Simboli, miti e misteri di Roma 9788854167650


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Italian Pages [258] Year 2014

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Table of contents :
Prefazione
La fondazione della città
I nomi di Roma
Il mistero della lupa
Le metamorfosi di Anna Perenna
Le piante simboliche di Roma
L'obelisco
La cupola
L'arco trionfale
Bestiario di Mithra
Ocno e l'asino
L'Ara della Vittoria
Le guide di Roma antica nel medioevo
Il cardinale di San Pietro in Vincoli
La salamandra di San Luigi dei Francesi
Cesare Ripa e le statue allegoriche della chiesa della Maddalena
«Festina lente»
Athanasius Kircher
Elephas sapiens
San Michele protettore di Roma
Felis romanus
Il volto segreto della Befana
La rosa d'oro
Note
Indice dei nomi, dei luoghi e dei simboli
Indice
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Simboli, miti e misteri di Roma
 9788854167650

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Tradizioni italiane 176

Nuova edizione: giugno 2014 © 1990, 2014 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-6765-0 www.newtoncompton.com Fotocomposizione Centro Fotocomposizione s.n.c., Città di Castello (PG) Stampato nel giugno 2014 presso Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma) su carta prodotta con cellulose senza cloro gas provenienti da foreste controllate e cenificate, nel rispetto delle normative ecologiche vigenti

Alfredo Cattabiani

Simboli, miti e misteri di Roma Un allegorico viaggio attraverso tremila anni di storia, fra personaggi, opere d'arte e monumenti emblematici, alla scoperta della «chiave» che ne sveli i significati nascosti

Newton Compton editori

A Marina Cepeda Fuentes

cui s'addice una lunare rosa d'argento in questo viaggio tra i simboli e i misteri di Roma, allegoria del grande viaggio insieme intrapreso.

Prefazione

Per molti anni nei miei vagabondaggi alla controra per le vie di Roma ho ricostruito se non completamente, per lo meno nei suoi tratti essenziali la mappa di quei simboli, allegorie, emblemi che alludono alla sua vita segreta, seguendo talvolta gli itinerari di chi mi ha preceduto nei viaggi contemplativi: come quello che, suggerito da Emile Male, si è concluso, dopo un meandrico pellegrinaggio nei luoghi in cui sono custodite le allegorie descritte nell'I conologia di Cesare Ripa, alla chiesa della Maddalena dove sei statue barocche parlano in un linguaggio cifrato dei requisiti per una buona confessione: chi, privo della chiave interpretativa, potrebbe infatti immaginare che la prima sulla sinistra della navata, una donna che tiene una palla in mano, sia l'Umiltà? Edgar Wind mi suggerì invece di visitare i luoghi dove s'era figurato il celebre motto coniato da Augusto in greco e poi tradotto nel latino «Festina lente>>, ovvero «affrettati lentamente»: ossimoro ispirato a una massima di Aristotele secondo la quale si deve mettere rapidamente in pratica ciò che si è deliberato, ma soltanto dopo aver deliberato lenta­ mente. Fu una lunga passeggiata che partendo da Castel Sant'Angelo finì in .una piazza dove una celebre fontana cinquecentesca si rivela una delle tante variazioni emblematiche ispirate al romanzo allegorico che scrisse un principe romano sul finire del secolo decimoquinto, la Hypnerotoma­ chia Poliphili: indispensabile per decifrare anche un monumentino bizzar­ ro, l'elefantino del Bernini, che non è nato dalla fantasia dello scultore. Altre volte ripercorrevo i tracciati aerei delle cupole o degli obelischi o dei magici archi trionfali su cui regnava Giano. Scendevo nei mitrei, da Santa Prisca fino a quelli di Ostia antica, ritrovando in rilievi e pitture il bestiario simbolico dei sette gradi dell'iniziazione: corvi e serpenti, scorpioni e leoni, civette e cani rievocavano il misterioso dio giunto dall'Oriente, alludendo a un cammino che aveva come fine la contem ­ plazione. E altri animali ritrovavo per vie e piazze: grifoni che si abbeveravano a un vaso oppure adornavano un sepolcro a proteggerne il defunto, asini che alludevano alla impermanenza del visibile, sahtlllllll-

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S I M BO L I , M ITI E M I STERI

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dre come simboli del fuoco, che si trasformavano sulla facciata di una chiesa nelle imprese di un re francese convinto di essere «luce dei cristiani». Onnipresente nei miei vagabondaggi il gatto in carne ed ossa fra cumuli della sempiterna spazzatura romana, ma anche scolpito, come la statuetta egizia di palazzo Graziali, o dipinto come quello che fissa sinistramente il visitatore nell 'Annunciazione dell'Ara Coeli. Su tutto il bestiario regnava la Lupa la cui identità, come in un interminabile romanzo poliziesco, credo ogni volta di scoprire per accor­ germi presto che dietro l'immagine si cela una figura troppo sfuggente per gli occhi di un umano indagatore. Ma non mi sono mai arreso nella mia paziente e metodica esplorazione delle tante, troppe vie del labirinto che dovrebbero condurre alla sua tana: sicché ho interrogato nuovamente le allegorie della fondazione della città quadrata, dall 'apparizione degli avvoltoi sacri ad Apollo ai riti dei Parilia, che ne accompagnarono la nascita, fino al rituale tracciato del sulcus primigenius e allo scavo del mundus. L 'identità della Lupa s 'intrecciava con l 'origine e il significato del nome di Roma, e soprattutto con quello segreto che secondo la tradizio­ ne esprimeva l'energia del misterioso nume «sive mas sive femina», sia maschio che femmina (dunque androgino?), tutelare della città. Di questa cerca «perigliosa» alcuni saggi sono la testimonianza di chi è giunto sulla soglia del mistero senza varcarla, non diversamente da tanti altri che l 'han preceduto. Li accompagnano alcune esplorazioni simboli­ che nell 'erbario della Roma arcaica, dal suo cuore, il fico, alla cui ombra provvidenziale s'arenò la cesta dei gemelli fondatori, al vittorioso alloro e alla solare palma, dalla quercia consacrata a Giove al mirto venereo. In questa indagine un lungo capitolo è dedicato alla misteriosa Anna Perenna e alle sue metamorfosi che rinviano al simbolismo della luna come Mater Magna nutrice del cosmo e della città. La Roma arcaica, poi repubblicana e infine imperiale non è solamente un ricordo, o reperto archeologico. Come la rimozione nel 382 d. C. dell'Arca della Vittoria dalla Curia segnò non tanto la fine quanto l'occultamento del paganesimo romano, così certi suoi simboli sono riaffiorati lungo i secoli in una metamorfosi testimoniata da culti e tradizioni incorporati dalla cristianità: ne sono testimonianza per esempio la presenza di San Michele sulla cima del mausoleo di Adriano, del quale ho seguito il lungo cammino dal medioevo ai nostri giorni, oppure la figura della Befana non riconducibile all'Epifania sebbene il suo nome ne derivi per deformazione. Il lettore curioso si domanderà dove mai vada a parare questo vagabondare nei labirinti della città segreta: una risposta, pur parziale, la troverà in due pellegrinaggi, salendo insieme con me sull'Esquilino fino

P REFAZIONE

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Il pastore Faustolo scopre i due gemelli allattati dalla Lupa. Particolare dalla (storia romana di Bartolomeo Pinelli (1816).

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S I MBO LI, MITI E MISTERI DI ROMA

alla chiesa di San Pietro in Vincoli dove è sepolto il cardinale tedesco che seppe conciliare, nella sua «dotta ignoranza» la religione dei gentili con il cristianesimo; e infine scendendo fino al Collegio Romano dove un altro tedesco, non cardinale ma gesuita, riannodò due secoli dopo, nel cuore del Seicento, fili soltanto apparentemente spezzati. Sicché tutto si ricom­ pone armonicamente in un 'immagine di luce e di unità simboleggiata dal fiore che una volta, nella quarta domenica di quaresima, come racconto nel saggio conclusivo, il pontefice offriva durante una solenne cerimonia in San Pietro al principe prescelto: una rosa d'oro. Festa di San Michele arcangelo del 1989

Simboli, m1t1 e misteri di Roma

Per esempio Platone aveva intenzione di parlare del Bene ma non osò parlare della sua essenza perché di esso sapeva solo che non è possibile all'uomo conoscere la sua essenza, e la sola cosa, tra quelle visibili che trovò pienamente somigliante ad esso fu il Sole, e con questo paragone aprì la strada al suo discorso per elevarsi fino all'incomprensibile. Perciò l'antichità non ha creato per esso nessuna statua, mentre per altri dei se ne facevano, e la ragione è che il sommo dio e l'intelletto nato da lui trascendono l'anima e anche la natura, e non è per nulla lecito giungervi facendo uso di favole. Nel trattare però di tutti gli altri dei ricorre a racconti favolosi non senza frutto, e non per diletto ma perché sa che l'esposizione delle proprie teorie, così nuda e cruda, è contro la natura. Questa, come ha sottratto la comprensione di sé ai sensi degli uomini volgari ricoprendosi e celandosi sotto varie finzioni, così ha voluto che i suoi arcani siano trattati dai saggi per mezzo della favola. Perciò proprio i misteri sono velati da arcane rappresentazioni e lo scopo è che la natura di tali realtà non si offra scoperta neppure agli iniziati ma soltanto agli uomini sommi, edotti per mezzo della sapienza interpretatrice della verità arcana, e gli altri siano contenti di venerare il mistero mentre i simboli difendono il segreto dai pericoli della profanazione. MACROBIO AMBROGIO TEODOSIO

E tuttavia anch'essi, i pagani, veneravano il medesimo Iddio nelle sue esplicazioni, ossia lo veneravano là dove potevano vedere le sue opere divine. Questa è stata dunque la differenza fra tutte le genti, che tutte avevano una fede nell'unico Dio massimo, di cui nulla potrebbe essere maggiore; però alcuni, come i Giudei e i Sisseni, lo adoravano nella sua unità semplicissima, quale complicazione di tutte le cose, altri, invece lo veneravano in quelle cose ove trovavano un'esplicazione della divinità, accogliendo quanto ci è noto ai sensi come uno strumento per ricondursi alla causa e al principio. NICOLA CUSANO

Cardinale di San Pietro in Vincoli

Romolo e Remo all'ombra del fico ruminate. Da Antonio Nibby. Monumenti scelti della Villa Borghese (18321.

La fondazione della città

A indicare il luogo dove sarebbe stata fondata Roma fu un volo di avvoltoi, uccelli divinatori sacri ad Apollo, il cui numero, dodici, è segno universale di elezione e simbolo di ri-creazione spazio-temporale: il Palatino venne infatti ri-creato, trasformato con la fondazione della città. Secondo la leggenda il Natale di Roma cadde l'undicesimo giorno delle calende di maggio, cioè il 2 1 aprile, quando da tempo immemora­ bile i pastori del luogo celebravano una festa, i Parilia , in onore della dea della pastorizia Pales. Non sappiamo perché l'annalistica abbia scelto i Parilia come dies natalis di Roma: forse perché Romolo e Remo e coloro che parteciparono alla fondazione della città erano pastori devoti alla dea che vegliava sulle loro capanne. D'altronde lo stesso Varrone scriveva: «Chi nega che il popolo romano sia nato da pastori? Chi non sa che il padre adottivo che ha allevato Romolo e Remo era il pastore Faustolo? E il fatto che essi fondarono la città proprio il giorno dei Parilia non sarà una prova che essi stessi erano pastori? » 1 • Ovidio descrive nei Fasti quei riti che avevano la funzione di purificare la comunità e le greggi, e di impetrare fecondità e benessere. I pastori lavavano il pavimento degli ovili perché la festa coincideva con la monta del bestiame minuto. Poi, ornate le pareti di fronde e le porte di lunghi festoni, accendevano fuochi nei quali si gettava una fumigazione prepa­ rata dalle Vestali con sangue di cavallo, cenere ottenuta dalle interiora di un feto che era stato estratto, sei giorni prima, ai Forcicidia , da una vacca gravida, e infine steli di fave. Le prime due sostanze avevano la funzione di infondere magicamente negli uomini e negli animali la fecondità e la forza delle specie più possenti, i cavalli e i bovini; mentre gli steli di fave, che son vuoti all'interno, simboleggiavano e provocavano con quel «vuoto» l'annientamento, la vanificazione delle impurità. Dopo la lustrazione dei greggi con ramoscelli di alloro imbevuti d'acqua si offrivano alla dea grani di miglio con focacce di miglio e latte ancora tiepido perché era proibito uccidere in quel giorno vittime sacrificali dovendo preservare pura dal sangue l'intera giornata dedicata

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SIMBOLI , MITI E MISTERI

DI

ROMA

alla vita. In quella festa primaverile si esprimeva ritualmente soltanto l'aspetto idillico della pastorizia e non quello cruento del macello. Rivolti a oriente si pregava la dea chiedendole perdono per le infrazioni commesse durante l'esercizio della pastorizia affinché placasse anche le ninfe e gli dei sparsi per campi e foreste. «Se pascolai il gregge in luogo sacro,» dicevano fra l'altro, «Se sedetti sotto una sacra pianta e il gregge ignaro svelse erba dai sepolcri, perdona il fallo e non mi nuoccia l'aver riparato il gregge in un tempio agreste e aver intorbidato le sorgenti.» La preghiera si concludeva invocando la protezione di Pales sul gregge, sui pastori e sui cani. Poi, lavate le mani nell'acqua corrente di un ruscello o di una fonte e bevuti da una ciotola il bianco latte e la «purpurea sapa», ovvero il mosto cotto, si saltava rapidamente attraverso le fiamme insieme con le pecore e gli agnelli 2 • Anche nella Palestina i pastori ebrei solennizzavano i l rinnovamento primaverile durante la notte di plenilunio successiva all'equinozio, che preludeva alla partenza per i pascoli estivi. Durante il rito, che contraria­ mente a quello romano, prevedeva un sacrificio cruento con l'immola­ zione dei primi nati del gregge, il cui sangue veniva sparso sulle capanne lavate e spazzate accuratamente mentre la carne veniva consumata nel pasto rituale, si svolgeva una danza cultuale che consisteva in una serie di salti figurati, un ritmico «saltar oltre» detto pesah . Quel «saltar oltre» aveva la stessa funzione del salto dei pastori romani anche se non sappiamo se avvenisse attraverso le fiamme. La festa, che coincise con la vigilia della partenza dall' Egitto, fu poi storicizzata in ricordo di quell'e­ vento e divenne l'attuale Pesah , la Pasqua ebraica. Acqua e fuoco nei Parilia, così come in ogni festa di rinnovamento e persino nella Pasqua cristiana, avevano la funzione di purificare e di offrire nuova vita a greggi e a famiglie. Così fu anche in quel leggendario 2 1 aprile. «Romolo stabilì il giorno in cui dovevano iniziare i lavori, previ sacrifici agli dei», narra Dionisio d'Alicarnasso, « ... e quando venne il giorno stabilito egli per primo sacrificò agli dei e comandò poi agli altri di fare altrettanto secondo le loro possibilità. Quindi per prima cosa prese gli auspici, che furono favorevoli, e successivamente accese alcuni roghi davanti alle tende e spinse il popolo a saltare sopra le fiamme per purificarsi delle sue colpe.»3 Tutto era pronto per la fondazione della città; ché di fondazione si deve parlare e non di aggregazioni successive di edifici e famiglie. Anticamente, come ha spiegato Fustel de Coulanges, una città veniva tracciata d'un sol tratto per offrire un santuario a tribù o gentes o fratrie che avevano deciso di associarsi e di condividere un medesimo culto. Plutarco narra che Romolo scavò in primo luogo un fosso rotondo

LA FONDAZIONE DELLA CITTÀ

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dove furono riposte le primizie di tutte le cose utili e necessarie alla vita umana. II rappresentante di ogni popolo portò una manciata di terra del paese da cui proveniva, e la gettò fra le primizie . «Poi, preso come centro di un cerchio il fosso che si designa col nome usato anche per l'universo, cioè mundus, tracciarono intorno il perimetro della città.» Romolo stesso attaccò un vomere di bronzo all'aratro e, aggiogati un bue all'esterno e una mucca all'interno, tracciò il sulcus primigenius, il solco primordiale, in senso antiorario. Era seguito da uomini che avevano il compito di rovesciare all'interno le zolle sollevate dall'aratro per impedire che si riversassero fuori. Su quel tracciato sarebbe stata costruita la prima arcaica cinta muraria 4. Questo racconto cela una serie di significati metafisici che, palesati, permettono di capire la storia romana, corrie ad esempio la restaurazione religiosa avviata da Augusto che volle non soltanto il suo palazzo sul colle, ma vi costruì il tempio dedicato ad Apollo e vi trasferì dal Foro il fuoco sacro a Vesta che arcaicamente si trovava sulla cima di quell'altu­ ra. II Palatino, scelto dai dodici avvoltoi sacri ad Apollo come montagna sacra, aveva al suo centro il mundus, la fonte di ogni provvidenza, l'utero materno in cui si erano gettate le sementi per propiziare la fertilità. Ovidio precisa nei Fasti che, dopo aver riempito il mundus di terra, si eresse un altare sul quale venne acceso il fuoco sacro 5. II fuoco acceso sul mundus rappresentava il sacro sposalizio fra il cielo e quella terra: era il focolare di Roma, il primitivo tempio di Vesta, la Madre Terra. Lo spostamento del focolare nel Foro è successivo, quando i villaggi del Palatino, del Campidoglio e del Quirinale si unirono, a opera di Numa o di Servio, e il tempio di Vesta venne posto su un terreno neutro fra i tre colli. II fuoco venne probabilmente appiccato, secondo la logica mitica, sia da Romolo, quale latore simbolico del fuoco troiano portato in Italia da Enea, sia dagli altri capi che si erano associati e recavano il fuoco delle loro gentes . Intorno a quel centro Romolo traccia circolarmente il perimetro sacro, il sulcus primigenius, che deve difendere magicamente la città. Anche questo rito è una ierogamia dove la funzione del fallo fecondante è assunta dal vomere, il cui manico ricurvo si diceva urbum o urvum, termine che aveva la stessa radice del verbo urbo o urvo, «tracciare con l'aratro il circuito della città da fondare», e del sostantivo urbs, città. Varrone scriveva a questo proposito: «Pertanto tutte le nostre città furono chiamate urbes, da orbis, cerchio e urvum, curvo» 6• Tuttavia molti storici di Roma hanno sostenuto che la prima Roma non era circolare ma quadrata. Come spiegare questa contraddizione? Probabilmente, si è risposto, la primitiva cerchia venne sostituita succes-

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SIMBOLI, MITI E MISTERI DI ROMA

Romolo traccia il solco sulla cima del Palatino. Stampa di Bartolomeo Pine/li.

LA FONDAZIONE DELLA

CITTÀ

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SIMBOLI, MITI E MI STERI DI ROMA

sivamente da un perimetro quadrato per un cambiamento rituale­ simbolico, così come l'arcaica capanna a pianta tonda o ellittica venne sostituita da abitazioni quadrate o rettagolari. D'altronde, come ha sottolineato Marco Baistrocchi, molteplici indizi tendono a indicare che la forma circolare costituisce l'espressione plastica del punto di partenza di una tradizione mentre la forma quadrata rappresenta il suo punto di arrivo, l'equilibrio raggiunto al termine dello sviluppo delle proprie potenzialità 7. Quel cerchio arcaico simbolo dell'unità, proiezione dell'unità celeste, aveva la funzione di proteggere magicamente la città così come le collane, i braccialetti, gli anelli sono cerchi magici che «proteggono» l'individuo. Per questo motivo quando si distruggeva una città occorreva un rito analogo a quello della fondazione: la si doveva disarare in senso orario in modo da sciogliere il sulcus, la fossa di fondazione. Il sulcus primigenius viene scavato in senso antiorario secondo l'arcai­ co rituale etrusco-romano cui si ispirò il Vasari nell'affresco del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, dove Romolo è raffigura­ to mentre traccia il cerchio magico. Lo traccia con la vacca aggiogata all'interno e il bue all'esterno perché la prima simboleggia la fertilità femminile e centripeta della città, il secondo, benché castrato, la potenza virile e centrifuga del toro bellicoso che difende l' Urbs dagli assalti esterni. D'altronde non casualmente Roma, come ogni città antica, venne raffigurata da una dea con una corona in forma di cinta muraria. La vacca e il bue simboleggiavano anche gli dei dai quali discendevano Enea e Romolo: Venere e Marte. Vencre, fertile verso l'interno ma vergine inviolabile verso l'esterno; Martc, dio guerriero verso l'esterno, ma propiziatore di benessere verso l'interno. Il sulcus primigenius era soglia sacra e inviolabile; per questo motivo Remo commise un grave sacrilegio saltandolo per protestare contro il fratello che accusava di aver mentito dicendo di aver visto sull'Aventino gli avvoltoi contemporaneamente a lui. «Infine l 'attraversò con un salto» narra Plutarco «ma nel medesimo punto stramazzò, alcuni dicono abbattuto dallo stesso Romolo, altri da un suo seguace di nome Celere.» Il comportamento di Remo non poteva essere perdonato perché era il tentativo di infrangere le difese magiche dell 'Urbe. Che l'episodio sia vero o falso non ha alcuna importanza perché quel che ha valore nella leggenda è la struttura mitica che fonda la città, ne fissa i riti, le tradizioni. Per concludere la fondazione si doveva determinare con cippi il pomerium , quella striscia circolare di terreno all'esterno del sulcus primigenius, dove non si poteva abitare né arare. In epoca storica sul pomerio vi erano numerosi alberi da frutto sicché si è avanzata l'ipotesi

LA FONDAZIONE D E L LA

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La Roma quadrata fondata da Romo/o. Incisione rinascimentale.

che la parola derivi dalla misteriosa dea Pomona, custode di orti e giardini e associata a Flora nelle difese magiche dell'Urbe; sebbene alcuni studiosi sostengano che derivi da post-murum , «dopo il muro>>. In ogni modo il pomerio era come un'estensione del sulcus, una fascia sacra che doveva dividere la città dal caos simbolico che la circondava. Mentre nessuna fonte attesta una variazione del sulcus, quasi che il suo significato rituale si sia a poco a poco stemperato e vanificato, abbiamo invece molte testimonianze sulle modifiche del pomerio in occasione degli ampliamenti della città fino a quello dell'imperatore Aureliano che eresse l'ultima cerchia di mura. La fondazione era compiuta. « È sorta la città - chi lo avrebbe allora creduto? - che avrebbe posto il piede vittorioso sul mondo», scriveva nei Fasti Ovidio concludendo la sua narrazione del mitico 21 aprile.

I nomi di Roma

Fra i tanti misteri di Roma c'è quello del suo nome. Quando gli storici antichi cominciarono a interrogarsi sulla sua origine e sul significato, si erano già recisi i fili della memoria e le interpretazioni si accumulavano contraddicendosi; né i moderni sono riusciti a giungere a una conclusio­ ne convincente. Servio, vissuto tra il quarto e il quinto secolo d.C., sosteneva che derivasse da un nome arcaico del Tevere, Rumon o Rumen, la cui radice era analoga al verbo ruo, scorro; sicché Roma avrebbe significato la Città del Fiume. Ma Servio era il solo a collegare il nome al Tevere, il quale d'altronde era stato chiamato anche Albula per la presenza di argille nel suo letto 1 . Gli storici di lingua greca, ispirandosi a Ellanico di Lesbo, vissuto nel quinto secolo a.C., narravano invece sulla scia dell'Iliade l'arrivo di un gruppo di profughi troiani sulle coste del Lazio dove il loro capo, Enea, avrebbe fondato la città dandole il nome di una delle donne, Rome, che stanca di vagabondare da una terra all'altra aveva convinto le sue compagne a bruciare le navi 2 • In un'altra versione della leggenda Rome diventava la figlia di Ascanio e nipote di Enea 3 ; e in un'altra si narrava che Rome, una troiana giunta in Italia con alcuni suoi compatrioti, sposò Latino, re degli Aborigeni, ed ebbe tre figli, Romos, Romylos e Telego­ nos, che fondarono una città chiamandola col nome della madre 4• In questi e altri racconti si riscontra un elemento comune, la deriva­ zione del nome da un'eponima Rqme di cui è certo perlomeno l'etimo: romé, che in greco significa forza. E evidente il tentativo dei Greci, che si ritenevano non senza un'eccessiva presunzione i civilizzatori dell'Italia come di altre regioni mediterranee, di considerare Roma una città di origine ellenica. La leggenda di Enea fuggiasco da Troia era già nota agli Etruschi fin dal sesto secolo, sicché Ellanico potrebbe averla riscritta con l'epilogo della fondazione di Roma, avendo notato che il suo nome era simile a romé.

l NOM I DI ROMA

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U n millennio dopo, Servio per restituire Roma agli italici sosteneva che l'etimo greco non era se non la traduzione del nome originario della città: «AteÌo», scriveva, «asserisce che Roma, prima dell'avvento di Evandro, fu a lungo chiamata Valentia e poi Roma con nome greco» 5. S econdo una variante a queste leggende, a Enea era succeduto Ascanio che aveva diviso il regno dei Latini in tre parti con i fratelli Romylos e Romos. Ascanio avrebbe fondato Alba e altre città mentre Romos avrebbe dato il proprio nome a Roma. Poi la città rimase disabitata per qualche tempo finché non vi s'insediò un'altra colonia guidata da due gemelli, Romylos e Romos, che la rifondarono con lo stesso nome 6. Vi è infine un terzo gruppo di interpretazioni la cui fondatezza non è da escludere. Si congettura che l'abitato del Palatino, il cui primo nucleo centrale risale all'incirca alla fine del secondo millennio a.C., avesse un altro nome, sostituito durante la dominazione etrusca da Ruma , che i Latini avrebbero poi pronunciato Roma. Il passaggio dalla u alla o è spiegabile, secondo alcuni filologi che hanno riconosciuto nell'aggettivo ruminalis, nell'epiteto di Giove Ruminus e nella dea Rumina il nome di Roma, con un vocalismo etrusco che oscura la o in u 7• Ma, stabilita la supposta origine etrusca della parola, che cosa mai poteva significare? Si è sostenuto che Ruma fosse un gentilizio etrusco, testimoniato da qualche i�crizione la cui interpretazione ha suscitato tuttavia molte discussioni. E certo invece che ruma , con le varianti rumis e rumen, significava sia nel latino arcaico che nell'etrusco, da cui derivava, «poppa» . Narra a questo proposito Plutarco nella Vita di Romolo : «Sulla rive dell'insenatura sorgeva un fico selvatico che i Romani chiamavano Ruminalis o, come apina la maggioranza degli studiosi, dal nome di Romolo, oppure perché gli armenti usavano ritirarsi a ruminare sotto la sua ombra di mezzodì, o meglio ancora perché i bambini vi furono allattati; e gli antichi latini chiamavano ruma la poppa: oggi ancora chiamano Rumilia una dea che viene invocata durante l'allattamento dei bambini. Ad essa si offrono libagioni d'acqua, e nei sacrifici in suo onore si cospargono le vittime di latte»8• Se questa fosse l'origine del nome, si potrebbe interpretare ruma, come suggerisce lo Herbig, non soltanto come mammella o petto che offre il nutrimento e la vita ma anche, in senso traslato, come sede delle forze vitali racchiuse nel petto: dunque come «forte», omologo al latino Valentia e al greco Romé 9 . Questa ipotesi interpretativa spiegherebbe perché venne scelta in epoca storica, come simbolo della città, la lupa di fattura etrusca dalle mammelle gonfie di latte, e ci permetterebbe forse non di risolvere ma perlomeno di inquadrare meglio il problema del nome segreto di Roma,

Incisione allegorica della fondazione di Roma. di Giuseppe Vasi: l'i cumpuivno i simboli delle origini. dalla Lupa alla persomjicuzione del Tevere, dal/'urarro ul hue e a lla m11cca.

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S I MBOLI , M ITI E M I ST E RI D I ROM A

identico a quello del misterioso dio che la tutelava; mai svelati pubblica­ mente nonostante che Giovanni Lorenzo Lido affermasse nel quinto secolo d . C . : «Impugnata la tromba liturgica, che i Romani chiamavano lituus, Romolo pronunciò il nome della città . . . Una città ha tre nomi: uno segreto, uno sacrale e uno pubblico. Il nome segreto di Roma è Amor; quello sacrale Flora e Florens; quello pubblico Roma» 1 0 • Che il nome segreto fosse Amor era una tarda e infondata credenza, avallata poi nel medioevo e giunta fino a noi come testimonia Giovanni Pascoli scrivendo nell'Inno a Roma: Risuoni il nome che nessun profano sapea qual fosse, e solo nei misteri segretamente s'inalzò tra gl'inni . . . Amor! oh! l'invincibile in battaglia!

È pur vero che la lettura del nome di Roma da destra a sinistra era conosciuta fin dall'antichità, come testimonia un graffito trovato sulla parete di una casa di Pompei, nella via tra le insulae VI e IX della prima regione: sono quattro righe disposte a quadrato, quasi allusioni alla Roma quadrata del Palatino. Le lettere esterne, partendo dall'alto e scendendo verso il basso per poi proseguire a destra e infine verso l'alto, compongono il nome di Roma alternato a quello di Amor in una sequenza dove l'ultima vocale o consonante diventa la prima lettera della parola successiva: RO MAMOROMAMOR. Ma quel graffito non può rivelare il nome segreto che era tutelato severamente, come attesta Servio ancora nel quinto secolo d.C . : «Nes­ suno pronuncia il vero nome dell'Urbe, persino nei riti. E così dunque Valeria Sorano, tribuna della plebe, poiché ardì pronunciare questo nome, fu rapito per ordine del S enato e posto in croce, come dicono alcuni storici; secondo altri, per timore del supplizio fuggì e in Sicilia, catturato dal pretore, venne ucciso per ordine del Senato». Secondo la tradizione romana - che rispecchia una tradizione univer­ sale, riscontrabile oggi ancora in molti Paesi non occidentali - il nome era la formula che esprimeva l'energia di ciò che si nominava. Conoscere il nome era conoscere la cosa, sicché la conoscenza del nome dava le chiavi per poter influire - nel bene e nel male - sulla cosa stessa. Conseguentemente i Romani usavano evocare negli assedi il dio che aveva in tutela la città assediata promettendogli un culto pari o maggiore in Roma. «Per questo motivo i Romani», scriveva Servio «vollero che fosse celato il dio nella tutela del quale è Roma, e nelle leggi pontificati si badò bene a non chiamare con i loro nomi gli dei di Roma affinché non potessero essere oggetto di exauguratio . Sul Campidoglio vi fu uno

l NOMI DI ROMA

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scudo consacrato sul quale era scritto: Al Genio della città di Roma, maschio o femmina [Genio Urbis Romae sive mas sive [emina]. E i Pontefici così invocavano: Giove Ottimo Massimo, o con qualunque altto nome tu voglia essere chiamato.» E impossibile dunque che il nome segreto della città sia pervenuto fino a noi perché chi era autorizzato a conoscerlo non lo avrebbe mai affidato a uno scritto, che poteva cadere nelle mani di un non iniziato provocan ­ d o u n sacrilegio; e s e fosse stato trasmesso oralmente fino a d oggi, ipotesi che non si può totalmente escludere, non sarebbe svelato. Quanto alla storia del tribuno della plebe giustiziato per aver pronunciato il suo nome, sembra più un ammonimento che una notizia fondata perché era impossibile che il nome arcano potesse essere conosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di aristocratici, ovvero di iniziati. Oggi si possono proporre soltanto alcune ipotesi non per individuare il dio sive mas sive femina e con lui il nome segreto di Roma, ma per coglierne le manifestazioni o i nomi proposti exotericamente alla venera­ zione pubblica. Ci pone sulla buona strada non tanto l'affermazione di Lido che il nome sacrale era Flora, la Sempiterna Fiorente celebrata alla fine di aprile nei Floralia, giochi festosi e sensuali che talvolt� sconfina­ vano durante le notti in spettacoli osceni, quanto il non casuale culto congiunto di Venere Genitrice e di Marte Ultore che la restaurazione religiosa augustea vede come divinità tanto complementari da dedicare loro lo stesso Pantheon. Si potrebbero interpretare le due divinità come i due aspetti comple­ mentari della ruma, della mammella: Venere esprimerebbe la funzione materna, Marte quella guerriera, virile; sicché non sarebbe del tutto infondato affermare che il nome di Roma, letto da destra a sinistra, alluderebbe al dio padre di Romolo e Remo e difensore della città, mentre la lettura da destra a sinistra alluderebbe a Venere, madre di Enea e progenitrice del popolo romano. Ma entrambi non sono se non ipostasi della misteriosa divinità androgina cui possono attribuirsi molti nomi, anch'essi pronunciabili ovvero exoterici. La si può evocare per esempio come Mater Magna, che nel mito frigio assumeva le sembianze dell'ermafrodito Agdistis o Cibele: e non casualmente Cibele era adorata sul Pala tino dov'era stata portata dall'Asia Minore nel 205 - 204 a.C. Oppure può assumere le sembianze del dio purificatore e fecondatore, venerato anticamente sul monte Soratte col nome di Soranus, il Lupo, da sacerdoti sabini chiamati lupi: quel Soranus che Virgilio non causalmente identificava con Apollo, il dio patrono di Augusto. Non si sorprenda il lettore di questa proteiforme epifania di divinità, normale in una religione «politeistica» dove, come osservava il cardinal

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Cusano ne La dotta ignoranza , i nomi dei vari dei non sono se non esplicazioni di un unico ineffabile nume: nomi tratti in realtà dalla considerazione delle varie relazioni che Egli ha con le creature. Uno ineffabile che non ha un sesso definito, perché «la causa di tutte le cose», spiegava il teologo e filosofo umanista, «ossia Dio, complica in sé il sesso maschile e femminile . . . Anche Valeria Romano sostenendo lo stesso concetto, cantava Giove come onnipotente genitore e genitrice». A questa divinità senza nome, sive mas sive [emina, Adriano s'ispirò costruendo nel secondo secolo il maestoso tempio di Venere a Roma, lungo 1 45 metri e largo l 00, volendo significare che il nome palese dell'Urbe deificata s'identificava con la forza cosmica di coesione e di vita designata exotericamente con il nome della dea che aveva generato Enea. L'imperatore romano alludeva enigmaticamente in un gioco di specchi all'ineffabile realtà che si celava dietro le due immagini. «l templi di Roma e Venere sono della stessa grandezza e alle due divinità si offrivano incensi contemporaneamente» cantava il poeta Prudenzio due secoli dopo: « Urbis Venerisque pari se culmine tollunt Templea : simul geminis adolentur tura deabus».

n mistero della lupa

S econdo il mito Roma non sarebbe mai esistita se la cesta con i due gemelli, abbandonata ai piedi del Palatino sulle acque del Tevere straripato, non si fosse arenata presso un fico che si trovava sotto il colle e se una lupa miracolosamente comparsa non avesse allattato Romolo e Remo. L'episodio, narrato per la prima volta nel 111 secolo a.C. dallo scrittore greco Diocle di Pepareto e sulla sua scia dal senatore e storico romano Quinto Fabio Pittore, si ispirava al simulacro della lupa che, conservata oggi nel palazzo dei Conservatori in Campidoglio, risale alla prima metà del v secolo ed è probabilmente di fattura etrusca per l'espressività ottenuta con la sottolineatura di alcuni particolari anatomi­ ci, sebbene non siano assenti stilemi dell'arte ionica che allora influenza­ va quel popolo. Secondo alcuni storici, il gruppo bronzeo della lupa con i gemelli venne ideato per simboleggiare l'unione dei due popoli, il sabino e il latino, in un'unica città; per altri era l'emblema dei due consoli; altri infine sostengono che se la lupa è del v secolo, i gemelli originari sbriciolati nel 65 a.C . , da un fulmine che colpì la statua sul Campidoglio e rifatti dal Pollaloio alla fine del xv secolo - furono ideati nel 296 a.C. per simboleggiare l'eguaglianza tra plebei e patrizi raggiunta proprio in quel periodo 1 Successivamente i Romani, estendendo la loro egemonia sull'Italia, avvertirono l'esigenza di dare alla città ascendenze divine e nobili sicché rielaborarono un'antica leggenda riferita da Plutarco: lo scrittore narra che un crudele re degli Albani, Tarchezio, aveva ordinato di uccidere i gemelli nati da una schiava della figlia e da un misterioso fallo apparso nella casa perché un oracolo gli aveva predetto che da quella apparizione sarebbe sorto un uomo capace di innalzarsi su tutti gli altri per valore e fortuna. Ma il sicario Terazio non aveva avuto il coraggio di ucciderli e, sceso al fiume, li aveva deposti sulla riva dove una lupa venne a nutrirli mentre uccelli di ogni specie portavano loro briciole. Raccolti ed allevati da un pastore, avrebbero poi ucciso Tarchezio 2 • •

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La leggenda era analoga ad altri miti mediterranei . In Grecia, ad esempio, si narrava che la ninfa Tiro, posseduta da Poseidone, aveva generato i gemelli Pelia e Neleo ; ma temendo la collera della matrigna, li aveva deposti in un'arca di legno sul fiume Enipeo dove sarebbero stati salvati da un guardiano di cavalli che li avrebbe poi affidati per l'allattamento a una giumenta e a una cagna 3 • Probabilmente i mitografi romani ingentilirono la leggenda italica sul modello del mito greco, e sulla loro scia Virgilio creò la leggenda delle origini troiane di Rhea Silvia discendente da Venere e da Enea. La quale « Rhea» potrebbe essere l'eco della dea frigia C ibele, chiamata dai Greci Rea lda{a : dove il primo nome, derivando dal verbo réo, scorro, significherebbe per estensione «Colei da cui tutto scorre», e il secondo «delle selve» ; sicché si potrebbe leggere nell'episodio persino il mito della creazione del mondo con la Mater Magna, detta anche S ignora delle selve, che per virtù di un dio concepisce ed emana la realtà simboleggiata dai due gemelli. Ma di là dalle origini della leggenda, perché fu scelta una lupa come nume tutelare di Roma? Presso gli etruschi il signore degli inferi, Aita, era simboleggiato da questo animale, come testimoniano la tomba di Golini I di Orvieto e quello dell' Orco II di Tarquinia, dove il dio è raffigurato con una pelle di lupo che gli copre la testa. Il lupo era anche il simbolo di un dio infero purificatore e fecondatore, S oranus, venerato sul monte Soratte dai S abini . Hirpi Sorani, Lupi sorani, si chiamavano i sacerdoti che ogni anno partecipavano, coperti di una pelle di lupo, al rito di purificazione sulla cima del monte Soratte dove si accendeva una striscia di fuoco su cui essi passavano indenni . Quei riti purificavano e infondevano alla comunità la forza benefica e calorosa di Soranus 4. Ma tra i Sabini l'animale era anche sacro a Mamers, analogo al Marte romano che era padre, secondo il mito, dei gemelli : per questo motivo la lupa veniva detta anche Martia , cioè partecipe degli attributi di Marte, come testimonia Cicerone nel De divinatione. D'altronde, anche in altre tradizioni euro- asiatiche si riscontrano miti dove un lupo genera il fondatore di una dinastia guerriera e regale, come per esempio Gengiz­ Khan; oppure una lupa allatta il fondatore di un popolo, come testimonia anche la stele etrusca di Felsina . Ma come conciliare l'interpretazione marziale del lupo con quella del dio infero degli etruschi e del Soranus purificatore, dio che Virgilio identificava nell'Eneide con Apollo invocandolo «summe deum, sancti custos Soractis Apollo»? D'altronde, l'accostamento fra Apollo e S ora­ nus il Lupo non era infondato poiché Macrobio scriveva nei Saturnali che a Lycopolis (Città del Lupo) «si onoravano Apollo e il Lupo, adorando il sole in entrambi» . L'associazione del lupo con Apollo Febo

IL MISTERO DELlA LUPA

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lnc�ione del secolo scorso che raffigura la Lupa Capitolina; scultura in bronzo di fattura etrusca della prima metà del v secolo a.C. l gemelli, che risalgono alla seconda metà del xv secolo, sono attribuiti al Pollaiolo. Roma, Museo del Palazzo dei Conservatori.

(Foibos, da foibào, purifico) , ovvero con il S ole divino purificatore e donatore di luce si fondava sulla comune radice di lykos (lupo) e lyke (luce) . S econdo .Karoly Kerényi vi era a Roma un .terzo dio connesso al lupo : «Lo stesso dio oscuro si riconosce a Roma in Vediovis, uno Zeus infero, uno Juppiter giovane che qui veniva addirittura raffigurato nel tipo dell'Apollo greco con l'arco ma anche con una capra. Faunus e Vediovis avevano un santuario comune nell'isola Tiberina, e questo Juppiter non era altro che Vediovis: il quale era considerato il dio Lupo». E infatti l'annalista Lucio Calpurnio Pisone lo chiama Vediovis Lycoreus 5. A questo punto sarebbe difficile conciliare la lupa marziale con la lupa «purificatrice» se si contrapponesse M arte al dio infero, identificato· più tardi nell'Apollo Febo greco. Ma sarebbe forse un errore perché origina­ riamente Marte doveva avere anche funzioni simili a quelle di Febo. S i rifletta, per esempio, sul mese che gli era dedicato e che segnava nel calendario pregiuliano il rinnovamento dell'anno con il passaggio dall'in­ verno alla primavera, quando il sole con l'equinozio migrava dalla parte

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meridionale dello zodiaco a quella settentrionale. Il 15 marzo cadeva la festa di Anna Perenna, la Mater Magna simboleggiata dalla Luna, alla quale Marte aveva detto un giorno, secondo una leggenda riferita da Ovidio nei Fasti: «congiunsi i miei giorni con i tuoi». L'affermazione, tradotta nel linguaggio del calendario, significava che la lunazione di marzo rinnovava l'anno insieme con il sole nel suo passaggio sull'equa­ tore celeste 6• Né si dimentichi che al Natale di Roma, il 21 aprile, si purificavano persone, pecore e ovili con sangue di cavallo, cenere di vitello e steli di fava. Ebbene, il cavallo di cui si utilizzava il sangue, il cosiddetto october equus, era quello di destra della biga vincitrice di una corsa rituale che si svolgeva ad ottobre, alla fine della stagione agricola: veniva sacrificato a Marte per ringraziare il dio di aver protetto i campi durante i mesi primaverili ed estivi. D'altronde si potrebbe anche congetturare che nella lupa storica si siano sovrapposti o fusi i vari simboli che ogni gruppo etnico serbava nella propria tradizione. E non si tratta di un'ipotesi infondata se si riflette sul nome che i romani diedero al loro animale tutelare, fondendo­ vi quello venerato da etruschi e sabini con l'altro sacro ai latini: Luperca; dove la radice lup era di origine etrusca mentre il resto della parola derivava da hircus che in latino significava «capro». U na fusione comprensibile perché lupo e capro hanno anche alcune funzioni comuni in molte tradizioni euro-asiatiche. Dei riti purificatori connessi al lupo si è già accennato; su quelli che hanno il capro come vittima sacrificate è superfluo dilungarci perché sono noti; ed è nota anche l'altra funzione fecondatrice del capro, analoga a quella del lupo tant'è vero che oggi ancora in Francia si dice di una donna che ha conosciuto un uomo: «Ha visto il lupo» . Luperca aveva anche un significato per i Sabini: essi infatti, che chiamavano il lupo hirpus, avevano la peculiarità, come tutte le popola­ zioni umbre, di trasformare la c dura in p sicché lo hirpus sabino corrispondeva foneticamente allo hircus latino, ovvero al capro. Meglio non avrebbe potuto disporre il destino, anzi la dea Fortuna. Che Luperca rispecchi i due animali nonostante che appaia come lupa, lo testimoniano anche i Lupercali che hanno un'origine preromana sebbene l'immaginifico Ovidio li ricolleghi al ratto delle sabine. Dopo il celebre episodio, narra nei Fasti, gli dei inflissero una sterilità quasi totale alle spose rapite. Allora uomini e donne si recarono a pregare in un bosco consacrato a Giunone la quale fece udire la sua voce attraverso gli alberi: «Un sacro caprone penetri le donne italiche». Erano sconcer­ tati: come avrebbero potuto eseguire un ordine tanto mostruoso? Un individuo etrusco risolse l'enigma: immolò un capro e ricavò corregge

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dalla sua pelle ordinando alle giovani spose di offrire il dorso ai loro colpi. Così fu vinta la sterilità. Da quel giorno - secondo Ovidio - si sarebbe ripetuto ogni anno il rito nel mese che preludeva al rinnovamento dell'anno ed era consacrato alle purificazioni. Al mattino del t 5 febbraio i Luperci - così si chiamavano i giovani protagonisti della cerimonia - si cingevano, nudi, le anche con pelli strappate alle capre che avevano sacrificato poco prima e, partendo dal Lupercale, percorrevano di corsa la via Sacra brandendo corregge caprine con le quali colpivano le donne assicurandone la fecondità 7• Ma il rito aveva anche la funzione di purificare la comunità: Varrone scriveva a questo proposito che nel mese di febbraio «il popolo februatur (si purifica, si purga) , cioè l'antico colle del Palatino con grande affluenza di popolo è purificato dai Luperci nudi» 8. Sul Palatino regnava Faunus, simboleggiato dall'animale sacro ai latini, il capro. Ma Faunus era chiamato anche Lupercus a significare la fusione di due tradizioni diverse. Per questo motivo i sacerdoti di Lupercus, i Luperci, erano nello stesso tempo «lupi» e «capri», e la loro origine caprigna era allusa dalle pelli che portavano intorno ai fianchi. Si potrebbe ricordare a sostegno di questa tesi il tempio sull'isola Tiberina dove il simulacro di Faunus era venerato accanto a quello di Vediovis Lycoreus il quale a sua volta aveva ai suoi piedi una capra. Ora abbiamo tutti gli elementi per capire il simbolismo della lupa. I due gemelli vengono esposti alle acque, ovvero attraversano simbolica­ mente il mare del divenire, dell'impermanente, e giungono sotto un fico, simbolo dell'Albero del cosmo, dell'asse che unisce cieli, terra ed inferi: ovvero penetrano nella dimensione del divino, dell'eterno; e vengono nutriti infine dalla ruma , dalla poppa di una lupa che offre loro il suo latte. L' «animale» li nutre trasformandoli in Luperci, in lupi- capri, a somiglianza della divinità che regna in quel luogo e non è più l'arcaico dio venerato dai pastori, ma in una metamorfosi mitica capro e lupo nello stesso tempo, divinità purificatrice e fecondatrice, che dà loro anche virtù di eroi marziali. Diversamente dagli altri due simulacri della nutrice dei gemelli, che si trovavano presso il Lupercale e nel Comizio davanti alla Curia, la Lupa capitolina è giunta fino a noi sopravvivendo alle invasioni barbariche e all'incuria del primo medioevo grazie al fumine che la colpì nel 65 a.C., ferendola alle zampe posteriori e sbriciolando i due gemelli. Nella tradizione romana tutte le statue colpite dai fulmini diventavano sacre e non più visibili; sicché anche la Lupa fu ritirata nei locali che si trovavano sui fianchi del Campidoglio. Riapparve soltanto nel x secolo d.C., sistemata all'esterno della torre degli Annibaldi, al Laterano, su una base di pietra sostenuta da grappe infisse nel muro. Vi restò fino al 14 73

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Disegno anonimo del xv secolo che raffigura un 'esecuzione al Latera no nel 1438. Sulla torre degli Annibaldi si vedono le mani mozzate di un ladro accanto alla Lupa Capitolina, che restò in quel luogo dal x secolo d.C. fino al 1473 circa.

presiedendo alle esecuzioni dei condannati, come testimonia un disegno del 1 43 8 che mostra, accanto alla statua, le mani mozze e inchiodate alla torre di alcuni ladri colpevoli di aver trafugato oggetti preziosi nella vicina basilica. Il 1 3 novembre 1 4 7 1 S isto IV, nell'ambito della famosa donazione di statue antiche al Campidoglio, che costituì la prima collezione pubblica, offrì ai Conservatori 10 fiorini d'oro per il suo trasferimento e per il rifacimento dei gemelli. Dal 1 4 7 3 fino alla trasformazione michelangio­ lesca della piazza la statua fu sistemata sotto il portico vicino all'aula. Poi verso il t 538 - t 544 venne collocata sopra il colonnato che decora il pianterreno, a metà della facciata, dove si apre la porta principale. Infine, nel l 586, fu installata su un piedistallo al centro della stanza della Lupa dove è rimasta fino ad oggi, testimone silenziosa della storia moderna di Roma.

Le metamorfosi di Anna Perenna

Se vi è un nome tipicamente italico, anzi romano, questo è Anna: così si chiamava una dea festeggiata alle idi di marzo in un boschetto situato, secondo il calendario Vaticano ( 1 5 - 3 7 d.C.), al primo miglio della via Flaminia, nei pressi del ponte M ilvio: « . . . il bosco di Anna Perenna che inebriano, carico di frutti, i sangui virginali» 1, lo cantava Marziale rievocando i canti e le danze delle fanciulle in quel giorno. Ovidio narra che al mattino la folla si avviava non lontano dalle rive del Tevere per celebrare il tte, fino alla tomba di Mazarino nella Chapelle dell'Institut a Parigi dove accanto al cardinale è ritratto un puttino che regge un fascio littorio, emblema del potere nella sintesi di unità, forza e giustizia, mentre la Pace davanti al sarcofago afferra con una mano la cornucopia, immagine dell'abbondanza, e con l'altra una torcia riversa che incendia le armi, secondo le indicazioni del Ripa. Sicché quell'oscuro bibliotecario di un cardinale senese divenne per un capriccio della sorte la suprema autorità nel campo delle allegorie regnando per quasi duecento anni, tant'è vero che si credeva che nella sua opera fosse raccolto tutto il genio dell'antichità e del medioevo mentre essa ne era soltanto un opaco riflesso, anche se spesso ingegnoso.