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Italian Pages 324 Year 2010
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Antonio De Simone
L’INQUIETO VINCOLO DELL’UMANO Simmel e oltre
LIGUORI EDITORE
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Teorie & Oggetti della Filosofia 70 Collana diretta da Roberto Esposito
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Antonio De Simone
L’inquieto vincolo dell’umano Simmel e oltre
[ISSN 1973 - 1507]
Liguori Editore
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2. Individualità, reciprocità, riconoscimento
I. Titolo
Aggiornamenti: ————————————————————————————————————————— 18 17 16 15 14 13 12 11 10 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
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Indice
Über Simmel Incidenza e attualità di un classico “nostro contemporaneo” 1.
La frattura originaria: soggetto & oggetto
IX
1
La dinamica dualistica della cultura in Georg Simmel 1.1. La vita e le forme. “Come è possibile la cultura?”: transiti simmeliani 1; Nota I. Denaro e prostituzione 39; 1.2. «L’avanzamento della cultura delle cose e l’arretratezza della cultura delle persone». Conflitto e tragedia della cultura moderna: vita, forme e reificazione 43.
2.
“Prima delle cose ultime”: stare nella frattura
65
Traiettorie dell’esistenza: sfere e disseminazioni comunicative dell’esperienza quotidiana 2.1. Ontologie e forme dell’agire umano quotidiano 65; 2.2. Il fascino del confine, della novità e della caducità: la moda 68; 2.3. Configurazioni e vincoli del vivere quotidiano 92; 2.4. Ri-pensare l’esperienza della vita sociale quotidiana 108.
3.
Conflitto etico e legge individuale
121
Forme dell’io pratico 3.1. L’agire morale: essere e dovere 122; 3.2. L’etica della legge individuale: un bilancio critico 154.
4.
Il difficile labirinto
165
Libertà, conflitto, paura e (in)sicurezza Considerazioni “intempestive” sulla contemporaneità: Simmel oltre Simmel 4.1. La libertà e il “gioco” dei vincoli 166; 4.2. «L’usurpatore ubiquo» e il mondo rovesciato. Simmel e il denaro: libertà, conflitto e responsabilità 167; 4.3. Sulla libertà e lo “straniero interno”: attraverso Simmel 189; 4.4. Paura e (in)sicurezza nella condizione globale 201.
5.
Individualità, reciprocità, riconoscimento e dono 215 Tra Simmel, Honneth, Caillé e oltre 5.1. Theatrum vitae humanae, ovvero recitare l’essere umano. Per cominciare … da Pirandello a Simmel e ritorno 216; 5.2. Metamorfosi sociali: l’individualizzazione tra locale e globale 223; 5.3. Quale soggetto? 229; 5.4. Simmel: homo
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viii
INDICE reciprocans e individualizzazione 232; Nota II. Conoscenza, reciprocità, riconoscimento 240; 5.5. Individualità, alterità e riconoscimento intersoggettivo: incidenza di Hegel 241; 5.6. Honneth: “società del riconoscimento” e reificazione. Sviluppi problematici 244; 5.7. Antropologia critica dell’umano e dialettica del riconoscimento: ri-configurazioni possibili 250; 5.8. “Penser autrement”. Soggettività, morfologie del contemporaneo e smascheramento del dominio 252; 5.9. Quale destino per l’io? 257; 5.10. Crepuscolo del dovere, società postdeontica, etica normativa 262; 5.11. Disseminazioni 267; 5.12. Denaro, desiderio e avarizia, dono e riconoscimento reciproco 269; 5.13. Critica della ragione utilitaria e teoria anti-utilitarista dell’azione. Come è possibile un’antropologia dell’umano oltre l’assiomatica dell’interesse? 289.
Indice dei nomi
299
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Über Simmel Incidenza e attualità di un classico “nostro contemporaneo”
D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima. Italo Calvino
Non deve sorprendere il fatto che agli inizi del XXI secolo, nell’epoca globale dell’ipermodernità, cioè, come dice Massimo Recalcati1, dell’«epoca che minaccia l’intimità più radicale e scabrosa del soggetto, l’epoca dei turboconsumatori, dell’inebetimento maniacale, della gadgettizzazione della vita, della burocrazia robotizzata, del culto narcisistico dell’Io, dell’estasi della prestazione, della spinta compulsiva al godimento immediato come nuovo comandante assoluto»2, un tempo assorbito dal “nuovo individualismo”3 e dove domina la “confusione del presente”, nella riflessione e nelle forme di pensiero la forza di attrazione e l’attualità esercitate dalla lezione dei “classici” possano ancora tornare utili. Così accade per un classico “nostro contemporaneo” come Georg Simmel (1858-1918), la cui opera ci può aiutare a comprendere le metamorfosi, le aporie e le contraddizioni del nostro tempo che, nel segno dell’incertezza, marcano, nel fragile confine della libertà, il quotidiano vivere e la relazione reciproca con l’altro. Un tempo “difficile” dove occorre sempre più imparare a incontrare il caos, l’imprevisto, a esporsi al rischio e vivere l’esperienza dell’incommensurabile conflitto; un tempo, come sostiene ancora Recalcati quasi con toni da pessimismo non soltanto antropologico ma anche ontologico, nel quale non solo vi è un’aderenza assoluta del soggetto alla «maschera sociale», ma in cui la realtà umana è caratterizzata da un’insicurezza che emerge «senza più schemi difensivi: la vita va alla deriva, caotica, spaesata, priva di punti di riferimento, destabilizzata, smarrita, vulnerabile». Da ciò consegue che la nostra non è solo «la 1
Cfr. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2010. M. Recalcati, Intervista, in L. Sica, Così l’uomo ha perso l’inconscio, in «la Repubblica», 21.01.2010, p. 41. 3 Cfr. A. Elliott, C. Lemert, Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazione, tr. it. di R. Fagetti, Einaudi, Torino 2007. 2
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X
L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
società dei legami liquidi, dello sbriciolamento dei legami sociali, dell’assenza dei confini simbolici che facevano da bussola nei percorsi della vita», ma anche l’epoca «delle identificazioni solide, dell’eccesso di alienazione, di integrazione, di assimilazione conformista»: un’epoca, dunque, nella quale «il soggetto non mostra alcun desiderio, si ancora al mondo esterno fino a perdere ogni contatto con se stesso, si annulla attraverso il rafforzamento narcisistico», dove s’impone non solo «un culto sociale che incalza la soggettività come un inedito dover essere»4, ma in cui «l’enfasi sull’Io diviene fine a se stessa e si manifesta nella incapacità di riconoscere l’altro nella sua realtà e autonomia»5, con la conseguenza che «il rifiuto dei limiti etici e la rottura del patto sociale» diventano consustanziali «con la perdita del legame e con il vuoto emotivo che la accompagna»6. In questo scenario, parafrasando le parole di due grandi maestri della filosofia e della teoria sociologica contemporanee (Piovani che si riferisce a Hegel7 e Rammstedt che parla di Simmel8), potremmo chiederci: l’incidenza di Simmel9 è un’incidenza che ha inciso o che incide ancora? Simmel è ancora attuale? L’attualità rappresenta un campo di applicazione ideale per la ripresa e riconsiderazione critico-ricostruttiva delle categorie sviluppate dalla sua riflessione? In altri termini, la sagesse filosofica, epistemologica, storica, etica, estetica e sociologica di Simmel si inserisce a pieno titolo nella nostra contemporaneità? Si può essere “simmeliani”, cioè essere sotto l’influenza di Simmel (accettandolo o rifiutandolo), senza perciò esserne epigoni ripetitori, allievi irriconoscenti o “saccheggiatori” della sua eredità di pensiero? In generale, oggi, è condivisibile quel giudizio critico che intravede la novità maggiore del “discorso simmeliano” nella sua peculiare «capacità di esaminare sfere di esperienza differenti, seguendo il movimento unitario della vita degli individui che si declina simultaneamente attraverso diverse “province finite di significato”»10. L’aver coniugato trasversalmente campi di 4 5
M. Recalcati, Intervista, cit., p. 41. A. Romano, Se Narciso muore risplende la vita, in «Tuttolibri-La Stampa», 20.02.2010, p.
VI. 6 Ibid. 7 P. Piovani, Incidenza di Hegel, in AA.VV., Incidenza di Hegel, a cura di F. Tessitore, Morano Editore, Napoli, 1970, p. 3. 8 O. Rammstedt, L’attualità di Simmel per la teoria sociologica contemporanea. Una lettura, in AA.VV., Le forme del moderno. Attualità di Georg Simmel, a cura di V. Mele, FrancoAngeli, Milano 2007, pp. 21-28. 9 Per l’edizione critica dell’opera di Georg Simmel, cfr. Gesamtausgabe, a cura di O. Rammstedt, H.-J. Dahme, D. Frisby, A. Cavalli et al., Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989 sg. 10 G. Valle, Introduzione, in Id., La vita individuale. L’estetica sociologica di Georg Simmel, Firenze university Press, Firenze 2008, p. XXV.
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ÜBER SIMMEL
XI
indagine tradizionalmente considerati incommensurabili, fa della riflessione simmeliana «una delle più stimolanti avventure del pensiero contemporaneo», in grado di offrire ancora rilevanti paradigmi d’analisi non solo per comprendere le forme della vita11 nella modernità, ma anche la conditio humana attuale, sempre più assediata «dalla proliferazione della cultura oggettiva e dal bisogno di distinzione»12. Ci sono uomini, quasi sempre i più grandi, che non si possono facilmente classificare, la cui opera non solamente non si lascia etichettare o imprigionare negli specialismi disciplinari, ma nei cui confronti sembra quasi di dover rinunciare ad ogni velleità d’interpretazione unitaria ed esaustiva, mentre solo una certa libertà trasversale consente di rileggerla senza cadere nella sciocca pretesa di ridurla specularmente a se stessi. Quest’uomo è Georg Simmel. Tutta la sua imponente opera oggi occorre leggerla con molta attenzione e poi tornare a rileggerla non soltanto con gli occhi e con la testa, ma per di più guidati dalla sua peculiare curiositas per la profondità dell’apparenza con cui ogni aspetto della vita – (compreso ogni suo dettaglio, il più marginale e ovvio), non solo degli individui ma anche dello spazio fisico e simbolico delle cose nella loro significatività nel flusso ininterrotto del vissuto quotidiano13 –, diventa degno di essere indagato sub specie aeternitatis. Simmel, nella coazione della scrittura che personificava, era un saggista14 per natura. Egli era continuamente proteso a saggiare fenomenologicamente il reale e il senso della totalità del mondo e della vita sin dentro la prossimità delle cose stesse. La sua predilezione per la forma saggista altro non esprime se non «la volontà di non accentrare la varietà fenomenica a partire da un unico fuoco interpretativo, ma di percorrerla infaticabilmente, alla ricerca degli elementi di cui è costituita e degli effetti di reciprocità che si stabiliscono tra di essi»15. Certo, due dei suoi libri più significativi, Filosofia del denaro (1900) e Sociologia (1908), ma anche il volumetto introduttivo I problemi della filosofia (1910), la miscellanea di Saggi di cultura filosofica (1911), La moda (1911), Il conflitto della cultura moderna (1911), La legge individuale (1913) e l’opera filosofica testamentaria Intuizione della vita (1918), 11 Cfr. F. Papi, Simmel: comprendere le forme della vita, in G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia, intr. e tr. di A. Banfi, nuova ed., SE, Milano 2009, pp. 159-182. 12 G. Valle, Introduzione, in Id., La vita individuale, cit., p. XXV. 13 Cfr. R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari 2009. 14 Cfr. O. Rammstedt, Il saggio in Georg Simmel. Un tentativo di avvicinamento, in AA.VV., Georg Simmel e l’estetica. Arte, conoscenza e vita moderna, a cura di C. Portioli e G. Fitzi, Mimesis, Milano 2006, pp. 101-116; L. Waizbort, As aventuras de Georg Simmel, Editora 34, São Paolo 20062, p. 35 sg. 15 G. Valle, Introduzione, in Id., La vita individuale, cit., p. XX.
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XII
L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
solo per citarne alcuni, non erano affatto dei trattati o scritti di impianto tradizionale, ma erano pensati e scritti nella forma di un complesso mosaico di acuti e originali saggi, alcuni di essi intramati mirabilmente anche da fulminanti e imprevedibili Excursus, “cristalli di pensiero” che spesso disvelano la personale esteticità del suo stile. Come ha scritto Andrea Pinotti, l’esteticità dell’approccio simmeliano è tale sotto due aspetti fondamentali: «quello dell’immaginalità e quello della sensibilità»16. In particolare, in virtù del primo aspetto, ciò che interessa a Simmel «è l’apparenza delle cose, l’immagine», e «tanto più l’immagine è eloquente, quanto più è marginale, periferica, apparentemente insignificante, paradossalmente inapparente, unscheinbar»; ciò fa di Simmel nel Novecento filosofico «uno dei primi e più fini cultori» dell’atteggiamento micrologico riscontrabile nella generazione successiva di “simmeliani” (tra i quali Benjamin, Bloch e Kracauer). La persuasione di Simmel è quella di pensare che sia possibile render conto anche dei «fenomeni superficiali più fuggevoli e isolati della vita»17, a tal punto che la stessa filosofia possa divenire «più fedele e più arrendevole ai sintomi delle cose stesse». In ciò consiste, secondo Simmel, l’essenza della «cultura filosofica», ovvero un «habitus filosofico», uno stile di pensiero che ha come scopo produttivo esclusivo «l’approfondimento che muove dalla superficie della vita, il discoprimento dello strato ideale che è sempre sotteso a tutti i suoi fenomeni – quel che si potrebbe chiamare la loro donazione di senso»18. In virtù del secondo aspetto, estetica è la riflessione di Simmel «in quanto dedicata all’aisthesis, alla sensazione e alla percezione, alla dimensione della sensibilità»: sotto questo aspetto “estesiologico”, la riflessione simmeliana «va compresa sullo sfondo di una profonda trasformazione del trascendentalismo kantiano, avviata nel XIX secolo, che può essere riassunta sotto il titolo di somatizzazione dell’a priori: le condizioni di possibilità della nostra esperienza sensibile vanno ricercate nell’organizzazione del corpo senziente, cioè alla lettera nei suoi organi di senso e nei loro rapporti reciproci»19. 16
A. Pinotti, Nascita della metropoli e storia della percezione: Georg Simmel, in M. Vegettti (a cura di), Filosofie della metropoli, Carocci, Roma 2009, p. 120. 17 G. Simmel, Introduzione, in Id., La moda e altri saggi di cultura filosofica, tr. it. di M. Monaldi, Longanesi, Milano 1985, p. 8. 18 Ivi, p. 10. 19 A. Pinotti, Nascita della metropoli e storia della percezione: Georg Simmel, cit., p. 123. Sulla valenza sociologica delle varie attività e funzioni dei singoli organi di senso nel campo dell’azione reciproca, che Simmel, come è noto, ha analizzato nell’Excursus sulla sociologia dei sensi (contenuto nella sua Sociologia), cfr. A. De Simone, L’occhio e l’orecchio. Sulla “sociologia dei sensi” di Simmel, in Id., L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, Liguori,
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ÜBER SIMMEL
XIII
Lo stile di Simmel ha sempre creato in me un’aura d’immediata partecipazione nella lettura e interpretazione della sua pagina. Il ritmo della sua scrittura è sempre affascinante, l’argomentazione avvincente e mai scontata, continuamente arricchita da analogie, metafore, esempi storici dal valore simbolico e paradigmatico, culturalmente impareggiabile. L’exposé di Simmel, dotato di una grande immaginazione filosofica e sociologica, si basa anche sul principio del montaggio, capace di coniugare grandi costruzioni con minuscoli elementi costruttivi, nello scoprire nel piccolo e singolo dettaglio, il cristallo dell’accadere totale, nel rappresentare l’universale nel particolare. Simmel ha saputo restituirci una fisionomica ed una prossemica della relazione sociale, e per certi aspetti, anche, una “nuova fenomenologia dello spirito”20. Non si sottolineerà mai abbastanza che in questo è stato emulato soltanto da Walter Benjamin nei suoi Passages di Parigi. Noi, oggi, Simmel dobbiamo interrogarlo e metterlo alla prova, riattraversando il fiume di pagine della sua scrittura un secolo dopo e oltre, cioè tra due secoli, anche con l’attenzione curiosa di chi in questo fiume cerchi oro, per farne tesoro non solo individuale, attenti però a non cadere fragorosamente nella cascata delle sue limpide acque che sono sempre state estranee al “provincialismo accademico”, quello stesso che carico di invidia e superbia, lo esiliò a Strasburgo, nella cui università divenne professore ordinario di Filosofia nel 1914, quattro anni prima della morte, avvenuta il 28 settembre del 1918. Per caratterizzarne la fisionomia intellettuale, difficilmente ascrivibile entro gli abituali steccati disciplinari (sia filosofici che sociologici), c’è chi ancora pochi anni or sono registrava l’immagine di Simmel, quale emersa nella storia della ricezione critica sino agli anni ’80 del Novecento, come «un outsider, un vagabondo di talento, un cultore dell’effimero, un flâneur del saggismo, un inquieto sismografo della modernità, un impressionista del dettaglio, un rabdomante del frammento, un collezionista di prospettive, un nomade della ricerca, il Borges della letteratura sociologica»21. Napoli 2007, pp. 229-245. 20 Per esempio, nel capitolo III della Sociologia («Sovraordinazione e subordinazione»), volendosi quasi spingere “oltre Hegel” nell’analisi della dialettica servo-padrone e delle dinamiche del potere, in un fulminante aforisma, Simmel scrive: «Tutti i capi vengono anche diretti, così come in innumerevoli casi il padrone è lo schiavo dei suoi schiavi» (G. Simmel, Sociologia, tr. it. di G. Giordano, intr. di A. Cavalli, Edizioni di Comunità, Milano 1989, p. 120; d’ora in poi S). Su u Simmel quale «grand héritier de Hegel et de sa “philosophie de l’esprit”» insiste J.L. Vieillard-Baron nella sua «Introduction» a Georg Simmel, philosophie de la modernité, t. I, Payot, Paris 1989 (réédition 2004 e 2007), pp. 7-16. Per una lettura ricostruttiva e integrale del III capitolo della Soziologie di Simmel, cfr. A. Bianco, Sovraordinazione e subordinazione nella Soziologie di Georg Simmel, Aracne, Roma 2009. 21 M. Vozza, Introduzione a Simmel, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 133.
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XIV
L’INQUIETO
VINCOLO DELL’UMANO
Oltre a tutto ciò, oggi, tra l’altro, possiamo sondare anche una nuova immagine di Simmel, «un Simmel ulteriore», fonte di ispirazione non solo della social network analysis22, come ci ricorda Panebianco23, ma riconducibile altresì ai problemi della filosofia politica e della teoria del riconoscimento e del dono che ci spingono – con Simmel oltre Simmel – a considerare criticamente, tra l’altro, le aporie dell’homo reciprocans nello «spazio del conflitto»24 aperto, nella dialettica della prossimità, dall’estrema variabilità delle differenze (in)dividuali. Di fatto, è sicuramente difficile ricostruire anche con la massima precisione il lascito, l’eredità, di Simmel, cercando di perimetrare i confini della sua influenza per gli sviluppi della filosofia e della sociologia del Novecento e per quelli attuali, agli albori del XXI secolo. Un’influenza che molti dei suoi debitori non hanno mancato occasione di manipolare, dissimulare o ridimensionare, addirittura abiurando il loro maestro. D’altro canto, per usare la metafora previsionale che Simmel stesso adoperò nella meditazione autobiografica contenuta nel Diario postumo a proposito della sua eredità intellettuale come monetarizzata, sempre di «denaro in contanti» si tratta. Anche in questa circostanza non posso altro che ribadire una persuasione di fondo che nel tempo ho sempre confermato nei miei studi simmeliani e che recentemente ho sostenuto ne L’ineffabile chiasmo25 e nel saggio Come
22 Cfr. A. Degene, M. Forsé, Les Réseaux sociaux, Colin, Paris 1994; A. Givigliano, Cerchi, barche, campi. Relazioni sociali e social network analysis, in A. Salvini (a cura di), Analisi delle reti sociali, FrancoAngeli, Milano 2007. 23 Cfr. A. Panebianco, L’automa e lo spirito. Azioni individuali, istituzioni, imprese collettive, il Mulino, Bologna 2009, p. 137. Scrive Panebianco: «Stando alla definizione standard, un network sociale è, semplicemente, un insieme di attori e di relazioni entro tale insieme. I networks o reticoli sono luoghi di interazione diretta fra individui, impegnati a scambiarsi ogni genere di “valori”: risorse materiali, affettività, amicizia, informazioni ecc. Sono un tipo di struttura sociale che nasce sempre in modo involontario, per effetto di attività (di interazioni con altri) finalizzate ad altri scopi. I reticoli sociali, inoltre, sono sempre caratterizzati da informalità (ciò che soprattutto li distingue dalle organizzazioni formali), sono relativamente fluidi e sono onnipresenti. Assumono “forme” o conformazioni diverse e tale diversità ha rilevanti conseguenze sociali» (ibid.). 24 Per una lettura filosofico-polititica della teoria simmeliana del conflitto, cfr. B. Accarino, Il “polemos” e le sue forme: lo spazio del conflitto in Georg Simmel, in A. Arienzo, D. Caruso (a cura di), Conflitti, Edizioni Libreria Dante & Descartes, Napoli 2005, pp. 169-197. Sulla rilevanza della nozione di conflitto nell’iter speculativo di Simmel, cfr. S. Giacometti, L’eternità del conflitto nella filosofia della vita di Georg Simmel, in Conflitti, cit., pp. 199-217. Sulla tematica simmeliana del conflitto cfr. inoltre, L.A. Coser, Le funzioni sociali del conflitto, tr. it. di P. Demartisi, Feltrinelli, Milano 1967 e R. Tartler, Georg Simmels Beitrag zur Integrations– und Konflikttheorie der Gesellschaft, in «Jahrbuch für Sozialwissenschaft», n. 16, 1965, pp. 1-12. 25 Cfr. A. De Simone, L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, cit.
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ÜBER SIMMEL
XV
è possibile la reciprocità?26. Georg Simmel ci ha offerto sul piano filosofico e sociologico un contributo originale e rilevante all’analisi e alla diagnosi critica del destino degli effetti di reciprocità e dei processi di individualizzazione nel mondo moderno che soltanto negli ultimi tempi si è cominciato a comprendere e ad apprezzare in tutta la sua portata, affrancando e superando una vecchia e logora sua immagine che ce lo rappresentava (tra l’altro) come un filosofo “vitalista”, facente professione di Irrationalismus der Lebensphilosophie e come un sociologo eclettico e non rigoroso perché “formale”: oggi questa immagine dismessa e “inattuale” di Simmel è definitivamente crollata, anche se è stato molto impegnativo restituirgli il suo vero volto27 e tentare di individuare i suoi veri “eredi” intellettuali. Dilatando e rendendo più elastico l’orizzonte dischiuso dal trascendentalismo kantiano, Simmel ha fatto sua l’idea secondo cui «non solo le condizioni di possibilità debbano essere pensate come plurali, ma che si debba ammettere una fondamentale azione reciproca (Wechselwirkung) fra il soggetto e il mondo concreto in cui esso si trova a vivere, mondo che non si limita a venire costituito dalle forme soggettive, ma che allo stesso tempo contribuisce a costituirle»28. Nell’analizzare il rapporto tra soggetto e oggetto, io e mondo, individuo e società, Simmel ribadisce il suo rifiuto di ogni forma di determinismo e di univocità: «le cause che producono certi effetti sono al contempo causate da quegli stessi effetti», il che comporta che si deve «abbandonare» il modello «causante-causato»29 a tutto vantaggio del paradigma della reciprocità. Nel tempo presente Simmel si rivela sempre più “un nostro contemporaneo” proprio per l’“attualità” della sua filosofia e sociologia della relazione, ovvero dell’azione reciproca (Wechselwirkung), e del conflitto, cioè per la sua peculiare capacità fenomenologica di descrivere le dinamiche della vita, della cultura e della socialità nella loro pluralità e complessità entro i limiti, i confini, i frammenti e i conflitti che ne fluidificano continuamente le loro forme esistenziali specifiche. Come è stato recentemente osservato, nei confronti
26
Cfr. A. De Simone, Come è possibile la reciprocità? Processi di individualizzazione e disseminazioni della socialità in Georg Simmel, in AA.VV., Simmel e la cultura moderna. Vol. I. La teoria sociologica di Georg Simmel, a cura di V. Cotesta, M. Bontempi, M. Nocenzi, Morlacchi Editore, Perugia 2010, pp. 317-341. 27 Cfr. A. De Simone, Filosofia dell’arte. Lettura di Simmel, Milella, Lecce 2002; Id., Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, QuattroVenti, urbino 2002; Id. (a cura di), Leggere Simmel. Itinerari filosofici, sociologici ed estetici, QuattroVenti, urbino 2004; Id., Oltre il disincanto. Etica, diritto e comunicazione tra Simmel, Weber e Habermas, Pensa Multimedia, Lecce 2006 (su Simmel, pp. 79-223); Id., L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, cit. 28 A. Pinotti, Nascita della metropoli e storia della percezione: Georg Simmel, cit., p. 125. 29 Cfr. ibid.
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XVI
L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
del dinamismo che subordina la vita alle forme astratte della sua esistenza, Simmel non ha dimostrato alcun tentennamento lungo l’intero cammino del suo pensiero: l’individuo non può altro che assumere «una posizione “adattiva” nei confronti dell’azione performativa delle forme». Perciò egli pensa che la società sia il prodotto di una tensione duale instabile tra due forze opposte: da una parte, «una tendenza centrifuga impiega le sue energie per costruire ponti verso l’esterno, verso un mondo di oggetti, ma anche verso gruppi diversi dal proprio»; dall’altra, «una tendenza centripeta produce cultura in termini di objektiver Geist»30. Questa separazione tra soggettivo e oggettivo segna alternativamente la “crisi”, la “tragedia” o la “patologia” della cultura nel conflitto della modernità, le cui propaggini si riflettono in modo vistoso anche nel mondo globale contemporaneo, un mondo nel quale, nella scena del quotidiano, dominata dalla frammentazione, è sempre più difficile erogare un surplus di senso e di significato che sappia eliminare la frequente denutrizione intellettuale e affettiva degli individui. un mondo nel quale, nel “recinto del presente” l’uomo della contingenza può arrivare a uccidere se stesso attraverso la ragione utilitaria e produttivista, dove, come diceva paradossalmente Simmel, «tutto è interessante, nulla è più significativo». Ritorno con queste mie pagine ad occuparmi di Simmel perché ancor oggi non si può far a meno di affrontarne la lettura. Anche in questo ulteriore sforzo e nell’accingermi a licenziare questo libro, in cui cerco di coniugare in un circolo virtuoso e in forma circostanziata il rapporto tra filosofia (in particolare, la filosofia politica e sociale) e le scienze umane e sociali anche attraverso alcuni transiti simmeliani e post-simmeliani, ho spesso pensato in modo implicito che chi non ha immagazzinato in sé, nel suo pensiero, la filosofia, l’etica, l’estetica e la sociologia di Simmel ha poi non poche “lacune” nel dichiararsi oggi “filosofo” e/o “sociologo”; ovviamente, ciò è coestensibile anche a tutti gli altri grandi filosofi e teorici sociali contemporanei di cui mi sono occupato ampiamente nei miei scritti. La domanda che mi sono posto è: cosa può significare Simmel per noi oggi? una possibile e plausibile risposta potrebbe essere quella che, parafrasando e capovolgendo il titolo di un famoso libro di Benedetto Croce Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, si ponesse diversamente l’interrogativo nel modo seguente: cosa può significare l’oggi, il tempo presente, dal punto di vista della filosofia e della sociologia di Simmel? Saper rispondere a tale interrogativo significa ammettere che Simmel non può restare “senza eredità”, dal momento che 30
Cfr. M. Del Forno, Invenzione a due voci. Simmel, Weber e il paradigma della musica, in «Quaderni di Teoria sociale», n. 9, 2009, pp. 141-142.
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ÜBER SIMMEL
XVII
le tracce del suo pensiero e della sua opera non possono essere cancellate da nessuno. Oggi, ancora, nei confronti di Simmel, vale, parafrasato, quanto ha detto Alessandro Cavalli: «Ogni lettore che scandaglierà con cura gli infiniti recessi [della sua] opera emergerà con il suo bagaglio di reperti. La sovrabbondanza di temi è tale da non lasciare nessuno senza bottino». È il destino dei classici! Certamente, con Simmel oltre Simmel, una consapevolezza mi guida nell’ispirazione di fondo di queste pagine: ciò che qui fa questione, nella nostra condizione di contemporanei, nell’“attualità del presente” e nella mobile inquietudine dell’umano che si instaura nel rapporto reciproco e nel vincolo con le forme e le emergenze della vita, i suoi ritmi, le sue velocità, nei casi e nelle scelte che impone, è la dislocazione del presente che segna le difficoltà di essere “contemporanei” e di appartenere a un tempo, di cui, come dice Jacques Derrida, abbiamo appunto difficoltà di dire il “nostro” tempo31: un tempo in cui, nel grande schermo della società in cui è proiettato quotidianamente, è sempre più difficile strappare all’uomo la sua maschera32. Per comprendere ciò, possiamo ricordare quanto ha detto Elias Canetti in Massa e potere33, l’opera della sua vita, allorquando descrive magistralmente il gioco mimico in cui si esprime la continua disponibilità dell’uomo alla metamorfosi attraverso l’uso, il ruolo e la funzione della maschera. Nel gioco inquieto e mobile di espressioni possibili, la maschera, all’opposto, si configura per la sua «perfetta rigidità e costanza». L’uomo possiede la mimica più ricca e la più ricca vita di metamorfosi che pervadono i suoi stati d’animo e che scivolano sul suo volto. Nelle metamorfosi dell’umano, la maschera è «uno stato finale»: in essa sfocia e termina «il corso fluido» delle metamorfosi «confuse, fermentanti» di cui è espressione emblematica il volto umano. La maschera è nel contempo «chiara», perché esprime qualcosa di determinato, e «rigida», perché ciò che essa esprime «non muta». Dietro una maschera può essercene un’altra: nulla impedisce una loro sovrapposizione. Possono esserci maschere doppie: «tutto è possibile di maschera in maschera», ma solo mediante «il salto di maschera» il nuovo si può configurare d’improvviso. La maschera, infatti, agisce verso l’esterno creando una figura: è «intangibile» perché stabilisce una distanza fra sé e l’osservatore. La sua rigidità di distanza la rende «allontanante». Dietro la maschera si cela e comincia il mistero: essa manifesta e nasconde, è una «barriera divisoria», è un «vicinissimo» dell’uomo 31 Cfr. J. Derrida, «Ho il gusto del segreto», in J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 9. 32 Cfr. A. Pizzorno, Sulla maschera, il Mulino, Bologna 2008. 33 Cfr. E. Canetti, Masse e potere, tr. it. di F. Jesi, Adelphi, Milano 1981, pp. 452-457.
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XVIII
L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
perché «carica di un contenuto pericoloso» che non si deve conoscere e con cui non si deve essere familiari. Seppur vicina, deve restare separata dall’uomo: cela il segreto che dietro di essa si accumula e il sospetto e il timore per l’ignoto che produce. La maschera è ciò che «non si trasforma», perché immutabile e durevole: è ciò che resta immobile «nel gioco sempre mutevole» della metamorfosi dell’umano. Possiamo nasconderci con la maschera: la sua “chiarezza” è tale perché è speculare alla “oscurità” che le sta dietro. Nel suo carattere «minaccioso», contemporaneamente suscita fascino e crea distanza: finché dura la sua attività, essa è «intangibile, invulnerabile, sacra». Applicata materialmente ed esterna, la maschera rende chi la esibisce homo duplex: portandola, qualcosa penetra nella sua figura. Nel sorgere, consumare e decadere nel proprio «dramma» interno ed esterno, la persona quotidiana, così conclude Canetti, «è occupata con la maschera, mentre egli si trasforma in essa»: in quanto tale è dunque duplice e così resta «per tutta la durata della sua esibizione». Nella metamorfosi dell’umano spontanea e incontrollata, l’enigma che permane è comunque quello di sapere come disvelare in modo non fittizio il dispositivo “biopolitico” di chi (per Canetti, il «potente») nella «riduzione del mondo» con la pratica dell’«antimutamento» cercherà di difendersi «ricorrendo senza sosta al processo duplice ed omogeneo di simulazione e smascheramento». Abituati a imparare a vedere soltanto “maschere” si rischia comunque di disimparare a riconoscere tutte le forme dell’umano incluse le più “porose” nelle molteplici reti di reciprocità che ne tramano la vita nella nostra contemporaneità.
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1. La frattura originaria: soggetto & oggetto La dinamica dualistica della cultura in Georg Simmel
1.1. La vita e le forme. “Come è possibile la cultura?”: transiti simmeliani Da Ortega y Gasset che a Berlino nel 1905 lo descriveva come «una specie di scoiattolo filosofico» ad Alain Caillé che lo definisce «un grandissimo della tradizione sociologica»1, Simmel, tra l’altro, è unanimemente considerato nella contemporaneità uno dei crocevia obbligati e uno dei transiti fondamentali di riferimento per lo studio del ruolo della cultura nell’azione umana, non solo per il rapporto che intrattiene con la struttura sociale ma anche per la comprensione delle forme della vita individuale2. Di fatto, la cultura, i suoi processi di formazione, i suoi rapporti con l’individuo e con la società non soltanto rappresentano temi che attraversano pervasivamente l’intera produzione intellettuale di Simmel, ma la loro stessa portata, lungi dall’esaurirsi in una singola opera, appare addirittura come «uno dei fili conduttori»3 del suo itinerario filosofico, estetico e sociologico. Simmel, in modo singolare, come ha detto Habermas, si presenta a noi come «il critico della cultura» che ci è «nel contempo vicino e distante»: nella storia degli effetti della sua diagnosi della tragedia della cultura, le sue conseguenze «proseguono il loro cammino»4. Anche per questo egli «è un nostro contemporaneo»5. 1
Cfr. A. Caillé, Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, tr. it. di F. Versienti, presentazione di A. Salsano, Dedalo, Bari 1995, p. 39. 2 Cfr. M. Santoro, R. Sassatelli (a cura di), Studiare la cultura. Nuove prospettive sociologiche, il Mulino, Bologna 2009, p. 9. 3 Cfr. C. Portioli, Le vie della cultura in G. Simmel. Prospettiva filosofica e sociologica, in AA.VV., Le forme del moderno. Attualità di Georg Simmel, cit., p. 29. 4 J. Habermas, Georg Simmel su filosofia e cultura, in Id., Testi filosofici e contesti storici, tr. it. di E. Rocca, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 174. 5 Cfr. F. Mora, Principio Reciprocità. Filosofia e contemporaneità di Georg Simmel, Cafoscarina, Venezia 2005, p. 72.
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L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
Sviluppando e approfondendo ulteriormente quanto ho già avuto modo di specificare altrove6, possiamo rileggere la Kulturphilosophie e la Kultursoziologie di Simmel7 come sostanzialmente esemplate sull’idea centrale della «tragicità della storia», propria della teoria dell’estraniazione e della «reificazione dello spirito» (Vergegenständlichung des Geistes) della Lebensphilosophie originalmente approdata sul piano della riflessione filosofica nella Lebensanschauung del 19188. In questa interpretazione sociofilosofica, i processi, le azioni ed i rapporti sociali vengono trasposti in una sorta di dimensione cosmica – non però secondo l’armatura della metafisica tradizionale – entro la quale gli elementi motivanti della Kultur e del flusso della vita (la soggettività, i valori, gli impulsi vitali) si oggettivano in forme-di-vita sociali in cui si consolidano normativamente e si cristallizzano autonomamente. Come è noto, nel primo capitolo – La trascendenza della vita (Die Transzendenz des Lebens) – della Lebensanschauung, Simmel fornisce preliminarmente alcuni fondamentali concetti che consentono di comprendere meglio gli aspetti e gli elementi principali che caratterizzano pervasivamente l’ampiezza e la complessità di significato del concetto di “vita”. L’avvio della riflessione speculativa di Simmel si traduce immediatamente nella constatazione che la posizione dell’uomo nel mondo, ovvero la struttura formale dell’esserci (Dasein) umano, che «nelle sue molteplici province, attività e destini si riempie di volta in volta di un contenuto sempre diverso», è definita «dal suo trovarsi in ogni istante tra due limiti (Grenzen)» (IdV, 1). Scrive infatti Simmel: Il contenuto ed il valore della vita e di ogni suo istante noi lo sentiamo situato tra un orizzonte superiore ed uno inferiore: ogni pensiero tra un ambito più dotato di senso ed uno più segnato dall’assurdo, ogni possesso tra un dominio più esteso ed uno più limitato, ogni atto tra un grado maggiore ed uno minore di valore, adeguatezza ed eticità. Noi ci orientiamo continuamente, sia pure
6
Cfr. A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, cit. Sull’argomento, cfr. L.A. Scaff, The Sociology of Culture and Simmel, in Id., Fleeing the Iron Cage. Culture, Politics and Modernity in the Thought of Max Weber, university of California Press, Los Angeles 1989, pp. 121-151 e Id., Georg Simmel’s Theory of Culture, in M. Kaern, M. Phillips, R.S. Cohen (a cura di), Georg Simmel and Contemporary Sociology, Kluver, Dordrecht 1990, pp. 283-296; B. Nedelmann, Tre problemi della cultura: individualizzazione, esasperazione e paralisi, tr. it. di S. Cimmino, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXXII, n. 2, 1991, pp. 127-154; D. Frisby, M. Featherstone (a cura di), Simmel on Culture, intr. di D. Frisby, Sage Publications, London 1997 (20002); W. Gessner, Der Schatz im Acker. Georg Simmels Philosophie der Kultur, Kultur Velbrück Wissenschaft, Weilerswist 2003. 8 Cfr. G. Simmel, Intuizione della vita. �uattro capitoli metafisici, metafisici nuova tr. it. a cura di G. Antinolfi, ESI, Napoli 1997 (d’ora in poi IdV ). 7
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FRATTuRA ORIGINARIA: SOGGETTO
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OGGETTO
non attraverso concetti astratti, facendo riferimento ad un sopra-di-noi e ad un sotto-di-noi, ad una destra e ad una sinistra, ad un più o ad un meno, ad un referente più saldo o ad uno più incerto, ad un meglio o ad un peggio. Il confine al di sopra e al di sotto di noi è il nostro strumento per orientarci nello spazio infinito dei nostri mondi. Per il fatto di avere sempre e ovunque dei limiti noi stessi siamo limite (ibid.).
La «struttura formale» della nostra esistenza è dunque rinchiusa entro «due limiti», cioè confini invalicabili all’essere nel mondo dell’uomo: proprio questa, in modo del tutto peculiare, è la sua “collocazione” intermediaria nel mondo, «ma un tale modello di vivere va riempito di un contenuto, il quale risulta valido solo in quanto relazionato ad un valore “più profondo e più superficiale”; questo scheletro – insieme di elementi primi – dell’esistere, questa gabbia e questa impalcatura devono trovare un contenuto intermedio tra un massimo ed un minimo»9. L’uomo, secondo Simmel, possiede la capacità peculiare di orientarsi nella realtà dei contenuti della vita (sentimento, esperienza, azione, pensiero), conoscendo, di volta in volta, «il più e il meno, il sopra e il sotto, il meglio e il peggio»10: essi costituiscono i punti di orientamento nello spazio infinito del nostro mondo. Dai limiti esterni e dal limite che noi stessi siamo, si generano «due valori, complementari, se pure spesso collidenti», della «ricchezza» e della «determinatezza»: essi rappresentano «una sorta di coordinate con cui viene […] assegnato il posto di ciascun settore e di ciascun contenuto della nostra vita» (IdV, 1-2). Tuttavia questa assegnazione costituisce soltanto il punto di partenza per comprendere il «significato» peculiare del carattere di «limite» della nostra esistenza. In questo modo, «nella trascendenza della vita risiede il concetto di limite che gioca il ruolo centrale: esso è necessario, ma, allo stesso tempo, concretamente e oggettivamente superato; tuttavia, immediatamente se ne crea uno nuovo»11. Come scrive Simmel: Il limite in generale è sì necessario, ma ogni singolo limite può essere superato, ogni assegnazione rimessa in gioco, ogni barriera spezzata; certo poi ciascun atto del genere trova o crea il nuovo limite. Ambedue le determinazioni: che il limite è necessario, in quanto la sua esistenza è solidale con la nostra determinata posizione nel mondo; che nessun limite è incondizionato, poiché, in linea di principio, ognuno di essi può essere modificato, superato, inglobato – queste due determinazioni appaiono come la scomposizione dell’atto in sé unitario della vita (IdV, 2). 9 F. Mora, Georg Simmel. La filosofia della storia tra teoria della forma e filosofia della vita, Jouvence, Roma 1991, p. 90. 10 Ibid. 11 Ibid.
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L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
Originalmente fedele al suo stile analogico di scrittura, Simmel paragona l’uomo al «giocatore di scacchi» (ibid.): per lui il gioco sarebbe impossibile «se egli non conoscesse, con un grado di probabilità sufficiente da un punto di vista pratico, le conseguenze che risulteranno dalla sua mossa; ma sarebbe altrettanto impossibile anche se questa previsione si spingesse sino ad ogni e qualsiasi conseguenza più lontana» (ibid.). Il «giocatore di scacchi» (cioè l’uomo) deve poter prevedere, ma naturalmente non può farlo all’infinito: egli si trova costantemente “in bilico” tra conoscenza e ignoranza, ovvero nella stessa situazione che contempla «la definizione platonica del filosofo come colui che si trova a metà strada tra l’uomo che sa e l’uomo che non sa» (ibid.). Nella “costellazione” della natura umana, simmelianamente, «lo spirito, nelle sue diverse manifestazioni, non si pone mai nel cuore dell’assoluto, non raggiunge mai alcun estremo, ma si trova, per così dire, in equilibrio tra i due poli contrari della soggettività pura e della pura oggettività, ed è questo equilibrio instabile e mobile in virtù del quale il pensiero inclina ora verso l’uno dei due assoluti, ora verso l’altro, ma sempre piuttosto verso l’uno che verso l’altro; è questo sinuoso e attivo equilibrio che costituisce la vita spirituale»12. La presenza di confini, in genere, si dà con l’uomo stesso e ne limita perciò lo spettro d’azione, tuttavia, nel contempo, «la consapevolezza che il limite entro il quale agire è mobile, non predeterminato, fa sì che la posizione dell’uomo nel mondo abbia un che di paradossale: la sua azione è consapevole di avere un limite, ma esso è un limite indeterminato»13. Lo spirito umano «è limitato da tutte le parti; ma è capace di oltrepassare questi limiti, di mettere a soqquadro le rigide cornici che circoscrivono la sua espansione. Senza dubbio il pensiero umano sarebbe inconcepibile al di fuori di ogni limite formale, ma tanto meno lo sarebbe se la rigidità del limite fosse assoluta e definitiva; ed è l’unità in apparenza misteriosa e paradossale dell’atto vitale che realizza la sintesi di queste due esigenze contrarie»14. La vita, quindi, sarebbe radicalmente differente «se noi non trascendessimo in qualche modo in tutti gli istanti il suo al di qua, se noi non smettessimo di rimuovere i limiti che, in ogni momento della nostra evoluzione, circoscrivono la portata della nostra condotta e l’ampiezza del
12 V. Jankélévitch, Georg Simmel, filosofo della vita (Georg Simmel, philosophe de la vie, in «Revue Revue de Métaphysique et de Morale», XXXII, 1925, pp. 213-257 e pp. 373-386), tr. it., in AA.VV., Seminario. Letture e discussioni intorno a Lévinas, �ankélévitch,, Ricoeur Ricoeur, a cura di L. Boella, unicopli, Milano 1988, pp. 183-239 [qui p. 196]. 13 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, in Id., Dalla scienza alla vita. Dilthey, Nietzsche, Simmel, Weber, ETS, Pisa 1999, pp. 110-111. 14 V. Jankélévitch, Georg Simmel, filosofo della vita, cit., p. 197.
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OGGETTO
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nostro sapere»15. Dunque, secondo Simmel, noi abbiamo un limite in qualsiasi direzione e non abbiamo un limite in alcuna direzione. Ma […] noi conosciamo anche il nostro limite in quanto tale – anzitutto il singolo limite e poi quello in generale […]. La nostra vita concreta ed immediata definisce un ambito che giace tra un confine superiore ed uno inferiore; ma la consapevolezza di ciò, il rendersene conto, dipende dal fatto che la vita, divenendo un qualcosa di astratto, che si estende ulteriormente, sposta in avanti o supera il limite, e ciò facendo lo riconosce come limite (IdV, 2-3).
Tutto ciò analogamente accade anche per ciò che concerne l’agire cognitivo dell’uomo, il cui limite si traduce nella consapevolezza che non c’è alcuna garanzia che tutto ciò che gli è “dato” entri anche realmente nelle forme effettive e definitive della conoscenza. Così come non tutto quello che ci è dato del mondo entra nelle forme dell’arte, così come la religione non può pretendere di assumere in sé qualsiasi contenuto della vita, allo stesso modo forse la totalità del dato non rientra sotto quelle forme o categorie del conoscere. Sennonché il fatto che noi, in quanto esseri conoscenti e all’interno stesso delle possibilità del conoscere, possiamo concepire in generale l’idea che il mondo non si esaurisca nelle forme del nostro conoscere, il fatto che noi, sia pure solo in modo problematico, possiamo pensare una datità del mondo che appunto non siamo in grado di pensare – ebbene, tutto ciò costituisce un trascendimento della vita spirituale oltre se stessa, uno spezzare e un andare al di là non solo di un singolo limite, ma del suo limite in generale, un atto di autotrascendenza che solo pone lo stesso limite immanente – non importa se effettivo o solo potenziale (ivi, 5).
La conoscenza, simmelianamente, si fonda «da una parte sulla consapevolezza dell’esistenza di un inevitabile confine fra “sapere” e ”non sapere”, e dall’altra sulla capacità di pensare un tale dualismo, ciò che costituisce di per sé una conoscenza più completa, e soprattutto riproducibile all’infinito, in quanto permette di spostare continuamente gli estremi a un livello ulteriore, per superarli ancora»16. Il carattere “non definitivo” e contingente del nostro sapere è la “cifra” che peculiarmente contraddistingue la vita: «spostare in avanti il limite è l’essenza dell’uomo»17. Ciò, sappiamo, crea un paradosso: «noi abbiamo dovunque limiti – noi non abbiamo limiti». Ne consegue la necessità di aver coscienza del limite in quanto tale: infatti, soltanto chi 15
Ibid. F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 111. 17 F. Mora, Georg Simmel, cit., p. 91. 16
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L’INQuIETO
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è «al di là» di un limite ha coscienza della sua natura di limite. Come il limite stesso è partecipe dell’al di qua e del suo al di là, così «l’atto unitario della vita include l’essere limitato ed il superamento del limite, indifferente al fatto che ciò, pensato esattamente come unità, sembri comportare una contraddizione logica» (IdV, 4). Strutturalmente, possiamo paragonare il limite al concetto di attimo presente; «è certo che il progresso non è condotto dall’uomo ma dalla vita stessa che pone e oltrepassa i limiti stessi; come dire: il limite c’è sempre ma, tuttavia, non c’è mai; e in ciò risiede l’analogia col tempo presente»18. È la «vita concreta» che ha limiti: ma vi è una vita più astratta e comprensiva che li supera e li oltrepassa. La vita perciò è ad un tempo «al di qua e al di là del limite e lo vede dall’interno e dal di fuori; tuttavia la vita, intesa nella sua completezza, nella sua unità, ricomprende l’essere limitato e il superamento del limite». In questo superamento del limite e del limitare, del principio della vita che riconosce un limite sia “dall’interno” che “dal di fuori” e del limite stesso che partecipa a questo duplice movimento di essere “al di qua e al di là”, consiste la «trascendenza dello spirito». La vita dello spirito si supera quando il soggetto conoscente può immaginare che le forme della nostra conoscenza non esauriscano per intero il mondo; il superamento della vita dello spirito prende forma – almeno dal punto di vista gnoseologico – nel momento in cui […] si riesca a pensare un mondo che appunto non possiamo pensare. È in questo punto cruciale che lo spirito travalica, superando non un limite particolare, quanto piuttosto oltrepassando il suo limite in senso assoluto e ponendo nell’atto di questa autotrascendenza un nuovo “limite immanente” che ci permette di sviluppare ed ampliare le forme del nostro conoscere e mutare e trasformare quelle del nostro esistere19.
Il poter superare i limiti della conoscenza, la possibilità di superare l’«unilateralità» in quanto necessità di principio – non l’unilateralità delle grandi filosofie che esprime, nella maniera più inequivocabile, «il rapporto tra l’infinita molteplicità di interpretazioni del mondo e le nostre limitate possibilità di interpretazione» (IdV, 5) – è ciò che ci colloca al di sopra di essa. «Noi la neghiamo nel momento in cui la riconosciamo come unilateralità, senza che con ciò cessiamo di stare in essa. È questa la sola cosa che ci consente di sottrarci alla disperazione per essa, per questa nostra limitatezza e finitezza: noi non stiamo semplicemente in questi limiti, ma poiché ne siamo consapevoli, li abbiamo superati. Il fatto di essere consa-
18 19
Ibid. Ibid.
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LA
FRATTuRA ORIGINARIA: SOGGETTO
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OGGETTO
pevoli del nostro sapere e non sapere e, d’altra parte, di essere consapevoli anche di questo sapere inglobante, e così via potenzialmente all’infinito: è questa l’infinitezza autentica del movimento della vita sul piano dello spirito. Con ciò ogni barriera è superata, ma beninteso solo perché essa è posta, dunque c’è qualcosa da superare. Solo con questo movimento nel trascendimento di se stesso lo spirito si manifesta come il vivente in assoluto» (ivi, 6). Il fatto che l’uomo possa superare se stesso significa che «egli oltrepassa i confini che l’attimo gli pone»: «deve esserci qualcosa da superare, ma questo qualcosa è lì solo per essere superato» (ibid.). Così, anche quale soggetto etico, l’uomo «è l’essere-limite che non ha limite» (ibid.). Per Simmel, nell’atto di “autosuperamento” (Selbstueberwindung), di “trascendenza di sé” (Selbsttranszendenz) e di “oltrepassamento del sé” (Sich-SelbstUeberschreiten) si traduce consustanzialmente «la costellazione fondamentale della natura umana»20. Come scrive Jankélévitch interprete di Simmel: Lo sdoppiamento indefinito grazie al quale la nostra coscienza prende se stessa come oggetto di una riflessione di cui è già il soggetto, prova che lo spirito è capace di uscir da sé e di superarsi senza però affrancarsi da ogni forma determinata, senza mai raggiungere un assoluto per altro inconcepibile. Bisogna concluderne che la trascendenza è essa stessa immanente alla vita. Formula apparentemente paradossale, ma altamente suggestiva; la coscienza trascende se stessa, ma senza dividersi in due parti, in due “cose” delle quali l’una sovrasterebbe l’altra separandosene; cioè a dire che il nostro pensiero non tende verso quell’assoluto rigido reificato dal razionalismo dogmatico, verso non so quale “ideale” statico e astratto che sarebbe indipendente da noi e si coagulerebbe in qualche modo, intorno ad un punto esterno alla fluida durata vissuta: nello stesso tempo in cui uno sforzo di riflessione su di sé la trasporta al di fuori dello stretto ambito della nostra vita attuale, essa si sa limitata all’interno di sé da delle relazioni e delle determinazioni particolari. L’al di là che la coscienza tende a creare e che fa esplodere le forme chiuse nelle quali soffoca, non si aggiunge, quindi, spazialmente e come dall’esterno a quegli abiti antiquati e fuori moda che sono, per così dire, i cascami della vita spirituale: ne scaturisce in maniera naturale, organica; il suo profilo, in una certa misura, vi si trova già preformato, così che lo slancio creatore della vita può attualizzarlo senza sconfinare nei fatti dall’al di qua psicologico che assume come punto di partenza sul quale reagirà grazie a delle trasformazioni continue e con il quale manterrà una stretta reciprocità d’azione, in virtù della solidarietà essenziale degli elementi dello spirito21.
20 21
V. Jankélévitch, Georg Simmel, filosofo della vita, cit., p. 198. Ivi, pp. 198-199.
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Propedeuticamente, l’insieme di tutte queste osservazioni e definizioni introduttive servono a Simmel per avviarsi verso una definizione del concetto di vita, che però dev’essere preceduta, attraverso una breve ma fondamentale digressione, da un’ulteriore riflessione sul problema del tempo22. Al riguardo, Simmel esordisce subito – affrontando “filosoficamente” (cioè nella sua dimensione “metafisica”) la distinzione fra temporale e atemporale23 –, scrivendo: Il presente, nel pieno rigore logico del suo concetto, non va oltre l’assoluta inestensione dell’attimo; esso è tanto poco tempo, quanto il punto è spazio. Esso denota esclusivamente il punto in cui passato e futuro si toccano; essi soltanto sono grandezze temporali, ossia tempo in generale. Ora però, giacché l’uno non è più, l’altro non è ancora, la realtà inerisce solo ed unicamente al presente; ciò vuol dire dunque che la realtà in generale non è qualcosa di temporale, il concetto di tempo è applicabile ai suoi contenuti solo quando la loro intemporalità, che essi possiedono in quanto presente, si trasforma in un “non più” o in un “non ancora”, in ogni caso quindi in un “non”. Il tempo non è nella realtà (Wirklichkeit) e la realtà (Wirklichkeit) non è tempo (IdV, 6-7).
Da questi transiti iniziali si evince subito che, secondo Simmel, il presente non può essere considerato una “misura” del tempo. Di fatto, quando si parla di “presente”, «con tale termine si indica una realtà composta in parte da elementi ormai passati e in parte di elementi relativi al futuro, la cui ampiezza è certamente variabile, ma non può mai ridursi allo zero della pura puntiformità che il concetto di “presente” esigerebbe per essere esattamente definito»24. Relativamente al passato (il «non-più»), esso perdura ed entra nel presente nella sua piena purezza «solo là dove la vita ha raggiunto lo stadio dello spirito» (IdV, 7), nelle due forme dell’«oggettivazione in concetti e formazioni» e della «memoria», con la quale «il passato della vita soggettiva non solo diviene causa della vita presente, ma vi si trasfonde relativamente immutato nel suo contenuto» (ibid.). Da ciò consegue che neppure l’Erlebnis può essere considerato come «un’esperienza limitata al momento presente, in quanto esso è strettamente collegato ad un momento passato»25. Scrive infatti Simmel: 22 Sulla concezione filosofica e sociologica del tempo in Simmel, cfr. tra l’altro B. D’Avanzo, Il tempo nella filosofia della vita e della storia di Georg Simmel, in «Acme», XLIII, n. 3, 1990, pp. 35-52 e A. Cavalli, La categoria del tempo in Simmel: una lettura sociologica, in AA.VV., Georg Simmel. Le forme e il tempo, a cura di A. Borsari, in «aut-aut», n. 257, 1993, pp. 73-84. 23 Cfr. A. Cavalli, La categoria del tempo in Simmel, cit., p. 75. 24 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 112. 25 Ibid.
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Nella misura in cui ciò che è stato vissuto un tempo vive in noi come ricordo, non come contenuto divenuto intemporale, ma legato nella nostra coscienza alla sua collocazione nel tempo, esso non si traduce senza residui nel suo effetto, come avviene nella considerazione meccanicistica e causale, bensì la sfera della vita reale presente si estende retrospettivamente fino ad esso. È vero che con ciò il passato in quanto tale non rinasce a nuova vita; tuttavia poiché noi conosciamo il vissuto non come un qualcosa di presente, ma come un qualcosa di legato a quel momento del passato, allora precisamente il nostro presente non è puntuale come quello di un’esistenza meccanica, ma si estende, per così dire, all’indietro. In tali momenti noi viviamo oltre l’attimo presente protendendoci nel passato (IdV, 7-8).
Analogamente si pone il nostro rapporto con il futuro, che non può essere espresso in alcun modo adeguatamente mediante la definizione dell’uomo «come l’“essere che si pone dei fini”». Questa definizione, infatti, appare insufficiente, in quanto «il “fine”, in qualche modo lontano, appare come un punto fisso, separato in modo discontinuo dal presente, mentre l’elemento decisivo è proprio l’immediato compenetrarsi del volere attuale – così come del sentire e del pensare – nel futuro: il presente della vita consiste nel fatto che essa trascende il presente» (ivi, 8). Riassumendo, per Simmel, possiamo dire che «tempo è solo passato e futuro; passato e futuro – come espressioni temporali – tuttavia o non sono più o non sono ancora, il che significa – e in ciò consiste una vera radicalità del pensiero simmeliano – che il tempo non è reale; reale è solo il presente che tempo non è»26. Tuttavia, occorre aggiungere che «affermare il non essere reale di qualcosa, non significa affermare tout-court che quel qualcosa non esista. Il non essere reale, cioè, non equivale a dire non esistere; Simmel vuol qui sostenere che la tripartizione classica del tempo si può dimostrare essere non reale, ma non per questo vuole negarne l’esistenza»27. Da tutto ciò, di conseguenza, emerge chiaramente la conclusione di Simmel, secondo il quale passato, presente e futuro non possono essere disgiunti senza trasformare il concetto stesso di “tempo” in qualcosa di irreale: Nella misura in cui localizziamo il futuro, proprio come il passato, in un punto, sia pure fluttuante nella sua indeterminatezza, divarichiamo ed irrigidiamo il processo della vita nella separatezza logica dei tre distinti tempi della grammatica; viene occultato così quell’immediato protendersi senza soglia verso il futuro, che ogni vita presente denota. Il futuro non sta davanti a noi come una terra inesplorata, separata dal presente da una rigida linea di confine, bensì noi 26 27
F. Mora, Georg Simmel, cit., p. 92. Ibid.
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viviamo di continuo in una regione di confine, che appartiene tanto al futuro quanto al presente. Tutte le teorie che ripongono la nostra essenza spirituale nella volontà non fanno altro che esprimere questo: l’esistenza psichica vive, per così dire, oltre il suo momento presente, il futuro è realtà in essa. un mero desiderio si può forse indirizzare ad un futuro distante, ancora lontano dalla vita, il volere effettivo invece si colloca direttamente al di là dell’opposizione tra presente e futuro. Quando ancora ci troviamo all’interno del momento attuale del volere, siamo già oltre. Infatti nella sua inestensione, apparentemente necessaria da un punto di vista logico, non troverebbe posto alcuno la determinazione della direzione nella quale la vita volente deve continuare a muoversi; dire che essa è posta virtualmente in questa puntualità sarebbe un mero espediente per nasconderne l’incomprensibilità. La vita è effettivamente passato e futuro; questi non le vengono aggiunti soltanto dal pensiero, come avviene per la realtà (Wirklichkeit) inorganica, meramente puntuale. E si dovrà riconoscere, anche al di qua del livello dello spirito, la medesima forma alla riproduzione e alla crescita: la vita ogni volta presente oltrepassa se stessa, il suo presente costituisce un’unità col non-ancora del futuro. Finché si mantengono separati, con rigore concettuale, passato, presente e futuro, il tempo è irreale, perché solo il momento presente temporalmente inesteso, e cioè intemporale, è reale. Ma la vita è quella peculiare modalità di esistenza per la cui fattualità questa separazione non vale (IdV, 8-9).
È il concetto di vita che simmelianamente trasforma l’interpretazione della struttura temporale, in quanto essa, superandosi continuamente, è capace di coniugare il suo essere presente col non essere ancora del futuro: «se logicamente e concettualmente distinguere il tempo in passato, presente e futuro porta alla conclusione che il tempo è qualcosa di irreale, dal punto di vista della vita, invece, il tempo è qualcosa di reale»28. Il tempo – scrive Simmel – è la forma cosciente – forse astratta – di ciò che la vita stessa è in una concretezza immediata, che non si può esprimere, ma soltanto vivere. Esso è la vita a prescindere dai suoi contenuti, perché solo la vita trascende nelle due direzioni [passato e futuro] il momento presente intemporale di ogni altra realtà (Wirklichkeit) e con ciò solo essa realizza l’estensione temporale, ossia il tempo (IdV, 9).
La formazione essenziale della vita denota un continuo trascendimento al di là di se stessa in quanto presente e «questo trascendere della vita attuale verso quella che non è la sua attualità, ma in modo tale che questo trascendere costituisca nondimeno la sua attualità, non è qualcosa che vada semplicemente ad aggiungersi alla vita, bensì è l’essenza stessa della vita» 28
Ibid.
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(ibid.). Come commenta Jankélévitch, «la vita è fondamentalmente superiore all’antitesi concettuale di un presente e di un futuro spazialmente giustapposti; essa è la sintesi di “adesso” e di “non-ancora” di “al di qua” e di “al di là” contemporaneamente limitata da una forma attuale e superiore a ogni determinazione particolare, debordante i margini del presente nel momento stesso in cui si sa relativa»29. Attraverso questi transiti speculativi, Simmel giunge così alla prima definizione di vita: La modalità d’esistenza che non limita la propria realtà al momento presente, riducendo così passato e futuro a qualcosa di irreale, e la cui peculiare continuità si mantiene piuttosto realiter al di là di questa separazione, sicché il suo passato prolunga effettivamente la propria esistenza nel presente ed il suo presente protende effettivamente la propria esistenza sin nel futuro – questa modalità di esistenza noi la chiamiamo vita (IdV, 9-10).
Con ciò è posta la problematica metafisica fondamentale della vita, che si fonda propriamente su una situazione antinomica, perché da una parte essa si configura come «una continuità senza confini» (IdV, 10), mentre dall’altra ne sono portatori i suoi individui, «ossia degli esseri compiuti, centrati in se stessi, inequivocabilmente separati l’uno dall’altro» (ibid.). La vita abita questa antinomia. Essa, per sua intima struttura, è «un fluire ininterrotto e nel contempo qualcosa di definito nei suoi soggetti e nei suoi contenuti, qualcosa che ha preso forma, si è individualizzato intorno al nucleo centrale e perciò, visto da un’altra direzione, una struttura sempre limitata che oltrepassa continuamente la propria limitatezza» (ivi, 11). La temporalità continua della vita, per Simmel, non è «un fluire semplicemente incessante» (ivi, 10), un fluire nel senso di Eraclito, ma «un processo che pone a se stesso continuamente dei limiti per poi superarli»30. La categoria del «trascendimento della vita oltre se stessa», dice Simmel, è puramente «simbolica», perché suscettibile di miglioramento, ma, nel contempo, è anche «una categoria assolutamente primaria» (IdV, 11). Di fatto però, l’autotrascendimento comporta «il non poter immanere, il continuo volgersi verso un altrove senza poter mai, del resto, emanciparsi dalla determinazione della forma»31. In questo modo, viene a crearsi un dualismo, 29
V. Jankélévitch, Georg Simmel, filosofo della vita, cit., p. 200. G. Antinolfi, Introduzione, in G. Simmel, Intuizione della vita, cit., p. XII. 31 B. Giacomini, La struttura autoriflessiva della conoscenza: l’epistemologia di Georg Simmel, in Id., Conoscenza e riflessività. Il problema dell’autoriferimento nelle scienze umane, FrancoAngeli, Milano 1990, p. 57. 30
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apparentemente insuperabile, «fra l’impossibilità di racchiudere la vita entro confini determinati, e la necessaria presenza del determinato in cui la vita non può fare a meno di trasformarsi»32. Tuttavia, questo dualismo si dissolve «non appena si sia colto nel trascendimento oltre se stesso il fenomeno originario della vita» (IdV, 11), per il quale «essa pone limiti a se stessa per superarli incessantemente, trasformando l’assolutezza del limite posto in un relativo destinato ad essere superato»33. In questa progressione dinamica costituente il processo della vita, «la trascendenza della vita appare come la vera assolutezza nella quale è tolta e conservata (aufgehoben) l’opposizione tra assoluto e relativo» (IdV, 12). La trascendenza è «immanente alla vita», con essa «si placano le contraddizioni da sempre avvertite nella vita» (ibid.). Essa «è ad un tempo stabile e variabile, fissa e in evoluzione, plasmata in forme e distruttrice di forme, conservatrice ed innovatrice, vincolata e libera, centrata nella soggettività e posizionata oggettivamente al di sopra delle cose e di se stessa – tutte queste opposizioni non sono che articolazioni e riflessi di quel dato di fatto metafisico: che la sua essenza più propria è quella di eccedere se stessa, di porre il suo limite trascendendolo, ossia appunto oltrepassando se stessa» (ibid.). In sintesi, riassumendo le acquisizioni simmeliane sul rapporto vita/ forma nel flusso del divenire sin qui raggiunte, possiamo registrare quanto segue. Sulla base della formulazione metafisica del concetto di vita e della dinamica del suo procedere, si può meglio comprendere il problema costante della filosofia simmeliana, ossia la contrapposizione immanente tra principio della vita e principio della stabilità, il primo inteso come espressione della continuità inarrestabile del divenire, e il secondo come espressione della limitatezza di qualsiasi essere ritagliato entro tale divenire. La contraddizione fra principio della continuità e principio della forma, «quali principi ultimi costitutivi dell’universo», è ineliminabile perché rappresenta il peculiare modo di esprimersi della vita, che ha bisogno di porre limiti a se stessa per superarli eternamente, e senza di essi si trasformerebbe in qualcosa di immobile e di eternamente eguale a se stesso. Mentre, dunque, la continuità rappresenta il lato dinamico della vita, ciò che supera, la forma è per parte sua ciò che deve essere continuamente superato, e dunque incapace di cambiare perché racchiuso entro limiti stabiliti dalla vita stessa. I mutamenti che avvengono nella forma non dimostrano affatto una sua presunta capacità di automodificarsi, frutto di una antropomorfizzazione della forma, perché essi dipendono piuttosto dal procedere senza soste della vita, che decreta la modificazione 32 33
F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 113. Ivi, pp. 113-114.
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della forma preesistente semplicemente superandola, e ponendo a un livello ulteriore il nuovo confine a partire dal quale essa assumerà anche una nuova conformazione. La forma, pertanto, non può essere pensata che come individualità (Individualität), perché la struttura che essa di volta in volta presenta è irripetibile in quanto racchiusa entro confini determinati. Tali confini, infatti, determinano a loro volta il materiale che in essa confluisce, il quale, nella sua esatta composizione, non potrà mai più entrare in un’altra forma. Ciò è evidente, se si pensa che la forma viene ritagliata entro il flusso del divenire, la cui caratteristica è di essere continuamente mutevole, e mai uguale a se stesso; perciò il materiale presente al momento della nascita di una forma non sarà più né presente (perlomeno non con gli stessi caratteri), né disponibile per una successiva forma34.
Simmel può dunque fondare “metafisicamente” anche la dinamica culturale, poiché essa riflette specularmente la dinamica vita-forma (universalità-individualità), che della cultura35 è il nucleo generatore. Leggiamo Simmel: 34
Ivi, pp. 114-115. Come opportunamente rileva Monceri (ivi, p. 115): «La cultura è il terreno di lotta sul quale vita e forma si scontrano continuamente, in un’eterna opposizione del limitato contro l’illimitato, opposizione che di solito avviene quasi impercettibilmente, dando origine al mutamento storico della cultura. Ma in alcuni periodi di particolare fissità della forma, e Simmel ritiene che questo sia proprio il caso della modernità, tale opposizione deve necessariamente trasformarsi in lotta aperta, o per meglio dire in rivolta della vita contro la forma che pretende di imbrigliarla». Donald N. Levine – nel saggio Le posizioni contraddittorie di Simmel sulla cultura moderna (in «Rassegna Italiana di Sociologia», XLII, n. 4, 2001, pp. 541-548) – ha sostenuto criticamente che rispetto alla sua precedente diagnosi della cultura come processo di formazione (Kultivierung or Bildung) e come tragedia della cultura, Simmel, nel corso del suo ultimo decennio di vita, ed in particolare con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, avrebbe trasformato «completamente la propria diagnosi di fondo della cultura moderna» (ivi, p. 542), ritenendo appunto quest’ultima attraversata da «un insolubile conflitto storico tra la vita che si espande e diffonde con energie progressivamente crescenti, e le forme di espressione della vita storicamente fondate, che mantengono le loro forme rigide […]. Simmel introduce […] il primato del principio della vita come lo aveva trovato negli scritti di Bergson e nelle spontaneità esistenziali delle esperienze del tempo della guerra» (ivi, p. 546). Levine, nonostante il presunto modificarsi del pensiero di Simmel sulla cultura a partire dal 1914-16, sottolinea marcatamente l’originale valore diagnostico della “doppia prospettiva” simmeliana sulla cultura. Egli appunto scrive: «Qualunque siano i fattori biografici che spinsero Simmel a produrre due diagnosi della cultura moderna apparentemente contraddittorie, noi dobbiamo fare i conti con la contraddizione che introducono. Il modo più facile è indubbiamente quello di negarla, dicendo per esempio che nella prospettiva della tragedia della cultura Simmel pensa il soggetto come un consumatore di cultura e in quella del conflitto culturale lo pensa come un produttore. Il che è proprio vero. Si può anche notare che entrambe le prospettive rappresentano la psicologia del soggetto in modo piuttosto simile, cioè come intensamente ambivalente verso la cultura. Nella prospettiva della tragedia della cultura il 35
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L’INQuIETO
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Se dunque la vita, quale fenomeno cosmico o legato ad un genere o fenomeno individuale, è questo ininterrotto fluire, in ciò si fonda non soltanto la sua profonda antitesi nei confronti della forma – antitesi che si presenta come quell’incessante lotta, per lo più impercettibile, non principale, ma spesso anche erompente rivoluzionariamente, del progredire della vita contro la fissità storica e la rigidità formale del contenuto di cultura ogni volta presente, diventando quindi il motivo più profondo della trasformazione culturale – ma, al contrario, anche l’individualità come forma forgiata sembra doversi sottrarre alla continuità della corrente della vita che non ammette alcuna formazione conchiusa […]. L’elemento che qui risulta decisivo di quest’ultima è […] l’essere-per-sé, l’essere-in-sé della forma individuale nel suo contrasto con l’incessante corrente della vita che abbraccia ogni cosa, la quale non solo dissolve tutti i confini che istituiscono forme, ma propriamente non consente nemmeno che la vita vi pervenga. Eppure l’individualità vive dappertutto e la vita è ovunque individuale (IdV, 14-15).
In questa antinomia, in questa dualità che giace nelle profondità del sentimento della vita, il tertium che spinge al di là di dualità e unità è appunto «l’essenza della vita come oltrepassamento di se stessa» (ivi, 15). L’autotrascendenza è la figura concettuale chiave della vita; essa rappresenta il momento unitario che oltrepassa la contrapposizione tra continuità e forma. L’autotrascendenza è il momento unitario dei due elementi originari e contrapposti di continuità e forma, «è l’“assoluto” che ne rende comprensibile
consumatore desidera la cultura come mezzo per trovare l’appagamento psichico e si trova in una posizione antagonista verso di essa a causa del fatto che nelle sue forme fortemente oggettivate e nella loro grandezza, essa frustra la spinta del soggetto a incorporarla come mezzo di appagamento spirituale. E nella prospettiva del conflitto della cultura il soggetto vitale trova le forme troppo cogenti e i desideri del tutto staccati da loro, e pure desidera quelle forme perché senza loro è impossibile esprimere la propria creatività: il soggetto non può vivere dunque né con né senza le forme culturali. Nondimeno minimizzare la contraddizione tra le due diagnosi di Simmel sulla cultura moderna può voler dire perdere di vista lo spunto più significativo che la sua teoria può fornire […]. Simmel considera la tendenza a differenziare e a promuovere specificità opposte come la caratteristica principale dell’ordine moderno. Così, riguardo allo sviluppo dell’individualità, Simmel vede l’ordine moderno, sociale e culturale, come sostanziato da forze che contemporaneamente dilatano e minacciano le possibilità dell’individualità genuina. E la stessa situazione si delinea con le forme della cultura. L’ipertrofia delle forme culturali rappresenta il lato della modernità che si manifesta nell’oggettivazione sempre crescente: l’espansione innegabile e apparentemente illimitabile delle comodità, le costruzioni simboliche, i sistemi di informazione, le norme legali, e così via. E il trionfo della vita sulle forme della cultura rappresenta il lato della modernità che si esprime nella direzione crescente dell’espressione soggettiva […]. Concentrasi su entrambi questi ordini di sviluppo, e procedere da questi vorrebbe dire cominciare a rendere giustizia della profondità dell’interpretazione di Simmel della cultura moderna» (ivi, pp. 546-547).
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la divisione; la vita è l’unità della vita e della forma nel modo dell’autotrascendenza»36. Per Simmel, noi non siamo scissi in una vita senza limiti e in una forma dotata di limiti, non viviamo in parte nella continuità, in parte nell’individualità, reciprocamente annullantisi. Al contrario, l’essenza di fondo della vita è proprio quella funzione in sé unitaria che io, in modo simbolico e piuttosto incompleto, ho chiamato trascendimento di se stessa, e che attualizza immediatamente come unica vita ciò che poi nel sentimento, nel destino, nella concettualità, si scinde nel dualismo di corrente vitale continua e forma individuale [...]. La vita in senso assoluto è qualcosa che include se stessa in senso relativo ed il suo opposto, i due termini essendo appunto reciprocamente relativi, ovvero si dispiega in essi come suoi fenomeni empirici. Ed è per questo che il trascendimento di se stessa appare come l’atto unitario del costruire e violare i suoi limiti, il suo altro, come il carattere della sua assolutezza – che rende assai ben comprensibile l’articolazione in opposti che si sono resi autonomi (IdV, 15-16).
Per caratterizzare e distinguere anche concettualmente la propria concezione della vita, Simmel compie in questo primo capitolo della Lebensanschauung un rapido ed essenziale riferimento a Schopenhauer e Nietzsche, due filosofi che, come è noto, si sono particolarmente occupati della vita e ai quali egli stesso aveva già dedicato nel 1907 una sua importante monografia intitolata Schopenhauer und Nietzsche. Ein Vortragszyklus37. Secondo Simmel, Schopenhauer e Nietzsche «hanno considerato il problema della vita soltanto dal punto di vista della volontà, se è vero che per Schopenhauer il concetto decisivo è quello di Wille zum Leben (volontà di vita), e per Nietzsche quello di Wille zur Macht (volontà di potenza), definendo perciò il concetto di vita da un punto di vista unilaterale»38. Scrive infatti Simmel: «Laddove Schopenhauer sente come più decisiva la continuità senza limiti, Nietzsche l’individualità nella delimitatezza della sua forma. Ma forse è sfuggito loro questa cosa decisiva: che proprio la vita costituisce l’assoluta unità delle due; ed è sfuggita perché essi concepiscono unilateralmente l’autotrascendenza della vita nella forma della volontà. Essa invece, di fatto, vale per tutte le dimensioni del movimento vitale» (IdV, 16). La vita, invece, afferma Simmel, si manifesta in due dimensioni complementari del divenire dinamico e della trascendenza: essa «è più-vita» (Mehr 36
F. Mora, Georg Simmel, cit., p. 95. Cfr. G. Simmel, Schopenhauer e Nietzsche, tr. it. a cura di A. Olivieri, Ponte alle Grazie, Firenze 1995. Al riguardo, cfr. V. d’Anna, Georg Simmel. Dalla filosofia del denaro alla filosofia della vita, De Donato, Bari 1982, pp. 98-100. 38 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 115. 37
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Leben) e «più-che-vita» (Mehr als Leben). La duplice e complementare valenza del «più» gioca un ruolo strategico nell’argomentazione simmeliana: Questo più non spetta come per accidens alla vita, intesa come qualcosa di propriamente stabile nella sua quantità; al contrario la vita è il movimento che in ognuna delle sue fasi, anche se ciascuna paragonata con altre è più povera e manchevole, tuttavia in ogni momento assorbe in sé qualcosa per trasformarlo in sua vita. La vita, quale che sia la sua misura assoluta, può esistere solo in quanto più-vita; fintanto che la vita in generale sussiste, essa crea qualcosa di vivente, infatti già l’autoconservazione fisiologica è produzione continua di nuova vita: questa non è una funzione esercitata accanto ad altre, bensì solo così facendo la vita è appunto vita. E se […] la morte è senza dubbio insita nella vita sin da principio, anche questo è un trascendere della vita oltre se stessa. Rimanendo nel suo asse centrale, essa si tende, per dir così, verso l’assoluto della vita, e in questa direzione si fa più-vita – ma essa si tende anche verso il nulla e, come essa è in un unico atto vita che si conserva e vita che si incrementa, così è altresì in un unico atto vita che si conserva e vita che declina, quale unico atto. È ancora una volta il concetto assoluto della vita, prima introdotto, quel più-che-vita che include in sé come elementi relativi il più e il meno, ed è il genus proximum di entrambi (ivi, 16-17).
È senza dubbio questo uno dei transiti più noti e celebri della pagina simmeliana della Lebensanschauung, della quale la storiografia filosofica e l’ermeneutica testuale hanno tentato di decifrarne la profonda intenzionalità di senso implicitamente contenuta. La ricostruzione e l’intreccio dei possibili binomi sul piano del significato e dell’interpretazione, cioè di un’ermeneutica a posteriori della vita vissuta immediatamente, pongono in evidenza le seguenti combinazioni. In generale, la vita «in quanto più-vita designa il processo temporale nella sua continua creatività, la vita in quanto più-che-vita designa, sul piano dello spirito, la produzione di forme finite che, per il loro stesso stato aggregativo, si pongono in antitesi – di fronte (gegenüber) al processo temporale continuo fino ad essere infrante dal movimento incrementale della vita e sostituite da nuove forme»39. La vita pone confini a se stessa per superarli incessantemente; tali confini (le forme), «non appena posti, pretendono una propria esistenza indipendente e stabile, contrapposta al flusso della vita»40. La vita spirituale – precisa Simmel – non può esprimersi se non in forme qualsiasi: in parole o azioni, creazioni o in generale in contenuti in cui si
39 40
G. Antinolfi, Introduzione, cit., p. XII. Ivi, p. 116.
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attualizza di volta in volta l’energia psichica. Ma queste forme, nel momento in cui sorgono, già possiedono un proprio significato oggettivo, una solidità e una logica intrinseca con la quale si contrappongono alla vita che pure le ha prodotte. Quest’ultima infatti è un incessante fluire oltre, che travolge non solo le singole forme determinate, ma ogni forma semplicemente in quanto forma: già per questa opposizione essenziale di principio la vita non può in nessun modo esaurirsi nella forma, ma, al di là di ogni forma acquisita, essa deve subito cercarne un’altra nella quale si ripete il gioco tra necessità della forma e necessaria insufficienza della forma semplicemente in quanto tale. La vita in quanto vita esige la forma ed esige più che la forma. La vita è affetta da questa contraddizione: essa può trovare ricetto solo in forme, eppure non può trovare ricetto in forme, per cui oltrepassa ed infrange ogni forma prodotta (IdV, 18).
Questa è una contraddizione, sostiene Simmel, solo per la riflessione logica, per la quale «le singole forme si presentano come strutture fisse, sotto il profilo reale o ideale, e per sé valide, l’una accanto all’altra senza continuità e in antitesi concettuale con la mobilità, con la corrente, con il trascendere» (ibid.) peculiari della vita. Nel suo divenire, invece, la vita immediatamente vissuta è l’unità tra essere-formato e aspirare-oltre, è fluire oltre la forma in generale, cosa che nel singolo momento si presenta come infrangersi della forma di volta in volta attuale – la vita è appunto sempre più-vita rispetto a ciò che ha spazio nella forma di volta in volta ad essa data, da essa stessa sviluppata. La vita psichica, considerata nei suoi contenuti, è ogni volta finita ed in sé limitata; essa consta di questi contenuti ideali che ora hanno la forma della vita. Ma il suo processo si protende oltre questi contenuti ed oltre se stesso […]. Vivendolo, vi è ancora dell’altro: l’ineffabile, l’indefinibile che avvertiamo in ogni vita in quanto tale. Essa è più di qualsiasi contenuto che si possa indicare, vibra oltre qualsiasi contenuto; non lo possiede e lo considera solo dall’interno, com’è nella natura dei dati contenutistici logici, ma anche dall’esterno, da ciò che è al di là di esso. Noi siamo in questo contenuto e nel contempo ne siamo fuori; accogliendo questo contenuto – e null’altro che possa essere indicato – nella forma della vita, noi abbiamo eo ipso più di questo stesso contenuto (ibid.).
Simmelianamente, il concetto di «più-vita» (Mehr Leben) significa vita in senso assoluto, esso traduce la “statica della vita” intesa come «contemporanea esistenza di illimitato e limitato, la cui contrapposizione è all’origine del processo di autoappropriazione e di autosuperamento da parte della vita dei propri contenuti»41. Dal punto di vista dinamico, però, certamente nella 41
Ibid.
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vita vissuta noi viviamo una dimensione che è «più-che-vita» (Mehr als Leben), cioè la forza creatrice della vita individuale che crea qualcosa di diverso e di opposto rispetto a se stessa, capace non solo di vivere un’esistenza propria ma anche di opporsi alla sua stessa forza creatrice. Come il trascendere della vita oltre la sua limitata forma attuale all’interno del proprio piano è più-vita, un trascendere che però costituisce l’essenza immediata e ineluttabile della vita stessa, così il suo trascendere verso il piano dei contenuti reali, del senso logicamente autonomo, non più vitale, è piùche-vita, un trascendere che è assolutamente inseparabile da essa e costituisce l’essenza stessa della vita spirituale. Questo in sostanza non significa altro se non che la vita appunto non è semplicemente vita, sebbene tuttavia non sia neppure nient’altro, bensì nel suo concetto più ampio, al massimo della sua estensione, in quanto, per dir così, vita assoluta, essa abbraccia l’opposizione relativa tra il suo senso più ristretto e il contenuto isolato della vita. Si può persino enunciare come definizione della vita spirituale il fatto che essa produce qualcosa di autonomo, dotato di un significato proprio […]. Ma una volta premesso ciò, non possiamo considerare la vita se non come il continuo trascendere del soggetto verso ciò che gli è estraneo ovvero come il produrre ciò che gli è estraneo. Ma con ciò questa estraneità non viene affatto soggettivizzata, bensì permane nella sua autonomia, nel suo essere più-che-vita (IdV, 19-20).
L’«assolutezza del suo essere-altro» è pervasivamente caratterizzante ciò che la vita crea, perché «l’assolutezza di questo altro, di questo “più”, che essa crea o nel quale si prolunga» è proprio «la formula e la condizione della vita che viene vissuta» (ivi, 20): essa fin da principio «non è altro che il trascendere oltre se stessa» (ibid.). Il «dualismo» tra forma e vita – che non solo non contraddice l’unità della vita, ma è proprio il modo in cui la sua unità esiste –, questo dualismo, appunto, «che viene a istaurarsi al momento della creazione non può essere rimosso dal pensiero logico o filosofico, né deve esserlo, perché esso è la dinamica peculiare della vita che per superare se stessa, per divenire “più-vita”, ha bisogno di oggettivarsi in qualcosa che sia “più-che-vita”, in qualcosa cioè che le si contrapponga come dotato di esistenza propria»42. Come recita significativamente la stessa chiusa del primo capitolo della Lebensanschauung: «La vita trova la sua essenza, il suo processo nell’essere più-vita e più-che-vita, il suo positivo in quanto tale è già il suo comparativo» (IdV, 21). Nella prospettiva relazionale simmeliana, la vita ricomprende in sé il conflitto tra il limite dell’individuazione e la continuità dell’eterno fluire e 42
Ivi, p. 117.
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cioè, tra la vita, contrapposta alla forma, e la forma stessa: l’alterità assoluta di questa viene in realtà ridotta a determinazione interna della vita, che si configura, insieme, come parte e come tutto43. La dialettica vita/forma è costitutivamente necessaria perché consustanziale «di quel carattere incrementale-generativo (essenzialmente futurativo) che distingue il continuum del processo vitale»44. Per Simmel, il solo vero assoluto è l’autotrascendenza della vita che domina ed assorbe l’antitesi, il dualismo, di relativo ed assoluto: «un assoluto che per esser colto nella sua unità sembra esigere un modo di pensare e uno statuto conoscitivo radicalmente differenti dal pensiero logicoconcettuale»45. Sul piano storico – come Simmel chiarisce nel secondo capitolo (Die Wendung zur Idee) della Lebensanschauung46 – «la produttività continua della vita conduce alla costituzione di mondi ideali, i campi della cultura, intesi come complessi di elementi sintetizzati unitariamente sulla base di un principio specifico: il mondo della conoscenza, dell’arte, della religione, ma anche del diritto, dell’economia, della morale. Ciascuno di questi mondi, emergendo dal divenire della vita vissuta dell’umanità, nell’atto stesso del suo costituirsi, possiede una propria logica, una propria validità oggettiva, un significato ed un valore assolutamente indipendenti tanto dalla vita psichica che lo ha prodotto, quanto da quella su cui si riflette»47. La costituzione di un mondo ideale sembra dunque implicare sempre, per Simmel, «una svolta, un’inversione, una torsione. Il passaggio dalla vita allo spirito, dal Mehr-Leben al Mehr-als-Leben, comporta sempre una rotazione assiale (Achsendrehung): quelle forme che la vita aveva espresso da sé, in forza del suo stesso dinamismo, divengono autonome e definitive al punto da asservire la vita, da vincolarne i contenuti, al punto che la vita stessa può acquisire valore e significato solo adattandosi ad esse»48. Nel secondo capitolo (Die Wendung zur Idee) della Lebensanschauung, Simmel sviluppa una teoria delle visioni del mondo all’interno della quale il concetto stesso di mondo designa «una forma che viene applicata all’infinita molteplicità del reale al fine di comprenderne l’unitarietà, che non è possibile per l’intelletto umano concepire soltanto come successione e coesistenza di “oggetti”. I contenuti di tale concetto sono solo in parte accessibili allo spi43
Cfr. B. Giacomini, La struttura autoriflessiva della conoscenza: l’epistemologia di Georg Simmel, cit., p. 58. 44 F. Desideri, Il confine delle forme. Dalla «Philosophie des Geldes» alla «Lebensanschauung», in AA.VV., Georg Simmel. Le forme e il tempo, cit., p. 115. 45 G. Antinolfi, Introduzione, cit., p. XII. 46 Cfr. IdV, 23-77. 47 G. Antinolfi, Introduzione, cit., p. XII. 48 Ivi, pp. XII-XIII.
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rito, ed esso è perciò una “formula” che indica complessivamente l’insieme di noto e ignoto»49. Scrive Simmel: «Con il termine “mondo”, inteso nella sua accezione più ampia, senza ulteriori specificazioni, la coscienza comune ritiene di pensare la totalità di tutte le cose e di tutti gli accadimenti reali in generale, a noi accessibili o meno […]. Mondo, dunque, nel pieno senso del termine, è un’insieme di contenuti che lo spirito ha liberato dalla loro esistenza isolata ed ha ricondotto ad una connessione unitaria, ad una forma capace di abbracciare il noto e l’ignoto» (IdV, 23). Le concezioni filosofiche del “mondo” sorgono allorché questa connessione unitaria (operata dallo spirito) «si concentra in concetti supremi esclusivi e rigorosamente definiti» (ivi, 24). Simili concetti, sempre parziali – (l’essere o il divenire, la materia o lo spirito, l’armonia o il perenne dualismo, il fine o la divinità e molti altri) –, permettono ai filosofi di accostarsi alla realtà (nota e/o ignota): essi, come concetti-guida, dipendono dal «tipo caratterologico» del filosofo e «dal rapporto del suo essere col mondo, che fonda il rapporto del suo pensiero col mondo» (ibid.)50. Nondimeno, le visioni del mondo possono essere classificate da un altro tipo di concetti, cioè da quei modi di «attività dello spirito» che – grazie ai loro potenziali formativi – sono talmente ampi da consentire che «l’infinità di principio dei possibili contenuti» possa entrare a costituire di volta in volta «un “mondo” unificato, dal carattere consapevolmente specifico» (IdV, 23). Dall’infinito flusso del divenire si possono ritagliare «mondi autonomi e indipendenti, il cui principio unificatore non deriva dalla scelta di un soggetto, ma dall’identità formale dei contenuti che entrano a farne parte: è questo il caso dei mondi dell’arte, della conoscenza, della religione, della graduazione di valore e di significato»51. Siffatti mondi sono costruiti intorno ad un unico principio in modo tale da non aver alcun legame di intersezione con uno qualsiasi degli altri. «Questi mondi – ribadisce Simmel – non sono suscettibili di alcuna mescola, sconfinamento o incrocio tra loro, poiché appunto ciascuno esprime già l’intero materiale mondano nel suo linguaggio specifico; anche se è ovvio che nel singolo caso risultino delle incertezze di confine e che una porzione di mondo, istituito 49
F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 117. Da questo punto di vista, secondo quanto osserva Monceri (ivi, p. 118), Simmel accetterebbe «la teoria delle visioni del mondo nella formulazione di Dilthey». Per gli scritti diltheyani sulla Weltanschauungslehre, cfr. W. Dilthey, La dottrina delle visioni del mondo. Trattati per la filosofia della filosofia, a cura di G. Magnano San Lio, prefazione di G. Cacciatore, Guida, Napoli 1998. Sul rapporto Dilthey-Simmel, cfr. H.G. Helle, Dilthey, Simmel und Verstehen. Vorlesungen zur Geschichte der Soziologie, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1986 e A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, moderna cit., p. 296 sg. (ivi bibliografia). 51 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 118. 50
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da una certa categoria, venga ripresa nel contesto di un’altra categoria e qui venga trattata di nuovo come semplice materiale. In ciascuno di questi ambiti ravvisiamo un’intrinseca logica oggettiva, che offre sì margine per grandi varietà ed opposizioni e tuttavia vincola lo spirito creatore alla sua validità oggettiva» (IdV, 25). La “duplice natura” delle visioni del mondo consiste nel fatto che «da un lato esse sono il frutto di un punto di vista soggettivo che cerca di dare unità a tutti gli aspetti del reale per conferire loro un senso complessivo, e dall’altro sono sfere rigidamente separate le une dalle altre, indipendenti dal soggetto perché dotate di una ferrea logica interna di natura oggettiva»52. Soprattutto in quest’ultimo secondo senso, le “visioni del mondo” vengono ad identificarsi con la “forma”. Ad esser precisi, «“mondo” non va inteso a priori come mondo reale; piuttosto mondo è la forma del tutto generale di cui la “realtà” è una determinazione specifica» (IdV, 28). Nella dialettica vita-forma, simmelianamente la realtà non è qualcosa di assoluto, tutti i nostri contenuti psichici, vissuti in modo attivo o passivo, sono «frammenti di mondi» (ibid.). Tutti noi sappiamo che «il nostro sapere è frammentario». L’uomo-di-Simmel è consapevole che la propria conoscenza e il processo conoscitivo tout-court è consustanzialmente un’opera frammentaria. «Noi trascorriamo continuamente attraverso piani assai vari, ciascuno dei quali rappresenta in linea di principio la totalità del mondo secondo una formula particolare; ma la nostra vita ne coglie ogni volta solo un frammento» (ivi, 30). Frammenti di vita e di mondo. Nelle funzioni spirituali destinate alla costituzione dei mondi, l’uomo può essere definito in linea di principio come «l’essere non finalistico per eccellenza» (ivi, 34): considerato nell’insieme, «l’uomo è l’essere meno teleologico che vi sia». Tutta la nostra vita pratica è tuttavia condizionata ed attraversata da processi conoscitivi e da rappresentazioni conoscitive. Il quantum di queste rappresentazioni conoscitive si presenta come prodotto e determinato dal «finalismo della vita»: anche l’essenza pura della scienza si può comprendere in base a questo presupposto. La pretesa della scienza di valere come l’unico mezzo di comprensione della totalità non è sostenibile: questo convincimento costituisce, secondo Simmel, «l’unico rimedio contro lo scetticismo radicale o il nichilismo teoretico» (ivi, 42). Pur se la scienza non esaurisce il reale, il filosofo di Berlino ritiene comunque che «i nostri pensieri non significano soltanto qualcosa che si può esprimere con concetti – che in sé sono già al di là della vita – bensì sono essi stessi qualcosa, sono palpiti reali della vita reale» (ivi, 43): essi aiutano ad arricchire continuamente il flusso progressivo della vita. «Le forme intel52
Ivi, p. 119.
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lettuali, costruendo il mondo a nostro beneficio e per la nostra vita pratica, rendono possibile l’effettivo collegamento tra i contenuti del mondo e noi» (ivi, 45). Ora, però, tutto questo “conoscere” qualificato in senso vitale «non è ancora scienza» (ibid.). Di fatto, «il principio della scienza in generale non può essere conseguito attraverso un graduale incremento e raffinamento di questo conoscere, per quanto elevato esso sia, al contrario, viene conseguito solo quando il rapporto […] si inverte, ossia quando i contenuti hanno un interesse esclusivamente in quanto soddisfano le forme del conoscere» (ibid.). L’essenza della scienza, dunque, consiste nel fatto che sono date idealmente «determinate forme spirituali (causalità, esplicabilità induttiva e deduttiva, ordine sistematico, criteri di verifica dei fatti, etc.) alle quali i contenuti del mondo devono adeguarsi attraverso il loro inserimento in esse» (ivi, 45-46). Detto altrimenti: «dapprima gli uomini conoscono per vivere; ma poi vi sono uomini che vivono per conoscere» (ivi, 46). Due rilevanti corollari derivano da questa immagine e definizione simmeliana della scienza. In primo luogo (i), «il mondo che con la categoria della conoscenza scientifica si costituisce (secondo l’idea) come una totalità può sostenersi solo da sé. Esso poggia senz’altro sulla forma della dimostrazione teoretica; che però questa sia valida, può esser dimostrato teoreticamente con evidenza solo grazie ad una petitio principii» (ivi, 48). La scienza, per Simmel, trova la sua vera ragion d’essere soltanto nella dinamica della vita. «Il conoscere, nella misura in cui è un palpito o una mediazione della vita pratica cosciente, non deriva affatto dalla creatività spontanea delle forme intellettuali pure, bensì viene sorretto da quel dinamismo della vita che intesse in sé la nostra realtà e la intreccia con la realtà del mondo». Nel «finalismo vitale», ovvero nella costituzione di un certo essere in noi e di un certo rapporto ontologico tra noi e le cose, si potrebbe dire che «la vita inventa, la scienza scopre» (ivi, 49). In secondo luogo (ii), il fatto che «in linea di principio per la scienza tutti i contenuti sono uguali, poiché in essa, nella più tipica antitesi con la conoscenza vitale-teleologica, l’oggetto in quanto tale è indifferente» (ivi, 46), comporta conseguentemente che «i contenuti da sottoporre all’indagine scientifica, ossia all’applicazione delle sue categorie formali, non possono venir scelti sulla base della logica interna della ricerca scientifica, per la quale essi sono tutti uguali, ma dipendono da una scelta a carattere soggettivo, operata in base a ciò che di interessante l’uomo “vede” nel flusso del divenire»53. Questo “vedere” consiste proprio «nel ritagliare, delimitandole, “cose” determinate dalla continuità dell’esserci; noi le “vediamo” in quanto le estraiamo da quella continuità oggettiva, o più esattamente, in quanto le 53
Ivi, p. 121.
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plasmiamo entro quella continuità come unità in qualche modo conchiuse; e quindi in definitiva anche il flusso eracliteo della realtà, nel suo divenire temporale oggettivo, è arrestato dal nostro sguardo» (IdV, 50). Le modalità funzionali del nostro vedere creano determinate forme persistenti; una di esse, tra le più importanti perché capace di identificarsi con l’essenza della vita, è la modalità creatrice dell’arte. Nel caso dell’artista (il pittore) l’atto del vedere si traduce nell’energia cinetica della mano. Si potrebbe quasi dire, afferma Simmel, che «in genere noi vediamo per vivere; l’artista vive per vedere» (ivi, 52): naturalmente, occorre non dimenticare che «è sempre e solo l’uomo intero che vede, non solo l’occhio come organo anatomicamente differenziato». La vita nel suo insieme appare come un frammento, in quanto ciascuno dei suoi elementi, guardato dal punto di vista della sua forma attuata con una autonoma creatività, naturalmente «non è che un frammento». La vita come frammento solo nell’arte raggiungerebbe compiutezza e totalità, poiché trova sicuramente in essa il suo vero senso dal punto di vista formale. Tuttavia, la funzione del “vedere” assume nell’arte una rilevanza di senso che non viene soltanto applicata agli oggetti del mondo esterno, ma anche ai rapporti interpersonali54. Nello specifico, anche in questo caso, «noi in sostanza non vediamo la mera individualità» (IdV, 61), poiché «nel rappresentarci l’altro soggetto con il quale entriamo in contatto lo cataloghiamo, per così dire, in base a una determinata funzione che egli svolge nei nostri confronti, o nell’ambito della vita associata»55: dunque, la struttura della rappresentazione dell’altro costituisce la precondizione dei nostri rapporti sociali. È nella vita associata e nella storia che l’uomo entra in contatto ed interagisce con gli altri: una singola parte del proprio essere viene ad identificarsi di fatto di volta in volta con la determinatezza della situazione data, visto l’ineffabile che caratterizza sempre l’individuo in quanto tale. Ciò comporta che «ridurre a una forma delimitata e comprensibile l’inafferrabile individualità di ciascun essere umano è necessario per lo svolgimento dei rapporti intersoggettivi»56. Questo vale non soltanto «per la funzione che l’individuo svolge in rapporto ad ogni altro, ma anche per la determinazione delle sue caratteristiche personali tramite un concetto generale che permetta ad ogni soggetto di definire univocamente il “carattere” di un altro soggetto»57. Generalmente, infatti, noi vediamo l’altro – non sempre, ma certo molto più spesso di quanto ce ne rendiamo conto 54
Cfr. ibid. Ibid. 56 Ivi, p. 122. 57 Ibid. 55
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– «così come sarebbe se, per dir così, fosse interamente se stesso, se avesse realizzato, nella parte buona o in quella cattiva, la piena potenzialità della sua natura, della sua idea» (IdV, 62). Da tutto ciò consegue che, secondo quanto conclude Simmel, «noi tutti siamo frammenti non solo di un tipo sociale, non solo di un tipo psichico caratterizzabile mediante concetti generali, ma anche, per così dire, del tipo che solo noi stessi siamo» (ibid.). L’individuo è dunque così posto sempre fra due assolutezze: «l’assolutezza di una generalità e l’assolutezza della sua propria soggettività, mentre egli non coincide con nessuna delle due» (ibid.). Per ciò che concerne la specifica dinamica del “dualismo culturale”, occorre ricordare quanto scrive lo stesso Simmel in Concetto e tragedia della cultura58: «L’uomo, a differenza dell’animale, non si inserisce supinamente nella datità naturale del mondo ma se ne distacca, le si contrappone con le proprie esigenze, lottando, usando e subendo violenza. Con questo grande dualismo si origina il processo senza fine tra il soggetto (Subjekt) e l’oggetto (Objekt). La seconda istanza di questo processo la troviamo invece all’interno dello spirito (Geist) stesso» (CTC, 189). Al centro di questo «grande dualismo» risiede l’idea di cultura (Kultur), alla sua base, afferma Simmel, «sta un fatto interiore che si può esprimere in toto solo metaforicamente e nebulosamente definendolo la via dell’anima a se stessa: nessun’anima infatti è ciò che è in un determinato momento; essa è qualcosa di più, in lei è preformato qualcosa di più elevato e compiuto di se stessa, qualcosa di irreale e tuttavia in qualche modo presente. Non alludiamo a un ideale fissato in un luogo qualsiasi del mondo spirituale, ma al liberarsi delle energie di tensione che in questo mondo sono racchiuse, allo sviluppo del loro legame più autentico, obbediente a un impulso formale interno» (ibid.). Com’è evidente, si tratta di un concetto che recupera ampiamente in sé molti intrecci teorici e critici della tradizione filosofica ebraico-tedesca della Bildung tra Ottocento e Novecento59. Tramite la sua idea di cultura (e con essa, quella di personalità)60, l’in58
Tr. it. di M. Monaldi, in G. Simmel, La moda e altri saggi di cultura filosofica, cit., pp. 189212 (d’ora in poi CTC). 59 Cfr. A. Kaiser (a cura di), La Bildung ebraico-tedesca del Novecento, Bompiani, Milano 1999 (nuova ed. 2006). 60 Secondo Simmel, cultura significa «quel tipo di compimento individuale che si può attuare solo mediante l’assunzione o l’impiego di una formazione sovrapersonale posta in un certo senso al di fuori del soggetto. Lo specifico valore della cultura è inaccessibile al soggetto che non lo consegue attraverso realtà spirituali oggettive, mentre queste ultime, per parte loro, sono valori di cultura solo in quanto si fanno attraversare da quel cammino che l’anima percorre da se stessa a se stessa, da quel che si può definire il suo stato di natura al
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tento di Simmel è quello di restituire all’avventura culturale del soggetto moderno «una dimensione forte, etica: dopotutto, lo sforzo a realizzarsi è, in quest’ottica, quasi un dovere, comunque un fine esistenziale»61. Scrive infatti Simmel: In ogni momento dell’esistenza di un organismo che può crescere e riprodursi è racchiusa la forma successiva con una necessità e prefigurazione così intime da non essere minimamente paragonabili a quel tipo di necessità con cui una molla in tensione contiene già il suo rilassamento. Mentre tutto ciò che non vive possiede solo l’attimo del presente, ciò che vive si estende in modo incomparabile nel passato e nel futuro. Tutti i moti dell’anima compresi nella tipologia del volere, del dovere, della vocazione, della speranza sono il prolungamento spirituale della determinazione fondamentale della vita: contenere nel proprio presente il proprio futuro in una forma particolare che esiste soltanto nel processo vitale (Lebensprozeß). Ciò riguarda non solo singoli sviluppi e compimenti, ma la personalità (Persönlichkeit) come unità e totalità (CTC, 190).
In termini simmeliani, si può parlare di cultura soltanto come «apprendimento volto al perfezionamento interiore»62 e non come «un semplice cumulo di nozioni deperibili e strumentali che non cooperino in alcun modo all’avverarsi del progetto che si porta in sé»63. È in questi stessi termini che inizia a definirsi e delinearsi «il cammino lungo il quale il soggetto opera la sua Bildung: esso si snoda per campi del sapere non necessariamente collegati tra loro, né direttamente afferenti al centro dell’anima, ma che comunque devono essere percepiti dal soggetto come importanti al fine del suo sviluppo»64. È l’analisi filosofica e sociologica della modernità che pone Simmel nella necessità ineludibile di riflettere criticamente sul concetto di cultura (Kulturbegriff) così «come esso si configura nel presente, in quanto i vari aspetti del reale, su cui si appunta la sua attenzione, sono sempre manifestazioni culturali»65. Benché pervasivamente sempre presente nelle sue opere, il problema della “cultura” viene più chiaramente e compiutamente affrontato da Simmel a partire dalla Philosophie des Geldes66, all’interno della quale – in particolare suo stato di cultura» (CTC, 196). 61 F. D’Andrea, Soggettività e dinamiche culturali in Georg Simmel, Jouvence, Roma 1999, p. 59. 62 Ibid. 63 Ibid. 64 Ibid. 65 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 79. 66 Cfr. G. Simmel, Filosofia del denaro, tr. it. di A. Cavalli, R. Liebhart, L. Perucchi, a cura
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nell’ultimo capitolo (VI), dedicato allo stile di vita specifico dell’economia monetaria moderna di tipo capitalistico – egli afferma che in quest’ultima vengono a confluire come cultura «i perfezionamenti e le forme di vita più spiritualizzate, i risultati dell’elaborazione interiore ed esterna di essa» (FD, 630). Questa definizione simmeliana di cultura di “carattere generale” va però precisata in una duplice specificazione. Da un lato, «la cultura presuppone l’esistenza di un materiale da elaborare, che le vien fornito dalla natura, e ciò comporta che si debba operare una distinzione di principio fra i due concetti, al fine di stabilire che cosa sia propriamente cultura e che cosa invece resti al puro stadio della natura. D’altre parte, dato il richiamo all’elaborazione, si configura un concetto di cultura il cui attore può essere soltanto l’uomo, nella cui costituzione naturale è presente fin dall’inizio l’impulso a elaborare e trasformare i dati naturali sulla base della propria volontà»67. Soltanto in un suo successivo saggio, in cui affronta il tema dell’essenza della cultura, Simmel «ritorna sul problema del duplice senso in cui si può intendere il concetto di cultura, in una forma particolarmente chiara»68. In Vom Wesen der Kultur (1908)69 Simmel sostiene che «il confine fra stadio naturale e stadio culturale» di fatto «è costituito dal punto in cui alle “forze di sviluppo” insite in qualsiasi organismo o materia, che ne determinano il fine naturale, si sostituisce un processo teleologico»70 al fine di condurre le energie preesistenti «ad un livello di principio negato alle loro precedenti possibilità di sviluppo»71. Nello specifico si può osservare quanto segue: Il fine naturale di un albero selvatico è quello di produrre i suoi frutti, immangiabili per l’uomo, e con ciò si conclude la serie delle sue possibilità di sviluppo. Ma non appena l’intervento umano muta le condizioni naturali assegnate a quell’albero le sue possibilità aumentano, perché adesso l’albero può produrre frutti diversi da quelli precedenti, ed esso diviene “coltivato”. La cultura si potrebbe così definire come la capacità di ampliare il numero delle possibilità di sviluppo assegnate dalla natura alla materia. Certo è, però, che così definito il concetto di cultura non prevede ancora necessariamente l’intervento umano, in quanto le possibilità di sviluppo possono aumentare
di A. Cavalli e L. Perucchi, utet, Torino 1984 (d’ora in poi FD). 67 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 80. 68 Ibid. 69 Cfr. G. Simmel, Vom Wesen der Kultur, in Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, a cura di M. Susman e M. Landmann, Koehler, Stuttgart 1957, pp. 86-95. 70 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 80. 71 G. Simmel, Vom Wesen der Kultur, cit., p. 86.
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anche in modo del tutto naturale, attraverso il progressivo adattamento degli organismi all’ambiente. Ma la situazione cambia se invece del caso dell’albero si considera il caso di un blocco di marmo che lo scalpello dell’artista trasforma in statua. Qui infatti non è lecito affermare che il fine naturale del marmo sia quello di trasformarsi in alcunché di diverso da se stesso, neppure in seguito a un’evoluzione biologico-naturale72.
In questo caso, simmelianamente, non è possibile né lecito neppure “linguisticamente” definire il precedente «grezzo blocco di marmo» in qualche modo «coltivato» al fine di «farne una statua» (FD, 631). In questi due casi qui considerati emerge con evidenza il «duplice significato»73 che può assumere il concetto di “cultura”: Infatti, nel primo caso si considera un impulso naturale e una disposizione dell’albero a produrre quei frutti che vengono fatti crescere oltre il loro limite naturale mediante un intervento intelligente, mentre nel blocco di marmo non presupponiamo nessuna corrispondente tendenza a divenire statua; la cultura che si realizza nella statua significa l’elevazione e l’affinamento di determinate energie umane, le cui manifestazioni originarie noi definiamo «naturali» (FD, 631).
Seguendo la lettera della pagina simmeliana, giungiamo così alla seconda specificazione da compiere, per la quale «l’uomo soltanto può creare cultura, anche se in un senso diverso nei due casi considerati. Nel primo è presupposta la presenza di una disposizione naturale che l’intervento umano semplicemente modifica, e che perciò può essere considerata già insita nella natura della cosa. Nel secondo caso, invece, è l’attività umana orientata a uno scopo (Zwecktätigkeit) a stabilire un fine per la materia, che essa naturalmente non possiede»74. Per Simmel l’uomo non solo è l’autore della cultura, ma ne è anche «il vero e proprio oggetto», poiché «è l’unico essere che conosciamo nel quale fin da principio sia presente l’esigenza di un perfezionamento»75. Il concetto di cultura si identifica, come si è già osservato, con questa esigenza di perfezionamento inscindibilmente legato all’essere stesso dell’anima umana, anche se, occorre precisare, secondo Simmel non ogni perfezionamento dell’uomo è di per sé sinonimo di cultura. Leggiamo Simmel:
72
F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 81. Ibid. 74 Ivi, pp. 81-82. 75 G. Simmel, Vom Wesen der Kultur, cit., p. 88. 73
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Per quanto le forze spirituali si maturino e diano prova di sé in compiti e interessi singoli […], vi è sempre l’esigenza, tacita o espressa, che la totalità spirituale (seelische Totalität) come tale mantenga la promessa a lei intrinseca e che tutti i singoli perfezionamenti appaiano quindi come una pluralità di vie in cui l’anima perviene a se stessa. Questo è, se si vuole, un presupposto metafisico della nostra natura pratica e affettiva, anche se è grande la distanza tra il comportamento reale e questa formulazione simbolica: l’unità dell’anima non è semplicemente un legame formale che racchiude allo stesso modo i dispiegamenti delle sue singole forze: son piuttosto le sue forze a sorreggere lo sviluppo dell’anima come Tutto; e a questo sviluppo è interiormente preposta la meta di una perfezione, rispetto a cui ogni singola facoltà e perfezione valgono come mezzi per conseguirla […]. Qui si mostra la prima determinazione del concetto di cultura […]: non siamo ancora colti se abbiamo sviluppato in noi questa o quella singola conoscenza e capacità ma solo se tutto ciò serve allo sviluppo del centro spirituale (seelische Zentralität), che è sì legato ma non coincidente con queste singole conoscenze. I nostri sforzi consapevoli e definibili sono rivolti a interessi e potenze particolari, ed è per questo che lo sviluppo di ogni uomo – a volergli dare un nome – appare come un fascio di linee di crescita che si estendono in direzioni diverse con diverse lunghezze. Ma l’uomo non si coltiva portando a compimento queste singole linee, bensì mettendo a frutto il loro significato per o in quanto sviluppo dell’indefinibile unità personale (undefinierbare personale Einheit). Detto altrimenti: la cultura è la via dall’unità chiusa all’unità dispiegata attraverso la molteplicità dispiegata […]. Tutte le possibili conoscenze, virtuosità, raffinatezze di un uomo, quando agiscano soltanto come aggiunte promanate da un campo di valori che è e rimane fondamentalmente estraneo alla sua personalità, non bastano ancora a che gli si attribuisca una effettiva cultura. In un tal caso, l’uomo ha sì forme di cultura ma non è colto: quest’ultima condizione si dà solo quando i contenuti tratti dal Sovrapersonale sembrano dispiegare nell’anima, quasi con armonia prestabilita, solo ciò che l’anima stessa rappresenta, il suo impulso più proprio e l’interiore prefigurazione del suo compimento (Vollendung) soggettivo […]. Noi neghiamo che il concetto di cultura sia presente laddove la perfezione (Perfektion) non viene sentita come lo sviluppo autonomo del centro dell’anima: ma il concetto non è soddisfatto neppure quando la perfezione si presenta nei panni di un tale autonomo sviluppo che non ha bisogno di stazioni e mezzi oggettivi ed esterni. Molti diversi movimenti conducono realmente l’anima a se stessa, […] ma poiché, o in quanto, l’anima raggiunge tutto ciò dall’interno […] essa può mancare del possesso specifico della cultura […]. Non si dà cultura nel senso più puro e profondo quando l’anima percorre quel cammino da se stessa a se stessa, dalla possibilità del nostro vero Io alla sua effettualità, esclusivamente con le proprie forze personali, anche se forse da un punto di vista più elevato: simili compimenti sono i più pregevoli; [ma] con ciò avremmo solo dimostrato che la cultura non è il valore definitivo (Wertdefinitivum) dell’anima (CTC,190-191).
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Affinché un tale perfezionamento si traduca in cultura è necessario che l’uomo includa, oltre la sua dimensione interiore, «qualcosa a lui esterno»76, dal momento che «la “coltivatezza” (Kultiviertheit) è certamente uno stato dell’anima, ma tale da poter essere raggiunto soltanto per mezzo di uno sfruttamento di oggetti appositamente creati a questo scopo»77. È questo il paradosso della cultura: la vita soggettiva, che noi sentiamo nel suo fluire incessante che da se stessa preme in vista della sua perfezione interiore, non può raggiungere questa perfezione – alla luce dell’idea di cultura – con i propri mezzi, ma solo percorrendo quelle forme divenute estranee e cristallizzate in un autonomo isolamento. La cultura nasce – e questo è veramente essenziale per la sua comprensione – quando si incontrano due elementi che di per sé non la contengono: l’anima soggettiva (subjektive Seele) e un prodotto spirituale oggettivo (objektiv geistiges Erzeugnis) (CTC, 192)78.
Il «paradosso» della cultura consiste nel fatto che la perfezione della vita soggettiva può essere raggiunta soltanto nel momento in cui l’uomo include qualcosa che si trova al di fuori di lui, «cioè le forme oggettivamente spirituali che costituiscono le tappe da percorrere per passare da una condizione naturale ad una culturale»79. Le forme oggettivamente spirituali (objektiv geistige Gebilde) […] – l’arte e il costume, la scienza e gli oggetti costruiti secondo un fine, la religione e il diritto, la tecnica e le norme sociali – sono tappe che il soggetto deve percorrere per conquistare il proprio valore particolare (Eigenwert), cioè la propria cultura. Egli le deve incorporare ma le deve incorporare in sé e non lasciarle sussistere come valori semplicemente oggettivi (CTC, 192).
Solo «metaforicamente», osserva Simmel nella Filosofia del denaro, «le cose impersonali si possono definire coltivate» (FD, 631). Infatti, noi attribuiamo questa caratteristica soltanto a ciò cui è dato svilupparsi sotto la guida della volontà e dell’intelletto, oltre i limiti di un’estrinseca76
Ivi, p. 89. G. Simmel, Vom Wesen der Kultur, cit., p. 89. 78 Per Simmel, «è caratteristico della vita umana oggettivarsi in forme culturali e così fissarsi, solidificarsi, irrigidirsi; tuttavia, è proprio l’interiorizzazione di questi contenuti spirituali fissati ciò che attribuisce valore alla vita stessa dell’uomo: è vero che la vita come divenire ne viene limitata, ma in quanto contenuti oggettivi e duraturi, essi consentono alla vita soggettiva di autotrascendere la propria limitatezza, partecipando ad un ordine sovraindividuale che collega fra loro gli individui» (F. Manattini, La costruzione sociale dell’alienazione, QuattroVenti, urbino 2000, p. 116). 79 N. Squicciarino, Il profondo della superficie. Abbigliamento e civetteria come forme di comunicazione in Georg Simmel, Armando, Roma 1999, p. 126. 77
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zione meramente naturale, per trovare il proprio sbocco in noi o in cose i cui sviluppi si colleghino in definitiva ai nostri impulsi, o per reazione stimolino i nostri sentimenti. I beni culturali materiali: mobili e piante coltivate, opere d’arte e macchine, utensili e libri – nei quali i materiali naturali vengono certo modellati in forme adeguate, non però per effetto delle loro stesse forze – sono la nostra volontà e i nostri sentimenti dispiegati attraverso le idee, che comprendono in sé le possibilità di sviluppo delle cose che il nostro volere e sentire incontra sulla propria strada. Lo stesso avviene nel caso della cultura che plasma il rapporto dell’uomo con gli altri e con se stesso attraverso la lingua, il costume, la religione, il diritto. In quanto questi valori vengono considerati culturali, noi li distinguiamo dagli stadi di formazione delle energie che vivono in essi, che essi, per così dire, possono raggiungere da sé e che per il processo della cultura sono, in egual misura, soltanto materiale, come il legno e il metallo, le piante e l’elettricità. Coltivando le cose, aumentando cioè la loro misura di valore, al di là di quella che viene fornita dal loro meccanismo naturale, coltiviamo noi stessi: è lo stesso processo di elevazione dei valori, che parte da noi e ritorna a noi, ad abbracciare la natura fuori di noi o in noi (ibid.).
La cultura, per Simmel, sappiamo, «è sempre soltanto la sintesi (Synthese) di uno sviluppo soggettivo e di un valore spirituale oggettivo (CTC, 199), ovvero superamento, in linea di principio, del «dualismo metafisico» di soggetto e oggetto, di vita e forma80. Simmel, soprattutto in Der Konflikt der modernen Kultur. Ein Vortrag81, «assiste alla rottura di un pattern di comunicazione vita-forma che ha garantito sino a quel momento la storia della cultura»82, dal momento che «la vita, in forza della sua essenza, che è il moto, lo sviluppo, lo scorrere oltre, lotta di continuo contro i propri prodotti consolidati e non procedenti insieme con essa» (CCM, 106). Scrive infatti Simmel: «Il mutamento continuo dei contenuti della cultura e da ultimo dell’intero stile di questa, è l’indice o piuttosto la conseguenza della infinita fecondità della vita, ma anche della profonda contraddizione in cui sta il suo eterno divenire e mutarsi di fronte all’obbiettiva validità e l’autoaffermazione delle sue manifestazioni e forme, con le quali o nelle quali essa vive. Essa si muove tra morire e divenire, divenire e morire» (ivi, 107). Birgitta Nedelmann – nel suo saggio già menzionato Individualization, Exaggeration and Paralysation: Simmel’s Three Problems of Culture –, ha riletto ed
80
Cfr. ibid. München-Leipzig 1918; tr. it. in G. Simmel, Il conflitto della cultura moderna e altri saggi, a cura di C. Mongardini, Bulzoni, Roma 1976, pp. 105-134 (d’ora in poi CCM). 82 P. Violante, Introduzione, in AA.VV., Simmel à-la-carte, a cura di P. Violante, ila Palma, Palermo/São Paulo 1997, p. 13. 81
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interpretato questo “dualismo” collocandolo all’interno di un quadro di riferimento triadico – secondo l’approccio elaborato da Margaret Archer83, che concettualizza in termini sistemici «la relazione fra cultura e individui, adottando un approccio di dualismo analitico»84 – che le consente di rintracciare «tre distinti approcci», cioè tre modelli, nello studio della sociologia e della filosofia della cultura elaborati in tempi differenti e in saggi diversi da Simmel che coprono tutti l’ultimo decennio della sua vita. Scrive Nedelmann: «La ricchezza del pensiero di Simmel si ricava dai diversi modi in cui definisce il concetto di cultura e concettualizza il ruolo dell’individuo nel processo culturale, nonché dai diversi criteri analitici di cui fa uso nell’esaminare il rapporto fra livello culturale e livello individuale»85. In virtù della compresenza in Simmel di una pluralità di teorie della cultura, è possibile individuare tre distinti modelli culturali, «il cui comun denominatore è appunto un quadro di riferimento triadico scelto quale loro base, ma che differiscono fra loro sia sotto il profilo analitico che li sottende sia per la definizione dei due poli principali: cultura e individui»86. In una prima versione – secondo quanto rileva Nedelmann –, il polo individuale viene concettualizzato in termini di creatività culturale. E quello culturale in termini di sistema sociale. Nella seconda versione, gli individui vengono esaminati nella loro veste di attori sociali, come consumatori consapevoli di beni culturali. Qui la cultura è considerata come la sfera sociale in cui prendono posto processi di scambio culturale e di gestione di stili di vita. Quanto alla terza versione, gli individui sono visti nel loro ruolo di destinatari di oggetti culturali, e la cultura assume il significato di struttura sociale. Il criterio analitico che il primo tipo di approccio sottintende è quello di antagonismo. Nel secondo tipo, Simmel fa uso del criterio di ambivalenza per definire la relazione fra individui consumatori di cultura e sfera culturale. Quanto al terzo tipo di approccio, infine, è il dualismo a costituire il criterio rivelatore delle tensioni generatesi tra individui destinatari di oggetti, o prodotti, della cultura, e la struttura culturale o sociale. Quindi, nella prima versione si parlerà di modello di antagonismo culturale, nella seconda di modello di ambivalenza culturale, ed infine nella terza di modello di dualismo culturale 87.
Nedelmann propone di tradurre il dualismo vita-forma in quello di individuo-cultura muovendo dalla concettualizzazione sistemica di Margaret 83 Cfr. M. Archer, Culture and Agency. The Place of Culture in Social Theory, Cambridge university Press, Cambridge 1988. 84 B. Nedelmann, Tre problemi della cultura, cit., p. 127. 85 Ivi, p. 129. 86 Ibid. 87 Ivi, pp. 129-130.
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Archer – sviluppata in Culture and Agency (1988) – che consiste nell’esaminare «sia l’influenza del sistema culturale sulle azioni umane (ovvero il livello socio-culturale), sia l’influenza degli attori sociali sul sistema culturale»88. Il principio di «dualismo analitico» adottato da questa concettualizzazione permette di distinguere fra tre diversi problemi: 1. Il primo riguarda come gli uomini producono cultura. Il sistema culturale viene, insomma, considerato come una emanazione del livello socio-culturale, e le azioni umane sono viste come i fattori produttivi del sistema culturale. 2. Il secondo problema viene evidenziato dopo aver introdotto la prospettiva dei mutamenti di lungo periodo. L’Archer esplora in che modo un sistema culturale, dopo esser divenuto autonomo, influenza il livello socio-culturale e torna ad influire su generazioni successive di individui. Si tratta di sistemi culturali che, nel frattempo, si sono resi autonomi da quanti, in una fase immediatamente antecedente, li avevano prodotti e che, a loro volta, influenzano generazioni future, viste – queste – come «riceventi», o destinatarie, di prodotti culturali creati da generazioni precedenti. 3. La terza questione sollevata dalla Archer riguarda il problema del mutamento culturale: e cioè come «nuovi elementi entrano a far parte del sistema culturale, e vecchi elementi ne vengono a decadere» (Archer). Ancora una volta, le azioni umane vengono concettualizzate nel loro ruolo di produttori di cultura; ma, a differenza di quanto ipotizzato a proposito del primo problema, in questa circostanza si evidenziano quei cambiamenti culturali che le azioni umane hanno causato, per aver aggiunto nuovi elementi culturali a sistemi culturali già esistenti ed intanto divenuti autonomi, provvedendo altresì alla sostituzione di elementi vecchi. Viene, insomma, qui esaminato l’impatto che le azioni umane esercitano – in quanto agenti trasformatori di cultura – sul sistema culturale89.
Questi tre problemi di «sociologia della cultura» possono dare origine al seguente quadro di riferimento «triadico»90: Livello socio-analitico
Dualismo culturale
Sistema culturale
88
Ivi, p. 127. Ivi, pp. 127-128. 90 Ivi, p. 128. 89
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I tre differenti modelli simmeliani di cultura hanno sì una «base comune» in questo schema di riferimento triadico, però «differiscono in ordine al principio analitico o alla definizione analitica dei due poli principali: cultura e individuo»91. Con il seguente schema Nedelmann visualizza i tre modelli simmeliani di cultura: 1. Modello di antagonismo culturale
2. Modello di ambivalenza culturale
3. Modello di dualismo culturale
polo individuale
creatori di cultura («vita»)
consumatori di cultura o gestori di stili di vita
destinatari di cultura («cultura soggettiva»)
polo culturale
cultura come sistema sociale («forme»)
cultura come sfera estetica
cultura come struttura sociale («cultura oggettiva»)
principio analitico
antagonismo tra «vita» e «forma»
ambivalenza di orientamento all’azione
dualismo tra cultura soggettiva e oggettiva
problema culturale
«malessere culturale» (individualizzazione)
«soggettivismo esasperato» (assenza di stile nella cultura moderna)
«tragedia della cultura»: paralisi (incommensurabilità tra cultura soggettiva e oggettiva)
Lo schema pone sinteticamente in evidenza tre problemi simmeliani della cultura su cui occorre soffermassi qui di seguito: La Kulturnot (o malaise culturale) come conseguenza dell’antagonismo (individualizzazione); l’esasperazione soggettiva come esito dell’ambivalenza (soggettivismo esasperato) e la “tragedia della cultura” come esito del dualismo (incommensurabilità tra cultura soggettiva e cultura oggettiva). La chiave di lettura sta nella posizione del soggetto che come produttore di cultura reagisce alla minaccia della cultura oggettiva; come consumatore vive la cultura come sfera estetica in modo ambivalente pervenendo ad un soggettivismo esasperato; nel terzo modello l’individuo è ricettore di oggetti culturali (cultura soggettiva) […], che appare bloccato dalla cultura come struttura sociale (cultura oggettiva)92.
a) – Nello specifico, il primo di questi tre modelli fa riferimento al saggio di Simmel Il conflitto della cultura moderna (1918), in esso, come sappiamo, i due poli rappresentati dalla cultura e dagli individui vengono concettualizzati come opposizione, come conflitto, tra «forma» e «vita». È possibile comprendere maggiormente il peculiare lessico simmeliano facendo ricorso alla nozione marxiana di opposizione tra forze produttive e rapporti di produzione, che lo stesso Simmel, come vedremo, cita. In effetti, «analogamente 91 92
P. Violante, Introduzione, cit., p. 15. Ivi, pp. 15-16.
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alla nozione marxiana delle forze produttive, intese come energia motrice finale del processo di mutamento della società, Simmel considera la “vita” come la forza motrice determinante per il processo di mutamento culturale. La “vita” può tradursi in potenziale creativo disponibile a livello individuale, e cioè come forza produttrice della cultura. È importante sottolineare che Simmel fa uso di tale concetto in una prospettiva macrosociologica. Nel contesto d’un tale modello, egli non ha certo in mente l’attività creativa di ciascun individuo preso a sé stante, ma piuttosto la creatività culturale quale è ricavabile da sforzi culturali collettivi, posti in essere dalle azioni umane»93. L’analogia terminologica fra Marx e Simmel è coestensibile pure in relazione al concetto di rapporti di produzione e forme sociali. «Le manifestazioni di creatività culturale (ovvero le forze produttive) debbono fare i conti con le forme sociali (rapporti di produzione) per potersi realizzare appieno. Se poste a confronto con la dinamica della creatività culturale, le forme culturali sono relativamente fisse e senza tempo, costituendo perciò un contesto istituzionale relativamente rigido per la realizzazione del potenziale creativo degli individui»94. È in questa particolare accezione di significato che Simmel parla di cultura quando «il moto creatore della vita ha espresso certe formazioni, nelle quali esso trova la propria estrinsecazione, le forme della sua realizzazione, e che dal canto loro sussumono in sé le fluttuazioni della vita che segue e danno ad esse contenuto, forma, sfera di azione, ordine. Tali sono le costituzioni sociali e le opere d’arte, le religioni e le conoscenze scientifiche, i sistemi della tecnica e le leggi civili e innumerevoli altre» (CCM,105). Il concetto simmeliano di «forme culturali», secondo Nedelmann, «assomiglia non poco alla nostra concezione di cultura in termini di sistema»95. Questa somiglianza è palese allorquando lo stesso Simmel afferma che «questi prodotti dei processi vitali hanno la particolarità che già nel momento del loro nascere posseggono una loro propria permanente fissità, la quale non ha più nulla a che fare con l’incessante ritmo della vita stessa, col suo continuo rinnovarsi, col suo inesausto ramificarsi e riunificarsi» (CCM, 105). Di conseguenza, le «forme culturali» si trasformano in sistemi sociali nel momento in cui rivelano «una logica e una normatività, un senso e una forza di resistenza che sono loro propri e che stanno in una certa separazione e indipendenza rispetto alla dinamica psichica che formò i prodotti stessi» (ivi, 106). Per le loro intrinseche proprietà “siste93
B. Nedelmann, Tre problemi della cultura, cit., p. 131. Ibid. 95 Ivi, p. 132. 94
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miche”, le forme culturali sono in grado di raggiungere un certo grado e livello di autonomia nei confronti delle stesse forze culturali che le hanno a loro volta generate. Tuttavia, «quanto maggiore è l’autonomia di queste forme culturali intese come sistema sociale, tanto maggiore sarà la tensione antagonistica fra queste e le forze che creano cultura (“vita”)»96. Da tutto ciò si può pervenire ad una definizione del rapporto sussistente fra sistema culturale e creatività culturale inteso come «relazione reciprocamente interdipendente ed antagonistica»97: anche ciò, in termini analogici, può farci ricordare «il tipo di relazione che Marx presume esistente fra le forze produttive ed i rapporti di produzione»98. Pertanto, «sistema culturale e creatività, ovvero forma e vita, sono fra loro in una interdipendenza reciproca, perché a) la creatività culturale può solo diventare realtà sociale in determinate forme, e b) le forme culturali possono sopravvivere nel lungo periodo solo a condizione che esse ricevano gli input creativi dal livello individuale»99. Sulla dipendenza della creatività culturale (vita) dalle forme culturali, Simmel rileva: «Questa vita deve o generare forme o muoversi entro forme. Noi siamo, sì, immediatamente la vita, e con questo fatto si congiunge un sentimento, di cui non si può dare una più precisa descrizione, di essere, di forza, di moto verso una meta; ma noi tale sentimento possediamo solo nella forma che esso ogni volta assume, la quale nel momento del suo presentarsi si mostra appartenente ad un altro ordine, fornito di diritto e significato attinti da sé, e che afferma e pretende un’esistenza sopravitale» (CCM, 132). Da ciò scaturisce una «contraddizione» peculiare rispetto all’essenza della vita stessa, ovvero «alla sua dinamica fluttuante, ai suoi destini temporali, all’incessante differenziazione d’ognuno dei suoi momenti» (ibid.). Dal momento che la creatività umana si esprime «in, ed attraverso» forme culturali, essa in quanto tale è di fatto costretta a crearsi «la propria controparte antagonistica»100. Scrive Simmel: La vita è indissolubilmente vincolata alla necessità di diventar reale solo in forma del suo opposto, il che vuol dire in una forma. Questa contraddizione diventa più flagrante e sembra più inconciliabile a misura che quella interiorità, che noi non possiamo che chiamare semplicemente vita101, si fa valere nella 96
Ibid. Ibid. 98 Ibid. 99 Ibid. 100 Ivi, p. 133. 101 Simmel (in nota) specifica ulteriormente: «Poiché la vita è il contrapposto della for97
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sua pura energia senza forma, e a misura, d’altro lato, che le forme nella loro rigida esistenza per sé stante e nella loro pretesa di possedere diritti imprescrittibili, si mettono avanti come il vero senso e valore della nostra esistenza; forse dunque nella misura in cui la cultura si è sviluppata. Qui vuol dunque la vita qualcosa che non può assolutamente raggiungere. Vuole determinarsi e manifestarsi, al di là d’ogni forma, nella sua nuda immediatezza. Ma il conoscere, il volere, il foggiare, da essa interamente determinati, possono solo sostituire una forma con un’altra, non mai la forma in generale con la vita stessa, come esiste al di là della forma. Tutti quegli attacchi contro le forme della nostra cultura sia che si sferrino impetuosamente sia che lentamente si preparino, i quali, in maniera palese ed occulta, collocano contro queste forme la forza della vita solo in quanto e perché vita, sono manifestazioni della più profonda contraddizione interiore in cui cade lo spirito, non appena esso si sviluppa verso la cultura, cioè si estrinseca in forme. E mi sembra che di tutte le epoche storiche in cui questo conflitto cronico si è acuito e ha mostrato di voler abbracciare tutta l’area dell’esistenza, nessuna ancora lo abbia così chiaramente come la nostra svelato quale il proprio motivo di fondo (ivi, 132-133).
Simmelianamente, questo «conflitto cronico» dà origine alle dinamiche culturali che sottostanno la relazione fra creatività culturale e sistema culturale: «nel produrre forme culturali, gli individui non solo generano l’opposto dei loro desideri e bisogni spontanei, ma anche le ragioni per un mutamento culturale continuo»102. Simmel lo spiega così: Essenza della vita è quella di generare dal suo proprio seno ciò che la guida e la dissolve, ciò che le si contrappone e vincendola è vinto; essa si conserva e si eleva sopra il suo proprio prodotto, quasi prendendo il sentiero che lo aggira; e che il suo prodotto le si contrapponga, indipendente e giudice, è appunto la sua originaria condizione di fatto, il modo cioè con cui essa vive. L’opposizione in cui essa così precipita con ciò che le è superiore, è il tragico conflitto della vita come spirito, conflitto che naturalmente è ora suscettibile di venir avvertito nella misura in cui la vita è conscia di generarlo realmente dal suo seno e di essere perciò organicamente e ineluttabilmente cucita a fil doppio con esso (CCM, 125). ma, ma evidentemente solo quella che ha assunto una qualche forma può essere descritta concettualmente, così non è possibile liberare l’espressione “vita”, nel senso assolutamente fondamentale in cui qui è presa, da una certa imprecisione e oscurità logica. Giacché l’essenza della vita esistente prima od oltre ogni forma, sarebbe negata se si volesse e potesse formarne una definizione concettuale. Ad essa come vita cosciente è dato soltanto di diventar consapevole di sé nel suo processo, non per la via di trapasso che attraversa il terreno della concettualità, il quale è tutt’uno col regno della forma. Che l’essenza della cosa, limiti la possibilità di espressione, non diminuisce la chiarezza di quell’antagonismo fondamentale che la concezione del mondo presenta» (CCM, 133). 102 B. Nedelmann, Tre problemi della cultura, cit., p. 133.
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Per ciò che concerne invece l’altro aspetto della relazione che coinvolge le «forme» culturali, occorre osservare come anch’esso disveli una sua dipendenza dalla propria controparte antagonistica: la creatività culturale103. In effetti, «senza un input, costituito da idee, desideri, motivi e bisogni, i sistemi culturali non vivrebbero a lungo. Essi debbono perciò inevitabilmente associarsi a quelle forze culturali che in ultima analisi sono causa della loro evoluzione, fino alla loro distruzione, tanto che il momento della loro costruzione rappresenta anche l’inizio del processo della loro estinzione»104. Perciò Simmel, come sappiamo, definisce metaforicamente questo processo di mutamento culturale iscrivendolo in un movimento «tra morire e divenire, divenire e morire». Questa metafora, osserva criticamente Nedelmann, «ci ricorda ancora una volta il modello marxiano di mutamento sociale»105, in primo luogo perché «Simmel, come Marx, postula l’esistenza di una opposizione latente tra forze creative e sistema culturale. Opposizione, questa, che accresce la propria forza quanto più il sistema culturale diventa autonomo, e quanto più le forze creative non hanno possibilità di realizzarsi appieno nel rigido contesto rappresentato dalle istituzioni culturali esistenti»106. Simmel caratterizza questo aspetto del processo storico della cultura osservando appunto che: «È la vita stessa […] col suo spingere e voler andare oltre, col suo mutarsi e differenziarsi, che fornisce la dinamica all’intero movimento, ma che, in sé senza forma, non può diventar fenomeno se non assumendo una forma. Tuttavia questa forma, secondo l’essere che in quanto forma possiede, nel momento del suo prodursi pretende […] una validità superiore al momento ed emancipata dalla pulsazione della vita stessa; e perciò contro di essa la vita si colloca già sin da principio in una latente opposizione che scoppia ora in questo ora in quel campo del nostro essere ed agire» (CCM, 107-108). In secondo luogo, alla stregua di Marx, Simmel afferma che «la creatività umana e le istituzioni culturali si evolvono a velocità diversa. Le forze della creatività culturale si sviluppano ad un ritmo assai più rapido di quello delle istituzioni culturali che esse hanno creato. Il sistema culturale, perciò, è in ritardo rispetto all’evoluzione della creatività umana»107. Come dice lo stesso Simmel, la vita «lotta di continuo contro i propri prodotti consolidati e non procedenti insieme con essa. Poiché però essa non può trovare la sua stessa esistenza tranne che appunto in qualche forma, così questo processo
103
Cfr. ibid. Ibid. 105 Ibid. 106 Ibid. 107 Ivi, p. 134. 104
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si rivela in modo visibile e determinabile quale sostituzione della vecchia forma mediante una nuova» (CCM, 106-107)108. Il primo Novecento è lo scenario entro il quale Simmel applica le proprie analisi della dinamica dei problemi culturali moderni. Stando alla sua diagnosi critica, in questo scenario «l’antagonismo fra istituzioni culturali e creatività individuale aveva ormai raggiunto il suo apice, generando ciò che egli chiama una Kulturnot, una sensazione di malessere culturale»109. Gli esempi con cui Simmel illustra la propria diagnosi sono tratti da differenti sfere culturali (filosofia, arte, religione, scienza): «esse hanno tutte in comune il fatto che soggetti culturalmente produttivi non si trovano più a lottare con istituzioni culturali esistenti e in fase di mutamento secondo i loro bisogni, ma cominciano invece a rivoltarsi contro le istituzioni sociali esistenti, e cioè contro le forme in quanto tali»110. Simmel esemplifica nel matrimonio e nella prostituzione quelle istituzioni di tipo tradizionale che maggiormente i suoi contemporanei ritenevano eticamente inidonee per l’appagamento dei loro desideri erotici. Infatti, egli scrive: «Si designa col nome di “etica nuova” una critica dei rapporti sessuali esistenti, la propaganda della quale è fatta da un gruppo ristretto di persone, ma i cui sforzi sono condivisi da un gruppo ampio. Questa critica si dirige soprattutto contro due elementi della situazione esistente, il matrimonio e la prostituzione. Il suo movente è fondamentalmente il seguente: che la vita erotica vuol dare adito alla sua forza più propria e più interiore e alla direzione che le è congeniale di fronte alle forme in cui la nostra cultura l’ha in generale imprigionata, con ciò condannandola all’irrigidimento e alla contraddizione. Il matrimonio, mille volte conchiuso per motivi diversi da quelli propriamente erotici, il quale
108
Come commenta criticamente ancora Nedelmann: «Il modello simmeliano di mutamento culturale può, dunque, ritenersi un modello di dinamica culturale intrinseca, sospinto, da una lato, dal bisogno implicito nella creatività culturale di diventare, essa stessa, produttrice delle proprie contraddizioni di base (cioè le istituzioni); dall’altro lato dalla specifica necessità del sistema culturale di integrare gli input culturali entro i propri confini sistemici. Questo bisogno di associarsi con le proprie controparti antagonistiche è la causa della dinamica autonoma del cambiamento culturale, dinamica che – secondo Simmel – è per principio “infinita”. C’è tuttavia una differenza importante con la dialettica marxiana del mutamento societario. Secondo Simmel, non esiste alcuna soluzione precisa a tale perpetuo antagonismo culturale. “È […] un pregiudizio da pedanti il ritenere che tutti i conflitti e i problemi siano là a bella posta per venire risolti” [CCM, 134]. Conflitto culturale ed evoluzione permanente, secondo lo schema di “morire e divenire, divenire e morire”, rappresentano [dunque] elementi costituivi del primo modello di antagonismo culturale» (B. Nedelmann, Tre problemi della cultura, cit., p. 134). 109 Ivi, p. 135. 110 Ibid.
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conduce mille volte il vivente flutto di questi ad impaludarsi o infrange la loro individualità contro inflessibili tradizioni e crudeltà legali; la prostituzione, diventata quasi un’istituzione legale, che costringe la vita amorosa dei giovani su un sentiero ignobile, falso, ripugnante alla più profonda natura di essa – queste sono le forme contro cui si rivolta la vita immediata e genuina, forme che in altri rapporti culturali non erano forse ad essa tanto adatte, ma che ora fanno insorgere contro di sé le forze che erompono dalla sua suprema scaturigine» (CCM, 126-127). Nota I. Denaro e prostituzione Nell’ambito dell’economia monetaria moderna un vistoso esempio della «insensatezza» determinata dal predominio dei mezzi sui fini è rappresentato appunto dal fenomeno della prostituzione, su cui Simmel si sofferma dapprima nel suo saggio Psychologie des Geldes (1889)111 e poi in alcuni suoi scritti successivi112. Commentando sinteticamente le riflessioni simmeliane contenute in questi scritti, Nicola Squicciarino – nel suo saggio Il fine non esclude i mezzi, che funge da introduzione alla traduzione italiana del volume simmeliano Il denaro nella cultura moderna113 – rileva quanto segue: Simmel scrive che ciò che rende «particolarmente ripugnante» la prostituzione, che esclude in sé qualsiasi coinvolgimento personale nel rapporto tra i sessi, è che avvenga «in cambio di un equivalente così assolutamente impersonale» come il denaro, il cui valore è «il meno individuale» che ci possa essere, «il più lontano dal contenuto di ogni persona» (Zur Psychologie der Frauen, cit., p.
111 Cfr. G. Simmel, Psychologie des Geldes, in «Jahrbuch für Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft im Deutschen Reich», n. 13, 1889, pp. 1251-1264, ora in Aufsätze 1887-1890, in Georg Simmel Gesamtausgabe, II, a cura di H.-J. Dahme, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989, pp. 49-65; tr. it. di P. Gheri, Psicologia del denaro, in G. Simmel, Il denaro nella cultura moderna, a cura di N. Squicciarino, Armando, Roma 1998, pp. 45-67. 112 Cfr. Simmel, Zur Psychologie der Frauen (1890); Einiges über die Prostitution in Gegenwart und Zukunft (1892); Die Rolle des Geldes in den Beziehungen der Geschlechter (1898), in G. Simmel, Schriften zur Philosophie und Soziologie der Geschlechter, a cura di H.-J. Dahme e K.Ch. Köhnke, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1985, pp. 27-59, 60-71 e 139-156, l’ultimo di essi è stato poi ripreso nel capitolo della Filosofia del denaro, dal titolo L’equivalente in denaro dei valori personali (cfr. soprattutto FD, 536-547). 113 Cfr. N. Squicciarino, Introduzione. Il fine non esclude i mezzi, in G. Simmel, Il denaro nella cultura moderna, cit., contenente la tr. it. già citata di Psychologie des Geldes (1889) e di Das Geld in der modernen Kultur (in «Zeitschrift des Oberschlesischen Berg- und Hüttenmännischen Verein», n. 35, 1896, pp. 319-324, ora in Aufsätze und Abhandlungen 1894 bis 1900, in Georg Simmel Gesamtausgabe, V, a cura di H.-J. Dahme e D. Frisby, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992; tr. it. di P. Gheri, Il denaro nella cultura moderna, pp. 71-96).
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50). Simmel sostiene che la prostituzione, sebbene sia un fenomeno antico quanto la storia della cultura, già diffuso presso i popoli primitivi, ove però la persona non era ancora chiaramente differenziata dalla specie, e presso culture più progredite come pratica di culto, con l’affermarsi dell’economia monetaria ha assunto un significato del tutto differente. Nella nostra cultura più evoluta, da una parte è constatabile una crescente differenziazione ed individualizzazione dell’essere umano, dall’altra il denaro assume un carattere sempre più impersonale, privo di qualità. Il denaro consente infatti di acquistare una infinità e diversità di oggetti, diviene criterio di valore e l’equivalente di tutto, la cosa «meno personale» che ci sia nella vita pratica, ed è «perciò del tutto inadeguato a servire come mezzo di scambio per un valore così personale come il darsi di una donna» (Einiges über die Prostitution in Gegenwart und Zukunft, cit., p. 62). Nella Filosofia del denaro Simmel, soffermandosi sulla riduzione al contenuto generico di tutte le differenze individuali operate dal denaro, parla di un’«analogia fatale» (FD, 537) fra l’essenza della prostituzione e l’essenza del denaro. Il carattere di rapporto del tutto momentaneo, tipico della prostituzione, basato su un bisogno sentito e soddisfatto istantaneamente, senza coinvolgimento delle forze interiori individuali, è espresso «nel modo materialmente e simbolicamente più perfetto» dal denaro che «una volta dato si separa in modo assoluto dalla personalità e tronca ogni ulteriore conseguenza nel modo più netto» (ivi, 536). Richiamandosi all’imperativo morale di Immanuel Kant che impone di non usare mai un essere umano come “puro mezzo”, ma invece di riconoscerlo e trattarlo sempre come “fine”, Simmel sottolinea lo strettissimo legame tra la prostituzione e la moderna economia monetaria, cioè l’economia dei mezzi nel senso più vero del termine, e afferma che «di tutti i rapporti umani la prostituzione è forse il caso più pregnante di degradazione reciproca alla condizione di puro mezzo» (ivi, 537). Nei suoi scritti, in cui il carattere poligamico della prostituzione, tipico della nostra cultura, viene strettamente collegato al potere essenzialmente mascolino del possesso del denaro, è più volte ribadito il netto rifiuto di tale riduzione della persona a «merce» che denota «disprezzo» e «ignoranza del valore della persona» (Einiges über die Prostitution in Gegenwart und Zukunft, cit., p. 63). Il fatto che una donna, in cambio di una cosa così impersonale come il denaro, «getti via quanto ha di più intimo e personale», segna senza dubbio «il punto più basso della dignità umana», esprime «la più completa e penosa inadeguatezza» e «incommensurabilità» tra questi due valori, costituisce «il più profondo avvilimento della personalità della donna» (FD, 540)114. 114 N. Squicciarino, Introduzione. Il fine non esclude i mezzi, cit., pp. 26-28. Dello stesso autore, v. inoltre i capp. «La questione femminile» e «La civetteria», in Id., Il profondo della superficie, cit. (pp. 159-241), dove vengono ampiamente ricostruite le analisi filosofiche, psicologiche e sociologiche di Simmel sull’evoluzione della questione femminile, sullo stile di vita e sulla comunicazione non verbale nella modernità. Sulla sociologia e filosofia simmeliana delle emozioni, cfr. B. Nedelmann, Georg Simmel – Emotion und Wechselwirkung in intimen Gruppen, in «Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie», », n. XXV, 1983, pp. 174-209 e G.
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*** Gli esempi simmeliani stanno ad indicare che il modello dinamico di mutamento sociale – descritto precedentemente come un processo continuo di sostituzione di vecchie istituzioni con le nuove («morire e divenire, divenire e morire») «si è rotto»115: «nella sfera dei rapporti erotici, l’antagonismo fra istituzioni culturali e creatività culturale non ha né portato innovazione di istituzioni esistenti, né ha generato quelle “dissolutezze e cupidigie anarchiche”, che equivalgono alla distruzione delle forme tradizionali e, in definitiva, ad un’assenza di forme»116. Il «malessere culturale» trova comunque un altro modo con cui manifestarsi, poiché «la genuina vita erotica scorre in canali del tutto individuali e l’opposizione si dirige contro quelle forme perché esse imprigionano questa vita entro schemi universali e con ciò fanno violenza a quella che è volta per volta la sua particolarità. Qui, come in molti degli altri casi, è la lotta tra la vita e la forma che, meno astrattamente e metafisicamente, viene combattuta come lotta tra l’individualizzazione e l’universalizzazione» (CCM, 127-128). Non soltanto il malessere culturale, oltre la sfera erotica, investe anche tutte le sfere culturali delle società moderne, ma la stessa «individualizzazione della creatività culturale» diviene il vero e proprio dilemma cruciale della modernità. Pertanto, bisogni creativi di diversa natura (religiosa, erotica, etica, scientifica o artistica) possono articolarsi solo grazie a determinate «forme», giacché «la vita nel momento in cui giunge ad aver voce come fatto spirituale, non può riuscirvi se non in forme, nelle quali soltanto anche la sua libertà può diventar reale, quantunque esse, nel medesimo atto, limitino anche la libertà» (ivi, 131). Questo «dilemma» traduce specularmente il progressivo complicarsi delle dinamiche culturali. Quanto più le istituzioni culturali rivendicano autonomia, tanto meno gli individui troveranno ivi rappresentate le loro istanze culturali, e tanto più essi reagiranno con la fuga dal sistema culturale nella sua totalità e con risposte di tipo individualistico. D’altra parte, quanto più la creatività culturale segue canali individualistici di espressione, tanto più il sistema culturale si trova tagliato fuori dall’energia creativa individuale, e perciò tanto più si evolverà in direzione delle sue proprie esigenze sistemiche. Se questa individualizzazione continua a crescere, il sistema culturale verrà sempre più caratterizzato da artefatti privi di vita. Il livello della creatività individua-
Turnaturi, Flirt, seduzione, amore. Simmel e le emozioni, Anabasi, Milano 1994. 115 B. Nedelmann, Tre problemi della cultura, cit., p. 135. 116 Ivi, p. 136.
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le, d’altra parte, accentuerà sempre più la propria disintegrazione fino al punto da rappresentare niente altro che un insieme di atti idiosincratici, privi di qualunque nesso. Di conseguenza, diventerà sempre più difficile l’identificazione di modelli sociali di comportamento culturale individuale. La mania di originalità, espressione – questa – più estrema della tendenza verso l’individualizzazione, non dà luogo ad una cultura individuale socialmente «modellata». Perciò, una crescente individualizzazione distrugge non solo le istituzioni culturali in quanto sistema, ma la stessa cultura individuale intesa come macro-fenomeno. È importante sottolineare che l’acuto dilemma culturale diagnosticato da Simmel non si identifica con l’assenza di forma, o anarchia culturale, come vorrebbero farci credere non pochi critici contemporanei della cultura moderna. una individualizzazione crescente significa un allentamento crescente del rapporto fra sistema culturale e livello di creatività individuale, con la conseguenza che il sistema culturale si devitalizza sempre più, e la creatività culturale si individualizza in misura sempre maggiore (in una parola, si idiosincratizza). In termini di analisi dei sistemi, la diagnosi di Simmel potrebbe venir formulata sotto forma di una crescente auto-referenzialità sia del sistema culturale che di quello della creatività individuale, con il risultato di una progressiva autodistruzione di ambedue. L’individualizzazione dell’energia culturale e la devitalizzazione delle istituzioni culturali costituiscono due processi paralleli che conducono non soltanto all’allentamento del rapporto tra questi sistemi, ma anche alla distruzione della vita sociale che li caratterizza117.
b) – Il criterio analitico su cui poggia il secondo modello è quello dell’ambivalenza culturale, nel quale «i due poli del quadro di riferimento triadico vengono concettualizzati sia quali attori (individui, cioè visti come consumatori di beni culturali in base a calcolate strategie, o come gestori di “stili” di vita) sia come cultura intesa quale particolare mercato in cui hanno luogo i processi di scambio culturale»118. L’articolo Das Problem des Stiles (1908)119 e Die Mode (1911) (v. infra), come è noto, sono senz’altro quelli paradigmaticamente più adatti per verificare ed illustrare questo tipo di ambivalenza culturale che connota la condizione umana nella modernità.
117
Ivi, p. 137. Ivi, p. 138. 119 Apparso per la prima volta in «Dekorative Kunst. Illustrierte Zeitschrift für Angewandte Kunst», a cura di H. Bruckmann, XI, n. 7 (April 1908, vol. 16, pp. 307-316); tr. it. di A. Borsari, Il problema dello stile, in AA.VV., Georg Simmel. Le forme e il tempo, cit., pp. pp. 7-14. Per un suo commento, cfr. A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, cit., pp. 56-65. 118
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1.2. «L’avanzamento della cultura delle cose e l’arretratezza della cultura delle persone». Conflitto e tragedia della cultura moderna: vita, forme e reificazione Da quanto precede è possibile ora considerare ulteriormente il terzo modello simmeliano relativo al dualismo culturale. Per Simmel, si dà cultura soltanto in quanto esistono «formazioni culturali che conducono il perfezionamento del singolo oltre territori reali e ideali al di là di se stesso, e in quanto esso non rimane un processo puramente immanente, ma si compie in un accordo incomparabile e in un intreccio teleologico fra soggetto e oggetto»120. Da un lato, dunque, la “cultura” rinvia direttamente al “perfezionamento individuale dell’uomo”, in quanto dinamica immanente della propria «anima soggettiva», dall’altro essa acquisisce anche un “significato oggettivo”, poiché si oggettiva appunto nella (ri)produzione continua di “forme” culturali che sono «un mezzo e uno stadio del suo perfezionamento», senza le quali non ha senso parlare specificamente di “cultura”121. 120
G. Simmel, Vom Wesen der Kultur, cit., p. 90. Soprattutto nel saggio Concetto e tragedia della cultura, simmelianamente cultura, come rileva anche Poggi, «ha un significato specifico, che si avvicina a quello del termine inglese cultivation; si tratta cioè della condizione o del processo attraverso il quale si acquista familiarità con prodotti di alto significato intellettuale o estetico, come risulta anche dall’aggettivo cultured o colto, usato per caratterizzare una persona che ha appunto acquisito una familiarità con tali oggetti, senza però farlo prevalentemente in vista della sua attività professionale. Secondo Simmel essere colti, possedere cultura in questo senso, è il risultato di una serie prolungata di incontri riusciti tra lo “spirito soggettivo” di una determinata persona e un certo numero di aspetti dello “spirito oggettivo” che circondano tale persona. un incontro si può dire che sia riuscito quando la persona viene non soltanto divertita ma anche sfidata, non soltanto istruita ma anche potenziata, non soltanto impara delle nozioni ma diventa anche molto più consapevole e più raffinata, grazie a ciò che impara ed esperisce nell’entrare in rapporto coi prodotti dell’attività intellettuale ed estetica di altri. In altre parole, si può dire che un incontro di questo genere sia riuscito e rappresenti un episodio di effettiva “acquisizione culturale”, quando tali prodotti reagiscono sulla persona che si è incontrata con essi, in modo che tale persona ritorna a se stessa soggettivamente arricchita dopo l’incontro. Idealmente questo può permettere alla persona in questione di produrre ulteriori oggetti; ma il punto essenziale è l’abilità che questa persona dimostra di assimilare l’oggetto già esistente, di metabolizzarlo per così dire, facendone una parte integrante della propria soggettività. Questo è reso possibile […] soltanto dalla comunanza del sostantivo tra spirito oggettivo e spirito soggettivo, ovvero dal fatto che, come dice Simmel, “entrambe le parti sono spirito” [beide Parteien Geist sind]. In tal modo, il soggetto può, sia riconoscere se stesso nell’oggetto, sia esprimere i propri poteri nell’ambito degli oggetti stessi, arricchendo non soltanto se stesso, ma anche il mondo degli oggetti. Ma se questo è possibile, non è sempre facile; in effetti, tende a essere difficile soprattutto nell’ambito della modernità. La radice di questa difficoltà si trova proprio nell’oggettività degli oggetti culturali, nella resistenza che essi fanno, che deve essere superata se il soggetto vuole impadronirsene. Se questo non succede, l’oggetto 121
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In questo modello, dunque, Simmel parla di cultura nel senso di “coltivazione”. Nedelmann scrive con efficace sintesi: Sul piano formale, “coltivazione” può ritenersi un processo di feed-back tra livello individuale e livello culturale, processo che parte dagli individui ed a questi torna dopo aver attraversato il sistema di “cultura oggettiva” [...]. Idealmente parlando, il feed-back del processo di coltivazione termina se cultura oggettiva e cultura soggettiva coincidono l’una con l’altra. In questa ipotesi ideale, la cultura è divenuta la sintesi dei due poli, quello oggettivo e quello soggettivo. Pertanto, il processo reciproco ideale di coltivazione potrebbe anche essere descritto come un processo di soggettivizzazione della cultura oggettiva e, simultaneamente, di oggettivizzazione della cultura soggettiva. È superfluo ripetere per quali ragioni la cultura oggettiva deve attraversare un processo di “soggettivizzazione” per poter sopravvivere nel lungo periodo. Al pari delle forme culturali, anche la cultura oggettiva è chiamata ad associarsi con la sua controparte per sopravvivere nel tempo. Ma vi è un’altra ragione a sostegno del perché la cultura oggettiva vada soggettivata: per Simmel, ciò sta nel significato degli oggetti culturali che gli individui sono chiamati ad interiorizzare. Il valore della cultura oggettiva sta precisamente nel contributo che essa porta all’auto-perfezionamento umano. Quando essa non è più in grado di adempiere a questa funzione di “coltivazione”, la cultura oggettiva perde ogni suo specifico significato e valore culturale122. stesso, per così dire, si impadronirà del soggetto, impedendogli di uscire dall’incontro con se stesso più colto» (G. Poggi, Denaro e modernità. La «Filosofia del denaro» di Georg Simmel, il Mulino, Bologna 1998, p. 199). 122 B. Nedelmann, Tre problemi della cultura, cit., pp. 145-148. Per Simmel, «le possibilità di realizzare il processo ideale di retroazione reciproca in tema di coltivazione sono davvero poche nelle condizioni della società moderna. Il “blocco” del processo di retroazione reciproca in tema di coltivazione tra cultura soggettiva ed oggettiva è tipico di queste società. La cultura oggettiva non può adempiere oltre alla funzione di “coltivare” l’uomo moderno. Per aver perso questa sua funzione strumentale di coltivazione, la cultura oggettiva è diventata un mezzo a sé, per se stesso costitutivo di un mondo autonomo separato dalla cultura soggettiva e in antitesi con quest’ultima. Invece di costituire un’opportunità per la possibilità dell’uomo di coltivare se stesso, essa costituisce una minaccia per lo sviluppo della personalità individuale […]. Simmel aggiunge un’altra importante osservazione per spiegare la dissociazione crescente della cultura soggettiva da quella oggettiva. La cultura oggettiva ha una “inorganica capacità di accumulo”, una unorganische Anhäufbarkeit; non vi è limite alla sua crescita quantitativa. Non esiste campo culturale in grado di sottrarsi a questo apparentemente inestinguibile processo di accumulazione quantitativa: arte, leggi, tradizioni, tecnologia, scienza ecc. si trasformano sempre più in “culture di massa”, sviluppando la propria logica immanente ed i propri criteri di divisione del lavoro e di specializzazione. Quanto più va avanti lo sviluppo globale nella società, tanto più rapidamente si evolve questo processo di accumulazione quantitativa e di specializzazione interna della cultura oggettiva. Perché, allora, la cultura soggettiva non riesce a svilupparsi con la stessa velocità, ed in egual misura, di quella oggettiva? La risposta di Simmel fa riferimento alla capacità ricettiva dell’indivi-
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Secondo Simmel, un «dualismo intrinseco»123 soggetto-oggetto pertiene al concetto di cultura, il quale non consente «di definire senz’altro i prodotti culturali come “valori culturali” (Kulturwerte)»124. Di fatto, una volta creati, i prodotti culturali vivono autonomamente di una loro vita propria, connessa a «ideali e norme che scaturiscono dal loro contenuto oggettivo, e non dalle esigenze di quel punto unitario e centrale della personalità»125. È il soggetto che conferisce al prodotto culturale, inteso come «oggettivazione dell’anima individuale»126, una propria e peculiare “personalità” che «comincia a sussistere dal momento della creazione, e che da quel punto in poi obbedisce a leggi autonome, non più necessariamente identiche a quelle del soggetto creatore»127. Gli “oggetti culturali” non sono anche immediatamente «valori culturali»128 poiché essi hanno in sé «soltanto la possibilità di funzionare come valori culturali»129: questo non è affatto il loro «naturale sviluppo», che invece consiste «nell’obbedire alle leggi della propria “sfera” di appartenenduo, singolarmente preso: in contrasto con la cultura oggettiva, la capacità accumulatrice di quest’ultimo è limitata non solo per le scarse disponibilità di tempo e di energia concesse a ciascuna vita individuale, ma anche per il grado di unità e di chiusura che ogni individuo ha già raggiunto. Per dirla con altre parole: poiché il processo di coltivazione si dirige a ciascun individuo singolarmente preso, e deve essere filtrato attraverso le sue capacità ricettive, per se stesse limitate, la cultura soggettiva non è in grado di produrre effetti di micro-macro-aggregazione. Dato che la cultura soggettiva fa riferimento ad un altro livello di aggregazione rispetto a quello della cultura oggettiva, essa non può produrre macro-effetti. La cultura oggettiva, d’altra parte, produce tali macro-effetti grazie alle sue proprietà sistemiche, e di conseguenza si trasforma sempre più in un Übermacht, in un super potere, quanto più cresce la sua portata. Gli effetti di un tale incommensurabile sviluppo della cultura soggettiva e di quella oggettiva sono immediatamente avvertiti a livello di individuo singolo. La sua vita viene appesantita dalle migliaia e migliaia di oggetti superflui dai quali gli riesce impossibile liberarsi. L’uomo moderno, il Kulturmensch, si trova in uno stato permanente di sovraeccitazione (Angeregtsein), senza peraltro poter trasformare questi stimoli in creatività culturale; egli sa, e forse apprezza tante cose, ma queste gli appaiono solo zavorra, troppo pesante e troppo grande per poter assimilare ed integrare il tutto nella struttura della propria personalità […]. Al cospetto di una tale superpotenza culturale, l’uomo moderno diviene paralizzato nella sua capacità selettiva degli elementi offertigli dalla cultura oggettiva. Gli stimoli che egli riceve in continuazione dalla cultura oggettiva generano sentimenti di incapacità e di impotenza, bloccando le sue facoltà di strumentalizzare tali stimoli con l’intento di “coltivare” la propria personalità. Invece di diventare uomo “coltivato”, egli si riduce ad essere impotente ed alienato» (ivi, pp. 148-150). 123 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 82. 124 Ivi, p. 83. 125 G. Simmel, Vom Wesen der Kultur, cit., p. 91. 126 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 83. 127 Ibid. 128 Ibid. 129 G. Simmel, Vom Wesen der Kultur, cit., p. 91.
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za»130. Ogni “sfera” culturale (arte, religione, scienza, morale, ecc.), entro la quale «gli oggetti ricadono a seconda della legge interna che ne regola lo sviluppo»131, costituisce l’insieme della cultura considerata «dal punto di vista dell’oggetto»132. Diversamente le cose stanno dal punto di vista dell’«ideale della cultura», la cui essenza «consiste proprio nel superare il valore autonomo dell’atto estetico, scientifico, morale, eudemonistico, persino religioso, per innestarli tutti, come elementi o componenti, nello sviluppo dell’essenza umana oltre la sua condizione naturale; o, più precisamente: essi sono le tappe della via che questo sviluppo percorre» (FD, 632). La cultura, simmelianamente, consiste, dunque, «nella selezione e nell’innesto dei prodotti culturali nell’ambito del processo individuale di perfezionamento, per il quale essi devono servire come mezzi con cui tale processo non si identifica mai»133. Perciò, si rende maggiormente comprensibile perché «i prodotti culturali non sono di per sé anche “valori” culturali»134, dal momento che «i contenuti della cultura consistono in formazioni che rientrano nel dominio di un ideale autonomo, ma che vengono considerate nell’ottica dello sviluppo delle forze del nostro essere, da esse portato avanti e sostenuto oltre il suo limite meramente naturale» (FD, 632). Concretamente, infatti, potranno acquistare “valore” culturale solo «i prodotti capaci di favorire lo sviluppo generale dell’anima individuale, mentre gli altri continueranno ad avere valore soltanto all’interno della propria sfera di appartenenza, e non entreranno mai a far parte dell’“ideale” della cultura»135. La morfologia del concetto di cultura e delle dinamiche culturali, consente a Simmel di compiere due importanti osservazioni. In primo luogo, Simmel afferma che la cultura «non può essere identificata con lo “specialismo” [Spezialistentum], e nel dir ciò prende le distanze dalla tradizione positivistica, il cui ideale conoscitivo può condurre soltanto a una conoscenza del “particolare”, per la quale la cultura non è se non la somma dei risultati conseguiti nell’ambito dei singoli rami del sapere. In ciò, Simmel è molto vicino alle posizioni di Dilthey e di Nietzsche, che in forme diverse si proponevano proprio di contrastare un ideale di cultura ricalcato sul modello delle scienze naturali, e incapace di tener conto dell’uomo “tutto
130
F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 83. Ibid. 132 Ibid. 133 Ibid. 134 Ivi, p. 84. 135 Ibid. 131
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intero”»136. In quest’ottica, la cultura si genera «soltanto quando le perfezioni unilaterali si ordinano nella situazione generale dell’anima, quando esse appianano i contrasti fra i propri elementi elevandoli tutti ad un livello superiore, in breve quando esse aiutano a perfezionare il tutto come unità»137. In secondo luogo, relativamente ai prodotti culturali, secondo la concezione simmeliana della cultura, «più essi sono distanti, irriconducibili alla soggettività del proprio creatore, più aumenta il loro “significato culturale”»138, nel senso che essi dimostrano di essere adeguatamente, come dice Simmel, «un mezzo generalizzato nella formazione di molte anime individuali». Di conseguenza, la dinamica culturale esige di per sé che «l’oggetto sia quanto più possibile distinto dal soggetto culturale, ossia che esso sia quanto più possibile autonomo e che fronteggi, per così dire, il soggetto che ne deve giudicare il “valore” culturale»139. Il “paradosso” e la “tragedia” della cultura simmelianamente hanno origine «fin da quando l’uomo comincia a considerare se stesso come oggetto di conoscenza»140 e ha con ciò separato «i contenuti spirituali dell’anima dalle sue forme»141: Poiché la logica delle formazioni e delle connessioni impersonali è di natura dinamica, tra queste, gli impulsi e le norme interiori della personalità si origina un aspro contrasto che, nella forma della cultura come tale, conosce una singolarissima concentrazione. Da quando l’uomo dice Io a se stesso, da quando è divenuto un oggetto che sta sopra e di fronte a se stesso, da quando, attraverso questa forma della nostra anima, i suoi contenuti appartengono tutti allo stesso centro, da allora, questa forma dovette generare l’ideale secondo cui ciò che così si collega al suo centro è anche un’unità chiusa in se stessa e quindi un Tutto autosufficiente (selbstgenugsames Ganzes). Ma i contenuti con cui l’Io deve perfezionare questa sua organizzazione sino a farne un mondo proprio e unitario non appartengono solo a lui: essi gli sono dati da un Al-difuori spaziale, temporale, ideale, sono nello stesso tempo i contenuti di altri mondi, sociali e metafisici, concettuali ed etici, e in essi hanno delle relazioni e delle connessioni che non vogliono coincidere con quelle dell’Io. In questi contenuti che l’Io configura in modo speciale, i mondi esterni afferrano l’Io per assorbirlo in sé: formando i contenuti secondo le loro esigenze, non permettono che questi si concentrino intorno all’Io (CTC, 203). 136
Ibid. G. Simmel, Vom Wesen der Kultur, cit., p. 92. 138 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 84. 139 Ivi, pp. 84-85. 140 Ivi, p. 85. 141 B. Giacomini, La struttura autoriflessiva della conoscenza: l’epistemologia di Georg Simmel, cit., p. 51. 137
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Il conflitto sociale esistente «tra l’uomo in quanto individualità a tutto tondo, e l’uomo come semplice membro dell’organismo sociale» (ibid.) è soltanto «un caso di quel dualismo puramente formale in cui siamo inevitabilmente irretiti dal fatto che i nostri contenuti di vita (Lebensinhalte) appartengono anche ad altre cerchie oltre a quella del nostro Io» (ibid.). L’«oggetto culturale», dunque, «è un mezzo per il perfezionamento individuale dell’uomo, ma nella società moderna questa funzione viene a cadere a causa della divisione del lavoro, che non permette di ricondurre l’oggetto alla dimensione soggettiva del suo produttore; la sua produzione, anzi, risponde soltanto a leggi immanenti nell’oggetto stesso»142. Il processo culturale è a tal punto «un processo storico di continua autonomizzazione dell’oggetto ai danni del soggetto»143, che alla fine si traduce, come dice lo stesso Simmel, nel «predominio dell’oggetto sul soggetto, che si realizza in generale nel corso del mondo e si risolve nella cultura sotto forma di felice equilibrio» (CTC, 211). Implementandosi nelle sue continue metamorfosi storiche, il «paradosso della cultura» si trasforma ineludibilmente nella «tragedia della cultura» (Tragödie der Kultur): Il concetto di ogni cultura consiste nel fatto che lo spirito crea un oggetto indipendente attraverso cui il soggetto prende la via dello sviluppo da se stesso a se stesso. Ma proprio così, quell’elemento che integra e condiziona la cultura è predeterminato a uno sviluppo autonomo che impiega sempre più le forze dei soggetti e sempre più soggetti spinge sulla sua strada, senza per questo condurli all’altezza che meritano: lo sviluppo dei soggetti non può seguire la via intrapresa dallo sviluppo degli oggetti, e se tuttavia vuole farlo finisce o in un vicolo cieco o nello svuotamento della sua vita interiore più propria (ivi, 208)144. 142
F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 86. Ibid. 144 Sul concetto di tragico in Simmel, cfr. I. Bauer, Die Tragik der Existenz bei G. Simmel, Duncker & Humblot, Berlin 1962 e R. Mahlmann, Homo duplex: die Zweiheit des Menschen bei G. Simmel, Königshausen & Neumann, Würzburg 1983. Nella prospettiva ermeneutica di Simmel (soprattutto nelle sue ultime opere, ed in particolare in Der Begriff und die Tragödie der Kultur), il «tragico», secondo Alessandro Dal Lago (Il conflitto della modernità. Il pensiero di Georg Simmel, il Mulino, Bologna 1994, p. 258), assume «lo statuto di logica stessa dell’evoluzione della cultura». Per Dal Lago, la teoria tragica della cultura, definita all’interno della cultura filosofica tra Otto e Novecento, «la cifra dell’opera di Simmel» (ivi, p. 9), «non è soltanto originale rispetto all’epoca in cui fu elaborata, ma mantiene ancora oggi un profondo valore esplicativo. Ciò non vale soltanto per l’ambito epistemologico […], ma anche per la cultura in senso lato. Tragica è per Simmel la condizione dell’uomo moderno in quanto incapace di sfuggire al destino che egli stesso ha creato, ovvero l’intellettualismo, la razionalizzazione […]. Al di là delle divergenze di carattere metodologico (che non vanno sopravvalutate), Simmel costituisce, in un certo senso, il contraltare filosofico di Max Weber» (ivi, pp. 35-36). 143
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Nella modernità, alle difficoltà intrinseche al processo di oggettivazione si aggiungono anche quelle prodotte dal processo di industrializzazione. La strada che l’uomo moderno deve percorrere per realizzarsi «si fa sempre più irta di ostacoli. Egli è destinato ad aggirarsi per panorami ingombri di suggerimenti ed occasioni la cui opportunità ed utilità diviene sempre più problematica»145. La riserva di spirito oggettivo che cresce a perdita d’occhio pone al soggetto esigenze, risveglia in lui velleità, lo abbatte con il sentimento della propria inadeguatezza e della propria miseria, lo inserisce nell’ordito di rapporti complessivi, alla cui totalità egli non può sottrarsi senza riuscire tuttavia a dominarne i singoli contenuti (CTC, 209).
Per Simmel, la cui posizione culturale e filosofica non è semplicisticamente assimilabile e riducibile alle posizioni del vitalismo e/o del nichilismo e dell’irrazionalismo146, ma che ben si approssima a quella di Baudelaire, alle ricerche di Benjamin e al saggismo di Kracauer147, la vita è sempre una continua ed eterna produzione di forme, un processo durante il quale queste ultime tendono ad assumere intersezioni e configurazioni autonome (come nel caso delle complesse interazioni sociali), fino a giungere a contrapporsi al loro principio generativo. La dialettica tragica tra la vita e le forme spinge Simmel – sulla scia delle suggestioni della filosofia post-kantiana, hegeliana e marxiana – a muoversi speculativamente «in una zona di confine tra neocriticismo e filosofia della vita»148 e a vedere la storia come campo di conflitti tragici che aumentano la complessità della Kultur umana. La magmatica vischiosità costituita dal flusso della vita si scontra fatalmente con i prodotti oggettivati, irrigiditi e «cosalizzati» costituiti dalle forme. Nella complessità e tragicità della dialettica vita-forme – ossia nel dualismo tra la vita e le forme, tra lo spirito che produce infinite forme e la vita che le alimenta, ma che alimentandole «non può perdere il suo carattere di vita per ritrovarsi irrigidita
145
F. D’Andrea, Soggettività e dinamiche culturali in Georg Simmel, cit., p. 62. Sull’argomento, cfr. V. d’Anna, Georg Simmel. Dalla filosofia del denaro alla filosofia della vita, cit., pp. 115-179. 147 Cfr. D. Frisby, Sociological Impressionism: A Reassessment of Georg Simmel’s Theory, Heinemann, London 1981 (Routledge, London 1992) e Fragments of Modernity. Theories of Modernity in the Work of Simmel, Kracauer and Benjamin, Mit Press, Cambridge (Mass.) 1985; tr. it. di u. Livini, Frammenti di Modernità. Simmel, Kracauer, Benjamin, il Mulino, Bologna 1992; v. inoltre A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit. 148 M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, Olschki, Firenze 1996, p. 292. 146
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e trascesa nella forma»149 –, il soggetto è dualizzato, posto in un precario ed instabile equilibrio: da un lato, il suo bisogno di affermazione vitale, di riconoscimento sociale, lo sospinge ad aprirsi-al-mondo producendo forme che diano senso ed unità al fluire intenso della vita; dall’altro, è costretto dai «vincoli» che le forme oggettivate della vita, della cultura e della società gli impongono. Stretto tra questi due poli, il soggetto è sempre più di fronte ad una complessità del reale che non è più in grado di essere governata, la cui conseguenza immediata è la progressiva perdita di presa del soggetto sul mondo. Ogni sforzo di sottrarsi a questo destino è votato allo scacco: «Tra la vita che avanza di continuo nel suo corso, innalzandosi con energia sempre crescente, e le forme della sua manifestazione storica, permanenti nella loro uniformità rigida, c’è un conflitto inevitabile che riempie di sé tutta la storia della cultura»150. Per Simmel, l’evoluzione della Kultur comporta di necessità la disposizione costitutiva di «vincoli» e di «limiti» per la vita, cioè forme che possano conferire un senso all’indeterminato corso del flusso vitale. Fine ultimo della Kultur è la produzione di oggettivazioni culturali dello spirito e della vita. Ma nella Modernität – l’epoca della riproducibilità tecnica – questa produzione è resa inauditamente illimitata, tanto da trasformarsi in una potenza «altra» e soverchiante. Nel 1911, in Der Begriff und die Tragödie der Kultur, esemplare e denso saggio simmeliano che non solo «costituisce una delle sintesi di tutta la sua opera»151, ma in cui la centralità del problema del «tragico»152 – quale simbolo della irresolubilità delle contraddizioni della Kultur e del 149
Ivi, p. 295. Muovendo dalla profonda estraneità o ostilità che esiste tra il processo vitale e creativo [Lebens- und Schaffensprozeß] dell’anima da un lato, e i suoi contenuti e i suoi prodotti dall’altro, Simmel osserva icasticamente che «di fronte alla vita dell’anima, che vibra senza posa sviluppandosi nell’infinito e che è in un certo senso creatrice, sta il suo prodotto solido, idealmente inamovibile, che ha l’effetto retroattivo di fissare, anzi di irrigidire, quella vitalità: spesso è come se la dinamicità creatrice dell’anima morisse nel suo prodotto» (CTC, 193). 150 G. Simmel, Vom Wesen der Kultur, cit., p. 98. 151 A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 258. 152 Come osserva opportunamente B. Giacomini (La struttura autoriflessiva della conoscenza: l’epistemologia di Georg Simmel, cit., p. 53): «L’interpretazione simmeliana della cultura costituisce soltanto uno dei momenti in cui riprende, nella cultura filosofica dei primi vent’anni del Novecento, la riflessione sul tragico. Da Lukács a Bloch, da Rosenzweig a Benjamin fino a Scheler, essa testimonia il dissolversi di ogni forma capace di esprimere compiutamente la negatività immanente all’esistenza umana e, con ciò stesso, di liberarne la potenza catartica». Sul «tragico» nella filosofia moderna e contemporanea, cfr. R. Bodei, Conoscenza e dolore. Per una morfologia del tragico, in «Il Centauro», n. 7, 1983, pp. 3-27; AA.VV., Tragico e modernità. Studi sulla teoria del tragico da Kleist ad Adorno, a cura di L. Boella e F. Carmagnola, FrancoAngeli, Milano 1985; G. Garelli, Filosofie del tragico, Bruno Mondadori, Milano 2001; C. Gentili, G. Garelli, Il tragico, il Mulino, Bologna 2010.
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movimento dinamico della vita – spinge nella direzione della critica della civiltà contemporanea, Simmel scrive: Lo spirito produce innumerevoli forme che continuano a esistere in una specialissima autonomia, indipendenti dall’anima (Seele) che le ha create e da tutte le altre anime che le accolgono o le rifiutano. Di fronte all’arte o al diritto, alla religione o alla tecnica, alla scienza o alla morale il soggetto non è attratto o respinto dai soli contenuti, fondendosi con loro come una parte del suo Io, o rimanendo invece estraneo e incontaminato; piuttosto, è con la forma della stabilità, del coagulo, dell’esistenza permanente che lo spirito, divenuto oggetto, si contrappone alla corrente della vitalità, alle tensioni cangianti dell’anima soggettiva e alla sua interna autoresponsabilità. Ma in quanto spirito intimamente legato allo spirito, il soggetto vive innumerevoli tragedie (Tragödien) nel profondo contrasto di forma tra la vita soggettiva (subjektives Leben), che si muove senza posa ma è temporalmente finita e i suoi contenuti che, una volta creati, sono immobili ma temporalmente validi (CTC, 189).
La cultura, per Simmel, «è superamento del rigido dualismo soggettooggetto, incorporazione di questo in quello verso un risultato che non sarà una “sintesi” hegeliana. L’assoluta alterità dell’uno e dell’altro termine è mantenuta in un equilibrio tensionale: questo stadio ulteriore della dinamica esaminata può definirsi Soggetto. La cultura è raffigurabile come un movimento spirituale soggetto-oggetto-soggetto, una spirale che torna su se stessa – ad un livello qualitativamente superiore – dopo aver affrontato ed integrato il problematico rapporto con l’alterità oggettiva»153. Simmel riserva una rilevante considerazione ed un profondo rispetto per il mondo oggettivo, «che deriva, da una parte, dal suo essere emanazione diretta delle energie creative individuali, dall’altra, dal suo essersi reso indipendente dalla sua origine, costituendo infine lo scenario e il limite entro il quale si spiega l’azione umana»154. Egli scrive: La ricchezza specifica dell’umanità consiste proprio nel fatto che i prodotti della vita oggettiva appartengono contemporaneamente a un ordine di valori obiettivo e non transitorio, logico o morale, religioso o artistico, tecnico o giuridico. Rivelandosi come portatori di tali valori, come membri di tali ordini, questi prodotti si sono sottratti, mediante il loro intreccio e la loro sistematizzazione reciproca, al rigido isolamento con cui si estraniavano dal ritmo del processo vitale; non solo, ma questo medesimo processo ha ottenuto così una rilevanza che non era possibile acquistare con l’inarrestabilità del suo puro svolgimento (CTC, 193)155. 153
F. D’Andrea, Soggettività e dinamiche culturali, cit., p. 60. Ibid. 155 La dimensione tragica della cultura, come si è già detto, consiste per Simmel nel fatto 154
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L’instabilità e l’insecuritas del precario e turbolento equilibrio vita-forme, in cui prende espressione la tragedia della Kultur, non è per Simmel soltanto un «effetto perverso» della mera temporalità in un’economia di mercato156, che «lo spirito crea un oggetto indipendente attraverso cui il soggetto prende la via dello sviluppo da se stesso a se stesso», ma proprio così, «lo spirito soggettivo deve abbandonare la sua soggettività, ma non la sua spiritualità, per vivere quel rapporto con l’oggetto attraverso cui si compie la sua crescita culturale. Questo è l’unico modo in cui la forma dualistica di esistenza, posta immediatamente con l’esistenza del soggetto, si organizza in una relazionalità intimamente unitaria. Ha qui luogo un’obiettivazione del soggetto e una subiettivazione di un Oggettivo che costituisce il tratto specifico del processo culturale e in cui, oltre i suoi singoli contenuti, si mostra la sua forma metafisica» (CTC, 192-193). Per Simmel, la «tragedia della cultura» traduce complessivamente quel movimento secondo cui, come rileva criticamente Vittorio d’Anna (Il denaro e il Terzo Regno. Dualismo e unità della vita nella filososfia di Georg Simmel, CLuEB, Bologna 1996, pp. 78-79), «nel pensiero come nell’azione, le cose ci si pongono a una distanza tale da risultare prima indipendenti e poi ostili. una tragedia che ha la sua ragione ultima nel fatto che è la cultura non già unità trascendente il nesso soggetto-oggetto […], ma piuttosto unità sintetica, per cui presuppone la distanza dell’io dalle cose e ha per scopo il suo superamento. Così la cultura si tiene sulla vocazione dello spirito a contrapporsi a sé e sull’idea del suo venire a compimento proprio sdoppiandosi. Per un verso essa ha le proprie radici nella nostra attività soggettiva, ma per un altro consiste nei contenuti oggettivi del mondo. Sia che noi riconosciamo come nostri quei contenuti, sia che li avvertiamo come estranei, la cultura si impianta su di una frattura originaria – la separazione dell’io dalle cose – che pure cerca di ricomporre ma non può eliminare. Se oggi la vediamo come un prodotto immediatamente unitario, è perché il retroterra psicologico al fondo dell’oggettività viene sempre più ricacciato indietro, fino al punto di scomparire al nostro sguardo e il momento del fondamento soggettivo ci sfugge. La cultura non ha nulla a che vedere con l’autosviluppo della personalità o, sul versante opposto, con la dedizione alle cose. A informarne la logica è il fatto dell’estraniazione e l’esigenza della ricomposizione. Per questo essa ha qualcosa dello spirito oggettivo hegeliano; ma non più di qualcosa, perché per Simmel, stando le sue radici non nell’idea ma nella vita psichica dell’uomo, è destinata a restare nella scissione. Finché viviamo in noi stessi non c’è cultura, come non c’è cultura nell’opera d’arte come autonomo valore estetico. Piuttosto c’è cultura, ad esempio, nell’opera d’arte in riferimento alla personalità dell’autore: in quanto è medio attraverso cui egli porta a compimento il proprio io, facendolo passare per qualcosa di obiettivo. La crisi sta nel restare incompiuto del movimento, che non si chiude e manca del momento decisivo: quello del ritorno da parte nostra, arricchiti, a noi stessi. E quando la crisi è destino necessario, e non può andare altrimenti, allora si fa tragedia». L’aspetto “tragico”, infine, come osserva Monceri (Simmel e la tragedia della cultura, cit., pp. 86-87), consiste nel fatto che «la cultura non perisce per cause esterne, ma perché le forze distruttrici qui all’opera scaturiscono dallo stesso essere che crea la cultura, ossia dall’uomo […]. Il fine della cultura […] non va per questo perduto, ma l’uomo deve essere consapevole che esiste la “tragica probabilità” che dalla legalità autonoma di cui gode il mondo della cultura oggettiva sorga una dinamica dualistica fra contenuti della cultura e fine della cultura». 156 In Philosophie des Geldes, Simmel aveva ben indicato le trasformazioni indotte dal denaro nei confronti del tempo in un’economia di mercato, laddove al tempo vengono conferite le medesime qualità obiettive ed impersonali del denaro. Nella cultura moderna, caratterizzata dalla razionalità strumentale e calcolistica dell’economia monetaria, il denaro riveste una
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ma è, anche, l’espressione specifica della tragedia del mondo moderno, che consiste nel porre, e, nel contempo, rendere insolubile il totale dispiegamento delle facoltà umane dell’individualità personale. L’estraniazione del produttore nei confronti dei suoi prodotti, caratteristica consustanziale del modo capitalistico di produzione fondato sulla divisione del lavoro, sulla produzione di merci e sul valore di scambio, diventa espressione contingente di un più generale «destino tragico» del soggetto, che finisce per condizionare tutte le espressioni della Kultur157. Pertanto, anche «il “feticismo” che Marx attribuisce ai prodotti dell’economia nell’epoca di produzione delle merci è – secondo Simmel – soltanto un caso, con modificazioni proprie, di questo destino generale dei nostri contenuti culturali. Tali contenuti sottostanno al paradosso – e in misura crescente con l’incremento della “cultura” – secondo cui essi sono creati solo da e per i soggetti, ma nella forma intermedia dell’oggettività che assumono al di qua e al di là di queste istanze, seguono una logica evolutiva immanente, e con ciò si estraniano dalla loro origine e dal loro fine» (CTC, 206)158. centralità strategica nell’organizzazione della vita associata producendo effetti radicalmente oggettivanti sui rapporti umani. Se, da un lato, per Simmel, «l’individualità è lasciata fuori dai rapporti umani e il denaro crea una mutua dipendenza impersonale mentre, per contro, crea le basi dell’indipendenza personale» (S. Smelt, Money’s place in society, in «The British Journal of Sociology», XXXI, 1980, p. 210); dall’altro, pur agevolando e diffondendo su basi obiettive le forme e le dinamiche della comunicazione sociale, «il denaro risolve i problemi della “comune indicizzazione”, della “interpretazione di significato” […]. Il denaro risolve i problemi dei rapporti fra l’ego e gli altri e con il mondo […]; il denaro rende possibile la indipendenza personale. Nello stesso tempo […] sopprime anche i fondamenti dell’individualità, pur agendo a favore dell’individuo. Il denaro trasforma continuamente in motivazioni obiettive e informazioni numeriche tutto ciò che è soggettivo e l’interazione sociale, connettendo questo ambito di esperienze alla sfera dell’economia […]. La possibilità di espressione individuale è ridotta, canalizzata in termini monetari, e il denaro trasforma ogni espressione di questo tipo nel flusso degli eventi economici, traducendoli in un linguaggio comune e obiettivo» (ivi, pp. 210-211). Dal tempo qualitativo al tempo quantitativo. L’equazione tempo-denaro, assolvendo un ruolo altamente funzionale nel processo di Industrialisierung e di Rationalisierung della società moderna, diviene espressione simbolica e paradigmatica «di un tempo completamente mercificato, ridotto a “cosa”, razionalizzato e matematizzato per i bisogni prevalenti di una società basata sulla produzione di valori di scambio. Il tempo dell’esperienza, dell’interazione affettiva e personale, dei rapporti familiari, che si collocano sul fronte opposto a quello dei rapporti mediati dal denaro, perdono di importanza o tendono ad essere anch’essi controllati e valutati in termini quantitativi. Il tempo che non è traducibile in denaro non riceve considerazione sociale o viene valutato negativamente come tempo perso nel rendimento» (S. Tabboni, La rappresentazione sociale del tempo, FrancoAngeli, Milano 1984, p. 85). 157 Cfr. I. Bauer, Die Tragik in Existenz des modernen Menschen bei Georg Simmel, cit. 158 Il concetto di destino è un concetto chiave che caratterizza pervasivamente la cultura tedesca del primo Novecento. In Simmel gioca anch’esso un ruolo determinante, soprattut-
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La critica di Simmel alla civiltà moderna si rivolge nei confronti del predominio dello spirito oggettivo (objektiver Geist)159, del dominio della tecnica, della divisione del lavoro e dell’estraniazione del soggetto dai suoi prodotti. In questa civiltà, che paradossalmente inverte per gli uomini moderni il principio francescano che bisognerebbe avere nei confronti delle cose materiali – nihil habentes, omnia possidentes – nel suo contrario – omnia habentes, nihil possidentes (CTC, 209)160, di fatto «nasce […] la tipica situazione problematica dell’uomo moderno: la sensazione di essere circondato da un’infinità di to nell’ultimo periodo della sua produzione, quando la sua ricerca filosofica appare ormai decisamente orientata verso l’elaborazione della sua Lebensphilosophie che troverà nel volume Lebensanschauung (1918) la sua cifra espressiva culminante e definitiva. Tuttavia la concettualizzazione simmeliana del destino dev’essere contestualizzata in una costellazione problematica più ampia, comprendente appunto la definizione del senso del tragico e il rapporto tra vita e forma, cui Simmel dedicò alcuni degli scritti fondamentali che stiamo prendendo in considerazione in queste pagine. Al riguardo, di particolare rilevanza è il breve saggio simmeliano Das Problem des Schicksals pubblicato nel 1913-14 sul n. 1 della rivista «Die Geisteswissenschaften», ora contenuto nella raccolta di scritti simmeliani già citata Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft (cit., pp. 8-16), su cui è basata la tr. it. di M. Ophälders e P. Necchi, Il problema del destino, in «Estetica» (n. mon. Sul destino), a cura di S. Zecchi, 1991, pp. 173-183. In questo saggio, Simmel sottolineando la rilevanza filosofica e la struttura profonda del concetto di destino, sostiene tra l’altro che «sebbene il concetto di destino […] costituisca la sorte propria dell’uomo e sebbene una vita troppo al di sotto o al di sopra del destino non possa darsi nella vita empirica, se non in modo approssimativo, questi estremi sono tuttavia intimamente connessi alla vita umana. Infatti, sebbene lo si possa esprimere soltanto con un concetto contraddittorio, appartiene all’essenza più propria della vita di poter oltrepassare se stessa. Per molti versi sentiamo dei limiti determinati, dai quali la nostra esistenza è definita in ciò che ha di centrale e di specifico. Nonostante ciò la vita oscilla al di sopra e al di sotto di questi limiti, e in ciò sta forse il senso più ampio di essa: la vita è tutto ciò che oltrepassa i propri limiti comprendendoli tuttavia in se stessa» (ivi, p. 183). 159 Sulla nozione simmeliana di «spirito oggettivo» nella Philosophie des Geldes, cfr. in particolare FD, 638-640; per una sua analisi critico-ricostruttiva e storico-ermeneutica nell’ambito della teoria sociale tedesca iniziata da Hegel e, attraverso Simmel, culminata in Arnold Gehlen mediante l’opera del filosofo e teorico sociale Hans Freyer [in particolare dalla sua Theorie des objektiven Geistes (1923)], v. G. Poggi, Denaro e modernità, cit., pp. 113-137. 160 Anche nella Filosofia del denaro (cfr. FD, 370) Simmel fa riferimento al motto dei francescani nihil habentes, omnia possidentes, questa volta però «non tanto nell’originario significato evangelico (di rinuncia ai beni terreni per un possesso e una beatitudine trascendenti), ma in quello di una compensazione psicologica alla rinuncia ascetica, mediante una sensazione di “potere” analoga a quella ottenuta dall’avaro nella sua tragicomica rinuncia al godimento dei beni terreni, per pura avidità di possesso» (A. Vigorelli, Il denaro e l’etica dei moderni. Lezioni sulla «Filosofia del denaro» di Georg Simmel, Cuem, Milano 1999, p. 120). In questo caso, infatti, scrive Simmel: «La potenza enorme ed estesa del processo mediante il quale il denaro si eleva dalla sua posizione di mezzo al significato di assoluto, viene illuminata nella luce più viva, quando la negazione del suo senso si potenzia fino ad assumere la stessa forma» (FD, 370).
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elementi culturali che per lui non sono certo privi di significato ma, fondamentalmente, neppure significativi: in quanto massa, essi hanno qualcosa di soffocante, dato che l’uomo non può assimilare interiormente ogni singolo contenuto, ma neanche rifiutarlo a cuor leggero se questo appartiene, per così dire, potenzialmente alla sfera della sua evoluzione culturale […]. Nelle forme prodotte dalla cultura, lo spirito ha raggiunto un’oggettività che lo rende indipendente da tutte le casualità di una riproduzione soggettiva e, allo stesso tempo, lo mette al servizio del fine centrale di un compimento soggettivo» (CTC, 209-210). È la divisione del lavoro161 che «separa il prodotto come tale da tutti coloro che vi hanno contribuito: il prodotto permane in una condizione di oggettività indipendente che lo rende capace di inserirsi nell’ordine delle cose e di servire uno scopo singolo obiettivamente determinato. Ma con ciò gli viene a mancare quell’interiore animazione che solo l’uomo nella sua totalità può dare all’opera nella sua totalità e che rende possibile il suo inserimento nel centro spirituale [seelische Zentralität] di altri soggetti» (CTC, 210-211). Pertanto, secondo Simmel: «La grande impresa dello spirito – superare l’oggetto come tale facendosi esso stesso oggetto per ritornare a sé arricchito da questa creazione – si realizza infinite volte: ma lo spirito deve pagare questo compimento con la tragica probabilità di veder prodursi, nell’autonoma legalità che regge il mondo da lui creato, una logica e una dinamica che allontanano con crescente rapidità e con un divario sempre più ampio i contenuti della cultura (Inhalte der Kultur) dal fine della cultura (Zweck der Kultur)» (CTC, 212)162. Per Simmel, l’oggettivazione e il feticismo
161 Simmel – in particolare nella Filosofia del denaro (cfr. FD, 640-653) – riserva una considerevole rilevanza alla problematica della divisione del lavoro, da lui esplicitamente ritenuta soprattutto come “causa della discrepanza”, della separazione tra “cultura oggettiva” e “cultura soggettiva”. Al riguardo cfr. L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, unicopli, Milano 1998 pp. 88-90. 162 L’uomo moderno, dunque, vive secondo Simmel «in uno stato di profonda tensione determinato dal “predominio dell’oggetto sull’oggetto”, dal fatto che i contenuti culturali seguono una logica che non ha nulla a che fare con il loro fine culturale, dalla sensazione di “qualcosa di soffocante” che suscita l’essere circondati da una massa di oggetti» (N. Squicciarino, Il profondo della superficie, cit., p. 128) di cui non soltanto non ci si può liberare, ma che finiscono per diventare, in quanto cose superflue, mera “zavorra” (cfr. CTC, 211). Benché esposti in un contesto diverso, Simmel esprime accenni critici in questo senso nel suo saggio Berliner Gewerbe-Ausstellung (in «Die Zeit», n. 8, 1896; tr. it. di u. Hoffmann e V. Mele, Esposizione industriale berlinese, in G. Simmel, Estetica e sociologia, a cura di V. Mele, Armando, Roma 2006, pp. 78-85), che contiene una efficace descrizione della moderna fenomenologia e fantasmagoria delle merci (cfr. D. Frisby, The City Interpreted: Georg Simmel’s Metropolis, in Id., Cityscapes of Modernity. Critical Exploration, Polity, Cambridge 2001, p. 104 sg.).
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L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
della cultura materiale163 raggiungono il loro acme con il «dominio della tecnica» nella modernità164. Lo sviluppo e l’egemonia dominante della tecnica hanno condotto – come si legge nella Philosophie des Geldes – ad un predominio dei mezzi sui fini che «si riassume e culmina nel fatto che la periferia della vita, le cose che si trovano al di fuori della sua spiritualità, si sono impadronite del suo centro, di noi stessi. Certo, è vero che noi dominiamo la natura servendola, ma nel senso tradizionale è vero solo per le opere esterne della vita. Se consideriamo la totalità e la profondità della vita, quella facoltà di disporre della natura esterna che la tecnica ci procura ci costa l’asservimento ad essa e la rinuncia a porre il centro della vita nella spiritualità» (FD, 678). Nonostante la «nuance» bergsoniana165 riecheggiante in queste considerazioni, per Simmel gli «effetti perversi» del «dominio della tecnica» hanno fatto sì che le cose, gli oggetti, si siano impadroniti del centro della vita del soggetto. La tecnica, di fatto, ingabbia l’individuo piuttosto che liberarlo, consentendogli solo apparentemente un maggior grado di libertà: I fili, ai quali la tecnica aggancia le forze e gli elementi della natura nella nostra vita, sono invece altrettante catene che ci legano e che rendono indispensabili un’infinità di cose di cui si potrebbe, anzi si dovrebbe, fare a meno
163
Cfr. V. d’Anna, Il denaro e il Terzo regno, cit., pp. 79-80. Esemplare a questo riguardo è il saggio di Simmel Tendencies in German Life and Thought since 1870 pubblicato nel 1902 nella rivista «International Montly» di New York (1, pp. 93111; 5, pp. 166-184), curato e tradotto in italiano da N. Squicciarino e L. Cedroni con il titolo Tecnica e modernità nella Germania di fine ’800 (Armando, Roma 2000). In questo saggio, l’unico in cui coniuga esplicitamente «l’analisi della modernità con la realtà sociale e culturale in cui egli viveva» (N. Squicciarino, Il profondo della superficie, cit., p. 125), attraverso il filtro della propria singolare ed originalissima esperienza, Simmel «offre un quadro completo ed efficace di un importante periodo della storia tedesca […]. Egli collega […] l’analisi della modernità con la realtà politica, economica, culturale ed anche religiosa di cui è direttamente partecipe in una Berlino che proprio in quegli anni si espandeva da città a metropoli» (N. Scquicciarino, Introduzione: Georg Simmel sociologo della cultura, in G. Simmel, Tecnica e modernità nella Germania di fine ’800, cit., p. 15). 165 Sul rapporto Simmel-Bergson, cfr. P. Gorsen, Zur Phänomenologie des Bewusstseinsstroms. Bergson, Dilthey, Husserl, Simmel und die lebensphilosophischen Antinomien, Bouvier, Bonn 1966; V. d’Anna, Georg Simmel. Dalla filosofia del denaro alla filosofia della vita, vita cit., p. 128 sg.; R. Racinaro, Simmel: la vita come oggettivazione, in Id., Il futuro della memoria. Filosofia e mondo storico tra Hegel e Scheler, Guida, Napoli 1985, pp. 217-244; F. Léger, La pensée de Georg Simmel, Kimé, Paris 1989, pp. 324-328; A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., pp. 228-234; G. Fitzi, Soziale Erfahrung und Lebensphilosophie. Georg Simmels Beziehung zu Henri Bergson, uVK Verlagsgesellschaft, Konstanz 2002. Di Simmel su Bergson, cfr. G. Simmel, Henri Bergson (1914), in Zur Philosophie der Kunst. Philosophische und kunstphilosophische Aufsätze, Kipenheuer, Potsdam 1922, pp. 126-145; tr. it. di M. Protti, Henri Bergson, in «aut aut», n. 204, 1984, pp. 14-26. 164
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LA
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OGGETTO
in vista del fine essenziale della vita. Se già nel campo della produzione si riconosce che la macchina, che dovrebbe liberare l’uomo dal lavoro servile a contatto con la natura, lo ha abbassato al livello di schiavo della macchina, ciò vale a maggior ragione per i rapporti interiori più delicati e più complessi: l’affermazione che noi dominiamo la natura in quanto la serviamo ha anche il terribile significato opposto che noi la serviamo in quanto la dominiamo. È profondamente sbagliato credere che la significatività e la potenza spirituale della vita moderna sia trapassata dalla forma dell’individuo in quella delle masse; è trapassata, piuttosto, nella forma delle cose; si sfoga nell’immensa abbondanza, nella mirabile utilità, nella complicata precisione delle macchine, dei prodotti, delle organizzazioni superindividuali della cultura attuale […]. Così, il predominio dei mezzi non ha investito solo i singoli scopi, ma il luogo stesso degli scopi, il punto in cui tutti gli scopi convergono, perché, questi, nella misura in cui sono veramente scopi ultimi, possono sgorgare soltanto da esso. Così, l’uomo è allontanato, per così dire, da se stesso, tra lui e la sua parte più autentica, essenziale, si è frapposta una barriera insuperabile di strumenti, di conquiste tecniche, di capacità, di consumi (FD, 679-680).
Simmel, “anticipando” il tema della corrispondenza di irrazionalità della vita interiore e razionalità della tecnica, che sarà poi ripreso e sviluppato da Adorno e dalla Kritische Theorie nel senso di «una critica all’intellettualismo moderno»166, vede nella tecnica un mezzo di acquisizione del mondo esterno che assume «una propria autonoma realtà fino al punto di rivolgersi contro di noi»167 e che «ci si impone con la forza della sua logica ferrea. Vi è un punto in cui il massimo di razionalità si trasforma nel massimo di irrazionalità: ciò avviene quando la sfera interiore sopravanzata, quasi soffocata dalle forme obiettive dell’intelletto, si rende sfuggente. Allora un senso di insicurezza, di incertezza, in breve: di mancanza di solidità, pare caratterizzare la vita dell’uomo»168. Per il presente, in cui il predominio della tecnica significa evidentemente il prevalere della coscienza chiara e intelligente – sia come causa che come conseguenza – ho posto in rilievo come la spiritualità e il raccoglimento dell’anima, soffocati dallo splendore abbagliante dell’età tecnico-scientifica, si vendichino nella forma di un cupo senso di tensione e di nostalgia senza meta, quasi avessimo la sensazione che tutto il senso della nostra esistenza sia così lontano da non poterlo neppure localizzare e da far sì che siamo sempre in pericolo di allontanarci da esso, invece di muovere nella sua direzione – e poi, ancora, quasi sentissimo che è lì davanti ai nostri occhi, che ci basterebbe tendere la
166
V. d’Anna, Georg Simmel. Dalla filosofia del denaro alla filosofia della vita, cit., p. 82. Ibid. 168 Ibid. 167
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L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
mano per afferrarlo, se non ci mancasse sempre un minimo di coraggio, di forza o di sicurezza interiore. Credo che questa inquietudine segreta, questo impulso irresoluto sotto la soglia della coscienza, che incalza l’uomo moderno spingendolo dal socialismo a Nietzsche, da Böcklin all’Espressionismo, da Hegel a Schopenhauer, e poi di nuovo in senso inverso, non derivi soltanto dalla fretta esteriore e dal grado di eccitazione della vita moderna, ma che viceversa questa sia l’espressione, la manifestazione, lo sfogo di quello stato più intimo (FD, 680-681)169.
Il «disagio della civiltà» è il segno caratteristico dei «tempi moderni»: il soggetto ha perduto la centralità ontologica del suo essere. Lo svilimento e l’estraniazione della sua soggettiva spiritualità suscitano uno stato continuo di inquietudine e di insecuritas: la«crisi della cultura» oltre a «tragedia della cultura», diviene, ora, anche, «patologia della cultura»170. Imbonito e soverchiato dagli effetti del mondo delle merci, imbrigliato in una rete sempre più fitta di interazioni, l’individuo moderno, divenuto il luogo dell’indifferenza e della monotonia, vive – senza alcuna difesa – di una vita parossisticamente nervosa: «La mancanza di qualcosa di definitivo nel centro dell’anima spinge a cercare una soddisfazione momentanea in sempre nuovi stimoli, emozioni, attività esterne; e così essa finisce per avvolgerci in quella confusa instabilità e irresolutezza che si manifesta ora come tumulto della metropoli, ora come 169 Per Simmel, «l’uomo moderno non si riconosce più nelle proprie manifestazioni: il suo essere si sfuma in un alone di indeterminatezza. L’oggettività dell’intelletto e la soggettività del valore, per quanto autonome dal punto di vista della loro fondazione trascendentale, entrano sul terreno della realtà storica in un conflitto irresolubile per il dominio dell’esperienza, senza che fra esse sia possibile anche solo immaginare una sintesi. L’individuo avverte come insopportabili le forme obiettive della razionalità e la corrispondente organizzazione ferrea della tecnica. L’aspirazione dell’io a farsi totalità e il senso dell’oppressione che l’universo esterno gli ispira paiono convergere nell’uomo contemporaneo in un’unica situazione di vita. Nella nostra epoca si viene ad affermare l’ideale della soggettività teleologica, ed insieme prendiamo coscienza della sua impossibilità a divenire reale. La contraddizione non pare trovare una qualche possibile soluzione né sul piano empirico, né su quello logico, perché prima che storica è in un certo senso filosofica, nasce sul terreno stesso su cui Simmel pone la propria problematica. L’idea di persona che egli propone ne è la radice ultima, perché in sé presenta un’ambiguità di significati che non viene mai risolta. La soggettività personale definisce una volta il piano trascendentale su cui si costruisce il mondo dello spirito, un’altra volta l’aspirazione a ricomprendere la realtà dell’esperienza in una totalità onnicomprensiva. L’individualità nel primo caso è estranea al mondo della natura, nel secondo vi aderisce. Natura e spirito, distinti dal punto di vista trascendentale, sono indissolubilmente connessi nella realtà della vita culturale e sociale dell’uomo. Il problema è tutto nella difficoltà di dare della storia una fondazione insieme critica ed ontologica, di definirne le condizioni ideali di conoscenza e il senso reale profondo» (V. d’Anna, Georg Simmel. Dalla filosofia del denaro alla filosofia della vita, cit., pp. 83-84). 170 Cfr. D. Frisby, Georg Simmel, tr. di A. Izzo, il Mulino, Bologna 1985, p. 127.
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smania di viaggi, ora come selvaggio incalzare della concorrenza, ora come incostanza specificamente moderna dei gusti, degli stili, delle convinzioni, dei rapporti» (FD, 681). La metropoli171 è nel contempo non solo il campo privilegiato, il luogo dove si favorisce «la tendenza alla massima individualità dell’esistenza personale» (MVS, 53), ma anche la «sede elettiva»172 della tragedia della cultura, poiché nel suo contesto, storicamente, «lo sviluppo della cultura moderna si caratterizza per la preponderanza di ciò che si può chiamare lo spirito oggettivo sullo spirito soggettivo; in altre parole, nel linguaggio come nel diritto, nella tecnica della produzione come nell’arte, nella scienza come negli oggetti di uso domestico, è incorporata una quantità di spirito al cui quotidiano aumentare lo sviluppo spirituale dei soggetti può tener dietro solo in modo incompleto, e con distacco sempre crescente» (MVS, 53). Lo spirito oggettivo è la cultura oggettivata nei prodotti dell’uomo, ma è anche quella incorporata nelle realizzazioni della tecnica; lo spirito soggettivo si manifesta e si esprime nella cultura di un soggetto. La cultura dei soggetti dipende da quella “oggettiva”, ma ne è anche altra cosa: essa si dà infatti, in quanto qualità personale, solo e soltanto entro un individuo concreto. In questa “discrepanza” vissuta, in questa sproporzione fra questi due poli dello spirito, si consuma la “tragedia” della cultura moderna. Di fronte a questo scarto incolmabile nella storia universale dello spirito, Simmel constata che «la storia esteriore e interiore del nostro tempo» (ivi, 56) si svolge «nella lotta e negli intrecci mutevoli fra questi due modi di concepire il posto del soggetto all’interno della totalità» (ibid.), una lotta rivolta ad affermare «la propria unicità e inconfondibilità (Unverwechselbarkeit) all’interno di un mondo sempre più impersonale e indifferente»173. La rilevanza della metropoli quale terreno di lotta in cui si svolge la storia dell’uomo moderno è vista da Simmel proprio in correlazione con queste opposte possibilità di sviluppo dell’individuo: La funzione delle metropoli è di fornire uno spazio per il contrasto e per i tentativi di conciliazione di queste due tendenze, nella misura in cui le loro condizioni specifiche sono [...] occasione e stimolo per lo sviluppo di entrambe. Con ciò esse acquistano una posizione unica, carica di significati incalcolabili, nello sviluppo della realtà spirituale e si rivelano come una di quelle grandi formazioni storiche in cui le correnti contrapposte che abbracciano l’insieme della vita si uniscono e si dispiegano con pari dignità (MVS, 56). 171 Cfr. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, a cura di P. Jedlowski, Armando, Roma 1995 (d’ora in poi MVS). 172 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 107. 173 Ivi, p. 108.
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L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
L’atteggiamento di Simmel nei confronti dell’esperienza moderna della metropoli è dilemmatico ed ambivalente, comunque egli stesso esplicitamente dichiara che il suo compito non è quello di giudicare, ma soltanto quello di comprendere le forme della vita, dal momento che ormai «queste potenze sono intrecciate organicamente nelle radici e nelle fronde dell’intera vita storica di cui facciamo parte nell’effimera durata di una cellula» (ivi, 57). Nella scena moderna della Großstadt, il denaro come medium di comunicazione, la cancellazione monetaria delle passioni, l’espulsione del cuore e dei sentimenti dai rapporti umani e l’accrescimento delle dimensioni intellettuali della vita sociale, diventano – sotto il dominio del denaro – il perno attorno a cui ruotano i rapporti interindividuali, trasformando le relazioni e le mentalità in stili di vita razionali e mercificati: il disincantato atteggiamento del blasé e dell’homo oeconomicus diventano i “falsi” protagonisti della Metropolis, quella descritta poi da Benjamin, Döblin o Kracauer. Nella modernità, come Simmel ha saputo individuare, il denaro, il “dominio della tecnica” e la metropoli decidono irreversibilmente del destino «tragico» della soggettività e della Humanität. Di fatto, «la monetarizzazione dei rapporti di scambio, la riduzione di ogni valore a valore numerico, comporta la conversione di ogni qualità in quantità, o se si vuole di ogni qualità qualitativa in qualità quantitativa»174. Medium per antonomasia, cioè «mezzo di ogni mezzo», il denaro, simboleggia come scambiatore universale (tra merce e reificazione) la possibilità che la perfezione della tecnica ha di costituirsi come « apparato di strumenti per modificare la realtà»175. Simmel, collocandosi idealmente “tra Marx e Lukács”, ovvero tra analisi dei processi di produzione capitalistici e dei processi di reificazione universale176, non soltanto (1) non può quindi non sottolineare «lo stretto rapporto che vincola la cultura del denaro e il dominio della tecnica all’oggettivazione, quantificazione, calcolismo, spersonalizzazione, anonimia», e osserva (nella Filosofia del denaro) che, «se le cose, gli utensili, i mezzi di comunicazione, i prodotti della scienza e della tecnica appaiono estremamente “coltivati”, viceversa la cultura degli individui è regredita»177; ma (2) deve, come dimostra tutta la sua opera, “presupporre” la vita e la cultura metropolitana178. Con lo sguardo del filosofo e del sociologo della cultura, egli naturalmente si rende conto che la complessità della vita metropolitana rende difficile agli
174
A. Pinotti, Nascita della metropoli e storia della percezione: Georg Simmel, cit., p. 138. Ibid. 176 Cfr. ibid. 177 Ivi, p. 139. 178 Cfr. D. Frisby, Georg Simmel, cit., pp. 17-42. 175
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OGGETTO
1
individui vivere all’altezza dei bisogni e delle esigenze poste dallo sviluppo dell’individualismo qualitativo (o individualismo della differenza). In concreto, questo individualismo «si risolve spesso in una parodia di se stesso: i tratti dell’eccentricità e della ricerca ossessiva di segni distintivi o di novità stupefacenti, specie nei ceti più colti delle grandi città, sono caratteristici di un tentativo di costruzione di una “personalità” che tende a volte a svuotarsi di senso, a ridursi alla mera collezione arbitraria di segni esteriori»179. Se da un lato la comunicazione sociale moderna tra i soggetti si realizza sulla base di una struttura come quella intellettuale dominata dal denaro, dall’altro «è proprio l’economia monetaria e l’intellettualità che promuovono, sul piano etico, l’individualismo tipico della società contemporanea»180. Infatti, secondo Simmel, per la concezione razionalistica del mondo – che è divenuta «la scuola dell’egoismo moderno e dell’affermazione sfrenata dell’individualità» (FD, 620), nel campo pratico, non meno che in quello teoretico, l’Io è il fondamento evidente, è inevitabilmente l’interesse dominante; tutti i motivi propri dell’altruismo non appaiono altrettanto naturali e autoctoni, ma supplementari e, per così dire, innestati artificialmente. Il risultato è che l’agire in base all’interesse egoistico passa per l’agire propriamente e semplicemente «logico». Ogni forma di dedizione e ogni sacrificio sembrano derivare dalle forze irrazionali del sentimento e della volontà, tanto che gli uomini puramente intellettuali di solito ironizzano, come se fossero prove di stupidità, oppure le mascherano come la via indiretta di un egoismo nascosto. Qui l’errore consiste nel dimenticare che la volontà egoistica è pur sempre volontà, come quella altruistica, e, come questa, non può venir ricavata dal puro pensiero razionale; quest’ultimo, piuttosto […] può soltanto fornire i mezzi all’una o all’altra, è completamente indifferente al fine pratico che li sceglie e li realizza. Ma poiché l’idea del legame della pura intellettualità con l’egoismo pratico è un’idea diffusa, conterrà una parte di verità, anche se non con l’immediatezza logica che si presume, ma piuttosto per vie psicologiche indirette. Non solo l’egoismo sul piano propriamente etico, ma anche l’individualismo in campo sociale appare come il correlato necessario dell’intellettualità. Al freddo intelletto ogni collettivismo, che crea una nuova unità vitale a partire dagli individui e al di sopra di essi, sembra contenere qualcosa di mistico e di impenetrabile, dato che non lo può scomporre nella pura somma degli individui, come gli sfugge l’unità di vita dell’organismo in quanto non può interpretarla come meccanismo delle parti (ibid.).
179
P. Jedlowski, Il mondo in questione. Introduzione alla storia del pensiero sociologico, Carocci, Roma 1998, p. 114. 180 Ivi, p. 60.
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L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
L’intelletto, simmelianamente, scompone logicamente l’unità del sociale e dell’individuale perché riconosce soltanto la forza del meccanismo; tuttavia, «le componenti del meccanismo sociale complessivo sono costituite da individui, considerati tali solo in quanto supporto di quel meccanismo che è la società. Gli individui suscitati da questo meccanismo non sono tuttavia le individualità in quanto soggettività specifiche, dotate, per così dire, di una “gelosa esclusività”. Si tratta di due forme di individualità che convivono insieme nel medesimo individuo: l’una sociale, in grado di comunicare con il sociale differenziato, l’altra irriducibile alla società (individualità qualitativa), sede dei sentimenti e delle emozioni che l’intelletto non è in grado né di recepire, né di veicolare»181. Dunque, Simmel distingue esplicitamente due forme di individualismo: l’una rivolta alla propria interiorità più autentica, l’altra proiettata nel sociale, forme che convivono, non necessariamente in equilibrio fra di loro, nel singolo. Scrive infatti Simmel nel suo saggio Individualismus (1917/18): Tutto quello che noi chiamiamo individualità, sia che si presenti sotto forma di essere, di sensazione o di aspirazione risale a un comportamento non ulteriormente deducibile o a un impulso originario del quale non appare rinvenibile alcuna traccia nella natura subumana. L’individualità da una parte significa sempre un rapporto col mondo – piccolo o grande che sia, un rapporto pratico o ideale, di rifiuto o di appropriazione, di dominio o di servizio, indifferente o appassionato; d’altra parte però significa che quest’essere è un mondo a sé, centrato in se stesso, in qualche modo chiuso in se stesso e autosufficiente. L’esistenza terrena colloca in questo dualismo ogni essere spirituale, che in generale si può definire come «uno»: secondo il suo contenuto o la sua forma è qualcosa per sé, un’unità, ha un essere, un senso; contemporaneamente è una parte di una o più totalità, sta in relazione con qualcosa al di fuori di sé, con una globalità, con una totalità che lo comprende. È sempre membro e corpo, parte e tutto, compiuto e bisognoso di completamento182.
Da un punto di vista critico, simmelianamente, l’intellettualizzazione dell’individuo sismograficamente è il sintomo di «una sua integrale estraniazione da se stesso, di una alienazione di fondo, di un’impossibilità ad esprimere a se stessi ed agli altri la propria interiorità»183. Tale estraniazione dell’individuo da se stesso è la risultante non solo degli “effetti perversi” del denaro, ma anche di altri più complessi processi e fenomeni che segnano lo 181
F.S. Ghisu, Georg Simmel. L’ideologia dell’individualità, CELT, Cagliari 1991, pp. 60-61. G. Simmel, L’individualismo, in Id., Forme dell’individualismo, tr. it. a cura di F. Andolfi, Armando, Roma 2001, pp. 74-75. 183 F.S. Ghisu, Georg Simmel, cit., p. 61. 182
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OGGETTO
scenario moderno: dalla divisione del lavoro sino alla pervasività della tecnica, che peculiarmente connotano la condizione individuale e sociale nella modernità. Il denaro, mezzo invasivo di razionalizzazione sociale, non solo ristruttura, modella e misura su base oggettiva la morfologia delle relazioni sociali, ma decreta ineludibilmente il trionfo del mezzo sul fine. Poiché il denaro stesso è un mezzo, dovunque e per qualsiasi cosa, i contenuti dell’esistenza vengono posti in una immensa connessione teleologica, nella quale nessun contenuto è il primo e nessuno è l’ultimo. Poiché il denaro misura tutte le cose con spietata oggettività e poiché la misura del loro valore, che viene così stabilita, determina i loro legami, ne risulta un intreccio di contenuti di vita oggettivi e personali che si avvicina al cosmo regolato dalle leggi naturali in virtù della possibilità di postulare una connessione ininterrotta e una rigida causalità […]. Come i sentimenti sono divenuti irrilevanti nella comprensione della natura e sono stati sostituiti dalla sola intelligenza oggettiva, così gli oggetti e i collegamenti del nostro mondo pratico, formando un numero sempre maggiore di serie collegate, eliminano le interferenze del sentimento, i cui interventi sono possibili soltanto nei punti finali di natura teleologica […]. Questo rapporto tra il significato dell’intelletto e il significato del denaro per la vita permette di determinare le epoche o i campi d’interesse dove dominano entrambi innanzitutto in negativo nel senso di una certa assenza di carattere (FD, 609-610).
Se l’economia monetaria moderna consente l’acquisizione di margini di libertà individuale, parimenti segna la perdita di alcuni dei suoi contenuti. L’intellettualizzazione dissolve l’intelletto e la sua libertà: «ogni possibilità di unificazione della coscienza di sé e di conoscere l’oggetto si dissolve»184, nella realtà razionalizzata e dominata dal puro calcolo monetario, perché il denaro esprime tutte le differenze qualitative delle cose in termini quantitativi e il movimento delle forme detta la propria logica ai mondi vitali: in questi scenari dominati dalla figura dell’Homo eligens, ovvero dell’uomo che sceglie su ordine della società dei consumatori185, secondo Simmel, le cose sembrano galleggiare «con lo stesso peso specifico dell’inarrestabile corrente del denaro», e «si situano tutte sullo stesso piano, differenziandosi unicamente per la superficie che ne ricoprono» (MVS, 43).
184
G. Guarnieri, La crisi del monismo gnoseologico e del normativismo etico nella sociologia di Georg Simmel, in AA.VV., Abitare la società. Etica e sociologia, a cura di G. Guarnieri, FrancoAngeli, Milano 2000, p. 161. 185 Cfr. Z. Bauman, L’etica in un mondo di consumatori, tr. it. di F. Galimberti, Laterza, RomaBari 2010, p. 132.
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2. “Prima delle cose ultime”: stare nella frattura Traiettorie dell’esistenza: sfere e disseminazioni comunicative dell’esperienza quotidiana
È ormai opinio recepta che la quotidianità si trovi da tempo al centro di una vasta molteplicità di interessi scientifici, teorici, politici ed estetici di natura assai diversa, così come altrettanto numerosi sono «i tentativi di precisarne gli elementi costitutivi e di attenuare gli aspetti ambivalenti, sfuggenti e fortemente contraddittori che caratterizzano le sue tante possibili definizioni»1. Di fatto, proprio per il suo carattere “elusivo”2, la quotidianità «rifiuta qualsiasi tentativo di essere rinchiusa entro i confini disciplinari rigidi e resiste ad ogni tentativo di acquisire connotati definitivi; è al tempo stesso misteriosa e sfuggente, ma anche assai riconoscibile e familiare»3. Del quotidiano, come «la cosa più difficile da scoprire», che «ci invade e sommerge», che «non riusciamo mai a possedere, e di cui siamo perennemente privi per via della su inafferrabilità»4, Maurice Blanchot diceva – come ci ricorda Di Cori – che «è l’inaccessibile al quale abbiamo già da sempre avuto accesso»5.
2.1. Ontologie e forme dell’agire umano quotidiano Sin dal primo Novecento la dimensione quotidiana dell’esistenza è stata fatta oggetto di analisi e di rappresentazione nei diversi campi del sapere,
1
P. Di Cori, �uotidiano & Co., in AA.VV., Tra ordinario e straordinario: modernità e vita quotidiana, a cura di P. Di Cori e C. Pontecorvo, Carocci, Roma 2007, p. 7. 2 Cfr. R. Felski, L’invenzione della quotidianità, in «Nuova Corrente», n. 50, 2003, pp. 135170. 3 P. Di Cori, �uotidiano & Co., cit., p. 10. 4 Ibid. 5 M. Blanchot, La parola quotidiana, in Id., L’infinito intrattenimento. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», tr. it. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 1977, p. 330.
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ed è all’interno di questo orizzonte problematico di interrogazione che con diffusa consapevolezza critica è stato ampiamente riconosciuto a Simmel il fatto di essere considerato – tra l’altro – anche «il nume tutelare della sociologia della vita quotidiana»6. La zona della società, della vita dei soggetti e degli oggetti che intrama i fili della sua originale riflessione è quella che si trova «prima delle cose ultime», quelle che solo apparentemente sembrano «le ultime e più insignificanti cose», ma dalle quali invece egli sa trarre degli elementi preziosi per «raccontarci» il senso e l’enigma delle più variegate disseminazioni comunicative che connotano l’esperienza quotidiana nella modernità7. Simmel, con lo sguardo del “filosofo della cultura” che vuole penetrare il mondo affascinante ed ineffabile dell’interazione e della compenetrazione dei diversi ordini di fenomeni che producono l’insieme dinamico della fitta rete di relazioni reciproche e che danno vita alla realtà sociale, è stato il primo sociologo della modernità «a prendere sul serio le banalità ed i piccoli dettagli dell’esistenza pratica quotidiana, considerati ai suoi tempi troppo volgari, insulsi e “non sociologici” per ricevere l’attenzione degli scienziati sociali»8. Eppure, proprio la pervasività di tali «dettagli minuti», interpretati originalmente con “sensibilità sismografica” da Simmel, «si sono rivelati altamente significativi» sul piano microsociologico ai fini della comprensione della realtà sociale complessiva, al pari se non maggiormente dei grandi fattori “macro” che segnano le dinamiche sociali contemporanee. Se Simmel è riuscito a cogliere ed interpretare «ciò che è dato per scontato e passa inosservato» nella vita quotidiana, è perché egli ha dimostrato di possedere «una speciale sensibilità nel “vedere” quello che gli altri non vedono», o perché non riconoscono l’importanza delle piccole cose, delle microrelazio6 P. Jedlowski, Sociologia e vita quotidiana in Italia: uno sguardo d’insieme, in P. Jedlowski, C. Leccardi, Sociologia della vita quotidiana, il Mulino, Bologna 2003, p. 33. Con efficace sintesi sempre Jedlowski ha scritto: «Attraverso lo sguardo di Simmel, la vita quotidiana appare soprattutto come la dimensione dell’esistenza in cui gli elementi oggettivi e soggettivi della vita sociale si fondono nel dar forma all’esperienza degli individui. In altri termini, appare il luogo in cui si fa più evidente che mai il modo in cui, sottilmente, gli assetti del mondo che ci circonda penetrano in ciascuno di noi, e in cui le forme della nostra sensibilità o dei nostri atteggiamenti nei confronti della vita, altrettanto sottilmente, penetrano nelle cose stesse» (P. Jedlowski, Sociologia della vita quotidiana, in Id., Fogli nella valigia. Sociologia, cultura e vita quotidiana, il Mulino, Bologna 2003, pp. 181-182). 7 Cfr. D. Borrelli, La vita quotidiana come disseminazione, in AA.VV., Tra ordinario e straordinario: modernità e vita quotidiana, cit., p. 19. Dello stesso autore su Simmel, cfr. Id., Pensare i media. I classici delle scienze sociali e la comunicazione, Carocci, Roma 2010, pp. 27-43. 8 M. Picchio, Simmel e Weber: “differenti affinità”. Modernità, identità soggettiva e quotidianità, in A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, QuattroVenti, urbino 2005, p. 132.
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ni che soggettivamente oggettivano i tempi e le forme tipizzate dell’agire quotidiano nella modernità. Nella prospettiva sociologica simmeliana, com’è noto, il termine Vergesellschaftung indica il complesso processo di consolidamento nel tempo delle diverse forme della reciprocità che permea anche in modo poco “appariscente” la vita quotidiana e che consolida nel tempo la società come infinito processo plurindividuale di sociazione. In estrema sintesi, simmelianamente, «la vita è sia un flusso dinamico sia una produzione di forme in cui questo fluire si fissa. Si tratta di forme di relazione, istituzioni, simboli, idee, prodotti della vita economica, opere artistiche e tutto ciò che si definisce “cultura”, sia nel suo aspetto materiale sia in quello linguistico espressivo. In ciascuna di queste manifestazioni la vita si esprime, ma si rapprende: la loro oggettività è un prodotto della vita, ma contemporaneamente si contrappone al carattere fluido della vita stessa. La vita scavalca le forme, eppure solo in forme di volta in volta determinate essa può essere colta. Da questa contraddizione emerge “la tragedia” della vita moderna in cui la vita stessa non può essere compresa che sulla base di simboli, categorie o raffigurazioni, nella misura in cui costituiscono una fissazione della vita stessa, le si contrappongono inevitabilmente o la riducono. Attraverso le forme, espressioni di vita, avviene la comprensione del mondo, che tuttavia rimane riduttiva, perché è impossibile un sapere completamente esaustivo. Ogni pensiero dà al mondo una forma, ma la vita eccede ogni forma e la oltrepassa incessantemente»9. Di fatto, poi, lo stabilizzarsi della forma crea l’ovvio, il comune, in altre parole la quotidianità. La “sensibilità” che consente a Simmel di individuare nella frammentarietà e nell’infinita complessità dei rapporti di reciprocità «l’essenza del moderno»10, traduce emblematicamente il suo profondo interesse «per le forme d’interazione più fluide e fugaci, apparentemente superficiali o frivole»11, che conformano la vita quotidiana moderna e caratterizzano peculiarmente fenomeni quali la moda, la civetteria, l’erotismo, il pudore, la socievolezza, la conversazione, il gioco, la gratitudine, l’ornamento, l’amicizia, le emozioni, il segreto, la fiducia, la fede. Tuttavia, egli, nell’analizzare queste «trame tenui e precarie della vita sociale» non ha mai perso la lucida consapevolezza relativa alla corposità delle istituzioni e della “pesantezza autoconservatrice” delle forme sociali, così come non ha mai trascurato d’analizzare uno dei 9 M. Tramonti, La forma del quotidiano: note su Georg Simmel e Paul F. Lazarsfeld, in M. Ghisleni (a cura di), Teoria sociale e vita quotidiana, in «Teoria sociale», n. 4, 2004, p. 88. 10 M. Picchio, Simmel e Weber: “differenti affinità”, cit., p. 133. 11 Ibid.
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tratti salienti delle dinamiche che contraddittoriamente segnano l’avventura dell’individualità moderna: ovvero, «la salvaguardia dell’identità soggettiva “differenziale” e della possibilità di sviluppare il proprio progetto interiore»12. In particolare, l’analisi simmeliana della moda13 mostra come questo fenomeno sociale sia inteso nella percezione comune «come quanto di più frivolo, esteriore, volubile e fugace possa esistere e che nondimeno condiziona la vita giornaliera di milioni di persone ed arriva ad imprimere un tratto visivo, d’immagine ad intere epoche […]. Partendo da una “fenomenologia” della moda, da aspetti riscontrabili e osservabili nella quotidianità della vita (descrivendo ad esempio come è vissuta dalle diverse classi sociali, dalle donne diversamente che dagli uomini, come i vestiti nuovi condizionano i nostri comportamenti, come chi è alla moda susciti una particolare sfumatura d’invidia in chi non lo è), Simmel riesce a metterne in luce le caratteristiche strutturali e permanenti, nonché la complessità»14, non trascurando di soffermarsi «ora sul rapporto individuo/società che ha luogo in essa, ora sui vantaggi e sugli svantaggi che essa comporta, di volta in volta, per l’affermazione dell’individuo e per lo sviluppo complessivo della sua personalità all’interno della società»15.
2.2. Il fascino del confine, della novità e della caducità: la moda La dialettica imitazione/differenziazione. Denaro, merce, esteriorità della vita e ornamento individuale della personalità tra inclusione ed esclusione. Queste sono alcune delle tematiche su cui intendo soffermarmi per comprendere la diagnosi simmeliana del fenomeno sociale della moda. L’incipit del saggio simmeliano Die Mode16 non soltanto stupisce ancora il lettore 12
Ibid. Cfr. G. Simmel, La moda, a cura di L. Perucchi, con uno scritto di G. Lukács, Mondadori, Milano 1998 (d’ora in poi M). 14 M. Picchio, Simmel e Weber: “differenti affinità”, cit., p. 134. 15 C. Portioli, Georg Simmel e l’individuale nell’arte, nella cultura e nella società, in A. De Simone (a cura di), Leggere Simmel. Itinerari filosofici, sociologici ed estetici, cit., p. 151. 16 Secondo L. Perucchi, Simmel e la moda (in G. Simmel, La moda, cit., pp. 77-78), il saggio di Simmel sulla moda è uno dei suoi scritti più belli, forse il suo capolavoro, «perché all’interno di una produzione saggistica magistrale si distingue per organicità, chiarezza e compiutezza: affronta un problema specifico, di grande fascino, e giunge a specifiche conclusioni, senza che per questo alcuni temi “classici” generali della filosofia: soggettività ed oggettività, libertà e necessità, essere e divenire, sostanza e funzione, vengano ignorati […]. In questo saggio l’analisi finissima che caratterizza lo stile simmeliano si fa discorso serrato e conseguente. Pur 13
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contemporaneo per la sua pregnante ed originale, anche se “storicamente” collocata, curvatura teoretica, ma anche perché l’analisi perspicace e succinta del mondo della moda svolta da Simmel dimostra sin dall’inizio che essa «non rappresenta solo un contributo esotico alla sociologia dell’estetica, ma contribuisce anche alla teoria generale dell’azione sociale o più precisamente, alla teoria dei processi di Eigendynamik, processi autonomi di interazione sociale»17, processi che «creano da sé il proprio impulso derivandolo dall’ambivalenza che caratterizza gli interessi, le intenzioni e gli orientamenti degli attori sociali e che a loro volta riproducono, moltiplicano e amplificano tale ambivalenza»18. Leggiamolo qui di seguito nella sua interezza:
inserendosi in un’area particolare di riflessione e di ricerca, si articola in base alle categorie fondamentali di tutto il suo pensiero: vita, forma e azione reciproca (Wechselwirkung), testimoniando della profonda coerenza di una teoresi che […] attraverso ambiti disciplinari diversi comprendenti la filosofia della storia, le scienze sociali, l’estetica e la metafisica, muove dal relazionismo della filosofia del denaro alla dialettica non conciliata della filosofia della vita. Allo stesso tempo ci offre una fenomenologia della modernità da cui è difficile prescindere». Die Mode apparve nel 1911, all’interno della raccolta di saggi simmeliani Philosophische Kultur, nella sezione significativamente dedicata alla «psicologia filosofica». Ma, come è tipico di tanti altri scritti importanti di Simmel, specifica Perucchi (Simmel e la moda, cit., pp. 79-81), «anche questo ha una storia, nasce da un lungo processo di elaborazione (sedici anni). Due redazioni lo precedono. La prima risale al 12 ottobre 1895 (l’anno delle Regole del metodo sociologico di Durkheim), quando in “Die Zeit”, settimanale viennese di politica, economia, scienza ed arte, il filosofo, che amava scrivere sui giornali e collaborò anche alla rivista illuStudie studio strata dello Jugendstil monacense, pubblica Zur Psychologie der Mode. Soziologische Studie, sociologico e psicologico al tempo stesso, dunque, che realizza, insieme ad altri dello stesso anno, il rivoluzionario programma di sociologia […] annunciato in Das Problem der Soziologie (1894), in cui nutriva tante speranze. Sebbene assai più breve (il numero delle pagine è di almeno due terzi inferiore a quello presente in Die Mode) ne affronta i temi principali e svolge in modo essenziale l’argomentazione delle due redazioni successive […]. La seconda redazione del saggio, più ricca di argomenti, ma soprattutto di esempi storici e sociali, esce nel 1905, reca il titolo Philosophie der Mode, consiste in un volumetto di 41 pagine, edito dal Pan Verlag. un estratto di questa breve monografia apparve nel 1908 in “Das Magazin”, mensile di letteratura, musica, arte e cultura, con il titolo Die Frau und die Mode (La donna e la moda); vale la pena ricordarlo anche perché Simmel, che fu tra i primi ad ammettere le donne come uditrici alle lezioni universitarie, si interessò al femminismo e alla “cultura femminile”, esprimendosi con grande intelligenza ed equilibrio su questi temi in scritti di interesse ancora vivo e attuale. Tra la stesura del 1905 e quella del 1911 […] le differenze sono minime, muta qualche tonalità espressiva, il testo si arricchisce di sfumature, si precisano e si fanno più incisivi alcuni concetti […]. Il discorso resta però a grandi linee quello del 1895, dove la moda aveva trovato già la sua definizione». 17 B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XXX, n. 4, 1989, p. 570. 18 A.R. Calabrò, Georg Simmel: la sociologia dell’ambivalenza, in Id., L’ambivalenza come risorsa, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 55.
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Il modo in cui ci è dato comprendere i fenomeni della vita ci fa avvertire in ogni punto dell’esistenza una pluralità di forze; sentiamo che ognuna di esse aspira a superare il fenomeno reale, limita la sua infinità in rapporto all’altra e la trasforma in pura tensione e in desiderio. In ogni fare, anche nel più creativo e fecondo, sentiamo che qualcosa non è ancora giunto a completa espressione. Mentre ciò avviene con la limitazione reciproca degli elementi opposti, l’unità della totalità della vita si rivela proprio nel loro dualismo. E solo nella misura in cui ogni energia interna preme oltre il limite della sua manifestazione visibile, la vita acquista quella ricchezza di possibilità inesauribili che integra la sua realtà frammentaria; solo così i suoi fenomeni fanno presentire forze più profonde, tensioni più irrisolte, una lotta e un accordo di proporzioni più ampie di quanto riveli la loro realtà immediatamente data. Questo dualismo non può essere descritto immediatamente, ma può essere sentito solo nelle sue singole opposizioni, tipiche della nostra esistenza, come il loro principio formale ultimo. La prima indicazione ci viene dalla fisiologia della nostra natura, che ha bisogno di movimento e di quiete, di produttività e di ricettività. Anche nella vita dello spirito siamo dominati in parte dall’aspirazione all’universale, in parte avvertiamo la necessità di cogliere il particolare: se il primo dà al nostro spirito la quiete, il secondo lo costringe a percorrere tutti i singoli casi. Non diversamente, nella vita del sentimento, cerchiamo la quieta sottomissione a uomini e cose non meno dell’energica autoaffermazione nei confronti di entrambi. Tutta la storia della società si svolge nella lotta, nel compromesso, nelle conciliazioni lentamente conquistate e rapidamente perdute che intervengono fra la fusione con il nostro gruppo e il distinguersene individualmente. Filosoficamente, l’oscillazione della nostra anima tra questi poli può prendere corpo nel contrasto fra la dottrina dell’unità del tutto e il dogma dell’incomparabilità, dell’essere-per-sé di ogni elemento del mondo. Anche a livello pratico, nella lotta di partiti opposti come il socialismo e l’individualismo, si tratta sempre della medesima forma fondamentale di dualismo, che nel campo della biologia si rivela infine come contrasto di ereditarietà e di variabilità. La prima è esponente dell’universale, dell’unità, dell’uguaglianza placata di forma e contenuto, la seconda genera la mobilità, la molteplicità di elementi separati, l’inquieta evoluzione da un contenuto di vita individuale ad un altro. Ogni forma essenziale di vita nella storia della nostra specie rappresenta nel proprio ambito un modo particolare di unire l’interesse alla durata, all’unità, all’uguaglianza con la tendenza al cambiamento, al particolare, al caso unico (M, 11-13).
Tensione e desiderio, lotta e compromesso, movimento e quiete, produttività e ricettività, universale e particolare, uguaglianza e distinzione sociale, questi e altri ancora sono i poli caratteristici che contraddistinguono secondo Simmel la condizione umana moderna, che nel saggio sulla moda paradigmaticamente vengono interpretati e decifrati presupponendo implicitamente la scena principale della modernità, la vita metropolitana, e il suo dominio,
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il mercato19. In effetti, si è già detto, Simmel si rende conto che nella vita urbana moderna è difficile per gli individui vivere all’altezza delle esigenze poste dall’individualismo qualitativo20. In generale (i), Simmel interpreta il fenomeno sociale della moda come forma dell’interazione sociale che contiene al suo interno dinamiche socioculturali e processi di scambio di “ambivalenze” reciproche che coinvolgono gli attori sociali. Nell’interazione sociale, «i soggetti tentano di soddisfare i bisogni di riposo e movimento, integrazione ed isolamento, opposizione ed obbedienza, libertà ed obbligo. Nella loro ambivalenza, essi scatenano processi che originano da sé il proprio impulso e continuano all’infinito, dato che la struttura dei bisogni è ambivalente e per definizione irrisolvibile. Ed è proprio in questo processo di scambio di ambivalenti orientamenti all’azione che insorgono gli ingredienti che danno origine alla sua qualità sociale»21. Ancora. Simmel affronta il fenomeno sociale della moda intendendola «tanto come stile di vestire quanto come moda nel linguaggio, nell’arte, in tutte le aree della cultura, della politica o della religione»22, di conseguenza, quale che sia la moda in questione, gli attori sociali entrano in un conflitto fondamentale fra diversi modi di agire: «da una parte, si sentono trasportati dal bisogno di imitare e, dall’altra, avvertono il bisogno di differenziarsi dagli altri»23. Come scrive Simmel: Nella personificazione sociale di questi contrasti un lato di essi è rappresentato dalla tendenza psicologica all’imitazione. L’imitazione si potrebbe definire come un’ereditarietà psicologica, come il trasferimento della vita di gruppo nella vita individuale. Il suo fascino sta nel rendere possibile un agire finalizzato e dotato di senso senza che entri in scena nessun elemento personale e creativo. La si potrebbe definire figlia del pensiero e dell’assenza di pensiero. Dà all’individuo la sicurezza di non essere solo nelle sue azioni e si libra sull’esercizio della medesima attività svolto finora come su di una 19
Cfr. A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 119. In particolare, secondo Simmel, la natura stessa della città rafforza ed accelera il processo di costante mutamento della moda. In quanto specifico spazio conflittuale che amplifica l’ambivalenza tra la spinta al livellamento e quella all’individuazione, tra vicinanza e lontananza, la città «rende la moda un utile escamotage che consente all’individuo che si uniforma ad essa, di nascondersi agli altri salvando così la propria individualità. In tal modo la moda dimostra la sua capacità “di generare da sé i propri movimenti secondari”. In altre parole la circolarità e l’autonomia dei processi di interazione sociale, processi eigendynamik, appunto» (A.R. Calabrò, Georg Simmel: la sociologia dell’ambivalenza, cit., p. 57). 21 B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, cit., p. 572. 22 Ivi, p. 573. 23 Ibid. 20
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solida piattaforma che libera l’attività attuale dalla difficoltà di sostenersi da sola. Ci concede in campo pratico la stessa peculiare serenità che ci procura in campo teoretico l’aver ordinato un singolo fenomeno in un concetto generale. Nell’imitare non solo trasferiamo da noi agli altri l’esigenza di energia produttiva, ma anche la responsabilità dell’azione compiuta. L’individuo si libera dal tormento della scelta e la fa apparire come un prodotto del gruppo, come un recipiente di contenuti sociali. L’impulso a imitare, come principio, caratterizza un grado di sviluppo nel quale è vivo il desiderio di un’attività personale finalizzata, ma non c’è la capacità di conquistare dei contenuti individuali per quest’attività o di ricavarli da essa. Il progresso al di là di questo grado avviene quando il futuro determina il pensare, l’agire e il sentire al di fuori di ciò che è dato, passato o tramandato: l’uomo teleologico è il polo opposto dell’uomo che imita. Così, in tutti i fenomeni di cui è un fattore costitutivo, l’imitazione corrisponde a una delle tendenze fondamentali della nostra natura, a quella che si esprime fondendo il singolo nell’universale, che accentua l’elemento stabile nel cambiamento. Quando invece si cerca il cambiamento nell’elemento stabile, la differenziazione individuale, il distinguersi dalla generalità, l’imitazione è il principio negatore e contrario (M, 13-15).
Simmel considera la vita sociale come un «campo di battaglia dove ogni palmo di terreno viene conteso e le istituzioni sociali appariranno come quelle conciliazioni di breve durata nelle quali l’antagonismo dei principi, pur continuando ad agire, ha assunto la forma esteriore di una cooperazione» (ivi, 15). Nella moda, dunque, si manifesta esplicitamente la “compenetrazione” in un unico fenomeno di due spinte di per sé contraddittorie: la distinzione e l’imitazione. «La prima tendenza esprime l’esigenza di differenziarsi, di affermare la nostra “singolarità” rispetto agli altri; la seconda esprime il bisogno di affermare la nostra partecipazione ad una cerchia sociale che riconosciamo autorevole in fatto di stile. Nella decisione di seguire una moda il singolo afferma la propria volontà di distinguersi da tutti coloro che non la seguono; ma, nello stesso momento, afferma anche quella di assomigliare a coloro che ne sono i rappresentanti»24.
I due poli dell’imitazione e della differenziazione individuale caratterizzano il fenomeno sociale della moda connettendosi direttamente a determinati tipi di azione sociale “ambivalente”: Se gli individui adattano continuamente il proprio comportamento per essere in armonia con il primo polo della loro ambivalenza, e in tal modo optano a favore dell’imitazione, si lasciano guidare dal desiderio di conformismo
24
P. Jedlowski, Il mondo in questione, cit., pp. 114-115.
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sociale. Quando i soggetti scimmiottano il comportamento degli altri, si presentano come «un prodotto del gruppo», come «un recipiente di contenuti sociali». L’imitazione non consiste necessariamente solo nel copiare i modelli di comportamento degli altri in modo puramente meccanico. Essa è Wechselwirkung e perciò può venire descritta come azione sociale nel senso weberiano del termine, nella misura in cui gli attori sono orientati l’uno verso l’altro. Proprio imitando le azioni degli altri, l’individuo può scegliere di diventare parte del gruppo sociale e così liberarsi del peso di agire come singolo. In tal modo non ha più bisogno di farsi carico di una responsabilità personale riguardo al corso d’azioni prescelto e alle sue conseguenze, e può invece condividerla con il gruppo […]. Se gli attori sociali sono sospinti verso il secondo polo della loro ambivalenza, la differenziazione individuale (o innovazione), è perché si lasciano influenzare dal bisogno di distinguersi dagli altri e di diventare qualcosa di speciale, particolarmente insolito e unico. In tal modo essi tentano di definire più nettamente la loro identità oppure di rafforzare la propria autoimmagine, e in tal modo esprimono un forte bisogno di collocarsi a distanza dal gruppo. Il fatto che l’individuo sia sospinto in direzione di ambedue questi poli d’ambivalenza influenza il mondo della moda in due modi diametralmente opposti. La tendenza verso il polo dell’imitazione comporta naturalmente la proliferazione di determinate mode; la tendenza verso il polo delle differenziazione limita la diffusione di una particolare moda e accelera il ritmo dei cambiamenti della moda. Due orientamenti all’azione radicalmente diversi conducono a due distinte tendenze sociali. L’imitazione conduce ad un’ulteriore diffusione della moda, mentre l’innovazione conduce alla contrazione25.
In particolare (ii), Simmel analizza il fenomeno della moda non soltanto quale esclusivo aspetto psicologico della vita sociale moderna, ma soprattutto come “dispositivo sociale” strettamente collegato alla razionalizzazione della produzione, che viene a determinarsi in seguito o in virtù di una specifica “perdita di contatto” con il reale. Nel contesto dell’analisi simmeliana, «la divisione in classi, l’organizzazione razionale del lavoro, il problema della libertà interiore e dell’espressione dell’individualità in un mondo che la nega, trovano nel fenomeno della moda uno spazio di combinazioni e influssi reciproci»26. La moda, simmelianamente, in quanto struttura complessa, è cifra emblematica dei principali elementi della vita moderna. Questo suo ruolo funzionale e fondamentale all’interno della società moderna «è motivato dal fatto che in essa sono determinanti schemi soggettivi, forme di comportamento, valori e significati che permettono di piegare esteriormente 25
B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, cit., pp. 573-574. 26 L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 107.
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le cose a esigenze diverse, di combinare influssi reciproci molteplici senza guadagnare alcun dominio effettivo su di esse, bensì intervenendo soltanto sulla loro immagine illusoria e illusionistica»27. Nel fenomeno sociale della moda Simmel identifica quelle dinamiche socio-culturali che hanno precipuamente lo scopo di aiutare coloro che non riescono ad affrontare autonomamente la condizione moderna: «in questa, infatti, la recisione dei contatti primari implica l’assunzione in prima persona della responsabilità dei propri comportamenti e quindi una capacità di direzione ed orientamento, che risultava già di non facile attuazione in contesti sociali più semplici»28. Il soggetto moderno incontra sempre maggiori difficoltà nell’impostare una strategia vitale di medio-lungo periodo che sia capace di determinare armonicamente la propria socialità: come scrive Simmel, «la moda è il campo specifico degli individui che non sono intimamente indipendenti e che hanno bisogno di un sostegno» (M, 34). Nella modernità, il contesto oggettivo-culturale ha raggiunto livelli di complessità tali che restringono le potenzialità e le possibilità dell’azione individuale autonoma: la “tragedia della cultura” si è oggettivamente e soggettivamente consumata. Tuttavia, i paradossi della modernità trovano una loro possibile soluzione «nella constatazione che chi non è in grado di gestirsi può adottare atteggiamenti e modelli di comportamento preconfezionati, che sono a sua disposizione ed ai quali può attingere liberamente in ogni momento di impasse: questo arsenale viene comunemente denominato moda»29. La moda supplisce, con le sue funzioni, alle esigenze del singolo in due modi che, apparentemente contraddittori, si rivelano invece correlati e complementari. Essa, come scrive Simmel, significa da un lato coesione di quanti si trovano allo stesso livello sociale, unità di una cerchia sociale da essa caratterizzata, dall’altro chiusura di questo gruppo nei confronti dei gradi sociali inferiori e loro caratterizzazione mediante la non appartenenza ad esso. Separare e collegare sono le due funzioni fondamentali che qui si uniscono indissolubilmente: ognuna di esse, benché o perché costituisce l’opposizione logica all’altra, è condizione della sua realizzazione (M, 17).
La definizione simmeliana generale della moda mette in evidenza nella condizione umana moderna l’esistenza di un bisogno nel contempo reale e difficile da soddisfare e di una duplice funzione antinomica. Sintetizzando: 27
Ibid. F. D’Andrea, Soggettività e dinamiche culturali in Georg Simmel, cit., p. 22. 29 Ibid. 28
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“PRIMA
DELLE COSE uLTIME”: STARE NELLA FRATTuRA
«La moda adempie ad un tempo al bisogno di variazione e di permanenza dell’uomo, di generalità e di particolarità, di attività e passività, di creazione e imitazione. Essa è una forma in cui i dualismi più tipici (universale/particolare, individuo/società) trovano un paradossale quanto precario punto d’incontro. La moda è imitazione di un modello e sotto questo aspetto soddisfa il bisogno di un’attività personale finalizzata. Al contempo, essa esonera il singolo dall’assunzione di una responsabilità, in quanto lo esime dalla necessità di far entrare in gioco alcunché di individuale e di creativo: nell’imitazione la responsabilità viene trasferita sul collettivo, sul gruppo. L’individuo che imita è riempito di contenuti che non sono personali, ma appartengono alla massa, il suo comportamento è un esempio di comportamento generale. D’altra parte, la moda soddisfa il bisogno di distinguersi, di variare. Sotto questo punto di vista, essa è l’emblema del mutamento, nonché della distinzione»30. Per Simmel la ricchezza e la variabilità dei contenuti della moda esprimono, storicamente e sociologicamente, la sua forte connotazione classista e di ceto: Le condizioni di vita della moda sono definite come quelle di un fenomeno generale nella storia della nostra specie. La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni singolo un mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi. Se da un lato questo risultato le è possibile con il cambiamento dei contenuti che caratterizza in modo individuale la moda di oggi nei confronti di quella di ieri e di quella di domani, la ragione fondamentale della sua efficacia è che le mode sono sempre mode di classe, che le mode della classe più elevata si distinguono da quelle della classe inferiore e vengono abbandonate nel momento in cui quest’ultima comincia a farle proprie. Così la moda non è altro che una delle tante forme di vita con le quali la tendenza all’eguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale e alla variazione si congiungono in un fare unitario. Se si esamina la storia della moda, che finora è stata trattata soltanto in rapporto allo sviluppo dei suoi contenuti, secondo la sua importanza per la forma del processo sociale, essa si rivela come la storia dei tentativi di adeguare sempre di più l’appagamento di queste due opposte tendenze al contemporaneo livello della cultura individuale e sociale […]. La moda è un prodotto della divisione in classi e ha la stessa struttura di molte altre formazioni (M, 15-16).
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L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 107.
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L’INQuIETO
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Le diverse classi sociali si comportano in modo differenziato nei confronti della moda: le classi inferiori reagiscono all’introduzione di un nuovo stile da parte delle classi superiori imitandolo; viceversa, le classi superiori reagiscono a loro volta mutando stile. Ancora una volta, però, «i fedeli adepti della moda sono costretti a ripetere un ritornello senza fine, spostandosi costantemente tra i due poli gemelli dell’imitazione e dell’innovazione. Questa stimolazione circolare tra imitazione e innovazione mette in moto il carosello della moda»31. Riprendendo le parole di Simmel: Se le forme sociali, i vestiti, i giudizi estetici, tutto lo stile in cui l’uomo si esprime, si trasformano continuamente attraverso la moda, allora la moda, cioè la nuova moda, appartiene soltanto alle classi sociali superiori. Non appena le classi inferiori cominciano ad appropriarsene superando i confini imposti dalle classi superiori e spezzando l’unità della loro reciproca appartenenza così simbolizzata, le classi superiori si volgono da questa moda ad un’altra, con la quale si differenziano nuovamente dalle grandi masse e il gioco può ricominciare. Le classi inferiori infatti guardano in alto ed aspirano ad elevarsi. Questo è loro possibile soprattutto nell’ambito della moda in quanto è il più accessibile ad un’imitazione esteriore (M, 20-21).
Questo appena descritto da Simmel è il modello di «un processo verticale di scambio tra i membri di classi diverse»32: praticando una relazione verso il mondo esterno «essi regolano la loro condotta in relazione al polo opposto dell’ambivalenza e lottano continuamente per conservare questa ambivalenza nell’orientamento delle loro azioni durante il processo di scambio»33. Tuttavia, questo stesso modello ermeneutico del processo di scambio è incompleto se non si considera anche «qual è il polo di ambivalenza verso cui i membri di una particolare classe si orientano nelle loro relazioni all’interno del gruppo»34. Simmel ha osservato che lo stesso processo si svolge all’interno degli strati delle classi più elevate della società, anche se si può distinguere meno da quello che si verifica tra gruppi sociali diversi. Di fatto, come commenta Nedelmann: I membri della classe superiore regolano le loro relazioni esterne in rapporto al polo dell’innovazione. Tuttavia, per quanto riguarda la sfera delle relazioni all’interno del gruppo, essi regolano le relazioni reciproche in rapporto al polo
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B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, cit., p. 574. 32 Ibid. 33 Ivi, pp. 574-575. 34 Ivi, p. 575.
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dell’imitazione. Potremmo spingere oltre la tesi di Simmel e ipotizzare che nel caso della classe inferiore, la posizione sia esattamente capovolta. I membri della classe inferiore regolano le loro relazioni esterne riferendosi al polo dell’imitazione. Tuttavia, quando si tratta di relazioni all’interno del gruppo, essi fanno riferimento al polo dell’innovazione. Proprio questa distinzione tra relazioni interne ed esterne al gruppo rappresenta la chiave per comprendere come è possibile la coesistenza di orientamenti all’azione ambivalenti. Se gli individui tentano di mantenere una chiara divisione tra relazioni interne ed esterne e di orientarsi, per quanto riguarda l’azione, verso i due poli ambivalenti in un unico gruppo, possiamo affermare che hanno scoperto il modo di soddisfare entrambi i bisogni contraddittori che governano le loro azioni35.
Dunque, la tesi sin qui esposta può essere riassunta nel modo seguente: La moda ha origine da due processi strettamente connessi di interazione sociale. Il primo è un processo verticale di scambio tra membri di classi diverse, che in seguito si incitano l’un l’altro a innovare e imitare in un carosello senza fine. Il secondo è un processo orizzontale di scambio tra membri della stessa classe, che strutturano le proprie relazioni interne di classe in opposizione alle relazioni esterne. Entrambi i processi di scambio, quello verticale e quello orizzontale, sono inestricabilmente legati e si condizionano reciprocamente36.
Dalle dinamiche risultanti di questi due processi, Simmel trae la seguente conclusione: Si può osservare che quanto più prossime sono le cerchie sociali tanto più frenetica è la caccia all’imitazione nelle classi inferiori e la fuga verso il nuovo nelle classi superiori; l’imporsi dell’economia monetaria deve accelerare in modo rilevante questo processo e renderlo visibile, perché gli oggetti della moda, in quanto esteriorità della vita, sono particolarmente accessibili al puro possesso del denaro. In rapporto ad essi è più facile raggiungere la parità con lo strato superiore che in tutti gli altri campi che richiedono un impiego di capacità individuali non acquistabili con il denaro (M, 21-22)37. 35
Ibid. Ibid. 37 La spiegazione “sociologica” di tale fenomeno può essere sinteticamente la seguente: «Più le classi superiori stringono i ranghi, più visibile diventa la moda da esse adottata e sfoggiata, e quindi maggiore diventa l’incentivo per le classi inferiori ad imitarle. E viceversa: quanto più i membri della classe inferiore si differenziano l’un l’altro in materia di stile dopo aver imitato le mode della classe superiore, tanto meno quest’ultima sarà disposta a trovare nuovi stili. Come conseguenza diretta di ciò, la moda assume minore importanza come fenomeno sociale. La duplice funzione della moda è connessa a questi due processi di scambio strettamente legati, l’uno orizzontale e l’altro verticale. La moda agisce da fattore unificante nei gruppi sociali e così facendo adempie la funzione di escludere gli altri gruppi. 36
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I due processi di scambio (orizzontale e verticale) reciprocamente connessi delimitano la duplice funzione della moda, la quale funziona da fattore unificante nei gruppi sociali e nel contempo funziona come elemento di esclusione di altri gruppi. Ma perché la moda si configura paradossalmente in questa forma duplice e contrastante nelle sue funzioni che esprimono ad un tempo autonomia e obbedienza? In essa, principalmente, c’è un fondamentale elemento di tipizzazione (Tipisierung), «che fa della moda una forma, una struttura, la costituisce come realtà separata, dotata di leggi autonome rispetto alla continuità e totalità della vita sociale»38. Tuttavia, la moda, lo abbiamo già rilevato, è intrinsecamente legata alla separazione tra le classi, ma il suo rappresentare una parte determinata della società contro un’altra non avviene per “effetto di antitesi”, quanto piuttosto – (Simmel si riferisce analogicamente all’arte) – allo stesso modo In questo contesto, la metafora di Simmel “del ponte e la porta” [cfr. G. Simmel, Ponte e porta, tr. it. di M. Cacciari e L. Perucchi, in Id., Saggi di estetica, Liviana, Padova 1970, pp. 3-8] sembra particolarmente appropriata. Come il ponte e la porta, la moda allo stesso tempo unisce e divide. Entrambe le funzioni sono necessariamente connesse. Il compimento della funzione unificante rappresenta la condizione per il compimento della funzione di divisione, e viceversa. Caratteristico della moda è che entrambe le funzioni vengano conservate simultaneamente, o, in altri termini, che nessuno dei poli dell’ambivalenza domini l’altro. Se la tendenza ad imitare non si unisce alla tendenza a inventare nuovi stili, allora la moda diventa un fenomeno troppo diffuso e perde la sua singolare potenzialità di dividere e di unire» (B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, cit., p. 576). Lo stesso Simmel osserva che: «L’essenza della moda consiste nell’appartenere sempre e soltanto a una parte del gruppo mentre tutto il gruppo è già avviato verso di essa. Non appena si è completamente diffusa, non appena cioè tutti, senza eccezione, fanno ciò che originariamente facevano solo alcuni, come avviene per alcuni elementi dell’abbigliamento e per alcune forme di convenienza sociale, non la si definisce più moda. Ogni crescita la conduce alla morte perché elimina la diversità» (M, 28). Se invece i mutamenti di stile prodotti da un’élite sociale non divengono oggetto di imitazione, c’è «il rischio che la moda degeneri in una serie di stili idiosincratici» (B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, cit., p. 576). Per questo motivo Simmel nota che «a Firenze, verso il 1390 non deve esserci stata nessuna moda dominante per gli abiti maschili perché ognuno cercava di vestirsi in modo particolare. D’altra parte i nobili veneziani, si dice, non avrebbero sviluppato una moda, perché, secondo una legge, dovevano vestirsi di nero per non rendere visibile alle masse l’esiguità del loro numero» (M, 26). Da tutto ciò si evince che il processo di scambio di ambivalenze reciproche rende possibili sia l’evoluzione che il continuo rinnovamento della moda. Di fatto, «la situazione in cui uno dei due poli dell’orientamento all’azione prevale sull’altro è come un rintocco funebre che annuncia la morte della moda. La moda è un genere di formazione sociale che richiede, come condizione indispensabile, che gli interessi che l’hanno originata non vengano mai completamente realizzati. Se questi interessi dovessero venire completamente soddisfatti, la moda cadrebbe in “contraddizione con se stessa, annullandosi”. I ritornelli della moda potrebbero cessare» (B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, cit., p. 577). 38 L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 108.
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in cui «la cornice di un quadro caratterizza l’opera d’arte come un tutto unitario appartenente a se stesso, come un mondo per sé, e, nello stesso tempo, operando verso l’esterno, recide tutti i suoi rapporti con lo spazio circostante» (M, 16-17) 39. Dopo l’analogia con la cornice, torniamo alle raffinate nuances simmeliane sulla moda. Attraverso una peculiare strategia argomentativa e spostando il punto di vista e l’attenzione dalla «sostanza» alla «funzione», Simmel non ci dice tanto cosa è la moda, quanto a cosa serve nell’organizzazione della società e in rapporto ai bisogni dell’individuo40. Scopriamo così che, come tante altre, «la moda è una forma di vita (Lebensform), in termini quasi hegeliani l’oggettivazione di correnti opposte della vita da parte di finalità sociali e individuali; ma questa forma, definita anche come fenomeno e struttura, è il risultato della cooperazione di principi antagonistici: la coesistenza di due diversi e opposti impulsi psicologici nell’individuo si traduce attraverso la moda in una dimensione sociale, rendendo possibile la delimitazione di una cerchia attraverso l’uguaglianza interna e la distinzione rispetto all’esterno. una polarità, dunque, e una sorta di meccanismo che serve, o meglio coopera, alla definizione di raggruppamenti sociali e al loro mantenimento, anche se la sua fenomenologia è provvisoria: ogni moda è infatti temporanea, il suo fascino sta nella fugacità, in una morte annunciata già al momento della nascita, il suo destino è il superamento e l’abbandono in ragione del suo diffondersi. Ciò che conta è la sua funzione: contribuire in un processo di reciprocità a quell’articolarsi della società in classi, ceti, cerchie e professioni di cui è allo stesso tempo conseguenza»41. Per Simmel, tutto ciò che presiede alla (ri)produzione delle forme sociali consiste in «un peculiare effetto di prospettiva»42 che esplica verso l’interno una funzione imitativa e coesiva e verso l’esterno una funzione di separazione e di isolamento (cfr. M, 22-23). Quando e se verrà a mancare anche una sola delle due tendenze sociali che devono convergere per creare la moda (cioè il bisogno di coesione da un lato, dall’altro quello di differenziazione), la creazione della moda cesserà e sarà «la fine del suo regno» (ivi, 24). Simmel ribadisce esplicitamente che la moda, in quanto forma sociale, deriva il suo senso dalla combinazione reciproca di energie di separazione e 39 Il richiamo di Simmel alla funzione ornamentale della cornice come principio di tipizzazione-standardizzazione culturale moderna tra arte e decorazione, si sviluppa, com’è noto, nel 1902 nel breve ma celebre saggio che egli dedicò all’argomento. Cfr. G. Simmel, La cornice, in Id., Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, a cura di L. Perucchi, il Mulino 1985, pp. 101-108. 40 Cfr. L. Perucchi, Simmel e la moda, cit., p. 81. 41 Ivi, pp. 81-82. 42 L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 108.
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di energie di legame: il momento coesivo, di socializzazione, viene favorito dal riferimento a un punto situato all’esterno. Qui ci troviamo ad uno snodo decisivo dell’analisi simmeliana che vede «il darsi della verità e del significato in un mondo in cui tutto è fuori da un contesto, interpolabile e variabile a piacere»43. Nel «regno della moda» tutto è “citabile”, ovvero passibile di infinite interpretazioni. Di fatto, «come nel quadro, così nelle forme sociali il rapporto tecnico-funzionale interno-esterno, unità-separazione consente al particolare, al frammento, di significare al di fuori di un rapporto organico con il tutto. La moda rappresenta un elemento di coesione all’interno di un gruppo sociale e di separazione rispetto a quelli che stanno più in basso: le due funzioni, verso l’interno e verso l’esterno, per quanto opposte, sono l’una condizione dell’altra. Come nella prospettiva in pittura, del resto, questa qualità tecnico-formale presuppone una concentrazione e una omogeneizzazione dei contenuti. La moda è infatti caratterizzata dall’indifferenza rispetto a finalità pratiche, estetiche o di altra natura, dall’astrattezza, frivolezza, casualità»44. La totale indipendenza da valutazioni di tipo pratico, etico, estetico con cui la moda viene fatta agire è sottolineata con puntiglio da Simmel, il quale scrive appunto: Che la moda sia un puro prodotto di necessità sociali o psicologico-formali è provato nel modo più convincente dal fatto che infinite volte non si può trovare la minima giustificazione per le sue forme in rapporto a finalità pratiche o estetiche o di altro tipo. Mentre in generale il nostro abito è praticamente adatto alle nostre necessità, nelle decisioni della moda per dargli forma non c’è traccia di utilità pratica: come quando stabilisce se si debbono portare gonne larghe o strette, capelli lunghi o corti, cravatte nere o a colori. A volte sono di moda cose così brutte e sgradevoli che sembra che la moda voglia dimostrare il suo potere facendoci portare quanto c’è di più detestabile; proprio la casualità con la quale una volta impone l’utile, un’altra l’assurdo, una terza ciò che è del tutto indifferente dal punto di vista pratico e da quello estetico, dimostra la sua completa noncuranza delle norme oggettive della vita e rinvia ad altre motivazioni, cioè a quelle tipicamente sociali che sole rimangono (M, 17-18).
Questa «astrattezza» della moda, fondata sulla sua essenza più profonda, che in quanto «estraneità dal reale» (ivi, 18) conferisce al moderno «un certo cachet estetico» (ibid.) anche in un campo estraneo a esso, si manifesta anche in fenomeni storici: ad esempio, «sappiamo che spesso uno stato d’animo o una particolare esigenza di singole personalità deter43 44
Ibid. Ivi, pp. 108-109.
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minarono in passato il sorgere di una moda: le calzature medioevali con la punta all’insù nacquero perché un nobile signore voleva trovare una forma corrispondente a un’escrescenza del suo piede, il guardinfante ebbe origine dal desiderio di una di quelle donne che danno il tono alla società di nascondere la sua gravidanza, ecc.» (ivi, 18-19). In contrasto con questa origine personale e nonostante l’estraneità al reale della moda, la sua indifferenza verso i contenuti dipende né dal caso né da scelte bizzarre. Soprattutto ai nostri giorni, la creazione della moda è sempre più inserita nell’organizzazione oggettiva e razionale del lavoro propria dell’economia monetaria moderna: Non solo sporadicamente appare un articolo che poi diventa di moda, ma vengono prodotti degli articoli perché diventino di moda. A intervalli di tempo determinati si richiede a priori una nuova moda: oggi ci sono creatori di moda e industrie che lavorano esclusivamente in questo settore. Il rapporto fra astrattezza e organizzazione sociale oggettiva si manifesta nell’indifferenza della moda in quanto forma nei confronti di ogni significato dei suoi contenuti particolari e nel suo passaggio sempre più decisivo in strutture economiche socialmente produttive. Che la sovraindividualità della sua natura interna interessi anche i suoi contenuti è espresso in modo decisivo dal fatto che la creazione della moda è una professione pagata, un «impiego» nelle grandi aziende che si è tanto differenziato dalla personalità quanto una funzione oggettiva si differenzia dal soggetto che la esercita (ivi, 19-20).
“Creare” la moda è dunque una funzione compresa nell’ambito della divisione del lavoro, una funzione oggettiva che opera nel processo produttivo. Non solo, ma la «tirannia della moda» (ivi, 20) si estende pure ad altri campi. Infatti, anche religioni, culture, ideologie politiche possono diventare «cose di moda» (ibid.), ma «i soli motivi per i quali questi contenuti di vita dovrebbero essere adottati sono in assoluto contrasto con la completa mancanza di oggettività nelle manifestazioni della moda e persino con quel fascino estetico che le viene dall’essere estranea al significato del contenuto delle cose e che, come momento del tutto esterno a queste decisioni ultime, conferisce loro un tratto di frivolezza» (ibid.). In questi casi, la moda non ha la possibilità di operare pienamente come “struttura simbolica” caratterizzata dall’indifferenza verso i contenuti, come avviene in seguito all’organizzazione razionale del lavoro45. In effetti, «l’estraneità» dalla realtà materiale che fa della moda una forma sociale (tipizzata e omogenea), presuppone «una peculiare dimensione di variabilità e di mutamento, la 45
Cfr. ivi, p. 109.
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quale si esprime in due modalità essenziali: l’accelerazione temporale e l’eccesso, la sovrabbondanza»46. Come corollario implicito nell’analisi simmeliana della forma, «alla tipizzazione si unisce sempre l’elasticizzazione dei confini: la medietà, la neutralizzazione del momento individuale e di contenuto, viene compensata con l’apertura di una gamma più ampia di possibilità»47. Per Simmel, la forma sociale della moda è, come già sappiamo, una prerogativa di classe, in modo particolare delle classi superiori; nel momento in cui le classi inferiori iniziano ad appropriarsene, infrangendone l’unità simbolica-formale, si introduce il dispositivo del mutamento: la “vecchia” moda viene sostituita dalla “nuova” per poter ritornare a svolgere la sua funzione di differenziazione sociale. Il rapporto di vicinanza fra i ceti sociali sollecita freneticamente la smania di imitazione in quelli inferiori e, di conseguenza, la fuga verso il “nuovo” in quelli superiori: l’economia monetaria non solo è determinante ma è nel contempo un forte elemento “moltiplicatore” di questo processo, poiché il denaro, «rendendo tutto accessibile, smorza le differenze sociali, favorisce il livellamento e l’uguaglianza»48. Per questo, «le classi sociali inferiori hanno pochissime mode, raramente specifiche, e le mode dei popoli che vivono allo stato di natura sono molto più stabili delle nostre» (M, 24). Simmel specifica con particolare acume i comportamenti e i ritmi delle impressioni nervose che si verificano con la differenziazione sociale della moda attraverso cui i gruppi interessati a distinguersi si mantengono uniti: L’andatura, il tempo, il ritmo dei gesti è indubbiamente determinato dal vestito in modo essenziale. Chi è vestito nello stesso modo si comporta in maniera omogenea […]. Chi può e vuole seguire la moda porta abbastanza spesso vestiti nuovi. Ma il vestito nuovo condiziona il nostro comportamento più di quello vecchio che si è completamente adattato ai nostri gesti, cede senza resistenza ad ognuno di essi e spesso rivela le nostre innervazioni nelle minime particolarità. Sentirsi «più comodi» in un vestito vecchio che in uno nuovo, significa che l’abito nuovo ci impone lo statuto formale: dopo aver portato il vestito per un po’ di tempo, questo statuto trapassa gradualmente in quello dei nostri movimenti. Per questo il vestito nuovo conferisce a chi lo porta una certa uniformità sovraindividuale nell’atteggiamento: la prerogativa che il vestito esercita nella misura della sua novità sull’individualità di chi lo porta fa sì che gli uomini che si attengono strettamente alla moda appaiano relativamente uniformi. Per la vita moderna con il suo funzionamento indi46
Ivi, p. 110. Ibid. 48 Ibid. 47
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vidualistico questo momento di omogeneità della moda è particolarmente importante. Fra i popoli che vivono allo stato di natura la moda sarà minore, cioè più stabile, anche perché il loro bisogno di novità di impressioni e di forme di vita nuove, a prescindere dalla loro efficacia sociale, è molto minore. Il cambiamento della moda indica la misura dell’ottundimento della sensibilità agli stimoli nervosi: quanto più nervosa è un’epoca, tanto più rapidamente cambieranno le sue mode, perché il bisogno di stimoli diversi, uno dei fattori essenziali di ogni moda, va di pari passo con l’indebolimento delle energie nervose. Già per questo motivo le classi più elevate sono la sede della moda (ivi, 24-25).
Che nella modernità la moda abbia acquisito un peso incredibile, potenziandosi in modo progressivo ed incessante nei campi di sua pertinenza, è – secondo Simmel – soltanto «la condensazione di un tratto psicologico del nostro tempo» (ivi, 29): il nostro ritmo vitale interno «richiede periodi sempre più brevi nel cambiamento delle impressioni, o, in altre parole: l’accento degli stimoli si sposta in misura crescente dal loro centro sostanziale al loro inizio e alla loro fine» (ibid.). Nella società moderna, la velocità e molteplicità degli stimoli trasferisce dunque l’intensità della percezione dal “centro” alla “periferia” del sistema nervoso: ciò che è rilevante «non è più la qualità dello stimolo, bensì esclusivamente il ritmo del suo avvicendamento, del suo insorgere e del suo spegnersi»49. Con parole pregnanti, Simmel coglie il senso di questo movimento: Il caratteristico ritmo «impaziente» della vita moderna significa non soltanto il desiderio di un rapido cambiamento dei contenuti qualitativi della vita, ma anche la potenza del fascino formale del confine, dell’inizio e della fine, del venire e dell’andare. Nel senso più compendioso di questa forma la moda con il suo gioco fra la tendenza ad una diffusione generale e la distruzione del proprio senso, che seguirebbe tale diffusione, ha il fascino caratteristico di un confine, di un inizio e di una fine contemporanei, il fascino della novità e contemporaneamente quello della caducità (M, 30).
Caducità e transitorietà costituiscono due elementi inseparabili dall’idea stessa di moda, e nella sua capacità di evidenziarli risiede la sua forza di sintetizzare all’estremo il fascino del confine, dell’inizio e della fine, della novità e insieme della caduca determinatezza che essa esercita su di noi: in un processo incessante di interazione che assume la forma di «un ritornello senza fine»50, nuovi stili vengono creati, e distrutti nello stesso momento 49
Ibid. B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, cit., p. 577. 50
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della loro apparizione, mentre la distruzione di quelli vecchi cede il posto all’evoluzione ed affermazione dei nuovi, e così via51. La moda fornisce emblematicamente ed in modo significativo un esempio paradigmatico di questo processo progressivo di costruzione-distruzione: «La forma di vita conforme alla moda è caratterizzata dalla distruzione di ogni contenuto precedente e possiede una propria unità nella quale l’appagamento dell’impulso di distruzione e quello dell’impulso verso contenuti positivi sono inseparabili» (M, 36). L’interrogativo posto alla moda, il suo problema, «non è essere o non essere» (ivi, 30), poiché la moda «è contemporaneamente essere e non essere» (ibid.). In quanto fenomeno sociale che evolve diacronicamente, la moda presenta un suo peculiare movimento ciclico: quando uno stile raggiunge il suo culmine, porta già dentro di sé «il germe della sua morte» (ibid.), la sua destinazione a venir distrutta, questa caducità non la declassa minimamente, anzi ciò spiega ulteriormente il “richiamo” della moda: questo richiamo, infatti, «è tanto maggiore, quanto minore è l’intervallo di tempo tra le fasi e quanto più vasto è l’assortimento degli stili»52. Secondo quanto rileva Simmel, solo in seguito un oggetto si svaluta definendolo «alla moda», quando per altri motivi lo si rifiuta o si desidera sminuirlo cosicché la moda diventa un giudizio di valore. Non si indica come moda qualcosa di nuovo, che si sia diffuso improvvisamente nella prassi della vita, se si crede a una sua ulteriore durata e alla sua fondatezza pratica: lo definisce così soltanto chi è convinto che quel fenomeno svanirà con la stessa rapidità con cui si è affermato. Perciò fa parte dei motivi che oggi rendono così grande il potere della moda sulle coscienze il progressivo indebolirsi delle convinzioni grandi, tenaci, incontestabili. Gli elementi effimeri e mutevoli della vita occupano uno spazio sempre più ampio. La rottura con il passato, che l’umanità civile cerca di rendere esecutiva […], rende sempre più acuta la coscienza del presente. Questa accentuazione del presente è evidentemente nello stesso tempo accentuazione del cambiamento: una classe sociale si volgerà alla moda in tutti i campi, e non soltanto in 51
Ancora una volta, la moda si mostra tutt’altro dalla realtà: essa è contemporaneamente reale e irreale, sta sempre «sullo spartiacque fra passato e futuro e ci dà, finché è fiorente, un senso del presente così forte da superare in questo senso ogni altro fenomeno» (M, 30): essa sta «sullo stretto margine di un presente il cui culmine segna già la sua caduta, il suo tramonto» (L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 111). La ragione della “centralità” della moda nella vita moderna sta appunto «nella sua mutevolezza e fuggevolezza, nella rottura con il passato che viene compensata dalla proiezione verso il nuovo e il mutamento, nella concentrazione della coscienza temporale sul presente visto nella sua dimensione essenziale di confine, di ristretto margine e visibilità dell’inizio e della fine» (ibid.). 52 B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, cit., p. 578.
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quello dell’abbigliamento, nella misura in cui è caratterizzata dalla tendenza culturale indicata (M, 31-32).
Data una certa “impossibilità” (non in senso assoluto) di una diffusione “universale” (in senso relativo) della moda in quanto tale deriva per il singolo «la gratificazione che essa in lui rappresenta pur sempre qualcosa di particolare e sorprendente» (ivi, 32). Egli, allo stesso tempo, si sente interiormente trasportato «non solo da una collettività che fa le stesse cose, ma anche da un’altra che aspira alle stesse mete» (ibid.). Di conseguenza, l’atteggiamento che incontra chi è «alla moda» è una mistura visibilmente piacevole di approvazione e invidia. Su questo atteggiamento Simmel significativamente indugia, ed osserva: Si invidia chi è alla moda come individuo, lo si approva come essere universale. Anche quest’invidia ha una tinta particolare. C’è una sfumatura che include una specie di partecipazione agli oggetti invidiati. L’atteggiamento dei proletari quando possono sbirciare le feste dei ricchi ne è un esempio istruttivo: alla base di questo comportamento c’è il fatto che la mera visione di un contenuto, separata dalla sua realtà, legata al possesso soggettivo, agisce in modo piacevole: come la felicità che si ricava da un’opera d’arte non dipende da chi la possiede. Dalla possibilità di separare il puro contenuto delle cose dal loro possesso (che corrisponde alla capacità della conoscenza di separare il contenuto delle cose dal loro essere) discende la possibilità di quella partecipazione che viene realizzata dall’invidia. E forse non si tratta di una particolare sfumatura dell’invidia riscontrabile solo in questo caso, ma ne costituisce un elemento costante. Quando si invidia una persona o una cosa, non si è più separati da lei in modo assoluto, si è stabilita una relazione, fra i due termini si pone lo stesso contenuto spirituale, anche se in categorie e in forme del sentimento completamente diverse. All’oggetto di invidia si è sempre nello stesso tempo più vicini e più lontani che al bene la cui mancanza ci lascia indifferenti. Con l’invidia diviene per così dire misurabile la distanza, il che significa sempre allontanamento e avvicinamento: ciò che è indifferente sta al di là del contrasto. C’è quindi nell’invidia un lieve impadronirsi dell’oggetto invidiato […], una specie di antidoto che a volte ne impedisce le peggiori degenerazioni. E proprio i contenuti della moda offrono la chance di una tonalità più conciliante dell’invidia, perché, a differenza di molti altri contenuti spirituali, non si negano a nessuno in modo assoluto, e una svolta del destino, da non escludersi completamente, può concederli anche a chi provvisoriamente si limita a invidiarli (ivi, 32-33).
Il continuo e repentino mutamento della moda non soltanto è frenetico, ma è esso stesso circolare: la moda ritorna sempre a forme precedenti, la
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sua “novità” «viene dal passato piuttosto che da un ipotetico futuro»53. Ciò è reso possibile in quanto la “temporalità” della moda, «il suo presente effimero e caduco, slegato dal passato e dal futuro, avvolge ciò che è vecchio del fascino del lontano e del diverso. Appena uno stile viene dimenticato, può diventare materiale per una nuova moda: oblio e ripetizione sono le modalità di un tempo puramente formale, vuoto»54. Scrive Simmel: «Non c’è alcun motivo per non richiamare in vita una moda non appena è stata dimenticata: forse ci si sente attratti dalla differenza, attrazione di cui essa vive, nei confronti dello stesso contenuto che al momento della sua comparsa ha tratto lo stesso fascino dal contrasto con la moda precedente che ora viene rivissuta» (M, 60). D’altra parte, solo apparentemente e in astratto la moda può assumere qualsiasi contenuto e qualsiasi forma esistente (vestire, arte, comportamento, opinioni) può diventare moda. Il potere della mobilità di forme di cui la moda vive non giunge al punto di sottomettere a essa ogni contenuto in ugual misura: non tutte le forme, quindi, sono ugualmente adatte e destinate a diventare moda, in quanto la natura di alcune di esse oppone una certa resistenza dall’interno. «Per esempio – precisa Simmel –, è relativamente lontano ed estraneo alla forma della moda tutto ciò che può essere definito “classico”, anche se qualche volta non riesce a sottrarsi a essa. Poiché l’essenza del classico è una concentrazione del fenomeno intorno a un punto fisso centrale, la classicità ha un carattere raccolto, che non offre per così dire appigli su cui innestare modifiche che possano portare a un turbamento o a una distruzione dell’equilibrio» (ivi, 62). Il “classico” diventa moda con maggiore difficoltà, poiché «la sua univocità e permanenza, per quanto costruite mediante canoni formali, come la simmetria, la misura, contrastano con la variabilità della moda e costituiscono una sorta di residuo legame con l’oggetto, con ciò che si presume sia “naturale”»55. Per diventare una moda il classico deve trasformarsi in “classicistico”. Al contrario, c’è moda come forma della vita sociale là dove c’è inquietudine, casualità, «soggezione all’impulso momentaneo» (M, 63), come nel caso delle forme e delle figure barocche, eccessive, asimmetriche, sovrabbondanti, che non hanno né centro né misura, in quanto, sostiene Simmel, proprio gli stili barocchi, in sé capricciosi ed esasperati, dal carattere abnorme, «esercitano spesso un influsso estenuante e già in un senso fisiologico premono verso il cambiamento di cui la moda offre lo schema» (ibid.). Per questo si può inferire che 53
L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 111. Ivi, pp. 111-112. 55 Ivi, p. 112. 54
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DELLE COSE uLTIME”: STARE NELLA FRATTuRA
«ciò che è “innaturale”, si sottrae cioè a un riferimento per quanto costruito con un centro, si espone al mutamento e rifiuta la permanenza, acquista “realtà” solo ed esclusivamente nella forma della moda»56. La variabilità e fuggevolezza dell’esperienza temporale che connotano la forma sociale della moda spiegano perché con essa si possa instaurare un rapporto proporzionalmente “diretto” con la variabilità della vita storica che dipende dalla classe media (la piccola borghesia): infatti, il ceto medio – e, al suo interno, il demi-monde, ovvero «lo strato deraciné per eccellenza – è il ceto alla moda per definizione, quello che ritrova nel ritmo frenetico e dissolutivo della moda, il ritmo altrettanto frenetico e dissolutivo dei propri moti psichici»57. Come osserva Simmel, da quando la classe media si è affermata, la storia dei movimenti sociali e culturali ha assunto un «tempo» completamento diverso. Da allora la moda, la forma dei cambiamenti e dei contrasti della vita, si è maggiormente estesa ed è soggetta ad una stimolazione più intensa; i frequenti mutamenti della moda sono un’immane schiavitù per l’individuo e, nella stessa misura, uno dei complementi necessari della cresciuta libertà politica e sociale. uno stato sociale la cui natura ha nell’insieme un ritmo tanto più variabile e inquieto di quello degli stati inferiori con il loro inconscio conservatorismo, e di quello degli stati più elevati con il loro conservatorismo consapevole, è il luogo d’elezione di una forma di vita per i cui contenuti il momento della massima altezza coincide con quello del tramonto. Classi e individui che premono verso un continuo cambiamento perché la rapidità del loro sviluppo li pone in grado di superare gli altri ritrovano nella moda il «tempo» dei loro moti spirituali (M, 56).
Per Simmel, il gruppo e la classe sociale su cui si viene a basare la moda sono estremamente suscettibili ai “fattori esterni” che contribuiscono ad accelerare il ritmo del cambiamento degli stili: tra questi fattori esterni, svolgono senz’altro un ruolo molto importante l’economia monetaria e la città. Le grandi città in contrasto con tutti i milieux più ristretti costituiscono il terreno di crescita della moda, soprattutto per il rapporto che in essa si stabilisce fra produzione su scala di massa a buon mercato e variabilità stessa della moda. Questo ruolo importante e questo rapporto sono così riassumibili: Prima di tutto il ritmo assunto nelle grandi città dal progredire economico degli strati inferiori deve favorire il rapido cambiamento della moda perché 56 57
Ibid. Ivi, p. 111.
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abbrevia il tempo necessario all’imitazione degli strati superiori. In questo modo il processo […] per il quale ogni strato superiore abbandona la moda nell’attimo in cui quello inferiore se ne impadronisce, acquista una dimensione e una vivacità imprevedibili. La prima conseguenza è che le mode non sono più così costose e perciò non possono più avere un aspetto così stravagante come nel passato, quando il costo del primo acquisto e lo sforzo di trasformare il comportamento e il gusto venivano compensati da una più lunga durata del loro dominio. Quanto più un articolo è soggetto al rapido mutare della moda, tanto più forte è la richiesta di prodotti del suo tipo a buon mercato. Non solo perché le grandi masse, nonostante la loro povertà, hanno un potere d’acquisto sufficiente per orientare le grandi industrie prevalentemente verso di sé, e richiedono assolutamente oggetti che abbiano almeno l’aspetto esteriore e poco solido del moderno, ma anche perché gli strati superiori della società non potrebbero sostenere il repentino cambiamento della moda che viene loro imposto dall’incalzare degli strati inferiori se gli oggetti non fossero relativamente a buon mercato (ivi, 57-58).
L’effetto che si viene così a creare è quello di «un vero e proprio circolo» (ivi, 58): «quanto più rapidamente cambia la moda, tanto più gli oggetti devono diventare economici, e quanto più gli oggetti diventano economici, tanto più invitano i consumatori e costringono i produttori ad un rapido cambiamento della moda» (ibid.). L’economia monetaria e la città sono due fattori che non solo contribuiscono ad accelerare e a stabilizzare l’impulso intrinseco della moda, ma servono anche «a scindere la moda dai suoi moventi originari ed a consentire il suo funzionamento come sistema formale indipendente»58. Questo specifica ulteriormente la peculiarità ulteriore dei processi di eigendynamik. Pur essendo, infatti, le due caratteristiche principali che contraddistinguono i processi di interazione sociale eigendynamik sia la loro dinamica intrinseca sia la loro sostanziale illimitatezza59, i processi eigendynamik sono tuttavia qualcosa di più: essi «tendono a rendersi indipendenti dai motivi che li hanno provocati in origine e ad assumere vita propria. Questa tendenza ad assumere una forma indipendente rappresenta una delle loro caratteristiche fondamentali»60. Ciò fa sì che la moda diventi, come dice Simmel, «una forma sociale di ammirevole utilità» (M, 51) e questo significa che la moda «dà origine ad ulteriori motivi che conducono gli individui a seguirne i dettami, motivi che consentono il suo funzionamento come sistema 58
B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, cit., p. 579. 59 Cfr. A.R. Calabrò, Georg Simmel: la sociologia dell’ambivalenza, cit., p. 56. 60 B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, cit., p. 579.
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autonomo e che non dipendono dai motivi originali di imitazione e innovazione»61. Questo si verifica soprattutto perché subentrano altri fattori esterni che contribuiscono ad accelerare il ritmo del cambiamento repentino degli stili, e questi fattori, si è già detto, sono l’economia monetaria e la città. Gli effetti che la moda esercita sull’individuo e sul suo sviluppo personale sono dunque molteplici. La moda, cogliendo l’esteriorità della vita, il lato rivolto alla società, può rendere la gente più uniforme; d’altra parte può essere perseguita come modello di comportamento, come una “maschera” livellante che paradossalmente consente all’individuo non solo di nascondersi ma di conservare ed aumentare la propria individualità difendendo la sua natura più intima. È nell’essenza della moda accomunare tutte le individualità. Ma essa non comprende mai l’uomo nella sua totalità e rimane sempre qualcosa di esteriore anche nei campi che vanno al di là della pura e semplice moda del vestire; poiché la forma della variabilità nella quale gli si offre è in tutte le circostanze l’antitesi della stabilità del senso dell’Io, quest’ultimo diventa consapevole della propria relativa durata proprio in quest’antitesi: soltanto in rapporto a questa durata la variabilità di quei contenuti può mostrarsi come variabilità e dispiegare il proprio fascino. Ma proprio per questo il suo luogo […] è la periferia della personalità, che avverte se stessa in rapporto a quella come pièce de résistance o perlomeno ha questa coscienza di sé in caso di necessità. Questo significato della moda è quello che viene accolto da uomini dotati di finezza e di originalità: lo utilizzano come una specie di maschera. La cieca obbedienza alle norme della collettività in tutto ciò che è esteriore è il mezzo consapevole e voluto di riservare per sé la propria sensibilità personale e il proprio gusto, al punto da non farli trapelare in sembianze accessibili a tutti. Spesso è proprio un senso di timidezza, un sottile pudore di tradire con la particolarità dell’aspetto una peculiarità della propria natura intima, che determina il rifugiarsi di alcune nature nella maschera livellante della moda. Si ottiene così un trionfo dell’anima sulla datità dell’esistenza che, almeno per la sua forma, è uno dei più elevati e sottili: il nemico stesso si trasforma in servo, ciò che sembrava far violenza alla personalità viene trasferito nei livelli esteriori della vita in modo da fornire un velo e una protezione a ogni forma di interiorità, resa così tanto più libera. La lotta fra l’elemento sociale e l’elemento individuale si ricompone dove per i due elementi i livelli della vita si separano (M, 45-46).
La moda, inoltre, può persino aiutare a vincere la vergogna. Simmel né dà la seguente spiegazione:
61
A.R. Calabrò, Georg Simmel: la sociologia dell’ambivalenza, cit., p. 56.
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Ogni senso di vergogna si basa sul porsi in rilievo del singolo. Nasce quando avviene un’accentuazione dell’Io, quando la coscienza di una cerchia sociale si appunta su questa personalità, che contemporaneamente viene sentita in certa misura come sconveniente; perciò personalità modeste e deboli sono fortemente inclini a sentimenti di vergogna. Se si trovano al centro dell’attenzione generale e ne provocano l’improvviso acuirsi, si instaura in loro una penosa oscillazione fra l’accentuarsi e il ritrarsi del senso dell’Io. (La vergogna intima di qualcosa che non sarà mai documentato socialmente, o che comunque è al di là di quella vergogna che propriamente è oggetto di indagine sociologica, svela, attraverso motivazioni e simbolizzazioni che non è difficile riconoscere, una struttura di base formalmente eguale). Poiché, del resto, quel distinguersi da una collettività è completamente indipendente dal contenuto sulla cui base avviene, spesso ci si vergogna dei propri sentimenti migliori e più nobili. Se in «società», nel senso più stretto del termine, la banalità corrisponde alle buone maniere, ciò è soltanto conseguenza di un reciproco riguardo che fa apparire privo di tatto chi si distingue con un’espressione individuale, unica, che non tutti possono copiare, ma avviene anche per il timore di quel senso di vergogna, di quella punizione che l’individuo si autoinfligge per essersi distinto dalle azioni e dal tono eguale per tutti e a tutti egualmente accessibile. Per la sua struttura interna la moda offre una maniera di distinguersi che è sempre sentita come conveniente. Il più stravagante modo di apparire e di esprimersi, in quanto è di moda, è protetto da quel riflesso penoso che l’individuo prova quando è oggetto dell’attenzione altrui. Tutte le azioni di massa sono caratterizzate dalla perdita di quel senso di vergogna. Come elemento di una massa, l’individuo prende parte a innumerevoli azioni che risveglierebbero in lui resistenze invincibili se volesse compierle da solo. uno dei più notevoli fenomeni psicologico-sociali, nel quale si dimostra proprio questo carattere dell’azione di massa, consiste nel fatto che alcune mode manifestano in alcuni tratti un’assenza di pudore che come pretesa individuale sarebbe respinta dal singolo con indignazione, ma come legge della moda trova in lui una propria obbedienza (ivi, 47-48).
Conformandosi alle norme della moda, che gli provengono dal suo tempo, dal suo status, dalla sua cerchia più ristretta, l’individuo si viene a trovare nelle condizioni in cui è possibile ottenere di concentrare «la libertà concessa dalla vita nella sua interiorità e in ciò che per lui è essenziale» (ivi, 51). La moda genera così un “motivo secondario” di obbedienza alle sue stesse leggi, motivo secondario che però «è indipendente dai motivi originari di imitazione e innovazione»62. Infatti, conformandosi alle norme prevalenti della moda, gli individui sono in grado comunque di costruirsi uno spazio,
62
B. Nedelmann, Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda, cit., p. 579.
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un “quantum” di “libertà personale”63. Come scrive Simmel: Nell’anima individuale si ripetono in una certa misura i rapporti fra processo di unificazione, che mira al livellamento, e processo di differenziazione individuale; l’antagonismo delle tendenze che produce la moda si trasferisce in modo formalmente identico anche nella struttura intima di alcuni individui che non ha niente a che fare con i legami sociali (M, 51).
Il carattere formale della moda e la sua particolare capacità di generare da sé i propri moventi secondari, possono tuttavia innescare processi “devianti” e stili di comportamento che si caratterizzano come moda per il ritmo del loro affiorare, affermarsi e cessare, e che in modo altrettanto “irrazionale” scompaiono (come nel caso delle mode giovanili). Simmel definisce questo fenomeno «una moda personale (Personalmode) che costituisce un caso limite della moda sociale (Sozialmode)» (ivi, 52). Di conseguenza, si ha che «se l’individuo, nello spostarsi tra i due poli gemelli dell’imitazione e dell’innovazione, è orientato esclusivamente verso se stesso ed interpreta la libertà come completa libertà di fare come vuole, la moda si trasforma in una caricatura»64. Emblematicamente questo processo può essere descritto dicendo che «persone banali adottano spesso una espressione qualsiasi (generalmente quest’espressione viene adottata da molte persone della stessa cerchia sociale) e la applicano a tutti gli oggetti, a proposito e a sproposito, in ogni occasione»: l’effetto che si ottiene in questo modo è che «il mondo interiore dell’individuo viene sottomesso a una moda e ripete così la forma del gruppo dominato dalla moda» (ivi, 53). L’imitazione di se stessi finisce così con il subentrare all’imitazione degli altri, tuttavia, nel momento in cui la moda diventa “autoreferenziale”, essa «non agisce più come forza di coesione sociale»65. Il vero fascino, «stimolante e piccante» (M, 64), della moda per Simmel sta nel contrasto fra la sua diffusione ampia e onnicomprensiva e la sua rapida, fondamentale caducità, nel diritto all’infedeltà nei suoi confronti. Sta, nella 63 In effetti, osserva Nedelmann, «una volta che la moda è diventata un’istituzione, la conformità alle sue norme adempie alla funzione latente della differenziazione degli individui. La moda istituzionalizzata non ha più bisogno della stampella antropologica della pulsione all’imitazione e all’innovazione. Essa produce da sé le ragioni della continuazione della propria esistenza. Questa è una caratteristica fondamentale dei processi autonomi o di eigendynamik: essi si “emancipano” dai moventi originari, producendo moventi secondari della continuità nel corso del loro stesso sviluppo» (ivi, p. 580). 64 Ibid. 65 Ibid.
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stessa misura, nello spazio ristretto in cui chiude una determinata cerchia sociale, dimostrando come la propria causa e il proprio effetto siano l’appartenenza comune ad essa, e nella risolutezza con cui la separa dalle altre cerchie sociali. Sta, infine, sia nella possibilità di essere sorretti da una cerchia sociale, che impone ai suoi membri una reciproca imitazione liberando l’individuo da ogni responsabilità etica ed estetica, sia nella possibilità, all’interno di questi limiti, di crearsi una sfumatura personale con l’intensificazione o con il rifiuto della moda. Così la moda, pur presentando particolari caratteristiche, dimostra di essere solo una di quelle forme nelle quali la finalità sociale e quella individuale hanno oggettivato con gli stessi diritti le correnti opposte della vita (ivi, 65).
Nella sua astrattezza e nella sua caleidoscopica “trasmutabilità” la moda si rivela essere simmelianamente «pura energia cinetica, qualcosa che nasce dal movimento e lo intensifica»66: Bewegungsform, per usare il linguaggio del suo originale analista. Cifra relativa dell’essere, paragonabile, per astrattezza e mobilità, al denaro come forza e metafora dello scorrere continuo della vita, la moda incarna i tratti salienti dell’anima moderna che nel suo incessante procedere indeterminato – come suggestivamente dirà Simmel nel suo saggio su Rodin – «ama le vie senza le mete e le mete senza le vie»67.
2.3. Configurazioni e vincoli del vivere quotidiano Oltre al fenomeno della moda, anche nel caso in cui Simmel riflette sul fenomeno del pudore68, e più in generale sul problema dell’intimità e della realtà emotiva69, egli riesce sempre a vederne «la relazione con la costruzione del proprio sé da parte dei soggetti individuali»70. Il sentimento del pudore, infatti, che proviamo in tante situazioni della vita quotidiana, costituisce «una forma di difesa dell’integrità della persona dalle pressioni e dai condizionamenti insiti nell’appartenenza alla società e sta quindi alla base della possibilità di costruzione dell’identità personale, costantemente esposta, nella modernità, ai rischi di oggettivazione e alienazione»71: mediante l’espe66
L. Perucchi, Simmel e la moda, cit., p. 82. G. Simmel, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, cit., p. 213. Sul rapporto Simmel-Rodin, cfr. D. Simon, Le forme e il movimento. Georg Simmel e Auguste Rodin, il Segnalibro, Torino 2005, pp. 7-32. 68 Cfr. G. Simmel, Sull’intimità, tr. it. di M. Sordini, intr. di V. Cotesta, Armando, Roma 1996. 69 Cfr. S. Fornari, Del Perturbante. Simmel e le emozioni, Morlacchi, Perugia 2005. 70 M. Picchio, Simmel e Weber: “differenti affinità”, cit., p. 135. 71 Ivi, p. 136. 67
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rienza del pudore «il soggetto vigila continuamente sui confini, sul grado di apertura e chiusura verso l’altro, salvaguardando la propria “differenza” rispetto all’universale sociale proprio opponendosi alla violazione della sfera dell’intimità»72. Gli esempi testé considerati mostrano dunque che in Simmel l’attenzione per il quotidiano «viene esplicitamente tematizzata e non si ferma agli aspetti puramente fenomenologici, ma approda ai nuclei più profondi del suo pensiero»73, espressione paradigmatica di un sapere trasversale che, nella cultura europea di fine Ottocento e inizio Novecento, non ha avuto remore nel disvelare la “tragedia”, le antinomie e le ambivalenze dell’individualismo moderno delle differenze74. Simmel è un pensatore che ha sviluppato una moderna concezione dell’individuo inteso soprattutto come soggettività che «non è solo costituita di razionalità conscia e inconscia, ma anche di istinto, passione e bisogni»75. La sua originalissima “immaginazione sociologica” gli ha consentito di accostarsi all’analisi delle problematiche sociologiche attraverso una spiccata capacità di cogliere «elementi e situazioni particolarmente illuminanti anche nei dettagli della vita sociale, o di riflettere sulle relazioni che si giocano nello spazio privato delle singole individualità, ovvero nella dimensione della vita quotidiana»76. Nell’analizzare, in particolare nella Soziologie (1908)77, secondo una prospettiva sociologica relazionale, l’ambivalenza come forma d’interazione che pervade il dilemma individuo-società78, Simmel non formula il rapporto individuo-società in termini che sono stati ritenuti dalla tradizione sociologica come “dicotomici”. Il centro della sua prospettiva ermeneutica sia filosofica che sociologica ruota attorno al problema dell’individualità nella società moderna. Dalla sua analisi dell’interazione sociale risulta che «l’individuo è costruito socialmente, è il centro di una fitta rete di relazioni e di comunicazioni sociali, il punto geometrico dove si intersecano molteplici cerchie sociali e la sua identità si costruisce in un’opera incessante di attivazione e disattivazione, di darsi e di negarsi, di parole e di silenzi, di
72
Ibid. Ibid. 74 Cfr. R. Bodei, L’individualismo delle differenze: Georg Simmel, in Id., Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 169-186. 75 P. Magnante, Il mondo dell’ovvio. Il concetto di senso comune da Simmel a Pirandello, Firenze Atheneum, Firenze 2001, p. 42. 76 Ibid. 77 Cfr. G. Simmel, Sociologia, cit. 78 Cfr. al riguardo A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, cit., pp. 149-231; cfr. inoltre N. Squicciarino, Introduzione. Georg Simmel e la psicologia sociale, in G. Simmel, Individuo e gruppo, a cura di N. Squicciarino, Armando, Roma 2006, pp. 9-68. 73
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espressione e di riservatezza. La sua libertà non è ontologicamente fondata, ma si alimenta dalla possibilità di muoversi nel tessuto complesso di una società sempre più differenziata»79. Parimenti, la società «non è un ente che si erge in contrapposizione agli individui che la compongono; essa non è altro che la somma di tutte le reti di relazione»80. Di conseguenza, per Simmel, individuo e società «sono costruiti con lo stesso materiale e si implicano reciprocamente, sono due polarità che non possono sussistere separatamente per quanta tensione possa tra loro generarsi»81. Analizzando alcune particolari forme di interazione sociale, Simmel ha saputo evidenziare con maestria sociologica ciò che è impercettibile nel legame sociale, cioè l’infinitamente piccolo: egli ha saputo cogliere in taluni ambiti esperienziali la rilevanza di tante piccole interazioni quotidiane riconosciute come molteplici e fuggevoli forme di vita che disegnano un micromondo fatto di forme di relazioni minori, poco appariscenti, che disvelano l’agire quotidiano dell’individuo nel suo continuo essere e fare società. Dopo Simmel, è stato György Lukács – a suo tempo uno dei più brillanti giovani allievi di Simmel a Berlino82 – a sostenere (poco prima della sua scomparsa, datata 4 giugno 1971) nella Prefazione al volume della sua allieva Agnés Heller – Sociologia della vita quotidiana – che «la vita quotidiana possiede una universalità estensiva. La società può essere compresa nella sua totalità, nella sua dinamica evolutiva, solo quando si è in grado di intendere la vita quotidiana in questa sua eterogeneità universale. Questa costituisce la mediazione oggettivo-ontologica fra la semplice riproduzione spontanea dell’esistenza fisica e le forme più alte della genericità divenuta cosciente, appunto perché in essa ininterrottamente le costellazioni più eterogenee fanno sì che i due poli umani delle tendenze appropriative della realtà sociale, la particolarità e la genericità, operino nella loro interrelazione immediatamente dinamica». uno studio della sfera specifica della vita quotidiana «può dunque far luce sulla dinamica interna dello sviluppo della genericità dell’uomo, proprio in quanto contribuisce a rendere comprensibili quei processi eterogenei che, nella realtà sociale stessa, fanno realmente venire in vita le realizzazioni della genericità»83. Per Lukács, quindi, la vita quotidiana, ovvero la forma immediata della genericità dell’uomo, «appare 79
A. Cavalli, Introduzione, in G. Simmel, Sociologia, cit., p. XXVI. Ibid. 81 Ibid. 82 Cfr. A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna moderna, cit., pp. 23-33 e pp. 263-291. 83 G. Lukács, Prefazione, in A. Heller, Sociologia della vita quotidiana, tr. it. di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 12. 80
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come la base di tutte le reazioni spontanee degli uomini al loro ambiente sociale la quale spesso mostra di operare in modo caotico. Ma proprio per questo vi è contenuta la totalità di questi modi di reazione, naturalmente non come manifestazioni pure, bensì caotico-eterogenee. Chi voglia dunque comprendere la reale genesi storico-sociale di queste reazioni, è obbligato dal punto di vista sia del contenuto che del metodo a indagare con precisione questa zona dell’essere»84. Il filosofo ungherese ha avuto il merito, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, vero e proprio spartiacque epistemologico-fondativo della sociologia della vita quotidiana, a porre in rilievo la tematizzazione della “quotidianità” come problema centrale dell’analisi teoretica, tanto filosofica quanto sociologica. Nel suo approccio ontologico – specifico soprattutto delle sue ultime opere, tra le quali l’Ontologia dell’essere sociale85 – Lukács, con «l’occhio rivolto alla realtà», ritiene che il tema della estrema eterogeneità della vita quotidiana contribuisca a definire meglio «il campo d’indagine capace di riunire la particolarità degli individui concreti alle grandi casualità economiche e sociali del processo storico». Partendo dall’autentica costituzione ontologica dei caratteri paradossali dell’essere e del divenire della vita quotidiana si può così giungere ad un campo di ricerca fondamentale rivolto alla comprensione della genesi e del divenire dell’essere sociale concreto. Illuminare il quotidiano come «genesi e base ontologica delle principali forme di oggettivazione umana», questo è il compito che si prefigge Lukács già a partire dal breve ma strategico capitolo intitolato Vita quotidiana, persona privata e bisogno religioso (per lo più ignorato dai sociologi della vita quotidiana contemporanei) della sua Estetica del 196386, che può senz’altro essere annoverato tra le fonti teoriche della sociologia della vita quotidiana contemporanea e che precede l’analisi successiva ed estesa che il filosofo ungherese compirà della dialettica tra la particolarità della vita individuale e la genericità dell’oggettivazione sociale (in primo luogo il lavoro) che egli svilupperà nell’opera postuma Ontologia dell’essere sociale. Il necessario richiamo a questo capitolo dell’Estetica è essenziale perché è qui che Lukács, tra l’altro, pone il problema del senso e dell’enigma della vita quotidiana. Per Lukács, «ogni attività dell’uomo, ogni sua ricezione dei fenomeni si svolge in un contesto sociale e quindi è oggettivamente legata – in
84
Ibid. Cfr. G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, vol. I, a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1976; Id., Ontologia dell’essere sociale, vol. II, tomo 1 e 2, tr. it. di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1981. 86 Cfr. G. Lukács, Estetica, tr. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 1975, vol. II, pp. 835-863. 85
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modo diretto o indiretto, da vicino o da lontano – al destino della specie umana, allo sviluppo dell’umanità»87. L’uomo quotidiano, in virtù della sua individualità personale e privata quale «centro motore di tutto nella vita e nel pensiero, nel sentimento e nell’azione», nella sua autoriproduzione «crea strumenti che non possono essere maneggiati in modo adeguato se egli stesso usandoli non supera la sua individualità personale o almeno non tende a oltrepassarla in qualche direzione»88. In questo movimento dialettico dell’esistenza la sua individualità personale non viene mai distrutta: essa, anzi, «resta sempre la base di vita cui si attingono le forze essenziali per il suo autosuperamento, la riserva ultima che alimenta gli sforzi in vista sia dei fini prossimi che dei fini supremi»89. Se l’individualità personale non viene di fatto annullata, ciò non significa che essa sia semplicemente conservata: «il suo elevarsi a un livello superiore del possibile umano-sociale provoca in essa trasformazioni di contenuto e di struttura che implicano un esseraltro qualitativo rispetto al suo modo di essere originario e immediato»90. Benché la scienza e l’arte siano tra i più forti fattori della trasformazione qualitativa dell’individualità personale immediata e nonostante nella spontaneità della vita quotidiana tutto sia riferito all’io privato e individuale, occorre sottolineare che le esperienze, in primo luogo quelle del lavoro, insegnano sì agli uomini ad osservare a fondo le leggi, da loro indipendenti, della realtà oggettiva; ma è proprio della vita quotidiana il riferire le conoscenze così acquisite all’io individuale: la sua fortuna o sfortuna nel controllo sul mondo, ottenuto mediante l’osservazione delle sue leggi, appaiono a loro volta riferite al soggetto; l’uomo della vita quotidiana dimentica fin troppo spesso che egli stesso col suo lavoro ha imposto al mondo oggettivo una teleologia; ritiene che la stessa vicenda del mondo sarebbe teleologica, e nel senso che la sua sorte individuale-personale dovrebbe costituire almeno uno dei punti nodali delle serie teleologiche91.
Lukács, com’è noto, si rifà a Nicolai Hartmann, il quale ha bene analizzato la dimensione gnoseologica della spontaneità della vita quotidiana92. Muovendo dalla rappresentazione oggi corrente della vita quotidiana, e dal modo di pensare che in essa predomina, Hartmann si pone i seguenti interrogativi: 87
Ivi, p. 835. Ivi, p. 836. 89 Ibid. 90 Ibid. 91 Ivi, p. 839. 92 Cfr. N. Hartmann, Teleologisches Denken, de Gruyter, Berlin 1951. 88
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C’è la tendenza a chiedersi in ogni occasione “a che scopo, perché” è andata proprio così? “Perché mi è dovuto capitare questo?”, oppure: “Perché devo soffrire così?”. “Perché egli è dovuto morire così presto?”. Per ogni fatto che in qualche modo ci “tocca” è ovvio porsi queste domande, anche se esprimono soltanto perplessità o impotenza. Si presuppone tacitamente che quel fatto debba essere buono per qualche cosa; si cerca di trovarvi un senso, una giustificazione. Come se fosse pacifico che tutto ciò che accade debba avere un senso93.
All’uomo quotidiano il caso appare come un che di incalcolabile, che stravolge e turba i suoi progetti. Qui si danno soltanto due possibili movimenti. L’uno «tende a conoscere la necessità causale del caso, la dialettica di caso e necessità, riconosciuta ed elaborata filosoficamente per la prima volta da Hegel»94. L’altro movimento ha le sue radici nella concezione generale del mondo della vita quotidiana. Da essa consegue l’avversione del pensiero quotidiano contro il caso: «esso non può essere negato come fatto», ma è interpretato come «un che di previsto e di voluto al tempo stesso, dietro al quale sta un’altra preveggenza, non più umana, una volontà superiore a quella dell’uomo». Qui appare in tutta evidenza come la “concezione del mondo” della vita quotidiana trapassi nella sfera religiosa. Questo fenomeno, di per sé profondamente radicato nella vita quotidiana, è dovuto al fatto che nella vita quotidiana «teoria e prassi sono in rapporto immediato»95. In virtù di questo principio «universalmente dominante», tutto «è riportato all’io attraverso un riferimento teleologico, in quanto nella vita quotidiana ogni spiegazione dei nessi oggettivi ottenuta nel lavoro e nella scienza, ogni superamento artistico dei riferimenti al soggetto, cioè esistenti in sé, torna sempre a dipendere in modo teleologico spontaneo dal soggetto individuale personale»96. Per Lukács, la profonda “affinità” tra la vita quotidiana e la vita determinata dalla religione dipende dal fatto che «la religione – a differenza dell’arte e della scienza che distruggono questo riferimento teleologico spontaneo all’io individuale – tende e deve tendere a conservare, a perpetuare questa struttura»97. Hartmann ha chiarito, sia sul piano del contesto categoriale dei «fatti elementari» della vita quotidiana che su quello dei problemi ideologici, come il riferimento teleologico all’io personale finisca col deformare e falsificare le questioni che si presentano. Illustrando la
93
Ivi, p. 13. G. Lukács, Estetica, vol. II, cit., p. 840. 95 Ibid. 96 Ibid. 97 Ivi, pp. 840-841. 94
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falsa alternativa: «il mondo dev’essere o sensato o insensato», Hartmann ha chiarito come anche questo dilemma di fatto «nasce soltanto dal riferimento teleologico del mondo esterno all’io personale, dove l’insensatezza – sotto l’aspetto negativo – è teleologicamente raggruppata intorno all’uomo individuale al pari della sensatezza, valutata positivamente»98. Diversamente da tutto ciò, oggettivamente si può individuare secondo Hartmann una terza possibilità relativa alla datità di un mondo che «non è né sensato né insensato ma indifferente rispetto al senso»99. Esso, come scrive Hartmann, è il mondo che nel suo complesso non è determinato rispetto al senso, e nel quale a seconda delle circostanze (cioè secondo la cieca necessità del “caso”) sensatezza e insensatezza si mescolano variamente. Ma è proprio ciò che vediamo empiricamente di continuo nel mondo dato. Di questa varia mescolanza tra sensatezza e insensatezza non si deve dare affatto un’interpretazione teleologica; in essa non c’è alcuna direzione prestabilita […]. Solo l’uomo con la sua interpretazione ha trasformato il senso aperto del mondo in un senso chiuso. Solo così egli nega la significatività che poteva dargli e ne fa un mondo veramente insensato100.
Se nella pratica quotidiana il momento centrale è costituito «dalla preservazione della personalità individuale», soprattutto attraverso il lavoro, con il quale «l’uomo acquista coscienza di un reale rapporto soggetto-oggetto»101, tuttavia, secondo Lukács, la vita quotidiana non è affatto semplicemente «la scena di attività pratiche immediate», poiché in essa trovano posto «grandi drammi della vita umana»102. Basti pensare al fenomeno della morte, – (intesa anche nella dimensione interstiziale della perdita)103 –, alla nostra o a quella di una persona a noi strettamente legata. La morte come situazione estrema rivela con molta chiarezza le determinazioni reali della vita quotidiana nel loro nesso reale. A suo tempo, già Simmel, nella Lebensanschauung (1918), ha sperimentato – in quanto singolo soggetto – il rapporto metafisico che intercorre fra individualità e singolarità: l’uomo è l’essere-limite la cui esistenza si svolge sempre compresa fra «l’aspirazione all’Assoluto e la limitatezza della sua forma sensibile»104. Quello della vita è dunque «un 98
Ivi, p. 841. Ibid. 100 N. Hartmann, Teleologisches Denken, cit., p. 109. 101 G. Lukács, Estetica, vol. II, cit., p. 842. 102 Ivi, p. 847. 103 Cfr. G. Gasparini, Perdere, in Id., Interstizi. Una sociologia della vita quotidiana, Carocci, Roma 2002, pp. 79-93. 104 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 122. 99
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movimento oltrepassante: un incessante porre e negare limiti»105. Il continuum della vita si relativizza e si oltrepassa, frangendosi nel discontinuum delle forme. L’uomo è consapevole di questa sua peculiare posizione “metafisica” perché è lui soltanto che ha il senso della morte, come Simmel sostiene nel suo saggio Zur Metaphysik des Todes apparso su «Logos» (1910-11)106, poi sostanzialmente ripreso e modificato nel terzo capitolo della Lebensanschauung (Tod und Unsterblichkeit)107. una filosofia quella simmeliana che definisce la vita come un continuo oltrepassamento delle forme e dei limiti non può eludere una riflessione sull’ultima frontiera che è la morte. Simmel affronta il tema della morte come forma-limite. Nel «più-vita» (Mehr Leben) è implicito l’estraneo alla vita: il suo altro – la morte del «più-che-vita» (Mehr als Leben). La morte «è il momento costitutivamente formale della vita, il suo “confine immanente”, connesso alla vita “fin dal principio e dall’interno”. E in ciò essa rivela lo stesso segreto della forma»108. Scrive infatti Simmel: «Il segreto della forma sta nel fatto che essa è limite; essa è la cosa stessa e ad un tempo il cessare della cosa, il territorio in cui l’essere e il non-essere-più della cosa sono una cosa sola» (IdV, 79). La forma è “confine” spaziale e temporale e la morte è ciò che delimita la vita dell’uomo, ciò che appunto le conferisce 105 F. Desideri, Il confine delle forme. Dalla “Philosophie des Geldes” alla “Lebensanschauung” “Lebensanschauung”, cit., p. 115. Come rileva criticamente Dal Lago (Il ( conflitto della modernità, cit., pp. 236-237): «Il concetto di limite assume nell’ultima filosofia di Simmel il ruolo di emblema dell’ambivalenza esistenziale, del dubbio e dell’antiteticità dello spirito. Se infatti l’essenza dell’uomo è stare tra i limiti, di essere un limite e di avere dei limiti, la sua stessa natura vitale lo porta a trascenderli […]. Così, l’essere umano trascende i confini dell’animalità, del determinismo biologico […] nel pensiero, nella fantasia, nell’astrazione, nel calcolo. Ma qui, proprio nel dar forma a questo oltrepassamento, nel perseguire una verità, è annidato coestensivamente il dubbio. Questo è infatti connaturato al processo vitale, che spinge l’essere umano a superarsi, a oltrepassare le sue stesse realizzazioni, a negare la verità che aveva posto come distinzione dalla sua natura inferiore, dall’animalità. Ma anche lo scetticismo in cui sfocia il suo protendersi oltre, il suo varcare (Überschreiten) confini e limiti, dà luogo a una perpetua oscillazione […]. Lo spirito umano pertanto è nella sua natura antitetico, nel senso che a ogni affermazione di verità […] può sempre esserne contrapposta un’altra. Si tratta di un’idea scettica della verità sostanzialmente diversa da quella interattiva e relativa esposta nella Filosofia del denaro. Ora la verità non è più il risultato funzionale dello scambio, della Wechselwirkung universale, ma un limite sempre superabile e superato. A questo scetticismo costitutivo non si danno vie d’uscita nel mondo, e cioè nella sfera delle rappresentazioni spirituali. Solo l’intuizione fondamentale di essere, di partecipare al processo vitale, non può essere confutata dallo scetticismo». 106 Cfr. G. Simmel, Metafisica della morte, in Id., Arte e civiltà, a cura di D. Formaggio e L. Perucchi, tr. it. di L. Perucchi, Isedi, Milano 1976, pp. 67-73. 107 Cfr. G. Simmel, Intuizione della vita, cit., pp. 79-122 (d’ora in poi IdV ). Al riguardo, cfr. A. De Simone, Simmel e la metafisica della morte, in «InOltre», vol. 10, 2007, pp. 122-128. 108 F. Desideri, Il confine delle forme, cit., p. 115.
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forma: «proprio per il fatto che il vivente muore, che il morire è posto con la sua natura stessa […], la sua vita riceve una forma» (ibid.). La morte, intesa come limite invalicabile della vita, «è propriamente ciò che giustifica la vita stessa, conferendole un senso: l’esistenza individuale, in quanto forma irripetibile, è ciò ch’è destinato a essere superato dal procedere incessante della vita universale»109. Secondo Simmel, per comprendere appieno il significato della morte, occorre liberarsi dalla rappresentazione delle “Parche” «in cui si esprime il suo aspetto consueto per cui in un determinato momento del tempo il filo della vita, fino ad allora dipanatosi come vita ed esclusivamente come vita, verrebbe “reciso” d’un sol colpo» (IdV, 79). Questa concezione meccanicistica che simboleggia la morte come la “falce” che coglie il vivente «dal di fuori», misconosce in realtà il fatto che «la morte è congiunta a priori ed intrinsecamente alla vita» (ivi, 80): essa è «un momento formale della nostra vita». Pur essendone «l’antitesi materiale della vita», questa antitesi della vita non ha altra origine se non la vita stessa: «è la vita stessa che l’ha prodotta e che la racchiude in sé» (ivi, 81). Come leggiamo nel suo Rembrandt (1916), per Simmel, «sin dall’inizio la morte è dentro la vita»110. Certo, essa raggiunge una evidenza macroscopica, una sorta di autocrazia, solo in quell’attimo. Ma la vita sarebbe diversa sin dalla nascita, e in ciascuno dei suoi momenti e in ciascuna delle sue fasi, se noi non morissimo. La morte non si pone rispetto alla vita come una possibilità che prima o poi diverrà realtà, ma la nostra vita vien resa ciò che noi conosciamo solo dal fatto che, crescendo o appassendo, al culmine della vita come all’ombra del suo declinare, noi siamo sempre destinati a morire111.
La morte, dunque, è sin dall’inizio «un character indelebilis» della vita. «Se la vita è essa stessa duplicità, il movimento di costituzione dei valori non potrà essere un movimento di costituzione sulla morte, contro la morte, bensì solo e necessariamente attraverso la morte, attraverso il nulla. Già nel più-vita è implicito il suo altro, o più precisamente, se stessa come altro»112. Coabitando con la vita, la morte è in essa costantemente presente: «In ogni momento della vita noi siamo esseri che moriranno ed ogni momento sarebbe diverso se questa non fosse la nostra destinazione connaturata, attiva in qualche modo in esso» (IdV, 81). La morte però non è l’ultima forma,
109
F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 123. G. Simmel, Rembrandt. Un saggio di filosofia dell’arte, tr. it. a cura di G. Gabetta, Se, Milano 1991, p. 106. 111 Ibid. 112 G. Antinolfi, Introduzione, in G. Simmel, Intuizione della vita, cit., p. XIX. 110
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ma soltanto «un momento» formale della nostra vita: «Quanto poco siamo compiutamente presenti nell’istante della nostra nascita, ed anzi qualcosa di noi nasce di continuo, tanto poco moriamo solo nel nostro istante supremo» (ibid.). Tutto il movimento verso il valore, cioè lo sviluppo delle forme culturali, è dunque inteso da Simmel «sullo sfondo di questa metafisica della morte»113: «La vita che noi consumiamo nell’avvicinarci alla morte, la consumiamo per fuggire la morte. Noi siamo come degli uomini che procedono su una nave in direzione opposta alla sua rotta: mentre essi vanno verso Sud, il ponte su cui camminano viene portato verso Nord insieme con loro. E questa duplice direzione del loro essere in movimento determina di volta in volta la loro posizione nello spazio» (IdV, 88). Affrontando il rapporto tra morte e immortalità, Simmel ritiene che «se noi vivessimo in eterno, la vita resterebbe presumibilmente fusa in modo indifferenziato con tutti i suoi valori ed i suoi contenuti, non vi sarebbe alcuno stimolo reale per pensarli al di fuori dell’unica forma in cui essi possiamo conoscerli e spesso viverli senza limitazioni» (ivi, 89). Ma noi, precisa Simmel, «moriamo e quindi sperimentiamo la vita come qualcosa di casuale, di caduco, come qualcosa che può, per così dire, essere anche diversamente. Solo per questa via sarà sorta l’idea che i contenuti della vita non necessariamente devono condividere il destino del suo processo» (ibid.). L’idea sembra dunque possa derivare il proprio valore ed il proprio diritto dal fatto «di essere l’altro dalla vita, di rappresentare cioè la liberazione dalla casualità, dal fluire temporale»114. Solo l’esperienza della morte dissolve quella fusione, quella solidarietà dei contenuti della vita con la vita stessa. Per Simmel, è proprio con questi contenuti dotati di un significato atemporale che la vita temporale attinge la propria altezza più pura; accogliendo in sé questi contenuti che sono più che la vita stessa, oppure riservandosi in essi, la vita procede oltre se stessa, senza perdersi, anzi guadagnando propriamente se stessa solo così; infatti solo così il suo decorso, in quanto processo, acquista un senso e un valore e sa, per così dire, perché esiste. La vita deve prima poter separare idealmente da sé questi contenuti, per elevarsi consapevolmente ad essi; ed essa pone in atto questa scissione in considerazione della morte, che può sì porre fine al processo della vita, ma non può annullare il significato dei suoi contenuti (IdV, 90).
113 114
F. Desideri, Il confine delle forme, cit., p. 115. G. Antinolfi, Introduzione, in G. Simmel, Intuizione della vita, cit., p. XIV.
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Simmelianamente, «nell’immanenza della morte, il soggetto non sperimenta solo la transitorietà della vita, ma sperimenta, anzi conquista, il perché del suo Esserci. Se infatti la morte forma la vita, essa non può comprenderla, darle un senso. Solo l’individuo, sperimentando l’unicità della propria morte come senso e limite può trascendere i meri contenuti della propria vita»115. Simmel spiega questa concezione della morte in una delle pagine centrali del suo Rembrandt, allorquando scrive che «finché la morte si pone al di fuori della vita, finché è lo spettro scheletrico (secondo il simbolo spaziale che la caratterizza in tal senso) che ci balza di fronte all’improvviso, essa è naturalmente unica per tutti gli individui. Perdendo la sua antiteticità alla vita, essa perde contemporaneamente la sua natura sempre uguale e generale; nella misura in cui diventa individuale, ed “ognuno” muore “la sua morte”, essa è legata alla vita in quanto tale e quindi alla sua forma di realtà, all’individualità. Se dunque si coglie la morte non come un’entità brutale che aspetta dal di fuori, come un destino che ci colpisce solo in un certo istante, ma si coglie la sua indissolubile, profonda immanenza alla vita stessa, allora la morte […] non diviene che un sintomo del modo incondizionato con cui […] il principio della vita si congiunge con quello dell’individualità»116. Se le forme sono limiti che la vita si pone da se medesima per autotrascendersi, nel loro superamento avviene un processo di distruzione che si propone come possibilità esistenziale, vita rinnovata: la morte, quindi, è «un principio immanente» decisivo per la comprensione e valutazione della vita. Nella «metafisica della morte» di Simmel, «la morte, pur essendo un limite, non è comunque un terminus ad quem, bensì è il fattore condizionante di tutti i momenti dell’esistenza. E dunque la vita come vive della morte, così vive delle forme che muoiono, e che perennemente trascende»117. La morte delle forme, così, «assume l’identico aspetto della morte degli individui. E se quelle periscono come individualità per essere assimilate dalla vita, e permangono nella traccia futura delle civiltà culturali, questi periscono come individui biologici, ma non come creatori d’idee; sopravvive in essi l’essenziale dell’individualità»118. Se la vita è il processo da cui ogni esistenza ha origine, il destino119 e la morte sono «le forme che plasmano l’essere 115
A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 237. G. Simmel, Rembrandt, cit., p. 115. 117 G. Di Giovanni, Teoria della conoscenza e filosofia della vita in Georg Simmel, De Luca, Roma 1968, p. 49. 118 Ivi, pp. 49-50. 119 Cfr. la nota simmeliana sul concetto di destino in IdV, 97-103. 116
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umano determinando il suo Dasein, attribuendogli figura di individuo»120. Infatti, la morte, intesa come limite, «conferisce un senso all’apparente accidentalità (Zufälligkeit) della configurazione specifica che la vita individuale assume, e la trasforma in destino (Schicksal), nel momento in cui l’individuo “sceglie” di non considerare casuali gli eventi, ma di inserirli consapevolmente in un coerente svolgimento della propria vita»121. In questo senso, come scrive Simmel, «i singoli “destini” vengono determinati essenzialmente dall’esterno, ossia in essi il fattore oggettivo appare quello predominante, ma la loro totalità, ossia il “destino” di ciascun uomo viene determinato dalla sua natura» (IdV, 101)122. Da tutto ciò consegue, secondo Simmel, che la vita umana, concepita come consapevole costruzione di un destino, «non ha bisogno di postulare l’idea dell’immortalità individuale, e anzi finisce per aver bisogno della morte per dare senso compiuto alla forma che essa stessa rappresenta: solo la vita universale non muore, ma nel suo procedere infinito sperimenta la morte delle infinite forme che crea, di cui la vita umana è la più consapevole»123. La vita divora le forme per poi nuovamente riportarle ad essere, «in un movimento del porsi e contrapporsi che si consuma nell’unità fondamentalissima della vita»124. La vita vince la morte, non eliminandola, piuttosto riportandola dentro di sé, cioè facendola di volta in volta di nuovo essere come a sé contrapposta: qui «non si tratta di trovare un momento di sintesi, ma di scoprire l’unità dell’antitesi»125. un’unità, questa, in cui la morte è 120
A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 238. F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 123. 122 Cfr. G. Simmel, Il problema del destino, cit., p. 182, in cui Simmel scrive: «Nell’uomo […] l’essere al di sotto o al di sopra del destino riceve sempre la sua coloritura dal fatto che avere un destino è il propriamente umano e la nostra determinazione propria. Essere al di sotto del destino significa non avere alcuna intenzione vitale propria, in forza della quale l’assimilazione dei meri eventi, nel dominarli o nell’essere dominati, possa in generale diventare un compito; significa dunque essere noi stessi mero evento e lasciar permanere le cose, anche là dove ci toccano, nel loro flusso privo di senso. Chi invece è al di sopra del destino possiede un’intenzione vitale così inamovibile e ininfluenzabile al suo interno che l’essere e il corso delle cose, destinati a venire assorbiti dalla vita, non costituiscono per lui un problema. Chi è al di sopra del destino non può essere l’eroe di una tragedia. Se infatti la tendenza dell’essere dell’eroe subisce l’intera violenza della realtà fuori di lui, tuttavia questo soffrire è a sua volta compreso dal suo fine vitale, di modo che il dualismo tra realtà e senso, patito senza residui, è la forma in cui vive l’unità di questo senso. Al contrario, in chi è al di sopra del destino, questa forma non soggiace affatto a tale dualismo». 123 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 123. 124 V. d’Anna, Il denaro e il Terzo regno. Dualismo e unità della vita nella filosofia di Georg Simmel, cit., p. 131. 125 Ibid. 121
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un a priori e nel contempo pure è vinta: «così sono soggetto alla morte per quanto, come individuo vivente, ho una determinata conformazione, ma per quanto partecipo della vita in generale sono immortale»126. Il mio essere immortale è a partire dall’anima, che è «la radice unitaria dell’esperienza, al di là e più in profondo di ogni contrapposizione». Scrive Simmel: Il nodo problematico di morte e immortalità non ha in generale un rapporto dappertutto identico con la realtà dell’“anima”, bensì è l’individualità dell’anima a differenziare questo rapporto. una volta Goethe ha detto di essere sì persuaso della nostra immortalità, ma che non tutti siamo immortali alla stessa maniera, bensì che la grandezza della nostra esistenza ultraterrena dipende da quanto si è grandi. Questa cognizione alquanto immediata secondo cui l’anima, per così dire, supera la morte nella misura della sua forza, ovvero secondo cui il suo annientamento è tanto più inconcepibile quanto più essa è pregevole e insostituibile – si erge al di sopra di un collegamento di concetti di fatto opposto (IdV, 103).
Simmel distingue l’individuo dall’anima: «entrambi singolari ma in modo differente»127. Diversamente dall’individuo, l’anima non è una forma: «ciò che rende mortale l’uno, rende immortale l’altra»128. Come ben sintetizza d’Anna, attento lettore ed interprete di Simmel: Abbiamo da una parte quel che è accaduto, sempre all’interno di una certa costellazione storica, da un’altra l’anima, che è la radice nascosta della nostra esperienza, e sta così in profondo da sottrarsi ad ogni determinazione storico-relativa. L’anima è individuale, si trova però su di un piano ultimo, più indietro di quello delle forme individuali (biologiche, psichiche o spirituali che siano), e come tale rappresenta l’unità ultima della vita. È, come la vita, irriducibile ad una fissazione in termini di contenuto: vi riecheggiano le infinite risonanze delle tensioni nascoste, delle possibilità rimaste latenti, delle aspirazioni inespresse, dell’alone in cui si sfumano i sentimenti, delle ambiguità dell’esistenza. Ma non solo, vi è ancora qualcosa d’altro: la sensibilità che sta al fondo del nostro agire, del nostro sentire, del nostro tendere a qualcosa, anche quando non sappiamo cosa sia: tutto ciò Simmel lo chiama “stile di vita”, ed è dell’anima. Qui l’io non coincide con la forma, che è sempre per dei contenuti, ma con una nascosta, fondamentalissima modalità del vivere, per così dire, con l’intenzione che ci fa diventare quel che siamo. Se l’individuo in quanto forma (organica o spirituale), ha a che fare con dei contenuti, che sono nell’unità della sua esistenza, l’anima i contenuti se li trova di fronte come qualcosa di soltanto occasionale: potrebbero essere 126
Ibid. Ibid. 128 Ibid. 127
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completamente altri, eppure essa rimarrebbe sempre la stessa. un medesimo uomo, informato dall’identico stile di vita, per riprendere un esempio di Simmel, nato nell’Atene di Pericle, nella Norimberga medioevale, o nella Parigi moderna, come individuo è tre persone distinte, come anima una persona sola. L’anima consiste nella vocazione o, se si vuole, nell’intenzione al fondo della nostra esperienza129.
«Immortalità», dunque, per Simmel, significa soprattutto «non già prefigurazione di un piano trascendente l’esperienza, ma che nella vita, quasi costringendola, l’anima torna a manifestarsi»130. Simmel qui avanza analogicamente l’idea della metempsicosi: «La metempsicosi rappresenta questa eternità della vita in una frantumazione direi quasi prismatica in innumerevoli esistenze, diversamente caratterizzate e individualmente limitate. In questo caso la morte non è che la fine di una forma individuale della vita, ma non della vita che in essa è apparsa» (IdV, 114). In questo caso, però, a trasmigrare «non sarebbe un’entità sostanziale, con ciò che di contenutisticamente determinato in essa vi è, ma un’unità funzionale, quel particolare modo di sentire e di rapportarsi che chiamiamo il nostro io individuale. Non solo allora la vita in generale vince la morte, ma anche la vita vince la morte, e la vince in quanto partecipa della vita in generale e nello stesso tempo è la mia vita. È come se la realtà data (l’insieme dell’esperienze di un uomo) fosse qualcosa di inadeguato, di troppo determinato nei contenuti, per esprimere l’intenzione profonda che sta al fondo della sua esistenza. E allora le potenzialità inespresse, che si sono oggettivate in modo insufficiente, cercano nuove vie di oggettivazione. Per questo gli uomini sarebbero immortali in ragione della loro individualità, perché diversa in ciascuno di loro è la forza della vitalità, la volontà di continuare a riaffermare l’io. E specialmente per questo a trasmigrare non sarebbe qualcosa di contenutisticamente determinato, ma una potenzialità di determinazione, che è l’intenzione profonda che sottende un’esistenza. Allora la vita che vince la morte è la radice unitaria dell’esperienza, più in profondo della distinzione di soggetto e oggetto. E la vince non in un al di là ultramondano, ma qui sulla terra, tornando ogni volta sulla terra a manifestarsi quello che è l’ultimo modo di essere di un’esistenza individuale. In un terzo regno che, del primo – empirico – ha il senso dell’immanenza, e del secondo – trascendente – il senso dell’eterno, l’anima immortale vive nel tempo»131.
129
Ivi, p. 132. Ivi, p. 134. 131 Ibid. 130
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L’INQuIETO
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Nella Lebensphilosophie dell’ultimo Simmel, la vita in generale è «unità assoluta, in ultima istanza atemporale, mentre l’individuo nel tempo muore»132. L’anima, invece, ha qualcosa dell’una e dell’altro: «è immortale e individuale; come i prodotti dell’arte e della filosofia, che stanno nel terzo regno del tipo, anch’essa è individualità essenziale, al di là del relativo, tanto dei contenuti storico-obiettivi che psicologico-soggettivi»133. Come sostiene d’Anna, qui Simmel «si lascia alle spalle il dualismo, con la scoperta di un punto di coincidenza di essere e divenire». L’anima è immortale «non in quanto al di sopra del divenire della vita ma in quanto vi sta dentro, e a tal punto vi partecipa che ne è la trasposizione dell’assolutezza in una specifica modalità di esistenza, in un io che vive in eterno. E questo perché la vita è sempre in una certa determinazione individuale, e se essa – pur nel tempo – è atemporale, allora farà in qualche modo atemporale anche l’individuale della determinazione»134. Di fronte alla forma-limite, all’esperienza della morte, ovvero «all’annullamento inesorabile proprio della personalità individuale dell’uomo», come dice Lukács, le determinazioni decisive della vita religiosa «devono apparire in tutta la loro evidenza e nel pieno della loro problematicità interna»135. In questo caso, l’essenziale diventa «il fondamento del bisogno religioso nella vita quotidiana, il desiderio che il nesso causale del tutto indipendente dalla coscienza umana subisca una conversione teleologica che corrisponda alle esigenze di vita più elementari e più autentiche dell’individuo particolare e personale»136. In tale situazione la «preghiera religiosa» assume una particolare determinazione magica in quanto «si rivolge alla misericordia di Dio e spera di ottenere che egli faccia un miracolo, cioè sospenda in questo caso speciale l’azione normale delle leggi di natura, che la religione di regola riconosce»137. Anche per Lukács, dunque, il rapporto della morte col bisogno religioso è per sua essenza «un problema della vita, della condotta della vita umana», anche se, implicitamente, «nella maggior parte dei casi le connessioni, le mediazioni vere e reali non diventano consapevoli»138. Lukács per comprendere gli effetti problematici di questo rapporto si richiama a Tolstoj, il quale, soprattutto in riferimento alla religiosità esteriore del contadino, ha cercato 132
Ibid. Ibid. 134 Ivi, pp. 134-135. 135 G. Lukács, Estetica, vol. II, cit., p. 847. 136 Ibid. 137 Ibid. 138 Ibid. 133
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nelle sue opere di chiarire la profonda corrispondenza tra la condotta di vita e la morte, del rapporto tra vita sensata o insensata. Per lui, scrive Lukács, «l’aspetto soggettivo della morte, come conclusione di ogni vita, corrisponde quindi esattamente alla condotta di vita della persona: la vita vissuta sensatamente è conclusa da una morte calma, la vita insensata è conclusa da una lotta tormentosa e disperata con la fine insensata»139. Nella modernità la specifica problematicità del bisogno religioso viene condizionata dallo sviluppo del processo di razionalizzazione scientifica e di parallelo “disincantamento del mondo”, che non riesce a conferire alla vita un senso che oltrepassi la dimensione meramente pratica e tecnica. Per spiegare questa contraddittorietà, anche Weber140, di cui Lukács è stato da giovane allievo, ha fatto esplicitamente riferimento a Tolstoj, concordando “simpateticamente” con lo scrittore russo nel ritenere che la morte, e con essa la vita, non possono in quanto tali ricevere senso dalla scienza. Al riguardo Löwith ha osservato: «Weber si richiama al vecchio Tolstoj, che disse di no a tutta questa civiltà tecnico-scientifica, e per un motivo validissimo. Egli si chiedeva se la morte avesse un significato in una civiltà così industrializzata; per l’uomo appartenente a una civiltà pervasa da volontà di progresso e da fede nel progresso essa non ce l’ha, perché in conformità all’infinito progresso scientifico la vita non dovrebbe avere una fine»141. un brano della celebre conferenza Wissenschaft als Beruf ribadisce il significato del richiamo di Weber a Tolstoj: Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva “vecchio e sazio della vita” poiché si trovava nel ciclo organico della vita, poiché la sua vita, anche per quanto riguarda il suo senso, gli aveva portato alla sera del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché per lui non rimanevano enigmi che desiderasse risolvere ed egli poteva perciò averne “abbastanza”. Ma un uomo civilizzato, il quale è inserito nel processo di progressivo arricchimento della civiltà in fatto di idee, di sapere, di problemi, può diventare sì “stanco della vita”, ma non sazio della vita. Di ciò che la vita dello spirito continuamente produce egli coglie soltanto la minima parte, e sempre soltanto qualcosa di provvisorio, mai di definitivo: perciò la morte è per lui un accadimento privo di senso. E poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale, che proprio in virtù della sua “progressività” priva di senso im-
139
Ivi, p. 849. Cfr. A. De Simone, Senso e razionalità. Max Weber e il nostro tempo, QuattroVenti, urbino 1999, p. 168 sg. 141 K. Löwith, Max Weber e Karl Marx, in Id., Marx, Weber, Schmitt, tr. it. di A.L. Giavotto Kunkler e A.M. Pozzan, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 103. 140
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L’INQuIETO
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prime alla morte un carattere di assurdità. Ovunque, nei suoi ultimi romanzi, quest’idea costituisce il motivo fondamentale dell’arte di Tolstoj142.
Nell’orizzonte filosofico in cui si muove Lukács, in termini ontologici, lavoro, teleologia e libertà, linguaggio, particolarità e generalità, oggettivazione, alienazione ed estraniazione sono alcune delle categorie specifiche dell’essere sociale considerate in rapporto al tema della vita quotidiana. La peculiarità dell’essere sociale come «complesso dei complessi» è individuata nella capacità dell’uomo di dare risposte alle necessità vitali e all’ambiente: l’uomo come «soggetto dell’alternativa»143, «è un essere che risponde»144. Nello specificare il ruolo della vita quotidiana, Lukács distingue, da un lato, le forme superiori di oggettivazione (ad es., arte e/o scienza), e, dall’altro, il complesso delle oggettivazioni che sono di fatto finalizzate alla riproduzione della vita biologica e di una data società145. «Nelle prime l’uomo, oltre a essere un ente che risponde, è sempre più l’ente che domanda, acquistando distanza dall’ambiente naturale ed originando egli stesso l’impulso a nuove conoscenze e realizzazioni. Le seconde rappresentano il nerbo della quotidianità e sono caratterizzate da un pensiero antropomorfizzante, che cioè riferisce ogni fatto al singolo soggetto che lo sta vivendo»146.
2.4. Ri-pensare l’esperienza della vita sociale quotidiana Nelle condizioni odierne, pensare filosoficamente e sociologicamente cosa significa dar senso alla vita quotidiana comporta di fatto prendere posizione su una realtà controversa ed enigmatica della nostra contemporaneità individuale e collettiva in continua trasformazione. È necessario comprendere ed analizzare meglio la dimensione epistemologica delle categorie sociologiche con cui pensiamo la vita quotidiana se non vogliamo fare della sociologia della vita quotidiana una filosofia falsamente “popolare”. A questo proposito, si può e si deve riconoscere sul piano analitico, concettuale ed euristico un particolare valore strategico all’interstizio come vero e proprio “paradigma sociologico” capace di riflettere analiticamente e comprendere ermeneuticamente le molteplici esperienze che connotano la 142 M. Weber, La scienza come professione, in Id., La scienza come professione. La politica come professione, a cura di Pietro Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 18. 143 G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, vol. II, t. 1, p. 114. 144 Ivi, p. 324. 145 Cfr. R. Mancini, L’uomo quotidiano, Marietti, Torino 1985, p. 152. 146 Ibid.
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vita quotidiana. Si deve alla sociologia degli interstizi147 il fatto di aver chiarito in modo originale e persuasivo che gli interstizi della vita quotidiana possono fornire un supplemento di senso «all’analisi di aree significative del sociale, così come all’interpretazione di certi punti di snodo tra orientamenti individuali e comportamenti collettivi»148. In effetti, «l’attenzione all’interstizialità come categoria ci consente di mantenere vigile l’immaginazione sociologica e di alimentare la creatività, di seguire certe trasformazioni che partono dal basso o da esperienze apparentemente banali e inizialmente trascurabili, di tenere il mondo aperto attraverso quelle soglie paradossali che sono appunto gli interstizi della vita quotidiana»149. Se gli interstizi nell’analisi sociologica costituiscono una sorta di categoria tanto intuitiva quanto analitica, giacché essi rappresentano «una mimesi della realtà fisica»150, allora occorre registrarne la valenza descrittivo-interpretativa che consenta di interrogarci criticamente qui di seguito su alcuni aspetti cruciali che connotano a titolo esemplificativo il pensare sociologicamente la vita quotidiana. L’esperienza della vita quotidiana, nella nostra contemporaneità, è ricolma di situazioni paradossali, ma soprattutto di marginalità: quest’ultima si è universalizzata, è divenuta «maggioranza silenziosa»151. Ciò implica la possibilità di approntare un’analisi polemologica della cultura152, dal momento che, in particolare, le tattiche odierne del consumo finiscono per sfociare in una politicizzazione delle pratiche quotidiane, mentre la comunicazione come «viaggio dello sguardo» riconferma il primato epocale del paradigma ottico, ovvero della supremazia dell’occhio, che già Simmel aveva descritto nella sua sociologia dei sensi. Tra new economy e semiocrazia, il consumatore vive l’esperienza quotidiana dell’ipertrofia della lettura («occhio esorbitante della cultura contemporanea e del suo consumo»), perché ridotto sempre più a voyeur itinerante, a navigatore nomade, errabondo in una “società 147 Cfr. G. Gasparini, Sociologia degli interstizi. Viaggio, attesa, silenzio, sorpresa, dono, Bruno Mondadori, Milano 1998; Id., Tempo e vita quotidiana, Laterza, Roma-Bari 2001; Id., Interstizi. Una sociologia della vita quotidiana, cit. 148 G. Gasparini, Interstizi. Una sociologia della vita quotidiana, cit., p. 106. 149 Ibid. 150 Ivi, p. 102. 151 Cfr. M. de Certau, L’invenzione del quotidiano, tr. it., prefazione di A. Abruzzese e postfazione di D. Borrelli, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p. 13. 152 Per A.W. Gouldner (La sociologia e la vita quotidiana, a cura di R. Rauty, Armando, Roma 20022, p. 31), la vita quotidiana può essere in parte interpretata «come critica implicita del concetto convenzionale e reificato di cultura; peraltro […] il concetto di vita quotidiana mentre esprime la critica di un concetto tecnico come quello di “cultura” ha anche radici profonde nella critica di una serie di fattori tradizionali della cultura comune, quotidiana, occidentale».
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dello spettacolo”: la stessa esperienza dello “zapping” lo inserisce in una dimensione interstiziale. L’uomo quotidiano è l’uomo comune (der gemeine Mann). È l’uomo «senza qualità»153: l’eroe di tutti i giorni, un personaggio diffuso nella scena metropolitana. L’uomo quotidiano, l’uomo comune, il “ciascuno-nessuno”, si confonde nel rumore della storia. È l’eroe anonimo che vive nel brusio della società. Allora, perché per i sociologi esso occupa il centro della scena sociale? Se siamo sottomessi alle pratiche del linguaggio comune, anche se non ci identifichiamo in e con esso, come possiamo pensare il quotidiano, dal momento che nel conoscere umano l’intervento necessario del pensiero attesta sempre e comunque che il conoscere umano è necessariamente finito e, pertanto, necessariamente temporale? Con quale prosa del mondo possiamo descrivere e interpretare le traiettorie, le strategie, le tattiche e le retoriche del quotidiano, dell’everyday life, nelle strutturazioni fattuali (storiche), nelle “forme di vita” (Lebensformen) che caratterizzano la nostra esistenza contemporanea? I fatti della vita quotidiana sono approssimazioni della verità o è un mondo della realtà solo apparente? C’è una scienza transdisciplinare della vita quotidiana? Il tempo comune (quello condiviso) della vita quotidiana è (sempre) altro rispetto alla storia? Per Hegel, «in ciò che noi siamo, il nucleo comune e imperituro è collegato indissolubilmente con ciò che siamo per opera della storia»154: dunque, hegelianamente, «tutto ciò che noi siamo, lo siamo anche per opera della storia»155. Nel modello di “sociologia riflessiva” elaborato da Gouldner156, invece, la vita quotidiana è caratterizzata da una problematica ambivalenza. Teatro di una socialità multiforme, attestata da una dinamica fenomenologica e sociologica delle circostanze, la vita quotidiana è costretta dal suo interesse per il presente. La vita quotidiana è questo mondo, è il solo regno del valore, perché è il 153 Vincenzo Cesareo (Prefazione, in I. Bartholini, Uno e nessuno. L’identità negata nella società globale, FrancoAngeli, Milano 2003, p. 9) ha osservato criticamente che per effetto dell’omologazione collettiva azionata dal processo contemporaneo di globalizzazione «l’individuo perde i confini della propria identità pur affermandosi singolarmente attraverso la propria rex extensa: suoi e soltanto suoi sono i bisogni e i desideri che agitano il proprio corpo. Ma, la propria, è un’esistenza intercambiabile al pari di uno degli elementi di una macchina. La sua presenza è de-identificata ab imis per effetto della perdita della Lebenswelt e risulta priva di qualità. L’uomo senza qualità di questo inizio di secolo è il parvenu occidentale che ha mutuato ed applicato alla sua stessa vita, in modo irriflesso ed interamente, le categorie della contingenza e della de-ubificazione spaziale: l’esito è un eterno presente che si dipana senza passato e senza progetto». 154 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1981, p. 10. 155 Ibid. 156 Cfr. A.W. Gouldner, La sociologia e la vita quotidiana, cit.
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solo regno, il tutto: essa è costruita più su una cultura del giorno che della notte; è l’interfaccia tra cultura e natura. È la vita pedestre e mondana che si ripete in modo così comune che i suoi partecipanti stentano ad averne consapevolezza. La vita quotidiana è la vita-vista-ma-non-riconosciuta: è la vita mondana, secolare, spogliata dall’elemento sacrale. La storia si basa sulla natura della vita quotidiana. La dimensione storica è il non-quotidiano: la vita quotidiana è l’“argine” lungo il quale scorrono e si agitano i fiumi dei percorsi della storia. Per Gouldner, dunque, il compito della “sociologia riflessiva” è quello di fondare una teoria della vita quotidiana quale “confine” e “cornice” della storia. Diversamente, nel modello sociologico sviluppato da Paolo Jedlowski157, la storia passa attraverso la forma della nostra vita quotidiana: «Le routine che oggi diamo per scontate non sono le stesse in cui si impegnavano abitualmente i nostri genitori o i nostri nonni, o men che meno altri più lontani nel tempo, perché sono diversi gli ambienti, gli oggetti, le tecnologie, le opportunità e persino i significati che alla vita di ogni giorno vengono attribuiti. La quotidianità è storica e cambia anche se il mutamento giorno per giorno può essere impercettibile. Muta per ciascuno, nel corso del cammino biografico, e muta per tutti: la sua forma è differente in momenti diversi della storia e in diverse culture»158. Dunque, per Jedlowski, «fare sociologia della vita quotidiana» significa «restituire il quotidiano alla storia: non in modo astratto, bensì nei modi che gli individui possono meglio avvicinare alla propria esperienza»159: oggi non è più possibile pensare alla vita quotidiana come al regno dell’anonimato e di un tempo senza storia160. Nella scena della vita umana e sociale il “tutto” ha una sua imprescindibile quotidianità: l’uomo è quotidiano o non è affatto. La vita quotidiana «è la vita che c’è» (Jedlowski). Cosa c’è oltre il quotidiano?161 Dal momento 157 Cfr. P. Jedlowski, Sociologia della vita quotidiana, in Id., Fogli nella valigia. Sociologia, cultura, vita quotidiana, cit., pp. 167-199. 158 Ivi, p. 167. 159 Ivi, p. 194. 160 Cfr. P. Jedlowski, Il tempo dell’esperienza. Studi sul concetto di vita quotidiana, FrancoAngeli, Milano 1986 e M. Ghisleni, Vita quotidiana, in A. Melucci, Parole chiave. Per un lessico delle scienze sociali, Carocci, Roma 2000, pp. 225-232. 161 Con amara e icastica ironia, Zygmunt Bauman (Il disagio della modernità, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 189) registra che nella società odierna le alternative della vita quotidiana sono rappresentate dalle puntate ai centri commerciali vissute come «spedizioni verso un altro mondo nettamente diverso dal resto della vita di ogni giorno, verso quell’“altrove” dove si possono sperimentare brevemente la fiducia e l’“autenticità” che si cercano invano nelle occupazioni della routine giornaliera». In questo modo, «lo shopping colma il vuoto lasciato dai viaggi che l’immaginazione non compie più verso una società alternativa, più
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che nella costruzione dell’identità personale ogni soggetto nella sua differenza e particolarità è un enigma per se stesso, non c’è in assoluto alcun senso della vita quotidiana?162 Secondo quanto ha osservato Franco Crespi163, se con il termine senso intendiamo riferirci «all’originario ambito preriflessivo, connotato da bisogni, stimoli, emozioni all’interno del quale diventa possibile ogni riflessività cosciente del soggetto, ogni attività cognitiva e ogni determinazione di significato», allora il senso «non dipende dal soggetto, ma è ciò che si dà come struttura biologica e relazionale, come orizzonte temporale dell’essere-già-in-un-mondo, senza che via sia la possibilità di definire in modo determinato la provenienza ultima del senso». Questo modo di intendere il senso, dunque, «non presuppone una fede o una speranza nel fatto che l’esistenza abbia un senso, quasi che quest’ultimo debba giustificarla in base a un criterio esterno come risposta alla domanda “che senso ha la vita?”. È l’esistenza stessa che, nel suo darsi, dà il senso: per il semplice fatto che qualcosa si dà, si dà necessariamente senso. Il darsi di qualcosa provoca una differenza che determina una direzione, un senso»164. Il concetto di senso, «non aggiunge quindi nulla a quello di esistenza, che, in quanto condizione ontologica o quasi-biologica vissuta emotivamente, porta fatalmente la nostra riflessività a interrogarsi su di essa senza tuttavia mai riuscire a comprenderla esaustivamente a livello cognitivo»165. Dal punto di vista ermeneutico-fenomenologico di una ontologia della comprensione di sé, come dice Paul Ricoeur in Le conflit des interprétations, nella coestensiva condizione di homo ermeneuticus, il soggetto, nell’atto riflessivo, «è un esistente, che scopre, mediante l’esegesi della sua vita, che è posto nell’essere prima ancora di porsi e di possedersi»166. In questa prospettiva, come sottolinea Crespi167, il senso può essere visto come quell’insieme delle indeterminate
sicura, umana e giusta» (ivi, p. 190). 162 Paolo Jedlowski (Sociologia della vita quotidiana, in Id., Fogli nella valigia. Sociologia, cultura, vita quotidiana, cit., p. 179) ha sottolineato che il senso della vita quotidiana «è innanzitutto senso comune, vale a dire un insieme di credenze, competenze, modalità di condotta e definizioni tipizzate delle situazioni che ciascun membro di una società condivide con gli altri dandole per scontate. La prestazione fondamentale del senso comune è di avvolgere i contenuti di una cultura in un’aura di naturalezza; poiché questi contenuti non sono tuttavia naturali, bensì socialmente e storicamente variabili, il compito della sociologia nei suoi confronti è quello di una ricorrente denaturalizzazione». 163 Cfr. F. Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 78. 164 Ibid. 165 Ibid. 166 P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, tr. it., Jaca Book, Milano 1977, p. 25. 167 Cfr. F. Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, cit., p. 79.
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potenzialità e risorse a partire dal quale, grazie alla sua capacità innata di intenzionalità riflessiva e di memoria, l’individuo può pervenire «ai significati più o meno codificati attraverso i quali interpretare se stesso, gli altri e il mondo»; fermo restando che «il significato culturalmente determinato è sempre una riduzione della complessità del senso originario che, come tale, nella sua inesauribilità, resta irriducibile al significato il quale può solo rinviare indirettamente al senso»168. La vita quotidiana si autocomprende? Produce senso o consuma senso? Qual è il ruolo e la funzione del non-senso nella vita quotidiana? Parafrasando Lukács (quello de L’anima e le forme) in senso critico, potremmo dire che l’esistenza, la vita quotidiana, non è un’anarchia del chiaroscuro. La vita quotidiana passa, trascorre, si esaurisce, per riprodursi continuamente. La “freccia”169 del tempo la porta via inesorabilmente. Come dice Ezio Raimondi: «Il tempo produce e distrugge, dà la vita e la morte. È il segno della nostra ambivalenza, cresciamo e diminuiamo»170. La questione del rapporto fra tempo e vita quotidiana, del dare senso al tempo della vita quotidiana nella società contemporanea171, dunque, «è inaggirabile per ciascun soggetto pensante, per ogni persona consapevole della finitezza che regge la propria esperienza di vita compresa tra l’involontaria cesura della nascita e il limite inevitabile della morte, tra un passato e un futuro che solo nel vissuto del presente possono essere afferrati»172. Dilettanti, artigiani e pellegrini della vita quotidiana, viviamo la dialettica della temporalità tra l’enigma della passeità del passato, il paradosso della presenza-assenza del presente e le attese della futurità (futurité), una dialettica che l’ultimo Ricoeur173, muovendosi liberamente (con prestiti e critiche) tra Agostino e Heidegger, ci ha aiutato
168
Ibid. Nella condizione temporale tardomoderna, come precisa Gabriella Paolucci (Tempo, in A. Melucci, Parole chiave. Per un nuovo lessico delle scienze sociali, cit., p. 210), «la parcellizzazione e l’eterogeneità temporale, insieme all’accorciarsi degli orizzonti temporali individuali e collettivi, cancellano a poco a poco l’immagine del tempo che ha dominato per tutta l’epoca moderna. La metafora della freccia non rappresenta più l’esperienza del tempo. Non c’è un’unica direzione verso la quale indirizzare la complessa gestione del tempo quotidiano, né, a dire il vero, del tempo storico. Per padroneggiare il tempo è necessario imparare a destreggiarsi nella frammentarietà delle molteplici dimensioni del presente. All’immagine della freccia possiamo forse sostituire quella di un complicato puzzle in mezzo al quale un soggetto “nomade” tenta di orientarsi come meglio può». 170 Intervista a Ezio Raimondi di C. Donati, in «il Resto del Carlino», 4.02.2004, p. 37. 171 Cfr. G. Gasparini, Tempo e vita quotidiana, cit. 172 Ivi, p. IX. 173 Cfr. P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, tr. it., intr. di R. Bodei, il Mulino, Bologna 2004. 169
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L’INQuIETO
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a comprendere criticamente. La tragica miopia sull’avvenire del nostro passato e la mancanza di visione sul futuro ci fanno forse sprofondare inevitabilmente nell’accecamento del presente anonimo e singolare? Esse segnano di fatto la traccia di ogni presenza nella piega o nella piaga del quotidiano che si crea tra le due, nell’entre-deux che le divide e le unisce? Nei cicli e nei mondi vitali il segno del visibile è quello della vita quotidiana, quantunque essa disveli i possibili connessi all’invisibile e sia pervasa anche dall’invisto. La retoriche e le pratiche della vita quotidiana espongono il problema di una scrittura critica (una storiografia) del quotidiano capace di far apparire l’invisto e nel medesimo tempo le topiche del suo visibile, per i quali – come ha diagnosticato criticamente a suo tempo Walter Benjamin174 – è compossibile la problematica atrofia e mercificazione dell’esperienza (nella duplice e differenziata accezione di Erfahrung ed Erlebnis)175 nella modernità, l’immagine/scrittura (photo-grafia) e la sedimentazione della memoria individuale e collettiva. Le indicazioni di Benjamin permangono significativamente strategiche nella costruzione di una teoria sociologica della vita quotidiana perché «ci portano a individuare nella vita quotidiana il terreno di coltura potenziale dell’esperienza»176. Va da sé che con 174 Cfr. P. Jedlowski, L’esperienza nella modernità. Walter Benjamin e la “fine dell’esperienza”, in Id., Memoria, esperienza e modernità. Memorie e società nel XX secolo, FrancoAngeli, Milano 2002, pp. 13-42. 175 Sull’opposizione Erfahrung/Erlebnis, Remo Bodei (Erfahrung/Erlebnis. Esperienza come viaggio, esperienza come vita, in La questione dell’esperienza, a cura di V.E. Russo, «Laboratorio di Filosofia» n. 1, 1991, pp. 114-115), tra l’altro, ha affermato che nel viaggio della vita «le cose più importanti non si insegnano e non si imparano. Ciascuno deve farne diretta esperienza attraverso percorsi irripetibili e individuali, accidentati e inconclusi. Qualunque sia l’esito, paga il proprio apprendistato con errori, sofferenze, esitazioni, ciascuna delle quali sarebbe forse evitabile, ma che nel complesso appaiono inaggirabili. Quel che ciascuno capisce, lo afferra spesso quando è ormai troppo tardi per trarne un vantaggio o per porre un rimedio. Il suo tirocinio non sfocerà mai nel possesso di un’arte o nella fondazione di una scienza che abbia il senso e la condotta della vita come oggetto. una opacità di fondo sembra circondare qualsiasi tentativo di diventare un “professionista” di questa vita. L’esperienza rimane costitutivamente incompiuta. Il passo ai saperi di cui maggiormente avremmo bisogno appare come invalicabile. L’Erlebnis, nel senso del vissuto sempre diverso che si porta con sé, sostituisce l’Erfahrung, l’esperienza cumulabile, di chi ha molto viaggiato (Fahrt) e provato […]. La vita non si lascia sottoporre ad alcun esperimento, proprio perché è irripetibile. Essa è oggetto di esperienza, nel duplice senso dei termini tedeschi Erfahrung ed Erlebnis. Il primo – che deriva dalla stessa radice di Fahrt, viaggio – implica una maggiore apertura al mondo, un mettersi in viaggio, un condividere con altri percorsi o rotte […]. Il secondo, l’Erlebnis, appare meno comunicabile, più legato ad una traduzione, ad uno sfruttamento personale della miniera dello spirito oggettivo, ad una serie di intersezioni del vissuto che hanno bisogno della storia come referente e quadro di intelligibilità». 176 P. Jedlowski, L’esperienza nella modernità. Walter Benjamin e la “fine dell’esperienza”, cit., p. 40.
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ciò, come osserva Jedlowski, non si intende dire che «la vita quotidiana sia l’esperienza: la vita quotidiana non è in sé esperienza»177. Tuttavia, «è vero che i contenuti dell’esperienza che restano come distillato di un’esistenza sono in ultima analisi esattamente ciò che è precipitato in essa di quello che quotidianamente si è imparato a fare, ad amare, a vedere. L’atteggiamento connesso alle attività della vita quotidiana è un atteggiamento che tende a dare le cose per scontate; al contrario, “avere esperienza” non corrisponde a una sensazione di ovvio: nella misura in cui, infatti, l’esperienza è riappropriazione consapevole di ciò che è vissuto, essa richiede come uno dei suoi momenti una presa di distanza dal vissuto stesso». un discorso sociologico sull’esperienza impostato attraverso le categorie di Benjamin mette comunque in gioco importanti ed ineludibili questioni che conservano ancor oggi grande pertinenza ed attualità: «dai rapporti dei singoli con la memoria e con il tempo, alle forme materiali della vita di ogni giorno, all’abitudine e alla familiarità, fino ai rapporti dell’esperire silenzioso del singolo immerso nelle secrezioni del suo ambiente sociale con le forme nelle quali tutto ciò può essere detto»178. Senza il quotidiano la nostra vita “non esisterebbe”. Il mondo-dellavita-quotidiana non è soltanto un mondo-per-me, ma anche un orizzonte di coesistenze intersoggettive; la vita quotidiana è-di-tutti: nella carne del mondo, nelle storie raccontate e vissute dall’io, essa riempie e fodera sia la realtà che gli orli e gli interstizi dell’essere. Signori e prigionieri della propria quotidianità, identità e alterità, i soggetti narranti non ne posseggono mai interamente e in modo trasparente il possibile senso. Dialoganti in un con-testo in-finito, i soggetti de-scrivono nel loro “diario fenomenologico” la bio-grafia della loro quotidianità, pronti come sempre a ri-parlarne il giorno dopo nella concretezza dei corpi, degli spazi e delle dimensioni dei vissuti che essi occupano riflessivamente con la propria soggettività patica e interpretante. Dare senso al tempo della vita quotidiana che si svolge nei sistemi sociali contemporanei è il grande enigma della nuova condizione umana179 stretta com’è, quest’ultima, tra il tempo visibile e l’ulteriorità, l’oltre-tempo, cioè quel dominio non sperimentabile dei sensi che per alcuni è misterioso passaggio alla vita eterna e per altri è l’annullamento di ogni esperienza nel e del tempo. Parafrasando Leopardi, la vita quotidiana è «il tempo della nostra vita mortale», la vita che segna giorno-dopo-giorno il trascorrere del 177
Ibid. Ivi, p. 42. 179 Cfr. Z. Bauman, Una nuova condizione umana, tr. it., presentazione di M. Magatti, Vita e Pensiero, Milano 2003. 178
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L’INQuIETO
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tempo e la caducità delle cose umane: quella caducità che impregna di sé non soltanto i giorni feriali, ma anche il dì di festa, la domenica, la quale ha anch’essa un valore interstiziale sospesa com’è tra i giorni feriali della settimana e quelli ancora inediti, enigmatici, della nuova settimana che per l’appunto si apre alle novità, alle occasioni, ai momenti, ai vincoli e alle scelte che i soggetti possono vivere. Nelle sue possibili configurazioni di senso, la vita quotidiana è sempre più diventata lo strato dell’esperienza dell’“ancora sempre”: in essa dobbiamo sempre scegliere, come se avessimo sconfitto il destino. Perdendo la propria “ovvietà”, l’uomo della vita quotidiana, come ha detto Sartre, diventa la scelta delle proprie possibilità (homo optionis). Disegnando il proprio destino personale e destreggiandosi col proprio stile di vita, nel modulare se stessi attraverso la molteplice combinazione dei “possibili”, ormai nessuno si contenta facilmente di quello che è: «ognuno cerca la pienezza e il significato della propria esistenza anche in un altrove insituabile nella serie dei luoghi e degli eventi in cui si trova normalmente implicato, ossia nell’avventura, dove l’io riesce tanto più ad articolarsi e a espandersi, quanto più diventa indeterminato. L’avventura è infatti un impaziente abbandonarsi al caso, accompagnato dalla sensazione di crescente rinnovamento di se stessi: in una sorta di incipit vita nova, ci si guarda con meraviglia, stupiti dal constatare che si stanno vivendo in prima persona esperienze che sembrano appartenere a qualche altro»180. Indubbiamente, la misteriosa necessità dell’avventura rappresenta un autentico enigma della vita quotidiana. Come l’ha interpretata Simmel, l’avventura consiste nel «sottrarsi alla connessione della vita»181, essa è «un’immagine della vita sospesa tra caso e necessità, tra la molteplicità dell’esperienza e il suo senso unitario»182. Ponendosi al di fuori della continuità esperienziale, l’avventura può simmelianamente essere descritta nei termini di «una complessa estraneità nei confronti della vita ordinaria, una contingenza extraterritoriale rispetto alle province di senso abitualmente frequentate dall’individuo»183. L’avventura come esperienza vissuta si caratterizza come una temporanea presa di congedo dalla totalità organica degli eventi quotidiani. «Al concatenarsi degli anelli della vita – scrive Simmel –, al sentimento che nonostante tutte quelle inversioni, quelle curvature, quei grovigli, in ultima analisi si
180
R. Bodei, Destini personali, cit., p. 173. G. Simmel, L’avventura, in Id., Filosofia dell’amore, a cura di M. Vozza, Donzelli, Roma 2001, p. 57. 182 M. Vozza, Pensare attraverso le cose prossime, in Id., Nella prossimità degli affetti. Filosofia e letteratura tra ’800 e ’900, Milella, Lecce 2003, p. 64. 183 Ibid. 181
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tesse una trama unitaria, si oppone quella che chiamiamo avventura»184. La rilevanza dell’avventura risiede proprio nella «sensazione che qualcosa di accidentale ed estraneo al corso ordinario della vita possa celare un senso e una necessità, che si presenta sotto forma di enigma, di inquietante mistero proprio per il carattere extraterritoriale del suo accadere»185. Diversamente dall’esistenza stagnante, priva di scopi e di intima soddisfazione, l’avventura si configura come una «gemma incastonata nel quotidiano»186: abbandonarsi ad essa «significa aborrire il ristagno della propria vita, consegnandola a una magnifica incertezza agitata da inconsuete passioni, entrare in una specie di ékstasis o di parentesi temporale, in grado di proiettare l’individuo fuori di sé e di isolarlo dalla monotona successione di attimi opachi, di risarcirlo del suo essere obbligato a vivere nel mondo senza sorprese della routine, mettendolo però di fronte, grazie proprio all’eccezione, alla “vita nella sua totalità”»187. L’eccentricità, la virtualità e non progettabilità dell’avventura rivelano nel modo più puro l’essenza dell’accadere, la sua radicale finitezza temporale, segnata da un inizio e da una fine irrevocabile. «Dei normali avvenimenti dell’esistenza quotidiana percepiamo che l’uno finisce mentre o perché l’altro incomincia, essi determinano reciprocamente i propri confini, e in tal modo si forma o si esprime l’unità della connessione vitale. L’avventura invece, in quanto avventura, è indipendente dal prima e dal poi, determina da sola, senza riguardo a questi ultimi, i propri confini»188. Nel tempo dell’avventura, per il suo configurarsi e consumarsi come esperienza limite, come «un’isola nella vita»189, «l’evento riceve una compiuta figurazione di senso, rivela in modo perentorio la sua intima e irripetibile ragion d’essere»190, perciò, nell’avventura, «l’uomo si sottrae alla storia, vive esclusivamente in un presente che non ammette deroghe»191. Secondo Simmel, «fra caso e necessità, fra il carattere frammentario di ciò che è dato dall’esterno e il significato unitario della vita che si sviluppa dall’interno, si svolge in noi un eterno processo, e le grandi forme nelle quali plasmiamo i contenuti della vita sono le sintesi, gli antagonismi o i compromessi di quei due aspetti fondamentali. L’avventura è uno di essi»192. Accettando 184
G. Simmel, L’avventura, cit., p. 57. M. Vozza, Pensare attraverso le cose prossime, cit., p. 65. 186 R. Bodei, Destini personali, cit., p. 176. 187 Ivi, p. 174. 188 G. Simmel, L’avventura, cit., p. 58. 189 Ibid. 190 M. Vozza, Pensare attraverso le cose prossime, cit., p. 66. 191 Ibid. 192 G. Simmel, L’avventura, cit., pp. 60-61.
185
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L’INQuIETO
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fatalmente la mutevolezza delle occasioni, cercando temerariamente di padroneggiarne l’implicita insecuritas, nella vertigine dell’avventura intesa come strategia fatale del fluire dell’esperienza, per la vita umana «ogni evento sembra collocarsi alla periferia della vita, esteriore e occasionale: l’accadere si dà come frammento, come assoluta contingenza, senza scorgere in esso la presenza di un senso razionale capace di porre in relazione il passato e il futuro della nostra esistenza, la memoria e il progetto». Nell’avventura, dunque, «l’essenziale si annida nell’inessenziale, così che il centro dei nostri interessi gravita nella periferia della vita consueta. un provvisorio appagamento, un ubi consistam, si incontra solo nell’ulteriorità cui siamo, a ogni momento, rinviati e dove siamo provvisoriamente invitati a sostare, prima di riprendere il cammino: nelle esperienze laterali, nell’eccentrico, nelle possibilità insature che ci vengono incontro senza alcun ordine»193. Per inciso, analogicamente, nella prospettiva interstiziale e temporale della vita quotidiana, sappiamo, la logica della sosta194 è alternativa ed antitetica alla velocità del tempo continuo, omogeneo, quantitativo «della società incessante» in cui effettivamente viviamo e nella quale siamo sempre in transito, in itinere, senza che tale cammino abbia un qualunque telos predeterminato: viaggiatori e pellegrini attraverso-la-vita, nessuno di noi sa con certezza dove dirigersi, perciò ognuno cerca, come ha detto Simmel, «il punto di passaggio di un vagabondare che dall’indeterminato procede verso l’indeterminato»195. Tutto ciò senz’altro partecipa delle possibili configurazioni di senso che la nostra vita quotidiana può assumere e ricevere nelle sue molteplici espressioni e dinamiche anche “interstiziali”. Per quanto concerne invece il misterioso e necessario enigma che la vita quotidiana continuamente ci riserva nel tentativo dare forma e significato alla finitezza e temporalità della nostra umana esistenza, mutuando la parola poetica di Montale, è presumibile pensare che per la vita di «ogni giorno» è ridicolo ipotecare il tempo e lo è altrettanto immaginare un tempo suddiviso in più tempi e più che mai supporre che qualcosa 193
R. Bodei, Destini personali, cit., pp. 174-175. Cfr. G. Gasparini, Sostare, in Id., Interstizi. Una sociologia della vita quotidiana, cit., pp. 34-48. 195 G. Simmel, Rodin, in Id., Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, cit., p. 213. 194
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esista fuori dell’esistibile, il solo che si guarda dall’esistere196.
Dopo la parola del poeta, per concludere, ora è quella del teorico sociale, in questo caso Giddens, a ricordarci comunque che «il carattere ordinato della vita quotidiana è un’occorrenza miracolosa, ma non è la conseguenza di un intervento regolatore esterno; deriva piuttosto da un incessante impegno realizzativo di ogni attore sociale comune, secondo una modalità interamente routinizzata. Il carattere ordinato della vita quotidiana è solido e costante; tuttavia può essere minacciato dal più impercettibile degli sguardi di una persona ad un’altra persona, dall’inflessione della voce, dal cambiamento di un’espressione, da un gesto del corpo»197. Assumibile quale epitome della moderna condizione umana, questa citazione del sociologo inglese ci aiuta a comprendere che anche nelle “piccole cose” la vita quotidiana è sempre «il contesto sociale nel quale si forma e si sviluppa la soggettività dell’attore che con la sua azione contribuisce ad un tempo sia al mantenimento della struttura sociale sia al suo cambiamento, in una situazione di contingenza e di incertezza»198, quell’incertezza che è il maggior carattere enigmatico del vivere, al quale l’uomo quotidiano cerca di offrire un paradigma di senso quale cifra relativa e distintiva del suo Dasein che, secondo Charles Taylor, fa di esso – in quanto self-interpreting being – un agente incarnato (embodied agent) e una soggettività in situazione (subiectivity in situation) capace non solo di affrontare come persona anche l’orizzonte dell’hic et nunc con «consapevolezza riflessiva», ma di utilizzare pure un vocabolario di valore (vocabulary of worth) tale da aiutarlo a tracciare una topografia morale del sé all’interno della quale prendere – nell’affermazione della vita quotidiana (ordinary life) – una posizione e rispondere così a quella fondamentale domanda: «chi sono io?», che emblematicamente segna l’agenda esistenziale del nostro tempo199.
196
E. Montale, È ridicolo credere (da Satura II ), in Id., Poesie, Mondadori, Milano 2004, p.
185. 197
A. Giddens, Identità e società moderna, tr. it. di M. Aliberti e A. Fattori, prefazione di G. Bechelloni, Ipermedium, Napoli 1999, p. 67. 198 Ibid. 199 Cfr. A. Pirni, Introduzione, in C. Taylor, La topografia morale del sé, a cura di A. Pirni, ETS, Pisa 2004, p. 23 sg.
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3. Conflitto etico e legge individuale Forme dell’io pratico La totalità del corso di una vita, con tutte le sue determinazioni e i suoi eventi esterni ed interni, non si ripete certo una seconda volta. Georg Simmel Il conflitto diviene la scuola in cui si forma l’io. Georg Simmel
Nell’ontologia relazionale dell’individualità moderna, che Simmel analizza nel corso del suo itinerario filosofico, sociologico ed estetico, il ruolo dell’etica non è affatto consolatorio: la modernità non crea un nuovo ordine1. Per Simmel, l’identità dell’essere sociale non sta né nell’accostamento di due modi d’essere differenti (uno parzialmente sociale e l’altro parzialmente individuale), né in una sintesi che si libera di tali aspetti contraddittori riassunti da una superiore unità, ma «nell’unione di due determinazioni reciprocamente esclusive e complementari»2: la società – scrive Simmel nella Soziologie – consiste «di esseri che si sentono da una parte esistenze completamente sociali, e dall’altra, conservando lo stesso contenuto, completamente personali» (S, 35). La struttura doppia e chiasmatica peculiare della relazione sociale umana, intrinsecamente conflittuale, si manifesta in tutti gli ambiti dell’esistenza e, di conseguenza, anche nel territorio dell’etica, che Simmel definisce (nella Lebensanschauung) «la regione forse più dubbia di tutta la filosofia»3.
1
Cfr. G. Guarnieri, La crisi del monismo..., cit., p. 171. B. Giacomini, Relazione e alterità. Tra Simmel e Lévinas, Il Poligrafo, Padova 1999, p. 54. 3 Per una ricostruzione esaustiva del pensiero etico simmeliano, rinvio ad A. De Simone, Oltre il disincanto, cit., pp. 79-223. 2
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3.1. L’agire morale: essere e dovere Il conflitto etico pervade in modo peculiare la cultura moderna: tanto più contrastata sarà la vita dell’individuo, tanto più grande sarà lo sforzo che egli tenterà di compiere per avere coscienza dell’unità del suo essere; il conflitto è possibile soltanto nell’unità. una è infatti la possibile alternativa in questo caso: «o l’unità della persona si spezza, di fronte all’impossibilità di una morale obiettivamente completa e soggettivamente armonica; o l’esigenza di unità dei principi direttivi della vita assume una straordinaria energia, un’ansia di realizzazione, che certo non posseggono stati primitivi, per se stessi armonici»4. La formazione dell’io avviene alla scuola dei conflitti, e tanto più esso si formerà unitariamente, tanto più la sua vita sarà ricca di conflitti. Così, come sostiene Simmel nella Vorlesung tenuta nel semestre estivo del 1913 su Ethik und Probleme der modernen Kultur5: Tanto più profondamente ogni impressione affonda nella vita interiore, tanti conflitti sorgeranno, ma tanto più anche l’uomo si sentirà unità. Il conflitto è appunto la forma in cui l’io si forma e si contrappone al mondo. Nel sentire più basso non si giungerà così facilmente al conflitto, ma non si giungerà neanche così facilmente a una forte coscienza dell’io; infatti non soltanto l’io crea all’anima la sintesi delle cose, ma per lo meno in egual misura crea anche le antitesi. Che cosa sia l’unità dell’anima nessuno lo sa, ma si potrebbe dire: l’anima è ciò in cui ha luogo la lotta e la pace. Che noi tanto spesso non ci si accorga del conflitto dipende dal fatto che accettiamo dei compromessi. L’assolutezza delle pretese ucciderebbe di certo la vita, ma noi non conosciamo poi la misura relativa. Così l’uomo etico pone la pretesa anzitutto in assoluto e la delimita solo a poco a poco. Ma ogni innalzamento all’assoluto per ignoranza della giusta misura relativa crea tutti quei conflitti che sembrano turbare l’io, mentre invece, a considerar bene, lo costituiscono proprio solo allora (EPCM, 88)6. 4
G. Calabrò, La legge individuale, Giuffrè, Milano 1997, p. 145. Cfr. G. Simmel, L’etica e i problemi della cultura moderna, tr. it. di P. Pozzan, intr. di G. Calabrò, Guida, Napoli 1968, pp. 7-31 (d’ora in poi EPCM). 6 Secondo quanto osserva criticamente F.S. Ghisu (in Georg Simmel. L’ideologia dell’individualità, cit., p. 74): «Il conflitto che Simmel ha immaginato aver luogo tra la soggettività individuale e la società nel suo stadio più evoluto, diviene un caso particolare di un conflitto universale ed eterno. Ciò significa che egli non traspone un conflitto reale in una dimensione metafisica, ma piuttosto traduce un conflitto immaginato specifico ad una società – quella dominata dall’economia monetaria – in un conflitto immanente a tutte le società. Assistiamo quindi ad una sorta di capovolgimento: Simmel ha in un primo tempo riprodotto la realtà sociale che ha di fronte a sé, come una struttura diffusa che aggredisce e addirittura dissolve qualsiasi forma di soggettività che non sia ad essa omologabile. Sulla base di questa constatazione […] egli arriva a formulare una teoria generale del rapporto (conflittuale) tra soggettività (autentica) 5
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CONFLITTO
ETICO E LEGGE INDIVIDuALE
1
Attraversando i sentieri del discorso filosofico, sociologico ed etico sull’individualità moderna sviluppato da Simmel nella sua opera, giungiamo ad incontrare il modello singolare ed esemplare di universalismo che egli ha chiamato legge individuale (individuelles Gesetz), e di cui ora affronterò soltanto selettivamente alcuni suoi principali quadri concettuali e spunti problematici, muovendomi in una prospettiva analitica, critica e storiografica in cui la riflessione etica simmeliana viene considerata sia nella sua peculiare articolazione testuale interna tra filosofia e teoria sociale sia nella sua Wirkungsgeschichte contemporanea. Com’è noto, Simmel ci ha lasciato un saggio – La legge individuale del 19137 (poi riscritto nel IV capitolo della sua Lebensanschauung; cfr. IdV, 123194) – nel quale la sua originale e problematica concezione dello sviluppo morale come sviluppo fondato su una legalità individuale si iscrive – come rileva Ferruccio Andolfi – «all’interno di una più vasta concezione ontologica secondo la quale la vita in genere trova nell’individualità la sua forma più propria ed elevata di espressione»8. In questo saggio – il cui titolo (La legge individuale) dimostra la capacità originale e stimolante di Simmel di praticare un difficile e complesso «ossimoro etico»9 – il filosofo di Berlino ci offre non soltanto – come scrive con perspicacia ermeneutica Alessandro Ferrara – «una riflessione originale sul nesso di esemplarità singolare e universalità che rimane a tutt’oggi una delle proposte più interessanti per pensare una forma di normatività compatibile con il “fatto del pluralismo” e per cogliere la rilevanza morale, e non solo etica, dell’autenticità»10, ma anche un’analisi che affronta questi temi «da un’angolatura più specifica: quella del rapporto tra universalismo della legge e individualità dell’individuo»11, con uno stile argomentativo che tuttavia mantiene la sua pertinenza «anche nel caso di
ed oggettività stabilita, tra creatività del soggetto e le forme sintattiche attraverso le quali quella creatività è costretta ad esprimersi. Il capovolgimento (comunque interno all’ideologia dell’individualità) avviene nel senso che questa teoria generale del conflitto alla quale Simmel è giunto attraverso la ricostruzione filosofica della società dominata dal denaro, viene assunta come uno schema universale di interpretazione del reale, la base di spiegazione di tutti i fenomeni osservati filosoficamente». 7 Cfr. G. Simmel, La legge individuale, tr. it. a cura di F. Andolfi, Armando, Roma 2001 (d’ora in poi LI). 8 F. Andolfi, L’etica di Simmel ovvero l’individuo come dover essere, in G. Simmel, La legge individuale, cit., p. 15. 9 Come lo definisce D. Gorreta, Simmel, Kant e il compito dell’individuo, in «La società degli individui», IV, n. 11, 2001/2, p. 29. 10 A. Ferrara, L’universalismo esemplare: la lezione di Simmel, in Id., Autenticità riflessiva. Il progetto della modernità dopo la svolta linguistica, Feltrinelli, Milano 1999, p. 100. 11 Ivi, p. 101.
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quella individualità collettiva che assegniamo alle identità dei gruppi, alle culture, alle subculture, alle comunità e così via»12. L’interlocutore privilegiato, ovvero il bersaglio polemico e critico del saggio, è il Kant della Critica della ragion pratica13. Simmel infatti esordisce prendendo le distanze da Kant «in primo luogo sul piano logico, e afferma che l’imperativo categorico si fonda su una indebita equazione tra i concetti di “universale” e di “ideale” (o “dover essere”) sviluppata, in analogia con il metodo delle scienze naturali e del diritto, innalzando singole azioni al rango di esempi di una legge. Tale procedimento, applicato al campo etico è tuttavia aberrante, poiché costringe alla improbabile ipotesi dell’“eterno ritorno” di un solo agire e stile di vita»14. Leggiamo Simmel: L’interpretazione kantiana del fenomeno etico si basa sul fatto che per lui il concetto di legge e quello di universalità stanno in una connessione ovvia, logicamente necessaria. una legge deve valere proprio per l’individuo concreto in questione, e anzi determinarlo, d’altra parte non può essere determinata solo a partire da questo individuo, bensì gli si deve presentare come il non individuale o ciò che è universalmente valido. La struttura interna di questo tipo di pensiero è pressappoco la seguente. Alla sua base c’è il carattere individuale di ogni realtà psichica, la quale è il concreto portatore della prassi. Come ogni frammento di materia è secondo il suo essere senz’altro unico (poiché lo spazio, che il frammento colma con l’esistenza, esiste solo una volta, e solamente la sua forma può essere universale, cioè condivisa con altri), così anche ogni esistenza psichica in quanto tale può esistere una volta sola, sebbene le sue determinazioni possano ripetersi in altre esistenze; il fatto che la totalità del mondo, secondo il suo concetto, esista una volta sola, si ripete inevitabilmente per ciascuna delle sue parti. L’idea – più o meno chiara – che tutto il reale sia in questo senso individuale, si rovescia: tutto l’individuale è solamente reale; cioè, il non reale, il richiesto, l’ideale non può essere alcunché di individuale, quindi deve essere universale. Questo potrebbe essere vero, sebbene quel rovesciamento, evidentemente non cogente a rigor di logica, non lo dimostri. L’argomento kantiano per cui “non si ordina mai a qualcuno ciò che inevitabilmente vuole già da sé” si riferisce immediatamente solo alla tendenza verso la felicità, ma in effetti fonda tutta la sua etica. La realtà data, non solo in quanto fatto formale dell’esistenza, ma anche in quanto contenuto qualitativo, non può essere insieme “ciò che si comanda”, perché non solo questo sarebbe un raddop12
Ibid. Nel saggio appena menzionato di D. Gorreta (Simmel, Kant e il compito dell’individuo, cit., pp. 29-40), l’autrice discute criticamente ed in modo documentato anche la possibilità alternativa di rinvenire una continuità tra Simmel e Kant, piuttosto che una loro reciproca fracture nel campo della teoria etica. 14 Ivi, p. 30. 13
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piamento senza senso, simile a quello che Aristotele rimprovera alle idee platoniche, ma anche un’assurda identificazione del reale e dell’ideale, il quale invece deve solo divenire reale. Se tutto il reale è individuale, allora l’ideale deve essere universale, se tutto l’individuale è solo reale, allora non può essere al contempo al di sopra della realtà, esigenza ideale di una legge (LI, 41-42).
Secondo Ferrara, del «paradigma deontologico kantiano» Simmel «rimette in discussione – e qui l’attualità della sua tesi non potrebbe essere più grande, se guardiamo al dibattito contemporaneo attorno alle teorie della giustizia che sono le eredi naturali del deontologismo kantiano – un certo modo di collegare “particolarità” e “universalità” con la distinzione fra ciò che è “reale” e ciò che è “ideale” o, per dirla in un linguaggio a noi più vicino, “fatti” e “norme”»15. Parafrasando e traducendo i termini di Simmel (che parla appunto di «reale» e di «ideale»), si può dire che ciò che va comunque rimesso in questione – nei confronti sia dell’etica tradizionale, ma soprattutto di quella kantiana – è principalmente l’idea secondo cui «tutto ciò che è individuale è irrimediabilmente fattuale e in quanto tale particolare, mentre ciò che è normativo, per non tradire la sua normatività, per non ricadere nell’essere un riflesso della fattualità, deve essere non-particolare – e dunque mai individuale – bensì sempre e solo universale»16. Paradossalmente, come argomenta Simmel, è proprio l’universalità della legge morale «a non trovare un riflesso adeguato all’interno del modello dell’universalismo generalizzante sotteso alla Critica della ragion pratica»17. Scrive infatti Simmel nella Legge individuale: «Per quanto possa suonare paradossale, anche l’universalità è qualcosa di singolare, in quanto le sia ancora contrapposta l’individualità» (LI, 47). Dunque, ci si chiede, «perché escludere a priori che il carattere dell’individualità o singolarità possa figurare su tutti e due i lati dell’equazione – che ci possa essere una individualità dotata di una valenza normativa accanto a una individualità che ha caratteristiche di mera fattualità?»18. Con un dispositivo che non è soltanto retorico-argomentativo, ma che esprime uno stile intellettuale ironico e critico ad un tempo, Simmel «rovescia contro Kant la forza dell’argomentazione kantiana sull’imperativo categorico»19, allorquando afferma: 15
A. Ferrara, L’universalismo esemplare, cit., p. 101. A. Ferrara, «La legge individuale»: universalismo singolare e idea di autenticità, in AA.VV., Simmel à-la-carte, cit., p. 36. 17 A. Ferrara, L’universalismo esemplare, cit., p. 101. 18 A. Ferrara, «La legge individuale», cit., p. 36. 19 Ibid. 16
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Mi pare che, con questa universalità della legge, con questo rifiuto in linea di principio della sua esclusiva validità per un individuo e a partire da questo, non sia tutelata sufficientemente proprio l’universalità della legge. Se mai sussiste la possibilità di una legge individuale, l’affermazione della sola validità dell’universale non è niente di onnicomprensivo, bensì una violenza di parte […]. Il concetto di legge però dovrebbe superare questo contrasto relativistico ed essere l’assolutamente universale, che può risiedere tanto in un polo quanto nell’altro. Il suo essere vincolato all’universalità anti-individualistica mostra che la legge non ha ancora raggiunto la piena idealità, il distacco da ogni singolarità che ancora si trovi in un rapporto di opposizione (LI, 47).
Il più importante rilievo critico che Simmel muove alla filosofia morale kantiana riguarda proprio il suo «carattere formale»: in essa, al pari della sua teoria della conoscenza, è rinvenibile l’eco di una «visione meccanicistica del mondo»20 e di una concezione astrattamente giuridica della legge, che «si applica all’uomo dall’esterno – senza alcuna considerazione per le circostanze soggettive delle sue azioni»21. Il criticismo kantiano appare a Simmel come incapace di fornire adeguatamente un’immagine della nostra «fattualità etica»: infatti, «ritenendo il sensibile del tutto inconciliabile col regno della libertà, esso fa coincidere il contenuto della libertà individuale con quello della legge universalmente valida e attribuisce ad una istanza neutra – la “volontà buona” – il compito di farla rispettare»22. Detto altrimenti, «da un lato, l’etica kantiana tende a scomporre le situazioni concrete – in cui vengono a trovarsi gli individui – in una molteplicità di elementi irrelati per estrapolarne delle norme generali, con la conseguenza di cancellare i ponti che collegano le condotte umane alla vita globale, di cui sono invece delle semplici pulsazioni; dall’altro, essa pone il valore morale delle singole azioni nell’ambito del puro dover essere, ossia fuori dal continuum vitale nel quale esse sorgono»23. Nella sua pars destruens, l’obiettivo della critica simmeliana del moralismo kantiano si prefigge di superare proprio ciò che in quest’ultimo faceva dipendere «il comportamento morale dall’interiorizzazione di una legge universale»24. Simmel, di fatto, ha sempre sottolineato «l’implausibilità o il carattere contraddittorio di una concezione etica che costringe il soggetto
20 Cfr. G. Simmel, Kant. Sedici lezioni berlinesi berlinesi, nuova ed., tr. it. e cura di A. Marini e A. Vigorelli, unicopli, Milano 1999, p. 190. 21 G. Valle, La vita individuale, cit., p. 37. 22 Ibid. 23 Ibid. 24 A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 238.
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ad aderire interiormente a una norma esteriore»25: in Simmel, dunque, si cercherà solo invano una dottrina etica normativa. Con efficace sintesi Gabriella Antinolfi ha scritto: Con La legge individuale dunque Simmel non intende delineare una prospettiva etica di tipo normativo, ossia definire un principio morale che possa valere come criterio del valore morale delle azioni umane, bensì unicamente […] determinare il topos a partire dal quale soltanto possa originarsi questa determinazione. Più precisamente, si tratta per Simmel di stabilire se il Sollen derivi contenuti e legittimazione da una realtà metafisica situata al di là della vita dell’individuo – un principio autonomo staccato e contrapposto alla vita come legge, in specie come legge della ragione – o se piuttosto i contenuti del dovere non possano trarre origine dalla totalità di vita dell’individuo, in modo tale che l’azione non possa essere richiesta e valutata sulla base di una legge universale, bensì esclusivamente sulla base della struttura vitale ideale del singolo individuo. La tradizionale intellettualizzazione dell’elemento morale viene da Simmel attribuita ad una Weltanschauung meccanicistica che induce a considerare come contrapposti esser e dover essere, due aspetti viceversa coordinati, paritetici, in cui si manifesta il fluire della vita. Il Sollen dunque si trova intimamente connesso con la vita, è una categoria primaria, coordinata all’essere, non suscettibile di fondazione o di deduzione. Anche per Nietzsche, rileva Simmel, l’imperativo come forma ideale del dovere rappresenta la tavola della legge posta al di sopra della vita. Si tratta dunque, sembra dire Simmel, di proseguire sulla via di Nietzsche, di porsi il problema – che Nietzsche non si è posto – se il dovere nella sua forma non possa essere anch’esso vitale, qualcosa di analogo alla vita, una categoria entro cui la vita acquista coscienza di se stessa. Ed è appunto sulla scia di Nietzsche che questa determinazione del topos sembra esigere un momento decostruttivo, una sorta di pars destruens, di demistificazione e di smascheramento. Come [Simmel] stesso sottolinea […], si tratta in sostanza di capovolgere la legge universale razionale – la forma26.
La critica simmeliana dell’etica kantiana, assunta per l’appunto come “prototipo” dell’etica della forma, non riguarda unicamente il concetto di legge universale, ma coinvolge preventivamente quello di individualità e di azione. Traducendo in termini simmeliani, si può dire che «occorre da un lato smascherare quella fittizia “autonomia del dovere” dell’etica di Kant, liberare l’individualità dalla normalizzazione cui è stata sottoposta, demistificando quel preconcetto, da Kant accettato in modo ingenuo e dogmatico, secondo cui la parte razionale universale sarebbe il “vero Io”, l’essenza vera 25 26
Ibid. G. Antinolfi, Introduzione, cit., pp. XXI-XXII.
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dell’uomo. Dall’altro occorre svincolare l’azione dalla sua traduzione/predeterminazione concettuale, decisiva per ogni etica normativa, in specie quella kantiana»27. Solo su queste basi, infatti, Kant ha potuto costruire, secondo Simmel, il suo imperativo categorico. Per l’autore della Legge individuale, invece, l’imperativo categorico – come vedremo meglio tra breve – «contrasta con l’irripetibilità della forma di esistenza individuale, in quanto pretende una generalizzazione del comando morale impossibile perché presuppone l’identità di significato degli eventi per qualsiasi vita individuale»28, mentre invece questi ultimi derivano il proprio significato morale da «un criterio che però può valere soltanto per la vita individuale, e che sarebbe del tutto privo di senso se generalizzato ad altre vite che non sono assolutamente identiche» (IdV, 190) a quest’ultima. Simmel è consapevole che l’etica «rappresenta uno dei tanti “mondi” nei quali la vita, realtà prima e ultima, “processo infinito” e indefinibile di autoaccrescimento e autodistruzione, si fa “più che vita”, trascende spiritualmente se stessa. Nell’individuo consapevole la vita si manifesta come storia di un’anima, e l’etica è dovere e conflitto dentro il complesso dei ‘mondi vitali’»29. Simmel propone, per così dire, un “imperativo morale” nella forma: «Puoi tu volere che questa tua azione determini tutta la tua vita?» (IdV, 190), ponendo in questo modo «l’accento sulla situazione di volta in volta data, che costituisce il presupposto dell’azione»30. Il processo morale, quindi, come ogni processo vitale, si svolge in una situazione nella quale «ogni verità riconosciuta modifica le condizioni in base a cui essa stessa è stata riconosciuta come verità» (IdV, 191): il che significa, che «soltanto in questo procedere che supera continuamente le condizioni del proprio sorgere, l’individuo può costruire la propria vita, avendo di fronte agli occhi un momento finale certo, seppur indeterminato (ossia la morte), con l’ausilio del proprio pensiero e della propria azione»31. Entro il quadro della Lebensphilosophie dell’ultimo Simmel, il Dovere (Sollen) universale, astratto, concepito sotto forma di “imperativo categorico”, viene di fatto ad essere «una formazione che ostacola e domina la vita nel momento in cui si astrae dalla totalità della vita e dalla vita come totalità (comprendente cioè la stessa dimensione corporea e sensitiva dell’uomo)»32. In questo modo, secondo Simmel, lo stesso imperativo categorico finisce per 27
Ivi, p. XXIII. F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 124. 29 D. Gorreta, Simmel, Kant e il compito dell’individuo, cit., p. 31. 30 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 124. 31 Ibid. 32 F.S. Ghisu, Georg Simmel, cit., p. 86.
28
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cancellare la libertà perché cancella la «totalità unitaria della vita» a favore delle azioni atomizzate che piegano la vita sotto di sé, secondo le loro valutazioni, ed in base anche ad «un sistema concettuale» ne determinano il suo (ovvero, il loro) significato: l’imperativo ed il giudizio categorico convergono nel separare artificiosamente (concettualmente) «una singola azione dalla totalità dell’agire individuale, precludendosi in tal modo la possibilità stessa di comprenderla»33. Per Simmel, invece, «la legge universale può rivolgersi solo alle azioni singole, ritagliate dalla connessione della vita individuale» (IdV, 155). Di fatto: «L’individualizzazione che l’azione consegue in virtù della sua subordinazione ad un concetto (cui risulta condizionata la sua subordinazione ad una legge universale) è in contraddizione con quella individualizzazione che essa possiede come scena o come palpito della vita complessiva del suo soggetto ed in cui soltanto […] può mostrarsi il suo pieno ed ultimo significato morale» (ivi, 155-156). Questa individualizzazione (concettuale) della singola azione contrasta, afferma Simmel, «con l’individualità personale, ossia con l’unità e la totalità che vive attraverso tutta la molteplicità delle singole azioni ovvero, più esattamente, che vive come questa molteplicità» (ivi, 162). In questo senso, allora, Kant avrebbe fondato la morale sulla esclusione e sulla esaltazione della ragione, cancellando la totalità della vita individuale. Lasciamo a questo proposito la parola allo stesso Simmel, il quale scrive: Il dovere non si contrappone alla vita, bensì è un modus della sua attuazione complessiva. Si sarebbe ovviamente tentati di rintracciare l’espressione di questo rapporto tra i due concetti nella kantiana “autonomia” della morale: poiché noi “diamo a noi stessi” la legge, sembra appunto eliminata quella sua estraneità all’Io; la legge sembra affondare le proprie radici nel fondamento della vita stessa. Ma in realtà in Kant non è affatto l’individuo nella sua totalità unitaria vivente a dare a sé l’imperativo morale, bensì solo quella parte con cui egli rappresenta la ragione sovraindividuale. E Kant poté guadagnare l’alterità (das Gegenüber), e dunque l’inevitabile forma di relazione dell’imperativo, solo mettendo di fronte e contrapponendo all’interno della vita complessiva dell’individuo la “sensibilità” alla nostra parte razionale e legislatrice. In definitiva Kant non seppe assolutamente superare il fatto che ciò che comanda all’individuo debba essere qualcosa al di là dell’individuo. Ma poiché egli respinse qualsiasi eteronomia, deve cercare di rendere possibile ciò scindendo l’individuo in sensibilità e ragione. Di fatto l’eteronomia non risulta eliminata, bensì solo trasferita dal rapporto con un referente esterno all’interno della relazione tra ragione e sensibilità. L’illusione secondo cui se è la ragione a comandare alla sensibilità siamo noi stessi a darci l’impe33
Ivi, pp. 86-87.
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rativo morale, Kant può fondarla unicamente sulla base dell’affermazione, ingenuamente dogmatica, ed in nessun modo comprovata, che quella nostra parte razionale ed universale costituisca il “vero” Io, l’essenza del nostro essere (IdV, 131).
Noi, però, osserva Simmel, «non viviamo mai semplicemente come “esseri razionali”, bensì viviamo come una totalità in qualche modo unitaria, che solo a posteriori scindiamo in ragione, sensibilità, ecc., in base a punti di vista scientifici, pratici, teleologici» (ivi, 157). Diversamente, Simmel ritiene che la «vita relazionale» debba avere anch’essa un assunto di carattere filosofico. Come si può fondare infatti la libertà, se «le diverse forme dell’interazione con i loro effetti sull’individuo sembrano espressione di un assoluto determinismo»34? A questo problema di fondo Simmel cerca di dare una risposta plausibile che di fatto gravita attorno al concetto di vita: vita come dinamismo (più vita) e come trascendenza (più che vita). Al filosofo di Belino non sfugge il contributo di Goethe e di Nietzsche a questa problematica. Per il primo (Goethe), infatti, la concezione del divenire non si limita alla natura, «ma si estende ad ogni produzione del processo vitale, e quindi alla cultura, al mondo dell’arte e dei simboli»35. Scrive Simmel nel suo Goethe del 1913: «La grande sintesi della visione del mondo di Goethe può essere perciò caratterizzata nel modo seguente: che i valori costituiti dall’opera d’arte posseggono un’identità e un’unità formali e metafisiche con il mondo reale che trascorre. Ho indicato che questa visione del mondo riposa sulla fondamentale certezza dell’indivisibilità di valore e mondo, e che essa costituisce soprattutto la premessa dell’artisticità»36. Secondo Dal Lago, questa “lettura” di Goethe è inscindibile dal ruolo che assume il pensiero di Nietzsche nell’ultima produzione filosofica di Simmel: «Per questi, la filosofia di Nietzsche – con la sua risoluta accettazione di ogni divenire – permetteva perfino di superare le difficoltà in cui poteva incorrere la visione del mondo di Goethe. In Nietzsche la contraddizione non incrina il rapporto tra valori e mondo, ma genera la possibilità di pro-
34
G. Guarnieri, La crisi del monismo…, cit., p. 168. A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 224. 36 G. Simmel, Goethe, Klinkhardt und Biermann, Leipzig 1913, (5ª ed., 1923), p. 97. Sul Goethe di Simmel, cfr. P. Giacomoni, Classicità e frammento. Georg Simmel goethiano, Guida, Napoli 1995; A. De Simone, Figure della modernità: Kant e Goethe. I sentieri di Simmel, in Id., Oltre il disincanto, cit., pp. 191-223; V. d’Anna, Il denaro e il Terzo regno. Dualismo e unità della vita nella filosofia di Georg Simmel, cit. 35
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durre nuovi valori, di trasvalutarli. In ultima analisi, il pensiero di Nietzsche costituisce l’accettazione più profonda della vita come divenire»37. Simmel, non solo come filosofo, ma anche e soprattutto come classico della sociologia, oltre a Tönnies (1897)38, è stato tra i primi che ha affrontato il pensiero di Nietzsche39 e soprattutto ha cercato di «oltrepassarne le prospettive»40. Infatti, dal punto di vista critico, il filosofo di Berlino, facendo riferimento implicitamente alla dottrina dell’eterno ritorno dell’identico di Nietzsche, è comunque «consapevole che questo pensiero è lacerante»41. Al riguardo, Simmel – nel suo Diario postumo – annota: Il procedere del mondo mi appare come il volgersi di una ruota mostruosa, appunto come il presupposto dell’eterno ritorno. Ma tuttavia non con la stessa conseguenza, che realmente, in qualche momento, si ripeta l’identico. La ruota, infatti, ha un raggio infinitamente grande. Solo quando è trascorso un tempo infinito, cioè mai, l’identico può tornare nell’identico luogo. Tuttavia, si tratta di una ruota che gira e che, secondo la sua idea, va verso l’esaurimento della molteplicità qualitativa, senza mai esaurirla in realtà42.
Secondo quanto rileva criticamente Dal Lago, per Simmel l’idea nietzscheana di divenire lascia aperta la questione: «come può la facoltà umana dell’intelletto riconoscere o afferrare, nella sua parzialità, la totalità del divenire, della vita?»43. E soprattutto, inoltre, «come può pensarsi uno spazio di libertà in un processo, la volontà di potenza, che, senza essere deterministico, è nondimeno soverchiante?»44. Per Simmel, la strada del superamento di questa difficoltà presente nella filosofia del divenire di Nietzsche si incontra con Bergson. Nel pensiero del filosofo francese, «la fonte del divenire non
37
A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 225. Cfr. F. Tönnies, Der Nietzsche-Kultus. Eine Kritik (1990); tr. it. di E. Donaggio, intr. di D. M. Fazio, Il culto di Nietzsche, Editori Riuniti, Roma 1998. 39 Oltre allo Schopenhauer e Nietzsche, cit., per gli altri scritti di Simmel su Nietzsche, cfr. G. Simmel, Friedrich Nietzsche filosofo morale, a cura di F. Andolfi, Diabasis, Reggio Emilia 2008. 40 A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 225. Sulla ricezione simmeliana di Nietzsche, cfr. K. Lichtblau, Das «Pathos der Distanz». Präliminarien zur Nietzsche-Rezeption bei Georg Simmel, in H.-J. Dahme – O. Rammstedt (a cura di), Georg Simmel und die Moderne. Neue Interpretationen und Materialien, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1984, pp. 231-281; W. Schluchter, L’attualità degli inattuali. Da Nietzsche a Weber attraverso Simmel, Simmel tr. it. di I. Gibellini, in «Intersezioni», n. 12, 1997, pp. 43-63; F. Andolfi, L’umanità degli individui eccellenti. Simmel interpreta Nietzsche, in G. Simmel, Friedrich Nietzsche filosofo morale, cit., pp. 7-28; G. Valle, La vita individuale, cit., p. 51 sg. 41 A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 228. 42 G. Simmel, Saggi di estetica, cit., p. 13. 43 A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 228. 44 Ibid. 38
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è la vita in senso biologico, ma lo slancio vitale come coscienza in perpetua evoluzione, crescita ed arricchimento»45. L’uomo di Bergson, infatti, «realizza una possibilità di libertà superiore nel divenire della vita»46. Per Simmel, così come la vita è il processo da cui si origina ogni esistenza, così il destino e la morte sono «le forme che plasmano l’essere umano determinando il suo Dasein, attribuendogli figura di individuo»47. Le possibilità che si dischiudano nello spazio/tempo della vita, di fatto realizzano la libertà individuale che non coincide con la mera soggettività, ovvero con l’arbitrio, proprio perché «la libertà è in relazione con quella sorta di ordine superiore del mondo che si rivela nella vita»48. La «legge individuale» è quindi la «formula» che simmelianamente connota l’implicazione di libertà individuale e moralità. È un fatto. Simmel, occorre ribadirlo, con la sua filosofia morale intende evitare «sia l’oggettivismo di una legge morale universale che deve essere interiorizzata, sia il soggettivismo che porta inevitabilmente al relativismo»49. La concezione corrente – egli scrive – contrappone alla vita, intesa come realtà soggettiva in svolgimento, l’esigenza ideale del dovere, che trae origine da un ordine diverso rispetto a quello da cui sgorga la vita. Ma, al contrario, la visione di fondo deve essere questa: a contrapporsi non sono la vita e il dover esser, bensì la realtà della vita ed il suo dover essere. Realtà e dover essere sono categorie simmetriche in cui la coscienza inquadra la nostra vita ed in cui questa viene vissuta. Su ciò inganna soltanto quella rilevata solidarietà tra vita e realtà, apparentemente più incondizionata. Certamente il soggetto è sempre consapevole della vita così come essa è effettivamente; ma nel contempo, sul piano categoriale del tutto indipendentemente da ciò, egli ha altrettanta consapevolezza di come la vita dovrebbe essere. Sia l’una che l’altra sono un’intera vita. Io sono consapevole tanto che la mia vita, fatta in questo o quell’altro modo, è la vita effettiva, quanto che essa, fatta così o del tutto diversamente, è la vita dovuta. Nel suo flusso continuo essa produce i suoi contenuti in questa come in quella forma. Il dover essere non sta al di là della vita in generale o di fronte ad essa, bensì è un modo in cui la vita diviene consapevole di se stessa esattamente quanto lo è l’essere reale. Il fatto che con ciò sembriamo condurre due vite non inficia in nessun modo quello che sentiamo come unità della vita. È infatti acquisito da tempo che la sua corrente fluisce in diversi rami, che la sua natura più profonda in ogni caso non si esaurisce nell’alternativa logica tra unità e molteplicità. Anche 45
Ivi, p. 230. Ibid. 47 Ivi, p. 238. 48 Ibid. 49 G. Guarnieri, La crisi del monismo…, cit., p. 169. 46
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quando sperimentiamo il contenuto del dovere come un imperativo oggettivo nei confronti del soggetto, un imperativo che in qualche modo ci si oppone, l’equiparazione con la categoria della realtà non viene meno. Infatti la separazione del soggetto da un oggetto che gli sta di fronte, che però all’interno del soggetto nel suo senso più ampio si verifica come qualcosa di assolutamente oggettivo, è anche la forma in cui la nostra autocoscienza coglie la nostra realtà. L’Io conosciuto e analizzato, approvato e contrastato, compreso e non compreso come un Tu, è proprio quello stesso Io che conosce e realizza, approva e contrasta, comprende e risulta incomprensibile a se stesso. L’essere al tempo stesso soggetto e oggetto, questo esser compreso del suo altro (Gegenüber) dall’unità della vita che si rappresenta solo in questa forma, è lo schema universale dello spirito cosciente; e in esso si inquadra anche la vita come dover essere, in quanto al suo corso soggettivo si contrappone un comandamento oggettivo – è questo il dualismo particolare della vita quale dover essere, così come la coscienza del proprio Sé è il dualismo della vita quale realtà (IdV, 124-125).
Per superare questo dualismo soggetto/oggetto la via da seguire consiste nel ritenere la “valutazione etica” come non avente nulla a che fare con le leggi, ma «con una realtà che affonda nella vita stessa»50: pertanto, «il dovere non può dipendere da alcuna norma esterna»51. Scrive Simmel: Muovendo da quel carattere di vitalità del dovere, si comprende come anche le azioni morali accadano per lo più come qualcosa di in sé assolutamente unitario, qualcosa che semplicemente sgorga fuori; ed invero con tanta maggiore perentorietà quanto più profondamente morale è la persona (Persönlichkeit), e in essa in quanto tale la vita come realtà e la vita come dovere si dispiega come un processo sempre più unitario. La “volontà buona” non ha bisogno dell’obbligazione della legge. Anzi semplicemente come tale essa non ne sa nulla appunto perché è buona sin da principio, vale a dire: la sua vita scorre, per così dire, nell’indifferenza tra la sua forma di realtà e la sua forma di dovere (IdV, 134).
Per Simmel, dunque, la demarcazione abitualmente posta tra vita e dovere non ha ragion d’essere poiché, come già sappiamo, «la vita si esprime in una doppia serie di fenomeni, che costituiscono il dominio rispettivamente della “realtà” e della “idealità”, e la linea di demarcazione passa se mai tra queste due serie. Da questo diverso modo di stabilire i confini deriva la conseguenza che il dover essere di un individuo si trova in connessione con la sua vita, ma non può essere ricavato dalla posizione ch’egli occupa 50 51
A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 239. Ibid.
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L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
nella realtà: dal rapporto ad esempio che lo lega a un mondo trascendente o al mondo sociale. È una categoria primaria, coordinata all’essere, e non passibile di “fondazione” o “deduzione”»52. Il dovere, simmelianamente, «non è fondato, nel senso che non consiste nell’adeguamento a valori preesistenti, nel compimento di qualche teleologia»53. Solo quando concepiamo il dovere, ancora al di là di tutti i singoli contenuti, come un modus del tutto primario in cui la coscienza individuale esperisce un’intera vita, diviene comprensibile perché non si possa mai estorcere dal dato di fatto del dovere cosa poi si debba in ordine al contenuto. Tutti i tentativi in tal senso [falliscono] per la stessa ragione per cui anche dal dato di fatto della realtà non si può dedurre cosa poi sia propriamente reale […]. Il dover essere (Gesolltsein) può essere dedotto tanto poco quanto l’essere reale (Wirklichsein) […]. Le difficoltà nel riconoscimento dell’oggettività del dovere risiedono nel fatto che non si riesce a liberarsi dall’idea di una sua natura teleologica e perciò si finisce per cercare di comprovare ogni sorta di motivazioni di provenienza soggettivistica. Bisogna appunto convincersi che il dovere in generale ha tanto poco un fine, quanto poco la realtà (Wirklichkeit) in generale ha una causa. Per questo anche la formulazione: “ciò che è morale deve attuarsi semplicemente perché è morale, o semplicemente affinché si attui, oppure perché è appunto dovuto” – nonostante sia giusta nell’ispirazione di fondo è senz’altro infelice come formulazione, perché implica il momento teleologico da cui è precisamente esente la natura primaria e totale del dovere. Nella sua profondità esso si trova al di là di ogni teleologia e dei suoi inevitabili soggettivismi (IdV, 125-127).
52
F. Andolfi, L’etica di Simmel ovvero l’individuo come dover essere, in G. Simmel, La legge individuale, cit., pp. 15-16. Molto opportunamente Andolfi aggiunge che in Simmel «questo parallelismo del dovere e della realtà nel continuum della vita fa sì che i due termini, essendo tra loro indipendenti, possano divergere, com’è attestato da tutti quei casi in cui le esigenze ideali non trovano realizzazione; senza che per questo tuttavia la loro relazione possa considerarsi casuale. Dal punto di vista epistemologico il sapere etico simmeliano corrisponde a questa complessa relazione di unità e insieme di indipendenza tra i due piani dell’essere e del dover essere: presuppone la conoscenza della realtà ma non è riducibile a una “scienza dei fatti”, che sarebbe strutturalmente incapace di rendere l’istanza etica. La natura di quest’ultima va ricercata nella capacità del vivente di porsi di fronte a se stesso. La trascendenza immanente che viene stabilita con l’assunzione di questa capacità del soggetto di porsi di fronte a se stesso permette di scongiurare un doppio rischio: quello idealistico di una divisione dell’essere umano in una parte essenziale e una parte inessenziale, comunemente identificate dal razionalismo morale con la ragione e la sensibilità, ma anche quello contrario per cui gli oppositori di quella dicotomia hanno concepito l’individuo come già perfetto nella sua esistenza reale e quindi privo di qualsivoglia ideale al di sopra di sé. In questo contrapporre sé a sé la vita attinge un momento di imperatività obiettiva» (ivi, pp. 16-17). 53 A Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 239.
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CONFLITTO
ETICO E LEGGE INDIVIDuALE
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Per Simmel, il luogo di produzione del dovere è la totalità del vivente, pur essendo la vita non altro che una somma di frammenti. Di fatto, come ben rileva Andolfi, «sebbene il dovere si specifichi necessariamente a ogni istante in comportamenti particolari, ciascuno di tali comportamenti non esprime altro che la totalità della vita “dovuta” in quel momento. La logica della legge individuale rifiuta infatti un giudizio portato, in base a determinati criteri, sulle fattispecie di singole azioni isolate dalle vite individuali di cui sono parte. Questo è il procedimento seguito dalla legge universale, e in particolare dall’imperativo categorico kantiano: le singole azioni vengono staccate dal processo vivente dell’uomo intero e riportate al modello astratto di un io puro»54. Tutto ciò lo ribadisce lo stesso Simmel, allorquando scrive: «Quello che ho cercato di mostrare […] è stato che la vita, svolgendosi nella sua totalità come dovere, esprime la legge proprio per questa vita che nella sua totalità si svolge come realtà. Kant invece trasferisce il dualismo nella stessa totalità della vita, scindendola in un Io autentico ovvero razionale e in una sensibilità che gli è semplicemente periferica ovvero contrapposta» (IdV, 132). La morale kantiana, «assolutizzando la componente razionale della totalità vivente, sembrerebbe voler porre comunque la legge in una dimensione ideale, cioè, per definizione, non reale (e dunque inconcreta e aindividuale»)55. Il ragionamento simmeliano ci è già noto. Nella redazione ultima di Das individuelle Gesetz, il filosofo di Berlino riafferma il suo pensiero: se tutto ciò che è reale è individuale, allora l’ideale a sua volta deve essere universale; se tutto ciò che è individuale è soltanto reale, allora ne consegue che esso non può essere contemporaneamente soprareale, e cioè il postulato ideale di una legge. Pertanto, la legge non può avere alcuna origine nell’individualità dell’uomo per cui ha valore: essa “dimora” nella regione del sopraindividuale, poiché “dimora” in quella del soprareale56. Diversamente, secondo Simmel, «una legge assume validità solo nel momento in cui sorge dalla totalità di vita delle individualità, ma non della individualità ideale, pensata come universale sulla base di un’assolutizzazione dell’elemento razionale. In altri termini la validità della legge non può che poggiare sulla sua oggettività reale e dunque sull’individualità»57. Leggiamo Simmel: «Il fatto decisivo è che la vita individuale non è qualcosa di soggettivo, bensì, senza perdere in qualche modo la sua delimitazione all’individuo, quale dovere 54
F. Andolfi, L’etica di Simmel…, cit., p. 17. F.S. Ghisu, Georg Simmel, cit., p. 87. 56 Cfr. IdV, 141. 57 F.S. Ghisu, Georg Simmel, cit., p. 88. 55
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L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
etico essa è assolutamente oggettiva. La falsa simbiosi tra individualità e soggettività deve essere dissolta, allo stesso modo che quella tra universalità e legalità» (IdV, 180). Finora, l’etica tradizionale sembra essersi mossa sostanzialmente nel seguente dilemma: o fondare il Dovere morale «nella coscienza soggettiva, nella decisione coscienziale-personale» (ivi, 178); oppure derivarlo «da un referente oggettivo, da uno statuto sovraindividuale che trae validità dalla sua struttura concettuale-oggettiva» (ibid.). Di fronte a quest’alternativa, Simmel indica e sostiene «una terza possibilità»: «il dovere oggettivo proprio di quest’individuo, l’esigenza posta alla sua vita, a partire dalla sua vita, in linea di principio indipendente dal fatto che l’individuo stesso la riconosca giusta oppure no» (ibid.). Stando a questa possibilità, quindi, secondo Simmel, «non necessariamente l’individuale deve essere soggettivo, l’oggettivo sovraindividuale. Piuttosto il concetto determinante è questo: l’oggettività dell’individuale. una volta ammesso che sussiste una vita individualizzata in modo definito come una realtà di fatto oggettiva in senso pieno, si dovrà ammettere anche il suo dovere ideale come un dovere valido oggettivamente, tanto che su di esso si possano concepire rappresentazioni vere e false sia da parte del suo soggetto, sia da parte di altri soggetti» (ivi, 178179). Il valore oggettivo del Dovere è, quindi, determinato «dal suo essere espressione della totalità di vita del soggetto individuale al di là del fatto che questi ne sia consapevole o favorevole»58. Ponendo la legalità nell’oggettività e l’oggettività nell’individualità, Simmel «non pone il consenso soggettivo a base necessaria della moralità. Il dovere oggettivo sembra essere un dato originario che si pone al di qua delle soggettività individuali. Se quindi il Dovere trascende la soggettività, non per questo diviene sovraindividuale, dato che i legami morali tra l’universale e l’individuale possono sussistere inconsapevolmente»59. Detto altrimenti: «non si è necessariamente consapevoli della fondazione di un obbligo morale sulla propria vita, e quindi della sua oggettività, mentre se tale consapevolezza fosse presente il consenso sarebbe automatico»60. Simmel insiste con il suo ragionamento a scandagliare sino in fondo il rapporto tra legge universale e legge individuale. Il punto da chiarire è il seguente: «Se la legge morale mi impone di diventare altro da me e con ciò si contrappone alla mia soggettività, questo vuol dire che non è affatto universale. A me non mi comprende di certo, dunque le manca qualcosa per 58
Ibid. Ivi, pp. 88-89. 60 Ivi, p. 89. 59
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CONFLITTO
ETICO E LEGGE INDIVIDuALE
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essere veramente universale – è solo un altro “particolare”, di taglia sicuramente più grossa della mia soggettività, ma pur sempre non universale, se non include me ma mi si contrappone. Dunque nel contrapporre l’universalità della legge morale alla particolarità fattuale dell’individuo si finisce col tagliare l’erba sotto i piedi proprio all’universalità della legge»61. una possibile strategia alternativa suggerisce invece che, come scrive Simmel, si potrebbe tentare di produrre l’adeguamento della legge universale all’azione individuale rintracciando di volta in volta, a partire dal suo contesto di vita individuale, una legge universale per l’intero complesso dei suoi contenuti parziali, per tutte le sue determinazioni; dalla cooperazione o dall’equilibrio di tutte queste leggi risulterebbe quindi la normazione definitiva per ogni caso. Proprio a partire dalla formula dell’imperativo categorico sarebbe pensabile un’ampiezza tale da non lasciare fuori di sé alcun elemento dell’azione. Ciò costituirebbe un’esatta analogia con la scienza teoretica, che intende l’effettivo comportamento di un oggetto come la somma o la risultante delle azioni di tutte le leggi che valgono per ciascuna delle sue singole determinazioni (LI, 47-48).
Tuttavia, come dice Ferrara seguendo la pagina simmeliana, «anche questa strategia alternativa per salvare l’universalismo dei principi sottesa alla filosofia morale kantiana»62 non soltanto non è praticabile ma conduce ad un vicolo cieco. Il motivo di ciò consiste nel fatto, come sostiene Simmel, che «ciascun oggetto contiene una tale infinità di qualità e relazioni che nessuna serie di concetti e quindi di leggi di cui noi potremmo disporre potrebbe esaurirla; noi ci dovremmo accontentare di determinazioni della cosa unilaterali, particolari, che ne tralasciano innumerevoli aspetti» (LI, p. 48). È a questo punto che l’argomentazione simmeliana si fa più stringente e, come rileva sempre Ferrara, in essa si ripropone «il punto centrale di ogni Lebensphilosophie»63. L’autore della Legge individuale, infatti, non può fare a meno di registrare dal suo punto di vista che «se vogliamo dominare il reale tramite concetti; dobbiamo […] fissare in molteplicità rigidamente separate i passaggi e le ininterrotte correlazioni dentro e tra le cose, dobbiamo rendere discontinuo il continuo, fermare ovunque il flusso infinito delle relazioni sia verso ciò che è vicino come verso ciò che è lontano» (LI, 49). Soltanto “pietrificando” la vita potremmo arrivare «a una concezione della morale che abbia le caratteristiche di un universalismo basato
61
A. Ferrara, «La legge individuale», cit., p. 37. A. Ferrara, L’universalismo esemplare, cit., p. 102. 63 Ibid.
62
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L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
sul giudizio determinante»64. Con ciò ci avvediamo di un secondo “limite” della filosofia morale kantiana: essa «si occupa del valore morale di azioni singole, che prende in esame isolandole dal complesso della condotta di vita e dell’identità dell’attore»65. Per Simmel, infatti, l’imperativo categorico che l’etica kantiana percorre cade «nell’errore analogo di porre domande circa il significato di un agire separato dal suo portatore e, in base alla risposta data a questa domanda, di giudicare come giusto o sbagliato il rapporto tra l’agire e il suo portatore. Esso separa l’azione, bugia o franchezza, bontà o crudeltà ecc. dal suo soggetto, la tratta come un contenuto logico sospeso per aria e poi si interroga circa la sua ammissibilità; questa viene determinata dall’imperativo categorico secondo quel che l’azione significa in sé e per sé, non secondo quel che significa nel soggetto di cui è espressione» (LI, 51). Qui, è Ferrara a ribadirlo, la “filosofia della vita” unisce «Simmel a Nietzsche e a Bergson»66: quest’unione la si può sorprendere anche in questo passo, «in cui riecheggia il tema della durée bergsoniana senza il coscienzialismo bergsoniano»67, che ora rileggiamo: Per quanto le esteriorità del nostro comportamento possano mostrare l’una rispetto all’altra confini relativamente netti, nel suo intimo la vita non è composta da una bugia, poi da una decisione coraggiosa, poi da una dissolutezza, poi da una buona azione, ecc., bensì si tratta di un fluire continuo, in cui ogni attimo rappresenta il tutto che si forma e trasforma continuamente, in cui nessuna parte possiede limiti precisi rispetto alle altre e ciascuna mostra il suo senso solo all’interno di quel tutto e vista nella sua prospettiva (LI, 59).
Per Simmel, «la bugia o la buona azione, in quanto espressione momentanea di vitalità dei rispettivi soggetti, ha l’unicità propria di ogni realtà e non è in alcun modo […] una rappresentazione della menzogna o della buona azione in generale, di cui parla la legge generale» (ivi, 60). Nell’universalismo “forte” che caratterizza l’etica kantiana, invece, «l’universalità della legge è condizionata dal fatto che la totalità dell’individuo vivente è superata, poiché essa rende oggetto del dover essere l’azione in quanto è determinata da un singolo concetto e non in quanto si origina dalla continuità della vita» (ibid.). Stando all’impianto generale dell’etica kantiana, dunque, secondo Simmel, l’imperativo categorico kantiano in via di principio è così orientato 64
Ibid. Ibid. 66 Ivi, p. 103. 67 Ibid. 65
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soltanto perché si preoccupa di esprimere «l’astrazione formale più generale da tutte le singole leggi universali possibili» (ivi, 61). Tuttavia, quale regolatore dell’agire esso deve immediatamente convertirsi «in una norma contenutistica, e quindi singolare, che nella sua pura coerenza può essere in ogni singolo caso solo empiricamente valida, e forse revocabile in un caso successivo. L’imperativo categorico si spezza appunto nella somma possibile di queste universalità relative, non appena intende divenire pratico» (ibid.). Commenta e problematicizza puntualmente Ferrara: L’universalismo dell’imperativo categorico […] può essere acquisito solo al prezzo di rendere il dovere qualcosa che verte su una classe di azioni isolate: rompere una promessa, appropriarsi di un deposito, dire una bugia. Il test di generalizzazione alla base dell’etica di Kant funziona soltanto se assumiamo una concezione riduttiva dell’agire umano e se non teniamo conto del fatto che la medesima azione acquista valenze morali diverse nel contesto di due vite umane diverse. Il test non è però emendabile. Se tentassimo di correggerlo allargandolo fino a includere l’approccio olistico al significato dell’agire proprio della Lebensphilosophie, il test di generalizzazione ci porrebbe nella posizione assurda di chiederci se possiamo volere che “la totalità della nostra vita” sia generalizzata e diventi legge anche per ciascun altro o, in altri termini, se possiamo volere che ciascun altro diventi “come noi”. L’esito di un simile tentativo di emendare l’approccio kantiano ermeneuticizzando la concezione dell’agire a esso sottesa sarebbe quello di portare a estinzione l’individualità dell’attore morale che si autoimpone la legge. Se ogni azione acquista il suo senso in rapporto al contesto fornito dalla condotta di un’intera vita, come posso io volere, al fine di effettuare il test di generalizzazione così riformulato, che la totalità della mia vita perda la sua unicità e, attraverso una ipotetica generalizzazione, dia luogo a un’infinità di Io che sono repliche esatte del mio?68.
Riflettendo sul rapporto tra individualità e libertà, Simmel ritiene che l’autonomia kantiana concepita come autolegislazione basata sul principio etico dell’imperativo categorico, non possa costituire il punto di partenza per pensare la libertà del soggetto morale. Come la libertà degli uomini viene limitata in linea di principio se l’uomo esiste «come mera parte di un tutto» (LI, 64), così anche essa viene limitata, se i suoi elementi si avvicinano, per efficacia e impressione, a possedere una certa indipendenza. Di conseguenza, «noi non ci sentiamo liberi, se nella costituzione globale del nostro essere, singoli momenti – impulsi sensibili, suggestioni autoritarie, ricordi, teoremi logici ecc. – sembrano sottrarsi al confronto con altri nostri 68
Ibid.
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L’INQuIETO
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elementi essenziali e manifestarsi come elementi indipendenti, che seguono solo la loro propria legge» (ibid.). Dunque, Simmel ritiene che l’imperativo categorico finisce inevitabilmente per sopprimere analogamente la libertà, «perché sopprime la totalità unitaria della vita a favore di azioni atomizzate, le quali, valutate secondo un sistema concettuale, piegano sotto di sé la vita determinando il suo significato nell’atto di definire il proprio» (ibid.). Ora, neppure la fondazione del “dovere” nella “ragione” è in grado di far derivare il primo da una fonte sufficientemente ampia. Il motivo principale da addurre è il seguente: Non si può affatto dire che abbiamo doveri etici in quanto siamo esseri razionali. Proprio in quanto tali non dovremmo produrre alcun dover essere, perché in tal caso vivremmo già da noi stessi in modo conforme alla norma; anche se vale la formula che è nostro compito divenire esseri razionali, questo comunque non può essere il compito per l’essere razionale, bensì solo per la totalità del nostro essere; solo questa, e non la ragione, che non ha bisogno di ciò, è il luogo del dover essere (ivi, 65-66).
La ragione di Kant, secondo Simmel, è «del tutto estranea alla vita quale processo reale che scorre con un suo proprio senso, e non è niente altro che il portatore di quei contenuti della vita che assumono la forma di concetti separati e delle loro conseguenze logiche» (ivi, 66). Per sostenere la forza di una simile critica Simmel si affida ad una constatazione, per così dire, assiomatica che recita così: Se la ragione è dunque l’istanza sovraindividuale in noi, in quanto è il puro portatore dei contenuti della vita separati mediante concetti e ad essi sottoposti; se la ragione in quanto energia psichica è al contempo un elemento vitale e dinamicamente efficace che parte dal centro della vita – non le riesce comunque, neppure tramite questa unificazione, di trasformare le norme universali, che nel loro primo significato derivano da essa, in funzioni ideali della sua totalità. La ragione è e rimane infatti una parte di questa totalità, altre stanno accanto ad essa e possono sviluppare l’elemento regolativo, che hanno uguale diritto di reclamare per i loro particolari ambiti di significato, solo a partire dal loro proprio essere e non a partire dall’essere, a loro estraneo, della ragione (ivi, 67).
L’imperativo categorico non sarebbe mai stato costruito da Kant proprio se, nella sua concezione morale, «l’Io avesse effettivamente abbracciato l’uomo con tutte le sue energie psichiche, l’individualità nella sua totalità unitaria vivente»69; se l’azione fosse stata semplicemente considerata, come 69
G. Antinolfi, Introduzione, cit., p. XXIII.
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dice Simmel, «un palpito della vita immediata» (IdV, 140), che si determina dall’interno stesso della vita e che perciò non si lascia affatto inserire adeguatamente in uno schema concettuale preesistente. Se, quindi, simmelianamente, «l’imperativo categorico, nella sua oggettività e indifferenza nei confronti dell’individuo, rappresenta, sul piano del dovere, la coagulazione della reale continuità della vita, la sua traduzione in forma e dunque il suo essere altro dalla vita, allora esso deve essere dissolto in una concezione che sia in grado di adeguarsi maggiormente alla fluidità vitale»70. In altri termini, «si tratta in sostanza di lasciar riemergere la vita in tutta la sua ricchezza, di ridare dignità ai suoi aspetti prerazionali, ingiustamente rimossi in quanto ritenuti incontrollabili, si tratta in definitiva di scindere moralità e razionalità, senza con ciò optare per una sorta di irrazionalismo»71, una non identità quest’ultima alla quale anche Max Scheler dimostrerà di essere sensibilmente attento giudicando tra l’altro Das individuelle Gesetz di Simmel un saggio «molto istruttivo»72. È chiaro, tuttavia, che Simmel non è dimentico del fatto che la moralità è formata anche dalle condizioni e circostanze sociali. Infatti, «ciò che rende morale l’agire umano è precisamente la realizzazione individuale di un piano dell’essere che pur essendo trascendentale muta nel divenire della vita, e quindi richiede una scelta o, nei termini di Simmel, un’“azione”. Si ricordi sempre che la vita non è intesa in senso deterministico, e quindi in ogni momento lascia aperta la possibilità di un mutamento. D’altra parte, l’azione, proprio perché imprevedibile, non si fa catturare (ancora in contrasto con Kant) da un concetto»73. L’azione, dice Simmel, «determina la sua natura dall’interno della vita ed i suoi intrecci con il prima ed il dopo nonché con l’intero complesso psichico di questa vita rendono la sua delimitazione in virtù di un concetto proveniente dall’esterno – per quanto indispensabile per la prassi – qualcosa di fortuito ed esteriore» 70
Ibid. Ibid. Nell’autore del quarto capitolo della Lebensanschauung, come osserva Andolfi (L’etica di Simmel…, cit., p. 15), «la vita è descritta come una corrente continua di cui i diversi esseri non sono che le gocce. Tra i vari fenomeni solo gli esseri viventi raggiungono quella relativa conclusione in se stessi che è propria degli individui. Quanto più alto è il livello di vita raggiunto, tanto più l’unità vitale si esprime in esseri che esistono attorno a propri centri. Simmel definisce “tragedia dell’organismo” la paradossale situazione in cui l’individuo organico viene a trovarsi di costituire al tempo stesso una struttura centrata in se stessa e la parte di una connessione che lo supera. L’etica rappresenterebbe in questo quadro il momento in cui il dilemma dell’organismo viene avviato a soluzione (versöhnt); in essa il soggetto è unitario senza rinunciare alla connessione, si sacrifica a ciò che è più di lui e insieme rimane se stesso». 72 Cfr. M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, tr. it. a cura di G. Caronello, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1996, p. 599. 73 A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 239. 71
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(IdV, 140). Commentando Simmel, Dal Lago scrive: Mediante l’azione, l’individuo non solo realizza la propria moralità, ma a ben vedere forma se stesso, diviene la propria individualità. Simmel non nega la possibilità di un’etica sovraindividuale, ma questa può darsi solo all’interno di concrete forme storiche e sociali, come risultato della dialettica tra le esperienze singolari che scaturiscono dalla vita, le condizioni in cui esse si situano e le «potenze» (come la religione, lo stato, l’ufficio e le altre istituzioni) che impongono dei doveri, limitando necessariamente la libertà individuale. È nel dar forma ai propri contenuti vitali mediante un’azione che tiene conto dei vincoli e dei limiti posti dall’esterno che l’individuo esercita una responsabilità74.
La responsabilità del soggetto, simmelianamente, viene estesa alla totalità dei suoi atti, perché essi sono tutti rilevanti in quanto «momenti costruttivi di una storia di vita»75. L’idea di una responsabilità non ristretta a singole azioni ma allargata alla vita concepita come un intero «è plausibilmente ispirata alla nota tesi schopenhaueriana per cui noi portiamo la responsabilità complessiva del nostro essere»76. Riferendosi esplicitamente ad essa con il suo commento, Simmel – in Schopenhauer e Nietzsche – scrive: «L’azione singola non si decide sempre da capo e da se stessa, la volontà non subentra come è rappresentazione generale e come le costruzioni kantiane vogliono fondare alla fine, in ogni caso di scelta, con una decisione appartenente soltanto a questo istante, nata soltanto da essa; bensì perché noi una volta per tutte siamo così, come appunto siamo, la decisione può cadere soltanto dalla parte tracciata da questo Essere»77. Nell’impostare il problema della responsabilità, Simmel dunque nega l’incondizionatezza di un dovere esteriore alla volontà di chi è chiamato a prendere la decisione e offre nel contempo «una spiegazione profonda del sentimento di responsabilità, esteso dai singoli atti all’essere che ne è la radice»78. Non a caso egli precisa che «l’uomo intero, cioè il suo Essere assoluto, non accessibile ad alcun mutamento, è il portatore, la realtà propria di ogni singolo – dunque solo apparente – bene o 74
Ivi, p. 240. Sul concetto di responsabilità in Simmel, cfr. E. Voelzke, Die Freiheitsproblem bei Georg Simmel, Kleine Verlag, Bielefeld 1987; F. Andolfi, La responsabilità di essere se stessi: Schopenhauer, Nietzsche, Simmel, in «Iride», X, n. 21, 1997, pp. 245-259 e Id., L’etica di Simmel…, cit.; cfr. inoltre A. De Simone, Responsabilità, libertà, democrazia. Leggere Georg Simmel, in Id., Dislocazioni del politico. Tra responsabilità e democrazia, Morlacchi, Perugia 2010, pp. 19-38. 75 F. Andolfi, L’etica di Simmel…, cit., p. 18. 76 Ibid. Qui il riferimento è all’opera di A. Schopenhauer, La libertà del volere umano, tr. it., Laterza, Bari 1970. 77 G. Simmel, Schopenhauer e Nietzsche, cit., pp. 177-178. 78 F. Andolfi, L’etica di Simmel…, cit., p. 18.
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male e della responsabilità di questo»79. Le uniche perplessità che Simmel – come osserva Andolfi – «aveva manifestato riguardavano l’interpretazione che Schopenhauer aveva dato di questo carattere fondamentale come di un carattere immutabile. A questo determinismo senza speranza egli aveva opposto l’ipotesi che quanto c’è in noi di più profondo potesse avere la sua essenza nell’evoluzione, e la libertà vivere quindi nelle modificazioni (Wandlungen) anziché nel costante ribadimento del medesimo modello»80. Scrive infatti Simmel: Schopenhauer dichiara impossibile che un uomo nelle stesse circostanze agisca l’una volta così, l’altra volta diversamente, perché le condizioni esteriori hanno un effetto nella legalità naturale uniforme, il mutamento, dunque, dovrebbe derivare dalla volontà metafisica, che tuttavia, poiché è atemporale, non si potrebbe modificare. Ma perché, si può domandare, questo Essere ultimo in noi non deve essere fondato su un cambiamento delle sue direzioni? Perché non deve portare in sé una differenza, che si mostra nella sua apparenza temporale come un capovolgimento, una svolta, un Sì e No che si alternano? Schopenhauer lascia che il principio: «il carattere è innato», si identifichi con l’altro: «il carattere è immutabile». Invero, questo cambiamento non può svolgersi nel tempo, perché il tempo è solo una forma di comprensione ordinatrice le apparenze, che non tocca l’In sé delle cose. Ma probabilmente, era comprensibile che questo In sé, questo Essere fondamentale, che certo si determina secondo l’apparenza – poiché un altro carattere metafisico apporterebbe un’altra apparenza empirica – possieda un’attitudine, che si manifesta come un mutamento completo della nostra essenza che entra in determinati momenti temporali81.
Secondo Simmel, quindi, «il criterio della coerenza, che per la morale razionalistica esprime soltanto la necessità di adottare comportamenti che non abbiano conseguenze logicamente contraddittorie, vale ora nel senso di prescrivere quei comportamenti che rappresentano lo sviluppo conseguente della natura del soggetto, o di vietare quelli che lo intralciano»82. La possibilità del consenso individuale all’obbligo morale non esclude in tal modo la necessità della costrizione, tuttavia, l’applicazione di questo criterio fa riferimento «a una capacità immediata di autopercezione del soggetto – a un Lebensgefühl, che solo raramente mette capo alla formulazione di una legge»83. Andolfi nota che lo stesso Simmel «si domanda anzi se il sentimento 79
G. Simmel, Schopenhauer e Nietzsche, cit., p. 182. F. Andolfi, L’etica di Simmel…, cit., p. 18. 81 G. Simmel, Schopenhauer e Nietzsche, cit., pp. 186-187. 82 F. Andolfi, L’etica di Simmel…, cit., pp. 18-19. 83 Ivi, p. 19.
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individuale originario dell’essere dovuto debba svilupparsi nella ricerca di leggi generali o se la stessa formulazione della richiesta etica non rientri in un percorso rigorosamente individuale. Nella redazione più tarda di Das inviduelle Gesetz le formulazioni concettuali della legge morale sono definite “costrutti secondari”: il nostro agire richiede comunque una “legalità” ma non sempre una “legge”: in lui “la legge ideale del dovere che accompagna la vita è fin dal principio una cosa sola con la sua realtà psicologico-pratica”; ogni momento del suo volere e del suo operare risulta “legittimo” (gesetzlich), ma senza che egli si debba chiedere se ciascuno di questi momenti corrisponda a una legge posta al di là di lui. In questa forma compiuta la vita morale presenta singolari punti di contatto con la struttura dell’opera d’arte, dove per l’appunto Simmel ritiene, sulla traccia della Critica del giudizio, che si realizza “una finalità senza fine”»84. Dalle ricostruzioni analitiche e critico-storiografiche sin qui svolte, emerge abbastanza chiaramente che la critica di Simmel alla filosofia morale kantiana poggia implicitamente, come ha suggerito Ferrara, «su un concetto normativo di autenticità»85. La traiettoria dell’argomentazione critica sviluppata da Simmel si può maggiormente rendere intelligibile, infatti, se gli attribuiamo: «a) una concezione dell’identità della persona come completamente a disposizione di quest’ultima; b) una priorità normativa dell’identità personale rispetto a ogni dover essere a essa esterno; c) una distinzione fra un’autonomia non autentica e in quanto tale distruttiva da un lato, e una forma di autenticità che include al suo interno un momento di autonomia dall’altro»86. Simmel esplicitamente giunge a rimettere in discussione – da un punto di vista proprio dei termini della Lebensphilosphie – la dottrina kantiana dei “due regni”. Rileggiamo la pagina densa scritta dalla penna del filosofo berlinese: Dal fatto che il dover essere si svolge come una posizione di ideali sovrana nei confronti della nostra realtà, si è dedotto il diritto di costituire vita e dovere come due principi essenzialmente estranei l’uno all’altro (anche se occasionalmente convergenti nel contenuto). Con ciò però si è scambiata la vita con la realtà psicologica, che, a parte ogni altra considerazione, è innanzitutto solo una categoria, sotto cui la vita si manifesta a se stessa, anche se si impone come la più importante da un punto di vista pratico o perlomeno come la più immediata. E così il dover essere poteva venire inchiodato solo 84
Ibid. A. Ferrara, L’universalismo esemplare, cit., p. 104. 86 Ibid.
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a concetti isolati e lontani dalla continuità della vita; il fatto che in questo modo fossero ottenute solo leggi fisse, prive di una relazione comprensibile con la vita, causa l’insoddisfazione e l’inadeguatezza che investono l’etica più di ogni altro campo della filosofia. La linea divisoria deve essere tracciata altrimenti: non sono la vita e il dovere a contrapporsi l’una all’altro, bensì realtà e dover essere, ma entrambi sulla base della vita, quali rami del fiume della vita, forme di organizzazione dei suoi contenuti. Ma inoltre ciò non è inteso solo psicologicamente, come se il soggetto rappresentasse una volta la sua vita così com’è realmente e un’altra volta come dovrebbe essere. Al contrario c’è qualcosa di oggettivo alla base dell’una come dell’altra rappresentazione; e se il dovere è qualcosa di oggettivo, non capisco perché dovrebbe sorgere da un rapporto di contenuti formulabili concettualmente piuttosto che dalla totalità di una corrente vitale. L’intera difficoltà sta solo nel fatto che ci siamo abituati a considerare l’esigenza morale oggettiva come qualcosa che si contrappone senz’altro alla vita; questa vita è diventata così qualcosa di meramente soggettivo, e perciò anche quella esigenza, non appena deve valere come funzione della vita, sembra assumere un tale carattere soggettivo. Questa però è manifestamente una petitio principii, perché la conclusione afferma solo ciò che si è posto all’inizio quale premessa. Questa interpretazione del dover essere come una forma della totalità della vita, data con la vita stessa, non coincide con la legge kantiana come si potrebbe presumere per il fatto che anche questa noi ce la “diamo da noi stessi” (LI, 71-72).
Qui l’idea normativa di autenticità come valore d’identità che Simmel avanza emerge anche dal confronto che egli stabilisce «con la psicologia morale e l’antropologia presupposte dall’approccio kantiano alla validità morale»87. Simmelianamente, infatti, se si considera la nozione fondamentale di «autolegislazione»88, appare con tutta evidenza che per Kant «non è affatto l’individuo, in quanto intero, vivente, unitario» (LI, 72) a darsi la legge morale, bensì a darla «è solo la parte di lui con cui egli rappresenta la ragione sovraindividuale» (ivi, 73). In conclusione, sostiene Simmel, Kant «non va per nulla oltre il principio che ciò che comanda all’individuo deve essere qualcosa al di là dell’individuo. E poiché egli rifiuta ogni eteronomia, deve cercare di ottenere lo scopo spezzando l’individuo in sensibilità e ragione» (ibid.), e, come aggiunge Ferrara, «deve postulare che la parte razionale, noumenica dell’individuo costituisca anche il Sé più autentico dell’individuo»89. Diversamente da tutto ciò, Simmel, in alternativa critica all’imperativo categorico kantiano sostiene che «la condotta morale dell’individuo dovrebbe essere guidata da una legge morale individuale che in 87
A. Ferrara, L’universalismo esemplare, cit., p. 104. Ibid. 89 Ibid. 88
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realtà è un “principio dell’autenticità”»90. Con le parole dello stesso Simmel, questa legge individuale altro non è che «la totalità o la centralità di questa vita stessa che si manifesta come dover essere» (LI, 78). Secondo Ferrara, è qui possibile rinvenire nella pagina simmeliana «un concetto di dignità della persona notevolmente diverso da quello di Kant»91, dal momento che la dignità dell’individuo viene fatta derivare dalla sua capacità di rappresentare e poter realizzare in sé «tutta la vita – naturalmente non nella sua estensione bensì nel suo significato, nella sua essenza interiore, e invero in un modo particolare, individuale e inconfondibile» (LI, 83), poiché «ogni qualvolta la vita si manifesta in un individuo, là essa compare anche per intero» (ivi, 84). Per Simmel, dunque, conclude l’interprete italiano, «l’epifania della vita nella persona, quell’epifania che è alla base di ciò che chiamiamo “dignità”, non è diversa dalla manifestazione del valore estetico in ogni aspetto di un’opera eccezionale»92. Non a caso Simmel scrive: «Ogni parte dell’opera d’arte è ciò che è in una determinata posizione solo per il fatto che ogni altra parte è ciò che è, il significato di ognuna include in certo qual modo quello di tutta l’opera d’arte» (LI, 86)93. Nella sua analisi e ricostruzione della natura del sapere etico Simmel spinge verso una «vitalizzazione e individualizzazione dell’ethos» (LI, 109), che però, almeno nella sua intenzionalità di contenuto, vorrebbe tenersi estranea «a ogni egoismo e soggettivismo […] che non solo non comporta alcun alleggerimento della pretesa etica, ma al contrario limita piuttosto il campo delle “circostanze attenuanti”» (ibid.). Simmel si preoccupa dunque che l’etica della legge individuale non abbia alcuna ricaduta nella soggettività e nell’arbitrio. Egli è persuaso del fatto che «l’identificazione del dover essere individuale non è meno cogente di quella del dover essere che si suppone valido per tutti. Il dover essere, anche quando venga inteso in collegamento con la vita individuale, continua a possedere quei caratteri di oggettività e 90
Ibid. Ibid. 92 Ibid. 93 «Tra parentesi – aggiunge Ferrara –, troviamo qui articolata consapevolmente da un punto di vista teorico la radice di quella frammentarietà che accompagna il pensiero di Simmel come un timbro inconfondibile. Dal punto di vista della concezione simmeliana dell’arte e della vita, il carattere sistematico di un’articolazione concettuale non aggiunge nulla al suo valore, ma al contrario comporta il rischio di un’inutile fonte di dispersione del significato: il frammento illuminante contiene in nuce tutte le sfaccettature di una complessa realtà. Da qui la peculiare declinazione simmeliana dell’autenticità, intesa come cifra espressiva della personalità quale si evince dai singoli atti dell’individuo. L’olismo psicologico simmeliano giunge al punto di suggerire che “in ogni azione è produttivo tutto l’uomo, e non una facoltà dell’anima”, per quanto raffinata» (ivi, p. 105). 91
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universalità che gli sono stati attribuiti dalla morale razionalistica»94. Alla stregua dei sistemi razionalistici, infatti, per Simmel la vita etica così determinata non si ripercuote affatto sul soggetto stesso. Se da sempre è stato affermato che una tale vita non può prefiggersi la propria felicità, ciò è giusto già per il fatto che la felicità qui è pensata sempre come fine dell’agire, e il dinamismo etico fondamentale non è affatto determinato da un fine, bensì dalla vita che si origina dalla propria radice (anche se i suoi contenuti specificabili si dovessero presentare nella forma di fini). Se inoltre però quell’affermazione è giusta anche perché questa felicità rappresenta un riflesso dell’agire all’indietro, dentro il soggetto, mentre l’agire etico non si svolge mai in questa direzione della vita ripiegata su stessa, bensì nella direzione che tende in avanti, allora l’esclusione del movente eudemonistico appare solo come un aspetto di questa determinazione assai più fondamentale. A causa di questa determinazione sarebbe addirittura già equivoco qualificare come “compimento della propria personalità” l’istanza che scaturisce dalla vita individuale e, a partire da essa, fornisce la sovrastruttura ideale della sua realtà, e che si sa in opposizione alla legittimazione “universale” del suo singolo contenuto considerato per sé stante […]. La formazione ideale può anzi, senza negare la sua origine, e proprio sotto la sua spinta, riversarsi in formazioni sociali, altruistiche, spirituali, artistiche e in queste vedere di volta in volta il suo fine ultimo; infinite volte la vita compie il suo ideale di se stessa, originariamente proprio, alimentato solo dalla sua radice individuale, allontanandosi da se stessa e rinunciando a sé. Se si vuole a tutti i costi designare ciò come compimento della propria personalità, questa può essere solo un’etichetta, ma non lo scopo finale eticamente decisivo, poiché la sanzione qui richiesta non può in alcun modo provenire da un terminus ad quem, ma solo da un terminus a quo, dall’ideale di se stessi che procede con la vita stessa (LI, 107-109).
Dunque, ci dice Simmel, l’oggettività non costituisce solo il termine dell’agire etico, ma anche «il contesto storico-sociale entro cui soltanto si può definire il Sollen individuale. Gli ordini oggettivi però non possono essere per se stessi fonti del dover essere. Possono proporre finalità, a cui in molti casi gli individui devono subordinarsi come mezzi, ma restano estranei all’agire etico, che come tale non è rappresentabile come un processo teleologico. Se l’individuo può derivare ciò che deve fare, il contenuto del dovere, da relazioni oggettive delle cose, è lui in definitiva a doverlo assumere come istanza propria»95. Nella sua essenzialità di significato, l’oggettività che Simmel attribuisce all’agire etico traduce il fatto che «la doverosità di un’azione
94 95
F. Andolfi, L’etica di Simmel…, cit., p. 21. Ivi, p. 22.
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deriva dall’“essere”, s’intende dall’essere storicamente determinato, di un individuo, anziché semplicemente dalla sua “volontà”»96. A questo punto ci si può chiedere, nella sua pars construens, qual è peculiarmente il fine della argomentazione che Simmel si prefigge ne La legge individuale? L’interrogativo è lecito dal momento che egli stesso ribadisce che «niente è quindi più lontano da questo tentativo della posizione di un nuovo “principio morale”» (LI, 95). Ferrara ha suggerito una plausibile risposta a tale quesito scrivendo: Alla contrapposizione deontologica fra dovere morale e vita Simmel intende sostituire una nuova opposizione fra «dover essere» (tanto universale quanto individuale) e «realtà» o fattualità (anch’essa tanto sovraindividuale quanto individuale) in quanto entrambe momenti della vita. La vita dovuta, continua Simmel, da questo punto di vista non ci apparirà conoscibile in modo diverso da come conosciamo la vita reale. E poiché la vita «si compie solo negli individui» anche la normazione morale dovremmo rintracciarla al livello individuale. Significa ciò che il dover essere con cui ogni individuo continua, anche nel quadro simmeliano, a doversi confrontare è un dover essere che coincide con l’opinione che l’individuo ha di tale proprio dover essere? Qui troviamo un Simmel straordinariamente attento a tracciare l’altro confine dell’autenticità – quello tra dimensione oggettiva e soggettiva dell’autenticità. Se il valore della persona ed anche la mia legge individuale dipendono nel loro concreto contenuto da chi io sono, dal tema centrale che ispira la totalità della mia vita, è evidente che si aprono due opzioni. O la centralità di un contenuto e determinazione è puramente funzione del mio supporla tale – con un esito radicalmente soggettivistico […]. Oppure la centralità di un contenuto e di una determinazione non è interamente legata alla percezione che l’attore ha della propria vita, benché non possa nemmeno prescinderne del tutto […]. A Simmel va il merito di aver distinto queste due opzioni, la cui commistione è da sempre utilizzata come base per lanciare a ogni etica dell’autenticità l’accusa di soggettivismo. E va anche il merito di avere con decisione abbracciato la seconda alternativa97.
Nella prospettiva etica delineata da Simmel, la legge individuale «non è determinata dalla unicità della propria vita così come questa è intesa dall’attore morale. La percezione che l’attore ha della propria vita non è che un elemento fra tanti»98. Infatti, simmelianamente, «l’aver accesso interno al significato della propria vita non preclude la possibilità di commettere un errore, quando si tratta di distinguere ciò che è centrale e ciò che riveste una rilevanza solo periferica. Il “dover essere” della legge morale 96
Ibid. A. Ferrara, «La legge individuale», cit., p. 42. 98 A. Ferrara, L’universalismo esemplare, cit., pp. 105-106.
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individuale deve piuttosto essere ancorato a un giudizio che possiede un certo tipo di oggettività sui generis»99. Se per Simmel, come già sappiamo, è l’oggettività dell’individuale il concetto decisivo, allora, «se esiste una vita individualizzata in un certo modo, anche il suo dover essere ideale esiste come obiettivamente valido, di modo che si possono concepire rappresentazioni vere e false di esso sia da parte del soggetto di tale vita che da parte di altri soggetti» (LI, 97). Ma, in che condizioni si trovano allora gli “altri soggetti” nei confronti dell’attore morale? Essi, come commenta Ferrara, «sono solo in una posizione più svantaggiata ai fini del determinare che cosa la legge individuale richieda all’individuo. Non hanno accesso diretto e immediato a quegli aspetti della vita che fanno da sfondo alla condotta dell’attore, ma questo svantaggio rende loro soltanto più difficile, non impossibile, cogliere il contenuto specifico della legge individuale»100. Inoltre, occorre aggiungere, secondo Simmel «l’accesso immediato alla realtà della propria vita non garantisce all’attore morale l’immunità dall’errore nella valutazione di ciò che la legge morale gli ingiunge»101. Da tutto ciò si può inferire che, per, il filosofo di Berlino, «la legge individuale è dunque una legge con la stessa cogenza normativa rispetto alla realtà della vita dell’attore che Kant attribuiva all’imperativo categorico – la differenza cruciale è che si tratta di una legge che si applica ad un caso soltanto»102. Simmel insiste sia (i) sull’universalità del dover essere sia (ii) sulla relativa autonomia ed indipendenza della legge individuale. La prima, l’universalità, che costituisce l’altro elemento tradizionalmente riferito alla legge morale, «può essere anch’essa a sua volta rivendicata alla legge individuale, e non rappresenta che un altro lato della stessa oggettività»103. L’elemento universale dell’individuo non è «un’astrazione ricavata dalle sue singole qualità e azioni (che costituiscono esse piuttosto un’astrazione dalla continuità della vita), bensì la “radice” dell’azione ad esse sottostante. Ogni parte dell’individuo è permeata dalla vita del tutto, ed è comprensibile solo a partire da quest’ultima. Di conseguenza l’individuo può essere rappresentato soltanto mediante una specie di “intuizione intellettuale”, ovvero attraverso un’apprensione unitaria della sua totalità»104. La seconda, cioè l’indipendenza della legge individuale dalla rappresentazione che il soggetto morale se ne fa, serve a Simmel, così indica Ferrara, per poter distinguere la sua etica dell’autenti99
Ivi, p. 106. Ibid. 101 Ibid. 102 A. Ferrara, «La legge individuale», cit., p. 43. 103 F. Andolfi, L’etica di Simmel…, cit., p. 22. 104 Ivi, pp. 22-23. 100
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cità, che si fonda sull’individuelles Gesetz, da ogni forma di edonismo o ideale estetizzante che voglia tradurre la propria vita in questo senso105. Di fatto, è possibile che un’etica dell’autenticità, simmelianamente, possa risultare anche «più esigente di un’etica basata su principi generali»106. Simmel ha cercato egli stesso di prevenire una possibile interpretazione non solo eudemonistica ma anche edonistica della legge individuale, sottolineandone «il potenziale di approfondito rigorismo»107. Dal suo punto di vista, quindi, «lungi dal legittimare ogni tipo di circostanze attenuanti che allentino su di noi la presa dell’istanza morale, la taratura individuale della legge morale avrà come effetto di far apparire molte delle nostre azioni sotto la luce assai più grave di quanto non apparirebbero se considerate isolatamente e non in rapporto alla nostra personalità totale»108. Molte delle nostre azioni – scrive Simmel –, peccati veniali se considerate isolatamente, acquistano tutto il loro peso solo quando ci rendiamo conto che la nostra intera esistenza ci ha spinto a esse, e che esse determineranno la nostra esistenza forse per tutto il futuro – un criterio che però può valere solo per questa vita individuale e che sarebbe totalmente privo di senso se volessimo generalizzarlo a tutte le altre vite, che non sono affatto identiche alla mia (LI, 109).
Non siamo solo responsabili per il fatto che obbediamo o meno a una legge vigente, ma anche e soprattutto perché essa vale per noi: essa, infatti, vale per noi «solo perché siamo questi determinati individui, e il nostro essere si modifica in qualche modo per ogni azione compiuta modificando a ogni istante lo stesso ideale del dover essere che da esso permanentemente scaturisce» (ivi, 109-110). La consapevolezza che la frammentarietà della nostra condotta di vita rifletta specularmente la totalità della medesima non può che accrescere la sensazione per cui «ogni momento della vita finora vissuta contribuisce a formare e condizionare ogni dover essere attuale» (ivi, 111). Pertanto, come sentenzia Simmel: «Nell’essere-dovuto di ogni singolo agire c’è già la responsabilità per la nostra intera storia» (ibid.). L’oggettività della legge individuale implica che l’essere dovuto della singola azione sia comunque definito dalla vita, cioè dall’essere storicamente determinato, dal suo farsi evento, piuttosto che da una decisione meramente soggettivo-coscienziale. L’individualità non è concepita da Simmel come una struttura fuori dalla storia, perché «l’uomo 105
Cfr. A. Ferrara, L’universalismo esemplare, cit., p. 106. Ibid. 107 A. Ferrara, «La legge individuale», cit., p. 46. 108 A. Ferrara, L’universalismo esemplare, cit., p. 106. 106
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non è soltanto natura, ma anche storia, sicché ciò che rende morale l’agire umano è sempre e solo la realizzazione di un piano del dovere intessuto nella vita stessa come storicità»109. Con i suoi caratteri di oggettività e universalità e nonostante tutte le cautele seguite da Simmel per concepirla come una forma di autoespressività e di autenticità di un soggetto consapevole, la legge individuale vale pur sempre stricto sensu come una “legge”, che di conseguenza «prescrive all’individuo degli obblighi, quanto meno l’obbligo di uno svolgimento coerente»110. La validità della legge individuale è indipendente dal fatto che l’individuo la riconosca o meno, altrimenti in questo caso sembrerebbe che «altri possano riconoscere meglio di lui gli obblighi derivanti dalla oggettività della sua vita e della sua posizione nel mondo»111. Pur essendo orientata alla “difesa” «del momento personale della decisone etica e a far valere la diversità dei percorsi morali individuali»112, la tesi simmeliana sull’agire etico individuale non è comunque esente da ambiguità. È noto, a questo proposito, l’esempio addotto da Simmel – (per certi aspetti problematicamente valutabile, perché ideologicamente determinato, se letto retrospettivamente sul piano storico e non solo deontologico) – dell’antimilitarista113. In quest’esempio traspare con 109
G. Antinolfi, Introduzione, cit., p. XXVI. F. Andolfi, L’etica di Simmel…, cit., p. 23. 111 Ibid. 112 Ibid. 113 Scrive Simmel: «Si pensi ad un antimilitarista convinto che la guerra e il servizio in guerra siano senz’altro malvagi e rovinosi, e che si sottrae al dovere patriottico del servizio militare con solo in buona coscienza, ma anche con la santa convinzione di fare così ciò che è moralmente giusto e incondizionatamente richiesto. Ora se il suo comportamento viene condannato, se l’adempimento di quell’obbligo patriottico viene posto come un’esigenza etica – perché sarebbe del tutto indifferente come egli la pensi soggettivamente – non so come il negatore della “coscienza morale erronea” possa venire a capo di questa situazione. Ma non basta neppure addurre come sanzione semplicemente l’ordine dello Stato e la salus publica. Infatti che tale ordine esista come potere e che per esso conti soltanto l’adempimento della sua richiesta e non il lato interno del soggetto agente, non costituisce ancora in sé e per sé un’esigenza etica posta al soggetto. E se tutti gli ordini oggettivi terreni e ultraterreni da cui l’uomo è circondato gli presentassero le proprie richieste, è lui che deve soddisfarle e, se deve trattarsi di un agire etico, queste pretese come tali devono provenire da lui, devono rappresentare il dover essere posto nel suo essere; ciò che si presenta a lui come esigenza morale dall’esterno, sia pure da un elemento esterno ideale e di grande valore, può solo essere materiale del dover essere propriamente etico, e solo tramite quest’ultimo può essere legittimato come etico per questo determinato uomo. Su questa base, che non ammette alcun compromesso o concessione, intendo che quell’antimilitarista è davvero moralmente obbligato al servizio militare, sebbene la sua coscienza etica soggettiva lo rifiuti. Infatti l’individualità che si presenta come dover essere non è astorica, indifferente ai contenuti, né consiste solo nel cosiddetto “carattere”. L’individualità è piuttosto codeterminata, ovvero include, in 110
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evidenza sia il fatto che la concezione etica di Simmel non esprime tout court il «nostro presente», sia che essa comunque appartiene al «nostro» passato e che da essa possiamo muovere anche per comprendere e vivere in un «altro presente». La consapevolezza – anche storiografica – delle differenze fra le nostre problematiche e concezioni attuali e quelle del tempo di Simmel non esclude l’eventuale possibilità di riconoscere che somiglianze e differenze, continuità e discontinuità possano costituire per gli attori sociali peculiarità fattuali tali da essere sia affermate che negate sulla base non solo dei dati empirici ma anche degli strumenti e degli stili interpretativi di cui di volta in volta storicamente disponiamo. In questo senso c’è da registrare criticamente anche la lettura della forte qualità normativa della legge morale individuale che Ferrara compie dell’esempio illustrato da Simmel in riferimento al pacifista sincero e convinto che venga chiamato alle armi. L’etica della legge individuale – scrive Ferrara nel suo commento dell’esempio – concorda con la soluzione deontologica al conflitto di coscienza che Simmel attribuisce ipoteticamente a Kant – le convinzioni etiche (“etiche” nel senso di sittlich) alla fine devono cedere il passo al dovere morale di difendere l’integrità della patria – ma diversa è l’argomentazione. Secondo Simmel argomenti come quelli che fanno leva sulla premessa che la sicurezza dello stato e la salus publica richiedono che si presti servizio militare non sono cogenti se non in quanto riescano a fare appello a qualcosa di interno alla vita del pacifista. L’obbligo morale del pacifista di prestare servizio nell’esercito deve essere giustificato, se si vuole restare coerenti con la prospettiva della legge individuale, in base al fatto che la “individualità” o identità del pacifista non è “astorica, indifferente ai contenuti, né consiste solo nel cosiddetto carattere”. Piuttosto,
quanto momento imprescindibile, il fatto che quest’uomo, per esempio, è cittadino di un determinato Stato. Tutto ciò che lo circonda e tutto ciò che ha vissuto – i più forti impulsi della sua natura come le impressioni più fuggevoli – tutto questo forma (o da tutto ciò si origina), in quella vita fluttuante della personalità, tanto una realtà quanto un dover essere. Dalla vita semplicemente individuale di quest’uomo (infatti non è neppure pensabile una vita diversa da quella individuale), alla quale appartiene il suo essere cittadino dello Stato, risulta quindi per lui il dovere del servizio militare, come struttura oggettiva sovrastante o annessa alla sua realtà. Ora che egli conosca questo dovere, che lo riconosca o lo disconosca, è a tal fine del tutto indifferente, esattamente come è indifferente per la realtà del suo essere che egli giudichi di essa rettamente o falsamente. Per l’espressione abbreviata della prassi abituale naturalmente basta spiegare il servizio militare come eticamente dovuto, “perché lo Stato lo richiede”. Ma per la questione etica fondamentale, che muove dal vero e proprio nodo della personalità dell’uomo, ciò non è sufficiente. A questo livello quella richiesta dallo Stato agisce solo in quanto l’appartenenza allo Stato si intreccia all’essere o alla vita effettiva dell’individuo in modo tale che il dover essere, nel quale questa vita si compie in modo eticoideale, includa l’adempimento di quella richiesta – ma in tal caso l’esigenza morale è anche assolutamente indipendente da ogni momento soggettivo» (LI, 97-99).
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essa include, fra l’altro, il fatto di essere “cittadino di un determinato stato” e dal fatto, non negato, di questa appartenenza “risulta quindi per lui il dovere del servizio militare”. Simmel fa notare come la cogenza di questo dovere di prestare servizio sussista indipendentemente dal riconoscimento del soggetto e dal suo giudizio in merito, ma si leghi invece al fatto che l’appartenenza allo stato si intreccia effettivamente all’essere e alla vita dell’individuo. Mentre alcuni presupposti della tesi di Simmel rimangono legati alla costellazione storica del 1913, e ci appaiono dunque datati, l’esempio del pacifista mantiene la sua attualità per il fatto di rivelarci l’intenzione, da parte di Simmel, di prendere le distanze tanto dall’idea moderna e illuminista secondo cui l’aspetto di maggior valore entro ciascuno di noi è quel nucleo razionale, inteso in questo caso come una propensione a seguire principi, che ci accomuna in quanto membri dell’umanità, quanto dall’idea romantica e modernista secondo cui l’aspetto di maggior valore all’interno di ciascuno di noi è ciò che di fatto ci differenzia dagli altri e ci rende unici. Ambedue queste concezioni dell’individuo non riescono a rendere giustizia a un aspetto importante dell’essere umano e si rivelano egualmente unilaterali. La concezione moderna e illuminista svaluta come mera contingenza la configurazione interna di strutture psichiche, bisogni e motivazioni che ci rende unici. La concezione modernista e romantica svaluta come irrilevanti o peggio oppressive quelle competenze e disposizioni che ci pongono in grado di condividere qualcosa con altri114.
La concezione simmeliana dell’agire etico individuale, quindi, si situerebbe al di là di questa dicotomia, collocandosi, invece, come sostiene Ferrara, in un’area che si può caratterizzare come posizionata «all’intersezione fra le concezioni integrativa, centrata e riflessiva dell’autenticità»115. Posizione che Simmel stesso individua allorquando scrive: «L’individuo è l’uomo intero, non il resto che rimane quando da questo si toglie ciò che condivide con altri» (LI, 104)116.
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A. Ferrara, L’universalismo esemplare, cit., pp. 107-108. Ivi, p. 108. 116 Ciò detto, occorre osservare che Simmel intende distinguere la sua etica della legge individuale dall’etica edonistica dell’autorealizzazione, anche se, come aggiunge Ferrara, il filosofo di Berlino utilizza di fatto «un concetto di autorealizzazione ancora troppo poco riflessivo e troppo “esperienzialmente” connotato» (ibid.). Infatti, conclude Ferrara, «la possibilità di un contrasto fra la legge individuale e il perseguimento dell’autorealizzazione scompare nel momento in cui intendiamo l’autorealizzazione come la trascrizione sul piano della realtà non soltanto dei propri bisogni e delle proprie inclinazioni, ma anche del resto delle determinazioni della propria identità, ivi inclusi i contenuti normativi. Persino la scelta di abdicare alla propria autorealizzazione, se consapevolmente formulata e perseguita altrettanto consapevolmente, è una scelta di autorealizzazione» (ivi, pp. 108-109). Per cui, «se accettiamo la tesi simmeliana che la legge individuale, benché trovi applicazione in un caso soltanto, è dotata della stessa cogenza normativa di cui è dotata ogni legge “sovraindividuale”, 115
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3.2. L’etica della legge individuale: un bilancio critico Nella relazione sociale – cifra costitutiva della Wechselwirkung quale principio fondativo che disvela l’originaria ed essenziale relazionalità del mondo e dell’esserci umano e che consente la lettura chiasmatica della realtà117 –, la “normatività”, comunque soggetta a tutte le ambivalenze del sociale, è una caratteristica intrinseca dell’azione sociale «in quanto l’azione è necessariamente interpretativa e significante, dotata di intenzionalità nelle concrete relazioni sociali»118. Per Simmel, la relazionalità e il conflitto tragico vita/ forme – che oltre ad essere una condizione universale del rapporto soggetto/oggetto, esprimono altresì nell’esperienza della modernità le dinamiche modali del rapporto tra soggettività creatrice e cultura –, rimangono pur sempre «il punto sorgivo e il criterio normativo ultimo di ogni pensare e agire»119 nell’orizzonte segnato dalla traiettoria della modernità. Il soggetto moderno120, nella frammentarietà ed insieme unitarietà della vita, sia nella sua qualità di «essere culturale» sia nella sua unicità esistentiva (“la legge individuale”), non può sfuggire alla relazione, che non elude non solo il conflitto presente nella storia, ma anche quello dei doveri. I problemi della morale e della sua riflessività, l’etica, assumono dunque – anche attraverso la diagnosi critica e il progetto di un’etica della legge individuale avanzate da Simmel – una rilevanza che contribuisce a far comprendere meglio, nelle metamorfosi, nelle ambivalenze e nei frammenti della modernità121, l’esigenza di senso e dei fondamenti non contrattuali del contratto sociale. Nello specifico, muovendomi in una prospettiva critico-storiografica rivolta a valutare il progetto simmeliano di etica della legge individuale, registro quanto segue. Nella Wirkungsgeschichte contemporanea di Simmel122 viene
allora diviene chiaro come la nozione di autenticità possa diventare pertinente anche per concettualizzare la natura della normatività moderna in quanto tale» (ivi, p. 109). 117 Al riguardo, cfr. M. Vozza, I confini fluidi della reciprocità. Saggio su Simmel, Mimesis, Milano 2002; C. Papilloud, La réciprocité. Diagnostic et destins d’un possible dans l’œuvre de Georg Simmel, L’Harmattan, Paris 2003; F. Mora, Principio Reciprocità, cit.; A. De Simone, L’ineffabile chiasmo, cit. 118 G. Guarnieri, La crisi del monismo…, cit., p. 171. 119 Ibid. 120 Cfr. D. Simon, Il soggetto della modernità. Intorno a Georg Simmel, Il Segnalibro, Torino 2004. 121 Cfr. D. Frisby, Frammenti di modernità. Simmel, Kracauer, Benjamin, cit.; cfr. inoltre Z. Bauman, Modernità e ambivalenza, tr. it. di C. D’Amico, Bollati Boringhieri, Torino 2010. 122 Cfr. tra gli altri, K.P. Biensenbach, Subjektivität ohne Substanz. Georg Simmels Individualitätsbegriff als produktive Wendung einer theoretischen Ernüchterung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1988; E. Priddat, Die individuelle Soziologie Georg Simmels, Fest, Berlin 1995; J. Schwerdtfeger, Das
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riconosciuto che tale progetto derivante dal fluire della vita trova possibile attuazione soltanto «in opposizione a Kant e in generale a tutta la “morale razionale” che ha in Socrate e Platone il suo punto di partenza»123. In particolare, «contro qualsiasi forma di teleologismo e di legge universale, ma anche contro la teoria aristotelica del “giusto mezzo”, Simmel propone la pariteticità delle categorie di Essere e Dovere, tramite le quali la coscienza fa esperienza della vita e nelle quali la stessa vita si esprime come fluire. Tanto il dover essere quanto l’essere non sono fuori e al di là della vita ma sono le forme grazie alle quali essa stessa prende coscienza di sé; Kant viceversa separa la vita dal dover essere innescando un irrisolvibile dualismo, proprio in quanto non riconosce valore originario a tale categoria, ma anzi ricercandone e pretendendo di trovarne la fonte» (PR, 59-60). Diversamente, secondo Simmel, il dovere ha contenuto concreto in quanto «è vita come “l’essere reale” e dunque dover essere ed essere non possono venir dedotti né fondati» (ivi, 60). Di conseguenza, oggettivare il dovere significa «negare ogni forma di teleologismo e pensarlo come un modus primario al di là di ogni telos e di ogni soggettivismo»: tuttavia, l’oggettività del dovere «non sarà più contestabile solo quando, riconosciuta la sua natura di categoria originaria, non verrà staccato dalla vita e i suoi contenuti verranno accettati come casuali, storici, irriducibili a sistema» (ibid.). Nelle intenzioni di Simmel non vi è dunque quella di determinare un principio morale, che possa valere «come principio generale per misurare la moralità dell’agire umano, né indicare un metaphysische Ort da cui il giudizio morale debba originarsi» (ibid.). Secondo quanto rileva Francesco Mora, «il problema che Simmel si pone e pone alla filosofia consiste nell’affermazione dell’impossibilità che il dover essere derivi la propria legittimità e il proprio contenuto da un ambito metafisico situato oltre la vita dell’individuo; che il dover essere promani da un principio universale, assolutamente autonomo, separato e opposto alla vita, principio che assurge così a legge universale» (ibid.). Per Simmel, invece, il dovere e i suoi contenuti oggettivi si originano “dalla totalità vitale dell’individuo”, «cosicché un’azione non può essere giudicata come “uguale e possibile” per tutti gli uomini ma dev’essere valutata rispetto alla vita del singolo» (ibid.). “L’errore di Kant” «non sta tanto nell’autonomia del dovere quanto nel non averla collocata nella totalità vivente dell’individuo, bensì parcellizzandola, averla posta esclusivamente in “quella parte Individualitätskonzept Georg Simmels, Fest, Heidelberg 1999; R. Engert, Über die Zulänglichkeit des individuellen Gesetz als Prinzip der Ethik: eine Auseinandersetzung mit Georg Simmel, Verlag Max Stirner, Leipzig 2002. 123 F. Mora, Principio Reciprocità, cit., p. 59 (d’ora in poi PR).
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dell’individuo in cui si esprime la ragione superindividuale”, opponendo così la parte razionale e legislatrice dell’io alla sensibilità e frantumando l’unità vitale dell’individuo» (ivi, 60-61). Pertanto, «se il dovere promana dalla vita e la vita, nel suo svolgersi all’interno dell’ambito del dovere, pone “una legge alla vita che si svolge sul piano dell’essere reale”, tenendole in tal modo relazionate e unite seppur distinte, Kant pone una separazione netta tra essere e dover essere della vita, scindendo la vita in un io assoluto, sede della pura razionalità, e in una sensibilità “periferica”, che gli si contrappone» (ivi, 61). Simmel intende proiettarsi oltre Kant: «Se la legge diviene “l’esigenza di un dovere”, allora si ottiene un’immagine del mondo multiforme e mobile, differenziata e stratificata, relazionale, chiasmatica e reciproca che nulla ha a che fare con l’imperatività e la categoricità della legge universale» (ibid.). un’idea sì fatta di “legge”, che rinvia ad una pluralità e complessità di relazioni, vale non solo per l’ambito morale, ma anche per quello teoretico, religioso e sociale. La vita nella sua totalità fluida trova sì il dovere come «un assoluto», ma questo è un assoluto «mobile e temporale». Per Simmel, nel flusso continuo della vita, «l’azione, come la legge, il dovere, l’essere, si forma e scaturisce dalla vita e con essa si intreccia, si relaziona con il suo passato e con il suo futuro in quanto suo presente, e la sua formalizzazione concettuale, “per quanto indispensabile alla prassi”, rimane sempre qualcosa di artificioso e di casuale» (ivi, 62): in quanto forma della vita, «l’azione è “manifestazione” di questa e non abbisogna di alcuna traduzione in concetto» (ibid.). Per Kant, l’agire morale «dev’essere ricompreso all’interno di un concetto che lo circoscrive descrivendolo; solo così esso può sottostare ad una legge che sia universale; l’azione morale diviene essa stessa qualcosa di immutabile e perché le singole scelte, le decisioni individuali possano essere ricomprese all’interno dell’universalità della legge, devono essere staccate dalla vita dell’individuo, dalla sua esistenza concreta, per farle divenire “forme generiche universalmente valide”» (ibid.). Detto altrimenti: «La legge universale manca il riferimento all’azione come originata dalla vita individuale, proprio in quanto è impossibile per essa pensare l’azione come momento di quella vita e di quell’esistenza particolare; in questo senso la legge universale non coglie la vita nei suoi vissuti ma unicamente quando questi si sono trasformati – o sono stati tradotti – in concetti; questa “concezione meccanica del fenomeno morale domina in tutte le riflessioni etiche”. L’agire morale, staccato dalla vita, diviene valutabile in quanto oggetto della legge universale allo stesso modo che un qualsiasi fenomeno naturale diviene oggetto di una legge naturale; staccare e contrapporre il dovere alla vita permette, dunque, il suo renderlo oggetto, ma se esso, viceversa, viene
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considerato “come forma della vita” allora la validità della legge universale viene meno» (ivi, 62-63). Mora rileva criticamente (cfr. ivi, 63), sulla scia di quanto è stato osservato124, che per Simmel, il dovere è una modalità del fluire della vita che scorre in un alveo diverso da quello dell’essere, ma entrambi ne accompagnano la corrente. Nella configurazione ontologica della vita colta nel suo continuo fluire che si esprime nella finitezza e pluralità delle espressioni formali dell’esistenza e nella sua infinita stratificazione, «solo la legge individuale, espressione della vita, è in grado di determinare il valore dell’agire all’interno dell’unità della vita individuale, mentre l’universalità della legge morale, non basandosi sull’unità della vita, non coglie la responsabilità del soggetto agente; valutato dalla legge individuale, il dovere, proprio perché radicato nella vita, giunge a un grado molto più elevato di oggettività rispetto a quello conseguito dal “moralismo razionale”, che pensa il dovere e l’agire unicamente come guidati da una teleologia». Secondo Mora, dunque, “l’implicito simmeliano” è di portata decisiva: «Tramite la critica distruttiva dell’universalità della legge e la sua sostituzione con la priorità della legge individuale – l’unica in grado di cogliere gli infiniti e mutevoli aspetti della vita in quanto sua manifestazione a livello di dover essere – Simmel intende limitare l’edificio onto-gnoseologico di derivazione aristotelica, tripartito in theoria, praxis e poiesis, a fondamento della metafisica dell’uno, al piano della mera effettività pratico-operativa e logico-naturale, utile allo sviluppo materiale e pratico-scientifico dell’uomo» (PR, 63). Sin qui alcuni brevi tragitti della pars destruens dell’ermeneutica simmeliana, mentre quelli che costituiscono la sua pars construens intendono basarsi sul tentativo di elaborare «l’etica dalla metafisica della vita», in cui «la pluralità e la complessità delle variazioni e delle differenziazioni dei fenomeni che costituiscono l’esperienza della vita possano essere espresse tramite una legge individuale, cioè una legge che ha abbandonato il suo carattere impositivo, e tramite un a priori mobile che si è ormai svincolato, nella sua storicità e finitezza, dalla immutabilità logico-ontologica del principio metafisico dell’uno» (ibid.). Come scrive Remo Bodei, in Simmel «non esistono processi univoci o monocausali»125: «se la legge universale, che prescrive una omologazione e omogeneità dei comportamenti morali validi per tutti gli uomini, determina come valore ciò che è unitario, l’a priori, il principio unico, e al contrario come disvalore indica la differenza e la pluralità, la legge individuale inter124
Cfr. M.S. Lotter, Das individuelle Gesetz. Zu Simmel Kritik an der Lebensfremdheit der kantischen Moralphilosophie, in «Kant-Studien», 91, n. 2, 2000. 125 R. Bodei, L’individualismo delle differenze: Georg Simmel, in Id., Destini personali, cit., p. 173.
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preta la vita come complessità e molteplicità espressiva di manifestazioni e di fenomeni, che non possono essere ridotti entro una qualsiasi teoria dell’uno» (PR, 65). Nella totalità della vita, l’uomo, per Simmel, «non solo non deve ma nemmeno può seguire una legge universale; egli piuttosto deve operare secondo un “ideale immanente” alla propria esistenza, anche se così facendo può agire in modo logicamente contraddittorio» (ivi, 66-67): la prassi umana si iscrive nella pluralità conflittuale del vivere. Se l’universalità «porta alla perdita della coscienza dell’identità», di un’identità che invece si può dare soltanto «in variazioni, differenze, alternanze e contraddizioni», allora «negare la priorità ontologica dell’individualità, negare cioè che il dovere derivi dalla vita individuale», ciò di conseguenza conduce, secondo Simmel, «all’impossibilità di definire che cosa è la responsabilità» (ivi, 67), dal momento che «il dovere non deriva da un fine esterno e non è un fine a stabilire il dovere», ma, viceversa, «è la vita dell’individuo, la sua stessa esistenza» a deciderlo. Per evitare sia qualsivoglia «deriva soggettivistica», sia «l’originarsi dell’ambito della legge morale da un ordine oggettivo, da una “legislazione superindividuale”», la “terza via” proposta da Simmel, nel campo problematico del dovere etico, «consiste nel fatto di poter affermare una oggettività individuale» (ibid.). Il che comporta un “decisivo capovolgimento”: «la legge razionale-universale diviene legge individuale, e la vita individuale, origine e fondamento del dovere, si svincola da qualsiasi ricaduta nell’arbitrio del soggettivo e quindi da qualsiasi interpretazione relativistica dell’etica» (ibid.). Il dispositivo ermeneutico simmeliano disvela così come nel campo della relazione di reciprocità (Wechselwirkung), l’unicità della vita individuale nella sua totalità non solo sia ineffabile ma anche innegabile. Ora, non è mancato tra gli interpreti chi ha voluto vedere criticamente proprio nella caratterizzazione simmeliana dell’intero individuale una concezione che coglierebbe l’uomo «in una dimensione avulsa dalla sua originaria storicità». Discutendo l’etica della legge individuale di Simmel, Eleonora de Conciliis, non senza puntuali riferimenti filologici alla pagina simmeliana, sostiene che l’uomo “intero” simmeliano «si pone come indipendente dalla rovina storica dell’universale, pur essendo frutto del processo di differenziazione come processo di “unicizzazione”»126. In particolare, scrive de Conciliis: «Secondo Simmel l’essere peculiare dell’individuo è assolutamente autoreferenziale e autonomo da ogni confronto con l’altro. In virtù di tale indipendenza la legge dovrebbe, da un lato, sanare la tragica scissione fra cultura oggettiva e cultura soggettiva tipica della modernità, dall’altro 126
E. de Conciliis, L’aristocratico metropolitano. Simmel e il problema dell’individualismo moderno, La Città del Sole, Napoli 1998, p. 128.
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rendere possibile il superamento del conflitto tra formalismo (kantiano) ed egoismo individualistico (stirneriano), entrambi privi di riguardo per il contenuto reale delle differenze tra individui. La metafisica della vita impone a Simmel di abbandonare la sua fenomenologia della differenziazione individuale, e di applicare all’individualità concetti vitalistici come quello di sviluppo autonomo e autocentrato; da forma situazionale, che implica il fatto dell’essere così e non altrimenti, l’individuo assurge a sostanza incomparabile, quidditas capace di mantenere aperti e sviluppare i conflitti dentro di sé, conservando nel tempo una coerenza interna e una dinamica esterna dotate di senso. Gli elementi incomparabili (particolari) e quelli comparabili (universali) vengono inseriti in un progetto di autonomia soggettiva, volto ad esaltare l’unicità del singolo non come frammento, ma come Tutto e come Intero, e ad inserirlo nell’orizzonte intersoggettivo nel quale egli aspira ad essere riconosciuto. L’Intero del singolo (soprattutto in senso temporale, come permanenza del medesimo essere peculiare) e quello della comunità di cui egli idealmente fa parte si compenetrano reciprocamente: solo questa compenetrazione permette a Simmel di conservare un debole legame etico – altrimenti inconcepibile – fra condotta individuale e totalità sociale»127. Tuttavia, rileva ancora criticamente de Conciliis, «il “fatto” che l’individuo sia costituito da un “dover essere” che non può ricevere il suo fondamento da una struttura sovraindividuale di validità (come quella kantiana), come “fatto”, non è estensibile logicamente a tutti gli esseri umani, e pertanto mostra un’insufficienza grave in rapporto alla formulabilità autenticamente “etica” – cioè oggettivamente valida – di una legge. Viene messo in questione infatti proprio il carattere del “dovere” di un tale “essere”, in quanto, se l’individuo non fa che realizzare coerentemente la sua naturale peculiarità, lo fa necessariamente senza sforzo, e anzi con una sorta di godimento, seguendo una legalità “innata”, sottratta al principio di adattamento e al confronto con gli altri. Se tuttavia la realizzazione di sé pretende di essere etica – e non solipsistica – essa deve partire dall’alterità e porla come interlocutore privilegiato del progetto individualistico. In questo modo essa smette di essere autonoma e di trascendere l’orizzonte delle differenze, dovendo porsi il problema del rispetto delle differenze medesime»128. Di conseguenza, si argomenta, Simmel eluderebbe questa esigenza «richiamandosi all’Io come totalità vivente – in tal senso “naturalmente” vivente –, dotata di una sua dinamicità interna». Di fatto, «è il flusso della vita individuale a giustificare l’introduzione di un termine come “dovere” riferito solo a se stessi, dunque in un’accezione auto127 128
Ivi, pp. 129-130. Ivi, pp. 130-131.
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referenziale. Se l’individuo non fosse considerato come una totalità vivente e dinamica, non potrebbe aspirare alla realizzazione della sua legge peculiare come ad un telos, né allo sviluppo della propria personalità come a quello di un’entelechia aristotelica. L’individualismo evita così di essere ridotto ad egoismo privo di ogni legalità, evita di piombare nell’anarchico proliferare di comportamenti amorali: ormai emancipato da ogni sorta di universalità esteriore e positiva, egli deve darsi la legge da solo»129. Dunque, è questa in conclusione la persuasione critica di de Conciliis, l’individualismo “etico” di Simmel implicherebbe perciò «il ricorso metafisico ad un concetto unitario e coscienziale dell’Io che tenga lontana la frammentarietà del soggetto (nel tempo e nello spazio) e la dimensione inconscia dell’individualità: la vita del singolo è un Tutto che ha una sua coerenza e continuità interne, “naturali”, in cui l’uomo può ritrovarsi»130. Ora, l’istanza critica considerevolmente presente in questa lettura simmeliana si fonda su di un assunto forte di base rinvenibile tout court nell’intero argomentativo esemplato nelle pagine di questa interprete, che così sinteticamente recita. In Simmel, «il soggetto non viene considerato come un portato storico della modernità, ma come una sostanza autodiveniente, allo scopo di coniugare la validità della legge morale con l’individualità assoluta (metafisica), e quindi di far scaturire il nomos non formulato, ma “vissuto”, dalla peculiarità soggettiva. In effetti la seconda (la peculiarità soggettiva) ingloba in sé il primo (il nomos), diventa originalità assoluta proprio perché “naturale”, inderivata, allo stesso modo in cui lo è per l’esteta l’opera d’arte. Ciò comporta un definitivo spostamento d’accento sulla componente estetica ed emozionale dell’individualità rispetto a quella formale e razionale di matrice kantiana; Simmel recupera la differenza individuale in una dimensione vitalistica, metafisica, astratta dell’etica formale. In tale dimensione l’individuo può porsi come soggetto di responsabilità di fronte all’altro, ma deve farlo di fronte a se stesso. Egli mostra così di avere completamente introiettato il modello aristocratico dell’eccellenza, che nella morale kantiana dell’imperativo categorico appariva ancora subordinato all’ideale della Ragione. La legge individuale prescrive al singolo la realizzazione del suo essere peculiare senza riguardo all’alterità, ma solo alla coerenza interna, alla forza, che deve essere incanalata in forme etiche, riconoscibili e fruibili da altri individui; ciò non viene auspicato per tutelare la dignità degli altri individui, ma viene subordinato al quantum di oggettività (direbbe Freud: di Super-io) che giace in ciascun individuo; egli deve singolarizzare questo quantum di cultura oggettiva senza 129 130
Ivi, p. 131. Ivi, pp. 131-132.
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soccombere al conflitto tra universale e singolare»131. Dunque, secondo de Conciliis, rimuovendo il problema morale dell’individualismo e negando la dipendenza dell’individuo etico dall’alterità, nel senso che verrebbe rimosso «il suo essere divido in relazione all’altro», Simmel trasformerebbe i problemi etici relativi anche alle fratture schizogene che pervadono l’esistenza dell’individualità moderna in «un discorso speculativo a cavallo fra Kant e Stirner»132. Quest’ultimo richiamo a Stirner133, come ha particolarmente rilevato Ferruccio Andolfi in alcuni suoi specifici contributi critici134, di fatto evidenzia la possibilità di ritenere che Simmel avrebbe preso in considerazione l’ipotesi di riprendere in modo positivo l’idea stirneriana di un superamento dell’opposizione tra individualismo dell’uguaglianza e individualismo della differenza, acquisendo l’aspetto di verità di entrambe le forme. In particolare, però, è soprattutto in Das individuelle Gesetz del 1913 che Simmel, come osserva Andolfi, oppone altresì all’unicità (stirneriana) del singolo, intesa nel senso dell’essere altrimenti, «il suo essere peculiare (Eigenheit), il quale non implicherebbe alcun confronto con l’altro, neppure ai fini di una differenziazione, bensì la qualità più fondamentale dell’originarsi da se stesso»135. In Simmel, il contenuto dell’individuo «non consiste solo nella differenza specifica, opposta all’elemento universale che egli condivide con altri. L’individuo costituisce piuttosto un’unità vitale, nella quale si intrecciano e cooperano, ad uguale titolo, cioè senza differenze di rango, gli elementi comparabili e quelli incomparabili che lo compongono»136. Benché questa definizione possa richiamare la nota tesi stirneriana per cui «l’individuo è più che uomo e tuttavia contiene in sé, come un elemento subordinato, la comune umanità»137, in Simmel, diversamente che in Stirner, gli elementi 131
Ivi, pp. 132-133. Ivi, p. 134. 133 Per i riferimenti di Simmel a Stirner nella storia dell’individualismo, cfr. G. Simmel, Le due forme dell’individualismo, in Id., Forme dell’individualismo, cit., p. 42 sg. 134 Cfr. F. Andolfi, Dottrina dell’uguaglianza e individualismo in Simmel, in «Problemi del socialismo», n. 5, 1991, pp. 47-61; Id., Al di là dell’uguaglianza e della differenza. L’interpretazione simmeliana di Stirner, in AA.VV., Il problema della diversità: natura e cultura, a cura di F. Bellino, Abelardo, Roma 1996, pp. 209-215; Id., La posizione di Stirner nella storia dell’individualismo, in AA.VV., Max Stirner e l’individualismo moderno, a cura di E. Ferri, Cuen, Napoli 1995, pp. 125-148. Su Stirner, inoltre, cfr. R. Escobar, Nel cerchio magico. Stirner: la politica dalla gerarchia alla reciprocità, FrancoAngeli, Milano 1986. 135 F. Andolfi, L’etica di Simmel ovvero l’individuo come dover essere, in G. Simmel, La legge individuale, cit., p. 11. 136 Ivi, p. 12. 137 Ibid. 132
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che il singolo ha in comune (con gli altri) «non cessano di essere tali per il fatto di essere espressi, in modo singolare, nella configurazione unica della personalità»138, e ciò «gli permette di tener fermo il legame sociale, risultante dalla condivisione di elementi comparabili, come dimensione data dell’esistenza e non integralmente sostituibile da relazioni volontarie»139. Nella riflessione etica di Simmel, secondo Andolfi, non è escluso, nello spazio più ampio della socialità, «il recupero della diversità», perché egli ha presente la necessaria consapevolezza che non si può comunque non riconoscere che lo sviluppo dell’io è retto da una legge individuale e che parimenti «questa legge si oppone alla legge universale dell’etica kantiana ma anche, allo stesso tempo, alla relativa “inconsistenza” dell’io stirneriano, libero di riprendere o negare ad ogni istante le proprie precedenti oggettivazioni, orientato piuttosto verso il consumo (“il godimento di se stesso”) che verso la produzione di sé»140. Seguire l’etica simmeliana della legge individuale «non significa semplicemente appellarsi alla propria diversità formale dagli altri, alla propria non comparabilità, al fatto che ci si trova in una situazione diversa dagli altri e che pertanto lo schema generale non conviene al proprio caso. Il dover essere individuale sta al di là di ogni confronto. La particolarissima “autonomia” di questo dover essere si situa, com’è comprensibile, al di là dell’eguaglianza con gli altri (riferimento ideale dell’etica kantiana), ma insieme al di là della disuguaglianza dagli altri e ci riporta piuttosto al tema dell’aver origine dalla propria radice. Il principio della legge individuale costituisce infatti un vincolo da cui non si può evadere, come si può fare rispetto a una legge universale che si dichiari inapplicabile al proprio caso in considerazione di una presunta eccezionalità della propria situazione»141. Le difficoltà implicite nella proposta dell’etica individuale simmeliana della legge individuale sono altre. In primo luogo, una di esse consiste nel fatto che, come indica Andolfi, appare problematica la possibilità sostenuta da Simmel di «una fissazione non congetturale di che cosa costituisca la coerenza di un determinato sviluppo morale»142. Infatti, «è difficile ammettere che ci sia, ad ogni istante del percorso di una vita individuale, un’unica scelta coerente con l’essere dell’individuo in questione – una scelta così determinata da poter essere considerata, eventualmente anche da altri, come
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Ivi, p. 13. Ibid. 140 Ivi, p. 14. 141 Ibid. 142 Ivi, p. 24. 139
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prosecuzione dovuta di quel percorso vitale. La complessità del carattere individuale, il fatto che esso sia costituito da una molteplicità di istanze diversamente orientate e solo in parte gerarchizzate, non permette di stabilire a priori quale di esse, ad ogni singolo momento, debba essere soddisfatta. La libertà può persino essere concepita in relazione a questa complessità che rende possibile, nella successione del tempo, il prevalere di elementi della personalità precedentemente accantonati o repressi. La personalità sembra un terreno di lotta di bisogni e progetti diversi e anche antitetici. L’equilibrio che ne risulta di volta in volta e che presiede alle singole scelte può essere appreso soltanto ex post, nell’esperienza»143. In secondo luogo, aggiunge inoltre Andolfi, Simmel con la sua proposta rischia di «trasferire alla vita del soggetto individuale una legalità ancora troppo rigida e per di più inafferrabile con gli strumenti conoscitivi limitati, prudenziali di cui esso dispone. una fissazione del Sollen individuale in forma di legge sembra supporre infatti l’esistenza di un soggetto capace di identificarla. E se il soggetto interessato dovesse essere impari al compito, l’assunto simmeliano della identificabilità della legge conduce ad assoggettare di fatto l’individuo, del quale pure si vorrebbe garantire la piena autonomia, alle indicazioni prescrittive o paternalistiche di chi si arroghi la capacità o il diritto, da una posizione di potere o terapeutica, di identificare la sua legge meglio di quanto egli sappia fare»144. Dalle difficoltà alle possibilità. La «legge individuale» di Simmel pare comunque aprire la possibilità «di intendere il percorso morale degli individui come antagonistico a quello uniforme e astratto della legge universale, ma nella sua pretesa di oggettività rappresenta solo una delle possibili modalità di superamento dell’etica imperativa»145. Per Simmel, l’etica così concepita non pretende di realizzare una legge formale. Simmelianamente, come scrive Guarnieri, «la responsabilità che si radica a livello di un io trascendentale realizza l’azione su un piano dinamico. Quando l’individuo realizza un’azione tenendo conto dei vincoli e dei limiti posti dall’esterno esercita una responsabilità. L’opposizione ad un’etica oggettiva di tipo kantiano non abolisce la dimensione etica, ma la àncora nelle manifestazioni concrete della vita. Tuttavia l’individuo nel divenire ciò che è può assolutizzare il proprio io»146. Simmel ha manifestato consapevolezza di tutto ciò. Il suo grande merito «è stato quello di aver suscitato l’esigenza di una nuova ontologia dell’es143
Ivi, pp. 24-25. Ivi, p. 25. 145 Ivi, p. 26. 146 G. Guarnieri, La crisi del monismo…, cit., p. 169. 144
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sere, non nel senso sostanzialista, ma relazionale. La relazione implica senso e vincolo; senza queste caratteristiche l’individuo si dissolve»147. Simmel non ha eluso di porsi l’interrogativo relativo a come sia possibile enunciare la validità generale della legge etica prima di sapere che essa valga anche per me e che si adatti a me: ciò che imputa a Kant è proprio quel «moralismo assolutistico»148 che fa violenza alla vita individuale e al quale manca «la ricchezza di uno sviluppo differenziato»149. Di fatto, secondo Simmel, ogni più elevata produttività spirituale sembra contraddire il moralismo: essa «non accade mai in base al dovere o all’amore del prossimo ma […] per una naturale necessità creativa del soggetto»150. Simmel, dunque, afferma che l’individuo non può cercare sempre la legittimazione morale del suo modo di agire in una legge universale; tuttavia, egli «riconosce che non può fare a meno di una legge, perché c’è bisogno della stabilità, dell’obiettività, della giustificazione interna dell’azione, espressa dalla “legalità”»151, identificata invece da Kant con l’universalità impersonale della norma morale. Il filosofo di Berlino oppone alla legge etica generale la «legge individuale», la quale fa derivare il dovere morale «dal processo della vita all’interno della quale è racchiuso e che consente di riconoscere la diversità dei contenuti del comportamento morale»152. In ambito filosofico-morale ed etico, con la formula della «legge individuale», Simmel congiunge così due elementi che invece la tradizione filosofica aveva sempre considerato antitetici: la legalità e l’individualità. L’individuo, simmelianamente, non solo realizza la propria moralità, ma forma se stesso, diviene la propria moralità all’interno di concrete forme storiche e sociali «come risultato della dialettica tra le esperienze singolari che scaturiscono dalla vita, le condizioni in cui esse si situano e le “potenze” (la religione, lo Stato, l’ufficio e le altre istituzioni) che impongono dei doveri, limitando necessariamente la libertà individuale»153. Ogni dovere, secondo Simmel, è il risultato di tutta «la nostra storia», e come tale esso sta all’individuo che lo avverte come «istanza posta alla sua vita a partire dalla sua vita» (LI, 96).
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Ivi, p. 170. G. Simmel, Kant. Sedici lezioni berlinesi, berlinesi cit., p. 200. 149 Ivi, p. 201. 150 Ibid. 151 G. Guarnieri, La crisi del monismo…, cit., p. 170. 152 Ibid. 153 Ibid. 148
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4. Il difficile labirinto Libertà, conflitto, paura e (in)sicurezza Considerazioni “intempestive” sulla contemporaneità: Simmel oltre Simmel Noi odiamo colui al quale abbiamo fatto del male. Georg Simmel L’uomo vuole sempre andare via, e se il luogo dove si vuole andare non ha nome, se è indefinito, senza confini, allora lo si chiama libertà. Elias Canetti
Occorre grande ricchezza dialettica nel proprio e altrui filosofare, che però non si riduca, come dice Elias Canetti, in un mero processo di «evacuazione del pensiero»1, per rendere conto di un concetto, di un tema e di un’esperienza di considerevole e multiforme complessità come quelli di libertà, paura e (in)sicurezza che continuamente pongono oggi in questione non solo gran parte del futuro della convivenza mondiale ma anche la controversia non soltanto morale e politica, ma antropologica e sociologica sulla scena dell’humanum2. L’inquieto vincolo dell’umano è unicamente giudicato dal mercato, che ha reso obeso il corpo della nostra cultura e ratificato il declino della critica nella caricaturale e reificante esperienza del soggettivistico “consumare” sempre e comunque. Ma il consumo, sappiamo, consuma anche l’umano. una “cattiva infinità” sembra quasi voler conciliare ogni cosa e, nel riassunto di ogni male e nella tendenza alla denigrazione e all’odio, finisce per rinviare sine die la propria resa dei conti che, tra l’altro, non arriva mai. Il sapore acre dell’incertezza, dell’insecuritas provocata ovunque
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Cfr. E. Canetti, La provincia dell’uomo. �uaderni di appunti 1942-1972, tr. it. di F. Jesi, in Id., Opere, vol. I, Bompiani, Milano 1990, p. 173. 2 A titolo esemplificativo, sull’argomento della libertà, rinvio il lettore a A. De Simone, Filosofia, crisi della libertà e nuova razionalità, in AA.VV., Libertà e determinatezza, S.F.I., Roma 1980, pp. 311-324.
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da tante violenze e barbarie, ci sollecita ancora una volta con stupore il bisogno ineludibile di reinventare la libertà in un tempo in cui il mondo (la società-mondo) è abitato da una moltitudine di Personnes che configurano un’umanità dissolta: una società che, nella sua dura esperienza quotidiana, è sempre più anche post-occidentale, una società in cui, come dice Christian Boltanski, «si vedono gli altri morire intorno a sé, mentre senza ragione noi sopravviviamo».
4.1. La libertà e il “gioco” dei vincoli La dimensione della presenza e dell’assenza della libertà è un patrimonio comune di tutti gli esseri umani. Lo è al tal punto che ognuno di noi «difende e ricerca la propria libertà nei campi del pensiero, della politica, dell’etica, e si interroga sui propri limiti del proprio essere libero nei confronti delle volontà altrui, dei propri impegni, delle proprie responsabilità»3. Oltre il mondo fisico, quello biologico e quello sociale, che «sono il campo da gioco e il presupposto della nostra libera azione, e nello stesso tempo vincoli inevitabili e talvolta grevi al libero corso delle nostre decisioni», forse lo spazio «più insidioso» dove la libertà si mette in questione «è quello, più familiare ma anche più elusivo, del nostro io»4. Freud, in questo già preceduto da Nietzsche, diceva che l’io non è padrone in casa propria. Spesso, paradossalmente, siamo noi stessi i principali nemici della nostra libertà. Nella modernità, tra le grandi narrazioni filosofiche che campeggiano nella storia delle idee, spicca con tutta evidenza l’immagine della libertà che Kant ci ha restituito nella Fondazione della metafisica dei costumi: La ragione deve quindi supporre che non c’è una vera contraddizione tra libertà e necessità naturale delle azioni umane, perché la ragione è così poco in grado di rinunciare al concetto di natura come lo è di rinunciare a quello di libertà5.
Nella potenza concettuale della sua parola filosofica, Kant, filosofo della libertà, esibisce in termini sintetici la grande tensione alla base della riflessione moderna sul tema della libertà, cioè «la “missione impossibile” 3
M. Di Francesco, Liberi tutti, in AA.VV., A proposito di Libertà, Editrice San Raffaele, Milano 2009, p. 9. 4 Ibid. 5 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it., in Id., Scritti morali, vol. 2, a cura di P. Chiodi, utet, Torino 1979, p. 117.
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di conciliare il determinismo nel mondo naturale […] con l’esistenza della ragione e dell’azione di concepire noi stessi come liberi di perseguire i nostri fini, e di questi essere responsabili»6. La questione della libertà, tra l’altro, ripropone invariabilmente la vexata quaestio connessa al problema dell’autodeterminazione. Come osserva Salvatore Natoli: «“Non essere costretti da altro o da altri”: è questo il significato espresso dalla nozione di autodeterminazione; un diverso termine per dire libertà, giacché la persona libera è appunto quella che si determina da sé, non è determinata da altri»7. Infatti, qual è lo spazio del soggetto, se ci sono delle condizioni che ne predeterminano la libertà? L’esperienza soggettiva della libertà è complessa a tal punto che «il gioco della libertà diventa così il gioco della soggettività, il che significa che noi siamo tanto più liberi quanto più comprendiamo i nostri vincoli, e siamo tanto meno liberi quanto più crediamo di non essere vincolati»: «senza vincolo non c’è libertà, dunque la libertà non è assenza di vincoli», «giocare con il vincolo, questo è il cammino della libertà», proprio perché «non esiste una condizione di assoluta, incondizionata potenza», dal momento che «tutto ciò che esiste, esiste in relazione»8.
4.2. “L’usurpatore ubiquo” e il mondo rovesciato. Simmel e il denaro: libertà, conflitto e responsabilità Com’è noto, Simmel affronta nella “Parte Sintetica” della Filosofia del denaro la rilevanza del nesso tra denaro e libertà, sviluppando in particolare la tematica della libertà individuale nei capitoli IV e V. Qui di seguito farò riferimento ai principali transiti simmeliani9 che affrontano tale nesso e, in particolare, mi soffermerò anche sull’analisi del primo paragrafo del capitolo quarto10. Marcel Hénaff ha scritto – in Le prix de la vérité (2002)11 – che Simmel ha profondamente «stupito» la coscienza speculativa dei filosofi dopo Marx quando nel 1900 ha pubblicato la sua Filosofia del denaro, perché è riuscito 6
M. Di Francesco, Liberi tutti, cit., p. 12. S. Natoli, Autodeterminazione: vincoli e scelte, in AA.VV., A proposito di Libertà, cit., p. 217. 8 Cfr. ivi, pp. 232-235. 9 Al riguardo si vedano inoltre le indicazioni presenti in A. Vigorelli, Il denaro e l’etica dei moderni, cit., p. 122 sg. 10 Cfr. FD, 409-436. 11 Cfr. M. Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, tr. it. di R. Cincotta e M. Baccianini, revisione a cura di A. Olivieri, Città Aperta Edizioni, Troina 2006 (d’ora in poi PV ). 7
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ad esporre «con tono distaccato, la natura e la fecondità» del denaro (cfr. PV, 457). Soprattutto, egli ha voluto insistere sul ruolo del denaro come «strumento e dimensione» della libertà dell’uomo moderno. Sintetizzando l’impresa concettuale della filosofia del denaro di Simmel, Hénaff osserva che l’intera sua dimostrazione «è costruita a partire dall’esperienza individuale, anche se solo allo scopo di dimostrare che questa esperienza si stabilisce nelle condizioni sociali oggettive di cui lo sviluppo dell’economia mercantile è parte» (ibid.). L’originalità delle analisi contenute nella Filosofia del denaro travalica la tradizione filosofica. La lettura di quest’opera solleva immediatamente, tra l’altro, un interrogativo radicale: «come recuperare l’idea relativa a una libertà in cui il denaro è accreditato di un potere emancipatorio decisivo?» (ibid.). Non è facile districarsi nell’esposizione simmeliana. Tuttavia si possono, secondo Hénaff, individuare tre gruppi di questioni: «Il primo riguarda le qualità strumentali del denaro. Il secondo concerne la liberazione dai condizionamenti sociali personali. Il terzo, infine, ha affrontato le nuove possibilità dell’azione dell’individuo sollecitate dall’economia monetaria» (ibid.). Simmel sin dall’inizio inquadra la sua riflessione nel contesto di una società che «conosce» l’uso della «moneta» e che si sviluppa sulla base di una «produzione di scambi su scala nazionale». Simmel riconosce al denaro alcune «qualità tecniche» che specularmente riflettono altrettante «forme di plasticità illimitata». La prima qualità che attribuisce al denaro è la sua «divisibilità e la sua illimitata validità» (FD, 421), ovvero la capacità che il denaro ha di «rappresentare per mezzo di somme, dalle più grandi alle più piccole, tutte le sfumature del valore commerciale del prodotto scambiato» (PV, 458). In altri termini, è la divisibilità della moneta che pone capo alla «valutazione raffinata o specifica del prodotto scambiato». È qui che «la precisione della misura, vale a dire la stima monetaria, attinge a un livello critico che coniuga quantità e qualità»: in questo modo, il denaro permette «l’oggettività nello scambio» (ibid.). Come scrive Simmel: «Solo il denaro, poiché non è altro che la rappresentazione del valore di altri oggetti e poiché è quasi illimitatamente divisibile e sommabile, offre la possibilità tecnica di determinare in modo preciso l’uguaglianza dei valori di scambio» (FD, 421-422). La seconda qualità o caratteristica del denaro è la sua «illimitata utilizzabilità […] e desiderabilità» (ivi, 422) , il che significa, come commenta Hénaff, che «quando si riceve denaro per la cosa che si vende si può a propria volta acquistare, ma acquistare più tardi e non importa quale tipo di bene, secondo il bisogno, o il desiderio» (PV, 458). Il denaro, come scrive – nella sua interpretazione psicologico-ricostruttiva di Simmel – Serge Moscovici in La machine à faire des dieux. Sociologie et
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psychologie (1988), «evoca forti immagini di ricchezza e di cifre senza fine, ma l’infinità stessa che ne attenua il valore delle cifre ne rivela l’influsso potente che fa di noi cicale o formiche, suscita cupidigia e avarizia […]. Cifra del piacere e del godimento, fa balenare l’idea delle innumerevoli possibilità che il suo possesso comporta»12. Simmel contestualizza il rapporto tra interazione sociale e relazioni di scambio all’interno di una teoria (delle funzioni) del denaro che si fonda sul processo di oggettivazione. “Oggettivazione” nel valore come effetto di differenziazione, distanziamento e nello stesso tempo superamento della distanza, dal punto di vista del valore economico del denaro nello scambio, è per Simmel assegnazione agli oggetti di un “valore”, cioè passaggio da stati soggettivi immediati e indifferenziati alla costituzione di un mondo di significati13. Nella Filosofia del denaro Simmel scrive: Il denaro appartiene a questa categoria di funzioni sociali reificate. La funzione dello scambio, come interazione diretta tra individui, si cristallizza attraverso il denaro in una formazione a sé stante […]. Il denaro è la funzione personificata del venir scambiato. Il denaro è […] il semplice rapporto reificato delle cose tra loro, così come si esprime nel loro movimento economico. Esso sta al di là delle singole cose, con le quali entra in rapporto come un regno organizzato con norme proprie, che altro non è se non l’oggettivazione dei movimenti di equivalenza e di scambio che originariamente si manifestavano tra quelle singole cose (FD, 258-260)14.
Il movimento di oggettivazione si svolge nel tempo. Supponendo che si possa isolarlo, esso comporta almeno quattro momenti, «nel corso dei quali l’io si separa dalle cose»15. Riassumendoli (con Moscovici) abbiamo quanto segue. In primo luogo, «il desiderio, che provoca una tensione e turba il godimento immediato di un oggetto in cui dimentichiamo noi stessi […]. È evidente, infatti, che desideriamo soltanto ciò che comincia a rifiutarsi e che vietiamo di possedere, per una ragione qualunque. E il nostro desiderio si acuisce quanto più l’oggetto ci sopravanza o, al contrario, si sottrae e
12 S. Moscovici, La fabbrica degli dei. Saggio sulle passioni individuali e collettive, tr. it. di P. Lalli Cavina, il Mulino, Bologna 1991, pp. 367-368. 13 Cfr. L. Boella, Oltre il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 75. 14 Per Simmel, secondo la critica rivoltagli da Lukács in Storia e coscienza di classe, reificazione e oggettivazione sono sinonimi: «è il costituirsi dell’oggettività sociale nel mondo moderno, è il processo di razionalizzazione e di differenziazione funzionale che determina lo specifico posizionamento dell’oggetto rispetto al soggetto nella modernità» (L. Boella, Oltre il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 74). 15 S. Moscovici, La fabbrica degli dei, cit., p. 384.
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resta assente […]. Solo la distanza magnifica l’intensità del desiderio che proviamo per esso e ci incita a cercargli sostituti per differirne il soddisfacimento. Il desiderio del desiderio – il solo che conta – alimenta la paura di soddisfarlo […] ed allontana dal vero oggetto»16. Come scrive Simmel nella Filosofia del denaro: «Questa tensione, che separa l’unità ingenua, pratica di soggetto e oggetto producendo la consapevolezza di entrambi – l’uno in riferimento all’altro – si genera in primo luogo per il puro fatto del desiderio. Il contenuto di ciò che non abbiamo e non godiamo ancora si presenta a noi nell’atto del desiderio. Nella compiuta vita empirica abbiamo di fronte l’oggetto finito, che viene direttamente desiderato se non altro per il fatto che oltre alla volontà anche molti altri fattori, teorici e sentimentali, contribuiscono all’oggettivazione dei contenuti spirituali […]. L’oggetto, che si viene così a costituire, caratterizzato dalla distanza dal soggetto, che percepisce e tenta di vincere questa distanza, è per noi un valore. Lo stesso momento del godimento, in cui soggetto e oggetto annullano i loro contrasti, consuma per così dire il valore; esso si forma di nuovo soltanto nella separazione dal soggetto, come qualcosa che gli si contrappone come oggetto» (FD, 103). Dunque, «noi oggettiviamo ciò che si tiene a distanza dal nostro desiderio, il contrario di quello che ci è dato in piena realtà»17. Simmel lo ribadisce esplicitamente allorquando rileva che «non è quindi il fatto che le cose abbiano valore che rende difficile il loro ottenimento, ma siamo noi ad attribuire valore a quelle cose che oppongono resistenza al nostro desiderio di ottenerle. Nel momento in cui questo desiderio si rivolge ad esse o ne viene trattenuto, esse assurgono ad un’importanza tale che la volontà incondizionata non avrebbe mai osato riconoscere» (FD, 104). In secondo luogo, «la valutazione, che colloca gli oggetti su una scala di desiderabilità o di avversione […]. Valutare esprime una certa esperienza privilegiata che il nostro desiderio ha acquisito con un oggetto e risulta dal confronto con altri»18. Scrive Simmel: Ciò vale anche nel caso del valore economico che attribuiamo ad un oggetto di scambio, anche se magari nessuno è disposto a pagarne il prezzo corrispondente, anche se non viene richiesto e rimane invenduto. Anche in questa direzione si fa valere la fondamentale capacità dello spirito di mettersi contemporaneamente in contrapposizione ai contenuti che rappresenta in sé e di rappresentarli come se fossero indipendenti dal fatto di venir rappresen16
Ibid. Ivi, p. 385. 18 Ivi, p. 386. 17
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tati. Ogni valore, proprio perché lo proviamo, è una sensazione: ma proprio ciò che intendiamo con questa sensazione è un contenuto di per sé rilevante che si realizza a livello psicologico nella sensazione senza esserle identico o esaurirsi in essa (FD, 105).
In terzo luogo, «la domanda. In un certo senso, è una scelta tra più bisogni e desideri che si esprime in un momento dato. In un altro senso, è la relazione tra il valore dell’oggetto dal punto di vista del nostro desiderio e quella che risulta dalla sua valutazione, diventata una sua qualità […]. Importante per la società, la domanda lo è altrettanto per l’individuo. Essa deve diventare una parte della nostra coscienza, per potersi esprimere in quanto esigenza nei confronti del reale»19. Detto altrimenti da Simmel: Il valore di una qualsiasi cosa, di una persona, di un rapporto, di un accadimento richiede di essere riconosciuto. Questa richiesta si ritrova evidentemente come accadimento soltanto in noi, i soggetti; cercando di soddisfarla ci accorgiamo di non rispondere semplicemente ad una richiesta fatta da noi a noi stessi, così come non seguiamo evidentemente una determinatezza dell’oggetto […]. Ho detto, che il valore delle cose appartiene a quelle formazioni di contenuti che noi, nel momento in cui ce le rappresentiamo, avvertiamo nello stesso tempo come indipendenti dal fatto di venir rappresentate, come qualcosa di staccato dalla funzione che le fa vivere in noi; questa “rappresentazione” è, nel caso in cui un valore costituisca il suo contenuto, a ben vedere, soltanto una sensazione di pretesa, tale “funzione” è una richiesta che non esiste come tale al di fuori di noi, ma che in base al suo contenuto deriva pur sempre da un regno ideale, che non si trova in noi e che non è neppure connesso agli oggetti della valutazione come se fosse una loro qualità; esso consiste essenzialmente nel significato che tali oggetti hanno per noi in quanto soggetti in virtù della posizione che occupano negli ordinamenti di tale regno ideale […]. Così come non si può definire soggettivo il godimento nel momento della integrale fusione della funzione con il suo contenuto, perché nessun oggetto si contrappone in modo da giustificare il concetto di soggetto, così anche questo valore di per sé esistente e valido non è nulla di oggettivo, perché viene ritenuto indipendente proprio dal soggetto che lo pensa, all’interno del quale si presenta sotto forma di richiesta di venir riconosciuto, anche se non perde nulla della sua essenza per il fatto che questa esigenza non viene soddisfatta (FD, 106-107).
Il desiderio, in quanto stato d’incertezza che cerchiamo costantemente di superare fa esclamare a Simmel: «il valore è il correlato del desiderio – il mondo del valore è il mio desiderio, così come il mondo dell’essere 19
Ivi, pp. 387-388.
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la mia rappresentazione» (ivi, 107). Quest’esclamazione ha però un altro senso. Essa «si oppone al Capitale di Marx secondo il quale “il mondo del lavoro è la mia offerta” in beni o in forza lavoro»20. Per Simmel, invece, come sappiamo, l’economia nel suo insieme è vista dal lato del soggetto, con l’accento sul consumo21. In quarto luogo, «lo scambio, attraverso il quale gli oggetti che io chiedo appaiono ugualmente richiesti da altri soggetti. Volenti o nolenti, ci se ne distacca ed essi sono distanziati da ciascuno di noi per il fatto stesso di esistere per gli altri e di essere così messi in circolazione»22. Si deve offrire un valore per ottenere un altro valore, questo processo «è la conseguenza e l’espressione più decisiva del distanziamento degli oggetti dal soggetto. Questi sono per lui, per così dire, desiderio e godimento, ma non ancora oggetto di entrambi, fino a quando le cose sono direttamente vicine al soggetto, e la differenziazione dei desideri, la rarità, le difficoltà, e gli ostacoli alla acquisizione non le allontanano da esso» (FD, 120). Nel movimento oggettivazione-scambio-valore, secondo Simmel, quindi, «la forma, che il valore assume nello scambio, pone il valore in quella categoria che si colloca al di là di soggettività e oggettività intese in senso stretto; e nello scambio il valore assume un connotato sovra-soggettivo e sovra-individuale, senza diventare peraltro una qualità e realtà oggettiva delle cose. Il valore appare come la richiesta da parte dell’oggetto, che trascende l’immanente oggettività della cosa stessa, di essere ceduto soltanto dietro un controvalore, corrispondente e acquisito soltanto mediante tale contro-valore» (ibid.). Per Simmel, denaro (Geld) «è “ciò che vale” (das “Geltende”) per eccellenza, e “valere” (Gelten) economicamente significa valere qualcosa, cioè poter essere scambiato contro qualcosa. Tutte le altre cose hanno un determinato contenuto, e perciò valgono; il denaro, al contrario, trova il proprio contenuto nel fatto di valere, esso è il valere fissato in sostanza, il valere delle cose senza le cose stesse» (ivi, 181-182)23. Generatosi come «strumento»24 di misura e
20
Ivi, p. 389. Cfr. I. Valent, Il denaro o le aporie dell’irrazionale. Un’introduzione alla “Filosofia del denaro” di Georg Simmel, in M. Ruggenini (a cura di), La tecnica e il destino della ragione, Marsilio, Venezia 1979, pp. 183-185; M. Vozza, Simmel e la trasparenza delle forme, in Id., Il sapere della superficie. Da Nietzsche a Simmel, Liguori, Napoli 1988, pp. 81-83; A. Appadurai, Le merci e la politica del valore, in E. Mora (a cura di), Gli attrezzi per vivere. Forme della produzione culturale tra industria e vita quotidiana, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 3 sg. 22 S. Moscovici, La fabbrica degli dei, cit., p. 389. 23 In questo caso la tr. it. è stata parzialmente modificata, cfr. F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 101. 24 Cfr. G. Poggi, Denaro e modernità, cit., pp. 143-161. 21
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di scambio, il denaro si è progressivamente trasformato nell’«essenza del valore», in quanto esprime «la relatività del valore delle cose» nella forma di «una misura fissa e costante, la quale diviene col tempo la misura delle cose stesse»25. In questa sua strategica dimensione funzionale e simbolica, il denaro assume «un significato filosofico» di particolare importanza per l’analisi della modernità26, «in cui esso regna sovrano come misura di tutti i rapporti, abbiano essi o meno carattere personale»27. Questo «significato filosofico del denaro» (FD, 192) – inteso come «realizzazione della forma generale dell’esistenza in base alla quale le cose trovano il loro significato nel rapporto di reciprocità» (ibid.) – consiste nel fatto che all’interno del mondo pratico esso costituisce l’immagine più chiara e la realizzazione più definita della formula dell’essere in generale, in base alla quale le cose trovano il loro senso l’una rispetto all’altra e la reciprocità dei rapporti, in cui sono sospese, determina il loro essere e essere così […]. Il denaro risulta così essere l’espressione adeguata del rapporto dell’uomo col mondo, poiché, se da un lato l’uomo può cogliere il mondo sempre e soltanto nel concreto e nell’individuale, nel denaro egli può coglierlo veramente, nel senso che il denaro diventa l’incorporazione del processo vitale e spirituale che tesse tra di loro tutte le particolarità creando così la realtà (ivi, 192-194).
Il denaro è per Simmel simbolo della «relatività di tutte le cose»: per suo tramite ciascuna cosa viene determinata nel prezzo in funzione delle altre. In altri termini, «di tanto l’economia si sviluppa, di altrettanto i beni si fanno merce e sempre più a decidere del loro valore è un rapporto di interazione nell’oggettività del calcolo. Nel corso del tempo il denaro, da bene, sempre più si fa merce di scambio, in un processo di astrazione che sembrerebbe avere il suo punto di arrivo nella cartamoneta»28. Tuttavia le cose non stanno unicamente così, in quanto «la tendenza allo svuotamento di determinazioni sostanziali resta, ma non raggiunge un punto finale di compimento»29. Nello specifico, «si dà qui una situazione generale dello spirito, che nel suo processo di sviluppo – intellettualizzandosi e risolvendosi in relazioni funzionali – tende a farsi oggettivo, senza diventarlo mai del tutto. Così il denaro mantiene un quid di sostanziale che, sempre spinto in-
25
F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 101. Sul rapporto tra denaro e modernità, cfr. A. Cavalli e L. Perucchi, Introduzione, in G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., pp. 14-15. 27 F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 101. 28 V. d’Anna, Il denaro e il Terzo regno, cit., p. 60. 29 Ibid. 26
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dietro, non può venire mai eliminato»30. Questo tipo di processo può essere descritto dicendo, come si legge nella Filosofia del denaro, che «il rapporto tra il valore sostanziale del denaro e la sua natura puramente funzionale e simbolica si sviluppa in modo analogo: la seconda sostituisce sempre più il primo, ma una certa quantità del primo deve sopravvivere, altrimenti anche il carattere funzionale e simbolico del denaro perderebbe il suo sostegno e il suo significato specifico nel momento in cui questo processo fosse portato alle ultime conseguenze» (FD, 247). Ad un livello critico-ermeneutico, si può dunque osservare quanto segue: «Per non vedere compiuto il processo di formalizzazione nei rapporti economici, Simmel parrebbe volersi esimere dal trarre la conclusione, in un certo senso obbligata, di tutto un processo di sviluppo. Eppure questa apparente incongruenza si giustifica con l’idea che la cartamoneta, espressione di un movimento evolutivo complessivo a partire dal fatto dello scambio, ha alle sue radici il nesso soggetto-oggetto: si tiene cioè sulla premessa di un’attività di acquisizione delle cose al prezzo di sacrifici. La pregiudiziale psicologistica comporta il riconoscimento dell’esserci qualcosa di materiale, che può essere fatto arretrare ma non può venire eliminato. Come conseguenza allora il processo di sviluppo non raggiunge il punto di compimento. Se il denaro perdesse ogni margine di sostanzialità, le cose gli si risolverebbero dentro, e non sarebbero più cose ma merci. Allora, tolto ogni residuo materiale, avremmo a che fare con una logica tutta ideale; il nesso soggetto-oggetto, destituito di ogni connotato psicologico, sarebbe ricondotto all’unità del sistema: così il dualismo si convertirebbe nel monismo. Ma nella Filosofia del denaro le cose non stanno in questi termini: il dualismo resta, per cui il processo di astrazione è sempre sulla strada di giungere a realizzazione, senza mai giungervi»31. Il denaro, secondo Simmel, è simbolo di una fondamentale e complessa “tensione” che pervade la cultura e nella modernità giunge quasi a compimento: «Espressione insieme di rapporti oggettivi di scambio e di valutazioni soggettive, affonda esso le sue radici nelle modalità ultime con cui entriamo in relazione con le cose, con gli altri e in ultima istanza pure con noi stessi. Tutta la cultura sembra sottoposta ad un’unica logica di sviluppo, per cui di tanto si fa strada la generalità della legge, di altrettanto l’individuo le si sottrae e si fa signore in un proprio regno. Il risultato però di questo processo di liberazione da parte nostra dalle cose, è il venir meno della corrispondenza di noi con le cose, fino al punto in cui queste ci si contrappongono, anzi ci si impongono, in una volontà di dominio indipendente. Il movimento 30 31
Ibid. Ivi, pp. 60-61.
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così lineare e privo di controtendenze, qual è quello dell’autonomizzazione dell’io, alla fine si rovescia nel suo opposto: la soggezione dell’io»32. È un fatto. «Se una libertà senza vincoli si rivela un’illibertà, così una soggettività che non si trasponga in contenuti oggettivi resta vuota e alla fine viene meno. E nel mondo moderno tutta la potenza spetta alle cose, mentre sul versante opposto abbiamo solo una possibilità in negativo, come intenzione di sfuggire al loro dominio, mancando noi della capacità in positivo di dominarle. Ciò che si sottrae a ogni determinazione, ma non è in grado di determinare, è un indeterminato, una soggettività in ultima istanza vuota. Si tratta qui del fatto che il peso sta tutto nell’oggettività e il soggetto non è più un contrappeso. I prodotti allora, sempre meno relativamente e sempre più assolutamente autonomi, si pongono di fronte alle operazioni della coscienza che li hanno resi possibili e tendono a farle del tutto irrilevanti. La libertà così si traduce nella perdita di consistenza dell’io, in una situazione paradossale, per cui l’affermazione del valore della personalità significa nello stesso tempo sradicamento dei valori personali»33. Lo stesso Simmel esprime molto bene e con «una forte valenza critica»34 questo stato di cose nella dialettica di libertà/illibertà quando, nel precisare il significato negativo della libertà e il relativo sradicamento della personalità, scrive che: Se l’uomo moderno è libero – libero sia perché può vendere tutto, sia perché può comperare tutto – allora egli cerca negli oggetti, spesso con impulsi velleitari, proprio quella forza, quella solidità, quell’unità spirituale che egli stesso ha perduto nel rapporto con essi per opera del denaro. Anche se vediamo che l’uomo si libera col denaro dalla condizione di prigioniero delle cose, d’altra parte il contenuto dell’Io, il suo orientamento e la sua determinatezza, sono a tal punto solidali con le cose concrete possedute che il continuo venderle e scambiarle, anzi, il mero fatto della possibilità di venderle, significa molto spesso la vendita e lo sradicamento dei valori personali (FD, 575).
È, dunque, quello della libertà esistenziale dell’individuo un problema centrale per la comprensione in (e per) Simmel del significato filosofico e sociologico della condizione moderna, un problema che è intrinsecamente collegato all’universalità del denaro. Ai fini della nostra ricostruzione argomentativa, esso, nella sua essenzialità di contenuto, può essere delineato sinteticamente nel modo seguente.
32
Ivi, p. 62. Ivi, p. 63. 34 G. Poggi, Denaro e modernità, cit., p. 187. 33
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Il rapporto complesso fra denaro e libertà viene interpretato da Simmel secondo la tipica forma dialettica ambivalente del suo pensiero, che non pronuncia mai un giudizio definitivo di condanna o assoluzione, né si concede soluzioni dogmatiche, ma mostra come ogni effetto di lungo corso prodotto dal denaro sull’economia e sulla cultura possa facilmente rovesciarsi nell’effetto diametralmente opposto. L’indeterminatezza che si viene scoprendo nel denaro fa sì che esso si mantenga in una posizione di equidistanza da tutti i fenomeni della vita. Emerge in questo modo che il denaro non ha rappresentato storicamente soltanto un’autorità tirannica che ha incatenato l’individuo all’interno di una divisione del lavoro accelerata e alienante, ma ha consentito parallelamente la costruzione di uno schermo protettivo della libertà personale. Il denaro è intervenuto a spezzare i millenari legami di dipendenza permanente, integrale, fisica che sottomettevano il contadino al proprietario terriero o l’artigiano alla corporazione. Con l’economia del denaro cessa l’oppressione di un vincolo irrevocabile, vitalizio, che assoggettava completamente il servo al signore, a favore di una prestazione oggettiva, valutata in termini monetari. L’individuo esce dal cerchio ristretto della sottomissione personale per entrare nel cerchio allargato delle dipendenze impersonali retribuite. Il rapporto di obbligazione assoluta che dominava ogni istante della vita dell’uomo, ogni tratto della sua personalità, si trasforma in lavoro salariato, ma, contemporaneamente, viene meno ogni responsabilità dell’imprenditore verso il lavoratore, scompare ogni positiva coloritura personale del rapporto. La tendenza generale dell’economia monetaria mira a far dipendere il soggetto dalle prestazioni di un numero sempre crescente di persone, e, nello stesso tempo, a renderlo sempre più indipendente dalle personalità che si celano dietro tali prestazioni tecniche. Il rapporto del singolo con gli altri uomini finisce con il ripetere esattamente il rapporto indifferente dell’uomo con le cose mediato dal denaro. Il denaro non soltanto modifica le relazioni di dipendenza diretta tra i singoli ma trasforma radicalmente anche i fondamenti delle associazioni più ampie, spingendo l’uomo a ripensare le condizioni della sua appartenenza alla collettività. Soltanto la traduzione dei valori in forma monetaria consente quei legami di interessi che prescindono dalla distanza spaziale degli individui, dagli orientamenti ideologici, dalle fratture religiose […]. Le qualità personali dei rapporti non interessano al denaro; esso non chiede referenze né formula giudizi etici, ma si limita a porsi nei centri nevralgici di un reticolo di relazioni momentanee, sempre più numerose, ampie, differenziate. Non viene richiesta all’uomo moderno nessuna fedeltà personale a questi rapporti, il denaro gli consente di disimpegnarsi da essi e di coltivare al di fuori della loro cerchia le preferenze e le disposizioni che può considerare autenticamente proprie, di mantenere il riserbo sui propri desideri e i propri progetti. I diversi interessi e le diverse sfere di attività possono in questo modo conservare la loro autonomia relativa rispetto ai contenuti economici dell’esistenza […]. Il coinvolgimento espresso in denaro ha il privilegio di una “responsabilità limitata” liberamente collocabile, tanto che anche soltanto una “frazione” della personalità, per il resto del tutto indipendente, può essere investita in un legame associativo che trova
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nello scambio in denaro la propria completa soddisfazione. La separazione che il denaro introduce tra la pura prestazione economica e l’insieme della vita si traduce in un processo accelerato di differenziazione e atomizzazione delle prestazioni, scambiate nella forma concentrata e potenziale della moneta […]. Il denaro socializza gli uomini come stranieri, in quanto crea continuamente nuovi rapporti, ma in realtà lascia sempre gli uomini “al di fuori” di essi35.
Nella modernità, il denaro non è soltanto un simbolo generale dell’intellettualizzazione del mondo, qualcosa a cui il soggetto comunque deve conformarsi, ma anche un simbolo che in qualche modo è divenuto indipendente ed ostile di fronte all’individuo36. Per Simmel, «una “cosa” esiste che è solo simbolo del valore delle cose, della loro reciprocità: questa “cosa” è il denaro, pura relazione, “metafora” della totalità»37. Nel Diario postumo Simmel sintetizza emblematicamente tutta la forza “autonoma” del denaro: Il denaro è l’unico prodotto culturale che è pura forza, che ha rimosso da sé il portatore, divenendo assolutamente e soltanto simbolo. Fino a qui esso è il più caratterizzante tra tutti i fenomeni del nostro tempo, nel quale la dinamica ha conquistato la guida di ogni teoria e di ogni prassi. Che sia pura relazione (e in questo modo altrettanto storicamente caratteristico), senza includervi alcun contenuto, non è contraddittorio. La forza in realtà non è che relazione38.
Il denaro è ciò che paradigmaticamente incarna «lo spostamento nella relazione soggetto-oggetto che consegue all’aprirsi di una frattura tra di essi nell’epoca moderna e al costituirsi di una dimensione intermedia di oggettività, non più sostanziale ma funzionale, in quanto legata alla relazione reciproca di un soggetto e di un oggetto separati»39. Il denaro rappresenta un “filtro selettivo” per la coscienza soggettiva che continuamente si trova a vivere le proprie vicissitudini quotidiane nella grande metropoli, «incalzata dalla pressione ravvicinata di oggetti, persone ed eventi, travolta da un vortice di impressioni che il soggetto tenta di ordinare e controllare»40. Sulla scena metropolitana, il denaro «funziona da cortina isolante, protegge l’interiorità 35
F. Comoglio (a cura di), Le filosofie del denaro, Paravia, Torino 2000, pp. 19-21. Cfr. A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 114. 37 L. Boella, Oltre il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 71. Sul valore posizionale della metafora del denaro nella Philosophie des Geldes di Simmel, cfr. H. Blumenberg, Denaro o vita. Uno studio metaforologico sulla consistenza della filosofia di Georg Simmel, in AA.VV., Le forme del tempo, cit., pp. 21-34. 38 G. Simmel, Saggi di estetica, tr. it. di M. Cacciari e L. Perucchi, intr. di M. Cacciari, Liviana, Padova 1970, p. 39. 39 L. Boella, Oltre il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 71. 40 A. Comoglio (a cura di), Le filosofie del denaro, cit., p. 21. 36
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dalle intrusioni esterne, ma pone contemporaneamente il problema della collocazione di questa soggettività all’interno di una modernità irrimediabilmente disgregata, frantumata in una miriade di fugaci relazioni monetarie. La libertà conquistata e difesa soltanto con il denaro è una libertà puramente formale, potenziale, negativa, che non offre all’uomo nessun progetto per riempire quel vuoto spazio sconfinato di inquietudine e incertezza che essa dischiude. La liberazione dalla prigionia di rapporti personali per sempre determinati paga spesso il prezzo di un annientamento del nucleo della vita, poiché la libertà desolata di un soggetto disorientato si scontra con altre solitudini irrisolte, sciolte da quell’intreccio di responsabilità sentimentali e affettive che prima poteva dare un senso e un orizzonte sicuro a questa stessa libertà»41. Come è noto, Simmel, nella Filosofia del denaro, muove inizialmente da una rappresentazione-definizione in negativo del significato di libertà, intendendo quest’ultima soprattutto come un «processo di liberazione» (FD, 409) da vincoli ed obblighi precedenti; più in un significato graduale e relativo che in termini assoluti. Come osserva Vigorelli: «Tale definizione si colloca nel solco della trattazione morale di Kant, da cui è ripresa la tendenza a definire la libertà in rapporto alla “obbligazione” giuridica. Tra legalità e moralità vi è infatti una distinzione qualitativa, giacché la prima concerne solo la conformità esterna delle azioni alla legge, mentre la seconda suppone una conformità interna (morale non è l’azione semplicemente conforme al dovere, ma quella che accade per dovere); ma ciò che non muta (nel passaggio dal diritto alla morale) è la forma legale che la libertà tende comunque a rivestire»42. L’interprete simmeliano cita al riguardo quel passo della Metafisica dei costumi in cui Kant si chiede appunto «perché la dottrina dei costumi (la morale) è chiamata abitualmente la dottrina dei doveri, e non anche dei diritti, tenuto conto che in verità gli uni si riferiscono agli altri? Il motivo è questo: noi conosciamo la nostra propria libertà […] soltanto per mezzo dell’imperativo morale, il quale è un principio che prescrive doveri e da cui si può derivare in seguito la facoltà di obbligare gli altri, cioè il concetto del diritto»43. In termini kantiani, «libera, nel significato morale, è quella volontà che si subordina in modo consapevole alla legge razionale universale; così come, in campo giuridico, quella che accetta di muoversi nei limiti imposti dalle reciproche obbligazioni»44. L’unico diritto innato che Kant è disposto 41
Ivi, pp. 21-22. A. Vigorelli, Il denaro e l’etica dei moderni, cit., pp. 122-123. 43 I. Kant, La metafisica dei costumi, tr. it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 47. 44 A. Vigorelli, Il denaro e l’etica dei moderni, cit., p. 123.
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ad ammettere è appunto quello alla «libertà (indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui), in quanto essa può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale»45. Simmel, come sappiamo, soprattutto nelle sue lezioni berlinesi su Kant, sottolinea a più riprese «il nesso storicamente condizionante di questo concetto di libertà, intesa negativamente come indipendenza e positivamente come autonomia, e la Rivoluzione francese»46, mentre nella Filosofia del denaro analizza il rapporto della libertà con quella che si potrebbe definire la “libertà dei moderni” e l’economia monetaria. Egli, infatti, scrive all’inizio del paragrafo primo del capitolo IV: «Si può rappresentare lo sviluppo di ogni destino umano partendo dal punto di vista che consista in un avvicendarsi ininterrotto di vincoli e di liberazione da essi, di obblighi e di libertà» (FD, 409). La libertà assoluta, intesa come forma di spontaneità che non riconosce al di sopra di sé alcuna norma obiettiva cui adeguarsi, «è un mito, la cui attuazione pratica sul piano sociale conduce al terrore (così Hegel ha magistralmente tratteggiato tale dialettica, tipicamente moderna, nella Fenomenologia dello spirito)»47: dunque, il problema storico dell’etica kantiana è quello di «conciliare libertà e legge, autonomia della volontà e obbligazione»48. Per ciò che concerne il campo specificamente morale, Simmel osserva che la filosofia morale «identifica ovunque la libertà morale con quegli obblighi che ci vengono imposti da un imperativo ideale o sociale o dal nostro Io» (FD, 410); diversamente ci si troverebbe nell’eteronomia dell’agire, «che assumerebbe fuori di sé, da un ambito empirico, la propria norma»49. Per ciò che invece concerne il campo pratico, e nello specifico, quello giuridico, Simmel rileva che «ad ogni obbligo […] corrisponde il diritto di esigerne l’adempimento da parte di un’altra persona» (FD, 410), cioè la libertà si presenta sempre come il risvolto negativo, il cui corrispettivo positivo è una “prestazione” socialmente riconosciuta. Quello […] che noi sentiamo come libertà, in effetti è spesso soltanto un cambiamento degli obblighi. Quando ad un peso che abbiamo sostenuto ne subentra uno nuovo, noi sentiamo prima di tutto il venir meno di quello vecchio. Nel liberarcene ci sembra in un primo momento di essere assolutamente liberi, finché il nuovo obbligo, che inizialmente affrontiamo, per così dire, con muscoli freschi e quindi particolarmente forti, fa sentire il suo peso
45
I. Kant, La metafisica dei costumi, cit., p. 44. A. Vigorelli, Il denaro e l’etica dei moderni, cit., p. 123. 47 Ibid. 48 Ibid. 49 Ivi, p. 124.
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affaticandoci gradualmente, e il processo di liberazione si collega al nuovo obbligo nella stessa misura in cui prima era sfociato in esso (ivi, 409).
Il problema della libertà, secondo Simmel, non può essere affrontato ed impostato in termini astratti, in quanto esso coincide con la rilevazione di scala «dei gradi di libertà che coesistono con la prestazione» (ivi, 410), cioè con l’obbligazione giuridica. È vero che in complesso, dice Simmel, «tutti gli obblighi vengono assolti mediante l’azione personale del soggetto» (ibid.); tuttavia c’è una grande differenza (che registra la “scala” di decrescente dipendenza personale e, quindi, di libertà ampliata) tra 1°) «il caso in cui il diritto di chi impone l’obbligo si estende immediatamente alla personalità che compie la prestazione» (ibid.); 2°) quello «in cui si riferisce soltanto al prodotto del suo lavoro» (ibid.); 3°) quello, infine, in cui questo diritto «riguarda soltanto il prodotto in sé e per sé, senza che ci si chieda attraverso quale lavoro il prodotto sia stato ottenuto» (ibid.). Storicamente, ai primi due stadi corrispondono l’esempio della schiavitù antica e dei servi della gleba nel Medioevo, mentre al terzo stadio, nel quale la personalità è effettivamente separata dal prodotto, senza che su di essa venga fatto valere alcun diritto, e che viene raggiunto con il riscatto del tributo in natura mediante il tributo in denaro, corrispondono le condizioni sociali tipiche dell’economia monetaria moderna. Tutto ciò che significato assume nei confronti del legame parziale tra denaro e affermazione della libertà individuale? Storicamente, come spiega Simmel, il sorgere dell’economia monetaria «ha accompagnato o reso possibile una rottura con le dipendenze sociali specificamente personali; esso ha assicurato una autonomia prima sconosciuta, in relazione ai luoghi e alle cose stesse» (PV, 459). Hénaff si chiede: «quali sono queste dipendenze?». In estrema sintesi Simmel (cfr. FD, 410 sg.) individua storicamente tre livelli di dipendenza: quelli che si possono definire «pesanti e intollerabili (schiavitù, servitù) e quello più comune e accettato (lavoro salariato)» (PV, 459). Il ragionamento di Simmel a questo punto si fa più stringente. Vigorelli lo sintetizza analiticamente e criticamente nel modo seguente: La situazione che meno si concilia con la libertà è appunto quella in cui l’obbligazione investe direttamente la persona. Non a caso Kant poneva qui – nella distinzione tra valore delle persone e delle cose, come in quella tra fini e semplici mezzi – la soglia differenziale della libertà morale. Anche Simmel rileva come, nella società moderna, quei ruoli che comportano una forte dose di dipendenza personale nell’assolvimento della prestazione lavorativa (come nel caso degli impiegati o dei domestici) siano avvertiti come difficil-
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mente compatibili con la libertà e vengano accettati soltanto in presenza di una netta «limitazione temporale» e della «possibilità di scegliere» le persone verso le quali ci si intende obbligare (cfr. FD, 410). Viceversa, la condizione dei lavoratori salariati, degli operai dell’industria (che a Marx appariva come l’incarnazione stessa della alienazione umana), è maggiormente compatibile con la libertà consentita dal denaro, e figura come un «momento di passaggio verso la loro liberazione» (ivi, 432). Simmel non nega che, dal punto di vista delle condizioni materiali del lavoro, in rapporto cioè alla «durezza» e al «grado di costrizione» in cui esso si svolge, «gli operai salariati sembrano soltanto degli schiavi travestiti» (ibid.). Ma dal punto di vista formale, ossia in vista del nesso sociale complessivo attuato dal denaro, oltre che da un punto di vista soggettivo, il loro rapporto «con il singolo imprenditore è incomparabilmente meno rigido che nelle precedenti forme di lavoro» (ibid.). Anch’egli, come il servo della gleba, «è incatenato al lavoro», ma la «frequente possibilità di scegliere e di cambiare» lavoro salariato gli assegna «una libertà del tutto nuova all’interno dei suoi vincoli» (ibid.). Certamente anche questa libertà (come ogni altra) ha un prezzo: «il prezzo della liberazione dell’operaio è quello della liberazione del datore di lavoro» (ibid.), il quale non si sente più obbligato da rapporti paternalistici (come quelli che finivano per instaurarsi tra signore e servo) a garantire la diretta sussistenza personale del lavoratore. Il prezzo di questa libertà è dunque «l’insicurezza» (ivi, 433), la lotta economica e l’incessante preoccupazione per il domani, ma è un prezzo che ai moderni appare infinitamente più lieve delle antiche e odiose forme di dipendenza personale50.
Dopo aver definito l’uomo come l’animale «che pratica lo scambio», dopo aver analizzato la distinzione tra progresso sostanziale e progresso funzionale entrambi collegati alle funzioni espletate all’interno dell’economia monetaria dominata dallo scambio economico e della massimizzazione dei valori mediante lo scambio di proprietà, e dopo aver considerato il significato dell’economia monetaria per la libertà individuale se indagato dal punto di vista delle forme di dipendenza che continuano a esistere in essa, Simmel proseguendo la sua analisi sul rapporto tra denaro e libertà (in una accezione esplicitamente “individualistica” del termine), ci offre nella Filosofia del denaro alcune tra le pagine senz’altro più problematicamente «suggestive e stimolanti»51 che la filosofia sociale moderna abbia saputo scrivere «dopo Rousseau e Marx (e prima di Max Weber)»52. Per esemplificare, possiamo ricordare che egli «approfondisce il significato di nozioni classiche, quali “individuo” e “persona”, “solitudine” e “comunità”, “dipendenza” e “libertà”, illumi50
Ivi, p. 125. Ivi, p. 129. 52 Ibid. 51
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nandone sfaccettature prima ignorate (o non sufficientemente considerate) o rivelandone prospettive e potenzialità impreviste, mediante il semplice raffronto con la natura del denaro»53. Simmel ribadisce che, soprattutto nella modernità, l’economia monetaria «rende possibile una forma di liberazione, ma anche un tipo particolare di dipendenza reciproca che contemporaneamente garantisce un massimo di libertà» (FD, 425). Egli precisa altresì che «come sul terreno giuridico-morale libertà non è necessariamente in contrasto con obbligazione, così sul terreno sociale dipendenza non esclude libertà. La escluderebbe un tipo di dipendenza che violasse la “personalità” individuale; la consente, o la favorisce, quella specifica dipendenza (prevista e incarnata dal denaro) che vincola l’individualità al semplice assolvimento di una “funzione” sociale impersonale»54. Nello scenario degli “effetti perversi” indotti dall’economia monetaria, Simmel ha saputo cogliere l’impressionante, drammatico ed alienante processo di spersonalizzazione che nella moderna divisione del lavoro, nell’assolvimento delle rispettive funzioni sociali, «privilegia una sola dimensione cancellando tutte le altre che soltanto insieme formerebbero una personalità» (FD, 427): dunque, la personalità soggetta a questo condizionamento «viene quasi completamente dissolta nell’ambito dell’economia monetaria» (ibid.). Simmel analizza problematicamente e denuncia criticamente quella tendenza generale che mira indubbiamente «a far dipendere il soggetto dalle prestazioni di un numero sempre crescente di persone, e, nello stesso tempo, a renderlo sempre più indipendente dalle personalità che si nascondono dietro tali prestazioni» (ibid.). Con una nuance espressiva che riecheggia analogicamente la figura marxiana del «capitalista» che appare nel Capitale nelle vesti anonime di semplice «funzionario» del capitale55, Simmel osserva che «il fornitore, il finanziatore, l’operaio, dai quali ognuno di noi dipende, non agiscono come personalità, poiché entrano in rapporto con noi solo in quanto forniscono merci, prestano denaro, compiono un lavoro» (FD, 427). Da acuto analista critico, filosofo e sociologo della modernità, Simmel comprende che contro ogni ratio dispotica e burocratica, nell’economia monetaria, «se la libertà individuale si lega alla possibilità concreta di svincolare la personalità singola dalla funzione sociale da essa oggettivamente assunta, la pretesa regolatrice dello stato, che tende a “trasformare ogni agire socialmente rilevante in una funzione oggettiva”, minaccerebbe viceversa di assorbire l’individuo nel ruolo sociale, distruggendone la residua autono53
Ibid. Ibid. 55 Cfr. ivi, p. 130. 54
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mia»56: la libertà dei moderni paga un caro prezzo nel vedere progressivamente aumentata la dipendenza dell’individuo dalle forze oggettive che ne mediano anche la prassi economica, negandone o limitandone la «libertà individuale». Quest’ultima, tuttavia, secondo l’autore della Filosofia del denaro, «non è la pura determinazione interna di un soggetto isolato, ma un fenomeno di relazione, che perde il proprio senso quando non c’è una controparte. Se ogni rapporto tra uomini si basa su elementi di vicinanza e su elementi di distanza, vi è indipendenza quando questi ultimi raggiungono il massimo» (FD, 430). Simmel, nella Filosofia del denaro, comprende criticamente che nella modernità il denaro non è soltanto l’espressione e il simbolo di un fenomeno puramente economico, ma riveste anche un significato culturale, di tipo psicologico ed etico-storico: nella sua filosofia del denaro «s’intrecciano e si relazionano fenomeni quantitativi e qualitativi, fenomeni esterni e le potenze più ideali dell’esistenza»57. Egli vuole cercare di comprendere la connessione dinamica tra l’aspetto “esterno” e quello “interno” o ideale dei fenomeni, fra la “vita individuale” e la “vita storico-sociale” attraverso la mediazione delle forme della cultura, di conseguenza anche la stessa «insufficienza» dei principi e dei criteri morali – già a suo tempo denunciata nella Einleitung in die Moralwissenschaft – «non si fonda più sul loro carattere d’astrazioni incapaci di tornare alla realtà, da cui pure hanno preso le mosse, ma tende a configurarsi come il risultato di un contrasto interiore, funzionale, del dovere: un contrasto che si esaurisce interamente sul piano del dovere e non ha nulla a che fare col piano della realtà»58. La tensione fra reale ed ideale è trasferita ora all’interno del dover essere, cioè della sfera tipica dell’etico, «tra la forma dell’agire come tale e gli infiniti contenuti in cui essa s’accompagna ed in cui si realizza»59. L’immagine simmeliana dell’individualità moderna60 ci dice che per quest’ultima l’unità interiore cui 56
Ibid. G. Guarnieri, La crisi del monismo..., cit., p. 160. 58 G. Calabrò, La legge individuale, cit., p. 139. 59 Ibid. 60 È anche attraverso la rilettura critica di Kant e Nietzsche che Simmel acquisisce una nuova sensibilità nei confronti del problema dell’individualità. Nella 16ª e conclusiva lezione su Kant (cfr. G. Simmel, Kant. Sedici lezioni berlinesi, cit., pp. 261-271), che contiene fra l’altro la valutazione ideologica simmeliana della filosofia kantiana e discute in particolare il concetto di individualismo moderno, Simmel riconferma proprio all’inizio che «i principali problemi della vita moderna si muovono essenzialmente attorno al concetto di individualità» (ivi, p. 261) e ribadisce ulteriormente che uno dei tentativi di soluzione più esaurienti di questo problema «culmina in Kant»: «tutto il suo pensiero è sorretto infatti dal concetto di individualità del suo secolo, e la dimostrazione di ciò finirà col farci riconoscere nella forma complessiva in 57
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L’INQuIETO
VINCOLO DELL’uMANO
l’individuo aspira può essere ottenuta attraverso le molteplici contraddizioni che lo attraversano pervasivamente ed attraverso il conflitto61 con la realtà culturale e sociale in cui egli vive. Questo conflitto, come sappiamo, è anche un «conflitto di doveri». In effetti, l’individuo simmeliano che vive e abita la modernità può appartenere contemporaneamente a più cerchie sociali, ma il fatto che «ciascuna di tali cerchie possieda proprie norme, comporta che tali prescrizioni possano risultare fra loro anche incompatibili. E qualora le cose dovessero stare così, ne consegue il conflitto di doveri: un conflitto morale interno all’individuo dovuto alle contrastanti spinte etico-normative alle quali ciascuno è sottoposto per via dell’appartenenza a più cerchie sociali»62. Se per Simmel la personalità dell’individuo si definisce soprattutto attraverso quali norme morali a cui egli decide di aderire, allora «il fatto di far proprie certe norme anziché altre comporta una specifica etica della responsabilità individuale»63: etica che naturalmente ha delle ripercussioni anche sul piano della «coscienza di classe»64. cui la filosofia kantiana colloca la vita, uno dei pensieri più grandi concepiti dall’umanità, il cui comparire in una singola epoca appare soltanto la presa di coscienza nel tempo di un possesso sovratemporale del nostro spirito» (ibid.). Ciononostante, secondo Simmel, Kant è il grande filosofo della modernità che libera l’uomo «dal mero coinvolgimento nella mera natura» (ivi, p. 270), mentre secondo lui è Nietzsche che tenta una seconda liberazione, cioè quella dell’individuo dalla società: a Nietzsche, «l’esistenza sociale non appare come il senso di quella individuale, ma al contrario l’intera società storica gli appare solo il mezzo per produrre i valori supremi della personalità» (ibid.). Simmel, il cui interesse per Nietzsche risale sin dalla metà degli anni ’90, è sicuramente attratto dalla concezione nietzscheana dell’individualità, «perché vede in essa il sintomo di un profondo malessere del singolo verso le forme di organizzazione della società contemporanea. Nietzsche è per Simmel espressione di un individualismo radicale ed offre di conseguenza una definizione radicale dell’individualità che supera e completa quella kantiana. Per Kant l’Io si costruisce attraverso la temporalità, come forma pura dell’intuizione sensibile; per Nietzsche al contrario l’Io si costituisce in individualità piena proprio escludendo la temporalità intesa come separazione del presente dal passato, come coscienza passiva dell’accadere: l’Io come individualità, non potendo che presentarsi come tale, esalta il proprio sé nell’eterno ritorno (così come Simmel lo interpreta), nella valorizzazione assoluta del fare» (F.S. Ghisu, Georg Simmel, cit., p. 56). 61 Al riguardo cfr. l’analisi simmeliana svolta nel cap. IV della sua Soziologie del 1908 (cfr. G. Simmel, Sociologia, cit., pp. 213-289). 62 M. Ghisleni, Teoria sociale e modernità. Saggio sulla storia della sociologia, Carocci, Roma 1998, p. 117. 63 Ivi, p. 118. 64 In altri termini: «per potersi manifestare quale azione collettiva il conflitto sociale deve legittimarsi sul piano etico; deve indurre i membri della classe a riconoscere i propri interessi come parte di quelli più generali. Passaggio cruciale perché se il conflitto sociale è ad un tempo economico-distributivo e politico, è anche e soprattutto etico-culturale: è quest’ultima dimensione che infatti legittima la praticabilità delle stesse rivendicazioni economico-politiche» (ibid.).
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IL
DIFFICILE LABIRINTO
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L’Io dell’individuo moderno non sembra poter fare a meno delle lacerazioni conflittuali, l’impossibilità di trascenderle e sperimentarle è intimamente collegata alla concreta possibilità di comprendere nella loro vera profondità, come scrive Simmel nell’ultimo capitolo de I problemi fondamentali della filosofia, «le richieste che gli rivolgono le cose, gli uomini, le idee»65. Per questa via, quindi, simmelianamente il conflitto diviene la scuola in cui si forma l’io. E al contrario, quanto più ci sforziamo di foggiare armonicamente la vita, quanto più strette relazioni cerchiamo di porre tra le sue parti, quanto più passionalmente insomma, la coscienza dell’io tende a dominare i suoi contenuti, tanto più la vita è destinata a diventare ricca di conflitti. Non è solo la sintesi delle cose che, prodotta dall’io, ne rende da parte sua possibile la vita e la coscienza; ma la loro antitesi compie la stessa funzione. Così con lo sviluppo della vita superiore, il conflitto diviene il fenomeno tipico, inevitabile, tanto per l’uno, quanto per l’altro dei suoi momenti: prosegue l’espansione delle esigenze concrete che attendono dall’io unitario il loro compimento, e cresce l’intensità dell’energia con cui l’io pretende di raggiungere e difendere la sua unità66.
Considerato dal punto di vista filosofico, nell’individuo si esprimono in modo pervasivo l’esigenza ideale e l’aspirazione all’unità che sorgono «al di qua del suo essere intersecazione di fili sociali»67: si tratta di uno specifico individuale che viene talvolta contrapposto sia alla razionalità o alla razionalizzazione della vita sociale, all’interno della quale il denaro, «per quanto trasformi i modi di agire impulsivamente soggettivi in modi impersonali e oggettivamente sottoposti a norme, è tuttavia il vivaio dell’individualismo e dell’egoismo economici» (FD, 618), sia alla stessa dimensione intellettuale attraverso la quale è pur sempre resa possibile la comunicazione sociale, «ma non quella intersoggettiva extrasociale»68, poiché, in effetti, «certi sentimenti, per esempio quelli collegati al rapporto tra un Io e un Tu, si snaturerebbero e perderebbero il loro valore se una pluralità di persone potesse condividerli allo stesso modo» (FD, 618). L’osservazione filosofica delle forme dell’interazione sociale moderna spinge Simmel a sottolineare la contrapposizione tra 65 G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia, tr. it. riv. di P. Costa, a cura di F. Andolfi, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 114-115. 66 Ivi, p. 115. Secondo Calabrò (La legge individuale, cit., p. 145), nella «valorizzazione del conflitto, nei suoi aspetti etico-sociali, per la formazione d’una vita personale e di gruppo significativa, Simmel rivela il suo carattere di pensatore e moralista moderno, evocatore sensibilissimo delle grandi opposizioni e delle grandi tensioni, che caratterizzano le forme più importanti di vita e di socialità del tempo nostro». 67 F.S. Ghisu, Georg Simmel, cit., p. 58. 68 Ibid.
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L’INQuIETO
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«il vissuto soggettivo dell’individuale e la dimensione intellettuale indispensabile alla comunicazione sociale»69: questa avviene esattamente ad un livello nella quale «le diversità individuali legate al vissuto vengono annullate»70. Dal punto di vista critico, si potrebbe dire, che se nella filosofia del denaro simmeliana «l’intelletto è “il livello comune a tutti”, mentre vi è negli individui un’autenticità propria indefinibile e quindi incomunicabile»71, parimenti, sempre in Simmel, il punto di vista filosofico capovolge la concezione sociologica – già espressa nella Differenziazione sociale – secondo la quale «l’elemento comune a tutti, ciò che costituiva gli individui in massa collettiva, era proprio il sentimento indifferenziato, qualcosa di emotivo e irrazionale, comunque di extraintellettuale, mentre l’individualità, che con più forza possedeva il sentimento di sé, appariva il principale risultato della differenziazione e della razionalizzazione»72. Diversamente, l’intellettualità di cui Simmel parla nella Filosofia del denaro, non pervade soltanto ed unicamente la sfera del teoretico e della razionalizzazione, ma anche «tutto il sociale dominato dall’economia monetaria e di conseguenza tutte le individualità che in essa comunicano»73. 69
Ivi, p. 59. Ibid. 71 Ibid. 72 Ibid. Per il Simmel della Differenziazione sociale (tr. it. e cura di B. Accarino, pref. di F. Ferrarotti, Laterza, Bari 1982), il livello di integrazione delle individualità nelle società altamente differenziate è quello che, per così dire, si può definire della «razionalizzazione oggettiva delle prestazioni individuali. Queste infatti non vengono più strutturate casualmente in base all’appartenenza formale dei singoli ai gruppi sociali compatti […], ma, al contrario, sulla base delle effettive capacità degli individui e dello scopo che si propone» (F.S. Ghisu, Georg Simmel, cit., p. 34). Qui Simmel infatti «1. traspone nella realtà sociale il principio evolutivo unidimensionale della differenziazione a cui si contrappone esclusivamente l’indifferenziato, per cui progresso significa esclusivamente differenziazione (e quindi individualizzazione e razionalizzazione); 2. riduce la dimensione etica dei valori alla dimensione sociale ed al suo procedere evolutivo: non esiste una sostanzialità assiologica che possa contrapporsi alla differenziazione sociale e non è data una razionalità che non sia razionalizzazione sociale […]. La razionalizzazione è quindi in Simmel un puro risultato dell’evoluzione sociale. Essa […] indica una ricomposizione dei gruppi sociali sulla base delle competenze individuali. Alla base di essa deve esservi un’individualità già differenziata, svincolata dai legami con il gruppo naturale di appartenenza, e munita di capacità che le derivano proprio dalla sua autonomia di formazione e dalla sua libertà […]. La razionalizzazione […] riguarda l’intera esistenza dell’individualità. Essa indica in altri termini la distribuzione razionale delle competenze e dei bisogni dell’individuo nelle adeguate cerchie sociali, oppure, da un altro punto di vista, la ristrutturazione della società sulla base della molteplicità di interessi e competenze delle personalità individuali che la compongono. In questo senso si stabilisce un’equilibrata compenetrazione tra individualità e razionalizzazione, è anzi l’una a suscitare l’altra: entrambe costituiscono il risultato finale dell’evoluzione della società» (ivi, pp. 36-37). 73 F.S. Ghisu, Georg Simmel, cit., p. 59. 70
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Nell’ambito del discorso etico collegato alla concretezza empirica dei rapporti sociali, con Simmel si pone in questione non soltanto «una socializzazione della morale, ma il tentativo di spostare l’etica dall’alto dell’assolutismo etico al basso delle relazioni sociali»74. Il problema di Simmel è quindi quello del come l’individuo possa mantenere la sua individualità “qualitativa” nell’ambito delle sue relazioni sociali, individualità che è intimamente connessa alle possibilità della sua libertà e della responsabilità, quale base più vasta dell’etica, che egli intrattiene interagendo con gli altri individui, problemi che fra l’altro Simmel affronta nella Vorlesung sull’Etica e i problemi della cultura moderna (v. supra, cap. III). Nel suo programma filosofico e sociologico, dunque, Simmel prende posizione contro ogni tentativo “positivistico” di svalutare «l’autonomia etica del soggetto», il quale è pur sempre condizionato da fattori psicologici, biologici e sociali. «Ogni azione ha delle conseguenze che si fanno sentire sino all’ultimo anello della catena. Pertanto se le determinazioni del passato sollevano l’individuo dalla responsabilità, rispetto al futuro esso viene sovraccaricato in modo proporzionalmente più pesante»75. Simmel definisce appunto azioni etiche «quelle di cui chi le compie è responsabile» (EPCM, 52), rifiutando nel contempo la vecchia concezione deterministica che fonda la responsabilità sulla libertà e ritiene legittimo dedurre la libertà dalla responsabilità, e riaffermando che la responsabilità è una categoria interamente originaria. Per Simmel tutto ciò che determina il valore di un’azione è la libertà, la responsabilità e l’io come portatore dell’azione. Infatti, egli nelle pagine dell’Etica e i problemi della cultura moderna afferma: «Responsabilità e libertà non potrebbero ancora determinare il valore di un’azione se non ci fosse ancora un altro concetto al di sopra o al di sotto: l’io come portatore dell’azione. La libertà esige l’io, e i problemi etici si presentano in quanto tali solo quando oltre l’azione stessa c’è ancora un io; allora non l’azione è buona, ma l’agente, e non l’azione è libera, ma l’agente. L’azione è, senza alcuna determinatezza qualitativa, e solo attraverso l’io diviene buona o cattiva» (ivi, 55). Non senza una certa “ambiguità” nella logica espositiva ed argomentativa, occorre registrare criticamente che «se i suoi interlocutori parlano dell’io come essere relazionale allora Simmel sostiene che l’io è soltanto un filo di relazioni; se si vuole trovare la responsabilità di quello che accade in queste relazioni, allora Simmel torna a parlare di un io quasi ontologico e sostanziale»76. Il filosofo di Berlino non manca di precisare ulteriormente 74
G. Guarnieri, La crisi del monismo..., cit., p. 162. Ivi, pp. 163-164. 76 G. Guarnieri, La crisi del monismo…, cit., p. 165. 75
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il significato dell’etica, allorquando rileva che «l’oggettivo dell’etica non si può in quanto tale determinare; etico è piuttosto ciò che deve avvenire, del tutto indipendentemente da che cosa avviene e se avviene. Ma come possiamo sapere scientificamente che cosa deve avvenire? Non ci si richiami all’apparente somiglianza con la logica. Questa ha il vantaggio essenziale del controllo nella realtà; inoltre nella logica il conoscere resta in se stesso: essa è il conoscere del conoscere. L’etica invece ha il suo oggetto, il dovere (Sollen), al di fuori di sé, al conoscere etico manca dunque l’immediato coincidere con il suo oggetto, che garantirebbe la sua verità. Ciò che si deve è, in ultima analisi, un affare che riguarda la decisione del volere, non è mai questione di una constatazione scientifica. Il sapere etico non ha un oggetto oggettivamente determinabile» (EPCM, 56-57). De-oggettivando la vita morale, in quanto l’azione deve essere relazione, Simmel sostiene che «l’uomo etico non può conoscere, ma solo porre in conformità al volere, motivo per cui l’etica è anche così straordinariamente insoddisfacente da un punto di vista scientifico. Se l’etica deve essere scienza, deve avere dunque un programma del tutto diverso. Essa deve astrarre completamente da ogni teleologia, poiché uno scopo ultimo non è appunto scientificamente accertabile, se resta allora abbandonata al porre arbitrario […]. Il contenuto dell’etica non può venir stabilito scientificamente, ma la sua forma sì» (ivi, 57). L’a priori di tutta l’eticità e della vita etica è dunque il senso di responsabilità: il vero oggetto di un’“etica scientifica” è il dovere, la libertà, la responsabilità, «che stanno sempre dalla parte dell’agente, ma non dalla parte dell’azione» (ibid.). Per Simmel il fondamento della responsabilità non è la libertà o il determinismo; la libertà si fonda sulla responsabilità: «Ci si è chiesti sempre come e se libertà o determinismo siano la base dell’etico, vale a dire della responsabilità; noi vogliamo provare a capovolgere l’ordine: fondare non la responsabilità nella libertà, ma la libertà nella responsabilità. Noi diciamo: l’uomo non è responsabile perché è libero, egli è invece libero perché è responsabile» (ivi, 58). Simmel argomenta in modo controfattuale: «l’uomo può essere libero e irresponsabile, responsabile e non libero»77. Questa logica controfattuale però non deve dimenticare che libertà e responsabilità sono concetti dialettici «in quanto passano continuamente dalla potenza all’atto ad opera dell’io che risponde alla chiamata di tutta la realtà che lo interpella»78.
77 78
Ibid. Ibid.
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4.3. Sulla libertà e lo “straniero interno”: attraverso Simmel Gli individui sono per Simmel istanze reciproche: ecco perché devono costruire, e hanno storicamente costruito, una distanza reciproca. Bruno Accarino
Dopo questa preliminare digressione sul rapporto tra denaro, libertà e responsabilità in Simmel, in questo paragrafo faccio riferimento al tema simmeliano della libertà, così come esso è affrontato e trattato nella sua Sociologia79 del 1908. Nel cap. II (La determinatezza quantitativa del gruppo), Simmel rileva che la libertà, nella pluralità dei suoi significati sociologici, prima facie, appare innanzitutto come «la semplice negazione di ogni relazione sociale; infatti ogni relazione è un legame» (S, 68). Di per sé, l’individuo libero «non costituisce insieme ad altri un’unità, ma è un’unità per conto suo» (ibid.). Di fatto, non è escluso che possa esserci «una libertà che consiste in questa mancanza di relazioni», ovvero, «nella pura assenza di qualsiasi limitazione ad opera di altri esseri». Per cogliere l’essenza della libertà, Simmel (lettore e interprete di Kant, quest’ultimo a sua volta lettore e interprete di Rousseau), tenta di correlare e tenere insieme l’individuo, il mondo e l’alterità: «la libertà, come l’Io, non esiste prima in se stessa, come fosse la proprietà di un Io solitario il quale, solo in un secondo momento, entra in una relazione libera con ciò che è altro da sé»80. Simmel afferma e sottolinea il carattere relazionale e positivo della libertà. Nella Sociologia egli ribadisce esplicitamente che «per un essere che stia in relazione con altri la libertà ha un significato […] positivo: è una determinata specie di relazione con l’ambiente, un fenomeno di correlazione, che perde il suo senso quando non vi è una controparte» (S, 68). Tutto ciò assume fondamentali significati per la struttura profonda della società. In primo luogo (i), per l’uomo sociale la libertà «non è né uno stato ovvio, dato in anticipo, né una proprietà acquisita una volta per tutte, di solidità per così dire sostanziale» (ibid.). Nelle forme e negli effetti di reciprocità che disvelano la natura relazionale del legame individuale/sociale, la libertà si presenta come «un costante processo di liberazione», cioè come «una lotta non soltanto per l’indipendenza dell’io, ma anche per il diritto a rimanere in ogni
79
Cfr. G. Simmel, Sociologia, cit., (d’ora in poi S). M. Martinelli, Introduzione. Georg Simmel e la questione della libertà, in G. Simmel, Frammento sulla libertà, a cura di M. Martinelli, Armando, Roma 2009, p. 15. 80
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momento, anche nella dipendenza, con la volontà libera – come una lotta che deve essere rinnovata dopo ogni vittoria» (ivi, 69). Sembra qui riecheggiare, nella pagina simmeliana, l’eco della hegeliana lotta per il riconoscimento? Nel comportamento sociale, l’assenza di vincoli non è, in realtà, «quasi mai un possesso stabile», ma si traduce invece in «un incessante sciogliersi da legami che senza sosta limitano realmente, o tendono a limitare idealmente, l’essere-per-sé dell’individuo» (ibid.). A questo punto Simmel rivela tutta la sua originalità aforismatica, allorquando scrive: «La libertà non è un essere solipsistico, ma un fare sociologico; non è uno stato limitato alla singolarità del soggetto, ma un rapporto, seppure considerato dal punto di vista dello stesso soggetto» (ibid.). Non credo di esagerare dicendo che pochi filosofi della modernità ci hanno dato un’immagine e una definizione sociologica della libertà così densa come questa81. Simmel non si limita però a evidenziare soltanto l’aspetto funzionale, ma sottolinea anche quello relativo al contenuto della libertà, la quale «è qualcosa di affatto diverso dal rifiuto di relazioni, dalla mancanza di contatto della sfera individuale con altre sfere circostanti» (S, 69). Ciò dipende dal semplice principio che l’uomo «non vuole soltanto essere libero, ma vuole anche usare la libertà in vista di qualcosa», e questo «uso», come laconicamente osserva Simmel, in gran parte altro non è che «il dominio e lo sfruttamento di altri uomini» (ibid.). Egli, dunque, afferma: «Per l’individuo sociale, che vive cioè in costanti relazioni reciproche con altri, la libertà sarebbe in innumerevoli casi del tutto priva di contenuto e di scopo, se non rendesse possibile o costituisse l’estensione della sua volontà a quella degli altri individui» (ibid.). Consistendo in un processo di liberazione, la libertà «si eleva sopra e di fronte a un legame» e soltanto come reazione a questo trova «un senso, una coscienza, un valore», quindi, una utilizzazione. Pur essendo la libertà rappresentata come «qualità del singolo» soggetto in sé e per sé, il suo senso autentico attesta la forma di «relazione sociologica bilaterale» (ivi, 70) in cui si trova il soggetto: egli «è vincolato da altri e vincola altri» (ibid.). Come opportunamente rileva Roberto Escobar82, più avanti, Simmel, nel cap. VI (L’intersecazione di cerchie sociali) della Sociologia, non fa altro che ri81
Recentemente, nel libro più filosofico scritto da un sociologo italiano degli ultimi tempi, Mauro Magatti, affrontando la diagnosi critica delle metamorfosi e del destino della libertà nel capitalismo tecno-nichilista, non a caso ha considerato la “lezione” di Simmel sul nesso libertà-responsabilità, come uno dei momenti più alti della riflessione contemporanea che sia stata capace di offrirci una visione della libertà umana non bloccata sull’annichilimento di qualunque “valore” e intrinsecamente dotata di creatività non distruttiva (cfr. M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 394-395). 82 Cfr. R. Escobar, Paura e libertà, Morlacchi, Perugia 2009, p. 52 sg. (d’ora in poi PL).
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badire una sua persuasione di fondo: «ogni individualità o “personalità” può essere intesa come la risultante dell’intersecarsi “in un punto” – cioè nello specifico individuo – di una pluralità di “cerchie sociali”, di una pluralità di appartenenze» (PL, 52). Nel rapporto reciproco tra gli individui, scrive Simmel, «il singolo si vede dapprima in un ambiente che, relativamente indifferente verso la sua individualità, lo incatena al proprio destino e gli impone una stretta coesistenza con coloro accanto ai quali lo ha portato il caso della nascita; e questo “dapprima” significa lo stato iniziale di uno sviluppo sia filogenetico sia ontogenetico» (S, 347), cioè sia culturale che individuale (cfr. PL, 52): la «continuazione» di questo sviluppo si dispiega secondo due principali linee di diversa tendenza. Per un verso, si possono dare, nella vita in comune degli individui, appartenenze, occasionate dal caso, affidate «al destino», non fondate nella personalità, ma «determinanti» nei suoi confronti, che si impadroniscono dell’individuo e che comunque «sono fondate su cause parimenti profonde, organiche, che stanno al di là del suo arbitrio» (S, 350). Per l’altro, col progredire dello sviluppo, ogni individuo può intrecciare un «vincolo» con altre personalità che stanno «al di fuori» della sua originaria cerchia associativa, creando così nuove cerchie di contatto fondate su «relazioni di contenuto» (ivi, 350) ed in cui interagiscono elementi di libertà. Per Simmel, questa tipologia di sviluppo «sottostà in genere alla tendenza all’aumento della libertà» (ivi, 349); pur non eliminando lo «svincolamento», questa tendenza fa sì che diventi una «questione di libertà» decidere «a chi si è vincolati»: «infatti, di fronte al vincolamento locale, o nato in qualsiasi altro modo senza la partecipazione del soggetto, quello scelto liberamente di regola tradurrà in realtà l’effettiva costituzione di chi sceglie e permetterà quindi al raggruppamento di costruirsi su relazioni oggettive, ossia fondate sull’essenza dei soggetti» (ibid.). Il numero delle diverse cerchie sociali in cui l’individuo viene a trovarsi come in un «punto d’intersecazione di innumerevoli fili sociali» (ivi, 356), costituisce un criterio di misurazione della cultura per l’uomo moderno. Partecipando ad «un ampio gioco all’individualità» (ivi, 355), il singolo appartiene di volta in volta a dei gruppi che costituiscono «un sistema di coordinate» che lo determina. Quanto più numerose sono le cerchie sociali a cui partecipa, «tanto più improbabile sarà che altre persone ancora presentino la medesima combinazione di gruppi, cioè che queste numerose cerchie si intersechino ancora in un punto» (ibid.). Fermo restando che è sempre e comunque la soggettività che combina gli elementi della cultura in modo individuale, per Simmel, dopo che la «sintesi del soggettivo» ha generato l’oggettivo e la «sintesi dell’oggettivo» ha a sua volta prodotto «un nuovo e
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più elevato elemento soggettivo», la personalità «si dà alla cerchia sociale e si perde in essa, per riacquistarvi poi la sua specificità in virtù dell’intersecazione individuale delle cerchie sociali» (ivi, 356). La pluralità delle appartenenze sociali minacciano la personalità morale dell’individuo che si vede lacerato da un conflitto sia «interiore» che «esteriore», legato appunto alla scelta delle differenti appartenenze. In questo conflitto, in questo «dualismo psichico» (ibid.), può l’io diventare consapevole della sua unità personale? Quali sono i criteri che presiedono alle sue scelte d’appartenenza? Tra le configurazioni molteplici che possono acquisire le diverse appartenenze, una, secondo Simmel, appare come «l’unione più originaria» a partire dalla quale «l’individuo, in base alle qualità particolari con cui si differenzia dagli altri membri» si rivolge «a una cerchia più distante» (ivi, 354). Tutto ciò, secondo Escobar, suggerisce un corollario importante (comunque da verificare) ai fini del nostro tema. Nei casi limite in cui l’obbedienza richieda l’avvicinamento ai “confini”, «la cerchia “più originaria”, l’appartenenza determinante, il centro e lo spazio simbolici più “comprensivi” tendono forse a essere quelli meno definiti dai loro contenuti di pensiero, emozione, ideologia, affetto, interesse» (PL, 54); ovvero, «quelli più originari e “casuali” e dunque più in grado di determinare con nettezza e senza ambiguità il noi contrapposto al loro» (ibid.). Il principio di reciprocità simmeliano che governa l’azione individuale/sociale oggi ci consente di non rimanere più bloccati in una contrapposizione binaria nella lettura della condizione intersoggettiva globale, soprattutto per quanto attiene alla percezione quotidiana, sociologica e politica dell’altro, del nemico, dello straniero. Nel mondo globale, come scrive Escobar, «tempo e spazio, antichi muri divisori tra noi e gli altri, fra tutti i noi e tutti gli altri, sono stati come frantumati, annullati. Il confronto con lo straniero sembra aver preso il posto che, in passato, fu della separazione. Ormai […] siamo tutti troppo vicini per poter avere e essere nemici» (ivi, 60). In una disseminata moltitudine planetaria, «questi altri si confondono con noi, tra noi: diventano stranieri interni» (ibid.): la loro esperienza individuale e collettiva, «ha molto da rivelare a noi su noi stessi» (ibid.). In quanto «altro-da-noi», lo straniero-nemico minaccia il nostro mondo: è colpevole perché trama la nostra morte, ci odia, perciò noi dobbiamo odiarlo e volere la sua morte. È proprio Simmel, come ci ricorda Escobar (cfr. ivi, 61), a scrivere nella Sociologia non soltanto che «l’odio contro colui che ci odia è una misura preventiva di carattere istintivo» (S, 222), ma soprattutto che «di solito noi odiamo colui al quale abbiamo fatto del male» (ibid.). Parimenti, è sempre Simmel – nella Sociologia – a ricordarci che la società si disintegrerebbe senza la comunanza, cioè senza
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quell’importante «forza sintetica» che è la fiducia: un medium comunicativo della socialità umana, insostituibile per orientarsi – in condizioni di libertà e/o dipendenza, contingenza e insicurezza, paura e rischio – nell’arcipelago relazionale e nel negotium sociale che vincola gli umani nell’ambivalente dialettica intersoggettiva dell’uno «per/con/contro» l’altro83. Potrei fermarmi qui, ma in realtà è a questo punto che i tracciati simmeliani molto noti sullo straniero, l’odio sociale, l’inimicizia, il soverchiamento delle minoranze, il potere, il dominio, il contrasto, il conflitto, la lotta, la forma sociologica del rapporto di sovraordinazione e di subordinazione, l’individuo, il gruppo, la massa, il segreto, la gelosia, l’invidia, la fedeltà, la gratitudine, il dono, l’antagonismo metropolitano, il limite, il confine, lo spazio, la povertà, la differenziazione sociale, la tragedia della cultura, il desiderio, il denaro, la moda, la sociologia dei sensi, i reticoli sociali, la libertà, diventano di fondamentale importanza per la nostra “sensibilità sociologica” e “filosofico-politica” contemporanea non solo simmeliana ma anche post-simmeliana. Gli esseri umani, ha sostenuto Simmel, sono costitutivamente caratterizzati da differenze (cfr. S, 234), e sono sempre gli individui che, nei rispettivi gruppi di appartenenza, esercitano l’azione reciproca che danno origine alle configurazioni sopra citate, e sono sempre gli individui che producono e subiscono continue metamorfosi in un «rinviarsi reciproco», che può consistere sia in un «reciproco rinsaldarsi» dell’unità dei singoli all’interno di un gruppo, sia in una «comune chiusura verso l’interno» inteso come un «comune rivolgersi al suo centro», sia come «continuo confronto con l’altro gruppo, o con il gruppo degli altri» (PL, 73). Con Simmel e attraverso Simmel, dobbiamo dunque comprendere perché, in luogo della «sensibilità per la differenza» (Unterschiedsempfindlichkeit), (S, 238)84, emerge quel fenomeno «reciproco» e 83 Cfr. M. Conte, La fiducia e l’ambivalenza umana nella Wechselwirkung di Georg Simmel, in AA.VV., Simmel e la cultura moderna, Vol. I, cit., pp. 411-435. Dello stesso autore, v. Sociologia della fiducia. Il giuramento del legame sociale, prefazione di V. Cesareo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2009. 84 Secondo Simmel, la particolare «sensibilità per la differenza» che il senso di profonda identità con l’altro sviluppa, «esprime indirettamente la rivincita di quell’essere per sé che riemerge incoercibile anche quando la coesione con l’altro è più forte, e si manifesta, a rovescio, non come rivendicazione della propria autonomia, ma come intolleranza verso quella dell’altro» (B. Giacomini, Relazione e alterità. Tra Simmel e Lévinas, cit., p. 59). In modo paradigmatico ed esemplare, il «rovesciamento dell’unione», nella forma più radicale di opposizione, si esprime in modo peculiare nella gelosia, «che trova il suo specifico significato, rispetto ad altre passioni simili come l’invidia o il dispetto, da una parte nella conversione del desiderio dell’altro nel diritto al suo possesso, dall’altro nel fatto che l’odio verso colui che è oggetto della nostra gelosia ha la stessa estensione e la stessa intensità dell’amore che
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caratteristico rappresentato dall’odio sociale, il cui «motivo sociologico» risiede nel fatto che «noi odiamo il nemico del gruppo» (S, 238), e che in quanto tale comporta dissidio, minaccia e pericolo, generando paura e insicurezza. Da qui, vedremo, prenderanno poi avvio i tracciati post-simmeliani della seconda parte di questo capitolo. Per ora non posso non registrare positivamente il fatto che anche una filosofa sociale come Elena Pulcini – nel suo libro La cura del mondo85 – abbia sottolineato come nello scenario contemporaneo dei conflitti identitari e di riconoscimento «i grandi processi migratori […] prodotti dalla globalizzazione intensificano la formazione di società multiculturali nelle quali la coesistenza tra culture e stili di vita tende a moltiplicarsi, realizzandosi però in modalità asimmetriche e generando nuove gerarchie e nuove esclusioni» (CM, 94). Ciò produce, come sappiamo, un’estensione molecolare di quel fenomeno, già tematizzato agli inizi del Novecento da Georg Simmel nel terzo Excursus sullo straniero del capitolo IX della sua Sociologia (cfr. S, 580-584) che è il “farsi interno” dell’“altro”, dello “straniero”. L’estraneità, anzi l’esser-estraneo, fissa una figura determinata e particolare, nella quale l’ambiguità strutturale delle relazioni assume una forma peculiare e, insieme, emblematica dei rapporti sociali propri della modernità e, soprattutto, della globalizzazione. Ora, come ho già spiegato altrove86, sono proprio le riflessioni di Simmel dedicate alla «forma sociologica dello “straniero”» (die soziologische Form des “Fremden”), a fornire a questa particolare problematica un originale chiarimento culturale. In questo breve ma notissimo Excursus, da cui non si può prescindere per l’intelligibilità del nostro tema, Simmel si sforza di definire il posto singolare occupato dallo straniero nello spazio fisico, nel campo sociale e in quello simbolico, cercando di focalizzare in primo luogo la contraddittorietà dei rapporti che legano lo straniero alla società che lo ospita. In Simmel l’interesse sociologico per la figura dello straniero come forma sociale riguarda principalmente le caratteristiche permanenti e fondamentali dell’interazione sociale. Simmel definisce la
ce l’ha scatenata» (ibid.). Scrive infatti Simmel nella Sociologia: «Il sentimento della gelosia produce un’esasperazione del tutto caratteristica, accecante, inconciliabile tra gli uomini, perché l’elemento che li divide si è qui impadronito precisamente del punto della loro relazione, cosicché la tensione tra di essi ha conferito all’elemento negativo il massimo possibile di asprezza e di accentuazione» (S, 242). 85 Cfr. E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino 2009 (d’ora in poi CM). 86 Cfr. A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, cit. pp. 214-223 (ivi bibliografia) e Id., L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, cit., pp. 209219 (qui cursoriamente richiamate).
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«forma sociologica dello “straniero”» come una particolare «costellazione» (S, 580) a cui perviene «l’unità di vicinanza e di distanza, che ogni rapporto tra uomini comporta» (ibid.) La rilevanza di senso di questa costellazione, cioè delle due forme differenti di lontananza, la si può formulare nei termini seguenti: «la distanza (Distanz) nel rapporto significa che il soggetto vicino è lontano, mentre l’essere straniero (das Fremdsein) significa che il soggetto lontano è vicino» (ibid.). Simmel non manca subito di precisare che «qui non s’intende lo straniero […] come il viandante che oggi viene e domani va, bensì come colui che oggi viene e domani rimane – per così dire il viandante potenziale che, pur non avendo continuato a spostarsi, non ha superato del tutto l’assenza di legami dell’andare e del venire. Egli è fissato in un determinato ambito spaziale, o in un ambito la cui determinatezza di limiti è analoga a quella spaziale; ma la sua posizione in questo ambito è determinata essenzialmente dal fatto che egli non vi appartiene fin dall’inizio, che egli immette in esso qualità che non ne derivano e non possono derivarne» (S, 580): lo straniero, simmelianamente, come dice Bodei, «è il medesimo individuo che potremmo essere noi in circostanze mutate»87. Gli elementi della forma sociale dello straniero sono simmelianamente costituiti dalla contemporanea presenza di due opposte “polarità”: «dal punto di vista spaziale, la mobilità e la stabilità; dal punto di vista dei rapporti umani, dei sentimenti che sorreggono l’interazione, la distanza e la prossimità; dal punto di vista del tipo di conoscenza, la generalità e la specificità»88. Lo straniero incarna quella peculiare categoria dell’essere sociale secondo la quale «il modo in cui un individuo si associa ad altri è determinato o codeterminato dal modo in cui da essi si dissocia»89. Esso non è semplicemente qualcuno che “sta fuori del gruppo”: egli appartiene al gruppo in base ad uno statuto (sociologico) che in gran parte lo esclude, i modi della sua esclusione definiscono anche i modi della sua inclusione90. Il nucleo e l’essenza stessa di questa figura sociale consistono nel fatto che essa trova nella sua parziale esclusione dalla società il significato peculiare della sua stessa appartenenza ad essa. Come scrive Simmel: L’essere straniero è naturalmente una relazione del tutto positiva, una particolare forma di azione reciproca: gli abitanti di Sirio non sono per noi 87 R. Bodei, Tempi e mondi possibili: arte, avventura e straniero in Georg Simmel, in «aut aut», n. 257, 1993, p. 71. 88 S. Tabboni (a cura di), Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come categoria sociologica, FrancoAngeli, Milano 1993, p. 37. 89 B. Giacomini, Relazione e alterità. Tra Simmel e Lévinas, cit., p. 88. 90 Cfr. S. Tabboni (a cura di), Vicinanza e lontananza, cit., p. 37.
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propriamente stranieri – almeno nel senso sociologico del termine che viene qui preso in considerazione – ma non esistono affatto per noi, stanno al di là di ciò che è lontano e di ciò che è vicino. Lo straniero è un elemento del gruppo stesso, non diversamente dai poveri e dai molteplici “nemici interni” – un elemento la cui posizione immanente e di membro implica contemporaneamente un di fuori (Ausserhalb) e un di fronte (Gegenüber)» (S, 580).
Lo straniero rappresenta proprio «il confine incarnato del gruppo sociale, colui che incornicia idealmente la società grazie al suo esservi incluso ed escluso contemporaneamente»91. La forma sociale dello straniero corrisponde ad un modello di interazione sociale, una particolare forma di azione reciproca che, nella sua estrema sintesi ed astrazione intellettuale, si presta a rappresentare una variegata gamma di relazioni umane di reciprocità, di modalità sociologiche, politiche, economiche e storiche che Simmel delinea facendo particolare attenzione al problema che maggiormente lo interessa, e cioè la «tipizzazione o categorizzazione come attività o pratiche intrinseche nell’esistenza di ogni gruppo sociale»92. Per Simmel, lo straniero «è colui che costringe la società a ridefinirsi incessantemente: egli pone continuamente al gruppo sociale il problema della propria collocazione, della propria parziale o totale assimilazione e integrazione, mette in gioco continuamente le categorie dell’inclusione e dell’esclusione»93. Nell’accezione di senso sociologicamente inteso, simmelianamente, il termine “straniero” non fa riferimento esclusivo allo straniero in quanto membro effettivo della società, ma rinvia anche allo straniero «come categoria cognitiva operante in modo più o meno consapevole all’interno di ogni singolo attore sociale e della società nel suo insieme. La società abbisogna dello straniero, pena la perdita della propria identità, la perdita della nozione di inclusione-esclusione che ne costituisce l’intima essenza, la perdita dei propri confini»94. Tuttavia, «se il ruolo dello straniero assume contorni chiari ed espliciti nell’ambito della considerazione scientifica della società, al livello della vita sociale effettiva l’essere limite dello straniero, il suo incarnare fisicamente il confine della società, comporta il tipico sentimento di inimicizia nei suoi riguardi»95. Detto altrimenti, «il fatto che la vita pratica si svolga all’interno di una fitta rete di rapporti teleologici in cui gli elementi 91 L. Burgazzoli, Lo straniero nel pensiero di Georg Simmel, in A. Dal Lago (a cura di), Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea, Costa&Nolan, Genova 1998, p. 70. 92 A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., pp. 206-207. 93 L. Burgazzoli, Lo straniero nel pensiero di Georg Simmel, cit., p. 70. 94 Ivi, p. 71. 95 Ibid.
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conoscitivi rimangono per lo più inconsapevoli e hanno il solo valore di mezzo tra gli altri, fa sì che la condizione dello straniero come nemico sia destinata, da un punto di vista logico, a perpetuarsi: lo straniero è nemico e nemico deve rimanere. L’ostilità che egli patisce sotto forma di esclusione è strettamente dipendente dal suo essere incluso nella società»96. Nell’essere contemporaneamente “dentro e fuori” si traduce la significatività della figura sociale dello straniero che, come osserva Simonetta Tabboni nel suo libro Lo straniero e l’altro, «si trova all’incrocio fra il sociale e il culturale perché riguarda l’assetto dello spazio sociale, le vicinanze e le lontananze che devono essere rispettate»97. Nella figura dello straniero, che nel contempo è distante dagli altri membri del gruppo ma anche vicina, in quanto abita fra di loro, si rende in modo peculiare la visibilità di quell’elemento di negazione ed esclusione che in altre figure sociali è meno appariscente: «ogni relazione fra gli uomini, anche la più stretta, mentre si crea e si stabilisce con qualche forma di affermazione, si nega allo stesso tempo, imponendo una distanza e alcuni elementi che la negano»98. Perciò 96 Ibid. Specificando il ruolo dello straniero per la conservazione del gruppo rispetto al quale egli è straniero in stretta connessione con la teoria del conflitto che, com’è noto, è sviluppata da Simmel non come strategia distruttiva ma positiva, la correlazione analitica che lega lo straniero in modo analogo allo statuto simbolico del nemico fa emergere altresì i “limiti” della concezione simmeliana, che Vittorio Cotesta sinteticamente e criticamente così enuclea: «Pur non essendo la stessa cosa – nemico può essere anche uno del gruppo; o sul piano collettivo, un gruppo con il quale si condividono storia e cultura – il nemico e lo straniero, in quanto collocati all’esterno del gruppo, segnano simbolicamente i confini del gruppo e l’alterità rispetto ad esso. Sul piano pratico, nel conflitto, lo straniero costituisce la minaccia dalla quale l’intero gruppo si deve difendere. Lo straniero, premendo ai confini del gruppo, rafforza l’unità interna e l’identità del gruppo. Perciò, da questa prospettiva analitica, lo straniero svolge due funzioni importanti per il gruppo: sul piano simbolico, quella di mezzo comparativo per marcare l’identità del gruppo; sul piano politico, quella di mezzo per rafforzare l’unità e l’identità del gruppo. Questa immagine dello straniero è tuttavia troppo generica. Essa dà per scontato che la società o il gruppo, per il quale un individuo o un altro gruppo sociale si configura appunto come straniero, sia omogenea e poco complessa. Se invece si introduce un certo livello di differenziazione e di complessità sociale, la posizione dello straniero diventa a sua volta molto più difficile da determinare. Individui o gruppi sociali della società possono infatti avere interessi comuni o affinità con lo straniero. In questo caso, la posizione dello straniero diventa una minaccia ancora più forte per gli altri gruppi sociali. Infatti, questo legame o comunità di interessi con parti della società rende più forte la sensazione della debolezza dei legami che definiscono l’identità della società. La consapevolezza della vicinanza e della distanza dello straniero diventa in questo caso più acuta. E più determinata può essere anche la risposta sul piano politico» (V. Cotesta, Lo straniero. Pluralismo culturale e immagine dell’altro nella società globale, Laterza, RomaBari 2002, pp. 21-22). 97 S. Tabboni, Lo straniero e l’altro, Liguori, Napoli 2006, p. 40. 98 Ibid.
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Simmel ritiene che il secondo a priori della vita sociale di per sé implica che «nessuno accetterebbe di entrare in un rapporto sociale se non a condizione che quello stesso rapporto fosse negato per altri effetti»99. Di fatto, la necessità della distanza e l’esigenza di salvaguardare ciò che va oltre il rapporto stabilito, «aumentano quanto più si generalizzano le condizioni caratteristiche del mondo moderno, la molteplicità, la polivalenza, la formalità dei rapporti umani»100. Ne consegue che «ogni gruppo sociale pone le basi della sua esistenza, vive e si evolve attraverso due operazioni opposte ma profondamente complementari: l’affermazione della propria identità, immutabilità e continuità temporale, cui corrisponde l’esclusione di chi è diverso e l’apertura verso l’esterno, il cambiamento, cui corrisponde l’inclusione, più o meno parziale, delle culture diverse e dello straniero»101. La figura sociale dello straniero consente di osservare un rilevante aspetto della dinamica tramite cui ogni gruppo partecipa nel suddividere il proprio spazio sociale e lo gerarchizza, finendo col lasciare uno spazio particolare (di parziale inclusione) a coloro che appartengono ad altre culture diverse. Per questi motivi, la figura dello straniero delineata da Simmel è stata in grado di mettere in luce una specificità più o meno visibile che è presente in ogni rapporto sociale, «la “riserva” e il distacco che ne condizionano l’esistenza». Possiamo quindi individuare così due elementi significativamente essenziali dell’analisi simmeliana della figura dello straniero. In primo luogo, Simmel «ha il grande merito di aver messo in chiaro, forse per primo, che i rapporti umani che gli uomini stringono fra di loro non sono totalizzanti, tranne in qualche eccezione, ma conservano una zona d’indipendenza reciproca che deve essere rispettata. Ciò che Simmel propone come il secondo a priori della vita sociale è in un certo modo la convinzione che […] è in realtà il rapporto fra individuo e società a prevedere la coesistenza del principio d’accettazione e di quello del rifiuto [...]. La figura sociale dello straniero costituisce una sorta di ingrandimento della più generale condizione dell’uomo sociale perché in essa appare vistosamente il significato del “far parte” in una condizione in cui “non si fa parte” solo entro certi limiti»102. La peculiarità della posizione sociale dello straniero consiste nel fatto che lo straniero non è semplicemente qualcuno che non fa parte del gruppo in cui si stabilisce a vivere provenendo da altrove: «egli appartiene al gruppo in base ad uno statuto che parzialmente lo esclude ed è questa parziale ap99
Ibid. Ibid. 101 Ivi, pp. 40-41. 102 Ivi, p. 41. 100
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partenenza che gli consente di promuovere il cambiamento culturale»103. Il altri termini: «Il processo attraverso il quale un gruppo dà forma al proprio spazio sociale porta in primo luogo a definire le distanze e le vicinanze che i membri devono rispettare nei rapporti in cui si trovano impegnati. Ciò che decide della vicinanza e della lontananza è anche, e oggi sempre di più, la cultura cui si appartiene. Ogni gruppo sociale ha bisogno di due momenti fondamentali per dar respiro alla sua vita: il momento in cui esclude il culturalmente diverso, lo straniero, e il momento in cui lo include nel proprio spazio, pur collocandolo ad una certa distanza sociale»104. In secondo luogo, attraverso la figura dello straniero, Simmel ha inteso descrivere una forma sociale, ovvero una delle diverse forme di reciprocità cui danno vita i rapporti che gli uomini creano associandosi. Segnati, nel suo pensiero, dalla cifra onnipresente dell’ambivalenza, gli elementi costitutivi di questa forma sociale sono caratterizzati dalla contemporanea presenza di polarità opposte: «dal punto di vista spaziale, la mobilità e la spazialità; dal punto di vista delle regole della convivenza, la distanza e la vicinanza; dal punto di vista epistemologico, la generalità e la specificità»105. Se, dunque, ricordiamo ancora una volta qui la “lezione” tratta dall’analisi della forma sociale dello straniero di Simmel, tenendo conto dell’ambivalenza reciproca che per l’autore della Sociologia collega lo straniero e il gruppo, allora possiamo affermare che lo straniero «è il messaggero del cambiamento», con l’aggiunta conseguente che «cambiare è per chiunque un’operazione faticosa e difficile, ma è anche un’attività necessaria per vivere ed evolversi. Ogni gruppo sociale, così come ogni individuo, ha bisogno di una certa stabilità e continuità, così come ha bisogno di innovazione e conflitto. Sia la stabilità che l’innovazione, comunque, non si presentano mai allo stato puro, ma sempre secondo certe mescolanze di elementi opposti che si collocano in un punto variabile all’interno di un campo di tensione»106. Il fenomeno dello «straniero interno», com’è noto, nel mondo globale assume proporzioni esplosive, «in virtù del superamento dell’opposizione dentro/fuori, dovuto […] a quell’indebolimento dei confini che ne è una delle peculiari caratteristiche» (CM, 94). Da ciò consegue che l’altro «non è più relegabile al di là dei confini delimitati e rassicuranti di una zona di difesa e protetta da ogni contaminazione esterna, e rompe il circuito immunitario su cui tradizionalmente (e segnatamente nell’ambito dello Stato 103
Ibid. Ivi, p. 42. 105 Ibid. 106 Ivi, pp. 42-43. 104
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nazionale) viene costruita l’identità» (ibid.). Diagnosticando con acume critico ed ermeneutico le patologie del sentire, ovvero le metamorfosi della paura in età globale (cfr. CM, 115-184), Elena Pulcini, ribadisce – anche attraverso Simmel – il fatto che nella società del rischio (Risikogesellschaft), descritta e interpretata originalmente da ulrich Beck – «l’altro oggi non è più, evidentemente, l’altro individuo, che abbiamo trovato nello scenario hobbesiano nella posizione di rivale e nemico all’interno di una relazione sì conflittuale, ma certa e concreta nella sua minacciosità» (ivi, 143). Dopo Hobbes107, dopo la prima modernità e dentro le patologie della tarda modernità, l’altro che fa paura oggi «non è più il simile, ma è soprattutto il diverso, colui […] che incarna l’idea stessa di differenza, sia essa culturale, religiosa o razziale» (CM, 145). Perciò, la globalizzazione investe questa figura di un «mutamento radicale» che ci spinge a riflettere sul rapporto tra libertà, paura e (in)sicurezza. In particolare, oggi, si incrina soprattutto «quel meccanismo di espulsione dell’altro al di fuori dei propri confini che nella prima modernità consentiva a una determinata struttura sociale di risolvere la minaccia di disgregazione prodotta dall’insicurezza e dalla paura» (ibid.). In altri termini, «si incrina la dinamica classica di costruzione del “capo espiatorio”, perché non funziona più, in età globale, l’opposizione dentro/fuori, su cui a lungo era stata fondata la certezza di poter confinare all’esterno lo straniero-nemico al fine di rinsaldare i propri legami e costruire l’identità di un Noi certo e coeso» (ibid.). Di fatto, «il confine, che evoca, soprattutto se associato alla modernità statuale e territoriale, l’idea di una linea di demarcazione precisa e rassicurante, è stato sostituito da un limes che è indefinibile e non riconoscibile, che esclude ma non separa e non garantisce più alcuna immunità» (ibid.). Pertanto, l’altro, lo straniero, «è ormai fra noi»; non è più «né colui che possiamo relegare all’esterno né colui che viene e se ne va» (ibid.), ma è simmelianamente lo «straniero interno», ovvero «colui che oggi viene e domani rimane» (cfr. S, 580-584), che in quanto tale è «impossibile esportare in un “altrove”» (CM, 145). L’età globale «coincide con la scomparsa di quell’“altrove”, separato e rassicurante, in cui confinare coloro che minacciano (o meglio, che si ritiene minaccino) la coesione sociale» (ivi, 209).
107
Cfr. G.M. Chiodi, R. Gatti (a cura di), La filosofia politica di Hobbes, FrancoAngeli, Milano 2009.
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4.4. Paura e (in)sicurezza nella condizione globale La morte quale minaccia è la moneta del potere. Elias Canetti
Nella condizione intersoggettiva contemporanea risulta abbastanza evidente come il tema dell’insicurezza abbia forti implicazioni ideologiche e culturali che connotano le strategie argomentative che ci servono a costruire riflessivamente la nostra identità per affermare i nostri valori, a indicare in modo constativo “chi” è il nemico, indicandolo e stigmatizzandolo nella logica dell’appartenenza come l’improprio. In un’ontologia del presente e/o del contingente, che riflette in modo speculare la morfologia del contemporaneo, occupa, dunque, un grande spazio pubblico di considerazione non solo il valore della sicurezza108, e delle sue correlazioni con quello della libertà, ma soprattutto la diffusa e vissuta percezione del bisogno di “ridurre la paura” (Luhmann), condizione antropologica di incertezza a grandezza variabile, nella quale vive il soggetto umano e nei cui confronti egli si impegna a introdurre sempre nuovi elementi di stabilità e di ordine nel flusso caotico dei fenomeni (ambientali-naturali e sociali), che gli fanno avvertire, nel ventaglio del possibile, l’inesorabile sua personale estinzione109. Pertanto, non solo «l’uomo interpreta il proprio stress difensivo e selettivo come “contingenza” e cioè come vulnerabilità, disordine, imprevedibilità, possibilità di delusione, provvisorietà, fragilità, congiuntura»110, ma anche la stessa «ipotesi della morte» si traduce nella «radice della paura e dell’insicurezza umana e contribuisce, nello stesso tempo, a fare dell’uomo un primate “sanguinario”»111. Tutto ciò si riverbera anche sulle configurazioni possibili che connotano il rapporto tra paura e politica. Infatti, come sostiene Danilo Zolo, «la dialettica fra paura e sicurezza oggi caratterizza senza eccezioni le
108 Cfr. AA.VV., Paura, fasc. mon. di «InOltre», n. 10, 2007; R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti, tr. it., Einaudi, Torino 2004; W. Sofsky, Rischio e sicurezza, tr. it. di u. Gandini, Einaudi, Torino 2005; M. Walzer, Libertà e sicurezza, tr. it., Laterza, Roma-Bari 2006; P. Ceri, La società vulnerabile. Sicurezza e libertà, libertà Laterza, Roma-Bari 2003; J. Waldron, Security and Liberty: The Image of Bilance, in «Journal of Political Philosophy», n. 2, 2003, pp. 191-210; Th. Casadei, L’universo concettuale della sicurezza: note sul recente dibattito, in «Cosmopolis», n. 2, 2008, pp. 41-47; F. Battistelli, La fabbrica dell’insicurezza, FrancoAngeli, Milano 2008; L. Mucchielli (sous la direction de), La frénésie sécuritaire.. Retour à l’ordre et nouveau contr�le social, La Découverte, Paris 2008 . 109 Cfr. D. Zolo, La riduzione della paura, in «Cosmopolis», n. 2, 2008, pp. 25-31. 110 Ivi, pp. 25-26. 111 Ivi, p. 26.
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formazioni politiche complesse: dalle organizzazioni internazionali agli Stati nazionali, ai partiti politici, ai movimenti eversivi, alla grande criminalità organizzata. Qui si afferma immancabilmente una logica particolaristica che tende a rendere il gruppo tanto più coeso, e quindi discriminante verso l’esterno e repressivo al proprio interno, quanto più alta è la percezione dei rischi presenti nell’ambiente, fino al paradosso funzionale che spinge il gruppo a “produrre” i propri nemici, interni od esterni, proprio per esigenze di auto-identificazione e di rassicurazione. La richiesta di sicurezza, esattamente come l’offerta di protezione, include sempre la designazione di soggetti o gruppi “contro” i quali si chiede o si offre la prestazione di “riduzione della paura”: essa ha quindi sempre, necessariamente, una valenza parzialmente esclusiva e discriminante»112. Nell’epoca globale è arduo e complesso cercare di “governare” la pau113 ra percepita e vissuta come insicurezza individuale e collettiva e che, per converso, pone la complessa questione della richiesta di sicurezza avanzata agli attori istituzionali ad ogni livello. Nel XXI secolo, a tre secoli e mezzo di distanza dalla originaria riflessione hobbesiana sulla paura, ci ritroviamo dunque «a fare i conti con la questione del governo della paura» (GPEG, 50): nella rappresentazione «paranoica» del nostro presente, la realtà risulta percepita «quasi esclusivamente lungo l’asse paura-sicurezza», da questa rappresentazione, certamente «seminale per il discorso della modernità politica occidentale» (ibid.), dipende non soltanto il valore strategico dell’ermeneutica della società contemporanea, ma traduce altresì la riflessione sui concetti di paura, rischio, sicurezza, una riflessione cruciale sui «nuclei fondanti i metodi di convivenza e di governo delle società» (ivi, 51), non solo entro ma anche oltre l’Occidente, ovvero a livello planetario. Storicamente, com’è noto, nell’elaborazione del paradigma politico della modernità, come sintetizza Maria Laura Lanzillo, «la paura, il rischio della morte, la diffidenza nei confronti dell’“altro”, di ciò che si oppone e quindi genera inquietudine e insicurezza, connotano tanto il modello politico ra112
Ivi, p. 28. Cfr. R. Escobar, Le metamorfosi della paura, il Mulino, Bologna 20072 e Id., Paura e libertà, cit.; Z. Bauman, Paura liquida, tr. it., Laterza, Roma-Bari 2008; G. Silei, Le radici dell’incertezza. Storia della paura tra Otto e Novecento, Pietro Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma 2008; M.L. Lanzillo, Il governo della paura nell’epoca globale, in «Cosmopolis», n. 2, 2008, pp. 49-58 (d’ora in poi GPEG); E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, cit.; AA.VV., Paure globali, a cura di Censis e Fondazione Roma, Laterza, Roma-Bari 2009; L. Svendsen, Filosofia della paura. Come, quando e perché la sicurezza è diventata nemica della libertà, tr. it. di E. Tetrarca, Castelvecchi, Roma 2010; AA.VV., Paura, in «Filosofia politica», n. 1, 2010, pp. 3-86; R. Escobar, La paura del laico, il Mulino, Bologna 2010. 113
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zionalistico giusnaturalista, che pensa lo Stato come una costruzione artificiale, quanto quello hegeliano» (GPEG, 53), che pone, come ha dimostrato Kojève114, «la lotta e la morte, con la figura centrale della Fenomenologia dello spirito della lotta per il riconoscimento fra il servo e il signore e la paura della morte, quale snodo centrale sia nel processo di formazione dell’autocoscienza sia nel riconoscimento reciproco degli Stati quali “totalità etiche”» (GPEG, 53). Di fatto, il pensiero politico moderno, – che pure «si fonda sulla ricerca di una pacifica e stabile convivenza fra gli uomini, sulla necessità di ordinare il caos della natura» – risulta comunque percorso nel suo sviluppo diacronico «dal rapporto con la violenza, con l’abisso: rapporto che viene di volta in volta celato (ed è il caso delle ideologie liberali) o svelato nella sua radicalità (Hobbes, Hegel e, evidentemente, Nietzsche), e che, tuttavia, rimane l’infondato rapporto fondante di tutta la costruzione statuale moderna, il cui spazio politico, in quanto spazio che si autolegittima come spazio di sicurezza, è fondato sull’esclusione dell’originaria molteplicità passionale degli individui che, come insegna Freud, perturba, fa paura, provoca insicurezza» (ibid.). E oggi? Anche la nostra epoca globale è attraversata e dominata da quella che Bauman ha definito paura liquida. Il fatto è che nel tempo presente «il ritorno della paura come elemento costituente la percezione delle relazioni sociali, dell’ambiente che ci circonda, del futuro, segnala di nuovo, come all’epoca di Hobbes, che un orizzonte politico e epistemologico è in profonda crisi» (ivi, 54). Ciò che soprattutto riaffiora nelle pieghe drammatiche del nostro presente, «nella mondializzazione del mondo e nella spazialità liscia della globalizzazione», è principalmente la questione dell’alterità, che, come un “gioco di specchi”, nella sua retro-effettualità, interagisce con le rappresentazioni del sé e con il riconoscimento-misconoscimento appunto dell’altro/a115. Nella storia della filosofia politica tale questione attraver114
Cfr. A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, tr. it. di P. Serini, Einaudi, Torino 19912. Sulla lettura di Kojève della fenomenologia hegeliana, cfr. G. Jarczyk, P.-J. Labarrière (a cura di), De Kojève à Hegel. Cent cinquante ans de pensée hégélienne en France, Albin Michel, Paris 1996; R. Dati, Alexandre Kojève interprete di Hegel, La Città del Sole, Napoli 1998; v. inoltre M. Manfredi, Alle radici della soggettività, in Id., Teoria del riconoscimento. Antropologia, etica, filosofia sociale, Le Lettere, Firenze 2004, p. 61 sg. Per una presa di posizione critica nei confronti della teoria del riconoscimento hegeliana, cfr. T. Todorov, La vita comune. L’uomo è un essere sociale, tr. it., Pratiche Editrice, Milano 1998, p. 41 sg. Sul pensiero filosofico di Kojève, cfr. M. Vegetti, La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Jaca Book, Milano 1999; G. Barberis, Il regno della libertà. Diritto, politica e storia nel pensiero di Alexandre Kojève, Liguori, Napoli 2003; M. Filoni, Il filosofo della domenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 115 Cfr. B. Henry, Gioco di specchi. Rappresentazioni del sé e dell’altro/a, in A. Pirni (a cura di),
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sa «in modo carsico» tutte le teorie politiche succedutesi nel corso storico dell’Occidente e che sempre riemerge soprattutto nei periodi di crisi e di rottura. Nell’epoca globale anche la paura-si-fa-globale, pervadendo di sé tragicamente l’inefficacia delle pratiche politiche nel produrre e progettare “ordine e sicurezza” se non tramite l’esercizio della guerra, della violenza «continua, ossessiva, indiscriminata e, ormai, “normale” e normalizzata contro tutto ciò che fa paura» (GPEG, 56). Anche il nostro futuro, che è già il nostro presente, sembra essere ricaduto, dopo la paura originaria che innerva lo stato di natura, nella «sicurezza della paura» (ibid.). una ossimoricità ambigua e ambivalente che diventa cifra e misura dello scenario globale in cui, come rileva criticamente Elena Pulcini, proprio dall’insicurezza che lo permea «ha origine una cultura della paura che sembra accomunare in un abbraccio mortale»116. In questo scenario – che radicalizza patologicamente forme distruttive e degenerative del conflitto che sfocia in ostilità e si traduce in reciproca volontà di annientamento anche attraverso forme arcaiche e primordiali di crudeltà e di violenza che ineludibilmente ripropongono con forza il problema della sopravvivenza – , l’insicurezza «da un lato legittima la fuga degli individui verso forme di isolamento autodifensivo e il bisogno regressivo di tutela e di ordine; dall’altro autorizza la politica degli Stati a usare la paura per colmare la propria impotenza di fronte alle sfide globali, e ne provoca la progressiva riduzione a una “questione d’ordine pubblico” (Bauman)»117. Ne consegue che tutto ciò produce allo stesso tempo «un’erosione della libertà e un’incapacità di responsabilità da parte di individui ridotti ad atomi separati e reciprocamente indifferenti, preoccupati soprattutto della propria immunità e del proprio benessere immediato; individui pronti ad assoggettarsi al potere effimero del consumo e delle sue seduzioni massmediali e a disertare la sfera pubblica per soddisfare il proprio edonismo»118. Nel contingente, lo scenario globale appare dunque caratterizzato dalla radicalizzazione di due tendenze prevalenti: «dalla coesistenza ambivalente di estraneità e indifferenza da un lato e di violenza e conflittualità dall’altro», che, sia sul piano individuale che politico, non fanno altro che evocare un «ritorno della paura», una paura che ha una funzione spesso intimidatoria, paralizzante e spoliticizzante e che finisce inevitabilmente nel legittimare il ruolo autoritario
Logiche dell’alterità, ETS, Pisa 2009, pp. 103-124. 116 E. Pulcini, Passioni e politica, in AA.VV., Che cos’è la politica?, Meltemi, Roma 2008, p. 113. 117 Ivi, pp. 113-114. 118 Ivi, p. 114.
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della politica, la quale «torna a porsi come garante della vita senza tuttavia essere più in grado di tutelarla»119. Oggi, la percezione diffusa sia a livello individuale che collettivo è quella riflessa specularmente dall’immagine stereotipica dominante ed emblematica che caratterizza la condizione globale contemporanea come vivente in un sistema sociale, condizionato in ogni aspetto della sua quotidianità e della sua organizzazione interna, che avverte sempre più il bisogno, reale o presunto che sia, di difendersi da una minaccia proveniente dall’esterno. È come se il Nemico avesse già vinto ancora prima di combattere. un nemico c’è sempre, e, se non ci fosse, brechtianamente, «bisogna inventarlo». Tutto ciò determina l’ordine delle nostre priorità e condiziona profondamente le nostre forme di vita, influenzando le nostre grammatiche valoriali, le nostre categorie culturali, l’agenda politica, la condizione intersoggettiva e normativa nel tempo della globalizzazione. La paura del nemico, come osserva Borrelli, serve da pretesto per tentare di dare «un senso alla vita»120. Nella nostra forma di vita, il nemico si configura in realtà come «la nostra ossessione del nemico», nel tentativo reiterato «di costruire e sostanzializzare la nostra identità come un’identità isolata, da salvaguardare e da difendere ad ogni costo» (MCS, 24). Scopriamo in noi stessi «il nostro peggior nemico» non solo ogni qual volta che «ipostatizziamo e feticizziamo le nostre tradizioni come se fossero altrettanto sacre e inviolabili fortezze», ma anche quando rivendichiamo ed esasperiamo le nostre differenze culturali nei confronti degli altri cercando di resistere «alle affascinanti ma misteriose seduzioni dell’alterità» (ibid.). Oggi, come spiega il filosofo politico Roberto Escobar in Paura e libertà, gli «imprenditori del consenso», i grandi semplificatori, applicano schemi narrativi, attraverso la macchina della paura (giornali e televisioni), per configurare, nel mercato della politica, la morfologia degli altri come la questione della sicurezza, che si rivolge al «pubblico dei cittadini». Quest’ultima espressione, apparentemente trasparente, è in realtà la risultante di una commistione fra una dimensione individualistica (cittadini) e una olistica (pubblico) (cfr. PL, 10). Questo pubblico dei cittadini, nella logica dell’imprenditore del consenso, deve essere indotto a «consumare sicurezza». Dunque, in un certo senso, gli «oligopolisti del mercato politico» devono produrre paura e odio allo scopo di produrre consenso e voti, più dei loro concorrenti. Tutto ciò non deve farci dimenticare quanto ricade nelle mani della delinquenza organizzata, della criminalità finanziaria, oppure nella precarietà del lavoro e della sicurezza 119 120
Ivi, p. 115. Cfr. D. Borrelli, Il mondo che siamo, Liguori, Napoli 2008, p. 23 (d’ora in poi MCS).
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sociale. La dimensione virtuale, simbolica e mediatica gioca in questo campo la sua parte rilevante. Se il fine è il consenso, il mercato deve poter svolgere la sua mansione. La partecipazione e/o il silenzio delle coscienze riflette specularmente le dinamiche e le metamorfosi del mondo normativo e della lotta per il riconoscimento, quindi, della libertà e dei diritti umani e civili. È un fatto. C’è la «gestione della paura» e dell’odio, ma c’è anche disponibilità all’obbedienza e di consegnarsi al potere da parte di uomini e donne. Qui, la filosofia politica, anche come sapere critico che non sia in grado di decifrare queste metamorfosi della paura, comprende che il sapere che non sa trasformarsi diventa indubbiamente un sapere infelice121, perché non vede e non coglie il punctum, la fatalità che punge, che ferisce o ghermisce, come direbbe Roland Barthes122. Il filosofo politico non può «chiudere gli occhi», neppure presupponendo che ci sia un “velo” d’ignoranza all’origine della condizione umana, se non vuole che il pensiero rischi di intrattenere un pericoloso rapporto con il potere. Il filosofo come filosofo politico, avendo a che fare con i problemi che il nostro presente ci pone, sa che nelle loro interazioni reciproche gli individui umani negoziano reciproche posizioni di potere123. In altrettanto modo, il filosofo politico sa che, di fatto, «ogni qualvolta il potere marchia il pensiero, quest’ultimo cede come una cera molle e viene sopraffatto da qualcosa che gli è estraneo e in ultimo nemico» (EC, 300). Come dice Elias Canetti; «soltanto il sapere che esita conta»124. Si può sottrarre il pensiero alla presa del potere? Nel mondo dei weberiani «specialisti senza intelligenza», non possiamo non porci tali questioni, proprio perché, per citare ancora Canetti, «l’ignoranza non deve impoverirsi con il sapere»125: se la verità non si possiede, non si trattiene, ciò non attesta la sua inesistenza: «la verità arriva come un temporale, lava via le menzogne e in ciò si dissipa a propria volta» (EC, 301): «La verità che non si trasforma in qualcos’altro è terrore e annientamento»126. La verità, spesso, è la legittimazione della politica. C’è una 121 Cfr. E. Canetti, La tortura delle mosche, tr. it., Adelphi, Milano 1993 (cap. I). Sull’argomento, cfr. A. Mubi Brighenti, Elias Canetti. Le voci del diritto, in G. Campasi, I. Pupolizio, N. Riva (a cura di), Diritto e teoria sociale, Carocci, Roma 2009, p. 298 (d’ora in poi EC). 122 Cfr. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it., Einaudi, Torino 1980. A tal proposito, cfr. A. De Simone, La scrittura del visibile: che cosa c’è al di là dell’immagine? Roland Barthes e l’enigma della fotografia, in A. De Simone (et. al.), Oltre l’immagine. Transiti contemporanei tra arti e filosofie, Milella, Lecce 2004, pp. 301-329. 123 Cfr. F. Monceri, Pensiero e presente. Sei concetti di filosofia, ETS, Pisa 2007, p. 21. 124 E. Canetti, Un regno di matite, tr. it., Adelphi, Milano 2003, p. 39. 125 E. Canetti, La provincia dell’uomo. �uaderni di appunti 1942-1972, in Id., Opere, vol. I, cit., p. 1600. 126 E. Canetti, La tortura delle mosche, cit., p. 142.
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relazione stretta tra verità-potere-soggetto che possiamo ripensare anche attraverso Foucault, il quale non a caso ha scritto: «La verità non è al di fuori del potere […]; la verità è di questo mondo; essa vi è prodotta grazie a molteplici costrizioni […]; c’è in ogni società un regime di verità e una politica generale della verità […]. Per verità io non intendo “l’insieme delle cose vere da scoprire o da far accettare”, ma “l’insieme delle regole secondo le quali si distingue il vero dal falso e si attribuiscono al vero degli effetti specifici di potere”»127. Il pensiero si deve abbandonare al mondo? Deve diventare chiunque, senza condizioni e reciprocità? Il filosofo (anche quello politico) deve essere il segugio del proprio tempo senza alcuna indulgenza? Oppure, deve puntare all’universale? Oppure, ancora, deve opporsi contro il proprio tempo nella sua interezza? (cfr. EC, 303). Trasformarsi, sappiamo, appartiene all’essere umano e alla sua vulnerabilità: trasformarsi significa anche rimanere «impigliati negli altri» (ivi, 304). Le persone temono le metamorfosi: esse vivono nella paura di essere «toccate e contaminate dall’ignoto». Ma se l’individuo inchiodato a se stesso è bloccato, solo la metamorfosi «può rendere conto della vita» (ivi, 305). Elias Canetti nel suo chef-d’œuvre che è anche il libro della sua vita, Massa e potere128, ha spiegato che il rapporto tra dell’uno con il molteplice racchiude il fenomeno umano fondamentale: la metamorfosi129. Per Canetti, «non è attraverso il dominio, ma con la metamorfosi – piacere e dono originario dell’umanità – che l’uomo è diventato umano […]; ma la metamorfosi non separa l’uomo da tutto il resto»130. Nelle sue molteplici accezioni di significato e pur essendo un fenomeno interno che si compie attraverso il suo corpo e caratterizzante altresì sia i fenomeni del potere sia i fenomeni della massa, per l’uomo la metamorfosi «è un fenomeno totale, ma non definitivo»131. Manuel Castells in Comunicazione e potere a proposito del cambiamento ha scritto: «Il cambiamento, sia esso di tipo evolutivo o rivoluzionario, è l’essenza della vita. Al punto che lo stato di immobilità per un essere vivente equivale alla morte. Questo vale anche per la società Il cambiamento sociale è multidimensionale, ma in ultima analisi dipende da un cambiamento di mentalità, sia per gli individui sia per la collettività. Il modo in cui sentiamo/pensiamo determina il modo in cui agiamo. E i 127 Intervista a Michel Foucault, di A. Fontana e P. Pasquino, in M. Foucault, Microfisica del potere, tr. it., Einaudi, Torino 1977, p. 25. 128 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit. 129 Cfr. ivi, pp. 407-465. 130 Y. Ishaghpour, Elias Canetti. Metamorfosi e identità, tr. it. di S. Pietri, a cura di A. Borsari, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 115. 131 Ivi, p. 116.
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mutamenti nel comportamento individuale e nell’azione collettiva esercitano una graduale ma inevitabile azione di cambiamento sulle norme e le istituzioni che strutturano le pratiche sociali»132. Tuttavia, «le istituzioni sono cristallizzazioni di pratiche sociali relative a momenti storici anteriori, e queste pratiche hanno le loro radici nelle relazioni di potere. Le relazioni di potere sono insite in istituzioni di ogni sorta. Queste istituzioni risultano dai conflitti e dai compromessi tra attori sociali, che realizzano la costituzione della società in base ai loro valori e interessi. Quindi, l’interazione tra mutazione culturale e cambiamento politico produce il cambiamento sociale»133. Il mutamento culturale «è il cambiamento di valori e convinzioni elaborato nella mente umana su una scala sufficientemente ampia da interessare la società nel suo insieme»; mentre, il cambiamento politico «è l’adozione istituzionale dei nuovi valori che si diffondono attraverso la cultura di una società»: inutile dire, dunque, che non solo «nessun processo di cambiamento sociale è generale e istantaneo»134, ma, in termini analitici, «non può esserci un giudizio normativo sulla direzionalità del cambiamento sociale»135. Nella costante e continua lotta contro la morte, si può vivere senza paura? Fra tutte le cose umane, “troppo umane”, alla paura è riservato «un posto di rilievo». Non si è uomini e donne «se non si è in grado di ridere e di piangere, e lo si è ancora meno se non si conosce la paura» (PL, 15). La nostra misura è anche la dismisura. La paura è il fuori. Ma, dove mai è il fuori? Di questo luogo spaesante, ne conosciamo il senso? Il problema, quindi, è la paura come «spaesamento», come «perdita del paese», del proprio mondo quotidiano, della propria esistenza in esso. Ci si può chiedere: che rapporto c’è tra paese e spaesamento? Perdere il paese significa perdere la dimora esistenziale, lo spazio domestico definito e reso significante dal suo centro simbolico (la casa). Questa assenza preclude ad un futuro «indefinito e indefinibile, inquietante», che minaccia ogni possibile presente. Così non c’è più alcun tempo esistenziale: «non c’è più alcun oggi, non uno ieri che lo radichi e modelli, né un domani la cui promessa lo rassicuri e sorregga» (ivi, 19). Smarriti dal centro, siamo gettati fuori dal mondo, nel mondo. Il fuori ritorna: essere espulsi dalle patrie esistenziali, essere gettati, respinti altrove, oltre, allontanati. Ritorna lo spaesamento, al di là dello spazio domestico:
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M. Castells, Comunicazione e potere, tr. it. di B. Amato e P. Conversano, università Bocconi Editore, Milano 2009, p. 379. 133 Ibid. 134 Ibid. 135 Ivi, p. 381.
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siamo fuori dalla «porta», dalle «porte». Non siamo né in casa né a casa. Siamo alle porte. L’immagine del fuori è quella dell’altrove, di un dove che non ci si mostra per se stesso, ma solo come altro. Ancora una volta inquietudine, curiosità di spaesamento e d’oltrepassamento ritornano. Ma, nel mondo globale, c’è un diverso ulteriore? I processi di globalizzazione che connotano le morfologie del contemporaneo, come spiega l’antropologo Arjun Appadurai, generano una geografia culturale deterritorializzata e declinano forme nuove e fluide di configurazioni diverse di universi simbolici e di mondi immaginati136. Probabilmente sono proprio queste condizioni che, secondo Borrelli, ci consentono di comprendere perché «ci possono risultare fatalmente nemiche, autoimmunitarie e ormai non più adattive proprio quelle strategie di protezione e blindatura dell’identità su cui si è basato e retto l’equilibrio culturale e politico della modernità» (MCS, 25). Le categorie interpretative inerenti la perturbante figura dello straniero, dell’estraneo, costantemente fatta oscillare anche nel pensiero eticopolitico e filosofico contemporaneo137 tra amicizia e inimicizia, ostilità e ospitalità, tra il nemico da rifiutare e combattere e l’estraneo da ricevere, accogliere o respingere, nella condizione globale si modificano rispetto a quelle della modernità non solo per quanto concerne la dimensione dell’universo politico ma anche per la stessa posta in gioco rappresentata dalla nostra sicurezza e incolumità fisica. Non solo il potere politico contemporaneo sembra autocomprendersi e legittimarsi quasi esclusivamente «sulla base dell’asserita capacità di garantire sicurezza», ma, nel momento in cui la globalizzazione dei flussi culturali «ha dissolto l’idea di popolo come entità organica, rilanciato la possibilità della moltitudine come forma di vita associata e reso obsolete le frontiere fra interno ed esterno dei gruppi sociali», la sicurezza di fatto «non può più essere concepita in termini di eliminazione della paura dell’altro in quanto esterno o potenzialmente nemico, non foss’altro perché è venuto meno proprio questo presupposto dell’essere altro e altrove del nemico» (MCS, 27). La sicurezza poteva essere considerata come «esenzione dalla cura dell’altro, dello straniero (sine cura appunto) finché l’idea di cittadinanza ha funzionato come l’unica forma di vita associata» (ibid.). Oggi, invece, è possibile ritenere che la «scommessa sulla sicurezza» d’ora in poi «non si giocherà più verosimilmente sul proteg136 Cfr. A. Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, tr. it., Melterni, Roma 2001. 137 Cfr. C. Resta, L’estraneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, Il nuovo Melangolo, Genova 2008; u. Curi, Straniero, Raffaello Cortina, Milano 2010.
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gersi dalla cura, dalla paura e dallo choc che proviene dall’alterità, bensì proprio sull’esporsi all’inquietudine della differenza e sul prendersi cura dell’altro» proprio perché «è diventato parte insopprimibile di noi stessi» (ibid.): un’alterità che vive «fra noi ed in noi». Il problema c’è. Esso può essere declinato con l’interrogativo seguente: ci si può rinchiudere soltanto nel luogo chiuso della sicurezza? Secondo Escobar, «quel che essa produce è la rifondazione dello spazio simbolico, il rafforzamento del legame con il suo centro» (PL, 22). Ogni inquietudine dell’altrove, ogni impazienza d’oltrepassamento, «mette anche a tacere ogni inquietudine e impazienza di trovare una nuova patria e istituire un nuovo centro» (ibid.). Curiosità e/o paura costituiscono un rapporto dilemmatico. Ogni epoca storica, attraverso i secoli, non solo ha le sue paure, ma elabora altresì le sue strategie di risposta e di risoluzione della paura. Nelle metamorfosi della paura si trasfigura anche la sofferenza creatrice «d’un potente desiderio d’altrove». Ma, che rapporto c’è tra paura e curiosità, tra bisogno umano di sicurezza e dismisura del desiderio umano d’altrove? E, in che modo tutto ciò entra nel campo della teoria politica? Democrito diceva che l’animale «sa la misura di ciò che gli bisogna», mentre l’uomo «ha bisogno e non conosce la misura». È dunque l’assenza di misura che fa del desiderio umano un desiderio propriamente umano? Secondo quanto sostenuto dall’antropologia filosofica novecentesca, ed in particolar modo da Arnold Gehlen138, l’uomo non è soltanto l’unico essere che possiede l’idea di morte, ma è anche il solo essere vivente «aperto al mondo» ma povero di istinti, incompleto e inadeguato nella sua costituzione organica, anche se caratterizzato da una costitutiva mobilità e plasticità: «non c’è in lui una corrispondenza istintiva fra stimolo e comportamento, fra bisogno e soddisfacimento» (PL, 23). A questo suo desiderio senza oggetto (comunque inappagabile e indeterminabile), l’uomo cerca di rispondere «con una finzione inconsapevole»: «imitando, rappresentando lo stimolo che ha innestato il bisogno-di-far-qualcosa» (ivi, 24). Sullo sfondo di tutto 138 Cfr. A. Gehlen, L’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. di C. Mainoldi, intr. di K.-S. Rehberg, Feltrinelli, Milano 1983; Id., Prospettive antropologiche. L’uomo alla scoperta di sé, tr. it., il Mulino, Bologna 1987; Id., Le origini dell’uomo e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici, tr. it., il Saggiatore, Milano 1994. Su Gehlen, cfr., tra gli altri, M.T. Pansera (a cura di), Il paradigma antropologico di Arnold Gehlen, Mimesis, Milano 2005; V. d’Anna, L’uomo fra natura e cultura. Arnold Gehlen filosofo moderno, CLuEB, Bologna 2001; M. Lo Russo, I corpi e le istituzioni. Studio su Gehlen, Palomar, Bari 1996; u. Fadini, Il corpo imprevisto. Filosofia, antropologia e tecnica in Arnold Gehlen, FrancoAngeli, Milano 1988; F.G. Di Paola, La teoria sociale di Arnold Gehlen, FrancoAngeli, Milano 1983.
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ciò, c’è, dunque, un teatro sociale del nostro agire. Attorno a questo agire si struttura la coscienza di sé del singolo e quella del gruppo, insieme con l’appartenenza politica. L’effetto è quella di contenere, domesticare, trasfigurare la paura individuale in sicurezza collettiva. Qui, «il conflitto non è causato dall’oggetto del desiderio, al contrario, è il conflitto che produce il desiderio dell’oggetto» (ibid.). Ma, come si esce da questo disordine distruttivo? Dal caotico “niente” mortale? Con un uccisione collettiva, autoannientatrice? Le istituzioni sono le “protesi” artificiali che la cultura escogita in sostituzione degli istinti e a cui gli uomini affidano la propria sicurezza e la propria fragile e precaria libertà dalla paura139. Le istituzioni e lo stato non sono pensati come eliminazione della (e dalla) paura: la nostra paura con essi non scompare. Al contrario, si istituzionalizza: non più disordinata e reciproca, ma ormai ordinata e comune, «securizzata» (PL, 25). Di fatto, da un lato, «i confini del luogo comune rendono la paura certa: in questa certezza della paura consiste la sicurezza che ci è garantita nello spazio simbolico e politico, nel loro sistema chiuso e rassicurante di cose e persone, d’abitudini e significati» (ibid.). Dall’altro, insieme con «il centro simbolico che li illumina», trovano fondamento e conferma proprio nella «minaccia del niente». Tutto ciò ci fa vivere nel «totalitarismo del qui», che, con «sospetto di crisi», ci spinge ad immaginare «d’essere gettati nel niente che sta oltre le porte, nel vuoto dell’altrove». Perciò corriamo sempre a ritroso verso il “campanile”. Ma cosa ci spinge comunque a non fermarci alle porte e a costruire simmelianamente “ponti”, a metterci in cammino? (cfr. ivi, 27). Camminare è tra le attività più “ovvie” dell’umano, in cui si manifesta pur sempre il suo essere animale precario, animale che rischia. Quando camminiamo, non sono le gambe che ci «portano». Il nostro procedere non è lineare né continuo. Avanziamo cadendo. Il cammino è un succedersi di «cadute 139
Per spiegare cosa siano e a che servano le istituzioni, Gustavo Zagrebelsky scrive: «Il genere umano ha scoperto le istituzioni per mettere a freno l’aggressività e l’istinto di sopraffazione che allignano – in uno più, in altro meno – in ognuno di noi, per diffondere fiducia e cooperazione, garantire un po’ di stabilità e sicurezza nelle relazioni umane e proteggere quel tanto di libertà che è compatibile con la vita associata. In una parola: per allontanare sempre di nuovo […] le “prove di forza” che accompagnano […] i contatti tra gli esseri umani. Le istituzioni servono innanzitutto a questo: a neutralizzare i nostri istinti distruttivi e a civilizzarci. Poiché nel fondo siamo animali selvatici, possiamo anche dire: servono ad addomesticarci, incanalando e indirizzando le nostre energie in strutture, procedure, garanzie e controlli, così trasformandole, da distruttive, in costruttive di opere durature» (in «La Repubblica», 15.10.2009). Dunque, conclude Zagrebelsky, «senza istituzioni, tutto diventa possibile». Sul significato, il ruolo e le funzioni delle istituzioni, cfr. I. Colozzi, Sociologia delle istituzioni, Liguori, Napoli 2009.
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iniziate e interrotte»: avanziamo «cadendo». Passo dopo passo arrischiamo, osiamo «proiettarci in avanti», confidando nella nostra capacità di eludere «il niente della caduta». Il cammino ci consente di non essere «spazzati via dall’esistenza». Con la posizione eretta, infatti, abbiamo «scelto di rischiare»; abbiamo dovuto «scegliere il rischio»; affrontare l’ignoto, perciò «la debolezza si trasfigura anche in audacia». Quando camminiamo ci «proiettiamo»: siamo dunque esseri che «progettano», siamo cioè costretti a tentare di dominare il futuro e, progettando il futuro, progettiamo e costruiamo la realtà adeguandola a sé, e insieme progettiamo e costruiamo noi stessi adeguandoci alla realtà. Il cammino, quindi, è la metafora della condizione umana e anche il suo azzardo necessario. Noi non sappiamo cosa ci aspetti al di là, altrove, oltre le porte; non sappiamo neppure se riusciremo, come tanti ulisse, a tornare, ma continuiamo come «naviganti» in un mare infinito, costretti come siamo a rischiare e scegliere sempre e comunque, altrimenti «non avremo luoghi in cui vivere» (ivi, 28), soprattutto oggi, agli inizi del XXI secolo, un tempo in cui gli individui individualizzati avvertono l’impossibilità di trovare una soluzione biografica alle contraddizioni sistemiche della globalizzazione, in cui ci si sente costretti a vivere in un mondo del rischio, nel quale «il sapere e le opportunità di vita sono diventati, in linea di principio, incerti», e ci si sente di vivere in una cultura dell’immediatezza che, come dice ulrich Beck nel suo libro Der eigene Gott (2008), non solo «impone un riflesso spontaneo dove prima era forse possibile la riflessione»140, ma dove «tutto diventa e agisce senza distanza, a fior di pelle, tutto deve essere immediato, senza indugio, subito respinto, escluso, arginato»: dove, cioè, «lo stato di eccezione» è diventato banalmente la norma, ma anche dove, a partire da un realismo che mira alla conservazione e cura del mondo, «bisogna includere l’alterità esclusa per sopravvivere»141. L’uomo è viator: come animale che pensa è anche animale che cammina e che fa esperienza del mondo come viandante. Oltre che attività fisica e simbolica, espressa con il corpo, il camminare come metafora dell’esistenza è qualcosa di consustanziale all’essere uomini: nell’azione del camminare i viandanti plasmano lo spazio umano nel quale prende forma anche il pensiero. Misurando il mondo con i suoi passi, il viandante si inscrive nella dimora terrestre e disegna lo spazio etico dell’incontro con l’altro142. 140 Cfr. u. Beck, Il Dio personale. La nascita della religiosità secolare, tr. it. di S. Franchini, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 153. 141 Ivi, p. 243. 142 Cfr. AA.VV., Pensieri viandanti. Antropologia ed estetica del camminare, a cura di I. Testa,
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Come il cammino, l’erranza è dunque un principio che vale in tutti campi della vita. Come dice lo scrittore Édouard Glissant, l’autore, tra l’altro, di Poetica della relazione143 e di Tutto-mondo144, «ogni realtà è un arcipelago; vivere […] significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria. La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturarmi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra […]. Ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita». Bisogna vivere con l’altro, anche se ciò non esclude di fatto il diritto di ognuno all’opacità, dal momento che ogni esistenza, avendo un fondo complesso, non può e non deve essere attraversata da una «conoscenza totale». Detto altrimenti, vivere con l’altro significa anche accettare «di non poterlo capire a fondo e di poter essere capiti a fondo da lui»145.
Diabasis, Reggio Emilia 2008; AA.VV., Pensieri viandanti. L’etica del camminare, a cura di I. Testa, Diabasis, Reggio Emilia 2009. 143 Tr. it. di E. Restori, Quodlibet, Macerata 2007. 144 Tr. it. di G. Colotti, Edizioni Lavoro, Roma 2009. 145 É. Glissant, Vivere significa migrare: ogni identità è una relazione, conversazione con C. Magris, in «Corriere della sera», 1.10.2009.
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5. Individualità, reciprocità, riconoscimento e dono Tra Simmel, Honneth, Caillé e oltre Non tutto nell’individuo è individuale Carlo Ginzburg L’uomo è una relazione, non nel senso che egli è in relazione con, oppure intrattiene relazioni con: l’uomo è una relazione, più specificamente una relazione con l’essere (ontologico), con l’altro. Luigi Pareyson La totalità sociale non preesiste agli individui (e viceversa), per la semplice ragione che gli uni e gli altri, come la loro posizione rispettiva, si generano incessantemente attraverso l’insieme delle interrelazioni e delle interdipendenze che li legano. Alain Caillé
Nelle morfologie sociali e nelle topografie politiche del contemporaneo che caratterizzano i processi democratici, nel conflitto inevitabile delle interpretazioni, di fatto è possibile assumere una gamma di atteggiamenti e di riflessioni di fronte alla realtà che si proiettano specularmente sul destino della vicenda umana. Ognuno, col proprio “modulo” narrativo cerca di interpretare lo stato di cose esistenti per cercare di dare un senso a questo “magma” che continuamente ribolle. Un nucleo problematico di senso, e il momento agonico conflittuale che sempre lo accompagna, connotano le specifiche esperienze dell’individualità personale storicamente intesa e collocata nell’interazione intersoggettiva e nella rete di rapporti e di relazioni tra la totalità sociale e i singoli. Una teoria critica della configurazione sociale e personale dell’identità individuale e della società del riconoscimento capace di presentare il soggetto come unità dinamica tra individualità e intersoggettività, tra singolarità e molteplicità, è quanto dev’essere discusso in quest’ultimo capitolo
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L’INQUIETO
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di questo volume, muovendo da Simmel per procedere oltre Simmel e attraversando alcuni percorsi della filosofia sociale e politica e della teoria sociale contemporanee che hanno affrontato il rapporto tra homo oeconomicus, homo reciprocans e homo donator.
5.1. Theatrum vitae humanae, ovvero recitare l’essere umano. Per cominciare… da Pirandello a Simmel e ritorno L’intentio recta in questo capitolo è quella di voler discutere la tensione dialettica tra individualità e soggettività1 nelle dimensioni antropologiche, sociali e politiche della vulnerabilità e conflittualità che marcano la contemporaneità a partire da alcune riflessioni di Simmel, di Axel Honneth e delle sue propaggini critiche contemporanee. Tuttavia, il rischio implicito nel ventaglio delle interpretazioni possibili quivi accennate è sempre e comunque quello di marca pirandelliana e personificata nelle riflessioni esemplate ne Il fu Mattia Pascal, per il quale, come è noto, la differenza tra la tragedia antica e quella moderna, consiste in un «buco nel cielo di carta»: Beate le marionette su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato2. 1
Nel tentativo di cercare una corretta collocazione dei due termini (individualità e soggettività) in filosofia e in sociologia, sia pure attraverso la mediazione e la ricostruzione critica del paradigma antropologico di Th.W. Adorno, Vincenzo Rosito suggerisce di adottare uno schema filosofico e teorico-sociale concettuale interconnesso con il quale si possa intendere per individualità «non solo la forma personale dell’identità, ossia la peculiarità dell’uno/singolo rispetto alla totalità sociale, ma anche la potenzialità che l’individuo ha di sviluppare le proprie e particolari capacità, a partire dalla relazione tra la sua singolarità e la molteplicità in cui vive»; mentre, con il termine soggettività, «lo sviluppo sociale e la realizzazione pratica delle potenzialità personali, nonché delle qualità racchiuse nella forma dell’individuale». Potremmo così dire che «l’individualità esprime la potenzialità sociale di definire, riconoscere e identificare oggettivamente una determinata persona, la soggettività, invece, esprime concretamente lo sviluppo e la realizzazione riflessiva e personale della precedente potenzialità […]. Se quello di individuo è uno status socialmente evidente e necessariamente indubitabile, quello di soggetto è un insieme di azioni che interpella e richiede le capacità volitive e poetiche del singolo» (V. Rosito, Espressione e normatività. Soggettività e intersoggettività in Theodor W. Adorno, Mimesis, Milano 2009, p. 2). Sull’antropologia adorniana della vita individuale, cfr. Th.W. Adorno, La crisi dell’individuo, a cura di I. Testa, Diabasis, Reggio Emilia 2010. 2 L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Mondadori, Milano 1988, p. 137.
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Nella paradossalità della fabula e della recita, la densità “filosofica” della metafora del «buco nel cielo di carta» mira a sottolineare la conflittualità, la frattura, la dissonanza e la frammentazione della condizione umana, la quale dallo strappo nel cielo di carta del teatrino ricava non solo la consapevolezza del proprio essere e agire, ma scopre altresì anche la convenzionale falsità sempre di quel «cielo di carta»3. Nella “scintilla del presente”, come per Pirandello, noi agiamo paradossalmente sulla scena psichica drammaturgica e/o comica in cui come attori sociali siamo contemporaneamente “uno, nessuno, centomila”. Con Pirandello si assiste al disincanto di una visione del mondo coerentemente “nichilista”: se l’uno è illusorio, se centomila è soltanto il numero di un repertorio di maschere sociali, allora inevitabilmente si è nessuno4. La logica delle passioni e la logica della ragione ci rendono, nella personalità e nell’anima individuale, homo duplex5. Ha scritto Simmel: «Noi non soltanto facciamo cose cui siamo spinti dalle sollecitazioni esterne della cultura o dai colpi del destino, ma inevitabilmente rappresentiamo anche qualcosa che non siamo effettivamente»6. In questo senso, tutti gli esseri umani sono “attori”, per quanto frammentariamente, dal momento che «la vita culturale mostra ovunque la forma per la quale l’individuo, senza falsità o ipocrisia, mette in atto una metamorfosi della propria esistenza inserendola in una struttura preesistente, che certo si nutre delle energie di quella vita, ma non ne è espressione. Accettare tale struttura – per quanto estranea essa sia – può senz’altro caratterizzare la natura individuale, perché questo paradosso appartiene ormai alla nostra conformazione»7. Simmel ritiene che di fatto non si dia mai una verità semplice e unitaria quale mero rispecchiamento del mondo, ma che sia proprio l’azione reciproca (Wechselwirkung), cioè l’interazione tra individui, a costituire quelle reti relazionali entro cui gli individui ricercano la verità sul proprio conto e su quello degli altri: tutti i rapporti intersoggettivi si fondano sulla conoscibilità dell’altro, sulla conoscenza reciproca che necessita di un’adeguata dimensione simbolica affinché si produca come azione sociologica nel conseguente ambiente sociale. Secondo la sua prospettiva filosofico-sociologica relazionale, 3
Cfr. S. Guglielmino, Introduzione, in L. Pirandello, L’umorismo, Mondadori, Milano 1992, p. IX. 4 Cfr. M. Vozza, L’io è un arcipelago, l’altro è dentro di noi, in «Tuttolibri-La Stampa», 11.01. 2003, p. 4. 5 R. Bodei, Lo spontaneo artificio: Pirandello e la costruzione del soggetto, in Id., Destini personali, cit., p. 137. 6 G. Simmel, Filosofia dell’attore, tr. it. e cura di F. Monceri, ETS, Pisa 1998, p. 55. 7 Ivi, pp. 56-57.
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non solo ogni conoscenza deve essere pensata come relativa e vera anche nel suo contrario, ma costruiamo anche l’immagine dell’altro come «risultato di un processo analogico per mezzo del quale vediamo l’altro mediante ciò che sappiamo di noi stessi in un incessante gioco di rimandi tra l’Io e il Tu, due istanze legate tra loro da un rapporto di reciproca dipendenza/indipendenza»8. La “verità” che dell’altro riusciamo a conoscere non è quella che realmente gli appartiene. Non solo, simmelianamente, l’interazione conoscitiva e pratica con l’altro «resta vincolata alla sensibilità soggettiva di ciascuno in modo assai più determinante di quanto non accada nel rapporto con il mondo inanimato»9, ma la stessa immagine dell’altro che giunge alla nostra coscienza è soltanto la rappresentazione che di esso ci siamo fatti: è proprio su questo “schema psicologico” che si basano le conoscenze interpersonali che non esauriscono di per sé la conoscibilità dell’altro per ciò che egli è realmente, perché mai, costui, riuscirà a disvelarsi completamente. Nei processi relazionali, gli infingimenti e gli occultamenti non costituiscono propriamente mai «in maniera assoluta» una “falsificazione” o una semplice dissimulazione, dacché nella realtà tutti i rapporti sociali, anche i più trasparenti, si rendono possibili a partire dall’«immagine psicologica oggettiva dell’altro» che ogni individuo si fa reciprocamente e che è influenzata dalle «relazioni reali della pratica e del sentimento»: la differenziazione e varietà di queste immagini non appartiene tout-court a coloro i quali vi sono rappresentati, ma all’individuo che in quanto tale le percepisce come filtrate dalla proprie “lenti”. Simmel descrive la «conoscenza reciproca» che costituisce un a priori di ogni relazione, nei seguenti termini: Ogni relazione tra uomini suscita nell’altro un’immagine dell’uno, e ciò sta evidentemente in un rapporto di azione reciproca con quella relazione reale: mentre essa crea i presupposti in base ai quali la rappresentazione che uno ha dell’altro si presenta in un dato modo, e possiede la sua verità legittimata per questo caso, d’altra parte l’azione reciproca reale degli individui si fonda sull’immagine che essi acquistano l’uno dell’altro. Si ha qui uno dei circoli più profondamente radicati della vita spirituale, nei quali un elemento presuppone un secondo, ma questo presuppone a sua volta il primo. Mentre in campi più ristretti ciò costituisce un sofisma che invalida il tutto, in campi più generali e più fondamentali è l’espressione inevitabile dell’unità nella quale confluiscono quei due elementi, e che nelle nostre forme concettuali non si può esprimere diversamente che mediante la costruzione del primo sul secondo e al tempo
8 9
A.R. Calabrò, Georg Simmel: la sociologia dell’ambivalenza, cit., p. 44. B. Giacomini, Relazione e alterità, cit., p. 68.
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stesso del secondo sul primo. Così i nostri rapporti si sviluppano sulla base di una reciproca conoscenza l’uno dell’altro e questa conoscenza si sviluppa sulla base dei rapporti di fatto, intrecciandosi indissolubilmente e indicando, in virtù del loro alternarsi nell’azione sociologica reciproca, quest’azione come uno dei punti in cui l’essere e il rappresentare lasciano percepire empiricamente la loro misteriosa unità (S, 292-293).
In generale, in termini simmeliani, l’ambivalenza presente in ciascun individuo e che pervade significativamente ogni interazione «è riconducibile al fatto che l’essere per sé e l’essere sociale, la volontà e il bisogno di affermare contemporaneamente individualità e intersoggettività sono intessuti di ragioni e passioni, interessi ed emozioni. Ragioni e passioni che non preesistono nell’individuo a prescindere dalle relazioni in cui si trova, ma si creano, si fanno e si disfanno nell’incontro con l’altro. Non si può mai predire il comportamento dell’altro rispetto alla lealtà, alla fiducia o al tradimento. L’altro è uno straniero non solo perché lascia intravedere consapevolmente o inconsapevolmente solo ciò che desidera, ma anche perché non conosce mai fino in fondo se stesso e perché parti di sé vengono attivate o chiamate a esistere dalle singole particolari relazioni in cui si viene a trovare»10. In Simmel è particolarmente forte la persuasione sulla «menzogna vitale» dell’individuo che ha spesso bisogno di ingannarsi o disvelarsi per mantenersi nel suo essere e nelle sue possibilità di prestazione. Egli al riguardo è esplicito: «Nessun altro oggetto può di sua iniziativa rivelarsi o nascondersi a noi come fa l’uomo, perché nessun altro oggetto modifica il suo comportamento riguardo alla possibilità di essere conosciuto» (S, 293294). L’ambiguo mescolarsi di quanto si sa e di quanto non si sa dell’altro, il fatto che ciò che l’uno e l’altro sanno è sempre intrecciato «con quello che soltanto l’uno sa e l’altro no» (ivi, 297), comporta di conseguenza «la consapevolezza dell’impossibilità di assoluta trasparenza, non solo dell’altro ma anche di se stessi nei confronti dell’altro»11. Nel campo aperto e dilemmatico della comunicazione intersoggettiva «c’è uno spazio intermedio, mai ben definito in cui l’agire dell’uno s’incontra con l’agire dell’altro. Si tratta di uno spazio condiviso fatto di fiducia, aspettative, ma anche di ambiguità e complicità in cui l’uno proietta immagini e desideri sull’altro e viceversa, in cui ambedue i soggetti collaborano attivamente alla formazione e alla continuazione dell’interazione, ma ne danno interpretazioni e le attribuiscono significati non necessariamente 10
G. Turnaturi, Tradimenti. L’imprevedibilità nelle relazioni umane, Feltrinelli, Milano 2003, p. 49. 11 Ivi, pp. 49-50.
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concordanti»12. Ne consegue che «gli individui, per natura, non sono né altruisti né egoisti, né leali né traditori, ma sono al contempo cooperativi e competitivi, fidati e infidi»13. In questo senso, Simmel ha inteso evidenziare «come la compresenza di cooperazione e competitività, di lealtà e capacità di tradimento, dell’essere per sé e dell’essere sociale all’interno di ciascun individuo segni l’interazione sociale di ambivalenza e ambiguità»14. È ciò che Kant a suo tempo aveva originalmente definito “insocievole socievolezza”: «vogliamo e possiamo essere con l’altro contemporaneamente leali e traditori, soddisfare il nostro essere sociale e il nostro essere per sé»15. La società complessa contemporanea ci “incatena” al principio di individuazione perché «vuole vincolarci alle nostre azioni e ai nostri pensieri (in quanto preludi all’agire) e identificarci con un unico e permanente io»16. Non si esce facilmente dalle “trappole della vita” (tempo, spazio, necessità, sorte, fortuna, caso), a meno che non facciamo come il “fu Mattia Pascal” pirandelliano, indotto a cambiare il proprio nome e a ricostruirsi una nuova identità. Noi, dunque, ci costruiamo di continuo, e la costruzione continua finché c’è costanza dei sentimenti e finché dura il cemento della volontà. La personalità è, di conseguenza, tanto più durevole quanto meno si “sgretola” il materiale dei sentimenti e quanto più costante è la volontà di conservare se stessi inalterati. Il fiume della vita però ci travolge continuamente. La vita è flusso continuo, ad esso non si sfugge. Cerchiamo sempre di costruirci una personalità: comunque siamo dei personaggi in cerca di persona. Nella cartografia delle nostre individualità, cerchiamo continuamente di compiere esercizi quotidiani di identificazione e di disidentificazione, di inclusione ed esclusione, di riconoscimento e disprezzo: uccelli alla ricerca di (o senza) nido, cerchiamo di differenziare ed articolare il nostro io per non voltare le spalle alla coscienza e alla vita. L’enigma della nostra esistenza sociale non ha risposte definitive, come dice Pirandello: Noi spesso chiediamo a le stelle il perché della vita e della morte; ma le stelle col loro incessante tremulo palpitìo par che invece lo chiedano a noi, a noi povere minuscole creature della Terra17.
12
Ivi, p. 52. Ibid. 14 Ivi, p. 53. 15 Ibid. 16 R. Bodei, Lo spontaneo artificio: Pirandello e la costruzione del soggetto, in Id., Destini personali, cit., p. 140. 17 L. Pirandello, Taccuino di Harvard, Mondadori, Milano 2002, pp. 122-123. 13
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Nelle narrazioni prevalenti della tarda modernità è d’uso dipingere il mondo in cui viviamo come «una rete dotata di infinite vie di connessione e priva di un centro di riferimento, nella quale gli esseri umani si trasformano in soggettività nomadi, fluttuanti, flessibili»18. La metafora della «rete», come osserva Bauman, oggi «riflette la crescente presa di coscienza che le “totalità” sociali hanno margini incerti, rimangono in uno stato di flusso costante, sono sempre in divenire più che in essere e raramente sono fatte per durare»19. L’aspetto più significativo di una rete è la formidabile «flessibilità» dei suoi contenuti: essa disvela di fatto il «perpetuo interscambio tra connessione e disconnessione», a tal punto che lo stesso processo di «formazione dell’identità» diventa innanzitutto «rinegoziazione in progress delle reti», un aggiornamento continuo delle «carte d’identità» e, nel planetario «spazio di flussi», il venir meno delle «ambizioni monopolistiche dell’“entità di appartenenza”»20. Nell’immaginario collettivo della contemporaneità, lo straniero, il naufrago, l’ostaggio, il migrante, l’uomo flessibile, il cyborg, attestano la rottura di alcune tradizionali forme di identificazione (con la propria comunità, il proprio lavoro, il proprio corpo). Le nuove configurazioni sociali del reale segnato dalla globalizzazione, rideclinano le grammatiche che presiedono alla formazione identitaria in uno scenario in cui la descrizione della “nuova condizione umana” – posta sotto il segno della pluralità e della molteplicità delle appartenenze – fa emergere con tutta la sua ambivalenza costitutiva, come s’è detto, la figura dell’homo duplex, nel cui campo problematico occorre tener presente che non solo la duplicità viene compresa in maniera più radicale rispetto ad ogni forma di dualismo inteso come l’opposizione reale di due elementi indipendenti, ma in cui la stessa relazione appare come dimensione originaria rispetto agli elementi costitutivi che ne fanno parte21. Nel condividere molteplici universi di significato che l’io attraversa (o da cui l’io è attraversato), l’individualità contemporanea abita e vive all’interno di una pluralità di mondi locali e nel contempo compie l’esperienza di interagire con gli altri agenti all’interno della società globale. Ancorata riflessivamente nell’universo condiviso del senso comune e delle rappresentazioni
18 Cfr. I. Possenti, Duplici in un mondo molteplice. Il paradosso dello straniero, in G. Paoletti (a cura di), Homo duplex. Filosofia e esperienza della molteplicità, ETS, Pisa 2004, p. 169. 19 Z. Bauman, L’etica in un mondo di consumatori, cit., p. 13. 20 Cfr. ivi, pp. 14 -23. 21 Cfr. I. Possenti, Introduzione, in G. Paoletti (a cura di), Homo duplex. Filosofia e esperienza della molteplicità, cit., p. 15.
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sociali22, nell’agire quotidiano23 è socializzata ai valori e alle norme della società tardo-moderna, caratterizzata dalla sempre più crescente complessità sistemica che varca tranquillamente i confini nazionali, dall’accelerazione dei flussi di comunicazione e di informazione, da movimenti di capitale, correnti commerciali, catene di produzione e trasferimento di tecnologie su scala mondiale, oltre che dal turismo di massa, dall’immigrazione di mano d’opera, dalle comunicazioni della scienza, ovvero da tutti quei profondi mutamenti che determinano anche una metamorfosi continua dell’identità e dei processi di individualizzazione negli spazi del sociale e nel mondo della vita. Se ci volgiamo indietro, al nostro passato, osserviamo con stupore e ci meravigliamo di essere la stessa persona che ricordiamo differente nei tratti fisici, nella biografia, nei pensieri, nei sentimenti che affollano la vita emotiva della mente. Tuttavia, pur essendo identici, siamo diventati differenti: abbiamo attraversato con le nostre identità individuali e con la molteplicità dei nostri vissuti esperienziali le trasformazioni del mondo naturale, storico e sociale in cui viviamo. Nella mutevolezza di questo mondo, le radici del nostro io sono state seriamente intaccate dal tramonto delle antiche certezze e dalle dure “repliche della storia”, in una concatenazione imprevedibile di eventi che hanno contrassegnato ineludibilmente tutti i nostri destini personali24. Non è semplice denotare il principium individuationis che connota la costruzione dell’io nel cantiere tardo-moderno dei mondi locali e globali e nei suoi orizzonti sociali, culturali, politici e storici. Ciò che di seguito delineo, pertanto, è soltanto uno schizzo di un “quadro d’epoca” incompiuto e dipinto a pennellate necessariamente larghe e impressionistiche. Un quadro dove principalmente domina la figura della frammentazione dell’io e dell’individualità contemporanea, della sua parabola tracciata soprattutto nel corso del Novecento e soltanto accennata per quanto concerne gli incerti ed enigmatici albori del secolo appena iniziato, dove si afferma sempre più un peculiare individualismo delle differenze. Andare con la riflessione là dove porta l’individualità contemporanea significa ripercorrere luoghi già visti e altri da scoprire ancora da diverse angolazioni tematiche, da osservatori ermeneutici differenti. Tuttavia, nulla di ciò che oggi riteniamo sia superato dalla storia è di fatto veramente “scomparso”, perché non solo può risorgere con nuove forme, ma anche 22
Cfr. A. Santambrogio, Il senso comune. Appartenenze e rappresentazioni sociali, Laterza, RomaBari 2006. 23 Al riguardo, cfr. A. De Simone, F. D’Andrea (a cura di), La vita che c’è. Vol. 1, Teorie dell’agire quotidiano. Vol. 2, Forme dell’agire quotidiano, FrancoAngeli, Milano 2006. 24 Sull’argomento cfr. R. Bodei, Destini personali, cit.
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perché nelle modalità d’agire individuali cadute nell’oblio è possibile ancora rintracciare elementi di grande “attualità” oppure riscoprire tramite loro questioni essenziali che occorre pur sempre porsi per vivere e comprendere il nostro tempo storico. Anche per questo la nostra riflessione non può non procedere attraverso un itinerario di ricerca necessariamente frammentario e ricorsivo, dal momento che quando si discute di individualità contemporanea non si ha a che fare soltanto con il nostro Dasein quotidiano, ma anche con il complesso campo dell’intersoggettività sociale. Come scrive Bauman (sulla scia di Lévinas): «L’io nasce nell’atto di riconoscimento del suo essere per l’Altro e pertanto nella rivelazione dell’insufficienza di un puro e semplice Mit-sein»25. Composita e molteplice è dunque la costellazione di domande che orienta il discorso critico sull’individualità contemporanea, cioè sulla natura dell’identità umana, argomento oggi affrontato non solo dalla filosofia e dalle scienze sociali, ma anche dalle neuroscienze o dalle scienze cognitive, ma che coinvolge sempre più la ricerca antropologica e la riflessione politica. Modelli filosofici, sociologici e politici e flash d’immagini reali ci accompagneranno in questo percorso intrapreso come un “viaggio” nella vita individuale contemporanea, consapevoli che oggi non si può più parlare di un “centro dell’io” perché siamo sempre più diventati “ignoti a noi stessi”. Nel “viaggio della vita”, l’attività del nostro io percorre il suo cammino sapendo che oggi la sua integrità non è una conquista comunque garantita: l’io da tempo ha deposto la pretesa di essere il garante di ogni certezza, ma avverte continuamente anche il bisogno di guardarsi allo specchio per riconoscere la propria identità, la propria esistenza: il suo personaggio è specularmente in cerca del proprio autore.
5.2. Metamorfosi sociali: l’individualizzazione tra locale e globale Nel tempo presente, come ritengono alcuni interpreti contemporanei (Beck, Albrow, Giddens, Harvey, Bauman, Touraine), molti dei concetti fondamentali con i quali la filosofia, la teoria sociale e politica hanno pensato la modernità vacillano di fronte alle trasformazioni epocali dell’età globale. Se già agli inizi del Novecento, con originale sensibilità diagnostica, Georg Simmel seppe analizzare – nel saggio Le metropoli e la vita dello spirito (1903) – il processo relativo alle metamorfosi della vita metropolitana che consentì quella peculiare concentrazione di capitale che causò l’integrazione 25
Z. Bauman, L’etica in un mondo di consumatori, cit., p. 41.
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di spazio, tempo ed attori sociali di dimensioni considerevoli e di inimmaginabile complessità, un processo che Simmel fu il primo a spiegare e che successivi autori definiranno per l’appunto «compressione spazio-temporale» nel quale la velocità e l’intensità delle interazioni economiche e sociali nella città conducono alla formazione di un nuovo tipo di società; oggi, a loro volta, numerosi osservatori hanno sottolineato come l’estensione, intensificazione e accelerazione delle relazioni di interdipendenza fra le varie parti del globo abbiano determinato una compressione, uno sganciamento ed un’astrazione dello spazio e la conseguente formazione di una società mondiale. Il primo aspetto della compressione «è relativo alla riduzione delle distanze, consentita dai moderni mezzi di trasporto, e al loro annullamento, reso possibile dalle tecnologie della comunicazione: il mondo si rimpicciolisce, ogni luogo diventa accessibile […]. Siamo tutti cittadini di questo unico, grande villaggio»26: un villaggio globale, appunto. Con il termine sganciamento, «si può intendere un fenomeno a due facce: lo sganciamento dello spazio dal tempo (non occorrono più tempi lunghi per percorrere spazi distanti) e lo sganciamento dello spazio dal luogo»27. Un tale effetto è in relazione con il terzo elemento, quello dell’astrazione. Infatti, «se designiamo con luogo l’ambiente fisico da noi occupato, teatro delle nostre attività e contesto delle nostre azioni, e se consideriamo le nuove possibilità di esperienza, relazione e interazione a distanza […] dobbiamo riconoscere l’esistenza di uno spazio delocalizzato, nel quale i rapporti sociali sono astratti dai contesti locali di interazione e si ristrutturano su archi di spazio-tempo diversi»28. Oggi è difficile trovare una città del mondo che non sia esposta al vento impietoso del mercato globale e dove le contraddizioni dell’«informazionalismo», dello spazio dei flussi e del capitalismo tecno-nichilista si manifestano in modo più evidente che altrove. L’accelerazione del processo di separazione dello spazio dal luogo, ovvero il processo di deterritorializzazione delle relazioni sociali non è però esclusivamente un prodotto dei processi di globalizzazione produttiva e finanziaria, «ma progredisce anche e soprattutto a man mano che i media elettronici promuovono rapporti fra persone assenti, e consentono che i luoghi vengano rimodellati da influenze da essi più o meno distanti (globalizzazione culturale)»29. Tale metamorfosi non aggredisce soltanto 26 G. Giaccardi, M. Magatti, La globalizzazione non è un destino. Mutamenti strutturali ed esperienze soggettive nell’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 28. 27 Ivi, pp. 28-29. 28 Ivi, p. 29. 29 C. Formenti, Se questa è democrazia. Paradossi politico-culturali dell’era digitale, Manni, Lecce 2009, p. 17.
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i luoghi fisici ma anche i luoghi simbolici. Di fatto, i media elettronici «cancellano i confini tra sfera pubblica e sfera privata, “mettono in piazza” le umane debolezze delle autorità, riducendone il prestigio, sovvertono tradizioni, gerarchie e ruoli sociali»30; insomma, essi generano (ben prima dell’avvento di Internet) «le condizioni per lo sviluppo di una società dell’individualismo compiuto, nella quale identità e relazioni appaiono sempre meno caratterizzate dai vincoli e dalle opportunità imposti dalla località (fisica e/o simbolica), e dove l’aggregazione sociale tende ad assumere la forma del “pubblico”, inteso come moltitudine dei consumatori di contenuti mediatici»31. In questo contesto, dunque, la globalizzazione si configura come quel processo attraverso il quale la società umana ha saturato lo spazio disponibile, cioè come quel fenomeno che indica «l’estendersi delle interdipendenze alla totalità del pianeta. Globalizzazione è quindi l’impossibilità del “fuori” – di un altrove – e il venir meno dell’indifferenza legata alla distanza: lo spazio ha cessato di essere fattore di neutralizzazione della rilevanza dei fenomeni e degli eventi»32. Le individualità contemporanee, per quanto esposte ai flussi continui della comunicazione globale e per quanto possano operare all’interno di reti despazializzate e di rapporti disancorati, vivono la loro esperienza soggettiva come «profondamente influenzata dalle relazioni dirette e dalle esperienze localizzate. I vissuti legati alla dimensione dello spazio locale, la distensione temporale delle relazioni nella vita quotidiana non si cancellano, non spariscono, ma si intersecano con livelli di esperienza più astratti»33. Se lo spazio di radicamento, cioè essere a casa sembra essere «una delle poche costanti 30
Ibid. Ibid. L’effetto di questi processi, tuttavia, sostiene Formenti, «non è – o non è prevalentemente – […] la “fine del territorio”, dei luoghi o addirittura della stessa realtà, “sostituiti” dai modelli di simulazione generati dai media, ma è piuttosto la nascita di un senso più ibrido e complesso di soggettività locale: i soggetti si aggregano sempre meno secondo modalità predefinite, ma “inventano” […] la propria identità e creano nuove forme di appartenenza a partire dal materiale immaginario fornito dai media» (ivi, pp. 17-18). A. Appadurai – (in Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, cit.) – ha definito queste aggregazioni sociali di nuovo tipo «comunità diasporiche». Queste, infatti, «non sono fondate su forme di appartenenza “forti” (territorio, stato, etnia, nazione, classe sociale, ideologia, ecc.) bensì sui “vicinati”, termine con il quale si tende a ridefinire il concetto di locale in relazione ai suoi aspetti relazionali e contestuali più che spaziali (i vicinati possono essere virtuali o reali, ma i vicinati virtuali sono in grado di mobilitare idee e legami sociali che influiscono direttamente sui vicinati reali)» (C. Formenti, Se questa è democrazia, cit., p. 18). 32 D. D’Andrea, Prigionieri della modernità. Individuo e politica nell’epoca della globalizzazione, in D. D’Andrea, E. Pulcini (a cura di), Filosofie della globalizzazione, ETS, Pisa 2001, pp. 30-31. 33 G. Giaccardi, M. Magatti, La globalizzazione non è un destino, cit., p. 30. 31
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della condizione umana»34, tuttavia un forte senso di spaesamento, impersonalità ed oggettivazione pervade oggi nella globalizzazione l’esperienza soggettiva: nemmeno la più “localistica” e idiosincratica delle narrazioni di identità «appare oggi in grado di “fare comunità”»35. Non esiste più una “scelta domestica” che sia solo privata, non esiste più soltanto una casa, ma lo spazio è sempre più sociale: la condizione dell’individualità contemporanea è quella della pluralizzazione dei mondi che si può definire eterotipia. Il vissuto soggettivo costitutivo dell’esperienza contemporanea vive questo spaesamento. Come afferma Giddens, con l’«ampliamento dello spazio» (space stretching) e con lo sganciamento delle relazioni sociali (disembedding) dai luoghi dove si svolgono le interazioni, siamo tutti parzialmente dislocati; una parte di noi tende a trovarsi altrove rispetto alle situazioni in cui si trova: quindi, non siamo mai completamente a casa; ma, come replica Bauman, siamo sempre parzialmente deprivati, la nostra esperienza non è mai totale, c’è sempre una parte di noi che si adatta di malavoglia, che non si riconosce fino in fondo, che sente il bisogno di un senso ulteriore – di un io ulteriore – anche nelle esperienze che scegliamo liberamente36. Dal momento che, come diceva il sociologo Alberto Melucci, «scegliere sembra ormai il nostro destino», sembra che non esista più alcuna isola stabile e sicura tra le onde del mare: «non abbiamo più casa e dobbiamo ricostruircela continuamente, come i porcellini della favola, oppure dobbiamo portarcela dietro come lumache»37. Non da ultimo, una delle discontinuità fondamentali del passaggio dalla modernità alla postmodernità e alla globalizzazione è appunto rappresentata dalla crisi dell’idea di progresso. In altri termini, se la scienza e la tecnologia possono risolvere molti problemi, viceversa ne producono di nuovi (i cosiddetti problemi di compatibilità e di sostenibilità), che spesso non sono scientificamente e tecnologicamente risolvibili. La questione essenziale posta dalla cosiddetta società del rischio (Risikogesellschaft) riguarda soprattutto l’incerta sostenibilità (esistenziale, sociale, ambientale) della crescente fattibilità (scientifica e tecnologica)38: tutto ciò coinvolge e riguarda direttamente la questione ecologica e l’individuazione degli effetti negativi del progresso per i rischi ambientali che comporta. 34 A. Heller, Dove siamo a casa. Pisan lectures 1993-1998, pref. di M.A. Toscano, tr. it. e cura di D. Spini, FrancoAngeli, Milano 1999, p. 24. 35 C. Formenti, Se questa è democrazia, cit., p. 19. 36 Cfr. G. Giaccardi, M. Magatti, La globalizzazione non è un destino, cit., p. 37. 37 A. Melucci, Il gioco dell’io, Feltrinelli, Milano1991, p. 50. 38 Cfr. C. Offe, L’utopia dell’opzione zero, in P. Ceri (a cura di), Ecologia politica, Feltrinelli, Milano 1987.
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In estrema sintesi, si può sostenere che, in primo luogo, la questione ecologica come elemento che caratterizza in maniera decisiva il passaggio dalla modernità alla postmodernità e alla globalizzazione rappresenta, tra l’altro, uno degli aspetti cruciali dell’ambivalenza del progresso. In secondo luogo, la questione ecologica «mette in crisi il mito moderno del miglioramento continuo e si svolge attraverso tre diverse fasi storiche: quella della denuncia, quella dello sviluppo sostenibile e quella (attuale) della società del rischio»39. Nelle società contemporanee è possibile distinguere tra rischio, inteso quale possibile effetto negativo derivante da una decisione, e pericolo inteso come derivante da un evento naturale non influenzato da cause sociali. Inoltre, in terzo luogo, il fatto che il problema principale «si sposti dalla calcolabilità (scientificamente incerta) del rischio alla sua accettabilità conferisce alla questione ecologica una dimensione politica»40. Questa, di fatto, «è rappresentata dalla crisi della distinzione gerarchica tra sapere esperto e sapere profano, dalla nascita dei partiti e movimenti ambientalisti, dai temi relativi al costituirsi di una vera e propria dimensione ecologica della democrazia e dalla trasformazione della vulnerabilità sociale in vulnerabilità sistemica e tecnologica»41. I sociologi Niklas Luhmann, Anthony Giddens, Ulrich Beck e Wolfgang Sofsky hanno spiegato in modo critico che cos’è oggi la società del rischio42 in cui viviamo in quanto individui contemporanei. Secondo tali autori, dal XVI secolo l’Occidente ha avviato, grazie innanzitutto alle scoperte scientifiche, un processo di globalizzazione oggi ampiamente maturo, che ha di fatto emarginato le culture più deboli ed ha a lungo ingannato e deluso i popoli in difficoltà, promettendo loro libertà e sviluppo, ma praticando prima colonialismo e poi sfruttamento “turbocapitalistico”. Nella tarda modernità, la produzione sociale di ricchezza va sistematicamente di pari passo con la produzione sociale di rischi (per piante, animali e uomini). Inoltre, i diversi rischi non possono essere circoscritti a luoghi o gruppi, come avveniva in passato. Oggi i rischi mostrano una tendenza alla globalizzazione; travalicano i confini nazionali producendo minacce globali che, con un’inedita dinamica sociale e politica, colpiscono indipendentemente dall’appartenenze 39
D. Ungaro, Capire la società contemporanea, Carocci, Roma 2001, p. 119. Ivi, p. 120. 41 Ibid. 42 Sulla sociologia del rischio e sul concetto di società del rischio e dell’incertezza, cfr. A. Giddens, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, tr. it. di M. Guani, il Mulino, Bologna 1994; N. Luhmann, Sociologia del rischio, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 1996; Z. Bauman, La società dell’incertezza, tr. it., il Mulino, Bologna 1999; U. Beck, La società del rischio, tr. it., Carocci, Roma 1999; W. Sofsky, Rischio e sicurezza, cit. 40
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identitarie, etniche e sociali. La progettazione del futuro avviene in modo indiretto e cifrato nei laboratori di ricerca e nei consigli direttivi, non più e soltanto nei Parlamenti nazionali o nei partiti politici. Il presupposto per comprendere questo scenario pare essere il seguente: la modernizzazione in sé e per sé è diventata un problema43. Non abbiamo più a che fare soltanto con i suoi fondamenti classici – la società industriale, il mercato del lavoro salariato, la famiglia nucleare, la produzione di massa, ecc. – bensì con le sue conseguenze. I rischi e gli effetti distruttivi che si profilano nell’età globale sono creati da noi e spesso sono invisibili ed hanno dimensioni sconosciute, planetarie, che investono ed investiranno intere generazioni di sopravvissuti. Dalla società moderna del pericolo siamo passati alla società globale del rischio, dove lo stato di emergenza minaccia di diventare la norma. Insicurezza, instabilità, rischio e frammentazione sono alcuni degli ingredienti distintivi del clima sociale che stiamo vivendo nel nostro tempo. La globalizzazione, producendo la società del rischio, modifica radicalmente lo spazio della politica e dell’agire politico, ma non pone fine alla modernità: portando alle sue estreme o radicali conseguenze il paradigma moderno, la globalizzazione rivela drammaticamente le patologie ad esso intrinseche fin dalle origini. Insomma, tutto ciò può in parte anche spiegare perché l’epoca in cui viviamo abbia un carattere, al tempo stesso, paradossale e ambivalente: Paradossale, perché nell’epoca della globalizzazione la vigenza del paradigma moderno si traduce in tipologie di soggettività e forme di organizzazione profondamente diverse da quelle tipiche della modernità. Ambivalente, perché per la prima volta la modernità fa esperienza di qualcosa che ne rende “insostenibile” il dinamismo – sfide ecologiche globali – senza che questo si traduca tuttavia in un’adeguata trasformazione delle forme della soggettività. In questa prospettiva, il declino della politica non è dovuto all’estinguersi di una funzione, ma al suo essere esercitata sempre più secondo modalità “tecniche”. La crisi della politica è crisi del suo senso per il venire meno del suo legame con potenze etiche e per il suo subordinarsi a finalità proprie di altre dimensioni della vita sociale e in primis ad una logica economica che si appoggia sulla coercizione come funzione puramente tecnica. L’esaurirsi della significatività dell’agire politico rimanda a quella mutazione antropologica tardo-moderna che conduce ad una soggettività che, sulla scia di Weber, si può definire sazia. L’epoca della globalizzazione è segnata dall’avvento di una soggettività dell’adattamento al mondo, […] incapace di porsi in un atteggiamento di “rifiuto del mondo”44. 43 44
Cfr. A. Martinelli, La modernizzazione, Laterza, Roma-Bari 1998 (nuova ed. 2010). D. D’Andrea, E. Pulcini, Introduzione, cit., p. 13.
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5.3. Quale soggetto? Il flusso dell’io contemporaneo muta continuamente: le metamorfosi dell’io scrivono ogni giorno in modo diverso il giornale del proprio sé, il cui arcipelago esistenziale e sociale è sempre più differenziato, multiplo, pendolare, pluricollocato e pluriappartenente. C’è antagonismo tra vecchi e nuovi “io”, nonostante le successive sintesi temporali e spaziali che si determinano. La stabilità non è (se mai lo è stata) un valore assoluto e per se stessa: l’individualità contemporanea è relazione, flusso di comunicazioni. La logica dei sentimenti e il ritorno al passato e alla sua memoria, benché necessari non sono sufficienti per cogliere il movimento e le inedite ed imprevedibili direzioni del nuovo. La filosofia e la psicologia contemporanee hanno tentato di spiegare su basi “scientifiche” e “sperimentali” che «l’individuo umano è “dividuo”, divisibile, composito, che è un aggregato di isole di coscienza virtualmente separabili, tenuto insieme da un sistema di alleanze psichiche suscettibili di dissoluzione e da un corpo che determina e guida la coscienza stessa [...]. Noi siamo plurimi già come punto di partenza e l’unificazione è una conquista, un risultato non sempre garantito a tutti»45. L’individualità contemporanea è plurima. Essa si muove da sponda a sponda. Dopo Nietzsche e Freud, abbiamo compreso che l’io, l’individualità, non è affatto una “certezza immediata”, ma è sempre più frutto di un nostro “atto ermeneutico”. Il più “incompiuto” di tutti gli esseri, l’uomo, scopre nella propria individualità contemporanea di non avere un baricentro stabile: cerca sempre un “centro di gravità permanente”, nel gioco continuo delle sue molteplici maschere. Il soggetto è ora in un punto, ora in un altro, nel teatro della propria esistenza. Individuo fugace e dal baricentro mobile, l’uomo contemporaneo spesso non ha bisogno – nella pluralità dei suoi “io” che convivono in un’unità difficile, differenziata, talvolta fittizia – di usare «la prima persona singolare del pronome per un solo io»46: egli continuamente oltrepassa se stesso tentando di sfuggire all’impoverimento della soggettività e alla disgregazione dell’identità personale, alla sua espansione o contrazione. Se con lo storicismo di Dilthey47 si è potuto sostenere che «l’io di ciascun individuo – irripetibile punto di annodamento di forze reali – si 45
R. Bodei, Destini personali, cit., p. 80. Ivi, p. 95. 47 Su Dilthey rinvio il lettore ad A. De Simone, Conoscenza, comprensione, comunicazione. Filosofia, ermeneutica e teoria critica: tragitti da Dilthey, Gadamer e Habermas, in AA.VV., Tra Dilthey e Habermas. Esercizi di pensiero su filosofia e scienze umane, Morlacchi, Perugia 2006, pp. 1-350. 46
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potenzia e acquista concretezza grazie al suo inserimento nella storia, oggettivazione del pensiero e dell’attività umana di tutte le generazioni trascorse»48, con Bergson abbiamo potuto invece constatare anche che viviamo la maggior parte del tempo esteriormente a noi stessi e che noi stessi «percepiamo soltanto il fantasma scolorito del nostro io, ombra che la pura durata proietta sullo spazio omogeneo. La nostra esistenza si svolge quindi nello spazio più che nel tempo: viviamo per il mondo esteriore piuttosto che per noi; parliamo piuttosto che pensare; “siamo agiti” piuttosto che agire noi stessi»49. Come il gessetto del sarto che traccia sui tessuti la direzione del taglio da eseguire per vestire, sagomare, la nostra individualità, così anche noi operiamo con delle “forbici” che “tagliano” la nostra personalità. Di fatto, nel mondo contemporaneo, la frantumazione e la scissione dell’io sono sempre virtualmente in agguato in ciascuno di noi, in ognuna delle nostre esperienze individuali: spesso ci troviamo al bivio, nello sviluppo di direzioni contrapposte, ogni nostra scelta è sempre il gioco di differenti e possibili alternative. Qualsiasi sviluppo avviene per associazione, dissociazione e sdoppiamento di tendenze che non coesistono reciprocamente oltre un certo tempo e limite: quindi, agiamo e scegliamo per diramazioni. Abbiamo bisogno, anzi, “stagionalmente” siamo costretti a compiere una sorta di “potatura” del nostro io. L’albero dell’io, durante la sua crescita e nel suo destino personale, conserva tutte le cicatrici dei suoi rami potati, anche se non è privato della capacità di ricrescere. Ciascuno, vivendo una sola volta è sempre costretto a fare delle scelte per affrontare il nuovo, il possibile, il futuro. Le scelte comunque non sono mai definitive. In quanto “unità multiple”, abbiamo bisogno di “io di ricambio” necessari per adottare strategie di esistenza e di salvezza dell’io. Questi “io di ricambio” si succedono attraverso automatismi che sfuggono alla volontà e alla consapevolezza dei singoli. Nella “scintilla del presente”, tra luci e ombre, la vita individuale di ognuno è piena di lastre fotografiche non sviluppate, di “negativi” passibili di sviluppo, pena il loro deterioramento. Molti dei nostri “io” sono perduti, altri reclamano attuazione, per il resto c’è soltanto la memoria e il ricordo, oppure l’oblio. Siamo fossili preziosi di noi stessi: l’io attuale cerca sempre di ricongiungersi con l’io trascorso. Ma, qual è “il nostro vero io” sotto le
48
R. Bodei, Destini personali, cit., p. 107. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, in Id., Opere 1889-1896, a cura di P.A. Rovatti, tr. it. di F. Sossi, Mondadori, Milano 1986, p. 134. 49
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molteplici maschere degli “io di ricambio”? La risposta è ardua, forse impossibile. Alcuni tracciati sono comunque rinvenibili. Se Nietzsche è stato il filosofo che nella modernità ha più di altri delegittimato compiutamente la sovranità dell’io, ritenendo che il punto di ancoraggio del soggetto sia sempre instabile ed esposto a differenti interpretazioni, Simmel invece è stato l’unico filosofo e sociologo contemporaneo che ha saputo mettere in luce originalmente e criticamente la formazione ed i problemi dell’individualità moderna50. Per Simmel, l’individuo moderno «diventa virtuale luogo d’incontro tra più sfere sociali reali»51, e «solo conoscendo la particolare cifra della sua combinazione si riesce a comprenderlo e ad “aprirlo” come una cassaforte. La sua forma è, infatti, il risultato della particolare intersezione di più aree comuni, il prodotto caratteristico di una imprevedibile simbiosi di elementi sottoposti a peculiare elaborazione»52. Simmel, dunque, «approda ad una teoria modulare del soggetto, elaborata nel suo differenziato aspetto di segmentazione: dapprima come articolazione in superficie di frammenti tra loro eterogenei, spesso in rapporto conflittuale; poi come stratificazione in profondità di istanze conscie, subconscie e inconscie; infine come esposizione ad altre singolarità che giungono a condividere il medesimo spazio d’esistenza»53. Di fronte alla colonizzazione delle coscienze, che ha in particolare pervaso tragicamente la cultura e la vita non solo del Novecento ma anche degli albori del XXI secolo, il tentativo simmeliano di evitare l’atrofizzazione dell’io nel contesto di una crescente razionalizzazione dei processi produttivi, di arginare la deriva narcisistica, l’intorpidimento delle coscienze e l’ipertrofia delle passioni, di compensarne il progressivo deficit di senso attraverso l’incremento di densità estetica e l’esplorazione di possibilità identitarie che favoriscano l’esperienza della reciprocità (l’io è un arcipelago, l’altro è dentro di noi), appare ancor oggi una delle indicazioni più feconde e cariche d’avvenire emerse dalla riflessione filosofica e sociologica54.
50 Sull’argomento rinvio ad A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, cit.; Id., L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, cit.; Id., Oltre il disincanto. Etica, diritto e comunicazione tra Simmel, Weber e Habermas, cit. 51 R. Bodei, Destini personali, cit., p. 170. 52 Ibid. 53 M. Vozza, L’io è un arcipelago, cit., p. 4. 54 Ibid. Di fatto, è stato proprio Simmel (con la Filosofia del denaro) a farci comprendere che parlare di individualità moderna significa oggi riflettere sul ruolo, la funzione e il significato della razionalizzazione monetaria, cioè sul denaro.
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5.4. Simmel: homo reciprocans e individualizzazione Simmel tematizza il plurale delle relazioni sociali, iscrivendo la relazionalità in un orizzonte di reciprocità vischioso e contingente, un negotium sociale ermeneutico composto da una composita platea di minute relazioni brulicanti che caratterizza il brusìo della società nel regime della modernità. Massimo Conte
Attraverso il suo pensiero e la sua opera, Simmel ha posto (tra l’altro) al centro dell’attenzione contemporanea uno dei principi strategicamente cruciali nel contempo sia della filosofia relazionale e chiasmatica che della teoria dell’azione sociale: la reciprocità (Wechselwirkung)55. Essa è uno dei “possibili”: ovvero denota la rete56 complessa delle possibilità interattive della vita socio-culturale. La reciprocità costituisce un principio fondativo e consustanziale della dinamica immanente della socialità umana che si esplica nelle relazioni e nelle pratiche della vita quotidiana. Come ho già in precedenza osservato ne L’ineffabile chiasmo, ponendo al centro dell’attenzione il tema della reciprocità, Simmel ha collocato strategicamente nel “cuore” della filosofia e della teoria sociale, della teoria della cultura e delle scienze umane, il problema della imprevedibilità e vulnerabilità della relazione umana, delle sue forme e delle sue manifestazioni concrete. 55
Per gli sviluppi problematici (qui riletti e chiosati sinteticamente) inerenti il concetto simmeliano di “reciprocità” (Wechselwirkung), rinvio a A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, cit.; C. Papilloud, La réciprocité. Diagnostic et destins d’un possible dans l’œuvre de Georg Simmel, cit.; F. Mora, Principio Reciprocità, cit.; A. De Simone, L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, cit. 56 Secondo quanto è stato osservato, «tutta l’opera di Simmel si svolge intorno allo studio della società intesa come una sorta di rete, il cui fondamento sono i rapporti di reciprocità fra gli individui, le interazioni sociali. Il concepire la società come dinamica dell’agire sociale, la sua attenzione ai frammenti e ai momenti, al transeunte fanno sì che non solo l’oggetto privilegiato delle riflessioni di Simmel sia il processuale, ciò che nasce da interazioni e a nuove interazioni dà vita, ma connotano anche un suo modo particolarissimo di procedere, una lettura che è essa stessa […] “analisi processuale”» (G. Turnaturi, Presentazione, in G. Simmel, La socievolezza, a cura di G. Turnaturi, Armando, Roma 1997, p. 10). Da ciò consegue che «il discorso sulla modernità non è dunque una parte, un pezzo del pensiero simmeliano, ma ne è il cuore, e l’aver individuato nella frammentarietà e nell’infinita e complessa rete di rapporti di reciprocità l’essenza del moderno coincide con lo scegliere come oggetto dei propri studi quelle altre innumerevoli interazioni che […] pur fluide e fugaci, non sono elementi meno importanti della connessione degli individui con l’esistenza sociale» (ivi, p. 13).
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La sua filosofia e sociologia della modernità57 è pervasivamente rivolta ad elaborare una complessa analitica ed ermeneutica della reciprocità e della interrelazionalità, sviluppando sul piano epistemologico una concezione relazionale della conoscibilità del mondo umano facente perno sulla peculiare diversità irriducibile delle forme dell’agire sociale e delle relazioni intersoggettive. Un fondamento ontologico pratico, un paradigma epistemologico e un metodo esplicativo e comprendente – cioè, un a priori storico e un a priori metodologico – hanno guidato originalmente il saggismo simmeliano, che ha individuato nella reciprocità e nella relazione interattiva – la Wechselwirkung – il campo enigmatico in cui ineffabilmente si traduce il tradizionale e chiasmatico dilemma inerente il rapporto individuo/società. Affiancandosi strategicamente alla dialettica relativa ai rapporti tra la vita e le forme, il concetto di reciprocità (Wechselwirkung) costituisce «la chiave interpretativa dell’intero pensiero simmeliano e del suo pensiero sociologico»58: esso indica «una concezione della realtà […] come rete di relazioni di influenza reciproca tra una pluralità di elementi»59, ovvero traduce «il nesso di reciprocità effettuale, di interscambio o di causazione reciproca che lega tutti i fenomeni della vita tra di loro»60. Nel campo delle scienze sociali, fare riferimento a questa nozione significa «praticare un “relazionismo” radicale che comporta la rinuncia al tentativo di rintracciare una singola serie causale che spieghi in modo esaustivo un qualsivoglia fenomeno: non solo ogni fenomeno è connesso con innumerevoli altri in una rete infinita di relazioni, ma ciascuno retroagisce anche su quelli che – visti in una certa prospettiva – possono apparirne la causa. Alla nozione di “causa” si sostituisce quella di corrispondenza, di influenza scambievole tra diversi ordini di fenomeni»61. Per Simmel, considerato insieme non soltanto come “nur Philosoph”62 ma anche come sociologue63, l’oggetto-problema della sua riflessione, comprensiva di una fondazione “filosofica” della sociologia, «orientata dall’idea della “dimensione relazionale dell’esserci-nel-mondo”»64, è costituito dalle
57
Sull’argomento, cfr. D. Frisby, Frammenti di modernità. Simmel, Kracauer, Benjamin, cit.; A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit.; A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, cit.; D. Simon, Il soggetto della modernità, cit. 58 A. Cavalli, Introduzione, in G. Simmel, Sociologia, cit., p. XVI. 59 Ibid. 60 P. Jedlowski, Teorie delle forme e dell’azione sociale, in F. Crespi, P. Jedlowski, R. Rauty, La sociologia. Contesti storici e modelli culturali, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 157. 61 Ibid. 62 Cfr. F. Mora, Principio Reciprocità, cit. 63 Cfr. P. Watier, Georg Simmel sociologue, Circé, Strasbourg 2003. 64 D. Simon, Il soggetto della modernità, cit., p. 111.
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forme che assumono le relazioni di influenza reciproca tra gli esseri umani. La società stessa è a sua volta un complesso di relazioni che gli individui creano nel loro continuo interagire costituito da effetti di reciprocità: questo complesso fluire dinamico di relazioni si riproduce e si stabilizza in forme che, da un lato, rendono possibile l’analisi delle relazioni reciproche e, dall’altro, sono di continuo messe in discussione dalle successive, nuove e sempre più complesse interazioni sociali. Secondo Simmel, la società, o per meglio dire il processo relativo al costituirsi delle «forme di associazione» (Formen der Vergesellschaftung), esiste là dove più individui entrano in un rapporto di azione reciproca (Wechselwirkung)65. Applicato alla sociologia, il concetto di azione reciproca si declina come Vergesellschaftung, che, in quanto processo e risultato mediante il quale si instaurano e si mantengono le relazioni di azione reciproca tra elementi sociali (individui, gruppi, ma anche intere società), è dunque una proprietà emergente degli stessi processi d’azione66. Affermando che la società «esiste là dove più individui entrano in azione reciproca» e che «quest’azione sorge sempre da determinati impulsi o in vista di determinati scopi»67, Simmel – procedendo da sociologo e interrogandosi nel contempo da filosofo –, non soltanto ha da sciogliere uno dei nodi teorici più difficili da affrontare nel campo della sociologia, ovvero la concettualizzazione del rapporto individuo/società – «la “società” esiste poiché generata da contributi individuali che vanno oltre l’individuo»68 –, ma ha da porsi contemporaneamente la domanda – formulata inizialmente in analogia a quella kantiana (nella prima Critica) circa le condizioni di possibilità della natura –: Wie ist Gesellschaft möglich? Sappiamo. Per Simmel la società di per sé «non è qualcosa di oggettivo ma un concetto “possibile” in quanto rappresentazione di un mondo
65
Cfr. G. Simmel, Sociologia, cit., pp. 8-9. Come è stato osservato, Simmel, focalizza, nella sua sociologia dell’azione, «una lettura quadridimensionale della società e dei suoi processi interni. Egli pone in luce (a) i caratteri fondamentali della società che sono in primis […] il suo essere frutto dell’interazione umana, ma (b) in un’ottica che vede i partecipanti in una situazione di disparità di potere tra di loro. Tale situazione (b) – ossia il dislivello tra gli attori sociali – comporta necessariamente che la società sia strutturata e diversificata al suo interno. In terzo luogo (c), le convivenze umane non vengono considerate entità fisse, bensì in evoluzione nel corso del tempo e dunque colte nel loro divenire storico, facendo risaltare in questo modo i tratti e le modalità delle loro trasformazioni profonde. A tutto questo si aggiunga (d) la particolare sensibilità di Simmel per la considerazione totale del soggetto, non solo come attore sociale ma anche come individuo con le sue pulsioni, reazioni, istinti, limiti, debolezze, capacità, esigenze» (A. Bianco, Sovra-ordinazion e subordinazione nella Soziologie di Georg Simmel, cit., p. 16). 67 G. Simmel, Sociologia, cit., p. 8. 68 G. Navarini, Georg Simmel: azione reciproca e forme sociali, in Id., Teoria dell’azione sociale: i classici, Carocci, Roma 2005, p. 98. 66
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il cui carattere si dà allo scienziato (e all’individuo) come unitario indipendentemente dal fatto che lo sia per davvero. In questo senso, kantianamente, la società è l’esito di un insieme di a priori cognitivi: non esiste a prescindere dall’uomo ma è il risultato di attività “fissate ma non definitive” di selezione, astrazione, tipizzazione e generalizzazione della realtà compiute dagli attori in conseguenza della loro azione reciproca»69: queste attività, quindi, non sono costrutti meramente soggettivi ma intersoggettivi, generati nel campo delle ambivalenti interazioni sociali. Com’è noto, Simmel è l’uomo delle analogie, ideatore di un sapere della superficie70. Egli ha saputo con straordinaria attitudine cogliere ed analizzare nei frammenti e nelle tracce della totalità della vita caratterizzata come flusso continuo – come Mehr Leben, come vita ulteriore e come Mehr-als-Leben, come vita in quanto eccedenza –, cioè nei particolari, nel gioco reciproco delle differenze tra soggetti e oggetti, la molteplicità e la policromia del mondo fenomenico nella sua totalità. Analogicamente al fare dell’artista, Simmel si è posto il compito – attraverso l’analisi della reciprocità – di rendere conto di una delle forme possibili che rappresentano la realtà, capace, per la sua suggestiva proprietà, di esprimere le altre forme. Il termine “realtà”, parimenti, rinvia problematicamente (ed analogicamente) al termine relazione, cioè alla reciprocità, alle relazioni tra gli uomini, da quelle quotidiane a quelle che fanno la storia, tutte considerate in quel processo fondamentale che forma il materiale individuale e collettivo dell’umano-sociale, e che è rappresentato appunto dagli effetti di reciprocità. La società funziona socialmente, per questo Simmel è particolarmente interessato all’analisi relativa al processo di messa in forma della società – ivi compresa la sua configurazione spaziale71. Egli si è impegnato a tradurre e trascrivere l’idea (di come sia possibile) la società: partendo ancora una 69
Ivi, p. 99. Cfr. M. Vozza, Simmel e la trasparenza delle forme, in Id., Il sapere delle superficie. Da Nietzsche a Simmel, cit., pp. 78-109. 71 Come ho mostrato in Filosofia e sociologia dello spazio. Saggio su Simmel [cfr. A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, cit., pp. 21-87] e ne L’ineffabile chiasmo, cit., pp. 133-185, cercando di comprendere le forme dell’azione reciproca degli individui, Simmel ha spiegato l’importanza connessa alla necessità per gli attori sociali «di riempire di contenuti diversi la pluralità delle configurazioni spaziali». Nello specifico, la definizione simmeliana dello spazio «come a priori logico e percettivo», permette di considerare questa dimensione non come qualcosa «di cui si fa esperienza», ma come «un modo di fare esperienza». Simmelianamente, lo spazio non è mai unicamente un aspetto oggettivo, ma, considerato in relazione a determinate funzioni specificamente psichiche e a peculiari sue configurazioni storiche, esso è “un’attività dell’anima”, ovvero è nel contempo «condizione e simbolo dei rapporti tra gli uomini». 70
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volta “analogicamente” da un quesito formulato kantianamente. Ciò che lo ha interessato si è tradotto nella possibilità di sviluppare un’ermeneutica multidimensionale del reale registrato sismograficamente nella sua molteplice fenomenologia relazionale e capace di spiegare la formazione delle (as)sociazioni umane senza però ridurne la complessità: tentare di giungere al cuore dell’individualità moderna in cui si combina l’alchimia delle relazioni umane quotidiane, per comprendere la varietà dei loro modi d’essere e il loro funzionamento. Materializzare l’anima della vita quotidiana, le sue forme; questo è l’obiettivo dell’analisi simmeliana della reciprocità. A Simmel interessa la dimensione individuale-sociale dei fatti. Il suo metodo comprendente presuppone l’attenzione alle relazioni umane: esso deve poter esprimere il relazionale senza ridurlo; la reciprocità esprime una complessificata funzione immanente sia degli individui che dei gruppi sociali. Studiare ed analizzare le forme dell’agire individuale e sociale per giungere a cogliere una logica della loro formazione: tutto ciò presuppone riflessivamente una concezione epistemologica che si traduce nell’originale formulazione concettuale della reciprocità e che raggiunge nella teoria dell’ambivalenza72 sviluppata da Simmel un punto alto originalmente esemplato nella sua opera. Le ragioni del metodo simmeliano si rivolgono prevalentemente a favorire l’intento di dare alcune possibili risposte inerenti i quesiti che emergono dai processi di concretizzazione del quotidiano: cioè, i loro effetti di reciprocità. Simmel è interessato a disvelare l’energia del rapporto che formandosi si qualifica come “sociale”: quell’energia che si sviluppa tra i soggetti e i soggetti e gli oggetti che li circondano. Rilevante è dunque, tra l’altro, la dimensione “esteriore” – la forma – di ciò che fa e diventa “relazione”. Di conseguenza, il carattere “sociale” dei fatti rinvia comunque agli effetti di reciprocità che le relazioni rappresentano. Questo peculiare carattere “sociale” esprime, per così dire, l’«atomo logico» [Papilloud] del concetto simmeliano di reciprocità. Il materiale indeterminato della vita sociale (la concretizzazione delle relazioni nella costruzione e nell’invenzione del quotidiano) e la vita sociale stessa (dove le relazioni si combinano, si creano, si mescolano e si influenzano reciprocamente in modo differente attraverso le variegate funzioni svolte dalla mediazione costituita dalle loro forme), istituiscono i due livelli epistemologici principali su cui si possono disporre i fatti sociali, ovvero le forme dell’agire sociale che sono per l’appunto “fatti” (ed effetti) di reciprocità. Le forme socio-culturali, le forme del vivere-insieme-individualmente, le forme dell’agire sociale, rappresentano il “punto di 72
Cfr. A.R. Calabrò, Georg Simmel: la sociologia dell’ambivalenza, cit., pp. 39-69; Z. Bauman, Modernità e ambivalenza, cit.
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convergenza” stabile tra questi due livelli. A loro volta le forme sociali possono ulteriormente essere considerate come delle “mediazioni” che rendono conto della regolarità delle pratiche umane: quest’interpretazione avanzata dai critici contemporanei permette di tracciare una filosofia ed una sociologia simmeliana delle mediazioni sociali e del quotidiano. Di fatto, le forme socio-culturali si affrancano oggettivamente dalla vita soggettiva degli individui e dei gruppi sociali: esse persistono, perdurano, dileguano al di là dei loro aspetti contingenti che variano, mutano secondo le epoche storiche e sociali e i contesti culturali. Di conseguenza, studiare la forma consente di rendere conto delle condizioni di possibilità che in generale si danno della relazione umana, indipendentemente dai tempi e dai luoghi. È necessario, dunque, poter disporre di un insieme di principi epistemologici capaci di chiarire il carattere “universale” delle relazioni umane, la loro “verità obiettiva”. Tutto ciò contrasta col presunto, e più volte reiterato, “relativismo” che una certa vulgata storiografica ha più volte affibbiato a Simmel. La relazione è un paradigma “forte” nelle scienze sociali. Simmel, nella quotidianità, ricerca la materialità della relazione per cercare di comprendere ciò che la rende possibile appunto come relazione. Ciò rappresenta l’aspetto paradigmatico sul piano epistemologico della reciprocità (Wechselwirkung). Egli non fornisce una definizione in senso stretto della reciprocità, ma ne problematizza i suoi possibili significati. Soprattutto si sofferma sulla possibilità di diagnosticare la reciprocità, cioè sulla possibilità di identificare i sintomi e le forme ricorrenti che si manifestano nella vita quotidiana moderna. Simmel considera la reciprocità nella sua accezione semantica più complessa come un processo: essa è una componente consustanziale “tra gli uomini”, che li lega in un processo che si sviluppa all’infinito. La reciprocità è materiale in quanto costituisce la ricerca concreta di tutto ciò che la vita può contenere. Simmelianamente, la strutturazione del mondo umano risulta da una dinamica d’attrazione e di repulsione. Nel suo insieme la reciprocità non fa d’emblée legame sociale. Composta da vari elementi e caratteri (fisici, psicologici, morali, ecc.), la sua peculiarità è quella di fare e produrre effetti, di operare dei costanti mutamenti sugli oggetti e sui soggetti che ne sono coinvolti e che ne trasmettono e comunicano le differenti proprietà. Da quanto detto, risulta evidente che la complessità semantica del concetto simmeliano di reciprocità impegna ermeneuticamente il suo lettore-interprete. Muovendo dalla dinamica generale della reciprocità, Simmel dischiude un significato antropologico della reciprocità come movimento di nonconciliazione tra entità individuali, sociali e naturali. Parimenti, la dimensione psicologico-sociale della reciprocità conferisce a Simmel la possibilità di
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approfondire il ruolo della reciprocità negli sviluppi e nelle dinamiche della socialità che riguardano l’identità moderna (individuale e di gruppo). Anche il carattere politico della reciprocità ha la sua considerevole rilevanza: proprio la sua intrinseca politicità consente a Simmel di insistere sull’importanza dell’engagement reciproco degli uomini come garanzia di rinnovamento dei rapporti socio-culturali considerati nella loro durata73. Conferendo alla reciprocità lo statuto socio-antropologico di possibile relazionato allo sviluppo naturale e sociale della condizione umana, Simmel più volte pare evocare il concetto di “destino” della reciprocità nel mondo moderno, delle sue conseguenze nello stile di vita. Nella modernità, quindi, la relatività della reciprocità si riflette nella fragilità della vita quotidiana, denotando i suoi caratteri ed aspetti più esplicitamente vulnerabili. Mettendo in evidenza i significati correlati all’idea di reciprocità attraverso l’analisi della Wechselwirkung e interrogandosi sulle condizioni che la rendono concretamente possibile nel quotidiano, Simmel ha aperto nel campo delle scienze sociali una rilevante prospettiva d’indagine costituita dalla problematica della relazione a cui è direttamente connessa, sul piano applicativo, quella relativa alla vulnerabilità del sociale. Con Simmel e dopo Simmel abbiamo cominciato ad analizzare criticamente il tema e lo stato della “vulnerabilità generalizzata” dell’umano e del sociale anche attraverso le pratiche filosofiche e sociologiche a partire soprattutto dalle conseguenze che la modernità e poi la globalizzazione hanno prodotto sulle persone nella loro vita quotidiana: tutto ciò ci ha reso particolarmente attenti ai problemi della relazione umana e alla sua ermeneutica critica rivolta a contrastare lo scetticismo implausibile e la vulgata doxastica dei discorsi relativi alla cosiddetta “fine delle grandi narrazioni, delle ideologie e della storia”, del “naufragio dell’universalità”, o della deriva dello “spirito critico” in cui ci costringe l’attuale “schiavitù del presente” e in cui si consuma la mediatizzazione del senso comune nell’incertezza e nella frammentazione quotidiane. Anche Simmel ha vissuto molti di questi sintomi nella sua epoca. Paradossalmente, allorché le relazioni umane si sono oggi rese estremamente fragili – (la fragilità dei legami umani è infatti un tema su cui riflette criticamente la teoria e la filosofia sociale contemporanea) –, ebbene proprio in questo scenario Simmel riappare alla superficie del globo filosofico e sociologico e ridiventa più che mai visibile, addirittura necessario, per non dire “attuale”. Simmel ha scoperto e praticato una peculiare forma di pensiero reticolare74 e di scrittura come pratica filosofica e sociologica, il saggismo, che è risultata 73 74
Cfr. C. Papilloud, La réciprocité, cit., pp. 165-175. Cfr. S. Fornari, Del perturbante. Simmel e le emozioni, cit., p. 93 sg.
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a posteriori come la più adeguata per comprendere e diagnosticare le metamorfosi dell’individualità moderna e gli enigmi della quotidianità. Egli affrontava la realtà sociale in base a molteplici prospettive, mettendo ogni volta a fuoco un determinato fenomeno, un tipo o un processo. Sottoposta ad un simile dispositivo analitico e critico, la realtà non emerge mai per elevarsi al livello di una totalità coesiva ed armoniosa. Essa appare, al contrario, come un insieme diffranto di accessi di vita e di schegge di sapere possibile distanti da modelli epistemologici completi, sistematici e dogmatici. Nella prospettiva relazionale e critico-saggistica di Simmel, la realtà della modernità assume la forma della “tragedia della cultura”: una realtà, dunque, destinata allo sgretolamento. Soltanto oggi ci rendiamo conto che la generazione di Simmel non poteva o non voleva capire che lo “sbriciolamento” della realtà sociale costituiva la “misura tragica” della condizione umana moderna che oggi si riflette specularmente nel fenomeno globale della frammentazione. Di fatto, l’analisi simmeliana della reciprocità costituisce un’idea cardinale per comprendere le dinamiche relazionali della socialità moderna. Simmel ne dimostra il significato attraverso l’individuazione di quattro registri teorici complessivamente presenti nella sua opera, sviluppando con ciò un sapere relativo al livello antropologico, sociologico, psicologico e politico. La concezione simmeliana dell’idea di reciprocità come dinamica possibile dei rapporti socio-culturali disvela un movimento complessivo proprio dell’insieme delle relazioni umane, la cui peculiarità principale è il suo carattere inconciliabile perché a-sintetica. La reciprocità possiede un carattere graduale: essa è relativa. Dal punto di vista dinamico, essa non fa mai automaticamente né relazione né società in quanto tali. Da un punto di vista morfologico, essa si stabilisce sia in modo locale che globale. Infine, considerata dalla visuale delle sue realizzazioni concrete, essa assume dei significati particolari, relativi ai contesti nei quali appare. In ciò Simmel rintraccia le radici, le fonti, le basi per la sua analisi della vita quotidiana moderna. Simmel, com’è noto, reperisce dei frammenti dell’idea di reciprocità, frammenti colti all’interno dei rapporti sociali attraverso le operazioni di simbolizzazione e desimbolizzazione: ciò esprime ed attesta i differenti modi in cui l’individualità moderna stabilisce le relazioni reciproche tra l’io e l’altro. Tutto ciò, inoltre, conferendo durata all’idea di reciprocità nel mondo socio-culturale si riflette sensibilmente sulle pratiche interattive del mondo della vita quotidiana nella modernità che presentano un forte livello di indeterminatezza e di oggettivazione. L’analisi della modernità che Simmel ha sviluppato è, tra l’altro, in stretta connessione con la tematica della relazione: la modernità è la manifestazione sintomatica, ambivalente, del problema relazionale così come si esplica nella dimensione della reciprocità, che si traduce a vari livelli nelle espressioni dinamiche della
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vita quotidiana metropolitana e della estetizzazione del suo peculiare stile. Analizzare la modernità a partire dall’idea di reciprocità implica un rinnovamento del modo di leggere Simmel, sottolineando in particolare i paradossi del moderno. La modernità è “paradossale” in quanto rende il quotidiano più astratto in ogni argomentazione della nostra sensibilità ai contenuti ineffabili del quotidiano. Il carattere paradossalmente “sorprendente” del quotidiano può sospingere a mettere in atto un’evidente resistenza alla riduzione della personalità alla conformità astratta della vita quotidiana: in ciò si traducono, tra l’altro, le strategie di estetizzazione dello stile di vita moderna75. Parimenti, la fragilità dei legami umani e sociali reciproci tipici della vita moderna riflette specularmente una vulnerabilizzazione generale delle relazioni umane quotidiane, la cui incertezza è un tratto diffuso dell’esperienza che si consuma nel processo ambivalente di “intellettualizzazione della vita”: l’analisi di questo processo, che esprime l’azione reciproca di più fattori, attraverso Simmel, permane ancora di grande “attualità”. Un’“attualità” sempre più cogente che gli viene oggi riconosciuta tra l’altro per aver saputo cogliere e comprendere correlativamente con originalità l’ambiguità e l’ambivalenza del processo di «individualizzazione» quale elemento costitutivo di una diagnosi filosofica e sociologica del moderno. Nota II. Conoscenza, reciprocità, riconoscimento Oggi, come viene riconosciuto criticamente, dopo Simmel, «l’ambito teorico che nella filosofia sociale e politica più recente ha maggiormente ricondotto la dimensione della reciprocità a oggetto dei riflessione, è senz’altro la contemporanea teoria del riconoscimento»76. Muovendo dall’uso e dall’applicazione del paradigma della reciprocità (Wechselwinkung) formulato e teorizzato da Simmel, c’è chi opportunamente ritiene che ad esso ci si possa rivolgere anche per fare riferimento a una «teoria filosofica della soggettività» (EN, 229), con l’avvertenza preliminare di ricordare tuttavia che «i processi di riconoscimento debbano essere maggiormente interpretati come dinamiche costitutive della soggettività senza però evincerne direttamente dei modelli regolativi dell’azione sociale» (ibid.). Infatti, come osserva Franco Crespi, «il riconoscimento non è riferito a un’identità già formata dell’individuo, bensì precede ogni possibile processo 75 A tal proposito, cfr. le ricostruzioni svolte da C. Papilloud, La réciprocité, cit., pp. 215-234 e da V. Mele nella sua Introduzione in G. Simmel, Estetica e sociologia. Lo stile della vita moderna, cit., pp. 7-42. 76 V. Rosito, Espressione e normatività, cit., p. 229 (d’ora in poi EN).
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di formazione di un’identità determinata, essendone la condizione»77. Inoltre, il riconoscimento intersoggettivo «prima di essere un processo di attribuzione reciproca di garanzie e di diritti, è un processo in cui, a essere riconosciuta, è l’interdipendenza formale degli individui» (EN, 229), per cui la conoscenza che il soggetto matura nel riconoscimento «è essenzialmente conoscenza delle relazioni e dei rapporti sociali che lo costituiscono» (ibid.). Sugli sviluppi problematici relativi all’ermeneutica contemporanea del concetto di reciprocità occorre quindi indugiare. Secondo Rosito, la reciprocità «non è esclusivamente un valore antropologico fondante o avente una connotazione valorialmente positiva», anzi, quello della reciprocità appare essere invece «un concetto alquanto neutro» (ibid.). Il perché risiede nel fatto che «è sia limitante che sterile dire che la soggettività progredisce mediante la sola acquisizione di autocoscienza e di autonomia»: infatti, il soggetto non si costituisce come agente personale e responsabile dell’azione sociale «solo perché inserito in rapporti e reti di reciprocità», ma può raggiungere questo scopo «solo se si incammina in un percorso esperienziale e riflessivo che lo porta a fondare la mutualità nella reciprocità» (ibid.). Nei diversi ambiti dell’umano, la costituzione dell’io «non passa attraverso l’assunzione di presupposti normativamente statici, la consapevolezza conoscitiva dei quali viene appresa una volta per sempre» (ivi, 230). Se è nella prassi trasformativa che l’umano s’incarna e si costituisce, ciò sta a significare appunto che l’uomo «nasce e si percepisce come identità personale autonoma sempre in e attraverso reti di reciprocità». Dunque, conclude Rosito, «il soggetto è da sempre immerso nella reciprocità, ma questo non basta a definirne lo statuto di soggetto libero e responsabile verso rapporti interpersonali pieni e fecondi. Per realizzare ciò, le reti di reciprocità in cui egli è immerso attendono di essere tradotte in spazi intersoggettivi di mutualità» (ibid.), una mutualità non solo produttrice di senso ma anche di differenze (cfr. ivi, 231).
5.5. Individualità, alterità e riconoscimento intersoggettivo: incidenza di Hegel Nelle Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel ha osservato che «la storia non è il terreno in cui cresce la felicità. I periodi di felicità sono le pagine bianche della storia»78. Certo, sarebbe difficile oggi, retrospettivamente, pensare 77
F. Crespi, Il male e la ricerca del bene, Meltemi, Roma 2006, p. 71. Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1983-1985; al riguardo cfr. P. Salvucci, Lezioni sulla hegeliana filosofia 78
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di contrapporre le lacerazioni della condizione intersoggettiva contemporanea ad una ormai irraggiungibile “armonia greca”79. Ma la lezione hegeliana, in particolare quella esemplata nella Fenomenologia dello spirito, dopo più di due secoli80, continua ancora a mettere in evidenza il suo tentativo di “pensare la vita” e di abbracciare “la ricchezza del reale”81. Individuando i limiti della visione kantiana dell’essere umano, in quest’opera scritta a Jena nel 1807, il filosofo di Stoccarda avverte la necessità di porre a base della modernità «una nuova antropologia»82. Per Hegel, oltre la caratterizzazione essenzialmente conoscitiva dell’Io di matrice kantiana, «neanche la raffigurazione di un’individualità che, mossa da bisogni, entri in una relazione strumentale, di uso e consumo con la realtà esterna per soddisfare le proprie necessità, è sufficiente a dar conto della vera natura dell’essere umano»83. Infatti, «ciascuno di noi, oltre ad essere soggetto di una ragione conoscitivo-osservativa e oltre ad essere soggetto di una corporeità fatta di bisogni ed appetiti, è soggetto che trova il suo soddisfacimento più profondo, la sua identità più vera, solo nell’essere riconosciuto nel suo valore di individuo e di persona da un essere umano a lui simile, ossia nel riconoscimento da parte di un altro soggetto»84. Per Hegel, dunque, «senza il riconoscimento della propria esistenza, della propria irripetibile individualità, da parte di un altro (o da parte di altri) non si dà autentica esistenza umana»85. Nel modello hegeliano, alterità e forme di riconoscimento intersoggettivo giocano un ruolo fondamentale nel movimento dialettico complesso inerente il campo relazionale che delinea la socialità, reciprocità e universalizzazione del soggetto che non rinuncia però alla propria individualità. Nell’antropologia e nella filosofia dialettica di Hegel, «il soggetto è ciò che non è in sé autonomo ed autosufdella storia, presentazione di P. Grassi, FrancoAngeli, Milano 2007. Sul tema della felicità affrontato storicamente, cfr. D.M. McMahon, Storia della felicità. Dall’antichità a oggi, tr. it. di A. Cristofori, Garzanti, Milano 2007. 79 Sulla tematica della Gemeinschaft della tradizione politica classica esemplata e interpretata da Hegel, cfr. R. Bonito Oliva, L’individuo moderno e la nuova comunità. Ricerche sul significato della libertà soggettiva in Hegel, Guida, Napoli 2000. 80 Cfr. AA.VV., Riconoscimento, dialettica e fenomenologia a duecent’anni dalla “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, in «Postfilosofie», 4, 2008. 81 Cfr. G. Cantillo, Introduzione, in G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. I, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2008, pp. V-LXI. Al riguardo, cfr. R. Bodei, La «Fenomenologia» della coscienza, in «Il Sole24ore», domenica, 22 marzo 2009; cfr. inoltre l’Introduzione di G. Garelli, in G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008. 82 R. Finelli, Dalla Rivoluzione francese alla Comune di Parigi, in AA.VV., La libertà dei moderni. Filosofie e teorie politiche della modernità, Liguori, Napoli 2003, p. 26. 83 Ibid. 84 Ibid. 85 Ibid.
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ficiente ma solo ciò che, dipendente intrinsecamente dall’altro, è capace di rispecchiarsi e di ritrovarsi nell’altro da sé […]. È l’“in sé”, che attraverso il “per altro”, diviene “in sé e per sé”: ossia soggetto non presupposto come già costituito e definito dall’inizio, bensì tale solo per un processo di fuoriuscita da sé e di ritorno a sé»86. Se si potesse sintetizzare la cifra del pensiero hegeliano, potremmo dire che il movimento del riconoscimento, la sua “mediazione sillogistica”, scaturisce da una dialettica fra il trovare-se-stesso nell’altro e il distanziarsi dall’altro, laddove tale movimento non è solo il fare di una singola autocoscienza ma è altresì un processo simmetrico-reciproco e anche riflessivo87. Il conoscere-come-riconoscere, in Hegel, raggiunge il suo livello più alto di compimento sempre come «l’insieme del riconoscimento dell’altro, del riconoscersi e dell’essere riconosciuto», e come tale, «è un nesso di relazioni alla cui definizione non basta la reciprocità simmetrica» in quanto la simmetria va comunque coniugata «insieme alla riflessività interiore», ovvero «l’asse orizzontale va coniugato insieme all’asse verticale»88. L’Anerkennung concepito come “principio specifico della filosofia pratica” hegeliana89 pone capo ad un frame in cui il processo del riconoscersi si traduce in un complesso movimento dialettico in cui il riconoscimento reciproco viene a fondarsi sul carattere intersoggettivo dell’identità ma anche su quell’elemento conflittuale che è “la lotta per il riconoscimento”, esemplata originalmente da Hegel nelle celebri pagine della Fenomenologia dedicate all’Autocoscienza e in particolare alla “dialettica servo-signore”. La posta in gioco è dunque proprio il Kampf um Anerkennung, ecco perché hegelianamente la dialettica del riconoscimento disvela “un momento agonistico, conflittuale” che ci presenta un soggetto90 da non considerare mai come un dato, bensì sempre come «una conquista»91. Nella lotta per il riconoscimento, l’autocoscienza che non è mera proiezione dell’identità dell’altro, ma attestazione e affermazione di se stessa come differenza, come opposizione, e che non si risolve in un superamento dell’intersoggettività, si può manifestare soltanto riconoscendo e presupponendo l’esistenza di una 86
Ivi, pp. 26-27. Cfr. C. Iber, Aucoscienza e riconoscimento nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, in AA.VV., Riconoscimento, dialettica e fenomenologia a duecent’anni dalla “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., pp. 16-17. 88 R. Finelli, Trame del riconoscimento in Hegel, in AA.VV., Riconoscimento, dialettica e fenomenologia a duecent’anni dalla “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 53. 89 Cfr. L. Siep, Il riconoscimento come principio della filosofia pratica. Ricerche sulla filosofia dello spirito jenese di Hegel, tr. it. a cura di V. Santoro, Pensa Multimedia, Lecce 2007. 90 Cfr. L. Cortella, Il soggetto del riconoscimento. L’intersoggettività in Hegel, in C. Vigna (a cura di), Etica trascendentale e intersoggettività, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 373-396; anche in L. Cortella, Autocritica del moderno. Saggi su Hegel, Il Poligrafo, Padova 2002, pp. 257-278. 91 Cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, Einaudi, Torino 1987, p. 211. 87
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pluralità di autocoscienze antagonistiche, di quegli “altri reali” che chiedono riconoscimento reciproco92. Come dice Bodei: «il soggetto abdica alla propria presunta sovranità originaria, rischia la perdita di sé e guadagna la propria identità a contatto con l’alterità e l’oggettività. Non si diventa infatti soggetti per diritto divino, a partire dalla purezza dell’Io=Io»93.
5.6. Honneth: “società del riconoscimento” e reificazione. Sviluppi problematici Nel dibattito filosofico-politico contemporaneo è paradigmaticamente accertato che la “soluzione hegeliana” della dialettica del riconoscimento sviluppata nella Fenomenologia abbia contribuito ad offrire «uno dei criteri più elevati e fecondi con cui ripensare i problemi inevitabili della riformulazione antropologica e politica cui si trova di fronte l’umanità contemporanea»94. Muovendo da questa consapevolezza, è soprattutto nell’operazione di riabilitazione del giovane Hegel degli scritti del periodo jenese (anteriori al 1807)95 – proposta recentemente da Axel Honneth96 – che è possibile indi92
Cfr. A. Tucci, Individualità e politica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002, p. 65. R. Bodei, Scomposizioni, cit., p. 219. Per un commento critico dell’hegeliana «immobile tautologia: Io sono Io», cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 21 sg.; mentre, sul rapporto tra identità, alterità e riconoscimento in Hegel, cfr. F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 86 sg. 94 R. Finelli, Introduzione, in AA.VV., Riconoscimento, dialettica e fenomenologia a duecent’anni dalla “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 7. 95 Cfr. G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, a cura di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 2008. 96 Cfr. A. Honneth, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post-tradizionale, tr. it. e presentazione di A. Ferrara, Rubbettino, Soveria Mannelli 1993; Id., Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, tr. it. di C. Sandrelli, il Saggiatore, Milano 2002; Id., Il dolore dell’indeterminato. Una riattualizzazione della filosofia politica di Hegel, tr. it. di A. Carnevale, manifesto libri, Roma 2003. Su Honneth, tra l’altro, cfr. E. Donaggio, Le ragioni del conflitto, in «Segni e comprensione», n. 28, pp. 37-48; M. Rosati, Solidarietà e conflitti per il riconoscimento in Axel Honneth, in Id., Solidarietà e sacro. Secolarizzazione e persistenza della religione nel discorso sociologico della modernità, Roma-Bari, Laterza 2002, pp. 112-131; F. Riccio, Presentazione, in A. Honneth, Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, tr. it. di M.T. Sciacca, Dedalo, Bari 2002, pp. 5-25; F. Fistetti, Il paradigma del dono. Verso una nuova teoria critica della società?, in «Postfilosofie», n. 1, 2005, pp. 95-120; I. Strazzeri, Teoria e prassi di riconoscimento, Manni, Lecce 2005; B. van den Brink, D. Owen (a cura di), Recognition and Power. Axel Honneth and the Tradition of Critical Social Theory, Cambridge University Press, Cambridge 2007; G. Scurti, Visibilità e riconoscimento, Liguori, Napoli 2008, pp. 113-129; A. Carnevale, Sofferenza morale e riconoscimento: l’aspetto normativo della vergogna, in A. Lenci, A. Carnevale, Il «sociale» della giustizia. Questioni di genere e questioni di riconoscimento, Pensa Multimedia, Lecce 93
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viduare, come ritengono gli interpreti contemporanei, una pista ermeneutica originalmente protesa a tentare di sviluppare una concezione intersoggettivistica dell’identità umana e una teoria critica del riconoscimento, congiunta ad una nuova concezione della normatività, ritenendo che da essa possano sortire interessanti sviluppi teorici e problematici volti non solo a superare le attuali difficoltà che la filosofia sociale incontra, ma anche a proporsi «come un paradigma forte per l’analisi dell’agire sociale e per le sue applicazioni pratiche, nonché quale fondamento dell’attuale riflessione politica, in particolare per quanto si riferisce ai rapporti interculturali e alla solidarietà sociale»97. Raccogliendo l’eredità fondamentale del programma iniziale della Teoria critica dei francofortesi “classici”, Honneth, come Adorno, lega la questione dell’individualità98 all’identificazione delle potenzialità di emancipazione e degli ostacoli alla loro attualizzazione: l’individualizzazione dei rapporti sociali che caratterizza le società moderne è presentata così come «una promessa di emancipazione ambivalente», dal momento che essa è «indissociabile dalla produzione delle forme di individualità che ostacolano l’emancipazione»; di conseguenza, la questione dell’individualità non può non essere associata «a un tipo di critica sociale che fa suo il punto di vista della critica delle patologie sociali» (ICC, 160)99. Per Honneth, sia il concetto di individuo sia l’analisi delle patologie sociali dell’individualità, come sostiene Renault, svolgono «il ruolo di principio generale che permette di misurare il valore delle società e di operatore teorico impiegato nell’analisi delle trasformazioni del capitalismo» (ICC, 169)100. Soprattutto nella sua opera principale, Lotta per il riconoscimento, nel tentativo di sviluppare ulteriormente, rilanciandolo, il programma della Teoria critica nella forma di una teoria del riconoscimento, Honneth ha inteso perseguire quattro obiettivi principali: a) Elaborare una definizione della giustizia dall’esperienza dell’ingiustizia (che è sempre un’esperienza di rifiuto del riconoscimento); b) sviluppare una psicologia morale nell’ambito di una teoria dell’individualizzazione come so2008, pp. 201-246; AA.VV La teoria del riconoscimento, «Quaderni di Teoria Sociale», n. 8, 2008, pp. 11-215; V. Pedroni, Ragion pratica e sensibilità morale. L’etica fra discorso e intuizione, Carocci, Roma, 2010, p. 233 sg. 97 Cfr. F. Crespi, M. Rosati, A. Santambrogio, Presentazione, in AA.VV., La teoria del riconoscimento, cit., p. 11. 98 Cfr. E. Renault, L’individualità come categoria critica, in «La società degli individui», n. 35, 2009/2, p. 160 (d’ora in poi ICC). 99 Cfr. A. Honneth, Patologie del sociale. Tradizione e attualità della filosofia sociale, in «Iride», n. 18, 1996, pp. 295-328. 100 Cfr. A. Honneth, Capitalismo e riconoscimento, a cura di M. Solinas, Firenze University Press, Firenze 2010.
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cializzazione (l’individuo è un prodotto sociale, si costituisce nel corso della socializzazione con l’intermediario dell’identificazione con gli altri e il riconoscimento da parte degli altri); c) identificare il centro del sociale nelle relazioni interindividuali sottese alle aspettative di riconoscimento (le società riposano sempre su delle relazioni sociali e possono sussistere solo soddisfacendo le attese di riconoscimento fondamentali degli individui); d) tratteggiare una teoria delle condizioni psicosociali dell’azione (solo i soggetti riconosciuti dagli altri dispongono di un rapporto con se stessi sufficientemente positivo per poter cercare di valorizzare le loro esistenze e per trasformare la società rendendo migliore la vita individuale e collettiva) (ICC, 170).
Per Honneth, l’identità e la realizzazione di sé rappresentano due categorie fondamentali per esplicitare il contenuto normativo del concetto di individuo e come tali, dunque, sono decisive (cfr. ibid.). Egli concepisce l’individualità come «costituita nei rapporti con l’alterità naturale, corporea e sociale», e, parimenti, considera la libertà come «una realizzazione di sé entro una comunicazione non falsa con quest’alterità». Affrontare la questione dell’individualità significa così poter giungere a quella dell’«identità personale»: «rilevare che l’identità si costituisce nella socializzazione permette di comprendere che gli individui hanno un rapporto positivo con sé (o identità positiva) attraverso il riconoscimento, ma che questo rapporto può comunque essere leso da forme di riconoscimento sociale che svalorizzano, squalificano o stigmatizzano» (ibid.): una «vulnerabilità essenziale dell’individuale», di fatto, si esprime attraverso «esperienze morali contrastanti» e, il rifiuto di riconoscimento può condurre al sentimento dell’ingiustizia e a «sforzi rivolti in direzione della trasformazione di situazioni sociali ingiuste» (ibid.). In particolare, nell’analisi critica e nella ricostruzione sistematica – via Hegel, Dewey, Mead e Habermas – delle forme e delle strutture dei processi di riconoscimento intersoggettivo capace di costituire una “grammatica” post-tradizionale di eticità, Honneth distingue (a) tre forme del processo di riconoscimento (amore, diritto e solidarietà), cui corrispondono tre momenti del costituirsi dell’identità personale, facendole poi corrispondere (b) ad altrettante esperienze di disprezzo. Per quanto riguarda (a), secondo Honneth, il primo livello di riconoscimento «è quello che si ottiene nelle cosiddette relazioni primarie, nei rapporti familiari e di amicizia. Il soggetto, sentendosi amato, acquista fiducia in sé, nelle possibilità del proprio corpo»101. Il secondo livello «si realizza nelle relazioni giuridiche: tramite la consapevolezza normativa degli obblighi che lo legano agli altri, il soggetto impara a comprendersi come persona dotata di 101
G. Scurti, Visibilità e riconoscimento, cit., p. 122.
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diritti. Si vede riconosciuto come membro della comunità giuridica, dotato degli stessi diritti e doveri di tutti gli altri. Si sente soggetto autonomo, in senso kantiano, e acquista rispetto di sé, in quanto può comprendere le proprie azioni come espressione della propria autonomia rispettata dagli altri»102. Il terzo livello di riconoscimento «è ottenuto all’interno della comunità etica di appartenenza, i cui membri sono legati da rapporti di solidarietà che si possono sviluppare solo tra coloro che condividono gli stessi valori. Il soggetto viene riconosciuto per il suo valore sociale, ossia per il personale apporto alla società. Il risultato nello sviluppo dell’identità personale è l’acquisizione della stima di sé»103. Per quanto attiene a (b), nella sua delineazione dei tre livelli di riconoscimento, Honneth muove dalla rilevanza della dipendenza tra l’idea che il soggetto si fa di sé e le sue esperienze di interazione con l’altro. Dal momento che l’idea normativa che ognuno si fa di sé dipende dalla possibilità di vedersi più o meno confermato nell’altro, l’esperienza del disprezzo costituisce una minaccia per l’identità individuale e collettiva. Alle tre forme di riconoscimento corrispondono tre forme di offesa: il diventare padroni del corpo di un’altra persona contro la sua volontà, escludere il soggetto da alcuni diritti interni alla società di cui esso è membro, offendere o attentare alla dignità altrui giudicando negativamente il valore sociale di alcuni gruppi o individui. La prima forma di offesa è quella che distrugge la relazione pratica che il soggetto ha con se stesso. La seconda forma di disprezzo si realizza nella privazione del diritto e nell’esclusione sociale e nella conseguente impossibilità per il soggetto di essere riconosciuto come capace di esprimere un giudizio morale. La terza forma di disprezzo, la “mortificazione”, determina l’impossibilità per l’individuo di comprendersi come essere apprezzato per le sue qualità e caratteristiche. Diversamente, per Honneth, l’integrità della persona umana e la salute psichica dipendono dalla garanzia sociale di rapporti di riconoscimento capaci di offrire ai soggetti le migliori condizioni di protezione contro il disprezzo e l’esperienza dell’umiliazione. Disprezzo ed esperienze di offesa forniscono storicamente i motivi morali per una lotta progressivamente emancipativa per il riconoscimento reciproco di identità (individuale e collettiva), che si costituisce in un orizzonte comune di solidarietà sociale consapevolmente conquistata attraverso il conflitto sociale inteso come ineliminabile forza motrice del mutamento sociale ed elemento qualitativamente progressivo dell’integrazione sociale. Nella sua originale opera, Honneth tenta di sviluppare e articolare un 102 103
Ibid. Ibid.
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modello di critica sociale attraverso «diagnosi» sociostoriche: queste diagnosi, rivolte principalmente «all’identificazione delle potenzialità emancipatorie e delle patologie sociali proprie del capitalismo neoliberale», si fondano su «una teoria sociale ispirata alla sociologia e alla psicologia contemporanee» (ICC, 171)104, mentre il «quadro teorico» della sua etica del riconoscimento si traduce, tra l’altro, in un confronto critico con le principali teorie dell’individualizzazione della società contemporanea105. Honneth è particolarmente interessato a cogliere e disvelare il carattere paradossale dei processi di individualizzazione, dispositivo teorico-critico fondamentale che gli consente di per poter sviluppare una critica sociale delle dinamiche di giustificazione «dell’ordine sociale contemporaneo, delle sue “ideologie” e delle sue promesse di emancipazione» (ICC, 171). Ora, il nuovo paradigma che Honneth propone della “società del riconoscimento”, come è stato osservato, è senza dubbio un considerevole contributo per potere procedere oltre nel campo della critica sociale e senza il quale non è possibile avanzare nell’elaborazione di una teoria del riconoscimento e di un pensiero critico dell’individualità. Tutto ciò non è comunque avulso da sviluppi problematici e critici. Francesco Fistetti106, per esempio, ha inteso discutere soprattutto il significato della «lotta per il riconoscimento» di cui parla Honneth nello spazio pubblico-politico globale che di per sé è diasporico per la sua duplice tendenza all’omologazione e alla differenziazione. Contrariamente alla tradizione contrattualista (nelle varianti espresse da Hobbes a Locke, da Kant a Rawls, a Apel o a Habermas), nel tentativo di coniugare «il postulato della libertà individuale (proprio del liberalismo economico e politico) con il carattere etico sostanziale delle istituzioni pubbliche», Honneth ritiene che «la vita etica dei moderni, diversamente da quella degli antichi, deve fondarsi sulla libertà degli individui» (EPSR, 49). Seguendo, come si è detto, Hegel, Dewey, la psicologia sociale di Mead e la teoria critica di Habermas, a partire da Lotta per il riconoscimento, e proseguendo con Il dolore dell’indeterminato, in cui rilegge la filosofia del diritto di Hegel, Honneth ha elaborato «un concetto di vita etica come modello sociale di realizzazione reciproca (intersoggettiva) di libertà» con l’intento 104
Cfr. A. Honneth, Desintegration. Bruchstücke einer soziologischen Zeitdiagnose, Fischer, Frankfurt a.M. 1994; Id., Objektbeziehungstheorie und postmoderne Identität. Über das vermeintliche Veralten der Psychoanalyse in Unsichtbarkeit. Stationen einer Theorie der Intersubjektivität, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2003. 105 Cfr. A. Honneth, Befreiung aus der Mündigkeit. Paradoxien des gegenwärtigen Kapitalismus, Campus, Frankfurt a.M. 2002. 106 Cfr. F. Fistetti, È possibile una società del riconoscimento? Un dialogo con N. García Canclini, A. Honneth e A. Caillé, in «Postfilosofie», n. 5, IV, 2009, pp. 41-62 (d’ora in poi EPSR).
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di «costruire una teoria “formale” della vita etica, capace di riconciliare da un lato l’istanza hegeliana di una forma di riproduzione sociale e di integrazione culturale fondata su valori ed ideali universalmente condivisi (una concezione comune del bene) e dall’altro l’istanza kantiana dell’autonomia individuale o della libertà “riflessiva” concepita sul modello dell’auto-legislazione della ragione pratica e dell’auto-realizzazione morale, ma anche il concetto di libertà che con Isaiah Berlin possiamo chiamare “negativa”» (ibid.). Honneth sostiene, a differenza di Rawls, un concetto di libertà «come struttura di rapporti comunicativi», già a suo tempo delineato da Hegel, che considera tali rapporti «come il bene fondamentale (basic good)» di una società giusta, che, nell’interesse di tutti gli uomini, deve stare a fronte della realizzazione della loro libertà. Egli, cioè, non pensa che questo bene fondamentale si possa assegnare in modo giusto secondo determinati principi; egli sembra invece ritenere che «l’idea di giustizia» nelle società moderne dipende «dalla misura in cui esse possono consentire a tutti i soggetti la pari partecipazione al bene fondamentale di questi rapporti comunicativi» (ibid.). Nella prospettiva di Honneth, dunque, come nota Fistetti, «lo sviluppo riuscito della soggettività (Ego) è legato al presupposto di una struttura di rapporti comunicativi intessuta di forme differenziate di riconoscimento reciproco (Ego/Alter), la cui assenza o difettosità provoca negli individui l’esperienza di un misconoscimento che li spinge alla lotta per il riconoscimento» (ibid.). Secondo l’interprete italiano, attraverso l’individuazione e ricostruzione delle sfere del riconoscimento (amore, diritto, solidarietà), come sfere dell’intersoggettività, Honneth è condotto «a risemantizzare il problema hegeliano dell’eticità sul registro di una postulazione/formalizzazione delle relazioni di riconoscimento reciproco nella sfera familiare (e dei sentimenti privati), nella sfera giuridica e nella sfera sociale in generale», e così facendo, al fondo del suo pensiero lascia intravedere «l’idea di una “società del riconoscimento” trasparente a se stessa, che si risolve/dissolve in una spessa trama di relazioni interpersonali che riassorbe tutta l’opacità e l’inerzia dei sistemi sociali nella coscienza dell’individuo autonomo e consapevole» (ivi, 50). Tutto ciò, agli occhi di Fistetti, appare come «una ricaduta in una variante della filosofia della coscienza e del soggetto» (ibid.), una ricaduta che si sarebbe aggravata ulteriormente anche nel saggio di Honneth (del 2005) dedicata alla eziologia sociale della reificazione e all’analisi della reificazione come oblio del riconoscimento107, in cui la nozione di reificazione verrebbe «sovraccaricata di 107
Cfr. A. Honneth, Reificazione. Il punto di vista della teoria del riconoscimento, tr. it. di C. Sandrelli, Meltemi, Roma 2007. Al riguardo, cfr. Cfr. A. Ferrara, La pepita e le scorie. Ripensare la reificazione alla luce del riconoscimento, in AA.VV., La teoria del riconoscimento, cit., pp. 45-67.
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soggettivismo» e nella quale egli finirebbe col dimenticare che la “differenza ontologica” tra la persona e la cosa «è una relazione storica, non un dato naturale originario della coscienza etica, o, quanto meno, è una conquista precaria dell’evoluzione socio-culturale» (EPSR, 52).
5.7. Antropologia critica dell’umano e dialettica del riconoscimento: ri-configurazioni possibili È un fatto incontrovertibile. Nella società globale, la questione, la ricerca e la sfida contemporanea del riconoscimento come «nuovo fenomeno sociale totale»108 segnano pervasivamente l’orizzonte problematico dell’essere umano che vive nel secolo che ci sta di fronte nella sua estensione temporale. Tale questione, o meglio, la complessa configurazione in cui nella contemporaneità si manifesta la dialettica del riconoscimento109 indica, come sostiene Alain Caillé, «un vero e proprio rovesciamento dell’asse del conflitto politico, sociale e culturale»110 nel nostro tempo. Nella situazione sociale attuale un sentimento universalmente condiviso (individualmente e/o collettivamente) pervade inesorabilmente tutti: «non siamo sufficientemente riconosciuti, non riceviamo un riconoscimento adeguato a quel che facciamo e a quel che siamo»111. Generalizzando, possiamo dire che: «noi tutti proviamo il sentimento di essere stigmatizzati per una ragione o per l’altra, di vivere in una società del disprezzo o dell’umiliazione, d’essere le vittime di una mancanza di rispetto, di una negazione e di un deficit di visibilità. Siamo tutti alla ricerca di riconoscimento. Più o meno disperatamente»112. La questione del riconoscimento è complessa, a tal punto che neppure la tradizione sociologia da Tocqueville a Bourdieu ha saputo persuasivamente trovare «una unità minimale» per poterla tradurre in modo convincente a elaborare un paradigma propriamente sociologico dell’azione sociale113. Questa difficoltà riflette specularmente l’aporia principale di ogni discorso 108
Cfr. A. Caillé, Introduzione a Id. (sous la direction de), La quête de reconnaissance. Nouveau phénomène social total, La Découverte/Mauss, Paris 2007; tr. it., in «Postfilosofie», n. 5, IV, 2009, pp. 15-20. 109 Cfr. F. D’Andrea, A. De Simone, A. Pirni, L’io ulteriore. Identità, alterità e dialettica del riconoscimento, Morlacchi, Perugia 2004 (20052); al riguardo cfr. D. D’Alessandro, Morfologie del contemporaneo. Identità e globalizzazione, Morlacchi, Perugia 2009, pp. 133-153. 110 A. Caillé, Introduzione, cit., p. 15. 111 Ivi, p. 17. 112 Ivi, p. 18. 113 Cfr. A. Caillé, Riconoscimento e sociologia, in Id. (sous la dir. de), La quête de reconnaissance, cit., tr. it., in «Postfilosofie», n. 5, IV, 2009, pp. 21-39.
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sul riconoscimento che rimane prigioniero di una «assiomatica dell’interesse» che intende il riconoscimento come un bene desiderabile, appropriabile e ridistribuibile, e trascura, perché non sa coglierla, la questione fondamentale del discorso sul riconoscimento, che poi a ben vedere non è così difficile da afferrare. Secondo Caillé (v. infra) – che muove dalla problematica del riconoscimento sviluppata da Honneth per approdare ad una rivisitazione critica del paradigma del dono inaugurato a suo tempo da Marcel Mauss114 – «essa coincide con la questione di sapere ciò che costituisce il valore dei soggetti umani e sociali, vale a dire il valore degli individui, delle persone, dei cittadini o credenti, e infine il valore dell’Uomo. Essa ci mostra che, se l’economia politica classica è strutturata come una teoria del valore delle merci, ciò che la sociologia, invece, non ha saputo fare – perché non è riuscita a esplicitare la questione del riconoscimento attorno a cui essa ruota fin dai suoi inizi – è sollevare la questione di sapere ciò che costituisce il valore sociale delle persone. Questa è la vera questione sollevata dal dibattito sulla lotta per il riconoscimento. Lottare per essere riconosciuti non vuol dire altro che lottare per vedersi riconoscere, attribuire o imputare valore. Ma quale valore? Questo è il problema»115. Posti di fronte a una possibile trasformazione radicale della forma di vita degli esseri umani, oggi la riflessione sulle conseguenze della globalizzazione solleva rilevanti quesiti di natura antropologica ed etica. Di fatto, nel tempo in cui viviamo, come con pervicacia interpretativa Vanna Gessa Kurotschka ha osservato116, «nell’esperienza dell’incontro interculturale in uno spazio oramai ineliminabilmente globale le forme classiche di universalismo etico e filosofico, la stessa idea di umanità, hanno dimostrato di essere contenitori assai selettivi e a volte violentemente escludenti» (FE, 17). Oggi, dal momento che «il genere, la razza, ma anche lo stato di rifugiato, di emigrato o di emarginato permettono il coagularsi di forme di identificazione che nell’idea tramandata di umanità non sono comprese» (ibid.), la questione che si pone radicalmente non solo è quella della costituzione attuale della figura dell’umano, ma, anche, e contemporaneamente, quella della sua «riconfigurazione possibile» (ibid.). Muovendo da una concezione «non antiquaria», che possa condurre alla fioritura umana, agli albori del terzo millennio è soprattutto la questione filosofica della libertà del nostro volere e del suo rapporto con la 114 A tal proposito, cfr. F. Fistetti, Il paradigma ibrido del dono tra scienze sociali e filosofia. Alain Caillé e la “Revue du Mauss”, in A. Caillé, Critica dell’uomo economico. Per una teoria anti-utilitarista dell’azione, tr. it. e cura di F. Fistetti, il Melangolo, Genova 2009, pp. 7-44. 115 A. Caillé, Riconoscimento e sociologia, cit., p. 31. 116 Cfr. V. Gessa Kurotschka, Fondabilità dell’etica, in C. Lumer (a cura di), Etica normativa. Principi dell’agire morale, Carocci, Roma 2009, pp. 17-31 (d’ora in poi FE).
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vita quella che maggiormente mostra retrospettivamente di sapersi ancora accordare, comunque si tengano presenti gli esiti attuali delle ricerche neurobiologiche, con i modelli dell’agire morale sviluppati già a suo tempo da Hegel. Secondo Kurotschka, nella filosofia di Hegel troviamo una concezione (e una difesa) del rapporto (e connessione) fra autocoscienza e vita che rende la sua stessa idea di soggettività «ancora oggi rilevantissima» nell’ambito della riflessione antropologica ed etica. Infatti, «già nella Fenomenologia dello spirito per Hegel è la paura della morte, e non la disponibilità a fare a meno della vita, a permettere il realizzarsi di quella forma primordiale di coscienza di sé sensibile che nel servo costituisce la base dello sviluppo dell’autocoscienza. Il servo, colui che diviene tale perché ha avuto paura di mettere in pericolo la propria vita nella lotta per il riconoscimento, è in grado per Hegel di esporre una modalità di essere dell’autocoscienza superiore a quella del signore non solo perché i prodotti della sua attività lavorativa permangono, ma anche perché per l’autocoscienza del servo autocoscienza e vita sono strettamente connesse» (ivi, 20-21). La modalità di essere della vita, che non può essere «marginalizzata», gioca un ruolo in positivo nella costituzione dell’identità umana, che mostra di essere incarnata capacità di sentire e di desiderare. Per Hegel, ribadiamolo, «gli umani non agiscono come “autocoscienze pure” prive di sensibilità e di desideri, fuori dalla natura e dai rapporti interumani» (ivi, 22), per cui lo stesso concetto di libertà, con cui Hegel opera nell’ambito dell’eticità, «non mette da parte tale capacità umana fisica e psichica insieme». Pur nell’ineliminabile «fisicità psichica» che contraddistingue l’antropologia dell’umano, la libertà di un soggetto inteso come «autocoscienza vivente» ha forse aspetti di «minore trasparenza» rispetto alla libertà della «autocoscienza pura»; epperò, tale soggetto «ha fattivamente la possibilità di pensare la vita dell’autocoscienza come un vincolo delle sue decisioni, di “deliberare desiderando” intorno alle questioni che riguardano la costituzione umana, che riguardano non solo la comprensione che abbiamo di essa ma anche la sua futura configurazione» (ibid.).
5.8. “Penser autrement”. Soggettività, morfologie del contemporaneo e smascheramento del dominio Oggi, però, dopo Hegel e dopo il quadro epistemico e decostruttivo aperto nella relazione tra verità, potere e vita dal paradigma biopolitico117, le 117
Cfr. L. Bazzicalupo, R. Esposito (a cura di), Politica della vita. Sovranità, biopotere, diritti, Laterza, Roma-Bari 2003; L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza,
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ambivalenze del presente che connotano le configurazioni dell’«umano» non sono più esprimibili e nominabili con le parole del lessico filosofico tradizionale. Nella duratura crisi della modernità, si è spezzato il vecchio rapporto normativo e dialettico fra teoria e prassi. La crisi investe anche la pretesa della filosofia di conservare un rapporto sintetico e strumentale con la politica. Peraltro, anche la sociologia engagé come critica dell’esistente, delle forme di violenza e delle relazioni di dominio, ha il difficile compito di prendere posizione non solo nei confronti della «miseria del mondo» (Bourdieu)118, ma anche nell’individuazione critica – tra modernità, postmodernità e, forse, anche anti-modernità – dell’attuale percorso sociale in cui oggi ci troviamo, «stretti tra globalizzazione, rete, nazionalismi e integralismi religiosi, morte del sociale e trionfo dell’indifferenza»119. Tutto ciò ci pone di fronte alla necessità di riflettere sull’individuo contemporaneo, o meglio su di un soggetto che vive in una società dove da tempo domina e trionfa un determinismo economico e tecnico che sembra ridurre gli spazi politici di libertà e di autodeterminazione. Non è un caso, infatti, che l’ultimo Touraine, un sociologo critico che ha registrato una costante presenza nel dibattito sociologico e politico internazionale sui temi della modernità, del soggetto individuale, dell’azione collettiva, della democrazia, del multiculturalismo e della critica al liberalismo economico, ha invitato a praticare un penser autrement120che non solo sappia fare i conti con la modernità, ma che si differenzi altresì dall’ermeneutica contemporanea che riflette specularmente l’opacità del discorso interpretativo dominante, per cercare una via d’uscita dalla crisi sociale e culturale che stiamo storicamente attraversando.
Roma-Bari 2006; A. Vinale (a cura di), Biopolitica e democrazia, Mimesis, Milano 2007. 118 Cfr. P. Bourdieu, La misère du monde, Seuil, Paris 1993. Su Bourdieu, cfr. D. Swartz, Culture & Power. The Sociology of Pierre Bourdieu, University of Chicago Press, Chicago-Londra 1997; G. Marsiglia, Pierre Bourdieu. Una teoria del mondo sociale, Cedam, Padova 2002; L. Pinto, Pierre Bourdieu e la théorie du monde sociale, Albin Michel, Parigi 2002; A. Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu, Marsilio, Padova 2003; L. Pinto et al. (a cura di), Pierre Bourdieu, sociologue, Fayard, Parigi 2004; D. Swartz, V. Zolberg (a cura di), After Bourdieu, Kluwer, New York 2004; G. Paolucci, Pierre Bourdieu: strutturalismo costruttivista e sociologia relazionale, in M. Ghisleni, W. Privitera (a cura di), Sociologie contemporanee, Utet, Torino 2009, pp. 77-115 (ivi bibliografia). 119 L. De Michelis, Ritorniamo ai diritti dell’individuo, in «Tuttolibri-La Stampa», sabato, 28 marzo 2009. 120 Cfr. A. Touraine, Penser autrement, Fayard, Parigi 2007; tr. it. di E. Sparano, Il pensiero altro, Armando, Roma 2009 (d’ora in poi PA). Su Touraine, cfr. P. Rebuggini, Alain Touraine: modernità, soggetto, movimenti, in M. Ghisleni, W. Privitera (a cura di), Sociologie contemporanee, cit., pp. 155-197 (ivi bibliografia).
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Che cos’è il discorso interpretativo dominante (DID)? Nella definizione che ne dà Touraine, esso è «l’insieme di rappresentazioni che costituiscono una mediazione, ma soprattutto la costruzione di un’immagine di insieme della vita sociale e dell’esperienza individuale» (PA, 25). Spesso il discorso interpretativo dominante (DID) viene intrecciato strettamente con il potere economico o politico dominante, monopolistico o autoritario: questa situazione corrisponde «a ciò che gli oppositori chiamano “ideologia dominante”». Il fatto è che, come sostiene Touraine, «è difficile trovare una collocazione esatta per il DID, anche se non si possono negare la sua realtà, la sua forza e la sua influenza, che a volte può arrivare fino alla costrizione». Dunque, la dissociazione tra il DID e il potere mostra quanto sia importante «la costruzione della realtà come elemento della realtà stessa» (ivi, 26). Tuttavia una visione «oggettivistica» della realtà sociale non è accettabile. Il DID è «una realtà storica che cambia costantemente, ma che esercita sempre una funzione di controllo». Questa funzione «è talvolta radicata in un’opera che domina la vita intellettuale, ma anche e molto più spesso attecchisce nella mente dei diffusori di idee […] quando si ricollegano a una visione generale della società» (ivi, 27). Questo discorso interpretativo dominante, per Touraine, non corrisponde però più alla realtà sociale e non sa né percepire né esprimere ciò che è accaduto nel mondo. Il DID è lontano da un’analisi in tempo reale del mondo contemporaneo. «Oggi – scrive Touraine –, ci si rende conto che la scena sociale non è vuota, che alcuni ideologi ancorati al passato affondano questa scena in una oscurità da cui salgono rumori incomprensibili o assordanti. Già sentiamo le nuove domande della vita quotidiana, il ritorno di parole e idee ormai credute distrutte. Cerchiamo le nuove categorie che possono rendere intelligibile le distruzioni e i capovolgimenti, ma anche le iniziative che viviamo» (ivi, 12). La società è «cieca» e disorientata, non dispone di capacità analitiche che le possano consentire di comprendere il passato, il presente e il futuro, soprattutto perché nella società odierna «molti sono stati resi deboli, precari, minacciati dall’esclusione», in cui si accrescono le disuguaglianze. Tutto ciò non può che giustificare il fatto che comunque dobbiamo abbandonare «la concezione della vita sociale e dell’esperienza personale che ha esercitato un’influenza dominante sul nostro passato recente» (ivi, 22), e reclamare l’urgente costruzione critica di altre interpretazioni, poiché «non viviamo in un mondo vuoto, senza capacità d’azione, senza possibilità di liberarsi» (ivi, 31). Touraine sismograficamente percepisce che l’aria è piena di parole, di crisi, di proteste e di proposte, ma l’ambizione che un pensiero critico e radicale ancora esprime è quella di apprendere nuovamente a osservare e ascoltare. L’immagine della società vuota (priva di attori e incapace di agire) e quella
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dello Stato onnipotente, sono associate nella visione culturale dominante «che vuole spingere fino al limite la guerra condotta contro il soggetto» (ivi, 55). Ma come possiamo ancora parlare di soggetto dopo che, già alla fine del XIX secolo, Marx «ci ha mostrato che gli attori economici erano sottomessi alla logica del sistema capitalista, che è una logica del dominio di classe», che Nietzsche «ha opposto alla morale sociale e religiosa la forza delle pulsioni e dell’affermazione di se stesso», e che Freud «ha opposto la libido alla legge, l’Es al Super Io, non lasciando al dominio della coscienza nient’altro che una posizione irrisoria, quella del contatto della vita psichica con il mondo esterno» (ivi, 55-56), e dopo che il Welfare State e i media hanno largamente contribuito a liberare il consumo individuale, dopo il trionfo dell’individualismo «che conviene a coloro che definiscono esclusivamente la vita sociale come consumo»? (ivi, 56). Come possiamo parlare ancora di soggetto, «quando gli esseri umani che osserviamo sono spinti sempre più da motivazioni particolari, da desideri specifici, da una strategia economica di gestione dei redditi e delle spese, come pure delle ereditarietà culturali, sociali e familiari?» (ibid.). Può, nel clima contemporaneo, apparire una nuova immagine di un soggetto, capace non solo di riconoscere sé come soggetto, ma anche di riconosce l’altro come soggetto? Pur non essendo mai amato dal potere, il «soggetto» da cui occorre ripartire, è, secondo Touraine, un soggetto autonomo, libero, responsabile che vive in una società laica dove i diritti dell’individuo dovrebbero essere messi al primo posto e limitati, invece, dovrebbero essere i poteri e i discorsi di assoggettamento. Processi di individuazione volti alla costruzione dell’identità autonoma e processi di soggettivazione che però non significa desocializzazione, poiché il soggetto è «la relazione tra sé e sé, è la coscienza che cela un giudizio morale che chiama bene ciò che rafforza la coscienza di sé, male ciò che la distrugge»: un soggetto che è universalista nella misura in cui i diritti dell’uomo devono essere difesi su tutti i fronti e in nome di tutti, ma che nel contempo è anche individualista, «perché è affermazione di sé, scoperta di sé come doppio di se stesso, pretesa di essere un essere umano con i suoi diritti e con la sua capacità di dire no». Un soggetto che non è asociale o antisociale, ma che esprime una soggettività che «si trova negli individui e nei gruppi che hanno una coscienza di appartenere a un popolo, una cultura, una storia». Una soggettività di soggetti che «reclamano nuovi diritti nei confronti di quei poteri che, invece, chiedono assoggettamento e non soggettivazione, subordinazione e non individuazione, integrazione funzionale e non autonomia»121. 121
Cfr. L. De Michelis, Ritorniamo ai diritti dell’individuo, cit.
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Nonostante sia impossibile pensare ad una società senza la ragione, dove il soggetto si chiude nell’ossessione della propria identità e dove senza il soggetto, la ragione diventa lo strumento della potenza, tuttavia, le nuove morfologie del contemporaneo esibiscono continuamente modalità dell’agire politico e giuridico che rimettono in discussione i processi di identificazione e di riconoscimento, ribaltando forme tradizionali di coesistenza politica anche nei dispositivi di esclusione/inclusione e nelle logiche del dominio122. Nel mondo globalizzato, lo stesso nesso di decisione e norma (le relazioni tra decisioni politiche, tecniche, economiche e norme giuridiche) pare non essere più proponibile e interpretabile nei termini convenzionali per comprendere le nuove dinamiche dei poteri disarticolati123. Il mondo sociale, secondo la prospettiva relazionale particolarmente esemplata da Pierre Bourdieu nel concetto di habitus e che presenta significative analogie con la filosofia e sociologia simmeliana della Wechselwirkung124, è un mondo che ci appare ancora e sempre più conflittuale. In questo mondo il conflitto è la «cifra della vita sociale», in cui albergano «le differenze che costituiscono il nocciolo dell’esistenza sociale»125. L’accettazione dossica del mondo, che ce lo fa ritenere come ovvio e di trovarlo naturale così com’è, preclude di fatto ogni analisi critica del dominio e della politica, ma ancor di più occulta lo svelamento delle pratiche che esercitano le forme di violenza simbolica e i dispositivi che presiedono alla legittimazione del dominio sociale. Dopo la «microfisica del potere» e la «volonté de savoir» di Foucault, il contributo offerto da Bourdieu all’individuazione del dominio simbolico come forma specifica del potere esercitato dai dominanti sui dominati nella società contemporanea rappresenta ancora uno degli apporti più originali e utili alla scienza del mondo sociale come forma di conoscenza critica, scienza eminentemente “politica” che non si risolve in atti di denuncia, ma capace di spazzare via le incrostazioni e i meccanismi della doxa ingenua, di decostruire il senso comune e di smascherare le relazioni di dominio che rimangono invisibili. Una scienza del mondo sociale che con sguardo critico si pone il difficile compito di saldare la “coupure” epistemologica con l’impegno politico126.
122
Cfr. A. De Simone (a cura di), Diritto, giustizia e logiche del dominio, Morlacchi, Perugia 2007. 123 Cfr. A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, RomaBari 2008. 124 Cfr. B. Krais, G. Gebauer, Habitus, tr. it. di S. Maffeis, Armando, Roma 2009, p. 117 sg. 125 G. Paolucci, Pierre Bourdieu: strutturalismo costruttivista e sociologia relazionale, cit., p. 79. 126 Cfr. ivi, p. 113.
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5.9. Quale destino per l’io? Nella contemporaneità le dinamiche sociali della globalizzazione trasformano l’esperienza soggettiva in modi paragonabili a quelli dell’industrializzazione. La globalizzazione – intesa come nascita e sviluppo della società mondiale – ha per molti aspetti preso il posto della modernizzazione, come la meta appunto verso la quale starebbe muovendo il nostro orizzonte, il nostro “destino” contemporaneo. Ma la globalizzazione “non è un destino”. Ciò che chiamiamo “globalizzazione” indica una rottura – l’uscita dalla società del XX secolo – e un’apertura verso approdi ancora largamente indeterminati nel XXI secolo. In sostanza, «noi sappiamo da dove veniamo, ma non dove stiamo andando»127. Tutti gli osservatori concordano nel ritenere la globalizzazione un complesso fenomeno dalle implicazioni non soltanto economiche e strutturali, ma anche antropologiche, culturali, sociali e politiche. All’interno del processo di globalizzazione è dunque necessario distinguere la dimensione strutturale da quella soggettiva. Procediamo schematicamente. In primo luogo, possiamo sinteticamente descrivere le principali trasformazioni della soggettività128 che si verificano nel passaggio dalla tradizione alla modernità e successivamente dalla modernità alla postmodernità e globalizzazione, ricordando che tali trasformazioni sono caratterizzate da almeno due dimensioni fondamentali: l’autonomia e l’autenticità. Per autonomia si intende un comportamento individuale razionalmente autotedeterminato. Ciò significa che l’attore sociale sceglie una linea di condotta indipendentemente (in maniera autonoma) da fattori esterni (tradizione, autorità, religione) e da fattori interni non razionali (emozioni, pulsioni)129. In altri termini, con autonomia qui indichiamo la capacità del soggetto di agire per conseguire la sua utilità sulla base di un calcolo razionale. Il concetto di autonomia comporta come conseguenza una divisione “gerarchica” della soggettività in una componente “alta”, razionale, e in una componente “bassa”, affettiva, emotiva e pulsionale. L’autonomia distingue in maniera esemplare il passaggio dalla tradizione alla modernità, dal punto di vista del soggetto130.
Tale passaggio è stato analizzato soprattutto da Max Weber, per il quale, com’è noto, si possono individuare, quattro tipi-ideali di agire sociale: 1) 127
G. Giaccardi, M. Magatti, La globalizzazione non è un destino, cit., p. 4. Per una declinazione tipologica (in prospettiva sociologica) della soggettività nelle dinamiche societarie contemporanee, cfr. V. Cesareo, I. Vaccarini, La libertà responsabile. Soggettività e mutamento sociale, Vita e Pensiero, Milano 2006. 129 D. Ungaro, Capire la società contemporanea, cit., pp. 78-79. 130 Ivi, p. 79. 128
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l’agire razionale rispetto allo scopo; 2) l’agire razionale rispetto al valore; 3) l’agire affettivo; 4) l’agire tradizionale131. Soltanto i primi due tipi di azione sociale attengono alla dimensione dell’autonomia. La loro diffusione in tutte le sfere sociali caratterizza il passaggio dalla tradizione alla modernità. Diversamente, l’autenticità132 «può essere definita come il rifiuto da parte del soggetto di ogni tentativo di istituire una gerarchia interna tra componente “alta”, razionale dell’individualità e componente “bassa”, emotiva e pulsionale»133. Il passaggio da un agire tradizionale a un agire autonomo caratterizza in modo determinante l’avvento della modernità mediante quel fenomeno che Weber ha definito il disincantamento del mondo134. La diffusione di comportamenti autentici caratterizza invece in maniera rilevante la postmodernità. Questa diffusione comporta però anche tre ulteriori problemi che occorre comunque tener presenti: a) la moralità dell’agire autentico; b) il tema del riconoscimento; c) l’affermarsi della “cultura del narcisismo”. La moralità dell’agire autentico riguarda un suo aspetto fondamentale, inerente la valutazione dell’azione autentica. Infatti, nell’ambito di questa azione, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato non viene valutato sulla base delle conseguenze cui può portare una determinata azione, ma sulla base “dell’essere se stesso”. Ora, però, si può anche essere se stessi compiendo azioni malvagie [...]. Non si può quindi abbandonare totalmente un’analisi delle conseguenze delle azioni individuali, se si vuole ancora mantenere una distinzione tra bene e male135.
A questo proposito Weber, com’è noto, ha co-distinto tra etica dei principi (che rimanda all’autenticità; agisco sulla base delle mie convinzioni indipendentemente dalle conseguenze) ed etica della responsabilità (che rimanda all’autonomia: considero gli effetti potenziali del mio agire prima di decidere come comportarmi). Il tema del riconoscimento (v. supra) riguarda la relazione esistente, nel contesto della postmodernità, tra la soggettività autentica e gli altri: «da
131
A tal proposito, rinvio a A. De Simone, Senso e razionalità. Max Weber e il nostro tempo,
cit. 132
Sull’interpretazione filosofica delle forme dell’autenticità nell’esperienza del moderno, cfr. C. Taylor, Il disagio della modernità, tr. it. di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari 19992 e C. Larmore, Pratiche dell’io, tr. it. di M. Piras, Meltemi, Roma 2006. 133 Per un’ulteriore approfondimento della distinzione tra agire autonomo e agire autentico rimando a D. Ungaro, Capire la società contemporanea, cit., p. 79. 134 Sull’argomento, cfr. A. De Simone, Oltre il disincanto. Etica, diritto e comunicazione tra Simmel, Weber e Habermas, cit. 135 D. Ungaro, Capire la società contemporanea, cit., pp. 80-81.
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una parte, infatti, il postmoderno rivendica l’autenticità degli attori sociali, quindi la loro completa libertà di espressione, dall’altra si è visto come il disintegrarsi dei legami sociali comporti però anche degli effetti negativi sull’individualità stessa»136. Questo tema può essere affrontato criticamente alla luce di quei fenomeni che, come si è già detto, Axel Honneth ha definito lotta per il riconoscimento137. Dalla sua analisi risulta che «il riconoscimento della soggettività autentica avviene attraverso tre dimensioni sociali: la famiglia, che riconosce un suo membro sulla base dell’amore dandogli la fiducia in se stesso; le norme (riconoscimento giuridico), che riconoscono un membro della società conferendogli il rispetto sociale di sé; la cultura sociale, che riconosce la dignità culturale di una persona (della sua autenticità) conferendole autostima»138. Dunque, nella tarda modernità (o postmodernità), aumentano sia le lotte per il riconoscimento che le forme istituzionalizzate di riconoscimento di autenticità soggettive sempre più varie e differenti (come attesta il multiculturalismo). Il terzo problema riguarda infine il fatto che una radicalizzazione dell’autenticità come valore può condurre a una esaltazione narcisistica della soggettività contro qualsiasi altro aspetto sociale considerato unicamente come vincolo. Com’è noto, il narcisismo è un tipo di comportamento caratterizzato dall’amore per se stessi e dall’esaltazione delle proprie qualità. Il narcisismo diventerebbe in questo caso un’ulteriore caratteristica dell’immoralità e irresponsabilità dell’agire autentico. Nel contesto della postmodernità, gli antidoti alla degenerazione dell’autenticità […] vengono offerti dalla presenza degli altri […]. Proprio tale “pluralità” di autenticità pone dei limiti al tendenziale egoismo dell’autenticità individuale. Io devo riconoscere per essere riconosciuto. Quindi, anche da un punto di vista morale, la mia autenticità ha come limite invalicabile l’autenticità dell’altro139.
Infine, un’ulteriore trasformazione nell’ambito della soggettività individuale e sociale caratterizzante il passaggio dalla modernità alla postmodernità e alla globalizzazione può essere individuata nella “costruzione” sociale e culturale delle età, in particolare quella delle giovani generazioni140. 136
Ivi, p. 81. Cfr. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit. 138 D. Ungaro, Capire la società contemporanea, cit., p. 81. 139 Ivi, pp. 81-82. 140 Cfr. M. Merico, Giovani e società, Carocci, Roma 2004, p. 119; cfr. inoltre V. Cicchelli, O. Galland, Le trasformazioni della gioventù e dei rapporti tra le generazioni, in L. Sciolla (a cura di), Processi e trasformazioni sociali. La società europea dagli anni Sessanta a oggi, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 255-276. 137
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A questo punto, dopo questa necessaria schematizzazione, è forse possibile comprendere meglio qual è il destino personale dell’Io e del legame sociale nell’età globale, considerata come «fase radicale dello sviluppo della modernità»141. Secondo quanto sostiene Elena Pulcini, una «doppia ambivalenza» caratterizzerebbe l’età globale: il processo di globalizzazione genera da un lato la crisi, e dall’altro il ricostituirsi del legame sociale in forme regressive e distruttive. Si assiste cioè ad una sorta di nuova polarizzazione che vede da un lato l’emergere di un individualismo narcisistico (omologazione, indifferenza, perdita di comunità), dall’altro il configurarsi di un comunitarismo tribale (ritorno della comunità in forme distruttive e esclusive). In secondo luogo, l’età globale presenta tuttavia potenzialità emancipative iscritte in prima istanza nella struttura antropologica degli individui142.
Benché il dibattito sulla globalizzazione non abbia ancora approfondito gli effetti che essa produce sulla costituzione dell’identità individuale e sulle forme del legame sociale, sulle trasformazioni dell’Io e sui vincoli di solidarietà, le diverse prospettive critiche e interpretative hanno comunque trovato un punto di convergenza nella critica della società postmoderna, la quale sarebbe appunto caratterizzata da «una deriva soggettivistica», responsabile della crisi del legame sociale e della disaffezione alla vita pubblica: dunque il trionfo dell’homo psychologicus sull’homo politicus della prima modernità. La crisi dell’autorità e delle strutture tradizionali (famiglia, ecc.), la perdita di fiducia nelle istituzioni, il dilagante consumismo, lo sviluppo della tecnologia, sono alcune delle cause che concorrono a tracciare un profilo dell’atomismo dell’Io postmoderno, edonista e narcisista, caratterizzato dal “processo di personalizzazione”, che «rompe ogni forma di autolimitazione precedentemente efficace (disciplinare, autorepressiva, autoritaria), e che appare incapace persino di quelle forme strumentali di legame e di relazionalità che avevano contrassegnato la prima fase della modernità, tesa a garantire progresso, sicurezza, convivenza pacifica, affidandone la gestione allo Stato o al mercato»143. Illimitatezza e insicurezza: «in questi due aspetti, apparentemente contrapposti, ma in realtà intrinsecamente speculari, si possono dunque efficacemente riassumere le patologie dell’Io postmoderno, che si dibatte tra “minimale” autoconservazione e sconfinata autorealizzazione, tra 141 E. Pulcini, L’Io globale: crisi del legame sociale e nuove forme di solidarietà sociale, in D. D’Andrea, E. Pulcini, Filosofie della globalizzazione, cit., p. 57. 142 Ibid. 143 Ivi, p. 60.
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ripiegamento autodifensivo e grandiosa affermazione di sé, nell’inquietante oblio della vita e del bene comuni»144. È del tutto fuorviante, comunque, vedere in tutto ciò un congedo o un’uscita dalla modernità: infatti, «se è vero che lo scenario postmoderno mette in crisi il progetto della modernità (razionalità, ordine, progresso, conciliazione tra bene pubblico e privato), esso tuttavia non ne annulla e non ne smentisce i presupposti originari (libertà e sovranità dell’individuo, autoaffermazione, legittimità dei desideri e delle pretese soggettive); dei quali l’idea di illimitatezza e di insicurezza fanno intrinsecamente parte»145. Oggi, di fatto, l’insicurezza è diventata «la nostra condizione permanente», e non soltanto perché siamo tutti immersi in quella che, come si è detto, Beck ha definito la “società del rischio”: questo senso di insicurezza deriva essenzialmente dalla percezione di una perdita di controllo sugli eventi che genera sfiducia e apatia, ansia ed entropia, ritrazione e isolamento. Minacce e rischi globali reali confermano i toni apocalittici oggi usati da numerosi interpreti e critici. La deregulation, la crisi dello Stato-nazione, l’economia politica dell’incertezza, la guerra totale, sono soltanto alcuni degli elementi che spingono l’Io postmoderno e globale nell’incertezza, nell’acutizzazione della sua ritrazione narcisistica, nel bisogno di approntare necessariamente “strategie autoconservative”, ad assumere sempre più una “mentalità della sopravvivenza”. Tuttavia, come si sostiene, l’Io globale non è solo un Io confuso, smarrito, insicuro. Al contrario esso è anche, in virtù di quegli stessi fattori che generano incertezza, onnipotente e illimitato. La mobilità e la perdita di confini, la contrazione dello spazio e l’accelerazione del tempo, le smisurate possibilità offerte da una tecnologia (informatica, massmediale, biologica) scissa da ogni altro fine che non sia quello della propria riproduzione autolegittimante, e le inedite chance di un mercato privo di regole ma carico di promesse, conferiscono di fatto nuovo spessore e consistenza all’illimitatezza dell’Io e alle sue pretese di onnipotenza146.
In questo scenario, quindi, la globalizzazione non farebbe che «radicalizzare e orientare» in altre direzioni quella spinta «all’oltrepassamento del limite» che, come ha indicato Blumenberg147, è una delle peculiari ca144
Ibid. Ibid. 146 Ivi, pp. 63-64. 147 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, tr. it. di C. Marelli, Marietti, Genova 1992. Per gli studi su Blumenberg in chiave filosofica, politica e antropologica rinvio a B. Accarino, La ragione insufficiente. Al confine tra autorità e razionalità, manifesto libri, Roma 1995; Id., Lacune. Linguaggi filosofici e politici, manifesto libri, Roma 1998 e Id., Daedalus. Le digressioni del male da Kant a Blumenberg, Mimesis, Milano 2002. 145
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ratteristiche della modernità fin dalle sue stesse origini. Dunque, l’età globale non segna affatto la fine della modernità, come invece sostiene Albrow148. Diversamente – questa la tesi interpretativa avanzata da Pulcini – la globalizzazione «porta a compimento il passaggio postmoderno da una società di produttori (nella quale l’illimitatezza trovava ancora un limite in un’etica e in uno scopo comuni) ad una società di consumatori: di individui animati da desideri senza oggetto, […] alimentati dalle pratiche di seduzione e di spettacolarizzazione di un mercato planetario che trasforma il mondo in un’arena di abbaglianti promesse»149. Come dice Bauman, “turista” in un mondo che non lo coinvolge se non come fabbrica di attrazioni passeggere e di effimeri godimenti, l’Io globale è allo stesso tempo onnipotente e parassitario, unicamente occupato ad assorbire dal mondo tutto ciò che promette di soddisfare le sue pretese. Il parassitismo dell’Io viene inoltre alimentato da quella coazione alla mimesi che, in un mondo sempre più omologato, sempre più uniformato attraverso processi di “macdonalizzazione”, diventa il meccanismo pervasivo di formazione di identità simili e indifferenziate […] che tuttavia, ben lungi dall’unirli, li confina in un monadico isolamento150.
5.10. Crepuscolo del dovere, società postdeontica, etica normativa Come ho già osservato in Intersoggettività e norma151, una tra le tendenze inarrestabili della vita contemporanea è senza dubbio quella di essere dominata, tra l’altro, dall’individualismo «postmoralista» segnato pervasivamente dal «crépuscule du devoir», peculiare delle società complesse entrate in una cultura del «post-dovere», dell’al di là dell’imperativo, che si anemizza a contatto del «vivere meglio» e accentua tragicamente le disuguaglianze sociali, dove «se l’etica alimenta i media, la biologia e gli affari, il dovere assoluto regredisce»152. La vita individuale e sociale è costantemente attraversata 148
Cfr. M. Albrow, The Global Age. State and Society beyond Modernity, Polity Press, Cambridge 1996. 149 E. Pulcini, L’Io globale: crisi del legame sociale e nuove forme di solidarietà, cit., pp. 64-65. 150 Ivi, p. 65. 151 Cfr. A. De Simone, Intersoggettività e norma. La società postdeontica e i suoi critici, Liguori, Napoli 2008. Per il dibattito critico seguitovi, cfr. A. De Simone, L. Alfieri (a cura di), Per Habermas. Seminario (2009). Interventi su “Intersoggettività e norma”, Morlacchi, Perugia 2009. 152 J. Russ, L’etica contemporanea, tr. it. di A. Pasquali, ed. it. a cura di C. Galli, Bologna 1997, p. 75. Per una “mappa” storico-filosofica e sociologica relativa agli sviluppi problematici e critici del dibattito contemporaneo sull’etica e sulla morale, tra l’altro, cfr. C. Di Marco (a cura di), Percorsi dell’etica contemporanea, Mimesis, Milano 1999; S. Cremaschi, L’etica del
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da tendenze di crisi pandemiche di senso soggettive e intersoggettive. Mondo, società, vita e identità non solo «vengono problematizzati in modo sempre più acuto», ma diventano oggetto di un complesso “conflitto delle interpretazioni”, e benché ogni interpretazione sia connessa «a specifiche prospettive di azione», tuttavia, nessuna interpretazione, nessuna prospettiva «può più essere assunta come la valida e senza dubbio la più giusta»153. Nell’impulso coattivo e nella lotta quotidiana per costruirsi una vita propria come “eterni viandanti” all’interno di una società globale altamente differenziata, sta forse dilagando, come osserva Ulrich Beck, «un’epidemia di egoismo, una “febbre dell’Io” che è immune a farmaci di natura etica?»154. Viviamo in un mondo (anche filosofico) in cui tale interrogativo ci induce pur tuttavia a registrare che a fronte della “morale del quotidiano” – caratterizzante il discorso della «società dell’Io»155, egocentrica, imbrigliata in molteplici, inevitabili e contraddittorie catene d’interdipendenza entro le quali la «vita propria»156 si trova costretta ad agire e ad essere allo stesso tempo vita globale –, la contemporaneità mostra di essere comunque attraversata da una forte domanda di etica. Essa esprime ancora il bisogno di fondare sulla ragione l’imperativo morale – che nella forma dell’imperativo categorico, come dice Jean-Luc Nancy, è forse «un’esigenza del mondo»157 –, di raggiungere cioè l’universale valido, di diritto, per tutti, promuovendo Novecento. Dopo Nietzsche, Carocci, Roma 2005; L. Tundo Ferente, Moralità e storia. La costruzione della coscienza etica moderna, Bruno Mondadori, Milano 2005; L. Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica, Carocci, Roma 2006. 153 P.L. Berger, T. Luckmann, Lo smarrimento dell’uomo moderno, tr. it. di L. Allodi, il Mulino, Bologna 2010, p. 72. 154 U. Beck, Costruire la propria vita. Quanto costa la realizzazione di sé nella società del rischio, tr. it. di C. Tommasi, il Mulino, Bologna 2008, p. 9. 155 Ivi, p. 42. 156 Secondo quanto osserva Beck nel suo recente libro Conditio humana. Il rischio nell’età globale (tr. it. di C. Sandrelli, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 349), «nel mondo occidentale e al di là di esso non c’è un desiderio più diffuso che quello di condurre una “vita propria”. Chi oggi viaggia in Europa, ovviamente negli Stati Uniti, ma anche in Sudamerica, a Singapore, a Tokyo, in Corea del Sud e chiede cosa muova le persone, a cosa esse aspirino, per cosa lottino, dove finisca per loro il divertimento, si sentirà rispondere: soldi, lavoro, potere, amore, Dio, ecc., ma constaterà anche – e sempre più spesso – quanto siano forti le suggestioni dell’individualismo. Denaro significa il proprio denaro, spazio significa il proprio spazio in quanto presupposti elementari di una “vita propria”. Perfino l’amore, il matrimonio, la maternità o la paternità, che con l’oscurarsi del futuro sono più desiderati che mai, soggiacciono alla riserva di legare l’una all’altra e tenere assieme singole biografie che tendono a separarsi. Con una leggera forzatura si può affermare che la lotta quotidiana per l’autonomia della propria vita è diventa l’esperienza collettiva del mondo e che in essa si esprime la nuova comunità residuale di tutti». 157 Cfr. J.-L. Nancy, L’imperativo categorico, tr. it. di F.F. Palese, Besa, Nardò 2007.
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la libera discussione, il discorso argomentato e razionale, il consenso, per tentare di ritrovare, nella comunicazione trasparente, una nuova “ragione pratica” e un nuovo concreto principio di responsabilità e giustizia che non trascurino affatto di tematizzare anche la concretezza del singolo, la sua individualità e la sua relazionalità con l’altro, e che sappia dare significato, nelle metamorfosi dell’agire etico e pubblico, al dovere, inteso come ciò che è individualmente «dovuto» e che solo nell’azione, nella storicità e nella vita può trovare nel Dasein dell’uomo una pur parziale verifica nella sua effettività ed autonomia. Ora, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, nel pieno dell’epoca «après-devoir» (secondo la definizione di Gilles Lipovetsky158), cioè nella società postdeontica in cui la nostra condotta, liberata dalle ultime tracce degli opprimenti “doveri illimitati”, dai “precetti” e dagli “obblighi assoluti”, «vaga nel pieno disarmo morale, incapace di gestire autonomamente alcun quadro di riferimento valoriale che neppure la società, nelle lotte autoriproduttive delle regole, riesce a garantire». Sulle posizioni di Lipovetsky occorre sinteticamente soffermarsi sia a livello analitico-ricostruttivo che critico-interpretativo, ponendosi alcuni interrogativi esplicativi che contribuiscano a spiegare quanto intenda filosoficamente e sociologicamente l’autore per epoca della postmodernità intesa appunto come epoca del «crepuscolo del dovere» e postmoralista. A questo proposito sono utili le considerazioni che ci suggerisce Furio Semerari in un suo recente contributo159, che qui chioso per esigenza di sintesi argomentativa. Nel descrivere il passaggio dalla sacralità del dovere al crepuscolo del dovere tra premoderno, moderno e postmoderno, occorre chiedersi preliminarmente «qual è più esattamente l’idea di dovere, di cui Lipovetsky registra il crepuscolo nell’epoca della postmodernità» (ENCD, 57). Lipovetsky distingue sostanzialmente tre grandi epoche differenziate per ciò che concerne il modo occidentale di intendere il dovere: la fase premoderna, la fase moderna e quella postmoderna. Nella fase premoderna (1), «i doveri dell’uomo erano essenzialmente concepiti e vissuti come doveri verso Dio e i doveri verso gli altri uomini erano visti solo come una espressione e una funzione dei doveri verso Dio» (ibid.). Rispetto alla fase 158 Cfr. G. Lipovetsky, Le crépuscule du devoir. L’éthique indolore des nouveaux temps démocratiques, Gallimard, Paris 1992. Al riguardo, cfr. M. Savi, Dal dovere alla responsabilità, in «La società degli individui», 1, 1998, pp. 159-161. 159 Cfr. F. Semerari, Etica normativa e crepuscolo del dovere, in AA.VV., Etica normativa, cit., pp. 55-75 (d’ora in poi ENCD). Di Semerari, cfr. inoltre il saggio L’etica postmoderna secondo Gilles Lipovetsky, in Id., Individualismo e comunità. Moderno, postmoderno e oltre, Adriatica Editrice, Bari 2005, pp. 51-73.
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premoderna, nella fase moderna (2) «cambia l’oggetto, o il soggetto verso cui l’uomo ritiene di avere doveri: i doveri dell’uomo si secolarizzano e sono ora essenzialmente doveri non più verso entità ultraterrene, ma verso gli stessi abitanti della Terra o, meglio, verso quei particolari abitanti della Terra che sono rappresentati dagli altri uomini – o anche: da se stessi e dagli altri uomini. I doveri diventano doveri verso la comunità o il sistema di comunità di cui si è parte […]. In generale, nella loro interpretazione moderna e secolarizzata, i doveri mirano a realizzare il bene terreno dell’uomo (dell’uomo come comunità, come umanità)» (ivi, 57-58). Se la modernità, emancipando i principi dell’azione morale dalla credenza religiosa e trasferendo i doveri dell’uomo dal cielo alla terra, mantiene «l’idea classica di dovere», la postmodernità (3) può essere definita «l’età della crisi o del crepuscolo del dovere» a causa della sua tendenza individualistica (narcisistica) che «tende sempre più a vivere per il presente e per quel che nel presente si può ottenere e che domani facilmente non sarà più disponibile» (ivi, 61) e che si esprime attraverso «una sostanziale “indifferenza” nei confronti degli altri». Secondo Lipovetsky, questa indifferenza postmoderna, che non è vissuta tragicamente come un problema, dipende sia dal fatto che «l’altro non è più assunto come oggetto di un proprio dovere», sia dal fatto che «l’uomo è sempre meno dipendente dal giudizio dell’altro, mostra di avere sempre meno bisogno di essere riconosciuto dall’altro, mira a “essere se stesso”, tende a realizzarsi “a parte”, a rendersi autonomo rispetto all’altro, sottraendosi essenzialmente alla logica della competizione, della rivalità e della gerarchizzazione sociale» (ivi, 61-62). Nella costituzione di piccoli gruppi finalizzati all’individuazione di soluzioni di problemi di ciascuno si consuma, secondo Lipovetsky, un processo di «miniaturizzazione sociale» che esprime specularmente una forma di «narcisismo collettivo»160 di una società edonista che permea di sé ogni pratica di individualismo attraverso «il consumo di oggetti e stili di vita sempre nuovi, proposti/imposti dalla pubblicità» (ENCD, 65) e nella quale si afferma contraddittoriamente «l’estraneità tendenzialmente totale dell’uomo della postmodernità al problema del senso, del valore, al problema dei principi dell’agire morale» (ivi, 63). Sulle posizioni di Lipovetsky è necessario registrare anche quanto osserva criticamente Zygmunt Bauman in Le sfide dell’etica161. Bauman, rilevando la natura controversa e per giunta non l’unica possibile della “rivoluzione” postmoderna nell’etica, constata la disinvoltura con cui «alla nozione 160 161
Cfr. G. Lipovetsky, Le crépuscule du devoir, cit., pp. 16-17. Tr. it. di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 8-9 (d’ora in poi SE).
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dell’approccio postmoderno alla morale viene associata troppo spesso la celebrazione della “fine dell’etica”, della sostituzione dell’etica con l’estetica, dell’“emancipazione estrema” che ne deriva» (SE, 8). In questo modo l’etica stessa è denigrata o schernita «in quanto costrizione tipicamente moderna ora superata e destinata alla pattumiera della storia». Nel contesto dell’interpretazione postmoderna della «rivoluzione etica», secondo Bauman, Lipovetsky – con Le crépuscule du devoir – gioca senz’altro il ruolo di «cantore della “liberazione postmoderna”» e di inventore dell’“Era del vuoto” e dell’“Impero dell’effimero”, dal momento in cui sostiene che siamo finalmente entrati nell’epoca dell’après-devoir, ovvero nella società postdeontica, in cui l’idea del sacrificio di sé è stata ampiamente delegittimata: «gli uomini non provano l’impulso né il desiderio di perseguire ideali morali e salvaguardare i valori morali; i politici hanno chiuso definitivamente con le utopie; e gli idealisti di ieri sono divenuti pragmatici» (ibid.). Pervasa dalla persuasione che è «vietato fare più del necessario», la nostra epoca è caratterizzata dal puro individualismo (autocelebrativo e privo di scrupoli) e dalla ricerca della vita buona, condizionata dall’esigenza di tolleranza che può solo esprimersi nella forma dell’indifferenza. La conseguenza di tutto ciò è che «l’epoca dell’après-devoir può ammettere soltanto una morale residuale, “minimalista”». Il fatto è che, come osserva Bauman, «Lipovetsky, come molti altri teorici postmoderni, commette il duplice errore di rappresentare l’argomento dell’indagine come risorsa investigativa; ciò che dovrebbe essere spiegato come ciò che spiega» (ivi, 9); ma descrivere il comportamento prevalente non significa fare «un’enunciazione morale» perché «le due procedure sono diverse nell’epoca postmoderna così come lo erano in quella premoderna» (ibid.). Se si assumesse la descrizione di Lipovetsky come corretta ne deriverebbe la percezione di una condizione umana vissuta in una società «priva delle preoccupazioni morali, dove il puro “è” non è più guidato da un “dovrebbe”, e dove il rapporto sociale è separato dall’obbligo e dal dovere» (ibid.). Per Bauman, invece, il compito del pensiero critico consiste proprio nel demistificare e andare oltre questa credenza e cercare di comprendere se «l’epoca postmoderna passerà alla storia come crepuscolo o come rinascita della morale» (ivi, 10). La novità dell’approccio postmoderno dell’etica consisterà allora nel considerare i grandi temi dei diritti umani, della giustizia sociale, dell’equilibrio tra cooperazione pacifica e autoaffermazione personale, della sincronizzazione di condotta individuale e bene comune, come temi che ancora «non hanno perso della loro attualità» (ibid.). Il problema è soltanto che essi devono essere visti e affrontati «in modo nuovo» e al servizio di un progetto emancipativo.
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5.11. Disseminazioni Non ci sono conclusioni provvisorie, ma solo possibili indicazioni critiche relative a scenari in corso d’opera. La globalizzazione è intrinsecamente ambivalente: non produce esclusivamente processi di unificazione, omogeneizzazione, omologazione, ma anche processi di frammentazione, eterogeneizzazione, differenziazione. Un’inscindibile coesistenza di “locale” e “globale” caratterizza storicamente il mondo contemporaneo. In questo scenario, delineato soltanto per scomposizioni e approssimazioni successive, anche l’io vive un complesso periodo di apprendistato volto a imparare nuovamente a dire “Io” nella vita individuale, nel lavoro, nella comunicazione, nella scuola, nella politica, nella democrazia, nella libertà che cambia. Dunque, nelle dinamiche della socialità contemporanea, anche l’individualità, il ruolo dell’Io, mutano: l’Io si rottama, o si autoassembla, oppure diviene un “io mongolfiera”, gonfio di sé, narcisistico, oppure, ancora, apatico, indifferente, mimetico, disincantato ma colonizzato dai media e dal marketing dell’identità. Una volta esaurita la fase fondativa della modernità, «il ruolo dell’io cambia, ma non scompare»162; nella cultura contemporanea l’interesse per l’io e per l’identità personale sembrano conservare valore e rilevanza, la conferma proviene dal diffondersi del “narcisismo di massa” disancorato dal terreno della storia e della sua memoria, dal disimpegno politico, e caratterizzato dall’essere infedele a tutto e a tutti, anche a se stesso. Questo “narcisismo di massa” che manifesta il progressivo isolamento dell’individuo, rappresenta una «vera e propria “diserzione dalla sfera sociale e pubblica”»163, allontana il singolo dalla comunità164, lo induce a sciogliere il legame sociale (per usarlo solo strumentalmente), lasciando sempre più spazio alle passioni acquisitive e scambiando per autonomia il proprio isolamento. Ogni svolta storica di civiltà conosce un processo di “colonizzazione della coscienza individuale”. Il senso dell’attuale “narcisismo di massa” ha radici storiche che spiegano come oggi il “deperimento della politica” stia a significare che quest’ultima «ha semplicemente cambiato forma e trovato
162
R. Bodei, Destini personali, cit., p. 256. Ivi, p. 259. 164 Sulla dialettica comunità-società, sull’ascesa e il declino del paradigma novecentesco di comunità e sulle teorizzazioni che propongono nuove figure di comunità tra filosofia, politica e sociologia, cfr. tra gli altri, R. Esposito, Communitas, Einaudi, Torino 1998; V. Pazé, Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2002; F. Fistetti, Comunità, il Mulino, Bologna 2003; F. Berti, Per una sociologia della comunità, FrancoAngeli, Milano 2005 e A. Vitale, Sociologia della comunità, Carocci, Roma 2007. 163
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altri modelli d’interazione e di equilibrio tra il Noi e l’Io»165. Nuove forme di “ipocondria dell’impolitico” – già a suo tempo analizzate criticamente nella grande lezione filosofica di Hegel166 – si diffondono nella realtà dell’agire individuale e sociale, all’interno della quale la conquista dell’identità avviene anche attraverso strategie che ritengono gradevole vivere «con un io multiplo e malleabile, che alterna con disinvoltura l’una e l’altra versione di se stesso, che desidera esperire più “vite parallele” senza alcun obbligo di rafforzare la propria identità o di declinarla con coerenza, che si propone di assaporare meglio la propria esistenza frequentando molteplici mondi vitali o inserendosi in differenti sfere di appartenenza»167. Le forme dell’io modulare, dell’io dossier e dell’io patchwork sono quelle oggi predominanti, occorre prenderne atto senza reticenze o infingimenti per cercare di comprendere perché oggi non soltanto è venuta meno qualsiasi discriminante tra l’io autentico e l’io non autentico e quello socialmente costruito. L’identità sociale individuale e collettiva contemporanea oggi «è obbligata a ricostruirsi o a rigenerarsi a ogni momento, diventando una funzione, un’attività»168. La struttura dell’identità, soprattutto personale, è diventata molto più complessa, avvolta in nodi e processi di identificazione e in strategie identitarie che possono essere vissute e raccontate “narrativamente” in modi diversi, entro schemi di relativa continuità e intelligibilità, in una sequenza ininterrotta di “presentazione del sé”, di “teatralizzazione della vita” – come ha chiarito Goffman169 – nelle quali ognuno ha la possibilità di scegliere e creare un proprio look, un proprio modello identitario componenziale e aperto, assemblato con frammenti e parti smontabili suscettibili di continua ricombinazione e revisione, comunque alla ricerca di un “io minimo” con cui vivere la propria quotidianità ed ognuno nella sua nicchia e con il proprio anonimo www (world wide web). Nonostante tutto ciò non mancano certamente segnali di controtendenze che sono anche il prodotto degli attuali e radicali mutamenti storici e sociali che caratterizzano l’esperienza di quella che Bauman ha definito la modernità liquida. A fronte di questa frammentazione e fragilità dell’io multiplo, frammentato, fatto di tanti pezzetti, in cui pirandelliamente, si è detto, ciascuno paradossalmente ha la possibilità di tenere insieme «la 165
R. Bodei, Destini personali, cit., p. 260. Cfr. D. Losurdo, L’ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce 2001. 167 R. Bodei, Destini personali, cit., p. 261. 168 Ibid. 169 Cfr. G. Straniero, Faccia a faccia. Interazione sociale e osservazione partecipante nell’opera di Erving Goffman, Bollati Boringhieri, Torino 2004. 166
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triplice coscienza del potersi trasformare in centomila, del mantenersi nella finzione di essere uno e dello scegliere di essere nessuno»170, si pone il problema non solo di un possibile equilibrio tra l’Io, il Noi e l’Altro, ma anche quello di saper ricostruire all’altezza del nostro tempo storico «un Noi capace di rafforzare il legame sociale senza attentare all’autonomia degli individui» e di cancellare le differenze, le libertà e pluralità individuali: «non esiste un Io o un Noi che non sia formato dall’avvertito senso di coappartenenza di molteplici Io, dai sedimentati ma attivi processi transindividuali di individuazione». Le metamorfosi dell’individualità contemporanea coinvolgono direttamente tanto la vita quotidiana, la cultura, la scienza e la tecnica, quanto l’economia, la società e la politica: la lotta cosciente e responsabile tra l’Io e il Noi resta quanto mai aperta tra localismi, particolarismi, fondamentalismi e scenari globali, tra popoli, gruppi, culture e sub-culture, fuori e dentro l’Occidente171, tra paure e speranze perché siamo tutti “migranti nel tempo” e ci spostiamo dal presente verso un futuro “ignoto”, alla ricerca di altre e nuove forme di umanità e identità possibili. Di fronte alle sfide della società globale, se il passato “stenta a passare”, il futuro, da parte sua, diviene sempre più “futuro passato”, mentre nel nostro presente, dove è sempre più difficile apprendere come vivere insieme “liberi, uguali e diversi” (Touraine), sarebbe auspicabile nella “politicità” della determinatezza storica non rimanere individualmente soltanto “puri osservatori e fruitori” senza giudizio critico del “Nuovo” perché ridotti ad essere “indifferenti senza cinismo” e “appassionati senza entusiasmo”, dal momento che anche «dall’originaria assunzione del fatto dell’esistenza nasce l’azione morale dell’individualità che non si compiace della propria intimità, ma verifica il proprio valore nel drammatico “collaudo” della storia»172.
5.12. Denaro, desiderio e avarizia, dono e riconoscimento reciproco È stato Simmel (attraverso e oltre la Filosofia del denaro) a farci comprendere che parlare di individualità moderna significa oggi riflettere sul ruolo, la funzione e il significato della razionalizzazione monetaria, cioè sul denaro, 170
R. Bodei, Destini personali, cit., p. 264. Cfr. G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003 e J. Habermas, L’Occidente diviso, tr. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2005. 172 M. Martirano, Vero-Fatto, Guida, Napoli 2007, p. 172. 171
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L’INQUIETO
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sulla sua natura mediale anche di tipo broadcasting, «ovvero di un dispositivo di disseminazione del valore e del senso al di là dei contesti in cui esso viene concretamente generato»173. Da sempre il denaro attrae la curiosità scientifica e la riflessione etica e filosofica, oltre che politica ed economica. L’interesse per il denaro non è soltanto legato a motivazioni biografiche. Per la sua rilevanza nella società contemporanea, esso è sempre più un linguaggio di pura rappresentazione formale in grado di combinare e fondere razionalità e passione, è forza autoevidente e nel contempo radicata nella dimensione profonda ed oscura dell’inconscio. Nella società e nella cultura contemporanee la centralità del denaro risalta perché esso è un punto fondamentale di riferimento per la gran parte delle attività e dei valori: esso, pur assumendo tanti volti, è elemento irrinunciabile dello scambio e della informazione finanziaria nella globalizzazione. Esso non soltanto determina il modo di produrre e di lavorare, ma anche di vivere i rapporti sociali e le trasformazioni profonde che attraversano l’esperienza soggettiva. Non solo inquieta, ma anche seduce: genera continuamente interrogativi proprio a causa della sua irrisolvibile ambivalenza. Come lo definiva Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, il denaro è «l’universale prostituta, l’universale mezzana di uomini e popoli»174, cioè una forza perversa «in grado di sovvertire il naturale ordine delle cose basato sulla reciprocità fra soggetti e sulla corrispondenza fra le attitudini autentiche dei soggetti e le caratteristiche intrinseche dei relativi oggetti d’interesse»175. Nel registro tragico di una critica del denaro, Sofocle, nell’Antigone, dice: «Il danaro! Quale invenzione più dannosa di questa, agli uomini? Il danaro abbatte gli Stati, scaccia gli uomini di casa. Esso ammaestra, esso conduce le anime dei mortali più onesti a cadere nell’infamia»176. Il denaro, pur non essendo epico e pur sembrando di appartenere alle forme classiche del male e al regno della bassezza, pur godendo di una immunità nei confronti del suo disprezzo, il denaro, come scrive Hénaff, sembra dotato di un potere illimitato e inquietante «di acquisizione e di appropriazione» (PV, 25), esso assicura scandalosi privilegi. Il denaro non solo è capace di metamorfosare ogni cosa e rovesciare tutti i valori, ma può agire altresì «ignorando le relazioni, gli status, le convenzioni»: esso possiede il potere di essere un sostituto. Il denaro ha un illimitato potere 173
D. Borrelli, La vita quotidiana come disseminazione, cit., p. 21. Cfr. K. Marx, Il denaro, in Id., Opere filosofiche giovanili. 2 Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it., Editori Riuniti, Roma 1968, pp. 252-256. 175 D. Borrelli, La vita quotidiana come disseminazione, cit., p. 21. 176 Sofocle, Antigone (I episodio), tr. it. di E. Cetrangolo, in Il teatro greco. Tutte le tragedie, a cura di C. Diano, Sansoni, Firenze 1975, p. 182. 174
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di traduzione e di conversione, oltre che di dissimulazione e d’inganno: poiché è «l’usurpatore ubiquo» per eccellenza, il denaro è legato al dramma del tradimento in quanto è «agente dell’universale traduzione» (ivi, 28). Nella sua mobilità universale rende accessibile «una quantità illimitata di scelte» e può comprare anche «le cose che non dovrebbero essere vendute» (ivi, 27). Il denaro, tra l’altro, si personifica nella figura del commerciante. In effetti, il commerciante «è colui che, per definizione, ha a che fare con il denaro; il denaro è il suo strumento per eccellenza; il denaro è la sua forza, il suo garante, il suo potere, il suo regno». In fin dei conti, «è il suo unico territorio, dato che i prodotti [le merci] vanno e vengono tra le sue mani, mentre quel che resta alla fine è solo il denaro» (ivi, 92). Per Baudelaire, «il commercio è, nella sua essenza, satanico […]. Per il commerciante la stessa onestà è una speculazione di lucro. Il commercio è satanico, perché è una delle forme dell’egoismo, e la più bassa e più vile»177. Non c’è da stupirsi se nel mondo antico, Hermes, dio dei messaggeri e degli incroci, fosse non solo il dio dei mercanti ma anche quello dei ladri178. Il denaro compra il denaro, si trasforma in merce, diventa strumento illimitato di misura e di misurazione. Principio e scopo dello scambio. Genera profitti, debiti, avidità, usura, corruzione e concussione, potere, libertà, comunicazione, vita e morte, debito di dipendenza, giustizia vendicatrice e arbitrale, vendetta, guerra, onorario, salario, stipendio, ordine e disordine politico e sociale. In un mondo fondato sullo scambio, il denaro è «l’elemento bianco»179, è l’equivalente generale, vale tutto e vale se stesso, è il jolly più potente di tutti, ha tutti i valori per non averne nessuno, è indeterminato, è il sostituto universale, è la «maschera del possibile»: è dappertutto. Con la sua intrinseca polisemia e con il suo essere strumento per la razionalizzazione degli scambi, esso sfida continuamente le nostre capacità di comprensione: esso divide individui e gruppi; produce conflitti, consuma rapporti individuali e sociali; crea distanze abissali tra popoli ricchi del pianeta e i poveri e diseredati della terra. Ma è sempre al denaro che ci rivolgiamo per sanare ogni ferita e tentare di risolvere tutti i nostri problemi: è sempre il denaro il medium di regolazione di tutti gli antagonismi più differenziati e che sancisce continuamente disuguaglianze. Anche nella globalizzazione il denaro è il pharmakon (medicamento e veleno) a cui fare affidamento nella gestione dell’agire quotidiano individuale e sociale: esso unisce e divide, concretizza 177 C. Baudelaire, Scritti intimi. Il mio cuore messo a nudo, XLI, 74, in Id., Tutte le poesie e i capolavori in prosa, ed. it. a cura di M. Colesanti, Newton Compton, Roma 1998, p. 875. 178 Cfr. M. Serres, Le Parasite, Grasset, Paris 1980. 179 Cfr. ivi, pp. 214-219.
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la miseria o la ricchezza; filtra e determina i significati e le esigenze della vita: è il prezzo della vita. Il denaro è fluido, proteiforme, invasivo, duttile, senza frontiere; è sempre uguale a se stesso, ma sempre diverso, accompagna la costruzione o distruzione (e ri-costruzione) della vita individuale e sociale. Esso contribuisce in modo determinante a creare la natura del legame sociale, a vivere nel tempo e nello spazio individuale e sociale: il denaro sono gli altri, senza gli altri non può esistere il denaro; sono gli uomini che lo creano e che si sottomettono al suo potere; per questo il denaro non è mai risolvibile e traducibile nelle sole funzioni monetarie; esso non si svincola mai dalla cultura e dalla società; alimenta tanto le passioni e le illusioni, quanto le paure e le ansie della vita quotidiana. Noi “spendiamo” in denaro i frammenti della vita quotidiana. Il denaro “abita” la vita, la società, le credenze, i valori, i desideri e le loro rappresentazioni. Il denaro è il principio dell’individualità contemporanea: la vita individuale e sociale và dove porta il denaro. La finanza globalizzata costituisce oggi il più efficace mercato mondiale: il denaro nell’economia di rete e nella cosiddetta hot money ha reso possibile la planetarizzazione dei mercati, generando un sistema simbolico universale capace di omologare e unificare società, culture e politiche sostanzialmente diverse. Sembrerebbe profilarsi all’orizzonte della storia del capitalismo un vero e proprio “passaggio d’epoca” rispetto alle fasi precedenti della modernità economica e sociale in relazione al problema della mercificazione delle relazioni umane e delle esperienze del vivere. Sotto le spinte dettate dagli imperativi del profitto si consuma sempre più una progressiva colonizzazione della vita, della cultura e della società in cui abitiamo. Il processo di “reificazione” non solo assume nuove vesti, ma si amplia inesorabilmente diventando sempre più complesso e coinvolgente anche la sfera simbolica oltre che materiale dei rapporti interindividuali. A livello globale, sta cambiando il ruolo dell’economia, del mercato e del denaro, ivi compreso quello dello Stato, congiuntamente a quello delle logiche e delle tecniche di controllo e di dominio. Nuove configurazioni sono assunte dal potere politico, ma anche dai processi e dalle dinamiche di integrazione e disgregazione sociale. La razionalizzazione monetaria contemporanea ha prodotto e continua a produrre “effetti perversi”, “nuovi” conflitti, comprese le nuove forme di anomia individuale e sociale. A fronte di una pervasività delle dinamiche della finanza “senza frontiere”, paradossalmente il potere del denaro esprime molte sue ricadute sulla natura sociale, culturale e politica dell’individualità contemporanea. Dispositivo di regolazione e di scambio economico e sociale, il denaro diventa anche espressione di violenza e di riconoscimento della rilevanza
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dell’altro, strumento di valutazione e svalutazione degli individui che come merci si incontrano nei mercati locali e globali e si valutano reciprocamente. Dietro l’essenza immateriale del denaro si celano sempre e concretamente le relazioni individuali e sociali, i rapporti di potere, le dinamiche istituzionali e culturali. Il denaro può rendere attuale il futuro, producendo sia effetti di aggregazione che effetti di disgregazione. L’individualità contemporanea può godere di credito solo se dispone di una “credit card” che funziona come una chiave magica che la protegge contro ogni rischio ed imprevisto; la carta di credito è il nuovo “talismano” protettivo che pervade ogni aspetto della vita: anche se si dovesse smagnetizzare, non per questo il denaro che veicola perderebbe la sua magia. L’essenza e l’efficacia del denaro sono di natura sociale: il denaro determina dimensioni comunicative soggettive e psicologiche, economiche, normative, culturali e politiche. L’agire contemporaneo dell’individualità è inscindibile dall’agire monetario: il denaro è la vera e propria “cifra” della socialità, parte integrante dei vissuti esperienziali. Il denaro rappresenta, con la musica, la matematica e la moda, il linguaggio formale universale della società globalizzata, il più potente, anzi per certi aspetti l’unico codice transculturale e transnazionale talmente efficace da poter vitalizzare ogni tessuto sociale. Il denaro “vale” anche perché fa intersoggettività, perché, nel flusso della vita, fa comunicare. Il denaro “estende” la persona sociale, ne amplia le capacità di interazione e comunicazione. Ecco perché l’autentico avaro180 «è colui che si destina a una solitudine eremitica». Stefano Zamagni ha mostrato in modo impareggiabile non solo perché l’avarizia, il più «sociale» dei vizi capitali, indossa di volta in volta i panni dell’avidità, della cupidigia, della bramosia, dell’usura, della concupiscenza, della fame dell’oro, della taccagneria, della grettezza, ma anche perché tra gli economisti (e nei loro testi divulgativi) «non si parla mai di comportamento avaro né si considera sensato domandarsi se le preferenze dell’homo oeconomicus siano avare o meno» (A, 8). Questi, infatti, «deve solamente pensare a comportarsi in modo razionale, massimizzando, sotto opportune condizioni, l’interesse proprio, quale che sia» (ibid.). Diversamente, egli mostra che così non è: «l’avarizia – il più “economico” dei vizi capitali – costituisce uno dei più frequenti casi di “fallimento della ragione” in ambito economico». Poiché l’avaro «difetta di una ragione ben conformata, non sa indirizzare la passione dell’avere che alberga in ciascun essere umano; in particolare, non sa indicare a tale 180
Sull’argomento, cfr. S. Zamagni, Avarizia. La passione dell’avere, il Mulino, Bologna 2009 (d’ora in poi A).
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passione – di per sé fisiologica – i beni che è ragionevole appetire»: l’avaro «tesaurizza, si accaparra ricchezza sottraendola alla circolazione; non facilita la produzione, anzi la ostacola a causa di comportamenti dissipativi» (ibid.). Nell’evoluzione della sua semantica storica, il fenomeno dell’avarizia ha conosciuto una continua metamorfosi di significati. In concomitanza con l’avvento della nuova globalizzazione e della terza rivoluzione industriale (quella delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni), la problematica dell’avarizia ritorna d’interesse. Scrive Zamagni: «Accusata di essere la principale generatrice di scarsità secondarie, in quanto non permette di distinguere tra bisogni e desideri, l’avarizia è il vizio che più di ogni altro è cresciuto in maniera spettacolare durante il secolo scorso. Oggi la brama smodata delle cose pare di nuovo essere percepita come uno dei più seri impedimenti al progresso civile e morale delle nostre società. Se il superbo è posseduto da se stesso, l’avaro lo è dalle cose. Il suo comportamento presenta tratti inconfondibili: l’avaro accumula ma non investe; conserva ma non usa; possiede ma non condivide. Anche le società, e non solo i singoli, possono diventare avare; ed è proprio per questo che fa problema rispetto al fine del progresso sociale» (ivi, 11). Zamagni ci ricorda quanto sia ancora attuale l’antico monito di Machiavelli, secondo il quale: «Ai popoli nuoce molto più l’avarizia de’ suoi cittadini che la rapacità degli nimici». Oggi, nella società dell’Occidente avanzato, chi è l’avaro e come si manifesta l’avarizia? Cosa c’è alla base del comportamento dell’avaro? Quali ragioni vi sono per cedere al richiamo dell’avarizia e quali motivi possono indurre un individuo ad agire in modo avaro? A questi interrogativi Zamagni risponde muovendo da una preliminare riflessione sulla struttura del desiderio del soggetto che agisce e, in particolare, dell’avaro. In generale, il desiderio «non è una mera sensazione che si esprime in un qualche stato fisiologico o un’emozione che svanisce rapidamente» (A, 105). Piuttosto, «desiderare è sentire una mancanza (letteralmente, desiderium significa “mancanza di stelle”). Soddisfare un desiderio – nel nostro caso il desiderio di avere – significa allora (è ancora l’etimologia a suggerircelo) “fare abbastanza” (satisfacere) per placarlo» (ibid.). Vale la pena a questo punto, con valore di digressione, soffermarsi sul rapporto complessivo tra denaro e desiderio seguendo il ragionamento svolto da Simmel nella Filosofia del denaro, e poi riprendere il ragionamento sull’avaro e il suo desiderio di possesso. Per Simmel, la genesi del denaro si spiega poiché «la diversità dei desideri tra due persone» (FD, 660) non sempre viene a coincidere con «la diversità dei prodotti che esse hanno da offrire» (ibid.), di conseguenza si rende necessario «un mezzo che permetta un particolare tipo di scambio, effettuato il quale solo una delle due parti ottiene l’oggetto desiderato, mentre
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l’altra ottiene solo il mezzo necessario ad effettuare un successivo scambio contro la cosa desiderata. Tale condizione è però valida finché gli uomini desiderano un numero limitato di oggetti, mentre le cose sono destinate a cambiare con il continuo moltiplicarsi dei bisogni»181. Di fatto, poiché la causa che spiega la comparsa del denaro è «la differenza dei prodotti, ovvero dei desideri diretti nei loro confronti» (FD, 660), il suo ruolo «sarà evidentemente tanto più importante ed ineliminabile, quanto più gli oggetti in circolazione sono diversi» (ibid.); oppure, considerando la cosa altrimenti, «si può giungere ad una avanzata specializzazione delle prestazioni solo quando non si è più costretti allo scambio immediato» (ibid.). In Simmel è centrale «l’idea» di un rapporto tra soggetto e oggetto in cui intervengono «momenti di Wertphantasie, di creazione e proiezione sugli oggetti di immagini di desiderio che danno vita a “oggetti simbolici”, ideali»182. Nello specifico, come chiarisce Boella, «la discrasia di soggetto e oggetto non viene in questo modo intesa come frutto di operazioni di tipo rappresentativo o volitivo di attribuzione da parte del soggetto di realtà o di valore all’oggetto, bensì come oggettivazione dell’oggetto, dilatazione dei confini della sua realtà fattuale in direzione del possibile, della sfera del senso e del significato». Centrale in questa luce è il nesso valore-desiderio. Infatti, «la separazione tra un soggetto che apprezza, valuta, gode e un oggetto dotato di valore non è affatto originaria, bensì derivata. Originario è il godimento come atto indifferenziato, come avviene persino nel caso dell’opera d’arte che, pur essendo un oggetto di per sé autonomo rispetto al soggetto, può dar forma a un tipo di fruizione immedesimante, a un piacere indifferenziato». Il desiderio, quindi, segna la fine di questa «unità indifferenziata». Il contenuto dell’atto del desiderio è un «oggetto mancante, non goduto»: ciò «non significa che esso sia non-esistente, quanto piuttosto che le cose vengono desiderate al di là della loro disponibilità all’uso e al godimento». Il desiderio «nasce dal momento in cui le cose oppongono resistenza al soggetto». La correlazione tra desiderio e oggetto si forma «non perché ci sia un incontro armonico tra l’uomo e le cose, ma perché tra i due si instaura una distanza, costituita dalla qualità specifica dell’oggetto, dal suo non aver ancora soddisfatto l’aspirazione del soggetto, dal suo non essere ancora stato goduto»: l’oggetto desiderato in questa specifica forma diventa «un valore perché è difficilmente accessibile». Ciò spiega così perché «il godimento (in cui il soggetto vince la distanza che lo separa dall’oggetto) consuma il valore». Questo «torna a formarsi non appena l’oggetto goduto 181 182
F. Monceri, Simmel e la tragedia della cultura, cit., p. 104. L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 76.
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ricomincia a contrapporsi al soggetto, riprende ad alimentare immagini di desiderio. Il godimento infatti spesso non consuma interamente il valore dell’oggetto in quanto quest’ultimo, proprio perché dotato di valore, non contiene solo elementi legati all’atto di desiderio e alla rappresentazione soggettiva del godimento». Esso contiene piuttosto «la dimensione del valore nel senso della qualità di tornare a prospettare la propria oggettualità nella dimensione del non-goduto, del mancante, della lontananza, e quindi del sacrificio, della rinuncia, della fatica»183. Per Simmel, nel rapporto tra oggettivazione, valore e denaro, il valore del denaro si costituisce in virtù di un più generale processo sociale, psicologico e filosofico, e non solo ed unicamente in virtù di una logica economica. Anzi, «nell’ambito economico il processo di formazione del valore […] si radicalizza e, per così dire, si stabilizza: il valore delle cose scaturisce ormai esclusivamente dal loro rinvio reciproco, dal rapporto di scambio in cui sono inserite. Ciò è frutto di un’accentuazione radicale della distanza di soggetto e oggetto (che era all’origine della valutazione degli oggetti come fonte di godimento), tale per cui il soggetto cede totalmente il campo al gioco reciproco delle cose». Il valore di queste ultime, frutto del reciproco rimando ai valori di ciascuna 183 Ivi, pp. 76-77. Specificando la categoria dello scambio (in quanto interazione) come forma di vita e come condizione del valore economico, Simmel scrive nella Filosofia del denaro che «il significato dello scambio, e cioè che la somma del valore del “dopo” sia superiore a quella del “prima”, richiede che ognuno dia all’altro di più di quello che egli stesso possedeva. Evidentemente il concetto di interazione è più ampio di quello più ristretto di scambio, soltanto che nei rapporti umani l’interazione appare prevalentemente in forme che permettono di considerarla come scambio. Il nostro destino naturale, che ogni giorno ci presenta una continuità di guadagno e perdita, di flusso e deflusso dei contenuti della vita, viene spiritualizzato nello scambio, che ci rende consapevoli che l’una cosa sta per l’altra. Lo stesso processo di sintesi spirituale che crea dalla vicinanza degli oggetti la loro interdipendenza, lo stesso Io che, pervadendo internamente i dati sensibili, attribuisce loro la forma della propria unità – ha assunto con lo scambio quel ritmo naturale della nostra esistenza e organizzato i suoi elementi in una connessione significativa. L’ombra del sacrificio non è certo estranea allo scambio di valori economici. Quando scambiamo amore con amore, rendiamo manifesta un’energia interiore che non sapremmo impiegare altrimenti, non rinunciamo ad alcun beneficio – prescindendo da conseguenze collaterali esterne. Quando comunichiamo nel discorso contenuti spirituali, essi non per questo diminuiscono. Quando offriamo ai nostri vicini l’immagine della nostra personalità, accogliendo in noi la loro, non diminuiamo in alcun modo nello scambio la proprietà che abbiamo di noi stessi. In tutti questi scambi l’aumento di valore non si realizza contabilizzando profitti e perdite. L’apporto di ogni parte, o sta del tutto al di là di questa contrapposizione, o il fatto stesso del dare è già per sé un guadagno, nel qual caso il corrispettivo ci appare come un regalo gratuito nonostante la nostra offerta; lo scambio economico, invece – sia che riguardi oggetti o lavoro, o energia lavorativa investita in oggetti – richiede sempre il sacrificio di un bene utilizzabile anche in altro modo, per quanto nel risultato finale possa prevalere l’incremento di felicità» (FD, 126).
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cosa, «assume infatti un’oggettività sovraindividuale, ma senza diventare una qualità e realtà oggettiva delle cose. Il denaro incarna la “scambiabilità” e il suo valore non deriva dall’essere un oggetto tra gli oggetti, bensì dall’essere il centro e l’agente di un meccanismo di reciprocità del tutto impersonale e funzionale». Nell’economia giunge dunque alla massima espressione «la natura del processo di oggettivazione come rinvio di un oggetto a un altro in seguito all’incorporazione-simbolizzazione che in questo è avvenuta di rapporti sociali, dinamiche sensibili, psicologiche, utilitarie». Elemento specifico dell’economia «non è quindi il valore, ma lo scambio, la circolazione che crea un regno intermedio tra il desiderio e il soddisfacimento, in cui gli oggetti si valutano reciprocamente e fanno scaturire il loro valore da tale rinvio reciproco»184. In base a questa interpretazione, si può comprendere perché Simmel ponga particolarmente in risalto il fatto che il denaro, «il quale presuppone e rafforza istituzionalmente la situazione dello scambio di equivalenti»185, possa di fatto esplicare una siffatta funzione soltanto in virtù dell’intervento di quella “fantasia del valore” che «è alla radice della formazione del valore»186. Da ciò consegue che «lo scambio non avviene tra oggetti dotati di uguale valore, bensì tra oggetti di cui uno è meno “desiderabile” dell’altro. Esso presuppone dunque la presenza di una pluralità di desideri e rappresentazioni concorrenti, attraverso i quali si ripropone, esteso al mondo cosale nel suo complesso, il rapporto tra apprezzamento di valore e non godimento che […] fonda l’oggettività del valore»187. È così possibile spiegare perché, per Simmel, «lo scambio è produttivo e crea valore al pari della produzione» (FD, 128): esso non crea «nuove materie o energie» (ibid.), ma «incrementa il valore dell’oggetto, lo costituisce appunto come peculiare qualità (non sostanziale, ma funzionale) delle cose. Nell’economia di scambio evoluta, ciò che si attua è l’oggettivarsi della soggettività nello scambio che allora appare un “rapporto tra cose”»188. In realtà, come scrive Simmel, «l’oggetto desiderato diventa un valore pratico, cioè appartenente alla sfera economica, attraverso il confronto tra la sua desiderabilità e quella di un altro oggetto e soltanto così è possibile giungere alla sua misurazione» (FD, 140). Nello specifico, dunque, secondo l’autore della Filosofia del denaro, «il valore di un oggetto raggiunge la massima visibilità e tangibilità proprio per il fatto che,
184
L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., p. 82. Ibid. 186 Ibid. 187 Ivi, pp. 82-83. 188 Ivi, p. 83.
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per ottenerlo, viene scambiato con un altro oggetto […]. La relazione fondamentale con l’uomo, nella cui vita sentimentale si svolgono senza dubbio tutti i processi di valutazione, è a questo proposito presupposta e per così dire incorporata nelle cose, le quali, forti di questa relazione, affrontano tale processo di reciproca ponderazione, che non è conseguenza del loro valore economico, ma già portatore e contenuto dello stesso» (ivi, 122). Come scrive Comoglio, il valore, per Simmel, «è sempre immanente all’esperienza del soggetto, si costituisce nel corpo stesso della vita, ma non come proprietà tangibile delle cose, ma come centro ideale di una trama di rapporti sociali e culturali che ne determinano la genesi. Esso non ha alcuna consistenza ontologica propria, non esiste al di fuori del rapporto tra i soggetti che scambiano, non può essere inteso come qualità dell’essere; è radicalmente fondato nella soggettività degli individui e non nelle caratteristiche autonome degli oggetti che vengono scambiati. Il valore delle cose non è definito da un parametro di utilità calcolato su una scala di misura universalmente valida, ma dipende dalla forza e dall’intensità del desiderio, dal sacrificio che siamo disposti a fare per ottenerle». L’economia viene interpretata da Simmel «essenzialmente dal punto di vista della domanda individuale dei beni d’uso; una domanda che non sorge soltanto da bisogni concreti, ma anche da rappresentazioni e inclinazioni assolutamente personali. Si fa notare che, soprattutto all’interno del capitalismo avanzato, il valore degli oggetti deriva in gran parte dallo stimolo emotivo che essi riescono a produrre, dalla capacità che hanno di spingere un gran numero di persone a lavorare per assicurarsene il possesso». Tuttavia, continua Comoglio, qui si pone il problema cruciale, «se il valore nasce nella sfera della soggettività psicologica, esso deve acquistare una forma obiettiva nel momento dello scambio, quando le nostre valutazioni entrano in rapporto con quelle degli altri. La necessità di confrontarsi sul mercato, di stabilire una compatibilità delle valutazioni, costringe desiderio e istinto ad allentarsi, per consentire quelle considerazioni di calcolo da cui scaturiscono le forme impersonali delle relazioni sociali. L’essenza problematica del denaro interviene precisamente in questo punto, quando si tratta di passare da un radicamento soggettivo del valore all’oggettivazione che di esso si dà nell’evoluzione dei processi di scambio». Il denaro definisce il terreno comune «su cui si confrontano le diverse prese di posizione; esso costituisce lo snodo, l’articolazione centrale in cui la traboccante impulsività del sentimento e la razionalità delle norme intellettuali vengono bloccate in una tragica polarità»189. Scrive Simmel:
189
A. Comoglio (a cura di), Le filosofie del denaro, cit., p. 17.
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La reciprocità della misurazione, grazie alla quale ogni oggetto economico esprime il suo valore in un altro oggetto, innalza entrambi dal loro puro significato in termini di sentimenti: la relatività della determinazione del valore significa la sua oggettivazione (FD, 122).
Il valore di scambio «perde così il suo significato originario, finisce con l’apparire una qualità indipendente, si oggettiva. La relazione si trasforma in un rapporto tra cose e non è più riconosciuta, invece, come una relazione tra persone che dispongono delle cose e ad esse attribuiscono, soggettivamente, valori diversi. Si dimentica in questo modo che è sempre possibile risalire dai sistemi economici alla realtà dell’esperienza vissuta (Erlebnis), perché dietro ogni formazione sociale c’è l’uomo con la sua vita». La consistenza oggettiva del valore, che appare granitica e inattaccabile, «in realtà riposa su di un’illusione, sopra un progressivo mascheramento». Se il valore economico degli oggetti consiste «nel rapporto reciproco che si instaura tra essi in quanto oggetti di scambio e tra gli individui in quanto soggetti valutanti», il denaro è «l’espressione, divenuta autonoma, di questo rapporto»: esso racchiude in una forma concettuale «i contenuti dell’interazione socio-economica, cristallizzati in un simbolo, dapprima concretamente afferrabile e poi sempre più rarefatto, sempre meno visibile». In questo modo il denaro «accede progressivamente a un regno di forme autonome, attraverso un processo di distacco da quegli impulsi soggettivi del sentimento, del desiderio e del godimento che pur rappresentano l’origine della sua storia»190. Da queste considerazioni simmeliane scaturisce una sintesi che possiamo esprimere nel modo seguente: «L’oggettività del denaro, essendo funzione di proiezioni di desiderio, di attiva elaborazione di una realtà che non è ancora, della totalità delle sue possibilità, è dunque una realtà limite: la sua forma nasce sul terreno degli assetti plurali e mutevoli assunti nel gioco di livellamento (l’astrazione crescente del denaro sancisce l’assenza di un corrispondente oggettivo della totalità delle possibilità da esso offerte) e di Wertphantasie. Il denaro mostra in altri termini che la totalizzazione dei momenti della ratio formale è irrealizzabile. Ma mostra anche che ciò non dà luogo a una realtà ingannevole, al puro vuoto, bensì nello spazio della differenza tra soggetto e oggetto nascono e vengono rappresentate nuove possibilità, tensioni tra presente e futuro, tra elementi di incertezza e inconoscibilità e possibilità. Il denaro infatti rappresenta una “combinazione unica” degli elementi che costituiscono la nozione di possibilità: il presente, 190
Ivi, p. 18.
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L’INQUIETO
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le condizioni reali-oggettive che rendono un’azione possibile, e il futuro, l’incertezza dell’esito. Mentre di norma il futuro è incerto, dal denaro è scomparsa qualsiasi incertezza, ma al tempo stesso il suo possesso reale nel presente non conta, è inessenziale, immateriale, essendo il denaro “mezzo assoluto”, in quanto fornisce illimitate possibilità di godimento, e “assoluto mezzo”, in quanto il suo possesso è fine a se stesso, prescinde dall’effettivo godimento»191. Dopo quella dell’interprete, per ulteriore conferma e precisazione, leggiamo direttamente la pagina di Simmel: Ciò che si possiede realmente con il denaro è, limitatamente al momento del suo possesso, uguale a zero. L’elemento decisivo, il fatto che il denaro si sviluppi verso risultati dotati di valore, si trova, piuttosto, del tutto al di fuori di questo momento. Ma la sicurezza che questo fatto ulteriore si verificherà realmente al momento giusto è enorme. Mentre di regola la misura di solidità e di sicurezza contenuta nel «potere» si trova in ciò che è disponibile ed effettivo nel presente, e tutto il futuro è incerto, l’incertezza è completamente scomparsa nei confronti del denaro. Rispetto ad esso, invece, ciò che è già presente, ciò che attualmente è posseduto, è, come tale, del tutto privo di importanza. In questo modo il carattere specifico del potere raggiunge nel denaro il proprio culmine: si tratta realmente di una pura possibilità, in quanto il presente, ciò che abbiamo nelle mani, è importante solo in rapporto al futuro, ma si tratta anche di un potere autentico perché abbiamo la completa certezza della realizzabilità di questo futuro (FD, 354).
Il denaro, dunque, è pura possibilità, in quanto «isola e sospende il nesso presente-futuro in essa determinante: rende certo il futuro, ma immateriale e potenziale il presente»192. Simmel sottolinea la peculiarità del rapporto che si instaura nel denaro tra desiderio e realizzazione allorquando nota che la concezione di tale rapporto si avvicina ma nel contempo si differenzia da quella di Schopenhauer, per il quale, infatti, «la felicità è soltanto l’eliminazione del dolore che lo stato di privazione ha provocato in noi» (FD, 354). Diversamente, «se si concepisce la felicità come qualcosa di positivo, il raggiungimento dei nostri desideri non è soltanto l’eliminazione di una condizione negativa mediante la corrispondente condizione positiva alla quale aggiunge contemporaneamente un senso di felicità. Piuttosto, il rapporto tra il desiderio e il suo appagamento è un rapporto infinitamente vario, perché il desiderio non considera quasi mai tutti gli aspetti dell’oggetto, cioè tutti gli aspetti del suo effetto su di noi. Nella realtà dell’oggetto non otteniamo quasi mai ciò che esso significava per noi in base alla categoria 191 192
L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, cit., pp. 83-84. Ivi, p. 84.
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RECIPROCITÀ, RICONOSCIMENTO E DONO
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della possibilità, della volontà di possederlo» (ibid.). Lo iato, lo scarto, tra la possibilità di possedere un oggetto e la realtà traduce il detto comune che la saggezza popolare afferma quando sostiene che «il possesso di ciò che abbiamo voluto di regola ci delude, e, precisamente, sia dal lato buono che da quello cattivo» (ibid.). Il denaro, in questo contesto, assume tuttavia una posizione del tutto peculiare. Da un lato rende estrema l’incommensurabilità tra il desiderio e il suo oggetto. L’aspirazione diretta innanzitutto verso il denaro, trova in esso soltanto una cosa completamente indeterminata, con la quale un desiderio, nella misura in cui è razionale, non può venir soddisfatto in modo assoluto. La sua essenza completamente vuota si sottrae ad ogni rapporto autentico con noi. Se dunque il desiderio non perviene ad una meta concreta al di là di questo, deve subentrare una delusione mortale. Questa delusione viene provata tutte le volte che la ricchezza appassionatamente desiderata come sicura fonte di felicità si rivela, dopo il suo raggiungimento, per quello che è realmente: un puro mezzo che diventando fine ultimo non può darci nulla di più del suo raggiungimento. Ma mentre qui abbiamo la più paurosa discrepanza tra desiderio e appagamento, avviene esattamente il contrario quando il carattere psicologico di fine ultimo del denaro si è rafforzato con il passare del tempo e l’avidità di denaro è diventata uno stato cronico. In questo caso, cioè quando la cosa desiderata non deve procurare altra soddisfazione se non il suo possesso e questa limitazione del desiderio non è soltanto un’illusione passeggera, si è posto riparo anche ad ogni delusione. Tutte le cose che di solito desideriamo possedere, devono darci qualcosa con il loro possesso e nella previsione sbagliata di questa prestazione c’è tutta l’incommensurabilità, spesso tragica, ma spesso anche umoristica, del desiderio con la sua realizzazione […]. Ma all’avaro il denaro non deve a priori dare niente di più del puro possesso. Conosciamo il denaro in quanto tale in modo più preciso di qualunque altro oggetto. Infatti, poiché non c’è nulla da conoscere in esso, non può nasconderci nulla. Poiché è assolutamente privo di qualità, al denaro non è possibile ciò che riesce anche all’oggetto più misero: nascondere sorprese o delusioni. Chi dunque vuole realmente e definitivamente solo denaro è assolutamente al sicuro da queste. L’universale inadeguatezza umana, per la quale ciò che si è conquistato appare diverso da ciò che si è desiderato, raggiunge il culmine nell’avidità di denaro, quando questa appaga la coscienza del fine soltanto in modo illusorio e labile; ma viene completamente eliminata, se la volontà si arresta davvero e definitivamente al possesso del denaro. Se si vogliono comprendere i destini umani nello schema dei rapporti tra il desiderio e il suo oggetto, si deve dire che, a seconda del punto di arresto della serie dei fini, il denaro è certamente l’oggetto più inadeguato, ma anche il più adeguato, al nostro desiderio (ivi, 355-356).
Secondo Simmel, se il carattere di «fine ultimo» del denaro dovesse oltrepassare per un individuo il grado di intensità che traduce l’espressione
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adeguata della cultura economica della sua cerchia sociale, allora sorgono i fenomeni dell’avidità e dell’avarizia (cfr. ivi, 347). In generale, «il livello oltre il quale inizia l’avidità vera e propria sarà molto alto dove l’economia monetaria è molto sviluppata e dimostra grande vitalità», diversamente, sarà basso quando il livello dell’economia «è più primitivo» (ivi, 348). Tutto il contrario avviene invece per l’avarizia. Infatti, «chi in situazioni modeste ed economicamente abbastanza stabili è ritenuto parsimonioso e ragionevole nelle spese, nelle situazioni di rapporti economici in espansione, caratterizzate da un rapido giro d’affari, da facili guadagni e forti spese, apparirà subito avaro» (ibid.). Avidità e avarizia non sono, quindi, fenomeni assimilabili, pur avendo come fondamento unico la valutazione del denaro come «fine assoluto»; come fenomeni che dipendono dal denaro, avidità e avarizia rappresentano soltanto «stadi particolari» della formazione di tendenze i cui gradi più bassi o più alti «sono visibili anche in altri contenuti». Entrambe si manifestano in relazione «ad oggetti concreti e senza rapporto con il loro valore in denaro». L’avidità e l’avarizia, quali «degenerazioni patologiche» dell’interesse per il denaro, traducono sintomaticamente e in modo evidente quello «svilupparsi dei beni fino a divenire fine ultimo, il cui valore assoluto va al di là della mera utilizzazione della cosa»: il vero veicolo del valore «non è la qualità della cosa». Nonostante essa sia necessaria e determinante per la misura del valore, «il vero motivo che agisce è che essa venga in possesso». Tale forma del rapporto in cui il soggetto si pone verso di essa, che tuttavia può diventare reale e presente soltanto con un contenuto di fatto oggettivo, altro non è che «l’elemento che ha valore e presso il quale la serie teleologica si arresta» (ivi, 350). Le modalità con cui si manifestano l’avidità e l’avarizia comprendono tutte le altre manifestazioni dello stesso tipo: infatti, «il denaro, una volta divenuto fine ultimo, non permette che neppure quei beni, che in sé non sono di natura economica, esistano come valori definitivi indipendentemente dal legame col denaro» (ivi, 351). Al denaro, scrive Simmel, «non gli basta collocarsi accanto alla saggezza e all’arte, accanto al significato personale e alla forza, o, addirittura, accanto alla bellezza e all’amore come un altro fine ultimo della vita». Diversamente, esso trova la sua forza (nel fare ciò) proprio nel ridurre gli altri valori «a mezzi» per se stesso. Leggiamo Simmel per comprendere questa metamorfosi: «Il carattere astratto del denaro, la distanza a cui si tiene in sé e per sé da ogni singolo godimento, favoriscono la possibilità di trarre da esso una gioia oggettiva, il sorgere della coscienza di un valore che supera ampiamente ogni utilità singola e personale. Ma, soprattutto, se il denaro non è più un fine nel senso di qualsiasi altro strumento, non conta cioè in funzione dei suoi risultati, ma vale, per l’avido, come fine ultimo, non è tuttavia un fine ultimo nel senso
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in cui lo è il godimento» (ivi, 352). E per l’avaro? Anche per lui il denaro «è oggetto di timorosa attenzione, è un tabù». L’avaro, scrive l’autore della Filosofia del denaro, «ama il denaro come si ama un uomo molto venerato, la cui esistenza, semplicemente, insieme al fatto di conoscerlo e al nostro sentimento di partecipazione ad essa, è già per noi fonte di felicità, anche se non fruiamo individualmente e concretamente del nostro rapporto con lui» (ibid.). L’avaro, rinunciando a priori a far uso del denaro come mezzo edonistico di piacere, lo pone «ad una insuperabile distanza dalla propria soggettività», una distanza che egli stesso comunque tenta di continuo di superare «con la consapevolezza del suo possesso»: proprio per il suo carattere di «mezzo» il denaro si presenta dunque come «la forma astratta di piaceri che tuttavia non vengono goduti». Così, il denaro si riveste di quel «fascino sottile» che «accompagna tutti i fini ultimi oggettivi, racchiudendo la positività e la negatività del godimento in un’unità incomparabile, non esprimibile ulteriormente con parole» (ibid.). La reciproca tensione di questi momenti raggiunge il proprio grado estremo nell’avarizia, perché il denaro, essendo «il mezzo assoluto», dispiega illimitate possibilità di godimento e nel contempo, sempre come mezzo assoluto, «nel possesso inutilizzato, non sfiora neppure il godimento» (ibid.). Secondo Simmel, l’avarizia è una forma di «volontà di potenza» (ivi, 357) che illumina il carattere del denaro (e il suo «potere incarnato») come mezzo assoluto. Di fatto, la forma più pura di avarizia è quella in cui «la volontà non va realmente al di là del denaro e non lo considera nemmeno nella fantasia come un mezzo per qualcos’altro, ma sente il potere, che esso rappresenta proprio in quanto non viene speso, come valore definitivo e assolutamente soddisfacente» (ibid.): tutti gli altri beni, per l’avaro, si trovano nella «periferia dell’esistenza» e da ognuno di essi «un raggio diretto» conduce univocamente sempre al denaro, ovvero al suo «centro». Se questo potere, che riposa in questo «centro», si convertisse nel godimento di cose concrete, si dissolverebbe in quanto tale. Simmel cita la parola di un poeta del XV secolo: «chi serve il denaro è servo del suo servo» (ivi, 358). L’avarizia, dunque, contiene la forma più «sublimata, caricaturale» della «soggezione interiore», parimenti, essa viene prodotta «dal più sublimato senso del potere». Dunque, conclude Simmel, l’avaro trova la felicità nel possesso del denaro, senza procedere all’acquisto e al godimento di singoli oggetti, il senso di potere che gliene deriva «deve essere più profondo e valido di quello che gli verrebbe da qualsiasi tipo di dominio su oggetti determinati» (ivi, 469). Zamagni, da parte sua, osserva che l’avaro in quanto tale «non si accontenta di soddisfare il suo desiderio di possesso, vuole realizzarlo, vuole
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cioè renderlo cosa (res), eliminando così la tensione verso il compimento dello stesso» (A, 105). Perché? Possiamo considerare la cosa in relazione al principio di convenienza che «è il principio base» dell’economia inteso come «accordo raggiunto per libera scelta»: «È la convenienza a fare dell’uomo un animale sociale che ha bisogno della collaborazione sistematica di tanti altri uomini. È il principio di convenienza il presupposto indispensabile della divisione del lavoro. In tale collaborazione ciascuno è indotto a portare il suo contributo alla considerazione di un fine che ciascuno vuol raggiungere. Il fine può essere il tornaconto proprio, così come il bene comune; l’importante è che il fine sia dotato di utilità oggettiva» (ivi, 106). Il denaro, considerato come strumento universale di scambio e l’insieme dei mezzi per eccellenza, è dunque «la misura della convenienza» e per questo diviene effettivamente «un valore»: «il valore economico come tale, ciò che serve ad acquistare i beni valutati». In quanto valore di scambio generalizzato, il denaro «è un poter tutto comprare»: è, dunque, «infinita potenza» e in quanto tale esso «è preferito ai valori d’uso nei quali può incorporarsi» (ibid.). Con abile mossa ricostruttiva, Zamagni puntualmente cita la Filosofia del denaro di Simmel: «Nel denaro il mezzo ha ottenuto la sua pura effettività; è quel mezzo concreto che coincide con il concetto astratto di mezzo: è il mezzo per eccellenza. E nel fatto che, in quanto tale, incarna, eleva, sublima la posizione pratica dell’uomo, la sua posizione rispetto ai contenuti della sua volontà, la sua potenza e la sua importanza nei loro confronti, in questo risiede l’enorme importanza del denaro per la comprensione dei motivi fondamentali della vita». Il denaro non è che un simbolo, «una ricchezza di segno» come diceva Antonio Genovesi, che fu allievo di Vico. L’uomo non può vivere né senza simboli né senza passioni, anche senza la più «assurda e mostruosa» di tutte le passioni che è l’avarizia, definita da Bernardo da Chiaravalle «un continuo vivere in miseria per paura della miseria». L’avaro si avvede che il suo orizzonte temporale di vita si restringe progressivamente e con esso anche la sua «capacità di accantonare denaro». Pensando esclusivamente al denaro, l’avaro, pur proteso costantemente al futuro, «è incapace di godersi il presente» (A, 110). La sua “felicità” si traduce soltanto nel trarre piacere «dal ripetitivo e ossessivo accumulo di cose o denaro». Sì, nella vertigine della solitudine, come dice Antonio Fogazzaro in Piccolo mondo antico, «tutto travolge il turbine dell’oro». L’avaro non riesce ad ammettere che la relazione si costituisce nel «riconoscimento dell’altro come persona avente la stessa dignità della propria» (A, 110). Anche l’altro ha bisogno di essere riconosciuto, la capacità di riconoscere il valore dell’esistenza dell’altro è una risorsa che «non può essere usufruita se non viene condivisa» (ivi, 113).
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Oltre a tutto ciò, occorre anche aggiungere che il denaro non è però solo «avere», ma paradossalmente anche «essere». Nell’interazione quotidiana la posizione economica espressa dall’uso del denaro fa parte integrante degli elementi costitutivi della rappresentazione del proprio sé. La società è oggettivamente e intersoggettivamente fondata sul codice “denaro”. Con la globalizzazione, questo codice è penetrato ovunque e ha attraversato le realtà culturalmente più distanti e da una parte le ha anche sfaldate antropologicamente, tuttavia le ha pur sempre messe strumentalmente in comunicazione e in contatto. Il medium del denaro – come ha sottolineato Habermas – ha fatto sì che l’agire sociale si sia staccato da un’integrazione fondata sul consenso dei valori e si sia trasformato in un sistema di azioni basate sulla razionalità di tipo strumentale, a sua volta controllata dal medium stesso del denaro. Come viene osservato: «Nella realtà della globalizzazione economica e finanziaria non conta tanto il fatto che esistano differenze strutturali e culturali stridenti – che non solo permangono ma spesso risultano ampliate – quanto che siano costituiti gli spazi di relazioni razionali, di mercato, e che sia creata l’area privilegiata di comunicazione e di scambio, basata sul codice denaro»193. Oggi, il tempo della vita, delle relazioni interindividuali non mediate dal denaro si riduce progressivamente: il vendibile e il monetizzabile colonizzano ogni sfera di vita individuale e sociale. Politica e cultura non sono affatto estranee a questo processo, anzi ne sono anch’esse pervase globalmente. Ciò detto, come ho già sostenuto altrove194, non posso non ricordare qui che è stato sempre Simmel che – nel capitolo VIII della Sociologia del 1908 (intitolato «L’auto-conservazione del gruppo sociale»), all’interno dell’Excursus sulla fedeltà e sulla gratitudine (S, 498-509) –, ponendo “kantianamente” l’accento sulle diverse forme e dinamiche della socialità e della socievolezza, ha avviato una riflessione, carica di sviluppi problematici ulteriori per il dibattito etno-antropologico, sociologico e filosofico-politico contemporaneo, sulla gratitudine e il dono quali forme d’azione reciproca che, come dice Keller, «induisant la longue durée»195. Per Simmel, «l’acte de donner et la gratitude fondent et pérennisent la société, c’est-à-dire l’effet réciproque durable»196.
193
M.L. Maniscalco, Sociologia del denaro, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 50. Cfr. A. De Simone, L’ineffabile chiasmo, cit., pp. 112-115. 195 Th. Keller, La pensée du don de Simmel et Mauss: médiations franco-allemandes, in L. Deroche-Gurcel, P. Watier (a cura di), La « Sociologie » de Georg Simmel (1908). Éléments actuels de modélisation sociale, Puf, Paris 2002, p. 244. 196 Ivi, p. 245. 194
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Il significato sociologico della gratitudine «è difficile da sopravvalutare» (S, 504), dal momento che la vita e la coesione della società sarebbero modificate «in maniera imprevedibile» senza di essa. La gratitudine sorge dalla e nella relazione reciproca tra gli uomini: essa «è il residuo soggettivo dell’atto del ricevere, o anche del dare»; con la gratitudine questo atto immediato della relazione interindividuale «scende dentro l’anima nelle sue conseguenze, nel suo significato soggettivo, nella sua eco psichica» (ibid.). La gratitudine, per così dire, è la «memoria sociale dell’umanità», essa costituisce «una persistenza del genere nel senso più deciso, una continuazione ideale della vita di una relazione, anche dopo che essa è da lungo tempo interrotta e dopo che l’atto del dare e del ricevere è da lungo tempo concluso» (ivi, 505). Pur essendo un affetto puramente “personale”, ed in virtù dei suoi «mille intrecci» all’interno della società, la gratitudine è uno degli strumenti sociali più connettivi in quanto essa è «il fecondo terreno affettivo dal quale non soltanto nascono particolari azioni dall’uno all’altro, ma mediante la cui esistenza fondamentale, sia pure spesso inconsapevole e intessuta di innumerevoli altre motivazioni, alle azioni stesse si aggiunge una modificazione o intensità singolare, un legame con ciò che precede, un contributo alla personalità, una continuità della vita reciproca» (ibid.). Dunque, dice Simmel, se ogni reazione di gratitudine per azioni precedenti venisse cancellata di colpo, la società in quanto tale «si sfalderebbe» (ibid.). Per Simmel, la gratitudine, in quanto opera «un’integrazione dell’ordinamento giuridico» (ivi, 504), «si conforma allo schema donazione-equivalente, ma si sottrae al corollario dello scambio mediato dal diritto: che cioè l’equivalente sia un che di imposto»197. Di fatto, quando l’equivalente della donazione si sottrae ad un’imposizione, allora «compare la gratitudine con il suo potere integrativo e non codificabile»198. Tuttavia, secondo Simmel, la gratitudine è «un character indelebilis morale» (S, 508) in quanto «è forse l’unico stato del sentimento che può essere eticamente richiesto e prestato in tutte le circostanze» (ibid.); tutto ciò la rende particolarmente «anomala» rispetto agli stati sentimentali in generale poiché un sentimento è per definizione gratuito, libero, supererogatorio. Riproponendo una “rete invisibile” di obbligazioni morali e di fili quasi microscopici, ma infinitamente tenaci, la gratitudine «impegna»: essa non soltanto comporta pur sempre «un debito di gratitudine», ma altresì si «transvaluta in riconoscenza e in riconoscimento»199, 197 B. Accarino, La democrazia insicura. Etica e politica in Georg Simmel, Guida, Napoli 1982, p. 184. 198 Ibid. 199 Ivi, p. 184.
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quest’ultimo inteso come riconoscimento dell’altro nella «totalità della sua personalità» (S, 505), oltre il mero scambio e la compravendita quali specifici eterogenei della moderna economia monetaria, dal momento che l’uomo, nella totalità e plasticità della sua anima, non è unicamente «il mercante di se stesso» (ivi, 506). Parallelamente, Simmel identifica nel dono, nella sua non-equivalenza e asimmetria, l’atto fondatore della reciprocità e, di conseguenza, della società: Il dare è in genere una delle funzioni sociologiche più forti. Se nella società non si desse e si prendesse continuamente – anche al di fuori dello scambio – non verrebbe in essere alcuna società. Infatti il dare non è affatto soltanto una semplice azione di un soggetto sull’altro, ma è appunto ciò che si richiede dalla funzione sociologica: è azione reciproca. Quando l’altro accetta o rifiuta, esercita una reazione ben determinata sul primo soggetto. Il modo in cui egli accetta, con o senza gratitudine, mostrando di essersi aspettato la cosa oppure di esserne stupito, di essere soddisfatto o insoddisfatto del dono, di sentirsi elevato o umiliato dal dono – tutto ciò suscita in chi dà una reazione molto decisa, anche se naturalmente non esprimibile in concetti e misure determinati, è così ogni dare è un’azione reciproca tra chi dà e chi riceve (ivi, 505).
Simmel muove da una “antropologia positiva”, secondo cui il bisogno di donare è consustanziale all’atto fondatore della società in ogni sua epoca200: su di esso si basa la reciprocità, la quale implica sempre e comunque la temporalizzazione e la differenziazione qualitativa, non-equivalente, dell’atto del donare e del ricevere: «Non esiste probabilmente nessuna azione reciproca nella quale l’andare e il venire, il dare e il prendere, siano di qualità esattamente eguale» (S, 506). La non-equivalenza del dono si caratterizza in due modi. In primo luogo, Simmel riserva l’atto libero del dono alla «piena spontaneità dell’anima» (ivi, 507) che manca al dovere, anche al dovere della gratitudine. Nell’atto del dono occorre non confondere l’aspetto negativo della libertà con quello positivo (come, secondo Simmel, avrebbe 200 Com’è noto, analogie e differenze con il posteriore e celebre Saggio sul dono (1923-24) di Marcel Mauss (cfr. M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, intr. di C. Lévi Strauss, tr. it. di F. Zanino, Einaudi, Torino 1965) sono state già opportunamente richiamate dagli interpreti contemporanei (cfr. Th. Keller, La pensée du don de Simmel et Mauss, cit., pp. 241266, ivi bibliografia). In generale, sulla concezione del dono, cfr. A. Caillé, Don, intérêt et désintéressement, La Découverte, Paris 1994 (2005) e Id., Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, tr. it. di A. Cinato, Bollati Boringhieri, Torino 1998. Sull’esplorazione dei rapporti tra Simmel e Mauss, cfr. inoltre C. Papilloud, Le don de relation. Georg Simmel-Marcel Mauss, L’Harmattan, Paris 2002.
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fatto Kant affermando energicamente che l’adempimento del dovere e la libertà sarebbero identici). Scrive Simmel: «Noi siamo in apparenza liberi di adempiere o di non adempiere il dovere che sentiamo idealmente sopra di noi. L’adempimento deriva invece da un imperativo psichico, da quella coercizione che è l’equivalente interiore della coercizione giuridica della società. La libertà piena sta soltanto dalla parte del tralasciare, non da quella dell’agire, al quale sono indotto per il fatto che esso è un dovere – come sono indotto a contraccambiare un dono appunto per il fatto di averlo ricevuto» (ibid.). Sia pure con una certa enfasi, Simmel sottolinea la dimensione “gerarchica” intrinseca all’atto del donare che, libero, spontaneo, non calcolistico, è superiore all’atto del ricevere. «Soltanto quando lo facciamo per primi noi siamo liberi, è questo è il motivo per cui nella prima prestazione, non occasionata da alcun ringraziamento, c’è una bellezza, una dedizione spontanea, uno sgorgare e un fiorire in direzione dell’altro che germoglia per così dire dal virgin soil dell’anima, che non può essere compensato con nessun dono, per quanto superiore ne sia il contenuto» (ivi, 507-508). Attraverso l’atto del dono, simmelianamente, come commenta Keller, «la réciprocité n’empêche pas une profonde asymétrie entre le premier dans la chaîne des dons et tous ceux qui le suivent: seul le premier donateur exécute un acte libre, la personne qui reçoit est liée par la contrainte de rendre»201. Nella complessa e peculiare «sociologia dell’interiorità» che nell’azione reciproca segna le punte estreme date dalla diversità del dono e del controdono, secondo Simmel, «noi non possiamo in nessun modo contraccambiare un dono; in esso vive infatti una libertà che il contro-dono, appunto perché è tale, non può possedere» (S, 508). In questo caso, si può dire che nel suo aspetto più profondo la gratitudine «non consiste qui nel fatto che il dono venga contraccambiato, bensì nella consapevolezza che non si può contraccambiarlo, che qui si presenta qualcosa che pone l’anima di chi riceve in uno stato durevole di fronte all’altro, recando alla coscienza una nozione d’infinità interiore di un rapporto che non può essere completamente esaurito o realizzato con alcuna dimostrazione o attività» (ivi, 507). Ancora una volta, la gratitudine più profonda esprime specularmente come anche la reciprocità del dono – (soprattutto quello moderno, individualizzante) – sia simbolica. Queste ultime riflessioni offerteci da Simmel sul significato del dono si prestano ad ulteriori sviluppi problematici. Per concludere, ne farò cenno qui di seguito.
201
Th. Keller, La pensée du don de Simmel et Mauss, cit., p. 247.
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5.13. Critica della ragione utilitaria e teoria anti-utilitarista dell’azione.
Come è possibile un’antropologia dell’umano oltre l’assiomatica dell’interesse? Il dono apre i possibili sociali e storici. Alain Caillé
Le riflessioni e precisazioni sin qui svolte spingono oltre Simmel ad un ulteriore e conclusivo ragionamento sul rapporto tra dono e riconoscimento e che pongono in primo piano, all’interno di una teoria non utilitarista dell’azione sociale, la critica dell’assiomatica dell’interesse, quindi la critica della ragione utilitaria, e di conseguenza, la questione dello statuto della ricerca del riconoscimento, partendo dalle acquisizioni critiche sviluppate dalla Scuola francese del MAUSS (Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales), che annovera filosofi, sociologi, antropologi che esplicitamente congiunti da un progetto a un tempo etico e politico, scientifico e filosofico, si richiamano all’opera di Marcel Mauss (1872-1950) – considerato l’erede teorico di Durkheim, del funzionalismo della Scuola sociologica francese, precursore dello strutturalismo di Claude Lévi Strauss e dell’olismo di Louis Dumont202 – e al pensiero di Karl Polanyi (1886-1964), autore del celebre testo La grande trasformazione203. Entrambi, l’antropologo Mauss e l’economista Polany, come scrive Francesco Fistetti nell’Introduzione al libro di Alain Caillé, Critica dell’uomo economico (ambedue qui sinteticamente chiosati), condividono l’idea che «l’essere umano non è stato sempre un animale economico, una macchina fatta per calcolare i costi e i benefici, i piaceri e le pene di ogni sua azione». Dunque, dalla loro “lezione” si evince che «l’economia “sostantiva” non è strutturata, come ripete il dogma del liberalismo economico, dal mercato sulla base della variabilità dei prezzi, ma dalla reciprocità al fine di soddisfare i bisogni materiali», obbedisce cioè, «alla logica del dono e del controdono e alla logica della redistribuzione»204. Sulla base di queste premesse epistemologiche e nel contempo politiche e sulla base del rinnovamento teorico della tematica hegeliana della “lotta
202
Cfr. A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, cit., p. 11. K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, tr. it. di R. Vigevano, intr. di A. Salsano, Einaudi, Torino 1974. 204 Cfr. F. Fistetti, Introduzione. Il paradigma ibrido del dono tra scienze sociali e filosofia. Alain Caillé e la “Revue du Mauss”, cit., p. 8 (d’ora in poi I), in A. Caillé, Critica dell’uomo economico. Per una teoria anti-utilitarista dell’azione, cit. (d’ora in poi CUE). Di Caillé si tenga altresì presente: Critica della ragione utilitaria, tr. it. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1991 (ristampa 2005). Di Fistetti, cfr. inoltre La svolta culturale dell’Occidente. Dall’etica del riconoscimento al paradigma del dono, Morlacchi, Perugia 2010. 203
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L’INQUIETO
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per il riconoscimento” riattivata da Axel Honneth in Lotta per il riconoscimento (v. supra), che consente di postulare che «gli attori sociali non mirano tanto a soddisfare i loro propri interessi, in modo utilitaristico, quanto ad essere riconosciuti» (CUE, 48), Caillé si è posto alcuni interrogativi strategicamente centrali. Il paradigma del riconoscimento ci fa veramente uscire dall’assiomatica dell’interesse, dal momento che ciò non è per nulla evidente? Infatti, «niente impedisce a priori di supporre che esistono degli interessi di riconoscimento alla stessa stregua degli interessi di possesso o di benessere» (ibid.). Inoltre, quale antropologia, quale teoria anti-utilitarista dell’azione è possibile opporre alla teoria delle scelte razionali? Vi sono buone ragioni per abbandonare il discorso dell’interesse, cioè per uscire dall’utilitarismo e dall’assiomatica dell’interesse? E per far ciò, «è sufficiente postulare che i soggetti umani – proprio in quanto sono umani e intendono diventare soggetti –, più che dal bisogno o da un desiderio intrinseco di accumulazione di beni materiali, sono animati da una ricerca incessante di riconoscimento?» (ivi, 50). E, approfondendo, ci si potrebbe chiedere: «in nome di che cosa bisognerebbe rompere con il discorso dell’interesse?» (ibid.). Com’è noto, per la maggior parte dei ricercatori di scienze sociali o di filosofia morale e politica, abbandonare la spiegazione dell’azione umana fondata sull’interesse «equivarrebbe niente meno che a rinunciare al principio stesso di ragione» (ibid.). Pur interrogando la tradizione del pensiero occidentale del XVII e del XVIII secolo, non possiamo non sollevare ancora il seguente quesito: «dire che gli uomini ricercano il riconoscimento, lungi dal farci uscire dal discorso e dall’assiomatica dell’interesse, non dovrebbe piuttosto condurci a dire che ciò che li muove sono gli interessi dell’apparire, del prestigio, gli interessi narcisistici – interessi più egotistici che egoistici?» (ivi, 51). Per Caillé un punto è fermo: «se la spiegazione dell’azione umana sulla base del desiderio di riconoscimento e dell’attaccamento all’apparenza esteriore sembra più plausibile di quella connessa ai soli interessi del possesso e della conservazione», resta però il fatto che «essa perde molto della sua incisività e profondità finché la si confina nel registro esclusivo del discorso sull’interesse». Dunque, occorre allora chiedersi: «con che cosa è possibile sostituire la spiegazione dell’azione sociale soltanto sulla base dell’interesse?» (ivi, 52). In tutta evidenza, qui, si pone il problema di rileggere criticamente l’ideologia dell’homo oeconomicus, che nella tradizione delle scienze sociali e della filosofia morale rinvia ad una concezione antropologica e filosofica sottostante che si riassume nel paradigma utilitaristico e di cui Caillé tende a dare un’interpretazione, come scrive Fistetti, «che va ben al di là del racconto canonico che fa di Jeremy Bentham dei Principles of Morals and
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Legislation (1789) o di John Stuart Mill di Utilitarianism (1861) i padri fondatori, e dei moralisti scozzesi, di D. Hume, di A. Smith, di Helvétius e Beccaria, gli antesignani» (I, 10). Caillé distingue una accezione larga e una ristretta della dottrina dell’utilitarismo. Inteso in senso lato, «l’utilitarismo designa tutte quelle teorie che identificano la più grande felicità possibile con l’interesse individuale (individual self-interest), ottenuta attraverso il contratto e il libero mercato» (ibid.). In senso ristretto, invece, l’utilitarismo fa riferimento a quelle specifiche posizioni (Platone, Bentham) che «affidano il conseguimento della felicità individuale all’azione razionale dei governanti, i quali manipolano i desideri dei governati attraverso ricompense e punizioni» (ibid.), e così facendo, realizzano ciò che É. Halévy ha indicato (in La Formation du radicalisme philosophique, 1901-1903) come «l’armonizzazione artificiale degli interessi». Molto opportunamente Fistetti ricostruisce in modo dettagliato le coordinate storiche e teoriche che, nell’ambito della storia della cultura occidentale, e in particolar modo della storia delle idee e della storia della filosofia, fanno da frame alla lettura che Caillé compie dell’antagonismo tra utilitarismo ed antiutilitarismo205. In generale, secondo il sociologo francese, nel principio benthamiano di utilità206, è possibile distinguere «una dimensione descrittiva ed una normativa» dell’utilità. La prima «ha a che fare con la constatazione che ogni individuo agisce esclusivamente in vista del suo interesse personale, elevato a rango di un principio morale o di un principio supremo di condotta» (I, 12), e che per il singolo implica «l’obbligo di conseguire per sé la maggiore felicità possibile senza curarsi delle conseguenze che ciò ha per tutti gli altri» (ibid.). La seconda, invece, «prescrive che il legislatore debba porre in atto il principio della più grande felicità per il maggior numero» (ivi, 13). Per saldare le due dimensioni del «ciò che è» e quella relativa al «dover essere» interviene la sopra citata «armonizzazione artificiale degli interessi» (Halévy) spettante al legislatore che ha il compito di «accrescere la felicità del maggior numero» (ibid.).
205 Al riguardo, cfr. A. Caillé, Ch. Lazzeri, M. Senellart, Histoire raisonnée de la philosophie morale et politique. Le bonheur et l’utile, La Découverte, Paris 2001. 206 Cfr. J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, tr. it. e note di S. Di Pietro, a cura di E. Lecaldano, Utet, Torino 1998. Su Bentham, cfr. F. Zanuso, Utopia e utilità. Saggio sul pensiero filosofico-giuridico di Jeremy Bentham, Cedam, Padova 1989; A. Loche, Jeremy Bentham e la ricerca del buon governo, FrancoAngeli, Milano 1991; M. Ripoli, Itinerari della felicità. La filosofia giuspolitica di Jeremy Bentham, James Mill, John Stuart Mill, Giappichelli, Torino 2001; G. Samek Lodovici, L’utilità del bene. Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequenzialismo, Vita e Pensiero, Milano 2004.
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Se assumiamo la comunità come un «corpo fittizio», come un aggregato di «singole persone» («considerate come sue membra»), allora l’interesse della comunità fa tutt’uno con la «somma degli interessi dei vari membri che la compongono» (Bentham). Il problema-di-Bentham è quindi quello di garantire la «congruenza» tra l’ interesse e i piaceri dell’individuo e l’interesse e i piaceri della comunità. Qualora questa «congruenza» (affidata all’opera del legislatore) dovesse fallire, allora sorge con veemenza quella che Caillé chiama l’antinomia della ragione utilitaria, che (in Bentham) traduce specularmente «l’oscillazione tra individualismo metodologico ed olismo, tra principio del self-regarding (o principio dell’egoismo) e principio comunitario, tra interessi individuali e interesse collettivo» (I, 13-14). Nel nucleo di tale antinomia emerge che «per alcuni l’evidenza è l’interesse, il calcolo e la causalità, mentre per altri è la spontaneità, l’emergenza dell’immotivato e dell’incondizionato» (ivi, 16). Inoltre, altri «ragionano in chiave di piacere e di bene supremo», mentre altri «scorgono all’origine di ogni esperienza umana solo il dovere, l’obbligo e il debito» (ibid.). La stessa dialettica tra queste opposte «evidenze» pervade dunque il «principio di utilità», che implica sia il self-regarding interest sia l’interest of community. È difficile uscire dalla «dogmatica dell’interesse», anche se è profondamente sbagliato ridurre tutto ad essa per conservare e raggiungere la felicità. Ma, allora, quale dialettica reciproca è possibile tra principio di utilità e felicità altrui, tra interesse dell’individuo egoista (self-regarding interest) e felicità della maggioranza (interest of community)? C’è sempre una «dogmatica dell’egoismo» quale postulato del soggetto egoista razionale ma anche dell’immaginario della modernità? Ovvero, del modello antropologico dell’homo oeconomicus che sembra totalmente trionfare nell’epoca della globalizzazione, dove tutto nelle sfere dell’azione sociale diviene tendenzialmente «merce» e soggiace alla sola legge del mercato. Perché il «soggetto egoista razionale» diviene «il parametro ultimo dell’utilitarismo “generalizzato”», anzi, come lo definisce Caillé, «eufemizzato»? (ivi, 21). Detto altrimenti, perché il soggetto egoista razionale viene ritenuto «l’unico in grado di valutare e di definire, in modo del tutto soggettivo, ciò che è buono e, quindi, utile per lui»? (ibid.). È sempre da considerarsi «giusto» solo ciò che è «soggettivamente» desiderabile e disponibile sul mercato tramite il denaro? Denaro e società del consumo vincono perché il denaro (che decide dell’utilità delle cose come della capacità di comprarle) viene assunto come «il criterio esclusivo per misurare la ricchezza e, quindi, la felicità degli individui e delle nazioni» (ivi, 23). Nella «società postmoderna dei consumi», il soggetto, «fantasmatico, derealizzato, privo di mondo comune» rischia di finire nel non conoscere «nessun obbligo verso gli altri e nessuna reciprocità»: diventa, cioè, un’«individuo
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senza passioni»207, che vede sempre più dissolversi ogni «legame emotivo» tra sé e gli altri individui. In contrapposizione al paradigma esplicitato dal «principio di utilità», osserva Fistetti (cfr. I, 24), si pone la concezione espressa dai ricercatori del MAUSS, che, per usare le parole di Caillé, definiscono come utilitarista, «ogni concezione puramente strumentale dell’esistenza, che organizza la vita in funzione di un calcolo o di una logica sistematica dei mezzi e dei fini, per la quale l’azione è sempre compiuta in vista di qualcosa d’altro rispetto a se stessa e ricondotta in fine soltanto al soggetto individuale che viene presupposto come chiuso su stesso ed unico padrone destinatario e beneficiario dei suoi atti, oppure ogni dottrina per la quale gli interessi per, le passioni, le emozioni sono o dovrebbero essere degli interessi a: delle passioni utili»208. Il problema che si pone, attraverso Marcel Mauss e con Caillé è il seguente: come si può elaborare una concezione anti-utilitarista dell’esistenza sviluppando il paradigma del dono (empirico e non speculativo)? Come si chiede Fistetti: cosa ci può suggerire questo paradigma «ibrido», che, «pur attraversando diagonalmente la grande tradizione sociologica ed antropologica europea ed americana (Marx, Durkheim, Simmel, Weber, Parsons, l’interazionismo simbolico, l’etnometodologia, la teoria dei sistemi, ecc.) tiene aperta la domanda filosofica originaria sui grandi problemi: che cos’è la società giusta? Come dobbiamo vivere? Quali sono i nostri obblighi sociali? Che cos’è la democrazia? Che cos’è la felicità? Come definire la ricchezza?» (I, 25). Certamente, assumere il paradigma del dono come focus di una concezione anti-utilitarista dell’esistenza «non significa affatto negare la legittimità degli interessi propri» (ibid.)209. Siamo qui ad 207 Cfr. E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 208 A. Caillé, Dé-penser l’économique. Contre le fatalisme, La Découverte-MAUSS, Paris 2005, p. 28. Caillé ne La critica dell’uomo economico distingue quattro tipi d’interesse: «l’interesse a n° 1, cioè l’interesse strumentale, strategico, egoistico, attivo; chiamiamolo l’interesse per sé; l’interesse a n° 2, cioè l’interesse passivo a obbedire; chiamiamolo l’interesse-obbedienza; l’interesse per n° 1, l’interesse per altri; l’interesse per n° 2, l’interesse per un’attività gratificante; chiamiamolo l’interesse-passione» (CUE, 57). 209 Per i teorici anti-utilitaristici di ispirazione maussiana, come osserva Elena Pulcini (in La cura del mondo), «inteso […] nella sua capacità concreta e simbolica di instaurare un circuito di reciprocità (dare-ricevere-ricambiare), fondato sulla fiducia e sul desiderio di appartenenza, sulla solidarietà e sul riconoscimento», il dono appare come «la manifestazione di una ricerca del legame sociale in quanto fine a se stesso, nel quale riassumano forza e valore le relazioni affettive e informali, e, le attività gratuite “non mercificate”». Il dono, tuttavia, «non è da intendersi come atto puramente altruistico e fusionale riservato a nicchie ininfluenti
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uno snodo cruciale, perché, come scrive Fistetti, «incontriamo quello che potremmo chiamare il postulato dell’ambivalenza o dell’interdipendenza strutturale delle passioni, delle emozioni e dei sentimenti umani, che mette in discussione l’irriducibilità originaria della figura utilitarista dell’homo oeconomicus» (I, 25), il quale, senza mezzi termini, viene rappresentato da un economista politico come Zamagni, «l’identikit perfetto dell’idiota sociale» (A, 114), ovvero «soggetto la cui sfera di razionalità economica viene ridotta alla sfera della scelta razionale come se l’unica teoria valida dell’azione umana fosse la teoria dell’azione intenzionale» (ibid.). Ora, è appena il caso di ricordarlo, come gli economisti sanno, almeno «dai tempi di Adam Smith», che «buona parte delle azioni umane traggono origine non solo da intenzioni ma anche da disposizioni e da sentimenti morali» (ivi, 115). Dopo aver sinteticamente attraversato questo lungo, complesso e affastellato percorso ermeneutico e critico, giungiamo a porci la questione seguente: si può infliggere «un colpo mortale» alla tradizione dell’assiomatica dell’interesse che ha predominato nel pensiero occidentale moderno attraverso l’elaborazione di una teoria tetradimensionale e anti-utilitarista dell’azione fondata sul principio dell’aimance, un neologismo forgiato da Caillé (cfr. CUE, 58) che, nelle sue intenzioni, traduce «la modalità simpatetica dell’empatia» (ibid.)? L’aimance indica «l’apertura e la sollecitudine verso l’altro che è un polo dell’azione altrettanto primario e irriducibile al pari dell’“interesse per sé”, dell’“obbligo” e della “libertà”» (I, 28-29). Nell’aimance, secondo Caillé, si possono annoverare tra l’altro, l’amicizia, la philia, l’eros, l’amore, la caritas, il ren cinese, la sollecitudine, la pietà, la solidarietà, la generosità, l’altruismo, l’agapé, l’armonia, il dono, la fiducia, l’associazione, l’alleanza, gli amici (cfr. CUE, 61), ovvero tutti quei comportamenti ispirati a «reciprocità», «dono» e a forme di «riconoscimento» (cfr. I, 29): homo reciprocans e homo donator. Di fatto, come osserva Zamagni, la forza del dono gratuito non risiede «nella cosa donata o nel quantum donato», ma nel fatto che il dono costituisce «un incontro, una relazione tra persone»; il dono «crea» reciprocità, per sua natura il dono provoca sempre «l’attivazione del rapporto intersoggettivo», che per eccellenza è quello della reciprocità: «è solo con la reciprocità che si attua il riconoscimento reciproco, che è precisamente ciò che alimenta il rispetto di sé» (A, 126). Alla base della socialità umana, nella reciprocità che nasce dal dono ai fini dell’equilibrio sociale complessivo, ma come operatore simbolico capace di investire sfere sempre più ampie del sociale, rivitalizzandone quella dimensione dell’essere-in-comune fondata sulla logica della reciprocità e della solidarietà» (CM, 74-75).
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e dal suo valore di legame, «l’apertura all’altro» determina una modificazione dell’io: al contrario della concezione individualistica, l’io si costruisce soltanto attraverso processi di relazione con l’altro. Il dono autentico attesta «l’uscita dell’io verso un tu» (ivi, 127). Donare gratuitamente ad un altro, specularmente, è cosa differente da ciò che accade nello scambio di equivalenti, processo che nasce dal contratto, «il cui principio fondativo è piuttosto la perfetta simmetria tra ciò che si dà e ciò che si può pretendere di ottenere in cambio» (ibid.), non a caso, è in virtù di tale proprietà che «la forza della legge» può sempre intervenire «per dare esecutorietà alle obbligazioni nate per via contrattuale» (ibid.). Perché quest’ultima precisazione, si chiede Zamagni, è importante? Perché come la stessa scuola francese del Mauss ha chiarito, «c’è una concezione del dono tipica della premodernità, che però continua ancora oggi a sussistere, secondo cui il dono andrebbe ricondotto sempre a una soggiacente struttura di scambio» (ibid.): questa, per l’appunto, è la concezione del dono «come munus, come strumento per impegnare l’altro, fino ad asservirlo». Ne consegue che il dono, se concepito così, diventa paradossalmente «un obbligo per preservare il legame sociale», il che significa che la vita in società di per sé necessariamente postula la pratica del dono, che diventa per ciò stesso «una norma sociale di comportamento, vincolante al pari di tutte le norme di tale tipo» (ibid.). Il fatto è che, come osserva Zamagni, il dono non è incompatibile con l’interesse del donante, «se questo viene inteso come interesse a stare nella relazione con l’altro». Detto altrimenti, il dono gratuito «non è un atto finito in se stesso, bensì rappresenta l’inizio di una relazione», ovvero una catena di «atti reciproci». In un certo senso si può dire che «il dono gratuito viene fatto a ragion veduta, in vista dello stabilirsi di un legame»: si tratta cioè «dell’interesse per l’altro (e non già all’altro) che nasce dal desiderio del legame», venendo a mancare questo il «declino» di una società comincia allorquando gli uomini «non trovano più dentro di sé la motivazione per legare il proprio destino a quello degli altri, quando cioè viene a scomparire l’“interesse”» (ivi, 128). Di fatto, la cultura della modernità, profondamente intrisa di «economicismo utilitarista» ci costringe sempre a leggere le relazioni intersoggettive, sia pure indirettamente, come espressioni di un «rapporto di scambio di equivalenti» (ivi, 129). Se l’uomo, come scrive Fistetti, è «ab origine homo donator», allora occorre ammettere, con Caillé, che non soltanto «dono e interesse si compenetrano a vicenda nella pratica degli uomini oridinari» (I, 30), ma anche interesse a ed interesse per «si intersecano e si sovrappongono» (ibid.); pertanto, «un dono puro, privo di ogni compo-
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nente di interesse (nella duplice accezione del termine) è un’illusione idealistica» (ibid.) 210. Eppure, a fronte dell’aumento scandaloso dell’ingiustizia sociale, delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, del degrado ambientale, della pratica dell’impresa come merce che può essere in ogni momento comprata e venduta, della proliferazione di rendite finanziarie stratosferiche che contribuiscono al «deprezzamento del futuro» (cfr. A, 120), il «disagio della civiltà» che caratterizza il nostro tempo mostra come non si possa vivere senza pratiche reciproche di dono e di riconoscimento, cioè senza «beni di giustizia» e «beni di gratuità»: i primi «fissano un preciso dovere in capo a un soggetto (tipicamente l’ente pubblico) affinché i diritti dei cittadini su quei beni vengano soddisfatti» (ivi, 130); i secondi, in quanto beni relazionali, «fissano un’obbligazione che discende dal legame che ci unisce l’un l’altro» (ibid.). Infatti, come afferma Zamagni, «è il riconoscimento di una mutua ligatio tra persone a fondare l’ob-ligatio» (ibid.), cioè del vivere-individual210
Sia Zamagni che Fistetti concordano nel ritenere che in questa illusione sia incorso addirittura Jacques Derrida, il quale, nell’elaborare una fenomenologia del dono come esperienza impossibile, impresentabile, ha scritto: «Affinché ci sia dono, è necessario che il dono nemmeno appaia, che non sia percepito come dono» (J. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, tr. it. di G. Berto, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 18). Nella sua decostruzione della rappresentazione metafisica dominante del dono, l’intenzione di Derrida è quella di muoversi contemporaneamente in due direzioni: procedere da una parte «alla focalizzazione del double bind del dono», dall’altra decostruire «una tradizione filosofica di grande spessore relativa alla nozione di dono» (M. Vergani, Jacques Derrida, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 133). Per Derrida, «il double bind del dono è che il dono non può esistere senza l’intenzione di donare; ma tale intenzione non deve essere riconosciuta. Il dono non deve essere neppure percepito come dono; in caso contrario la sua gratuità verrebbe meno e si aprirebbe un circolo del contro-dono e del debito» (ibid.). L’obiezione critica di Zamagni a Derrida dice che «un tale dono non può esistere, è impossibile, perché l’uomo è un essere ontologicamente autointeressato, cioè avido» (A, 129): «se il dono ha un’intenzione, se significa qualcosa per il donatore, non è più dono» (ibid.). Le ragioni del dissenso sono esplicite: «Per Derrida, l’unico dono possibile non dovrebbe avere alcuna motivazione, dovrebbe essere del tutto disinteressato. Il che non è affatto vero. La cultura dominante pone il dono come una sorta di assoluto che, proprio perché tale, essa stessa è poi costretta a dichiarare impossibile da realizzare. È la questione – centrale nel dibattito filosofico contemporaneo – della “sospettabilità” del dono quale gesto che pretenderebbe di essere gratuito e che tuttavia appare costantemente attraversato da elementi di interesse che ne inquinano la purezza. L’unico atto possibile sarebbe allora quello della filantropia, che è perfettamente compatibile con l’assunto antropologico individualistico» (ibid.). Per Fistetti, ciò che Derrida non coglie è «la dialettica tra incondizionalità e condizionalità» (I, 30) che è consustanziale al dono: l’«incondizionalità condizionale» (Caillé) del dono «non è quella dell’amore, può durare solo se ognuno degli interlocutori vi trova un vantaggio» (I, 31). Sulla questione del dono in Derrida, cfr. inoltre A. Caillé, Il terzo paradigma, cit., pp. 93-102 e C. Di Martino, Figure dell’evento. A partire da Jacques Derrida, Guerini e Associati, Milano 2009, pp. 36-42.
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mente-insieme. Di fronte alla dismisura dell’umano che disvela comunque un’antropologia della vulnerabilità umana, proprio perciò, senza dono e riconoscimento reciproco e solidale, benché inquieto211, non si può vivere questo tempo che riteniamo “nostro”. Tutto ciò indica un altro «inizio» per dare avvio ad un’ermeneutica critica che sappia diagnosticare responsabilmente gli orizzonti possibili della coesistenza contemporanea, sempre difficile e conflittuale, fragile e vulnerabile, che segna nella relazione contaminante con il radicalmente altro, l’ineffabile, e perciò, inquieto, vincolo212 dell’umano: tale questione, come dice Caillé, non è soltanto in primo luogo morale, filosofica o religiosa, ma è par excellence «politica»213.
211
Secondo Elena Pulcini – in La cura del mondo – inquieto è quel riconoscimento che «presuppone per entrambi i soggetti coinvolti non solo la capacità di investire la propria identità di uno sguardo critico-decostruttivo di fronte alla presenza ineludibile dell’altro, ma di esporla alla reale possibilità dell’alterazione, del cambiamento, della fluidità, insita nel confrontoscontro con la differenza dell’altro» (CM, 219). 212 Sul concetto di “vincolo” come “ordinatore dei possibili”, cfr. R. Genovese, Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere, Cronopio, Napoli 2009. 213 A. Caillé, Il terzo paradigma, cit., p. 112.
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Indice dei nomi*
Abruzzese, A., 109n. Accarino, B., XIVn., 186n., 261n., 286n. Adorno, T. W., 57, 216n., 245n. Agostino, santo, 113 Albrow, M., 223, 262 e n. Alfieri, L., 262n. Aliberti, M., 119n. Allodi, L., 263n. Amato, B., 208n. Andolfi, F., 62n., 123 e n., 131n., 134n., 135 e n., 141n., 142n., 143 e nn., 144, 147n., 149n., 151n., 161 e n., 162, 163, 185n. Antinolfi, G., 2n., 11n., 16n., 19nn., 100n., 101n., 127 e n., 140n., 151n. Apel, K.-O., 248 Appadurai, A., 172n., 209 e n., 225n. Archer, M., 31 e n., 32 Arienzo, A., XIVn. Aristotele, 125 Baccianini, M., 167n. Banfi, A., XIn. Barberis, G., 203n. Barthes, R., 206 e n. Bartholini, I., 110n. Battistelli, F., 201n. Baudelaire, C., 49, 271 e n. Bauer, I., 48n., 53n. Bauman, Z., 63n., 111n., 115n., 154n.,
202n., 203, 204, 221 e n., 223 e n., 226, 227n., 236n., 262, 265, 266 Bazzicalupo, L., 252n., 253n. Beccaria, C., 291 Bechelloni, G., 119n. Beck, u., 200, 212 e n., 223, 227 e n., 261, 263 e nn. Bellino, F., 161n. Benjamin, W., XII, XIII, 49, 50n., 60, 114, 115 Bentham, J., 290, 291 e n., 292 Berger, P. L., 263n. Bergson, H., 13n., 56n., 132, 138, 230 e n. Berlin, I., 249 Bernardo da Chiaravalle, 284 Berti, F., 267n. Berto, G., 296n. Bianco, A., XIIIn., 234n. Biensenbach, K.. P., 154n. Blanchot, M., 65 e n. Bloch, E., XII, 50n. Blumenberg, H., 177n., 261 e n. Böcklin, A., 58 Bodei, R., XIn., 50n., 93n., 113n., 114n., 116n., 117n., 118n., 157 e n., 195 e n., 217n., 220n., 222n., 230n., 231n., 242n., 243n., 244 e n., 267n., 268nn., 269n. Boella, L., 4n., 50n., 55n., 73n., 74n., 78n., 79n., 84n., 86n., 169n., 177nn., 275 e n., 277n., 280n.
* Data la frequenza nel testo le occorrenze relative a Georg Simmel non figurano nell’indice.
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00 Boltanski, C., 166 Bonito Oliva, R., 242n. Bontempi, M., XVn. Borges, J. L., XIII Borrelli, D., 66n., 109n., 205n., 209, 270nn. Borsari, A., 8n., 42n., 207n. Boschetti, A., 253n. Bourdieau, P., 250, 253 e n., 256 Bruckmann, H., 42n. Burgazzoli, L., 196n. Cacciari, M., 78n., 177n. Cacciatore, G., 20n. Caillé, A., 1 e n., 250 e nn., 251 e n., 287n., 289 e n., 290, 291 e n., 292, 293 e n., 294, 295, 296n., 297 e n. Calabrò, A. R., 69n., 71n., 88n., 89n., 236n. Calabrò, G., 122n., 183n., 185n., 218n. Campasi, G., 206n. Canetti, E., XVII e n., XVIII, 165 e n., 206-207 e nn. Cantillo, G., 242n., 244n. Carmagnola, F., 50n. Carnevale, A., 244n. Caronello, G., 141n. Carpitella, M., 269n. Caruso, D., XIVn. Casadei, T., 201n. Castel, R., 201n. Castells, M., 207-208 e n. Catania, A., 256n. Cavalli, A., Xn., XIIIn., XVII, 8nn., 25n., 26n., 94n., 173n., 233n. Cedroni, L., 56n. Ceri, P., 226n. Cesareo, V., 193n., 257n. Cetrangolo, E., 270n. Chiodi, G. M., 200n. Chiodi, P., 166n. Cicchelli, V., 259n. Cimmino, S., 2n. Cinato, A., 287n.
INDICE
DEI NOMI
Cincotta, R., 167n. Codignola, E., 110n., 241n. Cohen, R. S., 2n. Colesanti, M., 271n. Colotti, G., 213n. Colozzi, I., 211n. Comoglio, F., 177nn., 278 e n. Conversano, P., 208n. Conte, M., 193n. Cortella, L., 243n. Coser, L. A., XIVn. Costa, P., 185n. Cotesta, V., XVn., 92n., 197n. Cremaschi, S., 262n. Crespi, F., 112 e nn., 233n., 240-241 e n., 245n. Cristofori, D., 242n. Croce, B., XVIn. Curi, u., 209n. D’Alessandro, D., 250n. D’Amico, C., 154n. D’Andrea, D., 225n., 228n., 260n. D’Andrea, F., 25nn., 49n., 51n., 74n., 222n., 250n. d’Anna, V., 15n., 49n., 52n., 56nn., 57n., 58n., 103n, 104-106 e nn., 130n., 173n., 210n. D’Avanzo, B., 8n. Dahme, H.-J., Xn., 39n., 131n. Dal Lago, A., 48n., 49n., 50n., 56n., 71n., 99n., 102 n., 103n., 126n., 130 e n., 131 e nn., 133n., 134n., 141n., 142 e n., 177n., 196nn., 233n. Dati, R., 203n. de Certau, M., 109n. de Conciliis, E., 158-160 e nn. De Michelis, L., 253n., 255n. De Simone, A., XIIn., XIVn., XVnn., 2n., 20n., 42n., 66n., 68n., 93n., 94n., 99n., 107n., 121n., 130n., 142n., 154n., 165n., 194n., 206n., 222n., 229n., 231n., 232n., 233n., 235n., 250n., 256n., 258nn., 262n., 285n.
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INDICE
DEI NOMI
Degene, A., XIVn. Del Forno, M., XVIn. Demartisi, P., XIVn. Democrito, 210 Deroche-Gurcel, L., 285n. Derrida, J., XVII e n., 296n. Desideri, F., 19n., 99nn., 101n. Dewey, J., 246, 248 Di Cori, P., 65 e n. Di Francesco, M., 166n., 167n. Di Giovanni, G., 102n. Di Marco, C., 262n. Di Martino, C., 296n. Di Paola, F. G., 210n. Di Pietro, S., 291n. Diano, C., 270n. Dilthey, W., 20n., 46, 229 e n. Döblin, A., 60 Donaggio, E., 131n., 244n. Donati, C., 113n. Dumont, L., 289 Durkheim, E., 69n., 289, 293 Elliott, A., IXn. Engert, R., 155n. Eraclito, 11 Escobar, R., 161n., 190 e n., 192, 202n., 205 e n., 210 Esposito, R., 252n., 267n. Fadini, u., 210n. Fagetti, R., IXn. Fattori, A., 119n. Fazio, D. M., 131n. Featherstone, M., 2n. Felski, R., 65n. Ferrara, A., 123 e n., 125 e nn., 137 e nn., 138, 139, 144 e n, 145-146 e nn., 148 e nn., 149 e nn., 150 e nn., 152, 153 e n., 249n. Ferrara, R., 65n. Ferrara degli uberti, G., 258n. Ferrari, M., 49n. Ferraris, M., XVIIn. Ferrarotti, F., 186n.
01 Ferri, E., 161n. Filoni, M., 203n. Finelli, R., 242n., 243n., 244n. Fistetti, F., 244n., 248 e n., 249, 251n., 267n., 289 e n., 290, 293, 294, 295, 296n. Fitzi, G., XIn., 56n. Fogazzaro, A., 284n. Fonnesu, L., 263n. Fontana, A., 207n. Formaggio, D., 99n. Formenti, C., 224n., 225n., 226n. Fornari, S., 92n., 238n. Forsé, M., XIVn. Foucault, M., 207n. Franchini, S., 212n. Freud, S., 166, 229, 255 Freyer, H., 54n. Frisby, D., Xn., 2n., 39n., 49n., 55n., 58n., 60n., 154n., 233n. Gabetta, G., 100n. Galimberti, F., 63n. Galland, O., 259n. Galli, C., 262n. Gandini, u., 201n. Garelli, G., 50n., 242n. Gasparini, G., 98n., 109nn., 113n., 118n. Gatti, R., 200n. Gebauer, G., 256n. Gehlen, A., 54n., 138 e n. Genovese, R., 297n. Genovesi, A., 284 Gentili, C., 50n. Gessa Kurotschka, V., 251 e n., 252 Gessner, W., 2n. Gheri, P., 39n. Ghisleni, M., 67n., 111n., 184n., 253n. Ghisu, F. S., 62nn., 122n., 128n., 135nn., 184n., 185n., 186n. Giaccardi, G., 224n., 225n., 226n., 257n. Giacometti, S., XIVn. Giacomini, B., 11n., 19n., 47n., 50n.,
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0 121n., 193n., 195n., 218n. Giacomoni, P., 130n. Giavotto Kunkler, A., 107n. Gibellini, I., 131n. Giddens, A., 119 e n., 223, 226, 227 e n. Giordano, G., XIIIn. Givigliano, A., XIVn. Glissant, É., 213 e n. Goethe, W., 104, 130 Goffman, E., 268 Gorreta, D., 123n., 124n., 128n. Gorsen, P., 56n. Gouldner, A. W., 109n., 110 e n., 111 Grassi, P., 242n. Guani, M., 227n. Guarnieri, G., 63n., 121n., 130n., 132n., 154n., 163n., 164n., 183n., 187nn. Guglielmino, S., 217n. Habermas, J., 1 e n., 246, 248, 269n., 285 Halévy, É., 291 Hartmann, N., 96 e n., 97 e n., 98 e n. Harvey, D., 223 Hegel, G. F. W., X, 54n., 110 e n., 179, 203, 241-244 e nn., 246n., 248, 249, 252, 268 Heidegger, M., 113 Helle, H. G., 20n. Heller, A., 94 e n., 226n. Helvétius, C.-A., 291 Hénaff, M., 167 e n., 168, 180, 270 Henry, B., 203n. Hobbes, T., 200, 203, 248 Hoffmann, u., 55n. Honneth, A., 216, 244-249 e nn., 251, 259 e n., 290 Hume, D., 291 Iber, C., 243n. Ishaghpour, Y., 207n. Izzo, A., 58n. Jankélévitch, V., 4n., 7 e n., 11 e n.
INDICE
DEI NOMI
Jarczyk, G., 203n. Jedlowski, P., 59n., 61n., 66n., 72n., 111 e n., 114nn., 115, 233n. Jesi, F., XVIIn., 165n. Kaern, M., 2n. Kaiser, A., 24n. Kant, I., 124 e n., 125, 127, 128, 129, 130, 135, 140, 141, 145, 146, 149, 152, 155, 156, 161, 164, 166 e n., 178 e n., 179 e n., 180, 183n., 184n., 189, 220, 248, 288 Keller, T., 285 e n., 288 e n. Köhnke, K. Ch., 39n. Kojève, A., 203 e n. Kracauer, S., XII, 49, 60 Krais, B., 256n. Labarrière, P.-J., 203n. Lalli Cavina, P., 169n. Landmann, M., 26n. Lanzillo, M. L., 202 e n. Larmore, C., 258n. Lazzeri, C., 291n. Lecaldano, E., 291n. Leccardi, C., 66n. Léger, F., 56n. Lemert, C., IXn. Lenci, A., 244n. Leopardi, G., 115 Lévi Strauss, C., 287n., 289 Lévinas, E., 223 Levine, D. N., 13n. Lichtblau,, K., 131n. Liebhart, R., 25n. Lipovetsky, G., 264 e n., 265 e n., 266 Livini, u., 49n. Lo Russo, M., 210n. Locke, J., 248 Losurdo, D., 268n. Lotter, M. S., 157n. Löwith, K., 107 e n. Luckmann, T., 263n. Luhmann, N., 201, 227 e n. Lukács, G., 50n., 60, 68n., 94-98 e nn.,
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INDICE
106-107 e nn., 108 e n., 113 e n., 169n. Lumer, C., 251n. Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019
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DEI NOMI
Machiavelli, N., 274 Maffeis, S., 256n. Magatti, M., 115n., 190n., 224n., 225n., 226n., 257n. Magnano San Lio, G., 20n. Magnante, P., 93n. Magris, C., 213n. Mahlmann, R., 48n. Mainoldi, C., 210n. Manattini, F., 29n. Mancini, R., 108n. Manfredi, M., 203n. Maniscalco, M. L., 285n. Marelli, C., 261n. Marini, A., 126n. Marramao, G., 269n. Marsiglia, G., 253n. Martinelli, A., 228n. Martinelli, M., 189n. Martirano, M., 269n. Marx, K., 34, 35, 37, 53, 60, 172,. 180, 255, 270 e n., 293 Mauss, M., 251n., 287n., 289, 293 McMahon, D. M., 242n. Mead, G. H., 246, 248 Mele, V., Xn., 55n., 240n. Melucci, A., 111n., 113n., 226 e n. Merico, M., 259n. Mill, J. S., 291 Monaldi, M., XIIn., 24n. Monceri, F., 4n., 5n., 8n., 12-13 e nn., 15n., 20-23nn., 25n., 26nn., 27n., 45nn., 46n., 47n., 48n., 52n., 59n., 98n., 100n., 103nn., 128nn., 172n., 173nn., 206n., 217n., 275n. Mongardini, C., 30n. Montale, E., 118-119 e n. Mora, E., 172n. Mora, F. 1n., 3n., 5n., 9n., 15n., 154n., 155 e n., 157, 232n.,, 233n. Moscovici, S., 168-169 e n., 172n.
Mubi Brighenti, A., 206n. Mucchielli, L., 201n. Nancy, J.-L., 263 e n. Natoli, S., 167 e n. Navarini, G., 234n. Necchi, P., 54n. Nedelmann, B., 2n., 30-31 e nn., 33-34 e n., 36-38 e nn., 40n., 41n., 44e n., 69n., 71n., 73n., 76 e n., 78n., 83n., 84n., 88n., 90n., 91n. Nietzsche, F., 15, 46, 58, 127, 130, 131 e n., 138, 183n., 184n., 203, 229, 231 Nocenzi, M., XVn. Offe, C., 226n. Olivieri, A., 15n., 167n. Ophälders, M., 54n. Ortega y Gasset, J., 1 Owen, D., 244n. Palese, F. F., 263n. Panebianco, A., XIV e n. Pansera, M. T., 210n. Paoletti, G., 221nn. Paolucci, G., 113n., 253n., 256n. Papi, F., XIn. Papilloud, C., 154n., 232n., 236, 238n., 240n., 287n. Pasquali, A., 262n. Pasquino, P., 207n. Pazé, V., 267n. Pedroni, V., 245n. Perucchi, L., 25n., 26n., 68n., 69n., 78n., 79nn., 92n., 99n., 173n., 177n. Phillips, M., 2n. Picchio, M., 66n., 67n., n., 68n., 92n. n. Pietri, S., 207n. Pinotti, A., XII e nn., XVn., 60n. Pinto, L., 253n. Pirandello, L., 216n., 217 e n., 220 e n. Piras, M., 258n. Pirni, A., 119n., 203n., 250n.
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304 Piovani, P., X e n. Pizzorno, A., XVIIn. Platone, 155, 291 Poggi, G., 43-44n., 54n., 172n., 175n. Polanyi, K., 289 e n. Pontecorvo, C., 65n. Portioli, C., XIn., 1n., 68n. Possenti, I., 221nn. Pozzan, A. M., 107n. Pozzan, P., 122n. Priddat, E., 154n. Protti, M., 56n. Pulcini, E., 194 e n., 200, 202n., 204 e n., 225n., 228n., 260 e n., 262 e n., 293nn., 297n. Privitera, W., 253n. Pupolizio, I., 206n. Racinaro, R., 56n. Raimondi, E., 113 e n. Rammstedt, O., X e nn., XIn., 131n. Rauty, R., 109n., 233n. Rawls, J., 248, 249 Rebuggini, P., 253n. Recalcati, M., IX e nn., Xn. Rehberg, K.-S., 210n. Renault, E., 245 e n. Resta, C., 209n. Restori, E., 213n. Riccio, F., 244n. Ricoeur, P., 112 e n., 113 e n. Ripoli, M., 291n. Riva, N., 206n. Rodin, A., 92 e n. Romano, A., Xn. Rosati, M., 244n., 245n. Rosenzweig, F., 50n. Rosito, V., 216n., 240n., 241 Rossi, P., 108n. Rousseau, J.-J., 189 Rovatti, P. A., 230n. Ruggenini, M., 172n. Russ, J., 262n. Russo, V. E., 114n. Salsano, A., 1n., 289n.
INDICE
DEI NOMI
Salvini, A., XIVn. Salvucci, P., 242n. Samek Ludovici, G., 291n. Sandrelli, C., 244n., 249n., 263n. Sanna, G., 110n., 241n. Santambrogio, A., 222n., 245n. Santoro, M., 1n. Santoro, V., 243n. Sartre, J.-P., 116n. Sassatelli, R., 1n. Savi, M., 264n. Scaff, L. A., 2n. Scarponi, A., 94n., 95 Scheler, M., 50n., 141 e n. Schluchter, W., 131n. Schopenhauer, A., 15, 142n., 143 Schwerdtfeger, J., 154n. Sciolla, L., 259n. Scurti, G., 244n., 246n. Semerari, F., 264 e n. Senellart, M., 291n. Serini, P., 203n. Serres, M., 271n. Sica, L., IXn. Silei, G., 202n. Simon, D., 92n., 154n., 233nn., 234n. Smelt, S., 53n. Smith, A., 291n., 294 Socrate, 155 Sofocle, 270n. Sofsky, W., 201n., 227 e n. Solinas, A., 245n. Solmi, A., 95n. Sordini, M., 92n. Sossi, F., 230n. Sparano, E., 253n. Spini, D., 226n. Squicciarino, N., 29n., 39 e n., 40n., 55n., 56n., 93n. Stirner, M., 161 e n. Straniero, G., 268n. Strazzeri, I., 244n. Susman, M., 26n. Svendsen, L., 202n. Swartz, D., 253n.
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INDICE
DEI NOMI
Tabboni, S., 53n., 195n., 197 e n. Tarizzo, D., 244n. Tartler, R., XIVn. Taylor, C., 119 e n., 258n. Tessitore, F., Xn. Testa, I., 212n., 213n., 216n. Tetrarca, E. 202n. Tocqueville, A. de, 250 Todorov, T., 203n. Tolstoj, L., 106, 107, 108 Tommasi, C., 263n. Tönnies, F., 131 e n. Toscano, M. A., 226n. Touraine, A., 223, 253 e n., 254, 255, 269 Tramonti, M., 67n. Tucci, A., 244n. Tundo Ferente, L., 263n. Turnaturi, G., 41n., 219n., 232n. ungaro, D., 227n., 257n., 258nn., 259n. Vaccarini, I., 257n. Valent, I., 172n. Valle, G., Xn., XIn., 126n., 131n. van der Brink, B., 244n. Vegetti, M., XIIn., 203n. Vergani, M., 296n. Versienti, F., 1n.
0 Vico, G., 284 Vidari, G., 178n. Vieillard-Baron, J. L., XIIIn. Vigevano, R., 289n. Vigna, C., 243n. Vigorelli, A., 54n., 126n., 167n., 178 e nn., 179n., 180 Vinale, A., 253n. Violante, P., 30n., 33n. Vitale, A., 267n. Voelzke, E., 142n. Vozza, M., XIIIn., 116n., 117n., 154n., 172n., 217n., 231n., 235n. Waldron, J., 201n. Walzer, M.,, 201n. Watier, P., 233n., 285n. Weber, M., 48n., 107, 108n., 180, 257, 258, 293 Waizbort, L., XIn. Zagrebelsky, G., 211n. Zamagni, S., 273 e n., 274, 283-284, 294, 295, 296 e n. Zanino, F., 287n. Zanuso, F., 291n. Zecchi, S., 54n. Zolberg, V., 253n. Zolo, D., 201 e nn.
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Teorie & Oggetti della Filosofia Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019
Collana diretta da Roberto Esposito
F. Châtelet, Attraverso Marx W. Tommasi, La natura e la macchina. Hegel sull’economia e le scienze W. Rathenau, Lo Stato nuovo e altri saggi (a cura di R. Racinaro) R. Esposito, La politica e la storia. Machiavelli e Vico R. Genovese, Dell’ideologia inconsapevole. Studio attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno A. Gurland, O. Kirchheimer, H. Marcuse, F. Pollock, Tecnologia e potere nelle società post-liberali (a cura di G. Marramao) M. Bertaggia, M. Cacciari, G. Franck, G. Pasqualotto, Crucialità del tempo. Saggi sulla concezione nietzschiana del tempo M. Horkheimer, Kant: la Critica del Giudizio (a cura di N. Pirillo) B. De Giovanni, R. Esposito, G. Zarone, Divenire della ragione moderna. Cartesio, Spinoza, Vico G. M. Cazzaniga, Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxiana dello sviluppo B. Gravagnuolo, Dialettica come destino. Hegel e lo spirito del Cristianesimo V. Dini, G. Stabile, Saggezza e prudenza. Studi per la ricostruzione di un’antropologia in prima età moderna M. Palumbo, Gli orizzonti della verità. Saggio su Guicciardini B. Accarino, Mercanti ed eroi. La crisi del contrattualismo tra Weber e Luhmann G. Bataille, A. Kojève, J. Wahl, E. Weil, R. Queneau, Sulla fine della storia (a cura di M. Ciampa e F. Di Stefano) C. Formenti, Prometeo e Hermes. Colpa e origine nell’immaginario tardo-moderno M. Cacciari, M. Donà, B. Gasparotti, Le forme del fare H. G. Gadamer, J. Habermas, L’eredità di Hegel (a cura di R. Racinaro) M. Vozza, Il sapere della superficie. Da Nietzsche a Simmel A. Mazzarella (a cura di), Percorsi della “Voce” R. Genovese, C. Benedetti, P. Garbolino, Modi di attribuzione. Filosofia e teoria dei sistemi (a cura di R. Genovese) A. Illuminati, Racconti morali. Crisi e riabilitazione della filosofia pratica E. Greblo. La tradizione del futuro. Saggio su Walter Benjamin Aa.Vv., Simone Weil. La provocazione della verità E. Agazzi, Dopo Francoforte. Dopo la metafisica. �. Habermas, K. O. Apel, H. G. Gadamer A. Giannatiempo Quinzio, L’estetico in Kierkegaard Aa.Vv., Figure del paradosso. Filosofia e teoria dei sistemi 2 (a cura di R. Genovese) u. Fadini, Configurazioni antropologiche. Esperienze e metamorfosi della soggettività moderna D. Taranto, Studi sulla protostoria del concetto di interesse. Da Commynes a Nicole (1524-1675) V. Romitelli, Storiografia, cronologia, politica G. Compagno, L’identità del nemico. Drieu La Rochelle e il pensiero della collaborazione Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità L. A. Manfreda, Aporie del simbolo. Saggio su Otto Weininger
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A. Mazzarella, I dolci inganni. Leopardi, gli errori e le illusioni Diotima, La sapienza di partire da sé F. C. Papparo, La passione senza nome. Materiali sul tema dell’anima in Nietzsche W. Tommasi, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile N. Boccara, Il buon uso delle passioni. Hume filosofo morale: una biblioteca possibile Diotima, Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana R. Caporali, La fabbrica dell’imperium. Saggio su Spinoza F. S. Festa, Politica e/o Teologia. Saggi di filosofia politica G. M. Barbuto, Ambivalenze del Moderno. De Sanctis e le tradizioni politiche italiane F. Sorge, Passioni e farmaci. Per un’etica della depressione: le passioni dell’uomo tra neuroscienze ed anima F. Fimiani, Poetiche e genealogie. Claudel, Valéry, Nietzsche G. Borrello, Il lavoro e la Grazia. Un percorso attraverso il pensiero di Simone Weil E. Parise, La politica dopo Auschwitz. Rileggendo Hannah Arendt A. Martone, Un’etica del nulla. Libertà, esistenza, politica R. Panattoni, Appartenenza ed eschaton. La Lettera ai Romani di San Paolo e la questione “teologicopolitica” C. Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo. 1916-1927 G. M. Barbuto, La politica dopo la tempesta. Ordine e crisi nel pensiero di Francesco Guicciardini Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione S. Zuliani, Michel Leiris. Lo spazio dell’arte G. Solla, L’ombra della libertà. Schelling e la teologia politica del nome proprio G. Barberis, Il Regno della Libertà. Diritto, Politica e Storia nel pensiero di Alexandre Kojève W. Tommasi, La scrittura del deserto. Malinconia e creatività femminile Diotima, La magica forza del negativo R. Caporali, La tenerezza e la barbarie. Studi su Vico L. Mortari, Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano Diotima, L’ombra della madre W. Tommasi, María Zambrano. La passione della figlia G. M. Barbuto, Antinomie della politica. Saggio su Machiavelli A. De Simone, Intersoggettività e norma. La società postdeontica e i suoi critici L. Bernini, Le pecore e il pastore. Critica, politica, etica nel pensiero di Michel Foucault C. Zamboni, Pensare in presenza. Conversazioni, luoghi, improvvisazioni Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza fra reale e irreale Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa S. Tarantino, G. Borrello (a cura di), Esercizi di composizione per Angela Putino. Filosofia, differenza sessuale e politica A. De Simone, L’inquieto vincolo dell’umano. Simmel e oltre
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A
ntonio De Simone è professore di Storia della filosofia nell’Università di Urbino. Tra i suoi numerosi volumi: Alchimia del segno (1985); Lukács e Simmel (1985); Tradizione e modernità (1993²); Dalla metafora alla storia (1995); Tra Gadamer e Kant (1996); Habermas (1999²); Senso e razionalità (1999); Georg Simmel (2002); Filosofia dell’arte (2002); Leggere Simmel (a cura di, 2004); Identità, spazio e vita quotidiana (a cura di, 2005); Oltre il disincanto (2006); L’ineffabile chiasmo (2007); Diritto, giustizia e logiche del dominio (a cura di, 2007); Paradigmi e fatti normativi (a cura di, 2008); Intersoggettività e norma (2008); Per Habermas (con L. Alfieri, a cura di, 2009). È membro del comitato scientifico delle riviste «Postfilosofie» e «Cosmopolis». In copertina: Franz Marc, Zerbrochene Formen, olio su tela, 1914.
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ISSN 1973-1507
A
gli inizi del XXI secolo, nell’epoca globale dell’ipermodernità, la lezione di Georg Simmel è ancora sorprendentemente “attuale” per comprendere le metamorfosi del “nostro” tempo che, nel segno dell’incertezza, marcano, nel fragile confine della libertà, sia l’esperienza quotidiana sia la relazione reciproca con l’altro. Da Alain Caillé che lo definisce “un grandissimo” della tradizione sociologica ad Axel Honneth che lo rilegge dal punto di vista della filosofia sociale come un acuto “diagnostico” delle patologie del Moderno, Simmel è considerato nella contemporaneità uno dei crocevia obbligati sia per lo studio del ruolo della cultura nell’azione umana sia per la comprensione delle forme fluide e vulnerabili della vita individuale. Con L’inquieto vincolo dell’umano, Antonio De Simone propone l’immagine nuova di un Simmel “ulteriore”, fonte di ispirazione non solo della social network analysis, ma riconducibile altresì ai problemi della filosofia politica e della teoria del riconoscimento e del dono, che ci spingono a ripensare la significatività pluristratificata della conditio humana, ovvero le morfologie e le aporie dell’homo reciprocans nello “spazio del conflitto” aperto, nella dialettica della prossimità, dall’estrema variabilità delle differenze (in)dividuali.