Salvatore Quasimodo. La poesia nel mito e oltre
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SALVATORE QUASIMODO LA POESIA NEL MITO E OLTRE a cura di Gilberto Finzi

Biblioteca di Cultura Moderna Laterza

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© 1986, Gius. Laterza & Figli Prima

Atti del Convegno 10-12

aprile

edizione

1986

nazionale di studi su Salvatore Quasimodo

(Messina,

1985)

Pubblicazione realizzata ciale di Messina

con

il contributo

dell'Amministrazione

provin-

G. Amoroso C. Bo A. Brunelli S. Campailla A. Ciccarelli F. D'Episcopo A. De Stefano T. Ferri G. Finocchiaro Chimirri G. Finzi M. Forti M. Freni G. Gramigna A. Granese O. Macrì P. Manfredi M. Martelli G. Miligi E. Misefari A.P. Mundula F. Musarra G. Musolino S. Pautasso P. Pelosi R. Salina Borello E. Salibra M. Rosani G. Petrocchi N. Tedesco P.M. Sipala R. Sanesi

SALVATORE QUASIMODO LA POESIA NEL MITO E OLTRE a cura

di Gilberto

Laterza

Finzi

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel maggio 1986 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-2742-9 . ISBN 88-420-2742-1

In qualità di Presidente dell’Amministrazione Provinciale, che ha organizzato la presente manifestazione di concerto con la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Messina, porgo il benvenuto a tutti i convegnisti, ringraziandoli per la loro qualificata partecipazione. Salvatore Quasimodo è siciliano non solo perché l'isola gli ha dato i natali (è nato a Modica), quanto anche perché nel suo iter di poeta la Sicilia è stata punto di riferimento costante: o mito o dramma dell'umano esistere. Ma, per concorde riconoscimento, egli deve essere considerato siciliano di Messina per avere vissuto gli importanti anni della formazione giovanile nella nostra provincia. Questa natura ricca di storia e di sole ed una realtà sociale consunta da un millenario ed incessante evolvere di eventi sono alla base della sua poesia e del suo impegno civile, sono il magico momento di quella intuizione lirica che, adeguatamente sviluppata, lo porterà al Nobel nel 1959. La Messina dell’epoca è humus fertile, come lo fu per altri illustri personaggi e, tra questi, è doveroso ricordare due suoi cari compagni di studi, Giorgio La Pira e Salvatore Pugliatti, entrambi, come il poeta, impegnati per la salvaguardia e la crescita della dignità dell’uomo, il primo sforzandosi di aprire il mondo del lavoro ed i rapporti intersociali ad un rinnovato cristianesimo e l’altro tentando di scuotere l'atmosfera stagnante di una Messina sonnolenta perché si operasse quel processo di sprovincializzazione che, fortunatamente per noi, fa sentire ancor oggi benèfici effetti nella nostra cultura. A Messina dimora la sorella del poeta. A Messina, a poco più di quindici anni dalla morte, sono vivi i ricordi del suo operare;

e ch al qu di he ic nt te au e nz ia on im st te le re ie gl co ra si possono anco suo gesto, di qualche sua ansia, di qualche suo detto. Questo spazio, in cui memoria storica e memoria affettiva si

sovrappongono, dovrebbe sollecitare all'impegno scientifico della ricerca e dell'analisi dei dati ed alla conseguente formulazione di tesi; tesi che sono ansiosamente attese, nella convinzione che per

il passato la figura di Quasimodo non sia stata messa opportunamente a fuoco e che, conseguentemente, si debba analizzare più a fondo il rapporto tra uomo e poeta, tra poesia giovanile e poesia della maturità, tra ermetismo e rinnovato umanesimo e si

debba approfondire ancor più l’analisi della sua poliedrica capacità comunicativa, dalla saggistica alla critica, dalla letteraria alla pubblicistica. E se la coscienza sociale avverte, oggi, più che nel passato, bisogni di appagamenti, l’ente locale, più incisivo perché più aderente alla spiritualità della comunità amministrata, ad integrazione di quanto possono

fare e fanno gli organismi centrali, è tenuto

a provvedervi nella misura in cui le richieste risultino opportune CU e realizzabili. Per

questi

motivi

l’Amministrazione

provinciale

ha inteso

organizzare il Convegno di studi su Salvatore Quasimodo. Inoltre, l’Università degli studi, per il particolare ruolo che è chiamata ad assolvere nel contesto societario territoriale e per la prestigiosa tradizione che la distingue fra le altre università italiane, risulta essere la sede idonea per il confronto delle idee e per il realizzarsi di quegli apporti culturali necessari ad una

comunità desiderosa di crescere. Se a ciò si aggiunge il fatto che si è registrata l'adesione di vivissime intelligenze e autorevolissime personalità della critica della letteratura e dell’arte, ben si capisce come esistono le condizioni ideali perché la problematica venga trattata con il dovuto rigore scientifico e mi auguro che i lavori del Convegno possano riaccendere l'interesse sul poeta e sulla sua grande poesia.

Giuseppe Naro Presidente dell’Amministrazione

provinciale di Messina

PREFAZIONE

« Oscuramente

forte è la vita »:

questo verso, così intenso,

così bello, che chiude un groppo di sentimenti antico quanto il mondo e una poesia (A/ padre) scavata nel privato più difeso e più ombroso, forse sarà tornata in mente, come a me, a parecchi dei partecipanti al convegno di Messina. È stato, questo Convegno nazionale

di studi su Salvatore

legittimazione

e soprattutto la riaffermazione

Quasimodo,

negato eppure conteso, mai veramente

una autorevole

di un valore mai

discusso ma piuttosto evi-

tato e quasi obliterato. La poesia di Quasimodo non è scritta su carta ingiallita dal tempo e, come quel dolcissimo endecasillabo (così lo leggerei), riafferma la sua oscura resistenza e la sua sostanza, quella che un altro poeta del Novecento, Louis Aragon, definì

«la

luce nera»

di Quasimodo.

padre riecheggia ancora, non

Quel

verso

più soltanto come

una

dedicato

al

sfida del-

l’esistere o una cabala su ciò che non è e forse sarà, ma additittura come il gioco, emotivo-musicale, della poesia stessa, che

prevede e anticipa, serenamente, comparsa.

Dunque:

« oscuramente

orgogliosamente, la propria riforte è la poesia » —

se ne

sono resi conto tutti, i vecchi e i giovani relatori, i numerosissimi studenti che straripavano dall’aula magna negli atrii dell’Università. Il convegno è stato davvero una rivincita della poesia e una calda vittoria degli amici ed estimatori del poeta: e « amici » non significa anonimi esaltatori (così come gli avversari non dovrebbero apparire dei detrattori), ma semplicemente dei lettori, degli attenti critici, dei manipolatori (o contromanipolatori) di parole e di versi, i quali cercano di sdipanare una difficile matassa strutturale, storica, linguistica; di trovare un codice o comunque un approccio conoscitivo, un attraversamento filologico non automatico, una intelligenza di motivi culturali e via di seguito. Tutto questo, del resto, non implica affatto che occorra, per nessuno, VII

e, enz end asc e pri pro le are neg , oni ezi dil pre e pri pro le del spogliarsi meno ancora rinunciare al proprio metodo di lavoro. In un conme no un e uir tit sos di tta tra si non , olo iam ord ric di, stu di o gn ve ad altri nomi, o di creare delle triadi fasulle, per la memorizza-

zione scolastica così facilitante ma anche così odiosa a chi vuole insegnare veramente. Il problema letterario è un’equazione a troppe incognite, e di rado si presta a soluzioni « esatte », anche se la poesia è, tra le arti, quella che più si lega al « numero ». Il convegno di Messina ha verificato i due aspetti che maggiormente premevano e premono sulla memoria letteraria del nostro tempo: rileggere senza preconcetti, né storici né estetici né linguistici, una poesia che — come d’altronde ogni altra poesia — si ricrea nell’attimo stesso del suo concreto ripresentarsi alla mente; indicare e discutere i modi e i problemi di tale rilettura severamente ancorata alla varietà metodologica di oggi, in tutte le sue componenti. Proposte critiche e letture attive implicano altresì che, a quasi due decenni dalla morte di Quasimodo, il periodo di silenzio che segue una scomparsa fisica sia forse terminato; il « limbo » che circondava il poeta siciliano-milanese si è aperto per lasciar filtrare momenti di cordialità critica e anche non critica. Il « ricordo » però non ha affatto prevalso là dove alcuni maestri e alcuni giovani studiosi si sono alternati: voglio dire piuttosto che le analisi più serie, le più autonome scelte critiche, le sintesi e i giudizi anche più fermamente ancorati al metodo anziché alle simpatie o antipatie precritiche, non potevano, anzi non possono mai escludere l’adesione, una pur minima adesione all’oggetto della critica medesima, ossia al poeta e soprattutto alla sua poesia. Da atteggiamenti di questo genere sono derivate perciò letture, riletture, modi vari e differenti, mai generici, mai dilettanteschi, di proporre all’attenzione dei partecipanti e dei tanti ascol-

tatori il farsi FRefAoi Rot), kuistico, la storia insomma e i meccanismi, diquel manumento umano nelle sue strutture testuali ormai perfettéè *(cidè: immobilmente -definitive), nelle sue testure musicali e ritmiche, nelle sue scelte di concretezza poetica, che rappresenta oggi per tutti l’opera di Salvatore Quasimodo.

Se il convegno di Messina ha reso, quanto meno, palese questa oscura vitalità, se questa poesia e il suo autore hanno ottenuto anche nella parola e nella ticerca critica quel riconoscimento che tanti lettori concedono alla scoperta poetica (come è dimoVIII

strato dalle continue riedizioni dei libri quasimodiani), ecco che tutti coloro che a questo risultato hanno, con fatica e abilità professionale, contribuito, meritano di comparire in questi Atti nella loro più corretta immagine. Ossia, non in base alle facili e usuali distinzioni che in casi simili si concedono i curatori del volume conclusivo, i quali, qualche volta un po’ pigri, si limitano a separare « relazioni » da « comunicazioni » (il che ha a che fare, tutto sommato, con la quantità e il rapporto fra « lungo » e « breve »). Meritano, questi succinti o ampi lavori, non sempre del resto e non necessariamente soltanto accademici (con quanto, anche, di negativo sta dietro o dentro l’aggettivo), di essere organizzati in contesti omogenei e differenziati, concretamente distanziati e connessi col loro rispettivo punto di vista, ideologico o metodologico che sia. Organizzare secondo « punto di vista » o, se si preferisce, secondo il tono e taglio della ricerca, i 31 saggi presentati e letti al convegno quasimodiano, significa da una parte, ovviamente, sistemare una materia varia e per così dire vagante, ma per altra parte vuol dire appunto indicare degli 4 priori critici, delle categorie funzionali: che cosa ci si deve attendere da ciascuno dei saggi stessi?

che cosa

può partitamente

interessare

uno

oppure

un altro dei futuri utilizzatori di questo grosso volume? che genere di risposte ciascuno studioso può dare, anzi ha dato, alle domande intrinsecamente legate alla poesia di Quasimodo? E si potrebbe continuare, se non valesse la pena di indicare subito, qui, il criterio della sistemazione, cioè della suddivisione interna al volume, e la poca o tanta arbitrarietà, la poca o tanta validità relative.

In questa raccolta di Atti la vasta materia di una discussione x divisa nelle fitta, densamente attuale, pie N WITHO seguenti cinque sezioni: ica e la crids Il testo poetico: attrave Erom Poe llo ‘Up e. pol Tor om Ér tti spe pro e tica: documenti a. tun for la a, ori mem La . ana odi sim qua a tur cul la nel ti sia e poe i gol sin dei o un ss ne , ore rig o ett str a e, ch to Va detto subi a un in e nt me ce li mp se e te en lm ta to a ntr rie » di « saggi » o « stu o) nd za iz al er en (g e ch o ns se nel i: ion sez o sola di queste parti con n no da e tal è so io ud st no cu as ci di a erc ric la l'ampiezza del tpiu e al ev pr so es sp ù pi e li, zia par re su iu sentire limitazioni o ch i qu a, nz ue eg ns co Di e. ar in pl ci is rd te tosto una certa obiettività in IX

i, nt me mo dei re dua ivi ind di o cat cer ha re ato l’arbitrio del cur temi, argomenti e metodologie emergenti, così da giustificare ra alt ll’ que in é ich anz sta que in o tic cri oro lav un di o ent rim nse l’i sezione. Va da sé che, all’interno di ciascuna delle sezioni medesime, non si è voluta alcuna precedenza o priorità di valore, né tematica né metodologica né, tanto meno, di pura e semplice « scrittura »: e i vari scritti sono perciò sistemati, all’interno di ognuna delle cinque parti, in ordine rigorosamente alfabetico, con due sole eccezioni, di rilievo patticolare: O. Macrì e C. Bo. E non solo per un omaggio « storico » ai due studiosi che più hanno seguito nel tempo il « fenomeno Quasimodo »: Macrì, è parso opportuno che aprisse, con la grande varietà di temi e strumenti utilizzati nel suo amplissimo saggio (decisamente il più importante, in ogni senso, del convegno), questa edizione degli Atti; mentre Bo era giusto che chiudesse la serie degli interventi con quel suo discorso breve ma, come sempre, audacemente anticonformistico sulla « fortuna » del nostro poeta in un mondo lettetario avverso ma pure consapevole della sua originalità e della sua — per dirlo con un altro poeta amato e.inamabile insieme — « disperata vitalità ». La vitalità della poesia, come in quel verso di Quasimodo stesso citato all’inizio di questa nota, conclude ma non finisce una storia: la scrittura è la concretezza che ci rimane, il testo diventa oggetto di lettura, di critica, di studio attento che squaderna e fa rivivere il lavorìo dello scrittore, se non la sua mente o le sue emozioni. A parte le due pur significative eccezioni, una certa evidenza degli altri testi, un prevalere di concetti generali o, viceversa, di indagini parziali e concrete (ad esempio sul linguaggio di un singolo libro, di una poesia e simili) ha indotto alle suddivisioni già dette, da leggere e interpretare come segue. Il testo poetico: attraversamenti e letture. Comprende gli interventi fondati sulla critica del testo, gli approcci linguistici e prosodici, le proposte di letture anche « trasversali » e non ortodosse (ma una lettura della poesia, veramente ortodossa non lo è mai, almeno nel senso che ognuno «legge » col proprio vissuto, con la propria cultura, metodologia ecc., rifacendo a suo modo il percorso testuale); letture, cioè, che « entrano » nel testo attraverso gli elementi-base del discorso poetico, indagando un linguaggio sintattico, metrico, ovvero dando la prevalenza agli

aspetti tecnico-figurali e così via. Si trovano in questa sezione i saggi di Macrì, Ferri, Gramigna, Martelli, Musatra. La poetica e la critica: documenti e prospettive. Comprende le

analisi della poetica di Quasimodo, di teoria della poesia e di

prassi critica, basate su documenti noti e meno noti, sull’esame di particolari valenze dell’opera poetica e soprattutto critica, sui rapporti fra momenti e argomenti e linguaggi diversi finora meno studiati, e insomma su tutto quanto diventa un complemento inedito, o quasi, della figura del poeta-scrittore e un modo di illuminare da altre angolazioni il suo lavoro. Fanno parte di questa sezione i saggi di Amoroso, Finzi, Miligi, Musolino, Pautasso, Salina Borello, Sanesi.

Le opere: temi e problemi. Comprende il gruppo più numeroso di saggi, dedicati, in buona sostanza, a temi generali e a particolari problemi che sorgono dall’opera nel suo complesso o dai singoli libri: si tratta di esami puntuali, di singole opere poetiche rilette con interesse acutamente parziale (che non significa affatto unilaterale), di punti di vista aperti, in genere definibili come diretti, frontali, in certo senso « tradizionali ». I saggi di questa sezione sono di Finocchiaro Chimirri, Forti, Granese, Manfredi, Mundula, Pelosi, Petrocchi, Rosani, Sipala, Tedesco.

Poesia e poeti nella cultura quasimodiana.

Comprende studi

sui rapporti, in genere fruttuosi, con poeti e con poesie prossimi o anche meno prossimi al nostto Quasimodo: sono, in taluni casi, rapporti metaforici, puramente e intensamente poetici, ma sono

a volte invece contatti diretti o prese di posizione durature — per esempio le traduzioni — che lasciano un segno concreto e indelebile nei testi quasimodiani. Come appunto dimostrano i saggi inseriti in questa sezione, di Campailla, Ciccarelli, D’Episcopo, De Stefano, Salibra. La memoria, la fortuna. Sono testi di interviste (Freni), ricordi di anni lontani (Brunelli, Misefari), conclusi dalla sintesi toria stor sua alla », odo sim Qua ma ble pro « al ca dedi Bo C. che

Di ura. cult a dell ri onie ragi dai a urat tort i, erat mentata dai lett aSalv , vede si e com cui, in ura erat lett la quel di ura, cult la quel ndo one imp e ando trov e, aler prev per to fini ha odo sim Qua tore il suo giusto posto, umano e poetico.

ra su iu ch a e i Att i gl de me lu vo il e iar enz lic di Al momento to an lt so o tt tu po do ere ess ol vu e ch va di questa nota introdutti

XI

un elenco molto funzionale e postcritico di problemi e di tentativi di soluzione dei medesimi, resta da porgere un doveroso e cordiale ringraziamento: all’Amministrazione provinciale di Messina, nelle persone del Presidente Giuseppe Naro e del Vicepresidente Serafino Marchione, ma anche del dottor Giacomo Mondello che si è prodigato nell’ottima organizzazione del convegno; all’Università di Messina e in particolare al prof. Gianvito Resta, Preside della Facoltà di Lettere, nonché al dottor Vincenzo Bonaventura che ha curato l’ufficio stampa e alla prof. Giovanna Musolino, prima ideatrice e instancabile animatrice di tutta l’operazione Messina-Quasimodo.

Gilberto Finzi Milano, 13 febbraio 1986

SALVATORE QUASIMODO LA POESIA NEL MITO E OLTRE

IL TESTO POETICO: ATTRAVERSAMENTI E LETTURE

Oreste

Macrì

POESIA DI QUASIMODO: DALLA « POETICA DELLA PAROLA » ALLE « PAROLE DELLA VITA »

1. Le « Nuove Poesie » in due tempi. Ricerca del « segno vero della vita » La Nuove Poesie aggiunte in ESS a quelle di P38 (NP?) sono 10, delle quali 4 siciliane (L’alto veliero, Che vuoi, pastore d’aria?, Strada di Agrigentum, Ride la gazza, nera sugli aranci), 5 lombarde (Piazza Fontana, Una sera, la neve, Già la pioggia è con noi, Ora che sale il giorno, La dolce collina) e 1 toscana, luogo

casuale di proiezione autobiografica (Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto). Nelle lombarde significativamente s’incunea la Sicilia, specialmente in Una sera, la neve, Ora che sale il giorno, La dolce collina. L’apparente-velato, emulsionato, tessuto e tono elegiaci delle

prime Nuove Poesie (NP') — tra Montale, Sinisgalli, Gatto idillico, in quegli anni opachi, pur non assenti, del conflitto mondiale — tendono in queste seconde a risentirsi e vibrare nella loro stessa melanconica costanza, fino al «riso » liberato e al « ghigno » aggressivo, come vedremo. Tenta il poeta di irretire e placare la disarmonia e lo sconquasso causati e seguiti per lunghi anni dalla « vita pirata », che irruppe nel dolce e tranquillo porto siculo dell’infanzia a turbare e sconvolgere l’« identità tra sogno e giorno / visibile » con tutte le sue « speranze » (TI, 206). È un assillo costante la prima esperienza emigratoria, concorrendo funesti accidenti familiari e personali, rimestati nell’improvviso e discontinuo della memoria e dell’esistenza. Si vedano almeno Una sera, la neve, AI padre, Lettera alla madre, Epitaffio per Bice Donetti, L’alto veliero, che è da congiungere alla citata poesia della « vita pirata » col suo « gran pavese ». Questo il sottofondo della sicura e insieme illudente dimora

con fa poe il a att ric e ent cem dol che da, bar lom ria pat va nella nuo d

il o tat por sop i, ent lam si non che a za cez dol e la sua generosità dolore quanto più messo a nudo e come lustrato; assimilandosi (« come

nelle valli »), riconciliato,

il paese

siculo

del rimorso

(« Anima antica, grigia / di rancori », 102) al lombardo, simbolico dell’« umano » (« pianura », « collina ») probabile e sperato; da NP°; la dolce collina d’Ardenno [...] ascolto l’Adda e la pioggia, / o forse un fremere di passi umani, / fra le tenere canne delle rive (La dolce collina, 103), È così vivo settembre in questa terra / di pianura, i prati sono verdi / come nelle valli del sud a primavera (Ora che sale il giorno, 106), Con umana dolcezza / autunno mi consuma. E questa furia / d’ultimi uccelli estivi sulle mura / della Curia [...] dentro il mio / quieto stormire (Piazza Fontana, 109), Le rondini sfiorano le acque spente / presso i laghetti lombardi [...] Ancora un anno è bruciato, / senza un lamento, senza un grido / levato a vincere d’improv-

viso un giorno (Già la pioggia è con noi, 107).

In poesia le negazioni non

negano

nulla, attutiscono,

come

qui ad esempio: « senza un grido » è lo stesso ‘ soffocato ’; così la « furia » si mitiga nel « quieto stormire ». Anche l’endecasillabo sembra sciogliersi e nitido fluire; ma è aspra conquista, persuaso e pentito; si colloca ai momenti liberati-estatici, come nelle clausole strofiche (« ride la gazza, nera sugli aranci », « tra il murmure d’ulivi saraceni », « il nibbio sui ventagli di saggina », « tra le tenere canne delle rive »), soluzione di varie e complesse ametrie, peraltro perfettamente metrificate. Notevole l’indugio ritmico nella nominazione topografica (« e a noi il saluto / a riva di Hautecombe ») con la consueta contrazione dei morfemi sintattici.

In complesso, il rischio elegiaco era grave, e noi lo denunziammo a proposito del poema para-montaliano Sulle rive del Lambro e delle traduzioni da Saffo; resta ancora da approfondire più avanti la vera lezione dei greci, oltre all’accennata confusione con l’idillismo di Gatto, discepolo e maestro;

entrambi

cantarono (non senza litigio su una questione di precedenza) Ilaria, entrambi leopardizzati e lombardizzati al lume di quella stessa « luna ». Quasimodo originale: Nel sereno colore / che qui risale a morte della luna / e affila i colli di Brianza (Sulle rive del Lambro, 111), Finita è la notte e la luna / si scioglie lenta nel sereno, / tramonta nei canali (Ora che sale il giorno, 106).

E Quasimodo traduttore di Saffo: Gli astri d’intorno alla leggiadra luna [...] al suo colmo più risplende, bianca (LG40, 39), Tramontata è la luna (ivi, 207), Piena splendeva la luna (ivi, 51), la luna dai raggi di rosa [...] e la sua luce modula sull’acque (ivi, 61).

In Leopardi « leggiadro », « bianco [...] lume [della luna] », Il tramonto della luna, « luna [...] raggio », ecc. Così, la « stella mattutina / dall’ala bianca che viaggia nelle tenebre » di Jone di Ceo trova riscontro in « mattutino albor » (IX, 29), « bianche ali » (II, 2), «ti miro, [luna], [...] seguirmi viaggiando [...] arder le stelle » (XXIII, 83-84); il « mattutino albor » diventa « Espero [...] mattutino » in Strada di Agrigentum, dove il « carrettier », ancora leopardiano, che « l’estremo albor [...] saluta » (XXXIII, 19), diventa il carraio che risale / il colle nitido di luna (102), da « colli [...] luna » nell’Inno

ai patriarchi (VIII, 32-35).

Forse non è superfluo, allo stato degli atti critici su Quasimodo, avvertire che le qualità idillico-elegiaco-madrigalesche, non tanto erano innate nella preistoria della sua poesia, quanto originali nel zzelos continuo, per cui il suo non era lirismo ellenico e leopardiano d’acquisto (per coincidenze alle fonti), sì che negli scambi fecondi con poeti coevi e successivi il « dare » non fu inferiore all’« avere », anzi. A mezzo di detto melos, che variamente si adegua, infallibile, alle ragioni del ritmo e del significato, entrambi fusi e metrificati, le doti consustanziali di dolcezza, mitezza, tenerezza, si vanno polarizzando, in questo intervallo tra « parola » e « vita », le due fasi principali, su paesi e figure certi, tangibili, vissuti, ancora allo stato di «ipotesi » e « illusioni » pur ‘deluse’ di realtà, servendo l’acrona e atopica lirica greca ce« o sicula, » chitarra « antica sulla armonico da mero accordo La narrato. del e descritto del melodica linea tra» che sia, alla verbalizzazione « pura » non è esaurita, ma si correla alla realtà della nuova dimora lombarda tra evasione e riflusso, la quale » nibbio « del » volo « il attraverso » ritorno « il possa mediare patria la con prodigo figliol del riconciliazione lombardo, quindi la al memorie e miti suoi i » parola « dalla originaria, disgelando poetica: ragion lume di una nuova 7

spi a o vol l que in se For // a. gin sag di li tag ven sui s'ode / il nibbio ta vin la a, ezz spr l’a / o, orn rit uso del mio il a dav ffi rali serrate / s’a ), 103 a, lin col ce dol (La ore dol di a nud a pen sta que e / , ana pietà cristi

nfro la è usa del e a, ung dil o car / i ell cap i fra to ven il più me a n No si ros eri alb i agl , zza pia la sul / lli ciu fan ai ile doc o te: / inclina il cap in curva

(Piazza Fontana,

109).

I sintagmi «il mio deluso ritorno », « delusa è la fronte », sono foscoliani (« Ma io deluse a voi le palme tendo », ecc.), nonché del Leopardi foscoliano (« delusa [...] la speme giovanil », XXX, 58), dato che si tratta di « fanciulli ». I quali con la « pietà » e la « luna » tornano in Ride la gazza, nera sugli aranci, collocata in testa a tutte le Nuove poesie, e deve essere l’ultima cronologicamente, come usava il poeta nel confezionare le sue raccolte. Con essa poesia possiamo considerare chiuso l’intervallo e iniziata la seconda fase nel «segno vero della vita », preludio con un « forse » alle « parole della vita » della penultima poesia di PDP, coincidendo l’atto poetico con l’intenzione trascendentale: Forse è un segno vero della vita: geri / moti del capo danzano in un il prato / della chiesa. Pietà della così verde, / bellissime nel fuoco lacri (101).

Sono creature

/ intorno gioco / di sera, ombre della luna!

a me fanciulli con legcadenze e di voci lungo / riaccese sopra l’erba [...] arsi, remoti simu-

e cose viventi, le cui presenze

si riaccendono

dalle ceneri del passato che fu pur esso vivo, sì che i « fanciulli » milanesi di Piazza Fontana reincarnano i larvali compagni dell’infanzia nei velati e discreti profili a passo di danza, assistiti dalla « pietà della sera », eco della « pietà cristiana » di La dolce collina, aggettivo alluso in « lungo il prato della chiesa », di quella « chiesa ». Il sintagmario di base di queste immagini morte per sé, «ombre » e « simulacri » della « memoria », è sempre leopardiano: il simulacro di colei che amore / prima insegnommi (XV, 7-8), di memoria [...] custode, il simulacro / della scorsa beltà (XXXI, 5-6), ombra reale (III, 130), felici ombre (V, 35), l’ombre [...] dei dilettosi inganni (XXXIII, 23), seggo sovra l’erbe, / all'ombra (ivi, 117), le beate / larve (IV, 3), Aspasia [...] come cara larva (XXIX, 73), ecc.

E si veda Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto pei due sensi che sono uno solo. Non ci si liberava facilmente dal topico manierismo leopardiano che imperversò in quegli anni e tentò di affossare il sublime e l’eroico foscoliani; manierismo, d’altra parte, il foscoliano non meno sprovveduto del leopardiano. Il Nostro è conscio dell’ingannevole e terribile proporzione: quanto più le immagini del passato sono presentizzate nella trasposizione in figure viventi, tanto più sono amari e delusi succedanei o parodie, vita viva scaduta, ‘ umiliata ’ in « simboli ». Intanto preme dal fondo la brama del salto qualitativo, alla « vita », e il cammino leopardiano è chiuso per sempre, Leopardi inimitabile nella grandezza dei suoi naturali e umani luoghi comuni. Per ora non c’è soluzione; ma poetica, sì, nella tensione e transito, rappresentati in quel « Fotse [...] » iniziale, frapposto fra memoria e vita, sogno e realtà, invi-

sibile e visibile, come nei titoli di raccolte seguenti: Forse è un segno vero della vita (cit.)

consegue

a

Esatto quel tempo sua morte

s’umilia nei simboli, / e anche questo, vivo alla

(Piazza Fontana,

109),

ancora con formula della ferale dialettica, sulla quale torneremo, qui con morfema gattiano: « vivo alla sua morte ». E anteriore deve essere anche, persistendo l’ ‘umiliazione’, aggravata dal segno dell’« assenza » (Una sera, la neve) e dall’Ubi sunt?: Breve gioco avverso alla memoria [...] Dove l’anca colore dei miei fiumi, / la fronte della luna dentro l’estate / densa di vespe assassinate? Resta il lutto / della tua voce umiliata nel buio delle spalle / che lamenta la mia assenza (108).

È il cupo rimorso per la sposa sicula abbandonata, funebremente agganciato agli « archi del vecchio Lazzaretto »: Di te lontana dietro una porta / chiusa odo il pianto d’animale.

o am bi ab à gi e ch o, ier vel lto L'a de a nn do ssa ste Dev’essere la a er ti on fr di na zo o, rit spi lo del me no un o o st ge Ur collegato con a: ur nt ve av l’ e do ni il tra », ta ra pi a vit a «l e » « la mia casa

o ng lu i ar am eri alb li deg / lie fog e er ov mu a i ell ucc o Quando venner o ier vel o alt un i vid e / a, lun a all nte fro la la mia casa [...] io misi no so Io « .]: [.. lio fig o mi un a tav agi sé in e ch ata [...] E dissi all’am cile del e , mo re di o mp te a / o on tt ba e ch ali st’ stanco di tutte que ai na lu di o nt ve è do an qu / i can dei o nt me la il o nn fa e ch vette / a: ess Ed / ». la iso st' que re cia las io gl vo e, tir par lio canneti. / Io vog « O caro, è tardi: restiamo » (110).

Desidero rilevare, colmando l’interruzione, quei « volatili », frequenti nel cielo quasimodiano, simboli della fuga e della colpa: (erano ciechi volatili notturni / che foravano i nidi delle scorze).

Consimili « uccelli » e « luna », passati alla poesia di Bodini tramite Gatto, figure sinistre e sanguinanti del dente avvelenato del figlio, fuori dall’idillio e dall’elegia, sono gli « uccelli neri », dal maremmano Carducci, che coprono il « cuore » dei « padri » della stirpe cainesca: Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue [...] dimenticate i padri: / le loro tombe affondano nella cenere, / gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore (Uomo del mio tempo, GdG,

146),

non senza il solito sintagmario leopardiano: le rotte / case, ove i parti il pipistrello asconde (XXXIV, 283), gli augelli al vento (VI, 11), bruno augello (VI, 117), nere ombre (VI, 45), svegliar dalle tombe / i nostri padri (III, 3), i nostri padri antichi (I, 6), atre nubi (VII, 83), coverte [...] di stragi (XXXII, 61).

L’umiliazione simbolica della vita reale, del « dolce tempo » della giovinezza e dell'amore, è ancor più crudele nel « simulacro d’Ilatia », nel quale il poeta s’identifica in « ira » e « spavento ». La « vinta pietà cristiana », la « pietà della sera », diventano seccamente: «Non hanno pietà ». Sono gli « amanti » coi loro « gesti» e « ombre di parole », che Ilaria intravede dal suo sepolcro, segni ben noti a lei che rammemora il « dolce tempo », e con Ilaria « qui rimasta sola » ‘ sussulta’ il poeta ricacciando tutto, passato e presente. Infine, la stessa Ilaria, interessatamente introiettata, scompare nell’assimilato orrore dell’oblio e della solitudine (« Il mio sussulto / forse è il tuo »), con le « fanciulle » 10

e gli « amanti [...] lieti »; nella nostra memoria contestuale i « fanciulli » danzanti di Ride la gazza si trasformano in mostri di viltà e connivente silenzio, primo nucleo del « poeta nemico »: Remoti i morti e più ancora i vivi, / i miei compagni

vili e taci-

turni (105).

In Ora che sale il giorno: « Ho lasciato i compagni [...] » (106). Le rispondenze figurali tra le varie poesie confermano i loro valori simbolici di trasfusione realtà-sogno-realtà...: lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse [...] si muovono leggere

si sovrimprimono

autobiografate su

intorno a me fanciulli con leggeri / moti del capo danzano [...] lungo il prato / della chiesa [...] vento [...] spingi la luna dove nudi dormono

/ fanciulli

[...]

di Ride la gazza, e su Non a me più il vento fra i capelli / caro dilunga [...] inclina il capo docile ai fanciulli / sulla piazza [...]

di Piazza Fontana (109). E dall’interno di queste lunari, dolci e

tenere figure scattano le dette immagini funeste dei « volatili notturni », delle « civette » canine, delle « vespe assassinate », degli « uccelli neri »; nella poesia a Ilaria il gabbiano s’infuria sulle spiagge / derelitte,

eco della foscoliana « derelitta cagna ». Simboli, abbiamo detto, sinistri e maligni di un demone interiore, che accarezza e soffre

la propria elegia e memoria, dai cui segni presenti non è placato, cercando, assetato, nuova e fresca acqua sotterranea; si sta ‘ aprendo’ il sistema chiuso del Verbo, della « poetica della parola »; è la « marea » del « pozzo » in Ride la gazza, centro lirico di questo spasimo di realtà: Memoria

vi concede

breve

sonno;

il pozzo / per la prima marea.

/ ota,

destatevi.

Questa è l’ora:

nil

Ecco,

scroscia

/ non più mia

[...]

cam sui o edr pul il za for .] [.. a lun la ngi spi ] [... sud del to E tu ven li dag ole nuv le a alz e, mar il / i apr e, all cav di pi / umidi d’orme go fan il to len ta fiu e / a cqu l’a so ver za van s’a ne iro l’a già alberi: / tra le spine, / ride la gazza, nera sugli aranci (101).

L’implicazione è flagrante: della « memoria » nella presenza, nella quale risulti prodigiosamente viva sul fondamento della superiore abbracciante ciclica-perenne terra originaria e nativa, viva della propria morte; « l’ora: non più mia » è quella di tutti, corale, del popolo delle creature. L’attacco al verso 12, «E tu vento del sud [...] », è un salto nella realtà. Il « vento » pronubo e fecondatore di « zàgare », nudi fanciulli lunari, « orme di cavalle », marino e pregno di « nuvole », è desso il « segno vero della vita », senza il « forse » delle immagini rammemorate e finte di vera vita. E ora, simboli vitali, si riscattano gli uccelli nell’« airone » col becco nel « fango » genesiaco e alimentatore, e la «gazza», che sarà il «corvo» totemico, personale, del Poeta, come il « riso » si volgerà in « ghigno »; « gazza » viva nello splendido verso: ride la gazza, nera sugli aranci,

libero riso roco erompente,

fonosimbolizzato

liquida (ri-ra-ra) in accordo

con l’affricata sorda (zz4) e con

nell’apofonia della la

nasale (re-ran) sul filo della vocale più aperta (la-ga-zza-ra-ra) tra le due acute i estreme (ri-cî). Riso consimile d’uccelli in Piazza Fontana, endecasillabo

ana-

pestico coriambico: Risento / il monotono

ridere senile / dei migranti acquatici (109),

costante sempre nella poesia di Quasimodo la nota autobiograficolirica, qui del ‘ vecchio ® e dell’ ‘ emigrante ’. È un nero della « gazza» — « nera » predicativo, staccato dalla cesura 4 minore — diverso (non opposto; la poesia non ha le opposizioni della semiotica convenzionale, agendo nel continuum), diverso dai citati « uccelli neri »j nero lustro di terra rosso-cupa e acqua profonda scaturita alla luce (« pozzo »; « marea »; « nuvole »; « mare », « acqua »!), esaltato dal colore degli « aranci ». La stessa sortita vitale e umana, in verso-clausola fermo e oggettivo, si ripete nelle due poesie seguenti: 12

il colle [...] tra il murmure d’ulivi saraceni (Strada di Agrigentum, 102) passi umani [...] fra le tenere canne delle rive (La dolce collina, 103).

Arieggiano l’ultimo verso del Llanto di Garcia Lorca, che Quasimodo leggeva nella silloge curata da Carlo Bo: y recuerdo una brisa triste por los olivos + triste negli ulivi.

e ricordo una brezza

Questo « vento » di vita, costretto e liberato, percorre il paese lirico quasimodiano, specie in questo momento di crisi e dolorosa gestazione. Subito ci rammenta la fonte valeriana, valida anche per il vento montaliano degli Ossi; del Valéry maggiore, l’« aristotelico » e l’esistenziale del Cimzètiere Marin: Brisez, mon corps, cette forme pensive! / Buvez, mon sein, la naissance du vent! [...] Le vent se lève!... il faut tenter de vivre! / L’air immense ouvre et renferme mon livre [...] (XXII, 2 - XXIV, 2).

Attraverso questo simbolo dell’azizza (« Arima [...] torni a quel vento », cit. avanti; sono sinonimi) si può percorrere il diagramma animico delle Nuove poesie nei due tempi. ‘ Apparente ’, mitico e statico nella « parola », il vento del primo tempo (NP!); non duole 1°« esilio » e la « vita » è « nascosta »: Nel nord della mia isola e nell’est / è un vento portato dalle pietre / ad acque amate: a primavera / apre le tombe degli Svevi; / i re d’oro si vestono di fiori. // Apparenza d’eterno alla pietà / un ordine perdura nelle cose / che ricorda l’esilio [...] Tu in ascolto sorridi alla tua mente [...] nascosta è la tua vita (Sulle rive del Lambro, 112).

Presenti le consuete

« fanciulle », connotate

di « gioie man-

suete » e « gentilezza »; e speculari sorrisi:

Tu in ascolto sorridi alla tua mente: a fanciulle in corsa [...].

/ e quale sole leviga i capelli /

si sta d’e , ni ma Cu ce ri at nz da la r pe os eg El l’ Anteriore dev'essere la e ov , le ba er -v va ti et ll te in , ta ma re st ne io az elegiaca e autoconsum ro pu nel » re cor « e ch », o nt ve « del ta no a sol la ‘ chiarezza? è A suo spazio: La5)

in va uri esa Si .] [.. e lin col e all re cor aro chi / ve Il vento delle sel .] [.. e van gio ale nim l’a per tà pie ] [... bia sab la del zio pli sup me / il a .] [.. ore dol .] [.. ure fig e sch fre ] [... uso chi ro me tu danzi al suo nu

quiete / volto che per dolcezza arde. // In questo silenzio che rapido

consuma

[...] nasci Anadiomene

(116).

E risaliamo nel tempo e nella mitica « parola » con Delfica: (117).

Nell’aria dei cedri lunari [...] la tua voce orfica e marina

Simile la stasi d’aria assopita in « eco » di « parola », che ovatta fiele, sibilo di rettili, crudeltà del sangue, con la reiterata immagine di relitto (quasi un « osso di seppia ») e consumazione: Qui dove dorme

verde l’aria / di questi mari in cancrena,

/ affiora

bianco scheletro marino [...] vertebra umana / consorte a quella che il flutto / logora [...] (Spiaggia di Sant'Antioco, 121).

Ci avviciniamo alle seconde Nuove poesie con il più mosso, pur in forma negativa, vento di « libeccio » in Sera mella valle del Màsino, affiorando il « corvo » e la « vita »; ma alla fine il povero corpo si contrae nella ‘pietà’ di sé, anima desolata e stecchita nella sua « noia / misericorde »: Non udrò fragore ancora del mare / lungo i lidi dell’infanzia omerica / il libeccio sull’isole / funebre a luna meridiana [...] forte / il lamento del corvo. Che certa / presenza, cara, di vita [...] immutabile la noia / misericorde

[...] mi forzerò in così stretta misura

[...]

in tutto il freddo pietoso / serrato dentro il mio corpo (114-15).

Ma è un notevole passo avanti —

di « misura » cosciente,

termine che avrà fortuna, come vedremo —

verso il « destatevi »,

il « vento » che «alza » le « nuvole » e il « segno vita », esemplati sul citato

vero

della

Le vent se lève!... il faut tenter de vivte!

Entriamo nel secondo tempo delle Nuove poesie e, prima di arrivare al riso della gazza, notiamo il travaglio oscuro verso la parola vitale, marchiato dal vissuto, che era stato rimosso e posato nella teca d’oro della « parola »: l’« esilio », il « rancore », la « pena », l’« ira » e lo « spavento », con i simboli corrispon-

14

denti dei sinistri « volatili », assommati negli « uccelli neri ». Ebbene, si dà un «vento nero » e ‘roditore’, che compendia l'insieme del rigurgito psichico e coscienziale in quel « corpo », in cui ‘si serta’ un «freddo pietoso », e nell’« anima [...] grigia »: Là dura un vento che ricordo acceso / nelle criniere dei cavalli obliqui [...] vento / che macchia e rode l’arenaria e il cuore / dei telamoni lugubri [...] Anima antica, grigia / di rancori, torni a quel vento (Strada di Agrigentum, 102), E la pioggia insiste / e il sibilo dei pioppi illuminati dal vento [...] Ma il tuo viso è un’ombra che non muta; (così fa morte) (La dolce collina, 103), ulula l’aria fra i chiusi dei pastori. // Breve gioco avverso alla memoria (Una sera, la neve, 108), Non a me più il vento fra i capelli / la fronte [...] Se ne va il mio dominio da contro il vento nero / delle finestre, l’acqua gia leggera (Piazza Fontana, 109), quest’ali

caro dilunga, e delusa è te; rapido / muta: così della fontana / in piog[...] delle civette / che

fanno il lamento dei cani / quando è vento di luna ai canneti (L’alto veliero, 110).

E siamo al limite di Ride la gazza con l’interrogazione al « pastore d’aria », come un vento personificato nella sua clausura («i chiusi » citati): Ed è ancora il richiamo dell’antico / corno dei pastori [...] O da che terra il soffio / di vento prigioniero, rompe e fa eco / nella luce che già crolla; che vuoi, / pastore d’aria? (Che vuoi, pastore d’aria?, 104).

Questa ‘domanda’ sarà il motivo continuo delle plaquettes seguenti. Non basta la ‘ rottura’ operata dal « vento prigioniero » né il « segno vero della vita », e neppure « la misura / d’ingenua ». vita « essa di o sens sul » osta risp « la a cert è sapienza », se non del a dit per e e ral atu cre à nit ter Fra ». rno gio po do no 2. « Gior l« eliso »

e ed pi il r Co da ne di or sso ste lo n co e at Delle 18 poesie, pass no or gi po do no or Gi a ’46 del ) PS (C e or straniero sopra il cu iagg si P, PD di o at ar pp ’a ll da me co , 12 no me (GdG) del ’47, al i de de on fr le Al : ce pa e ra er gu tra a er rano nel 1945 di fronti , no or gi po do no or Gi , ve Ne , 44 19 o ai salici, Lettera, 19 genn 15

o itt Scr , 43 19 sto ago , ano Mil , rno nve d'i te not La Forse il cuore, o mi del mo Uo , gia Ele e, mar il ora anc de S'o a, mb to una forse su tempo. Altre 2 — La muraglia e O miei dolci animali, intermedie fra Milano, agosto 1943 e Scritto forse su una tomba — pos-

sono datarsi nello stesso anno. Solo 3 contigue sono del ’43: A me pellegrino, Dalla rocca di Bergamo alta e Presso l’Adda, tra Scritto forse su una tomba e S'ode ancora il mare. Risale 1 al 1942: Di un altro Lazzaro, versi staccati dal séguito, costituente la prima redazione di I/ tuo piede silenzioso, poesia aggiunta nell’edizione di Giorno dopo giorno. Ancora del ’43 una seconda poesia aggiunta in detta edizione: Il traghetto. Vuoto appare l’anno 1944. Pertanto, gli anni 1943-1944 possono essere assunti come spettri temporali del « silenzio » o « non-parola » 0 « non-canto », retrospettivo nel primo verso della prima poesia collocata, Alle

fronde dei salici: E come

potevamo

noi cantare

[...]? (127).

I canti bellici quasimodiani, pertanto, non sono epici né tra-

gici in prima istanza, ma assunti nel primario e finale genere lirico, nel quale si qualifica la commemorazione, la retrospezione, la stessa presentizzazione

fortemente

drammatizzata.

Mirano,

in

particolare, all'essenza e all’universale della Resistenza; il quale è carattere generale, con rate e rischiose eccezioni, della poesia italiana, calcolata l'emergenza della specifica poesia quasimodiana e, soprattutto,

la continuità

di tale spirito « resistenziale » sino

all’ultimo respiro. Quel che ora criticamente infusa da Quasimodo

c’'importa è la carica semantica,

nell’evento

bellico

distruttore

e assassino

del mito reale, genesiaco-edenico, storicamente e geograficamente siculo-greco-lombardo, dei « dolci animali », « alberi », « erba » e contadini, bambini, povera gente, nel loro comune « giorno » mortale. Sostantivo inciso nel titolo della poesia Giorno dopo giorno, esteso alla raccolta, e tutti i titoli dei libri quasimodiani sono esattamente, geometricamente progettati. Nel manoscritto de

Il tuo piede silenzioso leggiamo: Tu sai ch'è un giorno / uguale, questo, ad altri della terra (884).

16

Sono i giorni vitali, elementari, continui nell’etere felice, nella terra lieta (radice virgiliana di letame). Giorni rapiti e violentati dai « padroni della terra », ai quali il poeta chiede la restituzione e riappropriazione di almeno uno solo; chiede con ironia « sicula », componente eccitatore del lirismo, trasmesso dalla madre (« ironia che hai messo / sul mio labbro », 159), « ghigno » dal ‘ riso’ della « gazza » pagato a caro prezzo (« Per un po’ d’ironia si perde tutto », verso-clausola di In una città lontana, FVV, 169): Che non suoni di colpo avanti notte / l’ora del coprifuoco. Un giorno, un solo / giorno per noi, padroni della terra / prima che rulli ancora l’aria e il ferro / e una scheggia ci bruci in piena fronte (Anno Domini MCMXLVII, VNS, 156).

Nel « giorno » del poeta, del suo putare i « giorni » di poveri già morti 165), cantandone

umano si giustifica il devoir più che missione, « cuore », nel raccogliere pietosamente e comnegativi, traditi e insanguinati, della « catena » (sostantivo esemplato su « le catene d’erba », il pianto e il lutto:

Più i giorni s’allontanano poeti (Il mio

secondo

paese

dispersi / e più ritornano

è l’Italia,

l’assicurazione

nel cuore

dei

157),

e l’avvertimento:

i poeti non dimenticano.

Rammentate gli ultimi versi di Immortalità dell’Oboe sommerso, dove dagli elementi soffiati dallo spirito aereo dell’amore di rale gene e ico olog etim so (sen i estr terr ture crea le ano vent s’in « animali »):

Da piante pietre acque / nascono gli animali / al soffio dell’aria (OS, 118).

E. in L’Anapo: Mansueti

animali, / le pupille d’aria, / bevono

in sogno (EA, 160).

della stessi gli Sono ». d’aria pastore « il citato E abbiamo in uomini gli con mescolati animali, poesia, qui O miei dolci mutuo

animismo

(« tane » e « case »):

17

l’odore delle tane, / com'è vivo qui fra le case, / fra gli uomini, o miei dolci animali. / Questo volto che gira gli occhi lenti, / questa mano che segna il cielo dove / romba un tuono, sono vostri, o miei lupi, / mie volpi bruciate dal sangue. / Ogni mano, ogni volto, sono vostri (136).

Ancora nell’Oboe: la volpe d’oro / uccisa a una sorgiva (112).

Dicevamo degli animali umanizzati e viceversa. Il « volto che gira gli occhi lenti » sembra un bove carducciano e il « tuono », additato dalla « mano » può essere atmosferico o di qualche «O bomba d’aereo. Nella Lettera (128) il poeta chiama l'amata mia dolce gazzella », dal Cantico dei Cantici (8, 14). La stessa

mescolanza in Neve, aggiunti i « soldati » e le « madri » alla pari: Scende la sera: ancora ci lasciate / immagini care della terra, alberi, / animali, povera gente chiusa / dentro mantelli dei soldati, madri / dal ventre inaridito dalle lacrime (130).

La selezione dei «campi dilaniati » dalla guerra si illustra con il risentimento degli elementi vegetale-aereo e animalesco: s’udiva nell’aria un battere monotono

di foglie / come nella brughiera

se al vento di scirocco / la folaga palustre sale sulla nube (Giorzo dopo giorno, 131).

La « morte geranio acceso

[...] in fiore» s’eguaglia al / su un muro

crivellato

di mitraglia (Lettera,

128).

I «lupi » citati, anch’essi ambigui nel detto senso, tornano nel « lupo » de La notte d'inverno. Il poeta è sfollato in qualche paesino della « pianura » lombarda, dove sente la torre del borgo cupa coi suoi tonfi

dal consueto Leopardi: la torre del borgo [...] suon dell’ora (XXII, 51), nel cupo / del [...] pozzo (XXXIV, 258).

18

Il significato del titolo Con il piede straniero sopra il cuore, astutamente

per omosemia

metonimica,

lo troviamo,

sempre

in

La notte d'inverno (133) incarnato nel « cuore » del « compagno », contadino del poderetto ospitale, che piange la sua povera terra e impreca « con i denti di lupo » nella « buca », dove si sono rifugiati, sì che al Poeta non resta se non pregarlo di non svegliare il bambino che si è addormentato dopo il bombardamento. (L'ombra del poeta mi perdoni la parafrasi narrativodescrittiva di questa poesia come di altre, data l’ardua lettera testuale quasimodiana. Chiusa la parentesi, e non se ne parli più.) O compagno / hai perduto il tuo cuore: la pianura / non ha più spazio per noi. / Qui in silenzio piangi la tua terra: / e mordi il fazzoletto di colore / con i denti di lupo: / non svegliare il fanciullo che ti dorme accanto / coi piedi nudi chiusi in una buca (133).

La forza dei « denti di lupo » viene dal Cairo del maestro Ungaretti: O pastore di lupi, / hai i denti della luce breve — che punge i nostri giorni (Sentimento del tempo).

Parimenti, perché reale, è simbolico gnolo ucciso: la città è morta. È morta morta

(Milano,

agosto

città l’usi-

[...] E l’usignolo / è caduto dall’antenna,

[...] Non

alta sul convento

della morta

1943,

toccate

i morti

[...] la città è morta,

è

134).

Ritmo ossessivo lorchiano, dal Llanto e dal Poeta en Nueva York. fesof la nel e ral atu cre tà rie ida sol di ne io az og ol om La stessa », lli ciu fan « », o ell agn « », a erb « tra dà si te mor renza e nella dei nde fro e All in », ici sal « », sto Cri « », o gli «fi », e dr ma « salici: morti abbandonati

[...] sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnel-

lo dei fanciulli, all’urlo nero figlio / crocifisso (127).

/ della madre

che andava

incontro

al

r pe e le mb se as e ll ne o a ur et pr in e La retorica serve alle caus o, ls fa il e ro ve il vo ti la re e te en er persuadere restando indiff LS

o, tic pra e fin a ltà rea la del ure fig o pi tro di o ogn bis quindi ha superlativo o depressivo; dei quali la poesia, che è il contrario della retorica, non ha bisogno, in quanto sono reali il comparante e il comparato,

che, ad es. nel contesto quasimodiano, soffroro

entrambi egualmente; in « lamenti / d’agnello dei fanciulli », i due termini sono reversibili, sì che i « fanciulli » sono sgozzati come « agnelli » e viceversa, cioè, sono trucidati entrambi, simboli della comune animalità o umanità, non senza un senso dell’agnello pasquale. Infine, il falso e il vero in poesia non sono indifferenti né relativi, ma assoluti come dalla sostanza dei titoli quasimodiani I/ falso e il vero verde, La vita non è sogno, Visibile e invisibile. Corrivo risulterebbe opporre il titolo calderoniano La vita è sogno. Il Cristo lo troviamo negato dall’eterno Caino anche in Uomo del mio tempo, ultima di Giorno dopo giorno: uomo del mio tempo Cristo (146).

[...] T’ho visto:

eri tu [...] senza amore, senza

Il «figlio crocifisso » si ripete, o meglio si rinnova, giacché la poesia non si ripete mai, nell’« uomo spaccato sulla croce » in Colore di pioggia e di ferro (VNS, 154). Anzi, se torniamo indietro nella poesia di Quasimodo, l’« agnello », figura (reale) dell'animale, è anteriore all’« uomo », figura (reale in quanto l’altra è reale) dell’uomo. Realtà primordiale, di orrore e pietà, confitta mnesticamente dal folclore pasquale nel plesso solare del poeta bambino, fonte della « parolaurlo », come l’uccellino ucciso da Montale fanciullo. Ora ch’è notte e dolce agnello / ha urlato, con la testa di sangue / geme

l’uomo

bini dormono

al suo fianco (Del mio

odore

di uomo,

EA,

174), bam-

[...] io pure udivo un urlo talvolta / rompere

carne (Cieli cavi, OS, 80), e il nome

e farsi

tuo la luce non mi schiara / ma

quello bianco d’agnello / del cuore che ho sepolto (Compagno, ivi, 64), la volpe d’oro / uccisa a una sorgiva (ibid.), in me dolora / un airone morto

(Airone

morto,

È lo stesso «airone» risveglio alla realtà:

EA,

166).

in Ride la gazza (cit.), che segna il

e fiuta lento il fango tra le spine. 20

Abbiamo visto l’« usignolo ucciso » sull’antenna come il « partigiano » crocifisso sul palo del telegrafo, vittime eguali. È il «come » equazionale e reversibile della poesia quasimodiana e d’ogni vera poesia, restituita dalla categoria simpatetica del Novecento, compreso il suo rovescio, disumano e ludico, di tutte le avanguardie. Dirimente del compendio natura-uomo e del taglio (tipico semantema quasimodiano) tra l’innocente assassinato e il mostro assassino è l’« eliso » perduto nel segno della « croce » che ci ha abbandonati, ancora nella poesia Giorno dopo giorno: Vi riconosco,

miei

simili, mostri

della terra.

/ Al vostro

caduta la pietà / e la croce gentile ci ha lasciati. tornare

motso

è

/ E più non posso

nel mio eliso.

Il motivo della fanciullezza e innocenza perdute è rigenerato sulla lezione dei maestri (Ungaretti, Montale; Saba e la « linea » sabiana). È una « croce » che si paganizza accostata a « gentile » ed «eliso », aggiunto a « gentile » un significato siculo, laricomaterno, di cerimonia, come nella « gentile morte », che preservi l’« orologio in cucina » (Lettera alla madre, VNS, 159) non senza

riflesso della siciliana poesia cortese e del Petrarca. La desacralizzazione — sulla trafila folclorica-decadente-francescana-satanica — avvenne fin dal tempo dell’Oboe, ma ora è fissata per identificazione nel mitico « eliso » con un’umanità pura e innocente naturalizzata nel « giorno visibile », testo maggiore la poesia Un gesto o un nome dello spirito. La « vita pirata » ha sconvolto il porto felice d’infanzia, rompendo l’accordo tra fantasia e realtà, anzi l’« identità tra sogno e giorno visibile ». È, questo, il punto più oscuro della gnosi quasimodiana, l’insorgenza di un essere diabolico e maligno a un imperscrutabile orizzonte della cosmovisione del poeta. Possiamo solo intuire la riemersione dell’essere cainesco, coagulo folclorico-controriformista del peccato originale, un Anticristo nella citata Uomo del mio tempo sulla traccia dell’« angelo infernale » dell’Oboe e dell’Apòllion « amato distruttore », introiettati e poi espulsi dall’io. », [...] i simil miei osco, ricon Vi (« ato sfior Insomma, appena incon sensi: due (nei so riz0s viene ecc.) », ia « rimorsi », « inerz far(« no alia mont tà abili spons corre di vo moti scio e cosciente) il antedelir meno o più zione ifica ident di anzi »), citore o farcito? nella tore, ditta crato l’ese con , ado) Mach onirica (come nell’ultimo 21

di ci ani sat e ali ori tat dit i int ist gli a av di en cui testa Valéry comp ciascuno di noi, fino alla connivenza

sartriana tra torturatore e

cri a os pr in e ia es po in o, he oc il ch ar po ti di a iv tt ve in L’ vittima. tica, contro il mostro

(filosofo, politico, « poeta nemico », ecc.)

lus rif a nz se e re mp se r e pe or ri te in o tr et sp lo e ll pe es a ed distanzi il a nz a se zz li ca di ra si ro st No l de a ic et po ca iti pol la cui r pe so, minimo

compromesso,

lotta

senza

quartiere,

senza

riformismi,

senza patti di alcun genere. È lo stesso zo di Jorge Guillén, secco e definitivo, all’Avversario Generale.

3. La guerra e l’« antica voce ». La « non-parola » e le « parole maledette »

Il primo impatto con l’evento bellico, quanto più la scrittura è posteriore, appare di inanizione, incertezza, afasia, colpa, pro-

pizi alla secchezza e orrore dell’« urlo nero » della madre, mitraglia, lamiere, tortura, ecc.: questo vento indolente [...] forse l’inerzia, / il nostro male più vile... (Lettera, 128), Sei ancora quello della pietra e della fionda (Uomo del

mio tempo,

146).

Dicevamo

della « non-parola », la tenebra anteriore al logos

giovanneo: E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore [...] Alle fronde

dei salici, per voto,

/ anche

le nostre

cetre

erano

appese, / oscillavano lievi al triste vento (Alle fronde dei salici, 127).

Ci è noto il « vento » quasimodiano, ora intristito, fatto lieve; « oscillavano » le « cette » per ‘incertezza’ e desiderio d’essere ancora vive e poter vibrare al canto d’Orfeo che ha perduto la sua Euridice. Ed ecco che ‘ora è viva, e il poeta lo esorta a riprender la cetra: Siamo sporchi di guerra e Orfeo brulica / d’insetti [...] E ora so / che ti dovevo più forte consenso, / ma il nostro tempo è stato furia e sangue [...] Ora grido anch'io / il tuo nome [...] Euridice è viva. Euridice! Euridice! [...] urla d’amore, vinci, se vuoi, il mondo logo, VNS, 152-53).

22

(Dia-

Il « triste vento » è la « brisa MR » citata dell’ultimo verso

del Llanto di Lorca. Il resto dal Salzzo 137 (136): Appese ai pioppi

[...] tenevamo

[...] in terra straniera

le nostre cetre

[...] Come

cantare

[...] (2, 5).

I « pioppi » diventano « salici » a mezzo del coro del Nabucco di Verdi, che invece ha l’« arpa »: Va’, pensiero, sull’ali dorate ché muta dal salice pendi?

[...] Arpa d’or dei fatidici vati, / per-

Appese sono le cetre « per voto » dello stesso canto poetico a che terminino la guerra e gli eccidi: silenzio della « parola » che si somma al « silenzio » della « mitraglia ». Lo sgomento dei « vivi » obnubila il sacrificio dei « morti », la « morte per amore », che torna nelle citate « urla d’amore » a Orfeo. Il poeta non dispone di vocaboli per la « non-parola », sì che è costretto a usare lo stesso ululare della creatura animale o umana: e noi vivi ricorda dal suo arbusto

/ già l’ultima cicala dell’estate, /

e la sirena ulula profonda / l'allarme sulla pianura lombarda (Scritto forse su una

tomba,

137).

L’‘ululo’ come « parola » poeticamente è l’effetto della « non-parola » sull'uomo o animale. Le « cicale » persone del canto, le « cetre » tornate

« chitarre »:

il cavallo la rana le allucinate / chitarre di cicale nella sera (Che lunga notte, FVV, 173).

Così, ogni poesia di guerra è un silenzio-pausa o eco tra gli ordigni degli « angeli di morte » apocalittici: e la malinconia / sale dei cani che urlano dagli orti / ai colpi di moschetto delle ronde (19 gennaio 1944, 129), Che urli almeno qualcuno

a div s'u ), 130 ve, (Ne lti sepo di nco bia o chi cer sto que in / nzio sile nel Qui ), 131 , rno gio o dop o orn (Gi ie fogl di oro son e nell’aria un batter l’ul to udi s'è ), 133 , rno nve d'i te not (La a terr tua la in silenzio piangi timo rombo

/ sul cuore del Naviglio (Milano,

23

agosto

1943, 134).

Come il « piede straniero » sul « cuore » dell’uomo, nel sistedi sia poe la ta tut è che i, ral atu cre coeti pat sim ze len iva ma di equ Quasimodo. Quello che era il chiuso sfero cosmico della « parola » diventa come un aperto rifugio antiaereo, un’arca biblica sul furioso pelago della guerra. Nel suo interno il poeta ha salvato le care ombre dei padri e maestri della « parola », gli esseri innocenti della natura e gli attrezzi del lavoro umano; ivi stanno rinchiusi in ascolto dei ‘segni’ della nuova vita: Ti leggo dolci versi d’un antico, / e le parole nate fra le vigne [...] Qualcuno vive. / Forse qualcuno vive. Ma noi, qui, / chiusi in ascolto dell’antica voce, / cerchiamo un segno che superi la vita, / l’oscuro sortilegio della terra / dove anche fra le tombe di macerie / l’erba maligna solleva il suo fiore (19 gennaio 1944, 129).

Allude ai versi di Virgilio, non più della discesa agl’inferi, ma delle « vigne », l’antologizzato ne I/ fiore delle Georgiche; ed è un «fiore» virgiliano rappresentativo della metamorfosi dal « gioco del sangue dove la morte / è in ‘fiore » all’« erba » che « solleva il suo fiore » nel campo di morte; momento di speranza dalla interna virtù della Parola Poetica. Ma, se virgiliana è l’« antica voce » fatta presente, la costruzione verbale del rifugio si esegue, al solito e vieppiù intensamente, con materia leopardiana (al testo leopardiano facciamo seguire con una freccia il quasimodiano): Voce antica de’ nostri (III, 7) + antico [...] antica voce (1 e 15); La fuga [...] le tende cadute (I, 111), lugubri eventi (VIII, 35), rive desolate (XXXIV, 159) -> le tende, in riva ai fiumi delle terre / dell’est come ora ricadono lugubri (3-5); il villanello / intento ai vigneti (XXXIV, 241) > e le parole nate tra le vigne (2); profondissima quiete (XII, 6) + profondissima / notte (5-6); il vento / odo stormir (XII, 8), notte [...] senza vento (XII, 1), erba o foglia non si crolla al vento (XVI, 28), il rombo della procella (IV, 52), Dal faggio [...] mi divise il vento (XVII, 47), sotterraneo crollo (XXXIV, 108), logge (XXIV, 21) > e s’ode il vento con rombo di crollo / se

scuote le lamiere che qui in alto / dividono le logge (8-10); Vecchierel [...] vento [...] correva, corre (XXIII, 21-28) + nessuno corre [...] il vento (6-8); de’ cani la voce (XXXIX, 3), deserte valli (VIII, 27), deserta notte (VII, 44), Le vie [...] e gli orti (XXI, 24) > dei

cani che urlano dagli orti [...] per le vie deserte (11-13); cerca [...] del cammin [della vita] [...] meta o ragione (XXXIII, 29), felicità,

24

cui [...] cerca / la natura mortal (XIX, 24), vivi segni (XXI, 121), segno [...] d’instaurata speme (VIII, 61) + cerchiamo un segno che superi la vita (16); il fiore del deserto (XXXIV, titolo), aura maligna (ivi, 108), i fiori e l’erbe (VII, 39) + l’erba maligna solleva il suo fiore (19), vie deserte (13).

La XXIV di Leopardi è giustappunto La ginestra o il fiore del deserto! I versi 20-21: impietrata lava / che sotto i passi al peregrin risona

si risentono nei versi 5-6 di A me pellegrino, nel titolo: l’eco / delle cave di pietra abbandonate

Tornando

a 19 gennaio

1944, l’aggettivo di « erba maligna »

ricorre in Dalla rocca di Bergamo e tacquero gno

(138).

alta:

l’antilope e l’airone / persi in un soffio di fumo

mali-

(139)

tra Dante aere perso (Irf., V, 89), aere maligno (ivi, 86),

Foscolo: etere maligno (Sep., 94)

e Leopardi: aer muto e fosco (VII, 74), aer cieco (VIII, 60),

dove riscontriamo segno

anche il citato

[...] d’instaurata speme

/ la candida colomba

(61-62),

di « ») i tr al (« i ov nu di » a mb lo co « ripresa da Ungaretti nella ci ac « 3: 12 , II (V » e al rn fe in « e luvi ». Il « fumo » solo da Dant dioso fummo »). iot to la mi si as , a) nz ra pe -s to ut (l o È questo il forte chiaroscur ma », i on zi ta ci « te et dd si co di e rv se si ginalmente (la poesia non 25

e !) ata tiv -mo pre e ta ica lif qua gua lin », o tic poe del « dizionario gisor -ri ico ant rom o rit spi lo del o fil sul o od im as tiespresso da Qu a-P li el av hi ac -M ca at tr Pe ent Da di e or at di me no, mentale leopardia lla sci l’o a dat » no ia rd pa eo «l sul o ist . Ins cci rdu -Ca olo osc i-F rin zione agli estremi popolo-io, madre-figlio, coro-solitudine, con tutto il pathos dei calpestati e dei vinti: piede straniero (127), insegne straniere (128), Il mio paese è l’Italia,

nemico più straniero, / e io canto il suo popolo [...] il limpido lutto delle madri

(157).

Motivo dei vinti e dello straniero, che corre per tutta la tradizione. La Resistenza quasimodiana si caratterizza per un tasso maggiore, se non esclusivo, del corale-popolare, naturale-anonimo,

a lato dell’unico poeta, di « povera gente », « animali », e « madri », « alberti » e « soldati » in gruppo: alberi, / animali, povera gente chiusa / dentro i mantelli dei soldati, madri / dal ventre inaridito dalle lacrime [...] Oh questi morti. Battete / sulla fronte, battete fino al cuore. / Che urli almeno qualcuno nel silenzio, / in questo cerchio bianco di sepolti (Neve, 130).

Leopardiano il rovescio della tessitura con la gente, madri, popolo,

sepolti,

inaridito,

cuore)

per tutto

il suo

ecc.;

campo

lingua poetica di Quasimodo, nostra

sventurata

nonché

il verbo

semantico,

come

/ novo

(con

fondamentale

nella

constateremo

gente (II, 66), terra inatidita

ne riede ogni momento

battere

(XX,

grido de’ padri

avanti: 19), a percoter

[...] il clamor

de’

sepolti (III, 20-27), cor [...] percosso d’amor (XXVII, 18), nostra dolente madre [l’Italia] (II, 27), mostrando / verran le madri ai parvoli le [...] orme del vostro sangue (I, 125-27), o mio cor [...] battendo (X, 35-36), al cor, che gli ultimi battea / palpiti (XVII, 79-80).

Per popolo si vedano XXXII e XXXIV. a stranieri / nostra patria vedendo

Per « straniero »:

ancella (II, 123).

Alle citazioni su « straniero » si aggiunga: parole maledette e il sangue / e l’oro (Giorno dopo giorno, 131),

26

con tutto il disprezzo leopardiano pet tale metallo (XXVIII, 7-8; XXXII, 58; XXIV, 90). Le « insegne straniere » (128) e l’« oro » sono segni dei mercanti; le « parole maledette » sono le false o invisibili o sognate (immaginate-ipocrite) di tutti i patti iniqui e promesse ai miseri; « nemico più straniero » all’Italia (157) è un

innumerevole plurale di tutti gli stranieri compresso in un singolare grammaticale con terribile effetto di superlativo. Le colpe sono dei « miei simili, mostri / della terra » (cit.) e, con passaggio al singolare superlativo-planetario, dell’« uomo del mio tempo » (cit.), lo stesso della caverna, fissato nell’obiettivo della

« parola » giustiziera: — t'ho visto — [...] T’ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio [...] senza Cristo (146).

« Parola » imparziale, che non registra cosiddetti « liberatori »; ogni « piede » è « straniero » per tutta la tradizione che termina

in Quasimodo;

tutte tombe

senza

eroi:

Alzeremo tombe in riva al mare, sui campi dilaniati dei sarcofaghi che segnano gli eroi (131).

Altre le eroi, del cui be ignote » rammo («il luna:

/ ma non uno

tombe onorate, ignote o anonime di poveri nomi di « cuore » è testimone e teca il poeta. Sono le « tomdell’E/egia, nelle quali si contiene tutto ciò che spenostro sogno »), campeggiando su di esse la fredda

Gelida messaggera

della notte, / sei ritornata

delle case distrutte, a illuminare

limpida

ai balconi

/

/ le tombe ignote, i derelitti resti /

della terra fumante. Qui riposa / il nostro sogno. E solitaria volgi / resitu e e, mort alla luce a senz / e corr cosa ogni dove , nord il o vers Stuatil42))

Dal sintagmario leopardiano: , 75) i, (iv na rei ti not le del ] [... a lun a car O , 17) I, (XV gi vol O tu pur he ta res te not la a Orb ] [... a lun la nde Sce , 68) , (IX te gelida mor

na tur not la e luc tra ] [... i con bal pei , 17) 12fuggente luce (XXXIII, rbe l’e n ava fum ne E ] [... va gne spe si ] [... a lun lampa (VII, 41), La

5), , IV XX (X ri ita sol pi ces i tuo ), 132 X, (XI l cie o pid (XXXVII, 16), lim la cresta fumante (ivi, 278).

QI

nel ie ec sp , re io gg ma a an di ar op le te en am Ma la fonte semantic ma ag nt si l de e o, gi ag es pa e br ne fu l de » da di an -c da l'identità « geli : I) (V re no mi o ut Br l de 7 -8 76 si ver i no so », rd no il o rs ve / i lg vo « E tu [...] candida luna, sorgi, / e l’inquieta notte e la funesta

[...]

campagna esplori [...] Roma antica ruina; / tu sì placida sei? [...] E tu su l’alpe l’immutato raggio / tacita verserai.

Il vocabolario Sepolcri:

leopardiano

s’intreccia

con

il foscoliano

dei

le reliquie / della (79), ove fuggìa la pie le stelle / alle pidissima (168-69),

terra (21-22), le reliquie (36), la derelitta cagna luna (81), funerea campagna (83), i rai di che son obbliate sepolture (85-86), la Luna / di luce limfumar le pire (205), Ivi [...] dorme il [...] cenere

(254-55), Le mura

[...] sotto le lor reliquie fumeranno

(267-68).

L’Elegia e Giorno dopo giorno, entrambe del ’45 (la prima datata nel febbraio), debbono alludere allo sbarco in Sicilia (« volgi / verso il nord », « tombe in riva al mare »). Più animato, ma ancora stecchito appare il pensiero poetico nell’E/egia tra « Qui riposa / il nostro sogno » nelle « tombe ignote » e la clausola «e tu resisti », alla luna. Sembra un simbolo siculo-lunare della ‘ Resistenza ’. È necessario contestualizzare la poesia Dalla rocca di Bergamo alta, che è del febbraio-marzo ’43: l’antilope e l’airone / persi in un soffio di fumo maligno, / talismani d’un mondo appena nato. / E passava la luna di febbraio / aperta sulla terra [...] e qui l’ira / si quieta al verde dei giovani morti / e la pietà lontana è quasi gioia (139).

Sovrimprimendo « qui l’ira / si quieta » e « Qui riposa / il nostro sogno » dell’E/egia, rispettivamente « fra i cipressi della Rocca » e « le tombe ignote », è probabile che « il nostro sogno » sia positivo di speranza e luce (« ritornata limpida [...] nord [...] senza luce »), pati agli « auspicj » foscoliani dai sepolcri di Santa Croce nel famoso passo, dove riscontriamo anche i semantemi quasimodiani « qui; si quieta; riposa »: quindi trarrem gli auspicj. E a questi marmi / venne spesso Vittorio ad ispirarsi. / Irato a’ patrii Numi, errava muto / ove Arno è più

28

deserto [...] qui posava l’austero; e avea sul volto / il pallor della morte

e la speranza

(188-95)

di

« morte » e « speranza » commisti nel « sogno » dell’Elegia. Abbiamo visto « l’antilope e l’airone [...] talismani», e la stessa qualità prodigiosa e risanatrice sentiamo nella luna ‘ resistente’ dell’Elegia, eminente e perenne come il «sole» alla fine dei Sepolcri: e finché il sole / risplenderà sulle sciagure umane

(294-95).

4. Morfemi attualizzatori. Resistenza della « parola ». Questioni metriche

Tali morfemi affluiscono via via che si schiude il sistema serrato della « poetica della parola », dove la morfematica appariva ridotta o di precipuo valore semantico sostantivale, compreso persino il categorema verbale esplicito. Di questa volontà di ‘apertura’ e ‘metamorfosi’ diamo appena qualche dichiarazione dal solo Giorno dopo giorno: un mutatsi della luce / rapido intorno al cerchio che ci chiude (145),

Il riaprirsi del legno in un colore / è certezza per te [...] la mano che distesa / alzi alla fronte (140), la luna di febbraio / aperta sulla terra (139).

Cominciando dal « giorno » che si mette in movimento nel titolo specifico della raccolta: « Giorno dopo giorno », diem de die, dai numerati giorni della malvagità e della vendetta divina in Isaia: Giorno dopo giorno mi cercheranno (PS32

e vorranno

conoscere le mie vie

del o ic at em ss ta oic tm ri te an ic if gn si il to tut e ch Si può dire sua la del o nd de ce a ll nu — to na io oz em ed so os libretto è somm ta fit a un da — ta ra au st re e nt me ea an nt ta is ca classica forma organi , ora , giù lag là, , qui ì, cos , lo el qu o, st ue (q ci tti dei segnaletica di i gn se e, on zi si po ni og in ni io az er it re .), ecc e, ecco, ed ecco, ora ch e, tar esi re, lla sci l’o del o mp ca nel ., ecc 0, se, for di perplessità (se, 29

ecc.; il « forse » all’inizio di tre titoli: pp. 101, 132, anche di una « dispersa », p. 791), forme dialogiche, interrogazioni, segni ini ent rep i, tiv rta eso ed i tiv era imp i mod , ivi ett eri int e vi ati voc cambi di tempo, puntini di sospensione, presenti aspettuali, intensa e fluidificante — molto foscoliana — congiunzione copulativa e sovente con valore avverbiale e ripetuta. inarcatura versale

Dentro la fortissima e accidentata

(cosid-

detto enjambement) del dettato lirico quasimodiano rientrano i morfemi scissi dai determinati: più / che; forse / un’ora; forse / d’uccelli; quando / tempo; dove / romba; dove / varca; due volte / la gioia; Questo / lamenta; Già / m’eri; lungo / antiche tombe.

Una delle fonti « straniere » di tali modismi ridondanti-emotivi di reiterazione, allocuzione, esortazione, totalità oscura e negativa, fu il ricordato Garcia Lorca (« qualcuno; nessuno; è morta, è morta; non scavate », ecc.). Il Lamzento per il Sud di La vita non è sogno rammenta nel titolo il Lamento_per Ignazio, come Bo traduce il Llanto por Ignacio. Epitaffio richiama il modo dell’Antologia palatina, il cui Fiore uscì nel ’57: O tu che passi [...] fermati un minuto

(151).

Segue il Dialogo con il grido: Euridice

è viva. Euridice!

Euridice!

(153)

In Colore di pioggia e ferro incalza un « Ora, ora [...] » (154). Il violento deittico « là » ritma I/ mio paese è Italia: Là i campi di Polonia [...] là i reticolati [...] là Buchenwald [...] là Stalingrado [...] Oh la folla [...]! [...] e io canto il suo popolo [....] canto la sua vita (157),

ancora dal Lamento per Ignazio: Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto. / Canto per dopo il tuo profilo [...] Canto la sua eleganza [...] e ricordo una brezza triste negli ulivi,

30

ultimo verso, con il quale confrontammo Agrigentum: vento

[...] vento

[...] tra il murmure

l’ultimo di Strada di

d’ulivi saraceni (102).

Le interrogazioni: Chi piange? [...] Chi frusta i cavalli [...]? [...] Chi piange? (Le morte chitarre, FVV, 165), — Chi urla, chi urla? — (Nemica della morte, ivi, 166),

pur esse da Federico: Che cosa dicono? ciarmi?

[...] Chi increspa il sudario? Chi mi grida d’affac-

Superfluo avvertire che quelle nostre traduzioni erano sempre contenute nello sfero, direi, plastico-formale della nostra classica tradizione (nulla di avanguardistico), col tentativo di dominare e ridurre le anomalie di ogni specie. Parimenti, Quasimodo, il più interessato e rigoroso nell’osservare la lezione dei classici (e per prima dei greci, dai quali aveva cominciato), esemplari solutori espressivi dei suoi archetipi mitici, paesistici e familiari; in particolare, lo stile nominale-sostantivale di base, densamente semantematico ed epigrafico della sua incrollabile « poetica della parola »: sillaba, quantità e pausa; quantità o durata, portata dalla radice semantematica, senza atonicizzazione delle toniche o viceversa, da cui certa monotonia, gravità, pausato, nella coincidenza tra radice semantematica-grammaticale e sillaba tonico-ritmica. In questo senso è da recitare, come egli sapeva mirabilmente recitare, il suo rinato endecasillabo, saldo tra rottura e ricomposizione, melicamente cesurato eppur discreto nelle pause podiche ed emistichiche. Necessiterebbe uno studio sul confronto tra i due registri: il morfematico o sincategorematico cronotopici degli attualizzatori ed alterativi (intensificazione o depressione) e il nominale o categorematico delle sostanze e valori eterni e immutabili, ora non più 4 priori, come nel regime della « poetica della parole « nelle riconqu e istati conquis tati aspram ente ma », parola della vita »; tuttavia, continuo il processo di vitalizzazione della « parola ». a Si

L’endecasillabo, pertanto, è sintomo e simbolo della sostarla del eri cen sue le dal ita itu ost ric to pun per to tività eternale pun nel ive riv e tor let Il à. vilt la del , idi ecc ed ine rov le del , rra gue verso quasimodiano abrupto-normalizzato questa tragica vicenda, nella quale la norma rappresenta il genere lirico, unico genere, al fondo e in superficie, della poesia quasimodiana; l’illusione critica dell’epico, del tragico, del satirico, del cronachistico, realistico ecc., quindi le varie interpretazioni più o meno umortali, è data dal registro morfematico non isolabile e per sé ingannevole. Qui porgiamo soltanto qualche esempio di versi casti e assoluti di poesia « naturale » (accordo, consenso...),

che cadono

di

frequente all’abbrivo o in clausola strofica o poematica: equilibri frenanti, sentenziosi, compendi di meditazione da lunghe esperienze, certezze ancora oscillanti nel dubbio, estasi e respiri fuori

dalle nefandezze

cainesche, esatte percezioni

simpatetiche

della

natura, mistiche insorgenze della natura alla vita, ritorni all’idil-

lio o eliso ancestrale e all’assenza degli inferi, ecc.: oscillavano lievi al triste vento (127), Questo silenzio fermo nelle strade (128), l'erba maligna solleva il suo fiore (129), in questo cerchio bianco di sepolti (130), e la croce gentile ci ha lasciati (131), le lucertole guizzano fulminee (135), E vana anche l’immagine dell’acque

(138), e la pietà lontana è quasi gioia (139), come quel buio murmure di mare (141), Gelida messaggera della notte (142), dove esita l’immagine del mondo (143), varca l’Ade il tuo piede silenzioso (145), un lamento d’amore senza amore (150), Dio del silenzio, apri la solitudine (158), Per un po’ d’'ironia si perde tutto (170), chitarre di cicale nella sera (173), fra alberi eterni per un solo seme (177), la

morte non dà ombra quando è vita (183), Oscuramente forte è la vita (204),

mentre

cerco

un

tempo

senza

forma

(241),

al suo

passo

di

figlio delle acque (254), basta un giorno a equilibrare il mondo (256).

Dove entri un vocabolo alieno (per qualunque motivo) è subito assorbito nel melos endecasillabico. Ad es., la vi di « video » in potta aperta sul video della vita (238),

si significa, non tanto nella sua falsa radice di videre, quanto nell’allitterarsi con la radice di vita, seguendo all’allitterazione RT del primo emistichio (« potta aperta [...] ») con la sillaba fa

32

che chiude i due emistichi (« aperta [...] vita porta, e la rispondenza bivocalica dittongata chei iniziali dei due emistichi (« porta a[...] da sul. Quindi si purifica il crudo latinismo

») e si lega a fa di 44 ed eo nei trovideo »), bilanciati tecnico dello stru-

mento di massa, che è, in effetti, un anglismo naturalizzato, come audio da audiometer ed altri presuntuosi e grotteschi cultismi della « scienza e della tecnica ». In tal guisa, il « video » con « vita » diventa immenso nel suo concentrato corpo fonico. Naturalmente occorre inserire nella lettura dell’intera poesia, Notte di settembre di Dare e avere, che, comincia con l’Officium defunctorum e termina col verso citato, dove finalmente è la « porta » della « morte [...] aperta sul video della vita », salvezza dalla « volta gotica », in cui echeggiano i lugubri ‘tonfi’ di « tamburo »; in mezzo (verso 15) il « video della corsia », che alla

fine si trasforma in « video della vita »! Egualmente per gli ultimi versi di Dalle rive del Balaton nella stessa raccolta: un altoparlante improvvisamente / vuoto di suoni / dirà il mio nome libero dall’al di là, / Come slogan di raffiche di pioggia (240);

la fortissima allitterazione della vocale o per ben 11 volte eccita nel lettore l’analisi semantizzante i due elementi di « altoparlante »: dalto-parlante, sciogliendo nella « parola » il francesismo tecnico, cioè, legando alto a nome e parlante allo stesso mozze preceduto da dire (« dirà il mio nome »). È evidente che 4/ di « alto » ha prodotto « al» di « dall’al di là » (« libero », come, abbiamo visto, in Notte di settembre), dall’al bisillabo infisso nell’endecasillabo sottostante (« dirà il mio nome libero [...] di là »),

e. parlant di ema semant il mente fonica ando allung e tando concre atica morfem parte la ata qualific e ta assorbi viene guisa In tal ndosi risolve », nte visame improv lante altopar un « e zzatric attuali in rsale extrave Infatti, ato. glorific » «nome nel la circostanza improv« o avverbi e l’enorm è nte gracida e ingrato istanza, prima a V della legame dal mentato irreggi mente parzial », visamente del » vuoto « a e re anterio verso del » ianti villegg « quelle di i determ », cale domeni « un to elimina fu fortuna seguente. Per re. risoluto » là di dall’al « o aggiunt e » lante altopar « di nante L’ultimo verso suonava: . 0) 93 o, at ar pp (a a gi og pi di he ic ff ra Come lo slogan delle

33

La riduzione

morfematica

a endecasillabo-clausola

assoluto:

Come slogan di raffiche di pioggia,

bpu a, ern est e voc a ltr l’a e » là di al l’« za liz ura nat e za asemantiz enint te en am tu mu e nti giu con i sem i te an di me blicitaria, slogan no« sul so ver con to tut il », he fic raf « di e » ero lib « di ti ica sif me » del poeta. Le « raffiche » in violenta e rapida cesura sdruc-

ciola al corpo ben disposto di slogar un sema e fono anagrammistici di ‘colpo, slogatura, sventola, schiaffo, ganascia’ contro la canea per il Nobel dei nemici invidiosi del Poeta, adombrati nei nemici di Eschilo fatto conterraneo nella morte, come dai versi 5-10: Eschilo che riposa vicino alle bianche

/ acque del siculo Gela per

invidia / degli uomini di Atene (240).

5. «La vita non poesta

è sogno ». Matrice

bellica e resistenza

nella

Senza perder tempo diciamo subito che il contraccolpo bellico matura improvvisamente, allo stato dei testi naturalmente, i semi interiori dell’uomo e dell’artista, aftrancandolo dall’Edipo implicato nella chiusura e assedio della « parola ». Simboleggiamo nell’Edipo il mito edenico, 1’« eliso », occultante la maledizione della terra nativa e il terrore dei padri, il complesso di colpa e rimorso misto a orgoglio puerile e fittizia pazienza che fomenta e comprime la pena. Insomma, si placa e si risolve il maledettismo del gitano e del figliol prodigo, testimoniati dai documenti testuali delle poesie giovanili. È vero, come diceva Serra, che la guerra pet sé non innova un bel nulla. Sì invece se catalizza e polarizza conati e intenzioni di fondo, assopiti e cullati da costumi e regimibalie, come il lago del decadentismo, da cui si salvarono i poeti fondatori del nostro Novecento poetico. Essi sortirono, precocemente maturi, dalla guerra, nella quale più o meno illusi riconobbero il « mysterium iniquitatis » e saldarono le martirizzate virtù umane alla radice del nuovo canto e stile: Rebora, Ungaretti, Jahier, perfino Saba dei « versi militari », Sbarbaro dei « taccuini », fino ai più giovani Montale e Betocchi. Montale,

34

addirittura, in alcune poesie « belliche » della seconda guerra mondiale intravede e confonde la prima. Parimenti in Quasimodo l’immane sciagura nazionale ed europea allenta la morsa della piccola anima individua e del chiuso Verbo. Dopo il terribile impatto in Giorno dopo giorno, con il canto del non-canto o sgozzato, subentra la riflessione, prodromo di una catarsi della coscienza, che si decide, si orienta e fonda il discreto dei valori e disvalori. Un testo (testimoniale) di ciò che era il poeta e l’uomo primza della guerra ce lo offre lo stesso Quasimodo in una ritmicamente stupenda poesia di I/ falso e vero verde, Vicino a una torre saracena per il fratello morto (175), retrospettiva di quella che era l’« infanzia errata » insieme con « i cuori di viole delicate, cuori / di fiori irti dei compagni » (tutto

il fragile ed ispido puerile rammemorato e ancora vivo nella commemorazione del « fratello morto »), « favole avverse della / mente », la razionalità della coscienza, che nell’istante della scrittura presentizza ed include, esorcizza, il bruto e idillico irrazionale della sicula culla tra il ‘ divino ’ e il ‘ bestiale ’, la ‘ timidezza” e la ‘ diavoleria ’.(« Di dèi o di bestie, timidi / o diavoli »). Pri-

gione del « cuore », come

la « tagliola » per gli animali nocivi.

Questa l’« eredità di sogni / a rovescio » nella « terra di misure / astratte », nella quale l’« uomo » soccombe: « ogni cosa / è più

forte »! Consimili gli « astratti furori » dell'amico Vittorini in Conversazione in Sicilia, ciascuno scrittore facendo i conti con la propria « terra » da Alvaro calabrese dell'Uomo è forte a Dessì sardo del San Silvano, al fine di escavare la « realtà » e la « storia » dal « simbolo » e dal « folclore », figli crudeli con l’antica madre per la stessa pietà. Se fissiamo nel testo trascritto i termini « sogni [...] astratte », comprendiamo il senso del titolo di questa fulminea e breve raccoltina, La vita non è sogno, titolo che arieggia Realtà vince il sogno di Betocchi, pur esso evaso da un sangue nel ancora iale, provinc idillio un da e le mondia o conflitt la pietà per il massacro di Caporetto, intimo preludio a Notizie

di prosa e poesia. ni cu al e e on zi ra ne ge a im pr la del si ce an fr e ni lia Se i poeti ita par di e, dir ì cos r pe a, un rt fo la ro be eb a nd co se la del i an più anzi nti fro nei ca ti ma he sc e nt me ta at es le ia nd mo ra er tecipare a una gu al e on zi ra ne ge a nd co se la del i et po i e, hi rc ra ge le nazionali e nel te, par in i sat sfa o on ar ov tr si le ia nd mo ra er gu tempo della seconda 35

e ion fus con e one azi lic dup la per to, tut rat sop ma a causa dell’età, rra gue a, enz ist Res e rra gue tra , ile civ rra gue e ale ion naz tra guerra

oide ie var e za ten sis -Re rra gue o ss le mp co il tra ine inf a, e guerrigli

coti, poe I . ecc i, ial soc , ose igi rel , che iti pol , oni logie e associazi munque, non hanno bisogno di giustificazioni, né i critici si debbono all’uopo autodelegare, se i più come Quasimodo non parte-

ciparono direttamente con le armi in pugno alla Resistenza. Della quale fu — non certo in compenso — il maggiore interprete nella mimesi poetica delle patetiche impressioni, proteste, denunzie, massime e giudizi corali e popolari, e il più «resistente » fino all'ultimo respiro. Accennammo all’imparzialità verso qualunque nemico, « straniero », immune la sua Resistenza da ideologizzazioni, sì che il suo canto riuscì generico alle sofisticate e sincretistiche culture politico-sociali del dopoguerra; in parole povere non accontentò nessuno nelle terroristiche cosiddette « scelte », « verifiche » e « decisioni » laddove cantava la sofferente e sperata umanità, esprimendone i semplici e grandi luoghi comuni. La critica nel migliore dei casi usò indulgenza e scorporò la parte resistenziale, isolando il cuore idillico o. elegiaco, o quella parte usò in senso epico-tragico; nel peggiore dei casi fu imputato di retorica ingenua, se non interessata, fino alla scorporazione da tutta l’opera dell’intera produzione originale e « salvando » le traduzioni, se non i soli e soliti «lirici greci », immiserito il grande poeta a poco più di una macchietta di illusioni siculogreche; e qui giocavano nella critica o i greci nel sangue siculo o l’astratta preziosità ermetica. Gli è che dopo la breve fiammata del neorealismo e dei fideismi partitico-politici cominciava e procedeva in crescendo il disimpegno, magari con gli stessi partiti politici strumentalizzati da strumentalizzanti, agendo l’oppio del boom economico, con cui le potenze già neocapitaliste addormentavano i primi e pericolosi entusiasmi, l’euforia editoriale nostrana e straniera, le incalzanti richieste a poeti ed artisti di pubblicità (dichiarata 0, peggio, occulta) da parte dell’industria vieppiù esigente anche nell’essere contestata, la riduzione dei significati e dei valori alle strutture e griglie segniche, invertiti i significati coi significanti o i contenuti con le forme tanto più insignificanti quanto più serratamente strutturate, i conseguenti disponibili ludismi linguistici-commutatori delle prossime neoavanguardie e futuri terrorismi, pronube e congiunte le varie filosofie fenomenologiche, relativistiche, formalistiche, comprese le dilettantistiche, quanto più nefaste, ideologie neodecadentistiche, catastro36

fiche e negative, le nostalgie absburgiche, le massonico-templatie delle destre d’ogni conio e razza, cui si strofinavano i giovani leoni delle sinistre, data la comune vocazione al patriarca dittatore mutatis mutandis. Orbene, via via che s’illanguidisce la tenuta resistenziale nella media società culturale, la quale si va prostituendo, passiva e attiva, al potere politico ed economico, aumenta esclusivo l’impegno umano quasimodiano, coinvolgendo nella denunzia e protesta con marchio d’infamia tutto l’« inferno » intellettuale, criminale, atomico, ecologico, eticamente degradato, scenico-contorsionistico, schiavistico, spionistico, della « civiltà » postbellica,

nella quale la guerra continua più micidiale e totale, fredda e calda, assassina e suicida. Con questo spirito resistenziale su tutti i fronti, caratterizzato da « parola » diretta e continua nel lirismo autobiografico accentratore ed egemonico, Quasimodo differenziava e insieme si

sincronizzava coi poeti della terza generazione, più vicino Gatto con la Storia delle vittime, non meno radicali, ma più mediati e impersonali nel fine comune gli altri ermetici meridionali come Bodini, i fiorentini Luzi, Bigongiari e Parronchi, il ligure-etrusco Caproni, il lombardo Sereni, ecc. Restò stroncata dagli allusi eventi culturali e letterari la quarta generazione, con rare eccezioni: Pasolini e Zanzotto, che faticosamente e non senza distrazioni furono fedeli al verbo dei padri, alla testa Ungaretti del Dolore e Montale della Bufera, nonché il Montale polemico, lungamente e senza quartiere, di Satura ed Auto da fé. Questa sto-

ricizzazione dell’opera di Quasimodo nel quadro della più alta poesia postbellica all'insegna della « resistenza nella poesia » è un dovere della critica, e non c'è tempo da perdere. Va fatta anche contro d’altra Il pello,

Quasimodo e contro il suo mitico « poeta nemico », senza, parte, nulla falsare di quella penosa e triste cronaca. libretto La vita non è sogno di sole 9 liriche è voce d’apesortazione, preghiera, canto spiegato, domanda e attesa

della risposta, fiducia nell'uomo vero. Sono parole e sentimenti ncirico e o hius disc », ra guer di ra anco co spor « », eo Orf « d’un il ia: patr a dell e e gios reli i, liar fami e icon le e liato col mondo , mito dal i fuor ata scit risu a spos la dice Euri a, mort ie mogl Sud, la priin ti aman i degl io idill vo nuo il so, ifis croc l’appello all’uomo ia, Ital re mad la , pace di no gior solo un per lica mavera, la supp atto risc Il o. tutt è a: poet del rale natu re mad il Dio del silenzio, la dele o corp del e mort a dall », to «lut dal e » dalla « ruggine 37

no vi di » e bil isi inv « un d’ so lo co ra mi a ll nu sul o at l’anima, è fond

mse il n co e im pr es a et po il e ch el qu a, rs ve ce vi e perché umano, àTh in me co », o rd su as l’ e il ib ss po « », o rd su as « o iv tt ge plice ag natos Atbànatos, la ‘ morte immortale’

da contestare.

Nel Lamento per il Sud il poeta si è naturalizzato per sempre nella seconda patria lombarda, dov’è il suo « cuore », e più non tornerà nella terra natia, mentre ne evoca tutte le infermità e stanchezze, fino alle piste / nuovamente

rosse,

ancora

rosse,

ancora

rosse

(149),

identificandosi nel distacco dal Sud con i suoi fanciulli [che] tornano sui monti, / costringono i cavalli sotto coltri di stelle, / mangiano fiori d’acacia,

vaga eco ancora del Lamento per Ignazio: Vicino al Guadalquivir delle stelle [...] Voglio vedere [...] quelli che domano

cavalli

[...].

re

È un dialogo con l’amata, la « donna del Nord », sfondo nuovo di vita da qui innanzi, contro solitudine e morte in Giorno dopo giorno, di cui ci basti ricordare le clausole di sangue, « noia » e desolazione: le loro

tombe

[...] gli uccelli

neri

(146),

varca

l’Ade

il tuo

piede

silenzioso (145), Dunque, tu sei morta (144), senza luce alla morte (142), come quel buio [...] (141), verde dei giovani morti (139), parlano a mezza voce della morte (138), Ancora sale la noia dalla terra (137), quanto sangue nei fiumi della terra (135), la città è morta,

morta (134), in questo cerchio bianco di sepolti (130), ecc.

Citammo La notte d'inverno; il poeta tra « torre del borgo » e « nebbie », in compagnia del povero contadino che piange il campo distrutto dalla guerra e del suo figlioletto « coi piedi nudi chiusi in una buca », chiude il racconto con una sorta di disperato rifiuto-sacrificio degli esseri e pensieri più cari: Nessuno ci ricordi della madre, nessuno casa (133).

38

/ ci racconti un sogno della

Parimenti

invernale

la scena

intima

(«sera

[...]

nostra »)

familiare con l’amata nel Lamento per il Sud: La luna rossa, il vento, il tuo colore / di donna del Nord, la distesa di neve... [...] E questa sera carica d’inverno / è ancora nostra, e qui ripeto a te / il mio assurdo contrappunto / di dolcezze e di furori, / un lamento d’amore senza amore (149-50).

Le « dolcezze » sono la terra e la donna lombarde («il tuo colore / di donna del Nord [...] le terre e i fiumi della Lombardia »), i « furori » per il « Sud » di « malaria », « solitudine »,

« catene », « bestemmie » echeggianti nei « pozzi », dove è colato « il sangue del suo cuore ». Ma « dolcezze » sono anche le interne visioni

sicule

(mare,

conchiglia,

cantilene,

carrubo,

aironi, gru,

verdi altipiani). Di qui l’« assurdo contrappunto » del « lamento » negato ed ancor più «lamento ». Rammentammo gli antichi « astratti

furori » di Vittorini,

in questo

tempo

per

entrambi

divenuti reali, sempre dentro l'immaginario poetico. I vocaboli « furori » e « assurdo » ricorrono quindi in Thdnatos Athànatos, la più intensa poesia della serie e delle maggiori del Nostro. Potremmo dirla il carme quasimodiano. Dei sepolcri, attendendo alla coincidenza patetica e noetica con l’assurdo dell’« illusion » di sopravvivenza da cui muove il carme foscoliano, esemplare del valore umano contro la morte: Ma perché [...] a sé il mortale / invidierà l’illusion che spento / pur lo sofferma al limitar di Dite!

/ Non vive ei forse anche sotterra

[...] e serbi un sasso il nome (23-38), A lui non ombre pose città [...] non pietra, non parola (72-75).

[...]?

[...] la

E ora leggiamo la poesia del Nostro: / o, viv re fio del Dio , ori tum dei / Dio i, art neg ue nq du o E dovrem e tir sen con e » o son «io tra pie / a cur ’os all no un e cominciare con thà « za: tez cer tra nos / a sol la re ive scr ba tom i ogn alla morte / e su e rim lac le / ni sog i i ord ric che me no un za Sen / »? tos àna natos ath Il / ? rte ape ora anc e nd ma do da tto nfi sco / o uom st' i furori di que il re olt / Là . rdo ssu l’a ile sib pos ora / a ent div a; mut o log nostro dia / , lie fog le del a enz pot la ila vig / eri alb gli fumo di nebbia, dentro o Ver no. sog è non a vit La / e. riv le sul me pre vero è il fiume che i apr io, enz sil del Dio / io. enz sil del l’uomo / e il suo pianto geloso la solitudine (158).

39

mo lti l’u ta en mm ra ci » ” o son io “ tra pie / ura osc .] « Dio [.. sonetto delle Chimzères di Nerval: rit esp pur un .] [.. hé cac u Die un ite hab cur obs tre Souvent dans l’é s’accroît sous l’écorce des pierres!

Del tutto diverso è, invece, dall’« estinto » foscoliano: [...] Celeste è questa / corrispondenza d’amorosi

sensi [...] per lei

si vive con l’amico estinto / e l’estinto con noi [...] (29-33),

il quasimodiano, e quindi da essa « corrispondenza » il « dialogo » dei morti quasimodiani

coi vivi. Pongono

essi (« quest'uomo »,

lui e uno qualunque) terribili domande, ancora cocenti i loro « sogni, le lacrime, i furori »: ‘— In chi, perché abbiamo creduto, sognato, pianto? Per qual motivo e per qual fine abbiamo combattuto o siamo stati sacrificati? Pur disillusi, non finiamo di domandare: perché? ’. Il poeta sembra rispondere in anticipo, domandando in due interrogazioni retoriche, che eccedono di un verso la prima metà del componimento; nella seconda le domande implicite dei defunti. Nella prima emerge il « Dio del fiore vivo », aggettivo

evangelico

giovanneo,

come

il « pane

vivo »

(6, 51).

È segno che il « dialogo » è cambiato, soggetto e oggetto, ‘ vita ’ e ‘verità’, anch’essi semantemi

evangelici, e qui soccorre la po-

tenza della natura, che dissipa «il fumo di nebbia » (« vigila la potenza delle foglie »). Non c’è contraddizione tra i « sogni » dei poveri defunti, — che con « lacrime » e « furori » erano illusioni e disillusioni, speranze e disperazione — e « la vita non è sogno »; in Nemica della morte (166) si hanno « sogni veri » e nella poesia II falso e vero verde (162) l'amato rimpiange i « giorni » e i « sogni », dei quali l'amata non più fiorisce. In Epitaffio (151) il poeta si dichiara uno come tanti, « operaio di sogni », sì che in Thanatos Athànatos ci par di vedere sterminati cimiteri di guerra, cimiteri di « sogni » di poveri e comuni mortali, su ciascuna « pietra » inciso il « nome » di ciascuno, glorificato dalla Poesia che ha vinto ‘la motte non più immortale’. Su questa lirica, che riflette la prima parte generale e umana dei Sepolcri foscoliani, simpiantano i canti funebri per le vittime e i caduti, che rispondono ai « forti » e ai « grandi» della seconda parte dei detti Sepolcri, con nomi o senza nomi, con pietra o senza pietra, ancora poveri e comuni mortali, non meno « grandi » e 40

« forti ». Sono i cinque canti:

Ai quindici di Piazzale Loreto,

Auschwitz, Ai fratelli Cervi, Alla loro Italia e le Due Epigraf (per î Caduti di Marzabotto e per i Partigiani di Valenza). Tutti

da riportare a « quest'uomo » e al « Dio del fiore vivo » di Thd-

natos Athànatos

(«la vita è qui» nel verso

14 di Auschwitz).

Ma è la nota evangelica-fraterna che caratterizza il « sepolcro » quasimodiano, se confrontiamo « l’uomo / e il suo pianto geloso del silenzio » e il « Dio del fiore vivo » con « l’uomo che in silenzio s’avvicina » e il « fiore di geranio » negli ultimi tre versi della poesia anteriore, Quasi un madrigale: E l’uomo che in silenzio s’avvicina / non nasconde un coltello fra le mani / ma un fiore di geranio (155).

Paura del silenzio che è la stessa morte definitiva senza il nome sulla pietra, anch’esso vocabolo evangelico. Negativo, con « morte » e « solitudine », di assenza della verità. L’intreccio di queste poesie costituisce un poema unico. Ora stiamo leggendo Colore di pioggia e di freddo. È lo stesso « uomo » di Thànatos Atbànatos

che

domanda

sul senso

della

sua

vita e sacrificio,

«uomo » e ‘ Cristo ’ sacrificato: morte silenzio solitudine [...] Parole / delle nostre provvisorie immagini [...] il tempo colore di pioggia e di ferro / è passato sulle pietre, / sul nostro chiuso ronzio di maledetti [...] E dimmi, uomo spaccato sulla ctoce [...] come risponderò a quelli che domandano? / Ora, ora: prima che altro silenzio / entri negli occhi [...] (154).

E nel Dialogo, poi che Orfeo ha perduto Euridice: Questo

silenzio è ora più tremendo

/ di quello che divide la tua

riva (153).

Rispetto al « chiuso ronzio di maledetti » si spiega l’appello: Dio del silenzio, apri la solitudine.

re fio del o Di « n co e em si in »; io enz sil « Non ambiguo questo si« il è e ch e rt mo la o tt fi on sc ha e ch o in ol pa to is vivo » è il Cr ne io iz os ep pr la del no ia od im as qu o us lo ip lt mu lenzio », secondo il te pe ri » ce cro la sul to ca ac sp mo uo l’« nel o at rn di. Il Cristo, reinca i de de on fr le Al di » o af gr le te l de lo pa l il « figlio / crocifisso su

41

salici e i poveri morti senza

ormai più voce

di Arzo

Dorzini

MCMXLVII: non E / ». to? cia las ai m'h ché per / Dio o Mi « da: gri o sun E più nes scorre più latte / né sangue dal petto forato (156);

e ancora nelle negre di Harlem, «legittime crocifisse » (242), assente nel cainesco Uorzo del mio tempo, « senza amore, senza Cristo » (146).

Questo filo dell’uomo-Cristo, materno e fraterno di sangue e pietà, percorre il canzoniere quasimodiano di guerra e dopoguerra. Materno è il « petto forato »; nella citata Alle fronde dei salici: « l’urlo nero della madre »; in Neve (130): le « madri / dal ventre inaridito dalle lacrime »; « Nessuno ci racconti della madre » in La notte d'inverno (133); in A me pellegrino: «e le donne, / laggiù, nei neri scialli », che sembrano figure di Cantatore o C.

Levi; Italia maternizzata in I/ mzi0 paese è l’Italia, poesia chiusa dal verso: canto

[...] il limpido lutto delle madri, canto Îa sua vita (154)

La vita non è sogno si chiude con la Lettera alla madre, testo maggiore di liberazione dal mito siculo, ricorrente ma dominato e filtrato; di liberazione dal plesso del figliol prodigo, che si ricon-

cilia senza patetica sceneggiata biblica, giacché mira dalla propria sofferenza di « pellegrino » (« quel ragazzo che fuggì di notte »), impavido e maturo, il terribile archetipo materno, la cui sacrificale metamorfosi in benefico e salvifico ha fruttato l’onore del figlio, entrato nella giungla umana (nucleo di Dare e avere): non sono / in pace con me, ma non aspetto / perdono da nessuno, molti mi devono lacrime / da uomo a uomo [...] Quel sorriso mi ha salvato da pianti e da dolori (159).

La proiezione nell’imz4go speculare materna diventa assimilazione delle parti dialogate madre-figlio, compresa la « morte », risolvendosi la «lettera » in retrospezione autobiografica, non tanto di ricordi, quanto di qualità ed essenze morali e sentimentali; e così lei « povera », lui « povero », lei « giusta nella misura d’amore », regola di vita per il figlio, ecc.; il tutto nella cornice d’invocazione letanica lauretana in chiasmo: 42

Mater dulcissima [...] povera / e giusta nella misura d’amore [...] Povero, così pronto di cuore [...] ironia [...] mite come la tua [...] Quel sorriso [...] gentile morte [...] morte di pietà, / morte di pudore [...] mia dulcissima mater.

Aggettivi e sostantivi di qualità antichi o riconfermati. L’« ironia » (« che hai messo sul mio labbro ») torna nel verso-clausola in corsivo di In una città lontana: Per un po’ d’ironia si perde tutto (170);

« mite » della stessa « ironia [...] come la tua » risale a « Tindari » pur essa materna e salvifica: « mite ti so » (10); uso qui del verbo sapere, che non ha nulla a che fare con D'Annunzio e gli opinati « ermetici », ma è il siciliano « te sacciu », come « te sacciu vecchio; te sacciu bbonu; ni sapimu » pet ‘ti conosco, ci conosciamo, intimamente da molto tempo ’, quindi ‘ti conosco e ti ritrovo nella tua intima mitezza rasserenatrice ’. Prima dell’« Addio » l’invocazione alla « morte » come terzo personaggio intermedio e sostanzialmente finale (compreso l’« Addio »); ancora morte-pietà di Ungaretti maestro: O morte di pietà, / morte di pudore [....] (160).

E qui si esaurisce la funzione della madre specchio passivo e inerte di infinita ‘ dolcezza’, pura terra dei semi umani del figlio, che si è fatto uomo ed è passato oltre alla « donna », alla compagna « viva » di turno. Litania e quasi lapide alla madre. Epitaffio proprio è quello per Bice Donetti, di tre anni anteriore; la consorte e donna del primo amore, anch’essa inerte ed esaurita con uso autobiografico: quella che non si dolse mai dell’uomo / che qui rimane, odiato, coi suoi versi, / uno come tanti, operaio di sogni (151),

rispondente a molti mi devono

lacrime

/ da uomo

a uomo

(159)

vigio la del .] [.. a nn do « la ita arc ris e; dr della Lettera alla ma nel (« sa fos la del i em tr es i gl de tta esa nezza » con indicazione co pi to e ») ta an ss se ci di un sa fos .] [.. o campo quindici a Musocc 43

re uta sal a to nu mi un « si mar fer di te san pas al invito palatino [...] ». Altra donna è liquidata nella poesia I/ falso e vero verde (168). In totale, sono sepolte figure muliebri della propria morte e della propria « giovinezza », sedimenti di spente memorie e tracce di pietà. Su queste ceneri familiari, commiste a quelle della guerra e della Resistenza, non diverse nel profondo, s’innalza il nuovo canto orfico nelle figure di Orfeo, che per volontà (« senza la sferza »; « se vuoi ») emerge dal fango e dal sangue della guerra, e di Euridice « viva », simbolo della « vita » restituita con la

forza dell’« amore »: E tu sporco ancora di guerra, Orfeo, / come il tuo cavallo, senza la sfetza, / alza il capo, non trema più la terra: / urla d’amore, vinci, se vuoi, il mondo (153).

È il Dialogo, che comincia con la « voce antica » di Virgilio, trascritti i versi 471-72 originali dell'episodio di Orfeo incluso

in quello di Aristeo nel IV dei Georgicon, tradotto nel ricordato Fiore delle Georgiche; versi che diamo in tale versione del poeta: E subito dal più profondo Erebo, commosse vano leggere e parvenze di morti (555);

al canto, / ombre veni-

e « Ombre venivano leggere » ricorre al verso 31 del Dialogo. Dopo di che s’inserisce il paesaggio milanese, brevi ricordi d’infanzia: io vidi

/ da ragazzo

arbusti

di bacche

viola

[...] e cavalli

[...] E

qui / l’Olona scorre tranquillo, non albero / si muove dal suo pozzo dira dicis((153)

L’allitterazione « Ombre [...] Olona [...] Orfeo [...] mondo » è significativa della dolce e attiva dimora lombarda di nuova vita, catalizzando l’interposto « Olona » il rovesciamento del mito di Orfeo non più sbranato dalle Baccanti: O non eri Euridice? Euridice!

Non eri Euridice!

/ Euridice è viva. Euridice!

Nel contempo si rigenera l’infanzia e il suo futuro destino nel simbolo del cavallo siculo:

io vidi [...] cavalli, misteriosi animali / che vanno dietro l’uomo a testa alta [...] Orfeo, / come il tuo cavallo, senza la sferza, / alza Ilecapo li..].

L’ungarettiano « È nei vivi la strada dei defunti » s’inverte in I vivi hanno perduto per sempre / la strada dei morti e stanno in disparte.

Ma nulla di acquisito, nulla di evoluto o involuto o dialettico, moti estranei alla poesia, che ricomincia sempre da capo e dice sempre altro. Non facile né gratuita questa risalita del poeta orfico dagli inferi alla « terra impareggiabile », sosta d’amore con la sposa « viva », mentre ancora incalza la morte inesausta. In Quasi un madrigale il lettore può immaginare Orfeo e Euridice « dentro la cerchia / dei Navigli », felici e padroni del loro « giorno » umano, cancellata la « memoria » del passato, fanciullezza rinata, vivi nel loro « giorno dopo giorno » d’una vita infinita, ma già in ombra la luce occidua, abbuiandosi « sull’argine del canale » il verde dell’acqua, e il pensiero al « giorno » che si fermerà per sempre. 6.

« Il falso e vero verde ». Il « corvo » e la « bellezza ». Verso il « visibile »

La morte

esterna,

parte;

da una

l’insofferenza

interna

del

« corvo », dall’altra; ed Euridice è « viva » per poco. Passiamo così a Il falso e vero verde, serie ritmata in 3 sezioni di 4 poesie ciascuna e una quarta di 2. Dunque, il « corvo » penetra astuta-

mente nel « giorno » felice degli amanti, con l’alibi di esser « vero », accentuando, quindi, il simbolo tafofobico: un corvo / vero [...] astuta immagine / entrata nel giorno che finiva in noi [...] un segno / felice, uguale ad altri / quando provavo la mia mente in ogni / suo limite e figura [...] Forse gioco attesa/violenza: / la paro una i ttav Aspe [...] o tutt e perd si / onia d’ir po’ ma per un tuo del aria nell’ ì spar e [...] e vols si o corv il Poi a te ignota o mia? occhio verde (In una

città lontana,

169-70).

za tan sos in ma », de ver hio occ l’« del ne gi ma im l’ ca es Madrigal in nda ibo fur sa spo la dal a, fug di no seg ro il corvo sparisce. Alt re: ila io ina mar del za ten par di cie spe to sot lacrime 45

e strote di ballate / di marinai e l’urlo del distacco / d’una nave che apriva ali furiose [...] di lacrime delle donne / dei porti.

Accennammo al precedente di « per un po’ d’ironia si perde tutto » in « ironia che hai messo / sul mio labbro [...] Quel sorriso mi salva [...] » della Lettera alla madre, con la differenza, di poco conto per la donna, « mi salva » / «si perde tutto »; « si perde tutto » per acquistare altro, o illudersi, giacché chi ci perde è Euridice invecchiata o morta di nuovo per troppa bellezza e troppa grazia (Nezzica della morte), spacciata dal « corvo », mescolandosi l’« ironia » con l’‘ astuzia’ e col « sorriso » bef-

fardo; così almeno intuibile da parte del povero Lettore, che annaspa come il sottoscritto in questi testi singolari e privati, ancora inesplorati, con rari appigli circostanziali, data la tecnica residua di poesia pura, che elimina il dato cronachistico; non ermetica, che non elimina nulla, come in altre parti della poesia quasimodiana. Il « segno / felice » che è il « corvo » significa la innumerevole caccia felina al « dolce animale », di Euridice in Euridice

morta

e rimorta.

Vediamo

che sta invecchiando

anche

il poeta, pregno di greca forma e natura, tornato immaturo morte, speculatore dell’attimo; e ha bisogno di « vero verde carne fresca del presente, da cui opiniamo che sia « falso », trascorso, il « verde » dell’« occhio » di quella donna «in

alla » o già una

città lontana ». L’insistito « verde », l’« occhio », le « ballate / di

marinai » ci ricordano natura:

il ritornello

lorchiano

di viva e libera

verde que te quiero verde [...] la barca sul mare [...] verde carne, capelli verdi, / gli occhi d’argento freddo [...] viso fresco, neri capelli [...] la barca

sul mare

[...] (Romzanza

sonnambula).

I «capelli» e il «volto» (anche « velluto » è lorchiano, sempre nella traduzione di Bo) li troviamo nella poesia, appunto, Il falso e vero verde, che dà il titolo alla raccolta: sorriso,

volto

[...] veste,

il velluto

[...]

avvolto

ai capelli

[...]

quel

tuo

[...] (168).

Dall’« ironia », trasgenere rovesciato dell’« elegia », il passo è breve al secondo trasgenere della satira, in apparenza pietosa e crepuscolarizzata, in effetti esplosa con un « ghigno scatenato /

46

del certo fiorire » contro la donna che più ‘non fiorisce * e ‘ non mette giorni’! O forse morta. È la certezza dell’avvento del nuovo aprile o «vero verde », che con le sue « altre foglie » seppellisca la memoria del passato aprile o « falso verde », tempo rappresentato dalla donna esaurita e liquidata; rivediamo 1’ ‘occhio’ e il « viso », il proprio viso anch'esso invecchiato: E tu non fiorisci / non metti giorni né sogni che salgano / dal nostro al di là, non hai più i tuoi occhi / infantili, non hai più mani tènere / per cercare il mio viso che mi sfugge?

Il « ghigno scatenato » del « vero gabile al « corvo / vero » della citata due poesie sono affiancate); « vero », l’« uomo », il poeta, a mezzo di « ride

verde » aprilegno è colleIn una città lontana (le cioè, simbolo reale della gazza, nera » dell’omo-

nima poesia (121), del « ridere senile / dei migranti acquatici »

di Piazza Fontana (109), di « sghignazza la faina » (Il traghetto, 144), ecc.

Sono segni ghignanti, vegetali e animaleschi, di felicità primaverile, sognata dall'uomo mortale fra i due crepuscoli, quindi di contrazione reattiva, risanamento — ed è quel che conta agli effetti della poesia — di certa eccessiva dolcezza e tenerezza, col rischio di slittare nel mielato e lascivo larico e folclorico. In tal guisa l’avveduto Lettore recita « O dulcissima mater » in contrappunto

col « ghigno

scatenato », e viceversa.

È certo che in

questa fase, del resto ricorrente, di « sorriso » o di « ghigno » non attecchisce la radice poetica della scrittura testimoniale e salvifica. Non è tale, ma rinunzia e ozio, appena « pudore », la cronaca versificata della senile desolazione in alternativa con I’« urlo al vuoto », come alla fine di I/ falso e vero verde: di / si ver re ive scr di ore pud il ta Res ] [... gge sfu il mio viso che mi .]; [.. le ibi red inc re cuo nel o / to vuo al o url un e diario o di gettar

ires di ce pa ca sia to an qu e er ed cr n no da ‘ « incredibile » significa la nel e il im ns co e, or cu il e rs Fo di o rs ve o im lt stere ’, come nell’u stasi d’afasia: 01 32 (1 .. re. cuo il e rs fo ta, res ci e or cu il e rs fo Le parole ci stancano [...]

a ll de a ic et po « ta ri au es a ll de Tocchiamo con mano il punto al a st po », za ez ll be « la è ne io az rn ca in parola », la cui estrema

47

e ar pl em es n d’u ea op op os pr la nel o, man l'u e le ura nat il limite tra in a) son per 2° la del le ca ti ma am gr rma (fo are app me co muliebre, Nemica della morte

/ a Rossana Sironi. Essa dimostra teorema-

ticamente al poeta contemplante-rammemorante l’assurdo d’una permanenza della « bellezza » in un corpo mortale, quanto più la rappresenta e la contiene, per cui è uccisa da lei stessa che la impersona. Qui si risale alla, non per molto, tradizione neoplatonica rinascimentale di Leone Ebreo, cui si ispirò il titolo L’illusione platonica d’un libro di saggi di Mario Luzi. Questo compianto funebre è una delle più « belle » liriche del Novecento e va trascritto per intero; riscattato lo « scrivere versi / di diario » o, qui, il « monotono

/ diario degli uomini »:

Tu non dovevi, o cara, / strappare la tua immagine dal mondo, / toglierci una misura di bellezza. / Nemici della morte, che faremo / chini ai tuoi piedi rosa, / sul tuo costato viola? / Non hai lasciato foglia né parola / dell’ultimo tuo giorno o un no a ogni cosa / apparsa sulla terra, un no al monotono / diario degli uomini. La triste, estiva / àncora di luna trascinò via / i tuoi sogni: colline alberi luce / notte acque; non confusi / pensieri, sogni veri / staccati dalla mente che

decise / improvvisa per te / il tempo, la viltà futura. Ora / sei dietro dure porte, / nemica della morte. —

hai ucciso in un soffio la bellezza

Chi urla, chi urla? —

/ l'hai colpita per sempre,

/ Tu

l’hai

straziata / senza un lamento per la sua folle / ombra che stende su noi. Non bastavi, / bellezza, solitudine disfatta. / Hai svolto un gesto nel buio, hai scritto / il tuo nome nell’aria o quel no a tutto /

ciò che brulica qui e di là dal vento. / So che volevi nella veste nuova, / so la domanda che ritorna vuota. / Non c’è per noi, non c’è per te risposta, / o muschio e fiori, o cara / nemica della morte

(166-67).

Il poeta geometra usa «la misura di bellezza » di Rossana come «la misura d’amore » della « madre » (159), come le trecce chiuse in urne / di vetro [...] sono reliquie / d'un tempo di saggezza, di sapienza / dell’uomo che si fa misura d’armi [...] (185),

«urne» e «reliquie », foscoliane soprattutto nei loro valori umani. Tale « misura » è ora abolita insieme con l’« immagine », la « foglia » e la « parola », da cui l’equivalenza di un « no a tutto », la « domanda [...] vuota », nessuna « risposta ». La « misura » 48

presuppone la « bellezza » come modello, esemplare, idea platonica, ma non trascendente, sì della stessa « mente » immortale della donna « nemica della morte », la quale « mente [...] decise / improvvisa per te / il tempo, la viltà futura », cioè, ‘la tua morte al vile mondo senza e dopo di te’, « al monotono / diario degli uomini », cioè, ‘alla cronaca vuota e senza senso ”.

Sparita con lei anche la natura da lei sognata, epperò era vera, la sola vera: i tuoi sogni:

colline alberi luce / notte acque, sogni veri [...].

Quindi il rifiuto della ‘terra apparente’ che è « morte » («ogni cosa / apparsa sulla terra ») è il significato di « nemica della morte », o la « morte » abolita con la « morte », di cui resta l’« ombra » o un nulla insensato; sparito l’originale, archetipica « bellezza », indifferente alla propria « ombra »: senza un lamento per la sua folle / ombra che stende su noi [...].

Ma di questo arduo e vertiginoso poema importa soprattutto l’identità della « bellezza » e della ‘ poesia’ nei sintagmi « nemica della morte », che è la donna, e « nemici della morte, che faremo [...]? », plurale grammaticale, come il « noi » del verso 30, solubile semanticamente nel singolare, nell’io del poeta, e per ciò nell’attante della poesia. La ‘scrittura’ di Rossana coincide con quella del Poeta: hai scritto / il tuo nome nell’aria o quel no a tutto [...] Non c'è per noi, non c’è per te risposta [...].

Flagrante è la crisi « novecentesca della trascendenza, che seinione azi neg La . ata enn acc ica ton pla neo lla que da si gno para tale lo del nza sse l’a e iem ins e ne zio fin la zza eri att ziale e finale car i agl sus cen des un in e olv ris si che s, nsu sce l’a del o, tic mis slancio inferi con una traccia di totale desolazione: Non

bastavi, solitudine disfatta

[...]

a’ rl ‘u chi ne be sa si né ; o’ nd mo al ito ist res i ha significa ‘non lei e rs fo », — ? la ur chi a, url i Ch — .] [.. e « dietro le dure port ». e rt mo la del ci mi ne « bi am tr en a, et po il », i no « e 49

Lo consideriamo, questo, un passaggio obbligato, una verifica cam o sol del , pre sem per a ut rd pe e dic uri l’E del i vil e in corpor mor « la del » te por e dur « le dal e ion ers onv ric la mino consentito, , tre res ter co ni me no fe del ana thi goe a nz re pa Ap de an Gr a all » te imra Ter a all ta tes in » le ibi vis « il rà ne mi no de o od im che Quas pareggiabile. Ossia si converte in un ‘ sì’ il no a ogni cosa / apparsa sulla terra [...] quel no a tutto / ciò che brulica qui e di là dal vento [...], assunti i « sogni veri », i « pensieri » (« non confusi »), concepiti

dalla « mente » della « bellezza », nella loro verità e realtà.

7. L’« isola » riformata nel principio « resistenziale »

Di qui muove la revisione di tutti i miti biografici, tradizionali, folclorici, archeologici, ecc., costituenti il patrimonio del « siculo greco » (218), cominciando

dalla breve sezione Della Si-

cilia, cui segue il martirio resistenziale di Quando caddero gli alberi e le mura. Ora, la poesia autentica si caratterizza dalla sua stessa natura o « naturalezza » (Luzi) non programmata né dialettica. Il poeta non decide da un momento all’altro né vuole in conseguenza; si lascia decidere e volere nella interna maturità della sua decisione e volontà, ove e quando i dati in gioco si siano assimilati e combusti. Nel Nostro il no alla terra diventa un sì alla terra « impareggiabile » o « vero verde » o « visibile ». In mezzo ci sono i detti miti, concrezioni millenarie, sogni umani, universali fantastici, che non si lasciano facilmente demistificare, e il vero poeta li lascia liberi nelle loro reazioni e legittime difese, affinché da sé si persuadano alla propria motte, o meglio, riqualificazione nella poesia. Così, assistiamo alla lotta intestina delle figure sicule. Esse anzi esultano nella prima poesia, Le morte chitarre, ossimoro significativo; eroiche ed intense di toni e colori, esaltano, a mezzo della maniera lorchiana, le fonti caratteristiche ambientali e folcloriche. Il poeta come un gitano si aderge e si stilizza asciutto in sincronia con le immagini ardenti e secche della sua terra autentica dentro il suo specchio lunare, non di quella falsa o estranea,

ri-

flessa nello « specchio / infinito », nebuloso e indeterminato d’altra luna, cui lo invita e seduce la compagna lombarda: 50

Nello specchio della luna / si pettinano fanciulle col petto d’arance [...] e tu amore / non portarmi davanti a quello specchio / infinito [...] Chi piange? Io no, credimi: sui fiumi / corrono esasperati schiocchi d’una frusta, / i cavalli cupi i lampi di zolfo. / Io no, la mia razza ha coltelli / che ardono e lune e ferite che bruciano (165).

Il vocabolo «lune » per ‘specchi’ è una trascrizione traduttoria di Bo dal testo lorchiano. Ma questo siculo andalusismo dal Romancero gitano fu subito rigettato; assimilato, invece, da Bodini che elesse Quasimodo maestro della sua « Esperienza poetica » (dove apparve uno studio, pur contraddittorio, dell'amico Luciano De Rosa); in sostanza Bodini lorchizzava e salentinizzava le immagini sicule del Nostro, come il carrettiere e le forme cubiste naturali- della sua terra. Insomma, Le morte chitarre è come una prova della resistenza della terra tradita alla verifica del reale; il mito siculo è ancora immune, e per questo motivo tale poesia, crediamo, non è inclusa nella sezione Dalla Sicilia, che comincia invece con Che lunga estate, echeggiando le « morte chitarre » nelle « chitarre di cicale nella sera » dell’ultimo verso. Ma l’affetto

e il tono verso le figure sicule qui è cambiato. Non s’impongono nette e polemiche, cercando — montane sotterranee zodiacali etniche folcloriche favolose — di sedurlo ancora, sillabandosi ad una ad una in un lungo sospiro monostrofico, nel ricordargli il suo imperio erotico-regale tra « solitudine » e « dialogo »: Che lunga notte [...] come un re di Dio [...] Iblei dai coni delle Madonie [...] l’occhio del brigante. E l’Orsa / ancora non ti lascia [...] e non ti lascia il rumore dei carri / rossi di saraceni e di crociati [...] animali

stellati

[...] cavallo

[...] cane

[...] rana

[...] chitarre di

cicaleale2|8(073):

Si badi: « ancora non ti lascia »! Una scia d’inerzia è già rimpianto. A queste evocazioni musicalizzate — cose-parole direttamente agenti — il poeta resta affascinato, con gli occhi « entrea-

a nell de acca o, egli risv il , ione reaz La o. hian lorc no gita di biertos » inua cont in a epit conc ine, coll e dell e ond e dell là seguente, Al di ato mbr sme fu ) lata (Bal nto ime pon com o itiv prim il di zione; quin e zion reda i, titol i nuov due ai fino » i lian sici in due « Frammenti one ragi la E i. imil facs i e porg e itor l’ed cui di molto tormentata, ione oluz l’ev etto (ogg co isti ingu epil o mod in a poet Il è evidente. l’antra, e: zion rela pia dop una nire defi deve della propria poesia)

pa« a dell fase la quel in » vita « la e » la paro a dell tica « poetica DI

caedu ed rio rti (ma » e rt mo « me co » a vit « la rola », ed ora tra » ola par « a ov nu la e a) an um e fed la del oni tim tes zione civile dei »: a vit la del ole par « le o » a vit « la dal rsa eme Non t’è sfuggita la vita per cabale / o sillabe / e numeri ordinati a riscoprire prigionia /a misurare, con la sabbia e della morte, / al di là delle onde delle

ibridi emblemi di zodiaco o / il mondo. Ma sei stato in il sangue, / i silenzi le voci colline (174).

Il poeta assicura il lettore attraverso se stesso, cui si rivolge, che la prima poetica non fu evasione dalla « vita », giacché la « parola » (l’insieme di cabale, emblemi, sillabe, numeri) fu usata a scoprire e ordinare il mondo. Il morfema avversativo centrale, « Ma », fra le sillabe d’entrata e di cesura al verso 4 (« il mondo. Ma sei stato [...] »), segna il distacco netto dall’epoca della pura

« parola » meramente ordinatrice e l’impiego di altra ‘misura’, vitale, « la sabbia e il sangue », opposta a quella del Verbo, da cui i termini negativi « cabale » e « ibridi »; in stesure anteriori: cabale incrociate; figure di zodiaco / travolte [poi: « livide »]; mumeri

in ordine

[poi:

«attenti »]; incroci

di cabale;

torti; cabale stregate o confuse; falsi emblemi;

.segni di zodiaco

/

ecc.

Quel che importa al poeta è affermare la sua fedeltà alla « vita », non smatrita « per cabale », dove « per » significa ‘a causa di’ e ‘mentre ti dedicavi a”. A una prima lettura di Che lunga notte sentiamo trattarsi di una prigionia d’amore nell’« isola » e in casa della donna sicula (« “ Apri, amore, apri” ») e ora lombarda in sempiterna trafila e turno; versi di stesura anteriori del poema primitivo recitano: tu hai amore da aggiungere ad amore [...] in che stre[tta] prigione sei rinchiuso; ma sei stato in prigione / e ancora sei; Anche oggi, / il venti agosto d’un anno di bufere, se un caro volto di donna ti sorride / e prigioniero non lasci scorrere un fruscio / dalla storta clessidra che ti tiene; e tu // dalla storta clessidra che ti tiene / guardi un volto di donna che sorride; quando tu in solitudine tenevi / le immagini degli alberi dell’isola.

Il significato e la circostanza della « prigionia » sembrano cambiare nella redazione finale:

52

[...] Ma sei stato in prigionia / a misurare, con la sabbia e il sangue, i silenzi le voci della morte [....].

Non dice più « e ancora sei; Anche oggi ». E si confronti con le lezioni precedenti: dalla storta clessidra che ti tiene / guardi un volto di donna che sorride; a filtro di clessidra che misuri / con sangue e sabbia i giorni in solitudine [prima: « vinti di solitudine »]; con sabbia e sangue in giorni solitari [prima: «in solitudine »]; con misura / di clessidra che filtri amore [sopra: « sangue »] e furie / di rancori; a misurare ardori e solitudine; a misurare con sabbia e sangue / forse la [canc.] la solitudine / e la parola prossima alla vita [poi: « alla morte »] / al di là delle onde delle colline [....].

Quest’ultima lezione-variante è di transito alla sopracitata lettura definitiva: «i silenzi e le voci della morte ». L’acuto lettore non si stupirà di « vita » diventata « morte », dato che in poesia gli opposti convenzionali sono sinonimi prospettici nel valore semico intenzionale. Quindi, ipotizziamo una trasformazione resisten-

ziale della « prigionia » siculo-erotica in « prigionia » dell’area bellica, rappresentata dal carcere sofferto nel ’44 per delazione di qualche « poeta nemico », da cui Parole a una spia in Dare e avere: C’è una spia che scrive versi [...] Strisciavi un tempo / sulla faccia dei tuoi morti, / quelli che s’inchiodavano ai muri / per una tua parola cortese e segreta / da codice di primi rimatori (249);

« primi rimatori », siciliani, che compaiono in versi, che seguono a quelli dianzi citati della penultima redazione del poema unico originario (pongo in corsivo i cancellati): / lo, Ciul di e opo Jac di i vers o end dic / ta por una do gri S’apre al tuo , opo Jac di ima iss ent aul / » ca fres rosa « ... amor un te men maravigliosa , llo Ciu , opo Jac / ---a vog in e ett zon can di / e ich mus con di Ciullo dimi t amo un / te men osa gli avi Mar « ] [... voi he anc se d’amore strinse» [as]:

equ di a tiv ica nif sig è ti na te an i et po ti es qu di La soppressione ga ne o nn ce Un a. at rm fo ri la e a iv ss pa » sta frontiera tra l’« isola ; lia Ita o lor a all i, rv Ce li tel fra Ai in sta tivo alla corte federiciana paccottiglia, folclorica: 53

Gli stranieri [...] bevono vino e incenso dano / canti di vulcani [...] (186);

[...] su chitarre di re accor-

i tin Len da po co Ja le abi ggi are imp ra ter La di e ram di a for in Un’'an appare in dipendenza dalla « palude », ivi « notaio » di mercanti gaudenti (endiadi): forse a Lentini vicino la palude / di Iacopo notaio d’anguille / e d'amore

e=.|0(202)!

Dunque, il processo testuale: e la parola prossima alla vita > e la parola prossima alla morte silenzi le voci della morte,

> i

nella sua estrema stringatezza altera e obnubila il paese siculo, attualizzando autobiograficamente e simbolicamente la « prigionia », che perde il sema erotico-caratteristico e acquista l’elemento bellico-resistenziale delle vittime nel nesso sabbia-sangue-morte: tempo, sacrificio e morte quale segno di veta « vita », lessema della stesura anteriore, che diventa semema sub « morte », sinonimi semantici vita e morte secondo la sottocutanea gnosi giovanneo-paolina del sacrificio del Cristo, reincarnato nella vittima bellica, nel partigiano, nelle negre di Harlem, ecc. Significativi anche il cambio di « la parola » in « le voci » e l’insorgenza di « silenzi », che seguono al « sangue » dei massacri, così che non resti traccia della « poetica della parola », già negata nei primi versi. Difatti, il semantema di « morte » si trasmette nel titolo della poesia seguente Vicino a una torre saracena per il fratello morto, poesia già esaminata e che rileggiamo. Qui c’interessa la continuità con Al di là delle onde delle colline in questo « al di là », superamento della stasi isolana e suoi rigurgiti d’antiche seduzioni, ossia la sua metamorfosi umana e storica nella stessa « morte » © sacrificio per nuova « vita »: favole avverse della / mente [...] morse delle tagliole / cupe [...] per noi, / cuori di viole delicate, cuori / di fiori irti [...] infanzia errata, eredità di sogni / a rovescio alla terra di misure / astratte, dove ogni cosa / è più forte dell’uomo (175).

Qui si fa esplicita la riforma (ri-forma) interiore della terra

nativa coi suoi miti, diventando nemica irrazionale fatale, imperio 54

patriarcale, ingannevole di falsi sogni ai suoi « delicati » fanciulli e « irti», cera molle d’anime stecchite in calchi fossilizzati. Le

« tagliole / cupe» ripetono la « prigionia » della poesia precedente; le « misure astratte » rimandano lì stesso alle « cabale; emblemi; sillabe; numeri ».

8.

L’« ironia » liberatrice. Natura e storia. Nominazione

eroica

Questa serie sicula negativa si chiude nella poesia seguente, Tempio di Zeus ad Agrigento, con un « segno / d’ironica menzogna », che convalida l’« infanzia errata » e i « sogni / a rovescio » della poesia al fratello morto. L’ ‘ironia’ liberatrice sta nel contrasto fra la « ragazza », che è figura nuova e improvvisa in cui « ride la follia dei sensi» nell’ora canicolare dell’« isola » e il repellente squallido rinsecchito panorama archeologico del « pozzo dorico », del « mosaico », del gigantesco « telamone » sgretolato: In silenzio guardiamo questo segno / d’ironica menzogna [...] Che futuro / ci può leggere il pozzo / dorico, che memoria? Il secchio lento / risale dal fondo e porta erbe e volti / appena conosciuti. / Tu giri antica ruota di ribrezzo [...] (176).

Su questo sfondo di morte si esalta il « segno » di vita, di seminale generazione contro la « malinconia » dell’atcaica decrepitezza: La ragazza

[...] e l’ape lucida zufola e saetta / veleni e vischi d’ab-

bracci infantili

[...] fra alberi eterni per un solo seme

(176-177).

Quest'ultimo verso mirabile e definitivo rappresenta l’unico appello e salvezza possibile nella natura ‘ eterna’ e nel suo unico « seme », come simbolo d’una storia umana rifondata dalla sua radice, il « vero verde ». In questo naturalismo, conativo del-

l’umano per disperazione d’una storia e d’una polis fallite e ombre di relitti insignificanti, si caratterizza l’ermetismo meridionale di fronte al fiorentino aderente alla perfetta città albertiana, ai suoi a ndid sple alla na, leia gali nza scie sua alla cei, medi attivi commerci gnosi ermetico-neoplatonica-cristiana della teologia ficiniana, così to nota o iam abb che o ism ton pla lato deso e o llid squa o dall diversa in Nemica della morte. 25

» la iso l’« nel a on zi le se e a rc ce » o ec gr ulo Quindi il poeta « sic o rn te ’e ll de i viv e ti en es pr re gu fi e ti ges ri pu i ia e nell’antica patr op » Ma « to ue ns co il so os Cn a o ur ta ro Mi naturale e umano. In a vit di ’ ili civ ‘ » i gn se « ai a nn ia Ar di e o ur ta no Mi l de ti pone i mi attiva dei « giovani di Creta »: Ma l’arte, gli arnesi dell’uomo, i segni / raffinati d’una vita civile / sono vostri, cretesi, non c'è morte [...] non c'è nulla che assomigli / alla Grecia di prima della Grecia (223).

È una poesia della sezione Dalla Grecia nella raccolta seguente, e ad essa rimandiamo per quest’àmbito greco. Della raccolta in oggetto, Il falso e il vero verde, c’interessa subito l’elemento siculo, che si italianizza e universalizza nella sezione Quando caddero gli alberi e le mura, dedicata alle vittime dell’umana ingiustizia, ed eroi in quanto vittime, che è il principio passivo-resistenziale caratterizzante la poesia « politica » del nostro maggiore Novecento postbellico, erede dell’esperienza bellica della prima generazione; principio fondato sull’attivo della fede umana testimoniata. Le vittime dei « feudi » isolani si omologano a quelle delle prigioni, delle piazze, delle navi, dei campi di sterminio, della

guerriglia. Così s’insinuano figure siciliane assimilate: Aretusa amata da Alfeo in Auschwitz;

la sorgente

la poesia Ai fratelli Cervi,

alla loro Italia presentata come « lettera d’amore / alla mia terra », « patria» di « poveri » e di ‘saggi’, che diventa « ogni terra »; Polifemo che piange il suo solo occhio accecato dallo straniero (povero anche di occhi); i « vulcani » e l’« ulivo »j ecc. All’invasione della Sicilia alludono gli « stranieri [...] mercanti », usi da millenni a ivi mercanteggiare le « reliquie d’amore », a ebbri sgavazzare e cantare canti popolari sulle « chitarre da re » delle loto rapine; ma compresi italiani, e siciliani. Osa Quasimodo restituire vocaboli « naturali » della lingua poetica di Dante, del Petrarca, di Foscolo e Leopardi: «la mia patria è bella [...] »; bastino « la bella Trinacria » dantesca e « le belle orme / del vostro sangue » della canzone leopardiana All’Italia, fonte primaria; dallo stesso (« d'amor parola », XVII, 19) le « parole d’amore ». Ancora foscoliane le « reliquie », qui le « piccole scarpe » degli ebrei. In questa Sicilia « di martirio » si conferma il motivo autobiografico profondo del martirologio bellico, cristiano-resistenziale, di « fraterna » tradizione

mazziniana

(lo stesso

Mazzini

che fu

maestro di Clemente Rebora); « parole d’amore » fondate su quei 56

«nomi di forza, di pudore », consueti modi genitivali quasimodiani di determinazione superlativa-icastica; « nomi [...] foglie » d’un « albero di sangue », metafora reale dei ‘caduti’. L’antica « parola » vige ancora, altra e la medesima come forma della sostanza umana rigenerata nella nomzizazione. Costante il genere lirico, in esso il tragico si sublima o il fato si umanizza; il tasso notevole di passività e solitudine si riduce nel silenzio e nella pazienza; il Male e la Negazione sono reali, ma non si ipostatizzano gnosticamente in qualche Arimane, come ai tempi dell’Apòllion nella linea Leopardi-Montale. Nome e numero simboleggiano valori e compiti definiti: i « nomi » dei martiri sono « quindici », arbitraria fatalità liberamente motivata nella scrittura epigrafica sulla pietra verbale. Da e intorno a questo centro irradiante si rianimano natura paese storia rappresentati da cose che son parole, riformandosi con le nuove sostanze verbali-reali l’inerenza e adeguatezza di significante e significato nella inalterabile e continua durata della poesia. Quei « nomi » si calettano giustamente, metricamente destinati, nel legato ritmico-sintagmatico giambico, coincidenza pura di decoro e passione. E poi la ripresa « O cato sangue nostro [...] » fino alla clausola finale, in cui la vera « vita » è significata nell’« ombra » del « nome »: Esposito, Fiorani, Fogagnolo,

/ Casiraghi, chi siete? Voi nomi, om-

bre? / Soncini, Principato, spente epigrafi, / voi, Del Riccio, Temolo, Vertemati, / Gasparini? Foglie d’un albero / di sangue, Galimberti, Ragni, voi, / Bravin, Mastrodomenico, Poletti? / O caro sangue no-

stro che non sporca / la terra, sangue che inizia la terra [...] la morte non

dà ombra

quando

è vita (183).

In quest’ultimo verso c’è la risposta a « Voi nomi, ombre? ». Sulla costrizione versale dei nomi propri rammentiamo i 23 di fiumi nella prima quartina del sonetto 48 del Canzoniere pettatchesco sostrato Blas de ziali di tradotta poeti e

»), [...] ro Teb e ge Adi o, Arn , Varo Po, n, Tesi (« Non classico della nominazione eroica, che Quasimodo, come sten resi e tici poli mi poe dei pio esem all' a ocol rinf Otero, Neruda e Alberti. Nell’Ode per Federico Garcia Lorca, in Poesie di Pablo Neruda (in PDP), si dà una serie di amici che ‘ arrivano ’ alla casa di Federico:

}, , la De , re nd xa ei Al e nt ce Vi / h, ra No e poi arrivo io con Oliveiro, el fa Ra a, bi Ru la / o, rc La e a is Lu a rf Ma Maruca, Malva Marina,

DI7

Ugarte, / Cotapos, guirre, / Molinari, ricordo (623).

Rafael Alberti, / Carlos, Bebé, Manolo Altola/ Rosales, Concha Méndez, / e altri che non

Anche i nomi degli esecrati dittatori latinoamericano scono la stessa sorte metrica:

subi-

Morifiigo, Trujillo, con Somoza, / Dutra e Gonzalez Videla, riuniti / a Bogota

[...] (Si svegli il tiraboschi, 658).

In Ur canto a Bolivar, quasi petrarchescamente, in un alessandrino sono serrati 4 nomi geografici: Da Teruel, da Madrid, dal Jarama, dall’Ebro (635-36).

La base classica della lingua quasimodiana soggiace sempre alla differenza fontale novecentesca. Così anche il grande motivo dell’universale dizionario petrarchesco morte-vita (e viva morte, vivere-morte, morte bella, ecc.) attraversa Neruda e si individualizza. Ad es., il « no alla morte, morta ad Auschwitz » (185) o il citato

« la morte non dà ombra quando è vita » si riscontrano nel Canzo per le madri dei miliziani morti: Non

sono

morti!

[...] e i loro pugni

solo corpo vivo come

alzati negano

la morte

[...] un

la vita (629-30).

Parimenti, la Laude intreccia la maniera jacoponica con la lorchiana: Mostrami gli occhi [...] sei morto, figlio! Perché tu sei morto perdonare: figlio, figlio, figlio! (181);

/ puoi

e in Anima assente del Lamento per Ignazio: ma

nessuno

sempre.

vorrà guardare

// Perché

i tuoi occhi

tu sei morto

[...] Perché

tu sei morto

per

[....].

Di nomi propri pullulano i Trionf dello stesso Petrarca, che li qualifica « alti nomi » (Tr. Famzae, 2, 5) e Dante « onorati », come petrarchesco è il nesso « nomi [...] ombre », come virgiliana-dantesca è « ombra »:

58

Questo

nostro

[...] bene,

/ ch'è

[...] ombra,

e ha nome

beltade

(Rime 350, 1-2).

La detta ripresa « O caro sangue nostro » è tipico modo leopardiano nella consueta scia di Dante e Petrarca: o care arti divine (II, 65), O caro immaginar (III, 102), o cara beltà (XV, 14), O cara luna (XVIII, 1), O care nubi (XXXVIII, 7);

il nesso « caro »-« sangue » nella canzone AU/Italia: Ahi non il sangue nostro e non la vita / avesti, o cara [patria] (II, 130-31).

NortA Ho interamente rifuso la relazione presentata al Convegno messinese; verteva sulla prima fase della « poetica della parola », muovendo da una rimeditazione del mio antico studio premesso a Poesie del ’38, con l’intento di reperire elementi anticipatori di crisi e attivi verso la nuova poetica delle « parole della vita », con qualche puntata nelle raccolte della seconda fase bellica e postbellica. Ma, non solo è rifusa la relazione, ma ampliata ed estesa all'esame di tutta l’opera poetica di Quasimodo, fino alla dimensione di un libro, che apparirà presso Sellerio di Palermo; del quale qui offro una parte centrale, che inizia con l’« intervallo » delle Nuove

Poesie, con cui si conclude

la

raccolta Ed è subito sera, e comprende le prime tre raccolte della seconda fase: Giorno dopo giorno, La vita non è sogno e IL falso e vero verde. I] siglario per le citazioni si conforma a quello del « Meridiano » mondadoriano (PDP); parimenti per tutti i testi, eccetto OS, EA ed LG40: PDP: Poesie e Discorsi sulla poesia, a cura e con introduzione di G. Finzi, Prefazione di C. Bo, Mondadori,

P38 (NP?):

Milano

1971.

sono le 10 poesie (PDP, pp. 101-10) aggiunte alle 10

(ivi, pp. 111-23) di Poesie, Edizioni Primi Piani, Milano

1938 (P38):

ne pagi Due one sezi a nell 2 e EA in 1 ie, Poes ve Nuo one sezi a nell (7 di diario 1937); le 20 poesie in PDP costituiscono l’ultima Nuove Poesie (1936-1492), di Ed è subito sera (ESS).

NP!: sono le suddette 10 poesie di P38. OS: Oboe sommerso, Edizioni di Circoli, Genova

1932

sezione,

(si cita

da questo testo); in PDP, pp. 39-76.

FA: Erato e Apòllion, in P38, pp. 155-78 (si cita da questo testo); io PDPy-pp. 79-97.

39

®

LG40: Lirici greci, Corrente, Milano 1940 (si cita da questo testo); in PDP, pp. 297-414; ultima edizione, a cura di N. Lorenzini, Mondadori, Milano 1985. GdG: Giorno dopo giorno, in PDP, pp. 127-46. VNS: La vita non è sogno, ivi, pp. 149-92. FVV: Il falso e vero verde, ivi, pp. 165-92. TI: La terra impareggiabile, ivi, pp. 197-232. DA: Dare e avere, ivi, pp. 235-60. Circa le relazioni col Foscolo, si veda il mio studio I/ Foscolo negli scrittori del Novecento,

Longo,

Ravenna

1980

(v. Indice

analitico).

Teresa

Ferri

LA POESIA DI SALVATORE QUASIMODO DALLA SINESTESIA ALL’OSSIMORO, OVVERO DAL MITO ALL'ARMONIA DELLA DISSONANZA

Intento del presente studio non è quello di redigere uno schematico inventario delle sinestesie e degli ossimori presenti nella poesia quasimodiana — tassonomia che darebbe luogo a un’analisi puramente descrittiva del fatto poetico — bensì tentare di evidenziare i percorsi semantici indicati da tali figure ed esaminare quali letture e interpretazioni si rendano possibili a partire da certi movimenti del linguaggio e da certe soluzioni stilistiche adottate dalla scrittura. Anche se il nostro approccio ai testi non si fonda su un computo occorrenziale — che invece si renderebbe necessario qualora si volesse tracciare una parabola di tale uso e, sulla base delle indagini condotte dall’Ullmann !, dalla Mancas ?, dal Rosiello * e dal Gutia * sulla sinestesia, applicare un metodo linguistico e strutturale allo studio semantico della funzione stilistica di tali figure —, pur tuttavia esso ha avuto la possibilità di riscontrare una frequenza abbastanza significativa di queste realizzazioni linguistiche. Il primo interrogativo che si fa strada è quindi il seguente: come mai la scrittura quasimodiana si orienta in tale direzione? perché predilige queste figure? Ogni testo letterario obbedisce a una sua logica interna e sceglie i paradigmi entro cui e al di là dei quali svilupparsi; ogni parola poetica ha il suo codice, la sua grammatica

attraverso cui, più o meno consapevolmente, esprime

1 Cfr. S. Ullmann, The Principles of Semantics, Jackson, Glasgow 1951, pp. 225-34; 266-89 (trad. it. Principî di semantica, Einaudi, Torino

pp. 266-78; 31441). 2 Cfr. M. Mancas, La synesthésie dans la création artistigue de M. Eminescu, T. Arghezi et M. Sadoveanu, in « Cahiers de linguistique théorique et appliguée », I (1962), pp. 55-87. 3 Cfr. L. Rosiello, Le sinestesie nell'opera poetica di Montale, in « Rendiconti », 7 (1963), pp. 3-21. 4 Cfr. J. Gutia, Linguaggio di Ungaretti, Le Monnier, Firenze "1959, 1977,

pp. 47-63.

61

nei i ent iam egg att pri pro i ni, sio ten e pri pro le ’, ità ver ‘ a la propri confronti del reale. Un reale che, osservato mediante una lente del tutto soggettiva, viene montalianamente « distorto » e « fatto

labile » dalla scrittura che lo rappresenta. Dati questi presupposti, tale uso retorico non può essere gratuito: deve inevitabilmente entrare in consonanza

con un determinato

universo

cognitivo e

i ogn ta men ali che o gn so bi del si tas sin a ret seg a all i ars ord acc ndi qui evento letterario. Se è vero che « Les figures du discours sont les traits, les formes ou les tours plus ou moins remarquables et d’un effet plus ou moins heureux, par lesquels le discours, dans l’expression des idées, des pensées ou des sentiments, s’éloigne plus ou moins de ce qui en eùt été l’expression simple et commune » *, è anche vero che esse in diversi casi (e si è avuta occasione di verificarlo in certa produzione pascoliana, dannunziana e sabiana °) si presentano

come le soluzioni linguistiche più idonee a innestarsi e innervarsi all’interno di determinati spazi poetici. Quindi, mentre si allontanano dall’espressione semplice, comune, quotidiana, si avvicinano considerevolmente alla resa che un certo discorso tende a ottenere al fine di palesare od occultare le « oblique tristezze », gli « alti terrori », il quasimodiano « nodo d’ombre » che lo alimenta. Pertanto non ci soffermeremo soltanto sulla natura delle due figure in esame, ma anche sulla funzione che esse svolgono nei versi di Salvatore Quasimodo e quindi sull’effetto di lettura che determinano: prenderemo perciò in considerazione questi tropi sia nel loro aspetto formale che nel loro ruolo semantico. Sin da Acque e terre (1920-1929) si avverte in maniera palese

quel bisogno che molto più tardi, nel 1950, Quasimodo

espli-

citerà: Anni di lente letture? per giungere, mediante la filologia, a rompere lo spessore della filologia; a passare, cioè, dalla prima approssimazione laterale linguistica della parola al suo intenso valore poetico. br Cfr. P. Fontanier, Les Figures du Discours, Flammarion, p.

Paris 1968,

64.

6 Cfr. T. Ferri, Pascoli. Il labirinto del segno. Per una semantica del linguaggio poetico delle « Myricae », Bulzoni, Roma 1976, pp. 137-63; « La città morta» di G. D'Annunzio. Il mito come metafora, in AA.VV. La tentazione teatrale, a cura di N. Bonifazi, Bagaloni, Ancona 1982, pp. 80-97; Poetica e stile di Umberto Saba, QuattroVenti, Urbino 1984, pp. 41-60. 7 Quasimodo allude qui ai Lirici greci, a Virgilio, Omero, Catullo, Eschilo, Ovidio, a Il Vangelo secondo Giovanni e Shakespeare.

62

Non nel corpo di una « poetica della parola », ma in quello della sua concretezza,

della rappresentazione

visiva

(e non

per

allusione)

del-

l’oggetto richiamato. Perché la purezza della poesia di cui s'è parlato tanto in questi anni, non è stata da me intesa come eredità del decadentismo, ma in funzione del suo linguaggio diretto e concreto8.

« Rompere lo spessore della filologia », servendosi della stessa filologia, non significa eludere le norme codificate, bensì sovvertire dall'interno un ordine prestabilito mediante quegli stessi mezzi di cui tale ordine dispone per costituirsi come tale. Opporre alla « poetica della parola », e a tutte le suggestioni evocatrici in essa implicite, la concretezza del fatto poetico, la rappresentazione visiva, fisica del referente linguistico, vuol dire tendere a una poesia materica, plastica in cui le parole perdono il loro alone metafisico e si fanno immediatezza e presenza, pur sempre conservando quel margine di ambiguità e di polisemia tipico del discorso poetico. Così non a caso la prima raccolta quasimodiana si apre con la lapidaria Ed è subito sera: solo tre versi che, pur nella loro concisione, configurano felicemente la direzione scelta da tale idio-

letto. È infatti il sapiente intrecciarsi dello zeugma e della sinestesia a dare corpo alla solitudine dell’uomo, al lancinante e mortale colpo assestato dalla vita e al subitaneo chiudersi della parabola esistenziale

nell’irreversibilità

del verso

conclusivo,

sottoli-

neato dalla congiunzione posta a inizio di verso: Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.

Lo zeugma (« sul cuor della terra ») assegna un cuore alla terra, quasi ad amplificare e rendere percettibile il battito del cuore incupito dalla solitudine, mentre la sinestesia ben traduce ») itto traf (« rta infe ta feri la ita, nasc a dall otta prod mata stig la all'uomo dalla vita (« raggio di sole »). Quasimodo assegna alla sua sidi e e mbr d’o e paur « le quel are cizz esor di o pit com il la paro viioni ntaz rese rapp rete conc te ian med ari Tìnd a to Ven lenzi » di so acce ore lett al to itui rest è so spes che e, real del ive sive e udit , sia poe la sul si cor Dis e sie Poe in a, tic poe a Un 8 Cfr. S. Quasimodo, . -79 278 pp. 3, 198 no la Mi i, or ad nd Mo zi, Fin G. di ne io uz od tr In a cura e con e pr em -s fa si ni ia od im as qu i ent erv int e sie poe da oni azi cit Per le successive riferimento alla suddetta edizione.

63

si ar ur ig nf co da ve vi o nt ta e iv tt fa ol e he ic anche di memorie cromat come presenti. Con ciò non si intende ‘orientare la nostra lettura critica in sil’e del ca sti ali eri mat te men iva lus esc e ion cez con una di direzione e to ica nif sig ha res la i att inf o od im as Qu di sia stenza; nella poe cui o Di un di za sen pre la e ert avv si cui in ura mis la nel ne zio fun indirizzare la protesta veemente che grida ribelle: Che urli almeno qualcuno nel silenzio, in questo cerchio bianco di sepolti. (Neve, in Giorno dopo giorno)

oppure rivolgere la sommessa, ma ferma preghiera, che sussurra: Dio del silenzio, apri la solitudine. (Thanatos Atbànatos, in La vita non

è sogno)

Alla vita, a questo « gioco del sangue dove la morte / è in fiore » (Lettera, in Giorno dopo giorno), ai « colpi di moschetto delle ronde », (19 gennaio 1944, ivi), ai « giorni corrosi da un’acqua / assidua » (O miei dolci animali, ivi), la poesia quasimodiana

si oppone materica, tesa — specie nella prima fase — a rivitalizzare il mito classico nel suo splendore di ori e di lutto e a dar voce al mito personale, anch’esso abbagliante e lugubre. Come il passato rimanda complessi bagliori di eroicità e tragedia, così il presente si disegna antinomico nella rappresentazione dell’isola perduta, dove gli intensi profumi e i colori vividi si fondono con il lamento eterno delle madri e con l’inquietante immagine di fanciulli che « mangiano fiori d’acacia lungo le piste / nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse » (Lamento per il Sud, in La vita non è sogno).

Con il baluginare del ricordo delle canzoni

« che sanno

di

grano » (I ritorni, in Acque e terre) e del « fiore che imbianca gli uliveti / tra l'azzurro del lino e le giunchiglie » (idid.), con il

profilarsi sulla scena testuale del mitico paradiso dei sensi i cui « oscuri profumi » ancora accendono la memoria, si delineano anche le laceranti contraddizioni di cui ogni sogno o mito inevitabilmente si alimenta. E altera, aristocratica nella sua fierezza, an cora una volta suona la risposta: Chi piange? Io no, credimi: sui fiumi corrono esasperati schiocchi d’una frusta, 64

i cavalli cupi Io no, la mia che ardono e (Le morte

i lampi di zolfo. razza ha coltelli lune e ferite che bruciano. chitarre, in Il falso e vero verde)

Questa scrittura non ripiega nel pianto rassegnato, né nella sterile imprecazione, ma con scatti improvvisi, che nel corso degli anni si fanno sempre più animati, e con scelte stilistiche differenziate nelle diverse raccolte, si erge — unica replica possibile — a contrastare « il senso dello scorrere / impassibile della distruzione » (Un arco aperto, in La terra impareggiabile). Perfino la natura lotta con il quotidiano, oppone resistenza e non soggiace inerte al processo di rovina cosmica: Sul ciglio della frana esita il macigno per sempre, la radice resiste ai denti della talpa. (Sulle rive del Lambro,

in Nuove

Poesie)

All’« Anima antica, grigia / di rancori » (Strada di Agrigentum, in Nuove Poesie) non è concesso soffocare l’urlo di ribellione, né covare tetri disegni di vendetta: suo compito è invece tentare di aprirsi un varco tra le tenebre dell’esistenza e dare una risposta agli interrogativi inesorabili del vivere. Convinta di dover obbedire agli ineludibili imperativi che gravano sul poeta, e così soddisfare le attese dell’uomo, la parola quasimodiana sceglie la strada della ricerca e dell’indagine critica, un impegno che tra il 1946 e il 1953 si preciserà sempre meglio, fino a identificarsi con la tensione verso l’elaborazione di una nuova scrittura poetica. Può essere interessante ricordare due passi della riflessione quasimodiana, che evidenziano in maniera chiara quanto si asserisce: Oggi, poi, dopo due guerre nelle quali l’« eroe » è diventato un numero sterminato di morti, l'impegno del poeta è ancora più grave, del , terra sulla erso disp mo t'uo ques mo, l’uo » re rifa « deve hé perc male il ca tifi gius che mo t'uo ques , ieri pens ri oscu più i sce cono e qual come una necessità, un bisogno al quale non ci si può sottrarre, che irride anche al pianto perché il pianto è « teatrale », quest'uomo che di che spor mani le tasca in ndo tene co geli evan ono perd il aspetta che li quel Per . tale capi lema prob il to ques mo: l’uo re Rifa sangue. ra anco ano. ider cons che io, erar lett o gioc un a come ia credono alla poes a dell ette scal le e nott di sale che uno vita, alla aneo il poeta un estr 65

cuspe « le del o mp te il che o iam dic mo, cos il are cul spe per sua torre lazioni » è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno?.

La nuova generazione, dal 1945, sempre per le ragioni storiche accennate all’inizio del mio discorso, reagendo alle poetiche esistenti, s'è trovata improvvisamente senza maestri apparenti per poter continuare a scrivere poesia. Esclusa la tradizione umanistica [...] ha iniziato una condizione letteraria che non potrà che suscitare meraviglia in quanti si interessano alla sorte della cultura italiana. La ricerca d’un nuovo linguaggio coincide, questa volta, con una ricerca impetuosa dell’uomo: in sostanza, la ricostruzione dell’uomo frodato dalla guerra, quel « rifare l’uomo » a cui accennavo, appunto nel 1946, non in senso moralistico, perché la morale non può costituire poetica. Un nuovo linguaggio poetico, quando ancora un altro sta per raggiungere la sua maturità, presuppone una violenza estrema.

Ricercare « un nuovo linguaggio » coincide dunque con « una ricerca impetuosa dell’uomo » nelle sue contraddizioni, nei laceranti dissidi che lo vogliono soggetto e oggetto del mito e della storia. Così né « sillabe d’ombre », né « ombre di parole » hanno più senso per colui che « si scalza e vacilla / in ricerca » (Curva minore, in Oboe sommerso). Occorre trovare una parola concreta da opporre alle sinistre parvenze che agitano il mondo, un segno che restituisca vivi i colori, gli accenti e i profumi del passato e, nello stesso tempo, rifletta le ansie e i conflitti del presente tra mito e reale, amore e odio, speranza e delusione. Se il ricordo può aiutare in questa ricerca e rivitalizzare gli antinomici echi del

passato — collettivo e/o privato — è la parola che deve tradurli e materializzarli sulla pagina, ed è il poeta a dover farsi mediatore e interprete di tale operazione: Forse qualcuno vive. Ma noi, qui, chiusi in ascolto

dell’antica

voce,

cerchiamo un segno che superi la vita, l’oscuro sortilegio della terra dove anche fra le tombe di macerie l’erba maligna solleva il suo fiore. (19 gennaio 1944, in Giorno dopo giorno)

? Cfr. Poesia contemporanea, in op. cit., pp. 271-72. 10 Cfr. Discorso sulla poesia, in op. cit., p. 285. Corsivo

66

del testo.

Cercare « un segno che superi la vita » significa confidare nella soluzione dell’enigma e ipotizzare una vittoria sulla morte e sul male. La poesia di Quasimodo — a differenza di quella montaliana — crede nella possibilità di trovare « la parola che squadri da ogni lato », « la formula che mondi possa apritti » e si affida al recupero dell’antica voce per decifrare « l’oscuro sortilegio della terra ».

In Acque e terre è la natura, con il suo ciclo stagionale, delegata a ricomporre « le sepolte voci / dei greti, dei fossati, / dei giorni di grazia favolosi » (Ariete, ivi), che rimandano la melodia di un'infanzia intessuta di canzoni e profumi, mentre il richiamo di una voce risveglia sopite immagini.di vita, chiuse nell’angusto spazio di un vicolo pulsante di operosità e tristezza: Mi richiama

talvolta la tua voce,

e non so che cieli ed acque mi si svegliano dentro: una rete di sole che si smaglia sui tuoi muri ch’erano a sera un dondolìo di lampade dalle botteghe tarde piene di vento e di tristezza. Altro tempo: un telaio batteva nel cortile e s’udiva la notte un pianto di cuccioli e bambini. Vicolo:

una croce

di case

che si chiamano piano, e non sanno ch'è paura di restare sole nel buio. (Vicolo, in Acque e terre)

di co eri gen tto efa ant « ma », o bol sim o o mit ora anc .] « Non [.. tà ici fis sua la ta tut con a gli sta si a ili Sic la !, » a dut per ia un'infanz cia nun l’e del to get sog il e dov e, ich lir ste que in solare, dionisiaca, ato orp acc si tar sen pre rap di o nt me ci ia mp co al he anc e ulg zione ind in e ina mar sca Fre in ade acc me co ra, ter sua a all al suo mare e rac la za, ten sis l’e del ico pan si qua so sen Specchio. Venata di un raatt , poi se he anc , ura nat la te tan cos nte ere colta assume a ref 11 Cfr.

G.

Finzi,

Invito

alla lettura

1672 pon 65,

67

di Quasimodo,

Mursia, Milano

o ltr t'a tut e enz val e isc fer con le i, ric afo met tti tru cos ti ien verso sap

, nti que fre no go er em i ian col pas e i an zi un nn da i Ech he. tic che realis poe sta que di one azi voc ica ent aut più la are usc off ma non tali da , ide tim pur sep , ono ert avv si già co ati tem no pia sul i att sia. Se inf co eti pot l’i o ers rav att e im pr es si qui che — io bb du le ansie del vpro o mor ssi l’o e a esi est sin o la ric eto o-r tic lis sti ro ist reg sul —, se le re dur tra a e ra fo ta me a all a rgi ene re io gg ma ire fer con a no do ve aspirazioni di un linguaggio teso alla concretezza della parola. La sinestesia, associazione di due o più termini che designano le sensazioni provenienti da diversi campi sensoriali, ha il ruolo di « rendre plus suggestive l’image artistique en la concrétisant, ce qui a lieu en faisant appel è des analogies du domaine sensoriel » !. In Acque e terre essa trova diverse realizzazioni, quali ad esempio:

a) il già citato verso « frafifto da un raggio di sole » (Ed è subito sera, ivi), che lessicalizza l’unione dei sensi del « tatto » e della « vista »; b) «un'eco di mature angosce / rinverdiva » (S'udivano sta-

gioni aeree passare, ivi), dove l’« udito » si fonde con la « vista », attraverso l’impiego della metafora spenta « rinverdire »; c) «labili raggi urtarsi » (ibid.), enunciato che oltre ad essere sinestetico (V+T) è anche ossimorico;

d) «le canzoni, / che sanno di grano che gonfia nelle spighe » (I ritorni, ivi), dove i sensi implicati sono l’« olfatto ».

L’uso che Quasimodo

fa della sinestesia non

l’« udito » e

è pedissequa-

mente letterario, e tenteremo di dimostrarlo soffermandoci sull’ul-

timo degli enunciati citati, dal momento che — per evidenti ragioni — non ci è possibile analizzarli tutti in questa sede. I ritorni, il testo cui la sinestesia appartiene, si configura come poesia squisitamente memoriale, come sottolinea — a livello sintattico — la pfesenza dell’imperfetto, tempo della durata. Le stelle, guardate dai sedili di Piazza Navona, « le stesse che seguivo da bambino », provocano l’accendersi del ricordo. Questo, se nella seconda strofa si snoda secondo un andamento nominalistico (« Sot-

12 Cfr. M. Mancas, op. cit., p. 59.

68

to il capo incrociavo le mie mani / e ricordavo i ritorni: / odore di frutta che secca sui graticci, / di violaciocca, di zenzero, di spigo; ») nella quarta, dopo la lucida riflessione dei versi 18-20 poggiante sull’avversativa (« Ma ai morti non è dato di tornare, /

e non c'è tempo nemmeno per la madre / quando chiama la strada; »), si fisicizza quasi nella sinestesia, la quale condensa il passato nel canto odoroso di grano, cifra di un paese e di un tempo che soltanto le sensazioni possono concretizzare in poesia. Anche i citati versi 8-11 mirano a tradurre i profumi perduti (e tentano di farlo affidandosi al nominalismo, tecnica tipica di tanta poesia novecentesca), ma scivolano in una sorta di nenia che, oltre a rendere grevi i versi stessi, si sviluppa sull’unico registro olfattivo, quando invece l’enunciato sinestetico della quarta strofa, pur nella sua stringatezza, rende arioso il polivalente segno memoriale e conduce il linguaggio verso risultati più lirici che prosastici. Se dunque «la comunione panica col mondo è “ parola ’ » — secondo quanto osserva il Finzi !* —, lo deve anche a questo espediente stilistico, mentre è l’ossimoro, la coincidentia opposi-

torut, a tradurre nell’unione degli opposti il positivo e il negativo, il Bene e il Male, la speranza e il disinganno di una parola che cerca se stessa per dirsi. Questa antica figura del discorso poetico in Acque e terre non ha la rilevanza che assume invece nelle raccolte successive: trova un impiego sporadico e le rare volte che viene usata denuncia reminiscenze di impronta pascoliana. Una configurazione decisamente più autonoma acquista l’oximoron in Oboe sommerso (1930-1932), dove dà voce ai sinestetici

« oscuri accordi » di una ricerca che tenta di conciliare il « basso » con l’« alto », il sogno con il reale, l’amore con la morte, come ben elucida Convalescenza e come risulta dalle realizzazioni ossimoriche riscontrate. A titolo di esempio ne riportiamo alcune: a) «amore,

mio

scheletro »

(Lamentazione

d'un

fraticello

d’icona, in Oboe sommerso); b) « un cadavere / mastica terra » (ibid.); ); rti ape hi occ ad nno sta ti mor e ov (D » ta ris att li che c) «riso d) « voci di motti » (ibid.); ; za) cen les nva (Co » to sen te mor ra alt un’ re amo si Far « e) o, od im as Qu e or at lv Sa di o ari ner Iti zi, Fin G. 13 Cfr. Poesie e Discorsi sulla poesia, cit., p. XXVI.

69

in S. Quasimodo,

na a it (V » na re se as m’ e ch #) « me stesso brucato dal patire / scosta).

oam « di le el qu no so te ia il nc co Qui le categorie oppositive , (c » re lo do a/ oi gi « di e d) , (5 » te re/morte » (4, e), « vita/mor e on zi ta en mz La i al qu i, st te e du no me al di a at li f). Un'analisi dettag nre , ti er ap i ch oc ad no an st i rt mo ve Do e a d'un fraticello d’icon derebbe maggiormente conto di quanto si afferma. a pos cor za sen pre la ada str si far a ia inc com so er mm so In Oboe del mito e, con essa, la fiducia in un segno che equilibri gli opposti e restituisca al « cuore arato », mediante l’ascolto della « nuda voce », quelle « primizie dolci di suono » di Preghiera alla pioggia, che nella sinestesia articolano la pagana festa dei sensi di una Sicilia luminosa d’agonie e venata di « fresca gioia ». È l’eucalyptus della poesia omonima a dar corpo — nella pseudosinestesia — all’« odore dell’infanzia » che, assieme alla « luce addolorata », inscena quella « duplice voce di richiamo dell’isola », acutamente messa in rilievo dal Petrocchi !. Sul fondale dell'immobile estate sulfurea dei miti di Dormzoro selve riemergono, corpose, figurazioni lontane. Così le « antiche mani nei fiumi », che « coglievano papiri » quasi assorbono l’immagine evocata della « Città d’isola / sommersa nel mio cuore» (Nell’antica luce delle maree). Nel tentativo — riuscito — operato dalla parola di collocare i segni ricercati in una stessa dimensione spazio-temporale ignara dei secoli, il « privato » si fa « collettivo » e viceversa, mentre le distanze si anhullano e un’unica regione ospita il desiderio poetante. Un desiderio che in Erato e Apòllion (1932-1936) pare congelarsi nella rappresentazione della morte. Infatti « ferma è l’antica voce », « effimere » risultano le risonanze, e un « rombo di rive lunari » esprime sinistramente il processo di dissoluzione che tarla la memoria e l’esistenza: Ferma è l’antica voce. Odo risonanze effimere, oblio di piena notte nell’acqua stellata.

14 CfO OR r. G. Petrocchi,

Quasimodo

e la suaua

70

terra, in i «Inventario] », 1-- 6

Dal fuoco celeste nasce l’isola di Ulisse.

Fiumi lenti portano alberi e cieli nel rombo

;

di rive lunari.

Le api, amata, ci recano l’oro: tempo delle mutazioni, segreto. (Isola di Ulisse, in Erato e Apòllion)

Ancora una volta la sinestesia e l’ossimoro intervengono a tradurre le necessità della scrittura. Tuttavia il loro ruolo in questa raccolta, più che altrove, si diversifica: mentre l’ossimoro lessicalizza il senso di morte irreversibile che grava sul linguaggio, la sinestesia tenta di farsi voce della speranza che, nonostante tutto, anima ancora la parola poetica. Così, se enunciati ossimorici quali « serenità di morte estrema gioia » (Sillabe a Erato, in Erato e Apòllion), « ha in sé la morte in nuziale germe » (L’Arapo, ivi), « supplizio / splende la pietra livida » (Salina d'inverno, ivi), sembrano non ipotizzare risposte possibili da opporre all’incombere di Thànatos, sinestesie quali « gola / fresca di suono » (Sovente una riviera, ivi), o « il nome greco / è un verso a ridirlo, dolce » (Latorzìe, ivi) schiudono invece possibilità di salvezza affidate a una parola che, ad eco, ripeta la dolcezza di un nome antico, segno di un mito non del tutto privato dei suoi poteri. Tuttavia anche l'imminente

cataclisma trova una sua realizzazione

sineste-

tica e l’enunciato « tuonano meteore » di Insonnia rende cosmica la prossima rovina. « Morta » è l’isola (Im luce di cieli, ivi), « uccisi » gli alberi (Del z7i0 odore di uomo, ivi), autofago l’« io »: Nella palude calda confitto al limo, caro agli insetti, in me dolora un

airone

morto.

To mi divoro in luce e suono;

battuto in echi squallidi da tempo a tempo geme un soffio dimenticato.

Pietà, ch'io non

sia

senza voci e figure nella memoria un giorno. (Aîrone

morto,

ivi)

70!

è

» e l o r a p di / o d n e m e r t o n o d « o c i r o m i s s o o t s e u q La poesia, n u e h c n a è a ic st ui ng li e n o i z a e r c è se , i) iv , o g a r f u a n e (Al tuo lum ilt mu i n o i z a s n e s di e r i r o m e re ve vi n u , o n o u s e ce lu in i rs ra vo di a b r e p u s o at os a h e h c a l o r a p a un di a p l o c la re ta on sc a i as qu ple, m o c a d e t n e s e r p n u di e m o n in o, at ss pa il ta vi in re ui it st re e ment a g u f in e t t e m i tt fa in o t i m . Il e r a n battere e di un futuro da guadag , ni io ns te ni le e io az tr us fr a le g a p p a , o n ne a i le delusioni del quotid i rs de lu il ò u p sì co e h , c a n a a m u nz te is accende di aurei riverberi l’es na co t n e v i d o t i m il i cu o in t n e m o di trionfare sul caduco. Nel m tri sc la a, lp co e, gg le a n u ne di io az fr i in d n i u sapevole peccato, e q sì e co : st a si z n re a n a o t l n o o d l n a in c o l l o c lo i r er ud el a di nt tura te a lzz de te ni a fi la ng si lu e h no c er o et p m e t e n un o di i z u d alla se o t a t s a r t n o o c i n n i i m o d e il ch co o. ec d o ic E n et n a po g n i ’ o n l m co l’uo di Thànatos si configura qui come richiesta di perdono lanciata all’Eterno dal « peccatore di miti »: Del peccatore di miti, ricorda l’innocenza, o Eterno; e i rapimenti, e le stimmate funeste. Ha il tuo segno di bene e di male, e immagini ove si duole la patria della terra. (Del peccatore di miti, ivi)

La morte si impone così come certezza ineludibile contro le ingannevoli promesse del mito e, non a caso, mancano in queste liriche espressioni dubitative e ipotetiche, i forse e i se che più o meno frequentemente siglano il discorso quasimodiano. Tuttavia Erato e Apòllion segna soltanto una pausa in tale ricerca, che in Nuove Poesie (1936-1942) torna ad articolarsi in plastiche combi-

nazioni sensoriali. Nitidi si stagliano sullo scenario di queste liriche « campi / umidi d’orme di cavalle » (Ride la gazza, nera sugli aranci, in Nuove Poesie), « pioppi illuminati / dal vento » (La dolce collina, ivi), il « silenzio Masino,

/ del lume

dei velieri » (Sera nella valle del

ivi), per citare soltanto

alcune

realizzazioni

sinestetiche.

L'immagine si fa corposa, grazie anche a un oculato uso della punteggiatura: basti pensare al titolo della poesia che apre la raccolta, Ride la gazza, nera sugli aranci, dove la virgola isola l’aggettivo, 72

quasi a evidenziare il contrasto cromatico che si produce tra il « nero » e l’« arancio ». Il « forse », abbastanza frequente, riapre la probabilità di catturare almeno «un segno vero della vita », mentre il conflitto e la duplicità sembrano tacere nell’assenza dell’ossimoro. La voce « superstite / a imitare la gioia » (Imzitazione della gioia, ivi) tenta di ignorare Thànatos e, ancora una volta, si affida a « sospirati echi » memoriali: Fino a che memoria ti sollevi a sospirati echi, dimenticata è morte: e la candida immagine sull’alghe segno è dei celesti. (Spiaggia a Sant'Antioco, ivi)

Tuttavia la guerra, che parla nella sineddoche del « piede straniero sopra il cuore », addensa di tetre ombre il percorso della poesia. Una interrogativa « che porta dentro di sé il germe della prossima dissoluzione » — come ha opportunamente sottolineato

Carlo Bo © —, un’interrogativa vibrante di accenti desolati, apre Alle fronde dei salici, la prima lirica di Giorno

dopo giorno

(1947): E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull'erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo?

All’« urlo nero / della madre », tragica rappresentazione di luil a agn omp acc si e, iem ins e ral est anc e a ric sto a enz una soffer to rit (Sc » rme lla l’a / da fon pro la ulu « che ena sir la del no gubre suo ime irt e com tre men ), rno gio o dop rno Gio in ba, forse su una tom ine a mar l’a nel so adi par to mbì l’a a fil pro si o dut per diabilmente : rno gio o dop rno Gio in ge leg si che e ion taz sta cisiva con E più non posso tornare nel mio eliso. PI

15 Cfr. C. Bo, Introduzione Mondadori, Milano 1967, p. 20.

a S. Quasimodo,

73

Giorno

dopo

giorno,

La Sicilia, il mito personale di questa scrittura, si abbuia per configurarsi soltanto come perdita, lutto e paura: La nostra terra è lontana, nel sud, calda di lacrime e di lutti. Donne, laggiù, nei neri scialli parlano a mezza voce della morte, sugli usci delle case. (A me pellegrino, ivi)

La sinestesia non risveglia più profumi e suoni antichi, né accende colori. Sottolinea e fisicizza invece il pianto nell’« urlo nero / della madre », distanzia l’odore e il mito nel profetico « Sprofonderà l’odore acre dei tigli / nella notte di pioggia » (Forse il cuore, ivi), aggredisce la vista nell’omologia stabilita tra « il tempo della gioia » e il violento « morso di fulmine che schianta » (ibid.), ovatta infine l’eco di una voce-presenza lontana: Di dove chiami? Fioca questa nebbia di te risuona [...] (Il traghetto, ivi)

Nonostante tutto, sul « muro crivellato di mitraglia » (Lettera, ivi) si accende un geranio, metafora del perdurare della vita. In-

fatti la poesia si chiude in ascolto dell’antica voce, l’« io » si dilata in un « noi » e la ricerca continua, sottolineata dall’avversativa: Forse qualcuno vive. Ma noi, qui, chiusi

in ascolto

dell’antica

voce,

cerchiamo un segno che superi la vita, l’oscuro sortilegio della terra dove anche fra le tombe di macerie l’erba maligna solleva il suo fiore. (19 gennaio

1944, ivi)

Un « buio murmure di mare » risale dal tempo, eco ostinata della durata, come evidenzia l’avverbio « ancora » (S’ode ancora il mare, ivi). La domanda si infittisce e il « forse » torna a scandire il ritmo dell’interrogarsi. Soltanto con La vita non è sogno (1946-1948), attraverso la via negationis, questa scrittura comincia

a preventivare lo scacco; la ribellione si fa domanda incalzante e prevede « possibile l’assurdo »:

74

>

[...] e consentire alla morte e su ogni tomba scrivere la sola nostra certezza: « thànatos athànatos »? Senza un nome che ricordi i sogni le lacrime i furori di quest'uomo sconfitto da domande ancora aperte? Il nostro dialogo muta; diventa ora possibile l’assurdo [...] (Thanatos Athànatos, in La vita non è sogno)

Le domande si scrivono ancora aperte ed è l’« ancora », il perdurare del dubbio nel tempo, a incupire l’indagine e a denunciare la sconfitta dell’uomo. Una sconfitta però soltanto parziale, dal momento

che, marmorea,

si scolpisce la verità dell’essere umano

nella laconica affermazione che precede la preghiera conclusiva: La vita non è sogno. Vero l’uomo e il suo pianto geloso del silenzio. (ibid.)

L’assurdo diventato possibile, l’ossimorto, salva la poesia dallo scacco definitivo. Infatti il « limpido lutto delle madri » (I/ 7750 paese è l’Italia, ivi), la « gentile morte » (Lettera alla madre, ivi)

si configurano come accettazione della perdita e fiducia nella possibilità di dare una risposta agli interrogativi che si levano da un’umanità brulicante di quesiti: Ancora la verità è lontana. E dimmi, uomo spaccato sulla croce, e tu dalle mani grosse di sangue, come risponderò a quelli che domandano? Ora, ora: prima che altro silenzio entri negli occhi, prima che altro vento salga e altra ruggine fiorisca. (Colore di pioggia e di ferro, ivi)

L’« operaio di sogni » congeda invece la sinestesia e distanzia sasen le che e » no sog è non a vit «la che e ol il mito. Consapev li, evo ann ing e rie uso ill o sol ali nzi ste esi ni io ns me di o on ud zioni schi ve« di et tal icr tor ne io az in mb co le qua ne zio ddi sceglie la contra . are ifr dec da » ora anc « le rea un di no ter ’in all » à rità » e « falsit 75

atr ia sc la to mi il ) 55 19 994 (1 Pertanto con I/ falso e vero verde

e si io bb ra i as qu o n o p m o r i rs ve i e sparire notevoli incrinature o nn ha ie es Po e v o u N le al no fi e ch i, ns se sprezzanti. Parallelamente i opr , te en am at ol is i qu o, ic et st ne si o ad esso prestato voce in accord . no an ng si di l o da at rc ma to et rd ve ro lo il no nuncia o, nt ge ri Ag ad us Ze di io mp Te è so es oc pr to es qu di e Esemplar o at iv pr de », na og nz me a ic on ir d’ / o gn se to es qu dove il segno, « la n co » i no « l de to or pp ra il ia sc ve ro e, nz le va e delle sue magich o: iv at og rr te in co tti sce lo ne del io az ul rm fo a all a rt po e ra tu na [...] Che futuro ci può leggere il pozzo dorico, che memoria? Il secchio lento risale dal fondo e porta erbe e volti appena conosciuti.

Né futuro né passato può più sillabare il segno captato dal tempo: esso tradisce soltanto l'inganno che l’ha prodotto. Questa poesia conosce ormai la domanda che non trova risposta e, lapidariamente, scandisce: so la domanda che ritorna vuota. Non c’è per noi, non c’è per te risposta. (Nemica della morte, in Il falso e vero verde)

Consapevole di gettare « un urlo al vuoto » (I/ falso e vero verde, ivi) e di raccontarsi le « favole avverse della / mente » (Vicino a una torre saracena, per il fratello morto, ivi), alla orribile parola di Auschwitz non può opporre le consolatorie figurazioni antiche e una esclamativa sigla lo sgomento: [...] Come subito si mutò in fumo d’ombra il caro corpo d’Alfeo e d’Aretusa! (Auschwitz, ivi)

L’ordito sinestetico a questo punto ha a referente una realtà squallida, l’« antica ruota di ribrezzo » e sullo scenario testuale non può che concretizzare un « mormorio afoso, immobile » (Tem-

pio di Zeus ad Agrigento, ivi) e un’« afa ripugnante » [Laude (29 aprile 1945), ivi]. Improbabile oracolo, il mito vacilla pericolosa-

76

mente e ne La terra impareggiabile (1955-1958) l’esergo non a caso recita un verso delle Coefore di Eschilo, che sentenzia: Dico che i morti uccidono i vivi.

Il passato si scinde dal presente, la natura acquista un aspetto deforme, l’assiolo, con il suo « chiù » di pascoliana memoria, « dice solo / il silenzio » (Ur arco aperto, in La terra impareggiabile), mentre a Pallade Atena si sostituisce la Vergine Maria (Di motte sull’Acropoli, ivi). Tuttavia, poiché « Oscuramente forte è la vita »

(Al padre, ivi), ancora una volta si fa strada «l’assurdo / di contrasti oscuri » (Seguendo l’Alfeo, ivi) e il soggetto poetante dichiara: [...] Io non

cerco

che dissonanze, Alfeo, qualcosa di più della perfezione.

(ibid.)

Tesa a salvare la sua parola e a difendere la proptia scelta, attraverso una « intelligenza laica » del mondo e del suo franare, la scrittura torna dunque ad optare per la concordia discors, che in Dare e avere, la raccolta uscita nel 1966, trova rare ma significative lessicalizzazioni. In diversi casi l’ossimoro si accorpa alla sinestesia e si hanno realizzazioni quali « il livido / suono della solitudine » (Varvàra Alexandrovna,

in Dare a avere) che scrive

il buio e la sorda opacità del monologo e nel suo arco / continuo » (Lungo l’Isar, e forma all’approssimarsi di Thànatos. Al si accompagna il grido di paura, bensì indefesso della ricerca:

« il rumore della morte ivi), che invece dà voce rovinare del cosmo non nuovamente l’articolarsi

[...] non grido di paura alla natura che precipita mentre cerco un tempo senza forma. (Tollbridge,

ivi)

Per « mutare la distruzione » occorre spogliare il tempo delle il te mor la za gen lli nte L'i « ché poi , tti tru cos i suo sue forme e dei sogno

/ negano

la speranza » (Basta un giorno a equilibrare il

TI

mondo, ivi). L'alternativa consiste nel dirsi parole sconosciute, nel rovesciare « terre di memoria » e prestare ascolto alle « lunghe

ipotesi » avanzate dalle voci della vita. Cogliere la differenza, anche se assurda, tra la morte e l’illusione di esistere è l’ultima chance

che si offre all'uomo nel momento in cui il più autentico pulsare del cuore, i più vivaci giuochi dell’intelligenza e le più auree, mitiche isole possono schiudergli soltanto la sua finitezza.

Giuliano

LA MORTE:

Gramigna

QUINTO

ELEMENTO

Disperando, ragionevolmente, di fare entrare in un breve contributo, la complessità di sviluppi di un lavoro poetico come quello di Salvatore Quasimodo, si è tentati almeno di trovare un gruppo di testi, o addirittura un testo, che possa funzionare da ologramma, da figura riassuntiva; in cui venga alla luce un incrocio fondamentale della tramatura che supporta l’opera intera. Questo prelievo o messa a fuoco può essere arbitrario, ma anche se non risponda a tutte le domande, non risulterà inutile, alla fine.

La mia scelta cade sulla poesia intitolata Sulle rive del Lambro che userò, quanto più incautamente possibile, come reperto. Si tratta davvero di una scelta? Dalle prime letture quasimodiane fatte sul volume giallo canarino delle Poesie, edizioni Primi Piani, 1938, ad oggi, questo testo ha continuato ad affiorare nella mia memoria con insistenza, a intervalli regolari. Mi sono domandato spesso i motivi di tale ricomparsa: mi pare un testo di notevole fotza e riuscita, ma nor necessariamente uno dei punti più alti di Quasimodo; e a stretto rigore, neppure uno dei tipici o esemplificabili. Pur senza volere conferire peso critico a possibili questioni di gusto personale, la ricorrenza non smetteva di pormi

delle domande. Che senso o intenzionalità si manifestava nel fatto stesso del prodursi del fenomeno? Cercherò di riassumere qui il discorso con cui ho provato a chiarirmi, prima ancora le domande che le eventuali risposte. Sulle rive del Lambro, come da stesura, anzi stesure manoscritte, è del 1938; compare a stampa, all’inizio della sezione

Nuove Poesie, nel volume già citato di Primi Piani, dello stesso anno. Minima variante (rientro della spezzatura di un verso) in Ed è subito sera. Nella sistemazione definitiva, la sezione Nuove pezzi dei ro nume il ga allar 2, -194 1936 nte alme glob a datat Poesie, e ne riordina la successione rispetto alla prima stampa. Je,

mte , ia pp do a nz va le ri a un Il titolo, Sulle rive del Lambro ha o at ss pa è o d o m i s a u Q i cu in ni an li ag a d n a m i R . le ia az sp e porale e pp ta le po do , na li el lt Va in , al Nord, in Lombardia: a Milano . ve si ci de li ia or it ed ed ie ar er tt le ie iz fiorentina e ligure; anni di amic a ll de lo to ti l ne o tt ri sc in lo el qu o st Il toponimo — come del re e ch al qu in à, dr ve si me co , e, va si es poesia immediatamente succ ze en ri pe es a ic pl im — , no si Mà l de e ll Va a modo connessa, Sera nell o d o m i s a u Q in me su a as fi ra og ge e la om di vita e di lavoro. Ma sicc ci li mp se ti es qu re di ta en nt co à tr po si un posto rilevante, non ci nca a co di n no , ca va ti as om on te a re ov nu . a n ci U fi rimandi biogra utt a ma ol ’« is ll a, de li ci a Si ll ia de ar im la pr el re qu ra vi e, a ar ll ce tà ci li fe i a co cu ll ti su e ie po te to en mi am tt re re st lo va i cu l su », na ti condensativa (luogo dell’infanzia e della nostalgia, ma anche, più tardi, di disperazione storica, sociologica, ecc.) tutti i critici non hanno mancato di soffermarsi. Non sto ad enumerare le occorrenze di « nomi di paese » attraverso i quali viene tramandosi questa « invenzione nordica » (chiedo scusa per la grossolanità dell’aggettivo, ma non ha niente a che fare con opposizioni di tipo quasi razzistico) della poesia di Quasimodo: Piazza Fontana, Dalla rocca di Bergamo Alta, Presso l’Adda, La dolce collina ecc. Si tratta davvero di roms de pays, nella pregnanza che il sintagma ha in Proust: toponimi di fortissimo spessore affettivo e simbolico — operatori di mitologia, ripeterei, se non, forse, con la stessa intensità viscerale dei nomina-numina isolani. La terra su cui un poeta —

qualsiasi poeta —

si muove

è davvero

« impareggia-

bile » nell’essere, dirò così edipica, ossia ricoperta da un tracciato fittissimo di parole che atticolano le insorgenze profonde, le domande essenziali del soggetto. Questo del peso e del senso della localizzazione geografica è un tema affascinante, e per di più capitale per Quasimodo, ma non posso fare altro che accennarvi di volo, per ragioni di economia espositiva. Aggiungerò solo che i nomi famosi, i nomi propri che ogni lettore ricorda subito: Tindari, Anapo, Sant'Antioco, Agrigento, Plàtani, Iblei, ecc., con gli altri già citati; questi nomi, dunque, sono convocati da Quasimodo nel verso con una sorta di violenza approptiativa che vuole saturare ciò che manca; o sono loro, invece, a interrogarlo, a metterlo in questione? Così

si delimita un modo, uno dei modi, per entrare nell'opera di Quasimodo. Ma per riprendere il filo di Sulle rive del Lambro. Ho cercato anche di analizzare come questo testo mi tornasse presente con 80

regolarità. Mi sono accorto che era soprattutto attraverso l’insistenza del distico finale, che certo rammenterete: «O cara, / come remota, morte era da terra » (l’« O cara », anche se formalmente frammento di un verso, fa segmento a sé, rilevante sia sotto il riguardo ritmico sia sotto quello semantico). Per dirla in breve: la trama degli effetti di questa poesia s’irradiava, almeno per me, a partire da quel nucleo terminale — e non certo, non soltanto almeno, per la sua ovvia memorizzabilità. La spiccata capacità di risolvere una poesia in una pronuncia aforistica, ha sempre caratterizzato la tecnica espressiva di Quasimodo; ognuno può farne un censimento a volontà, dalle formule proverbiali, come « ed è subito sera », a quelle meno ovvie, ma forse più pregnanti, come: « questo peso di parlarmi tacito », «o la quiete geometrica dell’Orsa ». Ma il senso, dirò così funzionale, del distico di Sulle rive del Lambro non si lascia esaurire da questa prima identificazione. L’orecchio, un certo orecchio interno, il terzo orecchio di cui parlava Rank forse, vi percepisce, sul piano ritmico, una certa figura retorica ben nota: la figura del chiasmo. Nulla giustificherebbe tale percezione, a stretto rigore grammaticale, semantico. In effetti, l'orecchio non sbaglia: il punto di incrocio e di ribaltamento del chiasmo si colloca nel rapporto dei due elementi « remota » e « morte » (« come remota, morte era da terra »), che la virgola, quasi uno snodo, insieme unisce, separa e fa ruotare.

Ora la specularità che il lettore coglie fra « remota » e « morte » ha a che fare con il fenomeno cui Saussure ha dato rilievo con l’etichetta di anagramma, o ipogramma o paragramma. Gli elementi fonici di « morte » ricompaiono, secondo un altro ordine, in « remota ». Ciò viene a costituire fra le due parole una omologia, un rimando di senso più forte e decisivo di qualunque radice semantica comune. Incrociando due identità/estraneità nel a figur la uce prod ca poeti one ibuzi distr la , verso del o stess o centr insieme riconoscibile e deformata del chiasmo. Non si potrà fare i, tuirs costi Il . passo altro un iere comp di , punto o quest a , meno a in sede privilegiata a chiusura del testo, di un tale meccanismo natue ciale artifi ente altam o stess o temp al , senso di e di ritmo di così mo dire i effett ad o dinat preor che e esser rale, non può ival’equ come te amen rozz ibile defin ggio, messa Tale messaggio. (tra» nza dista « e » morte « fra nua) conti lenza (o convertibilità

larga ione posiz in », a remot « tivo agget dell’ duzione legittima che senso nel , topia l’iso a indic modo he qualc in , gua) mente ambi 81

a si os , ne io iz os mp co ra te in l’ a ur dà al termine Greimas, che strutt ie ic rf pe su la o tt so r pu — va si che ne garantisce la coerenza discor ». le ca ti ma am gr za en er co in « e al di una eventu Ri o. st te l ne e ar ov pr da i, es ot ip Prendiamolo come semplice O « o rs ve di o ll de an br il e ch e, nt marcando, supplementarme , ro te in o rs ve di re lo va ha ne io nz fu a su cara », il quale per la ma , te en gu se al , sì , ia gg po ap si e ch re di io autonomo — vogl fdi a — o ri op pr re lo va di o at iv pr senza venirne fagocitato e de va si es cc su ca ri li a ll za ne en rr co ri ca ti en id i as qu a un a di ferenz di , ra ca , o za en es pr / a rt ce e Ch « ), no si Ma l de e ll va a ll (Sera ne te in a un o, a iv tt fe af vo ti ca ce vo li mp se un a ce du ri si n vita! », no » tu « un e ss fo i as e, qu al in om on pr a rc ma da ce is ag , ma ne riezio ia al ar o at in st de a », ic et a po on rs pe « a do un en tu ti o, is it ic pl im

e on zi na mi :» io no gl i me re ta di o er op la sc el to qu di or pp su no me della morte, che fa da centro al chiasmo. Se, tenendo fisso il punto che ho cercato sommariamente di illustrare, si riprenda la lettura di Sulle rive del Lambro secondo la normalità lineare, intendo cominciando dall’inizio, si scoprirà subito la congruenza profonda — e dunque significativa al massimo — dell’incipit con la chiusa. Essa è fondata su un valore di opposizione, dichiarato dall’« illeso », voce forte anche per la dislocazione d’apertura, evidentemente simmetrica e antitetica rispetto alla polarità di morte già individuata. Doppio rifiuto della caducità, in quanto ciò che compare nel gruppo di sette versi isolati in apertura, è una scheggia di pura sostanza mnestica, astratta in qualche modo dal tempo e dal suo effimero e preservata in una durata individuale (« quel » giorno) — (anche se poi nell’atto significhi un fading, del ricordo stesso).

Che l’attacco di Sulle rive del Lambro voglia invertire la chiusa della poesia, è testimoniato dopotutto anche dall'immagine « illeso sparì da noi quel giorno / nell’acqua coi velieri capovolti [...] », il cui valore di invenzione si accentua se si ricolleghi il passaggio alla figura più complessa ma simile che con-

clude Ariete in Acque e terre, dove il riemergere « capovolte » delle acque identificate a divinità, ha una intensissima capacità di stupore (« ogni erba dirama / e un’ansia prende le remote acque / di gelidi lauri ignudi iddii pagani; / ed ecco salgono dal fondo fra le ghiaie / e capovolte dormono

celesti »).

Il deittico « quel», in opposizione con il successivo « qui » (« Nel sereno colore / che qui risale a morte della luna ») isti82

tuisce una distanza che è insieme temporale e spaziale, che continuerà a proiettarsi e definirsi variamente attraverso tutta la poesia. Ma di distanza si era già parlato nella prima sommaria analisi del distico finale, e ad esso

il lettore

viene

naturalmente

ricondotto. La scansione, con accento di quarta, sesta e decima, del verso «come remota, morte era da terra », produce anche la ripartizione precisa di quelli che potremmo chiamare i sememi fantastici di Sulle rive del Lambro:

distanza, motte, terra.

Vogliamo vedere qui enunciati alcuni degli elementi primari, delle archai del mondo quasimodiano? Non ci trovo difficoltà, sempre che si proceda con quella cautela metaforizzante che è di rigore quando si tenti di entrare nel lavoro di un poeta. Certo tutta l’opera di Quasimodo che antecede questa poesia, da Acque e terre a Oboe sommerso, ad Erato e Apòllion, si colloca sotto un certo segno che con approssimazione diremo presocratico a costituirsi secondo continue, ostinate identificazioni di sostanze primordiali, irriducibili. Dei quattro elementi tradizionali, due, acqua e terra sono addirittura contenuti nel titolo della prima

raccolta

(1930).

Ciò

che scriveva

a suo

tempo

Luciano

Anceschi circa un « linguaggio fatto di elementi vegetali » sottolineandone la rilevanza a creare un’unità di tono, è un riconoscimento critico che va proprio in questo senso. Le pezze d’appog-

gio testuali sono subito sottomano: « con'esso il mare odore della terra »; « a cui tranquille acque muovono appena / folte d’angeli di verdi alberi in cerchio »; e così via. L’elemento dell’aria ha il suo significante privilegiato nel vento: « profonda la strada / su cui scendeva il vento / certe notti di marzo »; « s’udivano stagioni aeree passare »; « centro d’ogni cosa, / del sereno e del vento del mare e della nube »; « il vento s’innesta / docile al mio sangue »; fino alla commistione dei tre elementi in una sorta di cosmogonia: « Da piante pietre acque / nascono gli animali / al soffio dell’aria ». Quanto al quarto elemento, il fuoco, può mandare avanti benissimo, come suoi avatar, le « alghe arse », i « vulcani », 1’« antica luce delle

maree ». Piccolo catalogo, necessariamente contratto, delle ricorrenze e mor pri ze tan sos to det ho che lle que di re che mas e metamorfosi dei co gio sto que A e. ger iun agg lio vog he, tic poe ze tan diali: sos a, tiv tin dis a not la è ed a, col mes odo sim Qua quattro elementi, udi nel l’i to, men ele nto qui suo il re ama chi ciò che si potrebbe 83

mLa l de ve ri e ll Su di sa iu ch a ll ne bile. Lo si è già visto comparire i br li i ne a nz ue eq fr e ar ol ng si n bro, e del resto lo si incontra co precedenti: la morte. to at nt co l da va ti na di or e va ti at tr at a rz Come riprendendo fo o ic st di al a rn to ro mb La l de ve ri e ll Su di col magnete, la lettura ga ie sp a un è C' a. ur tt ru st ra te in l’ so er av tr at e ar ol rc finale per rici o ci ic pr ca un a ta ga le , va ti et gg so e nt me ra zione che non sia me ro mb La l de ve ri e ll Su : to at co re ge er em l’ el della memoria, di qu to la co ti ar a si os do », ra og tr re « o ic et po o st te un me co ta en si pres

e ch e gg le la el qu a tu at si e: vi on zi oa tr re di so es oc pr un o second comanda l’effetto di senso nella frase, che esige l’avvento dell’ultima parola per costituire, mettere in moto il senso di tutta e nt me va un posto ti ni e fi ar de gn se as r : pe mo re di em tr . Po na te ca la a tutti gli elementi antecedenti della significazione. Questo dell’assegnare il posto, mi sembra un reperto fondamentale anche per una lettura di Sulle rive del Lambro. La scansione indicata, che isolava e insieme coinvolgeva i segri originari: distanza, morte, terra, si proietta retroattivamente lungo l’intera poesia, determinandovi zone temporali ma soprattutto spaziali. Del resto, la sequenza

« O cara, / come

remota,

morte

era

da terra» non agisce semplicemente da ordinatrice delle strutture grammaticali e profonde del testo in questione, ma da centro di riverbero per le poesie che si ordinano nelle sue vicinanze, e pure anche a distanza. Basti pensare all’attacco de La dolce collina, terza nella successione delle « Nuove poesie » (« Lontani uccelli aperti nella. sera / tremano sul fiume »), dove, poco oltre, appare l’aggettivo « remota » (« come ogni cosa remota

/ ritorni

alla mente »); ed ho già detto dei contatti con Sera mella valle del Màsino. Ma già Erato e Apòllion, in Sillabe ad Erato, conteneva una straordinaria anticipazione tematico-fonica: « serenità di morte estrema gioia ». « Ed è morte / uno spazio nel cuore » recita la chiusa di Fresche

di fiumi in sonno,

in Oboe

sommerso.

Le zone

scom-

partite nel corpo di Sulle rive del Lambro coincidono prevalentemente con i ritmi tipografici indotti dagli spazi di bianco — ma

non sempre. Zone temporali e geografiche distinte, possono inter-

penetratsi. La strofa che comincia « Nel sereno colore / che qui risale a morte della luna » (dove la menzione della morte si occulta in

un sintagma insezionabile:

«a

morte

84

della luna », secondo

un

modulo familiare alla poesia ermetica), sposta dal fuoritempo di « quel giorno », che è pure un fuorispazio connesso al mito quasimodiano dell’isola e dell’infanzia, sposta, dico, al qui-ed-ora dei colli di Brianza, geografia già annunciata nel titolo, e a un certo sistema acustico («in un tonfo di ruota il vuoto

della valle »),

in cui si reimmette di sorpresa l’altra spazialità (o spazialità della memoria): « si rinnova l’infanzia giocata coi sessi »; che riprende campo nelle tre strofe che vanno da « Nel nord della mia isola » all'immagine, assolutamente quasimodiana, perfino lessicalmente del primo Quasimodo:

« E dentro la mia sera uccelli / odorosi

di arancia oscillano / sugli eucalyptus ». L’altro deittico « qui » restaura l’area, non direi appena geografico-psicologica ma scrittoria, della Lombardia — scrittoria, perché è col rientro nell’atto disperatamente attuale ed effimero dello scrivere che la figura della morte può prodursi come unificatrice dei piani e dei tempi che essa stessa ha costruito — attraverso i quali è passata, come un filo leggero e aureo di cucitura, la presenza femminile senza volto, puro moto («tu ancora vaga movendo / hai pause di foglia »), annunciata nella seconda strofa. Essa si annoda al finale mediante quel « O cara », già designato come supporto del nome-della-morte. Partita a ritroso dal centro del chiasmo di cui ho parlato, la struttura del testo vi ritorna per completartsi, o forse per dissolversi. Ciò che aveva scandito gli spazi, li riassorbe e li fissa nell’equilibrio centrale di « come remota, morte era da terra ». Nella /terra/, qui assunta quale significante di tutti e quattro gli elementi, si iscrive l’esperienza della morte. Ma l’esperienza della morte è l’esperienza dell’infinitamente distante, remoto, del termine indefinibile proprio perché radicale e obbligato — dell’illeggibile, in una parola. È questo che ha detto, che dice « Sulle rive del Lambro », Lo e. ion raz ost dim mia la zia eri imp ppa tro con lto svo ho se non sini, ical less , ici fon i, mic rit gi sag pas di e seri una dice attraverso ’om all ano unt rip e dal o ton par che etc. ali por tem , rali tattici, figu belico di quel « remota, morte ». ò pu si n no ia or te ta me cui la r pe », la ro La « poetica della pa uod tr in a all o, ni en nt ua nq ci un di za an st di a che rinviare ancora, se as nt co n no la ro pa la e ch a av ic pl im ì, cr Ma te es Or zione fatta da e ch o st po il r pe to an qu a, ri te ma sua la tanto per se stessa, per

. va ea cr lo i cu in o nt me mo l ne — veniva a creare e ad assumere i gl de si er li og cc ra l de do an rl pa i, A questo alludeva, credo, Solm effetti nella parola singola. e ch o ic st di l de ne io az et pr er nt ’i ll su S’apre un’ultima domanda i ch al av sc o ns se il e ch mo ia sc la Se ha fatto la parte del padrone.

a/ ot em /r e ch e , e/ rt mo da a/ ot em /r re ra pa se la virgola messa a sa co e ch al qu a zi un en si i qu , a/ rr te a /l n co e nt me ca si leghi logi ce li mp se , la ia nc mi co ri e ch no or gi l de to or nf co che riguarda il ra Se « ia es a po ll , ne po do na gi pa a à, un er im pr es si e za ch an er sp ne te io ez ri te in l’ n co o, tt de à gi ho me co , no si Mà l de e ll nella va o an o um gi ag es pa l Ne ». ta vi di , ra , ca za en es pr / a rt ce e nera: « Ch recuperato, che contiene tracce dell’angoscia notturna ma che si è arricchito delle immagini di memoria, la morte appare come qualcosa che è lontano, remoto dalla terra — almeno per un istante.

Ma se la virgola ha una sua funzione significatrice? Allora /remota/, svincolata dalla preposizione, è ciò che designa la stessa faccia della morte, la sua distanza insormontabile, la sua illeggibilità o impronunciabilità, come si diceva. È in tale appa-

rato incantatorio

di remotezza

assoluta

che la morte

compare

sulla terra riemergente dall’alba (« morte era da terra »). Vi appare come distanza, come può rivelarsi una spiaggia a poco a

poco, a chi vi approdi di lontano. Vi ricordo che in un suo scritto Freud annota che « per noi è assolutamente impossibile raffigurarci la nostra morte, ed ogni volta che tentiamo di farlo, ci rendiamo conto di assistervi da spettatori ». Il distico quasimodiano produce un’immagine tangente proprio all’ultima osservazione di Freud. Questa « apparizione di distanza », in qualche modo conoscenza estatica, suona straordinariamente omologa a « serenità di morte estrema gioia ». La morte, ben nota abitatrice dei primi libri, dove si presenta come idolo originario, termine risentito ed ossessivo, nel testo di

Sulle rive del Lambro si fa figura non meno assoluta però diffusa in una distanza che ne addolcisce la qualità di oggetto intrattabile. Qui la poesia fa finta che la morte si possa dire, per un mo-

mento, almeno « come remota ». In effetti, Sulle rive del Lambro è una poesia-cerniera, che anticipa una fase dello sviluppo di Qua-

simodo. Quella in cui, confrontato all’impasse teorica e storica della poesia pura, nella forma detta ermetismo, egli avverte la 86

necessità di un riordino totale, di una trasformazione dei suoi istituti poetici, sia pure senza rinnegarsi. Ecco dunque che, anche a livello delle storie letterarie e delle loro vicende, Sulle rive del

Lambro può ricevere la sua brava chiamata in causa.

Mario

Martelli

IL PROBLEMA METRICO NELLA POESIA DI SALVATORE QUASIMODO

Diceva Vittorini nella recensione ad Oboe sommerso: Le poesie più vecchie contenute nella prima raccolta del Quasimodo, Acque e terre — alcune delle quali rimontano al 1917 — sono in ottave, quartine, terzine, di impeccabile fattura e proprio per questa inutile voluttà della distesa espressione metrica, diminuendo il valore della parola, ne corrompono il significato lirico, e quasi mai giungono al canto; perciò io queste chiamo ermetiche e oscure. Men. tre nelle cose più nuove di Acque e terre e in tutto Oboe sommerso la lirica del Quasimodo ha acquistato vera chiarezza, e direi lucentezza, dove più sembra si sia impoverita; nel liberarsi proprio dalla strofe e dal componimento metrico lasciando cadere di dosso il super fluo e, con il superfluo, l’oscuro.

In verità, se non proprio dichiarate terzine, tra le poesie di Acque e terre, ci sono, sì delle ottave (Battere al buio), c'è un sonetto (Torzenta), ci sono tetrastici d’endecasillabi a rima alterna (Chiarità) o a rima chiusa (Primavera): il tutto, in un

gusto oscillante tra il Severino Ferrari dei Bordatini o del Mago e il Giovanni Pascoli delle Myricae; e ci sono anche, questi tutti e solo pascoliani, i novenari e i senari tipici dei Canti di Castelvecchio. Una base di partenza, quanto mai provinciale e, come giustamente ebbe a dire Sergio Antonielli, decisamente « arretrata », che Quasimodo — evidentemente messo sull’avviso — cercava, con scarso successo, se non di superare, almeno di nascondere. Perché, il fatto è che anche là dove il poeta sembrava respingere, nella prima raccolta, la metrica tradizionale, essa, in realtà, svelava pure e tradiva la sua originaria presenza: quasi l’infrazione fosse stata ottenuta, volontariamente e non senza

qualche

goffaggine,

grazie ad una 89

scoperta

violenza

operata

a

una in , che e dir io gl Vo ca. oni can a nat ura mis posteriori su una 6-8 si ver dai o, mpi ese ad a, uit tit cos lla que me co serie di novenari lla ste i ogn e pur se / po cor tuo al o av ns pe o mp te Da (« di Croci ne be te sen si »), ro zbi bar di ro olc sep un lia veg che / ce è una cro ripe cui la , tro rme ipe o ri na ve no un to tan sol è che l’ultimo verso tisos i, min eli la pia a im an e lch qua che ra, ttu iri add da, gri ria met (e imo itt leg i ent rim alt n be un » o in mb ba « o gru con ’in all do en tu tanto più perché, tra tanto Pascoli, indubbiamente pascoliano) « bimbo »: « che veglia un sepolcro di bimbo », e restituendo così la forma in cui il verso dovette vedere la luce nell’atto creativo (fosse anche non più che interiore) di Quasimodo. Così, in Primavera, la quartina inaugurale ostenta in clausola una vistosa ipometria: Io non ti scorsi mai vergine antica fresca d’acque, di pampini selvaggi per premerti sui fiori tra i miraggi delle occulte lamine di mica.

L’ipometria spicca nel contesto:

e, per questo, come resistere

alla tentazione o, per dir meglio, come sottratsi all'esigenza di leggere « occultate », là dove sta scritto « occulte »? Né d’altro, invero si deve andare in cerca, per restituire la piena misura dell’endecasillabo:

« delle occultate lamine di mica ». E così, come

in questi, in altri cento casi; perché, ad ogni piè sospinto, il lettore, quando non supplisca una sillaba di poco o non ne espunga una di troppo, procede mentalmente alla instaurazione di una dialefe d’eccezione, di una non prevista sineresi, di una dieresi assai problematica, pur di riguadagnare quella legalità metrica che, a prima vista immotivatamente, il poeta vorrebbe invidiarsi. Il problema, invece, che stava alla base della apparentemente sconcertante fenomenologia, era un semplice problema d’ammodernamento

risolto in fretta e furia. De la musique avant toute

chose: questa, mi sembra, la base di partenza di Quasimodo — e, per lo scopo, anche lui prediligeva l’imparisillabo; ché dev'essere stato proprio l’orecchio musicale a socchiudere di fronte a lui le porte della poesia. E viene spontaneo pensare, ma appare anche ragionevole concludere, che, solo dopo averle varcate, Quasimodo abbia saputo che, contrariamente a quello che aveva proclamato D'Annunzio, il verso — e, tale, per il numero fisso delle sillabe e per .la preordinata periodicità delle 90

toniche —

non era tutto; che anzi era, coi tempi che correvano,

il limite da superare perché la poesia fosse raggiunta. Glielo raccomandava fin d’allora, come si è visto, il cognato Elio, postulando, forse primo tra tutti, quell’antitesi che al verso (o esteriore recitativo cantabile) opponeva il verbo, anzi il verbum (0, nonostante la sua incarnazione, centro d’interiore liricità). Era, in fondo, la stessa antitesi che la critica di allora riformulava, con le variazioni richieste dai successivi casi, con significativa insi-

stenza, e (tanto per fare un esempio, il medesimo Vittorini o Giansiro Ferrata, Alberto Consiglio o Gianfranco Contini, a proposito del Montale a mezzo del guado tra Ossi e Occasioni). Ora, se la raccomandazione di Vittorini era quella di sacrificare il verso alla parola, il verso, a dispetto di tutta la sua buona volontà, era, per Quasimodo, tutto; sicché dovette sembrargli che le sorti stesse della sua poesia si giocassero in effetti nella possibilità di liberare le sue liriche da quell’inerte ed ingombrante giro concluso. « Le rime » — avrebbe detto Montale non pochi decenni dopo, quando un ritorno di fiamma dell’avanguardia impose anche a lui analoghe richieste, — « Le rime sono più noiose delle Dame di San Vincenzo: battono alla porta e insistono »; né meno noioso di una dama di San Vincenzo dovette apparire al Quasimodo di allora il verso, che, messo continuamente alla porta, con-

tinuamente si riaffacciava a far valere i suoi tanto insopprimibili quanto insopportabili diritti: Isola mattutina: riaffiora a mezza

luce

la volpe d’oro uccisa a una sorgiva.

Se i primi due versi (si tratta, come

tutti si sono

accorti, di

i se — ) ptus caly L’eu so, mer som e Obo di a liric a una notissim ra misu loto la e der con nas di ano tent e pur nep primi due versi », o d’or e volp la (« si piat sdop o bell suo un ha tro l’al di settenari, e, di sotto, « uccisa a una

sorgiva »); esso resta pur sempre

un

che to, ques da se de, tron D'al ore. mz4i 4 o llab distesissimo endecasi nda seco alla , alto in più po’ un le risa si ia, poes a dell è il finale ia: camb non ) dire di o mod un è non (e strofe, la musica In me

un albero oscilla

da assonnata

S1

riva,

alata aria amare fronde esala.

Anche qui, ai due settenari (non proprio regolari, questi, ma »; me « o dop fe ale sin una ad zie gra mo, pri il re: ene ott facili da l’altro, mediante regolare dialefe dopo « da »), seguono due versi brevi: ma, due, solo in apparenza, dacché, solo che, dopo « ala0, a tes pre ta, vol sta que (e, e lef dia va nuo una ad a ced pro si », ta piuttosto, imposta dalla necessità di dar rilievo alla consapevole ed insistita allitterazione vocalica), si fa capo ad un altro spiegato e sonante endecasillabo — « alata aria / amare fronde esala » —, magistrale, a parte tutto il resto, per quella sorta di ritorno su se stesso (una vera e propria redditio fonica), per cui, apertosi sul gruppo 4/d- di « alata », va a concludersi, in rima semiatona, sul gruppo -dla di « esala ». Così altrove, a riconoscere l’endecasillabo (e, di solito, che endecasillabo!) ed a riguadagnarlo, basta tener conto di un’anacrusi vocalica (ed eliminabile, quindi, per

sinafia) o sospendere la voce su una incantata dialefe. È il caso, per esemplificare ancora una volta, della celeberrima Vento a Tèndari, dove i versi 6-10 costituiscono una folata di endecasillabi e settenari (imperfetti metricamente, musicalmente perfettissimi) petcotsa ancora dalla tipica allitterazione vocalica, sulla tersa ed

aperta 4: Salgo vertici aerei precipizi assorto al vento dei pini, e la brigata che lieve m’accompagna s’allontana nell’aria, onda di suoni e amore.

È su questa totale, nativa disponibilità al canto che intervenne, condizionante (e pericolosamente condizionante, anche se andata poi felicemente a buon fine dato il verginale candore teorico di Quasimodo), l’azione della critica: dacché, in sostanza, si trattava della medesima raccomandazione, a che il poeta non sci-

volasse troppo abbandonatamente nel verso, di sforzarsi almeno di decentemente nasconderlo, in una tensione verso la pura parola, depositaria, in se stessa, di un assoluto valore lirico. Una nozione, questa — di « parola poetica » —, che, proprio a proposito di Quasimodo (ma già il Contini del ’32 aveva detto, per Ungaretti, che in lui « il discorso nasceva successivamente alla parola »), si 92

cercava di progressivamente definire. Era, questa, se potessi permettermi di dirlo, la parola d’ordine. Solmi, nel ’36, scriveva: Poesia scarna e immediata, dove l’immagine, colta isolatamente, si affida tutta al tono della voce assorta che la pronuncia. Ma in cui, più che l’immagine, più che il verso, l’organismo costitutivo, la cellula elementare è la parola. Ciò spiega come la trama della composizione così spesso s’allenti e si diradi, mentre l’espressione, l’effetto, tendono a raccogliersi nella parola singola, musicalmente insistita nelle sue sil-

labe; e come gli elementi strutturali guadagnino dalla imprecisione in cui il poeta li lascia, quasi arcate mozze, slanciati frammenti d’aeree architetture.

Nella medesima direzione, scavava Carlo Bo, l’anno dopo: Intensità che non è solo percepibile dall’intera esecuzione del pezzo, ma che va calcolata dallo svolgimento intero della preziosa matassa di fili che è la parola secondo Quasimodo [...]. Nella parola riporta l’essenza d’ogni condizione di vita, quasi come sommare in una luce sola la serie intera delle ore di un giorno. La parola, come l’ultimo stadio d’una lunga e indefinita operazione d’avvicinamento: ma presa non nella forma cristallizzata d’una definizione bensì in una miracolosa trasparenza di tutte le variazioni, infine come sede generale del sentimento. La parola ancora, come un’eco da suscitare, da saper suscitare.

Una nozione, tuttavia, quella della parola poetica, difficilissima da definire con esattezza e, in ambito estetico, estremamente ambigua; visto che — essendoci interdetto, senza dubbio, di pensare all’antica distinzione tra parole belle e parole brutte, di bem-

biana memoria — essa non può non fondare, infine, la sua legittimità se non su una sorta di rivelazione o, se si preferisce, di incarnazione del Verbo: perfettamente a suo agio, d’altronde, in ismo l’ermet fu che ’ nuovo stil dolce ‘ o rediviv di ra atmosfe quella fiorentino degli anni Trenta, in quel clima di ristrettissimo club di cleres più clus ancora del loro trobar. Words, words, words, insomma, anche e soprattutto per Qua-

simodo. Il quale, dopo che Oreste Macrì, preludendo all’edizione paa dell ica poet « a olat rtic un’a o orat elab a avev i, Pian i Prim di poeria prop sua a dell ico teor e ico crit ’39, nel va, face rola », si o vers a ntat orie è to egui pers o iam abb noi che sia: « La poetica di o ent tim sen del e , luta asso la paro a dell ” tità i valori di ‘quan 93

n no oi su i de ra ia ch ù pi o lt mo n no , de ve essa ». Glossa, come si lsu ri i n co o st ra nt co o tt ne in , tà ri ve la re | chiarissimi testi; e, a di o, an ev nd te o od im as Qu di ’ le ro pa ‘ le se o, tt fa l ne tati perseguiti o, us xt fe un in e nt me il ib tc er co in si ar zz ni ga per lor conto, ad or a im pr r co , an a’ ur it ss te ‘ a un in s, tu ex nt co un in , io gl me per dir me co , la el qu a ri ga ma : li ca si ze mu en nd po is rr co di , ti et nc che di co si i lu in ù . Pi ma ti ul t’ es qu so er av tr at lo so o nd vedremo, arriva e on zi ra pi as le ta la el qu a, ic et po o di ll ve li o, a nd ne po im va da an alla parola « assoluta », più, ad emergere, erano i valori di un’armonia manifestamente riecheggiante dalla tradizione. Caso paradigmatico, infine, di quel divorzio che in certi poeti si consuma tra consapevolezza teorica da una parte e, dall’altra, oggettivazione effettuale. E la prova è ad universale disposizione: pochi, infatti, avvertiti dal dibattito critico, avtanno omesso di procedere ad un inventario delle parole poetiche di Quasimodo; ma nessuno,

se non di proposito, non per questo immotivatamente,

riuscità a dimenticare certi suoi versi: e il vento, il fresco vento non versa telai di suoni e chiarità improvvise e quando tace anche il cielo è solo.

Sono i versi 4-6 di Vita nascosta (da Oboe sommerso);

direbbe che il primo e il terzo, così volutamente

e si

zoppicanti o

assorditi, abbiano solo l’ufficio, con la loro renitenza

alla canta-

bilità, di far più abbandonatamente cantare quello centrale: « telai di suoni e chiarità improvvise », emerso d’un tratto da una zona d’ombra. Ed è, in questo come in molti altri casi, il significante metrico a guidarci verso un ben solido recupero semantico: vocali telai (il fexfus, come si vede, la ‘ tessitura’ dei suoni) e l’im-

provviso della chiarità; diciamo meglio: l’epifania della sostanza poetica che si attua nella vocale tessitura delle parole. Epifania del verso, dunque, e, prevalentemente, dell’endecasillabo, ma sofferta, e scaturita da grigi dintorni. L'esperienza dell’ermetismo

(anche se, come ben vide l*Antonielli, fondata su un

equivoco) valse proprio a questo: a far sì che il poeta, del tutto istintivamente, funzionalizzasse all’interno della lirica — conquista da raggiungere ed eccezionale momento di grazia — la sua incoercibile disposizione alla musica, controllandone la prorompente urgenza con l’imperativo che gli comminava di negarsela. Sordità e canto sono i termini contrastanti entro cui si svolge la 94

storia lirica di questo Quasimodo: e quella, la sordità, era ottenuta dal poeta (ma ormai con quale sapienza rispetto a quella di appena pochi anni prima) attraverso la infaticabile lavorazione di un originario e non altrimenti attestato (come un glottologo che premettesse

un

asterisco

al lemma

Ma vorrei, a questo punto, estesamente

ricostruito)

procedere

verso

canonico.

ad un esperimento

più

concreto. Leggiamo, pertanto, insieme:

>)

10

15

È la sedicesima

Dammi il mio giorno; ch'io mi cerchi ancora un volto d’anni sopito che un cavo d’acque, effimero riporti in trasparenza, e ch'io pianga amore di me stesso. Ti cammino sul cuore, ed è un trovarsi d’astri in arcipelaghi insonni, notte, fraterni a me fossile emerso da uno stanco flutto;

un incurvarsi d’orbite segrete dove siam fitti coi macigni e l’erbe.

pcesia

(titolo coincidente

con

l’attacco)

di

Òboe sommerso, così come essa apparve nella princeps del ’32. Ed è interessante osservare come la lunga storia redazionale della lirica riguardi esclusivamente, o quasi, il suo assetto metrico. A parte, infatti, la caduta di « effimero » al verso 4 (procurata in Ed è subito sera, del 1942: ma anche in questo caso, non credo che fosse la parola a disturbare, bensì il settenario sdrucciolo, santamente

trasformato

quindi

in un

quinario

piano),

a parte

questo, ad ogni modo, Erato e Apòllion (del 1936) prevede la sola ricomposizione di endecasillabi, se riunisce in uno i versi 12-13 (« fossile emerso / da uno stanco flutto ») e, in un altro, i versi 15-16 (« dove siam fitti / coi macigni e l’erbe »); mentre, alla ricondurre da solo, uno ancora fa ne (6-7), versi due di altri batdella decapitazione per ipometro misura di un endecasillabo meno (a » stesso me di amore / pianga ch'io «e tuta iniziale: DD

tle ra st no a ll de i in ig or le al e en vi av che non si preferisca, come

te en am ic og ol im et e ab ll si e du e ll ne » teratura, distendere « io

e,

quindi, legittimamente distinguibili). no ti is pr ri il o lv sa o, st te al e it is qu ac o on ng ma Le innovazioni ri de en l’ e ar ul im ss di de on , ali fin ti et rs ve e (a partire dal ’42) dei du

uim ss di o at st a er i, in ig or e ll da n fi , me co casillabo di chiusa (così

mi o 'i ch « e: »; no or gi o mi il i mm Da : « co ac tt ’a lato quello dell , 5) 96 (1 a ni om a er Op i gl e de on zi di ’e ll ne , ne fi In . cerchi ancora ») ipr l de a ci ac tr ni og , ra su iu ch , in re la el nc ca a o, un ultimo ritocc mitivo endecasillabo: « dove siamo » (e non più: « siam ») « fitti / coi macigni e l’erbe ». Questo, pertanto, il punto d’arrivo della lirica:

5)

10

Dammi il mio giorno; ch'io mi cerchi ancora un volto d’anni sopito che un cavo d’acque riporti in trasparenza, e ch'io pianga amore di me stesso. Ti cammino sul cuore, ed è un trovarsi d’astri in arcipelaghi insonni, notte, fraterni a me fossile emerso da uno stanco flutto;

un incurvarsi d’orbite segrete dove siamo fitti coi macigni e l’erbe.

La struttura metrica è chiaramente definibile: endecasillabi (ipermetro, quello costituito dai versi 13-14; ipometro, probabilmente, quello in' sesta sede) e settenari (con anacrusi in sinafia, ai versi 3 e 9), più un quinario al verso 4. È, dunque, soltanto con il verso 11 che emerge, con faticoso slancio (come il fossile di cui dice; ed è allora, ancora una volta, il significante metrico che ci apre il messaggio), il primo endecasillabo vero e proprio, erto in quel dattilo iniziale, ma spento, subito dopo, nella tetrapodia trocaica appesantita dal prolungato omeoteleuto; e l’ulteriore declinare (0, come ci avverte l’infinito che lo apre, un « incurvatsi ») di ogni chiarità nell’endecasillabo successivo, rotolato com’è («un incurtvarsi d’orbite segrete ») sull’accento di quarta. 96

Sicché la lirica sembra muoversi (letteralmente), attraverso l’onda strisciante e continua dei settenari non rimati (e legati l’uno all’altro), alla ricerca dell’endecasillabo, quasi meta da conquistare penosamente. Ed è come se, all’interno della lirica stessa, s’instaurasse quel rapporto dialettico, appunto, cui accennavo poco fa, tra poésia e non-poesia — l’endecasillabo rappresentando il miracoloso punctum temporis dell'espressione assoluta, prima del quale nient’altro può esserci se non antefatto, dopo il quale nient’altro se non postuma dissolvenza. Ma — e sarà il caso di chiarire accuratamente questo punto — non un reale divaricarsi di poesia e non-poesia, quasi i due momenti sussistessero nella loro inconciliabile opposizione. Al contrario: la non-poesia, proprio per la sua funzione di ‘ controcanto ’, entra a pieno diritto nel giuoco, talché la lirica risulta non meno dalla sua preparazione e dalla sua eco che dalla sua punta acuminata. Ed è in fondo questa capacità di comunicare, sia pure al di là di ogni intenzionale consapevolezza, tutta la precarietà dello stato di grazia che, delle liriche di Quasimodo, fa altrettanti piccoli e trepidi miracoli, stupiti essi stessi della loro inverosimile eppur certa esistenza. E non è un caso che, a distanza di quasi cinquant’anni, mi sia affiorata alle labbra la stessa voce — ‘miracolo’ — che già abbiamo visto pronunziata (« miracolosa trasparenza ») da Carlo Bo. Il fatto è che le liriche di Quasimodo ci sono e, ad un tempo, non ci sono: impalpabili e trasparenti (e si noti, una volta di più, la coincidenza di vocabolario con Bo), chiuse in confini tanto indefinibili quanto indubitabili; come se (e lo dicevo recentemente, dedicando a Salvatore Quasimodo un discorso a parte, da ritagliare nel quadro di un capitolo volto a schizzare rapidamente l’opposizione di forma aperta e forma chiusa) — come se esse fossero sempre sul punto di dissolversi;

0 come

se, ove

si preferisca mettere

a frutto un tema

caro alla poesia quasimodea, la figura dell’opera s’identificasse con mare , del mobi lità dall a segn ato limi te, cui il d’un ’iso la, quella sussistesse costante nella sua perenne indefinibilità. ‘ Affioramenti ’, direi, le liriche di Quasimodo; 0, anche, hus-

serliane Abschattungen: un adombratsi o un affiorare della parola, didel e tar men ele tà uni o ema mon di so sen nel non ma intesa o ian tal l’i nel nte que fre i assa e io amp più llo que in sì ben , rso sco o ett str ito àmb o to cui cir , sso ste se in so clu con ’ o iod per ‘ antico di e ent alm eri mat bra sem ndo qua he anc , che e, da emisperio di tenebr o: end int tti, infa , sto Que za. sen pre ta cer sua la rma mancare, riaffe 97

al — on li òl Ap e o at Er po che, pur componendo il poeta — do e ch ne io az ns se la ra co an ha si i, cune liriche di soli endecasillab po ti he nc (a na gi pa a ll su i ma or a tutt'intorno alla forma, delineat om d’ na zo la el qu do an it al da va , re to ni o graficamente) con precis

o, sc ri fe ri Mi a. zz re pu ta lu so as ù pi n co bra, donde essa emerge lo to ti i cu il , ra se to bi su è Ed di e on zi se la al , to pi come si è ca de lu al e, al or mp te e on zi ta no la al e em si in — Nuove poesie —, de o Ri nt ’: me va no in ‘r e di on zi no la o, al nn ga in m’ n no anche, se le co lc , do um La nt ge ri Ag di da ra , St ci an i ar gl , su ra a ne zz ga la l ia de ar o Il cr d’ la mu i si al nt va ?, Da ia ar e d’ or st , pa oi vu lina, Che 2, ’4 e 1 °4 ra i (t rd ta e e ch tr i, ol ov i nu rs i ve tt tu n : so to e Carret quelli, nei dattiloscritti o nei manoscritti, forniti di date). Il fatto è che, ad osservare attentamente, anche qui sussiste quel tale rapporto dialettico tra ‘poesia’ e ‘non-poesia’, sul quale ho finora insistito. Ed anche qui, mi sembra indispensabile

insistere sul fatto che la paternità crociana di tali cifre non deve trarre in inganno: la non-poesia, neppur ora, sarà il dato inerte, la zona da espungere tacitamente, l’ ‘errore’ fout-court; essa è, al contrario, parte integrante e, anzi, fondamentale della ‘ poesia ’, se s’incarica di rappresentare non solo (come ho fin qui sostenuto) lo sfondo grigio o cupo da cui affiora il fantasma poetico, ma anche la segreta incrinatura che ne inforsa la persistenza. Gli endecasillabi di queste liriche, infatti (e quelli, immediatamente

successivi

nel tempo, di Giorno dopo giorno), sono, pur tra i più liquidi della poesia italiana, i più minati anche da una dolorosa e stridente forza di disgregazione: le dure dialefi prima o dopo vocale tonica (« Forse è un segno vero della vita »; « Della tua veste è qui tra le piante »; « Ma il tuo viso è un’ombra che non muta »; « Remoti i morti e più ancora i vivi»); quelle promosse da una

pausa nel verso analoga alla dieresi della metrica classica (« Umidi d’orme di cavalle, apri »; « Sopra l'erba. Anima antica, grigia »; « Accompagnano ombre di parole »); le quasi impossibili sinalefi (« non più mia, arsi, remoti simulacri »; « Hai un fiore di corallo sui capelli »; « di vento prigioniero, rompe e fa eco »; « Forse è il tuo, uguale d’ira e di spavento »); il ritmo, foscolianamente ansimante, impresso a certi versi, dagli accenti di 4°, 7%, 10 (« Fanciulli, forza il puledro sui campi»; « Forse in quel volo a spirali serrate »; « Dal vento. Come ogni cosa remota »); gli

stessi enjambements che, facendo straripare il periodo logico al di là di quello ritmico, di quest’ultimo vanno obliterando la traccia (un esempio tra i molti: « Intorno a me fanciulli con leggeri 98

Moti del capo danzano in un gioco Di cadenze e di voci lungo il prato Della chiesa ») — tutto questo concotre a far più dolorosamente luminosa, insidiandola dall’interno, la purezza di queste liriche. Ma più del resto, a perseguire un tale indicibile risultato, contribuisce un raro tipo di endecasillabo disarmonico, che, accentato sulla 5° (e frequente qui, ma più ancora nelle poesie di Giorno dopo giorno), non ha altro precedente (salvo sporadiche e, d’altronde, malcerte e remote occorrenze nella poesia volgare delle origini) se non quello, cui dètte vita Giovanni Pascoli per le saffiche d’amore e di morte nel conviviale Solo; con questa differenza, tuttavia, che, mentre in Pascoli, dottamente e scrupolosamente fedele al modello classico del saffico minore, la pentapodia logaedica prevede il dattilo fisso in terza sede, in Quasimodo ogni legge si fa più labile; e il dattilo, esposto alla massima mobilità consentitagli dalla forma, oltre che in terza sede, ora risale in seconda ed ora discende in quarta, mentre, d’intorno, i trochei si cambiano spesso in pesanti giambi. Ecco alcuni tra

i tipi: Della chiesa. Pietà della sera, ombre Di rancori, torni a quel vento, annusi Tremano sul fiume. E la pioggia insiste S’affidava il mio deluso ritorno L’asprezza, la vinta pietà cristiana

So bene che quanto ho detto in queste ultime pagine potrà essere verificato soltanto a tavolino, e piuttosto al puntiglioso vaglio di una agiata lettura che non a quello di un semplice ascolto. Ma, fin d’ora, quello che mi preme sia colto da questo pubblico fin troppo paziente è il significato generale di un’indagine come quella che vado tentando: la irrinunciabilità, nella lirica di Quasimodo,

di una dialettica tra instaurazione

e disgre-

duce M°in . tale amen fond vo moti il forse e tuisc costi ne che gazione, una di senso il o intes aver dopo ora, solo che a crederlo il fatto del e à levit di gini imma tante di é perch il svela si , tale dialettica loni uccell acri, simul , maree ulli, fanci no: fasci loro malinconico luna, e mare e acque e vento i, cavall di ere crini sera, tananti nella e o, stanc o do, palli me, insie ma, a, ancor do limpi è ecc., tutto e esso somm , tempo di zza ’alte quest a già malato. Un dialogare, si go, dialo nel che, vita una e , morte la con vita della disperato 99

s bu di se de i eb Er ae ot mm co u nt ca At « tinge sempre di morte: n no »; um nt re ca ce lu ue aq cr la mu si es nu te imis Umbrae ibant n no ta vi La , in no ra gu au in ni ia il rg vi i rs ve e du i so ca r certo pe a et po il e om (c oè ci e o, og al Di la to ti in s' e ch ia es po la è sogno, a) ne ra po em nt co ia es Po la al 46 19 l ne to ca di de so or sc Di dice in un

« continuo dialogo con la morte ». Ma — a livello di tecnica versificatoria e di strutture metriche — un dialogo, prima di tutto, con la tradizione, se è vero che un tal tipo di poesia nasce da un preciso rapporto tra conservazione ed infrazione, contesto e contrasto. Solo in questa prospettiva e solo tenendo conto di queste considerazioni appare comprensibile la lirica dell'ultimo Quasimodo, tra 1954 e 1966. Ed è, proprio per tentare un approccio alla produzione di questi estremi anni, che particolarmente adatta ci sembra la ‘ trascri-

zione’

(se così posso

dire) di una

canzone

libera leopardiana

come la poesia che, dedicata a Rossana Sironi, ha il titolo (in Il

falso e il vero verde) di Nemica della morte e che qui vorrei leggere per intero: Tu non

dovevi, o cara,

strappare la tua immagine dal mondo, toglierci una misura di bellezza. Nemici della morte, che faremo chini ai tuoi piedi rosa, sul tuo costato viola?

Non hai lasciato foglia né parola dell’ultimo tuo giorno o un no a ogni cosa apparsa sulla terra, un no al monotono diario degli uomini. La triste, estiva àncora di luna trascinò via i tuoi sogni: colline alberi luce notte acque; non confusi pensieri, sogni veri staccati dalla mente improvvisa per te

che decise

il tempo, la viltà futura. Ora sei dietro dure porte, nemica della morte. — Chi urla, chi urla? — Tu hai ucciso in un soffio la bellezza l’hai colpita per sempre, l’hai straziata senza un lamento per la sua folle ombra che stende su noi. Non bastavi,

100

bellezza, solitudine disfatta.

Hai svolto un gesto nel buio, hai scritto il tuo nome nell’aria o quel no a tutto ciò che brulica qui e di là dal vento. So che volevi nella veste nuova, so la domanda che ritorna vuota. Non c’è per noi, non c’è per te risposta, o muschio e fiori, o cara nemica della morte.

Tutto, anche ad una prima lettura, parla ancora del lessico, il tema, che rinvia ai due XXX e il XXXI, ambedue per giovani morte); struttura metrica del ‘canto’, quell’alternarsi

di Leopardi: più canti sepolcrali (il e più del tema, la di endecasillabi e

settenari, connotati (ed è caso rarissimo in Quasimodo) da eccezionali rime (ai versi 5-8: rosa, viola; parola, cosa), da rime interne (al verso 14: « pensieri, sogni veri »), da rimalmezzo (ai versi 18-19: «sei dietro dure porte, / nemica della morte. / — Chi urla, chi urla? — »); e, ancora, da quell’attacco di settenario concluso dal vocativo « O cara » (e si ricordi, fra gli altri, l'attacco della terza stanza di Sopra il monumento di Dante: « Amor d’Italia, 0 cari, »), dall’accenno ad un modesto epbymzion (ai versi 28-29: «So che volevi nella veste nuova, / so la domanda che ritorna vuota », che sembra riecheggiare il Canto notturno: «Tu sai, tu certo [...] Mille cose sai tu »), dall’insistito ricorso, infine, all’enjambement, che accorcia ed allunga il verso

(come ebbe a dire lo Zanella) « a guisa d’angue dilombato », solo in extremis recuperando la misura e, con la misura, l’eidos. Ma eidos, ormai, sistematicamente violentato: per un endeca-

sillabo che suona disteso (« strappare la tua immagine dal mondo », ad esempio), quanti ne occorrono di attratti e rattratti? Gli strumenti sono i soliti: sinalefi, dialefi, dieresi, anacrusi, e il ritmo che spesso si ribella alla norma della versificazione tradilimpiù canto suo del e ardi Leop di do ricor il zionale. Leopardi, strae ta pollu zza belle una di gine imma come viene pido, inter tavolon non o, idend coinc , poeta il dice come io propr ziata; così riamente

ma

tanto

meno

casualmente,

con

quanto

la metrica

in-

l’hai / zza, belle la soffio un in o uccis hai Tu « are: rilev duce a il è Ed ». nto lame un senza / iata straz l’hai colpita per sempre, qui che one funzi la é, Perch o. imod Quas imo l’ult modo di tutto

101

to can un te, mor la del a zic Nem di e nt mo a o st po up es pr svolge, e van gio una ve do e, ral olc sep ico ant o iev ril so bas come Sopra un i, suo dai si do an at mi co ac e, tir par di o att in a tat morta è rappresen

di e ion sez una ta tut in o, mpi ese per e, ro: alt da lta svo è altrove i anz , ata neg e a cat evo e, gin mma l'i dal le, abi ggi are imp La terra cro l’A del cia Gre ica mit la del , ata neg ere ess per to tan sol a cat evo poli e di Micene, dell’Alfeo e di Delfi, di Maratona e di Eleusi. E viene fatto di chiederci quanto, da questo Quasimodo, abbia imparato lo stesso Montale di Satura, dei Diari, del Quaderno, quando, anche lui, rievoca fantasmi poetici (quello dell’Ellade, come Quasimodo, ma anche quelli di Annetta e di Mosca, delle intelligibili « occasioni »). Molto, direi. Con questa differenza,

tuttavia:

lascia prevalere l’amarezza

che, laddove Montale

del

sarcasmo, Quasimodo si alza ad una intonazione decisamente tra-

gica e, ai relitti delle sue negazioni, si aggrappa,

difendendoli

come vita.

Il canto, nell’ultimo Quasimodo, non è più possibile, neppure come eccezionale momento di grazia. Si leggano le poesie dei suoi ultimi libri con l’orecchio attento alla musica: quasi sempre sono i versi fondamentali dell’italiano, endecasillabi e settenari; ma endecasillabi e settenari, ormai, irriconoscibili:

rotti, contorti,

distorti; devastati a tal punto che, correggendo quanto ho or ora detto, più che l’orecchio attento

alla musica, sarebbe il caso di

tener pronte le dita al computo delle sillabe: « Sulla strada di Micene alberata »; o: « di eucalyptus puoi trovare formaggio »; e ancora:

« Oreste, il tuo viso scomparve

centinaia di casi. Chi vi riconosce

senza », e così via, per

degli endecasillabi?

Eppure,

essi lo sono, ed hanno l’ultimo accento sulla decima; talché, a farceli, per così dire, recuperare, basterebbe stravolgere gli accenti

lessicali (« Sulla strada di Mìcene alberata »; e: « di eucalyptùs puoi tròvare formaggio »; e ancora: « Oreste, il tuo visò scomparve senza »). Ma è questo, appunto, il senso del messaggio: bellezza come stravolgimento e negazione di se stessa, al di là e al di sopra di una a noi ormai inibita affermatività. Dacché, se la bellezza coincide coll’armonia del canto, la disarmonia è l’unica strada che ce ne consegna, nella sua morte, il ricordo: Io non cerco che dissonanze, Alfeo, qualcosa di più della perfezione.

102

I due termini estremi — dissonanza e perfezione — sono quelli di sempre, i poli entro i quali si è svolta l’intera carriera poetica di Quasimodo. Essi, che io qui pongo a conclusione di queste pagine, non sfigurerebbero, penso, come epigrafe premessa alla sua intera opera in versi.

CER

n

AE

CAI

alles

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Franco

Musarra

STRUTTURE FONICHE E SEMANTICHE NELLA POESIA DI SALVATORE QUASIMODO

La poesia — è stato detto — si distingue per il suo carattere mitopoietico nell’ambito delle possibilità di comunicazione del segno in determinati orizzonti storicamente condizionati stabilizzanti e dinamici, stabilizzanti per la tendenza a cristallizzarsi in modo più o meno rigido intorno a schemi, a sintagmi, a figure visive e acustiche, riprese da un modello rappresentativo di una certa classe o di una pluralità di classi, se legate da rapporti dialettici, dinamici per la qualità propria della storia, del pensiero, del linguaggio di essere in continuo movimento !. Ha luogo infatti una classificazione di elementi formali e di categorie immaginifiche che offrono al produttore modelli ed al lettore exerzpla che permettono rispettivamente la produzione e la ricezione di un testo. È comunque sempre necessario distinguere tra l’atto di lingua e l’atto di parola, tra il sistema della lingua ed il sistema della parola. Non intendiamo la dicotomia /angue/parole secondo il modello di Hjelmslev di sistema ed uso; la parola può — a nostro avviso — avere delle caratteristiche che ne fanno un sistema. Roland Barthes parla a proposito di « parola cristallizzata » ed Umberto Eco di « idioletto ». L’atto di parola poetico si caratterizza per la sua appartenenza al sistema della lingua e per le infrazioni, le rotture delle sue regole, in quelli che sono i nodi focali del testo e che provocano un ampliamento dell’orizzonte di realizzazione del produttore e dell’orizzonte di attesa del recipiente ?. Ogni fatto letterario — ed in generale ogni fatto cultux

1 Cfr. E. Sanguineti, Poesia e mitologia, in Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1965, p. 10. 2 Si vedano gli studi di H. R. Jauss, soprattutto il suo recente volume Astbetische Erfabrung und literarische Hermeneutik, Suhnkramp, Francoforte 1982.

105

or ff ra si e ch ci mi na di i em st si rale — fa parte di un insieme di o tt tu at pr so za iz er tt ra ca si e il st lo re zano reciprocamente *; ment a. rm no a un ad to or pp ra in ni io az vi de per le sue ti en em el da ta ui it st co ca ni ga or tà ni Un testo poetico è un’u si i ic st ui ng li ti en em el i Gl o. gn se l de o ll ve li a i, ar pertinenti, prim nco un o og lu ha ia es po In i. at ic if gn si e ti an ic distinguono in signif sa as ep tr ol e ch tà li na io nz fu a un n co ti an ic if gn si i de to en densam l Ne o. ri na di or io gg ua ng li l i de at ic if gn si ti en nd po is rr co i quella de ti seen nd po is rr co i de i or fu di al o, nn ti ha an ic if gn si i po contem di o oc o gi ss le mp co l de to ut fr i ov i nu at ic if gn si i de i, tt re i di ic nt ma connotazioni generato dalla catena sintagmatica, significati nuovi che a loro volta agiscono sui significati canonici provocando una « plurivalenza semica ». Il segno in poesia si dispone infatti su due livelli: quello del sistema della lingua e quello del sistema della parola. Nel primo livello distinguiamo due parametri: I) quello del linguaggio ordinario, con le sue regole acustiche, visive, sintattiche, semantiche e II) quello del linguaggio poetico, della serie di codici che caratterizzano le possibilità espressive sistematizzate all’interno della lingua, attive sia in sincronia che in diacronia *. Nel produttore l’influsso dei vari sistemi può essere forte o debole. Lo stesso produttore però è potenzialmente un elemento innovatore del sistema. Con il suo atto di parola infatti, oltre a disporsi all’interno delle regole di un certo codice, può rinnovarlo, ampliarlo, agendo su strutture formali o semantiche, agendo sulle seconde tramite le prime e viceversa.

o

Secondo la definizione di Lotman lingua è « ogni sistema di comunicazione, che usi segni ordinati in un particolare modo » 3. L’atto poetico di parola, facendo parte delle arti sermocinali, ha di queste i valori primari del suono come elemento trasmettitore di informazione, e soggiace quindi a quell'insieme di regole che permette tale atto di comunicazione. Realizzandosi inoltre oggi la trasmissione molte volte graficamente, ubbidisce anche a quelle 3 Si vedano i teorici del « polisistema » soprattutto J. Even-Zohar, Polysystem Theory, in «Poetics Today», I (1979), 1-2, pp. 287-310; J. Lambert, Un modéle descriptif pour l’étude de la littérature. La littérature comme polysystème, K. U. Leuven, Kortrijk 1983. 4 Cfr. A. J. Greimas, Du Sens, éd. du Seuil, Parigi 1970 e La Communication poétique, in Sémantique structurale, Larousse, Parigi 1966, pp. 134 sgg. i J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1976, d: pi

106

regole del segno in cui si ha una convergenza della vista e del suono, dato che la scrittura, come generalmente accettato, rinvia pur sempre al parlare; la psicologia insegna che « leggere signi-

fica parlare » °, senza voler con ciò sottovalutare l’importanza del-

l’elemento visivo.

Il testo poetico ha come qualificanti dei fattori complessi entro i quali agisce l’attività produttiva dell’io. Essendo sempre primaria la finalità della trasmissione, o significazione, bisogna tener presenti anche le possibilità del destinatario. Questi si trova a subire condizionamenti dovuti a fattori esterni, come età, ideologia, motivazioni ecc., ed interni come la competenza linguistica. Posto di fronte ad un testo procede nella sua decodificazione facendo ricorso alle regole del sistema della lingua o a codici a lui familiari, attraverso i quali acquista spesso anche una competenza per quegli elementi o quelle regole che non facevano parte del suo bagaglio culturale ”. Si parla oggi spesso del rapporto esistente tra il produttore di un messaggio ed il suo destinatario, tra il poeta ed il suo pubblico, dicotomia che ha una sua giustificazione non soltanto ideologica, ma anche linguistica. Una volta accettate queste premesse ci si deve domandare quali siano gli elementi primati che costituiscono un testo. Stefano Agosti (ma prima di lui i formalisti russi e Jakobson in particolare) ha sottolineato la necessità di tener nel dovuto conto gli elementi formali di un testo poetico per giungere ad una nuova determinazione della sua semanticità 8. Per Agosti « il significante poetico è [...] la manifestazione [...] di una struttura formale complessa costituita dall’organizzazione degli elementi fisici del linguaggio (suoni e timbri), dallo sfruttamento intensivo delle possibilità virtuali interne al linguaggio (la sua capacità di produrre ‘“ ritmi” e comporre “ figure ”’). Il primo punto comporta l’evidenziazione dell'apparato fonetico della lingua; il se-

condo, della prosodia e della sintassi ». Con ciò tocchiamo la problematica centrale in questo nostro contributo: quella dello studio è avviso nostro A poetico. testo un di primarie strutture delle necessario individuare queste strutture di base, strutture che sa6 M. Dufrenne,

I/ senso

del testo

poetico, Edizioni

103.1 1835: 7 S. Agosti, Il testo poetico, Rizzoli, Milano 8 « Il testo

artistico

[...]

trasmette

ai diversi

4 Venti, Urbino

1972, pp. 11-13. lettori

una

differente

ne tie sos » one nsi pre com sua la del ura mis la nel no scu informazione, a cia J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, cit., p. 31.

107

ranno

foniche, morfosintattiche

e lessicali, per giungere poi a

ni io az el rr te in le e i on zi ra te in le e, nz de en ip rd te determinare le in

a su a ll ne o st te l de a iv ss le mp co à it ic nt e a cogliere così la sema e ch iò «c e ch i tt fa in va ni mo am v le ms el dimensione dinamica. Hj o un ma i, rt pa in o tt ge og un di ne io is iv dd su la è importa non te es qu a e tr nz de en ip rd te in le al me or nf co si li na ’a svolgimento dell tru e st le at du vi di e In °. nt » me ta ua eg ad o nt co a nd re ne e ch e i rt pa he e ic tt ta in os rf mo e, ch ni fo re tu ut tr (s o st te un di ie ar ture prim le er av po ) do he ic af e gr ur tt ru st e ch an si ca ni cu al in i lessical ed classificate nell'ambito del sistema della lingua, si dovrà procedere ad un raffronto tra esse per stabilire quali siano la giustificazione, i nodi interrativi e le strutturazioni profonde che fanno sì che gli enunciati si costituiscono come facenti parte del sistema della parola. Se analizziamo quindi prima le strutture foniche e soltanto in seguito quelle morfosintattiche e quelle lessicali, lo si fa per due motivi: perché nella lettura la semanticità tende a sopraffare la fonia, e perché i rapporti strutturali fra i vari elementi saranno più chiari se messi a confronto soltanto nella seconda fase della decodificazione. Si potranno così cogliere quelle che Jakobson ha definito le « strutture subliminari » e si mostrerà l’importanza « che ha la forma nella poesia, in quanto interagisce col significato, e lo rafforza » a dirla con Lorenzo Renzi". Per la struttura fonica necessario è individuare i nodi primari; dopo aver visualizzato i diagrammi delle unità di tono primarie e secondarie

(che chiameremo

con la terminologia di Tru-

beckoj alte e basse !!), le interruzioni significative, si passerà all’analisi del colorito vocalico e alla classificazione degli elementi fonici deboli. Si dovrà anche tener conto delle eventuali rotture del sistema fonico della lingua, rotture sempre funzionali. Per la struttura

mortfosintattica,

una

volta stabilite le varie

successioni sintagmatiche, sarà il confronto con l’ordine fondamentale del linguaggio ordinario ! ad evidenziare la funzionalità sia dell’uniformità che della divergenza. ? L. Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino 1968, p. 26. 10 L. Renzi, Come leggere la poesia, în «Italienische Studien », III (1980), p. 111. Per l’influsso delle teorie di R. Jakobson si veda F. Decreus, De structurele analyse van poezie, R. U. Gent, Gand 1985. !! S. Trubeckoj, Elementi di fonologia, a cuta di G. Mazzuoli Porru, Einaudi, Torino 1971, p. 230.

1? Gruppo

di Padova,

L'ordine

dei sintagmi

108

nella frase, in AA.VV.,

Infine per le strutture lessicali bisognerà considerare la loro presenza e la loro portata all’interno della lingua e stabilire i tratti di significato corrispondenti o divergenti.

Soltanto alla fine si passerà a determinare la semanticità e il « ritmo » del testo, senza dimenticare che entrambe le categorie sono il risultato dell’azione delle tre strutture primarie suddette e che per ritmo intendiamo qualcosa di più della semplice scansione del suono: ritzz0 implica l'ordinamento degli elementi costitutivi di un testo secondo caratteristiche proprie di un io produttore, ossia secondo il suo sistema della parola. Questa premessa metodologica ci è sembrata necessaria per introdurre la nostra analisi della lirica Alla mia terra di Salvatore un di ura lett la tti infa to spin ha ci io stud to ques A . odo sim Qua Saldi » a terr mia a «All o: ntic sema del à icit articolo L’ipersemant ver’Uni dell e hion Picc e onn chi Mar ana Luci di odo sim Qua re vato k". Yor di ità vers ’Uni dell e hion Picc n Joh di e o ont Tor di sità ne ge a un « è vi e ch to ea in ol tt so r ave po do , I due studiosi enori ad se ba in te ot nd co li tua tes e ch fi ri rale carenza di attente ve o on uc nd co », e al ur tt ru st oic st ui ng li ra tu na di tamenti metodologici ie op ot is le e ar du vi di in ad te en nd te ra ter a mi un'analisi di Alla nma se e ur tt ru st « le e ze en er rf te in he oc dominanti, le loro recipr adu te en lm ia nz se es ne io ss re og pr la tiche profonde che alimentano listica del discorso » !. e ll su e s ma ei Gr su te en lm pa ci in pr È chiaro che si basano o an pi l de « io ud st o ll su e at tr en ricerche di certa semiologia conc È. » ia ar er tt le e on zi ca ni mu co del significato nella cfa i, nt iu gg ra i at lt su ri i su te en Senza dilungarci eccessivam o st te l de i is al an ro lo le o an pp ciamo presente che gli autori raggru sse a ll de la el qu o, gi ag es pa l de la el qu : ie op ot is o tr at qu a o intorn te na di or ie op ot is e, rt mo a ll de la el qu e o li si 'e ll de la el qu à, it al su ne io ez nc co a rt ce a o gi ag om in e, rn te in e mi to co di me co per due ert mo la al « : te en gu se la me co ni io az rm fe Af . ta no binaria ben a, ol is ert mo la na bi ab si a zz te ra pa se a ic ag tr me co a ut ss esilio vi

i, on lz Bu o, ne ra po em nt co o an li ta 'i ll ne ci ti at nt si e i ic og ol rf mo Fenomeni e in rd ’o ll Su , ue nq Ci G. e i cc nu ti An F. e 61 714 . pp 1, I/ l. vo Roma 1974, », na ia al it ca ti ma am gr di i ud St « in e, on zi na gi ar em l' : no delle parole in italia

1977, 6. pp. 121-46.

13 In «Esperienze

letterarie », V, 3 (1980),

pp.

19-33.

TIR A da ve si ; 68 19 no la Mi i, ol zz Ri e, al ur tt ru st a ic nt ma Se s, ai em Gr J. 15 A. . 72 19 gi ri Pa , se us ro La , ue ig ét po ue iq ot mi sé de is sa Es , . V inoltre AA.V

109

la nel , ata rov rit e a cat cer a sol l’i nel a tic mis one uzi sol dis ossia la

re epi rec da i est cel eri ess di la po po si che a rin ute ità cav protetta e — »!° tà ici fis la del ori ard gli ti ma do o, bui al nte ame ios enz sil suuna o on ng po up es pr — re alt le del are ort rip ro be eb tr po ne se In . eme nsi l’i dal più di per ti cca sta i tem uni alc di ne zio pervaluta altre parole la semanticità del testo nasce esclusivamente dal la dal , iso avv tro nos a ere ess e dev me co , non e no seg dal a, mm le concatenazione ed interazione delle strutture primarie. Crediamo che la semanticità del testo sia più complessa di quella proposta dai due studiosi. Non ci è possibile soffermarci sulla problematica dei rapporti esistenti tra una semiologia della significazione e una semiologia della comunicazione; basterà rinviare agli studi di Umberto Eco come I/ trattato generale di semiotica e Lector în fabula. L’analisi del testo darà anche una risposta indiretta alla problematica. Riportiamo il testo seguito dai diagrammi delle alte e basse e del colorito vocalico. Alla mia terra

Un sole rompe gonfio nel sonno e urlano

5

10

5)

alberi;

avventurosa aurora in cui disancorata navighi, e le stagioni marine dolci fermentano rive nasciture.

Io qui infermo mi desto, d’altra terra amaro e della pietà mutevole del canto che amore mi germina d’uomini e di morte Il mio male ha nuovo verde, ma le mani sono d’aria ai tuoi rami, a donne che la tristezza chiuse in abbandono

e mai le tocca il tempo che me discotza e imbigia.

16 L. Marchionne Picchione e J. Picchione, L’ipersemanticità, cit., PIR29i

110

20

In te mi getto: un fresco di navate posa nel cuore; passi nudi d’angeli vi s’ascoltano, al buio.

MIDA Les sba AT SA Ebbe FA Db db br AD DA B 4 bbbbbAb/Abb PR? DITA *b97*b' Ab GRRRNARD®b Abi /ANbrbib Ab

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I diagrammi degli apici culminativi (A) e delle tonalità basse (b) evidenziano la presenza di diverse unità foniche primarie di-

sposte secondo una strutturazione della quale la « lettura » deve tener conto. È proprio tale tessuto sonoro a giustificare la _mancanza di sinalefe nei versi 2, 3, 8, 12, 16, 17, 19 e 22 e la pre-

senza della cesura tra due vocali contigue. Sulla ragnatela delle strutture foniche primarie si genera il testo. Il poeta stesso, nel suo saggio apparso in Letteratura nel 1939 in un numero dal titolo Omaggio a D'Annunzio, scriveva: « La nostra prova sulla parola fu in antitesi con quella dannunziana [...] ed ottenne misura del tempo che impiega la voce a pronunciare una struttura suo un in Finzi Gilberto e » vocali di e consonanti di organica linsul sempre e proprio «è che giustamente saggio sosteneva vose puntare dobbiamo che poeta del tecniche sulle guaggio, poetiche. aspirazioni le temi, i significati, i comprendere gliamo DISK

: si as nt si me co e la ro pa me co e o La poesia si modula come suon

osp la ro pa la so a un e ch ro ve è se e, non ne possiamo prescinder ro be eb er st ba te mi li al , te en ni da a ol rg vi a un stata,

a cambiare

!. » sa es st ia es po la o tt tu l de re ri pa om sc r fa a zi tono, an

opp ’o un o nd co se o at ab ll si il mo ia er id Nella nostra analisi cons in st di a nz se e, ss ba tà li na to e i iv at in lm cu i ic ap a tr a sizione binari tà li na to a tr — o tt fa e en vi so es sp me co e — nt me guere ulterior o pi em es r pe a » at or nc sa di « la ro pa a ll ne ; te al ù pi e te basse, al li mp se do en gu in st Di b. A? b A! b za en qu se la ra lo al e si avrebb va ti et gg se so lo co ri o pe an it ev si e ss ba e te al tà li na to a e cement tr

zioni nella gradazione della intensità sonora. Già il titolo della lirica, Alla mia terra, genera una sequenza fonica, disposta sull’unità b b b A b, che risulta distribuita nel testo come unità primaria nei versi 3 « avventurosa », 5 «e le stagioni », 15 « che la tristezza », 16 «in abbandono », 17 «e mai le tocca ». Se teniamo conto del colorito vocalico e della semanticità dei segni, vediamo che « mia terra » si collega con « tristezza » per la presenza dello stesso apice culminativo (E) seguito dalla stessa tonalità bassa (a), oltre che per l’assonanza tra la bassa che precede la alta (i+zi), per le consonanti f e r e per la doppia consonante tra la alta e la bassa. Le altre quattro unità sono legate fonicamente tra loro dalla O alta e semanticamente dal rapporto: « avventurosa » + « stagione » > « in abbandono » + « mai le tocca », rapporto contiguo, ma non identico, a quello di « mia terra » > « tristezza ». Un altro forte richiamo sonoro è quello che lega « mia » e « mai », richiamo che genera l’unità profonda sintagmatica « mia tetra mai », come suggerito dall’inversione vocalica. Si tratta di uno dei nuclei centrali della lirica che, come vedremo, si sviluppa su di un binarismo dicotomico avente come punti di base la contrapposizione « Io » + « mia terra » e « questa terra » > l’« altra terra ».

Già nel primo verso si ha una convergenza sonora per quel suo disporsi su tonalità alte uguali: « sOle » > « rOmpe » > « gOnfio » + « sOnno ». Oltre alla perfetta identità degli apici culminativi si ha una forte allitterazione in « sole » > « sogno » e un’assonanza nelle consonanti doppie intermedie di « romzpe » + « gonfio ». bo G. Finzi, Invito

p.

70.

alla lettura

di Quasimodo,

I

Mursia,

Milano

J9720

I diagrammi delle alte e basse evidenziano già le due unità intorno alle quali si raggruppano i suoni: b A b e A b, che si ripetono dopo la cesura in ordine invertito. È evidente che tali unità non sono di per sé rappresentative di una certa particolarità fonica, essendo le più frequenti nell’apparato fonico dell’italiano; è la loro posizione nella catena sonora a renderle primarie. Si realizza infatti una struttura fonica a quadro con agli estremi la sequenza b A b ed al centro la sequenza A b. Anche sintatticamente si ha la stessa disposizione essendo gli elementi laterali sostantivali e quelli interni verbali-aggettivali. Altra implicazione della struttura morfosintattica è il rapporto indetermzinatezza> determinatezza: ad «un sole» si contrappone «nel sonno ». « Rompe » ha un’evidente funzionalità attiva verbale che rimane però sospesa, imprecisata, vaga; non viene detto « rompe il sonno ». La rottura sintagmatica apre nuove possibilità semantiche al segno « gonfio », che può rinviare a « occhi gonfi di sonno », ma anche a « gonfi dal pianto per la lontananza della terra amata», per la tristezza che tale lontananza provoca nel poeta. Il segno « gonfio » una volta staccato da « sole » ha connotazioni varie tra le quali la più pertinente ci sembra quella che rimanda a «tempesta », una tempesta tutta spirituale. Quest’ultima isotopia ha i suoi sememi nel verso 2, nell’urlare degli alberi, costruiti per generazione analogica con « gonfio » (si pensi a forme come « nuvole gonfie di pioggia »). I diagrammi del secondo verso evidenziano due sequenze uguali discendenti: A b b, separate da cesura e con apici culminativi diversi: « Urlano Alberi ». Tale sequenza rappresenta un rafforzamento di quella centrale del verso precedente e genera quindi un raggruppamento secondo i legami di significato: « rompe » + « gonfio » e « urlano » + « alberi ». Urlare rimanda alla categoria + animato e si ricollega per questa sua qualità a « sonnella che o animat + ia categor nella sia dispone si » rompe « »; no categoria — animato, mentre « alberi » è soltanto —animato ed » sole « o concret del propri segni Come ». è perciò legato a « sole qualoro la atica sintagm razione struttu nella e « alberi » perdono nato » sogno « , »-sogno sonno « del ni immagi e divenir lità per della io desider dal agitata anima ima, dell'an » e gonfior « un per del fonico mma diagra il infatti eriamo consid »..Se ‘ « terra amata

come dispone si te icamen semant che segno — solo segno « terra » no— » terra questa »-« terra mia « già detto nell’opposizione urlano « resto Del ». gonfio « di quello a o identic tiamo che è PONE,

e ch o at ci un en un di e, al on at , le alberi » non è che il risultato fina o nt ve l «i e: bb re av o ri na di or io gg ua ng nell’ordine proprio del li in pr l su sa ba si e on zi du ri di to en im urla tra gli alberi ». Il proced gso il re nt me , to et gg so e en vi di » ri cipio dell’analogia; così « albe ign à si it il ib ss po a su a ll ne so te in hé rc pe o st po o su getto perde il mi ag nt si di to en em el me co » o nt ve « o: gn se o tr ficativa di un al o » ri de si de l de o nt ve « », ni io ss pa e ll de o nt metaforici quali « ve po a et a po gi il lo na ’a ll co de ti is il st to at tr so il er av tr at re mp ecc. Se ar e: op al le il tu es rt te to in en em e el rt fo un re i qu de on sc trebbe na diano « e come il vento / odo stormir tra queste piante ». È in tale semanticità che « vento » nella sua assenza risulta presente in « rompe », in « gonfio », in « urlano » e come qualità innata dell’io (essenza implicita al segno « sonno ») in « desiderio », in « sentimento ».

Il terzo verso riprende nell’emistichio iniziale (« avventurosa ») la sequenza sillabica del titolo (b b b A b), creando così l’isotopia profonda « alla mia terra avventurosa ». I due apici culminativi (« avventurOsa aurOra ») rimandano alle tonalità alte del primo verso. Per di più « aurOra », con la sequenza b A b, ricollega direttamente il secondo emistichio del terzo verso alle sequenze iniziali e finali del primo verso. Naturalmente la semanticità del segno risulta potenziata da questa concatenazione fonica e si dispone sull’asse semantico di « aurora » come inizio. D'altra parte « avventurosa » è legato a « alla mia terra » e ‘al « disancorata » del quarto verso. « Disancorata » ha quindi un valore semantico ben preciso: quello del distacco che comprende in sé il sema di « partenza » e di « inizio »; ma se « aurora », che ha nella significazione profonda anche il sema di « inizio », è legato a « nel sonno », producerdo la connotazione di « anima », si realizza nel testo un duplice movimento di « inizio » sia per il segno « mia terra » che per « anima »: nel sonno-sogno la terra naviga verso l’anima e l’anima naviga verso la terra. Anche il « navighi » del quarto verso è una ripresa di una sequenza precedente: la sequenza A b b del secondo verso. Semanticamente il secondo verso ridà dunque la dimensione del « sonno »-sogno, ridà la realtà immaginifica del sogno. Il quinto verso, diviso in due parti dalla cesura, ha nella prima la sequenza sillabica del titolo e nella seconda quella dell’incipi della lirica e riproduce la musicalità del terzo verso. Anche semanticamente si possono avere due soluzioni: le « stagioni marine » sono quelle della sua terra, ma sono anche quelle prodotte dal so114

gno. Semanticamente si può considerare il quinto verso come legato da enjambement al verso 6: le dolci stagioni marine fermentano rive nasciture, ma si può anche considerare il verso sei come a sé stante con due possibilità semantiche: « rive nasciture fermentano (sono in fermento) dolci » oppure « dolci rive nasciture fermentano ». Evidente è l’evoluzione dell’arco semantico profondo: « disancorata » genera « navighi » ed entrambi i segni generano « marine » e « rive », secondo un filo interno conduttore che comprende nel sogno il senso della partenza verso un desiderabile arrivo. Anche il colorito vocalico degli apici culminativi si dispone sulla suddetta binarietà chiudendosi con l’opposizione finale tra I e U, vocali estreme nel triangolo jakobsoniano e che per la loro distanza rimandano ad altri elementi semantici contrapposti: il vegliare e il dormire, la realtà e il sogno, la vicinanza e la lontananza, l’io e la terra, la sua terra e la terra dove vive nell’ora della composizione poetica. I vari segni subiscono l’interazione del semantico e si caratterizzano per una continua rottura della successione sintagmatica, corrispondente all’irregolarità del sogno. Alla prima strofa si contrappone la seconda (versi 7-11). I punti di contatto tra le due sono il ritorno di certe sequenze dominanti nella prima come: I) b A be A b, sequenze presenti nel verso 8 e in parte del primo verso, II) l’emistichio che segue la cesura del verso 9 che genera gli assi fonico-semantici « fermentano +> mutevole + mi germina », III) il parallelismo « nel sonno » + « del canto ». Inoltre « mi desto », che chiude il verso 7, è direttamente legato, per sequenza sillabica e per posizione nel verso, a « nel sonno » del primo verso, del quale semanticamente rappresenta il contrario. Le unità corrispondenti realizzano dunque una isotopia che va da « nel sonno » ad « aurora » a « marine » a «mi desto » a « del canto » a « di morte », mentre un’altra ger« > » navighi « > » alberi « > » urlano « di isotopia è quella mina » > « d’uomini ». Le sequenze foniche nuove sono l’inizio emiprimo nel sinalefe con l’unione »), Io (« 7 in alta del verso stichio dello stesso verso (« qui infermo ») e la cesura tronca del verso 9 (« della pietà »). Semanticamente vi è una forte opposizione tra la prima strofa, termia « la tra ia oss a, ond sec la e no, sog dal ata ion diz tutta con tra ne nio L’u tu. il e l’io tra , ltà rea la del » ra ter ra» e l’« altra to men ele è che » to can « », to can « nel go luo ha ofe str le due e pon dis si a ond sec la Nel . ofa str ma pri la portante implicito nel uo« di e mor l’a dal to era gen to can I) e: ion ens dim in una duplice 115

» ni mi uo « di e or am ra ne ge e ch o nt ca ) mini » e di « morte » e II o nn ha » e rt mO « e » ni mi uO « e ch a er id ns co si Se e di « morte ». », a tr Al », o nt cA « re nt me O, a ll su entrambi l’apice culminativo re fa e ch a ha si i qu e ch an e ch de ve si A, a ll su o nn « pietÀ » lo ha e tr ol in è » ni mi uo « e. Se nt le va li po a ri na ne bi io iz con un’oppos ra te in ad ge un gi te or -m ta e vi on zi si po op l’ », ta vi equivalente a « gire sul tessuto sonoro dei segni. L’incipit della terza strofa è diverso da quello delle due precedenti; riprende infatti la sequenza finale della prima strofa (« nasciture » + « il mio male »). Che tale unione sia pertinente ce lo mostra anche la ripresa nel secondo emistichio della fonia del primo emistichio del primo verso. L’unione fonica interagisce sulla semanticità dei segni; infatti questi sono ricondotti alla positività del sogno e a ciò che il sogno fa nascere. La contrapposizione netta tra « male » e « verde » (« verde » ha uno dei possibili semi in « nuova vita ») giustifica una semanticità che dal male della lontananza — dove « mio male » è contrapposto a « mia terra » con l’inversione fonica E a > A e — va verso la positività di « nuovo verde », che ha la stessa struttura fonica di « un sole rompe »; questa interazione giustifica la collocazione di « ha nuovo verde » nella dimensione del sogno.

Riusciamo in questo modo ad ordinare i versi seguenti su di una linea che ha i nuclei profondi in: sogro la « mia terra » che « canto ». Ciò permette la deoggettivazione del concreto: le « mani d’aria » giungono nel sogno e nel canto a toccare i « rami » degli « alberi » della « terra » amata. Anche fonicamente si ha infatti nel verso 13 la ripresa dell’apertura del precedente e nel secondo emistichio il ritorno a quella che da « verde » risale a « rompe gonfio » ed in ultima istanza alla fonia del segno « terra » (A b). Nei versi seguenti il modo di procedere è lo stesso; il verso 14 riecheggia gli emistichi iniziali dei due versi precedenti con una chiara classificazione di « rami» nell’asse di «terra » e di « alberi », quindi del sogro. Il verso 15 ha l’apertura in b A b («a donne »), mentre

rimanda, semantico Il verso del primo

il secondo emistichio

(« che la tristezza »)

come già visto, alla sequenza del titolo. Il parallelismo è tanto evidente da rendere superflua una spiegazione. 16 riprende nel primo emistichio la seconda sequenza verso (A b « chiuse ») e di nuovo la sequenza del titolo

(« in abbandono »), quasi a voler ridare la sonorità dell’apertura

della lirica in armonizzazione

con quella del titolo e semantica116

mente l’effetto del « sogro-canto » sulla sua « terra » e dell’abbandono dell’io poetante al sogno. È da notare che si ha un’ulteriore precisazione semantica attraverso l’asse fonico:

la « tristez-

za » per la sua «terra » era generata dall’« abbandono » e viene superata attraverso il sogro e il « canto », elemento vitale chiuso, vitale in quanto produttore di vita, sema presente nel segno « donne ». Anche il verso 17 è costruito secondo questa dinamicità generativa, dato che l’emistichio iniziale riprende la sequenza sillabica del titolo («e mai le tocca ») mentre la parte terminale è di nuovo una ripresa della sequenza b A b di «un sole»+ « nel sonno » + « nel canto » + « il tempo ». Si ha quindi un superamento del tempo nel canto. Il verso 18 infine si apre con la sequenza centrale nel primo verso

(A b), ora a specchio (« che me »), e una rottura ritmica

dovute entrambe al ritorno dell’io come realtà oggettiva, corporea, e soggetta al tempo. « Discorsa » infatti è legato da sineresi a «imbigia » e crea così una nuova

struttura

fonica, mentre

a

livello profondo, per l’oggettività sostanziale di « discorsa », che rimanda soltanto esteriormente a « alberi » del secondo verso pet la dipendenza ora dall’io, si genera l’unione dello spaziale e del

temporale appunto nell’io. Siamo così giunti all’ultima strofa che contiene la soluzione finale della dicotomia sogno-realtà intorno alla quale si erano generate le strofe precedenti. L’io, anche l’io oggettivo, trova la sua àncora di salvezza nel canto. È la sequenza b A, presente già nel segno « pietà » del verso 9 e rispecchiamento di quella di sogno, che genera il susseguirsi delle strutture iniziali: b A b (2 volte) e nel verso 20 b b A b («di navate », sequenza già incontrata nella contrapposizione tra «il mio male » e « ma le mani ») e di nuovo il secondo emistichio del primo verso Ab +> b A b (« posa nel cuore »). La mobilità del continuum lirico ci » terra mia « a » tristezza « a » male mio « da risalire di permette tutti collocati nel « cuore » e sciolti nel « canto ». In tal senso i versi conclusivi sono una ripresa delle sequenze foniche preceverso del iniziale parte nella significativa rottura una denti, con » canto « al te semanticamen infatti rimanda » 22. « Vi s’ascoltano della generazione alla rispetto esteriore un’azione ed è quindi L’io nell’ascolto. canto del nto rispecchiame un con lirica stessa I interiore. pace sua la e » terra « sua la » ritrova nel « canto ») angeli « », navate (« religioso del semi segni che rimandano ai 117

o od im as Qu e ch o os gi li re o ns se l ne e hanno la loro giustificazion el qu re ra pe su di va te et rm pe i gl e nutriva per la poesia, poesia ch na ia id ot qu o at nt ro nf co va de ve si e al qu male esistenziale con il o rn de mo a et po e nt me ra ve è o ns se l ta in e mente

e poeta greco,

atr a ur at st la o nd co se l de e e or ri te in o ll si as avendo del primo l’ ne io as ev l’ ta or mp co n no o ic et po al o on nd ba gica e religiosa. L'ab se a ne fi è n no la ro pa a ll de o st gu il o; iv tt fi l , ne co ti as nel fant l de e o on su l le de bi ca an st in e er ss te un o di at lt su stesso, ma il ri significato alla ricerca del vero. Alcuni critici hanno sottolineato la stupenda armonizzazione nella poesia di Quasimodo dell’impegno e dell’arte !'*; è appunto questa sostanzialità poetica che produce quel tono che Mario Stefanile ha definito « aspro e risentito » !?. La sua è una poesia che nasce da un profondo bisogno di dire e nello stesso tempo è una poesia che si realizza in un’armonizzazione perfetta — negli esempi più felici — tra significante e significato. Si noti come gli apici culminativi, nella lirica analizzata, sono disposti secondo una strutturazione sempre funzionale. Nel loro colorito vocalico passano da un raggruppamento intorno ad un unico suono, quello della O e quello della E (forse per #Erra e QuasimzOdo), ad una

alternanza che ha sempre la sua corrispondenza,

soprattutto tra

la A e la E («terra »-« tristezza» > « pietà »), al dualismo

I-U

della fine della prima strofa (« rIve nascitUre »), che rimanda al dualismo io-tu. Le isotopie del testo sono infatti costituite da un procedere dall’io alle dicotomie « mia terra » > « questa terra » che genera le opposizioni realtà-sogno, male-bene, trascorrere del tempo-immutabilità nel tempo, per sublimarsi nell’abbandono dell’io nel sogno religioso della strofa finale. Il dualismo fonico del verso finale della prima strofa si armonizza nella O nella seconda (« d'uOmini e di mOrte ») per ritornare nella terza (« discOrza e imbigia ») e nell’ultima

(« ascOltano,

al bUio ») mettendo

in

evidenza con la scansione sillabica appunto il segno « Io ». La semanticità del testo si dispone dunque sull’asse bisogno di esorcizzare il sogno, di armonizzare gli opposti (come il reale oggettivo e l’irreale, la lontananza e la vicinanza, la vita e la morte) nel canto, canto che è anche suono, zato e armonizzante.

ma

suono

armoniz-

altre all'ottima raccolta antologica della critica Quasimodo e la critica curata da G. Finzi (Mondadori, Milano 1969) si veda dello stesso Invito alla lettura di Quasimodo, cit. 19 M. Stefanile, Quasimodo, Cedam, Padova 1943.

118

LA POETICA E LA CRITICA: DOCUMENTI E PROSPETTIVE

Giuseppe

QUASIMODO

Amoroso

CRITICO

DI TEATRO

Recensendo Casa di bambola di Ibsen, Quasimodo vede nel personaggio di Nora una delle donne che più ha turbato le « ragioni del cuore (il dare e l’avere) di molte generazioni ». Siamo nel ’51: si sono sfogliate molte pagine di quelle note teatrali pubblicate poi nel ’61, con prefazione di Roberto Rebora, e ora in edizione completa riapparse con introduzione di Roberto de Monticelli nelle edizioni di Spirali; e sono emerse, nelle strutture omogenee delle recensioni, anche linee evidenti e tenaci di una costante riflessione sulla poesia. Sbuca questo binomio di notevole consistenza tematico-stilistica — il dare e l’avere — a siglare, molti anni prima dell’apparizione della raccolta di liriche del ’66, i fili sotterranei di un legame indissolubile dello scrittore con le « ragioni del cuore », e della poesia che, come l’autore afferma altrove, « coincide con la verità » e non con il « limbo del liricismo astratto » ed ha il suo destino negli « impulsi o ribellioni o rinunzie » (e nel ’50 e ’55, rispettivamente a proposito di Anche i grassi hanno l’onore di Bompiani e Mia famiglia di De Filippo, Quasimodo parla di « desiderio di equilibrare il dare e l’avere » e di « cifre di dare e avere »). Indubbiamente si afferma una concezione alta e dolorosa dell’arte, di quell’arte nella quale « è più difficile da rispecchiare la gente qualunque »: va da sé che Quasimodo cerca il personaggio tornato a teatro per merito di Miller, dopo che si era allontanato «con passi sempre più leggeri dietro l'ombra di Pirandello », mentre gli « ultimi europei mettono fiori in bocca alle maschere portatrici di ‘problemi’ ». In vero, Quasimodo guarda alla psicologia svolta in ogni to venu a: cont lui per che lo quel io, uagg ling il trama per scoprirvi o dell ia sogl a sull arsi ferm a o rett cost vede si egli e, qual meno il bio dub a senz V’è ». rale teat ma for a nud « a dell », « spettacolo 121

ro nt co e ch an o st te l de i on gi ra e ll de sa un atteggiamento di « dife rco ri a (m li el ic nt Mo De ne ie st so quelle dello spettacolo » — come ias Qu a in rz ua Sq di na lu di ti ar qu e Tr diamo che alla commedia

e o: tt ri sc io ar er tt le io gg ua ng li di a nz ce modo rimprovera compia ein o on ng ma ri e ch o st te l de e st ie in altro luogo si parla di rich i gl e ch a ns pe si se o tt tu at pr so e ar ol ng si vase) —; e ciò appare ia al It in i cu in ni an i gl ne no do ca o od im as Qu di ro scritti sul teat n co , e er hl re St n co a, en sc in a ss me a ll de a ic cn te si affermava la a mi no to au e l’ ar rc ce ri a re pu so e, te or at di me da r fa ti a on sc Vi ra ve se « i po è e a ch gi re a un n le (i ra at te na gi a pa ll ia de letterar conoscenza e critica del testo ») e l’incidenza espressiva che potesse sollevarsi direttamente e ‘criticamente’ dalla pronuncia voluta dalla scrittura. Quasimodo giunge al contatto con il teatro da altre esperienze, dal suo laboratorio di poeta, ove le parole non tanto reclamano intensità manifesta di esposizione, o anche di esibizione, prolungamenti in spazi visivi, sottolineature sonore, complementarità di altri elementi, concorso di altre parole concomitanti e colloquianti in un intreccio di interrelazioni. Egli viene infatti dal microcosmo della parola assoluta in cui tutto si celebra e si assolve, giocata com'è, questa parola, sulla propria insostituibile cadenza e voce. Ciò spiega le pagine dedicate al « teatro invisibile » della trasmissione radiofonica dell’Usignolo, che metteva in onda le « pagine più certe che l’uomo abbia lasciato in eredità ». A teatro Quasimodo trova altri ritmi, movimenti fisicamente coronati da immagini che non rispondono sempre alle regole di un interiore disegno ma a quelle che parlano di sintonia, di gesti che riempiono i vuoti, di legami espressivi con fatti che scoppiano simultaneamente, senza un esclusivo riguardo per il chiuso mondo di un personaggio, e rinviano ad antefatti perduti in zone dalle quali ritorna a ondate una vita riversa in parole zeppe di impulsi descrittivi, allungate per significare quel tanto di storia necessaria alla comprensione e allo svolgimento della vicenda, e quel tanto di scenografico che può dare « singolari poteri evocativi » agli

spazi in cui agiscono i personaggi. Il critico talora sembra giocare d’anticipo, applicare l’osservazione a opere su cui sa tutto ciò che il testo letterario gli ha svelato, quei segreti della scrittura così bene assorbiti e meditati e forse per il poeta-critico neppure tanto bisognosi di tradursi in scena. E però proprio il retroterra di una posseduta valutazione a tavolino degli scrittori consente ad esempio di cogliere T22

quel « battito quasi crudele » con cui la bocca degli attori esprime il linguaggio « acre » del Ruzante, lo spessore corposo della sua parlata popolaresca; oppure riesce a individuare il preciso momento in cui la voce si stacca dai movimenti di scena e il « guasconismo » di Rostand scende in platea. Emanazione di questo tempo di anticipo, tradotto nei termini compositivi della recensione di Quasimodo, può essere l’ampia cornice di stampo natrativo ove dominano i toni, la tenuta, il passo lungo di una cronaca scintillante, ricca di sfumature e di contrasti, di richiami a nascoste fonti di informazione e di river-

bero. Vi abitano personaggi veri, microracconti, scorci di ambienti, e una rete di allusioni e sentenze. La riflessione dell’autore si esercita in un gusto raffinato del racconto che prelude al discorso critico, prendendo le mosse da molto prima, quasi per un bisogno di sosta introduttiva, di controllo, di preparazione e scelta degli strumenti di intervento, di contrasto (ecco il riferimento alle « folle immense » che assediano gli stadi). La cornice può pure trasformarsi nella trattazione di un problema attuale, come quello intorno allo stato del teatro e intorno agli attori che non sanno recitare versi o che « salgono sul palcoscenico a ptovare clandestinamente, come congiurati ». Certo, il ragguaglio di fatti di costume, anche un semplice ricordo personale, l’andare giù nelle ombre delle memorie, aftascinano Quasimodo talvolta più di quanto non faccia il suo compito di recensore di cose di teatro, se infatti scrive: « Dovevo

parlare in questa nota della Reina di Scotia di Federigo Della Valle [...] e le premesse mi hanno ormai portato lontano ». E allora, lo scrittore che si esalta appena ne ha il destro, distilla visioni dell’« autunno mite » e di « una grossa luna di pianura » che hanno favorito l’affluenza del pubblico; assapora poi l’odore delle « buone mercanzie » che si riversa da una nave forestiera in un porto; guarda il « cielo nero, verticale, su cui è confitto il luminoso disegno astratto » di una funicolare. Più in là si perde al vento di scirocco che « seccava la laguna e arrugginiva le camelam« ai o » laguna sulla picchia « che » sole-infatuato « al o » lie pi di un temporale lontano e misericordioso ». Scende tra gli spet‘scrite poeti neorealisti, e astrattisti pittori « sorprendere a tatori

tori accesi da fuochi sinuosi e ironici », paesaggio fissa il « rumore dei treni che allori preziosi del parco » e, di rimando, rane ». Né tace sull’acqua dei Ciclopi che 123

guarda l’esterno passano nell’aria nota gli « accordi nello sfondo del

e nel “degli delle teatro

al ae tr ri si né ; re to ta et sp lo , lo do an nt ca di Taormina distrae, in di no la po po « si e ch ce ni Fe la al i cospetto dei campielli davant vi di in e ch an sa ù, pi di E ». o nd otecchie venute da tutto il mo op , ri to at i gl ca di in e ch », lo co no mo in , ce duare l’autore « feli ia ar l’ el .d so pe l i de ch ri ca ac vr so « ri to ta et sp i gl a rv se os li pure eg la al a st re ar si n no o od im as Qu Ma ». e os rv ne he fumante da bocc , ta in op ri va a ll fo ra lt ’a un : ri at te i e pi em ri e ch a ll pittura della fo a ll de to at tr io nf go l , ne ni di tu li mi si e ll ne pe om er , ri cu os di volti scrittura chiamata a dar forza al discorso, a disserrare un mondo che autonomamente ha la sua parola: il « piccolo minatore di carbone curvo nella galleria ttoppo bassa per la sua statura » non a iv at rr à na rt be a li ll re ne gu e fi on di zi ru st co a to , an ta qu os sc di si della pagina quasimodiana, dalla presenza di certi attori « disoccupati della bellezza » e della «vecchia dama con veliero di struzzo ». E ancora l’attenzione di Quasimodo corre all’aria « rovente, acidula, e tesa » della platea, o a un attore, come Dario Fo, che « con quattro farse, entra con l’equinozio afoso e tempestoso fra le stoffe rosse del Piccolo Teatro »: Naturalmente in altri casi (ogni attore «sa il suo bene e il suo male ») il giudizio è più contenuto nel territorio delle prestazioni tecniche; ecco Gassman bloccato nella recitazione « monodica » dell’Amleto, ma altrove capace di creare come una « con-

tinua allitterazione » tra il recitante e l’uomo; ecco la Bergman nell’E/ettra non lasciare « spazi vuoti » tra sé e il paesaggio, e la Gramatica «travolgere l’assurdo di un testo ». Si profila per molti versi una piccola galleria di attori (ai quali si può aggiungere quella dei registi) spinti quasi al limite di una metamorfosi in personaggi, figure di una non scritta ma presente tra le righe avventura di romanzo corale. In cerca della « verità poetica » dello spettacolo, Quasimodo non si ferma mai, così, al puro atto di studio, di riflessione sola-

mente tecnica, scientifica, sull’opera che si accinge a commentare: il suo sguardo traccia itinerari che tagliano la scena e puntano più lontano. Sono le tracce di un’altra intesa dello scrittore con le cose, quelle che gli urgono dentro e che si risvegliano se un pensiero appena le sfiora, un'immagine le provoca; solo se si fermano come in ascolto avvolgendo di più intensa partecipazione le forme della vita rappresentata. E questa vita è scrutata, oltre che nei modi di espressione e negli aspetti palesi, anche nel suo cuore pulsante, giacché Quasimodo è pronto, con coerenza, a combattere ogni tipo di falsità, quella accademica e delle « riesuma124

zioni in minore », delle «riesumazioni di romantici furoti », quella artificiosa, senza vita, che ha portato sulle scene alcune

datate commedie di Molière, quella della « cartapesta bagnata da piogge di lacrime », quella che per giungere allo spettacolo puro cede la corposità indispensabile del testo, infine le risoluzioni di maniera che per amore della tradizione lasciano un po’ di malinconia anche nella farsa. Dal « miele del decadentismo » e dai « fiori del bello stile », dal « sapore da operetta danubiana », così come dal tono consolatorio, dal « falso napoletano » e dal « malinteso comune della volontà di ridere » discende un diffuso senso di vuoto, la pet-

suasione di assistere a meccaniche scene di luoghi scontati, di sentimenti finti. V’'è polemica spesso nell’atteggiamento di Quasimodo, dettata da serietà nel nome di un’esatta lezione teatrale che vieti manipolazioni facili, adattamenti distraenti. Allora, di fronte alla rivelazione di mondi sfocati e freddi, di giochi verbali, si alza la visione del poeta che si concede un largo di emozione, raccogliendola da una spinta che non dimentica il rapporto critico, ma che lo incentiva con un linguaggio molto terremotato, spaziato dalla metafora all’invenzione sinestetica, spostato di senso al fine di sovrapporre quasi sul crudo resoconto di una serata un’esca di rinvii ad altre e non sempre raggiungibili cose, a destini che possono solo prendere occasionali ragioni e poi muovere altrove. Solo che l’uscita — tramite il fervore creativo della scrit-

tura — dal perimetro della cronaca ha il suo freno nel racconto delle linee portanti delle vicende, in quel pur breve riassunto di fatti che a volte sembra accamparsi nella pagina come elemento legnoso, grigio, estraneo: un intermezzo che intende tradurre il « luminoso cifrario » di temi, psicologie, ambienti e mondo di fuori, nella platea, nelle strade e più ancora nella vita di una stagione come nell’eterno tempo dell’uomo. Lo spunto occasionale pertanto, anche di respiro informativo, viene preso da un giro ampio, nel segno di uno stato universale (così, parlando di Brecht, La « defi nito ri: para metr i vers o disc orso il spos ta Quasimodo nost ro nel là, ora qua ora nom e suo il len tam ent e tras cina civiltà inco e mcens ori, dei l’in tell e igen za l’ar bitr io sec ond o mondo,

una di veri tà l’el emen tare vers o l’in soff eren za rim ane prensibile dell a cioè , lato , ogni da part e, di divi sion e senz a offe rta poesia rifi uto di o amar ezza di ‘og get to’ l’uo mo, circ onda che barricata fulm inat a com e è cui in fra mme un nto tra Osci llar »). e di carità

ques tion da i pure indo tto disc orso -ver ific lent a, o un e l’esistenza 125

e ch al qu in , le na or gi l de a ic br ru a ll de a divulgative, dall’esigenz a er ia av tt tu e ch à it al ui oq ll co a un modo catturato dall’obbligo di ndu e, iv at rm fo in e ne Li o. od im as Qu di ca ri li a entrata anche nell el qu a te ta vi av e te za er sf ti en pi sa e i tr es da que, però incastellate , ca ti ma te za an st so a ll de e on zi ra st lu il l’ al to ca di de o blocco median r’a ll ne , tà li bi mo n co to la co ti ar ue nq tu an qu , sé a un vero tempo n co o, nd de lu nc co , de en pr ri po do e , ch ne io ns ce re a ll de ra chitettu

rapide puntate di note dedicate agli attori e alla regia. I tre momenti della recensione — quello critico ma con pigmenti che più appartengono all'universo dei fantasmi lirici di Quasimodo; quello che informa ora con prolissità ora con secchezza, verifica

e decora, e infine l’obbligata chiusa che impone

un diretto intervento sugli agenti che realizzano il teatro — sono sovente amalgamati dal più diffuso dialogo che Quasimodo lascia intravedere in residui lessicali, in barlumi di una meditazione che esplode perentoria e successivamente tende a smorzarsi tra sottintesi, improvvisi collegamenti di aree e scrittori e soprattutto autobiografico rilievo: la costante presenza di Quasimodo che discute, dà giudizi, vuole sempre mettere in chiaro un'idea, la sua idea sul teatto che non è mai cronaca impersonale, diffusa o complicata. La sua costanza «si rivela per ‘evidenze’ umane precise, con delle persone e non con dei nomi di persone ». Non deve essere pertanto registrazione di analitica cronaca, ma occorre che

si riveli attraverso la forza di un personaggio in grado di dar ragione del succedersi dei fatti. E la tecnica non sempre è sufficiente — ama precisare Quasimodo — a sollevare i toni documentari, le prolissità, le pause insistite, a concedere intensità espressive. Nel seguire scrupolosamente la sua concezione del

teatro, Quasimodo a volte scivola in un linguaggio non totalmente preciso, e perde di mordente, ad esempio, quando cerca « corrispondenze ritmiche » alle vicende, non specificando bene in che cosa consistano tali « corrispondenze ». Il bersaglio principale resta la ricerca della poesia, di una nozione di verità lontana dalle « chincaglierie liriche ». V’è inoltre anche la presenza assidua del cronista spicciolo che si riserva inaspettatamente un umile ruolo incolonnando il cartellone degli spettacoli di una stagione (pensiamo esemplatmente ai ragguagli sulla stagione parigina di prosa del ’49) e mortificandosi in un elenco che può condurre solo a una « conclusione numerica ». Però l’asfittica prigionia della semplice notizia dura poco: subito Quasimodo si risolleva spiando quegli 126

autori che risorgono dalla « confusa architettura scolastica ». Gli basta perciò un pretesto per tornare a diretto contatto con il messaggio del teatro che è sempre giudicato più grande del palcoscenico. È il teatro totale, che vive di atmosfere diffuse, e si allarga a dismisura sotta l’incalzare degli effetti (« icolori e le sete sembrano assumere valori registici rigorosi ») ai quali egli guarda spesso come a elementi che riescono ad imprimere il suggello di una lettura, il peso di un'indicazione. La vitalità di osservatore accanito dell’esistenza spinge Quasimodo a cogliere il flusso di un divenire sempte diverso, una trama di suggestioni che si allacciano alla natura umana, facendosi, nell’istante in cui sono isolate, parafrasi della vita quotidiana ed eroica, brulicante di apparizioni, di tentazioni e allegorie. E i fantasmi della mente, i dubbi e le crisi dello scrittore si possono intravedere quasi chinati sulla prosa critica, non a sovrapporsi certo e a popolare di sé un mondo d’altri, bensì a guidare la penna, a darle quella pressione in più di potenza e di calore. Ma il segno di una distinzione, di una netta calibratura del giudizio, rimane determinante, singolarmente affilato anche nell’effusione, e, vigile, non perde l’opportunità di ribadire che è in atto una « crisi di gusto » del teatto contemporaneo, e che una « sottile leva di ‘ iniquità ’ » lo scardina. Di conseguenza Quasimodo passa alla sferzata polemica, colpisce le « sagre estive, dove si commercia la superficiale erudizione e il lusso dei rigattieri filologi », non accetta il « disordinato schermo » degli sketches, l’uso del folklore, il colore dispersivo usato negli spettacoli all’aperto per chiudere le « frane » dello spazio e del ritmo. L'osservazione si espande a movimenti, correnti di pensiero, epoche, attraversa modi di indagine assai serrati, scattanti, volti a siglare, a sintetizzare, a schizzare dal fenomeno limitato ma pur degno di rilievo a quello di portata ampia, sul quale Quasimodo esercita il suo stile ricco di quello scatto di figuralità che gli permette di tracciare un

varco,

un

prolungamento,

un

riflesso

al dato.

Incon-

triamo via via i « colori che divorano l'atmosfera », le « parole degli angeli » che « marciscono appena pronunciate », il linguag» mar « cis ce che que llo e bat tut a, ogn i ad » mza « rci sce gio che che mir aco il los e o.» mag « ico il poe sia ; dat sulla pagina senza del le vel lut ai i att acc ato rim e ane tap pet sui i sci vol a « invisibile gia ppo ven tag da lio lun a una di vel oce arr amp l’« ica »; rsi tende », qui nte del le col ler a seg ret a nel la red « ent o nese »; lo spettacolo app anmed ite rra neo spe « cch io uno com e vis to l’Oreste alfieriano 127

no co es e ch gi ag on rs pe »; a an gi ti nato dai veli di una nebbia as ’ on ‘n « ff ta ls Fa di a im an l’ e » i in ud it ab dal « roveto delle loro o od im as Qu e ch ò Ci ». a nd fo af ve do contenta del volume di carne

l ne ta it dr de en sc « e ch la ro pa la re di a le va , chiede ai suoi autori are « o il an nt lo e en ti e a ch ur tt ri sc a un di a fr ci la è o », ol suo simb

ta vi a ll da to ia il e es nt me ra cu si ro at te o nt ta di e » lismo apparent di a rc ce o ic it cr Il ca ». ti ma te ma a ll da te ia oc cr le « quanto le paro i st po i im rm he sc i o gl nd sa as rp so ti en im nt se i de vo vi l e ne ar penetr e ci ch li mp co ie ar le el qu , da de e mo , ll da ca po ’e un a di ur dalla cult veicolano atteggiamenti di maniera. Spesso il dolore rimane un territorio difficile da decifrare, inabissato nel fondo del tempo, mentre le « nostre orecchie sono conchiglie troppo preziose per poter ascoltare urli e lamenti ». Ridotto a una « misura di grazia », il dolore gira camuffato sotto tante maschere, mistificato da «registi canicolari ». Arduo è rintracciare la verità anche nello specchio vuoto della cronaca che spesso si mostra, nelle commedie, sfocata, in un continuo e sterile gioco scenico, nella polverizzazione di analisi di momenti laterali. Qualche volta Quasimodo non si mostra in grado di valutare lo spessore esatto di un testo dal momento che si lascia prendere dal momentaneo frammento, dall’isolato significato che esprime una scena: avverte però il pericolo dello studio riduttivo e allora riprende un più disteso allacciamento con le coordinate storiche del tempo. Sintomatica è, ad esempio, la scoperta della divaricazione tra i frivoli avvenimenti colti da un Torelli nei Mariti e l’amara lettera della vedova di Antonio Sciesa, datata appunto 1867, anno di composizione della commedia del Torelli: « serra ideale », « acquario di favola » che tocca qualche punto di convincente concretezza nella discreta contrapposizione di ambienti borghesi e aristocratici. Indubbiamente non trovano saldo accoglimento nelle pagine di Quasimodo tutte quelle « fluttuanti intenzioni fiabesche » che il critico-poeta invariabilmente lega ai dettami di un’area decadente e approssimativa, al « male del decadentismo », ai « fiori dello stile », all’« aria romanticizzata agli inizi del secolo ». Egli vuole entrare nel clima tensivo della vicenda rappresentata, ricerca il movimento, ma ne combatte tutte le artificiose estensioni, l’ingorgo di sequenze e di ritmi, sicché presto può avvertire il pericolo che si annida in uno « schema di situazione parlata », nel linguaggio di « saturazione lirica privo di realtà stilistiche », nelle parole « postume ».

Ma costantemente l'interesse di Quasimodo 128

spazia rivolgen-

dosi ad altri centri, scopre piccole storie d’uomini che girano ai margini dello spettacolo, fascia gli stessi attori di una sorta di alone in cui deposita richieste e risposte in misura maggiore di quanto la loro recitazione imponga, però distingue bene la recitazione in senso autonomo, anzi la vuole sempre collegare al testo e si mostra pronto a rimproverare agli attori la mancata persuasione di poter « costruire insieme un ritmo di ‘giuoco’ superiore alla vicenda ». E inoltre, Quasimodo allaccia la vita del palcoscenico a una costellazione di emozioni e richiami: in questo ordine, in cui la natura, come si è già notato, ha il suo posto, viaggia il poeta fervido nell’intonare la propria attività maggiore di scrittore, ormai nel dopoguerra così fusa con la realtà oggettiva del paese, secondo il rapporto privilegiato che Rebora (nell’Introduzione agli Scritti del ’61) definisce « ordine storico », l'osservazione di ciò che « avviene quotidianamente tra gli uomini ». Gli appuntamenti con il teatro servono al poeta anche

come verifica del proprio viaggio verso la socialità, un modo per illuminare il cammino, rendere più comprensibile a se stesso i motivi di una scelta (si pensi al Discorso sulla poesia che impone tra l’altro « aperture verso forme che negano la falsa tradizione italiana », delineando nel contempo quale possa essere la direzione innovativa: « Ma la poesia della nuova generazione che chiameremo sociale [...] aspira al dialogo più che al monologo, ed è già una domanda di poesia drammatica, una elementare ‘ forma’ di teatro »). E nell’indulgere a raccontare i punti salienti di una pièce, nel seguire i tracciati di una trama, fermando l’azione con qualche intervento puntualizzante, integrando e così rendendo anche mobile il resoconto, Quasimodo esprime i risultati di quella svolta narrativa della sua poesia che si fa attenta alla storia, studio del costume, volontà di modificare una situazione

muovendo da una posizione critica — non a caso questo ultimo termine è uno dei più ricorrenti nei testi teatrali di Quasimodo. Dal rapporto di colloquio e dalle scoperte direttrici sociali si passa però, all'improvviso, alla voce del poeta che si ritaglia un proprio angolo segreto, visitato dalla poesia e che privilegia quasi batsue le te bat com , anze dist le isce sanc e qual a dall edra catt una mia senz ime espr la o ia iron sua la e anch ta reci e, tich taglie este monza ade dec a dell nto ume doc un di ia cacc alla stificazioni, va e re: eggé corr are, rizz indi e, uter disc da ni uma rale, di materiali ciò ro cont rio prop ta’ ‘lot egli tà real di to men seg un per capire per che mo pia sap (« reto conc più re bra sem che in apparenza può 129

la ro nt co o ri op pr e ar tt lo a gn so bi rendere reale un personaggio . le ro pa le ro et di i os nd de on sc na n no , to realtà »); ma a viso aper i on si es fl ri « e ll da e sc na e ch » io eg il rt so di ia ar « l’ to Scopre pertan da e en vi tà ri ve la al o at gu ag L’ a. tt ro Ma a de ca ac popolari », come re tu la el nc ca « e ll da », so ro po va o, er gg le « re ne ge varie fonti: dal à » it os di an gr « a ll da », ia as nt fa a ll i de ol ev ap ns co in i e al paradoss i gl , da ia es po la r pe » ra su mi te is tr « a un re ni ve di a di hi che risc « ottoni degli strumenti a fiato » quando si concede un « dito » alla « vecchia mano » del teatro italiano, dagli esercizi calligrafici, dagli equivoci di traduzioni che scambiano la misura metrica con la « forma » (le riserve nei confronti di aridi «rifacimenti

dei

classici sulla metrica barbara carducciana » sottolineano appunto la sclerosi di un «linguaggio inventato dai filologi e costruito sulla sintassi greca e latina con parole secche e scricchiolanti come papiri »). Intanto certe novità, certe per allora (siamo alla fine degli anni Cinquanta) puntate d’avanguardia di alcuni registi, come Enzo Fetrieri, sono giudicate da Quasimodo ferme a un tempo « già escluso dalla storia ». Anche i simboli nel teatro non tardano a farsi meccanici, prevedibili, per una ricerca troppo esperta, consumata, della realtà, per quel rappresentare l’esistenza al pari di una cronaca illustrata su cui vanno poi a incrostarsi posizioni gnomiche, processi astrattizzanti. E ancora, il valore della parola, in un’opera narrativa (Quasimodo pensa al Castello di Kafka), è in grado di descrivere un’angoscia o un destino, ma

può esaurire la propria carica nella trasposizione teatrale, anche se allucinata e vibrata. Quasimodo non si lascia sfuggire gli apporti della cultura, la funzione di filtro operata dal tempo sul teatro, ma non prevede forse i clamorosi sviluppi di determinate tendenze di attualizzazione e pure di deformazione, tuttavia bene accoglie l’energia del « realismo critico » di Strehler e del « fastoso teatralismo » — come scrive il De Monticelli — di Visconti, che manda litica ».

avanti, nella ricerca scenica, una regia « ana-

Ma l’attesa di Quasimodo è tutta per la presenza dello scrittore, specie quando una commedia si presenta aderente a una inerte realtà: « dal fotogramma per passare nuovamente alla parola, e parola teatrale, non basta più né la convinzione d’una prosa di cronaca, né la trama, sceneggiata più o meno con bravura: occorre uno scrittore ». Dallo scittore proviene quell’unica vita che è quella della parola: esemplare il Tasso di Goethe, ove «lo spirito di Werther è presente in ogni piega dei martellanti 130

soliloqui ». Il limite è dato dalla sovrapposizione dell’autore sul personaggio, ma tutto si riscatta perché la « sorte della poesia è nell’oscuro furore che si rasserena ». E si va avanti così tra fulminee messe a fuoco (con le quali veramente Quasimodo annulla

ogni pericolo di allentamento, ogni digressione) e un assiduo riannodare i fili di un discorso che si spinge al di là dell’atto recensorio. Se è vero che questa raccolta — come ha concluso De Monticelli — « non si sottrae certo alla corrosione del tempo », se è altrettanto vero che qualche giudizio si sfalda (citiamo la « meditata fantasia » che non ha permesso a Cechov di scrivere « opere minori »), se non sembra da condividere la definizione di un Brancati che « difficilmente » giunge alla caratterizzazione di un personaggio, è tuttavia fermo il quadro di una drammaturgia nazionale e mondiale individuata in una serie di note ora serratissime, quasi cifrate, ora dettate da una fiduciosa, espansiva consonanza. Dall’individuazione dell’arte goldoniana « capace di rappresentare la realtà senza il suo spessore » (ma a Goldoni le « variazioni musicali, il groviglio delle scene e delle coreografie [...] tolgono l’aria ») e dalla sottolineatura della « flessibile depressione » del teatro di Rostand, Quasimodo passa con fermezza a indagare l'impegno di « natura evangelica e illustrativa » di Claudel, o a cogliere i fermenti di una scuola teatrale che propone problemi, tentativi di studio della condizione umana e sociale, e per contro di un’altra linea che esalta la perfetta evasione;

il « cartone colorato » ove anche gli attori fanno le « ombre su schermi cinematografici giganteschi ». Certo, talora esplode in manifeste preferenze: come per la prosa «libera e irta di sporgenze dialettali » di Eduardo; né nasconde riserve per la « soluzione apologetica e provvidenziale » di Fabbri e per il linguaggio « forense e propiziatorio » di Betti. Le intuizioni più felici nascono da recensioni a opere del teatro classico, dai tragici greci a Shakespeare con le sue scene « elementari e fuggitive », dalla « verità » di Cechov alla « cronaca familiare » di Molière. L’attenzione di Quasimodo perfora rapida posche ti dialoga a localizz ve, narrati linee spesso il testo: scopre di falso il scopre o; burlesc del oni tradizi false da sono provenire sui te penden o giudizi un in no risolvo si che e scenich costruzioni coni assume vita dalla che teatro un isola anche personaggi, ma erano smasch Si ritmi. i mosse, le enti, svolgim gli tenuti e mai nel ili accettab solo , turghi dramma dai così universi inventati come gi linguag idee, che sono non che fatti », « gioco della farsa 491

rste « e i ett ogg gli no hia erc sov che ole par gi, olo invenzione dei fil minano » i sentimenti.

Quasimodo

è sarcastico, irridente, ineso-

rabile nel colpire ogni tipo di finzione, di oleografia, il « gridato »

e anche alcune forme spettacolari quando sono costrette, nel vuoto teatrale, a caricarsi di quel ruolo che invece è esclusivo della tensione drammatica. Dall’analisi delle parole, delle intese tra le immagini di un testo, il critico passa a rapide puntate storicizzanti un costume,

un’epoca: la Francia di Luigi XIV « in apparenza favorevole agli spiriti liberali [...] ma pronta a scattare alla prima ombra di un demonio logico »; la società italiana dell’ultimo Ottocento, con la sua « formazione eclettica, nata dalla fusione di ceppi provinciali antitetici, terrieri, umanistici, industriali, alle prime lotte di nazione »; la Russia della rivoluzione, paese che sta per mutare, ma che nei personaggi di Cechov, tra nostalgie del passato e simboli, assume come un arresto. Egli cerca ovunque « contrasti spirituali e quel peso di dolore comune, senza dei quali la storia sarebbe un’invenzione di guerre ». Attento a captare i segnali della vita che « ribolle e schiuma vicino » (ma la vita-poesia abita pure « altri luoghi, zone meno celesti »), Quasimodo tuttavia ammonisce dalle operazioni facili: il « piacere dell’inedito si sconta spesso a teatro », secondo una regola « triste », una prova « matematica ».

Gilberto

L'« INDIZIO NELLA CRITICA

1.

Finzi

CREATIVO » DI QUASIMODO

«Un mondo oscuro e insoluto »; un mondo come « quello

di Anna

Karenina

(che è poi il nostro,

contemporaneo),

dove

l’amore e la logica continuano all’infinito il loro incerto dialogo ». Immagino così, con parole che lo stesso Salvatore Quasimodo dedica a Tolstoj, il mondo critico di un poeta di oggi. Sono infatti parole poetiche, ma sono anche espressione e conferma di un difficile, instabile rapporto fra i due elementi vitali che stanno ai poli estremi dello scrivere come tale (e non del solo scrivere poetico): amore, ossia emozione, ossia irrazionale, e logica, ossia ragione, ossia anche, anzi soprattutto, struttura e tecnica formale. Fra logica e amore, in un punto impre-

cisato della geografia umana, c’è un piccolo equilibrio: forse. E lì avviene uno scambio, un’osmosi per cui nella pratica scrittoria e nella teorizzazione culturale la critica diventa o sembra dltro. Di quale critica, di che esercizio intellettuale si tratta? Intanto, un uomo di attenta, non laterale, non accademica cultura come Quasimodo, che arriva a studiare i greci e i latini mentre

già lavora e non ha certo ambizioni di cattedra, che più tardi avrà allievi come un Giorgio Gaslini, che terrà rubriche specialistiche e colloqui coi lettori dopo essere stato traduttore di poeti e quasi solo di poeti — le eccezioni sono testi ancora poetici in prosa, Il Vangelo secondo Giovanni, La Bibbia di Amiens di J. Ruskin, Donzer è voir, un fantasmatico testo frammentario del grande Paul Eluard!, oltre a tanto teatro classico —, un uomo così, la critica la esercita su differenti piani. Critica teatrale, di cui si è avuto largo esempio con gli Scritti sul teatro (1961) e PI

1 Il Vangelo secondo Giovanni, Gentile, Milano 1945; J. Ruskin, La Bibbia di Amiens, Bompiani, Milano 1946; P. Eluard, Donner è voir, Mondadori, Milano 1970 (postumo).

133

e on zi ta en es pr , te ar d’ i tt ri sc ; 4) 98 (1 col recente Il poeta a teatro t. ur co uf fo ia ar er tt le a ic it cr , ne fi in ; ri to di artisti, pittori e scul

ecr ac de en gg le le e ar at sf r pe e ch an a: ss re te in e ch È quest’ultima ael o a ic it cr la so la i cu r pe e, on zi ma si os pr ditate dalla nostra ap si or sc Di si mo fa i o er bb re sa o od im as Qu di e al ur lt cu e borazion co e, al on rs pe a ic et po a un ne di io az zz ni ga or l’ oè ci : *? ia sulla poes

a ri op pr la i al on zi ca fi ti us gi e ir rn fo di le pa ci in pr o struita allo scop o us ff di te e en al ev pr do mo un a , si ca i de re io gl mi l ne o, ia es po aQu ia di ar er tt a le ic it cr la o, rt . Ce ra er gu po do l ne ia es po r fa di

simodo, come quella di altri poeti, si confonde facilmente con la dichiarazione di poetica: ma anche questa è una forma di parte-

cipazione spesso intensa e globale al dibattito del proprio tempo. Ma intanto è confermata, così in Quasimodo come in altri poeti della passata generazione, quella elaborazione culturale che vor-

remmo

tanto riscontrare anche nella più recente poesia, fra gli

anni Settanta

e Ottanta.

Tuttavia,

i Discorsi

sulla poesia non

costituiscono la sola, l’unica modalità della scrittura critica quasimodiana. Sono, è vero, il nucleo portante del principale libro critico del poeta, I/ poeta e il politico e altri saggi (1960), ma sono seguiti da un cospicuo numero

di recensioni, prese di posi-

zione, discussioni sulla poesia, la narrativa, la saggistica, le idee in genere, del tempo, reperibili nelle due rubriche che Quasimodo tenne consecutivamente su due settimanali dal 1960 fino alla morte:

« Il falso e vero verde », su « Le Ore » (1960-1963)

e

« Colloqui con Quasimodo », su « Tempo » (1964-1968). Alcuni di questi testi sono stati raccolti a cura dello stesso scrittore in Un anno di Salvatore Quasimodo, uscito postumo (settembre 1968) per l’editore Immotdino di Genova; ma è un libro che sembra aver avuto, come del resto l’intera collana, una limitata circolazione. Qualche saggio uscito in volumetto o plaquette, ad esempio Petrarca e il sentimento

della solitudine (1945)* è stato

incluso nel volume Il poeta e il politico e altri saggi. Infine, altri scritti letterari, di costume e di viaggio sono stati raccolti da chi 2 S. Quasimodo, Scritti sul teatro, Mondadori, Milano 1961; Id., IZ poeta a teatro, a cura di A. Quasimodo, con introduzione di R. De Monticelli e una premessa dell’autore, Spirali, Milano 1984 (postumo). 3 Raccolti e pubblicati da S. Quasimodo in I/ poeta e il politico e altri saggi, Schwarz, Milano 1960; i primi quattro ripubblicati in S. Quasimodo, Poesia e Discorsi sulla poesia, a cura di G. Finzi, Mondadori, Milano 1971 (postumo).

_ # S. Quasimodo, Milano 1945.

Petrarca e il sentimento

134

della solitudine, Scheiwiller,

scrive qui, in un volume intitolato « A colpo omicida » e altri scritti, pubblicato nel 19775. 2. Inunartticolo intitolato Insegnare la poesia contemporanea (in « A colpo omicida », cit.), menzionando poco più sopra T. S. Eliot, Quasimodo sostiene: « Dire estetica e storia, sappiamo, è come dire di che estetica e di che storia s'intende parlare ». La sen-

tenza vale anche per la critica. Di quale critica s'intende parlare — o meglio intende parlare il poeta? Di quella che nasce dalla storia, dalla memoria recente e passata. Se « le cause e gli effetti restano in una zona sorda della mente [...], [se] un genio irritabile cancella i fatti [...] è vana quella critica che esalta le variazioni sul nulla mentre l’uomo si morde le mani per la: fame e la guerra non tace mai, vicina o lontana » (Della memoria, in Il poeta e il politico, cit.).

1951,

Che cosa significa, questo così attuale richiamo all’impegno umano e, forse, sociopolitico? Che se il poeta dovesse cavarsela con un « brano di colore », sarebbero, le sue, « parole pesate, acute o rotonde a seconda del colore adoperato » (ivi); il risultato sarebbe una forma di (famigerata) prosa d’arte, non una critica, non un fatto della memoria. Ed è con la memoria, con la tradizione, recente o antica, che Quasimodo sente di dover fare i conti. A partire da quello scritto del 1939, in morte, intitolato D’Aw-

nunzio e noî e giudicato, tra i suoi primi testi critici, uno dei più belli. Qui, per la prima volta usando un genere nuovo, la prosa critica, lo scrittore dell’ermetismo agisce su tre piani: quello della « distanza » fra la vecchia e la nuova generazione; quindi la « comprensione », nonostante l’abisso che separa i modi di formare; e, da ultimo, la dichiarazione autonoma di poetica. Proprio per « poter conseguire l’immagine perenne del sentimento del

proprio tempo » Quasimodo esamina «il silenzio che era cresciuto sulla pagina dannunziana nel nostro tempo disposto alla misura leopardiana »; e spiega come avvenne, con quell’attacco carenza o inerzia per non avversi fummo gli Noi « famoso, canal impegnata natura nostra della sostanza d’amore, ma per resistenza della ragione « in ulteriormente chiarisce si to », che opposta a una poetica della parola intesa in senso qualitativo, dell’adogiorni dei lettura fu « Alcyone se anche »: cioè lessicale 5 S. Quasimodo, « A colpo omicida » e altri scritti, a cura di G. Finzi, Mondadori, Milano 1977 (postumo).

35

n co » ma ni 'a ll de tà ol ic ff di di , li ua ns se i lescenza densi di presag : ra no so a nz ge si ’e un « a te on fr di è la poesia di D'Annunzio si i, Po . te en ig ll te in e a ns te in ù pi e on zi ni fi de non musicale ». È la ab i no e ch a ic et po a «l , sa ce as in e or tt ri sc e an ov gi il aggiunge a ll de à’ it nt ua ‘q di ri lo va i o rs ve a at nt ie or è to biamo persegui l su io iz ud gi il Ma ». sa es to di en im nt se l de , e ta lu so as la ro pa za en lg du in a nz se e e, al ci so l de a ic it cr a un e ud hi cc ra o rt poeta mo vi di in e le ra ne ne ge io iz nd co a un a a rt o po ol ri ic rt ’a ll il finale de duale dello scrittore che mai più forse dopo l’imaginifico sarà possibile, in Italia e nel mondo moderno: « egli fu l’ultimo poeta nostro che abbia predato la solitudine necessaria al suo lavoro, senza cadere in servitù di alcuno. Oggi i poeti si muovono fra coltelli ». Il colpo di coda, l’ultima affermazione è epigramma, o è verso, o è giudizio: sicuramente non c’è ironia. Tutte le frasi, i periodi, gli elementi che si sono isolati fin

qui hanno una doppia caratteristica: sono a chiare lettere giudizi critici, prese di posizione polemiche, puntate in campo avverso, a tratti di notevole durezza: eppure le stesse frasi, periodi, movimenti verbali sono anche altra cosa, e precisamente momenti e segnali di una creatività continua, che si esplica anche in prosa. Il poeta (qualunque poeta, non il solo di cui parliamo) resta poeta anche quando scrive in prosa; anzi, la prosa precisa la sua professionalità, il complesso mondo esperienziale e culturale da cui è partito. E la prosa critica (se considerassimo la prosa d’arte, la prosa creativa, narrativa, di romanzo e così via, il discorso sarebbe certo più ovvio...), soprattutto la prosa critica mostra un'abilità scrittoria, una capacità che non è, o non è soltanto, quell’enigma che chiamiamo a volte stile a volte linguaggio secondo le mode, da De Sanctis a Saussure a Jakobson; che è un più semplice, persino banale « saper scrivere ». Lo scrittore « sa scrivere » ogni volta che supera una difficoltà concettuale attraverso la parola e la frase, quando esprime un pensiero in modi inediti, quando, anche se non è inventivo, sa recuperare un passato e un presente, quando cioè cultura e vissuto si dànno la mano. Ne nasce qualche cosa che a volte diventa originale, creativo pur nella critica; ne nascono le pagine di famosi (e in parte dimenticati) critici-scrittori del nostro secolo, da Croce a Trompeo, da Baldini (Antonio) a Cajumi, a Pancrazi e così di seguito. Ricordo poi R. Barthes e quanti hanno teorizzato molto opportunamente la critica come funzione della letteratura, come scrittura di secondo grado — ma comunque « scrittura ». E se 136

il critico è, in più, poeta? Artifex additus artifici, uno come Quasimodo usa la scrittura, non se ne lascia usare; non conosce altro che la funzione attiva, e perciò anche la sua critica è soggetta all’uso -della parola creativa, -innovativa. L’indizio creativo che vorremmo indagare nella critica quasimodiana, è squadernato già nel primo storico testo del poeta che si improvvisa nel 1939 critico — e critico di un Maestro. I giochi cominciano a farsi. Potendo da qui in avanti parlare di indizio creativo negli scritti critici quasimodiani, si potrà sdoppiare il testo e vederne gli aspetti dalla parte della forma del contenuto (diremo la sostanza critica vera e propria) e della forma dell’espressione. Le due funzioni, il contenuto critico e l’espressione creativa, spesso decisamente coincidono; se il congiungimento non avviene, anche l’espressione (ma è raro) non rimane perspicua, non raggiunge il destinatario.

3. Proprio perché l’indizio creativo del poeta è il linguaggio, cioè la forma di un pensiero critico in cui risalta non solo un livello di prosa alta, ma a tratti addirittura l’illuminazione linguistica al suo limite superiore, è opportuno considerare sotto questo aspetto letterario, come una sia pure particolare forma critica o di letteratura, le prefazioni o note alle più famose versioni: dei Lirici greci, delle Georgiche, del Vangelo secondo Giovanni °, e ancora gli scritti dedicati a Eschilo, alle traduzioni dei classici e in generale tutto: quanto di questo « genere » viene scritto da Quasimodo dal 1939 fino al 1945 o 1946, ossia prima dei cosiddetti Discorsi sulla poesia. Sulla versione dei « Lirici greci »”, il primo e più noto di questi brevi testi, reca un incipit deliziosamente polemico ma altresì fondamentale: non per il solo poeta traduttore, ma proprio per una moderna teoria del tradurre. Rileggiamolo: « Quella terminologia classicheggiante (per intenderci: opimzo, pampineo, rigoglio, fulgido, florido, ecc.) che pretese di costituirsi a linguaggio aromatico [...], ironizzata, non ha offerto resistenza: e il suo umore s’è isterilito come avviene in ogni passivo aggregato linguistico ».

Segue una

dichiarazione

o giustificazione:

« Queste

6 Lirici greci, prefazione di L. Anceschi, Edizioni di re fio Il 4; 194 ivi , ori dad Mon ne, zio edi va nuo 1940, poi Il 2; 194 ano Mil a, gli chi Con la del ni zio Edi io, gil Vir di Giovanni, cit. 7 La nota reca la data «1939 » ed è ripubblicata nel politico e altri saggi.

15%

mie tradu-

Corrente, Milano delle Georgiche Vangelo secondo i ì cit. I{ poeta e il

le i

zioni

[...] tentano

l’approssimazione

più specifica d’un

testo:

pa e ll de a rn te in a nz de ca a «l e er quella poetica »; bisogna rend la ro pa ni og di tà ti an qu ra ve a ll de o rl Pa role costituite a verso. di n no , re lo va o su l de , a) ci un on pr la e ch (nella piega della voce i rd ta ù pi e ta mu te la o en mm ne è c’ n No ». ” ta ra du tono, ma di ‘ o: ri ra nt co al a, gi lo lo fi la ro nt co ca mi le po sa discutibile e discus epo à it ns de ‘ la re ri au es ò pu n no so io ud st o e ll de on zi ca « L’indi ma si de a me ll o de zi di o in tr al o un cc a [e ar ep pr ma o; st te tica’ del la el qu di ta el sc la ] al le ia iz o in cc ta mo at si is ll be el qu à di it ns te in a et po el o (d nt ca ne di io az tu a si ll i ne tr en ri e o ch tt ru st co o la ro pa

che si traduce) ». La conclusione, infine, altto momento creativo, a ic it la cr ro pa te la al et rm pe n à, no it , ns ne de r io pe az it nc co la ve do

di distendersi, e rimane nel periodo scritto un alone di difficoltà testuale, da superare con l’emozione precritica, con un atteggiamento di sensibilità « aperta » omologa a quella che si usa per la stessa poesia:

« Premessa,

non

come

metodo,

ma

in dissidio

continuo, una disposizione di ricerca equilirica [addirittura il gioco delle virgole, gli incisi, poi una parola fortemente inventiva...] ai testi per una resa di ‘ voce poetica ’ », con tutto il pe-

riodo che segue È. Anche « un incontro con Virgilio, soprattutto con quello m24suetus delle Georgiche, potrebbe rivelare oggi un desiderio di ‘ lasciare ’ il tempo » (e notiamo quale contenuto critico contenga

la densità Quasimodo,

dell’aggettivo « una

wmansuetus)

ma,

aggiunge

poco

dopo

giustificazione al mio lavoro vuole essere

di

natura poetica, la sola che autorizzi la lettura di un testo sempre presente nei secoli di una raggiunta civiltà europea »°. C'è, in quella « raggiunta civiltà europea », una forte accentuazione, dovuta alla scelta dell'aggettivo. Quasimodo chiarisce, con la sicurezza che lo distinguerà poi sempre (sicurezza di strumenti, certezza di abilità conseguita), che la filologia classica non ha tenuto conto « dei poeti, che sono i soli a dettare legge nella creazione di un linguaggio, nella formazione delle civiltà letterarie ». E > 8 Nel marzo 1962, ventidue anni dopo i Lirici greci, in un breve articolo intitolato Viva Vincenzo Morti, sul settimanale « Le Ore», Quasimodo, ridicolizzando un’altra traduzione « aromatica » scriverà: «‘D’uomini molti egli vide città’, ‘procacciare’, ecc. Io piuttosto che scrivere certe parole e certi versi mi farei fucilare alle due di notte invece che all’alba ». ° La nota qui citata s’intitola Virgilio e le Georgiche ed è datata « 1941 »; accompagna I! fiore delle Georgiche, cit., prima di essere ripubblicata in I/ poeta e il politico e altri saggi, cit.

138

passando ai dati tecnici, inutile — dice — « discutere la presenza della rima, risultato puramente fonico, ripetibile in altra lingua solo in funzione ‘ visiva” »: e anche in quella funzione « visiva » c'è uno scatto, un originale pensiero critico che raggiunge o si mostra nel linguaggio medesimo. Manca, dirà forse qualcuno, l’indizio creativo nella valutazione critica, nei cosiddetti « contenuti »? Eccone subito un esempio perfetto: « Anche Catullo [...] è lontano dai toni alti; sfiora appena l’ordine dell'anima greca e ozierà compiaciuto sulla vaghezza di Callimaco per poi continuare un suo diario elegiaco fitto nell’eco di una commedia plautina » !. Appare chiaro che alcuni concetti, in parte noti e di scuola, vengono fusi e trasposti, legati e come rilanciati attraverso l’ordine delle nuove parole, anzi l'ordine nuovo dei concetti che nascono da parole che esplodono come se fossero flashes: Catullo « sfiora » l’ordine dell’anima greca, e poi quell’« ozierà [...] sulla vaghezza », e infine il « diario elegiaco [...] nell’eco della commedia plautina ». L’invenzione verbale, l'accostamento analogico insolito crea un alone critico, una

realtà valutativa:

parte dell’indizio addirittura

critico —

scioccante

l’indizio

creativo

si sposta

dalla

l’insieme insolito che ne deriva è

e turbativo;

la fosforescenza

immediata

delle definizioni agisce in senso emotivo, sensoriale, quasi tattile od olfattivo prima che visivo o auditivo. È, anche qui, il realismo di Quasimodo che scatta prima ancora di definirsi teoricamente. Ultimi esempi, limitati alla citazione minima. In L’uomo di Eschilo! Quasimodo fa coincidere tecnica e concetto, parola e ricerca metafisica, « per quella ricerca di sintesi che spinge talvolta il poeta a ‘segnare’ un verso intero con una sola parola composta, per quel suo amore alla geometria, alla costruzione d’una forma esatta che gli desse l’idea dell’incorruttibile, dell’eterno ». Eppure (il passaggio al sociologico è rapido e coinvolgente: in una parola, moderno) « la densità del suo sentimento sfugge al popolo, il suo stile è avversato ». Ecco, nell’Introduzione a una lettura del Vangelo secondo Giovanni, una minima autobiografia culturale nell’indicazione dei libri della giovinezza

del poeta traduttore: 10 (salvo e altri 11 22

Cartesio, Spinoza, S. Agostino, i Vangeli.

Ancora in Virgilio e le Georgiche: come le citazioni precedenti e dove diversamente indicato) le successive, da I/ poeta e il politico saggi, cit. Porta la data « 1942 »; in I/ poeta e il politico e altri saggi, cit. «1946 », ivi.

139

pen del io sid dis il a av ov pr si ve do , ora all ri, asp e i cis « Testi pre re mp se era ro ont inc st’ que Ma . ità ver la siero nell’incontro con lqua no seg un a rsi ida aff di a im pr ta ten mo uo i ogn che ‘ ricerca’ tecar ato ult ris il to tan va ssa ere int mi non Ma siasi della vita. nste esi no seg un »: io bb du suo del one izi pos siano, quando la moun o co afi ogr obi aut to en em el un o, fic oso fil no seg un o le zia mento di identificazione? Eccone poco dopo la conferma, oppure una più incisiva domanda: « Il tempo non ha alcun valore per gli Evangelisti: la ‘ durata’ di Gesù è quella della tragedia greca»: con l’audace parallelo della storia sovrumana e di quella umana, per scoprire, magari, l’uso virgolettato e connotativo del termine « durata », qui metafisico, altrove letterario, più sopra (lo abbiamo visto) tecnico, più avanti esistenziale. Terzo e ultimo

esempio. In Traduzioni dai classici! c’è la giustificazione critica globale delle scelte personali, dei tagli che Quasimodo opera sul corpo o struttura dei poemi (« un poema non è mai completamente toccato dalla grazia », ci sono brani « dove il canto decade al limite dell’informazione di legamento ») seguìta dall’orgogliosa

affermazione di quello che il poeta chiama « consenso ritmico » (si ricordi la « disposizione di ricerca equilirica » per i Lirici greci), col quale cerca « di raggiungere quella serena e smemorata aura di racconto che risulta dai poemi omerici ». Così, alla « grigia, desolata ‘informazione’ d’un momento, d’una giornata di sensi inquieti », o agli epigrammi, di Catullo preferisce le elegie; .ma Eschilo, di cui ha tradotto Le Coefore, « Eschilo non ha avuto molti aiuti dalla filologia. Il suo testo è ancora come fosse scritto sulla pietra ». Filologia e poetica si avvicinano; filosofia e poesia coincidono; indizio creativo e indizio critico si dilatano nella parola innovativa che non ha timore delle proteste o degli scandali che susciterà. E che suscita, in effetti, soprattutto nei primi tempi, perché non si riesce a distogliere l’occhio e a usare invece altri sensi, ad esempio l’orecchio, pet intendere una prosa critica non tanto difensiva quanto offensiva; non così sprovveduta come taluno finge di credere; ma nemmeno così fortemente incisa in ogni linea verbale e strutturale, così scandita, da poterla definire semplicemente e decisamente « poesia ». Questa di cui parliamo è e resta prosa critica, con forte accentuazione inventiva, cioè con

momenti o fiammeggianti o discorsivi, legata alle necessità di una

13 «1945 », ivi.

140

trattazione che a volte dimentica le convenzioni della criticità per saltare il fosso dell’indizio creativo. 4. Questa accentuazione o accensione verbale può essere una sorpresa sintagmatica, oppure proposizionale, o del periodo logico-sintattico. Si manifesta in genere mediante un accostamento analogico o viceversa una prospettiva allontanante (come da un cannocchiale rovesciato): un modo inaspettato di approccio tra cose, figure, pensieri di storia letteraria, giudizi determinati o provocati da aggettivi e sostantivi alquanto distanti fra loro. L’accostamento o l’allontanamento creano un effetto di metafora, dal quale evidentemente procede quell’atteggiarsi della frase o periodo o giudizio, a creatività, a momento inventivo. Gli esempi sono numerosi; e sempre, là dove effetto critico ed effetto inventivo coincidono, lo scrittore ottiene i risultati più disinvolti, più personali e più innovanti. Non si tratta mai, per Quasimodo, di épater le bourgeois, di produrre uno shock, ma al contrario di avvolgere il discorso critico in una tela di ragno innovativa, secondo lui completa e attuale. Quasi a caso: « Macbeth, fragilissimo mostro »; « c'è pure in ogni pagina l’odore della coppia umana e il più lieve ansimare del suo martirio fisico » !#: pensiamo alla fisicità totale e persino un po’ oscena di questa puntualizzazione per un testo così famoso. Badiamo che non si tratta quasi mai di notazioni psicologiche, non esiste ancora, per Qua-

simodo, il nodo stucchevole di una critica psicanalitica che trascura o stravolge la realtà del linguaggio per ricerche di fantasmatici Io edipici. Nella Nota alla traduzione della « Bibbia d’ Amiens » di J. Ruskin nella versione di M. Proust, la fulmineità del giudizio (forse temerario) riguarda la suggestione strutturale che dà Recherche: « non è che un desiderio di ‘ operare’, un lavoro promesso, simile a quello, sulla pietra, d’un artiere medioevale ». Seguono Petrarca « solitario », Dante « sotterraneo », Jacopone e « il ‘ gesto” della sua anima ruvida ». Ecco la visione di Tedel re auto ile l’um « !°: esco dant erno ’Inf nell ni Lati Brunetto : Sodo di na eter gia piog a nell o fuoc di to pun un i orma soro eta 14 15 16 v. nota (ivi).

Macbeth, « 1952 », ivi. « 1946 », ivi. ca, rar Pet sul gio sag il Per . ivi », 7 95 «1 ato dat è Brunetto Latini 8 195 del gio sag un è i Tod da ne po co Ja re. olt più v. te, Dan Per 4.

141

il r pe to et rf pe o gn re un n «i o am si , ce ve in ma ». Nel Paradiso, e, nt Da to la to ti in to, tes o st ue (q » i al rt mo im i rt mo di gran silenzio i rd co ri si : 52 19 l de è co, iti pol il e a et po ancora nel citato Il , 9] 94 [1 o gn so è n no a vit La in a, im pr no an e ch la poesia, di qual la e ; e) al rt mo Im e rt Mo o nt pu ap s, to na hà At os dal titolo Thanat i os nd ia sc ve ro a, ibì acr r io gg ma n e co uc od pr ri si za ez ll be ma si de me ta no an L’ . io gg sa l de e fin a all , ità ual att a em tr es di o mp in un la zione finale infatti è di quelle che bastano a dare la misura di un Quasimodo poeta e uomo moderno, attento al suo tempo pur nel « fare » rigoroso:

« La nuova

generazione

sa che per ritrovare

l’uomo non deve incunearsi ancora nell’inferno: l’inferno è qui ». Epigrammaticità e modernità confluiscono; così l’attesa della frase che scatta su dal testo non è mai troppo lunga nella saggistica quasimodiana. Conta allora, dopo quanto si è detto, rilevare l’incompleta intelligenza del testo dantesco, di cui Quasimodo preferisce, come tanti — lettori o critici — la I Cantica (oltre la Vita nuova e le Rime petrose)? L'individuazione di un limite di questo tipo, in Quasimodo,

della poesia frammentaria

coincide in pieno con la sua ricerca

nei poemi omerici o virgiliani. Nes-

suno scandalo: né Quasimodo ha bisogno, per contro, di essere difeso da questa che non è una taccia ma solo un indice di preferenza, dovuto come è noto anche al suo tempo, al concetto di

liricità collegato con la musica da un breve dall’altro. Poesia uguale lirica; tiva, con parti toccate dalla « grazia » tica degli anni 1930-40, antecedente (per esempio da parte di Pasolini).

lato e con la composizione poema uguale poesia narrae altre no, secondo la poeal recupero del poemetto

5. Ma che cosa avviene, dell’indizio creativo, nei più famosi Discorsi sulla poesia? Anche qui scatta di continuo il giudizio fulminante, il giro di un discorso che va al di là delle parole, verso la metafora. La poetica di fondo è notissima: si tratta della nuova poesia del dopoguerra, che richiede l’impegno e il dialogo contro la solitudine e il monologo ermetici, che attiva un canto corale in luogo della litica monodica, che propone un linguaggio di apertura comunicativa che favorisca la partecipazione ai problemi generali e popolari. Rientrano in questo contesto dichiarativo di poetica, anzi addirittura di un'estetica nuova, favorita dal clima della Resi-

stenza e della recente democrazia, i seguenti testi: temporanea

(1946),

L'uomo

e la poesia 142

(1946),

Poesia conUna

poetica

(1950),

Discorso

sulla

poesia

(1953),

Poesia

(1957), Il poeta e il politico (1959)".

del dopoguerra

Se si prescinde dal fatto (del resto tutt’altro che irrilevante)

che la poetica realistica di Quasimodo risale, in sostanza e in prima istanza, alle Nuove Poesie (1936-1942) e che il poeta allora e in seguito si ritenne (giustamente) un precursore delle modalità dialettiche e sociopolitiche del neorealismo in poesia (come si vantava, altrettanto giustamente anche se non, forse, del tutto esattamente, di essere stato il creatore, il gran Maestro dell’ermetismo nei primi anni Trenta, dimenticando le polemiche ungarettiane sul nuovo verso, la coeva poesia di Alfonso Gatto, e così via), se si lascia da parte tutto questo, si noterà con una certa sorpresa che gli ultimi tre saggi, cioè i più importanti, sono stati scritti negli anni Cinquanta, ossia proprio quando la poetica del realismo ha iniziato il suo lento declino. Lo schema del nazionalpopolare gramsciano, ammesso che sia mai stato praticato realmente in Italia, non funziona già più, non permette più la comprensione, e ancor meno la rappresentazione, del mondo sociale, neoindustriale, che sta avanzando rapidissimo. Il piagnisteo neorealista prosegue, e proseguirà, come ha detto qualcuno, negli

innumerevoli « lamenti per il Sud » che continueranno a essere scritti (e pubblicati, magari a proprie spese...) fino ai giorni nostri, con semplice riverniciatura modernizzante,

tipo asintattismo,

versi spezzati a scaletta e simili accorgimenti tecnici. Tuttavia scrivevano, in quegli anni Cinquanta, Sanguineti e Giuliani, per esempio, e Zanzotto si trovava di già a una svolta fra il neoclassicismo baroccheggiante e l’apertura ancora parziale al flusso sintomatico o psicanalitico. Ebbene, i tre ultimi saggi quasimodiani stanno accanto ai primi sintomi della neoavanguardia, di fronte alle trasformazioni della società che il poeta vede o intuisce, parallelamente ma con occhio differente, nel proprio contemporaneo « fare » poetico. In La terra impareggiabile (1958) questo « segnale » della vita in movimento viene captato e anzi con fo rm e del le pa rt e dal la ri nn di ov ar si , po es ia all a consente dipe r ba st a ch e tan to qu el cr on la ac a, co n frontandosi persino tes to en ne un si di mo tut to) del no n (o tra si tta no n ch e mostrare ca mch e po et e ic a soc ial e rea ltà sul la In fo rm az io re ni al del ismo. gi ov an dei i tes ti dai an ch e res to de l ot ti le en e bia Quasimodo 17 Le citazioni che seguono, salvo diversa raccolta I/ poeta e il politico e altri saggi, cit.

143

indicazione,

ancora

dalla

o br li : 8) 95 (1 ra er gu po do l de che raccoglie in Poesia italiana om sc « e rt pa in mi no di to na io az fl in e , ia sbagliato quanto si vogl i on zi re di ne cu al di vo ti ca di in a lt su parsi », ma che per altro ri nte : lo co se ro st no l de le ra nt ce io nn della poesia alla fine del dece di i zz ra sp e te ra pe su e rm fo di i rs te pe ri e, denze vecchie e nuov accentazioni e linguaggi differenti. di« o i gg sa i de o im pr , 6) 94 (1 a ne ra po Già in Poesia contem , ia es po la del d en tr il , le ta en am nd fo ma te il , ia es po la sul scorsi » o nt su as ri , ro ia ch o lt e mo nt me al tu et nc co è , ia es po la il dove va è to es qu , mo uo l’ re fa Ri « ca: sti ica e ca fi ra ig ep , ale fin se fra la nel l'impegno ». Ma siccome « quello della poesia è un tema aperto all’infinito, e sappiamo che infinite (rispetto alle poetiche) sono le vie che permettono all’uomo di avvicinarsi a questa ferma situazione dello spirito in un determinato periodo della sua storia »,

accade che « le domande che il poeta pone a se stesso, e quindi a tutti, possono essere ritenute oscure dai contemporanei,

ma non

per questo cessano di esercitare il loro influsso nelle zone più gelose d’una società costituita ». Questo « infinito » muoversi della poesia (che non pretende — allora — di farsi sociologia così come oggi, invece, pretenderebbe di farsi psicanalisi) non ha proprio niente del rispecchiamento lukfcsiano; indaga o insegue soltanto un rapporto di reciprocità fra poesia e sociale. Ed ecco, all’interno delle stesse definizioni, lo scatto improvviso: « quella società che crolla, che è già crollata nell’ira meccanica della guerra ». Dice il poeta: « Io non credo alla poesia come ‘consolazione ’*ma come moto a operare in una certa direzione in seno alla vita, cioè ‘ dentro l’uomo’ ». E poi: « La nostra mente si rifiuta di considerare impersonale la creazione artistica ». Perché « ‘ riflessione ’ è il secondo momento della poesia »; perché « la crisi d'un poeta dura dalla nascita della prima poesia alla consegna della sua ultima scrittura ». E, dopo aver deriso la lirica petrarchesca « che nutrì per tre secoli il formicaio di poeti di tutta l'Europa », afferma: « oggi [...] dopo due guerre nelle quali l’ ‘ eroe ’ è diventato un numero sterminato di morti, l'impegno del poeta è ancora più grave, perché deve ‘rifare’ l’uomo, quest'uomo disperso sulla terra, del quale conosce i più oscuri pensieri, quest'uomo che giustifica il 18 Poesia italiana del dopoguerra, Schwarz, Milano 1958; la prima parte del saggio introduttivo di S. Quasimodo verrà poi inclusa nel volume Il poeta e il politico e altri saggi, cit., col titolo Poesia del dopoguerra e la data «1957 »: si tratta, in realtà, di una relazione letta dal poeta nell’ottobre 1957, in occasione di un incontro con scrittori sovietici.

144

male come una necessità, [...] che irride anche al pianto perché il pianto è ‘teatrale’ ». La nobile eloquenza della frase non nasconde, qui, né la severità dell'impegno o engagement tipico del tempo, né la consueta disperata malagrazia quasimodiana nel giudicare la poesia come fatto di studio e professionalità. Ma, proprio partendo da questa che ho chiamato semplicisticamente malagrazia, si può identificare oltre alla poetica la costante in prosa del Quasimodo maturo: l’eloquenza cede il posto alla sentenziosità e da questa si passa alla satira, o alla violenza dichiarativa; oppure, dalla mostra pubblica di sentimenti di moda il poeta si trasferisce verso l'inconscio delle emozioni: ma appunto quando si abbandona al suo inconscio, al linguaggio e alla sua corrente frenati da quella sua forza e abilità di formare, i periodi creativi risaltano subito, come illuminati da un rapporto sintattico e musicale diverso dalla frase comune. « Ma sarà sempre difficile distinguere il ‘ detto ’ dal ‘ creato ’ », scrive ancora

il poeta in L'uomo

e la poesia, testo contempora-

neo al precedente. Notiamo certi incisi, certe inversioni di rapporti grammaticali e sintattici, qualche iterazione che è già un luogo esatto della poesia-in-prosa.. E ha ragione, allora, lo scrittore (l’epigrafismo, l’apoditticità sono caratteristici del Quasimodo prosatote) quando sostiene: « dico che la poesia potrà domani,

senza

ironia,

essere

veramente

l’ ‘assenza’ ».

Perché?

« Quando la poesia comincia a dite, non potrà mai essere ». La modernità attenta del poeta gli consente così di catturare elementi del futuro. Dopo, ritorna la lezione di poetica diretta e persino il contenutismo socratico, il moralismo d’epoca: « L’uomo vuole la verità dalla poesia, quella verità che egli non ha il potere di esprimere e nella quale si riconosce [e fin qui niente di nuovo o di dirompente, ma si badi al seguito], verità delusa o attiva che

lo aiuti nella determinazione del mondo ». C'è in quella « verità delusa o attiva » un movimento d’anima che è tale solo perché è, prima, nel movimento delle parole. L’exemplum vitae per Quasimodo viene sempre insieme, contemporaneamente, alla bellezza letteraria o linguistica. Leggiamo ancora, in Una poetica (1950): « l'interlocutore imsaE mi. fiu i mie i go lun a min cam i, vall mie le ta abi maginario mauna re ina erm det er vol un a, vag pre sem ne rebbe un’indicazio o Ecc ». eri num mi pri dei io mor mor il che tematica là dove non c’è ate bal ver ne zio emo di o ent mom un : ico l’indizio creativo autent emat « o sin per a; tic poe di i anz o, tic poe traverso un movimento 145

e e ar ar ep pr a e rv se e ch la io cc ru sd matica » diventa una parola nu i im pr i de io or rm mo il « , co ni fo re go ri distinguere il ritmo, il si de il o, om ’u ll de ti en im nt se «i i at is ec pr i, qu o, meri ». Vengon i ov nu i co ec : ne di tu li so a ll da re ci us di lo el derio di libertà e qu do an qu « a ic et po a lt su ri e ch ne io uz ad tr a un contenuti »; così come lde ti at es ri lo va o ai on nd po is rr co ua ng li a ri op pr le parole della na ta a un in me , co ue nq vu do da ni an si tà ci ri fo ta me l’originale ». La mo un in e, gg le i ch o, nd ta at sc e, er lg vo av ad ta on , pr ta imperfet mento qualsiasi. Il più bel documento della poetica quasimodiana e insieme della sua icasticità compositiva si ha nel Discorso sulla poesia per antonomasia, in quel 1953 che è un poco lo spartiacque (o molto prossimo allo spartiacque) fra poesia del dopoguerra e poesia nuova. Il discorso del realismo è già più articolato e complesso, anche spinoso, con punte storiche e di polemica critica fortemente accentuate. Ma anche la singolarità di cui si è parlato viene in soccorso al discorso quasimodiano, e subito, fin dall’inizio, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un testo diverso da un puro discorso critico o di poetica. L'incipit, intanto: «I filosofi, i ne-

mici naturali dei poeti, e gli schedatori fissi del pensiero critico », con quel che segue: « perché la guerra muta la vita morale d’un popolo, e l’uomo, al suo ritorno, non trova più misure di certezza in un m0dus di vita interno, dimenticato o ironizzato durante le

sue prove con la morte ». Se « le occasioni del reale incidono nella sua storia » ecco che « bilanci o pseudostorie della poesia [...] sono pietre tombali provvisorie ». « Ecco il poeta, un uomo di rischi sentimentali, una natura inferiore sospesa nell’amore » perché (continuiamo a spigolare fra le creazioni autonome di un metalinguaggio critico e criptico) « la letteratura ‘si riflette’, mentre la poesia ‘si fa’ »; e, « naturale e innaturale frattura d’una consuetudine metrica e tecnica, il poeta modifica il mondo con la sua

libertà e verità ». È tempo di « ricostruzione dell’uomo frodato dalla guerra », e « il poeta non ‘ dice’, ma fa esistere questi suoi segreti, costtingendoli dall’anonimo alla persona »: non si possono più scrivere « idilli o oroscopi lirici » (splendido sintagma della polemica contro la lirica pura e il precedente se stesso...), la vera tradizione è « al di là dei flauti cortesi della natura sottomessa all’Arcadia perenne ». Da ultimo, il finale in levare: « Leggere Dante per dimenticare Petrarca e le sue ossessive cadenze ». Se «i sogni non sono che rumori della vita, risposte crudeli alle domande più consuete e 146

turbate »; se le immagini forti della poesia, « quelle create, battono sul cuore dell’uomo più della filosofia e della storia »; allora, ecco: « La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza: la sua responsabilità è in diretto rapporto con la sua perfezione ». Quasimodo contraddice il moralismo della nuova poesia o neorealtà? Contraddice se stesso? La frase diventa un’affermazione di principio e di poetica autonomia mentre s'impone anche come un modo di leggere questi testi in prosa, la cui responsabilità davvero risulta in rapporto diretto con la resa di bellezza. Anche la critica, la polemica, l’ironia, si vestono di un parola creativa, innovativa, emotiva e personale. Quattro aggettivi pet

tentare un’unica definizione. La poesia non si riduce alla storia della poesia ma alla parola esatta nella sua concretezza; nella storia i gruppi e i movimenti hanno «la durata d’un colpo di gong » (Poesia del dopoguerra) mentre la poesia, secondo Quasimodo, è eternità, durata assoluta.

« Ogni poeta rimane al suo posto nel suo tempo, chiaro o oscuro che sia: non una sillaba scompare della sua anima scritta ». Il dissidio risulterà insanabile fra « il poeta e il politico »; cogliamo anche in questo scritto d’occasione, forse non il migliore, la brillantezza delle perle linguistiche, le metafore disperse qua e là nella struttura polemica: il letterato catturato dal politico, e il poeta « con la bocca spezzata dai suoi trapezi sillabici »; « numeri brucianti in eterno »; mentre si « riduce la cultura nell’angolo cupo della sua storia », « la morte ha un sonno autonomo », ed è una frase splendida di torbido inferno di dopoguerra. Il poeta è solo mentre il muro di odio si alza intorno a lui: « da questo muto il poeta considera il mondo ». Ma qui la polemica diventa personale e quasi privata, per i motivi che conosciamo, la non accettazione, da parte di alcuni letterati italiani, dell’attribuzione del Nobel a Quasimodo, la vergognosa canea, per fortuna con eccezioni, che non è necessario esaminare in questa sede.

6. Eppure: la rete sottile delle citazioni, la partigianeria unilaterale e un tantino ruffiana del mettere insieme, per distinguere, te, men ata art to tes con dal rli lie tog dis di , ati par dis i ent mom e i fras

ono dic non ra ttu iri add se for to, mol ono dic non forse alla fine che llo que di rio tra con il ari mag e rar ost dim di ano chi ris O niente. di sa pro la ta sen pre rap a cos che « i est chi è si Ci . dire si voleva ra, ope sua la del sso ple com nel ica nif sig a cos che un poeta », cioè sto que in sa pro La via. ì cos e a lic imp e mar for di che tipo di modi 147

si un da e » te lu so as « e ur tt ru st e ll da caso vuol dire passaggio va ti ca ni mu co ra tu er ap di e rm fo a , stema ritmico come è la poesia

ePr i. al ur tt ru st e he ic st ui ng li à it il ib on sp che richiedono altre di a ic it cr a, os pr la e nd te in si n no e ch messo

o meno, come attività

ce li mp se ma o, rs ve l e co nt me te en al ev pr a er secondaria di chi op o he ic et po e ar ol is to lu vo è si n no a, rs ve di tà vi ti at me mente co ma o, it gu se di sì co he e ic it ol op ci e so gi lo eo , id he ic it i cr on posizi a in ur tt ri sc e ia es po a fr ti or pp i ra il ic ff di e i ar du piuttosto indivi oè ci to lu vo è si n No e ». ar rm fo di di mo « ti in st di e du a fr a, os pr lo eo id e o al ca rm ti fo eu ed op pr o la zi e ci er es a l’ os a pr ll vedere ne gica alla poesia in verso, ma precisare i contorni reciproci, studiare i limiti e le aperture di uno scrittore impegnato su due versanti,

su due differenti possibilità strutturali. L’indizio creativo di cui parliamo, perciò, non si riferisce affatto alla poeticità in prosa, ma alla parola specifica in cui si esplica o si rivela questa stessa prosa. La metaforicità, per esempio, che si è indicata come tipica di questa forma della prosa, va a rafforzare l’espressività del dettato, si integra con l’argomento per renderlo più rapidamente coinvolgente. I Discorsi sulla poesia, da questo punto di vista, diventano esemplari di una individuale, davvero straordinaria, geometria della scrittura. Scritti in sé discutibili, un po’ ingombranti, « limitati nella quantità e nel tempo », « mere dichiarazioni poeticoestetiche », « da servire calde ai posteri », come si è affermato altrove: « anzi legati a un preciso ‘tempo’ storico, ideologico e poetico — datati, in una patola »; gli stessi scritti, esaminati secondo quest’altra ottica, si rivelano non semplicemente preliminari ai testi poetici, né soltanto elementi di mitizzazione o di enfatizzazione del mondo di parola-silenzio del poeta in via di

diventare famoso. Tant'è vero che le medesime caratteristiche dei Discorsi sulla poesia le ritroveremo, in misura minore o meno

accentuata, meno

rigida in ogni caso, in tutti gli scritti, brevi o lunghi, d’occasione o di colloquio col pubblico, di Quasimodo. È, la sua, una prosa che oppone forte resistenza alla lettura: non solo nel senso della difficoltà, ma in quello della densità. È una scrittura, come si è visto dagli esempi riportati, di una essenzialità singolare, non così « chiusa » come nel procedimento formalizzante del verso, certamente più diretta e tendenzialmente comunicativa, ma altresì distaccata e autonoma. Nei Discorsi sulla poesia si è spesso di fronte a periodi complessi, complicati da un gioco persino irritante e ambiguo 148

di subordinazioni, periodi lunghi che procedono avvolgendosi su se stessi fino alla chiusa epigrafica e sentenziosa. Nelle prose di giornale, la geometria strutturale non è troppo diversa. Anche se, poniamo, lo scrittore preferisce per motivi di limpidità e chiarezza la coordinazione, il fatto di far leva molto spesso su metafore e immagini, finisce per negare quella medesima vantata chiarezza. L’oscurità, allora? Non esattamente: anche qui, però, la sorpresa si annida bos accostamenti (qualcosa meno dell'analogia) fra sostantivo e aggettivo, nel richiamo reciproco di parole che nell’uso quasimodiano sembrano rigenerate e colpiscono come nuove. Questa è la sottile abilità del prosatore: Quasimodo di rado usa neologismi, predilige parole note ma usate in modo inusuale, spostamenti di significati, miscele esplosive di lessemi (lemmi) colti e letterari ma

stravolti perché avvicinati con pro-

pellenti ironici. Continuiamo: uso o più raramente assenza degli articoli (ma se ci sono, sono determinativi, precisi come nella statica eppure inventiva e pungente lingua inglese) (e, a proposito, non si dimentichi la nota asserzione di Contini circa l’assenza dell’articolo che assolutizzava la parola poetica nel tempo ermetico dello scrittore);

il verbo

spesso in sarcastico

contrasto

con sog-

getto e complemento e così via. Lo stravolgimento disinvolto di riferimenti storici e letterari, come se fossero giudizi assoluti e passati in giudicato, si riflette nell’uso dei significanti che svisano i significati, e quindi nella determinazione di significazioni connotative secondarie. Anche quando tenta l’approccio al presunto « reale », più che voler dimostrare una tesi, più che fare ipotesi di critica e fornire elementi di autoesegesi o di poetica, questa prosa sembra proporsi come

momento

originario, ‘affermarsi come

autonoma

proprio in

ciò che più dovrebbe accostarla al ritmo e alla pausa musicale. Ma proprio per questo dinamismo, per questa ricerca di libertà, Temi prosa. e rimaner per poesia la esclude odo Quasim di prosa la e tecniche, lucidità e ironia, la catacresi di parole e immagini, da subito a lasciarl per ma attimo qualche per poesia la sfiorano a, pervers a, effettiv una in e consist entale fondam à tonalit La parte. parae a sontuos ora diretta, e povera ora icità, prosast difficile dossale.

aQu di a os pr la e ch ma er nf co vo ti ea cr zio ndi l’i o, 7. Riassumend e te en nd pe di in o ic st ui ng li e o tic lis sti simodo è un movimento e ch e rs ve di à vit ati cre e du o: ic et po collaterale rispetto al lavoro 149

. ti en im er gg su e ti un sp o nn dà si zi an a, non si negano a vicend oè ci a, ic st ui ng li e on zi en nv ’i un di a ic if rt ce vo Quell’indizio creati a ri op pr la al a si to et sp ri : na ia od im as qu a dell’originalità della pros o. mp te o su l de i et po e i or tt ri sc ri alt di a ic it cr a os pr poesia sia alla co i e ni le ve i re va ti at r pe ù pi in ia rc ma a un La metafora è come nre r pe a si os », i ic no mi « to ni fi de ho e ov tr al e ch i iz ud gi lori dei l de à it iv tt 'a un ea ur lf su e ca ti as ic e, al on rs pe ù pi re mp dere se te en nd pe di in e ce da au o it ir sp o un e ch a ur tt ri sc a pensiero e dell ) le ia e nz nt se me es sa er iv le (d ia nz se a es iv nt a se et po l lo de el qu me co In . ecc le ra at a te ic it cr , la al ne io uz ad tr la , al ia es po la rispetto al somma, bisognava prenderla, quella prosa, anche da parte di noi suoi contemporanei, così come era, come si presentava, e non solo

discuterla come idea di poetica o peggio vederla direttamente come poesia. Le prose d’occasione (interventi critici brevi, risposte ai lettori, interviste varie) sono in parte pubblicate nei due volumi

sopra citati: Un anno di Salvatore Quasimodo (uscito nel settembre 1968, quindi postumo), e « A colpo omicida » e altri scritti (197750

Le virgolettatute, cioè le citazioni, paiono ancora una volta essenziali: ancor più di fronte a questo meno noto, forse decisamente più oscuro, lavoro giornalistico che non solo dà da vivere al poeta già Nobel, ma gli conserva una audience a cui rivolgersi e per mezzo della quale tenersi in contatto con la realtà del suo

tempo. Ma mentre il primo volume è curato da Quasimodo medesimo ed è più composito allo scopo di dimostrare una serie, un gruppo di interessi complessivi del poeta (che infatti vi parla di letteratura quasi marginalmente, dà largo spazio [come è giusto] ai problemi dei giovani, scuola, droga, amore, ai temi della donna o di vecchi ecc.), nell’altro libro, « A colpo omzicida », curato da

chi scrive, la precedenza è data forse ai problemi letterari, pur nella distinzione tematica e nell’evidenziazione esatta dei problemi politici e dei luoghi geografici che interessarono il poeta da vivo. Meglio, allora, ritornare alle fonti, edite o inedite. Proprio sfogliando le pagine di vecchi giornali del tempo, mentre balzano agli occhi e alla mente. figure e mode e modi ormai ridicoli come tutto ciò che sembra

(ed è) superato,

mentre

ritorna

alla memoria

il

passato e una franche de vie che pure ci riguarda e ci riaffascina, ecco che balzano fuori i brani o i brandelli vivi delle rubriche di Quasimodo. Ecco che le pagine ingiallite restituiscono la verve e l'ironia anche bruciante, il sarcasmo e, a tratti, la cortesia isolana del nostro poeta. E, naturalmente, pur nello spazio minimo e nel 150

tema probabilmente obbligato (dalla richiesta dei lettori), balza | su, come da una scatola a sorpresa, l’indizio creativo, il sintagma lucido e violento, l’inattesa definizione, il mondo dell’inconscio, nelle parole coloratissime, nelle metafore e nelle immagini: qui una grande realtà culturale si fonde con un modo inedito di affrontarla, e l’abilità linguistica diventa un « diverso » sistema di mi-

sura. Ma esemplifichiamo. In Ancora su Pavese (« Le Ore », 25 aprile 1961) un giudizio ineccepibile si traduce in epigramma: « La sensibilità dolorosa, ma pure l’egoismo di una rinuncia spirituale lo uccidono lentamente. È forse ambiziosa la morte di Pavese? ». Oppure, in un pezzullo di poche righe intitolato La casa di Marconi (ivi, 11 gennaio 1962), un attacco folgorante: « La casa di Matconi è un rifugio di pipistrelli, e i ragni vitaminizzati sbarrano le finestre con tele di nailon. La memoria di un divo della gelatina visiva, è meglio rispettata ». Segue Le ceneri di Pirandello in cui, polemizzando col governo e i politici assenti, il poeta conclude: « Già, le ceneri!... un piccolo mucchio di intelligenza creativa che può disperdersi nell’aria. In una nazione di libero culto le libere ceneti creano sempre ‘dei problemi formali ». Altri articoli o « pezzi » giornalistici di forse maggiore peso ritengo utile riprodurli per intero in Appendice a questo discorso. La lettura di questi brani conferma il modo di analisi che si è voluto adottare, non ideologico ma strutturale-formale. I primi due interventi quasimodiani in questione riportano a due belle poesie di Dare e avere (1966): 1) La tomba di Ugo Foscolo (« Le Ore », 21 marzo 1963) a Nel cimitero di Chiswick e 2) Glenda-

loch alla quasi omonima Glendalough: immagini di viaggio e impressioni personali? Deduzione troppo facile. Nel primo dei due brani troviamo: « A Chiswick ho appoggiato la mano sulla tomba vuota del Foscolo e ho sentito tutto il peso del doloroso ma esatto consenso del poeta alla sua morte in Inghilterra, alla sua fine avvenuta tra i colloqui di un uomo dalla mente di fuoco, prigioniero me« l’immagine con chiude si l’articolo e »; morte di una pigra secondo Nel Chiswick. a foscoliana tombale lapide della » trica pezzo, la descrizione del cielo, delle rovine, della vita morta si ha vita la dove isola mia la mente nella cercato Ho « così: conclude della seguenti brani I ». civiltà di galassie e roteanti costellazioni All’om3) ». Tempo « settimanale dal derivano Appendice piccola conclusa vita una di rievocazione 1965), gennaio (13 bra di Salgàri evasicne, di narrativa sulla giudizio e » italiano karakiri con « un 151

e ll de do vi li lo co ta et sp lo ] .. [. se ca e ll « fra le carte da parato de io ra bb fe 0 (1 i ll pe em nt Bo di o im es giornate di riposo ». 4) L’uman

a rt po e ch to en am lt ba ri il a, gi ma la 1965): « nel reale è il mistero, » e rt mo a ll de a br om l’ n co te en id rr so o lt la nascita a dividere il vo lu va a ll de o ll pe ap l’ al i ma a nc ma n — l’evocazione esistenziale no o ll ne ta al es ed e id iv nd co o od im as Qu : ca ti te tazione letteraria o es

a ll a de is ec a pr rc ce ri la « de on sc na e ch ò ci o tt tu mo Co e di scrittor io gg ma 6 e (2 rt pa la Ma di » e ll pe La « 5) ». na gi pa la e tr pagina ol an Qu : « ia a no nz o se on gg le si e e ch or tt ri sc o un o e br li 1965); un ti, fra i mediocri autori di ‘prose aziendali’, scattanti come in-

granaggi di calcolatrici nevrotiche, riescono a resistere dopo le ? to ga ro -d ». no ia or eg io gr ar fr ci ro lo l a ur de tt le ne di gi prime tre pa 6) Su Franz Kafka (4 agosto 1965):

un altro « incontro » « nel

senso più umano del termine, a distanza da ogni congiura letteraria », magari visto « attraverso la prosa radente delle Lettere 4 Milena o dei Racconti ». 7) Persino La ragazza di nome Giulio (8 dicembre 1965), il noto libro di Milena Milani, a suo tempo processato per oscenità, diventa per Quasimodo occasione di un discorso di morale esistenziale, che termina così: Jules è « un personaggio che oggi non esiste, che non è mai esistito, che è sempre stato condotto sul filo di una farsa pietosamente ipocrita ». 8) Più ampio e disteso il discorso quasimodiano quando si trova di fronte il poeta americano, allora quarantunenne e non ancora all’apice del successo, Allen Ginsberg. La lunga intervista intitolata Un Nobel incontra un « beat », che esce su « Tempo » del 24 ottobre 1967, si snoda fra descrizione, presentazione e valutazione: tutta da leggere. Infine, includo due articoli (9, 10) di notevole interesse ma purtroppo ritrovati soltanto in dattiloscritto e non datati, anche se riportabili agli stessi anni di attività giornalistica. In I biancospini di Proust il poeta italiano affronta il tema arduo della Recherche: anche qui emergono notazioni di eccezionale intelligenza psicologica, critica e linguistica: « Chi fra coloro che erano le figure splendide della sua ‘ bella stagione ’ si è diviso così da se stesso e si è sacrificato nell’esilio della memoria? » e ancora: «è una struttura mentale quella che consente di penetrare la sua poesia »; « è la grande tragedia-commedia di una classe sociale in disfacimento. È, al di là di ogni tangenza cerebrale della nostra psiche con le cadenze voluttuose del periodo-discorso proustiano, l’opera che vince ogni moda o seguito, sacra nella perfezione psicologica ». 152

Ultimo, un bell’articolo dal significativo titolo Sulla tradizione: « Un richiamo alla tradizione non è sempre un invito alle lettere [...]. È qualcosa di più profondo di una discesa inerme, ancora avventurosa ». « Qui, e altrove, la necessaria voce dei poeti ha sempre detto parole del proprio sangue ». E la tradizione va mantenuta viva: « Perché nessun popolo sarà mai vivo, potrà mai dire una parola valida nel proprio tempo se affida soltanto alla diversità di lingua non il proprio pensiero, la sua lottata e umana vicenda, ma il riflesso più accettato d’una maniera di vita che imiti un sentimento discorde alla propria natura »: e «il problema è motale

e non estetico », commenta

lo scrittore.

8. Come concludere, come terminare questo lungo discorso in cui si è voluto piuttosto lasciare la parola al poeta e alla sua scrittura che libertà alle non difficili illazioni? L’indizio creativo si annida nella lezione critica di un poeta come

Quasimodo,

in

forme specifiche tali da consentire l’identificazione di una prosa autonoma. La metaforicità è un intrico sintattico-sttutturale che conferma a un tempo la cultura letteraria e la vis sarcastica, e dunque la creatività complessa del poeta, diversificata in prosa o in poesia secondo i tavoli su cui si trova a scrivere (come nella parabola della realtà pascoliana: i tre tavoli dello studio del poeta, da usare secondo le differenti intenzioni di scrittura). Da questa intensa creatività, ora metaforica ora critica, ora letteraria ora descrittiva, ora memoriale ora sarcastica, scatta a

volte un moto spontaneo, se inconscio o conscio non è dato sapere, che illumina la prosa allo stesso modo dei razzi notturni nella guerra di Apollinaire, o come un'illuminazione rimbaudiana. Qualcosa che si innalza, brucia in pochi attimi e si spegne, lasciando un alone luminoso e un odore di polvere. Sono i lineamenti formali e costruttivi che dànno l’indizio creativo della prosa quasimodiana. In due di questi splendidi momenti di lucidità precritica, o postcritica, o in ogni caso diversa e parallela rispetto alla poesia in i quas e, nisc defi odo sim Qua »), ida omic o colp A « verso (ancora in ia: poes la poi e a pros la re, semp pet e, ment tica icas ma a sorpresa, : rad Con è a pros la mo atti un Per i. ttiv agge a senz in sé, come tali,

traa dell i legg le mai a ntic dime non rad Con eph « La voce di Jos stoismo erot , ismo real ero, mist e: ator pros del a ntic aute dizione inun — odo sim Qua ea olin sott — Ecco « ». rico, costume, fatti ante calm le, cina medi , tiva cura tà veri una gna inse terlocutore che 155

[...] domatore degli istinti di quella ciurma, a volte enfatica e violenta con i suoi desideri di rivolta contro le bufere, il capitano e la vita » (Conrad e la giovinezza). Alla definizione della poesia dà luce e occasione il poeta americano William Carlos Williams (I/ ciclamzino di Williams): « Il calice giallo di un fiore è poesia. La poesia? Scrivere. Oppure

qualsiasi altra cosa, concreta o astratta ». Idea lineare. Perfetta. « Elementare e infinita ».

Appendice

[1] La tomba

di Ugo Foscolo *

Sono stato, alcuni giorni fa, a visitare il cimitero di Chiswick nel villaggio di Turnham Green, ora chiuso nella cerchia della città di Londra, dove fu sepolto Ugo Foscolo dalla morte

fino al 1871, anno

della traslazione dei suoi resti a Santa Croce. La giornata era di sole, ma c’era un vento acuto che rendeva di acciaio il Tamigi che scorre vicino alla chiesa che nasconde alla strada il cimitero. Il paesaggio, credo, è rimasto quello dell’inizio dell’Ottocento, intorno all’anno

1827

in cui morì

il nostro

Poeta.

Le stesse

case

vittoriane,

una birreria in stile Tudor, il silenzio campestre del sagrato. La tomba del Foscolo è come una delle tante dei cimiteri anglosassoni, un’arca dalla semplice architettura senza « cippi e marmorei monumenti ». Intorno al basamento cresce un’erba corta che lega tra loro le lapidi dalle pietre grigie [sic] e spoglie, oblique come le ali dei gabbiani che stridono nel cielo. I cespugli di tasso, i salici, i crocus, faranno di Turnham Green, in primavera, un giardino. E in questa quiete senza oppressioni di colossi funebri barocchi, i versi dei Sepolcri tornano alla mente, privi di retorica, richiamati dalla natura stessa, dai « sassi » e dalle zolle care al Poeta. La facilità, l’incontro tran-

quillo tra la morte e la vita, sono di compostezza classica: il vero romanticismo foscoliano. La poesia dei Sepolcri, pubblicati nel 1807, e cioè prima del soggiorno di Foscolo in Inghilterra e dopo quello francese, sembra un presagio dello « stile » della sua sepoltura: la semplicità che consumi e avvolga il corpo nel moto ondoso di una fede nel nulla positivo della gloria poetica e degli affetti degli amici, attraverso l’azione corrosiva che il Poeta affida al tempo. L’immortalità è nel profumo dell’erba di Chiswick, sotto il passo del visi* «Le

Ore»,

21 marzo

1963.

ib)

o il of pr il ro et di e, mb to e ll de a tatore che insegue, nell’aria ferm ». o nt ti es o ic am ’« ll de o rd co ri un , de evasivo e consumato della lapi o nn so « l ne to nu te o nn ha e ch ni an i gl de tà ni re se la A Chiswick è te an in lm cu a en rr te i is cr la po do a et Po l de o rp co il » e rt della mo do an rs ve « e ch e an nt fo e ll de o ec l’ è ck wi is Ch , a ne io uz ol ss nella di ». a ll e zo br ne fu a ll su — e ol vi o e an av uc ed ti an ar am — li ra st acque lu o ol sc Fo l de a ot a vu mb to a ll su no ma to la ia gg po ap ck ho wi is Ch a E e ho sentito tutto il peso del doloroso ma esatto consenso del Poeta alla sua morte in Inghilterra, alla sua fine avvenuta tra i colloqui di un uomo dalla mente di fuoco, prigioniero di una pigra morte, a. zz te is tr a a su ni ll de ag mp no co ro fu e i es ch i gl at in er tt i le ic i am gl n co Dietro il marmo di Turnham Green rimane il mistero di una morte avvenuta in terra straniera, dove il Poeta fuggiasco aveva portato la sua vita ad altri affetti, a diversi paesaggi. A Santa Croce, invece, nella severità della chiesa dei grandi, si è voluto annullare l’esilio e il dolore dell’esilio, l'amaro dell’invidia che avevano per lui i poeti del suo tempo. A Santa Croce, colui che era «a tutti aspro» è vicino all’Alfieri, e il « marmoreo monumento.» della sua statua muove la mente del visitatore alla fierezza classica e romantica della sua figura, all’eternità della sua gloria. Ma io che ho visto ora il cimitero « suburbano » non posso dimenticare, con rimpianto, l’immagine « metrica » della lapide: Ugo Foscolo Died September 10 1827 Aged 50

Accingar Zona Fortitudinis

[2] Glendaloch *

Glendaloch è Irlanda. Una valle chiusa da basse colline di pini: la sua ombra è rischiarata o accentuata dai colori azzurri dei piccoli laghi vicini alle rovine del monastero dall’eremita St. Kevin nel VI secolo dopo Cristo. Kevin si rato in quel luogo per trascorrere la vita nella contemplazione, poi un

centro

* «Le

di studi che ebbe

Ore»,

fortuna

4 aprile 1963.

156

per molti

coperte grigi o fondato era riticreando

secoli, cioè fino

all’invasione degli Anglo-Normanni nel 1100, quando inizia il grande silenzio di Glendaloch. Sono stato a Glendaloch in una giornata serena, non adatta, dicono, a creare quell’atmosfera cupa e romantica necessaria per avvicinarsi

ai resti

della

civiltà

delle insegne del Medio

celtica.

Sopra

il cimitero

Evo di Glendaloch,

ridevano

i corvi,

una

delle stagioni

e dell’uomo, al di là della natura e del verde irlandese. La geometria

delle lapidi, delle croci celtiche a trifoglio, sembrava predisposta da una fantasia shakespeariana che aveva anche intrecciato per il principe danese e per la sua allucinata suicida, corone di edera sui tronchi dei tassi, erbe lunghe in mezzo alle tombe e muschi: tombe dimenticate, anche quelle della zona del cimitero che accoglie ancora i morti. Essi sono sepolti nella terra che non conosce stratificazioni di civiltà. Le torri di difesa sovrastano ancora la valletta con la loro forma di cilindro sormontato da un cono. Nelle fortezze si rifugiavano la popolazione del villaggio, i monaci e gli studenti quando i nemici ponevano l’assedio. Entrando nel rettangolo di una cappella ho immaginato i credenti davanti all’altare come in un dipinto gotico, un profilo incollato a un altro profilo, una gamba inguainata dai calzari di pelle sulle pieghe rosse di un mantello, la cuffia di una donna sulle mani giunte di un contadino, senza prospettiva. Gli sciami come api dei rifugiati nelle torri in una notte di guerra, le frecce lanciate dagli alti archi, gli arcieri verdi dai capelli di fuoco, le preghiere dell’eremita-santo come un mormorio d’acqua, la stessa del fiume Glenealo [sic] che scorre dietro il monastero. Ho sentito le voci che si sono spente dopo gli anni ingenui dei

Celti

che

non

conoscevano

i movimenti

dell’umanità,

ma

solo

il giorno breve dell’uomo. Sulle rovine della chiesa si apre, nel coro, una finestra ad arco acuto contro il cielo. Un taglio antico nella pietra, un pezzo di nuvola o di azzurro che non serve più a smaltare l'interno diventato aria, arbusti, vento. Ho camminato in mezzo alle pietre di Glendaloch dove nessuna primavera potrà dare speranza e annullare quella desolazione. Forse non crescono fiori, ma solo erba nera e alberi verdi tracciati sullo sfondo di un affresco del Duecento. I corvi sembrano figurazioni rituali di morte, i bruni giullari della natura segreta. Nonostante il sole non riuscivo a pensare a un paesaggio più tetro e disperato di quei ruderi, di quei sentieri scavati fra i tumuli e le croci. La civiltà mangiata dalla noia e dalla consunzione, nella dimenticanza dei nemici potenti, è il giardino della fantasia

nordica,

dove

le ombre

della

sera

e la paura

delle nebbie

riportano l’irrealtà al reale, la corsa delle streghe e degli gnomi. A in inverno, lungo un in sta irlandese dell’uomo l’anima Glendaloch vecuore nel boschi, dei piogge nelle vicina, appare che una morte sono Quando alte. vele di tempeste dalle battuta getale dell’isola, 157

uscito dal recinto del monastero d’acqua antica che mummifica, volti pensosi e immaginari. Ho ti an te ro i on zi la el st co ha ta vi la

e zz po e ll da e um fi il to sa er ho attrav di si es fl ri e i tt se in d’ e rv la , nel gelo ve do a ol is a mi la e nt me a ll cercato ne e galassie di civiltà.

[3] All'ombra

Il «caso » Salgàri è diverso

di Salgàri *

da quello di autori che, letteraria-

mente più validi di lui, si sono serviti della stessa materia narrativa per esempio, e la sua per giungere dalla cronaca alla storia. Kipling, immaginazione costretta dall’esotico, ma così circoscritto dall’espri? britannico colonialista (tanto inglese proprio per lo scambio tra realismo e impero). Emilio Salgàri è lontano anche da una certa- « meccanica » della prosa. Il suo discorso è approssimativo e le frane sintattiche frequenti. Soltanto l’avventura come azione ha avvicinato molte generazioni alle sue pagine. Anche il « meraviglioso » senza giochi cerebrali, l’assenza della noia che copriva le pretese narrative di altri scrittori per ragazzi del tempo o precedenti. Penso alla lentezza psicologica del Robinson di Defoe, a certi presagi scientifico-fantastici di Verne. Ai giorni di Salgàri, ottanta anni fa, non era difficile « evadere » dalla prigione del presente. La monotonia borghese costruiva il suo mito ogni sera, priva dell’invenzione del televisore, il complice del non-impegno spirituale. Non c'erano treni-freccia, aerei, automobili superveloci. Per questo non era faticoso inventare l’inganno che apriva il sogno ai cartelloni delle terre sconosciute. L'Africa, le isole dei mari d’Oriente, non si proponevano all'indagine spogliata di documentari e servizi fotografici a colori. Oggi, il Giappone ci è noto come il semaforo all'angolo della strada. Le storie di Salgàri non attirano più i ragazzi: sono meno della lettura-visione di un giornale a fumetti e meno ancora di un film. Ma fermiamoci ad esaminare l’eredità di Emilio Salgàri, a quel conio di illusionismo mentale che ha conservato per tanti la pronuncia del suo nome. Velieri, onde come colline, fughe di belve nella giungla. Ancora poco tempo di risonanza per quell’identità così facile da ricordare e da dimenticare. L'avventura umana di Emilio Salgàri, una storia tragica, incontra invece la categoria del romanzo che i suoi libri non riuscirono mai a trovare (per romanzo intendo la tangenza interna con l’avvenimento * « Tempo », 13 gennaio 1965.

158

« fisiologico » della sorte stotica e individuale). I viaggi lungo il Mediterraneo, non oltre le rive del Mare Nostrum, le prime fortune editoriali, il matrimonio

e i figli. Poi, con la fama, i primi passi a

rovescio della felicità. Gli editori faranno di Salgàri uno schiavo. Per vivere dovrà scrivere migliaia di pagine all’anno e distruggersi. Quando non potrà più « produrre » con il ritmo di una rotativa a petrolio, la fine. Il suicidio nel bosco con un colpo di rasoio nel ventre. Un karakiri italiano. L’immagine di Emilio Salgàri appartiene alla documentazione figurativa di quegli anni ancora virtuosistici del divertimento. Le sue storie

(che

non

dimenticano

mai

un

impulso

umanitario

di ugua-

glianza fra razze e condizioni sociali) hanno lo smalto di geometrie da circo equestre. Le tigri con i domatori, le odalische nelle danze dei veli sulla pista cosparsa di segatura per i caroselli dei cavalli. Un sorriso sulle ombre della miseria lombarda e piemontese, un’aperttura verso continenti lontani. Ma il viaggio immaginario di quei ragazzi della fine dell’800 e dei decenni del ’900 durante la lettura di Salgàri, era uguale al pellegrinaggio statico dell’autore che, come ho detto, non

si è mai mosso

dalle coste mediterranee.

Fra le carte da parato delle case (come non oltre le paludi della pianura, nelle piste sotto il tendone, la frusta del domatore dà brividi di paura primordiale) lo spettacolo livido delle giornate di riposo. Le ore d’ombra dei pomeriggi nelle stanze dai mobili riccioluti, quando la città aveva le albe e i tramonti precoci della campagna. Questa, la fortuna e la morte, senza disprezzo o crudeltà.

[4] L'umanesimo

di Bontempelli *

Massimo Bontempelli, narratore, giornalista e uomo di cultura, è una delle maggiori figure della letteratura italiana della prima metà del ’900. La sua soluzione del reale, aperta alle correnti contemporanee, con il no alle anticamere del decadentismo, si stacca anche da una partecipazione fragile e nevrotica al malessere della moda. La sua vendetta,

di ordine

estetico,

è di gusto

umanistico.

Sono

le favole

dei poeti, i motivi che ritornano nelle composizioni musicali, le frequenze della necessità degli scrittori di teatro. La sua visioné della vita sembra ferma alle sensazioni dell’individuo, ma è più in là, in * «Tempo », 10 febbraio

1965.

159

e C . li ia nz se es ti en im nt se i ra io sf , de ci in co n no se e, ch a una sfer le al ta os sp ri a ci ns co in e sa uo tt fe af a im pr a un io ar er tt le co ar o nel su a am cl re e ch e al ci in ov pr ra tu na la r pe e rs fo e, ch es nt ce to ot e el ragnat co in Si . o n i m m a c l de io iz in le ci fa ù distrazione dall’affetto e un pi in si ne fi in a, ic et po a un te pe ri si , ci uc mincia con il verso di Card tà al re a nt ve di o om ’u ll de za en es a pr ut ci os contra il « nuovo ». La scon a st ri o tu nt fu me ia gg te at l’ e ch an i, Po o. sm ri tu in Bontempelli con il fu sMa . le na fi ta el sc a ll ne ia as nt fa e la ar gn pe sarà un’occasione per im a ll de lo co se al , 00 ’5 i al is al an a su la de lu i nc co simo Bontempell ia l es de gh or -b ra tu co na vo ui eq o l’ d n a u o, q om ’u ll felicità discorsiva de i ll pe em nt Bo di 00 . ’9 to Il et sp so o n un e m m e n a mo er n no romanticis nco in ha n no e o ch mp te e un ar gn se ve do la vo ta e diventa dunqu la trato interruzioni. Una prosa che si avvicina ai latini, con tutte le regole dei grandi del Rinascimento, ma con la purezza di chi è consapevole. La mente contempla se stessa attraverso i riflessi di un’ironia metafisica. I contorni nitidi favoriscono il gioco dell’intelligenza, il piacere della letteratura,

il meccanismo

della

coscienza.

Nel.reale

è il mistero,

la

magia, il ribaltamento che porta la nascita a dividere il volto sorridente con l’ombra della morte. Più di ogni altro del ’900, Massimo Bontempelli riesce a fare scorrere la sua tematica sullo stesso piano dei presupposti teorici e, al di là del fallimento, si impone una vittoria negativa. Se è sconfitta la morale e il dramma dell’anima non ha le indecisioni cardinali del dubbio, vince lo stile, e l’intelletto sbarra ogni fuga dalla vita. Non è facile intuire in ogni sfumatura la lezione dello scrittore di Como, che con severità e pazienza ha conservato un posto nella nostra tradizione letteraria fuori dai tormenti e dai tormentati. La sua, è una certezza che abbandona la paura; una voce che raramente ci viene dall’angoscia e, soprattutto, dalla sua concretezza artistica. Su « Tempo », negli anni dal ’39 al ’43, Bontempelli, in una sua notissima rubrica intitolata « Colloqui », ha ripetuto senza deviare l'intuizione umanistica della felicità non infelice. È

recente,

presso

l'editore

Bompiani,

un’edizione

dei

suoi

di-

scorsi, Introduzioni e discorsi. Tra i saggi l'apparente comunicabilità degli argomenti, i personaggi che vengono da un « paese » che per la natura del genio è noto quasi a tutti, anche ai non letterati, nascondono la ricerca precisa della pagina oltre la pagina. E tra i volti familiari

degli artisti

ritratti

per

le luci e il calore

rinascimentali,

il bianco degli spazi non è solo silenzio barocco di un artigiano della critica. E con « piacere per la letteratura » (lontano il senso simbolista della solitudine) Bontempelli ci accompagna in una visita-dialogo con Pirandello, Leopardi, Verdi, Scarlatti, D'Annunzio... Nella commemorazione pronunciata il 27 novembre 1938 nella sala

160

del Palazzo di Città di Pescara, egli dice fra l’altro di Gabriele D’Annunzio: «Ogni vita umana ha le sue origini e i suoi medioevi e i suoi maturati rinascimenti e le sue decadenze e le riprese a nuovo medioevo e così di seguito, per cicli rinnovati, ognuno un poco più nudo del precedente, sino alla morte. Il decorso di Gabriele D’Annunzio non ha avuto mediocevi, non cicli. Raggiunta rapidissimamente una zona di abbacinata maturità, il suo spirito ha tenacemente durato in quella, rifiutandosi a ogni maniera di serie ricorrenti e di progressivo denudamento. Per questa ragione, il minuto della morte di Gabriele D'Annunzio ha dovuto essere un minuto di peso e portata immensi, tale da bilanciare lui solo i settantacinque anni dell’ininterrotto bagliore. Dopo un’intera vita di violenza prodigiosa contro il naturale, un minuto ha dovuto da sé contenere tutta la pacifica-

zione ».

[5] « La pelle » di Malaparte * La pelle esprime la completa esperienza letteraria di Malaparte comprese le polemiche volute dallo scrittore per creare il luogo della sua personalità. Il libro raggiunge infatti una specie di attivismo intellettuale. Il coraggio sintattico e dei vocaboli, presentato come rischio, è una misura che rimane borghese proprio perché Curzio Malaparte ha capito che per ottenere consenso non si deve uscire dagli azzardi di quella classe sociale, cioè dai luoghi comuni più riflessi. Il pubblico è sempre disposto ad accogliere la novità in arte come nella cronaca, e perfino l’assurdo, a condizione che essi non escano dai limiti della sua intelligenza. Direi che Curzio Malaparte era un ottimo psicologo e che sapeva unire questa sua qualità all’abile potere di assimilare il pensiero contemporaneo. La sua versatilità è di imitazione ma diventa profilo metafisico della mente. Si sente, dietro il furore e l’urto malapartiano, la freddezza di un calcolo da tesoriere. Non si può parlare di una problematica di Malaparte, se mai di una sua avventura vissuta con agilità fino alla conclusione. L’avventura deve però essere un non-consapevole agire sul tempo; mentre per l’autore de La pelle essa è qualcosa che non raggiunge la responsabilità creativa né l'occasione. Rimane legato alla virtù della comunicazione quotidiana, di un meccanismo silenzioso, anche se qualche pagina del letterato è ancora un esempio di buona prosa * «Tempo », 26 maggio

1965.

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la Ma io rz Cu di ta vi a ll de no an ni og e ch o dialettica. Sappiamo poi e ro at te di mo uo e, or at os pr di a nd ce vi a parte è specchio della su ne cu al in io br li ui eq o ri op pr il a ov tr di cinema. Un eclettismo che lo so è i an sc To i tt de le Ma di e es at pr re to au l’ pagine dei saggi dove di fronte al suo destino interno. Per quanto riguarda un confronto con i contemporanei, non posso . rte apa Mal a i dol nan rdi coo si bas o alti ori val di la sca creare una e gin ori di era (ma o can tos ore itt scr lo e ben seb , che e dir Devo però ebraico-germanica e ciò non deve essere dimenticato per una valutazione completa della sua personalità) non rientri nella nostra tradizione più lineare, tuttavia i suoi libri si leggono senza noia. Quanti,

fra i mediocri autori di prose « aziendali », scattanti come ingranaggi di calcolatrici nevrotiche, riescono a resistere dopo le prime tre pagine di lettura del loro cifrario gregoriano-drogato?

[6] Su Franz Kafka *

Quando si legge Kafka si affrontano un tempo e uno spazio che diventano dimensioni capovolte della comune visione della realtà. Non posso indicare un metodo di lettura per le opere del narratore di lingua tedesca, nato a Praga nel 1883 e morto a Kierling nel 1924. Ci sono differenti rese del suo pensiero nella critica. Dire che Kafka sia esclusivamente un esistenzialista è un limite alla sua ricerca (anche

se velata) di una legge che non sia quella della scelta casuale. Non si possono tuttavia dimenticare le relazioni della sua opera con le teorie di Kierkegaard e quel ridurre la conoscenza all’angoscia della condizione umana di « riforma » esistenzialista. Non dobbiamo poi chiamare il prosatore all’origine ebraica vedendo nella sua arte un’indagine religiosa di tipo israelita, anche se Kafka non dimentica la necessità di sottomissione alla Legge. Come il Dio del Mar Rosso il reale ha poteri di giustizia inflessibile, vendicativa. Eppure quest’anima giudaica si scioglie nelle incertezze antimessianiche di una crudele verità contemporanea: le resistenze sociali, legate a paure e poteri che hanno dimenticato la condanna divina della specie. Ma se dovessi dare qui una non parziale immagine della personalità kafkiana non basterebbe ricordare i nomi degli autori che sono intuibili nelle sue pagine, da Nietzsche a Poe, da Melville a Strind* «Tempo », 4 agosto

1965.

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berg. E dovrei dire del misticismo dostoevskijano, dei fantasmi surrealisti. Tutto franerebbe al momento della lettura. Davanti al personaggio vinto di una realtà rarefatta (che cerca di muoversi nelle favole moderne in un cieco ambiente dominato da oggetti-carnefici, fino a diventare la vittima senza sangue di una filosofia che spinge la sua potenza nella vita e nella morte di ognuno di noi) troviamo uno scrittore unico che non ammette paralleli. Parliamo allora di incontri nel senso più umano del termine, a distanza da ogni congiura letteraria. Sia che il mondo di Franz Kafka affiori attraverso la prosa radente delle Lettere a Milena o dei Racconti; sia che il messaggio ci arrivi da Il Castello o dal Processo o da America vedremo nelle situazioni molti elementi della narrativa di oggi. Kafka è stato imitato in Italia e all’estero; in un primo momento potrebbe sembrare un gioco inserirsi in quella sua ossessiva imposizione di ciò che è « strano ». Ma l’ambiguità e i sensi misteriori della poetica di Kafka sono « chiari e distinti » e accompagnano la forte confessione di un uomo di genio e non gli esercizi di un letterato. Non è quindi quello di Kafka il diario di una nevrosi o l’inseguimento di una tavola di comandamenti perduti; è la storia di un grande scrittore che ha voluto dirci il suo amore per la vita e la sua aspra sosta di fronte al nulla.

[7] La ragazza di nome

Giulio *

Arte e non-arte, pornografia e nudo-estetico, linguaggio diretto ed eufemismi. La cappa del pipistrello formalista, benpensante e ottocentesco, adattata alla divisa contemporanea. In più, quindi, la squadratura delle linee che hanno dimenticato le ingenuità romantiche per le astrazioni del convenzionalismo. Il bene e il male, l’amore e l’erotismo, il sesso e la sensualità morbosa. Chi può mettersi sulla cattedra e stabilire, fra due poli, quale sia il negativo e quale il positivo nell’arte? E proprio nel nostro tempo, in cui si pretende di regolare la società secondo una morale voluta dall’intelligenza, siamo caduti nell’opaca circostanza di moralismo. Si vorrebbe .inse-

stria, l’indu esso, progr il tivi: ogget temi i grand nei tto sogge il rire i satelliti artificiali, eccetera. Le cose al servizio dell’individuo. Invece rare adope di e ti ogget agli o l’uom re piega di più e sempr si tenta * «Tempo », 8 dicembre

1965.

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Il . li ra ne ge ie or te di no eg st so un le sue vibrazioni interiori per à et ci so a ll de o oc gi de an gr l de na di pe a un è i ol op tr me a ll ne o cittadin ier sp lo vo un di a ic it al an ta et ov pr a un e ch è n no a im an e la sua mentale nello spazio dello spirito. Tutti sappiamo che l’arte sfugge, quando è priva di ambiguità, alle misure degli estranei ai lavori. Lo specchio di certi gentlemen della tribuna etica italiana deve galleggiare sopra la nebbia con un sorriso compatto. Diciamo italiana perché il romanzo di Milena Milani ha avuto fortuna e libertà in Francia dove è stato tradotto qualche mese fa. L'amore della Ragazza di nome Giulio (edizioni Longanesi) è un sentimento non solo intatto negli abbandoni volontari o no al sesso, ma è una forza tragica, una frattura-simbolo che se appare legata a una angoscia esistenziale ha un valore « presente » nella civiltà che stiamo vivendo.

Quando

un libro si muove

nella tristezza è degno di essere ascoltato. Se poi la tristezza si trasforma a poco a poco, durante la lettura, in una

fuga dal tempo

e

dalla morte allora il suo valore è sulla riva della verità. Milena Milani ha saputo accompagnare il personaggio da una stagione alalla delusione, dalla l’altra del suo sviluppo interiore, dall’innocenza” felicità alla certezza del nulla. I momenti più aperti dei contatti fisici non sono il luogo di arrivo delle intenzioni della scrittrice ma i punti di passaggio di una crisi della giovinezza. Tules è una figura attuale e forse le sue frane interiori, le ironie contro il regolamento della morale corrente, la nausea per la volontà nemica degli altri, l’incomprensione assoluta anche nel rapporto più naturale fra gli uomini, quello del sesso, hanno

urtato

in lei una eroina melodrammatica

coloro che vorrebbero

e perbene

vedere

anche nel delitto, ri-

spettosa dei luoghi comuni, fedele all’idiozia generale, formalista per-

fino nella motte. Un personaggio che oggi non esiste, che non è mai esistito, che è sempre stato condotto sul filo di una farsa pietosamente ipocrita.

[8] Un Nobel

incontra

un

« beat » *

Allen Ginsberg è venuto a trovarmi pochi giorni fa. Lo scrittore americano sta viaggiando attraverso l’Europa come un messaggeto degli dèi di Omero. Simile a un antico poeta porta i capelli sulle spalle, la barba lunga, una catena con una piastra dorata al collo. * «Tempo », 24 ottobre

1967.

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Invece di una tunica si copre con un paio di pantaloni consumati, una giacca e una camicia che conoscono l’impronta di mille vie e sonni nelle contrade del mondo. Allen Ginsberg ha quarantun anni: le biografie lo definiscono come ufo dei massimi esponenti della beat generation, giudicata da alcuni critici il « Rinascimento » americano del dopoguerra. Ma davanti a tale scheda della sua personalità Allen sorride — lo sguardo è una freccia di tenerezza dietro le lenti che lo dilatano — spiegando che il generico « beatismo » c'entra ben poco con la sua poetica. Per chiarire quali siano i presupposti della sua ricerca di verità, espressiva ed esistenziale, Ginsberg, come un attore o un messia, improvvisa in ogni luogo, a Londra, Spoleto o Milano, uno spetta-

colo di catechismo professionale, di avviamento dell’ascoltatore alla comprensione della tesi. La buonafede del suo impegno risulta così convincente che arriva a commuovere il pubblico dei letterati più controllati. Allen porta con sé una cassetta rossiccia e levigata dall’uso, che rivela ben presto la sua natura di strumento musicale: è un piccolo armonio dal suono profondo e liturgico che bene si adatta alla voce calda di Ginsberg quando canta una improvvisazione lirica. Fuori è la luce rapida dell’autunno e gli occhi del poeta, che molti credono pazzo e tanti giudicano « santo », si posano con grande pace e affetto su ogni persona colore paese. C’è in lui una pazienza stratificata da millenni di dolore insieme con un’ironia giovane e immortale che vincono gli ostacoli della natura, dei sensi e del cervello. Lo spartito diventa, per la nuova cantata di Ginsberg, ora un tema di sanscrito. Non possiamo sorridere di questa ingenua prova di pietà per il mondo: Allen ha pagato il suo amore per gli sbandati con una reclusione in manicomio criminale, una pena scelta all’alternativa del carcere dopo che fu arrestato per avere accolto un ladro. Ciò avveniva nel 1949 quando Ginsberg aveva ventitré anni: da allora il suo cammino insegue, anche con la poetica della parola e del suono, le leggi che lui stesso chiama della « compassione ». Per queste ra-

gioni è impossibile confondere Allen Ginsberg con un istrione o con un attore di se stesso: egli ha fede soprattutto nei giovani che a San Francisco, o dovunque

vada, si stringono intorno

alla sua figura

di santone. Passa come un saggio stoico attraverso le esperienze che lo mettono in utto con i politici, con la legge: viene arrestato, processato, realè n Alle hé perc lievi sono non e colp Le lto. asso e to anna cond hé perc nte, alme soci e ente ualm sess , ente corr ro cont va che mente uno è , ali» fici arti disi para « ai ona and abb si e ani icom toss i difende e, dent deca te amen cert a, ntic roma ra anco e fors a forz una di ede l'er proi era ne azio sens una ness e qual al o uom un a che faceva del poet

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rg be ns Gi di le ra mo e ca ti te es i tes la y, rt be li bita. Come per i simboli i al nt ie or i on gi li re e ll de e fie oso fil e ll de ti en am si appoggia agli insegn e buddiste. Allen canta, accompagnandosi con l’armonio, una monodia ossessiva e liberante, collegata strettamente alla tradizione dei salmi daa dell zo mez Per i. nes ppo gia che liri alle e, ian ind ere ghi pre alle ci, vidi musica egli vuole riportare al « corpo » — e fa segno con le mani alla zona intorno al diaframma — la poesia e la vita dell’individuo e dell’intera umanità. Perché nel corpo, dice Ginsberg, è la verità, la mente

la sola certezza possibile, la fedeltà:

(o la ragione?) ha tra-

dito l’uomo per tanti secoli, lo ha allontanato dal suo fine specifico, dall’unica felicità, staccandolo dalla fiducia, nella quale era protetto ai tempi delle civiltà primitive, per affidarlo alle astrazioni del cervello. La mente ci consegna una verità fratturata, il miraggio di mutevoli universi, l'angoscia dell’inafferrabile che ci opprime ora più che mai. La macchina è l'emblema di questa forza negativa, complice delle inutili guerre, della minaccia di una morte totale, atomica. L’uomo, e il poeta per primo, per trovare la salvezza deve ritornare alla natura,

al corpo,

alla sua sola riconoscibile

presenza

sulla terra:

così, anatomicamente, darà un tempio-rifugio sicuro allo spirito. Per combattere la supremazia della materia, dunque, Ginsberg invoca lo strumento del sensibile, il corpo: è come un cerchio che ritorna su se stesso. È un richiamo alla Zarathustra di Nietzsche. Le gambe incrociate come i bonzi nei sacri templi, le scarpe abbandonate sul pavimento, il giovane-vecchio profeta, saggio e un po’ folle, puro e corrotto, continua la difesa dell'innocenza con una logica intelligente e una bontà ormai rare. Come potrebbero avere fatto Rimbaud (del quale il poeta americano

ripete con

venerazione

il nome)

o Lautréamont,

Ginsberg

ci

confida l’incompatibilità col padre e da qui la lotta contro le generazioni « sepolte » delle gerarchie conformiste e accademiche. Tuttavia, dalle mani sottili e lunghe, dai gesti un po’ solenni, dai lineamenti di una stanchezza interiore e segreta — mascherata dietro il « volto » di un esterno entusiasmo

fisico e spirituale, accettato

senza

compromessi — vediamo Allen Ginsberg scivolare verso l’armistizio letterario e umano di un Verlaine. Quasi una conciliazione. La guerra di Rimbaud o di Lautréamont, la parola d’ordine « distruggere » dei maledetti,

è soffocata.

La giovinezza dovunque sia, ad ogni costo, a qualunque età, è ormai sostanzialmente perduta per Allen e anche per il movimento dei capelloni di San Francisco. Ma resta da fare ancora molto, forse tutto, prima che la « stagione » passi per sempre: così Allen, il professore laureato alla Columbia University, parte per l’Europa, pet

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il mondo, in cerca di nuovi discepoli da convertire attraverso le sue non-conferenze sulla poesia. È un affanno che genera tristezza, come di chi non deve perdere tempo, di chi deve lavorare molto; e nel bilancio delle spese non sono ultime quelle della droga per gli intossicati néi quali Ginsberg intuisce degli artisti, o dei santi alla Dostoevskij, o dei pazzi eccezionali, per tutti i compagni di fuga che popolano la terra dei sofferenti esclusi dalla famiglia e dalla società. Secondo l’autore di Howl questa verità è già stata comunicata a tre milioni di giovani: nel cuore d’America e del mondo ribolle ora un grande impulso che si serve della non-violenza per realizzare la rivoluzione. Questa specie di collera fisica e spirituale Ginsberg la intende come corsia verso la pace, o almeno verso il non-dolore. Tra i suoi maestri (Whitman, Sandburg, Céline, Genét, William Carlos Williams e Pound) ci sono tendenze ideologiche spesso opposte, ma comune è il desiderio di rottura, sia per il metro poetico che per le tradizioni e i costumi. Forse Allen Ginsberg dimentica — predicando un ritorno al passato degli aedi aggrappati alla cetra, dei cantastorie provenzali, battuto sul piede folcloristico delle ballate popolari — che la crisi del linguaggio è l’essenza di ogni vera poesia, quando non si voglia confonderla con la passività dei letterati. Parla nel buio, fumando una sigaretta nazionale dietro l’altra e bevendo cognac, dice che i poeti devono aiutarsi per cambiare o migliorare il mondo. Afferma di avere guadagnato ultimamente molti dollari, dopo che i suoi libri sono diventati i best-sellers delle generazioni bruciate o no. Con quei soldi ha comprato un pezzo di terreno

(dove

ha

costruito

una

casa-capanna)

che

divide

con

alcuni

esponenti del sottobosco: santoni, maestri di yoga, artisti drogati. Tra le pareti di alluminio, da una stanza di latta a un’altra, si girano le sequenze dei loro film privati, presi dal vero, dalle immagini e dai suoni della cucina o del bagno, con l’inseguimento delle macchine da presa. Sono nastri di mobili figure che vanno a ruba presso un pubblico di appassionati. E questo sospetto di neorealismo beat deforma un po’ la prospettiva eroica del clan Ginsberg. Allen con orgoglio ripete di essere un irregolare: ma ogni poeta rel’ir no ica mer l'a Per di. par Leo o te Dan o, Saff ono fur è tale, così e ca eti (po d bau Rim di » ura ent avv l’« tra o bri ili golarità è un equ nel i nar sio mis di ppo gru un di a and pag pro ace ten di uomo) e la sia poe di oni lezi dà tre men rg, sbe Gin sor fes pro Congo. Forse il nti rece i str mae suoi dei e ent tin con nel arsi trov cantata, dimentica di o antichi? i rs ve di e tur let le con e i on zi ca li bb pu le I dollari guadagnati con di tta tra si do an qu » o gi ag on rs pe « il e nt me ia ar nt lo — Allen fa vo » ti san « i per ue nq du de en sp li — li tel fra con i per i raccogliere fond

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à tt Ci « di ie ec sp a Un . le be Ba epr à lt vi ci a innocenti o perversi della su o sm ti lu so as di a rc na mo un è a et po il , del Sole » nella quale, però e er av di a et vi i gl n no e on si vi la ma a, gn so a et po . l schellinghiano (I una forte memoria

per le cifre).

lo che oli rop met la ra est fin la dal rda gua ene ars and Prima di ospita, Milano, che gli appare come un incastro di pietre enormi, pietre che sono banche, case, scuole, fortezze medievali, costruzioni preincaiche, paura dei cittadini di perdere un solido appoggio. Ma il suo occhio, il suo cuore, anzi il suo corpo non sembrano dedicare profonda attenzione al luogo lombardo dove la violenza è sangue negli ultimi giorni di settembre di questo 1967. C'è sempre un «io »

che conta, che sta in primo piano, anche se è composto da milioni di associati. La pupilla pungente da intellettuale, l’iride dorata da educatore di apostoli, esprimono una fondamentale nostalgia per la patria lontana, San Francisco la California il Village gli amici, là dove è necessario che torni il suo « corpo ». E nel corpo dell’umanità tutta la poesia e la musica del mondo dovranno essere travasate. Ecco che scatta, dominante, il grande simbolo baudelairiano: diventa, con la ricerca di Ginsberg o con le allucinazioni narrative di Burtoughs, il privilegio di una popolare e vasta corrente culturale e di costume, più di quanto non lo fosse stato nell’Ottocento, ai tempi del trionfo letterario del simbolismo. Nel nome della « compassione » per l’umanità o della fratellanza tra coloro che compongono versi, Allen bacia ogni poeta sulle guance prima di avviatsi a un nuovo luogo di predica.

[9] I biancospini di Proust*

Dare un giudizio dello scrittore francese sarebbe come riproporre una canonizzazione avvenuta da tempo. Come un personaggio di Dostoevskij o di Stendhal, l’« io » proustiano esce dalla luce oscura dell’opera nella ellissi di purezza e di impossibilità di confronti che è di ogni testo « unico » nella storia della narrativa. Infatti La recherche è un esempio per quasi tutta la prosa contemporanea, parlo di quelle esperienze che vedono nell’introspezione esasperata ogni ragione di azione e di non-azione, di assoluto e di relativo, di spazio e di limitazione nel tempo, di morte. Come sempre avviene quando * Dattiloscritto,

s.d.

168

il paragone è superiore alle forze imitative, le categorie di discendenza sono una pallida immagine dell’originale. Dal groviglio in apparenza inesplorato della prigione sensibile dell’autore, scatta chiara la figura del personaggio-protagonista che è poi l’uomo che rivive nel ricordo e conclude nell’arte l’essenza del reale. Una figura che finge la confusione e le prospettive sfocate, ma che è una statua di granito. Giardini paesaggi salotti dame: e in ogni pagina, in ogni parola, in ogni pensiero la tristezza di essere sulla terra la sola persona capace di « ricercare » il tempo perduto rendendolo nel silenzio e nel distacco (la catarsi di origine greca) dell’analisi-sintesi estetica. Per tutto questo è impossibile aggiungere commenti alla sistemazione di Marcel Proust nello spazio enciclopedico che gli hanno dato, e su molte pagine, i biografi. Come ogni genio, Proust costruisce sul reale. E ci rende una visione altrettanto reale. Dire che ha abilmente fuso l’impressionismo con il simbolismo, la decadenza con il concreto, è poco: resta la certezza che Proust sia forse il solo estraneo a quella scuola di simboli e di idee smarrite che in lui ritrova e ricerca il suo esponente maggiore. Secondo il nostro scrittore, solo l’artista ha la possibilità di conquistare ancora il tempo perduto: anche perché solo il suo ingegno lo porta a rivivere nel silenzio e nell’inazione gli anni dorati della sua vita in società. Chi fra coloro che erano le figure splendide della sua « bella stagione » si è diviso così da se stesso e si è sacrificato nell’esilio della memoria? La poetica proustiana della conoscenza possibile come assoluto solo nell’arte, non è certo nuova. Abbiamo detto di Platone e basta pensare all’ideale foscoliano della fama come unica sopravvivenza dell’uomo. I « mortali non-artisti » hanno il loro tempo perduto, ma esso è « riconquistato » solo nell’espressione estetica che « ricorda » e ruba alla dimenticanza i loro gesti, le loro figure. Così ogni arte, come la ro cont za sten resi e ne azio evoc st Prou per sono ura, pitt la o ca musi la nebbia del tempo che tende a cancellare ogni cosa. Una lezione soggettiva: per molti incompresa anche oggi, pet tanti incomprensibile (è una struttura mentale quella che consente di penetrare la sua poetica). Ma nelle linee che a ventaglio si distrie stico stili ismo dent deca nel e, ment alla gini imma e dall buiscono edia trag de gran la È a. ttiv ogge one lezi una e anch è morale dell’autore, ogni di là di al È, . ento acim disf in ale soci se clas una di commedia del se ttuo volu nze cade le con he psic ra nost a dell e bral cere tangenza ito, segu o a mod ogni e vinc che era l’op no, stia prou periodo-discorso sacra nella perfezione psicologica.

169

[10] Della

Un richiamo

tradizione *

alla tradizione non

è sempre

un invito alle lettere,

e nemmeno un desiderio di ritorno all’intelligenza severa di ogni manifestazione trascorsa dello spirito della propria terra. È qualcosa di più profondo di una discesa inerme, ancora avventurosa, in alcune forme di unanime consenso che diedero vita a un determinato tempo e lo allontanarono da altri periodi già conclusi e definiti storicamente.

Qui, e altrove,

la necessaria

voce

dei poeti ha sempre

detto parole del proprio sangue; e quella voce è stata sempre riconosciuta dagli uomini anche quando la paura della solitudine dentro il mondo suscitava in loro un momentaneo distacco dalle cose più consuete e rispondenti alla comprensione del sentimento. Ma oggi che cosa vuole l’Europa, che cosa può volere l'Europa? Non un’unica «forma » dello spirito, non un unico « modo» che accomuni nell’arte una ricerca di rispondenze del cuore dell’uomo. E nemmeno, attraverso le singole nazioni, una medesima « tecnica » che annulli e disperda la natura più vitale di queste nazioni. Perché nessun popolo sarà mai vivo, potrà mai dire una parola valida nel proprio tempo se affida soltanto alla diversità di lingua non il proprio pensiero, la sua lottata e umana vicenda, ma il riflesso più accettato d’una maniera di vita che imiti un sentimento discorde alla propria natura. Né il romanzo, né la poesia nasceranno se queste rivelazioni dello spirito individuale tenteranno una già scoperta, e non più singolare, cadenza di « contenuti

formali », sia essa epica o lirica, che li avvi-

cina alla cronaca. Vita o morte, dolore o gioia: il problema è morale e non estetico, sempre quando un uomo si mette a parlare della propria terra per dire parole, intendiamo sentimenti, ad altri uomini lontani.

* Dattiloscritto,

s.d.

IL PERIODO

Giuseppe Miligi MESSINESE DI QUASIMODO

È stato notato quanto sia difficile riportare ai termini e nei dati della cronaca documentabile la biografia di Salvatore Quasimodo. Termini e dati sono infatti costantemente deviati dallo stesso poeta verso l’area rarefatta del mito per una sorta di riluttanza ad accettare per la sua vita altra misura che non sia quella assoluta della poesia. La sua vera terra è così « l’isola di Ulisse » che « nasce da fuoco celeste », ove « la latomia l’arancio greco / feconda per gli imenei dei numi »: una « patria perduta » nelle sue concrete dimensioni spazio-temporali, non altrimenti ricuperabile che nella chiusa e folgorata immagine poetica. Cotesto atteggiamento ha spesso reso difficoltosa la ricerca degli studiosi quando proprio non li ha indotti all’errore: è a tutti noto, ad esempio, l'equivoco della nascita siracusana cui ha dato occasione una dichiarazione dello stesso Quasimodo — trasposizione mitica di quell’operazione di ricupero delle radici elleniche che il poeta perseguì con sempre maggiore convinzione.

Così da lui ci vennero solo rare e sfumate notizie sull’infanzia e sul periodo della sua formazione che si svolse quasi interamente a Messina dove frequentò, dal 1909 al 1911, le classi terminali

delle elementari e, dopo una parentesi di due anni trascorsi alla e, ment otta terr inin o, erm Pal di » à Scin co eni Dom « ica Tecn . Scuola ica Tecn la Scuo a dell se clas a terz e nda seco la , 1919 al 3 191 dal dela atic atem co-m fisi one sezi a dell o cors tero l’in e » llo one Ant « l’Istituto Tecnico « A. M. Jaci ». , 26 al ’20 dal , na ma ro esi ent par la po do che ge un gi Se si ag lo del tà cit a all o orn rit po’ un è ia abr Cal io gg Re a rno il soggio con ti, por rap dei e ie ciz ami e chi vec le del ne Stretto, alla consuetudi un ha si i), ott err int to tut del mai de ron alt (d’ ale tur l’ambiente cul

o nt pu un ce uis tit cos a in ss Me le qua nel o ng lu periodo abbastanza i

di riferimento nel suo processo di formazione e di maturazione intellettuale ed umana. Questa conversazione si propone di almeno avviare una ricerca sui rapporti che Quasimodo instaurò con l’ambiente nel quale cotesto processo si svolse. Scrivendo a botta calda alla prima notizia — nell’ottobre del 1959 — del conferimento del Nobel a Quasimodo, Salvatore Pugliatti così concludeva l’articolo per un quotidiano locale: « Lo meritavano questo riconoscimento Quasimodo e la sua poesia, la Sicilia dove egli è nato, Messina dove è nata e ha iniziato il suo cammino questa poesia, l’Italia che lo attendeva da 25 anni »!. L’intensità della commozione — il grado elevatissimo della partecipazione alla vicenda umana e poetica dell’amico, prodotta ai limiti dell’identificazione — spiegano l’insolita concessione all’enfasi da parte di un uomo che ne era peraltro costituzionalmente allergico. Ma, pur nei termini della commozione e dell’enfasi, Pugliatti dava testimonianza che proprio a Messina Quasimodo visse due momenti decisivi della sua vicenda di poeta: quello della rivelazione della poesia negli anni della prima giovinezza; quello del definitivo approdo alla ribalta della letteratura nazionale — alla distanza di circa un decennio — con la pubblicazione di Acque e terre. Nell’uno e nell’altro momento operò in un ambiente al quale lo legava un rapporto armonico di partecipazione, come più non gli riuscirà altrove. Ed è anche da questa esperienza irripetibile che prende origine a livello psicologico uno dei temi più insistiti della sua poesia — il tema dell’esilio al quale è connesso l’altro — altrettanto insistito — del ritormo. Ce ne danno testimonianza le lettere da Roma a La Pira — dopo il primo distacco da Messina del 1920 — e quelle a Pugliatti, dopo il secondo e definitivo distacco del 1931: le prime pubblicate a cura del figlio Alessandro per i tipi di Vanni Scheiwiller 2, le seconde in corso di pubblicazione ma in parte già anticipate dallo stesso Pugliatti. Sta di fatto che con nessuno come con i vecchi amici messinesi Quasimodo ebbe rapporti affettivi così tenaci e durevoli, destinati a coprire l’intero arco della vita e capaci di resistere alla divaricazione dei destini esistenziali come 1 Itinerario della poesia di S. Quasimodo, in « Tribuna del Mezzogiorno» del 27 ottobre 1959; ora in S. Pugliatti: Parole per Quasimodo, XIII Premio ‘Vann’Antò ’, Tipografia Samperi, Messina 1974, pp. 143-53.

2 S. Quasimod-oG. La Pira, Carteggio, Milano 1980.

172

AllInsegna

del Pesce

d’oro,

delle scelte ideologiche. Esemplare l’amicizia a tre che lo unì ai già ricordati Pugliatti e La Pira, alla quale Giuseppe Longo ha dedicato una specie di ritratto di famiglia: I tre di Messina. Si è che una certa situazione atipica, una condizione storica particolarissima assimila i tre al destino della città che li accoglie e solleva la loro vicenda a dimensione di simbolo e di mito. Così Gaetano Cingari può dirli « figli del terremoto, cresciuti nelle baraccopoli dove erano ubicate le Scuole e l’Università e nutriti di quell’esperienza durissima e insieme ricca di empito vitale » 3. E non c’è dubbio che a volere caratterizzare l’area culturale messinese tra gli anni Dieci e gli anni Trenta occorre fissare anzitutto un dato fondamentale: il trauma del terremoto e la partecipazione collettiva, mai più come allora tanto attiva e appassionata, alla vita e alle ansie della città tutta tesa alla soluzione del problema più sentito e più urgente: quello della rinascita. Rinascita che significava sì ricostruzione delle strutture edilizie ma anche ricostituzione delle strutture socio-economico-culturali e riconsiderazione dell’identità e del ruolo della città nel contesto delle istanze dei tempi nuovi. Giuseppe Barone in un suo recente scritto * ci ricorda le occasioni mancate che avrebbero potuto ben diversa-

mente — in senso più moderno — decidere dell’assetto urbanistico, del profilo estetico e dell’identità culturale di Messina. Ma è anche vero che gli stimoli e i fermenti che nascevano dall’appassionato dibattito apertosi sull'’ampio ventaglio delle scelte possibili, non andarono del tutto dispersi e segnarono in positivo l’area peloritana,

mai come

allora così ricca di carica vitale, di estri

utopici e di spinte modernizzatrici. Più che di area omogena si deve parlare di un campo di occasioni culturali estremamente fluido ed assai variato in cui tutte le ipotesi apparivano praticabili (anche se poi non riuscivano a prendere durevole consistenza perché non trovavano le strutture necessarie ad accoglierle ed a sostenerle). Lo contrassegnavano pree legat e, isori provv o spess assai ma , lanti stimo e vive senze assai

scolai uzion istit iate disag e vate rinno alle o eran com' più lo per di ti docen ni giova o inari d’ord nati desti vano veni quali stiche alle e a guerr tra arono ospit Liceo il ed ità ivers (l’Un prima nomina del tà zet Gaz « in 8, 190 del ma sis del à dit ere a gic tra La i, 3 G. Cingar Sud », del 27 dicembre 1978. 4 G. Barone, Sull’uso capitalistico del terremoto: blocco urbano e ri», ana Urb a ori «St in mo, cis Fas il e ant dur a sin Mes costruzione edilizia a 198210,

173

dopoguerra alcuni nomi destinati a diventare di primo piano nella cultura italiana: Manara Valgimigli, Eugenio Donadoni, Concetto Marchesi, Ettore Ciccotti, Giuseppe Rensi, Guido De Ruggero, Adolfo Omodeo, Giorgio Pasquali, Nicolò Rodolico, Raffaele Ciasca, Michele Barbi, Emilio Betti, Raffaele Spongano, e poi, più in là, Santino Caramella, Luigi Stefanini, Ugo Spirito e altri). Presenze, dicevamo, per lo più fugaci, ma che lasciavano un qualche segno perché nel periodo della loro permanenza aderivano ad un ambiente che si presentava (disagi a parte) accogliente e disponibile. Oltre e più che le aule, erano le librerie Ferrara e Principato — frequentatissime e animatissime — ed i caffè del centro i punti d'incontro della città: i luoghi deputati dove si svolgevano i dibattiti e nascevano le iniziative delle vivaci ed attive élites intellettuali che connotarono la vita culturale messinese soprattutto nel periodo tra le due guerre. Volendo tracciare un’analisi sommaria indicheremo, nel periodo a cavallo del terremoto e della Grande Guerra, nei simbolisti e poi, nei-futuristi, i due gruppi più significativi ed attivi. Il simbolismo contrassegna decisamente la cultura letteraria messinese fin dall’inizio del secolo. Glauco Viazzi che per primo con Vanni Scheiwiller ha studiato il fenomeno e lo ha documentato nell’Antologia dei poeti simbolisti e liberty®, ci ricorda che la prima rivista simbolista italiana — «Le Parvenze » — uscì proprio a Messina nel 1900 precedendo di cinque anni la marinettiana « Poesia ». « Le Parvenze » e, più tardi, « Ars Nova » (1901-1905) erano espressione di un cenacolo letterario di giovanissimi (ricordiamo il nome di Angelo Toscano, di Enrico Cardile, di Giuseppe Rino e di Umberto Saffiotti) a decisa connotazione esoterica, che subito si collegarono coi simbolisti lombardi Gian Piero Lucini e Romolo Quaglino e poi con la citata « Poesia » di Marinetti della quale furono anche collaboratori. Il gruppo si muoveva in un’area di gusto liberty e dava vita a una sorta di simbolismo orfico e visionario cui era propria l’evocazione di atmosfere magiche e/o allucinate spesso cariche di un erotismo intenso ed estenuato e la costruzione di uno scenario poetico artificioso e sofisticato con una sua flora e una sua fauna peculiari che coniugavano

suggestioni esotiche e surreali (fiori, piante, animali rari e peregrini o addirittura mitici e mostruosi). La cultura sottesa a cotesto S Poeti simbolisti e liberty in Italia, a cura di G. Viazzi e V. Scheiwiller, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano 1972.

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simbolismo liberty guardava con particolare simpatia ai maestri delle filosofie antipositiviste (Nietzsche in primis), ma soprattutto al movimenti sapienziali dell'Oriente ed alle scienze dell’occulto di moda in quegli anni (Schuré, Steiner, Blavasky) soprattutto nell'ambiente messinese contrassegnato da una forte presenza massonica. I modelli privilegiati del gruppo erano i decadenti francesi (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, ma soprattutto Mallarmé che Car-

dile definisce « l’unico eroe spirituale dei tempi moderni »)% e, su una linea di interpretazione simbolista, il D'Annunzio paradisiaco (ancora Cardile lo definisce il « Verlaine italiano » 7) e il Pascoli conviviale. Il futurismo nella Messina post-terremoto fece registrare una presenza vivace e significativa. Germinato in un primo momento nel seno stesso del simbolismo — con Cardile fra i primi ad aderire al movimento di Marinetti, ma fra i primi a distaccarsene sull'esempio dell'amico G. P. Lucini — ebbe ben presto un suo sviluppo autonomo in polemica coi simbolisti. Le iniziative cui diede vita furono certamente più vistose e di raggio più vasto di quelle delle élites intellettuali riuscendo a coinvolgere larghi strati della popolazione — soprattutto gli studenti. Fra le manifestazioni di particolare rilievo: estrosi happenings (quale quello del lancio del manifesto politico in occasione delle elezioni a suffragio universale maschile del 1913) e movimentate serate futuriste; la pubblicazione del quindicinale « La Balza Futurista » di Jannelli, Nicastro e Vann’Antò; la vivace azione di propaganda interventista e, più in là, la campagna per sottrarre il Teatro Greco di Siracusa alle rappresentazioni classiche. Certamente il futurismo fu l’animatore e l’ispiratore non troppo segreto delle sorprendenti iniziative studentesche cui sono legati gli esordi di Quasimodo. Di tale attività testimonianze e documenti mi hanno consentito di far la cronaca in occasione delle celebrazioni indette dall’Istituto Tecnico « A. M. Jaci » per il 120° anniversario della sua fondazione, e a quello scritto rimando per una più puntuale informazione*. mode ai lli acca nto esor di, tali in già com e rico rdar e bast erà Qui 6 AA.VV., Per la storia di un tentativo di Enrico Cardile, Trinchera, ; 9. p. 8, 190 Messina », ze ven Par Le « in e, on rr Ma o Tit . nge Sfi la de 7 E. Cardile, I cavalieri a: Eli A P 25 marzo 1900. in i tt ri Sc in , ppo gru di to rat rit »: o nic Tec 8 G. Miligi, « Quelli del a sin Mes i, per Sam a afi ogr Tip , a» in ss Me di i Jac M. A. « onore dell’I.T.C.

1982.

I75

nnu An D’ e i col Pas to tut rat sop — ola scu la o ers rav att i conosciut le del ti poe i ed ssi odo ort no me o più sti uri fut i zio —, appaiano in rò ent o od im as Qu li qua coi » a di ar gu an av d’ e ist riv « e ett idd cos contatto attraverso « Il Nuovo Giornale Letterario », la rivistina diretta da lui e da Francesco

Carrozza (fra i tanti oscuri ricor-

diamo i più noti Lionello Fiumi, Giuseppe Ravegnani, Filippo De Pisis, Giuseppe Villaroel e Antonio Aniante). Così le prime prove fanno registrare, accanto alle influenze scolastiche, le suggestioni della letteratura, diciamo, militante: fra cadenze pascoliane e sonorità dannunziane è presente già una tematica crepuscolare e decadente coi suoi languori e le sue penombre in un clima di intimismo estenuato mentre timidamente s’affaccia l’orrida presenza della guerra (in Profughi e ne Il martirio). Sarebbe del tutto una forzatura individuare già in queste prove d’un inizio stentato l’invariante della poesia di Quasimodo nella tendenza a portarsi nel cuore aperto della contemporaneità, al centro del dibattito sulla poesia e, per essa, sull'uomo? È questa,-comunque, una suggestione dalla quale non riesco del tutto a liberarmi. Sul piano stilistico il dato più interessante mi pare quello della prosa lirica che permette al poeta di stendere la sua voce in onde musicali larghe e variate più di quanto non consentissero le forme chiuse della metrica tradizionale: un’analisi di tali prose liriche (Primule, Sconfinamenti dell'anima, Amori crepuscolari, Profughî)

consente poi di riconoscere l’influenza dei giovani letterati che collaboravano al suo giornale (da Armando Curcio a Filippo De Pisis) ma anche quello del paroliberismo futurista la cui lezione certamente non andò perduta ed è presente nella vocazione all’ellissi e al salto analogico che caratterizzerà la produzione più matura del poeta. Una parentesi. C'è da dire che i rapporti di Quasimodo col futurismo — anche se mai tradotti in costante militanza attiva — furono meno effimeri e fugaci di quanto lo stesso poeta non volle ammettere e vanno al di là del semplice « gioco lirico » (come definì la sua tavola parolibera Sera d’estate) tentato in un momento

di noia. Quasimodo

infatti intervenne

assieme

a La Pira

nel referendum del 1921 indetto da Marinetti sul Teatro Greco di Siracusa, con parole di cordiale adesione alle proposte marinettiane: « Continua — scrive su ‘“ Humanitas ” rivolgendosi all’amico futurista Luciano Nicastro —

coi tuoi e miei amici a ri-

muovere ciò che è tarlato e che ha bisogno di rinnovamento, e il nostro sogno dinamico che sta all’opposto dell’erronea valutazione 176

statica della Sicilia, potrà darci quel conforto completo che la filosofia dà soltanto allo spirito »®. Altrettanto inequivocabili, due anni dopo, le parole di consenso sulla proposta di Marinetti e Prampolini per la fondazione di un « Istituto italiano di credito artistico » in favore degli artisti bisognosi. I quesiti posti dal vostro referendum aperta a Settimelli su « L'Impero » del tano il desiderio di tutti gli artisti e in [...] lanciata da Marinetti e Prampolini mente accolta da tutti gli italiani che, rioso, posseggano cuore e animo di veri

— conclude la lunga lettera 4 maggio 1923 — interprespecial modo credo che l’idea dovrebbe essere entusiasticaoltre al vanto del nome gloitaliani.

E chiudiamo la parentesi. Come ricorda Pugliatti, il 1918 fu per Quasimodo anno di pausa. La chiamata alle armi di Carrozza pose fine all’esaltante esperienza del « Nuovo Giornale Letterario » e rese meno agevole la collaborazione alle varie rivistine, molte delle quali del resto il difficile momento interno seguito a Caporetto, costrinse alla chiusura. Una prosa lirica, I collogui, che ho ritrovato qualche anno fa (su « La Strada » dell’aprile del 1918) ripete i motivi propri della produzione precedente. Eppure il periodo fra il ’18 e il ’19 mi sembra decisivo per la maturazione di Quasimodo. E penso che cade certamente qui la lettura dei grandi decadenti francesi (« Leggevamo Baudelaire, il primo Mallarmé e Verlaine che a poco a poco divennero i nostri numi » ! scrive Pugliatti) come pure di quei simbolisti messinesi di cui si è detto. Pugliatti fa i nomi di Cardile e di Rino e ci dà questo illuminante giudizio: « Serpeggiava tra cotesti ‘ simbolisti’ messinesi una vena di misticismo e di esoterismo che riproduceva, in un clima di provincia, assai diverso e lontano, caratteri del simbolismo francese » !. Le osservazioni di Pugliatti mi pare indichino la giusta direzione di ricerca per la piena intelligenza di Bacia la soglia della tua casa, la rac-

colta giovanile trovata tra le carte di La Pira — già un libro — di cui è nota la vicenda e che rappresenta il momento culminante della prima formazione del poeta. Da un lato Baudelaire, Verlaine e soprattutto il primo Mallarmé (quello della simbologia attinta P 1. 192 (?) e obr ott », ale rzi mpa L’I « da ate ort rip ? Parole 10 S. Pugliatti, Quasimodo a Messina: i primi passi, nel volume E fu in ora ; 1969 oli Nap a, ott Mar ti, olet Angi M. A. di cura a subito sera S. Pugliatti, Parole per Quasimodo, cit., p. 38. 11 Ivi, p. 40.

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al rituale misterico, alla seduzione delle gemme e degli ori, ai preziosismi alla Des Essaintes), dall’altra, a mediarli, il misticismo ato edi imm ll’ que in o pri pro che esi sin mes i ist bol sim dei ico ter eso dopoguerra riproponevano il loro orfismo. Mi sembra questa la giusta chiave di lettura: il quaderno infatti potrebbe essere tutto calato nella citata antologia di Viazzi e Scheiwiller dei poeti simbolisti e liberty, tanto è stretta la parentela che rivela coi simbolisti messinesi. E non è casuale che alcune di queste poesie siano apparse sulla stessa rivista, « Il Marchesino », sulla quale pubblicavano Cardile e Rino — come non è un caso che il quaderno sia stato trovato tra le carte di Giorgio La Pira. Partito Carrozza, Quasimodo st era, infatti, legato di amicizia al compagno di studi

al quale dedica la più complessa e ambiziosa delle sue composizioni giovanili, I/ fanciullo canuto, con parole inequivoche: « A G. La Pira che sa piangere presso la mia anima ». Un particolarissimo legame spirituale, di cui è testimonianza una lettera che nell’ottobre del 1922! Giorgio invia all'amico: è la discesa nel gouffre del misticismo esoterico che mi sembra segni, in certo modo, il destino spirituale dei due: un’avventura provvisoria, ma determinante, attraverso la quale La Pira chiarirà a se stesso i termini della sua ricerca religiosa e Quasimodo quelli della sua vocazione alla poesia: per l’uno e per l’altro un impegno totale e definitivo. La vera chiave di lettura di questa raccolta è pertanto la lunga lettera di La Pira a Quasimodo dell’ottobre brani significativi:

1922. Eccone alcuni

Da quando io mi confessai alla tua penetrazione di poeta — or è quasi più di un anno — quante creature sono nate e disfatte nel mio essere di uomo procedente sempre più con affanno e purifica zione verso la conoscenza; [...] è pure vero che solo ai poeti sia lecito di portare luce nei profondi dell'Essere; Mistero di parole, rivelazione di indicibile è il tuo Fanciullo Canuto; Tu sei giunto a compimento: hai aperto le porte invisibili di questo tempio sconosciuto [...] ci sei penetrato con umiltà e ubbidienza, hai pregato per tutti e ti sei avviato ginocchioni da Sacramento a Sacramento; Tu e io siamo i due aspetti della stessa infinità [...] Tutto ciò che maturo lo maturo anche per te, come tu non vorrai negarmi le tue supreme rivelazioni; Abbiamo un’origine comune ma strade diverse. Esprimerci assieme contemporaneamente — tu dalla Poesia, io dalla Filosofia. 2 S. Quasimod-oG. La Pira, Carteggio, cit., pp. 57 sgg.

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I riferimenti sono così precisi che il manoscritto potrebbe essere addirittura la risposta alla lettera di La Pira, nel senso di una riunione in un corpus sufficientemente organico delle rappresentazioni simboliche di una proiezione mistica nel metafisico — appunto, « nei giardini della luce » (un segno esteriore, ma inequivocabile, della dimensione esoterica è nei tre punti a triangolo che chiudono i titoli delle due sezioni del manoscritto nella riproduzione in fac simile: ricorderò qui che tanto il padre di Quasimodo quanto lo zio di La Pira erano massoni attivi e così Rino e Cardile). L'amico Mario Sipala nella sua analisi acuta e puntuale del quaderno messinese * ha notato come le parole-tema che più frequentemente vi ricorrano siano « stelle » e « sogni ». Ma ancora più frequentemente ritorna il sostantivo « silenzio » col suo corrispondente verbale « tacere » usato talora nella forma imperativa, sacrale. E se a ciò si aggiunge il frequentissimo ricorrere di termini riferibili al rito (calice, incensiere, altare, tripode, coppe, tempio) coniugati per lo più con i nomi delle pietre rare e preziose (onice, ametista, agata, zaffiro, opale, smeraldo, cristallo, alabastro) si ha l’idea dell’atmosfera artificiale e rarefatta, di quell’estetismo prezioso e sofisticato che si respira nella raccolta. È la stessa atmosfera che ritroviamo nella produzione di Cardile e Rino. « Bisogna creare un nuovo ordine di apparenze: questo pretende la bellezza che non è cosa mortale » aveva scritto Cardile !*. E Toscano (considerato il caposcuola dei simbolisti messinesi, morto nel terremoto): « È il poeta come un giovane ministro delle celebrazioni sabee, come il liturgo » !. Tuttavia La Pira operava una forzatura assolutizzando nella poesia dell’amico l’ansia di « totale conoscenza », dell’« ascesi di redenzione ». Certi simboli che la sua lettera assume della poesia », ico mend « il », ante viand « il », de noma « il di Quasimodo — l'« esule » — più che dell’ansia metafisica si riveleranno simboli Roma da re lette le ccano trabo cui di le enzia esist di quell’angoscia all'amico, e che caratterizzerà la sua poesia nell’intero arco della sua parabola. Delle poesie di Bacia la soglia della tua casa solo quattro pasodo sim Qua o dop anni e sett che tto scri mano ro ’alt nell nno sera comporrà per Pugliatti e che raccoglie il meglio della produzione è

13 P. M. Sipala, Il quaderno di poesia del ragazzo Quasimodo, in . 1983 si Assi la, adel Citt a, poet il e omo l’u : AA.VV., Quasimodo 14 AAVV., Per la storia di un tentativo di Enrico Cardile, cit., p. 17. 15 Ivi, p. 61.

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romana — I notturni del re silenzioso — e nessuna di esse perverrà ad Acque e terre. Segno certo di rifiuto e di scontentezza, del superamento di una poetica che affidava prevalentemente all’artificio di una scenografia e di una ritualità sacrali la resa espressiva. Restava l’ansia di una ricerca religiosa di cui offrono testimonianza nei Notturni del re silenzioso i frequenti richiami biblici e un dolorante ripiegarsi su se stesso, sulle radici della sofferenza

umana. Parallelamente la crisi religiosa di La Pira sfociava nel ritorno alla Fede della Chiesa cattolica. E la lettura della poesia dell’amico cambia chiave: dalla chiusa e fumosa simbologia esoterica alla trasparenza del linguaggio evangelico. Voglio dirti una cosa — scrive all'amico nella primavera del ’23 — ho pensato che tu abbia un dono sovrano: possieda cioè la favella della plebe: prima avevo vagato innanzi alle parole cave dei tuoi pezzenti (la sottolineatura

è mia)

[...] ora

mi

è venuto

in mente

che

la plebe [...] la povera gente, ha il linguaggio serafico ed è geometrica [...] è ingenua come i fanciulli [...] Sii plebe e quando sarai tale avrai raggiunto il dono sublime di saper parlare al cuore dell’uomo !9.

La poesia per La Pira rimane tuttavia esperienza mistica, con-

templazione di verità. « Il verso, io credo, quando è perfetto — scrive all'amico poeta nel settembre del °27 — è tale perché supera il finito con l’infinito che esso ha fissato [...]. Tu potresti

col tuo verso — felice grimaldello che ti permette di aprire le mistiche case dell'anima — racchiudere brani notevoli di mistero » ”. E ancora in altra lettera dello stesso periodo: « Se tu cantassi per pregare e pregassi cantando chissà quali bellezze tu daresti all'anima nostra » !° (e forse La Pira conosceva

già H. Bré-

mond). Infine nella primavera del 1929: « Nel tuo cuore di poeta ogni canto sarà per Dio » !°. 16 S. Quasimodo - G. La Pira, Carteggio, cit., p. 55 (la lettera è erroneamente datata dal curatore « seconda metà del ’22» ma l’accenno all’avvenuto inizio dello studio del latino e del greco da parte di Quasimodo — nonché altri elementi interni — impongono una datazione non anteriore all’aprile

del

1923).

7 Ivi, p. 81. 18 Ivi, p. 89. 19 Ivi, p. 108.

180

A quella data, però, per Quasimodo si era aperta una nuova fase dell’attività poetica. È a tutti nota la vicenda dell’incontro — nel gennaio del 1929 — di Pugliatti con Quasimodo già da qualche anno impiegato a Reggio Calabria, con il conseguente reinserimento del poeta nell'ambiente messinese e la ripresa impetuosa dell’attività creativa dopo anni di dubbi e di silenzio. C'è da premettere che agli inizi degli anni Venti era apparsa in Messina con Vann’Antò, Luciano Nicastro, Giovanni Calabrò, Michele Mancuso e qualche altro, una seconda generazione di poeti simbolisti dopo la prima dei Cardile e dei Rino. Si tratta di letterati di più solida formazione culturale (sono tutti di estrazione idealista: crociani e gentiliani) e di più sicuro gusto, esercitato soprattutto con le traduzioni dai grandi decadenti francesi o fiamminghi (da Baudelaire, da Mallarmé, da Jammes, da Maeterlink, da Kahn) condotte con grande impegno di penetrazione critica: quasi a voler risalire all’origine di un magistero poetico il cui vero significato era stato spesso equivocato e tradito. Essi non operano

più in clima di separatezza provinciale, ma appaiono partecipi e in qualche modo collegati coi movimenti di idee e di gusto a livello nazionale. È questa sostanzialmente l’atmosfera che si trovò a respirare Quasimodo nel cenacolo formatosi attorno a lui ed a Pugliatti con Vann’Antò, Raf Saggio, Glauco Natoli, Enzo Misefari... Del cenacolo l’animatore è Salvatore Pugliatti, il vero interlocutore di Quasimodo. Per il poeta l’esperienza della « brigata » (come la chiamerà in un verso famoso di Vento a Tindari) segnerà il passaggio da una concezione di tipo mistico, metastorico, della poesia e del poeta, ad una riflessione di tipo estetologico sulla poesia e sul poeta. L’attenzione è decisamente spostata sul concreto fare poesia, sulla necessità di coerenti scelte espressive, di una poetica organica. Se, come si è visto, nelle lettere di La Pira la poesia è rivelazione, contemplazione, nelle lettere e negli scritti di Pugliatti paral in anni i quegl in tta condo ca ricer una di — che ci dicono dei a etezz concr nella vive che ione creaz è essa — poeta lelo col icata purif e zzata tuali spiri ione, creaz viva « e: ssion espre di mezzi da icata purif « sul to battu va ento l’acc Dove °. da ogni scoria » a poesi tra ana croci e nzion disti nota alla nda rima che » ogni scoria didadel o, ittiv descr del tivo, narra del a scori la tra a, poesi non e PI

20 S. Pugliatti, pio 109;

Interpretare

la poesia, in Parole

181

per Quasimodo,

cit.,

la del , ica lir a res ta dia mme l’i del a ezz pur la e o ori scalico, dell’orat ravib da on of pr la nel sta sia poe la (« to can del e, in ag mm parola-i ile rat vib e, ual rit spi to tut o ov nu so sen un dà che zione musicale a, ltr l’a nel na l’u ono olg sci si che ole par le te tut a e ola par i ogn ad nella unità incorporea e trasparente del canto » 7). È a tutti noto che il momento decisivo, la svolta nell’iter di Quasimodo si apre con un’operazione di scelta, di vaglio. Quasimodo cerca nella congerie dell’incerta produzione giovanile un nucleo di poesie sufficientemente omogeneo da farne un libro: I notturni del re silenzioso. Sono complessivamente 38 componimenti sottoposti al vaglio dell'amico e certamente l’operazione condotta in collaborazione non si esaurì nello spazio di un pomeriggio passato « nella saletta di un caffè, a leggere con uguale e diversa trepidazione » se di esse soltanto dieci passeranno ad Acque e terre. Tra I notturni del re silenzioso del 1929 e la pubblicazione nel 1930 di Acque e ferre, che comprende 37 nuove poesie, corre uno spazio di riflessione e un processo di maturazione dai quali emergeranno per il critico le lineè di una ipotesi di lettura e per il poeta quelle di una nuova poetica. Le une e le altre strettamente correlate:

e il testo nel quale appaiono compresenti

è proprio la recensione pugliattiana di Acque e terre del maggio 1930 — la prima in assoluto — che da una parte rende testimonianza di una poesia « scarna, priva di elementi decorativi », « tutta essenza » — l’espressione passerà subito a Vittorini e diventerà un topos critico a lungo ripetuto con infinite variazioni — in un discorso che delinea un iter, un processo di liberazione del canto dalle scorie dell’autobiografismo, dell’« episodio », come da quelle dei ricalchi letterari. Nello scritto di Pugliatti la « materia » della poesia — l’esperienza umana del poeta, presente nei due « temi dominanti: la ricerca della divinità e il dolore » — filtrata dalla memoria, si fa evocazione lirica che si risolve, comunicandosi, nel ritmo musi-

cale del verso: « Le ombre, i veli le sfumature sono essenziali alla poesia di Quasimodo, poiché egli non è un narratore, ma un poeta squisitamente e profondamente lirico, e l’essenza della sua poesia è tutta in questo potere di evocazione di sofferenze velate, che l’avvicina alla musica ».

A-Tvi p.Slll. 2 S. Pugliatti, Acque e terre, in « Gazzetta di Messina », 22 giugno 1930; ora in Parole per Quasimodo, cit., pp. 55 sgg.

182

La metafora musicale sarà usata con sempre maggiore convinzione da Pugliatti nei suoi scritti su « Solaria » (vedi la recensione a Ossi di seppia e l’interpretazione di Vento a Tìndari) e su « Cir-

coli » (le recensioni a Il passo del Cigno di Capasso ed a Oboe sommerso); ed è su di essa — la poesia come canto — che poggia l’affermazione dell’assoluta novità della lirica di Quasimodo nel panorama della letteratura nazionale. Pugliatti la pronuncia con forza in apertura del suo primo articolo — già citato — del 1930: « Chiuso il primo periodo di questo inizio di secolo con la guerra, si attendeva da tempo la voce nuova, dopo Ungaretti e Montale. Salvatore Quasimodo è poeta originale e moderno: la voce nuova ». E il poeta darà presto atto al critico di averne interpretato la coscienza più profonda: « Accettare in pieno la mia poesia — scriverà qualche tempo dopo all’amico — significa dover considerare superati Ungaretti e Montale »?. È interessante prendere atto della ripercussione di queste idee fuori della cerchia della ‘ brigata’ messinese: nel più vasto ambito che sul piano nazionale Quasimodo e Pugliatti (ma anche Glauco Natoli) si erano intanto conquistato con la collaborazione a « Solaria » e a « Circoli ».

Curiosità, interesse: ma poi anche diffidenza e sotterranee gelosie. Le lettere di Montale a Quasimodo e soprattutto il carteggio fra Pugliatti e Quasimodo ce ne danno una documentazione eloquente. I nomi del poeta e del critico vi appaiono spesso associati. Ecco una lettera di Montale a Quasimodo nel marzo del ’31: «Ho letto l’articolo di Pugliatti — scrive Montale e allude a Traduzione e interpretazione apparso sulla ‘ Gazzetta di

Messina” qualche giorno prima — molto intelligente davvero. Tu mi rendi curioso di conoscere meglio le tue idee teoriche, ma non ti infliggo il compito di redigere una “ lettera estetica ””. Ne riparleremo » #. Ed ecco una lettera inedita di Pugliatti a Quasimodo, sempre del marzo del ’31, dei primi giorni cioè del distacco del poeta da Messina: [Capasso] mi ha detto — scrive Pugliatti — che a proposito della ca. eti est tua la po’ un nza lue inf mi éry Val a ia tor mia accusa di ora di aro chi più e o ers div a anz ast abb è a pur sia poe di Il tuo concetto ll’a Nul . ole par e cis pre le si, qua , ste Que . éry Val di e quello di Croce 2

23 Lettera inedita. 24 E. Montale, Lettere

a Quasimodo,

183

eee Bompiani,

Milano

1981,

p. 20.

o ns pe — i po e ch ca eti est tua la del i rm pa cu oc ad i anz tro. Mi invitava io — in gran parte è anche la mia.

Della sua estetica — e della sua poetica — Quasimodo darà ragione pubblicamente rispondendo, nel novembre di quello stesso 1931, alle domande di un’inchiesta internazionale sulla poesia sia poe La « ?. ino Tor di » olo Pop del ta zet Gaz « la dal a ett ind dei moderni — dirà — è lirica, sola illuminazione possibile per i poeti, creatrice non di uomini, di luoghi, ma di ritmi soggettivi; resterebbe a vedere se esista poesia al di fuori della lirica ». E ancora: « Attribuisco grande valore alla evoluzione prosodica della poesia che dai metri chiusi ha condotto con il verso libero, alla possibilità di riprodurre un foro musicale (non musica, identità meccanica) perfettamente riconoscibile nei veri poeti ». Delle diffidenze, delle riserve, delle gelosie più o meno sotterranee che la poesia di Quasimodo e, di riflesso, le prese di posizione di Pugliatti, suscitavano nell’ambiente letterario soprattutto fiorentino, il carteggio Quasimodo-Pugliatti ci offre ampia testimonianza e non è il caso — appartenendo esse piuttosto al tempo minore quando non addirittura minimo della storia letteraria — ci si soffermi più di tanto; varrà tuttavia la pena accennare alla vicenda della recensione pugliattiana ad Oboe somzzerso, che rifiutata da « Solaria » fu poi accolta da « Circoli ». La responsabilità del rifiuto fu assunta da Carocci, ma Quasimodo

avanza il sospetto che ad operare sotterraneamente sia stato il risentimento di Montale per le riserve che Pugliatti aveva espresso nella recensione ad Ossi di seppia, apparsa su « Solaria » nell’ottobre del ’31. « A_ Carocci il saggio è sembrato disuguale (?) — scrive Quasimodo all’amico il 24 giugno 1932 — quindi anche a Bonsanti; ma io capisco la ragione della ‘ disuguaglianza ’: c’è di mezzo il nome di Montale [...]. E non credo che manchi il giudizio dell’autore degli Ossi » °. E ancora più scopertamente il 14 luglio 1932: « I solariani hanno senza dubbio dato ascolto a Montale il quale non può dimenticare il tuo saggio cautissimo sugli Ossi di seppia »”. In realtà la recensione di Pugliatti ad Oboe somzzerso — soprattutto nella sua forma originaria come ci è dato ricostruirla 2 «La Gazzetta del Popolo », 11 novembre 26 Lettera inedita. 271 Lettera inedita.

184

1931.

da una lettera di Carocci a Ferrata (v. Lettere a Solaria, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 379) e da quelle di Quasimodo allo stesso Pugliatti — ha toni assai più squillanti che non quella dedicata

al libro di Montale qualche mese prima. Sulla linea del discorso già apetto per Acque e ferre essa annunciava con il nuovo libro l'avvento preconizzato di una nuova stagione che si apriva nella poesia italiana nel nome e nel segno di Quasimodo. La convinzione dell’assoluta novità della poesia di Quasimodo era del resto profondamente radicata nella coscienza della ‘brigata’ messinese, segnatamente in Pugliatti che la esplicita e ribadisce in un altro articolo pubblicato su una rivistina locale — « Tauromenium » — in quello stesso torno di tempo (luglio °32), dal titolo Quasizzodo e il quasimodismo: Giusto due anni or sono appena apparso il volume Acque e Terre pei tipi di « Solaria » io pubblicavo in un giornale nostro il primo saggio sulla poesia nuova di Salvatore Quasimodo. Dissi allora che quel primo volume di versi segnava un momento decisivo nella linea di sviluppo della sua arte, ed era, inoltre, una pietra miliare per la poesia italiana contemporanea. Oggi Quasimodo pubblica un secondo volume di versi, Oboe sommerso, pei tipi di « Circoli » dal quale la mia facile profezia riceve conferma piena. Io parlo di un poeta nuovo, la cui voce è ormai tra le primissime della poesia italiana moderna ®.

Un articolo questo riuscito assai caro a Quasimodo e di cui darà ripetutamente atto all’amico come di un’intuizione critica di rilievo assoluto. In questi ultimi tempi — gli scriverà da Milano due anni più tardi, nel dicembre del ’34 — s’è creata ‘volutamente’ una grande confusione nel campo della poesia; ed io da iniziatore dei ‘modi a olav circ che ra osfe ’atm d’un ono epig come are pass di hio risc i’ nuov che li quel tutti che poi, no, stra è che lo Quel i. molt di o deri desi nel di i ator imit come ano pass libri miei dei re inte ne hanno copiato pagi criti o enut sost a abbi mi che uno ness o avut ho Non . [...] Ungaretti ie graz ma, ro, lavo dal o pres stato sei fare vi pote lo camente. Tu che to; potu hai che lo quel però o fatt Hai . glia fami a dall e anch o ciel al imotest a erà rest mina Taor di ta rivis sulla to lica pubb lo e quell’artico

niare storicamente la verità ??. 28 S. Pugliatti, Parole per Quasimodo, 29 Lettera inedita.

185

cit., p. 79.

Mi sia consentita in chiusura un’ultima osservazione sulla conla del ità nov a lut sso l’a del ta, poe al e ico crit al une com ne, zio vin poesia quasimodiana. Il carteggio fra i due consente di definirla non solo sul piano della soluzione formale, in rapporto alle voci già spiegate di Ungaretti e di Montale, ma anche sul piano dei contenuti. Qui il punto di riferimento è il vitalismo ottimista modernolatra dei futuristi e — direttamente correlato ad esso — quell’ipotesi di poesia civile che da tempo era nell’attesa e nelle ambizioni della cultura ufficiale del regime. Già nella risposta all’inchiesta della « Gazzetta del Popolo » ® del ’31 Quasimodo

aveva

affermato

con

chiaro

riferimento

al

futurismo: « Non esiste poesia nuova ispirata alla macchina e, quindi, alla civiltà contemporanea; esiste un virtuosismo onomatopeico, descrittivo, cromatico, volto alla rappresentazione approssimativa della ‘vita’ del mezzo o creatura meccanizzata ». Più esplicita è la lettera del 13 gennaio 1933: « Intuisco che le mie liriche vengono considerate ‘ antifasciste ’; capisci? Mancanza di spirito eroico, costruttore, etc. L'uomo moderno deve essere sportivo, cantare i muscoli, le piste, le ‘palle’; io m’abbandono (e tutti gli scrittori nuovi) perché so che ogni cosa è

naufragata e la macchina è uno sputo » *!. E qualche tempo dopo, il 27 aprile 1933 con più esplicito richiamo alla cultura ufficiale: L’Accademia, hai visto, mi ha premiato;

ma è un aiuto meschino

[...]. Vogliono la poesia forte muscolare che Ma di quale vita? La nostra, purtroppo, che uomini, non può che scendere e interrogare il Al diavolo! Ma che nessuno venga fuori, tra darci la poesia civile, la menestrellata, il poema

esprima gioia di vita. è quella di tutti gli miserabile cuore [...]. quelli che criticano, a di dieci chilometri? ®

E questa voce che scende a « interrogare il miserabile cuore » mi pare definisca autenticamente il sentimento del tempo della poesia di Quasimodo.

3 Cfr. nota 23. 31 Lettera inedita. 32 Lettera inedita.

Giovanna

Musolino

IL CARTEGGIO INEDITO SALVATORE QUASIMODO - ANGELO

BARILE *

Il carteggio inedito Salvatore Quasimodo - Angelo Barile comprende ventiquattro lettere di Quasimodo a Barile e diciassette di Barile a Quasimodo, per un numero complessivo di quarantuno missive (tutte manoscritte quelle di Quasimodo, tutte dattiloscritte, tranne una, quelle di Barile) ed abbraccia un arco di tempo che va dal 1931 al 1933. A parte infatti una sola lettera di Quasimodo datata 27 dicembre ’37, tredici lettere di Barile e quindici di Quasimodo risalgono al ’31, tre di Barile e sei di Quasimodo al ’32, due di Quasimodo e una di Barile al ’33. Per quanto riguarda Quasimodo, è questo con Barile il primo carteggio, di cui si possiedono le lettere di entrambi i destinatari, dal momento che quello Quasimodo - La Pira! contiene tutte le lettere di La Pira a Quasimodo, e quanto restava delle lettere di Quasimodo (praticamente una lettera, sette cartoline postali ed

alcune illustrate), della corrispondenza con Montale sono state pubblicate solo le lettere di quest’ultimo ?, quanto alle lettere d’amore sono state finora raccolte in volume solo quelle del poeta3. Con il carteggio Quasimodo-Barile ci troviamo invece di fronte ad un complesso organico di lettere, che formano una vera * Anticipo qui alcune linee della mia Prefazione all’edizione critica di prossima pubblicazione del carteggio Quasimodo-Barile. Le missive che lo compongono, per la parte che riguarda Barile si trovano nell’archivio di Salvatore Quasimodo, in possesso del figlio Alessandro, per la parte che riguarda Quasimodo appartengono alla vedova di Angelo Barile, signora Giuseppina Barile. - G. La Pira, Carteggio a cura di A. Quasimodo, V. 1 S. Quasimodo Scheiwiller, All’Insegna del Pesce d’oto, Milano 1980. 2 E. Montale, Lettere a Quasimodo, Premessa di M. Corti, Prefazione di S. Grasso, Bompiani, Milano 1981. 3 S. Quasimodo, Lettere d'amore a Maria Cumani, Prefazione di D. Lajolo, Mondadori, Milano 1973 (ora Spirali, Milano 1985); Id., A Sibilla, Prefazione di G. Vigorelli, Rizzoli, Milano 1983.

187

e propria corrispondenza, in taluni periodi abbastanza fitta. gli ssa ere int gio teg car il te en am ic og ol on cr to, det è Come si ili fic dif più i iod per dei uno o od im as Qu per ; ’33 anni dal ’31 al tro si ta poe il i ann gli que In . mai fu non ile fac che a vit una di vava ad Imperia, dove era stato trasferito da Reggio Calabria in qualità di geometra del Genio Civile, alle prese con un lavoro che non gli era congeniale, che gli dava appena da vivere e lo costringeva a continui spostamenti: unico conforto la poesia, che era ad un tempo strenuo impegno, terreno su cui scommettere tutto il proprio valore di uomo. Ma quei primi anni Trenta segnarono anche per Quasimodo l’inizio di un’eccezionale avven-

tura poetica, che sarebbe poi stata coronata dal Nobel. Quasimodo infatti, che grazie al cognato Elio Vittorini, già nel ’29 era stato introdotto nell'ambiente fiorentino di « Solaria », nel ’30, un anno prima dell’inizio dî questa corrispondenza col poeta ligure Barile, aveva pubblicato il suo primo libro Acque e terre che doveva immediatamente imporlo nel panorama poetico di quegli anni, mentre la critica ufficiale salutava unanime la nascita di un nuovo poeta. Sono anni inoltre in cui Quasimodo intesse vivi rapporti personali ed epistolari con poeti, letterati, artisti del gruppo fiorentino di « Solaria » e delle Giubbe rosse, e in cui ha inizio il sodalizio con Montale, che è già il poeta degli Ossi e non lesina inco-

raggiamenti ed apprezzamenti al più giovane collega; un’amicizia, che almeno in un primo periodo fu sincera ed abbandonata, come fa fede il contemporaneo carteggio Lettere a Quasimodo di Eugenio Montale. Ed è interessante notare come, sia nelle lettere mon-

taliane, che nel carteggio Quasimodo-Barile, ricorrono un po’ gli stessi nomi (fra gli altri Adriano Grande, Vittorini, Cardarelli, Ungaretti, Glauco Natoli, Salvatore Pugliatti, Capasso — un giovanissimo critico quest’ultimo, che sia nelle lettere di Montale che in queste di cui ci stiamo occupando, fa un po’ le spese della conversazione, fatto oggetto di commenti a volte feroci; e non sai mai bene dove finisce l’atteggiamento ludico ed inizia un motivo di reale irritazione

o malanimo ‘)} così come

troviamo

in

4 Scrive Quasimodo nella lettera a Barile del 22 luglio ’31: «... certo che sudare e cercare un pò [sic] di pace nella pianura padana [...] è come pretendere da Capasso dieci minuti di sincerità. A proposito io non ho più “cornunicato ” con lui ed ho lasciata ‘“inevasa” una sua lettera melliflua e scodinzolante. E del giovane parco [soprannome di C.], avviso ai buongustai, non desidero parlarne per un pezzo ».

188

entrambi i carteggi gli echi di taluni avvenimenti di cronaca le teraria dell’epoca, come ad esempio l’assegnazione a Montale ne °31 del premio l’Antico Fattore, con grande disagio dello stess premiato °, il vezzo di usare soprannomi volta a volta scherzos: affettuosi o denigratori (Montale è chiamato Eusebio 9, Capass « altarino » o « altarese »” ma anche «il parco » 8, Quasimodi «oboe » e così via), certo linguaggio allusivo o addirittura ger gale, indice di una giocosa complicità tra amici, che in alcun punti rende di ardua comprensione ai lettori di oggi talune espres: sioni o riferimenti, o comunque rende difficile coglierne la reale

valenza. Ma al di là delle espressioni colorite, degli atteggiamenti umorali, vien fuori da questo carteggio un'interessante indicazione: il proposito cioè da parte di questo gruppo di poeti e letterati (Montale, Quasimodo, Vittorini, Barile, ecc.) di prendere le distanze dall’establisbment culturale dell’epoca (gli Ungaretti, i Cardarelli, i Falqui, gli Ojetti, i Bontempelli) quasi a voler creare un proprio schieramento per un bisogno di contrapposizione e confronto, per reclamare un proprio spazio. Onde certi toni tra ironici e demitizzanti, che al lettore odierno possono apparire addirittura dissacratori. Ne abbiamo un chiaro esempio nella lettera di Barile del 28 dicembre ’31, in cui scrive a Quasimodo « avrai saputo che alti guai ha sollevato quella mia noticina ungarettiana »; si riferisce Barile al clamore suscitato da una sua nota pubblicata sulla rivista « Circoli » ?, nel numero del novembre-dicembre ’31, nell’ultima sezione intitolata « Risonanze », ed in cui si legge: S E. Montale, Lettere a Quasimodo, cit., lettera 14, del 17 aprile 1931: « Andreotti vuole che concoerra anch'io [...] Ti pare dignitoso (anche tenuto conto della mia amicizia con lui)??? Dimmelo francamente. Oltretutto non vorrei essere accusato di... arrivismo in danno dei più giovani. Ma c'è il caso di veder premiato Cardarelli!!! (Così sento dire) ». 6 Roberto Bazlen aveva applicato a Montale, che poi lo userà spesso, uno degli pseudonimi di Schumann, che era appunto Eusebio. 7 Così chiamato perché vive ad Altare, in provincia di Savona. 8 Altro soprannome di Capasso che nel 1930 aveva pubblicato La giovane Parca traduzione della Jeune Parque di Paul Valéry. 9 Circoli », bimestrale di poesia, che iniziava a Genova le sue pubblicazioni nel gennaio-febbraio 1931. La rivista diretta da Adriano Grande, ha come redattori Angelo Barile, Guglielmo Bianchi, Giacomo Debenedetti, Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro, Sergio Solmi. Col primo numero del ?32 scompare il comitato di redazione e Grande è affiancato da Bianchi. Dal n. 2 del ’34 la rivista si trasferisce a Roma. Nel ’36 « Circoli » sospende la pubblicazione, che riprende un anno dopo con periodicità mensile. L’ultimo numero esce nel dicembre 1939.

189

Profetica anima nostra ci siamo. Ecco Ungaretti che pubblica in un giornale l’ultima edizione di una sua poesia e l’accompagna di un’autoparafrasi

[...] come

a dire: cari lettori che bussate a colpi di

testa al mio portone e voi critici che avete già appoggiato ai muri le vostre scale a piuoli, non c'è modo di entrare se io stesso non vi apro: aspettate un momento che scendo. Scende infatti il poeta alla spiegazione introduttiva, ma si umilia all’accompagnamento. La musa si fa portinaia.

Ed ancora in una lettera successiva del 7 gennaio ’32, annunciando una risposta a Falqui che sul giornale « Lavoro Fascista » era sceso in campo polemizzando con la sua « Risonanza », Barile scrive « credo che la mia risposta sulla questione ungarettiana (che ‘ Circoli” pubblicherà sul prossimo numero) ‘°, solleverà più lagni della “ risonanza ”’ incriminata: sebbene la forma sia il più possibile cortese, tocca le questioni delle varianti e delle plurime edizioni delle stesse poesie in modo che a qualcuno saprà di forte agrume ». In effetti in questa risposta oltre a ribadire il concetto che « la musa ha da stare al suo posto, deve bastare a se stessa », poiché Falqui aveva contestato anche l’espressione « l’ultima edizione di una sua poesia », Barile puntualizza che non si riferiva « al travaglio delle varianti, sempre nobile qualunque sia poi il risultato raggiunto, ma semplicemente alla sequenza e frequenza delle edizioni l’una dall’altra diversa di uno stesso poema. Il poeta sia pur libero di fare quante vuole varianti, ma ha l’obbligo di dar fuori opera il più possibile finita, ‘opus perfectum” in relazione s'intende al suo ingegno ». Ma particolarmente illuminante, per una esatta interpretazione del giusto peso da attribuire a certe espressioni (Ungaretti viene in

queste lettere chiamato «il vate », « il vatissimo Ungaretti ») e in genere all’atteggiamento dei due interlocutori nei suoi riguardi (ma il discorso vale anche per gli altri « mostri sacri » del mondo letterario dell’epoca) è quanto Barile dice a conclusione della citata risposta: Ma a quanto pare devo supporre che la mia colpa non è di avere detto, o fatto intendere questo, ma di averlo detto in tono scherzevole [...] coi santi, lo so anch’io, non si deve scherzare; ma per quanto Ungaretti sia avanti nel cammino della santità, è ancora grazie al cielo,

un uomo vivo tra uomini vivi. Si può dunque discorrete umanamente 10 « Circoli », gennaio-febbraio

1932.

190

intorno

a lui, senza venir meno, come

io credo di non aver fatto, e

me ne dorrei, alla giusta ammirazione, al ragionevole ossequio che gli è certamente dovuto. DI

Ancora un’occasione dunque, questo carteggio QuasimodoBarile, per rivivere il clima, l’atmosfera, di un’irripetibile, leggendaria stagione della nostra storia letteraria del Novecento, quella della generazione dei Montale, degli Sbarbaro, dei Quasimodo, dei Barile, dei Vittorini, i quali sia pure in una situazione storica non certo serena (qualcosa filtra anche attraverso queste lettere) vivevano le loro fervide esperienze poetiche, e pur tra notevoli difficoltà economiche, comuni alla maggior parte dei letterati dell’epoca, riuscivano a salvare le ragioni della poesia, a tenere tra loro fruttuosi contatti anche epistolari, tra una gita ed un incontro, strappati agli ingrati impegni della vita quotidiana, in un ansioso cercarsi e riconoscersi non senza calore sincero di sentimenti amicali e sempre con la consapevolezza di appartenere ad una ideale compagnia di sodales. Un solo esempio fra i tanti: scrive Quasimodo a Barile in una lettera del 3 aprile 1931: «ci rivedremo presto, come spero, e avremo modo di colmare degli “ spazi ’’ ancora. Montale per Pasqua sarà a Genova (non vuole, per ora, che lo sappia Capasso) e mi ha scritto per un “ ritrovamento ” con gli amici. Perché non viene anche lei? Io sarò a Genova la sera di domenica alle ore 18,30; ma lei potrebbe trovarci (immagino degli impegni per il giorno festivo) il lunedì; punto di riferimento il carissimo Grande. Sarei tanto contento ». Un aspetto interessante di questo tipo di testimonianze, consiste infatti nell’opportunità che ci si offre di poter cogliere nell'immediatezza del loro vissuto, nel concreto della loro vicenda umana ed artistica, autori destinati a scrivere pagine importanti

nella storia letteraria del nostro secolo. Il carteggio Quasimodo-Barile presenta un duplice motivo d’interesse: se da un lato esso ci consente, come vedremo, pet quanto riguarda Quasimodo, di aggiungere ancora una tessera al ritratto dell’uomo e del poeta, che per la complessità del carattere e la profondità dell’opera, attende ancora di essere illumie ender riacc a serve altro dall’ ti, risvol bili possi suoi i tutti nato in l'interesse su un poeta, Angelo Barile, che, per essere stato sempre molto schivo, non ha avuto l’attenzione che avrebbe meritato; o, seren i Quas e sera a Prizz versi di lte racco (due fico poco proli sole A ge sillo esile una ed , tutto in he liric di una sessantina 191

breve), certamente

perché raffrenato da un assoluto rigore, da

a ter let a ll ne sso ste li eg a rl pa i cu di , ica lir a zz re un ideale di pu e se co pe op tr , na an nd co a mi r pe , ho o «i : 31 del 7 gennaio 19 o mi il re ta po e nt me ra ve , ei vr Do e. er nd te at cui e troppo disparat ». i ma rò ci us ri vi n no ma i; cch ste i agl , co on tr do albero fino al nu a nz se n no ma o, od im as Qu a to et sp ri re no mi a ur at st di a Un poet i a fr i po e i or at nd fo i fra o ltr l’a tra fu a; zz le vo una sua autore

e al qu a all », i ol rc Ci « ia es po di le ra st me bi a ist riv la i del or tt da re

si fa continuo riferimento in questo carteggio, per cui si può dire a rn te in ria sto la ’ po un e ch o an an nt me cu do e ter let te che ques dei primi anni di vita di « Circoli », contrassegnati da momenti di gravi difficoltà tanto da fare temere la sospensione della pubblicazione. Scrive infatti Quasimodo a Barile nella lettera del 23 agosto 1933: « Non “ mollate” ‘“ Circoli”. Anche a ridurre le pagine: che conta? ». Su « Circoli », fin dal suo

primo

numero

(gennaio-febbraio

1931) erano state pubblicate due poesie di Quasimodo !, per interessamento di Montale !; e sarà ancora Montale a promuovere l’incontro personale tra Quasimodo e Barile *, per cui a partire dal quarto numero di « Circoli », iniziato un intenso rapporto di amicizia tra i due, Quasimodo

collaborerà

alla rivista inviando

sue poesie, le cui vicende di pubblicazione possono essere seguite passo passo attraverso queste lettere, nel periodo che va dal ’31 ale:324t Attraverso la lettura delle lettere di Barile è possibile vedere meglio in quel suo isolamento (non si mosse mai da Albisola Capo, dove gestiva una fabbrica di ceramica) che però non gli

11 Si tratta di Cieli cavi e Vita nascosta, uscite nel primo numero di « Circoli », quello del gennaio-febbraio ’31. 12 Cfr. E. Montale, Lettere a Quasimodo, cit., lettera 3, del 18 dicembre ‘30: «Caro Quasimodo, grazie della poesia e della dedica. Ho mandato a Grande e uscirà tutto nel primo numero di ‘ Circoli” ». 13 Ivi, lettera 11 del 27 marzo ’31: « vai da Barile a mio nome. Ti accoglierà a braccia aperte ». 14 Nel quarto numero di « Circoli », luglio-agosto ’31 Quasimodo pub-

blica con

il comune

titolo Trasfigurazioni:

Curva

minore

(dedicata

a Mon-

tale. La dedica però scomparirà anni dopo, nell’edizione di Ed è subito sera), Dammi il mio giorno e Preghiera alla pioggia; nel quinto numero settembre-ottobre 1931, sotto il titolo Viaggi: Primo giorno, Dolce sangue, Compagno; nel primo numero, gennaio-febbraio 1932: Metamorfosi nell’urna del Santo, Anellide ermafrodito, Dormono le selve; nel terzo numero, maggio-giugno ’32: Oboe sommerso e Salmo per l’angelo infernale; nel sesto numero, novembre-dicembre ’32, Laforzie.

192

impediva di essere punto di riferimento, di tenere contatti con

il mondo letterario, di saper vedere giusto, e non sempre ai contemporanei è facile: stima molto Sbarbaro e Quasimodo, col quale ultimo si congratula (lettera del 12 gennaio 1931) per una lirica pubblicata su « Solaria » ; nella lettera del 6 giugno ’31 si dice sorpreso dell’assegnazione a Montale del premio fiorentino l’Antico Fattore (cui aveva concorso anche Quasimodo con Vento a Tìndari), e conclude con parole, che oggi dopo il Nobel, si colo-

rano di involontaria ironia: « A forza di rasentare dei premi letterari, tu ne acchiappi certo uno: immancabilmente. Te lo auguro con gran cuore, ché lo meriti » ‘9; nella lettera del 27 gennaio 1932 Barile si complimenta con Quasimodo per la esegesi di

Vento a Tindari di Salvatore Pugliatti uscitasu « Solaria » !: « Ho visto in “ Solaria” l’esegesi di ‘“ Vento a Tìndari”. Complimenti di cuore. Non tutti possono avere un interprete così affettuoso (=intelligente). E la tua poesia lo merita ». Per quanto riguarda il tono delle lettere di Barile, dopo un primo ossequioso biglietto del 27 marzo 1931, in cui egli esprime gioiosa attesa per la prossima conoscenza (« mi faccio una gioia di conoscetLa e di discorrere con Lei della cosa che sopra tutte ci interessa e ci occupa. Ella sa già quanta ripercussione abbiano in me alcune delle Sue musiche »), già nella lettera del 4 maggio 1931, scritta subito dopo quel loro primo incontro, esso diventerà e rimarrà sempre quello affettuoso e sollecito di una sincera amicizia, nutrita da grande stima e motivata da comuni interessi letterari e poetici: Caro amico, quella domenica passata qui con te fu davvero, come tu hai scritto sulla copia di « Acque e terre » un giorno di profondi richiami; ed io sono grato alla Poesia che mi ti ha fatto conoscere e voler bene. Lo scrivevo a Grande, giorni fa, che tu sei di quei pochi, che ad avvicinarli, non deludono; e forse la comprensione della tua opera diventa più pronta, e certo più calda. Dunque ringraziamo entrambi la buona ventura che :ci ha condotto vicini (ma non abbao uman o nostr il per più, di e sempr o esserl di iamo cerch e a), stanz conforto 15 Si tratta della lirica Alla mia terra che apparte in « Solaria », 1931, 4. 16 Quasimodo vincerà la successiva edizione del premio fiorentino asche us, lypt euca di re Odo ia poes la con ’32, del la l'Antico Fattore, quel delcura a tte que pla una in a cat bli pub à verr che liri suc e altr sieme ad l'Antico Fattore. 17 S. Pugliatti, Interpretare la poesia, in « Solaria », 1932, 7.

193

o: od im as Qu di la el qu in o tr on sc ri tto esa o su lettera che trova il mse è mi rci cia las di o nt me mo l ne a ser « Carissimo Barile, ieri o tt tu r pe a si an o ut av ho ne e ’’ o at ic nt me di si fos brato ch’io ‘ mi e ar er sp cia las mi e o en pi to sta è to at nt co o im pr il viaggio. Ma il esev di to nu mi el qu o at st ba è m’ e; on zi la ve ri ta le mp co nella sua rità del suo volto mentre leggevo parole di carità cristiana. Io oam a st pa “ a on bu la me in o cc to ma o; ed cr n no e rs fo ra co an rosa” ». E ancora in una lettera del 3 aprile 1931: « Caro Barile, le sue parole fanno dolce la mia dubbiosa solitudine: ritrovo in esse care commozioni già allontanate e deluse. La poesia, la miseria

nostra

comunione;

da esule, ci unirà in soave

ne sono

certo. Io presentivo in Lei un cuore vicino e sono felice di averlo sentito battere ». Nella lettera del 25 giugno 1931 Barile chiama Quasimodo « felice albero in succhio. Symphonialis anima », in altra del 19 giugno 1931 ne loda la poesia « Tu hai veramente la tua voce d’inconfondibile soavità ». ? Ma è forse nell’ultima lettera di Barile che possediamo, quella del 30 luglio 1933, come vedremo anche per altri versi interessante, che egli più esplicitamente dichiara la qualità non solo letteraria di questa amicizia. Il poeta ligure chiama « caro oboe » Quasimodo, si rammarica rimemora la loro amicizia

perché

da tempo

non

si scrivono

e

fu abbastanza fiduciosa e cordiale da permetterci più d’una volta delle mutue

confidenze,

e non

soltanto d’ordine

letterario!

Ricordo

sempre

un nostro colloquio notturno, due anni fa, mentre io ti accompagnavo alla stazione per le vie di Albisola. Mi dicevi delle cose dolenti, alle quali ho sempre poi ripensato quando trovavo sulla tua pagina i segni della tua musica, solitaria e penosa. Anche il tuo ultimo grido (« sono un uomo solo ») mi riporta l’anima a quella conversazione lontana. So delle vicende di questo tuo ultimo periodo ed immagino le sofferenze che l’hanno accompagnate. Non ci si scriveva da tanto tempo; ma ho sempre avuto notizie di te da Grande, da Zagrebelsky, da Laurano

[...] ora

vorrei

almeno

che

ti trovassi

in condizioni

tranquillità, poiché l’altra, quella intima, ti è negata nascita

e di poesia

di esterna

per ragioni di

[...].

Di proposito ho citato più ampiamente quest’ultima lettera di Barile, in quanto essa mi offre lo spunto per portare l’attenzione su un aspetto della poesia di Quasimodo, che non è stato finora si può dire affrontato, o quanto meno approfondito dalla 194

critica, e che questo carteggio serve in certo senso ad avallare. Queste lettere (ma già una riflessione in questo senso era stata suggerita dalle lettere A Sibilla, nelle quali è messa a nudo, in maniera forse fin troppo cruda, una disperata situazione esistenziale) ci portano ad operare una « correzione », un’« aggiustatura », necessarie per rendere giustizia a Quasimodo, sulla cui opera poetica in questi ultimi anni fin troppo spesso è stato avanzato il sospetto di letterarietà, vuoi per il pregiudizievole atteggiamento di certa critica, vuoi perché, sia pure con le migliori intenzioni, questa poesia è stata posta su di un piedistallo di classica aulicità, per cui, complice in vita lo stesso poeta, ne è stato enfatizzato l’aspetto mitico-greco, mentre rimaneva in ombra quello più intimo degli affetti e della problematica esistenziale. A questa maniera piuttosto riduttiva di accostarsi alla poesia di Quasimodo, ha contribuito non poco il fatto che al di là di certa « leggenda » che inevitabilmente si forma attorno a personaggi di siffatta statura, della esistenza reale del poeta siciliano non si conosceva molto. Oggi, grazie anche a questo tipo di contributi forniti dagli epistolari, una migliore conoscenza della vicenda umana di Quasimodo, segnata dalla solitudine, dal dolore, dalla sua condizione di « esule » dalla Sicilia, da disagi esistenziali fisici e morali, in parte dovuti alla sorte, in parte al carattere e alle scelte (ma quanto autonome?) dell’uomo, ci spinge ad una rilettura della sua opera poetica; e si vedrà allora come essa, alla luce di tali nuove acquisizioni, acquisterà ben altro spessore, e ancora una volta la grande poesia, che non può non nutrirsi del magma impuro della vita — ma c'è, diceva il Foscolo, in essa una segreta armonia che tocca al poeta scoprite — si rivelerà essere, per citare un verso famoso di Ungaretti, «la limpida meraviglia di un delirante tormento ». Vita e poesia dunque indissolubilmente legate in Quasimodo o omi bin ta, poe il e omo l’u sti, arti mi ssi ndi gra come sempre nei terdue dei no l’u zo mez di re lie tog può si non e imprescindibile, mini senza distruggere anche l’altro. Il lettore attento troverà in queste ventiquattro lettere di Quasimodo

la sua

« pena

di vivere » —

(Milano,

27 dicembre

mi che ima iss dur vita la ma o, pid tie è ch’ o fett l’af 1937: « non è gio mag 2 »; re cuo del i din itu sol me ssi ghi lun te costringe a cer evadi ile sib pos to sta è mi non ca eni dom , 1931: « Caro Barile mon lta d’a e ich fat mie alle uta dov a ezz dere anche per una stanch che mos le con e ta, men tor mi ate est «l' tagna »; 1° luglio 1931: 195

n no o «i : 32 19 o ai nn ge 2 !; » ni ri nd sa un certo Garibaldo Ales i et po i no me al e ch ei rr vo e za ez ar ho, al solito, che residui di am a un e ch an à er ov tr vi ma , ») tà ni re se di e, or am di ci pa ca fossero mco in l’ e ch a, et po di re lo va o ri op pr l de za ez ol lucida consapev ; za en er ff so dà se e ch an , re fi al sc a ce es ri n no ni cu prensione di al o, om ’u ll de fu e ch tà li ra mo a it nt se ri la n co ce is ag re o od im e Quas 27 l de a er tt le a un Da e. er tt ra ca o su l de a an ol is za ez er con la fi a o ll de at er id ns co mi ir nt se za di ez ar am l' ù pi In « : 37 19 re dicemb ei mi o ai rn to in a rt a so mi de ca ac le vi a un r pe ri to un i gl de ie ec sp versi. Io non ho mai chiesto nulla; e a nessuno. Che mi lascino in pace: che non mi nominino neppure. Qualche verso resterà pure, di ognuno di noi, a testimoniare, se non altro, una mora-

lità di ordine superiore », e cita in chiusura i versi di Fazio degli Uberti, che sente in sintonia con il proprio martirio esistenziale: « Ed io son sol colui che la mia mente / porto vestita d’una veste nera / in segno di dolore e di martire ». Così come non mancano spunti polemici, quando il discorso cade su quello che è l’interesse centrale della sua vita, la poesia.In un passo della lettera del 27 dicembre

1937 polemizza con il neorealismo

(sic)

di certi autori: « della gente che va a caccia e poi scrive versi, delle ‘ canne di fucile che rigano a lutto la campagna ”’, di questo neo-realismo ! che frantuma la prosa per cercarvi dei numeri, non so che farmene », e a proposito della così detta « poesia civile » (lettera del 23 agosto 1933): «io non credo a quel “ genere” di poesia come eloquenza. La poesia per me, è lirica e basta. Neppure posso essere d’accordo con Capasso e Falqui, completamente, per quell’idea di ‘“ lirica pura” che hanno. La “ purezza” è da loro non pienamente ralmente accenni al proprio lavoro 1931): «in riviera io sono ancora affondi bene le radici; ma il canto

intesa ». Non mancano natudi poeta (lettera del 22 aprile “ trapiantato ”’ e bisogna che è già nato, ancora unito e mu-

sicale. Per orta non spero di più ». Lettera del 22 luglio 1931: « Oggi sono contento perché ho “ fissato ” due mie nuove poesie. Non

mi sembrano

di basso conio...

immodestamente »; ma

anche attenzione alla poesia degli altri. Scrive Quasimodo a Barile nella lettera del 25 luglio 1933: «si capisce che leggo sem18 Garibaldo Alessandrini, lucchese autore di versi, che chiede a Quasimodo di inviargli l’esegesi di alcune sue liriche. 19 Una curiosità: Quasimodo usa ante litteram il termine neorealismo, che com'è noto fa la sua comparsa nel secondo dopoguerra mediato dal

cinema.

196

pre le tue liriche e che riconosco le tue prose anche se anonime tanto sono fornite di purezza bariliana »; sollecitato da Barile a leggere Sbarbaro, commenta (lettera del 30 aprile 1931): « ho

letto durante le peregrinazioni ‘ boschive ”’ il libro di Sbarbaro;

ne ho ricevuto una stranissima impressione. Il miglior Sbarbaro

si trova nelle cose più tenui che sono anche quelle profondamente ‘“ affondate ” nel cuore ».

Ma di fondamentale importanza fra tutte, una lettera del 1° marzo 1931, che può essere considerata quasi un testamento morale ed una dichiarazione di poetica, ed è ad un tempo una limpida conferma a quanto prima si accennava: il poeta e l’uomo, la vita e la poesia in una unità inscindibile. Vi si legge infatti: « La giovinezza inizia i suoi crolli e il nostro sgomento è debole tristezza di piccole cose annegate. Ma cercheremo ancora intensamente il nostro buio perché qualcosa sfugga e diventi armonia; consolazioni di sillabe di movimenti tonali, di trasfigurazioni. Ma i più sono ‘ sordi” o sentono da assai lontano ». Rimane da dare un giudizio sulla qualità di scrittura delle lettere che compongono questo carteggio. Diciamo subito che esse sono lettere nel senso comune del termine; si tratta cioè di una

normale corrispondenza tra amici, che hanno cose da dirsi, fatti da comunicarsi, da cui anche l’essenziale brevità di alcune missive. Non ci troviamo, per intenderci, di fronte ad un mero esercizio letterario, e tanto meno queste lettere furono scritte con l’occhio 4d posteritatem; anche se non bisogna dimenticare che gli autori sono due letterati, due poeti, e a parte ovviamente i contenuti,

ciò si avverte

nei momenti

più intensi, quando

ci si

allontana dagli argomenti di ordinaria conversazione, per toccare aspetti e problematiche esistenziali. Per quanto riguarda in particolare Quasimodo, lo stile epistolare è alquanto diverso da quello a noi noto, soprattutto attrapre sem è tono il cui in , ani Cum ia Mar a e mor d’a ere Lett le o vers alto, attraversate come sono da una forte tensione letteraria, pur ere lett le e re, rato ispi o ent tim sen del à erit sinc e ibil scut nella indi bra sem » ura erat lett « la i qual e nell i, rior ante poco di lla Sibi A la ni, azio situ e cert di e llor squa lo re ncia bila di avere il ruolo i ent mom i cert in , duro e cile diffi fu che orto rapp un natura di a dell o fuoc te aren ’app nell pur o arid fine alla spietato e comunque trale Bari a ere lett te ques in e anch passione erotica. Certamente, delo sens nel non ma a, poet di e o erat lett spare la sua qualità di e mo inti più o sens un in ì bens l’effetto volutamente ricercato, 107

nativo; in particolare quando la dolorosa coscienza della propria irrimediabile infelicità accettata nel segno di un destino irrefutabile, la consapevolezza della propria irrinunciabile vocazione poetica, consentono ai grumi oscuri dell’esistenza di distendersi nella severa e serena pacatezza di moduli espressivi, che si apparentano più con la poesia che con la prosa, o se si preferisce, si può parlare di prosa poetica. Una conferma ancora dunque, che qualunque fosse il campo della sua operosità di scrittore, Quasimodo era e rimaneva essenzialmente un poeta. Che scrivesse di critica letteraria o teatrale, che facesse opera di traduttore dei versi altrui (ed è ormai indiscussa l’altezza ed

il carattere in alcuni casi di produzione quasi originale delle sue traduzioni, pur nel rispetto dei testi originari) sia che scrivesse alla donna amata o ad un amico, sia che solo apponesse una dedica ad un libro, il suo linguaggio era, non poteva non essere creativo e quindi poetico. Come dire che a Quasimodo fu concesso e in sommo grado, soltanto l’arduo, divino linguaggio della poesia.

Appendice *

Albisola

27.3.31

Caro Quasimodo, Grande mi ha scritto del loro incontro di domenica a Genova e delle Sue buone parole per me. Spero che un giorno potremo trovarci insieme qui; e vedendo Grande combinerò perché ciò sia presto: all’occasione di un Suo passaggio, mi avverta. Intanto sarò veramente lieto di vederLa domenica presso l’amico Capasso. Io verrò verso le 14 e avremo qualche ora da passare insieme. Mi faccio una gioia di conoscerLa e di discorrere con Lei della cosa che sopra tutto ci interessa e ci occupa. Ella sa già quanta ripercussione abbiano in me alcune delle Sue musiche. A domenica, dunque, caro Quasimodo; e mi abbia con cordialità

viva Suo A. Barile

Imperia I, 30.III.31

Carissimo Barile, ieri sera nel momento di lasciarci mi è sembrato ch'io « mi fossi dimenticato » e ne ho avuto ansia per tutto il viaggio. Ma il primo contatto è stato pieno e mi ha lasciato sperare nella sua completa rivelazione; m’è bastato quel minuto di severità del suo volto mentre leggevo parole di carità cristiana. Io ancora forse non credo; ma tocco in me la buona « pasta amorosa ». Le raccomando le liriche del Natoli; sono derivate assai dalla

mia poesia, sono quasi delle rifrazioni del mio mondo interiore. Ma il Natoli è giovanissimo e potrà liberarsi da ogni influenza. Mi voglia bene. Con molto affetto » suo Quasimodo * Dal

carteggio

inedito

« Salvatore

199

Angelo Quasim-odo

Barile ».

Imperia I, 3.IV.931

Caro Barile,

in o ov tr ri ; ne di tu li so sa io bb du a mi le sue parole fanno dolce la ra st no la , ia es po La . se lu de e e at an nt esse care commozioni già allo

Io o. rt ce no so ne e; on ni mu co e av so in à ir un ci miseria da esule, o it nt se lo er av di ce li fe no so e no ci presentivo in lei un cuore vi e ar lm co di do mo mo re av e o, er sp me co , battere. Ci rivedremo presto e, ol vu on (n va no Ge a rà sa ua sq Pa r e pe al nt . Mo ra co an i » az degli « sp to » en am ov tr ri « un r pe o tt ri sc ha mi e o) ss pa Ca per ora, che lo sappia con gli amici. Perché non viene anche lei? Io sarò a Genova la sera di domenica alle ore 18,30; ma lei potrebbe trovarci (immagino degli impegni pet il giorno festivo) il lunedì; punto di riferimento il carissimo Grande. Sarei tanto contento. Le mando una lirica per « Circoli ». È uno dei « respiri » ai quali tengo un poco; se vuole, si tenga il manoscritto: povero dono veramente. La ringrazio per Natoli. Le auguro una soavissima Pasqua.

Assai affettuosamente. Suo Quasimodo

Albisola Capo, 24 Aprile ’31

Caro amico,

benissimo: sarò ad aspettarLa alla stazione di Savona alle ore 10, domenica. Grande arriverà qui alle 14, forse con Bianchi e Sbarbaro. Per me sarà veramente un giorno di festa. A presto, dunque. Con affetto Suo A. Barile

11 Secondo Zagarrio nel motivo della rotte o sera si può scoprire un’affinità tra Foscolo e Quasimodo per la comune coscienza dialettica (cfr.

236

alla morte, alla « fatal quiete », innalzandosi alla contemplazione di splendide, statico-estatiche parvenze di bellezza, a marmoree, inalterabili armonie di forme poste sul « piedestallo » — per riprendere una metafora ben quasimodiana — di una « realtà sopraelevata », racchiusa entro misure rassicuranti di saggezza, equilibrio, compostezza. A differenza che in Foscolo, in Quasimodo il viaggio nell’Ellade non si colloca nella direzione dell’ascesa alla ferma trascendenza del mondo olimpico, ma della discesa, dello sprofondamento orfico nella memoria, dello sfondamento del significato attraverso l’oscuro, labirintico lavorio del significante. L’attualizzazione dei tratti semici attraverso la dispersione ipogrammatica destabilizza il discorso formalizzato e permette, come abbiamo visto, l’irruzione, oltre l’arco chiuso delle parole, del non-detto. In questa tensione verso l’indicibile pare si giunga a sfiorare l’abime mallarmeano che risucchia nella sua superficie senza spessore e profondità, nella sua « blancheur rigide » cose e parole.

Un operaio di sogni

In realtà, Quasimodo non si arresta mai nei paraggi del vago (« dans ces parages / du vague / en quoi toute réalité se dissout » °°) e non è certo mai stato un assertore della poésie pure come Mallarmé o della poésie absolue come Valéry. Anche per questo mi pare andrebbero più attentamente indagate natura e ragioni dell’adesione ad una poetica che verrà poi etichettata come

« ermetica ».

Tanto nella pratica della scrittura, quanto nelle sue teorizzazioni (che erano

e disarmata

sempre una disarmante

confessione

delle proprie ragioni poetiche, nonostante il tono a volte accesamente polemico), Quasimodo prende posizione contro l’appiattifornte ame pur e ttur stru alle e zion ridu sua la e o, test mento del mali. Basti pensare alle sue frequenti frecciate contro l’ermetismo e fras una », e oral past o antr o trem l’es « e com nito defi fiorentino, G.

Zagarrio,

27-28). 36 Cfr.

Salvatore S. Mallarmé,

Oeuvres complètes, Paristal90Mp94/57

Quasimodo, Un

a cura

La

Nuova

coup

de dés

di H.

Mondor

237

Italia,

jamais

Firenze

n'abolira

1969,

le hazard,

e G. Jean-Aubty,

pp. in

Gallimard,

tri con di o att un ca, iti ocr aut un’ per ato mbi sca che qualcuno ha zione per i trascorsi ermetici ””. Mentre invece si tratta di una strenua difesa, da fraintenditorsua la del i, ion gaz alo cat he tic cis pli sem , nti ame vis tra ti, men mentosa, macerata esperienza poetica, sia quella più aspramente involuta, chiusa, monologica del periodo prebellico, sia quella del cosiddetto secondo tempo, con la sua franca apertura al dialogo. Quasimodo non è stato infatti mai « un adorateur du beau inaccessible au vulgaire » nel senso aristocratico e, in fondo, irriducibilmente antidemocratico in cui lo erano Mallarmé, Valéry e i teorizzatori della poesia pura. La poesia come « nozione pura », impraticabile al poeta che voglia immergersi nel sociale (perché

la società è ormai refrattaria ad ogni concezione del bello e dell’assoluto) e resa possibile solo a colui che s’isola « pour sculpter son propre tombeau », è l’idea-limite con cui Quasimodo continuamente si scontra e confronta, ma che sostanzialmente respinge: Se il poeta è l’espressione della vita, della morale d’una società, ahimè, egli è oggi un esiliato, un confinato, un'« astrazione », in quanto questa società che lo dovrebbe esprimere è inesistente. Ma se è vero, come è vero, il contrario, cioè che il poeta, in quanto uomo partecipa alla formazione di una società, anzi è una « individualità necessaria » in questa formazione, lasciatemi dire allora che la sua forza non ha bisogno di sollecitazioni. Se poi questa forza costituisce un pericolo, la si sopprima. Cara e potente ombra di Platone! *.

Si filtosa nismo stable,

direbbe quasi una risposta alla disdegnosa e un po’ schicondanna al corpo sociale che tanta parte ha nell’isolazioasettico ed eburneo di Mallarmé nella sua ricerca « d’art d’art définitif »:

Pour moi, le cas d’un pote, en cette société qui ne lui permet pas de vivre, c'est le cas d'un homme qui s’isole pour sculpter son

37 La famosa frase di Quasimodo contro l’ermetismo fiorentino ha dato adito a molti equivoci e travisamenti. Valga per tutti l'esempio di M. Bevilacqua che così la commenta: «La stessa polemica di Quasimodo nei confronti dell’ermetismo fiorentino (‘ l’estremo antro pastorale fiorentino di fonemi metrici ”’) non era soltanto un’accusa ai vecchi critici amanti della parola, quanto una lucidissima autocritica della passata produzione letteraria ». Cfr. M. Bevilacqua, La critica e Quasimodo, Cappelli, Firenze

1976, p. 83.

® Cfr. S. Quasimodo, Poesia contemporanea, e altri saggi, Schwatz, Milano 1960, p. 12.

238

in Il poeta

e il politico

propre tombeau. [...] Car moi, au fond, je suis un solitaire, je crois que la poésie est faite pour le faste et les pompes suprèmes d’une société constituée où aurait sa place la gloire dont les gens semblent avoir perdu la notion. L’attitude du poéte dans une époque comme celle-ci, où il est en grève devant la société, est de mettre de còté tous les moyens viciés qui peuvent s’offrir à lui. Tout ce qu’on peut

lui proposer est inférieur à sa conception et à son travail secret ?9.

L’espansione ipertrofica dell’io, a compenso di una immensa ferita narcisistica, trova riscontro, nella poetica di Mallarmé e di Valéry, nello sterile rimpianto di un non più possibile stato e statuto elazionale dello scrittore. Si tratta di una poetica e di un’etica completamente estranea a chi amava dichiararsi « uno come tanti, operaio di sogni »*°. In Quasimodo non c’è infatti mai una ricerca di abbacinanti « splendeurs du put », attraverso una parola, per così dire asettica, depurata da tutte le incrostazioni del vissuto individuale e collettivo. Del resto, questa parola autocentrata, tolemaica presuppone l’esistenza di un io lirico monolitico, monomanico, monodico, depositario di un sapere assoluto e totalizzante, un « savoir du soi » ovvero di una teologia dell’io che non ammette contatti, compromissioni, commistioni con l’altro da sé. Anzi, non ne ammette neppure l’esistenza e, in questa esclusione, avendo perso ogni punto di riferimento esterno, si assottiglia sino a privarsi di ogni consistenza e ridursi ad una pura funzione autoriflettente, al famoso homme de verre:

39 Cfr. S. Mallarmé, Sur l’évolution littéraire, in Oeuvres complètes, cit., pp. 869-70. 4 Cfr. S. Quasimodo, Epitaffio per Bice Donetti, da La vita non è sogno, in Poesie e discorsi cit., p. 151. È interessante confrontare questo famoso verso con il netto rifiuto di Mallarmé a ogni volgarizzazione dell’arte da parte di un poéte ouvrier: « Mais qu’un poéte, un adorateur du beau inaccessible au vulgaire, — ne se contente pas des suffrages du sanhédrin de l’art, cela m’irrite et je ne le comprends pas. L’homme peut ètre démocrate, l’artiste se dédouble et doit rester aristocrate. [...] Faites que s’il est une vulgarisation, ce soit celle du bon, non celle de l’art, et que vos efforts l’arpour triste n’était elle si e grotesqu chose, cette è [...] pas ssent n’abouti tiste de race, le poéte ouvrier. Que les masses lisent la morale, mais de gràce ne leur donnez pas notre poésie à gàter. O poétes, vous avez toujours été orgueilleux; soyez plus, devenez dédaigneux ». Cfr. S. Mallarmé, Hérésies 1 259-60. pp. cit., s, complète Oeuvres tous, pour L'art artistiques.

259

.

is ém fr je e, ut rc pe ré e m et e èt fl ré e je me suis, je me réponds je m à l’infini des miroirs — je suis de verre 4. D

2

.

.

»

Le dislocazioni della coscienza

o rn te es o nd mo îl ta uo sv ry lé Va in e ch a, ic og ol eg L’espansione ri pa a un in ta ia sc ve ro o od im as Qu in re pa ap , to et ed isola il sogg o ic st mi i as qu un in e, on zi ua id iv nd si di a all ne io ed opposta tens naufragio nel non-io come in Autunno: Autunno

mansueto,

io mi posseggo

e piego alle tue acque a bermi il cielo, fuga soave d’alberi e d’abissi. Aspra pena del nascere mi trova a te congiunto; e in te mi schianto e risano:

povera cosa caduta che la terra raccoglie *.

In questa poesia si può notare come il tentativo di unificare la propria immagine sdoppiata tra passato e presente, di narcisisticamente « ripossedersi » non comporti la nullificazione della realtà esterna, ma quella del soggetto, attraverso la vegetalizzazione in foglia. La diversa relazione oggettuale si ripercuote sulla poetica e sulla scrittura: da una parte abbiamo la scrittura come rispecchiamento di un gesto impossibile, paradossale, il rinvio ad un oggetto ideale posto more geometrico * fuori del linguaggio, 4 Cfr. P. Valéry, Monsieur Texte, Oeuvres complètes, a cura di ]J. Hytier, vol. II, Gallimard, Paris 1960, p. 44. 4 Cfr. Autunno, da Ed è subito sera, in Poesie e discorsi cit., p. 53. 4 L'ideale di purezza trascendentale e di perfezione geometrica perseguito da Mallarmé, Valéry e dai loro seguaci è stato già giustamente posto in relazione con l’insorgere, verso la fine del XIX secolo, di tutta una serie di «théories pures» all’interno del pensiero filosofico e scientifico. Dagli innumerevoli lavori che toccano questo argomento, anche se in modo non ancora sistematico, si possono ricavare alcune importanti indicazioni generali su possibili linee di ricerca orientate ad indagare i rapporti tra poésie pure e, ad esempio, gli studi sulle proprietà geometriche di H. Poincaré (di cui Valéry era assiduo lettore), di G. Peano, D. Hilbert, quelli di economia politica di L. Walras, A. Cournot, F. Y. Edgeworth, V. Pareto o di linguistica, in cui campeggia il nome di F. De Saussure. Per la filosofia basti pensare alle teorie di quell’eccentrica figura di filosofo e

240

ma solo accessibile attraverso ad esso, dall’altra, in Quasimodo, il linguaggio che ha inglobato in sé, in quell’eccesso inaudito di cui si diceva, anche ciò che esso stesso non può esprimere. In entrambi l’homo poeticus è l’uomo allo specchio. Ma mentre in Valéry, come in Mallarmé e negli altri adepti della poésie pure, il polo egologico attrae e nullifica ogni altra immagine che non sia quella dell'io poetante e della scrittura, in Quasimodo il rapporto speculare appare orientato — lo abbiamo visto — nella direzione opposta, come slancio ex-istenziale, îhfinita dislocazione della propria identità, verso un non-luogo, quell’eterno altrove cui tende anche l’ossessiva mira di Ungaretti*

Il poeta e il corpo sociale Per ragioni diverse, ma

con pari, se non maggiore, convin-

zione di Ungaretti, Quasimodo ha sempre avversato i sostenitori dell’art pour l’art, di una poesia che esorcizza la vita, contro cui non perde occasione di dichiararsi:

matematico che è stato Josef Maria Wronski, famoso pet l’annuncio della scoperta di « une loi qui domine le hazard » 0, per non spingerci troppo lontano, alla rivendicazione di una totale autonomia della pratica artistica tipica del nostro idealismo. Si tratta insomma di una tendenza a raggiungere, in tutte le branche del sapere, il massimo grado di specializzazione ed autonomizzazione, petseguendo un discorso animato dall’esigenza fondamentale di esorcizzare tutto quanto non perttiene alla propria essenza: una tendenza che trova nell’ipostasi husserliana del pensiero puro la sua espressione più radicale. Ora, in questa spaccatuia tra bomo poeticus o sapiens, da una parte, e homo oeconomicus, dall’altra, si può forse cogliere una reazione, più © meno cosciente, di chiusura di fronte alle istanze del corpo sociale avanzate del pensiero marxista. 4 Anche in Ungaretti lo slancio super-individuale compotta un rifiuto delle teorie della poésie pure o poésie absolue, quali l’intendono Mallarmé e Valéry o, in ambito italiano, alcuni teorici e poeti dell’ermetismo (soprattutto fiorentino). Almeno da questo punto di vista, dovrebbero essere riviste cette opinioni generalizzate e difficili da scalfire sulle cosiddette « poetiche della parola» o «informali » estese indiscriminatamente a precursori e seguaci dell’ermetismo e sulla supposta dipendenza teorica dal simbolismo francese (anziché, piuttosto, incentrate sulla più stretta parentela con surrealisti e affini). Per una più approfondita trattazione del rapporto tra Ungaretti e i teorici della poesia pura, riconsacrata nei termini di una Kunstreligion (di ascendenza romantica) rimando ad mio saggio su I/ «Girovago » di Ungaretti: breve viaggio ittorno ad un motivo letterario, in « Esperienze letterarie », 1981, n. 3, pp. 11-28.

241

Il poeta è un irregolare e non penetra nella scorza della falsa civiltà letteraria piena di torri come al tempo dei Comuni; sembra sa pas ca liri a dall ua; tin con le ece inv e se stes me for sue le re gge tru dis all’epica per cominciare a parlare del mondo e di ciò che nel mondo si tormenta attraverso l’uomo numero e sentimento. Il poeta comincia allora a diventare un pericolo. Il politico giudica con diffidenza la libertà della cultura e per mezzo della critica conformista tenta di rendere immobile lo stesso concetto di poesia, considerando il fatto creativo al di fuori del tempo e inoperante; come se il poeta, invece di un uomo, fosse un’astrazione *.

Si potrebbe obiettare che Quasimodo affila qui i suoi strali polemici per prendere nettamente le distanze dalla sua stagione ermetica. Ma non è così. Perché, come

risulta da lettere, docu-

menti, testimonianze, non si è mai sentito in obbligo di recitare l’autocritica per i suoi trascorsi in un movimento di cui si sentiva il capofila e di cui condannava, semmai, i tralignamenti for-

malistici, l’atteggiamento dimissionario rispetto all’altissima funzione, sociale e quasi sacrale, di cui riteneva si dovessero investire i poeti. 493 Del resto anche nel brano riportato troviamo ribadito il concetto che la distruzione delle forme (ed eventuali, concomitanti formule critiche), la diversa modulazione della voce non hanno

nulla a che fare con la perdita della propria continuità e dell’assoluta, intransigente fedeltà alle proprie ragioni poetiche (« Il poeta [...] sembra distruggere le sue forme stesse e invece le continua »).

Quanto e ancor più che Ungaretti, Quasimodo oppone al poeta che sdegnosamente « s’isole pour sculpter son propre tombeau », l'ideale di uno scrittore investito di una funzione di guida spirituale, basata sulla strenua affermazione di valori individuali, sul progetto di una società non solo senza classi, ma senza spaccature tra individuale e sociale, sul netto rifiuto delle ideologie omologanti o delle omologazioni ideologizzanti. Ciò che potrebbe sembrare un rigurgito neoromantico, appare oggi, più che mai, in epoca di depotenziamento delle categorie « forti » del pensiero e delle ideologie totalizzanti, degno di essere rimeditato.

4 Cfr. S. Quasimodo, Il poeta e altri saggi, cit., pp. 49-50.

e il politico,

242

in Il poeta,

il politico

L’impeto transnarcisistico

In epoca postsimbolista l’energica riaffermazione dei valori individuali può, evidentemente, andare di pari passo con un atteggiamento tutt’altro che dimissionario rispetto ai valori sociali: l’impeto transnarcisistico‘4 può eccedere i limiti del linguaggio più involuto ed ermetico. Il rifiuto di una assolutizzazione dell’arte in poeti come Ungaretti e Quasimodo ne è la prova più evidente. In essi appare infatti superato quel concetto di autonomia del fare poetico, che, sorto nel romanticismo tedesco, con i caratteri progressivi ed emancipatori di una nuova figura di artista, svincolato dalla necessità di vivere alle dipendenze di un patrono, era venuto man mano caricandosi da valenze regressive, sino a farsi rifiuto sdegnoso di ogni compromissione con il corpo sociale da parte dei sostenitori della poesia pura. Ma questo netto rifiuto dell’art pour l’art si accompagna con un’altrettanto netta affermazione dei valori individuali. A differenza però che in Ungaretti, in cui l’io lirico appare monolitico, autocentrato, in Quasimodo la voce sorge dalla scissione dell’essere, dalla sua decostruzione attraverso il dinamismo

micrologico delle sue « infinitesimali particelle ». L’io diviso del primo tempo rifiuta, anche nel secondo tempo, ogni possibilità di sutura. La sua scissione viene infatti proiettata all’esterno, in un incontro con l’altro che lo altera: da una parte gli fa perdere la sua insularità, ma dall’altra lo immette in un circuito di reci-

procità che lo disperde, lo svuota di quella compattezza sostanziale tipica della logica degli enti, su cui si fonda la tradizione metafisica. Tanto nel primo, quanto nel secondo tempo, l’io lirico di Quasimodo pare destituito dalla possibilità di parlare dell’assoluto, se non per via negativa. La sua voce sorge quindi dal

nulla, dal silenzio che segue il crollo delle categorie metafisiche che non possono più essere né negate, né annunciate dall’io. Anche in questo senso, la sua, è una parola ultrametafisica: 4 Per l’uso del termine «transnarcisistico » rimando all’articolo di André Green, La déliaison, in « Litttérature », ottobre 1971, p. 44, che pula dall e ttor scri e ore lett tra to crea le, nzia pote io così definisce lo spaz me com l ntie pote ce espa un , que ori aph mét lieu Un « sione transnatcisistica: mp cha du tif titu cons eur, lect et vain écri e entr é titu cons t s’es dit Winnicot, ». que issi snac tran l onne siti tran t obje d’un n tio éra vén la s dan de l’illusion

243

in quanto pronunciata da un io caduto, in un impeto inaudito, fuori di sé, sottoposto ad un processo di radicale denegazione. Proprio per questo, la sua parola non esclude il momento della dispersione e della negatività, ma lo include in un rapporto esorbitante, in una poderosa sintesi che, anziché colmare il vuoto, lo

dilata, lo esaurisce, lo porta oltre. In questo oltrepassamento il negativo non è il punto di arrivo, in cui tentare di annodare le corde spezzate tra essere e non essere, ma un arco che si apre verso un infinito voler-dire. A fare, oggi, la straordinaria, mai sufficientemente apprezzata modernità di Quasimodo è proprio questa ex-cederza della parola, non posta sul versante apollineo di una ben levigata compiutezza, ma addossata a quello, dionisiaco, di un continuo oltrepassamento, di un arduo e rischioso rapporto con l’infinito. È quel lato tormentato, oscuro che Oreste Macrì, nel suo famoso saggio del ’38, intuiva, forse, per primo, con un certo imbarazzo e sbigottimento, ammettendo che il testo di Quasimodo si presenta « per certi aspetti sprovvisto di quei caratteri di giustezza, di ‘‘ limite ”’ spirituale, di valore compiuto », che avrebbero potuto consentire una tranquilla fruizione dei « nuclei formali », senza obbligare ad una defatigante « ricerca di contenuto » #. Si tratta, in sostanza, di quella poderosa eccedenza di non-detto che la parola di Quasimodo include in sé, esprimendolo nella sua indicibilità, passandolo alla fiamma bianca della negatività, aprendo un arco attraverso cui il senso viene verso di noi e noi verso di lui. 4 Cfr. O. Macrì, La poetica della parola e S. Quasimodo, simodo e la critica, cit., p. 43.

in Qua-

Roberto

QUASIMODO

Sanesi

E LE ARTI FIGURATIVE

L’avvicinamento critico di Quasimodo alla pittura, alla pittura di alcuni degli artisti più rappresentativi fra quelli che si do-

vranno definire « compagni di viaggio », e naturalmente alla scultura (ma più tardi, e però con una insistenza tutta particolare, e

con una capacità immediata e sensuosa di aderireal fatto plastico che non si riscontra con pari intensità di fronte all’immaginesegno o all’immagine-colore), sembra essere stato piuttosto cauto, e perfino tardivo se si pensa alla sua frequentazione di artisti di notevole rilevanza fino dagli ultimi anni Trenta, e in un momento di irritazioni, ricerche, fratture stilistiche e ideologiche, che è da giudicare come fondamentale nel passaggio da certe secche più o meno accademiche o ridondanti alla più aperta e talvolta spericolata sperimentazione dei primi anni del dopoguerra. Quella della fine degli anni Trenta è una zona ancora tutta da precisare per quel che riguarda gli interessi del poeta verso le arti figurative contemporanee: per quel che ne sappiamo, infatti, il primo testo di Quasimodo dedicato a un pittore è quello scritto nel 1942 per Renato Birolii. Come testimonia anche l’unica raccolta di testi sulle arti figurative pubblicata dalle edizioni Trentadue di Milano nel 1969 con il titolo Visti da Salvatore Quasimodo. Pubblicazione priva di altri rimandi bibliografici, e nella cui introduzione Marco Valsecchi si limita ad alcune annotazioni più di memoria che di analisi. Mentre, ne sono certo, per esempio attorno ai problemi suscitati da « Corrente », non è possibile che Quasimodo non abbia avuto fin dall’inizio della propria carriera poetica, parallela all’organizzazione estetica e politica del movimento, motivi per prendere posizione: e sarebbe interessante, su questo, una testimonianza meno pigra da parte degli artisti che allora gli furono amici, così come sarebbe interessante, in base a dati più precisi, stabilire quali raccordi interni, quali even245

tuali influenze reciproche possano esservi state, in vista di un tracciato critico, fra la poesia di Quasimodo in quegli anni e le tro, l’al fra ta, trat si ché Per . ano dav con cir lo che ive vis ni sio res esp anche degli anni nei quali la stessa poesia di Quasimodo subisce uno strappo non indifferente, per quanto non priva di coerenza interna data la caratteristica fedeltà del poeta ad alcuni moduli linguistici e di stile presenti quasi per natura fin dalle prime prove. Nello scrivere del gruppo delle « Nuove poesie », in una sua recensione del 1943 Carlo Bo già avvertiva un mutamento: percepiva, nei nuovi testi, uno spostamento dalla « parola assoluta della sua prima figura spirituale » (e in questo accentuava le componenti per così dite morali più che quelle linguistiche) a « una trama distesa e ricca di vocazioni descritte ». E più avanti, intuita la metamorfosi in atto, si chiedeva se non fosse il caso di parlare di crisi, per « la presenza di diversi elementi opposti e contrastanti ». Fra Ed è subito sera, che esce nel 1942, e Con il piede stra-

niero sopra il cuore, pubblicato per le Edizioni di Costume nel 1946, lo spostamento dalla cifra chiusa delle sintesi ermetiche a una « pronuncia forse più distinta ma meno

esigente » (sono an-

cora parole di Bo) non fu certo sollecitato da ragioni esternamente letterarie. Ma anche qui si tratta di vedere in che modo, per esempio, la meditazione formale sui classici tradotti e non tradotti (ma meditati) abbia giocato un ruolo di maggiore adesione agli oggetti, alle figure — e non agli oggetti pensati (cioè alle metafore, tutte particolari nell’esercizio ermetico) o alle figure del discorso. Il brevissimo testo del 1942 su Birolli contiene indicazioni precise: a parte l’insistenza un po’ generica sul termine « uomo », Quasimodo conferma la sua vocazione a una chiara concretezza ironizzando lievemente su «ideali botteghe di lumi e di caraffe » (l’allusione sembra

essere

a Morandi),

avvertendo

che è illusorio pensare che possa nascere una vera realtà figurativa «in questo silenzio di cose », mettendo in guardia dalla « ispirazione abbandonata alla sua autonomia » e richiamando a un « ordine di linguaggio ». I problemi sollevati da questi pochi accenni sono assai più complessi di quanto

non possa sembrare.

Per quanto avverso da sempre, e sempre più testardamente, a ogni tipo di traduzione « simbolica » (« La vostra sospetta abitudine di spostare gli oggetti », mi disse una volta parlando della poesia di alcuni giovani), credere che la sua aspirazione figurale fosse necessariamente di tipo neo-realistico sarebbe di una imper246

donabile superficialità. Nel secondo testo, del 1945, ancora dedicato a Birolli, la sua consapevolezza della fondamentale unità del processo estetico, quasi sempre e con qualche rozzezza indicata da alcuni pittori e da alcuni critici attraverso una fittizia, antiquata e insostenibile distinzione fra « forme » e « contenuti », si rivela una volta per tutte: dopo aver notato la positiva influenza di pittori come Van Gogh, Cézanne e Picasso sull’esperienza fotmativa di Birolli, Quasimodo si sforza di liberare i colori da ogni suggestione di tipo psicologistico, allusivo, simbolico, decorativo, ecc. riconducendoli alla loro natura di strumenti espressivi, di elementi tecnici, e riprendendo la sua costante preoccupazione d’ordine morale ritiene necessario sgombrare il campo da ogni equivoco: « Non si tratta, è ovvio, di un problema di contenuti ». Le prove di questa fedeltà a un problema linguistico sono numerose, e probabilmente su questo punto la più esplicita è da rintracciare, anche per ragioni di datazione, nel testo del 1950 su otto pittori fra loro diversissimi come Guttuso, Birolli, Afro, Morlotti, Pizzinato, Vedova, Moreni e Cagli. Si potrà notare

forse ancora qualche resistenza, da parte di Quasimodo, nell’accettare in pieno le vie contrastanti seguite dai vari esponenti di cui sta trattando, e infatti il poeta sembra procedere in qualche punto per vie traverse, là dove si dibatte fra « non-realismo », « ragioni non formali », « contenuti », negazione dell’aver voluto « ridurre l’arte a una sola misura dialettica », ecc. Un’incertezza che nel 1966, per esempio, è ormai superata, e basterebbe ricordare il suo intervento (sul settimanale « Tempo », in data 19 ottobre 1966) a proposito della Biennale, nel quale scrive senza mezzi termini che « non ci sono state solo prove discutibili ma anche le espressioni positive di una ricerca che, nel nome per esempio di Lucio Fontana, non dimentica l’importanza del linguaggio ». E a chi conosca la pittura di Lucio Fontana l’espressione di stima di Quasimodo nei suoi confronti potrebbe apparire perfino incongrua — e si trattò invece di una stima così aperta e profonda da aver portato poeta e pittore a produrre insieme un libro conosciuto purtroppo da pochi. La « nuova legge int erbr ev nel e ri fe fa ri me nt o Qu as cui im a od » o comunicativa un a vic ina mo lt o ch ia ra me or nt ma è e i » Te « mp o vento su del occ hi. agl i 19 50 ne l an co era ra lo No n problema semiologico. l' es ig en za di sp on sua ib il it all à, a in te ll sua ig en za all , a ma poeta, ne ll e o ap er ta po ss ib pi il ù e il » co mu ni ca ti «l va egge di una 19 50 de l tes to Ne l aff acc gi iat à a. era si ri gorosa stesso tempo 247

to cet con suo un o ott rod int re ave po do do, lan di cui stiamo par di « ricerca geometrica di ‘ non-realismo ’ » addebitata in vario modo agli otto pittori Quasimodo scrive: « io credo che per giuncon nei i rad deg non che a tur pit a all è cio , smo ali -re neo al e ger que da e ar ss pa a orr occ o, nd mo del ida rig e ion raz ust ill fini della sta via ». Che poi Quasimodo, per motivi di affinità, di contemporaneità o di amicizia, si sia prevalentemente occupato di pittori come Cantatore, Migneco, Sassu, Usellini o Tamburi, non sta a significare, come qualcuno molto incautamente vorrebbe, che il poeta abbia perseguito una figuratività a tutti i costi, o abbia avversato le espressioni artistiche successive. Il poeta, così come visse il momento di « Corrente », visse circondato dall’esperienza informale, e la riconobbe. Far coincidere in modo troppo stretto gli interessi di Quasimodo con quelli del neo-realismo, per esempio, è un errore di prospettiva. Un errore di prospettiva come quello manifestato da chi volesse accentuare oltre i limiti di un inevitabile vissuto la sua sicilianità. Un errore di prospettiva, fra l’altro, che nasce dal non aver inteso del tutto né la sua poesia né l’arte di alcuni dei pittori appena citati. Perché non solo i punti in comune

rintracciabili fra Sassu, Usellini, Tamburi, Can-

tatore o altri sono ben pochi, per non dire inesistenti, e in ogni caso tangenziali al neo-realismo vero e proprio; ma anche perché Quasimodo, se si scorrono le sue note sulle arti visive, si è in verità occupato anche di De Chirico, di Manzù, di Fabbri, di Mastroianni, di Rossello, tanto per fare alcuni nomi, e secondo

il mio punto di vista, molto significativamente, con una particolare attenzione alla scultura. Fino a una introduzione a Michelangelo nella quale trova forse gli accenti più accesi e efficaci, con una partecipazione drammatica, intensa di riferimenti alla cotrelazione poesia-sculturta, che proprio nell’abbandono a una libera interpretazione non priva di assonanze con una segreta condizione di solitudine condivisa rivela una rara lucidità di intenzioni. Accenni come « parole ben temperate », affermazioni come « l’oggetto è il suo fine, non la proiezione che deriva », frasi come «l’annuncio di un’arte nuova che sta tra la pittura e la poesia, l’arbitrario naufragio nelle cinture buie di un orizzonte limitato da linguaggi trasmentali, si calmano solo nell’equilibrio geometrico », costituiscono punti di riferimento di grande importanza per intendere la lunga disputa fra impulsi segreti e necessità espressive, in una strenua fiducia non verso una generica chiarezza ma verso la parola appropriata, matematica, resi248

stente, perfino impersonale, che fu dello stesso poeta. Era, mi sembra, lo sforzo di uscire dagli « effetti », a cui la pittura è condannata, pet cogliere il peso e la concretezza e l’autonomia degli oggetti pensati e detti, ma quasi fuori di sé, che è naturalmente la caratteristica della scultura. Che resta in certo senso sempre all’esterno di noi, trovando la sua forza, quasi per assurdo, esattamente in quella che potrebbe essere giudicata una limitazione, e che ha qualche affinità con l’architettura per ciò che riguarda il rigore della spazialità e la fermezza di una scansione ritmica, e però se ne distingue per essere solida là dove l’architettura è simulazione di una pienezza essendo la sua pienezza « contenuta ». Inoltre la scultura possiede un tipo di libertà « non immaginativa » né immaginaria che non posseggono né l’architettura né la pittura. La scultura è qualcosa che può essere tenuta in mano, può essere toccata, la sua forma aderisce al tatto e il tatto aderisce alla sua forma (ecco risollevato il problema linguistico), in certo senso è tanto tangibile visibile e controllabile quanto indefinita: non necessita a tutti i costi di una base, né di riferimenti estranei. Ed ha caratteri decisamente e intrinsecamente « votivi ». Credo che dal punto di vista di Quasimodo, ricordando alcuni aspetti di struggente riduzione all’essenzialità di una specie di misticismo laico insorgente nelle prime poesie, la parola e la scultura dovessero segretamente coincidere anche su questo punto. Non può stupire, dunque, che a proposito di Manzù il poeta evochi il nome di Caravaggio per affermare che egli « ha lo stesso amore per la natura come sostanza e non come fondo complice dei sentimenti ». Né che tentando di spiegare il senso della ricerca di Mastroianni, i suoi terribili ferri aggrovigliati e distorti, si spinga a far scattare nella sua scultura l’esempio positivo di Boccioni e dei cubisti fino a un raccordo dialettico fra classicismo e romanticismo, « fiducia nella formazione della materia per intervento dello spirito » e « identica misura di tempesta che afferma la mente come emozione ». Né, parlando di Fabbri, che egli ormai dis poera non che sim bol di o for za una acc ett ad are sia disposto

que e Fab bri in , tro va per ché — let ter in atu ra acc ogl ad ier sto e a opp ors i int end eva sim bol di o dis cut nel ere che seg no sto è il fan i tas mi per avv « ers ion una e let ter ari tip o, o di una devianza raz ion all aa ri ma nd o l’i è ndi ret to con ta che ciò do ve alogici », lità, alla appropriatezza delle forme. equ r pe e de se ta es qu in , ere ess o on nd te in n no Queste note , ni io az oc ov pr ri ga ma e i, nn ce ac e ch ù pi sta occasione, niente di 249

attorno al tema. Che varrebbe la pena affrontare, prima o poi, dopo che tutti gli interventi di Quasimodo sulle arti visive siano stati raccolti, così da districare una trama di correlazioni fra im-

magine visiva e immagine verbale, in ambito più scientificamente linguistico, che mi sembra essersi bloccata da anni su schemi ormai sterili. Come sempre, c’è ancora un po’ di lavoro da fare.

CREOPERE TEMI E PROBLEMI

Giovanna

Finocchiaro

QUASIMODO

Chimirri

IN « SOLARIA »

Nel numero tre del 1930 appare per la prima volta nella rivista « Solaria » il nome di Salvatore Quasimodo. Lo leggiamo in calce a un trittico di poesie: Albero, Prima volta, Angeli. Il fascicolo di « Solaria » contenente le tre poesie di Quasimodo si apre con un corposo contributo in prosa di Elio Vittorini: Educazione di Adolfo, che continua un precedente capitolo dedicato allo stesso personaggio: Introduzione alla vita di Adolfo, pubblicato nel numero nove-dieci del 1929. Nello stesso numero tre del 1930, oltre alle poesie quasimodee e allo scritto vittoriniano, nel settore creativo, si registrano anche contributi di: Guido Fallaci (Parabasi); Gilbert Stuart (Eolo, episodio di Ulisse); e, per la sezione che la rivista dedica sistematicamente alle note e recensioni, nel medesimo fascicolo, Aldo Capasso scrive su Spinoza del Renzi, Giansiro Ferrata su Italia e cinematografo, Raffaello Franchi sulle Confidenze di Sciortino, Montale sui Racconti di Giani Stuparich, Umberto Morra sulla Vie de Molière del Fernandez, Sergio Solmi su Charzzes di Paul Valéry, ancora Elio Vittorini su I contemporanei di Giuseppe Ravegnani. Lo stesso anno 1930 vede anche la pubblicazione della prima silloge quasimodea: Acque e terre, che appare nelle Edizioni di

Solaria. Dopo l’uscita del libretto solariano, a indicare con sicurezza le caratteristiche della poesia quasimodea, a storicizzarla, a collocarla con lungimiranza accanto alla poesia di Ungaretti e Montale, formulando l’aurea triade della poesia del Novecento, sarà l’ambiente di « Solaria ». Di Montale è la prima recensione ad Acque e terre, uscita in « Pegaso »; saranno Elio Vittorini, Giansiro Ferrata, Giuseppe De Robertis, a definire la poesia di QuaPI

1 Rispettivamente,

pp. 27, 28, 29.

253

te es Or di le ta en am nd fo io gg sa il o at ns pe à sar e nz simodo; a Fire

Macrì, pubblicato nel 1938 ?. L’accoglimento di Quasimodo in « Solaria » attraversa anche territori extraletterari. Lo ha confermato Montale, lumeggiando Qua in evo Ved « : ano ili sic e van gio col ora all di to por rap suo il nno l’a che e, tal Mon 0 193 Nel 3. » ini tor Vit di o nat cog il simodo prima era succeduto a Bonaventura Tecchi nella direzione del Gabinetto Viesseux, aveva 34 anni; un atteggiamento di discrezione e riservatezza accompagnava la considerazione di cui già la sua opera era circondata. Quasimodo

aveva ventotto anni, carat-

terizzati da una scarsa disposizione ad essere loquace e da una certa facilità ad adombrarsi. La disparità delle due indoli trovava la sua composizione nell’affetto di Elio Vittorini: « Io vi amo », scriveva quest’ultimo a Quasimodo, « te ed Eusebio » *. Nuova luce sul rapporto di Quasimodo con « Solaria » è venuta in anni recenti dalla pubblicazione delle lettere a Quasimodo di Eugenio Montale; documenti dove fluiscono personaggi e comparse ricadenti nell’ambito letterario fiorentino di comune frequentazione. Sono lettere nelle quali gorgogliano umori. del quotidiano e sottili ironie, specchio del nascere e formarsi fra i due, in quella Firenze del 1930, di un’amicizia che il tempo e gli eventi in seguito non avrebbero risparmiato °. Le missive inviate da Montale a Quasimodo nei primi anni Trenta sono più di quaranta; indice di un rapporto amichevole spontaneo, che è anche stimolante per il più giovane siciliano, novizio delle muse, destinatario di non rari con2 E. Montale, in «Pegaso», gennaio 1932; E. Vittorini, in « Leonardo », 6 giugno 1931; G. Ferrata, in «Solaria », giugno 1932; E. Vit-

torini, in « Il Lavoro », 15 settembre 1932; G. De Robertis, in « Pegaso », agosto 1932; O. Macrì, La poetica della parola e Salvatore Quasimodo, saggio introduttivo a S. Quasimodo, Poesie, Primi Piani, Milano 1938. 3 Cfr. E. Montale, Lettere a Salvatore Quasimodo, a cura di S. Grasso, Premessa di M. Corti, Bompiani, Milano 1981, pp. xxrmn-214. Per la citazione virgolettata, ivi, p. xv. 4 E la lettera

del 5 ottobre

1931;

ivi, p. xv.

Eusebio

fu chiamato

Montale da Roberto Bazlen, un letterato triestino che molta parte ha avuto nella promozione degli scrittoti novecenteschi; l’origine di Eusebius: Bazlen aveva suggerito a Montale di scrivere una poesia sul personaggio schumanniano di Eusebius. Montale non svolse il compito affidatogli e da allora Bazlen prese a chiamarlo Eusebius (o Eusebio), emulato in seguito da altri amici e sodali. Cito da R. Bazlen, Scritti, Adelphi, Milano 1984, p. SISSA fat eil?

5 Cfr. Maria Corti nella Premessa Quasimodo, cit., p. VIII.

254

a E. Montale,

Lettere

a Salvatore

sigli e indicazioni che giungono a lambire pure il versante creativo; Quasimodo fu anche destinatatio di un premio letterario che, secondo l’espressione ironicamente usata da Montale, componente della giuria, sarebbe stato « il cemento » della loro « incrol‘ labile amicizia » 7. Le poesie contenute in Acque e ferre erano la risultante di una rigorosa selezione, operata dal poeta in collaborazione con gli amici di Messina, delle poesie scritte fin dalla prima giovinezza, appunto, a Messina. Ne troviamo testimonianza in una dichiarazione dello stesso Quasimodo, nella quale si coglie quasi un’eco dolorosa del taglio che egli stesso dovette compiere con fermezza: « Questa raccolta è una selezione del mio tempo giovanile; per essa ho sacrificato un lavoro di molti anni »*. Quasimodo era stato un poeta precoce, e il suo lavoro era andato crescendo nel corso degli anni: Bacio la soglia, il quaderno manoscritto messo in pulito, con frontespizio e indice, recentemente ritrovato, conferma in pieno quello che gli amici messinesi ci avevano tramandato; l'Opera omnia contiene una voluminosa sezione che allinea le composizioni poetiche sparse in periodici provinciali e fogli disparati e introvabili ?. Poi era sembrato che la poesia si ritraesse, scacciata dalle imperiose esigenze del vivere quotidiano, a Roma. Ma, riavvicinatosi all’isola natia con la nuova sede meno ostica di Reggio, in Calabria, il dono della poesia riappare e si fa dono comune per gli amici di Messina: la lieta brigata che vive nell’evocazione ispirata di Tindari. Sono gli amici di Messina che scelgono criticamente con lui le poesie per il volumetto solariano, il primo titolo di una lunga serie, come sappiamo. Uno tra gli 6 Il 2 gennaio del 1931 Montale scriveva a Quasimodo: « le tue poesie dell’Italia avevano qualcosa di ungarettiano, che è stato assai notato. Senza che una sola parola sapesse di imitazione, c’era qualcosa che richiamava alla memoria le cose migliori del Porto sepolto; un’affinità profonda di “ posizione ”. Sbaglio? Può darsi. I rimedi? Nessuno: scrivi come senti, ma non pubblicare in riviste che le cose tue più autonome. In un libro può darsi che certe impressioni svaniscano; in Acque e terre solo due o tre cenni fugaci m'hanno fatto pensare a Ungaretti, tanto che io non ho voluto rilevare il fatto (nella recensione) »; tanto a titolo illustrativo del tipo di rapporto tra i due. La lettera è in E. Montale, Lettere a Salvatore Quasimodo, cit., p. 8. 7 Ivi, p. 46. 8 Cfr. Ritratti su misura, a cura di E. Filippo Accrtocca, Sodalizio del libro, Venezia

1960.

9 Cfr. S. Quasimodo, lano 1983, p. 976.

Poesie

e discorsi

sulla poesia,

Mondadori, è

255

Mi-

ist re ha ci i, tt ia gl Pu e or at lv Sa a, in ss Me a amici più nobili della su di a ld ca a er sf mo at l' ca ti is al ri mo me na gi pa sa tuito in una commos e qu Ac di ne io az ur tt ru st la al e tt de ie es pr e ch a, at ip affetti e partec Co « o: tt me lu vo l de si ne ge la al , re di e ch an be eb tr e terre e, si po sMe a io gg Re da a et po l de li ca ni me do i gg na minciarono i pellegri i a tr i, ic am di o tt pe up gr un se ol cc ra si co po a co sina. Qui, a po po up gr il a lt vo e ch al Qu ò. nt ’A nn Va e li to Na co au quali ricordo Gl sa re rp so la a ev av si ca ni me do ni og i as Qu . da on sp a tr al l’ al passava di nuove composizioni. Per un poco si stava in attesa, infine Quasimodo tirava fuori con cautela i suoi foglietti e cominciava il rito. Leggeva uno, poi un altro; si commentava a lungo [...] Un giorno si fece il bilancio: leggi e rileggi, ritocca, lima, i fogli si erano ammucchiati. Forse se ne poteva trarre un volume: non troppo pingue, ma già in polpa. Era tutto quello che apparve, pei tipi di ‘“ Solaria” col titolo di Acque e terre » !°. Una delle testimonianze nella stessa direzione, comprovante come quelle poesie di Acque e terre rispecchiassero problemi e temi dibattuti con passione dal gruppo degli amici di Messina, proviene dal poeta stesso, attraverso la poesia Confessione, al quarantasettesimo posto tra quelle raccolte nel volumetto solariano. Per esplicita

affermazione

di Quasimodo

essa

costituisce

una

sorta

di

risposta all’invito ad accostarsi al sacramento della confessione che Giorgio La Pira, fervente cattolico, gli rivolgeva in occasione della Pasqua". In Acque e terre confluirono le poesie che avevano visto la luce in « Solaria ». Nel volumetto la sequenza delle tre poesie non rispecchia quella originaria: Angeli precede Albero e, infine, Prima volta è collocata nella terza parte del libro. Le sequenze, nella collocazione all’interno della partizione del volume, vengono

10 Il contributo di Pugliatti è, insieme con quelli di vari autori, in «La Fiera Letteraria» del 17 luglio 1955; è intitolato Preistoria di un colloquio amicale. A Salvatore Pugliatti si deve anche quella che è la prima voce della lunga bibliografia su Quasimodo, con uno scritto apparso nella « Gazzetta di Messina » il 22 giugno del 1930. 1! Cfr. S. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, cit., p. 849. A

Giorgio La Pira è dedicata anche la poesia Un fanciullo canuto, che sarebbe stata composta a Roma intorno al 1920. Ritrovata dal figlio del prof. Rampolla del Tindaro, con altre carte autografe e relative notizie; varianti contenute in un altro manoscritto pubblicò S. Pugliatti, col titolo Inediti di Salvatore Quasimodo, in «L'Osservatore Politico Letterario », 1971, 2, pp. 15-23, su cui cfr. G. Finocchiaro Chimirri, Inediti di Quasimodo, in « Archivio Storico per la Sicilia Orientale », 1971, 1, pp. 119-20.

256

cambiate e corrispondono a nuclei tematici. Le tre poesie occupano, rispettivamente nell’ordine, A/bero il quinto posto; Primza volta il trentesimo posto e Angeli il secondo. Anche in seguito, i gruppi di poesie già pubblicati sparsamente, passando successivamente in volume, furono organizzati in maniera differente. Sempre si registreranno, inoltre, varianti nel testo, nei titoli e nell’interpunzione. In seguito, allorché Quasimodo pubblicò, nel 1942, il volume organico Ed è subito sera, riassuntivo anche delle sue raccolte precedenti, la sezione di Acque e terre venne molto sfoltita, ma le tre poesie citate sopra furono conservate, seppure riprodotte con numerose varianti che investono la lingua, lo stile, la verseggiatura e la punteggiatura, giungendo anche alla modificazione di titoli. Nella fattispecie, mentre Albero e Angeli, quanto al titolo, restano invariati, Prizza volta diventerà E la tua veste è bianca. Anche Confessione, sopra ricordata, assumerà un nuovo

titolo: Si china il giorno *. Quasimodo apprezzava l’esercizio della critica sulla sua opera, ma coi filologi, viceversa, non fu mai molto indulgente: non vedeva alcuna utilità nel produrre l’apparato delle varianti di un testo che rendesse noti prove, stesure di primo getto, perplessità, ripensamenti di un autore del quale conterebbero — secondo le sue affermazioni — esclusivamente i testi approvati e stampati. E tuttavia, seguire, in questa sede, l’iter dei testi dell’esordio, vale a documentare il costruttivo, incessante lavorio sul lessico e sulla sintassi, l’incontentabilità della ricerca costante, coerente e precisa nel campo della lingua, della sintassi, del ritmo, che sono tipici dell’opera quasimodea. Da qui ha inizio quella che sarà una costante del suo lavoro sui propri testi poetici *. Sembra utile, pertanto, più che una descrizione analitica delle correzioni e delle varianti, riprodurre il testo solariano con, accanto, quello stampato nell’edizione dell'Opera omnia mondadoriana, dove i testi sono stati riveduti dall’autore e, quindi, vanno te amen icit espl rte avve Si va. niti defi one lezi la e com ati ider cons che quest’ultima (contrassegnata dalla lettera B, mentre il testo la quel a nde ispo corr A) era lett a dall to egna rass cont è io inar orig pubblicata da Quasimodo nel volume Ed è subito sera.

12 Cfr. S. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, cit., Note ai testi, | pp. 847 sgg. 13 La sezione sopra citata del volume mondadoriano, curata da Gilberto Finzi

ne

è una

documentazione

fedele.

20

ALBERO

ALBERO

A

B

Da te un’ombra si scioglie che par morta la mia se pure al moto oscilla o rompe fresca acqua azzurrina in riva all’Anapo a cui torno [stasera che mi spinse marzo lunare già d’erbe ricco e d’ali.

Da te un’ombra si scioglie che pare morta la mia se pure al moto oscilla o rompe fresca acqua azzurrina in riva all’Anapo, a cui torno

Non solo d’ombra vivo chè terra e sole e dolce dono d’acqua t'ha fatto nova ogni fronda mentr’'io mi piego e secco e sul mio viso tocco la tua [scorza.

Non solo d’ombra vivo, ché terra e sole e dolce dono

PRIMA VOLTA

[stasera

che mi spinse marzo lunare già d’erbe ricco e d’ali.

[d'acqua t'ha fatto nuova ogni fronda, mentr’io mi piego e secco e sul mio viso tocco la tua [scorza. E LA TUA

VESTE

È BIANCA

A

B

Piegato hai il capo e mi guardi e la tua veste è bianca e un seno affiora chè la trina è

Piegato hai il capo e mi guardi; e la tua veste è bianca, e un seno affiora dalla trina sciolta sull’omero sinistro.

[sciolta

su l’omero sinistro. Mi supera la luce, trema, e tocca le tue braccia [ignude, Ti rivedo. Parole avevi chiuse [e rapide che mettevano cuore nel peso d’una vita

Mi supera la luce; trema, e tocca le tue braccia nude. Ti rivedo. Parole avevi chiuse e rapide, che mettevano cuore nel peso d’una vita che sapeva di circo.

che sapeva di circo. Profonda la strada su cui scendeva il vento certe notti di marzo

e ci svegliava ignoti come la prima volta.

Profonda la strada su cui scendeva il vento certe notti di marzo, e ci svegliava ignoti come la prima volta.

ANGELI

ANGELI

A

B

Perduta ogni dolcezza in te di

Perduta ogni dolcezza in te di

[vita

[vita,

il sogno esalti; ignota riva [ incontro

il sogno esalti; ignota riva [incontro

ti venga avanti giorno a cui tranquille acque movono [appena folte d’angeli di verdi alberi in [cerchio

ti venga avanti giorno a cui tranquille acque muovono [appena folte d’angeli di verdi alberi in [cerchio.

che mai nutrì lo stesso paradiso. Infinito ti sia; che superi

Infinito ti sia; che superi ogni

[ogni ora

[ora

nel tempo che parve eterna, riso di giovinezza dolore dove occulto cercasti il nascere del giorno e della [ notte.

nel tempo che parve eterna, riso di giovinezza, dolore, dove occulto cercasti il nascere del giorno e della [notte.

Nell’anno successivo all’uscita di Acque e ferre, ovvero nel 1931, la presenza di. Quasimodo in « Solaria » si fa più consistente. Possiamo schedare, infatti, esattamente mezza dozzina di contributi: sei poesie distribuite in tre numeri, rispettivamente il primo, il quinto e l’undicesimo. Eccone qui di seguito l’elenco: Seme - Destarsi - Un sepolto in me canta è il trittico contenuto nel numero che apre la serie 1931 dei fascicoli della rivista fiorentina; segue: Alla mia terra nel numero cinque; viene infine il dittico: Lamentazione di un fraticello d’icona - Albero malnato che conclude la collaborazione di Quasimodo alla rivista, col numero

undici ‘*. ne, zio ora lab col la del i ars fic nsi nte l’i na seg ne re nt me Il 1931, t ou to por rap del ne sio clu con la e, nt me ea an lt mu vede anche, si court di Quasimodo con « Solaria ».

Il nuovo polo di attrazione intellettuale, diversamente vivace che a fic gra bio ia tor ros mic la del ia tor iet tra alla zie e stimolante, gra 14 Cfr. « Solaria », 1931, rispettivamente, pp. 20-21.

259

1, pp. 40-42;

5, p. 14; 11,

ne vie o od im as Qu per o, ret seg e o ios ter mis o in mm ca suo segue il ro, rba Sba , de an Gr rà nte que fre ve do a, uri Lig la nel ora a spostarsi Montale, Barile; in Liguria, anche, conoscerà Carlo Bo.

Nel capoluogo lombardo, infine, il poeta fino a quel momento girovago per motivi di ordine pratico, troverà un porto sereno, dal quale spiegherà le sue ali per un volo fermo e sicuro fino all’approdo del riconoscimento più ambito, nella terra di Svezia.

Alle voci sopra riportate, in riferimento alla collaborazione di

Quasimodo in « Solaria », è da aggiungere forse un’altra scheda,

ricavabile indirettamente, riguardo a un impegno probabile ma, in ogni caso, rimasto nello spettro dei progetti non realizzati, il fantasma di un’ipotesi. Nella lettera a Carocci del 25 maggio 1931, in apertura, subito dopo il « carissimo » di prammatica, con una comunicazione chiusa entro il segno grafico di una parentesi, Quasimodo assicura l’amico di aver ricevuto i libri che aveva chiesto; non c’è un’indicazione, un riferimento qualsiasi che possa consentire un’identificazione; semplicemente: « Ho avuto i libri richiesti ». Erano stati richiesti perché Quasimodo desiderava recensirli? Dalle raccolte epistolari afferenti a « Solaria » che sono state pubblicate, conosciamo la consuetudine vigente nella redazione di smistare i libri da recensire con la duplice procedura alternativa, di assegnazione da parte della direzione e di richiesta da parte dei collaboratori esterni !. Nella stessa lettera Quasimodo inoltre, esprime la speranza di potere inviare, quando Carocci lo inviterà, qualche suo scritto che egli stesso possa ritenere valido: « Spero, quando mi chiederai, di poterti mandare qualcosa che possa farmi contento »j; con certezza, dobbiamo pensare che intenda riferirsi a qualche poesia. Alla cortesia del figlio del poeta, l’attore Alessandro Quasimodo,

debbo due cartoline postali autografe di Alberto Carocci relative alla corrispondenza dei due, che riproduco nella pagina a fronte. Sono datate rispettivamente 20 maggio 1931 e 23 maggio 1932. La lettera a Carocci, direttore di « Solaria », è complemen-

tare ai rapporti di Quasimodo con la rivista. Di questi rapporti con i « solariani », a recare testimonianza, al momento

attuale, a

firma di Quasimodo, sono due lettere (di cui quella suddetta è la seconda) indirizzate ad Alberto Carocci; e in buona sostanza, anche se forniscono la possibilità di ricavare qualche ulteriore 15 Cfr. Lettere a Solaria, Romagl9/986p N05»:

a cuta

260

di G. Manacorda,

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caso contrario, infatti, l’apparato risulterebbe

di difficile com-

prensione.

Le cassature illeggibili sono indicate con [+++++++1], la fine del verso con il segno /. Note a fine pagina chiarificano i casi particolari.

DALLE

RIVE

DEL

BALATON

A Balatonfired un giovane tiglio porta il mio nome. Si allargano a cuore le foglie lungo le rive lontane

dalla patria. Ogni anno il mio amico Szabò (dicevo a lui una notte sul Danubio

i versi del greco Diodoro di Sardi su Eschilo che riposa vicino alle bianche acque del siculo Gela per invidia degli uomini di Atene) quando viene l'estate mi ricorda dal suo lago i miei giorni di Ungheria con due foglie dell'albero, ombre che arrivano fresche ancora di vene in terra lombarda. Cresce il tiglio nei suoi fogli di verde lunario. Appena sarà alto di uccelli acquatici e sotto i rami caraffe di Tokay, curvi su tele cerate a rossi quadri e blu, berranno i villeggianti, un altoparlante improvvisamente

vuoto di suoni dirà il mio nome libero dall’al di là. Come slogan di raffiche di pioggia. Dalle rive del Balaton]

1

A Balatonfiured

[albero

di] tiglio

[a G. Szabò].

un giovane

Sul lago Balaton

tiglio]

FP

[Sul lago Balaton

c'è] un

FP

2-3-4 porta il mio nome. Si allargano a cuore / le foglie lungo le rive lontane / dalla patria.] [che] porta il mio nome [e le]. Le sue foglie / in forma di cuore [crescono larghe] si allargano / vicino [all'acqua lontana] alle acque lontane! dalla patria. FP porta il 1 Riscritto sul precedente.

372

mio nome. Le sue foglie si allargano / a cuore a) [vicino alle acque] lontane [dalla patria.) b) = testo FQ Ogni anno il mio amico Szabò] [Il mio amico Szabò ogni anno]? FP 9-10-11 quando viene / l’estate mi ricorda dal suo lago / i miei giorni di Ungheria] a) quando l’estate [obliqua scende sulle rive] b) quando l’estate [sprofonda] [sprofonda obliqua sugli alberi] c) quando l'estate crolla [nei fossi] / [obliqua] d) (quando l'estate

crolla / nei fossi [della] di pianura [aperta]) mi ricorda dalle rive

i miei giorni di Ungheria. FP a) quando [l'estate dalla piana] b) quando [viene] l'estate viene c) quando [l'estate] viene / l'estate nei fossi [di] sulla pianura d) quando viene / l’estate nei fossi [sulla] di pianura

e) (quando viene / l’estate [nei fossi di pianura])

mi ss 00r [dalla riva del lago] dal suo lago / i miei giorni di Ungheria. 11-12-13-14 con due foglie / dell’albero, ombre che arrivano fresche / ancora di vene in terra lombarda. / Cresce il tiglio nei suoi fogli di verde lunario.] con [una] due foglie dell’albero [, che crescel a) [Cresce spedito come ombra] / [vicino al tiglio di Rabindranat Tagore] b) (Ombre spedite / [in una busta] [in Lombardia] in terra lombarda.) [++++++]3 [Crescono] cresce l’albero / su

un viale che crepita [come un calendario] [di] come* fogli di calendario / [presi] storti dal vento. FP [Cresce] [Alza l’albero] con due foglie / [su un viale che crepita come] [i suoi]? [fogli] / [del tiglio] dell’albero, ombre [spedite in terra] che arrivano [intere] / a) in terra lombarda ancora con [fresche] vene.

gere]

/ in terra lombarda

ancora

[con vene

b) che arrivano [leg-

fresche]

c) che artri-

d) che arrivano / vano / in terra lombarda ancora [fresche] di vene e) = (testo) a) / Crein terra lombarda [fresche] ancora di vene sce il tiglio [su un viale i suoi] nei suoi fogli / [verdi di calendario.]

b) / Cresce il tiglio nei suoi fogli di verde [segno] [calendario] lunario. FQ Appena sarà alto di uccelli / acquatici e sotto i rami caraffe] 15-16 b) [++++++] Quando sarà alto / a) [stancato dagli uccelli] FP ++++1]. d)=.(testo) e sotto isuoirami*/-carafte» OPP aacqu / li uccel di lli] ucce i dagl so chiu [e alto sarà ena App o] and [Qu FQ tici e sotto i suoi rami caraffe ber , blu e dri qua / si ros a ate cer e tel su vi cur di Tokay, 17-18

ranno i villeggianti,]

di Tokay [stese] su tele cerate / a quadri [co-

2 Il verso, che porta un segno indicante l’inversione tra soggetto e da è se he anc re uto l'a dal o sat cas è non , to) tes (v. ale indicazione tempor di izi ind i altr ati oni tim tes o son ore eri inf e gin mar Nel considerarsi tale. sul ora all bò Sza o car evo dic ti / bò Sza ro [Ca a: uit seg pro lezione non Danubio].

I versi 4-9 del testo sono

scritti nel margine inferiore e inseriti

per mezzo di un richiamo. 3 Lezione cassata illeggibile, probabilmente 4 Riscritto sul precedente. S Lezione intenzionale non proseguita.

373

+

solo intenzionale.

lorati] blu e rossi$ berranno i villeggianti, [stranieri,] FP_ di Tokay, [stese larghe] [curve] [alte] curvi su tele cerate a [quadri]

rossi / [rossi] quadri? e blu, berranno i villeggianti, FQ un altoparlante improvvisamente] [trombe domenicali] un alto19 parlante domenicale [improvvisamente] improvvisamente FP un alFQ toparlante [domenicale improvvisamente] improvvisamente vuoto di suoni / dirà il mio nome libero dall’al di là.] 20-21 a) [improvvisamente] [vuote] di suono [diranno] il mio nome libero [di forza.] b) vuoto di suono dirà? il mio nome libero. FP

Come slogan di raffiche di pioggia.] Come [uno] lo slo147) gan [di una raffica di pioggia] delle [lente] raffiche di pioggia. FP FO =*testo

La discussione di questo esempio vorrebbe evidenziare la natura degli interventi dell’autore, che sono o articolati alla ricerca dell'immagine definitiva (versi 9-14), o intervengono su porzioni più limitate di testo e su singole parole (correzioni di questo tipo sono più scarse che nelle prime raccolte), e soprattutto, coerentemente alla discorsività già individuata come caratteristica della raccolta, di natura sintattica. È prematuro, dato che il lavoro è ancora in svolgimento, e poco giustificato dalla modestia dell’esempio proposto, affrontare in questa sede il più ampio discorso sul lavoro linguistico di Quasimodo. Interessa invece sottolineare l'opportunità di uno studio puntuale delle carte dell’autore, senza il quale verrebbe trascurata una fase importante della sua sperimentazione poetica. 6 Un

tratto di penna

indica la successiva

inversione

dei termini

(v.

testo).

7 Inversione dei termini. 8 « Vuoto » è riscritto su «vuote», «dirà» è correzione su « diranno ». ° Precedentemente è cassata una stesura diversa solo per divisione dei versi: [dirà il mio nome libero / dall’al di là. Come slogan di raffiche di pioggia].

Paolo Mario Sipala IL QUADERNO MESSINESE DI SALVATORE QUASIMODO

Il quaderno di poesie Bacia la soglia della tua casa, che fu ritrovato nel 1970

a Messina

da Alessandro

Quasimodo

tra le

carte di un amico del padre, il tabaccaio Luigi Occhipinti, zio di Giorgio La Pira (a cui il quaderno era stato affidato nel periodo del sodalizio tra i due ragazzi d’ingegno, Totò e Giorgio) non è sfuggito del tutto all’attenzione dei critici, di Gilberto Finzi, che lo ha pubblicato in appendice all’edizione dei « Meridiani » nella sezione riservata alle Poesie disperse ed inedite e di Michele Tondo, uno dei pochi che vi ha dedicato qualche pagina. Per Finzi, nel manoscritto Bacia la soglia sono « più vistose le tracce di un primitivo simbolismo, prezioso e decadente nelle rime, nel lessico e negli stilemi, nel complesso, però, di gusto alquanto ovvio e datato ». Per Tondo «le poesie della raccolta ritrovata ci permettono di precisare che Quasimodo prende l’avvio sì dal D'Annunzio più provinciale e vulgato (quello per intenderci che alimentò tutto un costume non solo letterario), ma è anche sintonizzato su certo crepuscolarismo alla Govoni: e tutte queste suggestioni mutua, magari, attraverso gli epigoni e i divulgatori ». A parte questi interventi, però, il quaderno era destinato a

sfuggire all’attenzione del lettore per la sua stessa collocazione emarginata. Una nuova spinta alla lettura è per noi venuta dalla sua pubblicazione in edizione anastatica, un’edizione che restituisce intatta

la grafia del giovanissimo autore, anzi la sua calligrafia, trattandosi di una riscrittura in bella copia, quasi del tutto perfetta, name orn i freg nei ne, pagi e dell ana rom ne zio era num a nell ta cura dei re eatu olin sott e nell e nto ime pon com ogni tali che chiudono quadel iva osit comp one bizi l’am per e ali segn ti ques titoli. Per re esse va vole ; cuno qual a o inat dest era esso che sce capi derno, si 375

rGio che ti cer o am Si no. lcu qua sso pre re uto l’a la credenziale del o sim fos se E ? rio ata tin des co uni ed o im pr il se fos ne a gio La Pir di fronte ad un’opera prima rifiutata da un potenziale editore? Resta il fatto che quel quaderno fu poi rifiutato dallo stesso autore, per un processo selettivo sollecitato da spinte etero-autocritiche. Sappiamo, infatti, dalle testimonianze di Salvatore Pugliatti che alcune poesie precedono questo quaderno, ma non compaiono in esso, tranne una, Profanazione. Sappiamo che il poeta donò allo stesso Pugliatti nel 1930 un altro di quei « quaderni a quadretti (con l'immancabile tavola pitagorica sul retro) » — come attesta Vincenzo Paladino che l’ebbe tra le mani — intitolato Notturni del re silenzioso nel quale ricomparivano soltanto tre delle poesie raccolte in Bacia la soglia: La porta chiusa, Il rogo, Carnevalesca. Accanto a questo procedimento selettivo, va però notato il progetto compositivo del quaderno, che è composto di due parti: la prima con il titolo che diventa titolo di tutta la raccolta (20 poesie), la seconda, intitolata Nei giardini della luce (17 poesie).

La seconda parte è più debole: il giovane autore probabilmente ha voluto collocarla dopo per una ragion pratica, per un accorgimento comune

a tante prime prove, cioè per dare inizialmente

al lettore-giudice il meglio di sé. Nella prima parte, invece, c’è una maggiore sicurezza espressiva e una scelta formale che punta al preziosismo nelle situazioni liriche e nella nomenclatura: preziose naturalmente le pietre preziose (giada, ametista, agata, zàffiro, opale, rubini), ma preziose anche le piante di questi suoi giardini: narciso, magnolia, orchidea, zagara, viole, mimose, glicinie, anemone, asfodelo, camelia, gelsomino, mammole, crisantemi, fiordalisi vegetano insieme in serre incantevoli, alla luce attificiale della letteratura scolastica. Altrettanto raffinata la combinazione degli elementi: l’arpa del nomade, il guanciale di verbena, la porta di smeraldo, le glicinie de l’aurora. Sistematica la disarticolazione della preposizione articolata: ne la sera, a le porte, ne le lampade, su la cima, nella presunzione di un sicuro effetto lirico. La rima è stentata, il ritmo spesso faticoso, ma tra la sintassi incerta si apre il varco, qua e là, l'analogia. Sono proprio i versi di « quel ragazzo », ancora alla ricerca delle sue « segrete sillabe ». Non mancano certi echi scolastici. Le « fuggenti tenebre » foscoliane, la scelta di interlocutori come Poliziano « amico dolce 376

di altri tempi » o di Jacopone a cui offre « le parole più buone come fiori di campo ». Pascoli e D'Annunzio, comunque, prevalgono. Ma quale Pascoli e quale D'Annunzio? I due maestri offrivano una gamma di modelli e di proposte, non soltanto letterari e spesso contrastanti tra loro, tra cui un giovane provinciale era

indotto‘a scegliere. Quasimodo sceglie non tra ciò che divide, ma su ciò che avvicina i due poeti. Di D'Annunzio sembra prediligere non le esaltazioni superomistiche, ma le estenuazioni e i languori del Poema paradisiaco. E di Pascoli i Poemi conviviali nella cui premessa veniva salutato D'Annunzio — dopo gli scontri precedenti — « fratello maggiore e minore », l’opera in cui l’autore di Myricae aveva rovesciato la poetica delle piccole cose (« arbusta iuvant humilesque myricae »)

adottando il nuovo motto: « non omnes arbusta iuvant ». Alle spalle di questo D'Annunzio e di questo Pascoli e del loro classicismo decadente, c’è la grande esperienza del Parnasse contemporain che aveva tenuto il campo sino alla fine dell’Ottocento, diffondendo l’esigenza estetistica e il gusto per la poesia evocatico-descrittiva. « Leggevamo — racconta Pugliatti — Baudelaire, il primo Mallarmé e Verlaine, che a poco a poco divennero i nostri numi. Intorno a quegli anni — dal 1917 al 1920 e dopo — a Messina quelli della generazione precedente la nostra, parlavano e scrivevano di codesti poeti, dei ‘“ simbolisti ””’, si diceva gene-

ricamente e impropriamente ». È forse legittimo chiedersi se nell'aderenza a certo classicismo parnassiano mediato attraverso Pascoli e D'Annunzio, non si debbano cercare le radici della predilezione quasimodiana per i lirici greci e latini. Se cerchiamo ota, invece di una sistemazione comparata, una

valutazione autonoma del quaderno, possiamo dire che in complesso l’esperienza che esso rivela è più letteraria che umana: non la vita come letteratura alla maniera di D'Annunzio che combatteva la sua grande guerra come avventura bella e opera d’arte, che vita come a ratur lette la né te, ndan coma da e re da trasvolato preva una certo ma ici, ermet degli e Bo Carlo era il motto di perano Manc . afica biogr ienza esper sull’ rario lette fatto lenza del e tracc le co) grafi sceno e e onal enzi conv è (che sino nel paesaggio delanni gli to vissu aveva o imod Quas cui in della terra siciliana onstazi una da , viere ferro padre al sso l'infanzia errando, appre cina all’altra

(Modica,

Aragona

Caldara

tra le zolfare

di Aggri-

nnell’i o nuov di ini Comit ia, Catan di gento, Sferro nella piana ina Mess lo, Eschi di terra Gela , iptus eucal gli terno, Valsavoja tra 377

e à it gu bi am za sen no, ran ari app ece inv che cce terremotata). Tra senza mimetizzazioni, nella poesia adulta. Bacia la soglia, dunque, più che un’autobiografia reale, presenta un’autobiografia ideale, il ritratto di un individuo pensoso e infelice, precocemente maturo che dice di sentirsi (ha appena 17-18 anni) « più vecchio, ma più buono », che mostra di avvertire la dolcezza del ritorno, prima di avere sperimentato l’amarezza della partenza. Nella Preghiera che apre il quaderno con un appello al lettore scrive: Diventa buono, se vuoi ascoltare la mia voce, e bacia la soglia della tua casa.

Sono stati d’animo mutuati dal Poema paradisiaco, dal sonetto O giovinezza!, ad esempio, in cui D'Annunzio, alla soglia dei suoi trent'anni, scrive: O Giovinezza,

ahi me, la tua corona

su la mia fronte già quasi è sfiorita. Premere sento il peso de la vita, che fu sì lieve, su la fronte prona.

Ma l’anima nel cor si fa più buona, come

il frutto maturo.

È una posizione alto-mimetica, uno sforzo di adeguarsi a modelli letterari, scelti come modelli di comportamento, oltre che di linguaggio. Anche se accenna ai suoi « pallidi poemi » e si dichiara un « povero poeta », il giovane Quasimodo avverte, più di ogni altro sentimento apparentemente crepuscolare, la sua vocazione letteraria. Anche in questo dannunziano ovvero destinato, chiamato alla poesia. Non sorprende in tale contesto di letterarietà intrinseca, l’insistenza giovanile sulla morte, la percezione e la dichiarazione di « un’ansia precoce di morire ». Il noto verso di Vento a Tìndari introduce alla possibilità di leggere il quaderno messinese come preludio o presagio dell’opera successiva. È il manoscritto di un ragazzo di provincia — abbiamo detto — e come tale va collocato nelle coordinate stotico-culturali-ambientali di Messina 19171922. Ma quel ragazzo si chiamava Quasimòdo ed è diventato Quasìmodo: così comincia a chiamarsi, firmando una poesia futurista. Esiste una continuità tra l’uno e l’altro? 378

Michele Tondo ritiene che nei versi di una poesia, L’inconsueto di Bacia la soglia Immaginavo un notturno trecentesco: ne la veste di broccato, regina della neve, la-lampada notturna ti sfogliava sui vetri del castello principesco

« è da rinvenire l’origine dell’interpretazione che il Pugliatti dava dei versi di Vento a Tìndari, identificando quel ti con una donna che, con rapido trapasso si sarebbe sostituita a Tìndari, cui prima era indirizzato il discorso »: Tìndari, mite ti so

fra larghi colli pensile sull’acque dell’isole dolci del dio, oggi m’assali e ti chini in cuore. [+5] e tu mi prendi da cui male mi trassi e paure d’ombre e di silenzi, rifugi di dolcezze un tempo assidue e morte d’anima. A te ignota è la terra ove ogni giorno affondo e segrete sillabe nutro: altra luce ti sfoglia sopra i vetri nella veste notturna, e gioia non mia riposa

nel tuo grembo.

Su quei due pronomi personali (#î, #4) si era impigliata anche la capacità ermeneutica di Eugenio Montale, uno che con la cifra e la decifrazione dell’ermetismo doveva avere qualche dimesti— i iatt Pugl a sse scri — iali iniz tivi voca due i e Fors « chezza: o aggi pass il te men ara chi za stan abba o nan seg non così successivi, ». i molt di ezza cert l’in qui da e: inil femm ma tas fan al dal paese L’analisi complessiva del Pugliatti, che intendeva la lirica sul i itt scr mi pri dei uno fu che e le ica mus ura come una partit o«gl ta poe al ve par , ale ion naz e sed in va ari app che o Quasimod con una va tro si ta pos ris sua la del riosa »; ma in nessun punto to an qu in i om on pr due i va gue tin dis che ferma dell’interpretazione 379

che e il in mm fe ra atu cre una ad o ltr l’a i, dar Tin l'uno rivolto a appare come lieve ombra. Che sarebbe? Un’evocazione dentro un’evocazione? E in quale

funzione? L’ipotesi del Pugliatti interromperebbe la coerenza dell’unica rievocazione plausibile, quella di Tindari, emblema della e brev dal o ppat stra o stat è a poet il e qual a dall lia Sici di a terr (quattro anni) ma duramente sofferto esilio romano, trascorso in povertà e in modeste occupazioni (disegnatore tecnico in can-

tiere, commesso di ferramenta, impiegato alla Rinascente). Non basta l’analogia « ti sfoglia » - « ti sfogliava », « lampada notturna » - « veste notturna » per stabilire una connessione situazionale. E i versi successivi (« e gioia non mia riposa / nel tuo grembo ») sarebbero di un realismo molto sexy, se riferiti a una

donna infedele. È lecito invece pensare che il « trapasso » sia avvenuto

sostengono

anche Natale Tedesco

e Michele

Tondo)

(come

nell’ambito

del linguaggio figurato, secondo la tradizione letteraria (l’Italia del Petrarca non diventa un bel corpo di.donna, fitto di piaghe mortali?): in questo caso ancora più naturale risulta il passaggio dall'immagine della terra all'immagine della donna che è madre, terra-madre, nel cui grembo si può riposare. Più resistente, invece, il contatto tra il quaderno e l’ultima strofa di Vento a Tìndari: Tìndari soave

serena

torna;

amico ! mi desta

che mi sporga? nel cielo da una rupe 1 Il Pugliatti stesso. 2 Mi spinga, finga di spingermi. Nota sIBLIOGRAFICA La riproduzione fotostatica a cui si fa riferimento e dalla quale sono estratte le varie citazioni è la seguente: S. Quasimodo, Bacia la soglia della tua casa, Franco Schettino, Siracusa 1981 (con uno scritto di E. F. Accrocca,

Autografo

di una

scontentezza).

Per

altre

rifles-

sioni su questa edizione, cfr. P. M. Sipala, Il quaderno di poesia del ragazzo Quasimodo, in AA.VV., Quasimodo: l’uomo e il poeta, Cittadella, Assisi 1983. Il giudizio di Gilberto Finzi e i testi delle altre poesie in S. Quasimodo, Poesie e Discorsi sulla poesia, a cura di G. Finzi, Mondadori, Milano 1971. Ed inoltre: S. Pugliatti, Parole per Quasimodo, Premio Vann’Antò, Ragusa 1974; M. Tondo, Le poesie di Quasimodo, estratto da « L’albero », 1971, 47 e Id., Salvatore Quasimodo, Mursia, Milano 19763; N. Tedesco, L'isola impareggiabile. Significato e forme del mito di Quasimodo, La Nuova Italia, Firenze 1977; F. Flora, Scrittori italiani contemporanei: Sal-

380

e io fingo timore a chi non sa che vento profondo m'ha cercato.

Aveva scritto in un primo tempo: « a chi non sa del vento / che mi ha cercato l’anima ». Ma è comunque chiaro che il ventoturbamento profondo che ha sconvolto il poeta facendogli sentire l’attrazione del vuoto, la dolce vertigine della caduta, in un momento di distacco dagli amici (la «brigata » si è allontanata «onda di suoni e amore ») e di sonno della ragione (l’assopimento da cui è destato) non è altro che la tentazione di morte, « l’ansia precoce di morire » che rendeva inquieto il ragazzo Quasimodo. Altri segni di continuità possono scorgersi tra Bacia la soglia e il contiguo Acque e terre nel tema del ritorno ad esempio,

anche se il rimando testuale tra i versi La strada t’aveva dato il passo zingaresco, l'occhio, vivo come i.cieli de l’agosto; il sole, un tono acceso di moresco sul marmo de la carne: un po’ scomposto.

e quelli, molto più noti, de I ritorni che ricantano la parabola del prodigo E la strada mi dava le canzoni,

che sanno di grano che gonfia nelle spighe, del fiore che imbianca gli uliveti

non appare plausibile tanto diverso è il contesto, al di là dell’affinità del sintagma. D'altra parte la sensualità rude ed aggressiva del quaderno giovanile si fa più ovattata, pur mantenendo l'interno ardore e la religiosità evangelica, che ricordava il messaggio del Nazareno e la figura di Magda, si attenua o sparisce. Ma è l’analisi del linguaggio che permette di misurare la continuità e la distanza tra i due testi. Francesco Flora, impostando nel 1951 una ricerca sul lessico della poesia italiana novecentesca, apato tocc è — veva scri — hé perc « odo sim Qua da a iav inc com punto a Quasimodo per le ragioni della sua arte, sia positive che in « Letterature

vatore.

Quasimodo,

Lettere

a Quasimodo,

a cura

moderne », II, 1951, 2; E. Montale,

di S. Grasso, Bompiani,

381

Milano

1981.

passive, di fermare quel lessico in ciò che esso ha in comune con la precedente poesia novecentesca e in quel che ha di più proprio e che corre nelle presenti aspirazioni dei giovani poeti ». Dalle poesie raccolte in Ed è subito sera egli estraeva 42 paroletema, quelle più ricorrenti e di maggior rilievo in quanto « ripetono un costante nucleo elementare d’immagine e di suono che

si combina con gli elementi ideativi dell’intero discorso »: aria,

vento, luce, sera, cielo, ecc. Più povero, ovviamente, il numero delle parole-tema che si può registrare in Bacia la soglia, non più di 20. Ed ancora più significativa la qualità delle ricorrenze lessicali. In Ed è subito sera la parola dominante era « morte » e poi, nell’ordine di grandezza delle frequenze, « acqua » e « terra » che il Flora giudicava « elementi fondamentali della costituzione del linguaggio di Quasimodo ». In Bacia la soglia, invece, le parole-tema più frequenti sono « stelle » e poi a parità « sogni » e « sole » (a cui si affida la continuità con Acque e terre) e poi, a distanza, « luce », « notte », « aurora », « sera », « Sonno », « Casa », « crepuscolo ».

In sostanza gli elementi fondamentali di uîì mondo fantastico prevalgono sugli elementi fondamentali del mondo naturale, i quali saliranno poi in primo piano nella conquistata aderenza alla realtà terracquea. Nella struttura interna del quaderno un elemento costante è dato dalla ricorrenza del lemma « crepuscolo » («il fuoco del crepuscolo », « occhio crepuscolare », « crepuscolo di rose », « il raso del crepuscolo », « l’arpa del crepuscolo »); ma nella bivalenza del termine (inizio della sera e fine del giorno oppure fine della notte ed inizio del giorno) il poeta sembra privilegiare il significato secondo, in consonanza con la spinta ad accendere non a smorzare i colori, la stessa spinta per cui accende la notte, accende la mano alle carezze, su la carne accesa posa la bocca, l’alba accende le fiaccole del sogno, il sole accende fiaccole su le pozze, i capezzoli sono

accesi come

ciclamini.

I due tempi di queste prime prove sono scanditi all’interno di una lirica programmatica, intitolata, appunto, La poesia: Una sera che la neve angioli addormentava

sui comignoli,

e, sul tetti, spargeva crisantemi, forse, cercò calore accanto al mio corpo freddo, nuda come tutte le canzoni dei nomadi,

382

pura come tutte le rose degli orti sconosciuti, ove le zolle ricciute e le coppe dei fiorellini bianchi hanno rugiada pei passeri assetati.

oca Ora, è come un incensiere d’agata purissima che brucia fra le colonne della stanza d’ametista, ove l’ora mattutina, sfuggendo ai miei baci di Notturno, l’amore lasciò e il pianto di tutte le strade del mondo. Brucia, e l'incenso è sorriso di fanciulla, brucia e l’hashish è carezza di bocca su le mammelle d’una femina perfetta.

Una sera, ora. Nel volgere di una breve esperienza, il ragazzopoeta trascorre dall’umanitarismo pascoliano e dai toni dimessi del linguaggio al preziosismo e al sensualismo dannunziano e persino sulla scia dell’hashish si muove (e questo riferimento piacerebbe ad Oreste Macrì, convalidando la sua nuova interpretazione) verso l’iconografia del poeta maledetto: Noi siamo i pagliacci vagabondi de ls: 75 Ridiamo, briachi di baci non di stelle

e, nel colloquio tra l’Io e l’anima, confessa: Non sono, come

credete, un uomo

francescano

io amo il profumo di tutti i giardini, le strade ove cantano le donne del peccato coi capezzoli accesi come i ciclamini.

Nel 1931 Eugenio Montale recensiva il primo volume quasimodiano Acque e terre nel numero di marzo di « Pègaso » e quasi emsett di ero num nel i, iatt Pugl e ator Salv , nte ame contemporane amont dei ione ediz a terz la a nsiv rece » ria Sola « bre-ottobre di ploines ra anco e, onal rezi bidi se t’as ques Su ia. sepp di liani Ossi letnto ime mov e com smo meti l’er eva nasc rato, Firenze-Messina, terario e coscienza critica di se stesso.

Montale notava che Quasimodo si era preparato all’illumina333

zione lirica con un fervore di attesa quasi ascetico ed era approdato alla « rinunzia », al « chiuso ardore », al « sacrifizio »: rinunzia, sacrifizio di che? Anche di questo quaderno messinese, dimenticato tra le carte di Giorgio La Pira, ma da non dimenticare nella storia interna della poesia di Salvatore Quasimodo.

Natale Tedesco

DARE E AVERE: PRIVATO E PUBBLICO. CONTEMPORANEITÀ DEI MITI E MITICITÀ DEL PRESENTE NELL'OPERA DI QUASIMODO

Per cominciare vorrei dire che qui il dare e l’avere non è un riferimento esclusivo all’ultima raccolta di Quasimodo, ma vuol ricordare l’intreccio dell’offerta e dell’imprestito che il poeta seppe realizzare con la società del suo tempo, consertando le motivazioni personali, private, con le istanze civili, pubbliche. Volendo porre tutto ciò sotto un emblema poetico, si può significativamente rinviare ad una strofa dell’ode per Federico Garcìa Lorca di Neruda tradotta da Quasimodo: « A che cosa servono i versi se non per quella notte / quando un pugnale amaro ci scopre, per quel giorno / per quel crepuscolo, per quell'angolo rotto / dove il colpito cuore dell’uomo si dispone a morire? ».

Quasimodo ha sempre guardato, soprattutto da ultimo, all’orizzonte d’attesa dei lettori, in una estensione che, appunto, non è quella dei critici esclusivamente. Per questo, se si volesse fare il punto dello stato della questione Quasimodo, sarebbe persino ridicolo o inutile riferirsi a coloro che lo hanno confinato nel ruolo del traduttore, peraltro

poco criticamente considerando la necessità per la storia delle forme quasimodee di una valutazione diacronica del rapporto con i classici greci, prima, con i latini, dopo, il che vuol dire intanto

aver già operato una adeguazione sincronica delle modalità diverse di questo rapporto. È il senso di una scelta di tradizione che spiega anche la veril con a volt ta ques gò, spie già e com , odo sim sificazione di Qua iana ital ne izio trad alla a, prim cese fran ne izio trad alla riferimento del o ent tim Sen a gria Alle ’ dall i rett Unga di o aggi pass dopo, il tempo. le na io ss pa o nt me ia gg te at l’ re ra cu as tr ò pu Naturalmente non si la o a, ri ne ia ig rt pa ta us gi ro lo la e dir ol vu dei critici, che non 385

i

altri di parte da diverse poetiche di difesa e il propugnamento poeti.

Quasimodo ha sempre sofferto si può affermare non proprio paradossalmente dell’eccessiva benevolenza dei suoi estimatori co. ura mis l ua ug in ri ato igr den i suo dei one azi lut sva a lat rre me dell’i Dimenticando i testi, non si può certo analizzare e storicizzare; al più si possono fare delle arbitrarie e perciò fin troppo comprensibili antologie.

Oggi, peraltro si può arrivare ad ipotizzare per la poesia contemporanea la solita antologia scolastica triadica, che, come si sa, intanto sarebbe un’antologia di comodo perché questo istituto è servito semmai per formare delle personali scale di valori, ma non certo per prospettare adeguate sistemazioni storiografiche, eliminando Quasimodo. Ma per dare il giusto posto a Saba, non c'è bisogno di levare Quasimodo dalla triade che lo vedeva unito a Ungaretti e Montale. Il progetto di una particolare area di sperimentazione poetica, non può confondersi con il più generale orizzonte d’attesa dei lettori, del pubblico dei cosiddetti non addetti ai lavori. E costoro hanno effettualmente difficoltà a seguire operazioni che col piacere del testo non usufruiscono tuttavia di una metodologia critica che non debordi nel sociologismo più esterno. Anche in questo caso, cioè, è necessario che « l’attenzione [...] allo sfondo complesso della società e della storia, e insieme alle specifiche ragioni della letteratura », venga posta ed esercitata « attraverso la considerazione del medium linguistico ». Parlare di Quasimodo è per me iterare un incontro, peraltro ‘rinnovato nel tempo. E se si sa quanto difficile sia il primo approccio con uno scrittore, non si sa abbastanza quanto preoccupante sia dichiarare le ragioni di una fedeltà critica. Aver scritto la prima monografia su Quasimodo nel 1957, quando stavano per esplodere, a seguito di quelle sul suo presunto passaggio dall’ermetismo al neorealismo, le polemiche sull'assegnazione al poeta siciliano del premio Nobel; aver scritto un secondo volume vent’anni dopo, nel 1977, aggiustando il tiro sulla tematica dell’isola impareggiabile, ma come metafora fondante quella della terra impareggiabile, quando si era avuto il tempo di accogliere la neoavanguardia e di veder rispuntare qualche neoermetismo, vuol dire oggi dovermi porre in un’ottica che ricollegandosi a quelle ricerche particolari ne riaffermi con nuove

386

considerazioni solo le ragioni centrali, per passare poi la mano a chi ha una presa più fresca e pronta e uno sguardo lontano per saper sempre meglio cogliere il generale nel particolare. A più di quindici anni dalla sua morte, avvenuta a Napoli il 14 giugno 1968, l’opera di Salvatore Quasimodo pare consegnata quasi in una zona di silenzio, scontando il grande successo che invece conobbe fino alla straordinaria assegnazione del premio dei premi, cioè il Nobel. Giuoca in ciò l’incapacità di buona parte della critica a storicizzare la qualità contraddittoria di una presenza poetica tra ermetismo e postermetismo, tra fascismo e cultura resistenziale; di un impegno civile e letterario che si provava nel tentativo di una nuova definizione del ruolo dell’intellettuale, ma, soprattutto, in una sua prima pratica e ovviamente incerta attuazione; giuoca l’avversione in ultimo del poeta agli sperimentalismi formalistici, mentre il suo sperimentalismo era in

grado di arricchirsi contenutisticamente, badando soprattutto ad annettere nuove zone del reale al suo costitutivo classicismo. E c'è da aggiungere, a malincuore, che persiste il provincialismo di chi avrebbe perfino rifiutato il Nobel, pur di non vederlo attribuito in contrasto ai propri schemi e gusti di uomini d’otdine, di « rondisti » avversari di ogni progetto di letteratura impegnata. Per di più, nel 1959, Quasimodo era il secondo siciliano che, dopo l’altro grande isolano, Pirandello, che per decenni la cultura idealistica borghese aveva tenuto in quarantena, nel giro di un venticinguennio riportava in Italia il massimo alloro contemporaneo. Ma non staremo qui, ora, a chiarire le ragioni per le quali tutto ciò indispettisse maggiormente i gretti sebben aulici fautori di una letteratura centro-settentrionale, che vogliono tuttora dimenticare come dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai nostri giorni la letteratura italiana sia stata conosciuta in Europa

in gran parte per via di una schiera ininterrotta di autori siciliani. Peraltro Quasimodo intese l’alloro anche come un premio olimpico all’ultimo poeta della Sicilia greca. Che vi fosse, e che ch e fat il to mu ta no n cr ed en sim ze in ili , re to ri cer ca ta un a sia vi av re bb e sic ili ano po et il a Ma rx Ka rl cla ‘ ssi il cis co ta’ n Ma rx con ,

potuto affermare:

« La mitologia non era solo l’arsenale dell’arte

Qu ape r fu no n Sic ili la a cio è »; ma te rn se o no su o il ma greca, di tea tro un e ar ma un me nt ar io pr ov in ci al ar e, se un nale simodo

co gl ie re vo le ss Ch e i na tu ra le . nu tr su im o il en to ma luoghi comuni, is òl an o te ma de l ce nt la ra li tà rea liz zar si st or ico in tutto il suo 387

nto fro con a e ter met che be eb vr do non o, od im as nella poesia di Qu il componimento Isola, della silloge Oboe sormzzierso del 1932, e Nell'isola dell’opera del 1966 Dare e avere. Nello « specchio della mente », cioè nella memoria, l’isola è la dimora prima e ultima dove il poeta ha sperimentato la sostanza », rra tie la en a nci ide res « tra nos la del ria tto ddi tra con e nte ale biv

cioè il dolore e la gioia di cui è fatto il vivere umano, dove ha imparato a riconoscere il caos e l’ordine, a seguire la passione e . ad ascoltare la ragione. All’isola, al suo mito, Quasimodo si è rivolto sempre per la stessa ragione per cui il lettore si rivolge oggi al suo libro poetico: per un bisogno sentimentale e un approdo fantastico che sono, in definitiva, condizione ed esito che spiegano e rappresentano la finale, sostanziale, semplicità e neces-

sità della vita e della poesia. Nonostante ciò, sembra a certa critica che nei cosiddetti cieli

della poesia, della lirica sia impossibile, ma è soltanto più difficile e disagevole, riguadagnare l’opera di Quasimodo alla tematica comune, sebbene differenziata nella sua genesi e soprattutto nella sua formalizzazione, degli intellettuali isolani e italiani della generazione, possiamo dire al modo spagnolo, degli emblematici anni Trenta. La ricerca di un nuovo ruolo dell’intellettuale, che ha la sua fondazione nei ‘sacri’ testi del primo Novecento e prosegue per

tutti questi anni, è anche al centro maturo dell’itinerario conoscitivo-letterario di Salvatore Quasimodo.

Si vuol dire, intanto, che la poesia della memoria, tipica del versante meridionale della ricerca ermetica da Gatto a Sinisgalli, acquista un connotato effettuale nella concreta esperienza di Quasimodo, intellettuale isolano coinvolto nella perenne e tuttavia storicizzabile diaspora siciliana. A ben guardare, già nella lontana e celeberrima poesia d’esordio, Vento a Tìndari, pur negli schemi letterari dell’epoca che rifiutano ogni resa stilistica di piatto stampo realistico, la asprezza esistenziale della situazione storica e della condizione interiore si rivela nella sua interezza alla fin dei conti nella dura precarietà materiale dell’emigrante che si nutre di « amaro pane ». Al di là o al di qua dell’uso di questo topos letterario, c'è il problema e il dramma dell’emigrazione intellettuale isolana per i centri della produzione culturale, editoriale. Difatti, quando Quasimodo giunge a nominarsi, in piena e conclusiva concretezza, dopo essersi definito nelle figure del pec388

catore di miti, dell’operaio di sogni e della guardia di notte, emergerà quella di emigrante ‘stranamente’ tranquillo: Mi sembra che veglia tranquillo, Ma ascolto

di essere un emigrante chiuso nelle sue coperte, per terra. Forse mucio sempre. volentieri le parole della vita

che non ho mai intese, mi fermo

su lunghe ipotesi. Certo non potrò sfuggire; sarò fedele alla vita e alla morte nel corpo e nello spirito in ogni direzione prevista, visibile.

Perciò il canto dell’esilio non è un canto metafisico, ma è un’elegia colloquiale che mira a darci i tratti veri di un dolente e tuttavia pugnace itinerario umano, ricostituibile storicamente nella sua necessità sociale e nelle sue motivazioni individuali. Il problema fondante la formalizzazione poetica di Quasimodo è quello di rendere contemporaneo il mito e rendere mitico il presente: ciò vuol dire che il porsi della ricerca di Quasimodo come mitologia, il suo farsi come mitografia non pertengono solo alle figurali nomenclature di un mondo ancestrale ma alle figurazioni pubbliche dei processi reali della società. E ciò accade sia al tempo dell’uso di un linguaggio, con apparenza ostensiva, più refrattario allo spessore del contingente, dove tuttavia si riescono ad isolare residui storicamente motivati e motivabili, sia quando l’intenzione di rappresentazione realistica sempre si convoglia in un linguaggio, certo non più allusivo ma pure essenzialmente mitizzante, di una diversa e nuova e pur persistente mitografia. Naturalmente, in poesie come Lamento per il Sud e Nell’isola, è più facile trovare il poeta in sintonia con l’elaborazione culturale coeva delle poetiche del dopoguerra. E direi anche con l’elaborazione politica delle problematiche meridionalistiche del dopoguerra. Dico questo a scanso di equivoci, dopo un esame non solo a livello contenutistico ma proprio a politica dell’oratoria saggistica, della formale e livello linguistico del dopoguerra. È naturale che qui io non possa in alcun modo ripercotrere ari mpl ese più i tra o ari ter let voiti osc con o ari ner iti un di le tappe rre gue due le tra no lia ita ale ttu lle nte l’i del e ion diz della difficile con che llo que Ma a. lic ubb Rep la del nio uen inq tic ven e poi nel primo 389

ora vorrei almeno affermare è il fatto che, per capire Quasimodo nelle apparenti dissonanze di diverse mitologie e mitografie del vivere, bisogna sottolineare una serrata e interna fedeltà all’inquietudine del reale. Ciò che è anche fedeltà alla suprema dissonanza del vivere, ci fa conoscere e intendere il significato di una esistenza, di un’esperienza poetica, combattute e divise tra presenza e assenza, tra vita e morte, tra natura ancestrale e umanità

reale, tra vocalismo e comunicazione, tra disperazione e speranza, prima che una società antagonista si provi a costruire modelli alternativi.

POESIA E POETI NELLA CULTURA QUASIMODIANA

Sergio Campailla

QUASIMODO

E MONTALE

Sappiamo tutti quante polemiche ha rinnovato la recente pubblicazione delle montaliane Lettere a Quasimodo per le cure di Sebastiano Grasso: lettere che sono di un futuro premio Nobel a un altro futuro premio Nobel. E non ci vuole molto di meno perché l’opinione pubblica si interessi ai casi della poesia. Ma è sull’onda di queste nuove e sterili polemiche che mi pare giusto esordire indicando come il rapporto tra i due Nobel ox va condotto, al di fuori di rivendicazioni di precedenze e di maggiore o minore dignità. Nel 1931 una volta Montale scrisse a Quasimodo, il quale aveva partecipato al premio Fracchia bandito dall’« Italia letteraria »: « Vedo che hai perso il prix. Me ne compiaccio vivamente con te. È un ottimo segno » !. Che sia, l’aver vinto successivamente il Nobel, un « pessimo segno » per entrambi? Nel timore di questo rovesciamento, propongo di prescindere dal segno del Nobel, astrologicamente non decifrabile. Un altro modo di come il confronto non va istituito ce lo suggerisce di nuovo Montale ironicamente attribuendolo a Aldo Capasso, in un saggio di orografia e idrografia poetica capassiana, che adorna una lettera del 28 gennaio 1931: qui si parte dal basso, da una presunta palude Saba, anzi da un pozzo nero Ojetti, e si sale verso l’alta montagna, ai 2700 metri del montaliano monte Eusebio, che soffre il confronto diretto, per cerimonioso ritrarsi dell’interessato, con i 3000 metri del monte Quasimodo, tutti comunque sovrastati dall’imprendibile cima dei 6000 metri totalizzati da Ungaretti°. 1 E. Montale, Lettere a Quasimodo, a cura di S. Grasso, Premessa di M. Corti, Bompiani, Milano 1981, p. 13. 2 Ivi, p. 18. Su questo gusto « altimetrico » applicato ai valori della poesia esiste il riscontro di un singolare documento, segnalatomi dall’amico , 1966 nel ura ritt addi odo sim Qua da a volt ta ques ato firm a, Rest to nvi Gia

393

Sto prendendo tempo per trovare la strada e impostare, in iind e du tra to por rap il ne ma ri che to, por rap positivo, questo ree ent tam isi squ ndi qui , ite ent ris i ma to an qu he tic poe ità ual vid frattarie a operazioni commutative. Vediamo la tabella di marcia a ve do e, enz Fir per va no Ge cia las e al nt Mo ’27 nel ti: fat dei e enz Fir a ’29 l Ne . eux uss Vie o tt ne bi Ga il ige dir ’29 partire dal giunge anche Quasimodo, introdotto negli ambienti intellettuali fiorentini dal cognato Vittorini, il quale a dispetto dei suoi acerbi ventun anni gode già di un notevole prestigio. Qui scocca la scintilla di un’amicizia che diventa subito fervida tra Montale e Quasimodo, auspice Vittorini, il. quale arriva a vagheggiare convivenze triangolari, come in questa lettera al cognato: « Bisogna lavorare in ogni modo perché domani si stia insieme, nella stessa città e nella stessa casa. Oppure mi viene la voglia di rubare Fusebio nottetempo e costringerlo ad abitare in casa mia, nella chambre ‘“ roige et noir’ ». La fantasia del ratto di persona denota la possessività esclusiva. Infatti poco prima non mancava la manifestazione gelosa: « Insomma io vi amo, te ed Eusebio e non ammetto soluzioni di continuità pugliattesche » *. Evidentemente, questi tre giovani e giovanissimi non

avevano

bisogno

dell’Accademia delle Scienze di Stoccolma per sentire vicendevolmente, ancora nella fase generosa dell’apertura, il fascino di eccezionali personalità artistiche. Se le chiacchiere e i pettegolezzi degli anni onusti di gloria rientrano nell’ordinaria amministrazione, il costituirsi tempestivo di così bel sodalizio desta invidia e ci fa esclamare, col saggio e ironico Ariosto: « Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui! ». Dopo l’incontro con i solariani e la pubblicazione di Acque e terre, nel 1930, Montale

si schiera decisamente

a favore del-

l’amico siciliano: recensisce il suo libro d’esordio, dà suggerimenti, organizza la claque, gli apre il territorio delle sue conoe sprovvisto — ahimè — dell’ironia montaliana. Un giornalista sulla rivista fiorentina « Totalità » aveva in quell’anno stilato una classifica tra grandi uomini, paragonati alle alte cime, in stile da record sportivo. Quasimodo non seppe trattenersi dal replicare con una rabbiosa lettera in cui rifaceva la graduatoria a suo vantaggio. Il documento è imbarazzante ma significativo per il clima di avvelenate polemiche che conseguì al conferimento del Nobel e pet l’esasperazione con cui Quasimodo talora lo visse. Lo si può leggere nell’articolo di L. Zinna, Le colpe involontarie di Quasimodo, in Dialogo tra sud e nord. Quasimodo oggi, Edizioni del Centro Pitrè, Palermo

3 Lettere

1982, pp. 76-77.

a Quasimodo,

cit., p. 65.

394

scenze liguri: è per sua mediazione che Quasimodo pubblica primamente due liriche, Cieli cavi e Vita nascosta sulla genovese rivista « Circoli » diretta da Grande. Ed è per le edizioni di Circoli che nel 1932 esce la seconda raccolta quasimodiana Òboe sommerso. E allorché Quasimodo lavora alla Direzione del Genio Civile di Imperia, è Montale a presentarlo allo stesso Grande, a Angelo Barile, a Camillo Sbarbaro, a Angiolo Silvio Novaro acca-

demico d’Italia la cui raccomandazione procuretà il trasferimento al Genio Civile di Milano. Significativo è ciò che succede al premio dell’Antico Fattore. Pervengono in finale tre liriche: La casa

dei doganieri di Montale, Alla sera di Grande, Vento a Tindari di Quasimodo. Prevale Montale, che è tra i fondatori del premio e che ha sostenuto sino in fondo Quasimodo e all’ultimo mo-

mento ha accettato di candidarsi per ostacolare un’eventuale vittoria di Cardarelli e per compiacere il gruppo di pittori e scultori che anima il premio. Qualche giorno dopo l’assegnazione, Vittorini, che ha scritto la cronaca per l’« Italia letteraria », così consola Quasimodo in una lettera: Lui [Montale] è stato premiato per forza. Ha dovuto soccombere, dico per dire, alla vanità del gruppo che voleva fregiarsi del suo nome. Così il premio ha acquistato importanza; una importanza di cui naturalmente si avvantaggeranno i concorrenti dell'anno prossimo. E tu devi esser tra quelli; perché avrai il premio ad occhi chiusi; e avere un premio che per la prima volta è stato conferito a Montale, per quanto minimo di consistenza, significa essere il secondo poeta d’Italia! E altrove:

Col premio dell’Antico Fattore a Montale hai perduto mille lire ma hai guadagnato la stima di tutti e, perché no?, anche la gloria fiorentina. Fra trecento persone la tua poesia è stata letta ad alta e commossa voce insieme alla Casa dei doganieri. E in un orecchio ti e simo caris o nostr del a quell di bella più ta trova stata è dirò che comune

amico Eusebius 4.

dil’e , sia ue nq mu Co . ppo tto o sin per to, mol e dic È una lettera che da te en lm ua nt pu ta vin è o siv ces suc nno l’a del io zione del prem a all ono eng att si i dic giu i E s. ptu aly euc di e Quasimodo, con Odor pet so, sen to cer un in e e al nt Mo di le nna bie programmazione è

4 Ivi, pp. 46-47.

395

si qua o nn ha non o er vv da , ini tor Vit di e ion ess spr l’e e riprender bisogno di « aprire gli occhi »: perché in finale a contendere il lia Giu la Vil con oli Nat co au Gl o van tro si o od im as Qu a io em pr e Raffaele Gadotti con Visione. Nel frattempo, Quasimodo ha pubblicato altre liriche su « Circoli », tra cui Curva minore con dedica a Montale (che suc-

cessivamente sarà soppressa). Come si vede, Montale già prestigioso ha dato una mano, e forse due, al compagno di cordata: e lo ha fatto con slancio, a sua volta ripagato se nelle lettere può rivolgersi a lui chiamandolo « uomo unico » ° e riconoscendo: « Ti ricordo sempre come una di quelle tre o quattro persone che mi è stato provvidenziale incontrare » $. E nella recensione ad Acque e terre, pubblicata su « Pegaso » nel 1931, che ha voluto ristampata nel volume Sulla poesia del 1976, senza tacere di cautele e

di riserve ha pur scritto con oggettiva lucidità per quegli anni: Tali [ispirati a un « sentimento ancora disarticolato, diffuso » e « indicibile »] alcuni momenti di questa poesia, quand’essa non preferisce l’audacia delle analogie, il giuoco dei ponti gettati fra significati lontani e discordanti di parole e in genere le molteplici risorse acquisite al sentimento poetico contemporaneo. Ed è, nelle parti più notevoli, una poesia che tende ad alzarsi con la leggerezza del respiro e a ritrovare attraverso semplici inflessioni di voce e impreviste, ma accettate, fortune d’architettura e di stile quella pàtina di distacco, quel sereno acume dell’intelligenza che furono vanto della poesia dei

classici7,

Mi rendo conto che questa cronaca è alquanto fastidiosa, come un antefatto non richiesto. E tuttavia, non sarà inessenziale ove vi si attribuisca il corretto significato, che vale la pena di ribadire: all’origine, tra questi due autori così diversi, per radici temperamento e cultura, si è instaurata una corrente d’attrazione, un mutuo riconoscimento nel nome della poesia, che mi pare più importante di tutti gli equivoci e i dissapori intervenuti successivamente. E a quelle origini bisogna risalire, a quel tempo di vocazioni intrecciate e di passioni ancora montanti, al di qua delle consacrazioni ufficiali, procedendo controcorrente sino a stadi per 5 SRI 7 a cuta

Ivi, p. 39. vittpwazi Ivi, p. 112. L’articolo è stato ripubblicato nel volume di G. Zampa, Mondadori, Milano 1976, pp. 228-30.

396

Sulla poesia,

così dire pre-filologici, se si vuole entrare nel segreto di uno degli snodi decisivi della poesia italiana di questo secolo. Se questo è vero, allora il discorso sui due poeti nasce in qualche modo antecedente e sopraelevato rispetto a quello di una coiscrizione

alla scuola o casta ermetica. L’ermetismo

saluta in

Montale e in Quasimodo due garanti, ma i maestri, pur nel gioco delle influenze esercitate e subite, fuoriescono dai limiti della scuola, anche laddove fanno il massimo di concessione, come Montale nelle fiorentine Occasioni e Quasimodo in Oboe sommerso e in Erato e Apòllion. Per ciò essi, dopo questo « attraversamento », si troveranno fuori e indenni. S’intende che c’è una prospettiva storica, e che il parallelismo di posizioni tra i due cultori delle Muse è un falso parallelismo. Montale fa aggio sui cinque anni di cui è più vecchio, per godere di una battuta di anticipo che rimane irrecuperabile. Nel °’30, quando esordisce Quasimodo, è già uno dei miti della nuova generazione, insieme a Ungaretti. Salvatore Pugliatti, nel primo intervento di rilievo che annoveri la critica quasimodiana, pubblicato su « La Gazzetta di Messina » del 22 giugno 1930, così comincia: « Chiuso il primo periodo di questo inizio di secolo colla guerra, si attendeva da tempo la voce nuova, dopo Ungaretti e Montale. Salvatore Quasimodo è poeta originale e moderno: la voce nuova »È. La « novità » di Quasimodo è già preannunciata, ma il collegamento non va inteso solo per quarti di nobiltà. C'è chi invece si attarda a compilare il catalogo delle dipendenze. De Robertis, recensendo Oboe sommerso sulla rivista « Pegaso » dove l’anno prima Montale aveva recensito Acque e terre, compila un punti-

glioso elenco, osservando severo: « Passino le imitazioni da Pascoli e dai futuristi e da Gozzano, giovanili tanto e tanto poco impegnative, un puro esercizio; ma il contatto con la poesia di Ungaretti e di Montale tradisce in pieno lo sdoppiamento tra una e compiacenza letteraria una e d’epidermide sofferenza sia pure parla montaliano, riferimento nel insiste Robertis De ?. » lentezza di « piacere esterno del ricalco » e conclude così: « Se dunque seppia, di Ossi degli quella a accostarla da s'ha la sua poesia petono quel di smorzamento uno in bisogna saperla avvertire Gargiulo !°. » male quel di direi, to, dissanguamen rentorio, in un 8 Lettere a Quasimodo, CALVI paalg3!

cit., p. 114.

10 Ivi, p. 184.

39

PI

e pur sia , vio rin il ma er nf co a, tur let ca sti dra una a sua volta in a rt po Im « : na ia od im as qu e ion iaz var la del so sen il do rovescian solo, — e questo è certo, — che la tristezza, o meglio la ‘ nega. era inc ins te men ica ist art sia a, ert off ne vie ci ltà rea in che ”, ne zio La si direbbe addirittura ricavata (né mancano i segni) da un arbitrario inasprimento della “ negazione” del Montale » !. La precisione di De Robertis, che lo chiama in causa, imbarazza Montale, il quale quasi si scusa con Quasimodo:

« Caro Quasimodo,

ho visto la recens[ione] di De Robl[ertis] e mi duole ch’essa non sia quale io e te e Elio ci attendevamo. Più mi duole che vi si faccia il mio nome. Avendo il D[e] R[obertis] scelto spontaneamente il libro, nulla di ciò poteva essere previsto da noi; del resto il ferz4 non l’avevamo sfiorato mai nei nostri discorsi » ®. D'altronde è proprio il finissimo Solmi, amico da sempre di Montale e firmatario della prefazione famosa a Erato e Apòllion poi ripresa come prefazione a Ed è subito sera del 1942, che sanziona il quadro delle influenze: « Nel suo primo libro Acque e ferre, egli dimostrava una innegabile facilità ad assorbire e a piegare ad esigenze del resto già personali gli echi che erano nell’aria: D’Annunzio, Pascoli, Papini di Opera prima; e Montale e Ungaretti » !. Senonché è necessario ricordare che l’edizione di Acque e terre che questi primi lettori avevano sotto gli occhi è assai diversa da

quella definitiva che leggiamo oggi, sfrondata di ben ventidue composizioni e variamente rielaborata nelle composizioni rimaste. Ora, è importante notare che in questa edizione definitiva non è rimasta traccia, o quasi, di Pascoli, D'Annunzio e Papini; mentre la chirurgia degli interventi nulla ha potuto sulle influenze montaliane e ungarettiane, e nulla ha potuto perché queste influenze erano troppo « interne » e si mescolavano con il destino poetico quasimodiano, come le acque di affluenti col cotso principale. Tra le liriche eliminate un’eco montaliana si può cogliere forse solo nell’incipit di Convegno: « Scendiamo negli orti: l’eliotropia estatica / con le mille pupille d’odalisca... » 4. Ma si tratta 11 A. Gargiulo, Grande e Quasimodo, in «L'Italia letteraria», 4 dicembre 1932; ristampato nel volume Letteratura italiana del Novecento, Le Monnier, Firenze 1958, alle pp. 350-56. La citazione si legge a p. 355. I Lettere a Quasimodo, cit., p. 79. 8 S. Solmi, Quasimodo e la lirica moderna, ora in Scrittori negli anni, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 166. 14 Le poesie di Acque e terre non ripubblicate dall’autore sono raccolte nel volume Poesie e Discorsi sulla poesia, a cura e con Introduzione

398

di un Montale ibridato da D'Annunzio, per una lirica che ha i difetti combinati dell’autobiografismo e della letterarietà. Le innervature montaliane si trovano invece proprio nelle composizioni confermate. Sicché a distanza di tempo mostrava di aver avuto ragione Vittorini nella sua recensione a Acque e ferre uscita sul « Leonardo »: « Dinanzi a questo giovane poeta che in novanta pagine di versi pur ci dà otto o sette anni di lavoro sorge subito il ricordo di Eugenio Montale » ‘5. E dopo aver suggerito energicamente di amputare testi come Mercati, Tormento, Veglia a Nassaboth, infatti tutte destinate a cadere, Vittorini osservava

ancora: Ma la tara di pesantezza che resta così sui margini del libro è soltanto la controprova della qualità di questa poesia perché denuncia la materia allo stato grezzo, non ancora cioè sottilizzata fino alle sue fibre liriche. Perciò dove il verso è messo a nudo, nella sua essenza, le parole suonano scarne e metalliche che fanno sorgere, come ho detto, il ricordo di Eugenio Montale, il primo appunto dei nostri poeti che abbia osato spaccare le pietre senza riguardi ai sedimenti secolari: dell'accademia e del petrarchismo. Quasimodo, che nulla ha imparato, o pochissimo, da Ungaretti (tranne forse il modo di esordire per certe poesie: Notte, serene ombre) e da Saba, ritrova nell’esperienza montalesca, conseguita ad occhi bene aperti, la fermezza tecnica di sceverare il nodo lirico dalla poesia apparente dei motivi, dei colori e delle cosidette « aure » !9,

Nel suo esclusivismo geloso, Vittorini, come non gradiva l’inframettenza di Pugliatti, così cerca di tener fuori anche Ungaretti, con un’esagerazione che gli consente di ricollegare più fortemente l’uno all’altro i prediletti Montale e Quasimodo. Altri, più bravi e pazienti di me, compileranno il regesto completo del dare e avere. Sarà comunque bene che lo facciano pao nti mme fra oli sing che o fatt del oli apev cons za, den pru con o don per esto cont dal atte estr li, zabi iliz inut i role sono suppellettil a che e e; ntel pare zie fitti a nte sove o con vin con e lità vita la loro sono non ate, apol estr hé perc ni azio imit no aio app che le quel e volt connel e vivo nel ra, osfe ’atm dell rno inte all’ tali se considerate creto della situazione artisticamente espressa. , -44 815 pp. 39, 198 ano Mil , ori dad Mon Bo, C. di e ion di G. Finzi, Prefaz o, îod sin Qua da oni azi cit le per to men eri rif il e end A questa edizione si int 15 Lettere a Quasimodo, cit., p. 124.

1oRIVIpaei25:

399

Per esempio:

nei versi di Spazio:

Mi rompe. Ed è amore alla terra ch'è buona se pure vi rombano abissi di acque, di stelle, di luce

è possibile avvertire echi da liriche della sezione Mediterraneo, da Antico, sono ubriacato dalla voce e da Avrei voluto sentirmi

scabro ed essenziale. Oppure in questi versi di S'udivano stagioni aeree passare: S'udivano stagioni aeree passare, nudità di mattini, labili raggi urtarsi

non è difficile riconoscere la reminiscenza di ritmi e motivi montaliani, in particolare da Fine dell’infanzia. Si potrebbero spigolare esempi molteplici.

Ma mi limito a farne alcuni che mi sembrano meno effimeriî. Si rilegga Acquamorta, che Michele Tondo ha ritenuto di «chiara derivazione montaliana, specie nella seconda strofa » !”. E rileggiamo insieme la terza strofa, che è quella invece che mi pare suoni più montaliana: Così, come

su acqua allarga

il ricordo i suoi anelli, mio cuore;

si muove da un punto e poi muore; così t’è sorella acquamorta.

Citerei a riscontro due testi montaliani. Il primo: Cigola la carrucola del pozzo, l’acqua sale alla luce e vi si fonde. Trtema un ricordo nel ricolmo secchio,

nel puro cerchio un'immagine ride. Accosto il volto a evanescenti labbri: si deforma il passato, si fa vecchio [...]

Il secondo,

in direzione

assai

diversa:

la rima

« cuore » -

« muore » si trova infatti in Corro inglese. Ricordiamo la chiusa: 17 M. Tondo, Salvatore Quasimodo, Mursia, Milano

400

1970, p. 21.

il vento che nasce e muore nell’ora che lenta s’annera suonasse te pure stasera scordato strumento, cuore.

Qualcuno potrà dire che la rima « cuore » - « muore » è tutt’altro che peregrina, e che possiamo ritrovarla in tanti altri poeti; e avrà ragione. E potrà soprattutto obiettare che le due parole tematiche,

riunite insieme

dal richiamo

della rima, creano

una

situazione che è centrale per tutto Quasimodo. Nell’emblematico Ed è subito sera si canta di questo: di un cuore, di un cuore della terra, e di una sera, che è morte precoce. E chi obietterà ciò avrà di nuovo ragione. Ma proprio qui è il nodo della questione: l'imitazione non è più imitazione, e si trasvaluta in qualcosa di qualitativamente diverso, di originale. Il poeta se ne serve non come di materiale alieno, ma lo foggia per farlo diventare cosa sua. Nell’intera produzione di Quasimodo le due metafore e stilemi più ritornanti sono quelle che riportano al « cuore » e al « vento », entrambe inaugurate e artisticamente suffragate in Vento a Tìndari, dalla prima strofa (il cuore) all’ultima (il vento). Ma messe le mani avanti su questo punto, non è meno vera e

incidente la suggestione che Quasimodo ha ricavato dal citato Corno inglese e anzi dalla serie completa, poi rifiutata da Montale, degli Accordi. Già agli Accordi montaliani rinvia l’utilizzazione del repettorio musicale e specificamente strumentale fatta da Quasimodo: Oboe sommerso, che dà il titolo alla raccolta, rimanda da una parte al Porto sepolto di Ungaretti, dall’altra al quinto degli Accordi, che Oboe !. E sempre in Oboe sommerso, l’inizio « Un vento grave d’ottoni » di Foce del fume Roia rimanda al settimo accordo, Ottoni: né si dovrà trascurare il ritorno congiunto da inglese, Corro a così riviene Si to. strumen lo con vento del di L'eco orta. Acquam a ento riferim in mosse le cui avevo preso Quasidi lirica a scrittur nella lungo a a propag si lirica questa i o Specchi in amente precis e terre, e Acque in modo. Sempre pure che / scorza la spacca che verde quel « ivi: conclus versi mavano richia ti Pugliat re Salvato a che versi », c’era non stanotte ini tar Bet R. di a cur a a tic cri ne zio edi si, ver in a per L’o e, al 18 E. Mont via rin si ne zio edi sta que A . 770 p. 0, 198 no ri To i, aud Ein i, tin e G. Con

sempre pet il testo dei versi montaliani.

401

i ritmi melodici pascoliani, di Myricae e dei Canti di Castelvecchio ?, a me richiamano piuttosto i versi montaliani già citati di Corno inglese: « nell'ora che lenta s’annera / suonasse te pure stasera ». Né saprei indulgere, per questo caso, alla tesi di un pascolismo comune, anche se la ripresa quasimodiana risulta meno franta, più leggera, più — se si vuole — pascoliana. Ma vediamo ancora la seconda strofa di Anche mi fugge la mia compagnia: Forse è mutata pure la mia tristezza, come fossi non mio, da me stesso scordato.

Dove quello dello « scordato fonda di Corno raccolta Giorno

« scordato » immediatamente risveglia il ricordo strumento » di Montale, il cuore. Ma l’eco proinglese perdura e si protrae addirittura sino alla dopo giorno, che è la prima raccolta di un Qua-

simodo sicuramente postermetico.

Rileggiamo

19 gennaio

1944:

Ti leggo dolci versi d’un antico» e le parole nate fra le vigne, le tende, in riva ai fiumi delle terre dell’est, come ora ricadono lugubri

e desolate in questa profondissima notte di guerra in cui nessuno corre il cielo degli angeli di morte,

e sode il vento con rombo di crollo se scuote

le lamiere

[...]

In attitudine di leggere i versi dell’antico è Quasimodo che da poco ha dato alle stampe una straordinaria reinterpretazione di Lirici greci;

ma

il vento

che con

rombo

scuote

le lamiere;

risveglia antichi rumori, riporta alla memoria quel secondo verso indimenticabile che in Corno inglese è un falso inciso: Il vento che stasera suona attento — ricorda un forte scotere di lame — gli strumenti dei fitti alberi e spazza l'orizzonte di rame dove strisce di luce si protendono come aquiloni al cielo che rimbomba [...] 19 Lettere a Quasimodo,

cit., p. 118.

402

dove ritroviamo il « rimbombare » invece del « rombo », con una variazione a conferma. Un motivo dunque, un tema e un esito musicale fusi insieme, che corre trasversale, « attraversa » l’opera di Quasimodo, a partire dalla prima raccolta sino a Giorno dopo giorno, a dimostrazione della sua necessità, di uno sforzo e di un fine di riappropriazione. Porto un altro esempio, che avvalora questa indicazione di fondo. Nelle Nuove poesie, datate 1936-1942 e raccolte in Ed è subito sera del 1942, i primi tre testi (Ride la gazza, nera sugli aranci; Strada di Agrigentum; La dolce collina), che segnano

alcuni tra i vertici dell’arte quasimodiana, non a caso frequentemente antologizzati, si raccordano tra loro per una componente montaliana, alla stregua di quella procedura sopra illustrata, che li « taglia » trasversalmente. La fonte zampillante questa volta è Notizie dall’Amiata, tripartita, composta nel ’38 e pubblicata tra le Occasioni nel ’39°. In Ride la gazza, nera sugli aranci canta Quasimodo,

a partire dal verso

12:

E tu vento del sud forte di zàgare, spingi la luna dove nudi dormono fanciulli, forza il puledro sui campi umidi d’orme di cavalle, apri il mare, alza le nuvole dagli alberi [...]

Ecco di nuovo

il vento, il vento

quasimodiano,

il « vento

profondo » che « ha cercato » il poeta siciliano già sull’altura sacra di Tindari. Ed infatti è un vento del Sud, sicilianizzato dal

profumo intenso della zagara. Ma impossibile è non sentire la reminiscenza da un altro vento, questa volta nordico: Ritorna domani

più freddo, vento del nord,

spezza le antiche mani dell’arenaria, sconvolgi i libri d’ore nei solai, 20 Non ci sono dubbi sull’antecedenza delle Notizie dall’Amiata. Nelle Note ai testi apposte da G. Finzi all'edizione Poesie e Discorsi sulla poesia il manoscritto di Strada di Agrigentum risulta datato 1942, quello di La dolce collina 1941, mentre per Ride la gazza mancano

indicazioni

(cfr. Note

ie, poes e Nuov one sezi una che ltro pera vi osser Si 72). 871pp. ai testi, nelle già a ariv comp , 1942 del sera to subi è Ed e zion 'edi nell prima che ì Macr O. di io sagg con , Piani i Prim ioni Ediz ano, (Mil 1938 Poesie del uno ness ere rend comp però senza , elli) Vigor G. di cura a afia iogr bibl e dei tre testi in questione.

403

e tutto sia lente tranquilla, dominio, prigione del senso che non dispera! Ritorna più forte vento di settentrione che rendi care le catene e suggelli le spore del possibile!

Qui proprio il movimento è lo stesso, con l’invocazione al vento e l’iterazione quadruplice degli imperativi: in Montale « ritorna », « spezza », « sconvolgi », « ritorna »; in Quasimodo

« spingi », « forza », « apri », « alza ». E d’altra parte il critico delle fonti non dovrà sentirsi autorizzato, dalla certezza dell’iden-

tificazione, a deduzioni affrettate: perché lo stesso splendido fascio di versi montaliani, di cui nessuno

vorrà contestare l’auto-

nomia dell’altissimo risultato conseguito, risente probabilmente a sua volta il fascino della grande Ode to the West Wind di Shelley. Dopo Ride la gazza, nera sugli aranci si legge Strada di Agrigentum, dove all’inizio è ripreso il motivo del vento: Là dura un vento che ricordo acceso nelle criniere dei cavalli obliqui” in corsa lungo le pianure, vento che macchia e rode l’arenaria e il cuore dei telamoni

lugubri

[...]

Il ricordo delle Notizie dall’Amiata, con l’invocazione al vento

perché spezzi le antiche mani dell’arenaria, è troppo fresco perché vi si debba insistere. Se mai, non bisogna perdere la nuova connotazione quasimodiana: questo vento, che — abbiamo appena visto — è vento del Sud forte di zagare, « rode l’arenaria e il cuore / dei telamoni lugubri ». Il cuore: parola magica in Quasimodo, questa volta riferita ai siculo-greci telamoni del tempio di Zeus Olimpio, dunque in un’area in cui storia personale e mito si confondono. E ancora, si potrà notare come il vocativo che immediatamente

segue,

« anima

antica » (verso

6), l’anima

che si ritempra al soffio di quel vento, riecheggia forse il Montale di Riviere, laddove si illude di poter « cangiare in inno l’elegia »: Triste anima passata e tu volontà nuova che mi chiami, tempo è forse d’unirvi in un porto sereno di saggezza.

Ed un giorno sarà ancora l’invito

404

di voci d’oro, di lusinghe audaci, anima mia non più divisa.

Ed è inutile rilevare come le due invocazioni abbiano un timbro e un esito diversi. Dopo Strada di Agrigentum ecco La dolce collina, che presenta un paesaggio con pioggia e vento, simile a quello delle Notizie dall’Amiata: [...] E la pioggia insiste e il sibilo dei pioppi illuminati dal vento, Psi [...] Dalle scure case del tuo borgo ascolto l’Adda e la pioggia [....]

Ma leggiamo soprattutto l’inizio della seconda strofa: Forse in quel volo a spirali serrate s’affidava il mio deluso ritorno, l’asprezza, la vinta pietà cristiana [...]

Se non m’inganno, questo tema della « pietà cristiana » riporta ancora alle Notizie, e precisamente alla terza composizione, nel movimento grandioso d’inizio e in quello, oscuro e fantastico,

della chiusa: Questa rissa cristiana che non ha

se non parole d’ombra e di lamento i [...] e tardi usciti a unire la mia veglia al tuo profondo sonno che li riceve, i porcospini DACI . , s'abbeverano a un filo di pietà.

Ma anche il motivo della pietà, come quello del cuore — bisicia poet nel rale cent è —, re unge aggi ad sogna poi affrettarsi liano, ed anzi è un Leitmotiv. Rimane comunque accertato il fascino che le Notizie dalil e uir seg di amo chi Cer . odo sim Qua su ono l’Amiata esercitar e: izi Not le del one izi pos com a ond sec la e apr che movimento E tu seguissi le fragili architetture annerite dal tempo e dal carbone, 405

i cortili il pozzo il volo notturni

quadrati che hanno nel mezzo profondissimo; tu seguissi infagottato degli uccelli [...]

E nella raccolta Giorno dopo giorno saremo tentati di isolare da Forse il cuore due versi: « ma come d’un volo lento d’uccelli / fra vapori di nebbia ». E da Milano, agosto 1943: « Non scavate pozzi nei cortili », per un'immagine che però è sviluppata concettualmente in altra direzione. Dunque, le suggestioni dalle liriche Corro inglese e Notizie dall’Amiata, la prima appartenente al recinto degli Ossi, la seconda alla fenomenologia delle Occasioni, si diffondono con la luce a bagliori di ‘un bengala lungo il vario percorso della lirica quasimodiana. L’incontto giovanile con Montale fu evidentemente un'esperienza di rivelazione. E gli effetti erano così profondi che perdurarono anche negli anni più tardi, quando ormai ombre e incomprensioni erano intervenute a guastare quel rapporto. Nella sezione Dalla Sicilia, in Il falso e vero verde,troviamo per esem-

pio questi versi del Tempio di Zeus ad Agrigento: [...] Che futuro

ci può leggere il pozzo dorico, che memoria? Il secchio lento risale dal fondo e porta erbe e volti appena conosciuti

i quali richiamano facilmente alla memoria quelli montaliani, già citati, di Cigola la carrucola del pozzo. Mentre nella silloge La terra impareggiabile, quindi ancora in area di spiccata sicilianità, abbiamo la sorpresa di leggere in Un'anfora di rame: Che cosa racconta la terra, il fischio dei merli

nascosti nel meriggio affamato

[...]

Qui veramente si entra nell’orto montaliano, nel suo tempo fisico e metafisico, con il meriggio, con gli « schiocchi » dei merli, che nel linguaggio di Quasimodo invece « fischiano ».

Mi fermo a questo punto, stanco di raspare nel terreno di queste poesie come un cane da tartufi. Vittorio Sereni, in un articolo pet la morte di Montale, ha lasciato una testimonianza, 406

su cui occorre riflettere, perché ha un carattere e una verità che non sono soltanto individuali: « Fin dentro gli anni di guerra ci aveva offerto la chiave più naturale per noi, non dirò per leggere nell’universo, ma per affacciarci sull’esistenza che era nostra e viverla: in certi casi, inventarla. Era come se Montale ci avesse tolto la parola di bocca ogni volta che stavamo per pronunciarla »!. In queste pagine più di una volta mi è capitato di parlare di « attraversamenti », di suggestioni che corrono lungo le successive stagioni dell’esperienza lirica di Quasimodo. Orbene, ha scritto una volta Montale a proposito di Gozzano: « Egli fu il primo dei poeti del Novecento che riuscisse (com’era necessario e come probabilmente lo fu anche dopo di lui) ad attra versare D'Annunzio per approdare a un territorio suo, così come, su scala maggiore, Baudelaire aveva attraversato Hugo per gettare le basi di una nuova poesia » ?. Ecco, era necessario nel primo decennio del secolo attraversare D'Annunzio, così come negli anni Trenta sarà necessario attraversare Montale. Ciò in vista proprio dell’unico obiettivo, di « approdare a un territorio suo »: il che indubbiamente avvenne, per Quasimodo come già per Gozzano, anche se in questo saggio, per forza di cose, risulta evidenziato più il matgine di imitazione, nella prospettiva settoriale del rapporto storico, che il margine di originalità il quale, al di fuori di quel rapporto, avrebbe ben altro diritto a prendere campo. L’originalità di una vocazione che doveva esprimersi come la voce lirica di una cultura, nella quale finivano per riconoscersi più generazioni di una terra, sommersa come l’oboe che la cantava. Quel vento del Sud dell’invocazione quasimodiana, che prima ho definito sicilianizzato dal profumo della zagara, mobilitava in realtà antiche energie e deluse speranze: se è vero che al suo soffio ha creduto di rianimarsi anche la bandiera dei separatisti siciliani nel clima politico determinato dallo sbatco delle truppe An to nio int ito ha lat Su o d de l Ve nt ch o e cas o un è no E n alleate. nie nte pr ef az co io n ne 19 45 , ne l usc ito la vo ro suo un Trizzino meno di Finocchiaro Aprile?. Ma tornando al rapporto con lo scrittore ligure, si capisce 21 Sera », 2 5; ora 23 Aprile,

la del re rie Cor « in , eco un' to tan sol va iva arr li Big via In , V., Sereni 15 settembre 1981. E. Montale, Gozzano, dopo trent'anni, in «Lo Smeraldo », 1951, È 62. p. cit., ia, poes a Sull nel volume ro hia occ Fin A. di one uzi rod Int con , Sud del to Ven no, zzi A. Tri Faro, Roma 1945.

407

che la necessità storica di questo « attraversamento » è, al limite, altra cosa rispetto alla congenialità; così come il fitto tessuto delle e o pur to, ola cep dis un di e lar par a zza ori aut non reminiscenze semplice. Se mai, bisogna dire che la forza di Montale sta proprio in questo « catturare » o almeno influenzare anche chi era oggettivamente assai lontano da lui. Per cui lo stesso Vittorini, il quale era sollecitato a stringere i rapporti, nel saggio Arsezio pubblicato su « Circoli » nel 1931 non si nascondeva tuttavia che c’era una linea Ungaretti e Valéry e Mallarmé e Quasimodo; mentre Montale riportava piuttosto alla razza di un Leopardi o di un Baudelaire *. Discutere di razze, e di razze poetiche, è imbarazzante e generico. Ma certo tutti sentiamo che, nonostante

le cospicue intermittenze, Montale e Quasimodo appartengono a due razze diverse. Se vogliamo sapere come Montale « vedesse » Quasimodo, possiamo ricorrere a un documento curioso: una caricatura del 1939”, quando cioè la relazione si era allentata (l’ultima lettera della raccolta curata da S. Grasso è dell’agosto 1938), ma forse non ancora deteriorata: è una caricatura di Quasimodo, esplicitamente identificato col cognome in un alfabeto che pretende di essere greco. Lo scrittore siciliano vi compare con una testa vaga-

mente da capo tribù indiano, già afflitto da calvizie, con i pochi capelli elettrizzati, un naso a becco d’aquila paonazzo, sopra il fornello di una pipa da cui esalano volute di fumo, le quali in cima formano il cognome Montale. In tale eccentrica maniera l’autore degli Ossi firma la caricatura. E vi si potrà annettere un altro significato, forse inconsapevole e certo indimostrabile: maliziosamente, il fumo prodotto da Quasimodo è di marca montaliana. Devo chiudere e, irresistibilmente, mi viene in mente un ricordo di lettura, che mi affascina e che non voglio tacere. Penso alla novella di Turgenev dalle Memorie di un cacciatore che si intitola I cantori. In una bettola del villaggio di Kolotòvka, dove per caso arriva il cacciatore-narratore, si organizza una gara di canto: a confronto si cimentano un appaltatore di Zizdra e il 2% Lettere a Quasimodo, cit., p. 145 e p. 150. 5 È un disegno a matita, appartenente alla collezione Alessandro Quasimodo. È stato pubblicato nel catalogo Quasirzodo a Milano, a cura dell'Ufficio Stampa del Comune di Milano, 1968, p. 43; quindi nel volume di Lettere a Quasimodo, p. 61; infine nel catalogo Mantova per Montale. LE e documenti, a cura di V. Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1983, n. 186.

408

poco più che ventenne, appassionato Jafka Tùrok. Si esibisce prima l’appaltatore, con energia e abilità così da conquistare l’uditorio, ipotecando la vittoria. Segue quindi Ja$ka, timido, con voce melodiosa, e poi sempre più effuso e dimentico, tanto che chi ascolta è penetrato dalla magia di quei suoni, è preda di una struggente commozione, che lascia fragili nell’attesa. Alla fine, è lo stesso rivale, travolto da quella dolcezza, a decretare la vittoria dell’altro e la propria sconfitta, e a fuggire via. Quasimodo, traduttore del suo Virgilio e delle Georgiche, probabilmente

avrebbe preferito il richiamo delle tenzoni agresti tra Coridone e Tirsi, tra Menalca e Dameta; o tra i pastori del siracusano Teocrito. E ciascuno, a seconda dei gusti personali, del proprio condizionamento culturale e geografico, potrà scegliere, e dire chi sia tra i due il prestanome Jaska e chi invece l’appaltatore. Ma il modello dei due personaggi di Turgenev potrà essere di incoraggiamento e di conforto a sopite e a superare vane controversie. È il perdente stesso a impalmare, per primo, il vincitore: e l’oggetto della competizione non è un premio Nobel, né l’alloro poetico, che veramente oggi vale per l’arrosto, ma un umile ottavo di birra. A conclusione della giornata, per i festeggiamenti, tra birra e vodka, saranno

tutti ubriachi:

ma si sa che, come birra

e vodka in quella isba sperduta nella steppa russa, il vino presso noi mediterranei è poesia.

o r t e v o i T l oDi NE| Pra

sr

Andrea

Ciccarelli

QUASIMODO

E DANTE

Nel Discorso sulla poesia (1953), probabilmente il momento più significativo della produzione saggistica di Quasimodo, risulta evidente come l’autore, nel giustificare e delineare il nuovo corso

di certa lirica italiana del dopoguerra, percorra contemporaneamente la nostra tradizione alla ricerca di un archetipo al quale far risalire la scelta realistica di tale poesia. Che l’analisi si soffermi su Dante, può sembrare ovvio, visto che già in uno scritto dell’anno precedente, dedicato interamente all’autore della Commedia, il poeta siciliano aveva fatto idealmente combaciare l’itinerario poetico dell’Alighieri con il suo, per poi prendere le distanze dall’aspetto teologico-medioevale !. Quindi, al di là di un'evidente finalità autobiografica, tendente ad instaurare un parallelismo con le vicende di Dante e il suo tempo, sia sul piano individuale che su quello storico (il passaggio dallo stilnovo-ermetismo al realismo; il magistero di Virgilio e dei classici; l’esilio fisico e morale), si può notare come Quasimodo, nell’assegnare al fiorentino un ruolo di caposcuola, intrecci l’aspetto teorico-speculativo con quello pragmatico-utilitaristico, confondendo il lato pubblico con la scelta privata. Così, 1 S. Quasimodo, Dante (1952), in Il poeta e il politico e altri saggi, Mondadori, Milano 1967, pp. 121-39. Senza entrare nel merito della profondità o meno di certi atteggiamenti critici di Quasimodo, è bene ricordare come questo saggio su Dante vada inscritto nell’ottica contemporanea che ispira la sua interpretazione dei classici. Tutto ciò è evidente tanto nello sforzo speculativo tendente a svincolare l’Alighieri dalla tradizione cristiana, rea di aver offuscato la potenzialità realistica della Commedia a favore di un’esaltazione contenutistico-esistenziale, quanto nella volontà critica di mostrare l’evoluzione dantesca come dipendente per intero dalla lettura dei latini ed in particolare di Virgilio. La convinzione che Dante assuma una funzione di raccordo fra il linguaggio classico e la nostra poesia, mette in moto il meccanismo parallelistico che trova terreno fertile sia sul piano autobiografico che su quello etico-esemplare.

411

con nel ri hie lig l’A del ura fig la are egr int ad ti vol ivi tat i vari ten testo poetico contemporaneo,

avvengono

secondo criteri diversi,

o ad gr del ne io ns re mp co la per idi val no me sto que per non ma d’inserimento di Dante nella teoria letteraria quasimodiana. Anche quando ci troviamo di fronte a delle soluzioni assunte in senso chiaramente quanto pronunciate in una

comparativo, tanto più eclatanti in sede internazionale come quella di

Stoccolma (« Dante [...] accanto alle dolcissime poesie ermetiche della scuola del dolce Stil novo, più tardi aggiungerà, senza tradire la sua integrità morale, la violenza delle invettive umane e politiche, non dettate dall'odio, ma dalla giustizia interna e religiosa in senso universale »)?, la mia attenzione si sofferma non tanto sulla scoperta ingenuità critica, bensì sulla importanza di

questa insistenza del poeta siciliano, che perfino in occasione del ritiro del premio Nobel, àncora l’esemplarità dantesca al proprio ragionamento.

Altrove, come nel saggio monografico scritto nel ’52, l’interesse di Quasimodo per un’interpretazione . attualizzante della poesia del fiorentino, emerge lungo l’intero arco dell’analisi. Dante è messo in luce per il suo realismo etico, depurato dagli atteggiamenti medioevali grazie ad un’aspra confutazione sulla validità del recupero lirico-esistenziale fatto da Eliot. Per Quasimodo, invece, la lezione che Dante può offrire al mondo contemporaneo, è racchiusa nel linguaggio: « Oggi, nel silenzio della poesia italiana, nell’arte “ male appresa ”’ degli imitatoti, un ritorno alla parola realistica di Dante allontanerà lo sfocato, barocco pettarchismo. Dal sentimento dovrà nascere la figura, dalle analogie il rilievo d’immagini forti » 3. Allo stesso modo, circa un anno dopo, il richiamo all’Alighieri fa parte integrante dell'economia espositiva del Discorso 2 Id., Il poeta e il politico (1953), in op. cit., p. 68. In questo intervento Quasimodo ci dà la misura dell’ambivalenza del suo dantismo, diviso fra l'esaltazione dei valori etici del realismo dantesco ed il rifiuto dell’aspetto teologico ed elegiaco della sua opera. Aspetto, quest’ultimo, che non solo contrasta con il « semplice stile » che, se recuperato, può offrire la possibilità di rinnovare lo stantìo litismo italiano, ma addirittura è esso stesso

iniziatore,

indirettamente,

di questo

stesso

filone

lirico-esistenziale

così favorevole alla cultura voluta dall’ordinamento politico (inteso anche come istituzione religiosa). È la posizione medievale del fiorentino ad imporre a Quasimodo una tale drastica risoluzione: lo stesso poeta celebrato come campione dell’integrità morale, sa essere, suo malgrado, anche il campione della parte avversa. 3 Id., Dante, cit., p. 139.

412

sulla poesia: « E non è solo in una direzione che, oggi, possiamo leggere Dante per dimenticare Petrarca e le sue ossessive cadenze [...]. La poesia sociale di Dante, il suo al di là, infine, nel paesaggio della terra, suscita ancora dei dubbi o può essere il punto legale di partenza per i nuovi poeti? » *. Le analogie fra i due brani, siglati dall’aspra prosa quasimodiana, mostrano un grado d’assimilazione che incrocia il livello formale con quello contenutistico: dall’esortazione per la concretezza della « parola realistica » di Dante, si passa ad una vera e propria cristallizzazione di questo stile, che l’anno successivo diventa « poesia sociale ». | L’ampliamento tematico, inevitabile dato il respiro militante del secondo intervento, è ulteriormente accresciuto dall’identità del riferimento temporale. Questo richiamarsi al contingente sottolinea l’urgenza della indicazione, inserendola in quell’orbita ove si intrecciano le esigenze comuni suscitate dall’orrore bellico e la singola sensibilità poetica che riempie il vuoto sociale e culturale creato dalla guerra, ispirandosi ad una visione personale. Di qui il duplice ruolo di Dante, meta di una segreta ricerca tesa a colmare quel vuoto lirico verificatosi e, allo stesso tempo, suggeritore di una situazione poetico-esistenziale rispondente alle più ampie esigenze della collettività. Se non si vuole restare impigliati nell’ambito della polemica sviluppatasi sulla retoricità o meno del ruolo svolto da Quasimodo dopo le Nuove poesie, non si può prescindere da queste considerazioni. Il clima critico e l’innegabile posizione apologetica alimentata dall’autore, hanno contribuito a soffocare qualsiasi tentativo volto a verificare le concrete basi di questo dantismo, riducendo tutto ad un’analisi dei meccanismi interpretativi dell'avvicinamento all’Alighieri. Al contrario, in questa sede, non si vuole analizzare il processo critico che spinge il poeta siciliano a fissare il binomio arca Petr lo quel a ione osiz rapp cont in e real del Dante-linguaggio linguaggio lirico, tutt'al più ci si può chiedere come mai, al di là di ione lgaz divu la per to opta a abbi odo sim Qua , noti dei motivi re auto all’ lire risa far e vuol e può che iche uist ling icotecn te scel della Commedia. ido rap un con re, ica ind di llo que o pri pro è o ent int Il mio sto que di i tic lis sti e i gic olo ide ti pos sup pre i no sia li qua excursus, 4 Id., Discorso

sulla poesia (1953), in op. cit., pp. 44-45.

413

ool ap vi ti mo i do an ci as al tr , ra er gu po do l de mo is nt proclamato da le ra mo oci so o tt pe as l’ o on lg vo in co e ch ci fi getici e/o autobiogra del contatto con Dante. Dunque, più che insistere all’interno della visione « milirater sot e nt Da « di ne zio ini def la are ine tol sot ne vie con tante »,

°. ’52 del nto rve nte l’i nel re uto l’a a ell app si le qua a all », neo Attraverso questa « sotterraneità », che si esprime in bilico fra il riecheggiamento lessicale ed il tentativo di integrare la lire risa di e car cer può si a, tic poe a pti pro la nel ca tes dan ura fig a quei punti chiave della teoria letteraria di Quasimodo, non ultima la sua insistenza sulla continuità delle proprie forme poetiche. D'altronde, lo scoperto parallelismo, unito alla sua interpretazione del « viaggio della memoria » dantesca tutta in funzione delle esigenze contemporanee, invita a muoversi proprio in questa direzione. (Questa strada, ci offre, inoltre, la possibilità

di verificare se lo spostamento dell’asse lirico-purgatoriale verso quello infernal-pettoso, coincide, più o meno marcatamente, con l'ampliamento della sua polemica realistica.) La lettura di Acque e terre offre non pochi spunti di un dantismo piuttosto diffuso, anche se convenzionale, come ad esempio in Fresca Marina, dove si registrano i termini « luce » e « suono » che, dato anche il contesto, «e ogni cielo è pausa in cui mi perdo », sembrano suggeriti dalla tradizione sulla scia della III cantica. « Mai ti vinse notte così chiara », al di là del palese richiamo leopardiano, mostra uno sfruttamento abbastanza consistente di

una immagine della Comzzedia, come spunto che poi risulta essere antifrastico: « Mai ti vinse notte così chiara / se t’apri al riso e par che tutta tocchi / d’astri una scala / che scese in sogno rotando / a pormi dietro nel tempo ». L’occhio di Quasimodo,

oltre che direttamente

sull’episodio

5 Le difficoltà che Quasimodo riscontra nell’individuare tracce della presenza di Dante nella letteratura contemporanea, sono radicate nell’impossibilità di rendere attuale la lezione dell’Alighieri senza distorcerne il significato storico. Con la creazione della formula del « Dante sotterraneo », Quasimodo, apre l’unica strada possibile per assimilare l'insegnamento dantesco senza dover fare i conti con la sua inattuale cosmologia. D'altronde, quella della « sotterraneità », pare la sola maniera, come afferma Carlo Bo, per verificare « quale sia il debito dei nostri poeti del Novecento verso Dante ». (Dante e la poesia italiana contemporanea, Terzo Programma, RREBIIOGE PLS

414

biblico del sogno di Giacobbe, (« Vidit in somnis scalam [...] angelos quoque Dei ascendentes et descendentes per eam »), ritengo si sia posato sul XXI del Paradiso, dove appare a Dante la scala d’oro che lo porterà nell’Empireo. Questa convinzione è rafforzata da quell’accenno al « riso » che prima doveva mancare («se t’apri al [...] ») e che rinvia all’inizio del canto, quando Beatrice spiega a Dante come abbia cessato di ridere per non frastornare i sensi del pellegrino. E forse il contatto continua nella seconda strofa, dove la memoria riscopre Dio come « centro d’ogni cosa » (fra le varianti, il verso suona

ancor più esplicitamente,

« centro

motore

d’ogni cosa »),

ponendolo in un probabile contrasto comparativo con la fissità e la centralità di quell’Empireo a cui si accede proprio per mezzo della scala apparsa prima a Giacobbe e poi a Dante. Sempre in Acque e terre, altri contatti si scoprono frugando tra le righe delle poesie non ripubblicate nelle edizioni successive a quella originaria. In Convegno, i versi « né quale sole / m’arse il volto e le palpebre », rimandano oltre che al « cotto aspetto » di Brunetto Latini, ad un endecasillabo del Paradiso: « però che ’1 sol che v’allumò e arse » (XV, 76); in Adolescenza il modo caro a Dante

per esprimere il senso fisico della paura: « ch’ella mi fa tremar le vene i polsi », ritorna nel verso: « accostava paure al batter delle vene »; invece, un’assonanza stilistico-semantica sembra esserci tra un verso di Chiarità, « tu mi rinnovi il mio male antico » ed il «Tu vuo’ ch'io rinovelli / disperato dolor », del conte Ugolino. Procedendo rapidamente in questa carrellata, sia in Oboe

sommerso che in Erato e Apòllion, si rittovano i motivi della « luce » e del « suono », quasi sempre posti in contrapposizione fra loro: così in Airone morto, oltre al termine purgatoriale « limo », è significativo il verso: «io mi divoro in luce e suono »; mentre In luce di cieli, il verso « Ma posso amare tutto due i e unisc », vento di ra teneb in e cieli di luce in / della terra

strutdella ti oppos poli i tano deno a zedi Comz nella che ni termi tura (buio-luce). ra mb se , ili van gio sie poe le nel e luc e o bui sto tra con in 6 Questo porre Il e. od im as Qu lge nvo sco che e ual rit spi tà ali ttu fli con a corrispondere all poe o ell liv a ura fig con si , ane sti cri ure utt str le con to por problematico rap il e nt me va ti ga ne re ica car nel a enz ist ins sta que di o zz me tico, anche per », o im «l e min ter il o pi em es (ad za vez sal la del lessico tratto dalle cantiche

415

Nelle Nuove poesie, si riscontrano echi del canto d’Ulisse in Che vuoi pastore d’aria?: « Ed è ancora il richiamo dell’antico / corno dei pastori aspro sui fossati / [...] O da che terra il soffio / di vento prigioniero, rompe e fa eco / nella luce che già crolla? ». A parte la terminologia (antico, corno, crolla), quel « soffio di vento prigioniero » che « rompe e fa eco », riporta alla rappresentazione dello sforzo materiale con cui le anime dei fraudolenti emettono faticosamente «i loro suoni: « pur come quella cui vento affatica [...] gittò voce di fuori » (Irf., XXVI, 87-90).

Sempre nella raccolta che racchiude il segreto dell’evoluzione stilistica dell'autore, Ride la gazza, nera sugli aranci ci offre la possibilità di verificare come determinate soluzioni stilistiche, seguendo un certo filo conduttore, si possano far risalire a Dante. Infatti i versi: « Già l’airone s’avanza verso l’acqua / e fiuta lento il fango fra -le spine », apparentemente mostrano un ipotetico contatto dantesco, solo per il termine « fango »; in realtà, ci troviamo di fronte ad una costruzione piuttosto diffusa nella Commedia e che consiste non solo nell’anticipare l’immagine con l’avverbio temporale (« Già [...] s’avanza »), ma soprattutto nel rallentare il verso grazie all’utilizzazione di parole bisillabe legate dalla congiunzione e. Si legga, in proposito, quanto dice Quasimodo nel saggio del ’57 sull’episodio di Brunetto Latini: « La sollecitazione della voce interna alle immagini della lentezza è compiuta con PAROLE BISILLABE, dove la e insiste, tonica o no, in un verso che ha accenti ritmici sulla quarta, sesta, ottava, decima: un famoso rallentato, ripetuto, per identità tonale, dalla

nostta tradizione » 7. Queste parole, oltre a confermare una lunga attenzione per la tecnica e la metrica dell’endecasillabo dantesco (gli accenti, nel

secondo dei versi citati, cadono proprio nelle sedi indicate come artificio del « rallentato »), ci sottolineano come nella marcia verso il dialogo, Quasimodo tenga conto anche della molteplice esperienza di Dante.

Per quanto riguarda i componimenti scritti durante la guerra, data la frequenza di determinate voci aspre e, soprattutto, vista in Airone morto, evoca un'immagine desolata e non certo la tranquilla « isoletta » putgatoriale). 7? S. Quasimodo, Brunetto Latini (1957), in op. cit., p. 153.

416

la direzione programmatica che, nella sua saggistica, acquista la figura dell’Alighieri, mi limiterò a citare quei casi che consentano di individuare, cominciando da Giorno dopo giorno, l’entità del ‘debito stilistico-tematico contratto da Quasimodo nei confronti della poesia infernal-petrosa. Così, ad esempio, 19 gennaio 1944, in un alternarsi di stile sostenuto e di linguaggio diretto, per il verso « cani che urlano dagli orti » rimanda al dantesco «urlar li fa la pioggia come cani » (Inf., VI, 19).

Anche Neve, nell’incipit, tradisce un’eco della Commedia: Scende la sera: ancora ci lasciate

Lo giorno se n’andava e l’aere [bruno toglieva li animali che sono in [terra da le fatiche loro [...] (Inf. II, 1-3)

immagini care della terra, alberi, animali,

[...]

Di nuovo echi della I cantica, con riferimento alla forma concentrica dei gironi infernali ed al fumoso « aere maligno », risaltano in Dalla rocca di Bergamo alta: « eri nel cerchio ormai di breve raggio: / e tacquero l’antilope e l’airone / petsi in un soffio di fumo maligno ». Un altro raffronto è possibile per Traghetto, dove l’immagine dei cani che braccano la preda, « i cani avidi si lanciano / verso il fiume sulle peste odorose », ha forse, risentito dei versi del canto di Pier della Vigna: « Di retro a lor era la selva piena / di nere cagne, bramose e correnti » (Inf., XIII, 124-125).

Nelle raccolte che seguono, il rapporto con Dante procede alternativamente tra l’aspetto realistico, che fa capo alla cosiddetta « stagione civile », e una dimensione meno vistosa, nella quale confluiscono suggerimenti che finiscono per accentrartsi nella polemica di Quasimodo verso la cultura cristiana. Vocaboli e sintagmi riecheggianti l'atmosfera infernale, ritorstile di one lezi icua prof una di spie li vigi e com olta nano talv « aspro »:

ira, sangue,

arche, pietra,

furie, lamenti,

fanghiglia

bollente ecc. In quest’itinerario mi sembra indispensabile citare Colore di gvia del a tem il e dov no, sog è non vita La de pioggia e di ferro dtra con che ali mor e ci fisi i ent tim sen i o ers rav att da gio si sno tusoli io enz sil te mor : evi Dic « co: tes dan do mon il distinguono

417

dine / come amore, vita. Parole / delle nostre provvisorie immapo tem il e / a tin mat i ogn o ger leg ato lev s'è to ven il E / i. gin tro nos sul , tre pie le sul o sat pas è / ro fer di e a ggi pio colore di chiuso ronzio di maledetti. / Ancora la verità è lontana ». La difficoltà morale di Quasimodo è tutta rinchiusa nel modo in cui recupera la tematica infernale: la situazione oggettuale anche in lui non può essere modificata dall’io, ma le motivazioni soggettive operano in condizioni essenzialmente diverse. Se la ricerca dantesca si basa su una libera scelta, pur se unica e necessaria secondo il suo sistema teologico, l’uomo di Quasi-

modo, invece, si vede negata questa possibilità: la ricerca di una via di salvezza, suo malgrado, diviene impellente quando si accorge di vivere già nell’inferno. La lirica, divisibile in due strofe di sette versi che rispondono ad esigenze dapprima descrittive di uno stato di pena fisica e poi di una condizione di pena morale, nella sua prima parte svolge le pieghe della memoria attraverso una serie di precisi riscontri infernali: si può raffrontare il verso « E il vento s’è levato leggero » con il famoso verso 75 del canto di Paolo e Francesca, « E paion sì al vento esser leggieri »; il « tempo colore di pioggia e di ferro » con le piogge di fango e di fuoco che puniscono nell'oscurità i golosi ed i sodomiti; infine si può verificare l’affinità tra il « chiuso ronzio di maledetti » e lo stato senza speranza dei dannati danteschi. Peraltro, il ricordo è sottolineato semanticamente dal verbo, che dall’imperfetto iniziale « dicevi », va al passato prossimo del quatto e sesto verso, quasi avvicinando nel

tempo il disagio fisico a quello etico, che è espressione spontanea del presente: « Ancora la verità è lontana ». In una stessa poesia, perciò, ci troviamo di fronte all’intersecarsi dei dubbi e delle certezze del dantismo quasimodiano: lo spunto realistico, d’immagine, come spinta morale, aggravata, però, dal suo limite ideologico medioevale. Da Il falso e vero verde in poi, l’aspetto più vistoso, quello della linea infernal-petrosa, trova i suoi momenti maggiori nella cruda

descrittività,

oppure

in poesie

come

Auschwitz,

dove

si

realizza l'equazione vita=inferno, (« Da quell’inferno aperto da una scritta / bianca: “ Il lavoro vi renderà liberi ’” / uscì di continuo il fumo [....] »), per arrivare, nell’ultima raccolta, in Solo che amore ti colpisca, ad una insistita dipendenza stilistico-tematica dalle Rizze per la « donna petra », soprattutto per l’accostamento con la materialità e la ferinità del sentimento amoroso. (Ed il 418

contatto, qui, si trasferisce direttamente sul piano polemico, visto che Quasimodo effettua una comparazione tra la rottura com-

piuta da Dante verso la precedente produzione stilnovistica e la propria maturazione nei confronti dell’ermetismo.) Gli esempi sin qui citati, se danno una consistenza stilistica del dantismo militante e no di Quasimodo, non si ricollegano però, a prima vista, con quell’aspetto « sotterraneo » in cui sono

radicati i presupposti ideologici che soggiacciono alla rinnovata dimensione spirituale del dopoguerra e che si snodano attraverso quell’arricchimento culturale e morale determinato dai « lunghi anni di riflessione » maturati sui classici e dall’esperienza vissuta durante il quinquennio bellico. Questi due fattori convergono nella sensibilità di Quasimodo come un unico impulso, voluto e subìto, interagendo fra loro fino a diventare conseguenziali

l'uno dell’altro. La scoperta più sconvolgente pet lui è il linguaggio « concreto », visivo e diretto, dei grandi dell’antichità. Novità questa, che si sposa immediatamente con la situazione spirituale che gli propone la brutalità della guerra: la volontà di comunicare agli altri quella esperienza gli viene offerta da questo linguaggio. La lettura dei lirici greci, di Virgilio, di Catullo, di Omero, di Eschilo, imprime in lui questo nuovo modo di intendere la poesia. Tra questi nomi, però, mettiamo senz’altro in evidenza quello di Virgilio, e non solo perché Quasimodo ha sempre mostrato una predilezione per il maestro di Dante, ma soprattutto perché la sua assimilazione virgiliana procede di pari passo con l’evolversi della sua interpretazione dantesca. Infatti, è l'indispensabile magistero dell’autore dell’Ezeide che gli consente di creare un parallelismo tra sé e l’Alighieri. Dice Quasimodo a proposito del poeta latino in uno scritto del ’45: « la lezione di Virgilio mi condusse al discorso, a una misura di oggettivazione, alla quale forse non sarei arrivato se non con la

privazione del canto » *. Così per Dante nel saggio del ’52: « Vir, reale del a quell a ria memo della ca poeti dalla gilio lo sposta a donn alla o salut dal a, etezz concr alla ione allus dall’ ti; degli ogget cortese all’invettiva »?. no tra cen con si to, ola cep dis ne mu co di to en im nt se In questo è

. 109 p. ., cit op. in , 45) (19 ci ssi cla dai ni io uz ad 8 Id., Tr 21 211201952) 8cit, Sp eB133:

419

tutti quei fermenti autobiografici e no, che lo porteranno ad un continuo ed aspro raffronto storico-culturale tra la crisi della apar com le qui (di o tin ren fio ta poe del lla que e ca epo a pri pro zioni fra l'esaurimento culturale dello stilnovo e quello dell’ermetismo). Se il collegamento teorico con Dante avviene tramite la mediazione del maestro comune,

evidentemente

l’interesse di Qua-

simodo per un particolare uso delle fonti dantesche si baserà su criteri tematici che devono pur avere una loro autonomia ispirativa. Emblematico è l’esempio di Dialogo (La vita non è sogno), in cui si assiste ad un intreccio di temi e modi virgiliani, amalgamati da un lessico aspramente infernale. Lo spunto iniziale del mito di Orfeo, tratto direttamente dal IV libro delle Georgiche, « At cantu commotae Erebi de sedibus imis / umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum », è su-

bito invischiato in un contesto dettato dalla coscienza della memoria bellica che elimina qualsiasi tonalità lieve: « Siamo sporchi di guerra e Orfeo brulica / di insetti è bucato dai pidocchi / e tu sei morta ». Ci troviamo, dunque, in una sfera contrapposta all'immagine iniziale: la poesia aulica, rappresentata dal canto di Orfeo, è concretata da un linguaggio ben più consistente nella sua crudezza, rispetto alla fonte originaria: ghiaccio, acqua, aria di tempesta, furia, sangue, scorze, sono tutti termini che rinviano

alla condizione dell’inferno dantesco. Così, più sotto, i versi: altri già affondavano nel fango avevano le mani, gli occhi disfatti urlavano misericordia e amore [...]

fanno pensare molto più al fargo ribollente dello Stige della Commedia (« Vidi genti fangose in quel pantano / ignude tutte e con sembiante offeso ») che non a quello inesorabile ma docile,

visitato da Orfeo. Dunque, se il mitico cantore si reca nella stessa palude attraversata dal Dante personaggio, è però quest’ultimo evento che penetra con maggiore adesione nell’animo dell’uomo che è appena uscito dalla guerra: lo spunto virgiliano, nella sua doppia veste di sfida agli inferi e di lirica che tenta di vincere la morte, viene filtrato attraverso le maglie della rete linguistica dantesca ed è reso attuale per l’intersecarsi di questi due piani: «la poesia pura 420

non può resistere al fuoco di un inferno reale e si traduce in un linguaggio adatto a raccontare anche oggettivamente il dolore e la sofferenza. Siamo di fronte, perciò, alla confluenza dei due fattori posti alla base del rinnovamento spirituale di Quasimodo: oltre a fare da tratto d’unione, l’intromissione della tematica bellica gli consente di svincolare e di sviluppare il proprio dantismo, in una direzione che diventa prioritaria e necessaria, rispetto al ruolo svolto da Virgilio. Quindi, se il poeta latino è il punto cootdinante tra i due, perché insegna ad entrambi a « distinguere l’avido ribollire dei sentimenti », è altresì vero che Dante, facendo propria questa lezione, l’ha spinta giù fino a trovare il limite estremo di questo ribollire dei sentimenti, offrendo una condizione poetico-esistenziale (dettata dalla memoria che rerde attivo il ricordo attraverso il racconto) che si colloca perfettamente nell’asse portante della poetica quasimodiana di questo periodo. Ma, se lo spunto iniziale è proseguito su binari lessicali cati a Dante, nondimeno l’esortazione finale intreccia di nuovo il rapporto tra i due poeti antichi: E tu sporco ancora di guerra, Orfeo, come

il tuo cavallo, senza

la sferza,

alza il capo, non trema più la terra: urla d’amore vinci se vuoi il mondo.

Viene in mente nel XXIV canto impaurito:

il famoso

dell’Inferzo

incitamento (versi 52-54),

che Virgilio rivolge al viator stanco

ed

E però leva su: vinci l’ambascia con l’animo che vince ogni battaglia, se col suo grave corpo non s’accascia.

pro ra mb se o od im as Qu che , ue nq mu co co, ati tem no È sul pia una ta uis acq o fe Or o: str mae suo dal che e nt Da da cedere più

o odi pis l’e dal o ert off to ica nif sig il ca val sca che valenza simbolica gvia di a, erc ric di ea lin lla que su i ars loc col delle Georgiche, per nza rie spe l'e nel si zar liz rea a o fin ea En da ai mm se gio, che procede e all no do on sp ri che ati not con i que con e, val ioe med del pellegrino . ra er gu po do del ve ti ca ni mu co ze gen esi 421

Infatti, si crea un immediato parallelo tra l’Orfeo « sporco lo del go fan sul ma pri to det nto qua a a ort rip di guerra » (che io agg son per te Dan del e ual rit spi e ca fisi e ion diz con la Stige) e che, con i segni della lotta sul volto, pone fine al suo esilio morale uscendo a « riveder le stelle ». Dunque, Quasimodo ha appreso sul testo di Virgilio la lezione per passare dal monologo al dialogo, ma ha trovato nel suggerimento etico-linguistico di Dante la strada per reincarnare le stesse ombre virgiliane, inserendole nella sua ottica realistica e contribuendo ad alimentare quel sentimento di ricerca, frammisto alla speranza, per una migliore dimensione umana e morale. Questo è solo un aspetto, quello più diretto, del rapporto che intercorre tra la diade Virgilio-Dante e il nostro autore; perché, ad esempio, nella poesia A/ padre de La terra impareggiabile, si assiste di nuovo alla prioritaria presenza virgiliana, svolta, però, tutta nel senso dantesco di figura paterna che guida il poeta attraverso l’esperienza infernale del terremoto di Messina: « La tua pazienza / triste, delicata, ci rubò la. paura / fu lezione di giorni uniti alla morte / tradita, al vilipendio dei ladroni / presi fra i rottami e giustiziati al buio / dalla fucileria degli sbarchi, un conto / di numeri bassi che tornava esatto, / concentrico, un bilancio di vita futura ». La funzione guida del padre-Virgilio, sovrasta la desolata descrizione che si lega vistosamente ad aspetti infernali, rinforzandone così la derivazione dantesca: la paura che si stempera grazie alla sua presenza; il parallelo ladroni/dannat - fucilieri /diai voli, vittime gli uni, esecutori gli altri di una ‘giustizia’ al di sopra delle loro volontà; l’esperienza che procede in modo « esatto e concentrico » ripetendo, così, la materialità del tragitto di Dante; infine, quel « bilancio di vita futura », che chiude la strofa e tra-

sforma tutto in lezione, da ripercorrere attraverso

la memotia.

Le varie sfaccettature tematiche mostrate da queste due poesie, rientrano senz’altro in un dantismo convenzionale, che si rifà ai diffusi motivi dell’esilio e del viaggio. Nel caso di Quasimodo però, questa convenzionalità è riportabile ad una precisa dimensione personale, tanto più significa tiva quanto più lontana da ogni sfruttamento polemico-realistico. Così, rileggendo Vento a Tindari, ci si accorge che nel toccare il tema dell’esilio, affiorano dei contatti non casuali: « Aspro è l’esilio [...] e ogni amore è schermo alla tristezza, / tacito 422

passo nel buio / dove mi hai posto amaro pane a rompere ». È l’aggettivo che definisce la situazione, « aspro », fin troppo noto come sinonimo di un certo linguaggio dantesco, ad acuire la mia curiosità. Ma sono i versi successivi che confermano un dantismo di fondo, non come fantasma di un illustre precedente letterario, ma come presenza attiva e stimolante: il verso « ogni amore è schermo alla tristezza » rinvia a quel capitolo della Vita nuova dove avviene la nascita del finto amore per la « donna schermo della veritade »; il « tacito passo nel buio » riporta alla incerta e buia condizione esistenziale che circonda il viator durante il viaggio infernale; il riferimento al pane, poi, in un contesto permeato dalla costrizione dell’esilio, non può che richiamare la profezia di Cacciaguida. Inoltre, nella lettura delle varianti si pone in evidenza il termine « petrosa », (« fra gente petrosa ai sogni ») che si ricollega immediatamente a quanto detto

per « aspro ». Sempre in Acque e terre, spunta un’altra analogia con il tema del viaggio nella poesia I ritorni: «e ripartivo, chiuso nella riotte / come uno che tema all’alba di restare ». Anche se entriamo in un campo che coinvolge un po’ l’intero

movimento fin troppo particolare, suo senso

ermetico ‘, non posso fare a meno di evidenziare il scoperto richiamo all’opposizione buio-luce e, più in alla situazione iniziale del viaggio di Dante con il di smarrimento [e si noti la concomitanza dell’alba:

« Temp’era dal principio del mattino » (Irf., I, 37)]. Questa stessa lirica, per il topos del viandante e dell’esilio si ricollega, inoltre, ad A we pellegrino di Giorno dopo giorno e non solo

per le tematiche, ma anche per l'ambientazione che in entrambi i casi si rifà ad una piazza deserta (« Ecco ritorno nella quieta piazza »). Ma, mentre nella poesia giovanile la notturna Piazza Navona, dalla quale scaturiscono i ricordi di una Sicilia naturalistica, è deserta perché il poeta è « in cerca della quiete » ed il 10 Si legga in proposito quanto sostiene Bigongiari in un saggio sui il e [...] orso disc «Il : tico erme nto ime mov il ed eri rapporti tra l’Alighi sono , iale tenz esis e ion diz con a ca gori alle ta pos pro da senso del viaggio, ciacons o men o più nto atti ha mo tis rme l’e cui a di fon pro mpi stati gli ese ura erat lett a nell e. Dant , VV. AA. in te, Dan e mo tis rme L’e (Da mente ». e fatt pur a, vist ma pri A . 204) p. , 1979 a Rom italiana del ‘900, Bonacci, Jimi , odo sim Qua , iche poet ità onal pers le dovute differenze fra le singole erme i poet i altr con re ide div con di tra mos gio, viag del a tatamente al tem la quel da e, ent cam eti e, imil diss non iale tenz esis rca rice tici l’ansia di una dantesca.

423

peregrinare è sì uno sbocco necessario, ma soprattutto volontario dell’uomo che si sente esule, invece, nel componimento più recente la quiete e la solitudine sono elementi già intrinseci della piazza. E questo perché tra il ricordo (dove forse spunta un’eco del saluto negato da Beatrice: « Non sei più qui non più il tuo saluto / giunge a me pellegrino ») e l’esilio, si è inserita l’azione oggettiva e drammatica della guerra che, con l’annullamento del mito, spinge necessariamente l’autore sulla strada di una ricerca. Quindi, anche a distanza di anni, Quasimodo ha mantenuto questo tema del viafor che lo continua a porre in rapporto con

Dante, pur avendo spostato il piano di contatto da una memoria eternizzante, evocativa, ad una memoria integrata nel presente e che anzi, con la sua rappresentazione, contribuisce a mettere me-

glio a fuoco la realtà, sebbene questa operazione non riesca a risolvere la conflittualità spirituale dell’autore. Desidero aggiungere soltanto che, se l'inserimento di Dante nella poetica del dopoguerra si manifesta sotto l’aspetto di una integrazione (e così parrebbe dai Discorsi sulla poesia), allora le

coordinate del dantismo quasimodiano, affondando le radici in periodi esenti da sospetti funzional-realistici, aggiungono, se ce ne fosse bisogno, un tassello alla teoria che si basa sulla evoluzione e non sulla frattura dell'itinerario poetico di Salvatore Quasimodo.

Francesco

D'Episcopo

L'ESTATE DEI MITI: QUASIMODO OLTRE FOSCOLO

Nessuna cosa muore, che in me non viva. s. quasiMmoDno,

Sezze

La conoscenza di Foscolo da parte di Quasimodo non è, come nel caso di altri poeti ermetici !, segreta ma scoperta ?. Essa non ha bisogno di essere, per così dire, divinata, essendo non solo dichiarata, ma anche e soprattutto documentata. È necessario tuttavia puntualizzare come Quasimodo non abbia dedicato un intervento specifico all’opera di Foscolo. I riferimenti al poeta didimeo sono indiretti, estrapolabili da momenti particolari della sua produzione critica. Altrettanto sembra potersi dire, e in una fase di più impervio impatto testuale, dell’incontro tra Quasimodo e Foscolo sul piano più propriamente poetico. Questo intervento, dunque: per rintracciare, con la maggiore completezza possibile, la convergente geografia umana e intellettuale dei due compagni di strada (meglio, di mare); ma anche per ridisegnare la mappa comparativa di un processo poetico, che, se poggia su una comune semiologia

e

simbologia,

acquista

ovviamente

connotazioni

e

valenze diverse. Foscolo è, senza dubbio, uno degli autori-guida dell’esperienza 1 È il caso, ad esempio, di Alfonso Gatto, sul cui intenso rapporto con il poeta ottocentesco sia consentito rinviare a F. D’Episcopo, La teurgia ermetica: la provocazione gattiana, in Civiltà della parola, vol. Il: L’eredità del Rinascimento. La scoperta della fantasia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1984, pp. 65-88. 2 Gli interventi più recenti e specifici sul rapporto Quasimodo-Foscolo sono di G. Paparelli, Foscolo e Quasimodo, in AA.VV., Foscolo e la cultura meridionale (Atti del Convegno Foscoliano, Napoli 29-30 marzo 1979), a cura di M. Santoro, Società Editrice Napoletana, Napoli 1980, pp. 28286; di O. Macrî, Quasimodo e la poesia assicuratrice di gloria; Generazione montaliana. Betocchi. Quasimodo, in Il Foscolo negli scrittori italiani del Novecento. Con una conclusione sul metodo comparatistico e una appendice di aggiunte al « Manzoni iberico », Longo, Ravenna 1980, pp. 13-14; 95-96.

425

o con uis tit cos ri olc Sep I »?. co gre ulo sic « del a an um e poetica e. ual ett ell int ne io az rm fo sua la del ro sac e, dir ì un testo, per cos som si qua *, oce tov sot a ci un on pr la rne ndi sca ito sol era Il poeta messo breviario quotidiano di saggezza e di inquietudine. Ma di o od im as Qu a ian col fos o) sol non (e a tic poe a per l’o ta tut una

conoscenza

attenta

mostra

e amorosa.

Trovandosi in Inghilterra, egli sentì naturale il bisogno di rendere omaggio a quella tomba del cimitero di Chiswick, che ospitò le spoglie foscoliane prima che fossero restituite a quel sacrario fiorentino che proprio I Sepolcri avevano reso immortale. Ecco come viene efficacemente raccontata la visita da una sua sensibile accompagnatrice: Sostiamo con Quasimodo nel Messico o in Irlanda, ad Harlem o in Norvegia, e nel quadrato del cimitero di Chiswick dove eravamo andati nel ’63, insieme col professor Donini, da Londra. L’auto ci depositò sulla soglia di una chiesa nel villaggio di Turnham Green,

la via faceva una curva lungo il Tamigi e la giornata aveva nodi di piombo, i gabbiani volavano bassi risalendola “corrente. Salvatore Quasimodo entrò nel cimitero di Chiswick col passo ondeggiante, da uomo di mare, e vidi che la mano gli saliva istintivamente alla tesa del cappello quasi volesse scoprirsi il capo. Riconobbe di lontano, pur senza averla mai vista, l’arca che aveva contenuto il corpo di Ugo Foscolo per alcuni anni dopo la morte, la pietra dove si era consumata la materia eroica dell’esilio del poeta di Zacinto. Salvatore ammirò a lungo la tomba e disse che non aveva mai visto un sarcofago più degno per un poeta e un luogo più adatto al suo riposo. L'erba intorno, nonostante l'inverno, era verde, le lapidi affioravano modeste tra cespugli di rose, il muro grigio della chiesa si alzava protettore e identico al tempo foscoliano sebbene fosse trascorso oltre un secolo dalla scomparsa dell’autore dei Sepolcri. Quasimodo era commosso, i suoi occhi si riempirono di lacrime quando lesse l’iscrizione tombale incisa sull’arca. Approvava la volontà degli inglesi di conservare — anche dopo che le ossa erano state trasferite in Italia in Santa Croce — il monumento che ricordava la « pausa » nel camposanto britannico, durata quasi mezzo secolo. Si aggirava intorno all’arca (intanto il cielo grigio aveva lasciato cadere un raggio di sole debole) e ne accarezzava la superficie granulosa con un gesto di affetto concreto verso l’uomo che lì dentro aveva con-

3 È la nota definizione che di se stesso S. Quasimodo dà in Micene (cfr. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1965, p. 224). 4 Cfr. C. Ferrari, Una donna e Quasimodo, Ferro, Milano 1970, p. 85.

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cluso l’amore per la vita, l’uragano di passioni e il coraggio politico e civile. Il poeta siciliano era lì, in devoto pellegrinaggio alla tomba del grande lirico, così come il Foscolo aveva fatto davanti alle tombe in Santa Croce. Salvatore disse poi che il piccolo monumento foscoliano, in un angolo della basilica fiorentina, non eta pari al rispettoso omaggio che gli inglesi avevano rivolto allo straniero infelice, morto in miseria sulle rive del Tames. E fu quel viaggio a Londra, la visita a Turnham Green, i suoni meccanici e industriali « difesi » dal rumore delle acque del fiume, le voci che uscivano dai pubs del villaggio, gli echi di una giornata periferica ancora legati a una civiltà artigiana (« un vecchio picchia con un martello su una tavola » — metronomo leopardiano) che gli ispirarono un « carme » per il fratello in poesia, quasi per sanzionare un rendiconto della propria sventura in patria. Le stagioni, nel « recinto verde di morti », erano transitate sulla fronte del Foscolo, sdraiato nel sarcofago, trascinando cieli a specchio o lividi, ali di foglie e di insetti, mormorio di preghiere e di pioggia. Un'altra morte, la sua, quella di Salvatore Quasimodo, odiato e tradito, esiliato e confuso, amato e onorato, al quale era stata risparmiata almeno la spirale soffocante della fame e della miseria che aveva umiliato alla fine il lirico delle Grazie, era tracciata sul grafico del futuro 5.

Questo gesto di sodalità, che grazie alla poesia valica i confini della morte e della vita, è lo spontaneo tributo che il poeta novecentesco dedica al collega di un secolo innanzi: segno di affabile continuità e di quotidiana vitalità della poesia, che proprio il carme a Ippolito Pindemonte aveva contribuito a scolpire. L’idea dell’esilio si incide d’altro canto nella coscienza del poeta novecentesco, il quale, oltre quello geografico dalla propria isola e quello che impone storicamente la missione di poeta, molti altri esili ebbe a patire 9. Senza dire che il sepolcro foscoliano in terra inglese sembra idealmente congiungere due direttive fondamentali della spericolata vicenda quasimodiana: il richiamo mitico di una solarità mediterranea e meridionale e il parallelo fascino di tensarebbe si matrice, di , settentrionale e una nebulosità nordica indi insomma, sorta, Una byroniana. e tati di dire, miltoniana intensità di grado il misurare poter quale nel crocio esistenziale,

del proprio paradosso poetico. Il Nord S titolo, 6 cui il cui si

di Quasimodo

non

è,

sso ste lo dal eo tan let col me lu vo nel a, ser ito sub fu E i, ett iol A. Ang Marotta, Napoli 1969, pp. 317-19. di , ria ato onc str na ag mp ca oce fer a all to tut rat sop to Si fa riferimen di el, Nob io em pr del ne zio gna sse l’a po do ito sub poeta fu vittima, risparmia volutamente la bibliografia.

427

che llo que ma a”, nci Fra di to ica ist sof e le sua infatti, quello sen di. aor str pur e to nta ste lo nel ato pir res va ave o col Fos lo stesso si rd No del i mar di o os um br so sen to es Qu e. nario esilio ingles suo un o nd co se , che a tic poe one azi fic rei ria ato voc pro la respira nel stile seconda e terza maniera 3, Quasimodo opera, accostando materiali storici e umani tra loro diversi: Risonanze di mortelle nel recinto verde di morti antichi, dove Foscolo posò la testa dentro un sarcofago in un tempo d’amore per gl’inglesi. La sua pietra porta la data di nascita e di morte. Di fronte, nella curva della strada si beve birra forte in un pub di legno a spiovente nordico. Una ruota gira, un vecchio picchia con un martello su una tavola. L’amore per le ombre foscoliane è più qui che in Santa Croce, ancora nell’armatura

dell’esilio. I temperavano l’uomo sugli come oggetto

timidi aste e stipiti utile

carnefici lombardi scuri, misuravano delle porte alle armi?.

Il motivo dell’esilio, in chiave foscoliana, si imporrà del resto

all’attenzione quasimodiana in una memoria critica che egli ebbe modo di dedicare a un altro compagno di mare, a un poeta della Magna Grecia, da lui tradotto e particolarmente amato, Leonida di Taranto. Il dialogo Quasimodo-Foscolo, che grazie al nume tutelare di Leonida si instaura, si rivela di notevole momento. 7 L’avversione del poeta verso questo tipo di cultura, tacciata di compiaciuto ‘decadentismo ’, traspare con particolare evidenza dalle sue cronache d’arte, sulle quali si veda il saggio dello scrivente: Le metamorfosi della memoria: S. Quasimodo critico d’arte, in AA.VV. Letteratura italiana e arti figurative (Atti del XII Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, Toronto-Hamilton-Montréal 6-10 maggio 1985), in corso di stampa. L’intervento è stato, intanto, prefigurato nel volume dello scrivente: Ermetici meridionali: tra immagine e parola (De Libero, Bodini, Sinisgalli, Quasimodo), Cuzzola, Salerno 1986, pp. 93-117.

8 Cfr. G. Paparelli, Humanitas e poesia di Quasimodo, in Humanitas e poesia (Studi sulla letteratura italiana dell’800 e del ’900), Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1973, pp. 225-85. ? S. Quasimodo, Nel cimitero di Chiswick, in Dare e avere (19591965), Mondadori, Milano 1966, pp. 37-38.

428

L’accostamento Leonida-Foscolo permette, infatti, a Quasimodo una serie di inedite variazioni sul tema dell’esilio, che possono prestarsi ad essere fruite come ineludibile lievito critico per ogni corretto abbordaggio alla sua problematica poetica: Esilio dunque nella vita stessa che è condizione comune ad ogni uomo fin dalle primitive stagioni della caccia nelle foreste; isola dell’anima che non ha il senso epico o morale di Dante e di Cavalcanti o perfino del Foscolo. Anche se alle ore inglesi dell'autore dei Sepolcri sembra che Leonida si accosti, cioè in quella confluenza arida nella quale si univano la miseria, la delusione, le forze fisiche fragili in congiunzione col paesaggio straniero. Girare una sequenza dell’ultimo giorno è del resto impossibile anche se l’uomo è un poeta 9,

La prospezione storica della diaspora di Leonida e di Foscolo acuisce poi il senso dilaniante di un tempo assoluto e inesorabile: di quello che diverrà nella poesia di Quasimodo l’« esilio morituro » !:

L’addio alla patria è per Leonida un ostacolo psicologico che agisce sul fondo dell'anima come una confessione. Così fu per Ugo Foscolo quando, in ogni momento della sua esistenza e quindi non necessariamente alla fine, lasciò defluire la pena politica, sociale e letteraria per chiudersi sulla certezza di un dolore più alto, quello della lontananza dell’uomo dalla propria origine perché diretto verso la morte: « Né più mai toccherò le sacre sponde... ». Non è solo l’assenza della patria, è qualcosa che si avvicina alle categorie del tempo, a quel corruttore che senza misure riconoscibili nella materia pure riduce ogni cosa a termini matematici di ore, minuti 2.

Oltre la vita e la morte, rivendicare all’uomo la sua decaduta dignità (ma anche la sua maledetta vocazione) di transfuga da

sta ripo qui è la: paro a dell a forz la so aver attr una patria perduta che , ana odi sim qua ica poet era 'int dell bile cura tras una chiave non arric ad irà ribu cont no olia fosc o ell mod il con ro l’incontro-scont avrà si e com ali, ttur stru e i ntic sema uppi chire di notevoli svil tra breve modo di dimostrare. o nt ri bi la nel le na io az ic if gn si o av sc di a er op ta es Ad aiutare qu un su a nz ia on im st te sua la ne ie rv te in a, ermeneutico del poet . 56 p. , 69 19 ia ur nd Ma a, it ca La o, nt ra Ta 10 Leonida di . 58 p. ., cit , ie es po le e tt Tu in , ja Ro e um fi l de ce Fo 11 Cfr. 12 Leonida di Taranto, cit., p. 56.

429

artista, che ha rappresentato una trascurata pietra di paragone per una

intera generazione

di critici-poeti ermetici, soprattutto

meridionali, Francesco Messina. Nell’introdurre una silloge poetica dello scultore, Quasimodo ha modo di accennare a Foscolo in forma, si può dire, esemplare: Il marmo,

la pietra, il sasso, non

sono

derivazioni

ottico-verbali

di uno sguardo abituato alla scultura. Sono il tatto, elementi della natura che fanno parte delle sue esperienze espressive. Messina strappa alla terra quel materiale per tentare una poetica. Potrei dire che il Foscolo, mediterraneo orientale, nato in un’isola di pietra, dove ii « sasso » è indizio di primavera e di tempeste, un passaggio-sostegno

verso la morte, ha un’insistente immagine della realtà come roccia. I ricorsi foscoliani del dolore, funebre la convinzione del potere generativo, come vene e sangue le acque delle intemperie sul marmo, non erano certo una dimostrazione di fedeltà al freddo levigato delle pareti neoclassiche. E non sarebbe lontano un paesaggio dell’identico Mediterraneo dove l’Etna ha gettato i suoi giganti a riempire e a deformare la natura: Messina è sempre su..quella riva della Sicilia. Così la pietra, nella lava della scrittura, diventa per Messina una strada, una

partenza

verso

la liberazione

di un

idolo

non

vivente,

ma prigioniero dell’uomo che ha lasciato la luce marina. E l’apertura, lo spacco, avviene nella circolazione pesante del nucleo non solo per opera di distruzione della sostanza dura in superficie, ma per i riferimenti di aggiunta, di modellazione !.

Il critico-poeta suggerisce così una chiave interpretativa del suo foscolismo del tutto inedita: quella poggiante sul solido confronto tra parola e pietra. I « ricorsi foscoliani del dolore », che si identificano con quelli della memoria e della morte !; la « funebre convinzione del potere generativo », che accomuna il germe nuziale a quello morituro !; sono, questi, tutti motivi-chiave della poesia e della poetica quasimodiane: non escluso quello di una archeologia marina, che la scrittura-scultura ha il compito di diseppellire !9, La consacrazione della morte attraverso la poesia, che diviene nuova sorgente di vita; la proiezione di una vicenda esistenziale legata alla forza naturale della espressione fantastica; sono, tut13 Milano 14 15 16

Prefazione a F. Messina, I tigli del parco (1942-1964), 1965, p. 14. Cfr. L’Anapo, in Tutte le poesie, cit., p. 88. Ibid. Cfr. Spiaggia a Sant'Antioco, ivi, p. 131.

430

Mondadori,

tavia, questi i termini di una visione foscoliana, che Quasimodo,

per così dire, sbriciola nelle stagioni della sua poesia, tentando di recuperare il battito resistente della pietra e delle sue sillabe. La relatività di questo processo è il fnotivo propulsore della sua vitalità, della sua provvisorietà. Oltre ogni spettro assoluto di scuole e di modelli è nell’esercizio quotidiano dell’esistenza che la poesia sconta il suo destino.

Gli iniziali modelli pascoliani (ma anche carducciani) e dannunziani vengono così filtrati attraverso una sensibilità e una tecnica del tutto nuove. La fenomenologia fisica che anima l’ampio spartito poetico quasimodiano appare inconcepibile al di fuori di una geografia umana che mira a porsi come esemplare cosmologia poetica. Il ritmo lucreziano !, foscoliano (ma anche leopardiano), che segna la vicissitudine dei corpi nelle rinascite e rivoluzioni del cosmo; è questo un tema costante della progressiva sperimentazione qua-

simodiana:

i Poi le terre posavano su fondali d’acquario, e ansia di noia e vita d’altti moti cadeva in assorti firmamenti !8.

Questo senso fisico dell’essere, del suo immobilismo e del suo

dinamismo ‘’, scandisce i tempi di una dialettica estetica, che è tuttavia sin dall’inizio indotta ad appoggiarsi anche ad altri referenti. La esemplarità di questo ciclo di nascita e di morte, di sactificio e di resurrezione, potrebbe subito indurre ad avanzare l’ipotesi di un vichismo intensamente

operante. Vico, tuttavia, come

o cicl to ques di one ragi ta ple com dare può non olo, Fosc del resto qua o ori ert rep del e ian rez luc ni agi imm ti ren spa tra più le 17 Una del per gos Ele . Cfr te. mor a o pit col e mal ani e van gio del lla simodiano è que De , io ez cr Lu o, uop tal a , nti fro con Si . 124 p. ivi, , ani la danzatrice Cum rerum natura, II, 350-71. 18 Verde deriva, in Tutte le poesie, cit., pp. 75-76. 19 Cfr. Delfica, ivi, p. 126.

431

la nel che e o om ’u ll de ria sto la nel o an nd ce vi av si che i, di ritorn poesia sembrano trovare un decisivo momento di espansione: Chino ai profondi lieviti ripatisce ogni fase, ha in sé la morte in nuziale germe.

A questa precisa altezza metodologica, e in chiave di preciso progress operativo, occorre recuperare all’interno del contesto estetico quasimodiano la mediazione di un complesso corpus religioso, biblico, antico e neotestamentario, che finisce per imporsi

come una delle strutture portanti della sua intera ricerca poetica: — Che hai tu fatto delle maree del sangue, Signore? — Ciclo di ritorni vano sulla sua carne, la notte e il flutto delle stelle ?!.

Volendo esemplificare la esemplare parabola estetica quasimodiana: è il poeta essenzialmente un angelo decaduto dalle sublimità celesti e condannato quindi a sperimentare un provvisorio pellegrinaggio terreno: Del mio odore di uomo grazia all’aria degli angeli, all'acqua mio cuore celeste nel fertile buio di cellula 2.

Lo schema dantesco si ripropone, ma investito questa volta di una inquietudine tutta laica e moderna, capace di accumulare e di elidere nel suo caleidoscopio critico alcune delle più inebrianti esperienze estetiche ?. Lo stesso mito foscoliano dell’esilio appare allora inconcepibile al di fuori di questa prospettiva: Apparenza d’eterno alla pietà un ordine perdura nelle cose che ricorda l’esilio 8. L’Anapo, ivi, p. 88. Ibid. Del mio odore di womo, ivi, p. 101. Cfr. Anellide ermafrodito, ivi, p. 78. R$ENNES Sulle rive del Lambro, ivi, p. 120.

432

Il poeta è in tal senso il lucido e confuso testimone di un conflitto irrisolto tra divinità e infernalità. Il ciclico antagonismo, anche nel caso di Quasimodo, è destinato ad appoggiarsi alla forza di quelle illusioni di foscoliana e leopardiana memoria, che ora tuttavia si specificano come miti, come metamorfosi, in cui la natura si misura con la storia: Restano lunghe trecce chiuse in urne di vetro, ancora strette da amuleti e ombre infinite di piccole scarpe e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie d’un tempo di saggezza, di sapienza dell’uomo che si fa misura d’armi, sono i miti, le nostre metamorfosi?.

La misura”

si sconta però con il mistero, con l’assoluto e

l’assurdo” che l’esistenza talvolta impone a chi, come

il poeta,

è chiamato a stenderne il diario segreto: Resta il pudore di scrivere versi di diario o di gettare un urlo al vuoto

o nel cuore incredibile che lotta ancora con il suo tempo scosceso 28,

E per Quasimodo la poesia non è che un diario quotidiano di sopravvivenza ”?. Ma la poesia è anche, e paradossalmente, una segreta preghiera *, in cui il sacro si incontra e scontra con il profano, nel segno di quella che con nuova formula potrebbe definirsi la ‘ liturgia laica’ della parola: 25 Auschwitz,

ivi, p. 193.

2% Cfr. Sera nella valle del Màsino, ivi, p. 123. 21 Cfr. Lamento per il Sud, ivi, p. 160. 28 Il falso e vero verde, ivi, p. 176. 29 Merita di essere particolarmente sottolineata la dimensione diatistica che anima la partitura poetica quasimodiana, soprattutto nella prospettiva di una epistemologia del quotidiano, capace di proliferare una fitta trama di referenti semantici e formali. Su questa tematica, cfr. il fascicolo di «Quaderni di Retorica e Poetica », II (1985), dedicato a Le forme del diario. 30 Anche

questa

è una

prospettiva

epistemologica,

da perseguire

con

maggiore cura critica, nello spitito di un confronto. non confessionale, ricco cura (a ini Volp V. cfr. , rale gene tema Sul . iche poet di diverse sfumature di), La preghiera nella poesia italiana, Sciascia, Caltanissetta 1969, soprattutto, pp. 489-93, riguardanti Quasimodo.

433

Pietà del tempo celeste, della sua luce d’acque sospese; del nostro

cuore

delle vene aperte sulla terra3!.

Perché di una liturgia laica essenzialmente si tratta, per lo spirito fondamentalmente libero e naturale con cui il rapporto con il divino viene vissuto; per il colloquio costante che la fedele infedeltà del poeta instaura con esso. In questo spazio di dannazione e di salvezza, di grazia e di tormento, l’angelo decaduto, il poeta, tenta di ripristinare un ambiguo dialogo con l’Eterno, quasi in uno stato di perenne contraddizione cen quel paradiso consacrato dalla tradizione: Tu mi vedi: così lieve son fatto così dentro alle cose ce che cammino coi cieli;

che quando Tu voglia in seme mi getti già stanco del peso che dorme *.

Quello di Quasimodo è un Dio cristiano e pagano insieme, nel quale si rispecchia il manicheismo dialettico del poeta. Dio — non risulti un’eresia — è una sorta di alter ego, di controfigura esistenziale, capace di valorizzare, nei loro riflessi semantici, le componenti fondamentali di divina umanità attraverso la pietà: Forse in quel volo a spirali serrate s’affidava il mio deluso ritorno,

l’asprezza, la vinta pietà cristiana, e questa pena nuda di dolore *;

e di umana

divinità attraverso

l’oltranza:

Del peccatore di miti, ricorda l’innocenza, S. Quasimodo, Preghiera alla pioggia, in Tutte le poesie, cit., p. 56.

32 Seme, ivi, p. 73. La dolce collina, ivi, p. 111.

434

o Eterno; e i rapimenti, e le stimmate

funeste.

Ha il tuo segno di bene e di male, e immagini ove si duole la patria della terra *.

Il rapporto cielo-terra appare ormai rovesciato o almeno posto in crisi. Il poeta, più che un essere divino sprofondato nelle viscere della terra, è un elemento fisico che assapora le vertigini celesti. Egli, dunque, più che Lucifero, è Prometeo, ma un Prometeo, si badi bene, che si duole della patria terrena.

Pietà, ch'io non sia senza voci e figure nella memoria un giorno. Ss. QUASIMODO, Airone morto

La poesia, come l’amore cantato da Saffo *, si impregna di dolce e di amaro, di miele e di veleno. Essa è classicità e decadenza, sublimità celeste ma anche inferno terreno. Si è così naturalmente giunti al nucleo della questione, vale a dire alla problematica delineazione di una serie di coppie semantiche, che sembrano reggere il discorso poetico quasimodiano. Il rapporto cuore-cielo si impone come centrale, secondo un alto indice di referenze semantiche, a cui sembra corrispondere un altrettanto elevato tasso di frequenze formali. Il cuore ha bisogno del cielo per espandersi e, quando questa chance liberatoria manca, si può dire che la trasfusione vitale tra i due elementi viene meno: T'ho amato e battuto; si china il giorno e colgo ombre dai cieli: 3 Del peccatore di miti, ivi, p. 105. 35 Questa è, tra l’altro, la penetrante traduzione che del canto Quasimodo fornisce: « Scuote l’anima mia Eros, / come vento sul che irrompe entro le querce; / e scioglie le membra e le agita, , 1960 no Mila i, ador Mond , greci ci (Liri a» belv le mabi indo a amar

435

di Saffo monte / / dolce p. 23).

che tristezza il mio cuore di carne! 36

Si determina così una sorta di corto circuito nelle possibilità creative (e ri-creative) dell’explicit esistenziale. A questa coppia, oppositiva e integrativa

insieme,

occorre

congiungere un’altra tassonomia, quella affidata al binomio parolapietra.

Il piacere della parola ” è chiamato costantemente a confrontarsi con il suo silenzio #. È, questo, un paradosso naturale della mitopoiesi quasimodiana: Camminano con me;

angeli, muti

non hanno respiro le cose;

in pietra mutata ogni voce, silenzio di cieli sepolti”.

Il rapporto parola-pietta recupera qui il termine mediale di « cielo sepolto », il quale appare strettamente connesso a quello di « cuore sepolto », ricorrente in altra sede: M’hai dato pianto e il nome

tuo la luce non

mi schiara,

ma quello bianco d’agnello del cuore che ho sepolto #.

La parola rischia di trasformarsi in pietra (e il poeta in muro), allorché il cuore non riesce a diseppellire il suo cielo: Nell’isola

morta,

lasciato da ogni cuore che udiva la mia voce, posso restare murato *.

All’interno di questa delicata dialettica gioca un ruolo fondamentale il binomio quasimodiano morte-vita. 36 37 38 39 40 4

Si china il giorno, in Tutte le poesie, cit., p. 22. Cfr. Sovente una riviera, ivi, p. 94. Cfr. Verde deriva, cit., p. 75. Alla notte, ivi, p. 60. Compagno, ivi, p. 53. In luce di cieli, ivi, p. 99.

436

Non a caso, la parola ha bisogno che il cielo non si richiuda pet poterlo meglio esprimere: forse l’ansia di dirti una parola prima che si richiuda ancora il cielo sopra un altro giorno, forse l’inerzia, il nostro male più vile...£.

La morte * si configura come labirinto memoriale: Non ho più ricordi, non voglio ricordare; la memoria risale dalla morte, la vita è senza fine 4;

che il vento foscoliano ha il compito di percorrere e penetrare. Il vento è alito di vita, soprattutto nel momento in cui trascina con sé il seme petroso della parola: Nel nord della mia isola e nell’est è un vento portato dalle pietre ad acque amate: a primavera apre le tombe degli Svevi; i re d’oro si vestono di fiori *,

Il vento, dunque, come componente essenziale di una cosmologia vitale, legata allo stretto rapporto cuore-cielo, parola-pietra: e il vento, il fresco vento non versa

telai di suoni e chiarità improvvise, e quando tace anche il cielo è solo %;

sino all’acme di una epistemologia oppositiva, non immune da punte di manicheismo, tipica della sperimentazione di Quasimodo:

4 Lettera, ivi, p. 138. 4 È necessario sottolineare il carattere non totalitario, ma bipartito, Essa vita. la con e ment ante cost gra inte e ra misu si e qual la della morte, è, così, « spazio nel cuore » (Fresche di fiumi in sonno, ivi, p. 77) e « sodl . 207) p. ivi, to, aper arco litudine » (Un 4 Quasi un madrigale, ivi, p. 165. 4 Sulle rive del Lambro, cit., p. 120. 4% Vita nascosta, ivi, p. 69.

437

E il vento e il tempo è passato sul nostro

s’è levato leggero ogni mattina colore di pioggia e di ferro sulle pietre, chiuso ronzio di maledetti #?.

La stessa parola, come del resto l’immagine, va attentamente recuperata all’interno di questo specifico contesto antagonistico ed esemplaristico insieme: come esaltante strumento celeste, ma anche come grave fardello terreno: Le parole ci stancano, risalgono da un’acqua lapidata; forse il cuore ci resta, forse il cuore...#;

soprattutto nella prospettiva di quella ‘ scarnificazione sillabica ’, che resta uno dei principali obiettivi formali e morali del poeta. La dialettica parola-pietra si impone all’attenzione del « siculo greco » nel trattare quel familiare tema dei sepolcri, che fissano nella corrompibile eternità della pietrala -inarrestabile provvisorietà dell’esistenza *. Uno dei principali processi di cui bisogna prendere atto è in tal senso il tentativo di quotidianizzare una vicenda di vita e di morte, che nel poeta ottocentesco si affidava ad una semantica strutturale segnata da un consequenziale tono di sublimità. Gli aurei sepolcri degli eroi si prestano gradualmente ad acquistare connotati più oscuri ma, proprio per questo, più umani, nel segno di una civiltà che si lacera nelle dure schegge della guerra e nelle ambigue vibrazioni del ‘ progresso ’: Alzeremo tombe in riva al mare, sui campi dilaniati, ma non uno dei sarcofaghi che segnano gli eroi.

Gli ignoti sepolcri degli antieroi non conoscono il peso della pietra, perché essi devono continuare ad effondere la esemplare naturalità della loro vicenda: Gelida messaggera della notte, sei ritornata limpida ai balconi #7 # 4 9

Colore di pioggia e di ferro, ivi, p. 164. Forse il cuore, ivi, p. 142. Cfr. Colore di pioggia e di ferro, cit., p. 164. Giorno dopo giorno, ivi, p. 141.

438

delle case distrutte, a illuminare le tombe ignote, i derelitti resti della terra fumante 51,

A condurre ad un limite estremo di tensione etica questa problematica sepolcrale, attraverso la pregnante dialettica della parolapietra, interviene ancora una volta una consistente referenza evangelica, affidata al preciso topos del sepolcro scoperchiato di Lazzaro: E come in quel tempo, si modula la voce delle selve: « Ante lucem a somno raptus, ex herba inter homines, surges ». E si rovescia la tua pietra dove èsita l’immagine del mondo ®,

Le parole, murate dal peso dell’esistenza, riescono a liberare tutta la loro forza mitopoietica, allorché esse si ricongiungono a quel ciclo di morte e resurrezione, che è stato qualificato come un trascurato /eitzzotiv della semantica quasimodiana: Nuda

voce, t’ascolto:

e ne ha primizie dolci di suono e di rifugio il cuore arato; e mi sollevi muto adolescente, d’altra vite sorpreso e d’ogni moto

di subite resurrezioni che il buio esprime e trasfigura 9.

Il mito naturale, lucreziano e foscoliano, dell’alterno succedersi dei moti, che è, quanto dire, l’avventuroso « tempo delle mutazioni » #, si alimenta, dunque, di una netta svolta semantica in chiave di simbologia cristiana. C'è tuttavia ancora da precisare come il sepolcro possa non necessariamente viventi.

essere

dei morti

in senso

dei motti

v

51 Elegia, ivi, p. 152. Di un altro Lazzaro,

stretto, ma

ivi, p. 153.

Preghiera alla pioggia, cit., p. 56. SCAMS Cirelco/a N41 U 155 RIVISTI

439

, »” i viv da ire mor per o mp te o poc ì cos « i, att inf », « Basta lrea mai fu si se a nd ma do le ssa ado par la o sin per e cer da far nas mente vivi da vivi: .

.

.

Avremo

v

ta

55

voci di morti anche noi,

se pure fummo vivi talvolta #.

È, questo, del morire da vivi o del vivere da morti uno dei topoi più resistenti della dialettica poetica di Quasimodo, che dimostra in pieno la tendenza a rivivere in termini oltranzisti alcune fissità del suo modello ottocentesco, sul tema della morte e della vita. A questa precisa altezza, non va trascurata una ulteriore proiezione del foscolismo quasimodiano, soprattutto in chiave di

problematico recupero di un eden di pura bellezza affidato alla forza del segno: Ti so. In te tutta smarrita alza bellezza i seni, s’incava ai lombi e in soave moto s’allarga per il pube timoroso, e ridiscende in armonia di forme ai piedi belli con dieci conchiglie.

Ma se ti prendo, ecco: parola tu pure mi sei e tristezza”.

È straordinario rilevare come l’immagine di fattura neoclassica, peraltto non unica nel repertorio quasimodiano *, entri in una sotta di agonismo semantico-strutturale con il corredo verbale che dovrebbe sostenerla e che viene di fatto a mancare. La morte della materia si sconta nella misura della parola. L’amore-odio, che il poeta nutre per le parole, così come per le immagini”, risulta inconcepibile al di fuori di quella prospettiva di incessante colloquio® che egli instaura con il divino:

55 S ST 58 59 %

Sera nella valle del Màsino, cit., p. 122. Dove morti stanno ad occhi aperti, ivi, p. 65. Parola, ivi, p. 49. Cfr. Nemica della morte, ivi, p. 174. Cfr. Del peccatore di miti, cit., p. 105. Cfr. Una risposta, ivi, p. 234; Altra risposta, ivi, p. 235.

440

Il tuo dono

tremendo

di parole, Signore, sconto

assiduamente !,

La fiduciosa e fondamentale identificazione pittura-poesia di classica memoria, che sorreggeva l’intera impalcatura estetica foscoliana ©, sembra sfaldarsi, soprattutto per il terrore che il poeta novecentesco nutre nei confronti di un necalessandrinismo capace di imbrigliare nelle sue brillanti strutture le oscure risonanze del reale ®, Il disperato bisogno, nonostante tutto, di patole e di figure #, forse più di figure che di parole, nasce dalla orientata consapevolezza di ricreare un limite, proprio mentre lo si supera attraverso l’espressione artistica: Era il corvo ancora un segno felice, uguale ad altri quando provavo la mia mente in ogni suo limite e figura e trattenevo

un grido per tentare il mondo fermo, meravigliato di potere anch'io gridare ©, 61 AI tuo lume naufrago, ivi, p. 92. € Cfr. F. D’Episcopo, La teosofia delle immagini: la prospettiva foscoliana, in Civiltà della parola, vol. II, cit., pp. 33-64. 63 « Parole acide contro le avanguardie, contro le arroganze dei vocaboli cerebrali, cattedratici, gratuiti. Poche le simpatie poetiche per gli autori contemporanei che Quasimodo colpiva addirittura giù, nel fondo della sacca simbolista, contro il morbo-mallarmé della parola per lui cesellatore apatico. Vedremo chi salvare fra i poeti vicini a noi; per gli altri, anche per i maggiori, aveva una misura leggermente ironica, distaccata, così come avrebbe potuto dirne un Esiodo, o un Virgilio tornato fra noi. Apollinaire, Max Jacob, Valéry lo provocavano sempre a una frase nella quale risuonava il vocabolo ‘decadentismo’. Per lui non esistevano due tempi o due modi di vedere il reale, o meglio, se li ammetteva, il modulo più vicino alle leggi della poesia era quello nitido del suo linguaggio; l’altro, quello della corona dei simboli, era, secondo Quasimodo, come una necroscopia dell’arte, con soffici bisturi che non affondavano nella carne e nel sangue lirico ma in un tessuto spugnoso e sterile. E questo tessuto polmonare del novecentismo, sebbene forato dalle migliaia di cellette della respirazione intellettuale, era viziato, per il Nobel, dall’ossidazione del decadentismo. Movimento, quest’ultimo, che amava tuttavia in da una certa narrativa. Aveva parole dure per molti nomi collaudati, Saint-John Perse a Eliot, da Jean Jouve a Machado». A. Angioletti,

E fu subito sera, cit., pp. 331-32. 64 Cfr. S. Quasimodo, Airone morto, 65 In una città lontana, ivi, p. 177.

441

in Tutte

le poesie, cit., p. 90.

Ma che cos'è, alla fine, l’arte, se non un modo di ricreare il mondo, imitando mondi sepolti? Non t’è sfuggita la vita per cabale o ibridi emblemi di zodiaco o sillabe e numeri ordinati a riscoprire il mondo *.

E a questo punto è oltremodo significativo notare come la ‘ scarnificazione sillabica’ che il critico-poeta compie nell’immenso campionario della tradizione, classica e contemporanea insieme, trovi, oltre che nei colori della pittura (bianco £, nero ®, verde ®, ecc.), nelle curvature della pietra il proprio linguaggio

segreto: E per concludere

il richiamo

a Foscolo, c'è da dire, però, che la

misura d’amore disperato per la trasformazione del nulla in immortalità del poeta di Zacinto, è lontana dalla certezza morale e metafisica di questa raccolta. E, ancora, qui i « contenuti » non vogliono costringere l’esistenza a raccogliersi al centro della frattura: intorno, guadagnati dalle metamorfosi naturali imposte allo spazio e al tempo, possono diventare le cellule cerebrali del comando. Dopo riflessi della mente che non si possono credere un « distacco », non dimentichiamo l’affetto del poeta, inevitabile, per alcune figure della storia dell’arte. E soprattutto per Ilaria del Carretto, dove i pensieri di morte corrotta nel desiderio di giovinezza vengono al visitatore del sepolcro nel Duomo di Lucca da una spinta a leggere nel proprio futuro. Proprio perché davanti c’è la condanna inesorabile, ferma nel marmo di Jacopo della Quercia. Francesco Messina trova qui una voce per il suo discorso con il dubbio della vita « incredibile »: la pietra diventa paura, domanda, e coincide con l’ombra del reale significato in alcuni versi: « Ora caduta sulla collina è l’Orsa, / fuggite l’altre stelle: che attendi? / L’alba fra poco rigermoglierà di ombre / e per te, straniero, tutto ritornerà di sasso » 7,

Di un costante atletismo fisico, opposto all’immobilità metafisica dell’essere, bisogna alla fine accennare ”, 66 07 6 69 90 © ©

AI di là delle onde delle colline, ivi, p. 182. Cfr. Parola, cit., p. 49. Cfr. Sillabe a Erato, ivi, p. 85. Cfr. Piazza Fontana, ivi, p. 117. Cfr. Verde deriva, cit., p. 75. Prefazione a F. Messina, I tigli del parco, cit., pp. 14-15. Questo sembra esplodere soprattutto nella forza fisica dei

442

molti

Il poeta ricerca l’archetipo del proprio inconscio nel seno materno, là dove la diade mediterranea madre-mare trova, attraverso la morte, il suo naturale congiungimento: :

E vidi l’uomo chino sul grembo dell’amata ascoltarsi nascere, e mutarsi consegnato alla terra, le mani congiunte, gli occhi arsi e la mente?

L’amante ha nelle narici il profumo del paradiso e la stessa morte, come il corpo dell’amata, si configura come un conto ciclicamente aperto con la vita. Alla luce delle molteplici direzioni di ricerca, che si sono qui indicate, è evidente come ogni corretto abbordaggio metodologico a un filone centrale nella formazione di un poeta contemporaneo, nel caso specifico il foscolismo quasimodiano, non vada asetticamente sublimato a specificare una privilegiata stagione della sua poesia. Nessuna influenza è mai univoca. Foscolo, nel caso di Quasimodo, agisce come filtro propulsore di ben più determinanti mediazioni.

Di questo bisogna rendere per ora conto.

C'è una sorta di archeologia costante nella petrosa costruzione quasimodiana, che risale dal fondo algoso di un’isola paludosa”. La poesia sembra così giungere dai risucchi quotidiani di questa archeologia memoriale ?. Nel rapporto ciclicamente costante tra mare e terra, protagonista il cielo, nulla però riuscirà a fare di essa degli « ossi di seppia ».

o, mpi ese di lo tito a ., Cfr . ane odi sim qua ghe pla le no ola pop cavalli che . 109 p. , cit. , sie poe le te Tut in , nci ara li sug a ner za, Ride la gaz 73 Canto di Apòllion, ivi, p. 86. 74 Cfr. Salina d'inverno, ivi, p. 96. T5 Cfr. Sardegna, ivi, p. 97.

î;dla tuta

n e

Anna De Stefano

PER QUASIMODO E D'ANNUNZIO: CONSIDERAZIONI SU « IL FANCIULLO CANUTO »

A chiarire ancor più i sentimenti e i riferimenti culturali del primo Quasimodo soccorre ora una sua ignota lettera: Roma, 12.XI.XXII « Lux lucet in tenebris » Maestro, Alcuno conosce il mio tormento; parola: di fede o di morte. Salute

ma

a Voi oso chiedere

una

Salvatore Quasimodo Via Chiodaroli, 8 Roma (15)

Di una tangenza tra D’Annunzio e Quasimodo — sinora soltanto ipotizzata su indizi, episodicamente scrutinati, di riscontri testuali — è prova testimoniale questa lettera da me rinvenuta negli Archivi del Vittoriale, unitamente al poemetto Il fanciullo

canuto !. 1 Autografa e senza segnatura la lettera porta in calce, di mano aliena, l'annotazione « chiede giudizio versi ». Il poemetto, in copia dattiloscritta, e in lettere maiuscole, conservato anch’esso senza segnatura negli Archivi del Vittoriale, consta di dieci fogli numerati, utilizzati solo sul recto: sull’ultimo il nome e il cognome dell’autore, scritto anch’esso a macchina. Il poemetto è diviso in undici parti, scandite con cifre arabe, ma con l’omissione del n. 1 e con la ripetizione del n. 6, e quindi con successiva, erronea numerazione. Si rilevano alcuni interventi correttori di errori meccanici da parte dell’autore e alcune integrazioni di sua mano, di carattere minuto e con lo stesso tipo di inchiostro nero, per ovviare ad omissioni di battituta: e precisamente al f. 4, 2, verso 9 «Dio» in interlinea tra « solo » e « povero »; al f. 8, 6, da intendere, però, 7, sul margine destro del foglio sono trascritti cinque versi omessi, costituenti la prima strofe. E sempre sullo stesso foglio si ha la trascrizione, perché omesso nella battitura a macchina, dell’ultimo verso della sezione 7.

445

ad ti poe due i tra to por rap il ire apr eva end int a La missiv to tat con Il . ale tur cul che re olt le, ona ers erp int ne io ns una dime e viv che ne en nt ve ta poe del te par da — ere ess epistolare appare aenf o, ell app te san pul un — a tic poe a ezz vin gio l’ansia della sua . ni an ov Gi o nd co se o el ng Va dal a int att e raf pig l’e te an di tizzato me io nz nu An D' a i uit rib att o son » o tr es Ma « l que e Quella « lux » les i enn sol nei e em fr che o gi ag ss me o pid tre un di to nel contes semi « fede » e « morte », in analogia alla « luce » e alle « tenebre », ed è rappresentativo di quel tormento che troverà il suo sigillo nel lavoro di scavo del poeta?. Scavo già qui annunciato dalla richiesta di una parola che è verbo, principio, luce che Quasimodo inscriverà e disegnerà nell’infinito della sua grande stagione poetica. La parola e la ricerca inesausta di essa doveva macerare il suo itinerario poetico, che registra il conflitto tra il commensurabile e l’aspirazione all’assoluto. Il testo del poemetto (che ha una storia sommersa *, per volontà dello stesso poeta) inviato al D'Annunzio presenta alcune difformità rispetto all’autografo riprodotto in fototipia ° con la dedica « a G. La Pira che sa piangere presso la mia anima », e non reca traccia di questa dedica all'amico. Ovviamente seriore rispetto alle quattordici ‘ cartelle *® di F' presenta un più maturato, ammodernato e più razionale uso dell’interpunzione, volto ora ad esaltarne la funzione ed a levigare un testo pur rassegnato alla asprezza del dettato, peraltro costruito ad intarsi narrativi. Più agile della precedente stesura, chiusa entro un circuito di norme retoriche e di snodi scolastici, F' cerca, almeno, di costruire un tempo natrativo disteso ed immediato, e punta alla ricerca di 2 Giovanni,

1, 5.

3 Cfr. le dense e acculturate immagini di Thanatos Atbànatos (nella raccolta La vita non è sogno in S. Quasimodo, Poesie e Discorsi sulla poesia (= O), a cura di G. Finzi, Mondadori, Milano 1973, p. 113, nelle quali l’uomo-poeta, disarmato coi suoi «sogni / le lacrime i furori», registra, in filigrana, la rifluenza di sotterranee suggestioni dannunziane, tràdite dal Notturno, nel quale c'è il « tempo della lotta e della furia »: v. G. D’Annunzio, Tutte le opere a cura lano 1939-1950, p. 873.

di E. Bianchetti

(= D),

Mondadori,

Mi-

4 Cfr. S. Pugliatti, Quasimodo a Messina: i primi passi, in Parole per Quasimodo, « XXIII Premio Vann’Antò », Ragusa 1974, pp. 37-52. S In Le lettere d'amore di Quasimodo, Apollinaire, Milano 1969. 6 Indico con F l’autografo, riprodotto in Lettere d’amore, cit.; con F! la redazione del Vittoriale; con P il testo riscritto dall’autore, scorciato e privato di alcune parti ed affidato a S. Pugliatti che ha pubblicato la nuova i del poemetto in « l’Osservatore politico letterario », XVII (1971), FR PRARlO=231

446

una musicalità meno lacerata e più ariosa con la drastica potatura delle virgole, delle quali F è gremito, e degli esclamativi, che conferivano al testo enfasi inutili e recitativi poco apprezzabili. F!, cioè, prospetta una geometria senza rigidezze, proprio per l’abolizione di inutili cesure, affrancata e sostenuta da una più sciolta andatura ritmica appoggiata al ripristino del continuum temporale, tendente ad eliminare il cursus talvolta asfittico, talaltra franto, di F. Gli interventi attestati da F!, anche se non numerosi, sono, comunque, importanti segni di un momento concreto che invera il racconto poetico nel quale Quasimodo sposta il suo punto speculare — con la sistematica posizione dei relativi e dei gerundi — preparatorio di un’apertura verso l’elegiaco; e anche di una rivalutazione timbrica dei fondali, le cui ‘ voci ’ e ‘ mezze voci’ danno

risalto al canto esistenziale del poeta. Il fanciullo canuto è preistoria ed infroibo ad un pensoso cammino poetico, che nel balenio segnato da sillabe fluenti da un’umanità mediterranea traccia un perimetro

di macerie

risentite e sgomente

e s’inoltra in una

cosmica partecipazione al dolore. Il suo explicit, come peraltro lo stesso titolo ossimorico che traduce l’antico motivo del puer senex, è ravvivato dall’accensione liturgica: nel canto della « vita / con la voce di Dio sopra la Terra » si coglie la connotazione che illumina il motivo del puer sezex di luce cristiana. Il recupero delle immagini e delle valenze di un topos antico e suggestivo (patrimonio comune, sumz724 di riflessioni e di definizioni), il cui filtro sono, probabilmente, i Vangeli”, già presente, a livello icastico e con diverse suggestioni morali, in Esiodo 5, trova il suo controcanto nel motivo della bétise, che connota un’umanità sulla quale spirano soffi di maledettismo ed echi di Maia con «la divina / bestialità » ?. L’umanità derelitta del poemetto, col suo corteo di storpi e di mendicanti dall’esistenza deragliata, incendia il testo di bainale, ific sacr gma adi par un ula mod e 1) (F!, iani ghel brue ri glio a dell rgia litu alla ione araz prep una di ura lett di dubbia chiave o ond sec o el ng Va del a tur let una ad ne io uz od tr 7 Cfr. S. Quasimodo, In a, noz Spi io, tes Car a: ezz vin gio mia la del ri lib i Giovanni: «Pochi furono dis il a vav pro si e dov , ora all ri, asp i, cis pre ti Tes i. gel S. Agostino, i Van re mp se era ro ont inc st’ que Ma . ità ver la con o ntr nco l’i nel sidio del pensiero la del , asi lsi qua no seg un ad rsi ida aff di a im pr ta ten mo uo ricerca che ogni 69. p. 0, 196 no la Mi z, war Sch gi, sag ri alt e co iti pol il e ta poe Il vita », in 8 Le opere e i giorni, 181. ? D, Maia, XVII, p. 249.

447

salvezza che si alimenta di una simbologia rituale oblativa:

la

salita alla montagna « con le scarpe rotte » (F', 10), dopo aver dai te not una po do , lta sce di o ol mb Si ia. cev cro un nto giu rag

colori penitenziali, che diviene conseguimento, poetico ed umano, di una conquista tormentata, pacificata da un’alba densa di colori; inno cristiano la cui matrice è nei Salzzi!°, in commistione al transfert francescano dell’affratellamento con gli uccelli-compagni che si librano sullo stagno, ultimo simbolo equoreo che lega la chiusa al porto « della terra di sole » dell’incipit. Una supplementare ipotesi di lettura discende, d’altra parte, dalla possibilità di recupero delle radici classiche del poemetto, non solamente per il motivo del puer sezex, ma, seppure a livello meno immediatamente riconoscibile, caratterizzato da atmosfere e suggestioni, per l’antico topos classico della discesa agli inferi. E se il puer senex coi suoi richiami metapersonali ‘ indotti ’ (miti classici, biblici, etnografici: con la reincarnazione dell’uomo vecchio in fanciullo, tema resistente ancora in India !) è assumibile quasi in ambito paraemiologico, per il motiva. del descensus proprio il gusto dello stesso Quasimodo, esplicitato poi nella traduzione del Fiore delle Georgiche*, autorizza l'accostamento al « mansuetus » 5. Il luogo che qui interessa, e che spinge ad una ipotesi di doppia lettura del Fanciullo canuto è la favola di Aristèo !. L’analogia è già riscontrabile a livello tematico: certo l'inferno quasimodiano è un inferno mondano, terreno; quell’inferno naturalistico che colloca nell’aldiqua l’esperienza abietta dei bassifondi, con le tinte sinistre dei recessi di Plutone. Ma non è solo lo sfondo acheronteo che giustifica questa lettura ravvicinata: Aristèo è il giovane inesperto che deve superare la prova ctonia per accedere al sapere presago del vate Proteo, dal quale potrà trarre perizia d’apicultore; e a questo sapere egli accederà,

facendo, di sé fanciullo e di Proteo vecchio, un viluppo inestri10 Salmi, 54, 56, 97, 129, in Il libro dei Salmi, versione e commento di G. Ceronetti, Adelphi, Milano 1985. 1! Mi pare lecita una lettura chiarita dall’apportto etnografico per la pertinenza al tema della reincarnazione dell’uomo vecchio in fanciullo: G. Cocchiara, Genesi di leggende, Palumbo, Palermo 1941; e al tal proposito: S. Thompson, Motif index of folk literature, Indiana University Press, Bloomington & London 1956, vol. II, p. 483, tipo E.605.7: Mar reincarnated as child. 12 Edizioni della Conchiglia, Milano 1942. po Virgilio e le Georgiche, in Il poeta e il politico e altri saggi, cit., PAD! 14 Georgiche, IV, 317-53.

448

cabile. Nella stretta tenace di Aristèo, che gli strappa i segreti della conoscenza, il vecchio Proteo si trasforma in puer e il gio-

vane acquisisce la sagacia affilata del senex !.

L’emblema del regno dei morti s’accompagna ai toni sentenziali che accendono evocazioni sull’altro perenne emblema della « terra di sole », la Sicilia, che la tessitura-incunabolo, densa di temi e di stilemi vaticinatori, rivisita entro un’aura biblica ! per le « strade del sole » e per « quelle della notte » (F', 10). La direzione correttoria di F! prepara il rifacimento del ’29 !”. La riscrittura attenua l’aspro registro descrittivo di F e di F!: il testo, pur conservando lo scenario di una notte violata dagli echi della morte, si accende di un più deciso colore d’alba, in limzine al messaggio catartico, il cui estuario di purificazione ha il suo luogo al di qua della siepe d’incubo, che esasperatamente aveva nelle due precedenti redazioni e mantiene il suo aplomzb nella strutturazione simbologica del motivo del fanciullo-aruspice-canuto che legge la vita. Nel rifacimento più urgente si rivela il bisogno 15 All’analogia tematica si aggiunge certo colore stilistico: che accomuna, nel gusto lessicale, e più genericamente metaforico, i due testi: così i distorti occhi «lumine glauco » (451) di Proteo e il suo aspetto digrignante rassembrano la luna che « sputava verdastro tra le sbarre » (F!, 7) dell’inferno-prigione del mendicante, tormentato da esalazioni consunte e putride. La sua focalizzazione, all’interno del poemetto, è nel silenzio: « Cadde nel silenzio / come cencio vischioso » (F!, 1); avviluppato entro una fune, come Proteo legato, è simile ad una «biscia addormentata »: rifrangenza di una delle tante forme che l’indovino assume prima del vaticinio: «tum varie eludent species atque ora ferarum » (406). Le ombre leggere dei morti, corpi spenti dell’Erebo, sono riflesse nelle « scarne figure tristi» (F!, 1) che trascorrono nel lattiginoso crepuscolo che apre il tempo del poemetto. Così come il corteggio delle Erinni e di altre figure mitiche che scortano il viaggio di Aristèo nell’Ade («implexae crinibus angues / Fumenides »: 482-83) richiamano la sinistra cornice che circonda la reclusione del mendicante, ossessionato da ombre «lunghe » e « scheletriche », denotative dei tormenti ultraterreni. E ancora la morte — per inedia, delle api del pastore virgiliano — ripercorre gli stenti dell’umanità emarginata del calco quasimodeo che trova il suo sbocco in un polisemico « crocevia » (F!, 10): canestri a Demetra e a Core, secondo i misteri eleusini venivano offerti in voto e lasciati ai crocicchi, e svolte impottanti si aprono per i cristiani, dopo la scelta tra strade incrociate, quella giusta e quella sbagliata, come nel Fanciullo che, per la sua rinunzia e per il suo atto di fede, diviene canuto per il sofferto viaggio nella conoscenza. 16 Salmi, 121. 17 Affidato a Pugliatti insieme ad un corpus di liriche manoscritte dal titolo mallarmeiano I Notturni del Re silenzioso: cfr. S. Pugliatti, Un poemetto giovanile di Quasimodo, in Parole per Quasimodo, cit., p. 169. Cfr. anche V. Paladino, Il sodalizio Quasimodo-Pugliatti, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, Giuffrè, Milano 1978, vol. V, pp. 705-12.

449

« indomabile di liberare in sillabe la sua vita » !5; pur nel canto le del tro ime per sto ngu l’a dal rga sla si to met poe il o, roc ora anc due redazioni precedenti e annuncia la vigilia di Acque e terre e, più sotterraneamente, alcuni grandi temi che esploderanno nell’Òboe sommerso e altri echi che si addenseranno nella stagione poetica di Giorno dopo giorno. Dai gorghi di P, nel quale il ‘fiore’ della luna! e il suo riverbero sono scomparsi, emerge la stupenda immagine della « luna tagliata dalle sbarre » (P, 6); e il miraggio di un'« oasi fosforica » (F', 6) (di sapore pascoliano, ma più dichiaratamente

legata al Canto novo ®), presente in F e in F', rifiutato in P, cede il passo ad una nuova partitura: non stelle iterativamente abbrunate (« stelle, stelle nere ») col corredo funerario dei « lucignoli », parimenti espunti, ma « ombre », ora solo « scheletriche », ma precedentemente « lunghe » e anche « mendicanti », in analogia

al maledettismo, indubbiamente stemperato, quasi prosciugato. Infatti i « ceri » non sono più « consunti » (e qui si coglie la raschiatura del crepuscolarismo più diffusamente presente in F e in F'); e l’« enorme pipistrello morto » (F', 7), che faceva registrare uno specifico ascendente baudelairiano, è assente; come è

caduta la descrizione del momento fisico-temporale dell’uccisione del piccolo, che in F e in F! aveva sequenze amplificate sul dito omicida del padre-mendico: dito che calava sul capo del bambino, schiacciandolo. Già tra F ed F! una notevole variante preparava l’eliminazione: Lo vedeva dovunque:

un dito, [lungo scarno, sanguigno, calava sul suo

un dito [scarno, lungo, sanguigno, calava sul suo

[capo,

[capo,

appena [nato [...] (F; (IV)

il capo d’un bimbo appena nato. (F1, 4)

il capo d’un bimbo

Lo vedeva dovunque:

L’inversione tra « scarno » e « lungo » in F' cancella l’assonanza interna di « dovunque »-« lungo » tra il primo e il secondo emistichio e allarga il campo semantico nel quale, pur nell’insi18 S. Pugliatti, Parole per Quasimodo, cit., p. 5. 19 FI, 7: «che sputava verdastro tra le sbarre, / tisica, gialla come un girasole ». 2 D, Canto novo, p. 373.

450

stita aggettivazione trimembre — che riporta a certe tecniche del Piacere dannunziano, nel quale la serie aggettivale ossessivamente è gonfiata — e nell’insistito flash-back dell’infanticidio, prende corpo una nuova prospettiva, preparatoria dello sgombero totale del campo narrativo, attraverso la riscrittura contratta dell’intero passo e della precedente strofe con la madre « cieca » che nel « delirio » pregava, invano, piangente, il carnefice vitreo,

i cui contorni sono esplicitati nell'unica strofe distica del poemetto, strofe che in P viene spostata alla fine della sezione due. Un tono d’antica nenia incastona la figura del mendicante: belva e fiera che sopprime il figlio, ma grandezza tragica nel suo doppio. L’endecasillabo a minore (ma il componimento è polimetrico, anche nel rifacimento) che apre con « La voce spenta dalle cantilene » (F!, 3), cancella il momento

della ferinità che

ha la sua rifrangenza nel desiderio di espiazione che comincia con l’autoamputazione dell’« indice assassino », spinta all’elevazione tonale che monta, importante vettore della raffigurazione. P subisce l’espunzione del ‘frammento ’ ?: il dialogato della sezione nove, del tutto estraneo, viene soppresso. La stesura di P si prosciuga: si appalesa una tensione verso gli stati di rastrema-

zione espressiva, in sintonia con la tendenza della poesia novecentesca che tende a scorciare, e che troverà, nel decennio successivo, la sua conferma lungo l’arco poetico di Quasimodo del decennio trenta-quaranta. A conferma della ricerca verso l’essenziale, si precisa ancor più lo sfrondamento di immagini talvolta convulse, i cui picchi descrittivi correvano verso il surreale: da qui l’espunzione del « viso viola come fiore pesto », sui quali Quasimodo tornerà con altri moduli in una lauda , dalle cui lasse lievita il dolore pet gli esposti a Piazzale Loreto (Clara Petacci ha « gola e bocca di fiori pestati »). Nell’iterata ricerca di un lessico più maturo si registrano spie di impreziosimento lessicale: la fioca luminescenza che in F e in F' cala dal « chiarore nervoso delle lampade » tra « le ragnatele lacere della nebbia » si tesse in P sulle trame di « aloni confusi dalle lampade e le mussole lacere della nebbia », percussivo; stile lo accentuano che contrappunti ai utile smalto sopratD'Annunzio, in diffusissimo 1), (P, » lordure « scompare 21 Definirei di suggestione pascoliana il dialogo della «trina» con il iZan ti, met poe mi Pri dei o lin Ugo te Con Il te: fon ile bab pro mare; una chelli, Bologna 1912, pp. 69-72. . 181 p. Q, a, mur le e eri alb gli o der cad ndo Qua in 2 Laude,

451

»; e or od « di one uzi tit sos in » zo lez « il ra ent ed tutto in Maia *, anche « lezzo » ampiamente dannunziano: da Terra Vergine al *. ne cyo ’Al all , ia Ma a , ne ma Ro gie Ele e all te, mor la del o ont Tri Scompaiono parecchi approssimativi « quasi », in F' già isolati dalle virgole, mentre in F correvano liberi lungo il testo; e pario: esc ent toc dot tar co afi ogr ole ore sap e di enz ist ins une alc ti men «una

bestemmia

corta e tozza

come

la sua fronte » (F'), che

ricorda moduli del Gesualdo verghiano ?. Si diradano le metafore introdotte dal «come » (frequentissime nel D'Annunzio delle Elegie romane e dell’Alcyone) e si attenua l’uso degli ossimori* La generica efflorescenza degli « alberi che scagliano ghiaccioli » ? si trasforma in « cuori di piccoli fanciulli » (P, 1), con una sosti-

tuzione che corre binaria a « dove vive l’infanzia vive il paradiso » che surroga la staticità precedente « dove dorme l’infanzia ivi è il paradiso » (F!, 3). In P il poeta si compiace delle arsi sdrucciole, come « Questa femina lùbrica conoscere », che più da vicino pare avere a modello l’Alcyore, e che da Acque e terre {con i « ciottoli del Platani » e i « vortici di polvere » ?, i « gomiti dei frassini » ®, i « timpani malefici » °!, sino agli esiti postremi di Dare e avere) egli modulerà ariosamente con una precisa intenzione di superamento della percezione sillabica (« la terra / che sgretola la natura inseparabile, il livido / suono della solitudine ») * e sempre più permanente fisserà il momento di durata della parola che si piega alle affabulazioni: «e le filosofie mutevoli, aspre / che ti aprirono sillabe non di cenere / ma certezze »*. 3 D, Maia, XI, p. 155:

«lordi

capelli»;

XVII,

p. 273:

«lorda

[...]

lordurte »; XVIII, p. 299: «lorde le mani»; ef passirz. Ed ancora: GB, Merope, p. 944: «lordure »; p. 878: «la lorda schiuma ». 24 D, Terra vergine, p. 53: «lezzo del tifo»; D, Le novelle della Pescara, p. 88: «lezzo di cipolle »; D, Elegie Rormzane, p. 341: «tetro / lezzo »; D, Maia, XVIII, p. 291: «il lezzo della fogna »; D, Alcyone, p. 731: « aspro lezzo bestial »; D, Trionfo della morte, p. 1028: «lezzo di cucina ». 25 Cfr. anche «la fronte bassa » e il « collo di testuggine » del Rocco dannunziano di Bestiame: D, Terra vergine, p. 50. 26 « Schiavo » e « padrone » di F e di F! ‘viene espunto in P. 27 Riscontrabile nell’« efflorescenza cristallina di ghiaccioli» de La vergine Orsola: D, Le novelle della Pescara, p. 292. I

(= AT).

29 30 31 2 8

Le

citazioni

sono

fatte

dall’edizione

di

Solaria,

I ritorni," AT, pp. 38-40. Scendere, AT, p. 42. Mercati, AT, p. 50. Varvàra Alexandrovna, in Dare e avere, Q, p. 236. Versi ad Angiola Maria, Una lirica d'occasione, Q, p. 259.

452

Firenze

P non accoglie l’« unghia granitica che lacera » (F', 1), spia di un canovaccio lessicale trecentesco, particolarmente caro al D'Annunzio

del Piacere e delle Faville, ma in esso resistono i

« doppieri »; si ha il rifiuto dei « ciclami » * sostituiti con « sa-

lici », destinati a memorabili ritorni nella poesia di Quasimodo, fino al celebre Alle fronde dei salici*, il cui andante mesto e

solenne è sostenuto dalla lievitazione del dolore per i morti della recente guerra, coll’indimenticabile attacco, « E come potevamo noi cantare », costruito, com'è ormai

a tutti noto, sul modello

del salmo 137. L’ipotiposi della fame, annunciata da una criptografia foscoliana *, Zeitmotiv della sofferenza che accompagna un’umanità derelitta, è essenziale strutturazione di un mondo di senzazorze, umiliato anche nel corpo, limitato nella lotta quotidiana; dal groviglio delle membra sofferte emergono: uno storpio, una cieca, un bimbo « nato storto » (figurazioni nelle quali si avverte il fiato degli storpi del Trionfo della morte che avanzano verso la carrozza di Giorgio ed Ippolita, ma vengono respinti a frustate; e c'è anche l’« orfano dall’ossa contorte » di Maia” e l’esperienza narrativa di Terra vergine). E sono incalzati dalla fame, che li insegue per tutta la durata del tempo concesso al vivere e che accompagna « per mano » mentre « zufola sorda e tartaglia con la morte », soprattutto quando « l’odore caldo del pane / sveglia le strade mattutine », rendendo quei derelitti come « pozzi asciutti / su cui è rimasta a piangere col vento / impiccata alla rigida carrucola / una povera secchia » (F', 1). Si avvertono riso-

nanze dal Canto novo * e da Terra vergine”, ma il fondale più strettamente legato al poemetto è nelle Novelle della Pescara: « Ella aveva

fame

[...] Quando

dal forno

[...] saliva nell’aria

l’odore caldo del pane [...] chiedeva; chiedeva con un accento di

34 Il poemetto è un impottante crocevia dell'itinerario quasimodiano: », cchi rano « », ami cicl « e: anil giov e ion duz pro a dell emi less esso accoglie « ghiaccioli », « trine », « fame con uncini », « lucciole » e « cespi ». Espunti e ue Acq di solo non vi, essi succ i ent mom nei nno uira rifl nto, nel rifacime rà glie acco che , ana odi sim qua ia poes ra inte a dell co l’ar go lun terre, ma

preziose « 35 In 36 Fi, suti umidi 37 D, 38 D, 39 D,

magnolie » e « asfodeli ». Giorno dopo giorno, O, p. 127. 1: « Raspava una macchia d’immondizie, / come quei cani osdi piaghe ». Maia, XVI, p. 241. Canto novo, p. 865: «A me picchia ne ’1 ventre la fame ». Terra vergine, p. 50: «con l’avidità di un cane famelico ».

453

mendicante famelica » ‘°. Ancora una messe di fonti con reiterate fami « in agguato » e « canti feroci della fame » e « pane addentato dall’avidità della fame » in Maia * Nel Fanciullo canuto la fame sembra essere il primum movens dell’ispirazione, ma in realtà è «il canto dell’umile / che s'è scordato di essere canuto »: dichiarazione di poetica che (al di là di immediate suggestioni di poetica pascoliana) esprime il rapporto del poeta col mondo; problematica ix progress che promuove un’acquisizione interiore e ingloba la sofferenza, il cui referente è la parola sempre più scarnificata nella sua puntuale scansione, tenace risposta ad un dolore senza tempo, i cui risultati travalicano il risentito senso di una realtà macerata e corrosa e slittano sulle muraglie dell’antica e meditata solitudine dell’io, che già si annunciava nell’Oboe: « Non m'hai tradito Signore: / d’ogni dolore / son fatto primo nato » # Il rifacimento appartiene ai tempi di Acque e ferre e più sotterraneamente precorre l’Oboe sorzzzerso con le sue « figure di puerizia » nei « mitissimi occhi di pecora trafitta » del « fanciullo » #*; coll’« infanzia imposseduta » di Convalescenza #; coll’infanzia « amore o perdute / cose » *; colla « nova innocenza » e col « nascimento » di Albero malnato *: col « dolente rinverdire / odore dell’infanzia » ‘’, fino allo spasimo di «Io muoio assai / per riaverti, anche delusa, / adolescenza » *, esasperato all'estremo («il rombo dell’ultimo giorno / ci desta adole-

scenti » ‘). Sono modi e forme che transitano per Acque e terre più scopertamente: « A si sembrava d’essere un bambino / che ha scordato il suo nome »° » « Ogni stella è una croce / che veglia un sepolcro di bambino » ° 4 D, Le novelle della Pescara, pp. 4 D, Maia, V, p. 58: «e frode e «udito / aveano i canti feroci della fame tato / dall’avidità della fame ». « Amen per la domenica in Albis, zioni di Circoli, Genova 1932, p. 119. 43 Compagno, OSMoRICIA SITO pn 69 #4 Isola, OS, p. 85. SEO STI: # Odore di eucalyptus, OS, p. 109. 4 Nascita del canto, OS, p. 115. 4 Immortalità, OS, p. 109. SD I ritorni, AT, p. 39. SIETOCRATSOArTi

454

76-79. fame in agguato»; XI, p. 157: »; XVIII, p. 304: « pane addenin Òboe

sommerso

(= OS), Edi-

Il fanciullo canuto sperimenta una serie di rifrangenze eufoniche ed allitterative, già collaudate da D'Annunzio in Maia e in Alcyone, come « lampade »-« lacere », che giocano tra il primo ed il secondo emistichio (« porto »: « terra »; « acre »: « catrame »; «fra »: « sartie »; « scarne »: « figure »: « nervoso »; « 0ssuti: « umidi ». Consonanze e assonanze: « Buca »: « « arabico »: « fosforica »; « vita v: « dito »; « pallore pieri »; « canuto »: « digiuzo »), talvolta col ritorno nanti (cioè di suoni) scanditi nel gioco degli accordi con lo sdrucciolo: « dolore »; « vivere »; « domina »:

lumaca »; »: « dopdi consodel piano « padro-

ne ». E ritorna il gusto per certo tipo di clausola, rafforzata dalla chiusura col punto fermo, già dell’Alcyore come: « Ecco la sapa dolce a mescere » ”, che ha nel poemetto un riscontro: « E le parole buttale a pesare », (più tardi, in Vento a Tìndari*, si avrà: « amaro pane a rompere. »). Ma sono riprese anche certe costruzioni come « strascinando » di F!* che rinvia ai mietitori di Terra vergine che « si strascicavano » ®, come « svolare », sempre di F!, di connotazione pascoliana (espunto però, in P), proprio perché l’uso delle forme verbali col prolettico s accentuava la funzione e rallentava lo scorrere dell'immagine, dilatando con la sibilante la sonorità dell’azione; e nel caso di « strascinando », la s caricava di altro spessore il fastidio fisico e morale.

Ricco di iperbati, di deittici che in seguito slitteranno verso gli ampi ventagli aggettivali di Dare e avere, il poemetto registra un altro attraversamento della costruita e preziosa scrittura dannunziana, con il lessema « canuto », di Maia e delle Odi navali" e dell’alcionico Anniversario orfico con il topos omerico

delle « schiume canute » *. Tra le ipotesi di suggestioni dannunziane anche una Favilla, apparsa sul « Corriere » del 20 agosto 1911: « Scrivi che quivi è perfecta letizia », con la parola del santo di Assisi: la « Porta e qual a nell ano, gidi re sapo di », tta stre a Port « la è » della vita », te mon del qua l’ac « re: late 4 ; elli colt di arsi affil si avverte un 52 D, Alcyone, p. 602. 53 AT, p. 70. 54 Stranamente

l’edizione

Mondadori

curata

dal Finzi

(= ©Q) registra

me co », ndo ina asc str « sia ci fo gra uto l’a nel e en bb se » do nan sci tra « in Fl e in P. 55 D, Terra vergine, p. 49. 56 D, Maia, VI, p. 38; V, pp. 63-69. RD AOddlnavalt pTM39. 58 D, Alcyone, p. 658.

455

peraltro è

una « fiammella che trema », un tormento d’anima, il « coro di santa Chiara »; e sulla chiusa: l’ave”. Così nel Fanciullo discende la calma serafica, in panica letizia colla celebrazione della vita in gloria di Dio, dopo il lungo viaggio che esalta la liturgia della salvezza nel difficile transitare, tra il giorno e la notte, nel quale si insinua il salmista ®. Altre griglie dannunziane: l’acqua ferma di uno stagno, come i « brevi specchi immobili » della Favilla e con il volo degli uccelli che spiegano il loro canto al Creatore. È ben noto poi ciò che ha rappresentato l’acqua per D'Annunzio nel simbolo mare-vita. E il mare è il fondale del poemetto che si apre su un porto siciliano, col suo oltremare e con le sue strutture di terra: i suburbi e i « lupanari », i vicoli e i mendicanti con le loro notti di metallo: « Tardi, ne l’ore del sonno, un calpestìo sonoro » (F', 5); ed è il necessario cartone preparatorio al montaggio della tragedia consumata nella notte priva di stelle e di tetto: « La mia casa, in quel tempo, / era un vecchio ponte » (F', 3), le « sartie » e il « cordame », già

dannunziane come l’« oltremare » e il « lupanare », sono proiezioni dichiaratamente frequentative: dietro il canto del mendicante avvinazzato c'è Maia con le sue minuziose descrizioni di taverne portuali, di crapule notturne, di tramonti disfatti; e prima Le novelle della Pescara con la descrizione del «lupanare fermentante » ©, Il viso « viola » del piccolo ucciso slitta su numerosi esemplari di scelte lessicali dannunziane: le notti di Merope sono viola® come la « chioma » di Saffo del Paradisiaco; i « crini viola » e le « palpebre [...] violette » analoghi « ai lembi / violacei della Sera » sono di Maia ® e l’acqua è « violetta » nel Canto novo; e le nebbie dell’Interzzezzo sono talvolta di « viola », talaltra di « violetta » Y; e diffusamente vi è il viola in Terra vergine. Le « chiazze di viola » sono in Dalfino insieme con una 9 D, Il venturiero

senza

ventura,

pp. 26-36.

50 Cfr. a nota 16. 61 D, Isottèo, p. 404: «vengono d’oltremare »; D, Odi mavali, p. 347: « oltremare in lontananza ». Tra Le Faville del maglio c'è La Clarissa d'oltremare. In Merope: La canzone d'oltremare. 6 D, Le novelle della Pescara, p. 90. 63 D, Merope, p. 951. 6 D, Poema paradisiaco, p. 688. DIDEM aa XVI 6 D, Canto novo, p. 823. 6 D, Intermezzo, pp. 256-57.

456

« rifioritura violetta » 4; viole « delle itidi » sono nell’Ecloga fluviale; un palato « violaceo » in I camelli dell’Aleyone che ha « chiome violette » in Versilia e una « barba violetta », nel Ditirambo IV. Ma è fitta la trama delle mutuazioni: il « respiro rotto » del poemetto nasce da Suspiria de profundis del Paradisiaco, il cui Epilogo contiene il sonetto La parola e l'esaltazione della sua forza espressiva. In questa scia nel Fanciullo canuto si ha una indicazione (« e cave sono allora le parole ») (F!, 1), ancora ne-

bulosa, ma significativa della terisione quasimodiana alla conquista della forza evocativa della parola. Una tensione che sarà in termini di programma, meglio precisata nell’Oboe®: «Tu ridi che per sillabe mi scarno », e che passerà, attraverso La vita non è sogno, alla rarefazione di Dare e avere, composto în limine mortis: « Nella mia voce / c’è almeno un segno di geometria viva » ” I calchi non escludono, anzi attestano un lungo travaglio? 6 D, Terra vergine, pp. 10-11. 6 D, Terra vergine, pp. 5-6. 0 OS, Parola, p. 81. 71 In Dare e avere che dì il titolo alla raccolta, Q, p. 235. 2 E sia lecito qui elencare altri possibili calchi: «la carrucola », il « pozzo » metafora dell’uomo murato, la «secchia impiccata » già appartengono a Maza, ad Alcyone (D, p. 801); inoltre, lo stridìo della « carrucola nel pozzo » e il « pozzo murato » del Notturno (D, pp. 256-353) metafora della morte, puntualmente ricorreranno lungo l’arco poetico quasimodeo, fin dall’Oboe: « Nasce una memoria di buio / in fondo a pozzi murati» (Metazorfosi nell’urna del Santo, p. 98). Le numerose scelte aggettivali col suffisso in igro (« ferrigno » è il mendicante del poemetto) gremiscono la scrittura dannunziana da Alcyone a Maia che ha « azzurrigni» (D, Mata, X, p. 150); « ulivigno » e « sanguigno » sono in Merope (D, p. 908), «lupigno » in Elettra (D, p. 431); e «una dolcigna afa » pesa sui Madrigali dell'estate (D, Alcyone, p. 745). Senza dire dell’armamentario dannunziano di rose, cani, mani, carne, cicale, cipressi, bare, lucerne, lampade, murmuri di mare e di foglia che affollano la scrittura del poeta abruzzese e gocciano sulla pagina quasimodiana. E non solo nel Fanciullo, dove il « calpestìo » ricalca la frequentazione dannunziana dei deverbali in ?0, ma in Acque e terre viene accolta « povertà di carne » (Battere al buio, p. 43) « acqua di grotte e coccole silvane » (Elemzosina, p. 30), « bianche carni» (Adolescenza, p. 43), un « pubere sileno » (Tormenta, p. 51), una «francescana chiarità» (Chiarità, p. 60); e « gelidi lauri ignudi / iddii pagani» (Ariete, p. 84) e «cuore / di carne» (Confessione, p. 89). Nell’Oboe sommerso s'incontrano: «mani erbose » (Oboe sommerso,

p. 17), un

tempo

che « discorza » (Alla mia

terra, p. 20), una

« piaga che buca Ja carne » (Curva minore, p. 42): e si toccano « silvani p. canta, me in ea (Ur » morte paludi « e » mirti « e accordi felici» di «voci 97); Santo, del nell’urna (Metamorfosi lacustri» 47), « alberi sera, subito è Èd (in capovolti» velieri « e 100) p. deriva, (Verde » fiumi ca« da accompagnati «cordami» e 107) p. Q, Lambro, del Sulle rive

457

nel ta, poe il : na ia od im as qu ola par la del o ian tid quo o ist per l'acqu del i ion rag le re ari chi eva pot noi e io nz nu An D' gio sag ’39, nel per non i ers avv o mm fu gli i No « : io nz nu An D' disamore verso inerzia o carenza d’amore, ma per sostanza della nostra natura rmpo l’i del '* za ez ol ev ap ns co la ta ra tu Ma ?. » to can al a at gn pe im tanza della « percezione sillabica », nel discorso sulla Poesia contemporanea del ’46, affermava che ogni poeta ha «un suo linguaggio », un suo « particolare vocabolario » e « sintassi che ne denunciano la personalità » ?, e nel ’53, col Discorso sulla poesia, nel quale D'Annunzio è qualificato « consapevole divulgatore di squilli d’arme » 9, doveva pronunciare ufficialmente l’abiura. Ma è certo, e tutti i risultati, qui registrati, lo documentano, che il giovane Quasimodo, che avvertiva i limiti e le angustie della

provincia, doveva aver frequentato parecchio l’opera dannunziana, subendo il fascino del più rappresentativo dei poeti laureati di quel tempo. Questo spiegherebbe la riverente e perentoria invocazione nella disperata missiva al « Maestro », inviata qualche settimana dopo la marcia su Roma, con la presentazione della più dannunziana delle sue scritture poetiche giovanili dalla quale si attendeva la consacrazione a poeta. denze di pietre e di vegetali » (Verde deriva, p. 100). Il suo porgersi « trebbiato» (Anellide ermafrodito, p. 107)) riflette il nascere «cruentato » del Notturno (D, p. 256); e segnala un ripercorrimento stilistico, pur nella diversificazione tonale, che lo accompagnerà fino alle ultime prove, nelle quali, tuttavia, affiorano lessemi chiave dannunziani, spie cromatiche che si rifrangono all’interno della scrittura. Alcune parole serba) allusive della liturgia della morte vengono affidate alle aggettivazioni che esplicitano connotazioni percussive e foniche, in contrapposizione ai preziosismi che nascono dal « cuore delle viole » (da Il falso e vero verde, Vicino a una torre saracena, per il fratello morto, Q, p. 175) e dal «cuore scavato» (da La terra impareggiabile, O, Un'anfora di rame, p. 202) e dal « cuore arato » dell’Oboe, in callida iunctura al «cuore ambasciato » (D, p. 252), « premuto » (D, p. 303), «stellato» del Notturzo (D, p. 312) Quel che è certo è, che entto la fluida geografia lessicale quasimodiana, la presenza dannunziana, pur tra differenziazioni e distacchi, manifesta la sua incidenza. 73 In Il poeta e il politico e altri saggi, cit., pp. 129-30. 7 Cfr. G. D. Pino, Introduzione a Salvatore Quasimodo, Poesia prose traduzioni, Utet, Torino 1968, pp. IXxxIx. 75 S. Quasimodo, Il poeta e il politico e altri saggi, cit., p. 11. TORvif apia2/i

Elena Salibra

QUASIMODO

E NERUDA

1. La prima traduzione di Quasimodo da Neruda risale al 1948; è l’Oda per Federico Garcia Lorca (da Residencia en la tierra II) che viene pubblicata sulla « Fiera Letteraria » del 5 dicembre 1948. Nello stesso numero della rivista si dà come imminente la pubblicazione di un volume einaudiano di poesie del poeta cileno « nelle nitide traduzioni di Salvatore Quasimodo ». Ma bisognerà attendere fino all’ottobre 1952 perché l’antologia veda la luce !. Il ritardo sarà motivo di sorpresa per Neruda, che ne farà cenno in una lettera a Quasimodo datata « Roma, 6 gennaio 1952 »?. L’antologia einaudiana comprende 25 liriche del poeta cileno, che coprono tutto l’arco della sua produzione poetica fino alla fine degli anni Quaranta*. L’opera si chiude con il poemetto Que despierte el Lefiador (1948), tradotto da Quasimodo

in un

secondo tempo su esplicita richiesta di Neruda. 1 P. Neruda, Poesie. Traduzione di Salvatore Quasimodo. Illustrazioni di Renato Guttuso, Einaudi, Torino 1952; indicheremo questa prima edizione con la sigla P52. Le edizioni successive presentano rispetto a P52 qualche correzione di lieve entità. Per quanto riguarda la critica, segnaliamo la contemporanea recensione di F. Fottini dal titolo Neruda tradotto da Quasimodo, in « Comunità », Milano 1952, VI, 14. 2 La lettera è stata pubblicata da Ignazio Delogu in P. Neruda, Poesie e scritti in Italia, Lato Side Editore, Roma 1981, p. 153. 3 Vi sono 3 poesie tratte dalla raccolta Veinte poemas de amor y una cancibn

desesperada

5 da Residencia

(1924),

5 da

Residencia

en la tierra II (1931-1935),

en

la tierra

3 da Espania

I (1925-1931),

en

el corazbn

(1936-1937), 2 da Poemas tltimos (1937-1944) che fanno parte della Tercera Residencia (1935-1945). Le 6 liriche del Canto general de Chile (Frag-

mentos) costituiscono il nucleo originario dell’opera, pubblicata nel 1943 in edizione privata a Città del Messico e poi stampata, sempre a Città del Messico, dalla casa editrice Oceino nel 1950, in seguito alla sottoscrizione di 343 persone, per lo più intellettuali di vari paesi del mondo. 4 Neruda scrive a Quasimodo: « credo che per molte ragioni il libro deve terminare col poema ‘Si desti il taglialegna” che segna una tappa

459

All’epoca della versione dei Canti Quasimodo poteva già vando en av , sia poe di e tor dut tra imo iss ent att e uro tare titoli di sic , 40) (19 ci gre ici Lir dai ni sio ver se cus dis e se mo fa le ivo al suo att , 45) (19 o ull Cat di ti Can dai , 42) (19 e ch gi or Ge le del re Fio dal to an qu per e 6), 194 re, po di (E e ocl Sof da , 45) (19 sea dis l’O dal

riguarda i moderni, da Ruskin (La Bibbia di Amiens, 1946) e da Shakespeare (Romeo e Giulietta, 1948). L’operazione del tradurre assume in Quasimodo un alto valore

creativo. A questo proposito il poeta afferma: Già nel 1938, quando

traducevo

i Lirici greci, avevo

scritto che

tradurre significa leggere un testo di altra lingua col proprio linguaggio, diciamo meglio, stile, perché è proprio dell’uso lessicale, grammaticale, sintattico nella struttura e suono dell’espressione compiuta, che intendevo parlare. Infatti non può determinarsi nella traduzione l’obiettività inerte intesa come fedeltà [...] perché il lettore mentre interviene sulla parola straniera ha già fatto una ‘scelta’ stilistica nella sua ripresa creativa).

Per questo

non

è corretto

porre

un

rigido spartiacque

tra

traduzioni e poesie; le une e le altre infatti tendono a fondersi e ad integrarsi

vicendevolmente,

senza

tensioni,

nella

ricerca

costante di archetipi comuni. Quando si arriva a livelli di struttura profonda le diversità linguistiche si perdono e affiora quel « rapporto più intimo delle lingue tra loro » di cui parla Benjamin. La traduzione « non può cetto rivelare o istituire questo rapporto segreto; ma può rappre-

sentarlo in quanto lo realizza in forma embrionale o intensiva » °.

2. Nel caso dei Canti di Neruda, ad un rapido confronto fra traduzioni e originali, il lettore percepisce subito una tacita inpoetica più recente. Le chiedo pertanto, caro amico, un nuovo sacrificio e cioè che in due o tre giorni faccia la traduzione. Il testo sta a pp. 355-86 del Canto General che diedi ordine le mandassero dal Messico. Anche Einaudi ne ha un esemplare ». La lettera è datata « Roma 23 ottobre » senza indicazione di anno ma, afferma Delogu, « credo non possano esservi dubbi circa la sua attribuzione all'ottobre 1950 »; cfr. P. Neruda, Poesie e scritti cit., pp. 172-73, ° Si veda S. Quasimodo, Ecuba, in Il poeta e il politico e altri saggi, Mondadori, Milano 1967, p. 90. 6 Cfr. W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus.

Saggi e frammenti,

Einaudi, Torino

1981, p. 42.

460

tesa, che si viene realizzando non solo sul piano oggettivo dell’operazione linguistica ma anche su quello più sfuggente delle ragioni poetiche. Quasimodo ricerca nei testi da tradurre un terreno fecondo di verifica del proprio sistema espressivo ed insieme una possibile fonte di nuove suggestioni liriche. Ne nasce tra i due autori uno scambio denso di sensazioni e di immagini legate al comune vagheggiamento di miti e di paesaggi mediterranei. Ma non per questo l’atteggiamento del poeta siciliano è nei confronti dei testi originali di accettazione passiva e di immedesimazione assoluta. Del resto una prima garanzia di riflessione critica è già insita nella dimensione antologica dell’opera tradotta; l’antologia infatti per sua natura implica una scelta. Analizzando la versione italiana nella sua interezza ci è dato cogliere non solo le affinità tra i due autori ma anche quelle irriducibili zone d’ombra, in cui si collocano incomprensioni e non coincidenze. Nell’iter traduttorio Quasimodo ostenta una sorta di euforia della forma e mette a fuoco i propri strumenti espressivi in direzione di un arricchimento fonico e di un’amplificazione ritmica del verso. Il movimento epico-oratorio proprio delle poesie di Neruda ha la forza trascinante di un fiume in piena che non conosce pause interne né sospensioni intermedie. Ma il fluire ininterrotte del canto rischia di far perdere il valore arcano della parola, così come appare nelle pieghe dei versi quasimodiani di Ed è subito sera, isolata nella sua verginità primitiva ed essa stessa creatrice, fin nelle sue componenti minime, di modulazione e di musica. Il poeta siciliano, pur rimanendo sostanzialmente fedele alla struttura aperta della strofe di Neruda, tutta costruita su procedimenti parallelistici e anaforici di tipo litaniale, di tanto in tanto provoca nella traduzione delle folgorazioni improvvise che bruciano i passaggi logici e annullano i legamenti discorsivi più marcati. Ne viene fuori una rinnovata orchestrazione della sequenza, che si coagula intorno ad alcuni nuclei semantici essenpuro suono il e creat rice forza sua la ritro va parol la a dove ziali, sperimenta le proprie virtualità allusive e simboliche. Ritorna dunque ad improntare di sé l’abito stilistico del poetarie prop le nda affo che la, scuo di ine tud sue con una traduttore a poet il essa di e nom In . tica erme za rien espe radici nella lontana zia, iner tiva rela di o stat uno ad nola spag fe stro la spesso sottrae ti ques su e i, suon e le paro , ime min à unit sue e nell la scompone

ultimi opera una sorta di semantizzazione 461

secondaria.

L’eftetto

edir la nel ale gin ori to tes del ura zat for a ger leg di è iva che ne der Si ni. lia ita si ver dei co bri tim e ico fon o nt me ia nz zione di un pote legga la strofe seguente di Solo la muerte: A volte vedo solo bare a vela salpare con pallidi defunti, con donne dalle treccie morte, con panettieri bianchi come angeli, con fanciulle assorte spose di notai, bare che salgono il fiume verticale dei morti, il fiume livido, in su con le vele gonfiate dal suono della morte, gonfiate dal suono silenzioso della morte.

(31)

e si confronti con l’originale: Yo veo, solo, a veces, ataides a vela, zarpar con difuntos palidos, con

mujeres de-trenzas

muertas,

con panaderos blancos como dngeles, con

nifias pensativas

ataides subiendo el rio morado,

casadas

con

notarios,

el rio vertical de los muertos,

bacia arriba, con las velas hinchadas por el sonido de la muerte, binchadas

por el sonido silencioso,

de la muerte”.

(30)

Nella versione del poeta siciliano alla lunga allitterazione in v (VoltE VEdo VEla) si aggiunge la rima interna dare: salpare. Inoltre la metafora è resa ancor più forte per l’effetto fono-allusivo del sintagma « bare a vela », che richiama da vicino « barche a vela » e rende quindi più motivato semanticamente l’uso del verbo salpare. Suono e senso appaiono dunque impegnati nella stessa avventura metaforica. Nella enumerazione seriale della strofe ritornano alcune parole-chiave: bare, fiumze, vele, morte, di cui ben due impegnate in rima (bare: salpare, morte: assorte) nel testo italiano. L’iterazione non è casuale. Queste parole hanno la loro

motivazione

« suono

silenzioso della morte » con cui si chiude la strofe. Il

Ta

citazione

semantica

è tratta

in un’ossessione

da P. Neruda,

Poesie,

trad.

acustica;

è il

di S. Quasimodo

con testo a fronte, Einaudi, Torino 1965, come tutte le altre del saggio; il numero in parentesi indica la pagina del volume in cui si trova ciascuna lirica; le coppie di numeri si riferiscono alla pagina dell’originale e a quella a fronte,

della

traduzione.

462

messaggio tende a farsi riprodurre dalla sua forma. L'efficacia ritmica dell’incipit non è accidentale ma strutturale. Nelle allitterazioni e rime è il punto di raccordo delle due costellazioni semantiche su cui si costruisce la metafora: bare > morte, fume > vele. Il movimento ritmico iniziale mima il suono della morte e dà il via alla serie di intersezioni figurali. Quasimodo nel tradurre esalta questa suggestione ritmico-evocativa del messaggio poetico. Ma « il suono della morte » è silenzioso; l’effetto ossimorico del sintagma si potenzia nella sequenza successiva, attraverso la visualizzazione di una mancanza: La morte arriva a risuonare come una scarpa senza piede, un vestito senza uomo, riesce a bussare come un anello senza pietra né dito, riesce a gridare senza bocca, né lingua, né gola.

Poi di nuovo un’enfatica riproduzione del « suono » della morte attraverso l’iterazione, nel testo spagnolo, di suerar e suena: Sin embargo sus pasos suenan y su vestido, suena,

callado, como

un drbol.

A questo punto Quasimodo sente il bisogno di variare l’orchestrazione del ritmo; elimina dunque l’iterazione del verbo suonare e traduce liberamente: Certo i suoi passi suonano, e il vestito ha un lieve stormire d’albero.

La morte ha dunque una voce, ed è quella lieve dell'albero. Il salto analogico avviene attraverso uno stilema caro al Quasimodo di Ed è subito sera: l'infinito sostantivato, forma verbale È. to olu ass tivo geni un da ito segu za, llen ecce per indeterminativa con re cide coin a fino , radi più pre sem li anel in Il suono si dilata pio: esem o altr un veda Si . nzio sile il sé, da tro l’al 8 Altri esempi in Ed è subito sera sono: incurvarsi

d’orbite»

(62),

«un

trovarsi

« stormir d’olmi » (45), « un

d’astti»

(62),

«un

fremere

di

ume vol del ina pag la a ign des esi ent par in ero num il 3); passi umani » (10 daMon zi, Fin G. di a cur a , sia poe la sul si cor Dis e sie Poe S. Quasimodo, to. men eri rif fa si ola reg di cui 1, 197 ano Mil i, dor

463

Son una campanada de voz negra que a través de los cuerpos de acero asesinado repica la victoria.

(56)

Sono colpi di campana di cupa voce che sui corpi d’acciaio assassinato battono la vittoria

(57)

L’effetto acustico è più forte nella versione italiana per la lunga allitterazione in c (COIPI di CamPAna di CuPA... COrPI). I rintocchi della vittoria battono sui corpi d’acciaio: ed è un suono freddo, metallico. La qualità del suono scaturisce dalla pre-

valenza delle vocali cupe 0, “x e delle gutturali. Il movimento del suono si ripercuote nella doppia catena di parole legate attraverso il nesso indetetminativo di. Si ha la sensazione che le parole si incontrino per caso, spinte da una specie di forza inerziale, la stessa che scandisce i rintocchi delle campane. Riportiamo altri esempi in cui si attua nella versione italiana un potenziamento fonico della sequenza anche a scapito della fedeltà semantica: (60-61) (62-63)

tambor de son opaco + tamburo di suono sordo negro como agujero => scuro come squarcio (nero come

un foro)

;

rompe una frente parda > rompe una fronte fosca® (rompe una fronte grigia) brilla encendiendo + brilla bruciando (brilla incendiando) Ilena de corales > carica di coralli (piena di coralli)

(68-69) (78-79) (82-83)

con los pies empapados + con i piedi pieni d’acqua (88-89) (con i piedi inzuppati) he visto llamear sus corazones de fuego y energias > ho visto i loro [cuori fiammeggiare di forza e di fuoco (58-59) (ho visto divampare i loro cuori di fuoco e d’energia) piedras rojas => rocce rosse (98-99) (pietre rosse)

empapada de soledades y resina

>

satura di solitudini e di [resina

(114-115)

9 In P52 si legge « rompe una fronte di mulatto» ; solo in un secondo momento Quasimodo rende nella traduzione l’effetto fonico allitterante.

464

(imbevuta di solitudini e...) Miro extensas zonas de hombre > Vedo vaste zone d’uomo (114-115) (Guardo estese zone d’uomo)

por los nuevos caminos recién trazados + c (lungo i nuovi cammini

lungo le strade da poco [ tracciate

da poco tracciati)

(114-115)

|

A volte il poeta traduttore cerca di trasferire nella versione italiana quelle corrispondenze sonore che caratterizzano la sequenza spagnola, operando dei sottili compensi fonici interni o dei leggeri spostamenti di senso. Si vedano gli esempi: ando y hago mi casa errante, vuelo, paso, canto y converso a través de los dias.

(114)

ho la mia casa errante, e volo, passo,

canto e parlo nel volgere dei giorni.

(115)

Le allitterazioni e assonanze (CAsa... CAnto... Converso, AndO

y bASO... pAsO... cAntO) si ritrovano nel testo italiano potenziate e arricchite (CAsa... CAnto, PAsso... PArlo, VOLo... gere, pAssO... cAntO... pArlO). Così pure nei versi:

VOL-

entre acontecimientos y follajes ameédrentados a veces, interrumpidos por la alegria y por el duelo,

(102)

spaventati talvolta da fatti e fruscio di foglie, frenati dalla gioia e dal dolore,

(103)

La lunga allitterazione in a (Acontecimientos...

Amédrentados

A veces... Alegria) è ripresa nell’intenso richiamo fonico in f, fr (Fatti... FRuscio...

Foglie... FRenati).

Infine si confrontino

i se-

guenti passi del poemetto Que despierte el lefiador: Cantemos juntos lo que se levanta de todos los dolores, lo que surge del gran silencio, de la grave (118)

victoria:

Cantiamo

insieme ciò che si solleva

da ogni dolore, tutto ciò che sorge dal grande silenzio della vittoria di sangue:

465

(119)

[...] tendriamos un nuévo océano, grande como ninguno, profundo como ninguno, viviente como todos los rios, activo como el fuego de los volcanes araucanos.

(118)

[...] avremmo un nuovo oceano, più grande di tutti gli altri e più profondo, vivo come tutti i fiumi, attivo come

il fuoco dei vulcani araucani.

(119)

Nel primo esempio scompare l’allitterazione GRAn... GRAve, ma in compenso « de la grave victoria » diventa « della vittoria di sangue », dove sangue fa da eco a grande del verso precedente, per di più situato nella stessa posizione ritmica. Nel secondo caso si ha la sensazione che la cadenza enfatica dei versi spagnoli si perda nella traduzione per la soppressione del parallelismo sintagmatico « como ninguno »; ma Quasimodo ne recupera tutto il movimento epico-oratorio attraverso l’artificio metrico delle due coppie di rime perfette a stretto contatto (vivo: attivo, vulcani: araucani) che chiudono la sequenza. Per ottenere quella corrispondenza tra suono e senso, che il poeta siciliano privilegia, talvolta introduce una parola in più, assente nel testo originale. Così: para cantar

estas

reconstrucciones

(118)

[...] per cantare questo alto ritmo di ricostruzioni

(119)

diventa:

L’allitterazione RItmo di RIcostruzioni determina una sorta di dilatazione semantica del suono, perfettamente congruente alla parola-tema cantare, da cui il fenomeno prende l’avvio. Il verso: estendidas en luna y en edad

(60)

sterminati in luce di luna e in tempo

(61)

diventa:

466

Qui l’effetto allitterante (LUce LUna)

è secondario

rispetto

alla suggestione del ritmema caro al poeta ermetico. La tipologia è identica in questi versi di Erato e Apòllion: « in luce di cieli in tenebra di vento » (91), « un’eco appena / ne serba in voce d’alberi » (86). Al fondo c’è la consuetudine di usare le preposizioni in e di, quali indicatori indeterminati di nessi metaforici. Lo schema tipologico è il seguente: în 4 sostantivo + di + sostantivo. Il primo dei due sostantivi è un termine generico, appartenente alla sfera sensoriale visiva o fonica, il secondo è tratto dal vocabolario più concreto della realtà esterna, per esempio della natura. Si tratta dunque di un’astrazione ritmica che veicola un’astrazione analogica e fantastica. La struttura-aggregato

che ne viene fuori è costruita sulle due preposizioni in e di, di cui l’una regge il sostantivo epitetico determinante, l’altra il sostantivo concreto determinato. 3. Il sistema ermetico, pur essendo un’esperienza ormai lontana nel tempo per Quasimodo, continua a condizionare intensamente il poeta traduttore, perché funge da elemento propulsore di tutta una serie di spostamenti linguistici e di ristrutturazioni

ritmiche. In virtù di una sua interna forza inerziale il sistema che si sfalda fa riaffiorare alcune sue costanti, da opporre, come sicura alternativa, agli stilemi propri della poesia in lingua straniera. Si possono individuare alcuni ingredienti stilistici, che agiscono nella direzione di una maggiore assolutizzazione e indeterminazione del linguaggio. Tali sono: a) l'eliminazione dell’articolo: como una flecha en mi arco, como una piedra en mi honda > come freccia nel mio arco, pietra nella mia fionda (8-9); como a la orilla de un océano blanco > come a riva d’oceano bianco (24-25); comzo

un agua seca + com’acqua rigida (24-25); como el Ulanto o la Iluper > ncio sile le abab inac el por 31); (30gia piog o to pian come > via > var boli or fulg un e tien var boli io estaf el 63); (62infinito silenzio / , luna la de luz la @ 67); (66var bolfî e ndor sple ha lo stagno bolfvar ); -109 (108 ina matt di , luna di / rore chia al + ana mafi la en o

ilif qua o i nit efi ind , vi si es ss po i iv tt ge ag di ne b) l'eliminazio cativi troppo espliciti: è e nd hu y a rt ie sp de ); 21 0(2 ra ie nd ba la arrolla su bandera => avvolge e br ne te e ll ne a nd fo af a li eg sv no ma la ma > su mano en las tinieblas 467

(70-71); y sentarme en tus piedras + e sedermi sulle pietre (78-79); aAbr ga ven Que ); -83 (82 do ral sme lo pe rom > lda era esm su pe rom ham con su hacha => Venga Abraham con l’ascia (138-139); paz para la camisa de mi hermano +

pace per la veste del fratello (142-143);

saliendo de ciertas campanas, de ciertas tumbas > che viene da campane, da tombe (30-31); que salen de mi corazbn a borbotones > che escono dal cuore gorgogliando (34-35); que corren en ciertos rios > che corrono in fiumi (34-35); como el mismo invisible pecho del cielo > come il petto invisibile del cielo (56-57); Todas tus estructu-

ras >

della

Le tue strutture (60-61); de muestra propia ausencia >

nostra assenza (102-103); de toda nuestra extensa latitud silenciosa > della nostra immensa silenziosa latitudine (66-67); una botella Ilena de sal sedienta - una bottiglia di sale assetato (34-35); orilla augusta / de cielo y aluminio + riva / di cielo e d’alluminio (62-63);

c) la sostituzione del plurale con il singolare di tipo indeterminativo: sus corazones + il loro cuore (25-26); un seno, una testa (50-51);

busca senos, si

cabezas >

cerca

d) la traduzione di fodos con ogni sempre in funzione indeterminativa: todo leva tu nombre

+

ogni cosa

[...] porta il tuo nome

(66-67);

para todo el amor > per ogni amore (144-145); bombre de todas las tierras > uomo d’ogni terra (120-121); de todos los dolores + da ogni dolore (118-119);

e) l’eliminazione di alcuni nessi sintattici troppo precisi: como un viejo octopus roido + una vecchia logora piovra (106-107); y entran [...] / con la desgarradora soledad de los dias > entra la straziante solitudine dei giorni (58-59); Tus ojos que vigilan mas allà de los mares + I tuoi occhi vigilano al di là dei mari (68-69); Hay mucha

muerte,

muchos

acontecimientos

funerarios

>

Molta

morte,

molti avvenimenti funebri (34-35); Las grandes victoriosas ideas estàn en Grecia y en China > Le «alte » idee di vittoria sono: Grecia, Cina (112-113); mo lo mires porque te quemarà como una estrella > e meglio non guardarlo: ti brucerà come fuoco di stella (132-133); que completan el cielo / con su azul material vagamente invencible > a completare il cielo azzurro di materia vagamente invincibile (52-53).

468

7) la sostituzione dell’aggettivo con un tipo particolare di genitivo, che funge da complemento di qualità o di materia: desorden

vasto,

/ oceanico

>

disordine

vasto,

/ d’oceano

(18-19);

plateado + d’argento (20-21); tu estatura estrellada > la tua altezza di stella (78-79); su desnudo agonico + il nudo d’agonia (82-83); con WUanto desterrado + con pianto d’esilio (92-93); al coral sanguina rio + al corallo di sangue (92-93); en esta paz balsimica > in queÈ pace di resine (120-121); azul material > azzutro di materia 52-53);

g) la sostituzione dell’aggettivo o del participio con una locuzione nominale in funzione epitetica: mis horas perseguidas —

le mie ore in fuga (12-13); de agua comba-

tiente > d’acqua in lotta (78-79); Fundamentales come fondo (90-91); con fugaces palomas -> con

aguas > Acque colombe in fuga

(90-91).

La tendenza a privilegiare il nome sul verbo porta Quasimodo a tradurre una serie parallela di imperativi con dei sostantivi corrispondenti, al plurale: que alli golpeamos de dia y de noche, alli pateamos de dia y de noche, alli escupimos

(58)

de dia y de noche

e allora giù colpi giorno e notte, calci allora giorno e notte, (59)

sputi allora giorno e notte,

Allo stesso modo il verso:

« la avena que heredaste / de Jef-

ferson » (102) diventa « l’avena —

eredità di Jefferson —

» (103).

Quando è possibile il poeta trasferisce il passato remoto o à dit fon pro di vo pri to, olu ass te sen pre di ta sor il futuro in una temporale: Porque

todo aquello que la sombra

tocé y ambicionò

el

[ desorden

(20) PI

ra de si de e in rd so di il e a cc to a br om Perché tutto ciò che l'

469

(21)

se instalò en tu casa, soldadito;

(106)

vive nella tua casa, soldatino.

(107)

para todo el amor que buscarà follaje,

(144)

per ogni / amore

che cerca schermi di foglie,

(145)

Per evitare qualsiasi tipo di periodizzazione narrativa e di sia pur vaga subordinazione ipotattica elimina quasi tutti i gerundi, che invece svolgono in Neruda, specie dalla Residercia in poi, una funzione stilistica fondamentale: [...] Estàn

en

medio

de la pélvora, de pie, como

mechas

(56)

ardiendo!

[JP In mezzo al fumo degli spari, in piedi, come micce bruciano.

"-

Existiendo como las puntadas secas en las costuras callado, por alrededor, de tal modo, mezclando todos los limbos sus colas.

(57) del drbol, (16)

Come i punti secchi nelle suture dell’albero, silenzioso, intorno: uniscono così i loro estremi

tutti i limbi.

(170

una vez los grandes zapallos escuchan, estirando

sus

plantas

conmovedoras,

(18)

di colpo le grandi zucche ascoltano allungano le loro piante commoventi

(19)

Un clima de oro maduraba apenas las diurnas longitudes de su cuerpo Ilenandolo de frutas extendidas

y oculto fuego.

(24)

Un clima d’oro maturava appena la diurna longitudine del corpo e lo colmava di copiose frutta e occulto

fuoco.

(25)

470

Qui i gerundi si risolvono in serie paratattiche con o senza asindeto. Ne viene fuori una costruzione sintattica fortemente giustappositiva e segmentata. Altrove i gerundi sono resi con subordinate rette da che e

mentre in funzione di contemporaneità con la principale: T Uoras de salud, de cebolla, de abeja, de abecedario ardiendo.

(36)

Tu piangi per la salute, per la cipolla, per l’ape, mentre

bruci per il sillabario !°,

(37)

nada, ni el mar, ni el paso de arena y tiempo, ni el geranio ardiendo sobre la sepultura.

(62)

nulla, né il mare, né il passare della sabbia e del tempo, né il geranio che brucia sulla tomba.

y bay un temblor de nuevo ensetiando, cantando y construyendo. [...] e s’avverte

un

nuovo

(63)

en marcha

(118) fremito

che insegna, che canta e costruisce.

(RO)

La modificazione sintattica determina di necessità un cambiamento del ritmo all’interno della sequenza; la forte carica descrittiva e ritmica che nel testo spagnolo si condensa tutta sul gerundio, nella versione italiana si perde, perché si attua una sorta di livellamento di tutti gli elementi costitutivi del verso. L'effetto di neutralizzazione è massimo quando il gerundio è reso in italiano con

un infinito sostantivato,

con

un

aggettivo

o con

una

locuzione nominale: 10 La versione di Q. non sembra esatta. Dario Puccini traduce:*