a monte da una palizzata, completamente privo di ogni traccia d' intervento, a differenza di quanto appare al di là di esso. Di notevole interesse poi è stato il ritrovamento, al di s otto del muro, di
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quello che potrebbe essere considerato il «deposito di fondazione»: una fossa contenente tre vasi, oltre a due frammenti di fibule di bronzo, databili alla seconda metà del secolo VIII a.C., che potrebbero esservi stati collocati ( insieme ad altri ma teriali «consacrati» ) durante le ceri monie connesse con la costruzione del muro ( o, come noi diremmo, in occasione della «posa della prima pietra» ) . Da questo complesso di modeste eppure straordinarie evidenze ar cheologiche deriva tutta una serie di puntuali e determinanti conferme
Altare con raffigurazwni di episodi delle leggende delle origini di Roma (H. B. Wamn).
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alle not izie tramandateci dagli sto nci antichi (a ribadire, tra l'alt ro ancora una volta e nello stesso tempo - seppure ce ne fosse bisogno - il valore fondamentale e insostituibile della tradizione letteraria e la fun zione risolutiva della ricerca archeologica per la sua convalida ): il mu ro c'era, era dell' vm secolo, correva alla base del colle (per ima montis Palatini), sulla direttrice compresa tra le Curiae Veteres a nordest e il Sacello dei Lari a nordovest; e insieme al muro c'era il «pome rio», lo spazio consacrato come zona di rispetto subito diet ro di esso . Tutto esattamente come ci avevano lasciato scritto gli antichi a proposito della Roma «quadrata» creata da Romolo sul Palatino ! Ci vuole altro per rivalutare la storicità della fondazione? Salvo imprevisti e con tutte le cautele dovute ad una scoperta che è pur sempre limitata e ha bisogno d'essere approfondita e ulteriormente verificata, si può ben dire che gli antichi avevano dunque ragione. Quello che ci hanno tramandato non è la bella leggenda che gli studiosi hanno snobbato bensì la verità storica. Roma non nacque al te rmine di un lento e graduale processo di «gestazione>> ma in un momento preciso nel corso dell' vm secolo a.C. : il gior 1:1o in cui fu fondata. Cioè quando un re-sacerdote (che possiamo tranquillamente continuare a chiamare Ro molo, visto che, pur ammettendo che il suo nome sia veramente fittizio, non ne avremo mai un altro a disposizione ) guidando un aratro ne tracciò i limiti con un solco continuo, interrotto soltanto nei punti in cui avrebbero dovuto aprirsi i varchi delle «porte», lungo il perimetro del Palatino. Dato che sul colle doveva già esistere in quell'epoca e certamente da tempo un villaggio o, piuttosto, un abitato fatto di gruppi di capanne (come quelle delle quali si vedono ancora i pavimenti dalla par te del Germalo fra il tempio di Cibele e la Casa di Augusto, proprio lì dove si venerava la «capanna di Romolo» ), potremo anche parla re di « sistema zione» o di «ristrutturazione» o di quant'altro vorranno i puntigliosi. Si trattò in ogni caso di un atto preciso, deliberato da una comunità dina mica e intraprendente che un certo giorno decise di darsi una solida organizzazione, di definire topograficamente il suo spazio, di recingerlo e di attrezzarlo per la difesa. E l'atto fu compiuto secondo norme prestabilite e un rituale minuzioso col quale lo spazio prescelto, ossia il colle tutt'intero, fu consacrato o, come dicevano gli a Qtichi, «inaugu rato» (con riferimento al preliminare accertamento del consenso divino compiuto dagli Auguri) e per ciò stesso - cioè in forza del rito - distinto e separato dal territorio circostante. E ciò fu sottolineato e materializ zato con la costruzione di un muro e di un fossato e con la delimitazione del pomerio. Fu tutto questo che dell'abitato del Palatino, fino a quel momento
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Veduta delle rovine dei Palazzi imperi>; la quale poi dal Palatino si estese pro gressivamente sulle alture adiacenti dell'Esquilino e del Celio, poi del Viminale e del Quirinale fino a «chiudere il cerchio» con l'occupazione del C ampidoglio trasformato in roccaforte e santuario comunitario . E fu allora, nel VI secolo a.C., la > DI ROMOLO
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Veduta della cd. Casa di Livia nel complesso della Casa di Augusto sul Pala tino (H. B. Warren).
bolico, e ciò potrebbe essere di ulteriore conforto al riconoscimento proposto. Ma quello che dovrebbe suonare come definitiva conferma è l'esistenza - giusto a fianco del «sacello» - della Casa di Augusto. Quella casa che l'imperatore scelse, deliberatamente, d'andare ad abi tare in quel punto del Palatino proprio perché lì era stata (e ancora ne rimaneva la memoria tangibile) la casa del «fondatore», e per ricolle garsi in tal modo, anche materialmente, a Romolo come nuovo «fonda tore» della città e dello stato dopo i lutti e le distruzioni delle guerre civili (e la scelta di Augusto, confermata dai suoi successori, portò poi alla realizzazione della «reggia» pa tatina alla quale finì per essere attri buito lo stesso nome del colle che con essa s'identificava e che, in latino, era Palatium: donde il nostro «palazzo» nel duplice significato di fastoso edificio residenziale e di rappresentanza e di centro del potere). Mentre celebriamo ancora una volta l'anniversario del Natale di Roma, vale la pena di far conoscere - prima di tutto ai romani e senza attendere le mediazioni d'oltreoceano - questo nuovo «Caposaldo»
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Co/i'.d!a>, rappresentato tra il x e il vii secolo a.C. dal regno di Urartu, seguito dalla dominazione persiana, dalla conquista di Alessandro Magno e da un susseguente periodo piuttosto oscuro, l' Ar menia vera e propria era venuta alla ribalta della grande storia agli inizi del 1 secolo a.C. Giusto alla vigilia della rapida espansione di Roma in Asia Minore a seguito delle folgoranti campagne militari di Pompeo. D a allora, i l regno d'Armenia assunse i l ruolo d i «stato cuscinetto» tra l'impero romano e il regno dei Parti, erede dell'antico impero persiano. In realtà, esso fu piuttosto motivo di attrito tra le due potenze giacché entrambe cercarono d'assicurarsene il controllo più o meno diretto. C'erano riusciti i Romani che, proprio al tempo di Pompeo, nel 66 a.C., avevano imposto all'Armenia il loro protettorato, e che poi, con Au gusto, presero l'abitudine di porre sul trono armeno loro favoriti, so stenendoli col peso dei distaccamenti legionari. La situazione però, dopo una serie di conflitti dinastici e di lotte interne, mutò a favore dei Parti all'inizio dell'impero di Nerone. Questi, che già aveva in animo di condurre un'energica «ostpolitik» nei confronti degli stessi Parti che controllavano le grandi vie carovaniere per le quali arrivavano a Roma le merci di lusso dell'Oriente ( spezie, profumi, metalli preziosi, sete e legni pregiati), reagì prontamente. Ne nacque una guerra che si protrasse con alterne vicende - e con gli Armeni divisi tra i due contendenti - per ben nove anni, dal 54 al 63 1
Divenuta indipendente dopo la fine dell'Unione Sovietica.
QUANDO NERONE INCORONAVA IL RE DELL'ARMENIA
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d.C., per concludersi, sul campo, con la vittoria di Roma ( il cui esercito, forte di 60.000 uomini, era al comando di Domizio Corbulone ) , di fatto, con un compromesso : i Romani accettarono che sul trono d'Armenia restasse l' «usurpatore» Tiridate, fratello del re dei Parti, Vologese I ; i Parti riconobbero che i diritti di sovranità sull'Armenia emanavano da Roma, tanto che lo stesso Tiridate depose la sua corona ai piedi della sFatua di Nerone in attesa che questi gliela restituisse. L'accordo dovette soddisfare pienamente tutt'e due le parti, visto che rimase operante per i successivi cinquant'anni. Esso assicurava infatti ai Romani la tranquillità delle frontiere orientali e il prestigio di «ordina tori» del mondo abitato, ai Parti la dignità di Stato sovrano e indipen dente, abilitato a trattare alla pari con Roma della quale, peraltro, essi divennero alleati. Quanto a Nerone, egli ebbe l'astuzia e la capacità di far apparire l'accordo come una sua grande affermazione; lo celebrò anche con la ben ostentata chiusura del Sacello di Giano che, com'è noto, rimaneva aperto in periodo di guerra - come la fine dell'unico focolaio di conflitto esistente nell'impero; da esso trasse lustro e popo larità. Questa poi giunse all'apice quando Tiridate venne a Roma per rendergli omaggio e per ricevere da lui la corona del suo regno. Il viaggio del re armeno - come c'informa, tra gli altri, Svetonio - fu preparato accuratamente per quasi tre anni dato che Roma dovette avere il tempo di riprendersi dalle conseguenze del terribile incendio che l'aveva devastata nell'estate del 64. Finalmente esso poté compiersi, l'anno 66, con un lunghissimo itinerario che dall'Armenia attraversò l'impero per l'Asia Minore, il Bosforo, l'Illirico e l'Italia meridionale. Lo splendore della carovana reale - la più lunga che si fosse mai vista - colpì enormemente gli abitanti delle regioni attraversate mentre le città toccate venivano sontuosamente adornate in onore dell'illustre viaggiatore e facevano a gara nell'offrire feste, spettacoli e combatti menti di gladiatori. Particolarmente ammirate erano la bellezza e l'ele ganza del re e della moglie e la ricchezza del loro seguito formato da parenti, principi e dignitari, armeni e parti, accompagnati dai notabili e dalle loro donne, da sacerdoti mazdei e da guardie partiche, armene e romane mentre tutta la carovana era scortata da tremila cavalieri ro mani al comando del genero di Corbulone. Nerone andò incontro a Tiridate e lo accolse a Napoli; quindi, in sieme, essi proseguirono trionfalmente alla volta di Roma lungo la via Appia dopo essersi fermati a Pozzuoli per assistere ad uno speciale spettacolo di gladiatori Etiopi. All'indomani dell'arrivo, nel giorno pre cedentemente fissato da un apposito editto imperiale, ebbe luogo la solenne cerimonia dell'incoronazione, nel Foro. Nerone, rivestito degli abiti del trionfo, sedeva in trono sulla tribuna dei Rostri, tra stendardi
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ed insegne, attorniato da tutti i Senatori. Un pretore dette lettura, nella traduzione latina, della «supplica» del re il quale poi, saliti i gradini della tribuna, si prostrò ai piedi dell'imperatore. Questi, fattolo pronta mente rialzare, lo abbracciò, quindi, toltagli la tiara che portava sul capo, gli pose in sua vece il diadema reale che lo stesso Tiridate aveva prima consegnato a Corbulone presente alla cerimonia al fianco dell'im peratore. Poi Nerone pronunciò un indirizzo di saluto, o piuttosto un vero e proprio breve discorso «politico», dai toni cortesi ma fermi, nel quale tenne fieramente a sottolineare come soltanto Roma, da lui im personata, avesse la prerogativa e il potere di fare e disfare i re. Il popolo in delirio acclamava insieme l'imperatore e il re ma quello che i «cronisti» del tempo definirono un «giorno d'oro» non era termi nato. Alla cerimonia nel Foro seguirono infatti i giochi e gli spettacoli nel più grande e sontuoso dei teatri di Roma, quello di Pompeo, addob bato con uno sfarzo straordinario, ed è da credere che in quell'occa sione Nerone non abbia saputo resistere dal mostrare all'ospite i suoi talenti di citaredo e di cantore. Tiridate ripartì per l'Armenia con la promessa di ribattezzare la sua capitale Artaxata (una trentina di chilometri a sud dell'odierna Erevan) col nome di Neronia ma soprat�utto portandosi dietro magnifici doni e un'ingente somma di denaro. E pure probabile che avesse dato a Ne rone il suo assenso per la partecipazione ad una spettacolare spedizione che l'imperatore, desideroso d'emulare le gesta del grande Alessandro, progettava di condurre, insieme ai Parti e agli Armeni, nelle regioni transcaucasiche e del Mar Caspio. Ma, naturalmente, la fine di Nerone, di lì a nemmeno due anni, risparmiò al re qualsiasi impegno. Dopo Nerone, l'Armenia continuò nella sua tranquilla situazione di Stato «vassallo» di Roma fino al tempo di Traiano. Questi, ritenendo insicuri i confini orientali dell'impero, l'anno 1 14, decise di occuparla sopprimendone il regno e riducendola a provincia romana. Poi pensò d'andare anche oltre muovendo guerra ai Parti. L'esercito romano s'i noltrò così in Mesopotamia discendendo il corso del Tigri e dell'Eu frate; conquistò Ctesifonte, capitale dei Parti, e, sul finire dell'anno seguente, giunse al Mar Caspio e al Golfo Persico : mai le legioni s'erano spinte così lontano e l'awenimento non si sarebbe più ripetuto. Anzi, pur avendo Traiano ridotta a provincia anche la Mesop � tamia (press'a poco l'attuale Iraq), il suo successore Adriano, pochi anni dopo, abban donò le conquiste traianee riportando i confini di Roma sull'Eufrate. Il regno d'Armenia fu ripristinato e tornò al ruolo che il destino gli aveva riservato, ripetendosi più o meno le stesse vicende. Fu ancora altre volte temporaneamente occupato dai Romani, ad esempio con Marco Aurelio, nel 163- 166, e con Settimio Severo, nel 197-199; poi,
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Ritratto dell 'imperatore Claudio ricavato da un 'antica moneta (da Illustrium
lmagines).
quando i Parti scomparvero dalla scena sostituiti dai Persiani che in torno al 225 instaurarono con Artaserse la potente dinastia dei Sas sanidi, la «questione armena» si fece per Roma assai più impegnativa e gravosa; non di rado «amara». L'Armenia continuò tuttavia a passare in vario modo da una parte e dall'altra, fino a che, sullo scorcio del Iv secolo, non andò divisa tra l'impero romano d'Oriente (che stava ormai per diventare bizantino) e quello di Persia. Duecento anni dopo, la sua travagliata storia antica aveva termine con l'invasione degli Arabi.
La scoperta del «Ponte Noto»
In una città come Roma le scoperte archeologiche sono talmente consuete che, oltre a quelle vere, di tanto in tanto se ne fanno anche di «fasulle» (naturalmente spacciate per vere). Sembra un paradosso ma, a ben vedere, non lo è. Quello che altrove sarebbe prima attentamente vagliato, prudentemente esaminato, cautamente fatto presente, a Roma viene «sparato» senza alcuna esitazione - e nessun ritegno - visto che non sarebbe comunque un fatto eccezionale. L'ultima volta è successo nei mesi scorsi con il Ponte N eroniano (o Trionfale) «scoperto» all'improvviso dalla TV prontamente e pedis sequamente seguita da tutta la stampa quotidiana prima che opportune precisazioni non facessero sgonfiare inesorabilmente nel ridicolo l'in cauta notizia. Ad evitare la quale sarebbe bastato aprire al punto giusto una qualsiasi «guida» di Roma ben fatta. Non parliamo di quelle specia lizzate, di Roma archeologica, che da anni ormai hanno ottimamente colmato una vera e propria lacuna nel settore (e continuano ad essere in libreria con sempre nuove edizioni); ma, ad esempio, della celebre «guida rossa» del Touring Club, nella nuovissima sua ottava edizione ( 1 993) dove peraltro, a pag. 663, del ponte si parla come del «Cosid detto» Pons Neronianus. Noi sappiamo invece con certezza che quel ponte fu fatto costruire proprio da Nerone, al posto di un antichissimo traghetto, per collegare direttamente alla città il suo circo privato, rea lizzato dallo zio e predecessore Caligola nei giardini della madre Agrip pina, ma anche per far comodamente passare il Tevere alla strada che, dopo aver attraversato il Campo Vaticano (dove se ne distaccavano la via Cornelia e la variante dell'Aurelia) , si dirigeva verso Veio e la via Cassia. Quella strada era la Trionfale ( Via Triumphalis, donde il nome di Pons Triumphalis che fu anche dato al ponte), così chiamata perché aveva inizio presso il Circo Flaminio dove si formavano i cort è i per il trionfo. Proseguendo in rettilineo fino al fiume, dove fiancheggiava l'importante santuario del Tarentum , essa costituiva l' asse viario princi pale del Campo Marzio occidentale ed è probabile che lungo di essa
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fossero le tombe di personaggi illustri (come Silla e Cesare) tra quelli insigniti dell'onore del trionfo. Quell'asse, sul quale s'allineavano molti importanti edifici, quali lo stesso Circo Flaminio, i portici di Metello (poi di Ottavia) e di Filippo con i rispettivi templi, e forse almeno alcune delle grandi scuderie (stabula ) delle fazioni del Circo (nella zona tra Palazzo Farnese e quello della Cancelleria), è rimasto operante oltre la fine del mondo antico, per tutto il medio evo e l'età moderna (anche se poi «declassato» per l'apertura della via Giulia) fino ai nostri giorni, continuato com'è dalla successione delle vie S. Paolina alla Regola, dei Venti, di Monserrato e dei Banchi Vecchi (mentre tutta la viabilità del «quartiere» è ancora orientata su di esso, contrariamente a quella, tutta diversa, del Campo Marzio centrale) . Quanto al ponte, non sappiamo com'esso fosse esattamente. Da quanto ne resta e da alcuni rilievi eseguiti nel 1774, quando ancora per parecchi metri emergevano dal pelo dell'acqua due interi piloni in riva sinistra, si può dire che aveva almeno quattro piloni e quindi almeno tre arcate. Era comunque un ponte intrinsecamente debole per la sua non felice (anche se obbligata) posizione radiale rispetto all'andamento della corrente, nel punto della massima curvatura dell'ansa fluviale dove la corrente stessa è più irregolare. Dovette pertanto aver bisogno di rinforzi e restauri e di continua manutenzione. Cessata la quale, for s'anche per deliberata rinuncia alla sua difesa, al tempo delle incursioni barbariche, a vantaggio del vicino Ponte Elio ben più robusto e protetto dalla mole dell' Adrianeo (presto trasforma tosi in Castel Sant'Angelo), dovette crollare subito dopo la fine del mondo antico. Le fonti medie vali ne parlano come di un «ponte rotto» (pons ruptus ad S. Spiritum in Sassia ) e fino al xv secolo sono frequentemente menzionate le «ruine» del Pons Triumphalis. Quando papa Giulio n fece aprire la strada che da lui prese il nome, verso il 1 5 10, pensò di far ricostruire (magari utilizzando le strutture superstiti) l'antico ponte di Nerone, per migliorare le comunicazioni con la basilica di S. Pietro (affidate in quel punto al traghetto tornato nuovamente operante come prima di Nerone) e per alleggerire il traf fico di Ponte Sant'Angelo (specie in occasione delle grandi feste e dei pellegrinaggi degli anni santi); ma la morte del papa impedì la realizza zione del progetto. Questo venne praticamente ripreso soltanto alla fine del secolo scorso, prima con la costruzione del Ponte dei Fiorentini (quello in ferro per il quale si pagava il pedaggio d'un soldo), poi con la realizzazione, travagliata, del Ponte Vittorio Emanuele n , iniziato nel 1 886 e terminato nel 191 1 ! Proprio durante i lavori per la costruzione del ponte umbertino, in corrispondenza delle spalle di sinistra, nel 1908 si rinvennero, nell'alveo del fiume numerosi pali di quercia con puntali
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di ferro che erano serviti per le fondazioni del ponte neroniano ( e che ora si possono facilmente vedere al «pianterreno» di Castel Sant'Angelo dove furono almeno in parte depositati insieme ad elementi marmorei di rivestimento delle opere murarie ) I ruderi, invece, ancora in situ, del basamento di un pilone presso la sponda sinistra, dove gli effetti erosivi della corrente sono stati meno forti, furono rimessi in luce al momento della costruzione dei muraglioni del Lungotevere dai quali basta affac ciarsi ( così come dalle spallette a valle di Ponte Vittorio ) per ricono scerli nell'acqua, specie nei periodi sempre più frequenti delle grandi magre; senza bisogno di dover gridare alla scoperta come hanno fatto i nostri sprovveduti cronisti rivelatisi ancora una volta tra i peggiori cono scitori della città in cui pure vivono e operano. .
TI C olosseo
Può sembrare persino banale ricordarlo ma il Colosseo è, da dician nove secoli, certamente il monumento più illustre e conosciuto di Roma e di tutto il mondo romano. Come tale, esso è anche il simbolo per eccellenza della città, e non soltanto di quella «dei Cesari», visto che, integrato alla «ruota dentata», è servito ad indicare la Roma dei nostri giorni quale terzo polo industriale d'Italia. Tutto ciò, anche se altre città dal passato «romano» possono vantare altri anfiteatri del tutto simili e che col Colosseo magari rivaleggiano, per proporzioni (come quelli di Pozzuoli e di Santa Maria Capua Vetere, l'antica Capua) o per stato di conservazione (come, oltre ai due già menzionati, quelli di Verona e di El Gem in Tunisia, di Pola, di Arles e di Nimes; mentre, quanto ad antichità, quello di Pompei lo sopravanza di centocinquant'anni). A distinguere l'anfiteatro di Roma da tutti gli altri è stato anche il nome, singolare ed appropriato, e peraltro «postumo», se così si può dire. Infatti, fino a quando il monumento fu in uso, esso era semplice mente l'Anfiteatro o, tutt'al più, l'Anfiteatro Flavio, dal nome della «casata» degli imperatori che, negli anni Settanta del I secolo della nostra era, lo fecero costruire. Soltanto dopo che fu abbandonato, già forse nei primi secoli del Medioevo, fu introdotto il nome popolare di Colosseo, derivatogli indubbiamente dalla sua mole, anche se a sugge rirlo (com'è opinione comune) può essere stato il vicino «Colosso», la statua gigantesca fatta erigere da Nerone con le proprie sembianze e poi trasformata nell'immagine del Sole. Sempre per via della mole, si può affermare che il Colosseo è riuscito a garantirsi, oltre al nome la stessa sopravvivenza, ancorché parziale e sempre precaria: terremoti, spoliazioni e riutilizzazioni «improprie» non sono stati capaci di distruggerlo pur avendogli inferto guasti irreparabili (dai quali, peraltro, sono derivati almeno in parte, come per una magica «filiazione», alcuni tra i più insignì monumenti della Roma moderna, come i Palazzi di Venezia, della Cancelleria, Farnese e Barberini ! ) . V a però anche riconosciuto che l a rovina sarebbe stata assai più grave
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. _:·.
L 'Anfiteatro Flavio o Colosseo
(P. Schenck).
IL COLOSSEO
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se, a parte i lavori di manutenzione e di ripristino condotti dopo incendi, cadute di fulmini e terremoti, già nell'antichità e fino al v secolo inol trato, non si fosse finalmente dato l'avvio, al principio del secolo scorso, agli indispensabili interventi di consolidamento e restauro ( come quelli che portarono alla costruzione dello «sperone» di sostegno e al rifaci mento «in diagonale» di alcune arcate alle due estremità della «cinta» esterna superstite) che sono stati più volte e variamente ripetuti nel nostro secolo, fino a quelli tuttora in corso . Quando il Colosseo fu costruito, si può dire che i tempi erano più che maturi dato che Roma era rimasta fino ad allora priva di un degno edificio per gli spettacoli delle grandi cacce e per i combattimenti dei gladiatori che pure erano diventati sempre più frequenti e richiesti dal popolo. S'erano infatti risolti in poco più che ten.tativi quelli, prima di Caligola e poi di Nerone, di provvedere, sia pure in via provvisoria, alla necessità ed era andato per giunta distrutto, nell'incendio dell'anno 64, anche l'anfiteatro, in parte di legno, fatto edificare da Statilio Tauro, nel 29 a.C. in Campo Marzio. La costruzione fu decisa da Vespasiano nei primissimi anni del suo regno e nell'ambito del programma di smantellamento della Domus Aurea , la grande «villa urbana» di Nerone, al cui interno si trovava il luogo prescelto. Questo era quanto mai adatto : praticamente al centro della città, nella depressione naturale tra la Velia, il Palatino, il Celio e l'Oppio che, stando a quanto scrive Svetonio, era già stata destinata a quello scopo da Augusto ma dove gli architetti neroniani avevano in vece creato un lago artificiale il cui bacino, una volta prosciugato, fece risparmiare lo scavo di parecchie migliaia di metri cubi di terra e di tufo necessario per le fondazioni dell'anfiteatro . Queste - com'hanno accer tato le recenti indagini - erano costituite da un vero e proprio piano interrato di pilastri, simili a quelli esterni e poggiati su una gigantesca «ciambella» di calcestruzzo affondata nel terreno per circa tredici metri. Al di sopra, la struttura portante dell'elevato fu formata da una «selva» di pilastri in travertino che, per un'altezza pari ai tre ordini di arcate sovrapposte e con gli archi radiali in muratura, di collegamento, in corrispondenza dei vari piani, costituivano un'intelaiatura destinata, come uno «scheletro», a sostenere tutta la costruzione : una tecnica che si può legittimamente paragonare a quella del cemento armato. Ciò consentì, tra l'altro, il lavoro contemporaneo di diversi cantieri mentre richiese l'impiego di maestranze altamente specializzate ( si deve quindi pensare come ad una generica e pur necessaria manovalanza alla massa di quindicimila prigionieri ebrei portati a Roma dopo la conquista di Gerusalemme ai quali lo storico Giuseppe Flavio, anch'egli ebreo, at tribuì la costruzione dell'anfiteatro ) .
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IL COLOSSEO
Anonimo. Veduta del Colosseo prima degli interventi di consolidamento del Valadier sotto Pio
VII.
È appena il caso di sottolineare l'enorme quantità di materiali che fu necessaria per un'opera di tanta mole: in particolare, gli oltre centomila metricubi di travertino tratto dalle cave del Barco lungo la via Tiburtina (allargata per l'occasione fino a sei metri per agevolare il continuo andirivieni dei carri da trasporto) e le circa trecento tonnellate di ferro impiegato per le grappe che collegavano i blocchi tra loro (quelle grappe, pesanti ognuna circa tre chili e mezzo, che, sistematicamente asportate durante il Medioevo per recuperarne il metallo, hanno la sciato sulle superfici lapidee dell'anfiteatro la caratteristica e a prima vista incomprensibile miriade di «buchi»). Per quanto concerne l'aspetto architettonico, va perlomeno segna lato, oltre al ricorrente e sapiente impiego di «moduli» costruttivi, cui si deve il dominante, e gradevolissimo, senso d'armonia e d'equilibrio di tutta la costruzione, la perfetta applicazione, in senso scenografico del «pieno» sul «vuoto» (già sperimentata nei teatri come quelli di Pompeo e di Marcello), con l'alto attico sovrapposto ai tre ordini d'arcate : un artifizio che «alleggerisce» la mole senza diminuirne la monumentalità.
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Purtroppo, proprio il perfetto equilibrio tra le parti risulta oggi grave mente alterato all'interno, non soltanto dalla totale scomparsa delle gradinate della cavea ma anche dall'arbitraria eliminazione del piano dell'arena: la grande superficie orizzontale (originariamente formata da un tavolato ligneo) che «correggeva» la verticalità delle strutture in elevato ora precipitate, come in un gigantesco imbuto, fino al livello dei sotterranei sicché alla cinquantina di metri dell'altezza reale sopra terra dell'edificio, l'occhio è costretto ora ad aggiungerne un'altra dozzina un tempo inesistente alla vista. A proposito dei sotterranei dell'arena, è da dire che, pur nello stato di rovina col quale sono giunti fino a noi, essi consentono di «ricostruire» in modo abbastanza soddisfacente gl'impianti di servizio che costitui vano una delle meraviglie del Colosseo dato che con un complesso ed ingegnoso sistema (fatto di piani inclinati, di piattaforme mobili ruotanti su cerniere e allungabili mediante congegni «a cannocchiale», e di eleva tori mossi da contrappesi) essi consentivano d'immettere direttamente e repentinamente nell'arena decine d'animali e di cambiare altrettanto rapidamente la scenografia degli spettacoli che, soprattutto per le cacce, indulgeva volentieri alle ambientazioni più o meno esotiche, con boschi, colline, deserti, corsi d'acqua e costruzioni «tipiche» d'ogni genere. Soltanto dalle descrizioni degli antichi possiamo invece sapere degli accorgimenti per la protezione degli spettatori dai possibili assalti delle belve. Si trattava di una robusta rete metallica che girava attorno all'a rena sostenuta da pali sormontati, a guisa di «spuntoni», da zanne d'elefante e coronata orizzontalmente da una serie continua di rulli d'avorio che, ruotando appena toccati, impedivano qualsiasi presa alle zampe degli animali. Dell'altra meraviglia del Colosseo che era il velarium, ossia il sistema di teloni coi quali si riparavano gli spettatori dal sole, restano le mensole all'esterno dell'attico sulle quali (originariamente in numero di 240) poggiavano i pali che, passando poi entro un foro quadrato aperto nel cornicione, sporgevano alla sommità dell'edificio formando una singo lare «corona»: a quei pali erano fissati i teloni che con congegni di funi e di carrucole, simili a quelli in uso per le vele delle navi, venivano distesi o arrotolati a seconda delle necessità. Ai piedi dell'anfiteatro poi, una serie continua di grossi cippi di travertino (come i cinque ancora in situ dalla parte del Colle Oppio) servivano ad ancorare a terra le funi portanti di tutto il «sistema», complesso e complicato - com'è facile immaginare - al punto che a manovrarlo con l'indispensabile abilit à erano addetti appositi distaccamenti di marinai. Non è possibile nemmeno accennare ad una descrizione degli spetta coli che nell' anfiteatro avevano la loro sede specifica: le grandi cacce
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agli animali selvatici e i combattimenti dei gladiatori; e sarebbe troppo lungo anche soltanto elencare le molte «notizie» che gli antichi ci hanno tramandato in proposito. Come quella relativa alle 5000 fiere uccise in un sol giorno in occasione delle feste indette da Tito (e durate cento giorni) nell'SO, per la fastosa inaugurazione del monumento (terminato peraltro soltanto qualche anno dopo da Domiziano); o come quella dell'imperatore Commodo che nel 191 si dilettò di prender parte alle cacce uccidendo, uno dopo l'altro, come in un tiro a segno, più di cento orsi; o come quella del combattimento di mille gladiatori e dell'ucci sione, tra gli altri, di 32 elefanti, 10 tigri, 60 leoni, 30 leopardi, 10 giraffe e 6 ippopotami, durante le feste per il primo millennio dell'Urbe cele brate da Filippo l'Arabo nel 249; o come quella dell'imperatore Probo che nel 28 1 fece comparire contemporaneamente nell'arena cento leoni il cui ruggito - come narrano le cronache - fece gelare il sangue nelle vene degli spettatori ammutoliti. L'ultimo spettacolo, proprio di cacce, fu dato, col riluttante permesso di Teodorico, nell'anno 523, dopo che quasi un secolo prima, nel 438, erano stati definitivamente aboliti i combattimenti dei gladiatori. Il Colosseo perdeva così la sua ragion d'essere e dopo quattro secoli e mezzo di «servizio», rimase praticamente abbandonato. Non se ne sa più nulla per oltre mezzo millennio, fino a quando, nei secoli tra l'xi e il xm, non fu trasformato in fortilizio, prima dei Frangipane e poi degli Annibaldi. Nel 1244, rivendicato come proprietà della Chiesa da papa Innocenza Iv, fu sottratto ai privati ma servì soltanto ad ospitare mo deste abitazioni, piccole botteghe e qualche convento, prevalendo lo stato d'abbandono accentuato dai crolli provocati da alcuni violenti terremoti. Fu così che il Colosseo finì per diventare clandestino rifugio di mendi canti, di fuorilegge, di sbandati e di gente di malaffare e persino di . . . diavoli, secondo l e credenze popolari m a anche stando a quanto «at testa» il Cellini che vi assistette ad una «diabolica evocazione» da parte di un prete negromante. Al tempo stesso se ne generalizzava il ricor rente sfruttamento come inesauribile «cava» di materiali edilizi (nel 145 1/52 se ne trassero più di duemila e cinquecento· blocchi a beneficio della Fabbrica di San Pietro) ; fino a quando Benedetto xiv non pose fine perlomeno alle spoliazioni consacrandolo, nel 1 744, alla memoria dei martiri. Non mancarono tuttavia nemmeno i momenti in cui il vecchio e malridotto anfiteatro tornò a svolgere alla meglio la sua funzione origi naria; ad esempio nel 1322, quando vi si tenne uno «spettacolo all'an tica» che si risolse in una sorta di corrida (nella quale vinsero i tori, visto che ne furono uccisi undici mentre vi persero la vita diciotto cavalieri) o
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L 'interno del Colosseo sotto uno degli ambulacri (P. Schenck).
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Ritratto dell'imperatore Vespasiano, da un 'antica moneta (da Illustrium Imagines).
in occasione delle «sacre rappresentazioni» che in seguito s'alternarono ad altre «corride» (riprese queste durante le feste di Carnevale) fino a che le une e le altre non furono abolite, essendosi troppo smaccata mente «laicizzati» anche gli spettacoli religiosi, nella seconda metà del Seicento. Si deve infine ricordare che più d'una volta il Colosseo corse improv viso pericolo di «scomparire». Accadde ad esempio con Sisto v il quale, prima fu a un passo dal decidere d'eliminarlo poiché avrebbe impedito la realizzazione della strada diretta tra il Laterano e il Campidoglio, poi pensò bene di far progettare dal Fontana la sua trasformazione in filanda e in «villaggio» operaio ( ! ) . E accadde ancora, dopo che erano falliti vari tentativi di mutarlo in chiesa, quando nel 1832, il cardinale segretario di Stato Brunetti ne propose l'utilizzazione - o, come si direbbe oggi, il riuso - quale cimitero «monumentale» . Questo, allorché vi erano già stati condotti i primi scavi archeologici coi quali il Colosseo doveva iniziare decisamente la nuova fase della sua ormai pressoché bimillenaria vicenda - che è quella dei nostri giorni - in qualità di «monumento storico » (o di «bene culturale» ) .
Un percorso tre volte millenario
La riapertura, avvenuta nei giorni scorsi, della «passerella» che da via di Campo Carleo ( e dalla piazza del Grillo ) conduce a via Alessandrina ( e quindi a via dei Fori Imperiali ) , non ha avuto molta eco. E certa mente la maggior parte dei romani non sa nemmeno di cosa si tratti e dove la «passerella» esattamente si trovi. La zona è dunque quella dei Fori Imperiali, giusto a ridosso della cosiddetta «terrazza domizianea», una costruzione in laterizi, a più piani, con una grande nicchia centrale, situata tra i Fori di Augusto e di Traiano, sormontata dalla quattrocentesca Loggia dei Cavalieri di Rodi. La funzione dell'antico manufatto ci è ignota, anche se originariamente esso doveva essere in relazione proprio col Foro di Augusto e con quella grande aula porticata ad esso adiacente, ancora perfettamente conser vata, che è oggi trasformata in cappella dei Cavalieri. Così com'è ora la struttura è databile al tempo di Domiziano, alla fine del 1 secolo della nostra era, ma essa fu definitivamente «Sistemata», con l'aggiunga di alcune tabemae, nel corso della grande operazione urbanistica ed edi lizia che condusse alla realizzazione del Foro di Traiano e dei cosiddetti Mercati Traianei. A partire dal Medioevo, la «terrazza domizianea» servì in qualche modo da elemento di collegamento tra la zona situata alle pendici del Quirinale e quella a valle dove, al posto dei Fori imperiali, s'andarono progressivamente installando le costruzioni di quel «quartiere» che, per essere diventata la zona paludosa, prima della bonifica tardo cinquecen tesca del cardinale Bonelli, al tempo di Pio v, fu denominato «i Pan tani»: di qui il nome che fu dato all'antico arco aperto nel muraglione del Foro di Augusto, sulla destra del tempio di Marte Ultore, che metteva in comunicazione la Suburra e la valle dei Fori e noto come Arco de' Pantani. Riscoperta ; liberata dalle superfetazioni moderne e sistemata all'i nizio degli anni Trenta, al tempo degli scavi dei Fori Imperiali e della costruzione della via dell'Impero, alla «terrazza» fu allora addossata la
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«passerella» che ebbe il compito di ripristinare l'antichissimo percorso rimasto interrotto con lo scavo del Foro di Augusto. Essendo però di legno, essa fu sistematicamente smantellata durante il difficile inverno di guerra del 1943/44 per farne . . . combustibile per il riscaldamento e la cucina. Poi, rifatta in cemento nel dopoguerra, dovette essere chiusa quando diventò pericolosa per i cattivi incontri e la sporcizia. Ora, lodevolmente riaperta e protetta ai due imbocchi da cancellate che vengono chiuse la sera (mentre le strutture antiche sono state opportu namente sottoposte a interventi di pulitura della cortina laterizia e di restauro e consolidamento di quanto resta degli stucchi che ornavano la volta della grande nicchia centrale) essa è tornata ancora una volta ad assicurare un percorso che tuttavia rimane interrotto poco più a valle, dopo che è stata distrutta la strada che fino agli inizi degli anni Ottanta correva tra il Foro Romano e il Campidoglio. Visto che il ripristino della «passerella» di Campo Carleo è stato presentato come «momento» del riassetto urbanistico e monumentale dell'area archeologica centrale della città, sembra giunto il tempo di pensare ad un'altra «passerella» che, al posto della scomparsa via del Foro Romano, ripristini per intero un percorso che andava dai colli al Tevere e che durava da almeno tremila anni, cioè da prima della stessa nascita di Roma alla quale del resto esso stesso contribuì a dare vita. Esso infatti era parte integrante dell'antichissimo «itinerario del sale» (antenato della via Salari a) che dalla Sabina andava alle saline della foce del Tevere passando il fiume al guado o al traghetto dell'Isola Tiberina. Da questo itinerario preistorico è facile enucleare la porzione più propriamente romana: dapprima un semplice sentiero che scen dendo dal Quirinale andava verso il Tevere costeggiando le estreme pendici del Campidoglio per evitare la valle sottostante (quella del futuro Foro Romano) impaludata per le acque stagnanti e soggetta alle frequenti inondazioni del fiume; poi, vera e propria strada, dal mo mento in cui, nella seconda metà del VII secolo a.C., la città del Palatino prese ad espandersi sugli altri colli dando vita, infine, alla «grande Roma dei Tarquini». A partire da quel momento, e in coincidenza con la bonifica della valle del Foro e la sua trasformazione nella «piazza cittadina», proprio quel tratto di strada venne a trovarsi immediata mente al centro di tutto il sistema dei collegamenti viari urbani. E non a caso, proprio a ridosso di esso, furono collocati alcuni dei santuari più venerandi della città (quali quelli di Saturno e di Vulcano), quel singo lare «monumento della fondazione» che era il mundus, poi verbsimil mente identificato con l'umbilicus urbis (il «Centro» di Roma) mentre al suo margine orientale veniva installato il Comizio per le assemblee cittadine e costruita la Curia per le riunioni del Senato.
UN PERCORSO TRE VOLTE MILLENARIO
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La stessa situazione, per tanti versi anzi accentuata, si mantenne nelle epoche successive, fino alla fine dell'età antica (che è come dire per circa dodici secoli ! ) . Per verificarlo, basta gettare uno sguardo a una pianta della Roma imperiale che peraltro, a parte alcune sistemazioni marginali, conservò in questo punto pressoché inalterato l'aspetto risa lente ai primordi della città. Al limite nordoccidentale del Foro Romano e a ridosso di quella sorta di diaframma naturale che è il Campidoglio, quel tratto di strada accoglieva la convergenza (o, a seconda del punto di vista, dava luogo alla diramazione) dei seguenti «assi» viari: sul versante meridionale, a ovest, da una parte il vicus Iugarius che andava al Foro Boario e al Tevere e quindi al Trastevere (mentre dalla stessa parte il clivus Capito linus saliva al Campidoglio verso il Tempio di Giove) ; da un'altra parte (attraverso quel ramo, detto impropriamente via Sacra, che passa da vanti alla Basilica Giulia), il vicus Tuscus che andava al Velabro (e quindi ancora al Tevere) e verso la valle del Circo Massimo, l'Aventino e il Testaccio; a est, la via Sacra che andava verso l'Esquilino, la valle del Colosseo e il Celio e dalla quale si distaccava quasi subito l'Argiletum diretto alla Suburra, al Viminale e ancora all'Esquilino; sul versante settentrionale, il clivus Argentarius che, scavalcata la sella tra Campido glio e Quirinale, scendeva al Campo Marzio dando anche luogo alle comunicazioni per il Quirinale e il Pincio (mentre sul lato nordovest le Scalae Gemoniae salivano all'Arce capitolina). Ma non basta. Fatto questo rapido «inventario», è facile constatare come con quelle strade - e con le rispettive ramificazioni - non solo si potevano raggiungere tutte le regioni della città. Si poteva andare anche oltre i limiti urbani e proseguire con le grandi vie «consolari» (dall' Au relia alla Flaminia, dalla Salaria all'Appia, dalla Portuense all'Ostiense) per arrivare a tutte le province dell'impero. Ci sembra non esagerato parlare della nostra strada come di una autentica «cerniera» dell'intero sistema viario del mondo romano; del resto confortati dal parere degli stessi antichi ai quali la situazione, e il significato che ne derivava, non erano sfuggiti. Talché Augusto, nel 20 a.C., fece erigere proprio lì il famoso Miliarium Aureum : la colonna miliaria che segnava dunque non soltanto il punto ideale (come si suole ripetere) ma quello reale di convergenza - o di diramazione - delle strade dell'impero. Questa, la situazione nell'antichità. Quella che s'è venuta a creare in seguito allo smantellamento della via del Foro Romano è, a dir poco, sconcertante e persino paradossale: l'antico percorso è andato perduto - o, è stato bruscamente spezzato e interrotto - proprio mentre veniva recuperata, attraverso gli scavi, la condizione originaria della zona
L 'estremità occidentale del Foro Romano coi ruderi del Tempio di Satumo e l'Arco di Settimio Severo
(G. B. Piranesi).
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La statua di Augusto da Prima Porta ai Musei Vaticani in un 'incisione di E. Théraud.
(anche se questa è apparsa, come del resto si poteva immaginare e in parte già si sapeva, estremamente deteriorata e sconvolta) . Tale «recu pero» - che, insieme alla pure conseguita riunificazione dell'area del Foro con le pendici del Campidoglio, è stato portato a giustificazione e a motivazione dell'operazione che ha preso le mosse dall'eliminazione della strada - da un punto di vista strettamente archeologico non può che essere approvato. Resta però il fatto che per la prima volta, dopo oltre tremila anni, ora non si può più andare direttamente dalla Suburra al Tevere, e viceversa.
L'Iseo C ampense
Nei lussuosi locali della nuova Biblioteca della Camera dei Deputati, recentemente sistemata nel palazzo detto impropriamente (e chissà perché, non essendo sufficiente l'esistenza, nei pressi, di una piccola chiesa) di san Macuto, a via del Seminario, un muro in laterizio s'al lunga per un certo tratto tra scaffali e tavoli di lettura. È quanto resta oggi di visibile dell'antico tempio di Iside e Serapide (le due divinità della religione alessandrina «inventata» in Egitto dai re Tolomei) che nel cuore del Campo Marzio si ergeva come una vera e propria «intru sione» nel panorama tradizionale degli edifici romani. Si trattava infatti di un tempio tipicamente egizio che nelle sue strutture e nel suo im pianto ripeteva esempi risalenti all'epoca faraonica; e non era nemmeno il solo del suo genere nella Roma cosmopolita dell'età imperiale. Pro prio per distinguerlo dagli altri quattro o cinque che c'erano e, in parti colare, da quello, grandioso, che sorgeva sul fianco del Quirinale dov'è oggi l'Università Gregoriana, alla Pilotta, esso era detto Iseo Campense (cioè del Campo Marzio). Oggi ne conosciamo soltanto in parte la planimetria attraverso i fram menti della «pianta marmorea» di Roma del tempo di Settimio Severo e si discute sulle possibilità di «ricostruirne» per intero l'aspetto. In linea di massima si può dire che era costituito da una specie di grande «piazza», porticata sui due lati lunghi e attraversata da un «viale» fian cheggiato da sculture e piccoli obelischi; quindi da una «corte», posta in senso trasversale, munita alle due estremità di due monumentali archi d'ingresso e con al centro un obelisco affiancato da una fontana ro tonda; infine, da un ampio emiciclo, pure porticato e prowisto al centro di un lungo ambiente absidato. Purtroppo, i più che decennali e non ancora terminati lavori di si stemazione di palazzo «san Macuto» (già sede del ministero delle Poste, dopo essere stato convento dei Domenicani) non hanno portato ad alcuna nuova conoscenza. Almeno, non è stato comunicato nulla in proposito, mentre si ha ragione di temere che quegli stessi lavori ab-
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biano recato danni irreparabili alle antiche strutture che certamente erano rimaste e debbono essere state «incontrate» da martelli pneuma tici e ruspe, come lo stesso muro della Biblioteca conferma. Per il momento ci si deve pertanto limitare a ricordare le poche notizie storiche che conosciamo. Il tempio fu probabilmente fondato dai «triunviri» del 43 a.C. (Antonio, Ottaviano e Lepido) ma non ebbe grande fortuna, anche per i decreti contro i culti egizi emanati da Augusto dopo la guerra contro Cleopatra. Smantellato da Tiberio (con le statue di culto gettate nel Tevere) in seguito ad un grave scandalo nel quale furono coinvolti i suoi sacerdoti, fu ricostruito da Caligola; poi, gravemente danneggiato dall'incendio che nell'anno 80 della nostra era devastò il Campo Marzio, fu definitivamente rifatto da Domiziano. A quest'ultima sua fase - che durò fino alla fine del Iv secolo (quando l'imperatore Teodosio proibì i culti pagani) - si riferiscono i numerosi reperti tornati variamente alla luce nella zona occupata dal tempio e oggi compresa tra le piazze della Minerva e del Collegio Romano e le vie del Seminario e di Santo Stefano del Cacco (o «macaco» , come fu chiamata al momento della scoperta una statua di cinocefalo relativa al dio Toth) . Tra questi reperti, da segnalare, le numerose statue, portate dall'E gitto o eseguite espressamente, che sono andate a finire in vari musei (compresi quelli Vaticani e il Louvre ma soprattutto in quelli Capitolini dove lo scorso anno ( 1990) sono state sistemate, con un nuovo alle stimento, in una sala del Museo dei Conservatori) e vari altri «pezzi», rimasti all'aperto nella zona o nei suoi immediati paraggi. Si tratta delle due statue di leoni nelle fontanine ai piedi della cordonata del Campi doglio, del gigantesco busto marmoreo detto Madama Lucrezia (una delle famose «statue parlanti» della Roma dei papi) in piazza San Marco, della statuina di gatto, sul cornicione di palazzo Graziali all'an golo di via della Gatta e, praticamente sul posto, dell'enorme piede marmoreo pertinente ad una statua forse di culto che ha dato il nome alla via che gli corre a fianco, detta del Piè di marmo. Alla fine della stessa strada (che press'a poco corrisponde all'antica «corte» antistante l'emiciclo del tempio) , verso la piazza del Collegio Romano, ci sono pure, inglobati nelle pareti interne di alcuni vani d'un negozio abbandonato, cospicui avanzi di un pilone del grande arco a tre fornici, detto nel Medioevo Arco di Camilliano, che segnava l'ingresso orientale del santuario (l'altro arco, ancora più imponente, del tempo di Adriano, si trovava dov'è oggi l'altro capo della strada, verso la Mi nerva) . S'aggiungano diversi obelischi sparsi per Roma (sulla fontana di
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L'ISEO CAMPENSE
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La Fontana dei Fiumi a piazza Navona con l'obelisco di Domiziano (P. Schenck).
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La statua di «Madama Lucrezia» in piazza S. Marco (disegno di Giuliano Malizia).
piazza della Rotonda, davanti al Pantheon; sull'elefantino di piazza della Minerva; nel Monumento ai Caduti di Dogali, presso Termini) e fuori Roma (nel Giardino di Boboli a Firenze e nella piazza Ducale ad Urbino) . Infine, l'obelisco che sta sulla Fontana dei Fiumi a piazza Navona (che forse era quello collocato al centro della «corte» con al fianco la fontana rotonda) il quale era già stato riutilizzato da Mas senzio per il suo Circo sulla via Appia da dove fu tratto per esser portato a piazza N avona.
La nascita del «Palazzo »
Diciannove secoli fa nasceva a Roma il «Palazzo»: come Roma, sul Palatino; destinazione, la residenza imperiale. A volerne la costruzione fu il terzo dei Flavi, Domiziano, il quale, considerandosi - o meglio, volendo farsi considerare - dominus et deus, «signore e dio», si fece fare una «casa» adeguata, rientrando tuttavia nei limiti topografici del Palatino che, dopo la scelta di Augusto e dei suoi immediati successori, Nerone aveva ampiamente e arrogantemente su perato con la sua Domus Aurea . La realizzazione di quella che sarebbe rimasta, fino alla fine del mondo antico, la «reggia» della Roma imperiale, fu affidata all'archi tetto Rabirio ( uno dei pochi architetti romani dei quali ci sia stato tramandato il nome ) . I lavori dovettero cominciare subito dopo l'ascesa al trono di Domiziano, l'anno 81 della nostra era, ed ebbero termine nel 92 - esattamente mille e novecento anni fa - anche se una parte, pe raltro marginale, pare sia stata completata più tardi. Ne risultò uno straordinario «edificio» che con la sua mole, la sua ricchezza - e la novità della sua volumetria verticale - colpì profondamente i contempo ranei, come si deduce dalle lodi magniloquenti di Marziale e di Stazio. E che queste non fossero soltanto le interessate e servili esagerazioni di due «poeti di corte», lo dimostrano ancora gli avanzi imponenti che ne sono rimasti: quelli che, includendo l'ampliamento severiano, danno oggi la loro impronta al Palatino e la cui «veduta», dalla parte del Circo Massimo, è universalmente conosciuta. Ciò, nonostante si tratti sola mente dello «scheletro», fatto delle murature portanti e nemmeno di tutte, prive come esse sono, specialmente nel piano alto, delle parti superiori e di tutte le coperture, e spoglie, tranne rare eccezioni, di qualsiasi «rivestimento». Per non parlare degli arredi, delle decorazioni, degli abbellimenti d'ogni tipo i cui ultimi resti furono saccheggiati e dispersi nel corso di scavi rovinosi condotti nel Settecento. Il complesso si presenta distinto in due grandi settori nei quali è assai verosimile riconoscere la parte «pubblica» o di rappresentanza, e quella
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«privata», l'abitazione vera e propria. La parte pubblica era estesa sul versante settentrionale e alla quota superiore del colle, opportuna mente livellata anche con l'interramento di fabbriche precedenti; era aperta su una «piazza», detta area patatina , e accessibile dalla strada in salita proveniente dalla Velia e dal Foro chiamata, con termine mo derno, clivo palatino. Si componeva di due «quartieri» giustapposti, con ambienti organizzati attorno a due (o forse tre) peristili o corti porti cate, su due assi di simmetria ortogonali. Particolarmente importante era il primo «quartiere» che, su un lato del peristilio, fulcro di tutto l'insieme, aveva al centro un'imponente aula quadrata, absidata e con nicchie mistilinee alle pareti (originariamente decorate con statue scoperte in parte nel Settecento e andate a finire nel Museo Nazionale di Parma) che con la copertura, forse a tetto displuviato, doveva slan ciarsi oltre i trenta metri giustificando così le iperboli con le quali Marziale esalta l'opera «che con i suoi vertici tocca le stelle» : vi si riconosce, a ragione, la «sala del trono» o delle udienze. Ai suoi lati erano due aule più piccole, una delle quali, divisa in tre n avate da una doppia fila di colonne, doveva ospitare il «consiglio del principe». Di fronte, sull'altro lato del peristilio, si trovava un'altra sala grandiosa, fiancheggiata da due «ninfei», aperti su di essa, con due grandi fontane ovali. La sala era dotata di un ricco pavimento di marmi colorati disteso al di sopra di un «vespaio» nel quale, come nelle sale termali, poteva circolare aria calda: si tratta certamente del sontuoso triclinio che era paragonato alla «sala da pranzo di Giove». Nell'altro «quartiere» di questa parte pubblica, che è il più rovinato ed incerto (tanto che potrebbe persino essere attribuito alla parte resi denziale), un peristilio era occupato al centro da un grande bacino nel quale, come su un'isoletta, sorgeva un piccolo tempio (probabilmente dedicato a Minerva, la dea di Domiziano) su un alto podio accessibile per mezzo d'un ponticello ad archetti in muratura. La parte residenziale era tutta nel versante meridionale del colle, artificialmente tagliato e regolarizzato. Sfruttando egregiamente il note vole dislivello, essa si elevava su più piani aprendosi in basso, verso il Circo Massimo, con una «facciata» ad emiciclo e disponendosi con tutto un vario e articolato complesso di ambienti attorno ad un ampio cortile quadrato ornato da una fontana monumentale e contornato da un por. � a � p�. A completare questa parte e ad essa affiancato, s'allungava un singo lare «edificio» in forma di circo, con lo spazio aperto interno delimitato da un doppio ordine di portici: piuttosto che di uno stadio, come comu nemente è conosciuto, si trattava di un monumentale «ippodromo», o «maneggio», secondo la moda in uso nelle grandi ville suburbane.
LA NASCITA DEL
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L 'imperatore Domiziano (disegno tratto da un 'antica moneta).
La genialità di Rabirio fu di mettere insieme tutte queste parti e al tempo stesso di tenerle distinte, entro un organismo architettonico com piuto e razionale, chiuso verso l'esterno, mosso e articolato all'interno, rigoroso, unitario eppure vario : un tipo edilizio nuovo, funzionale ri spetto alle ormai definite esigenze del nuovo regime politico, coerente con quello che, per la prima volta con Domiziano, fu, anche nella forma, autentico assolutismo monarchico. Si spiegano così, ad esempio, le ab sidi degli ambienti più importanti e destinati alle manifestazioni pub bliche: entro di esse l'imperatore poteva isolarsi e distinguersi in uno spazio suo proprio ed esclusivo i cui contorni curvilinei servivano a far convergere e a concentrare l'attenzione verso di lui. Particolarmente fortunata fu la connessione della residenza imperiale con il circo ( nella fattispecie il Circo Massimo ) : un abbinamento che diventerà «canonico» quando assumerà nel tardo impero ( per arrivare poi ai fasti di Costantinopoli ) precisa valenza e funzione politica, col circo come luogo deputato in cui l'imperatore «si manifesta» ai sudditi stabilendo con essi un rapporto diretto e immediato. Benché d'un tipo fondamentalmente nuovo, la «casa» di Domiziano ebbe all'inizio il tradizionale nome di domus, con l'appellativo di augu stana che ne faceva per eccellenza la «casa dell'Augusto», cioè del principe ( o, come diciamo noi, dell'imperatore ) . Poi, a poco a poco, avendo essa «incorporato» o «riassorbito» le precedenti residenze, di
l ruderi delle sostruzioni dei Palazzi imperiali del Pa/atino, visti dall'Aventino (B. Pine/li).
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Gli avanzi del cosiddetto Paedagogium, sulle pendici meridionali del Palatino (H. B. Warren).
Augusto e di Tiberio (quest'ultima radicalmente rinnovata e dotata di un grandioso «vestibolo» verso il Foro Romano) , ed essendo stata in seguito ampliata da Settimio Severo, tanto da occupare pressoché tutto il Palatino finendo per identificarsi con esso, venne sempre più spesso indicata col nome stesso del colle, Palatium . Fu così che, anche da un punto di vista nominale, nacque il «palazzo», nel senso moderno del termine il quale, divenuto infine «ufficiale» così da designare la resi denza imperiale dovunque essa fosse, assunse anche il significato di «centro del potere». Quanto a Domiziano - che, «divenuto sempre più sospettoso ... », come scrive Svetonio, «aveva fatto ornare le pareti del portico dove era solito passeggiare con lastre di fengite» (un marmo lucidissimo della Cappadocia) «affinché nel loro riflesso potesse vedere tutto quello che accadeva alle sue spalle» - egli finì, com'è noto, i suoi giorni, a 45 anni, nella reggia diventata gabbia dorata, vittima di una congiura . . . di pa lazzo !
La C olonna Traiana come l' albero della libertà
Che le manifestazioni d'esultanza per la libertà della Romania siano avvenute, a Roma - com'è stato nei giorni scorsi (gennaio 1990) - presso la Colonna Traiana e con esplicito riferimento ad essa potrebbe sem brare un controsenso. La Colonna infatti è il monumento della con quista romana della Dacia, ossia di gran parte dei territori che formano l'odierna Romania e che, prima di diventare una provincia dell'impero di Roma, erano stati un regno indipendente. A rigore di termini, stando cioè alla lettera dell'iscrizione che ancora si legge sulla fronte del basamento, il compito della Colonna (inaugu rata nel maggio dell'anno 1 13 della nostra era) era quello di ricordare l'opera grandiosa compiuta per la costruzione del Foro di Traiano col taglio della collina che univa il Quirinale al Campidoglio, per un'altezza pari a quella della Colonna stessa. Di fatto, con il fregio a rilievo che la orna snodandosi a spirale per circa duecento metri, essa celebra, come un monumento «trionfale», le due guerre vittoriose condotte da Traiano negli anni tra il 101 e il 106, contro i Daci. Volute dall'imperatore per motivi strategico-militari ed economici, e anche per ragioni di prestigio, quelle due guerre furono combattute da entrambe le parti con grande determinazione ed asprezza (nei rilievi della Colonna, ai Daci decapitati dai Romani fanno da contrappunto le teste mozzate dei legionari infisse su pali all'interno d'un fortino dacico e i prigionieri romani torturati dalle donne dei Daci) ; recarono distru zioni, uccisioni e deportazioni per le popolazioni «barbariche» via via sottomesse. Esse furono tuttavia seguite da un'immediata e intensa opera di romanizzazione, ufficialmente programmata come mai fu fatto altra volta e attuata mediante una massiccia colonizzazione cui parteci parono genti provenienti «da ogni parte dell'orbe romano» (secondo quanto ripetono gli autori antichi) . Ne furono però direttamente coin volti anche i Daci i quali, già largamente permeati d'influenze romane dopo oltre due secoli d'incontri e di scontri sulla frontiera del Danubio, accolsero senza grandi resistenze il processo d'assimilazione favorito
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dall'organizzazione così tipicamente romana dei «municipi» che con dusse alla nascita di almeno dodici città (una di esse chiamata Romula!) attorno alle quali fu amministrativamente sistemato tutto il territorio della provincia. Col tempo, contribuirono poi all'assimilazione i molti giovani del luogo che, dopo aver militato nei corpi ausiliari dell'esercito romano, rientravano in patria avendo ricevuto in compenso i diritti di «cittadi nanza»: se ne conoscono che prestarono servizio in Africa, in Britannia, sul Reno, in Oriente e anche a Roma, nelle coorti pretorie e in quelle della guardia imperiale a cavallo (ma q�esti, per la maggior parte, preferirono poi restarsene nella capitale ! ). E probabile inoltre che siano rimasti sul posto, come avveniva in tante altre parti dell'impero, molti veterani delle legioni che furono via via di stanza o ebbero loro distacca menti nella provincia (la IV Flavia, la XII I Gemina, la VII Claudia e la v Macedonica) e anche i congedati dei corpi ausiliari di Ispanici, Africani, Britanni, Illiri e persino di Alpini che sappiamo vi furono di guarnigione lungo i confini. Se si mettono nel conto tutti quelli che abitualmente avevano a che fare con i territori (e i governi) provinciali - mercanti, impresari, funzio nari, appaltatori, ecc. - si può comprendere quanto capillarmente dif fusi e profondamente radicati fossero i costumi romani e la lingua latina quando Aureliano, per motivi strategici, decise di abbandonare la Dacia, nel 271 d.C. L'impronta di Roma dopo centosessantacinque anni d'intensa presenza rimase tanto forte da poter resistere ad ogni genere d'urto e da sopravvivere, sostanzialmente, fino ai nostri giorni. Ba sterebbe a testimoniarlo la lingua romena, vera e propria «isola» neola tina in un mare di lingue diverse; e non è senza una profonda ragione che l'antica provincia di Dacia si chiami oggi Romania, cioè «terra dei Romani», con lo stesso nome della nostra Romagna: due casi unici in tutti i territori dell'impero. La sopravvivenza è stata certamente «aiutata», sottolineata ed ali mentata ad arte nei momenti di maggiore pressione esterna e di più sentita ricerca d'identità e di radici. Ciò almeno dalla metà del Cinque cento, quando cominciano a farsi frequenti i richiami all'origine romana orgogliosamente rivendicata - specie contro Magiari e Tedeschi - e riportata fino ai tempi di Traiano. Poi, soprattutto nel Settecento quando l'esaltazione della coscienza nazionale, nel nome· di una latinità originaria, viene favorita dal diffondersi del cattolicesimo, dall'intensifi · carsi dei contatti con la cultura italiana (e quindi francese, fino a tempi recenti) , dall'abbandono dell'alfabeto cirillico per quello latino, dalla depurazione lessicale della lingua con l'eliminazione di tutte le parole d'origine non latina, dallo stesso definitivo affermarsi della lingua lette-
LA COLONNA TRAIANA COME L'ALBERO DELLA LIBERTÀ
L a Colonna Traiana ancora priva della statua di S, Pietro (P, Schenck).
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raria. Ma proprio questo assicura una sostanza che non può essere spiegata con operazioni di artificiosa riesumazione, che sarebbero an ch'esse, peraltro, non prive di significato. Resta dunque il dato della «continuità», ormai acquisito e largamente condiviso da tutti gli studiosi - in primo luogo da quelli romeni - anche grazie al progresso delle conoscenze derivato dalle scoperte archeolo giche che hanno pure consentito di porre l'accento sulla componente dacica di quella continuità, integratasi nella nuova realtà romana, sicché dalla conquista non sarebbe derivata la distruzione del popolo dacico ma piuttosto la nascita di un popolo nuovo, quello dei Daco-Romani, «antenati» dei moderni Romeni. Si spiega allora perché la Colonna Traiana, che, in ogni caso - com'è stato giustamente osservato - è la più insigne memoria illustrata dei Daci, sia stata assunta dai Romeni quale «monumento delle origini», celebrazione al tempo stesso dei vincitori e dei vinti rappresentati questi, del resto, nei rilievi, con tutto il rispetto che i Romani serbarono sempre a coloro che avevano saputo comportarsi con dignità e valore, mostrando di meritare quella fiducia che, una volta superato il mo mento anche violento e crudele dello scontro, ne avrebbe suggellato la completa integrazione nel più grande impero multirazziale che sia mai esistito. Tutto questo, anche se poi, messi di fronte alle due «anime» della loro tradizione, gli stessi Romeni sembrano aver scelto, magari inconscia mente, d'identificarsi piuttosto col vincitore. Non si spiegherebbe altri menti la grande fortuna della quale godono ancora i nomi di Traiano e del suo successore Adriano, diffusi in tutti gli strati della popolazione.
Marco Aurelio sul lastrico
Allorché, nel gennaio del 1981, la statua equestre di Marco Aurelio lasciò per la quarta volta la piazza del Campidoglio - la prima fu nel 1836, la seconda nel 1 9 1 2, per lavori di restauro (ma in entrambe le occasioni il cavallo rimase al suo posto), la terza nel 1 943, durante la seconda guerra mondiale, per motivi di sicurezza (dopo essere stata per un paio d'anni «sepolta» sotto una montagna di sacchetti di sabbia racchiusi entro una «baracca» di legno e tela catramata) - furono in molti a pensare, e a temere, che quella sarebbe stata l'ultima. Che, cioè, l'imperatore filo sofo, terminate le «cure ricostituenti» per le quali s'era reso necessario il suo trasferimento nei laboratori dell'ex ospizio del San Michele, non sarebbe più tornato sul piedistallo disegnato da Michelangelo. In quella piazza, del resto, Marco Aurelio c'era stato per «nemmeno» quattro secoli e mezzo; da quando vi fu trasferito dal Celio, nel 1538, per volere di papa Paolo m . Sul Celio invece era rimasto per oltre 1 350 anni: certamente, a partire dal x secolo, quando appare per la prima volta citato, sotto le mentite spoglie di Costantino, nel Campo Lateranense, ossia nella «piazza della cattedrale», davanti alla basilica di San Gio vanni; con estrema probabilità, anche da prima e fin dalle origini della sua esistenza da riferire agli anni immediatamente successivi al 1 76 d.C. quando sappiamo che all'imperatore furono tributati onori speciali. Ma della ubicazione iniziale, in realtà, non sappiamo nulla. Gli autori antichi, che pure ci hanno tramandato l'elenco di ben ven tidue monumenti equestri esistenti a Roma nel tardo impero, quello di Marco Aurelio nemmeno lo nominano . Anche per questo s'è pensato che non si sia trattato d'un monumento «pubblico» e che esso sia stato eretto nella casa natale dell'imperatore, la villa di sua madre, Domizia Lucilla, identificata nei resti ritrovati sotto l'Ospedale di San Giovanni dove un basamento al centro d'un peristilio, collocato al posto d'una vasca proprio nel n secolo d.C., potrebbe essere stato quello della statua. Da lì, secondo una suggestiva ipotesi, sarebbe stato trasferito nella vicina «piazza» del Laterano, alla fine dell'anno 799, da papa Leone m , per
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solennizzare l'incoronazione di Carlo Magno acclamato, in quanto pro tettore della Chiesa,