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Italian Pages 212 Year 1987
MAURIZIO GRIBAUDI
MONDO OPERAIO E MITO OPERAIO SPAZI E PERCORSI SOCIALI A TORINO NEL PRIMO NOVECENTO
STORICA
EINAUDI
La classe operaia nell'Europa del primo Novecento ha costituito l’oggetto di una vastissima serie di indagini storiografiche, tutte volte a interpretare i comportamenti di questo gruppo sociale come univocamente determinati da elementi tratti dalla sfera della grande economia e della grande politica. Se per i primi decenni del secolo l’immagine predominante nella storiogràfia sulla classe operaia è stata quella di un gruppo reso sempre più omogeneo dai processi di industrializzazione e di concentrazione urbana, fino
al punto da acquisire una fortissima autoconsapevolezza collettiva e un marcato sentimento della propria identità, anche i successivi decenni, quelli del ripiegamento politico sotto l'avanzare dei fascismi, sono stati interpretati in termini di modificazioni delle strutture produttive e del mercato del lavoro, o anche di sconfitta di singoli gruppi dirigenti o di specifiche strategie di azione rivendicativa e politica. Scarsa è stata, in
questo contesto, l’attenzione rivolta alle componenti e alle dinamiche interne del mondo operaio, agli individui e alle famiglie che hanno popolato le fabbriche e i quartieri delle città industriali. Questo libro si propone di spostare l’asse della ricostruzione storica delle vicende operaie, e di studiarne gli sviluppi interni, per tentare di comprendere in che modo la vita quotidiana si sia articolata con il piano dei comportamenti politici e per indagare gli altri ambiti di relazione che, accanto a quello della fabbrica e delle organizzazioni politiche e sindacali, hanno costituito il tessuto della socialità operaia. Originata dalla ricognizione su un gruppo di anziani testimoni abitanti nel quartiere torinese di Borgo San Paolo, l'indagine di Gribaudi si arricchisce e si articola, sottoponendo a un forte vaglio critico i risultati delle testimonianze orali. Dietro l'apparente omogeneità delle storie di vita di quei testimoni si celano in effetti grandi differenze di percorsi, di sensibilità, di scelte di decisioni. La ricerca a ritroso dei percorsi di immigrazione delle famiglie dalla campagna alla città, e la
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https://archive.org/details/mondooperaioemito000grib
Biblioteca di cultura storica
163
© 1987 Giulio Einaudi editore s. p.a., Torino ISBN 88-06-59411-7
Maurizio Gribaudi
Mondo operaio e mito operaio Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento
Giulio Einaudi editore
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Indice
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Introduzione
Mondo operaio e mito operaio Parte prima TE
La città e il mondo operaio visti dalla parte della campagna: famiglie e strategie migratorie 1. Le strategie familiari di fronte alla crisi agraria 2. Città e campagna nell’orizzonte dell’immigrato: mobilità relativa e strategie di integrazione
La città, il mondo operaio e l'immigrazione: il ciclo di «integrazione urbana» 1. Una classe operaia di recente immigrazione: il turnover sociale nel mondo operaio 2. Un percorso di integrazione attraverso le professioni della città 3. Un percorso di integrazione attraverso i quartieri della città
. Famiglia e integrazione: limiti e risorse del percorso operaio 1. Mobilità professionale e struttura familiare 2. Mobilità professionale ed età al matrimonio 3. Mobilità professionale e rapporti di parentela IV.
Gli ambienti di riferimento e le congiunture storiche nei percorsi di integrazione 1. Comportamenti professionali e scelte di stanziamento 2. Il centro e la periferia: una diversa rappresentazione della realtà sociale 3. Mobilità professionale e congiunture storiche
VII
Indice
Parte seconda p. 101
v. I meccanismi di aggregazione in un quartiere operaio
all’inizio del secolo 102
Famiglia, vicinato, quartiere: reti di relazione e sistemi di scambio informale Il rituale dell’uguaglianza, il «discorso socialista» e lo «scambio di piccolo raggio» . Ruoli familiari e ruoli sociali. Dinamiche d'apprendimento e meccanismi di controllo nello spazio di relazione di un quartiere 4. Risorse e limiti della socialità di quartiere I.
2.
vi. Gli anni del fascismo. La disgregazione dei quartieri operai vista attraverso un gruppo di giovani Il quartiere e i giovani tra le due guerre. La messa in scena delle differenze Scelte dei giovani e quadro familiare. Vecchie aspirazioni e nuovi modelli di comportamento 3. Il fascismo e il consenso dei giovani. Conflitti generazionali e conflitti politici Ti
2h
Conclusioni Riferimenti bibliografici
Introduzione
Una ricerca di storia è innanzitutto un tentativo di rispondere a domande e interrogativi maturati nel presente e mediati, nello stesso tempo, dal filtro delle esperienze del ricercatore, dalla sua particolare visione della realtà e dai problemi che essa gli sembra porre. Non si muove, quindi, attraverso un percorso rettilineo. Fin dall’inizio, e man mano che nuovi dati si accumulano, emergono aspetti imprevisti, si individuano nuove connessioni. Gli interrogativi di partenza si modificano, più spesso mostrano la loro parzialità. Emergono nuove domande che sollecitano la raccolta e l’analisi di nuovi dati, e che cambiano gli aspetti non solo di un’interpretazione della realtà storica ma anche di quello che pareva essere il quadro dei problemi posti inizialmente. Quando, al termine di questo percorso, si sente l’esigenza di stendere
i risultati e comunicare gli aspetti emersi, ci si rende conto di quanto sia difficile trasmettere, anche al lettore meglio disposto, la complessità di un tale percorso in modo tale da fornirgli non solo i risultati a cui si è pervenuti ma anche i nessi e le ragioni che di volta in volta li hanno preparati, rendendoli ai nostri occhi necessari. Cosf è per questo libro; esso non è solo il frutto di una riflessione nata e maturata nel contesto della ricerca storica,
ma anche delle esperienze e degli interrogativi che mi hanno seguito per quattro anni, degli stimoli e delle influenze di un contesto più ampio.
1. Come per molti storici formatisi in questi anni, la mia preparazione universitaria è stata accompagnata dagli assestamenti avvenuti durante e dopo gli anni della contestazione e dei movimenti di massa. In meno di dieci anni larghi spazi della società occidentale erano passati da una fase di intensa mobilitazione ideologica e politica ad un’altra, apparentemente opposta, in cui il quotidiano e il privato sembravano avere ripreso il sopravvento sull’eccezionale e sul politico. Un processo, questo, che aveva stimolato molti interrogativi sulle dinamiche e sui meccanismi di tali cambiamenti sociali. Le interpretazioni e i dibattiti di allora, fondati sull’uso di
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rigide categorie sociologiche, permettevano però unicamente soluzioni limitate, proprio perché, pit che anticipare od orientare questo processo, esse parevano rincorrerlo nel tentativo di etichettarlo. Per queste ragioni, la rinascita di interesse e l’accresciuta attenzione, certo non casuale, del dibattito interno alle scienze umane per gli elementi culturali nella formazione dei comportamenti sociali trovavano un pubblico particolarmente attento. Il piano delle mentalità e degli aspetti culturali, sembrava importante proprio perché prometteva di aiutare a chiarire le complesse articolazioni tra fatti storici e pratiche sociali, e di riconoscere anche la forza d'inerzia degli elementi microsociali. In questo contesto lo studio del mondo operaio della prima metà del nostro secolo appariva come un campo di analisi privilegiato. Da un lato perché la classe operaia europea di questo periodo offriva l'esempio più chiaro di un gruppo che passa da una fase di massima coesione politica ed ideologica, ad una fase di ripiegamento. D'altro lato perché, particolarmente in questo caso, lo studio della complessità di un processo storico era stato ridotto a interpretazioni in cui i comportamenti sociali apparivano come univocamente determinati dagli aspetti economici o politici. Gli anni ’10 e ‘20 del Novecento sono stati osservati con ottiche diverse, mal’immagine che esse evocano è comunque essenzialmente la stessa: quella di un processo di industrializzazione che concentra in alcune città migliaia e migliaia di operai i quali, sotto le determinazioni di forme di produzione specifiche, prendono ad amalgamarsi, a riconoscersi come gruppo, a lottare come classe. Per gli anni che seguono, quelli del ripiegamento politico, si vedono agire ancora unicamente gli stessi elementi. Solo l’interpretazione degli esiti del processo può variare, a seconda del peso relativo attribuito al piano economico o a quello politico. Nel primo caso, la stasi sociale è interpretata come una disgregazione dell’unità e della coesione operaia che avviene sotto l’impulso di ulteriori trasformazioni dell'assetto produttivo e del mercato del lavoro urbano. Quando invece è il ruolo delle organizzazioni e dei partiti operai ad essere visto come dominante, si parla della sconfitta momentanea di un gruppo, che rimane per altro definito dalla sua esperienza e dalla sua memoria comune. Queste interpretazioni, qui provocatoriamente schematizzate, sembra-
vano riduttive e inefficaci nel loro sforzo di combinare, pur se in modo differente, gli stessi elementi. Il problema era quindi quello di ripensare questi processi prestando una maggiore attenzione alle loro componenti interne, agli individui e alle famiglie che avevano popolato le fabbriche e i quartieri delle città industriali. Studiarne le attitudini e i comportamenti, per capire attraverso di essi in che modo la vita quotidiana si era articolata con il piano degli avvenimenti politici. Chiarire se e in che misura la fabbrica
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e le organizzazioni operaie fossero stati veramente gli unici ambiti di riferimento su cui riposava l'identità di questo gruppo. Alla luce degli interrogativi odierni questo significava anche interrogarsi sul senso dei comportamenti sociali, sul rapporto esistente tra fisionomie individuali e fisionomie di gruppo, sugli elementi che determinano i diversi comportamenti ed evoluzioni sociali. Per tentare di rispondere a questi interrogativi mi era sembrato opportuno analizzare un gruppo operaio anche e soprattutto nella sua quotidianità, spiarne le attitudini e i comportamenti all’interno della famiglia e degli spazi di relazione, ricostruire attraverso di essi gli eventuali nessi di uno spazio culturale autonomo, di una maniera di vivere e di rielaborare l’esperienza sociale specifica di questo mondo, in grado di chiarirne i comportamenti collettivi come quelli individuali. Sulla base di questa ipotesi, avevo iniziato a raccogliere una serie di testimonianze orali di anziani abitanti di un quartiere operaio di Torino: Borgo San Paolo. La città e il quartiere potevano costituire entrambi un campo di osservazione interessante. Al centro dei dibattiti della sinistra italiana, già all’inizio del Novecento, essi erano diventati il simbolo più largamente riconosciuto sia dell’identità della cultura operaia, sia delle sue capacità di mobilitazione. Ma la scelta di analizzare un quartiere nasceva anche da una considerazione del dibattito aperto dagli studi sulle comunità e da quella che allora pareva proporsi come una vera e propria disciplina: la storia orale. Gli studi di comunità, recuperando le esperienze della sociologia e dell’antropologia, promettevano di ricostruire, attraverso l’analisi dei comportamenti interni ad un gruppo, i meccanismi che ne producevano sia la coerenza che la coesione, sia le disgregazioni che le trasformazioni'. La storia orale, dal canto suo, pareva permettere non solo l’analisi di questi elementi, ma anche la valutazione dei contenuti soggettivi e di gruppo del vissuto storico”. In questa ottica, cercavo innanzitutto di indagare sulle esperienze di vita concrete dei testimoni, all’interno del quartiere; di analizzare i ruoli e le forme di relazione costruiti nel quadro dei rapporti familiari e di vicinato, e in quello del lavoro e del tempo libero; di ricostruire le norme e i modelli di socialità che parevano emergere. ! Su questi temi la letteratura è sterminata. Cito quindi unicamente alcuni dei lavori a cui ho fatto un più diretto riferimento all’inizio della mia ricerca. Si tratta di lavori di chiara ispirazione sociologica come quelli di Willmott e Young, di Roberts o di Frankenberg, ma anche di ricostruzioni storico-etnografiche come quelle tentate in Francia da Morin o, più recentemente, da Burguière. Cfr. R. Frankenberg, Communities in Britain, Harmondsworth 1966; R. Roberts, The classic slum, Manchester 1971; M. Young e P. Willmott,
Family and kinship in East London, Harmondsworth 1957; E. Morin, Commune en France, Paris 1967; A. Burguière, Bretons de Plozévet, Paris 1975. 2 Proprio su questi problemi in rapporto all’esperienza operaia si sono incentrati i recenti lavori di L. Passerini, Torino operaia e fascismo, Roma 1984; e di A. Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Torino 1985.
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Le testimonianze restituivano inizialmente l’immagine di un quartiere in cui, in effetti, imomenti della vita quotidiana si articolavano in maniera armonica con quelli delle lotte e delle organizzazioni operaie. La densa struttura dei rapporti di relazione locali — in cui si integravano gli spazi e le esigenze della famiglia, del vicinato e del quartiere - sembrava costituire il vero tessuto connettivo in cui si erano alimentate, riconfermandosi
e crescendo quotidianamente, l’identità e la coesione sociale. Tutto ciò confermava le ipotesi di numerosi altri studi che individuavano i caratteri specifici della fisionomia operaia contemporanea in un uso integrato della famiglia e dei rapporti di relazione all’interno di uno spazio urbano, frammentato in quartieri e comunità locali. Questi tratti che si accompagnavano ad un’aneddotica locale, fatta di ricordi di episodi comuni e accettati come rappresentativi, inducevano quindi ad ipotizzare l’esistenza di una vera e propria cultura operaia, basata su norme di comportamento e visioni del mondo particolari, attraverso la quale l’identità del gruppo avrebbe potuto effettivamente riprodursi anche nei momenti di riflusso politico. Nello stesso tempo però il ritratto certamente pieno di contraddizioni ma compatto che andava emergendo mi lasciava insoddisfatto. L’omogeneità del quartiere, l’identificazione dei suoi abitanti, l'accettazione e l’interiorizzazione di un insieme di norme di comportamento... tutti aspetti apparentemente congruenti sul piano generale, mi sembravano ancora una volta paurosamente stridenti se confrontati alle vite e alle esperienze individuali. A livello esplicito, è vero, i testimoni parlavano della loro vita
passata nel quartiere in termini quasi idilliaci. Per loro il quartiere era rimasto un’entità unita e coerente, perlomeno fino alla seconda guerra mondiale. Ma, se si leggevano con più attenzione le testimonianze, ci si poteva rendere conto di come ben pochi aspetti riflettessero questa supposta con-
cordanza con quelle che tendevo a definire nei termini di norme e cultura di un gruppo. Al di là delle razionalizzazioni del presente, i diversi aneddoti portavano infatti i segni di una realtà sociale molto più complessa e contraddittoria. Innanzitutto emergevano aspirazioni e strategie indivi-
duali estremamente diversificate, che mostravano la presenza di tensioni e conflitti attivi all’interno non solo dei rapporti e della socialità dei testimoni ma dell’intero quartiere. E questo fin dal momento della sua formazione. In secondo luogo apparivano modelli di uso delle risorse e dei rapporti sociali diversi e difficilmente riconducibili ad una norma comune. A questo punto della ricerca mi trovavo a confronto con nuovi problemi, che mi imponevano di ripensare l'impostazione di base del mio lavoro. Dopo averlo riconosciuto, non potevo ignorare il divario tra la realtà complessa che iniziavo ad intravedere e la rappresentazione distorta che me ne
davano i testimoni. Se da un lato ciò rifletteva la difficoltà dell’uso delle
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fonti orali, in quanto basate su ricordi spesso deformati da successive razionalizzazioni, d’altro lato mi sembrava minare seriamente la possibilità di continuare ad utilizzare categorie analitiche vaghe, come quella di cultura di un gruppo, o concetti spaziali ampi come comunità e, nel mio caso, quartiere.
Utilizzare il concetto di cultura significa infatti pensare che un insieme di modelli, norme e immagini del mondo siano i riferimenti attivi e privi di ambiguità che orientano i comportamenti di un gruppo, sia esso professionale, etnico, nazionale, ecc. Ora mi pareva che il solo fatto di porre queste ipotesi avesse indotto la mia ricerca ad orientarsi verso i caratteri comuni e più facilmente evidenti dei comportamenti sociali, epurando ogni volta gli elementi di differenza, le dissonanze. Non credo che non esistano rappresentazioni del mondo o, se si vuole, mentalità collettive che marcano un’epoca o un ambiente. Penso che, per rimanere unicamente nell’ambito del mondo operaio, abbiano ragione sia Sewell sia Darnton quando mostrano come in certe affermazioni, in certe azioni di gruppi o individui, si possa leggere il riflesso di determinati immaginari collettivi’. Ma questi ultimi appaiono piuttosto come il quadro generale in cui si riflettono e combattono diverse letture della realtà sociale. Se si è realmente interessati a comprendere il significato dei comportamenti sociali e le ragioni dei loro mutamenti nel tempo occorre innanzitutto rendere conto delle loro discordanze, scoprirne le ragioni, cogliere le articolazioni che presentano reciprocamente e nel rapporto con il piano delle rappresentazioni dominanti (del gruppo come della società più vasta). Soprattutto, per ritornare ai problemi specifici di quel momento della ricerca, le immagini di una cultura operaia e di quartiere, proposte dai testimoni, mi parevano corrispondere ad una razionalizzazione specifica che unificava e immobilizzava la storia di questi ambienti in una forma distorta e parziale. Gli elementi fattuali, al contrario, mostravano piuttosto una dispersione e una variabilità di riferimenti e di attitudini sociali. Gli aneddoti, in particolare, recavano traccia di diverse forme di rapporti familiari, di diverse attitudini verso i consumi o, ancora, di diversi modelli di socialità. Ricondurre l’insieme di questi ele-
menti ad una norma comune, espressione di un rapporto lineare tra rappresentazioni sociali e comportamenti di gruppo, non era possibile. Per questo mi sembrava di dover ribaltare totalmente il piano dell’osservazione: bisognava accettare le differenze e porsi come obiettivo il problema di chiarirle. Anche il concetto di comunità, rappresentato in questo caso dallo spa3 R. Darnton, The great cat’s massacre and other episodes in French cultural history, New York 1984; W. H. Sewell jr, Work and revolution in France. The language of labor from the old regime to 1848, New York 1980.
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zio del quartiere, all’interno del quale la mia indagine si era inizialmente concentrata, sembrava limitato. Scegliere di studiare la fisionomia e i comportamenti sociali di un gruppo, analizzando l’ambiente in cui i suoi appartenenti avevano costruito le proprie scelte quotidiane, mi era parso inizialmente corretto, quasi necessario. Certo, non pensavo di poter descrivere una comunità operaia rigidamente vincolata nei limiti fisici del proprio quartiere. Su questo piano avevo senz'altro condiviso i dubbi e le preoccupazioni espressi dagli storici come dagli antropologi sugli usi troppo limitati del concetto di comunità‘. Mi aspettavo tuttavia di poter analizzare all’interno di questi spazi l'insieme degli elementi più densi, anche localmente, che avevano segnato e determinato l’esperienza operaia urbana nel corso della prima metà del secolo. Ora i miei dati si mostravano contraddittori proprio su questo piano. Le aspirazioni dichiarate e le strategie sociali poste in atto rinviavano spesso a immagini, ruoli e figure presi a prestito da altri ambienti. Non solo: molti dei comportamenti e delle attitudini registrate sembravano riflettere attese, aspettative ed esperienze maturate o proiettate all’esterno del quartiere. Infine i conflitti e le tensioni mostravano anche le tracce di figure che avevano condiviso quegli spazi, ma se ne erano allontanati. In fondo, le mie difficoltà nascevano tutte da un unico problema: considerando i comportamenti sociali all’interno dei confini di un gruppo, avevo negato implicitamente l’importanza delle storie e delle prospettive delle persone che avevano vissuto questa condizione. Come se le migliaia di individui che avevano popolato le fabbriche e i quartieri torinesi avessero valutato la propria posizione e le proprie possibilità sociali, avessero operato le proprie scelte senza essere influenzati né dalla propria esperienza passata né dalle proprie aspirazioni. Se il mondo operaio fosse stato effettivamente un gruppo stabile ed ereditario, un’osservazione del genere avrebbe un rilievo secondario: esperienze ed aspirazioni, passato e presente si sarebbero effettivamente giocati nel quadro fisico o sociologico della classe operaia urbana. Ma a Torino, come in ogni altra città europea, la seconda industrializzazione aveva innanzitutto significato immigrazione e turnover. Tra il 1881 e la seconda guerra mondiale Torino passa da 300 000 a 630 000 abitanti. Nello stesso periodo il saldo naturale, la differenza tra nascite e morti, è costantemente intorno allo zero; inoltre ogni anno su 4 Un'ottima rassegna critica sugli studi di comunità e sulle loro applicazioni storiche è quella di A. MacFarlane, History, anthropology and the study of communities, in bliografia rimando.
«Social History», n. 5, 1977, alla cui bi-
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100 persone che entrano, mediamente, 50 residenti lasciano la città’. La crescita demografica, lo sviluppo del proletariato urbano come degli altri gruppi sociali, avvengono quindi sotto l’impulso quasi esclusivo dei circa 400 000 immigrati e figli di immigrati dalle campagne e dalle regioni circostanti. Nel momento in cui cessavo di considerare unicamente i comportamenti modali, le norme di un quartiere e di un gruppo, ed iniziavo a prestare attenzione anche alle discordanze, alle diversità, l’importanza di questi fenomeni mi appariva sempre più chiaramente. Quali erano ad esempio le aspirazioni di cui erano portatori le migliaia e migliaia di individui confluiti in città e nel mondo operaio? Come avevano percepito la loro nuova condizione? In che misura il loro passato e i loro precedenti ambienti di riferimento erano ancora attivi nelle scelte operate a Torino? Quanti di loro avevano trovato risposta alle richieste che li avevano spinti ad emigrare? Quanti erano tornati al paese o avevano ripreso la strada dell’emigrazione?
Naturalmente questi problemi non si ponevano soltanto nel rapporto immigrazione-stanziamento. Mi pareva chiaro che per misurare la consistenza dell'ambiente operaio fosse necessario chiarire se esistevano, anche all’interno della città, percorsi di mobilità intra- ed inter-generazionale, sia geografica che sociale, sia reale, sia percepita come possibile. Concentrarsi sugli aspetti interni alla condizione operaia porta infatti inevitabilmente a sottovalutare i possibili nessi tra classe operaia e altri gruppi o altri ambiti sociali. Ci si chiede raramente, ad esempio, se la condizione operaia interessa le stesse persone per più generazioni o se essa costituisce invece un 5 Si può effettivamente apprezzare l’importanza del fenomeno migratorio nello sviluppo della popolazione torinese confrontando gli andamenti del saldo migratorio e di quello naturale: Distribuzione dei saldi migratori e naturali a Torino: 1893-1938. 30000 4
25000 20000
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Saldo naturale
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Saldo migratorio
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(Dati elaborati sulle serie statistiche demografiche della città di Torino: Archivio storico municipale, sezione
dello stato civile). Sulla crescita industriale e demografica della città di ‘Torino cfr. comunque aa.vv., Torino città viva, da capitale a metropoli. 1880-1980, Torino 1980.
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momento di un percorso individuale, familiare o sociale interno al mondo urbano. È una domanda semplice ma cruciale: infatti nel primo caso avremo un gruppo che— a parte il ricambio indotto dal turnover migratorio — rimane stabile nel tempo; nel secondo caso avremo un gruppo molto meno stabile, caratterizzato più dalle forme dei percorsi che convergono o passano attraverso di esso e meno dagli elementi strutturali esprimibili in termini di condizione. Il tutto si potrebbe spiegare più semplicemente in forma metaforica. Si potrebbe ad esempio pensare alla condizione operaia come ad una «casa»; un edificio di cui si voglia ricostruire il passato per chiarire la fisionomia dei suoi vari abitanti. Gli approcci possono essere diversi, in alcuni casi diametralmente opposti, ma generalmente si accettano come limiti dell’indagine i muri perimetrali dell’edificio, le sue parti comuni, i ricordi di quegli abitanti che le sono rimasti fedeli. In alcuni casi avremo statistiche più o meno accurate sulla sua struttura interna, sull’organizzazione delle modalità di vita o dei comportamenti possibili in questi spazi. Potremmo poi tentare di descrivere le mentalità e gli aspetti «culturali» più caratteristici emersi dai ricordi dei testimoni. Ma se noi tentassimo su queste basi di costruire delle ipotesi sulla coesione e sulle fisionomie sociali degli abitanti nel corso della loro storia, rischieremmo di cadere facilmente in errore 0, peggio, di semplificare grossolanamente la realtà. E necessario raccogliere
ulteriori e diverse informazioni. Quelle del resto che ogni buon romanziere ci darebbe per chiarire il senso delle azioni dei suoi personaggi. Cioè, ad esempio, da dove arrivano le famiglie che hanno abitato la casa nei diversi momenti della sua storia; in quali altri posti hanno abitato; quanto tempo si sono fermate; pensavano di restarci a lungo, aspettavano con impazienza di traslocare nuovamente? Hanno traslocato effettivamente? Se sî, dove
sono andate? ecc. Solamente attraverso queste ulteriori informazioni, credo, potremmo spiegarci l'estrema confidenza e familiarità che si era creata tra alcuni abitanti, la ritrosia e la diffidenza di altri, la totale estraneità di
altri ancora. Solo attraverso queste informazioni potremmo valutare il peso reale delle testimonianze raccolte. Capire ad esempio se si tratta di ricordi mitici, frutto di razionalizzazioni successive di una parte minoritaria che si è decantata in quei luoghi, o se quelle informazioni sono effettivamente lo specchio fedele di una mentalità e di una realtà più radicate e consistenti.
A partire da questi nuovi interrogativi mi è parso necessario indagare sul passato familiare degli individui che avevo intervistato. Conoscevo la loro origine contadina; inoltre gli archivi dell'anagrafe torinese mi mostravano come tutti costoro fossero entrati in città nella prima infanzia
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dopo aver abbandonato con le loro famiglie la campagna piemontese. Necessariamente, quindi, ho sentito l’esigenza di recarmi nei loro diversi luoghi d’origine per ricostruire, attraverso i dati conservati presso gli archivi comunali e parrocchiali, il quadro della situazione economica, professionale e demografica che aveva preceduto e accompagnato la loro emigrazione verso la città. Un primo sondaggio, operato sulle famiglie dei quattro testimoni principali mi forniva dati interessanti ma difficilmente interpretabili. Emergevano effettivamente quattro storie estremamente diverse, per quanto riguarda la situazione socio-professionale di provenienza, i tempi e le modalità di abbandono della campagna, i percorsi migratori, le scelte operate all'ingresso in città. Questa diversità era però difficile da interpretare, perché mi mancavano gli elementi che consentissero di valutare il significato di questa variabilità; che cosa essa implicasse nei termini delle aspirazioni, delle attitudini e delle domande di cui erano state portatrici le famiglie. Mi mancava, in altri termini, il quadro dei riferimenti all’interno del quale queste storie erano maturate e si erano concretizzate come necessa-
rie. Per non citare che un caso, e il meno complesso, sapevo ad esempio che i genitori di uno dei testimoni avevano abbandonato la campagna dopo il matrimonio per recarsi quasi immediatamente in città. Entrambi figli di mezzadri, essi erano stati i soli della loro famiglia ad emigrare. Non solo: i fratelli del padre avevano addirittura ritardato il matrimonio per fermarsi sul podere paterno e tentare di risollevarlo, con la loro presenza, da una situazione apertamente critica. Come valutare dunque le scelte e i percorsi di questa famiglia? Come arrivare a chiarire quali motivazioni avevano trattenuto gli uni e spinto gli altri verso Torino? Difficile dirlo, anche perché, se avevo ricostruito con cura il passato di alcune famiglie, lo avevo fatto rimanendo in qualche modo ancora all’interno dell’ottica cittadina. Pur conoscendo i loro comportamenti su pit generazioni, non potevo dunque coglierne i contenuti chiarendo cost le aspettative individuali o familiari che li avevano generati, proprio perché
non ero in grado di valutarli nel loro significato di scelte. Nella storia della famiglia di mezzadri citata poc'anzi, icomportamenti di un gruppo di fratelli in un momento di crisi erano stati unicamente di due tipi: rimanere al paese chiudendosi in difesa dell'economia familiare tradizionale o emigrare per sempre, immediatamente dopo il matrimonio. Ma era difficile pensare che questi comportamenti, restituitimi dagli archivi e dal passato come definitivi, fossero realmente stati gli unici possibili. Molto probabilmente, infatti, altri individui e altre famiglie, in una situazione per molti aspetti analoga, avevano espresso altri comportamenti, operato altre scelte. Si
trattava allora unicamente di una ipotesi; ma mi sembrava comunque es-
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senziale — per poter capire quali elementi e quali valutazioni specifiche avessero orientato ogni scelta e ogni comportamento osservato — chiarire
innanzitutto quante e quali possibilità alternative il mondo contadino avesse oggettivamente offerto. Ancora una volta i problemi e gli interrogativi emersi dalla pratica della ricerca mi imponevano di modificare l’orientamento del mio lavoro. Si trattava ora di ricostruire un insieme abbastanza vasto e rappresentativo
di percorsi e di scelte interne ad uno dei contesti contadini nei quali per anni la città aveva reclutato i suoi abitanti. Tra i diversi campi di indagine possibili, ho scelto di lavorare sul villaggio di origine di Giuseppe Odasso, il testimone con cui avevo avuto i rapporti più intensi e che mi aveva toccato per la complessità e la contraddittorietà del suo percorso di vita. Una scelta emotiva, quindi, ma che mi sentivo di poter operare con tutta tranquillità per l’importanza che il fenomeno migratorio aveva assunto in questo villaggio e per la buona conservazione dei suoi archivi municipali e parrocchiali. In questo villaggio a cui ho dato il nome fittizio di Valdoria‘, ho ricostruito con la maggiore accuratezza possibile tutti icomportamenti demografici e professionali, tutti gli spostamenti individuali di 90 famiglie rappresentative dei diversi gruppi sociali che avevano concorso all’emigrazione: braccianti, piccoli proprietari e mezzadri, ma anche artigiani e, in alcuni casi, possidenti terrieri. La particolarità delle domande che ero giunto a pormi mi aveva dunque orientato verso la raccolta quantitativa dei dati, in questo caso demografici. Ma non era tanto l’ottica seriale o tipologica ad interessarmi. Le grandi inchieste storiche e demografiche hanno spesso privilegiato l'approccio quantitativo per giungere a descrivere i fenomeni o i processi di «tendenza»: ad esempio le tendenze evolutive delle strutture familiari o di comportamenti sociali quali la fertilità o l'età matrimoniale, nel loro rapporto con le congiunture storiche ed economiche’. Nel mio caso invece il quantitativo si giustificava soprattutto per le sue possibilità «indiziali». Ero giunto a raccogliere un insieme importante di percorsi sociali espressi nello
spazio di una comunità non per descriverne i comportamenti medi o le tendenze strutturali, ma per ricostruire la gamma intera degli usi possibili 6 Per evidenti motivi di discrezione ho cambiato non solo il nome del villaggio ma anche quello di tutti i personaggi citati nel corso del libro. E questo comunque l’unico cambiamento: tutti gli elementi riportati corrispondono infatti ai dati raccolti in città come in campagna. ? In questa ottica si possono ad esempio leggere i lavori ormai classici di P. Laslett o di Wrigley e Schofield, come molte delle monografie demografiche nate sull’impulso delle ricerche di L. Henry. Cfr. L. Henry, Anciennes familles genevoises. Etude démographique: xvi:-xx° siècle, Paris 1956; P. Laslett, Housebold and family in past times, Cambridge 1972; E. A. Wrigley e R. S. Schofield, The population history of England 15411871. A reconstruction, London 1981. Per una rassegna recente ed esaustiva su questi studi, cfr. comunque C. Tilly, The historical studies of vital processes, in Id. (a cura di), The historical study of changing fertility, Prin-
ceton 1978, e cfr. pure la ricca bibliografia allegata.
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delle risorse presenti nell'ambiente o raggiungibili attraverso di esso. Individuare questi aspetti mi sembrava infatti il primo passo necessario per giungere ad interpretare ogni uso specifico delle risorse quale si era concretizzato nei percorsi individuali e familiari. Come si vedrà, il ritratto che emerge da una ricostruzione di questo tipo è molto distante da quelli restituitici spesso dai lavori sulle comunità contadine. Valdoria della seconda metà dell'Ottocento appare come un mondo dinamico in cui ogni famiglia ed ogni generazione, pur confrontandosi con una crisi che è generale e tocca tutte le campagne piemontesi, sono in grado di modificare continuamente i propri atteggiamenti e le proprie strategie e in cui, soprattutto, ciascuno vive nel tentativo — spesso
riuscito —- di migliorare la propria posizione. In questo senso le scelte e i comportamenti ricostruiti sono stati tanti, più di quanto mi fossi aspettato. Soprattutto essi non appaiono come sta-
tici: da una generazione all’altra, la configurazione delle scelte possibili evolve, si individuano nuove risorse, si usano diversamente quelle tradizionali, altre cessano di essere praticate. L'individuo appare dunque come un attore attivo che orienta i propri comportamenti e contribuisce in pri-
ma persona a modificare la realtà di cui è partecipe. Ma, nello stesso tempo - ed è questo l’aspetto più rilevante per un’analisi delle aspettative che convoglia il fenomeno migratorio — emerge anche la sua stretta dipendenza dal quadro dei rapporti di relazione che si trova a condividere e che evolvono intorno a lui. Nel contesto di Valdoria si tratta principalmente dei rapporti familiari e di parentela. I percorsi di ogni famiglia, se osservati nel corso del tempo, appaiono infatti come un insieme che evolve in una stretta catena di dipendenze reciproche. Le scelte e icomportamenti individuali riflettono quindi innanzitutto i messaggi, gli stimoli, ma anche i divieti e le costrizioni che di volta in volta l’universo di questi rapporti concretizza nell'esperienza di ognuno. La variabilità delle scelte e dei percorsi migratori si chiariva dunque in questa ottica. Più che il punto di arrivo di un flusso migratorio omogeneo e unidirezionale, la città appariva come un campo di risorse possibili a cui si erano rivolte diverse strategie individuali, nate e maturate nel contesto della campagna e specificamente segnate dal quadro delle valutazioni familiari che le avevano generate. 3. A questo punto del lavoro la mia ricerca era dunque avanzata ma mi trovavo pur sempre alla periferia dei fenomeni che mi ero proposto di chiarire. Mi ero rivolto al passato e alla campagna in particolare per capire quali e quante richieste convergessero nel mondo operaio urbano. La ricostruzione operata a Valdoria mi aveva permesso di ricostruire la vasta gamma
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di atteggiamenti convogliati dal fenomeno migratorio. Tra questi atteggiamenti, molti, la maggioranza, implicavano un uso parziale, temporaneo e variegato, della condizione operaia. Torino era dunque stata una tappa di un percorso spesso circolare che implicava quindi un ritorno più o meno immediato a Valdoria. Ed in molti casi (il 40 per cento), effettivamente, dopo un periodo variabile tra i 3 e gli 8 anni, molte famiglie avevano lasciato la città per riprendere la strada della campagna. In altri casi comunque la città aveva in qualche modo avuto il sopravvento e le famiglie avevano eletto il nuovo spazio incontrato ad ambiente stabile, definitivo. Per riprendere la metafora iniziale, solo alcuni degli abitanti dell’immaginario edificio «classe operaia torinese » erano arrivati pensando di abbandonare la campagna in modo definitivo. Molti fin dal loro arrivo avevano pensato di fermarsi per poco tempo; tra questi, alcuni avevano usato gli alloggi in maniera effettivamente precaria, per altri la precarietà iniziale si era tramutata in una stabilità maggiore. Restava dunque da capire come si era concretizzato questo passaggio, in che misura le diverse figure avessero trovato nella condizione operaia una fonte di identità sociale o piuttosto se la avessero attraversata, esprimendo una qualche forma di mobilità. Per queste ragioni ho ripreso la strada degli archivi e ho ricostruito tuttii dercorsi professionali e geografici, tutti icomportamenti demografici tracciati all’interno della città da quelli tra i valdoriani che si erano fermati. Ho operato questa ricostruzione, la cui analisi occupa la parte centrale del libro, sulle tre generazioni che seguono i primi immigrati. Non solo: a questi dati ho affiancato la ricostruzione delle vicende di'un altro campione di genealogie di famiglie operaie residenti in città che mi consentissero di valutare e misurare nella loro rappresentatività i primi risultati emersi. Si è costituito in questo modo un corpus di traiettorie familiari che interessavano più di 2000 individui. Incrociando i dati delle diverse schede conservate all’anagrafe municipale, sono quindi riuscito a ricostruire le carriere professionali, tutti i successivi cambiamenti di abitazione interni alla città (giungendo in molti casi a stabilire se si trattava di affittuari o di proprietari, la grandezza e il tipo di comfort dell’abitazione, ecc.), le diverse forme di rapporti familiari e di parentela sperimentate da ciascuno nel corso completo del ciclo di vita. Man mano che la mia indagine progrediva e i dati si accumulavano, si andavano delineando le forme di un processo estremamente complesso di mobilità che aveva investito e segnato profondamente non solo il mondo operaio ma la città nel suo insieme. Gli aspetti macroscopici di questo fenomeno erano evidenti. I percorsi urbani tracciati globalmente dalle tre generazioni familiari descrivevano una vera e propria parabola ascendente che si snodava attraverso la città, collegando tra di loro i settori e i gruppi
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professionali apparentemente più distanti. Se al momento del loro ingresso in città tutte le famiglie di cui avevo ricostruito la storia avevano indubbiamente conosciuto e vissuto dall’interno la condizione operaia, più che indugiarvi, esse sembravano soprattutto averla attraversata per orientarsi, più o meno velocemente, verso altri ambienti e altri ruoli sociali. Ma,
aspetto ancora più importante, questa mobilità professionale era chiaramente correlata ad un percorso più complesso di integrazione, espressione non solo di una progressione all’interno del mercato del lavoro cittadino ma di un ampliamento e di una trasformazione costanti degli obiettivi e delle strategie, di un ruolo sempre più attivo ed incisivo degli individui e delle famiglie nel contesto urbano. Lo si vedeva chiaramente dagli orientamenti abitativi. I quartieri e imodelli di abitazione privilegiati dagli immigrati nel momento del loro ingresso si sostituivano velocemente ad altri che venivano a loro volta abbandonati con il progredire del tempo di integrazione. Soprattutto, comunque, mutavano le strategie relazionali e professionali, che mostravano di rispondere ad un uso progressivamente più attento e consapevole delle risorse disponibili nei diversi ambienti attraversati. Le scelte e icomportamenti dei neoinurbati, spesso contraddittori o quantomeno «sordi » alle realtà e alle possibilità urbane, si armonizzavano man mano con esse, divenendo più articolate e incisive. La presenza e l’importanza di questo processo — che per la particolarità delle sue forme mi è sembrato necessario definire nei termini di ciclo di integrazione urbana — mostrano innanzitutto l’estrema instabilità del mondo operaio che appare investito da un turnover e da una mobilità intra- e inter-generazionale considerevoli. Al ritratto stereotipo di questi ambienti, visti come un insieme omogeneo e rigidamente definito dai confini di classe, si sostituisce dunque quello di un terreno sfumato su cui si incontrano la città e la campagna, su cui maturano e si confrontano diverse identità, si giocano differenti strategie sociali. Ma, soprattutto, queste dinamiche implicano anche una realtà frantumata in diverse percezioni della stessa condizione sociale, in diversi comportamenti e diversi usi delle stesse risorse. Le differenti forme osservabili all’interno della condizione operaia non sono quindi altrettante espressioni delle consuetudini di un gruppo - la riproduzione più o meno riuscita di norme o codici sociali - quanto una configurazione di casi del comportamento umano. Casi necessariamen-
te diversi in quanto prodotto delle negoziazioni operate dai singoli individui all’interno dell'ambiente, a partire da diverse aspettative, sollecitando in maniera diversa le risorse disponibili, provocando diverse risposte. Quasi paradossalmente, quindi, ad ogni svolta della mia ricerca e man
mano che essa sembrava farsi più quantitativa, i dati mostravano sempre più chiaramente l’importanza dei meccanismi microsociali. Intervistando
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i primi testimoni mi ero interrogato sulla presenza di un modello di cultura operaia o di quartiere; ricostruendo i comportamenti e i percorsi di centinaia di individui, l’immagine della realtà che andavo enucleando rispondeva piuttosto a modelli processuali di tipo interazionista e generativo. Modelli sviluppati in campi e discipline diverse quali la sociologia o l’economia, che hanno trovato le loro applicazioni più convincenti nei lavori di una parte dell’antropologia sociale anglosassone. Sono modelli noti: basterà ricordare come l’ipotesi di base di questi studi è che la realtà sociale si concretizza agli occhi del singolo attraverso i rapporti che lo inscrivono nell'ambiente. E che, soprattutto, le sue forme non sono né stabili né‘im-
manenti, in quanto determinate quotidianamente nelle transazioni che avvengono in ogni contesto di relazione, nel gioco degli scambi interindividuali, nella competizione per le risorse affettive, economiche, di relazione.
Ma i lavori più formalizzati e convincenti sono forse quelli di Frederik Barth che suggerisce come le forme (nel senso di un modello globale di comportamento statico) non sono altro che il modello aggregato prodotto dal processo della vita sociale. Esse, in quanto tali, non esistono se non come esemplificazioni analitiche, modelli di distribuzione dei comportamenti enon come una condizione ricercata, che tutti imembri di una comunità
o di un gruppo valutano egualmente e intenzionalmente mantengono. Per Barth, la forma va in questo senso considerata come un epifenomeno di una grande varietà di processi in combinazione, e il problema del ricercatore sta soprattutto nel mostrare cozze essa è generata: «i modelli della forma sociale possono essere spiegati se assumiamo che essi sono il risultato cumulativo di un numero di scelte separate e di decisioni prese da gente che agiva faccia a faccia, l’uno con l’altro. [...] In altre parole, i modelli so-
no generati attraverso processi di interazione e nella loro forma riflettono costrizioni ed incentivi sotto cui la gente agisce »”.
In questa ottica ho dunque iniziato a scomporre i dati globali dei due campioni analizzando i meccanismi del ciclo di integrazione urbana nelle sue componenti interne. Si trattava infatti di chiarire attraverso quali elementi ognuna delle famiglie del campione aveva negoziato il proprio percorso e la propria identità sociale; quali meccanismi avevano determinato la fluidità delle une e la stasi delle altre; attraverso quali modalità si erano modificati, spesso drasticamente, gli orientamenti e le strategie dei singoli 8 Mi riferisco agli studi di antropologia sociale di tipo interazionista nati intorno agli anni ’50 e che, soprattutto nel mondo anglosassone, hanno aperto una vasta attività di ricerca ed un ampio dibattito teorico. Per una rassegna su questi temi.e sui dibattiti che questi modelli hanno aperto, cfr. B. Kapferer (a cura di), Transaction and meaning. Directions in the anthropology of exchange and symbolic behavior, Philadelphia 1976, e l'ampia bibliografia riportata nel saggio introduttivo. Per le citazioni più puntuali rimando comunque ai capitoli rv, v e vie alle note che ad essi si riferiscono. ? F. Barth, Process and form in social life, London 1980, p. 133.
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individui. In altri termini e ponendo il problema dal punto di vista della condizione operaia, ciò significava indagare sui diversi materiali con i quali si erano costruite e determinate le diverse esperienze e fisionomie operaie, per chiarire le dinamiche che ne avevano favorito le aggregazioni come le disgregazioni. La mia scelta è stata quella di considerare le forme della mobilità professionale, espresse globalmente dalle famiglie attraverso il ciclo di integrazione, come un parametro di riferimento. E quindi, misurare attraverso di esso le variazioni mostrate dai percorsi individuali in rapporto ai diversi usi delle principali risorse sollecitate nell'ambiente urbano e operaio in particolare. Tutto ciò per poter chiarire quali risorse incidono sensibilmente sul ventaglio delle scelte operabili da ciascun individuo e quindi sulla sua mobilità e quella dei suoi familiari. Si è trattato evidentemente di una tecnica empirica e in quanto tale specifica e forse non generalizzabile. Ma essa è stata estremamente utile per individuare e definire le classi di variazioni più significative. Nel caso torinese — ma penso che questi risultati specifici possano trovare conferma anche in molte altre situazioni — è emersa l’importanza emblematica delle risorse «relazionali». All’interno della condizione operaia sono quindi soprattutto i rapporti familiari, quelli di parentela e la rete delle relazioni informali instaurate nei diversi spazi urbani, a modificare i percorsi di integrazione concretizzandosi ora come dei sistemi chiusi, centripeti e poco innovativi, ora come sistemi aperti, centrifughi e sensibili al cambiamento. Non si tratta di variazioni di debole intensità. Come si vedrà, in casi di famiglie dalle dimensioni troppo ampie, con pochi parenti presenti in città
o perlomeno con una parentela in fase critica, che vivono in quartieri disgregati e nei quali sia difficile costruire relazioni di vicinato stabili e protettive, le risorse si riducono al salario operaio affiancato in qualche caso dal lavoro femminile o da quello infantile. Le scelte possibili, quindi, necessariamente si restringono, l'economia familiare diventa quella di sussistenza, il rapporto con la città è di difesa: il ciclo di integrazione rallenta, spostandosi in molti casi sulle generazioni seguenti. Questo esempio certo
schematico illustra comunque uno degli aspetti importanti di questi meccanismi che non sono mai, isolatamente, totalmente determinanti. C’è in-
fatti una dinamica ancora una volta «configurazionale »: ogni variabile, da sola, ha un peso relativo, che si definisce unicamente nel rapporto con altre variabili, con altri elementi. Non mi pare quindi di poter scorgere né un rigido determinismo né un forte meccanismo causale: scelte e comportamenti (individuali come di gruppo) sono definiti da una configurazione di elementi operanti a diversi livelli della realtà, che variano, nella loro forza e nel loro peso, secondo la disposizione reciproca in cui si presentano, secon-
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do i momenti e le congiunture storiche. Ed è per questo che vedremo concretamente come gli stessi elementi possano incidere in modi diversi non solo per le forme che possono assumere reciprocamente ma anche relativamente alla posizione di ogni individuo all’interno del ciclo di vita, di quello familiare, e infine di quello di integrazione urbana. Formalizzate in questi termini queste dinamiche possono apparire estremamente complesse. Ma, in realtà, percorrendo il testo, il lettore potrà vedere in modo più chiaro come esse si articolano concretamente nelle biografie e nelle vicende evocate. Qui vorrei unicamente sottolineare come esse implichino soprattutto una modificazione incessante della percezione della realtà sociale, delle possibilità che essa offre, mostrando quindi la compresenza, all’interno di ogni orizzonte di relazione individuale, di diversi sistemi di riferimento, di diverse «rappresentazioni». In forma schematica, si potrebbe dire che in ogni momento del ciclo di vita ogni attore sociale percepisce la propria posizione e giudica le proprie possibilità sulla base di un insieme di valutazioni formatesi nel corso delle sue esperienze passate (e di quelle della sua famiglia), delle informazioni e delle rappresentazioni filtrate dai tessuti di relazione in cui è inserito. Le sue scelte e i suoi comportamenti sono quindi anche il frutto del patteggiamento avvenuto tra le strategie immaginate sulla base di tali valutazioni, le costrizioni e gli stimoli del suo universo di relazione, le risposte suscitate. E soprattutto in questo senso che mi pare necessario pensare ad un at-
tore sociale consapevole, che agisce in modo razionale. Naturalmente non penso ad una razionalità assoluta (d’altronde ben difficile da ipotizzare) ma a quella che molti studi condotti in diversi campi hanno appropriatamente definito nei termini di razionalità limitata e di cui Raymond Boudon ha dato una definizione chiara e convincente parlando di «un attore intenzionale, dotato di un insieme di preferenze, che cerca dei mezzi accettabili per realizzare i propri obiettivi, più o meno cosciente del grado di controllo di cui dispone sugli elementi della situazione in cui si trova (cosciente in altri termini dei limiti strutturali che circoscrivono le sue possibilità di azione), e che agisce in funzione di un’informazione limitata e in una situazione di incertezza». Ed è in questo stesso senso che ho scelto di utilizzare il termine strategia. Intendendo quindi non solo un insieme di comportamenti e scelte previsti e mantenuti per un periodo più o meno lungo del ciclo di vita, ma anche quelle scelte e quei comportamenti maturati sulla base di valutazioni puramente congiunturali, comunque percepiti e concettualizzati in termini di opzioni. !0 R. Boudon, Effets pervers et ordre social, Paris 1977, p. 14.
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4. Solo al termine di questo lungo percorso di ricerca mi è parso possibile riconsiderare le testimonianze raccolte e tentare di chiarire quelle che inizialmente mi erano sembrate delle incongruenze. Che rapporto c’era, mi ero allora chiesto, tra le immagini di omogeneità di un quartiere operaio, l’identificazione dei suoi abitanti, l’accettazione dell’interioriz-
zazione di norme e codici di comportamento, e le tensioni e i conflitti che trasparivano dalle testimonianze? Si poteva realmente parlare, come volevano gli anziani intervistati, di cultura operaia e di quartiere, quando dai loro stessi aneddoti traspariva la presenza di modelli di comportamento e strategie totalmente estranei a questi spazi? Era sulla base di queste domande che avevo sentito l’esigenza di ricostruire i percorsi che formano e attraversano la condizione operaia. Ora sapevo come effettivamente la realtà di questi ambienti avesse compreso svariate figure sociali e come, al loro interno, si fossero incontrate immagini e aspirazioni spesso estrema-
mente diverse. Ma proprio per questo mi sembrava che restasse da chiarire come si erano potute articolare, negli stessi spazi, esperienze e figure so-
ciali cosî differenti e su quali basi erano potute nascere le immagini e le rappresentazioni di cui erano portatori i testimoni. Si trattava di assumere un'ottica microanalitica, di ritornare ai testimoni con nuove domande e di
leggere, alla luce dei processi e dei meccanismi chiariti con i dati demografici, la loro storia di integrazione, per indagare sulle dinamiche che si erano giocate in questi ambienti. Ho quindi inizialmente concentrato l’analisi sulla ricostruzione della vita di relazione dei genitori dei testimoni, sulle modalità con le quali que-
ste famiglie di immigrati, con un passato diverso alle spalle, entrano a far parte della socialità locale. Ciò che emerge, come si vedrà, è un processo complesso in cui la varietà delle esperienze individuali sembra integrarsi sul terreno di alcune fondamentali esigenze comuni. Per tutto il corso degli anni ’10 e ’20, le famiglie che iniziano a popolare ii nuovi quartieri della periferia operaia si trovano infatti ad organizzare in questi spazi — allora isolati e sprovvisti di servizi — la totalità della loro vita sociale. Se le loro esperienze ed aspirazioni divergono, le forme di socialità aperte sono comuni e basate sulla necessità di gestire una fitta rete di scambi all’interno del vicinato e del quartiere. In questo senso la mia ricostruzione ritrova effettivamente le basi dello stereotipo tradizionale sulla socialità operaia: negli stessi spazi le stesse persone ricoprivano, reciprocamente e contemporaneamente, i ruoli di vicini di casa, amici, colleghi di lavoro, creditori, debitori di servizi, ecc. Ma,
anche in questo caso, tale socialità mostrava di essere il prodotto delle esigenze congiunturali delle famiglie e non tanto la riproduzione di un modello
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statico, rigido e definito a priori. Lo si vede chiaramente osservando le forme di integrazione costruite negli stessi anni da famiglie con storie analoghe ma confrontate ad altri ambienti, ad altri contesti ecologici. Cosî, per non fare che un esempio, si può notare come nel centro storico l'economia familiare marginale, le sue strutture d’appoggio si basino non tanto sull’uso di reti di relazione di vicinato (per altro difficili da stabilire in questo contesto molto pit stratificato) quanto sull'uso di risorse secondarie come il lavoro femminile o infantile. E non a caso possiamo notare come il 90 per cento delle mogli di operai che dichiarano un lavoro (si tratta di commesse, commercianti ma anche di operaie) abitino tutte nei quartieri centrali della città. Questi aspetti non sono secondari. Non solo perché ci mostrano come forme molto diverse di socialità operaia possano essere generate dalle stesse dinamiche, ma anche perché ci permettono di individuare alcuni meccanismi di integrazione che altrimenti rimarrebbero ignorati o sottovalutati. Nel caso di Borgo San Paolo è ad esempio evidente come la «congiunturalità» avesse generato una complessa serie di procedure, volte nello stesso tempo a permettere la coesistenza nelle stesse reti di relazione di fisionomie e aspirazioni diverse e a controllare i conflitti che questa compresenza tendeva a provocare. Da un lato, quindi, in ogni momento di transazione, in ogni relazione «faccia a faccia», assistiamo ad un patteggiamento continuo sulle competenze, i limiti e le possibilità reciproche degli attori sociali. D'altro lato, questo stesso patteggiamento, le tensioni e i conflitti che ad esso si accompagnano, sono ogni volta accuratamente negati attraverso un rituale dell’uguaglianza, volto a permettere la reiterazione degli scambi, la continuità di questa socialità della «reciprocità sbilanciata». Sono queste dinamiche - che ammettono e prevedono la differenza pur negandola esplicitamente — a generare sia la coerenza esterna di queste aggregazioni sia la loro frammentazione interna. Attraverso il rituale
dell’uguaglianza nasce infatti e si sviluppa un discorso volto a celebrare l’omogeneità del quartiere e delle sue componenti sociali. Un discorso che, non a caso, si articola con le versioni locali dell'ideologia socialista e che si impone progressivamente in ogni momento pubblico di relazione, diventando strumento di controllo e insieme espressione della dichiarata omogeneità del gruppo. Tuttavia le differenze e le tensioni rimangono e ne vediamo i segni non solo nei conflitti che traspaiono dagli aneddoti, ma anche nelle scelte individuali e familiari, nei modelli di riferimento che esse
implicano. Ed è in questo senso che mi pare opportuno pensare alla socialità del rione in termini di forza e di debolezza. La sua forza sta infatti nella capacità di costruire una rappresentazione della realtà ridotta ma efficace nel definire distanze, nel controllare e nel negare le differenze. Indub-
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biamente questa «ideologia locale » ha contribuito in qualche modo a forzare la realtà del quartiere verso le forme e i contenuti delle sue rappresentazioni. Ma nello stesso tempo non si può parlare di una reale coesione, proprio perché il gruppo non è stato in grado di riconoscere e assimilare le differenze in quanto tali. Le ha semplicemente negate, trascurando il fatto che il discorso pubblico, spesso interpretato come prova di omogeneità, era unicamente l’espressione superficiale di una coesione le cui ragioni, i cui contenuti risiedevano principalmente nell’esigenza congiunturale delle famiglie di garantire la riproduzione degli scambi. La distinzione tra espressione e contenuti delle relazioni — che ho riportato ancora una volta in forma necessariamente schematica — non è
certo nuova. Gli studi di sociolinguistica hanno pit volte sottolineato come i messaggi espliciti scambiati all’interno di un gruppo siano spesso volti a definire i ruoli e le prerogative formali di relazioni che trovano invece le loro ragioni in contenuti diversi e meno apparenti". Sono dinamiche normalmente analizzate nel contesto di gruppi giovanili o di specifici sottogruppi sociali, etnici, o professionali. Nel caso di Borgo San Paolo ho invece volontariamente ampliato questi concetti fino a comprendere l’insie-
me dei messaggi articolati negli spazi pubblici rionali. Questo perché, come ho detto, essi si presentano come un vero e proprio «gergo », traduzione locale dell’ideologia socialista e corpus di definizioni gerarchiche. Un insieme compatto che mi è parso necessario concettualizzare nei termini di variante sociolinguistica di appartenenza, proprio per sottolineare la sua funzione rituale, la sua distanza dai contenuti reali di relazione. Con questo, naturalmente, non voglio dire che non sia esistita nel quartiere una forte coscienza socialista ma, più semplicemente, che questo stesso gergo, questo «discorso», trovava, a seconda degli utilizzatori, diversi gradi di adesione. A questo livello, è difficile valutare il peso reale dell’ideologia socialista, definire in che misura essa fosse realmente penetrata nei rioni in qualità di coscienza politica e di classe. E un aspetto che non ho voluto e non ho potuto affrontare. Certo è che l’analisi della vita di relazione dei testimoni, la ricostruzione puntuale delle loro scelte e di quelle degli amici ha mostrato come, già nei primi anni ‘30, la socialità conosciuta e condivisa
dai genitori fosse in piena disgregazione. Scelte e fisionomie individuali ricompaiono infatti negli spazi pubblici, alimentando contrasti e tensioni, mentre le relazioni, chiuse fino ad allora nei limiti del quartiere, si allargano nella città, toccando nuovi spazi e nuove figure sociali. !! Cfr. in particolare B. Bernstein, Langage et classes sociales, Paris 1975; J. Fishman, The sociology of language, Newbury (Mass.) 1972. Per un uso della sociolinguistica applicata alla ricerca storica, cfr. pure M Gribaudi, A proposito di linguistica e storia, in «Quaderni Storici», n. 46, 1981.
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Questo processo coincide con l’arrivo del fascismo, il quale penetra nel rione quasi di nascosto. Costringendo in un primo tempo il «discorso socialista» - quel gergo di appartenenza cosî fondamentale per la definizione e il controllo delle relazioni — ad abbandonare gli spazi pubblici per ripiegarsi nel privato dei militanti. Sostituendo in un secondo tempo il silenzio cosî formatosi con il fragore di nuovi miti. Non tanto con l’ideologia fascista quanto con i miti dello sport, dei consumi di massa, e del modernismo. Sono elementi che hanno avuto un impatto innegabile soprattutto tra i giovani. Le tensioni intergenerazionali, presenti in ogni contesto so-
ciale, si trasformano cosf, in molti casi, in una opposizione tra «moderni» e «socialisti». Un’opposizione difficile da conciliare proprio perché il socialismo, più che con un ideale o un'utopia politica, veniva da molti identificato con le pratiche sociali dei più anziani, con la vita chiusa nei limiti del quartiere, con le norme e il controllo del gruppo. Ma la socialità rionale si disgrega anche perché ha perso progressivamente il suo carattere di «necessità». Si sviluppano scuole ed asili, nascono le pensioni e le previdenze sociali. Impercettibilmente, ma in modo sostanziale, le strutture pubbliche si sostituiscono al vicinato e al rione, privandoli delle loro funzioni di uniche risorse. E anche per questo che le rappresentazioni di gruppo perdono consistenza mentre riprendono forza i riferimenti e le rappresentazioni individuali e familiari. Dal privato in cui erano state momentaneamente confinate, le vediamo quindi uscire per manifestarsi nuovamente negli spazi pubblici, progettare strategie diverse. Anche il gruppo di amici con i quali i testimoni avevano condiviso la gioventù aveva vissuto attivamente questo processo. La maggioranza delle
figure rievocate si era allontanata dal quartiere proprio sulla spinta di queste dinamiche, inseguendo (in molti casi raggiungendo) diversi obiettivi e immagini sociali. E i testimoni stessi non erano stati estranei a queste dimamiche. Una rilettura attenta delle testimonianze, il confronto di diverse
versioni permettono infatti di restituire alla loro originaria complessità le immagini di un passato solo di recente razionalizzato, con un processo in cui i ricordi di infanzia e la socialità dei genitori erano venuti quasi a sostituirsi a quelli della gioventà, modificandone i tratti e i contenuti.
Le differenti fasi della ricerca e alcuni dei dati sui quali essa si basa sono stati di volta in volta esposti in alcuni articoli che trattavano i problemi specifici incontrati. Molte delle ipotesi e delle interpretazioni tentate sono rimaste valide; in altri casi esse sono state invalidate da elementi e fatti comparsi successivamente. Una traccia di questo percorso si trova quindi in M. Gribaudi, Ur gruppo di amici - Strategie individuali e mutamento sociale, in aa.vv., Relazioni sociali e strategie individuali in ambiente urbano: Torino nel novecento, Cuneo 1981; Id., Stratégies migratoires et mobilité relative
entre village et ville, in «Population», n. 6, 1982; Id., Un gruppo di immigrati piemontesi a Torino: traiettorie individuali e sociali attraverso tre generazioni (1900-1960), in «Annali della Fondazione Einaudi», vol. XV, 1981; Id., Mobilità professionale, mobilità sociale e integrazione nella città. Torino nella prima metà del secolo, in «Mezzosecolo », n. 4, 1984.
Molte persone hanno contribuito in momenti diversi, con stimoli, suggerimenti e critiche, alla costruzione di questa ricerca. Le prime ipotesi sono nate all’interno di un gruppo di lavoro sui quartieri operai torinesi coordinato tra il 1978 e il 1980 da Giovanni Levi che è stato per tutti questi anni un interlocutore prezioso; i suoi suggerimenti, le discussioni che abbiamo avuto, la sua pazienza nel leggermi, mi hanno aiutato considerevolmente nel corso di tutto illavoro. L’École des Hautes Études en Sciences Sociales, La Maison des Sciences de l’Homme, l’università di Paris VII, hanno poi costituito un ambito di riferimento fondamentale, ricco di stimoli costanti, che mi hanno permesso di confrontare, arricchire e correggere le direzioni della ricerca. Le discussioni con Maurice Aymard, Yves Lequin, Michelle Perrot sono state fonti
di importanti riflessioni, che forse questo libro testimonia solo in parte. Devo poi ringraziare in modo particolare Hervé Le Bras che ha seguito il mio lavoro nelle sue diverse fasi e i cui seminari sono stati dei luoghi importanti di confronto. Le linee direttrici della ricerca devono egualmente molto alle discussioni avute, sui temi della storia sociale, con Sandra Cavallo, Simona Cerutti, Michael Eve, Angelo Torre, che hanno costituito un autentico gruppo di lavoro la cui disponibilità e la cui attenzione mi sono state oltremodo preziose. Naturalmente questa ricerca non avrebbe potuto realizzarsi senza la pazienza e anche la passione dei testimoni che si sono sottoposti ad ore di interviste e alla mia presenza spesso impertinente. Inoltre tengo a ringraziare i funzio-
nari e gli impiegati dei comuni di Torino, Saluggia e Cherasco che mi hanno facilitato la raccolta del materiale demografico. La competenza e la professionalità di Eugenio Gatto, del Centro di Calcolo dell'università di Torino, mi hanno permesso di appren-
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Ringraziamenti
dere le tecniche di base, essenziali per il trattamento e l’elaborazione informatica dei dati. Infine la ricerca è stata sostenuta grazie al contributo di numerose istituzioni che è mio dovere citare: il Ministero Francese degli Affari Esteri, il Cnrs, il Cnr, e la fondazione Einaudi, della quale ricordo con piacere particolare il rapporto di fiducia e di intesa che ho potuto stabilire con Mario Einaudi.
Mondo operaio e mito operaio
Parte prima
Capitolo primo La città e il mondo operaio visti dalla parte della campagna: famiglie e strategie migratorie
Valdoria, il luogo da cui proviene Giovanni Odasso (padre di Giuseppe, uno dei miei testimoni), è, ancora alla fine del secolo xrx, un paese fon-
damentalmente agricolo. Il 70 per cento della popolazione attiva è impiegato nell’agricoltura: il 17 per cento sono piccoli proprietari che integrano il loro bilancio vendendo la loro forza lavoro, il 6,1 braccianti, 1’ 1,5 mez-
zadri, e il 7,5 fittavoli. Ai fittavoli veri e propri si deve aggiungere un 43 per cento della popolazione attiva censito sotto la categoria «braccianti in proprio », caratterizzato anch'esso da contratti di fitto, pur se non legati a terre appoderate. Un quinto del rimanente 30 per cento lavora nell’artigianato, attività che costituisce una base di integrazione dell’economia contadina familiare'. Si coltivano soprattutto grano e mais. Un grande bosco e qualche terra da pascolo assicurano lo sviluppo dei piccoli allevamenti (1,4 per cento di addetti). Valdoria è dunque un comune agricolo, con un’economia basata in gran parte su piccole aziende contadine a conduzione familiare. Osserviamo ora il quadro delle migrazioni tra il 1880 e il 1900. Tradizionalmente, l'emigrazione piemontese — sia quella internazionale che quella interna — è messa in relazione con la grande crisi agraria iniziata nella seconda metà dell'Ottocento. La caduta dei prezzi dei prodotti agricoli, la restrizione dei crediti ai contadini, la crescita degli affitti delle terre, ai quali si aggiunge la guerra doganale con la Francia (che limitava improvvisamente un mercato tradizionale per l'economia piemontese), sono altrettanti fattori utilizzati per spiegare la crescita del fenomeno migratorio nella fine del secolo’. Queste macrovariabili costituiscono indubbia-
mente i presupposti dell'emigrazione, ma esse si assommano ad altre determinazioni, squisitamente locali, che si concretizzano nell’orizzonte individuale attraverso le sorti dei cicli di ogni famiglia. In altre parole, le varia! Questi dati si riferiscono al censimento del 1881. Cfr. Archivio Storico del Comune di Valdoria, Registro comunale dei censimenti, 1881. 2 Cfr. V. Castronovo, Economia e società in Piemonte dall'unità al r9r4, Milano 1969. Cfr. pure E. So-
ri,
L'emigrazione italiana dall'unità alla seconda guerra mondiale, Bologna 1979.
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Capitolo primo
bili legate alla grande crisi si inseriscono all’interno di un registro di possibilità in cui ciascuno elabora le proprie scelte valutandole all’interno di un quadro sempre parziale. Nella figura 1 ho riportato il prezzo del grano sul mercato di Torino tra il 1870 e il 1911”. Le altre curve rappresentano l'evoluzione percentuale dell’emigrazione (estera) della popolazione di Valdoria e del circondario di Vercelli, di cui il villaggio fa parte‘. Anche se i due periodi di rilevazione non si sovrappongono esattamente, si può notare come nel punto massimo
di caduta dei prezzi e per i dieci anni che seguono, particolarmente nel caso di Valdoria, non solo non si registra un'impennata dell'emigrazione ma si assiste, al contrario, ad una netta flessione del fenomeno. I dati si rife-
riscono all'emigrazione internazionale; come vedremo, il quadro dell’emigrazione interna da Valdoria non modifica comunque la tendenza: l’esodo dalle campagne piemontesi inizia a diventare un fenomeno massiccio solamente a partire dagli ultimi decenni del secolo”. } L'evoluzione dei prezzi del grano è tratta da Archivio economico dell’unificazione italiana, I prezzi sul mercato di Torino dal r8r5 al 1890, V, fasc. 2, Roma 1957. 4 I movimenti migratori sono tratti da Ministero dell’ Agricoltura, Industria e Commercio. Direzione di Statistica, Statistica dell'emigrazione italiana all’estero, Roma 1880-1910. Non ho potuto calcolare i dati sull’emigrazione interna di Valdoria poiché, per questi anni, l'Archivio Storico non ha conservato il fascicolo sul Mòvimento della popolazione.
© Il fenomeno migratorio in Italia è stato quasi esclusivamente studiato nella forma dell'emigrazione
Figura 1.
Rapporto tra evoluzione dei prezzi del grano ed emigrazione a Valdoria e nel distretto di Vercelli. 30
% 3
20
2
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SI 104
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Prezzi del grano in lire per ettolitro
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Emigrazione da Valdoria
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Emigrazione dal distretto di Vercelli
od 1870
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a 1880
o 1890
1900
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E questa apparente assenza di rapporti diretti tra crisi ed emigrazione che mi ha spinto inizialmente a cercare all’interno del villaggio e delle sue strutture di relazione le dinamiche che generano la scelta della partenza‘. Ho utilizzato in questa fase un campione di famiglie valdoriane delle quali ho osservato gli itinerari dal 1858 al 1910, 1920. Si tratta di 90 rami familiari che ho seguito per almeno tre generazioni”. 1. Le strategie familiari di fronte alla crisi agraria.
Il risultato più netto di questa ricostruzione è una estrema diversità a livello individuale. I dati mostrano come la crisi agricola pesi praticamente su tutte le famiglie. Ma è chiaro, nello stesso tempo, che ogni famiglia reagisce in modi particolari e tenta di rispondere a questa congiuntura negativa esasperando le proprie strategie tradizionali. Il rapporto con la terra, la possibilità di vivere e di migliorare socialmente diventano critici per tutti, visto che i prezzi dei prodotti agricoli crollano fin dal 1870 e nello stesso tempo aumenta l'affitto delle terre. Ma la qualità e l'efficacia delle risposte date da ogni famiglia variano in funzione della capacità di cui ciascuno fa prova di utilizzare al meglio le proprie risorse e in particolare la forza lavoro di ogni membro della famiglia. Per queste ragioni la storia demografica di ogni famiglia ci permette non solo di analizzare l’intensità reale della crisi, ma anche di tracciare una
tipologia delle determinazioni all’origine delle scelte migratorie. In questo estera. Sulle migrazioni interne cfr. M. Livi-Bacci (a cura di), Le migrazioni interne in Italia, Firenze 1967; G. Galeotti, I movimenti migratori interni in Italia, Bari 1971; A. Golini, Distribuzione della popolazione, migrazioni interne e urbanizzazione in Italia, Roma 1974. 6 L'importanza di un’analisi del fenomeno migratorio considerato nei suoi aspetti locali è già stata ampiamente dimostrata dal lavoro di D. Swaine-Thomas che sottolinea come la situazione familiare e sociale
in cui matura la scelta migratoria ne determini ritmi e modalità: D. Swaine-Thomas, Research memorandum on migration differentials, New York 1938. ? Il ramo principale di tutte queste famiglie porta il nome degli Odasso (pur se poche di esse hanno legami di parentela). La scelta non è stata motivata da un’attenzione eccessiva nei confronti dei testimoni di Borgo San Paolo, ma da altre due ragioni non secondarie. Da un lato, Odasso è il nome pit diffuso a Valdoria nel corso della seconda metà del x1x secolo. Di fatto, quindi, al censimento del 1881, le famiglie con questo nome ricoprono un insieme che riproduce fedelmente la stratificazione sociale del villaggio; il che permette di ottenere un campione rappresentativo della realtà sociale ed economica di Valdoria. D'altro lato, quando ci si pone il problema della ricostruzione genealogica, si sa bene che iniziare utilizzando un solo cognome permette di lavorare pit facilmente e con cura maggiore nel corso della prima fase di raccolta e di schedatura dei documenti. La ricostruzione si basa fondamentalmente su due serie di dati raccolti presso gli Archivi Sto-
rici del Comune di Valdoria e l’Archivio dell’ Anagrafe di Torino. A Valdoria, ho consultato i censimenti degli anni 1858, 1881, 1901, 1911, 1921, e i fogli di famiglia corrispondenti. Poiché la conservazione di questi documenti era parziale, essi hanno dovuto essere incrociati con altre fonti; in particolare gli atti di nascita, di matrimonio e morte, relativi al periodo 1860-1920; le schede individuali (schede di nascita, morte, immigrazione, emigrazione) per il periodo 1903-36. Per la ricostruzione dei percorsi individuali ho privilegiato fonti come le schede familiari (che contengono gli aggiornamenti sui cambiamenti di anno in anno), gli atti di nascita (con le loro menzioni marginali), le schede individuali. A Torino ho consultato le schede individuali
per il periodo 1881-1950; i fogli di famiglia e di censimento per gli anni 1881, 1901, 1911, 1921, 1931, 1936.
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paragrafo seguiremo tali dinamiche, ricostruendo in particolare gli elementi propri degli itinerari familiari che costituiscono il quadro di fondo in cui si manifesta e trova il suo significato la scelta di ogni individuo. Osserviamo, ad esempio, la figura 2, in cui ho riportato l'evoluzione demografica della famiglia di Giovanni Odasso e di Elisabetta Croce. Al censimento del 1858, il capofamiglia è morto da sei anni. La famiglia è allora composta dalla madre, Elisabetta (di 40 anni), dai figli Andrea Giovanni (18 anni), Francesco (15 anni), Luigi (12 anni), Maddalena (10 anni), e Antonino (8 anni). La loro casa si trova al centro di Sant’ Antonio (una
frazione di Valdoria). Nello stesso edificio, come spesso nella campagna valdoriana, abitano altre due famiglie non imparentate (le abitazioni dei tre nuclei si affacciano sullo stesso cortile comune). Il certificato di morte di Giovanni, il capofamiglia, indica la professione di «contadino fittavolo». Gli aggiornamenti del foglio di famiglia del censimento del 1858 indicano inoltre che tra il 1858 e il 1877 (anno in cui i familiari si separano e i fogli di famiglia vengono scorporati) Elisabetta, la madre, esercita la professione di cucitrice; Francesco, il secondogenito, è fabbro-ferraio; Maddalena è cucitrice; mentre Andrea Giovanni, Luigi e Antonino sono
registrati come «contadini». Possiamo dunque supporre che l’intera famiglia continui a gestire le terre in affitto attraverso una economia integrata a cui ognuno contribuisce. Nel 1866 Andrea Giovanni, il primogenito, si sposa con Rosa Pasteris, una ragazza di 18 anni anche lei figlia di contadini. La nuova coppia rimane all’interno della famiglia del marito. Andrea Giovanni e Rosa, tra il 1866 e il 1875, hanno cinque figli dei quali due (Martirio Giuseppe e Giovanni Battista) muoiono poco dopo la nascita.
Nel frattempo Antonino e Luigi sposano rispettivamente Cecilia Molinatto (nel 1872) e Teresa Bono (nel 1874). Tutte queste nuove coppie convivono nella stessa casa del cantone Cerea. Ed è cosî che, per semplice evoluzione demografica, la famiglia coresidente si allarga fino a raggiungere nel 1877 il numero di tredici componenti. Nove adulti (quattro maschi e
cinque femmine) e quattro bambini (senza contare i bambini nati e vissuti per pochi mesi) costituiscono senza dubbio un nucleo troppo ampio per le risorse di cui la famiglia dispone. Tanto è vero che, proprio nel 1877, arriva la decisione di dividersi e l'ufficio anagrafico registra la separazione dando origine a quattro nuovi fogli di famiglia. I quattro nuovi gruppi cosf formati intraprendono separatamente un ciclo analogo a quello già sperimentato nel seno della famiglia d’origine. Ma è interessante notare come, nello stesso tempo, questo ciclo si esasperi nel corso degli ultimi anni del secolo, costringendo ogni famiglia ad intensificare le proprie strategie e ad utilizzare fino in fondo le proprie risorse. Gli Odasso, come gli altri valdoriani, vivono il peso di una crisi che colpisce
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tutta la comunità ma la percepiscono attraverso un’ottica molto parziale, in grado di considerare quasi unicamente l'orizzonte delle risorse familiari. I cicli familiari tendono quindi a diventare estremamente sensibili ad ogni mutamento che interviene nel quadro di rapporti demografici”. Il numero di figli, la mortalità, le scelte matrimoniali, ecc. — elementi sui quali si basano da sempre le strategie contadine — acquistano più che mai l’aspetto di rigide determinazioni e giungono a condizionare le possibilità economiche di ogni famiglia, i suoi obiettivi e il contenuto stesso delle scelte migratorie.
Possiamo apprezzare l’importanza di queste dinamiche osservandole attraverso l’evoluzione della famiglia di Elisabetta e dei suoi figli (cfr. sempre la figura 2). Nel 1877, dunque, l’ufficio anagrafico registra una situazione di questo tipo: Elisabetta, la madre, resta con la figlia Maddalena (forse non casualmente rimasta nubile) e il figlio Francesco, fabbro, nella
vecchia casa del cantone Cerea. Andrea Giovanni e Luigi si stabiliscono entrambi nel cantone Viella ma probabilmente in due abitazioni diverse, seppur vicine. Essi sono registrati nelle schede individuali come «conduttori in proprio affittuari contadini». Antonino, il più giovane, sposato da appena cinque anni, va ad abitare in via Cigliano, ai margini della frazione, con la moglie e la figlia di quattro anni. Ora ciascuna famiglia inizia un ciclo autonomo la cui durata (cioè il periodo che intercorre tra l’insediamen-
to autonomo e la nuova separazione) è strettamente dipendente dagli avvenimenti demografici della famiglia e in cui la dimensione massima raggiunta da ogni famiglia nel momento culminante è sensibilmente inferiore a quella registrata nel ciclo precedente. Andrea Giovanni, il primogenito di Elisabetta, ha avuto cinque figli, tutti maschi, dei quali tre solamente sono sopravvissuti. La famiglia è cosf composta da cinque persone quando Ernesto, il figlio maggiore, sposa, nel 1890, Matilde Momo (una contadina di 23 anni) portandola a vivere nella casa paterna. Una serie di parti sfortunati si succedono negli anni seguenti. Matilde partorisce Caterina (1891), Giovanni Francesco (1892), Giovanni 8 Il ciclo familiare analizzato in questo capitolo è quello dato dalle cadenze demografiche che modificano la struttura familiare. A Valdoria, nella maggioranza dei casi, si tratta della scomposizione della famiglia allargata, dello sviluppo di nuove unità, del matrimonio dei figli, del raggiungimento da parte dei nuovi nuclei di una fase a struttura allargata, analoga a quella di partenza. Considerare queste fasi, come vedremo, è essenziale per cogliere le interdipendenze tra le diverse variabili demografiche e il peso che questo processo assume nel determinare la scelta migratoria, al centro del mio interesse. Il concetto di ciclo — da me utilizzato in questa accezione — non è certo nuovo. Penso in particolare al metodo della Life course analysis che
cerca di cogliere l’interdipendenza tra cicli di vita individuali interni ad un panorama familiare, classi d’età, variabili esogene, nel determinare fatti e tendenze sociali: P. C. Glick, The farzily cycle, in «American Sociological Review», n. 12, 1947; M. A. Vinovskis, From the household size to the life course: some observations on recent trends in family history, in «American Behavioral Scientist», n. 3, 1977; G. Elder, Family history and the life course, in T. K. Hareven (a cura di), The family and the life course in historical perspective, New York 1978; Id., History and the life course, in D. Bertaux (a cura di), Biography and society: the life history ap-
proach in the social sciences, Beverly Hills 1981.
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Capitolo primo
Figura 2.
Evoluzione della struttura della famiglia di Elisabetta Odasso tra il 1858 e il 1930. 11931
Antonino Do nato nel 1850 sposa nel 1872 Molinatto Cecilia nata nel 1853
t1913 Florinda 1873 -—tt—@—@—144z 4z$ posa Miglietta Modesto — in un’altra famiglia p054 Casale Giuseppe Torino ———@phRDhtm' Teresa Elisabetta 1875 —————1zczc+—__—___+___—z
Giuseppe 1880 ——_—_—__—_—_—__—_————_—————— 904 posa Molinatto Orsola — in un’altra famiglia Carolina 188: —————___—___—y—6T5&K—— 19.06 sposa Conti Giobatta—— in un’altra famiglia
Margherita 1884 —__rr_r—o__T—————_t_t_—_—————@"€É————_—_—@_@@—ÈÉÉpvro sposa Casale Giovanni — in un’altra famiglia Olimpia 1894 ———_—__—_——___211zaxa: 1927 Giovanni Battista 1896 ———m1______zzgcmg 1925
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Luigi nato nel 1846 sposa nel 1874 Bono Teresa nata nel 1853
Giuseppe 1875 «= Vittorio 1877 ———_—_—__—_—_—1k11 Maggiorina 1879) ——_—____ym_______————_—É—————z——m—m—m€m&@&
Cesare Giuseppe 1881 «=f Maddalena 1884
1903 sposa Verga Antonino — in un’altra famiglia —+ Usa
Cesare Giuseppe 1888 ——m__—_—_——_———_—_—_—_—_tmu——_—a::r Camilla 1890 « Giovanni 1894 1916
Odasso Elisabetta nata nel 1818
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Pierino 1898 ———_—_——_—_—_——————
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Padova — Torino
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Maddalena ———€€—=_————+——_—_—_—_—_—___-__—__——t:916 nata nel 1848
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Francesco nato nel 1843
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L Andrea Giovanni nato nel 1840 sposa nel 1866 Pasteris Rosa nata nel 1848
t1921
$1904 Pasquale Battista 1875 —————_—_—_—_——_—_—_—_—_———————————@—é 9! | Noè Giuseppe 1873 ———_—_—__—_—_—_——_————————1pDBB Giovanni Battista 1873 «= f | Martirio G. 1866 «n t Ernesto 1866 sposa nel 1890 Momo Matilde nata nel 1867 Caterina 1891 et Giovanni Francesco 1892 «==t Giovanni Francesco 1894 =t Maria Domenica 1895 ce È Antonio 1896 et
Carolina 1897 «=t Giovanni Giuseppe 1898 Elisabetta Maria 1901 Margherita 1903
sposa Molinatto Maria sposa Regis Eugenio — Usa
Divisione
della famiglia (1877) Censimento 1860
Censimento 1865
1870
1875
1880
Censimento 1885
1890
1895
1900
1905
Censimento 1910
1915
1920
1925
1930
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Francesco (1894), Maria (1895), Antonio (1896), Carolina (1897), perdendoli tutti poco dopo la nascita. E solamente nel 1898 che nasce Giovanni Giuseppe, il primo dei figli di Erresto e Matilde a rimanere in vita (seguiranno Elisabetta nel 1901 e Margherita nel 1903). Questa triste serie di morti, che mantiene intatta la dimensione della famiglia per un periodo di dieci anni, spiega in parte il rallentamento della dinamica del ciclo familiare e anche, forse, il ritardo matrimoniale degli altri fratelli conviventi. Infatti solamente uno di loro, Noè Giuseppe, si sposa nel 1909 (a 34 anni) scomparendo nello stesso tempo dai registri del comune che ci segnalano il suo allontanamento senza però fornirci dei dati più precisi. Pasquale, l’altro fratello di Ernesto, non si sposa e rimarrà legato alla famiglia d’origine fino alla morte (nel 1912). Questo fatto va senz'altro attribuito alla forza unificante e centripeta della famiglia che tende a dare la precedenza alle esigenze familiari nei confronti di quelle individuali. Ed è in questo caso anche una tendenza per cosf dire «tradizionale », già presente nella storia familiare. Noè Giuseppe e Pasquale (i figli di Andrea Giovanni) percorrono a loro volta la traiettoria seguita nel corso del ciclo precedente dallo zio Francesco e dalla zia Maddalena, che non si sono sposati e non hanno lasciato la loro famiglia d’origine (per garantire in un primo tempo, con ogni probabilità, il loro aiuto all’intera famiglia e in seguito per aiutare la vecchia madre). Comportamenti analoghi sono molto diffusi e ci mostrano come la famiglia sia un insieme protettivo e garante della riproduzione ma come, nello stesso tempo, essa tenda a limitare e a soffocare, in nome delle esigenze
comuni, le aspirazioni e le possibilità dei singoli. Tutto ciò non è certo nuovo e studi come quello di Tamara Hareven’ hanno già mostrato che le strategie familiari condizionano non solo le scelte individuali ma anche le scelte sociali. Bodnar, poi, ci mostra pit specificamente come le aspirazioni dei figli siano spesso contrastate esplicitamente e messe a tacere in nome
degli interessi familiari”. Ma mi sembra importante sottolineare come
queste dinamiche si acutizzino e si generalizzino nel caso di Valdoria e particolarmente in quegli anni. Molte delle famiglie che avrebbero potuto, in anni meno critici, risollevarsi anche senza pesare sui loro figli e senza costringerli a ritardare o a rinunciare al matrimonio, tendono, in questa situazione, a divenire inglobanti in maniera quasi ossessiva. Il risultato è che le tensioni sempre presenti tra l'individuo e la famiglia si acutizzano sensibilmente. Questi comunque sono solo alcuni aspetti della tendenza generale al° Cfr. T. Hareven, The family as process: the.historical study of the family cycle, in «Journal of Social History», n. 2, 1974. !0 J. Bodnar, Immigration, kinship, and the rise of the working-class realism in industrial America, ivi, n. I, 1980.
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l'accelerazione e all’esasperazione dei cicli familiari in momenti di crisi. Una tendenza che, come ho detto, da un lato sottolinea una sensibilità e
una dipendenza reali dei destini individuali dalle congiunture storiche e, d’altro lato, mostra comunque l’estrema importanza del quadro familiare all’interno del quale esse si manifestano. Matrimoni, nascite, malattie e morti sono dunque le variabili che determinano, nell’esperienza concreta di ogni individuo, scelte e possibilità economiche. In questo senso, la configurazione dei rapporti familiari e di parentela riveste un’importanza analitica particolare poiché essa ci permette di ricostruire la matrice delle diverse determinazioni nate anche all’interno di famiglie che occupano la stessa posizione sociale. Il confronto del ciclo familiare di Andrea Giovanni (che ho appena esposto in parte) e quello del ciclo familiare di Antonino (il suo fratello minore) è esemplare. Come si ricorderà, Antonino è stato il penultimo dei figli di Elisabetta Croce a sposarsi (nel 1872). Sei anni separano dunque il suo matrimonio da quello di Andrea Giovanni. Ma Andrea Giovanni, lo abbiamo visto, avrà solamente cinque figli, due dei quali muoiono in tenera età. Antonino è più prolifico e fortunato: ha dieci figli in vent'anni e di questi uno solo morirà. Quando nel 1890 Ernesto (il figlio maggiore di Andrea Giovanni) si sposa portando la moglie Matilde a vivere nella casa comune, l’intera famiglia coresidente è composta da quattro maschi e due femmine in età lavorativa. Essa sembrerebbe dunque più equilibrata di quella di Antonino (che comprende nello stesso anno due maschi e tre femmine in età lavorativa; due figlie e un figlio di meno di 10 anni). Ma Andrea Giovanni non possiede nessuna risorsa per il lungo periodo. Ernesto, suo figlio, in dieci anni di matrimonio non avrà un figlio in vita. Antonino invece continua a prolificare ed è cosf che può, a partire dal 1894, iniziare a sposare la primogenita (che esce dalla famiglia), poi i due figli più vecchi (che si separano anch'essi, nel 1904 e nel 1906), pur avendo sempre delle braccia a sua disposizione. Antonino dunque, grazie alla fecondità del proprio matrimonio, ha raggiunto e «sorpassato » il ciclo demografico del fratello più anziano; non a caso le scelte dei suoi figli ci appaiono come poco conflittuali e poco disgreganti. Antonino perderà la moglie nel 1913 e morirà nel 1931 all’età di 81 anni, vivendo sempre nella stessa casa insieme al suo ultimogenito (sposatosi nel 1925), alla più giovane delle figlie (Olimpia, sposatasi nel 1927) e ai nipoti nati nel frattempo. Tutti gli altri suoi figli hanno iniziato un ciclo autonomo lavorando come mezzadri nello stesso villaggio. Quanto alle figlie, una di esse sposa un mezzadro, le altre due sposano dei valdoriani ma emigrano a Torino immediatamente dopo il matrimonio. I mariti troveranno un lavoro municipale (l’uno spazzino e l’altro disinfestatore). Andrea Giovanni, il fratello di Antonino, perderà inve-
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ce la moglie nel 1904. Pasquale, suo figlio, muore di malattia nel 1912. Noè Giuseppe, l’altro suo figlio, scompare, come ho detto, dai registri dell’anagrafe nel 1909. Quanto alla nipote Elisabetta, essa si sposa nel 1921 per emigrare all’estero. Lo stesso anno, nello stesso mese in cui Elisabetta parte, Andrea Giovanni si suicida impiccandosi. Andrea Giovanni e Antonino sono fratelli. Provengono dunque dallo stesso ambiente familiare e hanno la medesima memoria familiare. Andrea Giovanni inoltre è il primogenito e quindi teoricamente è quello che dovrebbe contare su di un maggior numero di risorse. Ma, come abbiamo visto, in poco più di trent'anni, una serie di avvenimenti provoca una modificazione drastica del panorama familiare. Si può dunque asserire con certezza, a partire dai dati demografici, che esiste una diversità sostanziale tra le due famiglie e che, quindi, anche le scelte apparentemente simili sono vissute in maniere discordanti. Per queste ragioni i dati demografici meritano di essere interpretati con la massima attenzione. Una famiglia come quella di Andrea Giovanni in cui, per dieci anni di seguito, la morte compare quasi annualmente non può non avere elaborato intorno a questo fatto semplice e insieme terribile la propria identità e le proprie strategie, per quanto disperate ed ossessionanti esse siano state. Quali sono i ruoli che
si creano e si giocano in una situazione di questo tipo? Quali sono le tensioni che si sviluppano tra Ernesto e Matilde (la sua giovane moglie) che ogni anno è incinta e ogni anno seppellisce un figlio? È chiaro che questi avvenimenti costituiscono un segno distintivo di una famiglia. E non è forse azzardato vederli come determinanti nel mantenimento di un ordine familiare chiuso a cui sfuggono solamente Noè Giuseppe (nel 1909, quando sparisce dall’anagrafe) e Pasquale, con la morte (1912). Una chiusura ossessiva a cui, non a caso dopo il suicidio di Andrea Giovanni, seguirà la di-
sintegrazione della famiglia. La nipote Elisabetta si sposa infatti nello stesso anno in cui il nonno si dà la morte; emigrata all’estero non ritornerà più
a Valdoria. Anche Giovanni Giuseppe, il secondo dei nipoti, si sposerà poco dopo per formare una famiglia separata... Nella famiglia di Antonino, le separazioni sembrano invece meno drammatiche e anche le strategie migratorie sembrano indicare un rapporto di identificazione ancora attiva con la famiglia d’origine e con il paese. Margherita e Teresa Elisabetta, due figlie di Antonino che come ho detto sono emigrate a Torino, sembrano mantenere dei contatti aperti con Valdoria. Tanto è vero che Margherita nel 1940 e Teresa nel 1950 ritorneranno entrambe a stabilirsi nel loro villaggio d'origine. Giovanni Battista infine, l’ultimogenito che vive con la famiglia d’origine fino al 1925 (anno in cui si sposa), è ciabattino e, per questa sua professione, ha contatti frequenti con Torino, dove le schede anagrafiche individuali lo segnalano spesso come « residente temporaneo »
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per periodi di pochi mesi. Non si fermerà mai stabilmente a Torino ma userà la città unicamente come una risorsa per il suo lavoro (svolto contem-
poraneamente all'attività contadina, come risulta dalle schede individuali del comune di Valdoria). Giovanni Battista continua dunque a svolgere per anni un ruolo complementare nella famiglia d’origine. Saranno solo i suoi figli che, dopo il 1945, si stabiliranno a Torino, anch’essi dopo aver vissuto una serie di emigrazioni temporanee.
La diversità degli itinerari familiari distingue le scelte migratorie. Per la famiglia di Antonino, l’emigrazione non è stabile; essa è una risorsa che si utilizza in funzione di una strategia globale della famiglia. Per la famiglia di Andrea Giovanni, l'emigrazione è stabile, senza ritorno. Scelte che, se
osservate attraverso uno dei loro aspetti formali non permetterebbero di distinguere differenze sostanziali nella posizione sociale degli emigranti e delle loro famiglie, rivelano, se confrontate col più vasto itinerario familiare, una differenza «relativamente » grande che si traduce in aspirazioni e identità diverse. Ecco un altro esempio di queste dinamiche: Maria Miglietta, proprietaria, vedova di Giuseppe Odasso. Maria possiede una piccola parte del podere «Mariette», nelle immediate vicinanze di Valdoria. Il censimento del 1858 la registra con i suoi tre figli Luigi (22 anni), Giuseppe (20 anni) e Teresa (18 anni). Nel 1865 Teresa si sposa e lascia la casa. Nello stesso momento Luigi sposa Lucia Carlino, seguito, tre anni dopo, dal fratello Giuseppe che sposa Angela Chiarello. La madre e i due fratelli con le rispettive mogli abitano tutti sotto lo stesso tetto. In poco tempo la famiglia raggiunge il numero di dieci persone a cui vanno aggiunti sei figli nati e vissuti pochi mesi o pochi anni. Già nel 1874 la famiglia si divide e solamente Luigi, il primogenito, insieme con la madre, la moglie e i figli rimane sulla proprietà. Tutti i figli maschi di Luigi moriranno; restano in vita unicamente tre figlie. Dal momento in cui Maria era rimasta vedova la traiettoria della famiglia aveva iniziato una lenta ma irresistibile discesa sociale. La morte dei figli di Luigi acutizza la crisi. Quando poi, dopo la morte della madre (1900), perde anche la moglie, Luigi si decide ad abbandonare la proprietà insieme con le figlie che, sposandosi, decidono di lasciare il paese. Caterina, la primogenita, emigra a Crescentino (un paese che si trova a circa 20 chilometri di distanza); Maria, avuta la sua prima fi-
glia, emigra con la famiglia in Pennsylvania (Usa); Teresa, la più giovane, emigra a Torino, dove l’anagrafe ci segnala che suo marito, Antonino Momo, è operaio in una grande fabbrica meccanica. Ecco dunque, anche in questo caso, un panorama di dispersione all’interno del quale la scelta migratoria appare come la soluzione migliore per le figlie di piccoli proprietari in declino sociale, nel momento in cui il loro ciclo di vita giunge alla tappa del matrimonio. Una scelta che pare essere stata percepita come obbligata,
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come sottolinea la relativa indifferenza degli orientamenti geografici delle diverse emigrazioni. Questa traiettoria familiare implica, al suo epilogo, una serie di tensioni e atteggiamenti specifici. Seguiamo ad esempio la famiglia di Teresa e Antonino Momo, a Torino. Il censimento del 1921 ci dice che questa coppia «operaia» ha avuto due figlie (Maddalena e Lucia) e che l’una è cucitrice e l’altra è sarta in un grande atelier. Antonino è dunque il tipico operaio torinese? Sf e no. Non ho ricostruito la storia della famiglia Momo ma è certo che dalla parte materna la memoria familiare è quella di un declino dello status sociale, visto che essi si trovano a Torino in una posizione identica (quella di una famiglia operaia) a quella di Domenico Odasso e Giovanna Reverso, e di altri abitanti di Valdoria che non discendono da
una famiglia di proprietari. Un quadro che si complica ancora se osserviamo le traiettorie degli individui che provengono da famiglie di braccianti. Persone che sono, all’origine, indubbiamente più mobili e che elaborano strategie con scelte più marcate e sensibili ad ogni possibile risorsa interna o esterna alla comunità. É interessante quindi seguire — anche se brevemente — una di queste famiglie. Francesco Odasso (nato nel 1828) e Maria Donato (nata nel 1841) si
sposano nel 1863. Il foglio di famiglia del 1880 ci dice che Francesco è «bracciante per conto di altri» e che vive con la moglie e i sei figli in vita (su nove parti): quattro maschi e due femmine. Tutti i familiari sono registrati con il termine «contadino» ed è quindi lecito supporre che l’intera famiglia vendesse la propria manodopera agricola. La strategia della famiglia — cosî come la si può dedurre dai dati demografici — è orientata verso una mobilità all’interno del paese. Infatti quando Giovanni, il primogenito, sposa nel 1897 Caterina Fossato e la porta a vivere nella famiglia, i suoi tre fratelli maschi partono per lavorare in Svizzera. Il foglio di famiglia redatto sulla base delle schede del censimento del 1881 non ci dà gli spostamenti temporanei, ma possiamo dedurre egualmente questa emigrazione dal fatto che Luigi, sposatosi sei mesi dopo Giovanni con Maddalena Sasso, ha una prima figlia (Maria) che nasce a Valdoria mentre tutti gli altri figli (nati dopo il 1900) vedono la luce in Svizzera. Anche Giuseppe (il terzogenito) si sposa a Valdoria nel 1902, ma Luigi Francesco (il suo primogenito) nasce in Svizzera. Infine Grato Francesco (il più giovane dei fratelli) si sposerà nel 1926 in Svizzera. Sono dati che ci mostrano non solo un’emigrazione ma che ci indicano anche come, perlomeno nel caso di Luigi e Giuseppe, questa fosse considerata come una situazione temporanea
e che i loro obiettivi restavano molto probabilmente all’interno del paese. In effetti sia Luigi che Giuseppe, pur lavorando all’estero e pur essendo accompagnati da tutta la famiglia fin dal 1902, manterranno sempre la re-
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Capitolo primo
sidenza a Valdoria. Contemporaneamente possiamo notare come l’alleggerimento della famiglia d’ origine sia in qualche misura produttivo. Giovanni, il primogenito che si era fermato al paese, è riuscito a prendere in affitto delle terre e a diventare, come ci informa l’anagrafe, «coltivatore affittuario in proprio». D'altro canto Marianna Giovanna (la seconda delle figlie) ha fatto un buon matrimonio sposando nel 1901 Pietro Momo, un artigiano falegname di Valdoria. Nel 1906 Giuseppe e Luigi ritornano con le famiglie ad abitare a Valdoria dando origine a due gruppi autonomi. Giuseppe va a vivere con la moglie, i tre figli, il padre e la sorella Albina. Luigi invece forma una cellula familiare indipendente. Grato Francesco, il più giovane tra i fratelli emigrati, non ritornerà. L’anagrafe, come ho detto, registra il suo matrimonio celebrato in Svizzera nel 1926 con Maria Ponsetto, una valdoriana residente da anni all’estero. L’atto di matrimo-
nio ci informa che Grato è riuscito a diventare «elettricista», dunque operaio specializzato. Luigi e Giuseppe sono invece ritornati ma, se il loro allontanamento e il loro lavoro sembrano avere contribuito a migliorare la posizione della famiglia, essi stessi non hanno trovato entrambi fortuna. Giuseppe, al suo ritorno, è ancora registrato come «bracciante agricolo »;
Luigi invece riesce ad affittare degli orti e forse dei campi visto che è definito «ortolano, conduttore in proprio, coltivatore». Tra i due fratelli la
differenza è probabilmente minima; tuttavia questo fatto, unito alla morte del padre (novembre 1908), spinge Giuseppe e la sua famiglia a riprendere la strada dell’emigrazione per dirigersi questa volta a Torino. Effettivamente la coincidenza delle date è interessante: le schede di immigrazione dell’anagrafe di Torino ci informano che la famiglia ha ottenuto la residenza nel novembre del 1909. Pare lecito, quindi, pensare che la decisione di riprendere l'emigrazione sia maturata anche in seguito alla morte del padre. Anche Albina (la sorella nubile che conviveva con Giuseppe) emigra a Torino nel 1909 e la troviamo registrata come «cameriera» al servizio di una ricca famiglia torinese del centro cittadino. Giuseppe non migliora comunque la sua situazione. Il censimento del 1911 ci mostra la sua famiglia (composta dai genitori e i tre figli al disotto dei ro anni) sistemata all’interno di una piccola stanza sprovvista di servizi in uno stabile della periferia. Una situazione di marginalità confermata dal fatto che, tra tutti i valdoriani emigrati, Giuseppe èè uno dei pochi a non essere riuscito a trovare un'occupazione operaia e rimane registrato come «bracciante agricolo». Giuseppe non ritorna a Valdoria. Muore a Torino nel 1912. Neppure la moglie e i figli pensano comunque a ritornare. Al censimento del 1921 Maria e i figli si sono spostati in Borgo San Paolo, uno dei nuovi quartieri operai, ma continuano a vivere tutti in un’unica stanza nel quinto piano di
un vecchio stabile. Luigi, il primogenito, è calzolaio. Angela è commessa
La città e il mondo operaio visti dalla parte della campagna
1874
in un negozio di stoffe sotto casa. Pietro Claudio è sarto in un istituto di beneficenza. Maria, la madre, morirà nel 1924. Angela resterà a Torino, mentre i fratelli riprenderanno la strada dell'emigrazione. Pietro Claudio parte per Biella nel 1930 mentre Luigi, un anno più tardi, andrà a Parigi. Sostanzialmente diverse, pur se formalmente simili, sono invece le traiettorie della famiglia di Luigi (uno dei tre fratelli emigrati in Svizzera). Luigi, come ho detto, è infatti riuscito a diventare «coltivatore in proprio » e ha apparentemente raggiunto una situazione stabile che vede la sua famiglia prosperare per un certo periodo. Lo sfaldamento avverrà anche per questa famiglia, ma esso inizia dopo le morti drammatiche della moglie e di una figlia provocate dall’epidemia di spagnola del 1918. Nei dieci anni che seguono assistiamo infatti alla partenza degli altri tre figli. Maria, la primogenita, si sposa nel 1923 con Angelo Barberis, un operaio metalmeccanico nato a Valdoria ma residente a Torino. Maria dunque emigra a Torino dove integra lo stipendio del marito impiegandosi come cuoca. Avventina (la più giovane) si sposa nel 1926 con Serafino Sacco, una guardia daziaria, e anche questa coppia emigra a Torino. Pure lei come la sorella lavora e la troviamo registrata con la qualifica di «operaia » nella fabbrica di Tabacchi. Infine, nel 1930, anche Francesco, l’ultimo dei figli ad essere rimasto con il padre, emigra a Torino esattamente nello stesso anno in cui questi si risposa con Caterina Melle. Dei fratelli della famiglia d’origine resta poco da dire. Giovanni ha avuto cinque figli che rimarranno tutti a Valdoria ad eccezione di uno che emigra a Vercelli. Marianna e Pietro Momo (il falegname) rimangono anche loro nel paese con i figli nati nel frattempo. Pure Albina, emigrata a Torino con Giuseppe e la sua famiglia dopo la morte del padre, ritorna. Come avevo detto, Albina si era impiegata come cameriera. Nel 1936, l'anagrafe di Valdoria registra sulla sua scheda individuale la qualifica di «benestante». Rimarrà nubile. Poniamoci dal punto di vista di chi ha percorso queste traiettorie: indubbiamente c’è, in ognuno, una disperata ricerca di miglioramento. Se all’origine possiamo scorgere un meccanismo unico che genera le scelte dei vari figli a partire da un problema comune (ci si potrebbe domandare se esista effettivamente in questo caso una strategia familiare che spinge i maschi più giovani all'emigrazione), il rapporto tra le storie individuali e la loro trama comune produce una serie di particolarità tali da differenziare le scelte posteriori. Un tipico esempio è quello dato da Grato Francesco, il più giovane dei figli, che si integra all’estero e decide di non ritornare. Ma sintomatici sono pure i casi di Luigi e Giuseppe che ritornano a Valdoria quando hanno raggiunto qualche cosa di più di quanto avevano al momento della partenza. Quanto al resto, le storie rivelano una tensione incredibilmente forte che spinge le persone ad emigrare, a cambiare città e
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Capitolo primo
lavoro, inseguendo un proprio «orizzonte mitico». Se osserviamo i percorsi familiari almeno per tre generazioni, possiamo notare come esistano delle evoluzioni cicliche all’interno delle quali ciascuna famiglia elabora le proprie strategie globali. Sono strategie attraverso le quali si tenta di raggiungere, utilizzando le magre risorse disponibili, una posizione che non possiamo non immaginare in termini di miglioramento o di stabilizzazione di una situazione critica. Le possibilità di successo sono comunque legate all’elaborazione di strategie che utilizzano delle risorse quasi sempre calcolate in termini di individui. Le morti e le nascite eccessive sono quindi un fattore di estrema importanza. Ma bisogna considerare egualmente le tensioni che si sviluppano all’interno di un tale gruppo, obbligato a mediare continuamente tra i diversi interessi e le aspirazioni dei suoi membri. Le traiettorie che ne derivano hanno dunque una loro logica particolare che possiede una forza d’inerzia considerevole, che si spande nel tempo, trasmettendosi di generazione in generazione. Ciò non significa che esiste un determinismo familiare. Pid semplicemente troviamo, in ogni scelta, una
convergenza di determinazioni legate a strategie e a dinamiche proprie all'evoluzione di famiglia, sia nel caso in cui il soggetto si conformi ad esse, sia nel caso in cui le ostacoli. Determinazioni che avranno, evidentemente,
un peso più o meno importante, secondo le possibilità messe a disposizione dall’ambiente in cui si trova chi deve — anche inconsciamente — operare una scelta. 2. Città e campagna nell’orizzonte dell’immigrato: mobilità relativa e strategie di integrazione.
Ho finora insistito sulla particolarità delle dinamiche che convergono nelle scelte d’emigrazione; sul fatto che ogni storia individuale è il risultato di un percorso di relazioni la cui forma, pur essendo generata dalle stesse variabili, assume contenuti e aspetti differenti. Giunti a questo punto, è essenziale domandarsi se la memoria di questi meccanismi continua ad operare al di là del paese d’origine. Chiarire cioè in quale misura questa memoria è ancora presente e attiva nelle scelte dell’emigrante al suo punto di arrivo. Sembra chiaro che, particolarmente per le generazioni della fine del secolo scorso, il villaggio d’origine continua a costituire il punto di riferimento essenziale per misurare il proprio itinerario sociale e per costruire la propria identità. Ho mostrato, poco sopra, come una delle tensioni comuni a queste storie sia data dalla diffusa aspirazione ad un miglioramento individuale e familiare. Miglioramento concepito in termini relativi, misurato
La città e il mondo operaio visti dalla parte della campagna
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cioè all’interno di ogni situazione familiare e delle sue possibilità. Ed è proprio questo meccanismo relativo a chiarire anche il rapporto instaurato da ciascuno nel corso della sua traiettoria di migrazione con le nuove situazioni incontrate. Infatti c’è un elemento costante in tutte le esperienze di emigrazione. E possibile dividere gli itinerari individuali in due grandi categorie. Da un lato, coloro i quali, dopo aver abbandonato il villaggio, non ritorneranno più; dall’altro, coloro i quali ritornano per restare. Queste due categorie raggruppano dei percorsi individuali molto variegati nei quali l’unico denominatore comune sembra essere dato dal confronto che ognuno tende ad operare con l’ambiente d’origine. Inoltre è interessante notare come in entrambe le categorie sia presente ogni tipo di itinerario individuale osservato. Quello di chi è «fuggito » dal paese o che è partito al termine di una situazione di esclusione emotiva (legata a tensioni o a morti
interne alla famiglia) o economica, ma anche quello di chi è partito per conservare o riconquistare uno status sociale in declino. Consideriamo un esempio di questo confronto relativo. Giovanni è il secondo figlio di Grato Odasso e Angela Momo, fittavoli. Il figlio maggiore è destinato ad occuparsi dei campi, il terzogenito, Piero Luigi, che è anche l’ultimo maschio della famiglia, compie degli studi. Diventerà maestro di scuola e sposerà nel 1910 una figlia di «proprietari», Emilia Necco. Giovanni emigra all’inizio del secolo a Savona dove è registrato come falegname. Dagli atti di matrimonio di Valdoria sappiamo che si sposa nel 1904 con Pasqualina Zavanone, sua compaesana, ma che continua a risiedere a Savona. In quella città nasce, nel 1905, Luigi, il suo primogenito. Sempre nel 1905 Giovanni si trasferisce a Torino. Dal primo foglio di famiglia conservato (del 1908), sappiamo che la famiglia è composta da Giovanni (registrato come falegname), dalla moglie Pasqualina (sarta), dal figlio Luigi e da Angela Dina, la figlia nata nel 1907. Con loro vive poi Camillo Zavanone, ferroviere, fratello di Pasqualina. Nel 1921 le schede del censimento ci mostrano invece una famiglia ridotta (la figlia, Angela, muore nel 1913, e Camillo Zavanone ha interrotto la coabitazione) e che si è riconvertita professionalmente. Infatti Giovanni e Pasqualina gestiscono comunemente una trattoria. Il figlio Luigi (allora solo undicenne) è registrato come «fonditore ». Pasqualina muore nel 1929. L’anno stesso Giovanni si risposa con Maria Seracchio ed emigra con lei a Savigliano. Il figlio Luigi eredita la gestione della trattoria. Né Luigi né Giovanni ritorneranno a Valdoria. Confrontiamo il percorso di Giovanni con quello di Teresa e di suo fratello Giuseppe. Teresa e Giuseppe sono i figli di Giovanni Odasso e Filomena Ponsetto, contadini fittavoli. Giovanni e Filomena hanno sei figli dei quali tre muoiono in tenera età. Il censimento del 1880 registra una fa4
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Capitolo primo
miglia composta dai due genitori e da tre figli (Caterina, nata nel 1863, Teresa, 1868, e Giuseppe, 1871). Giovanni muore nel 1882 all’età di cinquant’anni. La famiglia tenta probabilmente di resistere alla crisi provocata da questa catena di morti riprendendo l’attività paterna. I tre figli ritardano infatti tutti il matrimonio. Ma quando Caterina, la primogenita,
si sposa (nel 1894 all’età di 31 anni), questo equilibrio sembra vacillare. Ed è cosf che Teresa (nel 1897, a 29 anni) si sposa con Cleto Campo. L’anno seguente si sposa anche Giuseppe (a 27 anni) con Maria Bonardo. Teresa parte quasi immediatamente con il marito per l'Argentina. Giuseppe resta con la vecchia madre ma, alla sua morte, abbandona anche lui Valdoria. In un primo tempo va a Gassino (un paese della cintura torinese); poi arriva a Torino (nel 1906). Anche Teresa nel frattempo è arrivata a Torino. Cle-
to, suo marito, è morto nel 1905 in Argentina ed è in quel momento che Teresa ha deciso di ritornare in Italia con i suoi due figli Guglielmo e Giuseppina (nati nel 1900 e nel 1901 a Buenos Aires); è poi incinta di Carla, che nascerà a Torino nel dicembre dello stesso anno. Teresa non ha fatto sicuramente fortuna. La scheda di censimento del 1911 non ci dà la sua professione; ma la condizione non è certo agiata visto che, ancora al censimento del 1921, l’intera famiglia dichiara di abitare in una soffitta di una stanza nel centro storico della città. Questo stesso censimento ci dice che
Guglielmo, il primogenito, è diventato «maestro soffiatore vetraio», Giuseppina è «ricamatrice operaia», Carla è morta. La traiettoria di Giuseppe, il fratello di Teresa, è stata, come abbiamo visto, più lineare. Ma anche per
lui l'emigrazione non ha portato una stabilità o un netto miglioramento. Giunto a Torino ha trovato un impiego come spazzino municipale, ma negli anni che seguono lo vediamo cambiare spesso occupazione. Avrà due figli e morirà nel 1945 in un ricovero di mendicità. Né Teresa né Giuseppe sono ritornati a Valdoria. Il confronto delle vite di Teresa e di Giuseppe con quella di Giovanni, è particolarmente interessante. Da un lato esso conferma ciò che abbiamo già osservato in altri casi. Essi provengono tutti da famiglie di fittavoli, ma la particolarità del ciclo di ciascuna determina un’evoluzione diversa delle scelte e dei percorsi individuali. D'altro lato — ed è questo l’aspetto su cui voglio ora soffermarmi - questi percorsi, per quanto siano diversi, sono vissuti nella stessa maniera; come una caduta sociale. Ora, se noi conside-
riamo le vite di Teresa e di Giuseppe da un punto di vista «oggettivo», dobbiamo necessariamente dire che sono loro a conoscere la caduta maggiore. Ma se consideriamo il contesto familiare, dobbiamo ammettere che Giovanni ha lasciato una famiglia in piena ascesa sociale mentre Teresa e Giuseppe provengono da un ambiente disgregato, meglio, da una famiglia in piena crisi. Ciò con cui Giovanni si deve misurare è il suo ambiente ed
La città e il mondo operaio visti dalla parte della campagna
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è soprattutto la figura del fratello Pierò, maestro elementare e marito di Emilia, che le schede anagrafiche definiscono come «benestante». Teresa, Giuseppe e Giovanni sono quindi uniti da un senso di fallimento «relativo». C’è un tasso di mobilità relativa discendente analogo che fa sf che nessuno di essi ritorni al paese, luogo in cui dovrebbero ammettere il proprio fallimento, seppure relativo. I percorsi di questo tipo sono numerosi e tutti riconducibili a questo meccanismo «relativo» che d’altronde non è altro che un’espressione di quanto si era già notato: della pertinenza del
bagaglio relazionale e familiare di ognuno". In questa luce, anche le scelte dei personaggi citati poc'anzi diventano più chiare e mostrano nello stesso tempo come questo meccanismo possa generare atteggiamenti diversi e apparentemente contraddittori. Rivediamo ad esempio le traiettorie di Giuseppe, Luigi e Grato, i tre fratelli, figli di braccianti, emigrati in
Svizzera. Come si ricorderà le loro vite seguono percorsi diversi. Grato, il più giovane, diventa elettricista, si sposa in Svizzera e non ritorna al paese. Luigi ritorna e riesce a diventare fittavolo. Giuseppe ritorna, è bracciante ed è obbligato (o si sente obbligato) a ripartire. Per Luigi e Giuseppe la spiegazione sembra chiara. Luigi di fatto ha avuto una mobilità «relativa» ascendente: ritorna per stabilirsi definitivamente. Giuseppe non ha raggiunto gli stessi risultati. Ritorna ma non si ferma: riprende la strada dell'emigrazione. Quanto a Grato, possiamo invece pensare che il confronto con il paese e con la famiglia, con una situazione quindi di tensioni e di rapporti competitivi, sia un elemento di allontanamento per chi, adolescente, è stato coinvolto in una emigrazione familiare e per chi, nonostante le premesse sfavorevoli, ha raggiunto una buona integrazione all’estero. Ogni vita può fornire un esempio diverso, ma che dipende dallo stesso meccanismo. La memoria familiare sembra in ogni caso uno degli elementi !! Introduco qui un concetto, quello della percezione relativa della propria posizione sociale, che utilizzerò e svilupperò in diverse accezioni nei prossimi capitoli. Questo concetto, per me di estrema importanza, presenta molte analogie con quello di relative deprivation sviluppato da anni nei lavori sociologici. Come è noto, gli studi sulla relative deprivation hanno avuto il loro massimo impulso a partire dall’ormai famosa ricerca The American Soldier in cui si sottolineavano i diversi sentimenti di soddisfazione maturati da soldati dello stesso grado ma con ambiti di riferimento diversi. Merton e Runciman sono gli studiosi che hanno maggiormente sviluppato le implicazioni di questo concetto nelle dinamiche di mobilità sociale. R. K. Merton e P. Lazarsfeld (a cura di), Studies în the scope and method of the American Soldier, Glencoe (IIl.) 1950; R. Merton e A. Kitt, La teoria dei gruppi di riferimento e la mobilità sociale, in R. Bendix e S. M. Lipset (a cura di), Classe, potere e status. La mobilità sociale, Padova 1972; W. C. Runciman, Redative deprivation and social justice. A study of attitudes to social inequality in twentieth-century England, London 1966. Lo stesso concetto ha poi trovato ampie applicazioni nelle teorie dei movimenti e delle proteste sociali. Vedi a questo proposito le rassegne D. Morrison, Sozze notes toward theory on relative deprivation, social movements and social change, in R. R. Evans (a cura di), Social movements: a reader and source book, Chicago 1973; G. N. Gurney e K. ]J. Tierney, Re/ative deprivation and social movements: a critical look at twenty years of theory and research, in «The Sociological Quarterly», n. 23, 1982. Infine va citato l’articolo di Luckmann e Berger - ingiustamente dimenticato nei dibattiti odierni — in cui gli autori indagano sul peso assunto dai meccanismi di mobilità nel determinare le identità all’interno dei gruppi sociali: T. Luckmann e P. Berger, Socia/ mzobility and personal identity, in «European Journal of Sociology », n. 5, 1964.
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Capitolo primo
principali che ci permettono, una volta ricostruiti, di chiarire anche le scelte operate dall’emigrante nel suo rapporto con i nuovi ambienti trovati. L’integrazione o la marginalità si decidono infatti anche in rapporto a questo orizzonte sempre presente — sia che lo si accetti sia che lo si rifiuti —, fatto di itinerari passati e paralleli, e in cui le traiettorie degli altri modificano la percezione che ciascuno ha della propria. E di questo confronto che bisogna tenere conto quando si vuole spiegare l’apparente omogeneità degli ambienti in cui l’immigrazione è un fenomeno massicciamente presente. Come si è visto, non è sufficiente esaminare la posizione sociale di origine e quella raggiunta per capire il grado di soddisfazione raggiunto da un emigrante. Le soddisfazioni sono infatti calcolate individualmente confrontando il proprio percorso con gli altri percorsi possibili. Va detto infine che questi percorsi mostrano comunque anche l’attrazione esercitata dai nuovi ambienti. Si tratta in qualche modo di una nuova matrice di variabili spesso in contraddizione con la matrice tradizionale e che modifica l’equilibrio dell’individuo. Il ritratto dell’emigrante che emerge è dunque quello di una persona portatrice di due «lealtà», di due ambiti di riferimento. Da un lato il villaggio, con tutto quello che ciò comporta“, dall’altro il nuovo ambiente. Ed è quindi forse lecito pensare ad una doppia identità i cui tratti si combattono in ogni individuo. E questo anche solo perché tali persone vivono mentalmente in due ambiti di relazione i cui contenuti e le cui rilevanze sono necessariamente diversi. Io penso che il percorso di ognuno, ma anche le scelte corali di amici e parenti emigrati, unite alle possibilità trovate nell'ambiente, risolvano spesso i conflitti di «lealtà» in cui si trova chi deve scegliere se tornare o no. Tutto ciò, più che automatico, è forse inconscio. Un brano estratto da un raccon-
to di Kafka ci permette di riflettere sui limiti paradossali che questi meccanismi possono raggiungere e sintetizza bene — attraverso le riflessioni di un non emigrante - le variabili contraddittorie che possono rientrare nelle situazioni di scelta: Pensava all’amico che, insoddisfatto per quanto gli offriva il suo paese, parecchi anni avanti era letteralmente fuggito in Russia. Il commercio che svolgeva a Pietroburgo, dopo un ottimo inizio, da un pezzo languiva, lamentava l’amico durante le sue visite, che si facevano, del resto, sempre pit rare. Il suo travagliarsi all’estero era dunque senza ragione; una gran barba, di foggia esotica, non riusciva a nascondere le fattezze note sino dall’infanzia, mentre il colorito giallastro sembrava rivelare una malattia già in corso. Raccontava di non avere stretto rapporti !2 Uno dei primi, fondamentali lavori che hanno messo in luce la necessità di considerare i comportamenti urbani anche alla luce delle aspettative e dei sistemi di relazione dei luoghi di provenienza, è quello di J. Scott e L. Tilly, Lavoro femminile e famiglia nell’Europa del x1x secolo, in C. E. Rosenberg (a cura di), La famiglia nella storia, Torino 1979.
La città e il mondo operaio visti dalla parte della campagna
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con la colonia dei compatrioti, mentre scarse relazioni aveva con la gente del posto; era ormai rassegnato a restaré celibe. Cosa scrivere a un uomo simile, che, evidentemente, aveva sbagliato strada?
Uno poteva compiangerlo, ma come aiutarlo? Gli si doveva consigliare di tornare a casa, di trasferire la sua esistenza, di riallacciare le vecchie amicizie, tutte cose per cui, dopo tutto, non esistevano ostacoli, e per il resto confidare nell’aiuto degli amici? Ma con ciò gli si veniva a dire - e il modo, quanto più riguardoso, tanto più sarebbe stato offensivo — che i suoi tentativi s'erano risolti in un fallimento, che era ormai tempo di abbandonarli, che doveva rientrare nel suo paese, lasciando che la gente lo fissasse stupita, come uno tornato per sempre, che soltanto i suoi amici capivano qualche cosa, mentre lui era un bambino invecchiato, cui conveniva dare retta agli amici rimasti a casa. Almeno si fosse stati sicuri che le pene inflittegli avrebbero servito a qualche cosa! Forse non sarebbero riusciti neppure a riportarlo in patria, pensò, ricordandosi che quello ammetteva di non capire più il modo di vita dei suoi connazionali. Sarebbe, cosî, rimasto all’estero,
amareggiato dai consigli e ancora di più estraniato dagli amici. Se poi avesse seguito i consigli e non avesse potuto risollevarsi, per colpa non degli amici, naturalmente, ma delle circostanze, se non fosse stato capace d’adattarsi agli amici né di fare a meno di loro, se si fosse sentito umiliato, se avesse perduto per sempre patria e amici, non sarebbe stato meglio, per lui, continuare a rimanere all’estero? Se le cose stavano a quel modo, era ragionevole pensare che nel suo paese si sarebbe affermato? ”.
Il brano è forse un po’ lungo. Ma è essenziale in quanto coglie - come difficilmente il ricercatore può fare — la totalità delle variabili, diverse e contraddittorie che compongono un ambito personale. L'amico di Pietroburgo non è certo un operaio piemontese, ma i problemi che ha di fronte sono di natura molto simile sia pure con rilevanze e contenuti diversi. E da sottolineare l’importanza di questa trama che converge nell’orizzonte di ognuno: i suoi contenuti e i suoi meccanismi sono generali e quindi gene-
ralizzabili, ma la sua meccanica produce figure sempre nuove e particolari. 13 F. Kafka, La condanna, in Kafka — racconti, Milano 1957, p. 63.
Capitolo secondo La città, il mondo operaio e l'immigrazione: il ciclo di «integrazione urbana »
Gran parte dell'emigrazione confluisce dunque nell’occupazione operaia. Ma, lo abbiamo visto, le forze sociali convogliate da questo fenomeno non sono omogenee e non sembrano considerare questa condizione come
l’obiettivo finale del loro percorso. Le diverse determinazioni e le aspirazioni maturate dagli emigranti li inducono a considerare questa scelta in rapporto ad almeno due obiettivi. Da un lato le professioni operaie come canale di mobilità rispetto alla posizione sociale occupata nel paese d’origine. Si tratta in questo caso di individui estremamente instabili nel panorama.cittadino, che si muovono e agiscono in riferimento a ruoli e identità
esterne al mondo urbano. D'altro lato, la scelta della professione operaia risponde contemporaneamente a molteplici e diverse domande di integrazione nella città'. E il caso di chi si ferma e investe sui nuovi ambienti le proprie pur differenti aspettative. Ecco dunque le forze sociali identificate dal mito, come dalla storiografia, con la nuova e stabile classe operaia torinese. Sarà la storia di queste forze, il loro peso reale nel mondo operaio, la loro stabilità nelle città, le loro modalità di integrazione che occorrerà analizzare per comprendere la fisionomia sociale e culturale della classe operaia torinese.
1. Una classe operaia di recente immigrazione: il turnover sociale nel
mondo operaio.
Il primo problema è quello di comprendere il peso reale delle forze migratorie nella composizione della classe operaia torinese. Chiarire cioè in ! I temi dell’integrazione nell'ambiente urbano sono alla base di numerosi studi antropologici, sociologici e storici. Tra questi cfr. P. Hauser e L. Schnore (a cura di), The study of urbanization, New York 1965; M. Banton (a cura di), The social anthropology of the complex societies, London 1966; H. J. Dyos (a cura di), The study of urban history, London 1968; C. Pitto (a cura di), Antropologia urbana. Programmi, ricerche, strategie, Milano 1980; A. Southall (a cura di), Urban antbropology. Cross-cultural studies of urbanization, London
1973: i;Hershberg (a cura di), Philadelphia. Work, space, family and group experience in the roth century, Phiadelphia 1981.
La città, il mondo operaio e l'immigrazione
25
che misura il mondo dei lavoratori dell’industria è interessato dal fenomeno migratorio. Ho ritenuto di rispondere a questa domanda utilizzando due campioni
che permettano di affrontare il problema da prospettive opposte e complementari. In primo luogo ho seguito (con la stessa tecnica di raccolta dei dati utilizzata a Valdoria ma trasferita in città) le traiettorie cittadine delle
53 famiglie — parte del campione valdoriano di immigrati - che si fermano stabilmente in città, integrandosi nel tessuto locale. Dei 23 rami familiari cosf ricostruiti, ho quindi tracciato le genealogie discendenti dal momento di ingresso in città fino al censimento del 1961. Ciò che ne deriva è un gruppo di 682 traiettorie individuali legate fra loro da rapporti di parentela che coprono tre generazioni (in alcuni casi quattro, quando i genitori anziani raggiungono i figli in città). Parallelamente ho ritenuto necessario affiancare a questo un secondo campione di controllo — basato sulla popolazione di un quartiere torinese accomunata dalla professione operaia — per poter correggere le distorsioni indotte dalla considerazione esclusiva delle dinamiche di un gruppo di identica origine migratoria. Ho quindi ricostruito le traiettorie di un gruppo di famiglie che il censimento del 1936 registra tutte abitanti nella stessa casa al centro del quartiere operaio di Madonna di Campagna. Dai 48 capifamiglia del campione sono risalito nel tempo per individuare le famiglie di provenienza: fino al censimento del 1881 per le famiglie di origine torinese e, nel caso di immigrati o figli di immigrati, alle schede di immigrazione e ai relativi fogli di famiglia dei loro parenti prossimi (fratelli e sorelle, genitori e zii). Successivamente ho ricostruito le traiettorie di tutti i discendenti del gruppo familiare di origine fino al 1961. Il risultato è un campione di 48 genealogie che raggruppa i percorsi di 1498 individui che coprono, anche in questo caso, tre,
quattro generazioni”. Nell’accostare i due campioni, conviene osservare innanzitutto come essi — pur costruiti secondo due tecniche e a partire da due centri diversi 2 La ricostruzione di entrambi i campioni si basa sui dati raccolti presso l’Archivio dell’ Anagrafe di Torino. Per ogni famiglia ho consultato i censimenti del 1881, 1901 (conservati solo parzialmente), quelli del 1911, 1921, 1931, 1936, 1951 e i fogli di famiglia corrispondenti. La ricostruzione genealogica e dei percorsi geografici e professionali è stata resa possibile soprattutto grazie alle schede individuali di immigrazioneemigrazione, nascita-morte, anch'esse conservate presso l'Archivio dell’Anagrafe di Torino. I dati anagrafici sono stati affiancati da tre serie di interviste operate ad anziani testimoni e ad alcuni epigoni delle genealogie ricostruite. La prima serie è composta da circa sessanta interviste effettuate tra il 1976 e il 1978 da un gruppo di lavoro, di cui ho fatto parte, nel corso di una ricerca sulla cultura operaia a Borgo San Paolo (cfr., su questo lavoro, aa.vv., Cultura operaia e vita quotidiana in Borgo San Paolo, in Torino tra le due guerre, Torino 1978). I nastri e le trascrizioni (alle quali rinvio nelle note con la sigla AGAM) sono conservati presso la Galleria d’Arte Moderna della città di Torino. La seconda serie si compone di quattordici interviste da me operate (di tipo libero e a questionario) ad un gruppo di anziani che avevano trascorso una giovinezza comune nel quartiere di Borgo San Paolo (nastri e trascrizioni citate con la sigla RR 1-23). La terza, infine, si basa su nove interviste operate ai componenti di due delle famiglie che fanno parte del campione di Madonna di Campagna (sigla RS 1-12).
26
Capitolo secondo
- si presentino globalmente equivalenti per ciò che riguarda il peso assunto al loro interno dal numero delle generazioni e delle classi d’età. Come si può vedere dalla tabella 1’ (in cui sono appunto confrontate le percentuali delle generazioni e delle classi d’età dei due campioni) le generazioni centrali — protagoniste della prima metà del secolo - sono rappresentate in misura esattamente eguale, cosa che contribuisce a garantire la confrontabilità dei due gruppi di genealogie. Vediamo dunque sulla base di questi due campioni in che misura un gruppo di immigrati svolge - al momento del suo ingresso in città — la professione operaia e, viceversa, in che misura un gruppo di famiglie operaie è interessato dal fenomeno migratorio. Consideriamo innanzi tutto il caso dei valdoriani. Delle cinque gene} Tutti i dati raccolti per entrambi i campioni sono stati schedati ed elaborati con il sistema di analisi SAS (Statistical Analysis System) presso il centro informatico dell’Università di Torino, con la collaborazione di Eugenio Gatto. L’uso del trattamento informatico è stato reso possibile grazie al contributo 8551/2 del Ministero della Pubblica Istruzione (40%).
Tabella it
Rapporto in percentuali assolute tra classi d’età e generazioni pet i campioni di Madonna di Campagna e Valdoria. Madonna di Campagna
te 1?
nati prima del 1873 tra 1873 - 1891 1892 - 1901
5,32
Sagl 22 7a 1,99
WIR 5MRI 2042. 0,78 10,36
1902 - IQII
li
5,04
1912 - 1925
-
1,21
1926-1937
-
dopo il 1938
-
Tutti
7,45
nati prima del 1873
9,89
ta dra De si
-
=
-
7331
0,64 3,26
-
-
14,41 14,40
2
14,48
9,44 . < 14,05
Pai
»
LITI
PID
-
T.63,@0r2:85
31,02
Totale
36,19
22,64
i
17,67
=
14,55
270
17,18
2570)
100,00
Valdoria 4,26
tra 1873 - 1891
-
12,63
1892-1901
-
5,18
n -
3:35, =
1902 1912 1926 dopo Tutti
il
IQII 1925 1937 1938
9;9900
1253421
-
—
=
2,44
-
-
15,07
9:59 a Li
=
14,77
113,09 72 2:80 1,52 10,50. — O70RRRIt:5 70101 30,12
24,96
0,61
14,15
16,44 14,61 12,02 12,94 100,00
La città, il mondo operaio e l'immigrazione
ri
razioni che compongono le genealogie delle famiglie installatesi a Torino, la seconda è quella che ha vissuto direttamente l’esperienza dell’immigrazione e del primo impatto con il mercato del lavoro torinese‘. Questa generazione, come si è visto dai dati riportati nella tabella 1, comprende un ventaglio abbastanza ampio di classi d’età. Infatti ricostruendo le intere genealogie familiari, necessariamente vengono compresi nella stessa generazione fratelli e cugini che possono distanziarsi tra di loro anche di molti anni d’età. Ma ciò non costituisce un limite in questo caso. In tale modo, il gruppo dei primi immigrati rispecchia fedelmente la complessità del fenomeno migratorio quale avevamo potuto apprezzare nel corso del capitolo precedente. Si tratta di persone che entrano in città in un arco di tempo di trent'anni e che possiedono un retroterra familiare e professionale estremamente diversificato tra di loro. Ciò nonostante, se osserviamo le
prime professioni denunciate all’anagrafe torinese dai maschi in età lavorativa appartenenti a questa generazione possiamo notare come effettivamente l’indirizzo occupazionale scelto da un immigrato sia quasi esclusivamente quello operaio. Infatti, ben il 75,3 per cento di questa popolazione denuncia una professione operaia (cfr. tab. 2)’. E questa una percen-
tuale significativamente alta a cui va del resto aggiunto anche il gruppo di 4 Va infatti considerato che se entrambi i campioni coprono cinque generazioni di genealogie familiari, la prima e l’ultima di esse sono composte da individui non attivi nei fenomeni che si analizzano in questo come nei capitoli seguenti. La prima generazione è infatti composta dai capostipiti delle genealogie. La loro presenza è indispensabile per garantire la ricostruzione genealogica e dei rapporti di parentela che legano le generazioni seguenti. Ma essi sono quasi del tutto assenti dal mercato del lavoro torinese (è il caso della quasi totalità dei valdoriani e di gran parte del gruppo di Madonna di Campagna) oppure sono ormai periferici ad esso già nei primi decenni del secolo. L’ultima generazione è invece composta da individui che al 1961 (anno in cui cessa la mia campionatura) non hanno superato l’ottavo anno d’età. Se essi ci dànno quindi indicazioni non trascurabili sulle scelte demografiche delle famiglie, non sono da considerare ancora attivi all’interno dei fenomeni analizzati. 3 Le categorie socioprofessionali dei diversi censimenti, fogli di famiglia e schede anagrafiche utilizzate in questo lavoro sono alla loro origine estremamente diverse e difficilmente comparabili. Non solo perché tra il 1901 e il 1961 cambiano come è chiaro, l’organizzazione del lavoro e la stratificazione professionale. Ma anche perché ogni censimento e ogni atto anagrafico rispondono alle esigenze politiche o pi semplicemente alle esigenze burocratiche del momento. Per tali ragioni ho utilizzato, per questa come per le altre tabelle esemplificative, un’unica griglia basata su categorie professionali non troppo disaggregate ma che ci possa dare nello stesso tempo un indice corretto sia della stratificazione professionale sia dei settori di impiego dei gruppi analizzati. Ho quindi raggruppato gli operai delle piccole come delle grandi industrie rispettando però i loro livelli di qualificazione (manovali, operai semplici, operai qualificati, operai capi). Analogamente ho raggruppato gli impiegati pubblici e privati stratificandoli al loro interno (impiegati e impiegati superiori). Nel gruppo dei direttori generali e imprenditori sono compresi anche i professionisti (medici, ingegneri, avvocati, ecc.). Dopo gli artigiani e icommercianti (anch'essi stratificati al loro interno) sono riportati, nel gruppo dei servizi, i lavoratori municipali, dei trasporti, e degli ospedali. Tra i «servizi non qualificati» compaiono quiridi i tramvieri, i barellieri, gli uscieri e gli stradini... Tra i «servizi qualificati» abbiamo gli infermieri professionali, gli scritturanti comunali, ecc. Questo gruppo è solo apparentemente eterogeneo; esso rispetta infatti i dati analizzati nel campione i quali mostrano come in questi settori e in queste professioni convergano analoghe strategie e attese familiari. Infine ho aggregato esercito, forze pubbliche e chiesa dividendoli in due livelli. Per «qualificati» in questo caso intendo gli ufficiali, i preti, icommissari di pubblica sicurezza, ecc. Per una critica analitica dei censimenti e delle fonti demografiche italiane, dei limiti delle loro categorie socioprofessionali, cfr. O. Vitali, La popolazione attiva in agricoltura attraverso i censimenti italiani, Roma 1968.
28
Capitolo secondo
non qualificati dei servizi (4,3 per cento del totale) e una gran parte di coloro che si sono dichiarati piccoli artigiani (12,9 per cento del totale). Nel primo caso, perché i non qualificati dei servizi sono tutti «operai cantonieri» che si orienteranno successivamente verso le grandi industrie torinesi;
nel secondo caso, perché molto spesso la qualifica di «piccolo artigiano» si riferisce ad una mansione svolta all’interno delle piccole officine e non ad una attività indipendente di vero e proprio artigianato o commercio. Non ci allontaniamo dal vero, quindi, sostenendo che quasi il 90 per cento di coloro che si installano a Torino tra la fine del secolo scorso e iprimi due decenni del Novecento svolgono, al momento dell’arrivo, una professione operaia. Lo stretto rapporto tra recente immigrazione e condizione operaia che
emerge dai dati di Valdoria è confermato dal campione di Madonna di Campagna. Se ricostruiamo la provenienza dei 48 capifamiglia che costituiscono il centro del campione, possiamo vedere come solamente 5 di essi siano di origine torinese (nati a Torino e figli di genitori nati a Torino o immigrati in città prima del 1881). I restanti 43 capifamiglia sono invece tutti di recente origine migratoria (37 sono immigrati in prima persona; 6 n
Tabella 2.
Distribuzione delle professioni dichiarate all’ingresso in città dai maschi della prima generazione di immigrati di Valdoria. % ia)
cumulativa
Frequenza
17 36 I5 2 3 = 12 4 =
Manovali Operai semplici Operai qualificati
18,28 3897a 16,13
18,28 56,99 TERNO
Capisquadra Impiegati Impiegati superiori Direttori generali e imprenditori Piccoli artigiani e commercianti Artigiani e commercianti con dipendenti Servizi - non qualificati Servizi - qualificati Esercito e chiesa - non qualificati Esercito e chiesa — qualificati In scolarità Contadini Marginali
2,15 323 = 12,90 4,30 =
2IN5 = = 25151 =
75,27 78,50 _ = 91,40 95,70 = 97,85 = = IOO,00 2
100,00
100,00
Totale
2 = = 2 A 93
La città, il mondo operaio e l'immigrazione
29
sono figli di recenti immigrati). Questi dati, pur cosî eloquenti, riferendosi ai soli capifamiglia rischiano di sottostimare il fenomeno. Se consideriamo anche i coniugi e gli adulti in età lavorativa, le percentuali di recenti immigrati presenti nell’universo delle famiglie salgono notevolmente, superando il 90 per cento dei casi. A partire da questo raffronto, è chiaro che il mondo operaio torinese risulta interessato nella sua quasi totalità dal fenomeno migratorio. Siamo quindi ben lontani dalla fisionomia mitica di una classe operaia stabile che si tramanderebbe da più generazioni la stessa professionalità e che vedrebbe le sue origini nelle officine artigianali del secolo x1x. Le fabbriche, come i quartieri operai della prima metà del Novecento, sono popolate da persone la cui identità professionale è del tutto recente. Si potrebbe forse obiettare, a questo punto, che i dati raggruppano un numero esiguo di casi e sono quindi scarsamente rappresentativi. Ma se osserviamo il peso dell’immigrazione in entrambi i campioni globalmente, possiamo osservare come essa si rifletta in egual misura sia sulle genealogie di un gruppo di immigrati, sia su quello di un gruppo di operai. Infatti, dei 1498 individui che compongono le genealogie di Madonna di Campagna, ben 480 (pari al 34,04 per cento dei casi) sono nati fuori Torino e sono immigrati in una fascia d’età compresa tra l'infanzia e il matrimonio. Per il campione di Valdoria il peso è analogo: dei 682 individui totali, 186 sono gli immigrati (pari al 27,27 per cento dei casi). Il peso del fenomeno migratorio è quindi analogo in entrambi i campioni.
A maggior riprova del forte peso dell’immigrazione all’interno dei gruppi operai possiamo notare come questo 30 per cento costante di immi-
grati per i due campioni non sia costituito esclusivamente dai parenti stretti delle famiglie dei primi immigrati che si ricongiungono ad essi in città. A comporre questo dato contribuiscono infatti in larga parte i matrimoni che i nuovi arrivati stringono all’interno di una situazione sociale dove, per l'appunto, l'immigrazione ha un peso rilevante. In questi matrimoni l’endogamia di provenienza ha un peso significativamente minore di quella professionale e soprattutto di quella di zona (per le prime classi d’età, i matrimoni tra coppie che abitano negli stessi quartieri e a poca distanza tra di loro toccano una percentuale media del 60 per cento). Infine, il raffronto tra i due campioni mette in evidenza una caratteristica importante del rapporto immigrazione - mondo operaio torinese. Se in entrambi i campioni l'immigrazione è presente nelle stesse quantità, essa è nondimeno il frutto di due ondate migratorie distanziate nel tempo. Cioè, gli immigrati presenti nel campione di Madonna di Campagna risultano entrati in Torino negli anni ’20 e °30, mentre la presenza della forte ondata migratoria di inizio secolo — quella che ha interessato il campione
30
Capitolo secondo
dei valdoriani - sembra ormai stemperata‘. Se ricostruiamo le distribuzioni degli anni di ingresso degli immigrati possiamo infatti notare come, per ognuno dei due campioni, il centro del fenomeno interessi esclusivamente la prima fascia temporale delle genealogie (cfr. fig. 3). 6 L’alta presenza del fenomeno migratorio all’interno dei gruppi operai è stata confermata anche dal lavoro di Florence Baptiste che, analizzando il censimento del 1921 per l’intero Borgo San Paolo, mette in luce come il 60,6 per cento dei capifamiglia residenti sia di origine migratoria (F. Baptiste, Borgo Sar Paolo d’une guerre à l’autre. Population et modes de vie dans un quartier ouvrier. Turin 1921-1936, tesi di dottorato di terzo ciclo francese, dattiloscritto, Lyon 1985). La continuità del fenomeno, la sua presenza ininterrotta anche durante il periodo fascista sottolineano inoltre l’inefficienza delle leggi emanate dal regime per frenare l’inurbamento e le migrazioni interne. Questi risultati forniscono quindi una conferma ed una misura a livello locale alle ipotesi tracciate da A. Treves nel suo studio Le migrazioni interne nell'Italia fascista, Torino 1976.
Figura 3.
Distribuzione degli anni di ingresso degli immigrati dei due campioni. % | MADONNA
DI CAMPAGNA
120
25,00
\0(e)
18,75
1
12,50
(CN(e) Frequenza I
20
4,17
O) 1860
o) 1880
1900
1920
1940
1960
1980
% VALDORIA
rat
60
M
=
1906,86
32,26
1900
Sè» S 2
S
16,13
[à
5,38 1860
1880
1900
1920
1940
1960
1980
La città, il mondo operaio e l’immigrazione
31
Per il campione di Madonna di Campagna - che ricostruisce le genealogie di famiglie operaie al 1936 — la distribuzione dell’anno di ingresso del totale degli immigrati ha il secondo e il terzo quartile (quindi il 50 per cento centrale dei casi) compresi tra il 1902 e il 1931; mentre per Valdoria questi comprendono individui entrati in città tra il 1898 e il 1912. Se a ciò si aggiunge il fatto che le medie delle due distribuzioni si distanziano di ben 10,91 anni e le mode di ben 27 anni si può concludere che nel 1936 i soggetti sociali che occupano lo spazio operaio (professionale e geografico) sono il frutto di un’immigrazione recente che si distanzia di 15-20 anni da quella entrata ad occupare gli stessi spazi negli anni ’10 e ’20 del secolo. All’interno di una percentuale stabile di immigrazione, si è dunque verificato un sensibile turnover; il mondo operaio ha assorbito nuove forze e al tempo stesso sembra aver «liberato » verso differenti ambiti professionali una parte delle sue componenti sociali. Questo dato pone un problema rilevante che cercherò di chiarire in tutte le sue implicazioni nel corso di questo come dei capitoli seguenti. Quello cioè di una sensibile mobilità del mondo operaio e di un ciclo che potremmo definire «di integrazione » all’interno del mondo professionale e, come vedremo, all’interno degli stessi quartieri torinesi. L'analisi delle carriere professionali e delle scelte di insediamento fornirà alcune risposte sulle direzioni e le logiche di questi movimenti. 2.
Un percorso di integrazione attraverso le professioni della città.
Sempre all’interno dei due campioni di confronto, analizziamo ora gli esiti dei percorsi professionali di queste generazioni. Nella tabella 3 ho riportato le distribuzioni percentuali delle professioni raggiunte (al pensionamento o, per i più giovani, al censimento del 1961) dai maschi appartenenti alle cinque classi d’età centrali di entrambi i campioni. Sono dati schematici, che tuttavia ci permettono di cogliere con sufficiente precisione i movimenti professionali che interessano, nel tempo, gli universi di queste famiglie. Considerando unicamente le prime classi d’età, possiamo innanzitutto osservare come le professioni raggiunte al pensionamento mostrino una stratificazione sensibilmente differenziata che si allontana quindi dal carattere massicciamente operaio, tipico della condizione dei primi immigrati. Questo fenomeno, che sottintende la presenza di un movimento di mobilità intragenerazionale, è presente in entrambi i campioni. Sia tra i val-
doriani, sia tra le famiglie che fanno capo alle case operaie di Madonna di Campagna, si notano, pure in percentuali ridotte, i primi casi di impren-
32
Capitolo secondo
ditori, impiegati superiori e artigiani con dipendenti (che non comparivano all'orizzonte dei primi immigrati) e, parallelamente, si assiste ad un sensibile miglioramento della qualificazione interna alla professione operaia (evidente sull'aumento percentuale degli operai qualificati). Ma, tralasciando per ora il problema della mobilità intragenerazionale, consideriamo soprattutto imovimenti professionali globali di queste genealogie, confrontando ad esempio le distribuzioni delle professioni raggiunte dalle prime e dalle ultime classi d’età di ciascun campione (nati tra il 1873 eil 1891enatitrail 1926 e il 1937). Per il campione di Valdoria, ? Va forse chiarito che questo studio affronta il problema della mobilità sociale attraverso un’ottica del tutto particolare poiché tenta di cogliere questo fenomeno sul lungo periodo e nella sua globalità, osservando i risultati professionali nell’arco di più generazioni. In questo senso il mio lavoro si distanzia dagli studi classici sulla mobilità i quali si preoccupano invece di analizzare soprattutto la mobilità interna ai gruppi sociali, misurando ad esempio quanti individui, figli di operai, restino nella stessa professione paterna, quanti accedano a strati superiori o regrediscano a strati inferiori. Cfr. R. Balstad. Miller, The historical study of social mobility, in «Historical Methods Newsletter», n. 3, 1975; G. Carlsson, Socia/ mobility and class structure, Gleerup 1955; M. B. Katz, Socia/ class in north American urban history, in «Journal of Interdisciplinary History», n. 4, 1981; S. Thernstrom, The other bostonians: poverty and progress in the American metropolis, Cam-
bridge (Mass.) 1973; J. Westergaard e H. Resler, C/ass în a capitalist society, London 1975; cfr. infine il numero monografico sulla mobilità sociale curato da S. Thernstrom sul «Journal of Interdisciplinary History», N12, 1976,
=
Tabella 3. Distribuzioni percentuali delle professioni dei maschi divise per classi d’età, nei due campioni. Valdoria 18731891
1892I90I
1902IQII
19121925
19261937
tutti
Manovali Operai semplici
10,00 26,67
9,43 32,08
5,08 18,64
2,38 9,52
4,26 8:51
6,51 119,92
Operai qualificati
235,
002.674
32
5
06
5,00 5,00
Sori Og
3,39 dii
4,76 200
2019) dee
3,83 ao
1,67 20,00 3:33 = 3:33 -
5,66 _ 7,55 1,89 1,89 1,89 2 S =
6,78 5,09 10,17 3,39 = = = =
11,90 4,76 4,76 7,14 9,52 4,76 = 2,38
10,63 4,26 8,51 4,26 6,38 = 4,26
6,51 1,92 9,59 4,60 = 4,60 HIS = 1,15
È =
È =
100,00
100,00
100,00
100,00
100,00
Capisquadra Impiegati
Impiegati superiori Direttori generali e imprenditori Piccoli artigiani e commercianti Artigiani e commercianti con dipendenti Servizi - non qualificati Servizi — qualificati Esercito e chiesa - non qualificati Esercito e chiesa — qualificati In scolarità Contadini Marginali Totale
60
53
59
3 Sr
42
47
0,78 = 100,00
261
La città, il mondo operaio e l’immigrazione
3a
dei 60 individui considerati per la prima classe d’età-nonostante la mobilità intragenerazionale—ancorà il 61,67 per cento di essi svolge, al momento del pensionamento, una professione strettamente operaia (manovali, operai semplici, operai qualificati). Quadri e dirigenti costituiscono infatti solo il 6,67 per cento dei casi mentre gran parte delle rimanenti attività è coperta da artigiani e commercianti. Nella classe dei nati tra il 1926 e il 1937, invece, abbiamo ancora una percentuale del 38,30 di pro-
fessioni operaie, ma ad esse si accompagna una percentuale rilevante di impiegati (il 36,17 per cento, tra i quali quasi il 50 per cento è costituito da quadri e dirigenti o professionisti). Emerge dunque un percorso complessivo caratterizzato da una evidente ascesa professionale, la cui rilevanzaè tanto più grande se teniamo conto del fatto che le professioni dell'ultima classe d’età sono quelle raggiunte al 1961, anno in cui gli individui di questo gruppo, avendo tutti un’età compresa tra i 24 e i 35 anni, si trovavano di fatto all’inizio del loro percorso professionale. Per il campione di Madonna di Campagna il quadro si presenta in forma analoga ma con un’emergenza professionale più flessa. Per le stesse classi appena considerate si ha infatti un passaggio da un universo questa volta massicciamente operaio (74,66
Madonna di Campagna 18731891
13,33 45,33
1892I90I
1902I9II
19121925
19261937
6,93 37,62
5,83 24,27
2,08 23,96
1,05. 16,84
5,53 28,94
33
6825
E6:0023 70006109, 4200063125
tutti
8,00 IN98, aa
2,97 0,99 1,98 -
6,80 9,71 5,83 1,94
1,04 3,16 o;a Mz 65 7,29 8,42 1,04 4,21
4,26 6,81 SITE
9,33 1,33 267
13,86 0,99 3,94
14,56 2,91 13,890)
9,38 7,367 4,17 3,16 6,2
11,06 2,55 3,83
0,99 -
1,94 1,94
-
1,04
3,16 1,05
17,0
1,28 0,85
=
099.
0;97
3,13
3,16
1,70
=
=
=
-
211
0,43
—_
-
=
O. 2I
=
=
=
100,00
100,00.
100,00
_
(©) 99
,33
,98
100,00
100,00
0,63 100,00
34
Capitolo secondo
per cento di professioni operaie, 9,33 di piccoli artigiani, 2,66 di impiegati e il restante 13,35 diviso tra servizi, contadini e marginali), ad un universo in cui prevale ancora la componente operaia (51,57 per cento dei casi) ma
che si è nel frattempo nettamente differenziato in ruoli e professioni diverse (25,26 di impiegati e dirigenti, 3,16 di servizi qualificati e ancora un 3,16 per cento di artigiani con dipendenti, ecc.). Globalmente, dunque, il fenomeno è chiaro. C’è per queste famiglie un percorso di mobilità ascendente che si ritaglia all’interno dello spazio professionale torinese. Un fenomeno in cui converge una pluralità di fattori, non ultime le trasformazioni del mercato del lavoro cittadino. In una certa misura infatti l'emergenza numerica dei lavori d’ufficio è determinata dalla meccanizzazione crescente delle fabbriche torinesi. Fin dall’inizio degli anni ’30, con l’introduzione del sistema Bedaux, le industrie tendono a restringere l’impiego di manodopera qualificata e ad allargare nello stesso tempo le richieste di impiegati e contabili’. Una tendenza questa che si riflette in misura indiretta nei percorsi professionali delle classi d’età centrali per le quali sono proprio i lavori operai qualificati (operai qualificati e operai capi) che, dopo aver subito un netto incremento, si avviano più di altri verso una contrazione. Ma il percorso professionale di questi individui, più che alla trasformazione del mercato del lavoro cittadino, sembra essere correlato alla loro posizione all’interno di quello che sempre più nettamente si prefigura come un «ciclo di integrazione urbana». Ciò che appare determinante nel definire il campo delle possibilità professionali di diversi individui appartenenti alla stessa classe d’età è infatti l'anzianità del loro stanziamento in città: la distanza che li separa dal momento dell’immigrazione e del primo contatto con il mondo della fabbrica. Vari elementi confermano questa osservazione. Innanzitutto il diverso grado di qualificazione professionale raggiunto dai due campioni. Come ho accennato poc'anzi, il campione di Madonna di Campagna mostra —se paragonato a quello di Valdoria — una flessione di valori nell’emergenza professionale globale. Infatti la fisionomia di queste genealogie rimane, anche nelle ultime classi d’età, più ancorata al profilo operaio di quanto non avvenga nel caso di Valdoria. Ora è proprio la distanza di 10-15 anni che separa l’ingresso in città delle famiglie dei due campioni a spiegare la diversa qualificazione da esse raggiunta. Infatti, mentre i valdoriani entrano a Torino già nei primi decenni del secolo, la maggioranza delle famiglie di Madonna di Campagna fa il suo ingresso dopo gli anni ’20. Non è dun8 Sull’introduzione del sistema Bedaux e in generale sulla razionalizzazione del lavoro a Torino, cfr.
M. Montagnana, L'organizzazione scientifica del lavoro in Italia, in «Stato Operaio», n. 1, 1929; V. Castronovo, Giovanni Agnelli, Torino 1971; G. Sapelli, Fascismo, grande industria e sindacato, Milano 1975; D. Bigazzi, Gli operai della catena di montaggio: la Fiat, in « Annali della Fondazione Feltrinelli », Milano 1979-80.
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35
que una diversità delle fortune o delle attitudini nei confronti del mercato del lavoro quella che separa i'due campioni, quanto l’aver iniziato in tempi diversi il proprio percorso di integrazione. Ciò è d'altronde confermato anche da un secondo elemento non trascurabile: l'avanzamento professionale di ciascun campione assume al suo interno la stessa consistenza relativa. Il che si può facilmente misurare calcolando ad esempio i saldi tra le percentuali di professione operaia registrate sempre nelle due classi estreme appena considerate e per ciascun campione. Per il campione di Valdoria, potremo dunque osservare come l’ultima classe d’età presenti globalmente il 23,37 per cento dei casi in meno della prima classe (38,30 per cento di professioni operaie per i nati tra il 1926 e il 1937 zero 61,67 per cento di professioni operaie per i nati tra il 1873 e il 1891). Per Madonna di Campagna la stessa operazione dà un valore estremamente vicino: 23,09 per cento (51,57 - 74,66).
Le implicazioni di tutto ciò sono chiare e confermano ulteriormente quanto avevamo osservato nel paragrafo precedente: il mondo operaio torinese non è stabile nelle sue componenti sociali e anzi — per la presenza rilevante del fenomeno migratorio che fa affluire costantemente e per pit di cinquant’anni sempre nuova manodopera - esso è un ambito interessato da un forte turnover. Ancora una volta quindi i dati elaborati ci allontanano da quegli aspetti del mito che vorrebbero vedere nella classe operaia della città un gruppo stabile e soprattutto portatore di una esplicita vocazione professionale. Ciò che appare è piuttosto un percorso interno al-
la città che lega, nel tempo e attraverso diverse generazioni familiari, mondi sociali e professionali apparentemente distanti. L’importanza di questi cicli emergerà con chiarezza nel corso del lavoro. Ma nel discutere i movimenti professionali globali dei due campioni è necessario sottolineare come le distribuzioni professionali per classi d’età rischino di deformare l’entità reale del fenomeno. Infatti poiché l’ascesa professionale è correlata al ciclo di inurbamento delle famiglie e quindi alla loro anzianità di stanziamento, più che l’appartenenza ad una classe d’età, diventa determinante l'appartenenza ad una generazione. In altri termini e con pit precisione, è determinante la posizione che ciascuno assume relativamente al percorso complessivo della propria famiglia. I miglioramenti, gli avanzamenti professionali avvengono infatti, nella realtà individuale, in relazione alla posizione del padre e del nonno; in rapporto alla generazione che precede ogni attore sociale. Ora, proprio perché le classi d’età tagliano trasversalmente le generazioni, abbiamo di fatto, all’interno di es-
se, la compresenza di individui con diverse anzianità di integrazione. Ad esempio, avremo nella classe dei nati tra il 1926 e il 1937 sia individui che appartengono alla terza generazione di inurbati (i nipoti dei primi immi-
36
Capitolo secondo
grati), sia individui che appartengono alla seconda generazione (i figli degli immigrati). E dunque questa assimilazione all’interno dello stesso gruppo di soggetti sociali che si trovano, pur avendo la stessa età, in una fase diversa del ciclo di integrazione, a ridurre l'evidenza del fenomeno. Se quindi osserviamo gli stessi dati, e cioè le distribuzioni professionali, ma divise per generazioni, possiamo notare come tra la seconda generazione (la vera protagonista dell’immigrazione) e la quarta, le distanze tra gli universi professionali siano molto più significativamente marcate (cfr. tab. 4). Non è il caso di soffermarsi ulteriormente su questo punto, che l'evidenza dei dati attesta con sufficiente chiarezza. Ma è necessario sottolineare come,
considerando le generazioni, il percorso professionale reale appaia ancora più netto e definito. Misurando ad esempio unicamente i saldi delle professioni operaie (che tra le classi d’età estreme, lo si era visto, erano dell’or-
dine del -23,00 per cento) abbiamo tra prime e ultime generazioni (tra nonni e nipoti) un saldo negativo netto del -30,11 per cento nel caso di Valdoria e del -29,86 per cento nel caso di Madonna di Campagna.
Tabella4. Distribuzioni percentuali delle professioni dei maschi divise per generazioni, nei due campioni. Valdoria generazioni
23
Manovali Operai semplici Operai qualificati Capisquadra Impiegati Impiegati superiori
Direttori generali e imprenditori Piccoli artigiani e commercianti Artigiani e commercianti con dipendenti
Servizi — non qualificati Servizi - qualificati Esercito e chiesa - non qualificati Esercito e chiesa - qualificati In scolarità Contadini
Marginali Totale
tutti
3°
4°
3,13 8,33 21,87 3a 12,50
12,90
7,92
29,03 DISSI 3523 4,30 2015; 1,08 20,43
14,91 28,95 5,26 14,9I 7,89 0,89 7,02
3923 -
6,14 4,39 0,89 1,75
2,15 -
-
-
0,66
-
-
-
100,00
100,00
na
100,00
93
114
12,50
3013, 5,21 5321:
4,17 2,08 18,75
96
7,59 17,16 24,42 3,96 10,89 7,59 1,65 10,56
3,96 3,96 0,99 6,60
100,00
303
La città, il mondo operaio e l’immigrazione
37
3. Un percorso di integrazione attraverso i quartieri della città. La presenza costante ma differenziata nel tempo del fenomeno migratorio all’interno dei due campioni e il percorso di diversificazione professionale non sono gli unici elementi che ci permettono di cogliere l’esistenza di un ciclo di inurbamento e di integrazione nel mondo sociale torinese. Esiste anche un percorso geografico interno alla città e allo spazio urbano. Le sue direzioni e i suoi tempi seguono in parte le trasformazioni urbanistiche che si producono in una città in progressiva crescita. Ma, accanto e all’interno di questo panorama, è indispensabile tener conto dell’anzianità di integrazione degli attori sociali. Solo questi ulteriori elementi ci permettono di chiarire l’identità degli attori sociali che popolano le diverse zone della città e le determinazioni individuali e familiari che li hanno spinti a muoversi verso di esse. Le linee generali di questo percorso sono estremamente chiare. La ten-
Madonna di Campagna
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3
4°
tutti
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0,70 17,61
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100,00
100,00
100,00
180
230
142
552
38
Capitolo secondo
denza espressa dalla maggior parte degli immigrati è di orientarsi inizialmente verso i quartieri del centro storico cittadino o verso i vecchi quartieri artigiani ad esso adiacenti. È questo, in Torino, lo spazio urbano sviluppatosi nel secolo x1x e delimitato dal vecchio muro di cinta daziario. Le abitazioni che esso offre ai suoi abitanti sono estremamente povere: le soffitte delle case borghesi e i piccolissimi appartamenti privi di servizi negli edifici in via di degrado. In una seconda fase, i percorsi si orientano invece al di là del vecchio perimetro urbano, verso i quartieri operai che iniziano a sorgere tutt'intorno alla città fin dall’inizio del secolo. Lo spazio è in questo caso caratterizzato dalle grandi fabbriche torinesi e da un abitato operaio che cresce caoticamente e con modelli architettonici e abitativi estremamente variegati. In una terza fase, infine, si può osservare il rifluire delle generazioni pit recenti verso il centro cittadino. Lo spazio verso cui si orientano questi individui è dunque lo stesso che aveva ospitato i loro genitori 0, più spesso, i loro nonni. Ma, dalle soffitte, essi sono scesi ai piani
bassi delle vecchie case borghesi e, soprattutto, si sono installati nelle nuove zone residenziali. Gli orientamenti che caratterizzano queste fasi sono resi possibili ed influenzati dalle modificazioni urbanistiche’. Quando le prime ondate migratoÈie giungono in città, questa è ancora arroccata all’interno dei confini ereditati dal secolo xtx. Le uniche abitazioni disponibili sono dunque quelle sovraffollate e insalubri del centro storico o dei vecchi quartieri artigiani. Solamente a partire dal 1910, la nascita e lo sviluppo costante dei quartieri operai di periferia decongestionerà il centro, aprendo nello stesso tempo una nuova possibilità di insediamento operaio, caratterizzato da un comfort abitativo mediamente superiore. In questo quadro, gli orientamenti delle famiglie seguono i tempi dello sviluppo urbano ed effettivamente le prime presenze massicce nella nuova periferia operaia si registrano nel corso degli anni ’20. D'altronde, anche il successivo riflusso verso il centro e verso le abitazioni, per cosf dire, di tipo «piccolo borghese», coincide con un momento preciso dello sviluppo. È infatti nel corso degli anni ‘30 che inizia a prendere forma quell’intervento edilizio, che vedrà il suo apice nel secondo dopoguerra, rivolto esplicitamente ai ceti medi e basato sulla costruzione di abitazioni più ampie e soprattutto più curate sotto il profilo estetico. Ma, anche in questo caso, le grandi trasformazioni urbanistiche costi? Sullo sviluppo urbano di Torino cfr. aa.vv., Torino 1920-7936. Società e cultura tra sviluppo industriale e capitalismo, Torino 1976; V. Castronovo, Lo sviluppo urbano di Torino nell'età del decollo industriale, in «Storia Urbana», n. 2, 1977; A. Abriani, Edilizia ed edilizia popolare nello sviluppo urbano di Torino. r9r91941, in aa.vv., Torino tra le due guerre, Torino 1978; G. M. Lupo e P. Paschetto, La città tra otto e novecento: la trasformazione urbana, in aa.vv., Torino città viva cit. Un’interessante inchiesta di tipo giornalistico svolta negli anni ’20 sui nuovi quartieri periferici è quella di P. Abate-Daga, Alle porte di Torino, Torino 1926.
La città, il mondo operaio e l'immigrazione
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tuiscono il quadro generale all’interno del quale si muovono, con forme e ritmi a loro specifici, i percorsi delle famiglie. Le nuove abitazioni popolari infatti non richiamano indistintamente tutte le famiglie operaie torinesi; la maggioranza di coloro che iniziano a spostarsi dal centro verso la periferia hanno una seppur minima anzianità di stanziamento. Mentre cioè gli immigrati entrati in Torino a cavallo del secolo iniziano già negli anni ’10 e ’20 ad orientarsi verso i nuovi quartieri operai, le successive ondate migratorie continuano a dirigersi innanzitutto verso il centro storico per seguire poi, solo in un secondo tempo, il percorso di chi li ha preceduti. Allo stesso modo, il successivo riflusso verso i quartieri residenziali del centro si manifesta inizialmente attraverso le scelte di chi aveva popolato per primo i rioni periferici.” Flussi continui e cronologicamente distanziati si muovono dunque all'interno della città, ed emergono con chiarezza nella loro analogia cost come nella loro sfasatura temporale dalla comparazione dei due campioni. Ancora una volta infatti i percorsi dei valdoriani sono perfettamente analoghi a quelli delle famiglie di Madonna di Campagna. Ma i valdoriani che appartengono alla prima ondata migratoria — precedono i secondi nelle varie fasi del loro percorso. Tutto ciò è illustrato dai dati riportati nella figura 4. Essa rappresenta sinteticamente il tipo di rapporto stabilito con lo spazio da ciascun individuo dei due campioni nel corso delle prime due fasi del ciclo di vita: dalla nascita al matrimonio (o all’età media ma-
trimoniale per chi non si sposa) e dal matrimonio al pensionamento. Per ogni classe d’età ho quindi riportato le percentuali dei casi di chi — nella prima come nella seconda fase del ciclo di vita — si è trovato: 4) stabile al
paese d’origine; 2) nel corso di un tragitto migratorio; c) all’interno di un quartiere operaio; d) all’interno di un quartiere del centro della città e/o socialmente ibrido (in cui cioè la composizione sociale non fosse massiccia-
mente monoprofessionale); e) emigrato dalla città". Queste indicazioni 10 La distinzione dei comportamenti individuali nelle due fasi del ciclo di vita è stata fatta seguendo un criterio di raggruppamento che tenesse conto del maggior tempo trascorso in città. Non compaiono
quin-
di, ad esempio, nel gruppo 4 (composto da persone che stanno compiendo il tragitto migratorio) tutti gli individui che sono entrati in città al di sotto dei 9 anni di età. Questo perché chi entra a Torino prima di questa età si inserisce direttamente all’interno del mercato del lavoro cittadino e soprattutto trascorre la maggior parte della
prima fase del ciclo di vita nella nuova situazione urbana. Analogamente, considerando la seconda
fase del ciclo di vita (dal matrimonio al pensionamento) è conteggiato tra gli abitanti stabili anche chi è immigrato in un periodo immediatamente posteriore al matrimonio (massimo 5 anni).
La distinzione dei comportamenti interni alla città è stata fatta rispettando il criterio della massima stabilità all’interno di un orizzonte urbano e sociale analogo. I casi di chi si sposta all’interno dei quartieri operai o all’interno dei quartieri ibridi sono stati aggregati rispettivamente nei gruppi c e d (quartieri professionali e quartieri ibridi). I casi - meno numerosi — di chi si sposta frequentemente tra centro e periferia operaia sono stati invece aggregati con il gruppo dei quartieri ibridi. Gli stabili, come è chiaro, sono calcolati anch'essi con il criterio della massima frequenza. Solo chi ha trascorso almeno i tre quarti della fase del ciclo di vita considerata in uno stesso ambiente è stato aggregato con il gruppo relativo. La distinzione, infine, tra quartieri professionali e quartieri ibridi è stata fatta sulla base della composizione professionale dei quartieri torinesi. Ho considerato di «tipo professionale» tutti i quartieri in cui la
Figura 4. Tipologia dei rapporti che ogni individuo dei due campioni ha stabilito con lo spazio nel corso delle due fasi principali del suo ciclo di vita. VALDORIA
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La città, il mondo operaio e l'immigrazione MADONNA
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-
42
Capitolo secondo
sono sintetiche e, come tali, non rendono conto di tutti i possibili rapporti con lo spazio; quello cittadino in particolare. Ciononostante, i dati mostrano inequivocabilmente la presenza delle tre fasi del percorso illustrato poc'anzi, come pure la sfasatura temporale esistente tra i due campioni. Senza dilungarci su ogni aspetto della figura, osserviamo unicamente le colonne che riportano i casi di stanziamento all’interno della città (quartieri professionali e quartieri ibridi). E innanzitutto consideriamo la forma del ciclo: mentre per le prime classi d’età la maggioranza dei nuovi arrivati abita nei quartieri del centro storico (professionalmente ibridi), la maggioranza delle classi centrali popola i quartieri della periferia operaia. Dopo di che, effettivamente, le ultime classi d’età iniziano a rifluire (soprattutto nella fase postmatrimoniale del loro ciclo di vita) verso il centro cittadino. Se quindi compariamo i due campioni, possiamo osservare con chiarezza la sfasatura dei cicli. Mentre, ad esempio, già il 39,60 per cento dei nati tra il 1902 e il 1911 del campione di Valdoria trascorre l'infanzia e la giovinezza all’interno di un quartiere operaio, solo il 18,13 per cento degli individui di Madonna di Campagna appartenenti alla stessa classe d’età si trova in questi spazi urbani. Non solo: la loro tendenza - ancora nella fase postmatrimoniale del ciclo di vita — è quella di orientarsi in misura rilevante verso quello stesso centro che i valdoriani hanno iniziato ad abbandonare massicciamente. Tutto ciò, come è chiaro, ha diverse e importanti implicazioni. Innanzitutto questo percorso illustra un ulteriore aspetto del miglioramento costante raggiunto da queste famiglie all’interno del mondo torinese. E un miglioramento che segue l'andamento globale del percorso professionale e che vede il passaggio delle famiglie da una condizione operaia vissuta in ambienti urbani più modesti ad una condizione professionale differenziata, mediamente molto più qualificata, e che si accompagna ad un decoro di orientamento piccolo borghese. In secondo luogo, esso ci permette di cogliere alcuni degli elementi fondamentali che caratterizzano al suo interno la condizione operaia torinese. Infatti, soprattutto le prime fasi del percorso ci mostrano come i gruppi operai non siano radicati ad uno spazio urbano; ai quartieri periferici, come vorrebbe il mito. Essi popolano il centro come la periferia e si muovono tra questi due spazi secondo una logica che ritaglia, all’interno della stessa condizione sociale, differenze e propensioni troppo a lungo ignorate in sede analitica. Questo è un punto a mio parere estremamente importante. E d'altronde risponde ad una domanda che, alpresenza operaia superasse il 70 per cento della popolazione attiva. La divisione di fatto si è dimostrata molto netta poiché in nessuno tra i quartieri considerati «ibridi »i gruppi operai superano il 40 per cento della po-
polazione attiva. Sulla composizione professionale dei quartieri torinesi cfr. l’analisi di Sereno Regis, I/ censimento e la popolazione di Torino, in
«Torino», n. 12, Torino 1932; e S. Musso, Proletariato industriale e fa-
scismo a Torino. Aspetti del territorio operaio, in «Annali della Fondazione Feltrinelli», Milano 1980-81.
La città, il mondo operaio e l'immigrazione
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meno in parte, i dati pubblicati dalle fonti ufficiali al seguito di ogni censimento avrebbero imposto se non fossero stati sistematicamente ignorati. Infatti, ancora al censimento del 1931, nonostante il fatto che a quella data i quartieri operai abbiano toccato l’apice del loro sviluppo, le statistiche torinesi ci mostrano come il 44,23 per cento della popolazione operaia del-
la città viva nei quartieri centrali". Dunque, i mitizzati quartieri periferici accolgono poco pit del 50,0 per cento di quella classe operaia che si vorrebbe tutta ed omogeneamente arroccata all’interno dei loro confini. L’avere ignorato questi dati, come è chiaro, ha sempre indotto la ricerca ad interrogarsi sulla composizione e sulla forma di aggregazione della classe operaia, considerandola unicamente nelle sue forme statiche e interne alla
periferia. Ora, non solo si è visto come questa continui a popolare l’intero spazio cittadino, ma abbiamo potuto appurare come tra centro e quartieri operai esista uno scambio continuo di attori sociali, tale che le forme e gli atteggiamenti propri di un ambiente trovano origine e spiegazione nell’altro e viceversa. Se osservata al suo interno la condizione operaia non è dunque monoplanare. Essa si presenta invece come un mondo complesso all’interno del quale anche le scelte abitative sono elementi di diversificazione, proprio perché esprimono attitudini e propensioni che mutano, come abbiamo visto, con il crescere dell’integrazione delle famiglie nel tessuto urbano. Il prendere possesso di una casa più ampia e confortevole ad esempio (che è spesso l’aspetto correlato allo spostamento verso la periferia operaia) è una scelta che non dipende tanto dalla posizione all’interno della stratificazione professionale operaia. Nelle stesse classi d’età si hanno infatti sia casi di famiglie di operai specializzati che continuano ad abitare per anni in case malsane e sovraffollate, sia casi di famiglie di operai semplici che vivono in spazi più ampi e confortevoli. Più spesso questa scelta matura dunque parallelamente allo svilupparsi, nel corso del tempo, di una mentalità e di una razionalità « più cittadine», che da un lato portano a considerare come importanti gli attributi di status connessi alla casa e, d’altro lato, sono ora in grado di connettere e attivare quelle risorse molto spesso indispensabili per accedere alle case dei quartieri operai. Scarsamente correlate alla posizione professionale o economica della famiglia, le modalità abitative sono piuttosto la spia della gamma di percezioni e di fisionomie che attraversano la condizione operaia. Ogni testimonianza conferma questi aspetti sottolineando come all’interno delle stesse posizioni professionali coesistano atteggiamenti diversi, espressione, a loro volta, di un diverso grado di integrazione urbana. Un caso emblematico è !! Mia elaborazione sui dati del censimento del 1931 di Torino cit.
riportati in Regis, I/ censizzento e la popolazione
44
Capitolo secondo
quello rievocato ad esempio da Enea Valenti. Nato nel 1895, Enea appartiene alla prima ondata migratoria. La sua famiglia (composta dal padre, operaio specializzato, dalla madre, da due fratelli e una sorella) entra a To-
rino nel 1903 e va a vivere in un appartamento di una stanza e cucina nel vecchio centro storico. La scelta sembra allora quasi obbligata, non solo per le scarse possibilità offerte dal mercato torinese della casa, ma anche
per la ridotta conoscenza della città di questa famiglia, per la sua totale dipendenza dall’unica occupazione paterna. Ma, dopo i primi anni di stenti, Enea stesso ricorda come lui e i fratelli avessero raggiunto tutti una buona qualificazione operaia. Nel primo dopoguerra, in particolare, le condizioni economiche della famiglia erano nettamente migliorate. I tre fratelli avevano allora sperato in una casa migliore. Purtroppo le loro richieste di cambiamento si erano scontrate con la volontà dei genitori i quali continuavano a percepire la loro abitazione come l’unica possibile. Sarà quindi solamente nel 1924 che Enea, poco dopo il matrimonio e un primo spostamento, riuscirà a soddisfare le proprie ambizioni: Quando sono venuto qui [nel 1924]... mia madre e mio padre mi hanno detto: «Che te ne fai di tutte queste stanze?» ‘Insomma. E qui e là... Entrai e portai quel poco di roba che avevo nella stanzetta che avevo affittato [immediatamente dopo il matrimonio]. Portai qui, eh... Un pezzo qui e un pezzo là... Comprai il letto per il ragazzo (perché allora dormivamo tutti insieme), un armadio, una sislunga [un divano]... Era tutto vuoto! E poi era grezzo, non c’era mica tappezzerie né piastrelle... Tutto in cemento! Insomma, per quanto fosse brutta e grezza, grezza, - diciamo cosf - economica!... era bella! Perché era altro da quella in cui abitavo da prima. Dove abitavo prima era uno spauracchio! L’acqua fuori... Nella stanzetta c’era la stufa, il letto, il comò, la culla... e tutto questo e quell'altro... Tutto lf ammucchiato insieme! «E tirati in là che mi dài noia!... E tirati in là e fammi un po’ di posto!...»".
La distanza tra Enea e il padre, entrambi operai specializzati, sembra dunque totale se la giudichiamo relativamente a questi aspetti. Certo tra loro esiste anche una distanza generazionale che potrebbe avere influito nel modificarne gli atteggiamenti. In parte ciò è sicuramente presente. Ma i due mostrano soprattutto un diverso grado di integrazione. Enea percepisce la città come un mondo in cui dovrà vivere e giocare la propria esistenza. Sceglie quindi coscientemente di stabilirsi sfruttando al meglio le possibilità che la condizione operaia e l’ambiente urbano gli possono offrire. Il padre vede più probabilmente la città come il luogo in cui è giunto per migliorare la propria posizione economica. E, a distanza di anni dal suo ingresso, il suo atteggiamento rimane quello del primo giorno, basato su un 2 Intervista ad Enea Valenti, nastro RR 8a.
La città, il mondo operaio e l’immigrazione
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uso parsimonioso della città e delle sue risorse. Per lui e per la moglie la casa è infatti un elemento secondario; più importante è la possibilità di risparmiare grazie ad un affitto più basso. Si tratta di valutazioni diverse che differenziano il mondo operaio anche all’interno delle stesse classi d’età. Vi sono infatti molte famiglie per le quali il mutamento di atteggiamenti, maturato dai Valenti nel passaggio dai genitori ai figli, si opera in una sola generazione, grazie ad una integrazione più rapida. Non sono casi rari, questi; essi mostrano spesso una capacità raggiunta dalle famiglie di orientarsi con una certa sicurezza nel nuovo ambiente. Un esempio possibile è quello dei Bioletto, entrati anch'essi in città nei primi anni del secolo e coetanei dei genitori di Enea. Odilla, la loro figlia, ricorda come, dopo pochi anni, il padre aveva fatto domanda per l'assegnazione di una casa popolare comunale nel quartiere operaio di Borgo San Paolo. E una decisione complessa, e non alla portata di tutti, come potrebbe sembrare. Essa implica infatti una percezione attenta di tutte le possibilità offerte dalle strutture pubbliche di assistenza e insieme, spesso, la capacità di attivare un proprio ambito di relazione per favorire l'esito della richiesta. Quando siamo arrivati a Torino stavamo in via San Donato, vicino a piazza Statuto [nel centro storico della città]. Proprio lf eh... Poi ci siamo trasferiti in via Vanchiglia [un vecchio quartiere artigiano]. E poi, trovare un alloggio era difficile, gli affitti erano alti... E con una famiglia cosf grossa! [La testimone aveva tre sorelle e quattro fratelli]. Poi mio papà, sa, era operaio... E allora mio papà, hanno fatto queste società per le abitazioni popolari, hanno fatto quelle case lf in Borgo San Paolo... Sono fatte diverse da tutte le altre... Per potere avere diritto, ha dovuto farsi azionista di questa società, delle case popolari. Ma, naturalmente, a loro operai, bastava il minimo: queste 50 lire... E allora ci siamo traslocati lf. Appena le case sono state finite, ci hanno consegnato l’alloggio e ci hanno assegnato subito le tre camere, sa... La seconda camera un po’ pit piccola per le femmine, una bella cucina grande (infatti i maschi dormivano in cucina), e la camera per papà e mamma...”.
I percorsi geografici di queste famiglie, oltre a costituire una ragnatela di traiettorie all’interno della città, indicano dunque soprattutto un mutamento continuo di obiettivi e di attitudini individuali e familiari. Non esiste un ambito che viene percepito omogeneamente da chi lo popola, come privilegiato, o definitivo. I quartieri operai stessi non sono che uno degli obiettivi momentanei di questo percorso. Le strutture abitative che essi offrono sono anch'esse valutate con un'ottica che le percepisce diversamente con il crescere del tempo dell’integrazione e quindi in rapporto alla storia familiare. È il caso, ad esempio, dell’ultima testimone citata. Le case operaie di Borgo 3 Intervista a Odilla Bioletto, archivio AGAM.
46
Capitolo secondo
San Paolo, viste in un primo tempo come «ideali», perdono via via il loro fascino, mentre si sviluppano modelli di riferimento sempre nuovi: Quando hanno fatto le case «De Coster» [dal nome del costruttore]. Lî, sull’angolo [in Borgo San Paolo, alla fine degli anni ’30]... erano case speciali, quelle! Con dei begli ingressi... Si andava tutti a guardarle. E ricordo che io e una delle mie sorelle, una domenica mattina, siamo andate a vederle. E mia sorella mi fa: «Odilla,
che sogno avere un alloggetto cost! » Sa... E io cisono andata finire, in un alloggetto cosî, coltempo!...". 14 Ibid.
Capitolo terzo Famiglia e integrazione: limiti e risorse del percorso operaio
Nel corso del capitolo precedente ho mostrato come il mondo operaio torinese non sia un ambito chiuso in cui si sedimenti un gruppo professionale stabile. Comparando due campioni raccolti con modalità diverse, si è infatti visto come la massiccia e costante immigrazione induca al suo interno un continuo turnover di soggetti sociali. Analizzando poi il percorso globale che i due gruppi di genealogie tracciano attraverso la città nel corso di tre generazioni, ho evidenziato l’esistenza di un «ciclo di integrazione urbana» delle famiglie. Esse infatti descrivono — nel tempo e nello spazio — una parabola sociale ai cui estremi troviamo, da un lato, un ambiente ancora intriso dalle determinazioni e dalla presenza migratoria e, dall'altro, un mondo urbano, fatto di professioni diverse e qualificate, che esprime comportamenti e attitudini delle quali, se non ne avessimo ricostruito la genesi, potremmo difficilmente scorgere l'origine contadina e operaia. Ma i dati in forma aggregata tendono a mostrarci di tale fenomeno i comportamenti medi, gli andamenti corali. Il percorso di queste famiglie all’interno della città ci può quindi apparire come lineare e caratterizzato da un lento ma costante miglioramento di ogni generazione su quella precedente. Tutto ciò esprime indubbiamente le forme e le tendenze essenziali del ciclo di integrazione. Ma proprio perché implica il progressivo adattamento di famiglie che hanno un passato migratorio e contadino, il processo assume ritmi e forme diverse per ogni famiglia. L'integrazione di ognuno avviene infatti con una velocità che è direttamente proporzionale alla capacità di inserirsi nel nuovo ambiente urbano sfruttando al meglio le scarse risorse disponibili. Una famiglia di immigrati, nel momento in cui, giungendo in città, decide di fermarsi, non possiede dell'identità urbana che l’aspetto anagrafico e professionale. Ma non ha ancora acquisito direttamente nessuna di quelle esperienze, informazioni e attitudini che sono proprie di chi è abituato a misurare all’interno della città le sue possibilità e a costruire sulla base di esse le sue strategie. E anche l’acquisizione di questo bagaglio a favorire l’integrazione e quindi la mobilità delle famiglie attraverso il mondo professionale torinese.
48
Capitolo terzo
C'è, quindi, all’interno del ciclo globale, un tempo di apprendimento della «razionalità» urbana che può risultare più o meno lento. Le risorse che possono incidere significativamente sulle opportunità di una famiglia operaia con un retroterra migratorio, sono, come ho detto, limitate. Esse si
trovano negli interstizi del mondo quotidiano di relazione: all’interno della famiglia innanzitutto, nelle reti di parentela in secondo luogo, ed infine nelle reti di relazione che ciascuno costruisce o può costruire nel nuovo ambiente. Alcune famiglie mostrano di utilizzare queste risorse in maniera immediatamente innovativa e razionale. Altre, invece, ripropongono, nella prima fase del loro ciclo di inurbamento, un uso delle risorse di relazione che, dimostratosi razionale in altri ambienti, è di fatto inadeguato alle esigenze urbane. Il risultato di queste dinamiche, come vedremo, è che mentre per i primi il percorso di integrazione è veloce e fluido, per i secondi esso si presenta pit difficile, e, rallentando, si sposta nelle generazioni successive.
Tutto ciò, evidentemente, ci impone di chiarire quali sono le variabili che differenziano le possibilità delle famiglie. Da un lato quindi si tratta di analizzare la funzione che la famiglia, la parentela e le reti di relazione rivestono e il modo in cui possono essere utilizzate nelle varie fasi del ciclo di inurbamento'; d’altro lato di considerare il peso che le determinazioni familiari dell'emigrazione, cosf come la posizione della famiglia al paese d’origine o nel corso del tragitto migratorio, rivestono nel favorire o nel contrastare il formarsi di una «razionalità» urbana ed operaia. Per cogliere, anche a livello quantitativo, queste dinamiche utilizzerò un parametro non molto raffinato, ma pragmaticamente molto efficace, quale un indice di mobilità intergenerazionale. Per ogni attore sociale ho infatti costruito un indice che esprime la posizione professionale raggiunta in rapporto a quella occupata dalla famiglia d’origine”. ! Il tema della famiglia, la sua funzione, le sue relazioni interne ed esterne, sono da anni al centro di
studi accurati. Una chiara ed esauriente rassegna sull’approccio demografico, storico-sociale ed economico degli studi sulla famiglia è quella di M. Anderson, Approaches to the history of the western family. 1550-1914, London 1980. Per una panoramica aggiornata sugli studi italiani cfr. A. Manoukian (a cura di), I vincoli familiari in Italia, Bologna 1983. Il lavoro più esaustivo sui mutamenti della famiglia italiana centrosettentrionale dal xv al xx secolo è quello di M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia italiana dal xv al xx secolo, Bologna 1984. Infine il tentativo più recente di sintesi — fatto da un antropologo e per questo particolarmente interessante per gli aspetti comparativi — è quello di J. Goody, The development of the family and marriage in Europe, London 1984. 2 Il problema della costruzione di un indice di mobilità è molto spinoso; nel caso italiano che rende particolarmente arduo stimare i redditi (per la mancanza quasi totale di dati statistici utilizzabili per il periodo 1900-50) le difficoltà aumentano sensibilmente. La mia scelta è stata quindi di rispettare soprattutto il tipo di dati raccolti in questi campioni e di considerare quindi la mobilità globale descritta dalle famiglie come il parametro base di riferimento per ogni movimento intergenerazionale. All’interno di questa ottica ho costruito una scala numerica ascendente con valori compresi tra 1 e 7 che esprimono in forma gerarchica le tappe principali toccate mediamente dai percorsi familiari di entrambi i campioni. Per ridurre a questi valori il ventaglio delle professioni e per stimare i casi pit incerti ho spesso utilizzato informazioni secondarie quali la proprietà dell’appartamento occupato, le dimensioni dell’abitazione, la scolarità, ecc. Le professioni sono
Famiglia e integrazione
49
Si tratta quindi di un indice «relativo» che ci permette di definire sulla base dei dati globali cinque diversi atteggiamenti che si presentano con lo stesso peso e per ogni generazione in entrambi icampioni. I dati riportati nella tabella 5 esemplificano quanto ho appena esposto. Nell’orizzonte di queste famiglie e in ogni generazione, il percorso di integrazione può concretizzarsi nella forma di una mobilità professionale discendente (grande o piccola), di una stasi (nel caso di chi occupa la stessa posizione del padre), o infine di mobilità ascendente (anche qui, di minore o maggiore intensità). Mobilità professionale e struttura familiare.
La famiglia operaia — quella di inizio secolo in particolare — è vista dalla storiografia soprattutto come una struttura razionale che massimizza le risorse economiche, di relazione ed affettive dei suoi componenti”. quelle raggiunte alla fine della carriera professionale o, per le ultime classi d’età, quelle raggiunte al 1961. L’indice della mobilità professionale è quindi dato dalla differenza del valore (sulla scala ordinale a 7) attribuito al soggetto con il valore attribuito al suo genitore. Di fatto, quindi, i risultati esprimono una scala di undici valori: da —5 (massima caduta) a +5 (massima ascesa), passando per lo 0 (nessuna mobilità). Per necessità sintetiche i dati riportati nelle tabelle sono stati spesso aggregati in cinque classi: grande e piccola mobilità discendente (rispettivamente i valori compresi tra -5 e -3; tra-2 e 1); nessuna mobilità (valori eguali a 0); piccola e grande mobilità ascendente (valori compresi tra +1 e +2; tra +3 e +5). 3 Si consideri ad esempio il senso di funzionalità armonica della famiglia che emerge dai primi studi in cui si utilizza il concetto di strategia familiare. Cfr. T. Hareven, Tempo familiare e tempo industriale, in M. Barbagli (a cura di), Famziglia e mutamento sociale, Bologna 1977; N. Smelser, Socia/ change and industrial revolution, Chicago 1959.
Tabella 5. Rapporto tra mobilità professionale e generazioni. Mobilità professionale
Madonna di Campagna 1* generazione
discendente grande piccola
nessuna
ascendente grande piccola
5349
frequenza
100 100 100
213 266 165
2° generazione 3? generazione
32000527 IS OMM D 2 1,82 10,30
35,71 Sogn
Totale
Ai
3540030710198
100
644
100 100 100
98 142
100
351
Or
3407400035;2 27,82 OD
%
27,44 o
Valdoria 1* generazione 2* generazione
T:O2MRL5:31 2,82 14,08
26,53 40,14
3? generazione
1,80
2,70
25323000
27,55 29,59 TRO 1MM025:35 45;05002523
Totale
1,99
10,83
31,62
29,08
26,50
TOS
50
Capitolo terzo
Tutto ciò d’altronde è stato spesso confermato - almeno a livello esplicito — dai testimoni più anziani che amano rievocare la loro famiglia di origine come una struttura a ruoli complementari, in cui madri padri e figli uniscono le loro attività in uno sforzo quotidiano e corale. In questo quadro, la famiglia appare come un tutto armonico, integrato al suo interno e in grado di ampliare le proprie risorse attraverso una perfetta gestione delle proprie reti di parentela e di relazione‘. In parte tale immagine trova conferma nei dati da me raccolti: anche qui la presenza di una struttura familiare attiva sembra il primo elemento capace di favorire i percorsi individuali. Ma tali risultati mostrano anche come il suo equilibrio interno - basato sulla distribuzione di obblighi e risorse — sia, nell'ambiente urbano ed operaio, particolarmente delicato. In
primo luogo la dimensione della famiglia sembra costituire un elemento cruciale nel corso della prima fase del ciclo di inurbamento. Una famiglia troppo ampia - in cui vi siano cioè pit di tre figli - tende ad impedire un’armonica distribuzione delle risorse’. Il suo peso grava infatti soprattutto sui figli (più spesso sui primogeniti) nelle fasi più critiche del loro ciclo di vita. Osserviamo ad esempio il percorso della famiglia di Antonio Giacone nella sua prima fase di adattamento urbano. Antonio, nato nel 1875, entra in città nel 1898. Lascia alle spalle un passato di bracciante. Vedovo, ha con sé i due figli: Giovanni (nato nel 1895) e Clara (nata nel 1896). La
professione da lui dichiarata al momento dell’iscrizione all’anagrafe di Torino è quella di «manovale ». La sua è dunque una delle condizioni più disagiate tra quelle registrate nel campione dei valdoriani. Ed è forse questa 4 La funzione della parentela e delle relazioni di vicinato nelle strategie familiari è un tema ormai ampiamente acquisito dalla storia della famiglia. Tra i numerosi lavori, quelli a cui ho fatto riferimento sono: M. Anderson, Sociology of the family, Harmondsworth 1971; B. N. Adams, Kirship în an urban setting, Chicago 1968; G. A. Allan, A sociology of friendship and kinship, London 1979; E. Bott, Farzily and social network, London 1968; R. Firth, Two studies of kinship in London, London 1956; A. Forge, Families and their relatives, London 1970; Young e Willmott, Farzily and kinship in East London cit.; E. R. Wolf, Kinship, friendship and patron-client relations in complex societies, in Banton (a cura di), The social anthropology of the complex societies cit. Un’applicazione di questi studi alla realtà urbana torinese è nei saggi contenuti in aa.vv., Relazioni sociali e strategie individuali in ambiente urbano: Torino nel novecento, Cuneo 1981. ? Senza inserirmi nell’annoso dibattito sul rapporto tra dimensione familiare e industrializzazione, voglio sottolineare come la dimensione familiare vada letta anche in rapporto alle risorse utilizzabili nell’ambiente. Nella situazione urbana ed industriale, strategie demografiche e strategie professionali sono strettamente correlate. E questa un'ipotesi già avanzata con chiarezza da E. Pleck, Two worlds in one: work and family, in «Journal of Social History», n. 10, 1976. N $ Questa ricostruzione dei percorsi familiari — come quelle che verranno presentate in seguito — si basa
sui dati raccolti presso l'Archivio Storico dell’ Anagrafe di Torino. Data la particolarità delle mie fonti e l’interesse per i percorsi individuali e familiari, in ambiente urbano, la metodologia di ricostruzione da me utilizzata si distanzia di fatto da quelle proposte da altri studiosi. In generale, sui problemi che sorgono nello studic demografico delle città, si veda comunque l’accurata rassegna di M. Garden, La démographie des villes frangaises du xvme siècle: quelgues approches, in Centre d’histoire économique et sociale de la région lyonnaise, Dérzographie urbaine, xv:-xxe siècle, Lyon 1977. Per una ricostruzione delle famiglie attraverso i dati italiani cfr. A. Schiaffino, Peruna ricostruzione nominativa dei ménages, in aa.vv., La famiglia nell'approccio storico, Roma 1982.
Famiglia e integrazione
SI
precarietà — unita alla presenza dei due giovani figli — che lo spinge a sposare, nel 1900, Caterina, una diciottenne terzogenita di una famiglia di braccianti, anch’essi appena immigrati. Da Caterina, Antonio avrà ancora sei figli dei quali solamente Rosa (1901), Celestina (1903), Mariuccia (1905) e Chiarina (1910) resteranno in vita. Dopo il secondo matrimonio Antonio riesce a migliorare, sia pur leggermente, la sua posizione professionale: è infatti registrato come «operaio fuochista», poi come «operaio addetto a macchine», e infine come «macchinista patentato ». Ma la famiglia sempre più ampia impone comunque uno sforzo notevole. Vivono tutti in un alloggio di una stanza e cucina, in un vecchio caseggiato del centro storico con i servizi esterni. Nessuno dei figli frequenterà le scuole secondarie (neppure quelle serali). Nessuno di loro inoltre seguirà un apprendistato professionale. Tutti vengono occupati giovanissimi come operai di fabbrica. Cinque delle ragazze sposeranno degli operai semplici e due di esse — proprio per la scarsa qualificazione dei mariti — continueranno il loro lavoro di fabbrica anche dopo il matrimonio. Gli unici a sperimentare una qualche mobilità professionale saranno Giovanni e Mariuccia. Il primo infatti diventerà operaio qualificato e poi collaudatore, la seconda andrà in pensione con la qualifica di dattilografa. Ma non a caso Giovanni e Mariuccia non si sposano e la loro carriera inizia a definirsi proprio quando il
matrimonio delle sorelle diminuisce il peso che grava sulla famiglia e in particolare sui loro percorsi. Forse la storia di Antonio e della sua famiglia può sembrare troppo marcata da una morte, quella della prima moglie, che avviene pochissimo tempo dopo la nascita del secondo figlio. La scelta di risposarsi, per un giovane manovale con due figli a carico, è stata obbligata. Pure, al di là dell’intenzionalità di queste prime mosse, rimane il fatto che, negli anni successivi all’inurbamento, Antonio continua a procreare dei figli allargando cosî notevolmente le dimensioni della sua famiglia. Ciò che interessa ora sottolineare è che sono proprio le determinazioni che gravano all’interno di una famiglia di queste dimensioni a rallentare i percorsi professionali dei figli. Come si è visto, infatti, nessuno dei figli di Antonio riceve una qualificazione professionale durante la sua gioventù. Certo, le condizioni della famiglia sono povere. Pure, quando Giovanni, il primogenito, finita la scuola dell’obbligo, si impiega in fabbrica, Antonio è registrato come « fuochista» in una grande fabbrica metalmeccanica. Non è un operaio qualificato, tuttavia molti capifamiglia che occupano la sua stessa posizione professionale e che hanno come lui un recente passato di immigrazione sono in grado di impostare per i figli strategie più complesse di mobilità professionale. Tra queste, la meno rischiosa e la più praticata è ad esempio quella 6
52
Capitolo terzo
che — prospettando una carriera di fabbrica — cerca di fornire ai maschi una qualificazione operaia attraverso l’apprendistato in una piccola officina, spesso affiancato dalla frequenza delle scuole professionali serali’. Nel caso delle femmine, un analogo orientamento familiare prevede l’apprendistato come sarta presso uno degli ateliers della città: in questo modo si fornisce alla donna una qualifica che, oltre ad allargare le sue possibilità di un futuro lavoro autonomo, aumenta il suo valore sul mercato matrimoniale'. Ma, come si è visto, nessun investimento di questo genere è presente nelle scelte della famiglia di Antonio. E questo non perché in essa siano assenti aspirazioni di mobilità. La rinuncia al matrimonio, per Giovanni come per Mariuccia prezzo dell'ascesa professionale e, in parte, la
stessa limitata carriera del padre testimoniano le tensioni di avanzamento che permeano lo spazio familiare. Il restringersi delle strategie professionali al solo impiego operaio è dunque legato alle dinamiche che si sviluppano all’interno della famiglia. Infatti in una famiglia cosî ampia non esiste mai un momento del ciclo in cui le richieste complessive dei componenti si allentino, permettendo ad uno di essi di intraprendere un qualsiasi percorso di qualificazione professionale. Quando ad esempio Giovanni, a 11 anni, potrebbe essere avviato all’apprendistato, in famiglia ci sono quattro sorelle ancora piccole che, da un lato distolgono la madre da ogni possibile attività di sostegno economico diretto e, dall’altro, aumentano l’esigenza globale di denaro della famiglia. Come apprendista Giovanni percepirebbe per un periodo di quattro, cinque anni, una paga puramente simbolica”. Il peso complessivo della famiglia lo obbliga quindi ad impiegarsi come operaio semplice per ottenere un salario più consistente. Analogamente, negli anni successivi, quando una delle sorelle raggiunge l’età lavorativa, vi sono altre figlie in una posizione di completa dipendenza. E il peso della famiglia continua a gravare — pur se in altre forme — anche sulle ultimogenite. Per esse infatti l’età lavorativa sopraggiunge nel momento del ciclo familiare in cui le primogenite, in età matrimoniale, sottraggono risorse alla famiglia (in termini di salari distolti, ma anche di doti). La dinamica di ? Le scuole professionali operaie, presenti in città fin dalla seconda metà dell'Ottocento, diventano un fenomeno di massa a partire dagli anni ’10 e ’20 di questo secolo. Vengono istituite nuove scuole, molte di esse gestite direttamente dall’industria privata. Nel primo dopoguerra la riforma scolastica (riforma «Gentile», maggio 1923) rivoluziona questo sistema aumentando le scuole e il numero di indirizzi. Cfr. D. BertoniJovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino 1954. Per una rassegna specifica sulla situazione torinese cfr. F. Cereja, L'istruzione professionale e industriale nel periodo fascista. Il caso torinese, in aa.vv., Movimento operaio e sviluppo economico in Piemonte negli ultimi cinquant'anni, Torino 1978.
8 Sulla carriera e sulle strategie femminili legate alla professione di sarta cfr. V. Maher, Sarte e sartine a Torino fra le due guerre, in «Mezzosecolo», n. 5, 1985. ? Su questo punto esistono anche moltissime testimonianze dirette. Un paragone che molti testimoni
utilizzano spesso è quello fatto tra la loro paga di apprendisti e la somma spesa per l'abbonamento tramviario necessario a chi frequentava le scuole serali del centro. Secondo queste testimonianze, dalla paga settimanale di un apprendista, detratti i soldi dell’abbonamento, spesso non restavano neppure i soldi per le sigarette.
Famiglia e integrazione
53
tali meccanismi risulta evidente nella tabella 6, in cui ho riportato - per ogni anno in cui i figli di Antonio entrano in età lavorativa — la composizione della famiglia e l’età di ognuno dei suoi membri. Più in generale, quanto si osserva nei percorsi urbani delle famiglie con dimensioni analoghe, è la sostanziale disarmonia dei cicli di vita individuali nelle loro relazioni reciproche. Disarmonia che vanifica spesso gli sforzi dei singoli, costringendo le famiglie ad operare strategie globali di breve respiro, capaci di rispondere unicamente alle esigenze più immediate". L’effetto è, per quasi tutti, quello del rallentamento del ciclo di integrazione urbano. Nel caso di Antonio questo si legge soprattutto nelle traiettorie delle figlie sposate. Saranno i nipoti a riprendere il percorso interrotto. La terza generazione «cittadina» di questa famiglia raggiungerà infatti una mobilità ed una diversificazione professionale riscontrabile spesso nei percorsi della seconda generazione di immigrati di altre famiglie. Dei sette nipoti di Antonio, due diventeranno operai specializzati, uno, dopo aver ottenuto il diploma di geometra, lavorerà come tecnico in una grande impresa edile; due femmine, infine, diventeranno impiegate comunali.
L’incidenza negativa che hanno le dinamiche interne alle famiglie di ampie dimensioni sulla mobilità professionale dei figli si può d’altronde fa!0 Il peso che le strategie globali della famiglia possono assumere su quelle dei singoli, limitandone le possibilità e le scelte, è analizzato in particolare in Bodnar, Immigration, kinship and the rise of the workingclass realism cit.
Tabella 6. Famiglia di Antonio Giacone. Rapporto tra l’età media di ingresso nella vita attiva di ogni figlio e l’età degli altri familiari.
Antonio Caterina Giovanni Clara Rosa Celestina Mariuccia Maria Chiarina Lucia
Nascita
1906
1907
1875 1882 1895 1896 190I 1903 1905 1907 1910 1914
gu DARI () 10 5 3 I i -
se Gai 3 5 i O 32 ez TN TO @ TOM IRRO 6 (0) 5 4 9 @ 2 7 9 o (+1909) 2 4 O
+
età media di ingresso nella vita attiva. morte.
=
matrimonio.
1912
1914
I9I6
I92I
de 20 3430 ZI 20) OTO) ZO) TO MILO @ 16
6 @ 2 (+1917)
54
Capitolo terzo
cilmente misurare. Nella tabella 7 ho ad esempio riportato le frequenze e le percentuali della mobilità professionale intergenerazionale degli individui nati e socializzati in una famiglia con uno o due figli, con tre figli, con quattro o pit figli (otto è il numero massimo per entrambi i campioni). Come si vede, la relazione è chiara e particolarmente significativa. Per entrambi i campioni i casi più frequenti di grande mobilità si registrano all’interno di una famiglia con uno o due figli. Infatti mentre, nel caso di Madonna di Campagna, il 25,49 per cento dei nati in una famiglia piccola ha una grande mobilità professionale, solo il 13,52 per cento degli appartenenti ad una famiglia ampia mostra una mobilità analoga. Per Valdoria — come si può vedere — la tendenza è leggermente smussata (il 29,75 per cento contro il 25,77) ma è controbilanciata da una mobilità negativa molto bassa (7,44 per cento) e da una mobilità positiva globalmente molto forte (61,15 per cento) nel caso di chi era solo o aveva al massimo un fratello.
Questi dati sono aggregati e quindi si riferiscono a tutti gli individui dei campioni per i quali è stato possibile misurare sia la mobilità professionale sia l'ampiezza della famiglia d’origine. La relazione diviene molto più significativa se si considerano unicamente le classi d’età più anziane che — essendo composte in prevalenza da immigrati recenti — appartengono in misura rilevante a famiglie di ampie dimensioni. Inoltre, proprio per il legame di questi comportamenti demografici con il fenomeno migratorio,
Tabella 7.
Rapporto tra mobilità professionale e dimensione della famiglia d’origine. Numero di fratelli e sorelle
Mobilità professionale discendente grande piccola
nessuna
ascendente piccola grande
%
frequenza
O-I 2
3 8,22
7,44 20,55
31,40 DOT9]
31,40 26,03
29,75 16,44
100 100
121 73
3
1,84
9,20
38,04
25,15
25,77
100
163
Valdoria
CR
357
probabilità di y? = 0,0008.
Madonna di Campagna
O-I 2
357
10,59
32,16
28,63
25,49
100
255
6,I9-—5;31
3:14
38,05
25,66:
24,78
100
113
3,56
35,94
37:37
13,52
100 © 281
probabilità di y? = 0,0067.
9,61
649
Famiglia e integrazione
55
ancora una volta, le dinamiche ad essi correlate si riflettono in forma cro-
nologicamente sfasata nei due campioni. Mentre per i valdoriani appartenenti alla prima ondata migratoria la presenza della famiglia ampia e il suo peso negativo cessano di essere statisticamente rilevanti già per le classi dei nati dopo il 1912, per il campione di Madonna di Campagna incontriamo tali dinamiche ancora per le classi dei nati tra il 1912 e il 1925. Tutti i dati confermano come la dimensione familiare sia un elemento che diversifica i percorsi delle famiglie nella loro prima fase di integrazione urbana. Una famiglia troppo ampia non si dimostra infatti in grado di utilizzare razionalmente le proprie risorse pesando cosî sulle possibilità di mobilità dei figli. Si deve inoltre considerare che la legislazione sul lavoro minorile e la legge sull’istruzione obbligatoria hanno progressivamente sottratto alla famiglia operaia la disponibilità totale dei figli e della loro forza lavoro nei primi anni di vita. I guadagni maggiori che numerosi figli potevano portare nel passato all'economia domestica erano dunque ormai irrilevanti rispetto al loro peso sul lungo periodo. E difficile dire in che misura questi meccanismi fossero chiari alla coscienza dei primi immigrati. Certo è che le scelte demografiche dei genitori sembrano non tanto legate a propensioni emotive quanto a strategie e a modelli di comportamento dettati da una razionalità che ha le sue origini in un contesto extraurbano. Sia chi decide di contenere le nascite sia chi decide di avere molti figli si muove infatti proiettando sulla situazione torinese un'ottica formatasi attraverso le esperienze che hanno preceduto e accompagnato l’emigrazione. Non mi è stato possibile ricostruire, se non parzialmente, il retroterra di coloro che fanno parte del campione di Madonna di Campagna. Ma il caso di Valdoria — per cui si hanno i percorsi familiari precedenti all’inurbamento - è sufficientemente chiaro a questo proposito. Il controllo delle nascite o comunque una fecondità limitata è praticata — nella prima generazione di valdoriani inurbati - da quelle coppie che provengono da famiglie per cui la crisi che precede l’emigrazione ha assuntole forme di un sovraccarico familiare inadeguato alle risorse disponibili. E quindi molto spesso il caso di piccoli proprietari che, senza preoccuparsi di diversificare le proprie risorse, si sono intestarditi nel gestire, con tutta la famiglia, porzioni di terra a rendimento decrescente. Inversamente, chi ha molti figli proviene spesso da famiglie meno direttamente legate ad una porzione di terra (spesso è il caso di braccianti o tr4nsients), o comunque da famiglie per le quali la crisi agricola ha significato il nascere e l’intensificarsi di strategie globali di riconversione basate essenzialmente sulla diversificazione delle attività dei figli. In queste famiglie, figli che emigrano temporaneamente all’estero, figli che si impiegano come manovali nelle opere pubbliche intraprese nelle campagne in quegli
56
Capitolo terzo
anni (costruzione delle reti idriche e ferroviarie), altri che vendono la propria forza lavoro agricola, ecc., hanno indubbiamente costituito una risor-
sa immediata tanto pi efficace quanto pit alto è stato il numero dei componenti familiari su cui era possibile contare. Questo quadro — a cui si adattano anche i dati pit parziali di Madonna di Campagna" - conferma come la dimensione della famiglia operaia, all’interno della situazione da me analizzata, non corrisponda ad una strategia o ad una scelta di valori maturata all’interno del contesto urbano. Nelle scelte demografiche si riflettono — come si è visto — le strategie e le attitudini maturate nel contesto della campagna e, paradossalmente, possiamo notare come - nei casi di individui che provengono da famiglie economicamente e socialmente equiparabili (entrambe di braccianti, o di mezzadri, ecc.) — la scelta che si orienta verso un gran numero di figli è
operata da chi ha lasciato famiglie che hanno avuto un atteggiamento «imprenditoriale » nel corso della crisi agricola; la scelta opposta è invece spesso operata da chi rifiuta precedenti strategie conservatrici, ancorate fino all'ultimo alla terra e alla famiglia. Pi in generale, possiamo notare come le scelte demografiche delle prime generazioni inurbate siano motivate da un quadro di valutazioni formatosi nel corso delle esperienze passate che, proiettato sul presente, impedisce di coglierne la particolarità e la novità. In alcuni casi, la razionalità che sottintende questo quadro si dimostra - malgrado se stessa — funzionale alla nuova situazione; in altri casi, essa è particolarmente inadeguata
e si riflette negativamente sui percorsi delle famiglie, differenziando le loro possibilità. L’incidenza delle scelte demografiche sulle strategie di integrazione in città è invece ben presente ai figli degli immigrati, e in generale alle generazioni che hanno vissuto gran parte della propria giovinezza a Torino. Nel corso di un incontro con più testimoni, ad esempio, Luigi Berra, parago-
nando le possibilità economiche della sua famiglia d’origine con quella di Giuseppe Odasso, suo amico di gioventii, giunge a concludere come il proprio padre avesse uno stipendio superiore. Ma è egli stesso a sottolineare come questo fatto non significasse una maggiore ricchezza, «perché di fatto, noi eravamo molto più poveri degli Odasso, eh... Perché eravamo in quattro fratelli! E loro erano soltanto due, da mantenere! »; valutazione
non molto distante da quella che, in un’altra occasione, Mario Ferrero, un !! Ad esempio per il campione di Madonna di Campagna è possibile notare come molte delle famiglie di ampie dimensioni siano famiglie con un percorso di immigrazione tipico dei transierts. Naturalmente per questo campione non abbiamo un'analisi cosi ampia del retroterra migratorio come nel caso di Valdoria. Ma il fatto che i figli mostrino di essere nati in diverse località della campagna e alcuni appunti sulle schede individuali di immigrazione fanno emergere, per questo tipo di famiglie, i tratti di un percorso familiare molto sofferto che passa spesso attraverso l’emigrazione estera.
Famiglia e integrazione
57
altro testimone che proviene da una famiglia numerosa, e lo stesso Luigi Berra, fanno delle possibilità ecénomiche di un loro vecchio conoscente: Silvio Perlino, per esempio: Era della nostra «categoria » - dice Mario - ma, di famiglia stavano un po’ meglio. Silvio studiava... Era lui che faceva lo studente, no?
Sf, - risponde Luigi, — /a famiglia non era numerosa! Mi ricordo che quando venivano di moda i risvolti alti, lui... con i risvolti cosî!... Venivano di moda le scarpe a punta... Aveva le punte che erano lunghe cosf!...!.
Dunque non solo è chiaro, a questi figli di immigrati, come la famiglia ristretta fosse più flessibile nei confronti del mercato del lavoro e delle crisi domestiche; ma la dimensione della famiglia è addirittura assunta come variabile di stratificazione e di differenziazione sociale. La presa di coscienza di questi meccanismi è senz’altro uno degli elementi che caratterizzano i tempi dei percorsi urbani delle famiglie. Non solo dalle scelte dei testimoni ma anche da quelle delle figure comprese in entrambi i campioni è infatti possibile notare come esista un orientamento che diventa massiccio e generale col crescere dell’anzianità di integrazione verso un maggior controllo delle nascite, verso una famiglia ideale di due figli soltanto; e tutto ciò anche nel pieno della propaganda demografica fascista”. Nella tabella 8 ho ad esempio misurato il rapporto tra dimensione della famiglia e classi d’età. Come si può vedere, le famiglie ampie tendono a ridursi considerevolmente man mano che ci si allontana dall’anno medio di ingresso degli immigrati di ciascun campione: prima nel caso di Valdoria, leggermente più tardi per Madonna di Campagna". Un segno ulteriore, questo, dell’integrazione in corso, di un’attenzione via via più consapevole nei confronti di questi meccanismi e delle possibilità di miglioramento che la città può offrire. I? Intervista a Luigi Berra e Mario Ferrero, nastro RR 3b. 13 La politica demografica del regime fascista è caratterizzata fin dai primi anni da un’intensa propaganda ideologica destinata a promuovere l'incremento demografico. Ad essa si affianca, a partire dagli anni ’30, una precisa attività legislativa. Diverse leggi, continuamente aggiornate propongono un intervento so-
stanzialmente volto alla tutela delle madri di famiglia, all'ampliamento dei servizi (assistenza mutualistica, asili nido, ecc.), a garantire prestiti ed assegni familiari, a fornire alle famiglie numerose agevolazioni tributarie. Cfr. Istat, L'azione promossa dal governo nazionale a favore dell'incremento demografico, in «Annali di Statistica», vi, 1943; M. Livi-Bacci, La trasformazione demografica delle società europee, Torino 1977, pp.
299-313.
14 La stretta correlazione esistente tra dimensione familiare e ciclo di integrazione urbana sembra sconfessare definitivamente l’ipotesi dello «sciopero demografico». Alcuni sostengono che il calo della fertilità osservato nelle città industriali del Nord Italia negli anni tra le due guerre sia dovuto in parte anche ad una forma popolare di astensione politica dalla fertilità. I gruppi più coscienti del proletariato urbano avrebbero cioè manifestato la propria opposizione al regime opponendosi in questa forma alla sua propaganda demografica. È un’ipotesi mai seriamente dimostrata ma che compare anche, più o meno implicitamente, in studi pur documentati come quelli di Chiara Saraceno o di Luisa Passerini (C. Saraceno, La farziglia operaia sotto il fascismo, in «Annali della Fondazione Feltrinelli», Milano 1980-81; Passerini, Torio operaia cit.).
In generale, sul caso italiano del declino della fecondità cfr. M. Livi-Bacci, A history of Italian fertility during the last two centuries, Princeton 1977.
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Capitolo terzo
2. Mobilità professionale ed età al matrimonio.
In una situazione sociale in cui le risorse e le possibilità individuali mutano con il variare del peso familiare, è chiaro che anche la scelta matrimoniale diventa un elemento attivo di diversificazione dei percorsi di integrazione. Anticipare o ritardare il matrimonio, e quindi anticipare o ritardare la formazione di un nuovo nucleo familiare, può favorire od ostacolare la mobilità individuale, aprendo o chiudendo le possibilità di accesso a strategie più complesse di qualificazione o di riconversione professionale”. Dai miei dati appare chiaro come sia soprattutto il ritardo matrimoniale a favorire il maggior numero di strategie professionali e ad essere quindi correlato ad una più sensibile mobilità ascendente. Chi ritarda il matrimonio mostra infatti di considerare un più ampio ventaglio di risorse disponibili: la scolarità superiore in funzione di una più fluida carriera operaia innanzitutto, ma anche, in molti casi, lo sviluppo, favorito dall’assenza del !5 Uno studio esemplificativo su età matrimoniale, scelte familiari e scelte professionali è quello di A. Schiaffino, I/ declino della fecondità in ambiente urbano: Reggio Emilia fra otto e novecento, Bologna 1979. n
Tabella 8. Dimensione della famiglia, in percentuale, per ogni classe d’età. Numero figli % I-2
Valdoria 1873 1873-1891
1892-1901 I902-I9II 1912-1925 1926-1937
3
15,38 23,08 (CHO e 7 O
69,23 84,00 85,71 100,00
30,70 12,00 7,14 -
Frequenza
4-8
61,54 (CE)
100 100
39 78
4,00 7,14 -
100 100 100 100
39 75 42 25
Totale
298
Madonna di Campagna
103353
100
30
1873-1891 1892-1901 1902-I9II 1912-1925
1873
TOSL5 MI OTT 0A 82,46 10,53 7,02 78,79 O:OOMMANLZA12) 93,76 6,25 -
100 100 100 100
134 II4 132 128
1926-1937
95,45
100
Totale
53:33
113,33
4500
88 (ATA
Famiglia e integrazione
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carico familiare, di relazioni con ambiti professionali diversi. Inoltre, tra chi ritarda il matrimonio, troviamo la quasi totalità delle strategie che comportano il massimo dei rischi, quelle di imprenditorialità. Gli esempi sono numerosi e ci mostrano come questi meccanismi siano presenti già nei
percorsi delle prime generazioni di inurbati. Un caso molto chiaro di una carriera professionale ritagliata nell’orizzonte della fabbrica è, ad esempio, quello di Ernesto Granero. Nato nel 1891, ultimogenito di una famiglia di mezzadri, Ernesto si stabilisce a Torino raggiungendo i fratelli Giovanni e Francesco. Sono i fratelli — già sposati ed entrambi impiegati come operai semplici alla Michelin — a favorire i suoi primi passi di integrazione. Attraverso la loro mediazione Ernesto viene infatti assunto come operaio nella stessa ditta. Egli non ha, a quell’epoca, quasi nessuna formazione professionale. Il suo retroterra è legato alle esperienze della campagna e a quelle della guerra in cui si è trovato coinvolto. La sua istruzione è quella dell’obbligo. Ma, dal momento del suo ingresso in città, è in grado di impostare una strategia professionale che gli permette, in pochi anni, di allontanarsi dal mondo operaio in cui è inizialmente confluito. Da un lato, come reduce, riesce a farsi nominare «custode » negli stabilimenti in cui lavora, dall’altro, inizia a frequentare
le scuole commerciali serali. La scelta di un diploma commerciale e non professionale (come nel caso della maggioranza dei maschi di famiglia operaia) indica il già avvenuto distacco dal modello operaio. Probabile obiettivo della sua strategia era raggiungere la posizione di impiegato; ma Ernesto non diventerà impiegato. Nel 1928, a 31 anni, è nominato rappre-
sentante di commercio della Michelin. Un impiego questo che non richiede una professionalità specifica ma che si è concretizzato senza dubbio con relativa facilità anche grazie alle scuole frequentate. Da quel momento la sua carriera è comunque avviata. In pochi anni diventa rappresentante per
il Piemonte e nel 1924 è nominato rappresentante generale per il Centro e il Sud Italia. È solo dopo aver raggiunto l’apice della sua catriera che, a 39 anni, Ernesto sposerà Adelina Girotti, secondogenita di uno dei dirigenti della Michelin. La sua integrazione è dunque completa ed è efficacemente simboleggiata nelle fotografie del matrimonio che due nipoti, da me intervistate, mi mostrano. Lo
«zio Ernesto» con la moglie, al centro di
ogni immagine, salda non solo i due gruppi di parentela ma anche i due ambienti che stanno agli estremi del suo percorso professionale: da un lato i suoi fratelli operai con la vecchia madre contadina, e dall’altro i parenti della moglie, impiegati e professionisti torinesi. È difficile ponderare il peso di variabili di «carattere » come ad esempio quella della vivacità personale su cui amano insistere le due nipoti da me intervistate: «Lo zio — dice Teresa Sergi — era uno che sapeva parlare
60
Capitolo terzo
con tutti!... Per questo è diventato quello cheè diventato... Papà. invece stava sulle sue. Non avrebbe mai potuto fare il rappresentante!»”. Certoè che la mobilità di Ernestoè stata facilitata anche dalla scelta di ritardo matrimoniale. Mentre i suoi fratelli hanno tutti una famiglia da mantenere fin dal momento dell'ingresso in città, Ernesto è solo, ed è in grado quindi di concentrare le sue energie nello sforzo di qualificarsi. Strategie analoghe d’altronde si trovano in molti altri percorsi spesso meno clamorosi, ma di segno analogo. Sono molti coloro che, ritardando anche solo di pochi anni il matrimonio, cercano di garantirsi quella qualificazione professionale indispensabile per progredire nella carriera intrapresa. Ma, come ho detto, l’aspirazione a una carriera interna alla fabbrica
non è l’unica motivazione rintracciabile nella scelta di ritardare il matrimonio. In molti casi, il ritardo permette tentativi di imprenditorialità, o consente di aprire o approfondire con maggiore libertà contatti e relazioni sociali con ambienti diversi, che si possono tramutare in nuove ed importanti risorse: si tratta di due orientamenti spesso distinti, ma che in alcuni casi possiamo trovare uniti come, ad esempio, nel percorso di Antonio Roggero. Antonio è il terzo e ultimo figlio di un manovale arrivato a Torino nel 1898. Nato nel 1899, Antonio seguirà inizialmente la carriera di moltî giovani figli di operai. Come Luigi, il fratello primogenito, è apprendista e successivamente operaio qualificato in una grande industria automobilistica. La sua posizione professionale è quindi notevolmente migliorata rispetto a quella paterna. Ma, a differenza del fratello — che si sposa non appena ha raggiunto, attraverso la qualificazione operaia, un impiego relativamente ben pagato - rimanda il matrimonio. Continua quindi a lavorare in fabbrica ma allarga ed approfondisce anche altri interessi. A 25 anni si iscrive all’Accademia popolare di canto «Stefano Tempia»"”. Questa attività, inizialmente «hobbistica», si trasforma in pochi anni dandogli la possibilità di operare la prima grande svolta professionale della sua carriera. All’inizio degli anni ’30, infatti, viene chiamato a far parte del coro dell’orchestra sinfonica torinese, diventando un cantante professionista. Ma il suo percorso non è terminato: nell’immediato dopoguerra Antonio opera una seconda, drastica svolta professionale trasformandosi in imprenditore. Ha infattiiimpiantato una piccola segheria che in pochi anni si ingrandisce e che sarà in grado di dare lavoro anche a due dei suoi nipoti. È quindi solo nel 1948 che, giunto anche lui all’apice della carriera, sposerà Luigia Righini, una vedova d’origine milanese a lui coetanea. Naturalmente anche in questo caso molti elementi contribuiscono a favorire il percorso ? Intervista ai fratelli Granero, nastro RS 8a. ? L'accademia di canto «Stefano Tempia» èuna delle più antiche società filarmoniche torinesi. Fondata 6 1876, ha avuto il momento di massima crescita proprio negli anni ’20 e ’30.
Famiglia e integrazione
61
di mobilità professionale di Antonio. Il ritardo matrimoniale si accosta a capacità e propensioni personali: la sensibilità musicale di Antonio, come già l’intraprendenza e la simpatia di Ernesto. Ma è evidente come sia proprio il ritardo a favorire scelte e comportamenti di diversificazione professionale. Gli esempi d’altronde potrebbero continuare; il ritardo matrimoniale caratterizza la quasi totalità delle carriere segnate da grandi svolte professionali e da scelte di imprenditorialità. D'altronde, anche in questo caso, la coscienza dell’opportunità del ritardo matrimoniale si è sicuramente sviluppata nel corso del processo dell'integrazione urbana delle famiglie: tale scelta assume infatti un peso crescente nei comportamenti degli individui di entrambi i campioni. Per Valdoria come per Madonna di Campagna, pi del 35 per cento dei maschi e quasi il 20 per cento delle femmine contrae il matrimonio ad un’età che si può sicuramente definire di ritardo. Questo è già di per sé un dato rilevante, in contrasto con il giudizio comune (spesso puntualmente riportato dai testimoni) che considera il ritardo un fenomeno minoritario e deviante rispetto ad un'ipotetica età media verso cui si orienterebbe la maggioranza dei casi”. Ora, se noi osserviamo — per ogni classe d’età - la forma assunta dalle distribuzioni delle età matrimoniali, possiamo vedere come esse siano ben lontane da un andamento «normale» (cfr. la figura 5 in cui ho riportato alcuni esempi di distribuzioni). Accanto ad una minima percentuale di individui che si sposano molto giovani (il 15-17 per cento), in ogni classe registriamo circa il 45-50 per cento dei matrimoni che si contraggono in un periodo ristretto del ciclo di vita (cinque, sei anni al massimo)
dando origine ad un forte picco modale (spesso bimodale per le donne) a cui fa seguito una lunghissima coda di ritardi (la quale copre, come ho anticipato, il restante 35-40 per cento dei casi) che restano la caratteristica più marcante del fenomeno. In questo senso il concetto di età media è non solo fuorviante ma sbagliato, mentre appare più utile — analizzando le scelte matrimoniali e le loro implicazioni — parlare di età modale, di area di anticipo e area di ritardo nei confronti dell’età modale” 18 L’alto tasso di ritardo al matrimonio in Torino nella prima metà del secolo è confermato anche da Barbagli, Sotto lo stesso tetto cit. e da G. Mortara, La popolazione delle grandi città italiane al principio del secolo ventesimo: Torino, in «Biblioteca dell’Economista», n. 19, 1908. Una misura di questa tendenza all’interno
dei quartieri operai torinesi è in Baptiste, Borgo San Paolo d'une guerre à l’autre cit.
19 La mancanza d’utilità descrittiva e analitica del concetto d’età media matrimoniale nasce dalla particolarità di queste distribuzioni. Poiché queste si presentano in forma dispersa e spesso irregolare, la media non ci può aiutare nel definire delle categorie di comportamenti quali i ritardi o gli anticipi al matrimonio. Ciò è evidente nel caso di distribuzioni unimodali. Viste le lunghe code di ritardi, l’età media non rappresenta un anno verso cui le scelte matrimoniali si orientano di preferenza; ma, al contrario, questa media cade spesso proprio nel punto in cui il fenomeno modale si esaurisce e inizia la coda dei ritardi. Quindi, se noi prendiamo la media come indice per distinguere chi anticipa o ritarda da chi ha un’attitudine matrimoniale «normale», non cogliamo la particolarità del fenomeno e induciamo un giudizio di normalità su comportamenti che esprimono un’attitudine extramodale e viceversa. Una distorsione eguale e forse pit importante può prodursi nel
Capitolo terzo
62 Figura s.
Movimento delle distribuzioni dell’età al matrimonio dei maschi e delle femmine appartenenti alle classi d’età 1892-1901 e 1902-11 (campione di Madonna di Campagna).
20
MASCHI
1892-1901
MASCHI
1902-19II
H SLI
[n] (e)
Frequenza
Frequenza
%
27,40
20
|
FEMMINE
1892-1901
M
I5
=
Moda = Casit=
2461
20,55
23e25 73
13,70
Frequenza 6,85
a
20
25
30
Tio
35
rare
40
45
T
50
55
60
Ù
% 26,32
20
Li) IO
FEMMINE 1902-I9II
M
=
23,08
=
21,00
=
76
19,74
13,16
Frequenza
6,58
(97
55
60
Famiglia e integrazione
63
Fatte queste premesse, osserviamo la mobilità professionale raggiunta dagli individui che rientrano secondo il loro comportamento matrimoniale in gruppi diversi (anticipo, età modale — A e B per le donne - ritardo). È chiaro dai dati riportati nella tabella 9 come effettivamente le più alte percentuali di mobilità ascendente si registrino nei casi di ritardo. La tendenza è nettissima soprattutto per le carriere maschili. Mentre il 26,44 per cento di chi ritarda il matrimonio ha una forte mobilità ascendente, solo
il 15,52 per cento di chi si sposa in età modale e il 5,56 di chi anticipa quecaso di distribuzioni bimodali. Infatti la media non è soltanto, anche in questo caso, un indice inadeguato ma ci spinge a praticare (dividendola ad esempio secondo le modalità: anticipo, media, ritardo) la tricotomia di un fenomeno che è caratterizzato almeno da quattro categorie di comportamenti: anticipo, primo gruppo modale, secondo gruppo modale, ritardo. Per queste ragioni nella tabella 9 ho misurato il rapporto tra età matrimoniale e mobilità professionale cercando di rispettare imovimenti interni di ogni distribuzione e per ogni classe d’età. In questo modo, gli anticipi e i ritardi comprendono unicamente le code mentre le categorie centrali si riferiscono ai gruppi che costituiscono i picchi modali di ogni distribuzione: un solo gruppo per gli uomini, due gruppi modali per le donne (A, generalmente anteriore alla media, B posteriore). Ho infatti diviso le classi
di ogni distribuzione
rispettando i picchi modali e le code cosî come esse emergono dagli stessi movimenti registrati. Per avere un criterio unificante, ho avuto cura che gli anni raggruppati intorno alle classi modali abbiano tutti una percentuale superiore al 6,80 per cento dei casi di ogni universo considerato. Questo criterio implica dunque che ci siano due gruppi (anticipo e ritardo) dispersi in uno spazio temporale più o meno ampio, all’interno del quale il peso di ogni anno non superi il 6,80 per cento dei matrimoni di ogni classe d’età; uno o due gruppi (le classi modali) dispersi in un arco temporale ristretto al cui interno le
percentuali dei casi sono sempre su-
periori al 6,80 per cento del totale. Naturalmente questa soglia ha un ie puramente limitato a queste distribuzioni particolari e non intende avere — salvo dimostrazione = un valore generale che ci permetta di affermare che tutti i ritardi matrimoniali si allineano su di una coda in cui le modalità non oltrepassano mai il 6,80 per cento dell’universo considerato.
Tabella 9. Rapporto tra età matrimoniale e mobilità professionale per i maschi e per le femmine di Madonna di Campagna. Mobilità professionale
discendente grande piccola
Maschi Matrimonio in anticipo Matrimonio in età modale Matrimonio in ritardo
2,59 -
19,44 0,86 5,75
nessuna
ascendente piccola grande
3 ST OM OTTIMI 39,66 41,38 40,23 27,59
5 15,52 26,44
%
frequenza
ORTO 100 100
36 II6 87
Totale
239
probabilità di y? = 0,0002.
Femmine Matrimonio in anticipo 15,63 Matrimonio in età modale (A) 1,25
Matrimonio in età modale (B)
—
Matrimonio in ritardo
2,63
Totale probabilità di y? = 0,0029.
21,88 16,25
ga 10,53
ZITO 3250
ORI 25 MI
388935 42,11
0:25 5
TOO 000
1985200
26,32
18,42
100
32 80
54 38
204
64
Capitolo terzo
sta scelta ha una traiettoria professionale paragonabile. Specularmente i casi più rilevanti di mobilità discendente si hanno per il gruppo di chi si sposa in giovane età. La tendenza risulta invece meno intensa nei dati relativi ai percorsi femminili. Se infatti anche per le donne il ritardo matrimoniale è correlato ad una buona mobilità ascendente, le frequenze più rilevanti di grande mobilità si registrano nei casi di matrimonio modale. Ciò non significa però che il ritardo sia in questo caso una strategia meno efficace. Se si osservano i singoli percorsi femminili in rapporto all’età matrimoniale, appare infatti chiaro come effettivamente il ritardo garantisca anche alle donne una maggiore professionalizzazione (e questo sia nel caso di sarte o commercianti, sia nel caso di carriere interne alla fabbrica ed orientate verso lavori d’ufficio). Piuttosto è da notare che le scelte di ritar-
do matrimoniale connesse con lo sviluppo di una carriera professionale autonoma sono minoritarie nel caso femminile. L'orientamento della maggioranza delle donne - spesso spinte dalle pressioni familiari e dell’ambiente di relazione — è infatti quello di interrompere il lavoro extradomestico una volta sposate”. Poche donne sposate lavorano: quando capita, si tratta quasi esclusivamente di persone senza qualificazione, appartenenti alla prima generazione di inurbate, obbligate ad impiegarsi in fabbrica come dperaie semplici per contribuire alla gestione di una famiglia di ampie dimensioni o caduta in crisi. Per la maggioranza, invece, il matrimonio in se stesso, proprio in quanto interrompe il percorso professionale autonomo
e quindi ogni via di affermazione attraverso il lavoro, diventa la principale occasione di mobilità. Sposare un buon lavoratore o un uomo la cui posizione professionale sia migliore di quella paterna costituisce quindi una delle strategie di mobilità femminile più praticate. In questa ottica è chiaro che la giovinezza è un elemento che contribuisce in modo non secondario ad ampliare la possibilità di scelta della donna aumentando la sua gradibilità all’interno del mercato matrimoniale. Un matrimonio di tipo modale, accostato al raggiungimento di una formazione lavorativa limitata ma utilizzabile in attività d'appoggio dell'economia domestica, sono i canali tipici della mobilità femminile. Strategie più complesse, che puntano ad una maggiore qualificazione della donna all’interno del mercato del lavoro, sono invece minoritarie e soprattutto si sviluppano nelle fasi più avanzate del ciclo di integrazione. Per queste ragioni il ritardo matrimoniale femminile appare correlato con meno evidenza alla mobilità professionale. Nei percorsie nelle strategie di ritardo matrimoniale — della donna come dell’uomo — occorrerebbe poi considerare anche la maggioranza dei casi di ce2 Sulle aspirazioni femminili ad una carriera professionale autonoma e sulle spinte contrarie dell’ambiente familiare, cfr. S. Cavallo, Realtà familiari e aspettative di vita: tre biografie femminili. 1920-1980, in Relazioni sociali e strategie individuali in ambiente urbano cit.
Famiglia e integrazione
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libato definitivo. È questo un fenomeno presente in misura rilevante: in entrambi i campioni e in ogni classe di età, una percentuale costante del 15-18 per cento tra le donne e del 17-20 per cento tra gli uomini, costituisce il gruppo di chi non si sposa. Oltre all’indubbia consistenza del fenomeno, ciò che lo rende particolarmente interessante è il fatto che i celibi presentano una fisionomia sociale molto simile a quella di chi ritarda il matrimonio. Da un lato le loro scelte e le loro strategie professionali sono del tutto analoghe a quelle di chi ritarda e, dall’altro, essi mostrano una mobilità ascendente sensibilmente superiore (a parità di sesso e classe di età) a quella di chi si sposa. Queste analogie non sono casuali e mostrano come, nella situazione analizzata, molto spesso il celibato non sia razionalmente ricercato ma si presenti come una conseguenza non prevista delle strategie di ritardo ma-
trimoniale. Tra i molti esempi possibili, la storia di Angela Prono è forse particolarmente emblematica. Angela, nata nel 1904, è l’ultimogenita degli otto figli di Giovanni Prono, un operaio conciatore immigrato a Torino negli ultimi anni del secolo scorso. Come i fratelli e come la maggioranza di chi nasce in una famiglia di ampie dimensioni, Angela entra giovanissima in fabbrica. A soli 12 anni è operaia conciatrice nello stesso stabilimento in cui lavora il padre. A differenza dei fratelli però, non si sposa ed inizia un efficace, se pur lento, percorso di professionalizzazione. Sicuramente favorita dal fatto di essere l’ultimogenita, inizia a frequentare le scuole serali e, dopo alcuni anni, riesce a diplomarsi in dattilografia. All’interno della stessa fabbrica viene quindi promossa da operaia a impiegata di terza categoria. É questo il livello più basso della gerarchia dei lavori d’ufficio. Ma la sua carriera è avviata e continuerà ad evolversi. Il censimento del 1961 ci dice infatti che Angela lavora a quella data come impiegata di prima categoria in uno dei settori del pubblico impiego. Non si è sposata e vive, da sola, in un appartamento di sua proprietà formato da due stanze e cucina in uno dei nuovi quartieri residenziali del centro. Il percorso compiuto da questa donna rimasta nubile è del tutto analogo a quello di chi ritarda il matrimonio per conquistare con un grosso sforzo personale una maggiore qualificazione professionale e garantirsi cosî una traiettoria di mobilità ascendente. È in quest'ottica che il celibato ci appare spesso come un effetto non previsto delle strategie di ritardo matrimoniale. Nel caso di Angela ciò è molto chiaro: la sua attenzione prioritaria verso una carriera esterna al mondo operaio, più che determinarla in una scelta consapevole di negazione del matrimonio, le impedisce, nel corso dei suoi anni «matrimoniabili», di percepire come accettabili le figure che il suo ambito di relazione (familiare, di quartiere e professionale)
66
Capitolo terzo
le permetterebbe di raggiungere. Come ho detto, la carriera di Angela infatti è lenta. Nel 1936, quando ha già 32 anni, non è ancora del tutto uscita dal suo ambiente d’origine: abita ancora con la madre nella vecchia casa di Madonna di Campagna, è già impiegata, ma in un ruolo totalmente subalterno (il censimento la registra come «scritturante » nella conceria). La sua è quindi la posizione di chi vive in un ambiente professionale e rionale esterno a quello verso cui è orientata. I testimoni della casa d'altronde ricordano questa donna «molto bella» che più di tutte le ragazze della casa «teneva le distanze» e si sentiva in qualche misura «diversa». Un comportamento, quello di Angela, che è probabilmente comune a molti di coloro che seguono con tenacia una traiettoria di mobilità ascendente e che Merton definirebbe di «socializzazione anticipatoria». Un atteggiamento cioè di aperto conformismo verso le regole giudicate proprie del gruppo sociale a cui ci si vuole integrare, espresso da chi non è ancora pervenuto e non è ancora accettato da quello stesso gruppo”. Proprio perché l’ascesa sociale di Angela è particolarmente lenta, questo atteggiamento le preclude per lungo tempo sia la possibilità di trovare, sia quella di prendere in considerazione un partner con cui dividere il proprio percorso di vita. “AI di là del caso di Angela, vale la pena di sottolineare la continuità esistente tra ritardo matrimoniale e celibato. Sono due fenomeni spesso analizzati separatamente e perciò sottostimati o male interpretati. Certo non tutti i casi di celibato sono il risultato imprevisto di un ritardo matrimoniale. Ma lo è sicuramente una grande parte di essi. Ciò implica che nel mondo operaio urbano la scelta di ritardare il matrimonio è più cosciente e meno obbligata di quanto si creda. Se nel mondo contadino essa è spesso il frutto di mediazioni e patteggiamenti tra interessi individuali e familiari, nel mondo urbano sembra esprimere una valutazione personale delle risorse ecologiche offerte dall'ambiente ed insieme un’aumentata possibilità di scelta individuale. Più in generale va detto che la scelta dell’età matrimoniale, più di altre variabili, esemplifica la complessità dei comportamenti sociali. Infatti i contenuti posti in questa scelta e i risultati ad essa connessi, variano sensibilmente in relazione alle diverse configurazioni di determinazioni che pesano su di essa. Si è visto, infatti, come il ritardo matrimoniale possa favorire l’integrazione e la mobilità professionale. Ma gli stessi esempi riportati poc'anzi ci permettono di notare come il solo ritardo non sia sufficiente. Esso diventa un elemento decisivo solo quando si inserisce in un quadro di elementi non troppo contrastanti. Ad esempio, è determinante la dimensione 21 Merton e Kitt, La teoria dei gruppi cit.
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della famiglia d’origine o la posizione occupata nella genitura. Da un lato, quindi, la scelta di ritardare il matrimonio favorisce la qualificazione e la mobilità soprattutto di chi nasce in una famiglia di dimensioni contenute, il cui peso non gravi eccessivamente sulle sue scelte. D'altro lato, tra chi proviene da una famiglia numerosa, questa stessa strategia risulta vincente quasi esclusivamente nel caso degli ultimogeniti”. 3. Mobilità professionale e rapporti di parentela.
L’importanza della famiglia nel determinare scelte e comportamenti dei suoi componenti non si manifesta unicamente nel rapporto tra individuo e famiglia nucleare (sia quella d’origine, sia quella che si crea). Anche
l’insieme dei rapporti di parentela costituisce un ambito attivo che modifica le attitudini, l'identità, i percorsi di ogni attore sociale”. In parte questo tema era già emerso nel corso del primo capitolo. Analizzando i percorsi e le identità migratorie, avevo infatti mostrato come, per comprendere le scelte dei valdoriani, non fosse sufficiente ricostruire la posizione economica della loro famiglia d’origine e il loro percorso professionale. La valutazione che ogni immigrato dà della posizione sociale e professionale raggiunta è infatti soggettiva e profondamente influenzata dalle traiettorie parallele dei suoi parenti (gli emigranti come quelli che vivono al villaggio). Nei percorsi di integrazione di ogni famiglia ritroviamo ora meccanismi analoghi; anche nella situazione urbana la parentela rimane infatti un ambito di riferimento privilegiato, determinante nel condizionare le identità, le scelte e gli orientamenti individuali. Questo tratto emerge innanzitutto dalle testimonianze orali. In ogni racconto autobiografico, nel definire la posizione sociale e le possibilità della propria famiglia d’origine, quasi automaticamente, ogni testimone tende a richiamare le figure dei parenti. Uno zio che ha fatto carriera, ad esempio, pur se non fa parte della quotidianità familiare, è sempre presente nel racconto e la sua figura è insieme la misura della precarietà della propria famiglia e lo stimolo ad adeguarsi. Nel caso dei Granero, ad esempio, la figura poc'anzi rievocata dello «zio Ernesto» (il rappresentante della Michelin) ha indubbiamente marcato il carattere della famiglia, la sua identità, Je aspirazioni dei figli. 22 Si può notare, a questo proposito, come tra i maschi provenienti da una famiglia con un numero
massimo di tre figli, il 32,73 per cento di chi ritarda il matrimonio ha una traiettoria di grande mobilità ascendente, mentre una traiettoria analoga non compare affatto nel gruppo di chi anticipa il matrimonio, o compare solo nella misura del 17»14 per cento tra chi ha avuto un comportamento di tipo «modale ». 2 Sull’importanza della parentela nelle scelte e nei percorsi di ogni attore sociale, cfr. A. L. Epstein, Ethos and identity, London 1978 e Southall (a cura di), Urban anthropology cit.
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Capitolo terzo ... già nel’30 aveva la macchina [lo zio Ernesto]... E allora, allora, si capisce, nes-
suno aveva la macchina... eh... Non la gente come noi, perlomeno!... Quando arrivava, capitava una o due volte all'anno, eh; perché poi per lavoro era andato a abitare a Livorno... Quando arrivava, tutti quelli della casa andavano a vederla... [la macchina]. E non arrivava mai senza niente. C'era sempre qualche regalo. A mio fratello per esempio un anno aveva regalato la bici da corsa, che allora era un lusso, la bici da corsa...”
La posizione professionale dello zio, il suo status, sono dunque gli elementi presenti nell’orizzonte delle relazioni di parentela su cui matura il senso di povertà e di inadeguatezza che caratterizza la gioventù dei Granero e le loro scelte successive. Diversa è invece la rappresentazione della propria famiglia d’origine, quale emerge dalle testimonianze di altri anziani per i quali, come ad esempio per Mario Ferrero, la rete di parentela non offre esempi di carriere e posizioni sociali superiori a quella dei propri genitori: Noi stavamo già bene, eh...! Mio papà era operaio specializzato nelle ferrovie... E allora si capisce, poi lo stipendio è diventato più grosso... Ma la famiglia dei miei cugini, erano proprio poveri!...”.
Gli esempi mostrano con chiarezza come anche nel contesto urbano la parentela rimanga l'ambito di riferimento privilegiato in cui ciascuno misura i propri successi e le proprie cadute. La famiglia Granero e la famiglia Ferrero occupano infatti posizioni analoghe ma, misurandosi con i rispettivi universi di parentela, maturano diverse percezioni relative del proprio stato e delle proprie possibilità. Non sembra casuale dunque che mentre i fratelli Granero si distingueranno per il loro atteggiamento di costante ricerca di miglioramento sociale, Mario Ferrero e i suoi fratelli si accontenteranno di ripercorrere le orme tracciate dalla carriera professionale del padre. Queste dinamiche possono sembrare il frutto di atteggiamenti psicologici, come tali difficilmente ponderabili. Pure, se si utilizza un misuratore indiretto come quello della professione e della mobilità, è facile notare in entrambi i campioni sia la presenza quantitativamente rilevante di parenti che appartengono a livelli professionali diversi da quello occupato dal singolo attore sociale, sia la correlazione esistente tra tali distanze sociali e le scelte e icomportamenti individuali. Soffermiamoci brevemente sul primo aspetto; cioè sulle diverse configurazioni di parentela in cui può essere inserito il singolo soggetto e sul loro peso. La posizione professionale di ogni attore sociale se misurata in rapporto a quella dei suoi parenti della stessa generazione (ai suoi fratelli e ai 24 Intervista a Teresa Granero, nastro RS 20b.
2 Intervista a Mario Ferrero, nastro RR 15a.
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suoi cugini) si può dunque rappresentare in quattro forme. La prima è quella di parità: in questo caso fratelli e cugini occupano tutti una posizione professionale analoga a quella del soggetto in questione. La seconda è di superiorità: egli occupa la posizione migliore tra quelle espresse dalla rete della sua parentela (è il caso questo del padre di Mario Ferrero). La terza è di inferiorità e di superiorità nello stesso tempo: l'individuo occupa una posizione professionale inferiore relativamente ad alcuni parenti e superiore relativamente ad altri. La quarta, infine, è di inferiorità: si occupa la
posizione professionale più bassa come nel caso dei Granero. Come si vede dai dati riportati nella tabella 10, queste stratificazioni sono presenti in misura rilevante in entrambi i campioni (e ancora una volta in percentuali molto simili). In particolare è interessante notare come più della metà degli individui considerati appartenga a famiglie i cui risultati professionali si sono diversificati all’interno delle stesse generazioni. Infatti solamente una percentuale che varia tra il 36 per cento di Valdoria e il 46 per cento di Madonna di Campagna è in una posizione di parità con fratelli e cugini. Nella maggioranza dei casi effettivamente gli universi di parentela si presentano agli occhi di ciascuno in forma stratificata. AI di là di questa constatazione, è importante ora considerare l’effetto differenziale che la disparità della posizione dei genitori rispetto a quella dei parenti induce sulla mobilità dei figli. Nella figura 6 ho riportato le percentuali di mobilità raggiunta dagli individui per i quali è stato possibile misurare la posizione professionale dei genitori in relazione al loro universo di parentela. I riquadri rappresentano quindi la mobilità dei gruppi che provengono da una famiglia in posizione: A) di parità; B) di superiorità; c) di superiorità e inferiorità; p) d’inferiorità. I dati confermano quanto emerge dalle testimonianze orali. C'è infatti una netta opposizione dei comportamenti osservati tra il gruppo B e il
Tabella 10. Posizione professionale del soggetto in rapporto a quella dei suoi fratelli e cugini. Posizione
Sani,
A) parità B) superiorità
45,90 24,01
36,25 24,53
C) superiorità e inferiorità D) inferiorità
14,13 15,96
10,16 29,07
Totale %
Totale casi
100,00
1316
Valdoria
100,00
640
70
Capitolo terzo
gruppo D, cioè tra i figli di famiglie in posizione di superiorità ei figli di quelle in posizione di inferiorità. Infatti i primi mostrano complessivamente una scarsa mobilità ascendente (il 35,4 per cento dei casi) e una tendenza maggioritaria a rimanere nella stessa posizione professionale del padre (il 44,4 per cento con nessuna mobilità); mentre i secondi sono effettivamente molto mobili (il 72,6 per cento di essi ha una traiettoria di mobilità ascendente) e pochissimo stabili (22,6 per cento). I comportamenti degli altri due gruppi si pongono al centro tra questi estremi sottolineando la forte correlazione esistente tra mobilità e posizione relativa espressa dalla famiglia d’origine. La mobilità ascendente è infatti ancora flessa per il gruppo A (che corrisponde ai percorsi dei figli socializzati in famiglie nelle quali tutti i fratelli e i cugini del padre occupavano un’analoga posizione professionale) e aumenta sensibilmente già nel caso delle famiglie che, pur godendo di una posizione professionale superiore rispetto ad una parte dei parenti, sono comunque, rispetto ad altri in posizione di inferiorità (gruppo c). Sinteticamente, queste relazioni si potrebbero dunque riassumere nella forma: tende a rimanere nella stessa posizione professionale chi proviene da una famiglia che occupava all’interno della rete di parentela una posizione professionale di supremazia o di parità; tende ad avere un percorsodi mobilità ascendente chi proviene da una famiglia che occupava una posizione inferiore in misura più o meno rilevante in rapporto a quelle occupate dai parenti.
Figura 6.
Mobilità professionale dei figli in rapporto alla posizione relativa della famiglia d’origine. x% È
60 H
40 H Mobilità professionale: peri
Discendente 7
5
[| Nessuna
Z 3
‘| Ascendente A
B
Individui provenienti da una famiglia la cui situazione professionale — relativamente alla propria rete di parentela — era: A) paritaria; B) superiore; c) superiore e inferiore: p) inferiore.
Famiglia e integrazione
71
Ma va detto che questa correlazione potrebbe risultare sovrastimata per la compresenza di individui che esercitano diverse professioni. Si potrebbe cioè pensare che nei gruppi in posizione relativa di tipo positivo e negativo sono di fatto rappresentate unicamente le famiglie agli estremi della stratificazione professionale dei campioni; rispettivamente, ad esempio, degli imprenditori e dei manovali. In questo caso la correlazione avrebbe un valore tautologico perché ci spiegherebbe che i figli dei primi non possono avere una grande mobilità ascendente a differenza dei secondi. Una tale distorsione è presente in misura minima. Infatti, essendo queste posizioni «relative », nel gruppo positivo sono rappresentate anche le famiglie operaie con parenti più disagiati; cosf come nel gruppo negativo abbiamo molti casi di fratelli o cugini di imprenditori la cui professione può essere anche quella di impiegato di prima categoria. Inoltre, l’affidabilità di queste relazioni è data soprattutto dal fatto che la loro significatività non muta (pur flettendosi leggermente le percentuali interne) se le si osserva su dati disaggregati per categorie professionali. I figli di operai (semplici e specializzati), ad esempio, la cui famiglia d’origine è in posizione negativa, hanno una mobilità professionale ascendente compresa (per i due campioni) tra il 63,0 e il 66,3 per cento dei casi. I figli dello stesso gruppo professionale, la cui famiglia è invece in posizione relativa di parità o di superiorità, presentano una mobilità ascendente sempre inferiore al
50 per cento dei casi. L’alto grado di significatività di queste relazioni conferma il ruolo predominante che i rapporti di parentela continuano ad avere nella definizione delle identità individuali e familiari, nel condizionare i comportamenti, le scelte e i percorsi di integrazione urbana. La famiglia nucleare, predominante in città, è dunque isolata solo formalmente. Se i parenti non si mescolano più, come in campagna, negli stessi spazi domestici o nelle stesse attività, ciò nondimeno le loro traiettorie e le loro figure popolano il vissuto quotidiano di ogni famiglia, caratterizzandone la storia e l'identità. I meccanismi attraverso cui questa presenza si certifica come fondamentale sono diversi e in parte li abbiamo già osservati. Nel caso torinese essi non dipendono da strategie di parentela globali e complesse come quelle osservate ad esempio da Tamara Hareven nella situazione americana di fine Ottocento”. Sono piuttosto legati a due aspetti, meno appariscenti ma non meno importanti, delle dinamiche di relazione intrafamiliari; aspetti estremamente interrelati, ma che è possibile distinguere sul piano analitico. Il primo è legato ai diversi tipi di risorse — nei termini delle informazioni e degli aiuti oggettivi (materiali e relazionali) - che le diver26 Hareven, Tempo familiare cit.
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Capitolo terzo
se configurazioni di parentela sono in grado di offrire. E un aspetto emerso da ogni esempio finora citato e sul quale avrò occasione di ritornare nel corso dei capitoli seguenti. Ora è il caso di soffermarsi soprattutto su un secondo aspetto, quello della funzione assolta dalle diverse reti di parentela nel condizionare la definizione dell’identità del soggetto e della sua famiglia. Per capire le dinamiche legate a questo secondo aspetto - quello della percezione relativa - è forse necessario identificarsi almeno in parte con la storia di queste famiglie. E una storia di integrazione, come abbiamo visto, che inizia con l'immigrazione e che continua attraverso la città. I percorsi dei parenti, dei fratelli e dei cugini in particolare, sono dunque un punto di riferimento continuo e obbligato che pervade lo spazio quotidiano di ogni attore sociale e che permette di misurare concretamente i propri risultati. In una famiglia come quella dei Granero in cui il percorso di integrazione dei tre fratelli immigrati a Torino segue, nella fase iniziale, le stesse modalità (per lo meno ai loro occhi), la carriera di Ernesto non può
non rappresentare la misura concreta del fallimento relativo degli altri fratelli. Attraverso i gesti e icomportamenti di Ernesto, attraverso i suoi stessi regali o anche solo, in sua assenza, attraverso la rievocazione della sua fi-
gura, cresce nel mondo familiare dei Granero quel senso di insoddisfazione relativa che si legge con facilità in ogni rievocazione dei figli. Insoddisfazione che è del tutto assente, come si è visto, nella testimonianza di Mario
Ferrero e della sua famiglia. Per loro — come per tutte le famiglie i cui parenti hanno raggiunto posizioni professionali analoghe o inferiori — il panorama delle possibilità urbane, quale si è concretizzato nelle esperienze di integrazione della parentela, sembra esaurirsi nei risultati da loro stessi raggiunti. Non è casuale quindi che Mario Ferrero, ricordando la carriera del padre, possa asserire in tutta tranquillità che era «diventato tutto quello che poteva diventare! » Una frase che sicuramente deriva dalla rappresentazione che il padre e la stessa famiglia davano del proprio percorso di integrazione e del proprio «relativo » successo. Certo una rappresentazione analoga non la troviamo nella memoria dei Granero e in nessun'altra testimonianza di individui nati in una famiglia inserita in un’analoga configu-
razione di parentela.
E dunque un meccanismo quasi «gestaltico » quello che contribuisce a definire l'identità di queste famiglie”. Se infatti cambia lo sfondo - in questo caso le diverse stratificazioni di parentela - il soggetto, la famiglia |? Penso sia pur metaforicamente — ad un meccanismo gestaltico perché, anche in questo caso, abbiamo una figura centrale (quella ad esempio del padre di Mario) le cui particolarità vengono definite in rapporto alle figure di sfondo (quelle dei parenti). Sul rapporto tra sfondo e figura focale cfr. W. Kholer, Gestalt psychology, New York 1947.
Famiglia e integrazione
2%)
che si misura in rapporto ad esso, acquista dei tratti e delle particolarità differenti. Una famiglia che si trova sullo sfondo di una parentela più attiva e professionalmente affermata, è da questa sminuita nella propria identità e nella propria posizione sociale. Una famiglia che si pone su uno sfondo di parentela egualitario può invece identificarsi in misura maggiore con la propria posizione. Uno sfondo di parentela più povero e professionalmente meno qualificato, infine, è senz'altro un elemento di valorizzazione del proprio percorso, di un senso di «soddisfazione relativa» attivo, come nel caso dei Ferrero. Posizioni oggettive eguali ma sfondi diversi implicano dunque diversi gradi di soddisfazione relativa. E questo meccanismo che contribuisce a chiarire i diversi atteggiamenti familiari in rapporto alla mobilità: le famiglie che percepiscono la propria posizione come inevitabile o relativamente soddisfacente tendono, come si è visto, a stabilizzarsi nell’ambito sociale
cui sono approdate; mentre le famiglie che percepiscono la propria posizione come relativamente insoddisfacente tendono a sfuggire con maggior evidenza il mondo al quale sono pervenute o di cui fanno parte. Espresso in questi termini, tutto ciò presenta non poche analogie con il concetto di relative deprivation utilizzato efficacemente da sociologi come Merton e Runciman nel quadro delle loro analisi sulle società americane e inglesi”. Merton e Runciman, come è noto, utilizzano il concetto in rapporto alla nozione ampia e complessa di gruppo di riferimento. Sulla base di inchieste e dati specifici essi cercano di determinare i diversi ambiti cui fanno riferimento attori sociali appartenenti ad uno stesso gruppo professionale, di status, etnico, ecc. Isolando questi elementi, essi studiano
dunque gli effetti differenziali che i diversi riferimenti hanno sulla percezione relativa interna al gruppo e quindi sulla mobilità sociale. Queste dinamiche sono sicuramente presenti anche nei comportamenti delle famiglie torinesi. Nei prossimi capitoli l’analisi verrà estesa anche alla considerazione degli atteggiamenti e delle aspirazioni più direttamente determinati da ambiti di riferimento esterni alla famiglia e al gruppo professionale di appartenenza. Ma per ora il restringimento del concetto di gruppo di riferimento ai confini dell’universo di parentela è un passo necessario e importante: ci permette infatti di misurare il peso che la parentela continua ad assumere nell’orientare le scelte dei suoi appartenenti, nel contribuire a favorire la loro identificazione o non identificazione con un gruppo, un ambito sociale, una classe. Il senso di «insoddisfazione relativa» può infatti tramutarsi in una identificazione - pur se parziale e momentanea — con 28. Merton e Lazarsfeld (a cura di), Studies cit.; Runciman, Re/ative deprivation cit.; su questi temi cfr. anche Luckmann e Berger, Socia/ mobility cit.
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Capitolo terzo
quello che Bourdieu e Passeron potrebbero definire un habitus individuale e sociale”. L'immagine che Mario Ferrero ha del padre («è diventato tutto quello che poteva diventare»), il suo senso di appagamento si può infatti tradurre (e nel suo caso si è effettivamente tradotto) in una più generale visione del mondo che si esplicita in frequenti espressioni del tipo: «questo è il nostro mondo. Il resto, le altre cose, non sono per noi». Avrò modo di parlare ancora di Mario Ferrero e di approfondire i meccanismi di identificazione da lui utilizzati. E certo che nella sua forte identificazione col mondo operaio (che, si badi bene, non ha un carattere ideologico) incide in misura quasi totalmente determinante la sua storia familiare. 2° P. Bourdieu e J. C. Passeron, La reproduction, Paris 1970.
Capitolo quarto Gli ambienti di riferimento e le congiunture storiche nei percorsi di integrazione
Nel capitolo precedente ho mostrato come i tempi e le forme del ciclo di integrazione urbano si modifichino nell’orizzonte individuale a seconda del modo in cui ciascùno utilizza o può utilizzare le risorse offerte dal mondo di relazione familiare e della parentela. Ho sottolineato in particolare come scelte e comportamenti mutino, nelle loro determinazioni e nei loro risultati, in rapporto alla storia familiare, ad una razionalità dell’uso delle risorse che cambia con il procedere dell’integrazione. Ora è invece necessario uscire dall’ambito della famiglia e della parentela per analizzare le dinamiche che si instaurano nel rapporto individuo o famiglia e mondo delle relazioni urbane‘. In primo luogo infatti il ciclo di integrazione, lo si era visto, implica un percorso interno alla città che non è solo professionale ma è anche geografico. Tra i quartieri del vecchio centro storico e la nuova periferia operaia esiste un movimento ciclico e ininterrotto. Sono zone diverse per la loro storia, per le strutture urbanistiche che le caratterizzano, per la strutturazione dei rapporti e dei comportamenti sociali che tendono a favorire e a proporre. Nei primi due paragrafi di questo capitolo analizzerò questi aspetti. In che modo cioè abitare in un quartiere operaio o in un quartiere del centro, in forma stabile o transitoria, in una fase avanzata o primaria del ciclo di vita e di integrazione, contribuisca a mutare le prospettive, le attitudini e icomportamenti di individui e famiglie. In secondo luogo, proprio perché le forme dei rapporti sociali, quali si concretizzano nell’orizzonte quotidiano di ogni indi1 Affrontando il tema delle «relazioni urbane » mi richiamo soprattutto ai lavori della rework analysis. Si tratta di concetti e metodi nati nella pratica della ricerca antropologica e che hanno trovato applicazione
nell’analisi sia del mondo urbano che delle piccole comunità. Tali strumenti, a cui faccio riferimento implicito in questo capitolo, saranno applicati concretamente nell’analisi che segue nei capitoli successivi. Cfr. F. Barth, Models of social organizations, in «Occasional Papers of the Royal Anthropological Institute», n. 23, London 1966; J. C. Mitchell (a cura di), Socia/ networks in urban situations, Manchester 1969; J. A. Barnes,
Social networks, in «Module in Anthropology», n. 26, 1972; J. Boissevain e J. C. Mitchell (a cura di), Net work analysis. Studies in human interaction, The Hague - Paris 1973; J. Boissevain, Friends offriends. Networks, manipulators and coalitions, Oxford 1974; A. L. Epstein, La rete e l’organizzazione sociale urbana, in Pitto (a cura di), Atropologia cit. Una rassegna aggiornata sulla zerwork analysis nel contesto degli studi urbani è contenuta nell’articolo di D. J. O’Brien e M. J. Roach, Recent developments in urban sociology, in «Journal of Urban History», n. 2, 1984.
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Capitolo quarto
viduo, mutano nel tempo e in rapporto a contingenze economiche e politiche, misurerò, nel corso del terzo paragrafo, la correlazione esistente tra
queste variabili e il ciclo di integrazione. 1. Comportamenti professionali e scelte di stanziamento.
Come si è visto, il mondo operaio torinese, per tutta la prima metà del secolo, si divide in egual misura tra i quartieri centrali e quelli della nuova periferia. Si è osservato inoltre come questi due mondi non fossero stabili e separati tra di loro ma esistesse tra centro e periferia uno scambio continuo di attori sociali. Ma, pur facendo parte in egual misura dell’orizzonte operaio, queste due zone lo caratterizzano in forma estremamente diversa. Nei quartieri della periferia, infatti, la condizione operaia è predominante: pi del 70 per cento della popolazione attiva svolge una professione operaia. Nei quartieri del centro invece, pur avendo un peso analogo in cifre assolute, la popolazione operaia si stempera in un ambiente professionalmente ibrido, al cui interno essa non rappresenta che il 20 per cento della popolazione attiva. Se a queste cifre aggiungiamo il fatto che la quasi totalità dei benestanti e dei rentiers torinesi vive stabilmente nel centro della città, è chiaro che le due facce della realtà operaia sono diversamente caratterizzate. Semplificando si può infatti dire che mentre l’una si situa in un panorama sociale professionalmente omogeneo (quello dei quartieri periferici), l’altra vive in quartieri ibridi (quelli centrali in cui lo spazio sociale è nettamente stratificato). Ora se è su questi due sfondi che si svolge il percorso di integrazione
delle famiglie, dobbiamo chiederci se la diversa realtà sociale incontrata nelle due zone offra modelli di relazione e di comportamento, cosî come informazioni e risorse, altrettanto diversi. Analizzare il rapporto instaurato con lo spazio urbano dagli immigrati e dai loro discendenti significa dunque capire il tipo di relazioni sociali stabilite, i limiti e le risorse che i diversi ambienti hanno saputo offrire. Certo, nonostante il fatto che i dati globali mostrino un percorso corale (centro- periferia- centro), le modalità entro cui ciò si concretizza nell’esperienza individuale sono numerose. Si può ad esempio abitare nel centro per tutta la giovinezza per poi passare in un quartiere operaio o viceversa. Ci si può spostare all’interno della città e delle diverse zone, rendendosi stabili solamente in una di esse e per brevi periodi. Si può giungere, al seguito di un percorso migratorio, in diversi momenti del proprio ciclo di vita, in un quartiere particolare della città, ecc. Fare una tipologia esaustiva
Ambienti di riferimento, congiunture storiche e integrazione
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di tutti i rapporti con lo spazio urbano osservati per ciascun individuo sarebbe lungo e soprattutto inutile. E invece interessante concentrare l’attenzione su due gruppi di comportamenti «abitativi» emersi come antitetici dai dati di entrambi i campioni e che mostrano di avere una netta influenza sui percorsi e sulle scelte individuali di chi li ha vissuti nella prima fase del proprio ciclo di vita (dalla nascita al matrimonio). Si registra infatti una notevole diversificazione dei comportamenti e delle possibilità individuali confrontando il gruppo di chi è stato socializzato (nella prima fase del ciclo di vita) all’interno di un quartiere operaio, con il gruppo di chi è cresciuto nei quartieri ibridi del centro o si è spostato con la famiglia a più riprese attraverso lo spazio urbano (non radicandosi cioè per più di cinque anni in un ambiente particolare). Un esempio concreto, quello della famiglia di Carlo Odasso, può illustrare con chiarezza quanto ho appena affermato. Carlo Odasso nasce nel 1881 a Valdoria ed entra a Torino nel 1906. A quella data è già sposato da cinque anni con Maria ed ha tre figli: Teresa (1902), Giovanni (1903) e Margherita (1905). Carlo abita in quell’anno in un quartiere operaio. Ma
non si stabilisce definitivamente ed inizia un lungo vagabondaggio attraverso la città. Nel 1909 è in via Nizza, dove nasce Chiara che sarà l’ultimogenita della famiglia. Nel 1910 è in via Tiziano 39, nel roII in vicolo delle Scuderie Reali, nel 1914 in via Leopardi 8. Nel 1915 l’anagrafe lo segnala in «abitazione sconosciuta», nel 1916 in corso Regina Margherita 110, nel 1921 in via Carmagnola 24... Gli spostamenti della famiglia (che sono sempre da un capo all’altro della città) continuano numerosi fino al momento in cui Carlo e Maria, rimasti soli - dopo che Teresa, l’ultima figlia da maritare, si sposa nel 1929 - si stabiliscono in corso Regina Margherita 66. Carlo rimarrà in questa casa fino al 1945 quando, dopo la morte della moglie, viene ricoverato all’Ospizio pubblico di vecchiaia in corso Casale. Carlo fa parte della schiera di coloro che non hanno avuto fortuna nella città. Andrà in pensione come manovale e anche la traiettoria dei suoi spostamenti mostra le sue condizioni disagiate. Non si stabilisce in nessun quartiere e il suo percorso segue molto probabilmente le fluttuazioni degli affitti del mercato immobiliare. Le zone di insediamento corrispondono infatti, di volta in volta, a centri periferici non ancora inglobati nella città e a basso sviluppo demografico (è il caso di Borgo San Paolo nel 1906, di via Nizza nel 1909), ad aree di degenerazione di un tessuto industriale e operaio (San Salvario nel 1910), o a quartieri socialmente ibridi a prevalenza sottoproletaria (vicolo delle Scuderie Reali nel 1911). Ma il punto su cui ora voglio soffermarmi verte piuttosto sui comportamenti e sulle scelte
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Capitolo quarto
che segnano i percorsi dei figli cresciuti in una famiglia operaia come questa, caratterizzata dalla provvisorietà degli insediamenti e dal rapporto con gli ambienti urbani ibridi. Le traiettorie dei figli di Carlo mostrano infatti almeno due elementi interessanti. Da un lato la debolezza dell’elemento normativo all’interno dello spazio familiare e dall’altro la compresenza di modelli di comportamento e di strategie molto diverse tra di loro. La nascita di Pasquale (nel 1923), figlio naturale di Margherita, e il fatto che questi venga allevato in seno alla famiglia, ci indicano una moralità familiare poco indulgente verso norme diffuse e proprie anche di altri settori operai”. Pasquale sarà ricoverato all’Ospedale degli esposti solo nel 1926 (quando Margherita sposa Pietro Bertello, un operaio semplice, suo coe-
taneo) e morirà tre anni dopo. In secondo luogo, è interessante la traiettoria di Teresa, la primogenita che nel 1918 è operaia semplice alla Fiat e, con una lenta carriera, grazie all’iscrizione alle scuole serali commerciali, e al ritardo del matrimonio, diventerà impiegata di prima categoria. Teresa è protagonista di una mobilità professionale e sociale notevole. Si sposa con Pietro Giordana, anch'egli impiegato di prima categoria alla Fiat. Ma non è tutto: Teresa e il marito, quando nel 1933 nasce la loro unica figlia Giuseppina, decidono di continuare entrambi a lavorare e assumono una domestica a tempo pieno. La traiettoria di Teresa mostra dunque una razionalità che è in grado di considerare tutte le risorse disponibili e che insieme si orienta verso modelli di comportamento propri di strati sociali molto distanti da quello di provenienza e che si diffonderanno negli stessi gruppi impiegatizi solo dopo gli anni ’50. Pur provenendo da una famiglia che — all’inizio del suo ciclo di integrazione — è in una posizione estremamente sfavorita (il padre è manovale, la famiglia è di ampie dimensioni), Teresa compie un percorso (professionale ma anche di apprendimento di una mentalità urbana) che normalmente si copre in due, tre generazioni. Infine, un altro aspetto interessante di questa famiglia è che Teresa è l’u2 Sulle rigidità delle norme di comportamento nei quartieri operai, sulle sanzioni nei confronti di chi trasgredisce la morale sessuale comunemente accettata, cfr. aa.vv., Torino tra le due guerre cit. Un interessante esempio — tratto da un’intervista ad un gruppo di anziane testimoni di un quartiere operaio torinese — mi è stato gentilmente suggerito da Sandra Cavallo tra i numerosi da lei raccolti: «Ines Si andava a fare una passeggiata... Anche allora c'erano quelli che non facevano il loro dovere... Carla Si, Ines, ti ricordi quando arrivava ’sta gente nel cortile a cantare? Se succedeva tanto cosî ad una ragazza, venivano a cantarcela nei cortili! Ines Ma si rende conto che qui c’era una ragazza, che adesso è già morta, questa qua era andata con uno e con l’altro... Quando si è sposata le hanno fatto la “fiera” davanti alla chiesa... Carla Si son messi tutti lf, poi le han detto “ohi, mi, i fiori d’arancio?! Ma a te ci vogliono già gli aranci, non i fiori d'arancio!”
Ines
Quello che le è andato insieme è venuto con gli amici e le han fatto una fiera che io mi sarei spo-
sata alle 5 del mattino!...»
Ambienti di riferimento, congiunture storiche e integrazione
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nica ad avere una traiettoria cosf accentuata di mobilità ascendente. Giovanni, infatti, l’unico figlio maschio, registrato come falegname, emigra nel 1930 a Settimo Torinese. Le altre sorelle, anch'esse operaie, sposano due operai specializzati e contemporaneamente si licenziano. Ritroviamo le famiglie di Margherita e Chiara in due appartamenti dello stesso stabile in via Fidia 15 (all’interno di un quartiere operaio), dove rimarranno fino al pensionamento. I loro figli saranno tutti, come i padri, operai specializzati. Giuseppina, la figlia di Teresa, seguirà la carriera materna ma, nel 1959, si sposerà con un professionista torinese licenziandosi dall’impiego.
Forti analogie con le vicende di Carlo e dei suoi figli, si possono osservare più in generale nelle traiettorie di chi si sposta frequentemente sul territorio (senza quindi poter costruire relazioni stabili) e soprattutto di chi si stabilisce in quartieri socialmente ibridi. Le famiglie che ricalcano tale rapporto con lo spazio registrano un ventaglio ampio e diversificato di scelte professionali e di comportamenti; presso quelle che si sono stabilizzate all’interno di un quartiere operaio, le scelte dei figli risultano invece pit ristrette e tendono a riflettere con insistenza la scelta della carriera operaia come unico modello possibile. Tali aspetti sembrano dunque confermare come un diverso rapporto con lo spazio urbano implichi lo sviluppo di una differente percezione delle scelte possibili e dei ruoli sociali interpretabili. Si direbbe che quanto più i rapporti con un spazio urbano caratterizzato (come i quartieri periferici) dalla monoprofessionalità diventano stabili, tanto meno le informazioni raggiungibili ed utilizzabili sono vaste e polisemiche. L’aspetto correlato e non meno importante di queste dinamiche è quello della diversa mobilità professionale che si registra nei due gruppi. Tra chi è stato socializzato all’interno di un quartiere ibrido o si è spostato frequentemente nello spazio urbano registriamo i casi più frequenti di grande mobilità ascendente ma anche, simmetricamente, un più grande numero di cadute sociali e, va sottolineato, gli unici casi di mendicità ed emarginazione. La mobilità ascendente è invece notevolmente flessa tra chi ha trascorso la propria giovinezza stabilmente all’interno di un quartiere operaio, cosi come sono pil rari i casi di regressione professionale. In
altri termini, lo scarso radicamento sul territorio o il rapporto con un mondo di quartiere ibrido tende a favorire non solo comportamenti meno modali e normativi ma anche, come nel caso di Teresa, i percorsi di maggior mobilità professionale. Ma nello stesso tempo è altrettanto evidente che questo rapporto con lo spazio non sembra garantire agli attori sociali nessuna protezione in grado di smorzare le traiettorie di mobilità discendente.
80
Capitolo quarto
Una protezione che sembrano invece fornire i quartieri operai, attraverso le maglie delle loro reti di relazione. I meccanismi attraverso cui queste determinazioni diventano attive saranno analizzati per esteso nel corso del paragrafo successivo e in particolare nel prossimo capitolo. Ora invece si tratta di misurare attraverso i dati di entrambi i campioni il delicato equilibrio che si sta delineando tra i limiti e le risorse che ciascuno trova nei diversi spazi urbani. Nella figura 7 sono riportate le distribuzioni percentuali, per i due campioni, della mobilità sociale raggiunta in relazione ai parametri che abbiamo appena delineato. La linea tratteggiata rappresenta l'andamento della mobilità professionale raggiunta da chi, tra la nascita e il matrimonio, ha vissuto la maggior parte del tempo e in maniera stabile all’interno di un quartiere operaio; la linea continua si riferisce invece, per le stesse modalità, a chi si è spostato nello spazio o ha vissuto in quartieri ibridi, non caratterizzati cioè professionalmente’. Come si vede, i dati confermano la significatività della relazione: le percentuali più sensibili di grande mobilità ascendente si registrano infatti tra chi ha vissuto la gioventù spostandosi nello spazio o in uno dei quartieri ibridi della città. Sempre per questo gruppo, la flessione dei casi di stabilità sociale è netta e si riflette in un aumento percenN criteri utilizzati per la definizione dei due gruppi di stanziamento sono quelli già riportati nella nota 10 del capitolo 1.
Figura 7.
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Ambienti di riferimento, congiunture storiche e integrazione
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tuale dei casi di cadute sociali rovinose. Inversamente, tra chi è stato so-
cializzato all’interno di un quartiere operaio sono pressoché assenti i casi di netta caduta sociale, mentre crescono i casi di stabilità a scapito della mobilità ascendente. La relazione tra stanziamento e mobilità, che i grafici della figura 7 rappresentano per gli universi dei due campioni, se scorporata, mostra in realtà un diverso grado di significatività per ciascuna classe d’età. Più debole per le prime e per le ultime classi‘, la relazione diventa molto forte per le classi centrali (i nati cioè tra il 1gor e il 1911 einatitrail 1912 eil 1925). Questo andamento «ad onda» della forza della relazione è particolarmente interessante perché sottolinea come sia proprio la caratteristica composi-
zione monoprofessionale dei quartieri operai ad incidere come elemento di diversificazione sui percorsi di queste famiglie. La significatività della relazione è infatti strettamente correlata al grado variabile di connessione sociale che mostrano questi quartieri nel corso dello sviluppo urbano. Ancora borghi rurali ed esterni alla città all’inizio del secolo, essi raggiungono l’apice del loro sviluppo e della concentrazione operaia nel primo dopoguerra per poi stemperatsi, dalla fine degli anni 30, nel tessuto più vasto e interclassista di una città che cresce. In questo panorama non è dunque casuale che siano proprio le classi d’età centrali ai due campioni ad essere più sensibili agli effetti di differenziazione indotti dai diversi tipi di stanziamento. Nelle traiettorie di chi è stato socializzato nei quartieri operai nel periodo di massima concentrazione, si evidenzia sempre più nettamente la forbice esistente tra la sicurezza e la copertura sociale che da un lato essi forniscono ai loro abitanti e i limiti che allo stesso tempo essi pongono nei confronti delle scelte individuali. Per gli individui appartenenti alle classi d’età centrali, l'essere stati socializzati all’interno di un quartiere operaio ha indubbiamente significato essere protetti dalle cadute sociali. Per loro non esistono affatto i casi di marginalizzazione presenti invece tra i coetanei appartenenti agli stessi gruppi sociali e professionali, ma cresciuti in altri spazi urbani. Anche i casi di piccola mobilità negativa sono pochi. Ma, mentre calano nettamente i casi di grande mobilità ascendente, aumentano notevolmente i casi di stabilità, di chi cioè si trova nella stessa
posizione sociale dei genitori. Una stabilità che è — per i nati tra il 1902 e il 1911 del campione dei valdoriani — una vera e propria regressione se paragonata ai movimenti
4 Si tenga presente infatti che per i nati tra il 1873 e il 1891, per tale relazione la probabilità di x? è dello 0,1921 per il campione di Valdoria e dello 0,1386 per quello di Madonna di Campagna; per l’ultima classe d’età, quella dei nati dopo il 1937, la probabilità di x? è dello 0,0052 per Valdoria e dello 0,2808 per Madonna di Campagna.
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Capitolo quarto
ascendenti di chi non ha vissuto un’analoga esperienza all’interno di ambiti di relazione simili (cfr. fig. 8). La differenziazione tra i due gruppi appare qui oltremodo marcata e caratterizza la quasi totalità dei casi. Tanto che ci si potrebbe legittimamente domandare se la spiegazione non vada ricercata in un atteggiamento di cosciente astensione dalla mobilità”. È utile ricordare infatti che il campione dei valdoriani ècomposto da gruppi familiari che iniziano il loro percorso di integrazione molti anni prima di quelli di Madonna di Campagna. I nati tra il 1902 e il 1911 sono dunque figli di individui che hanno vissuto interamente nelle fabbriche e nei quartieri il periodo eroico del socialismo torinese. La stabilità professionale che interessa quasi il 70 per cento di coloro che sono stati socializzati in un quartiere operaio potrebbe dunque essere interpretata come l’espressione di una identificazione di classe, nata dalle lotte dei padri ma ancora viva 5 In questo senso i miei dati sembrano contraddire l’ipotesi di Sewell che, osservando una minore mobilità tra i gruppi operai stabili rispetto a quelli di recente immigrazione, l’attribuisce ad una cosciente astensione dei primi. Il fatto che anche i recenti immigrati — se si rendono stabili in quartieri operai — mostrino una flessione della mobilità indica a mio parere come questa non derivi da una «cultura dell’astensione» ma sia il frutto della scarsità di informazioni e di relazioni utilizzabili in quartieri professionalmente compatti. Cfr. Sewell jr, Social mobility cit.
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Figura 8.
Campione di Valdoria. Nati tra il 1902 e il 1911: rapporto tra mobilità e stanziamento. % DERTEEZII Quartiere operaio 70
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Ambienti di riferimento, congiunture storiche e integrazione
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nelle scelte dei figli sotto il fascismo. Un’identificazione che non coinvolgerebbe invece i coetanei, nati e socializzati in ambiti più esterni alle lotte politiche e sindacali. i Effettivamente, se ci si basasse unicamente su questi dati, questa inter-
pretazione potrebbe sembrare probabile. Ma si vedrà nei prossimi capitoli come le aspirazioni giovanili dei due gruppi non si differenziassero affatto nella realtà degli anni ’20 e ’30. L’elemento di distinzione è dato invece, a mio parere, proprio dal peso che il tessuto di quartiere — costruito anche intorno alle scelte e alle ideologie dei padri — faceva gravare su alcuni di essi. Questi aspetti saranno chiariti in seguito. Ma è forse bene anticipare come, tra tutte le classi d’età considerate, questa risulterà essere senz'altro la più emblematica: socializzata nel periodo del fermento politico ma maturata insieme con il regime fascista, questa generazione sarà quella caratterizzata
dal ventaglio di sbocchi e di destini più vario e movimentato, in cui i successi più clamorosi si troveranno a coesistere con gli esiti più negativi. 2. Ilcentro e la periferia: una diversa rappresentazione della realtà sociale. Due aspetti sono determinanti nel favorire le dinamiche delle quali si è appena apprezzata l’intensità. Il primo è dato dalla diversa strutturazione dei rapporti sociali che si creano nei diversi quartieri della città. In particolare nei quartieri operai le relazioni informali — quali i rapporti di vicinato, di caffè, di lavoro, ecc. — favorite dall’isolamento fisico dei rioni
nei confronti del resto della città tendono a strutturarsi sul modello delle piccole comunità. Chi si rende stabile in questi ambienti diventa molto spesso partecipe di un mondo di relazione che sovrappone, nelle stesse reti e nelle stesse persone, il vicinato, l’ambiente di lavoro, l'amicizia, crediti
e debiti di servizi, e spesso la parentela. Sono reti che si propongono come una delle risorse principali per la vita della famiglia operaia. Esse costituiscono infatti la premessa di una sicurezza affettiva ed economica che manca a chi non ha un rapporto stabile con l’ambiente urbano, come chi vive nei quartieri ibridi (nei quali l’alta stratificazione sociale e la stessa strutturazione dell'ambiente impediscono il proliferare di questi modelli). Ma, contemporaneamente, le reti di relazione che caratterizzano il mondo della periferia, proprio per la loro estrema connessione e per la sovrapposizione di interessi soggettivamente diversi, tendono a produrre un crescente irrigidimento dei ruoli sociali, accentuando il contenuto normativo dei rap6 Va infatti ricordato che i quartieri operai della periferia torinese sono stati il centro delle lotte politiche e sindacali degli anni ’10 e ’20 e che, come si è fatto notare nell’introduzione, sono stati la base dell’e-
lettorato socialista di quegli anni. Per questi dati cfr. comunque P. Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Torino 1958.
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Capitolo quarto
porti esistenti, per la continuità dei quali ogni innovazione è vista come eversiva e destabilizzante’. Questo aspetto complesso e tipico delle aggregazioni operaie che si sviluppano - come nel caso torinese — in spazi specifici e isolati dal resto della città, sarà analizzato lungamente nel corso dei capitoli seguenti attraverso un uso critico delle fonti orali che sole ci permettono di apprezzare le dinamiche di interazione sociale proprie di questi meccanismi. In questo paragrafo è invece necessario chiarire — in-
dugiando nel considerare ancora i dati quantitativi - un secondo aspetto non meno importante, legato alle diverse immagini della condizione operaia e delle possibilità sociali ad essa collegate che i quartieri periferici e i quartieri ibridi tendono a trasmettere al loro interno. Come si è visto, il
centro e la periferia presentano una fisionomia molto diversa: da un lato vi è un mondo stratificato nel cui orizzonte sono giornalmente presenti variegate figure sociali (dal proprietario al domestico, dall’imprenditore al manovale); dall’altrositrova un panorama dominato dalla fabbrica e dalla condizione operaia. E ovvio che questi diversi punti di osservazione incidono sulla percezione che l'individuo può avere della società e delle fisionomie sociali interpretabili. Ma accanto a questo vi è un ulteriore aspetto — forse meno tautologico — legato ai meccanismi di ricambio interni ai quartieri e alle figure sociali che il centro e la periferia tendono a trattenere. Mentre cioè i quartieri ibridi continuano ad ospitare i figli di operai che migliorano o che peggiorano la propria posizione sociale, i quartieri operai
vedono la scomparsa dal loro spazio fisico di quelle traiettorie di mobilità che sole sono in grado di rappresentare concretamente le possibilità di movimento sociale. Osserviamo le professioni raggiunte alla fine della carriera da chi ha abitato stabilmente in un quartiere operaio tra la nascita e il matrimonio, e tra il matrimonio e la pensione (cfr. tab. 11). Risulta chiaro dai dati come
(ad esempio per Valdoria), mentre la realtà complessiva di questo tessuto implica una distribuzione di carriere, avviate e concluse, con valori come
il 54,55 per cento di operai, il 20,00 di impiegati (tra quadri e dirigenti), il 10,91 di artigiani e commercianti..., il panorama delle professioni che emerge per gli stessi quartieri, ma nella fase postmatrimoniale del ciclo di vita, sia sensibilmente ridotto ed imploso: abbiamo infatti solo il 10,20 per cento di impiegati, il 6,12 di artigiani e commercianti. Una elevata osmosi dunque che i saldi tra le percentuali delle distribuzioni relative ai due cicli ? Anche la letteratura sui ruoli sociali e imeccanismi ad essi legati è assai vasta. Io mi sono riferito soprattutto a concetti come quello di role-set proposto da Merton e ai lavori di Gluckman e di Southall. Di quest'ultimo, in particolare, ho trovato utile la distinzione tra ruolo e relazione di ruolo. R. K. Merton, The role-
set: problems in sociological theory, in «British Journal of Sociology», n. 2, 1957; A. Southall, An operationa! theory ofrole, in «Human Relations», n. 1, 1959; M. Gluckman, Custorzs and conflict in Africa, Oxford 1955; Id., Les rites de passage, in Id. (a cura di), I/ rituale nei rapporti sociali, Roma 1972.
Ambienti di riferimento, congiunture storiche e integrazione
85
di vita illustrano bene: dopo il matrimonio affluiscono nei quartieri professionali numerosi individui con carriere e traiettorie operaie (+23,00), mentre si allontana una percentuale rilevante di impiegati (-9,80) e di artigiani e commercianti (-4,79). Per il campione di Madonna di Campagna l'andamento è analogo: anche qui la fisionomia sociale degli «adulti» che si fissa nei quartieri operai indica un forte restringimento delle possibilità di partenza. Tale dinamica - qui illustrata in maniera aggregata - è peraltro presente in tutto l’arco cronologico considerato, come mostrano i saldi riportati, per le stesse variabili, ma divisi per classi d’età, nella ta-
bella 12. Quali sono le conclusioni che è possibile trarre dalle scelte di stanziamento? Chi resta o approda in un quartiere operaio dopo il matrimonio si trova a condividere un ambito di relazione strettamente operaio che non riflette il tasso di mobilità sociale distintivo della popolazione nel suo complesso né il tasso di avanzamento ottenuto dagli abitanti dei quartieri stessi. Accanto al grande turnover endemico dei quartieri operai (le cui implicazioni sono state analizzate nel capitolo 1), va dunque notato come essi costituiscano un mondo che lascia decantare le figure sociali meno dinamiche e che soprattutto tende ad escludere la compresenza di diverse situazioni familiari, espressione dei diversi livelli di mobilità che costituiscono il ciclo di integrazione urbano. Tali compresenze sono invece l’elemento distintivo e preponderante nell’orizzonte di chi si sposta sul territorio
o vive in un quartiere socialmente ibrido: se osserviamo un quartiere a caso del centro cittadino e prescindiamo dalle figure (pure quotidianamente
Tabella 11.
Professioni raggiunte dalla popolazione di un quartiere operaio stanziata nella prima fase del ciclo di vita comparate con le professioni raggiunte dalla popolazione stabile nella seconda fase del ciclo di vita; saldi delle percentuali dei due gruppi. Valdoria
Madonna di Campagna
nascita matrimonio
matrimonio pensione
saldo
nascita matrimonio
matrimonio pensione
saldo
Operai
54,55
71:55
+23,00
51,69
71,74
+20,05
Impiegati Commerciantie artigiani
20,00 10,9I
10,20 6,12
-9,80 —-4,79
DZ 11,80
9,78 L33777
-12,69 +1,97
Servizi
3,64
4,08
+0,44
4,49
4,35
-0,14
Settore pubblico
3,64
2,04
-1,60
TN
0,36
- 0,76
Diversi
5,45
0,00
#3:45
7:87
0,00
=8]
Mancanti
1,82
0,00
—1,82
0,56
0,00
- 0,56
Totale %
100,00
100,00
Totale casi
165
147
0,00
-18
100,00
100,00
356
552
0,00
+196
86
Capitolo quarto
presenti e quindi importanti) estranee al mondo migratorio e operaio, possiamo comunque trovare un microcosmo sociale che comprende l’arco completo dei ruoli ricoperti dalle famiglie attraverso il tempo e lo spazio del loro ciclo di integrazione nella città. Possiamo trovare Teresa Campo, che già conosciamo: la vedova di Valdoria immigrata in Argentina e che, ritornata povera e con tre figli, vive negli anni ’20 in una piccola soffitta del centro cittadino. Non molto distante da lei — a soli due isolati — abita invece Vittorio Rolle con la sua famiglia. Vittorio è coetaneo di Teresa e, a suo tempo, anch'egli era immigrato in America ma, a differenza di lei, ha ottenuto in seguito un buon lavoro come tecnico tipografo nel più importante giornale torinese. Sempre nella stessa zona troviamo Domenico Odasso, operaio meccanico, immigrato da Valdoria con la moglie e il figlio, ed infine Giacomo Quarello, il fratello di un abitante di Madonna di Cam-
pagna, proprietario di un piccolo negozio di generi alimentari che il figlio erediterà e amplierà. L’enumerazione potrebbe continuare, sottolineando come in questi ambiti, all’opposto di quanto avviene nei quartieri operai, risulti favorita la coesistenza di individui e famiglie situati in momenti diversi del loro ciclo di vita e che hanno fortune diverse. Gli esempi sono scelti a caso ed è probabile che queste persone specifiche non si siano conosciute. Ma ciò che conta è che ciascuno di essi ha sicuramente conosciuto altte figure dai destini analoghi che rappresentavano insieme una parte della loro storia passata e una parte di quella possibile futura. Il carattere
Tabella 12.
Saldi tra le professioni raggiunte dalle popolazioni presenti nei quartieri operai nella prima e nella seconda fase del ciclo di vita. Operai
Impiegati
St:
Servizi
fa
Madonna di Campagna
1873-1891
+5,74
1892-1901
+5,60
+2,38
=
3314 —6,85
+4,76
—5,88
1902-I9I1 1912-1925
+17,83 +4,17
—11,00 +6,05
1926-1937
+18,42
—4,50 —12,24 -16,03
—-2,33 +0,26 +0,71
+1,75 —2,27
1873-1891
-—42,86
=
+42,86
-
-
1892-1901 1902-I9II 1912-1925
+50,00 +17,86 +13,34
-11,61 +1,66
-6,25 —20,00
+10,00
—50,00 — +1,66
1926-1937
+ 30,56
-13,89
-16,67
ù
—
+1,44
=
Si
Valdoria
Ambienti di riferimento, congiunture storiche e integrazione
87
più significativo dello spazio ibrido è che la differenziazione di ruoli e fisionomie di cui è pervaso fa emergere una diversa «interpretazione » della propria storia e delle proprie possibilità sociali. Qui l’identificazione, quando scatta, è necessariamente diacronica e dinamica: figure come quel la di Teresa Vittorio hanno in comune l’emigrazione transoceanica; Domenico, Giacomo, e tutti gli altri sono recenti immigrati; Caso
ora
commerciante, è stato anche operaio... Nelle fasce più stabili dei quartieri operai l’identificazione sembra poter avvenire solo sul piano sincronico e, abbiamo visto, «smussato » della realtà sociale. Non è quindi casuale — e stupirebbe il contrario — che la quasi totalità delle carriere maschili di chi è stato socializzato in un quartiere operaio inizino con un apprendistato affiancato spesso da una scuola professionale serale e continuino nella fab-
brica seguendo la gerarchia professionale operaia. Per le donne il percorso è, analogamente, quello della professionalizzazione che passa attraverso 6 apprendistato in i sartoria ma che sfocia quasi sempre in un'attività d’appoggio casalinga, parallela all'occupazione del marito. Forse il termine «identificazione » che ho appena utilizzato, rischia in questo caso di generare malintesi. Esso non intende infatti riferirsi alla scelta cosciente di un ruolo e di una figura sociale operati all’interno del ventaglio delle possibilità oggettivamente raggiungibili a partire dalla pro-
pria posizione e dal più generale contesto storico. Credo invece che si possa cogliere con più esattezza il fenomeno se lo si pensa nei termini di una scelta limitata all’interno del panorama di opzioni e di riferimenti più facilmente percepibili dalla razionalità del soggetto; di una scelta quindi sf dotata di logica, ma guidata da una «razionalità limitata»*. E il panorama 8 Il tema della razionalità nei comportamenti sociali è da sempre al centro di dibattiti accesi. Nato negli studi di filosofia politica, questo tema è stato accettato e sviluppato soprattutto nel campo della ricerca economica e, in un secondo tempo, in quella sociologica e storico-sociale (il più recente e interessante contributo sta in aa.vv., Rationalité et comportement économique, in «Revue Economique», n. 1, 1984). Senza
affrontare i termini dei vari dibattiti voglio qui unicamente sottolineare come tutto il mio lavoro abbia fatto emergere un modello di comportamenti sociali che presuppone una razionalità individuale. Abbiamo infatti visto che ciascuno, in ogni momento della sua vita, percepisce un ventaglio di possibilità più o meno ampie. Le scelte che man mano vengono operate — anche quelle più apparentemente disastrose e anche quelle inconsce — sono operate sulla base di una valutazione e di una propensione individuale che agisce razionalmente. Naturalmente non sulla base di una razionalità assoluta in grado di valutare tutti gli elementi implicati; ma sulla base di una «razionalità limitata». Nel modello che ho costruito, lo si è visto, i «limiti» (intesi
nell’accezione neutra e non normativa del termine) derivano non solo dalla posizione sociale del soggetto ma anche dalla sua storia familiare, dal suo percorso di integrazione urbana, dalla quantità e dalla qualità delle
informazioni che è riuscito a raccogliere, o a percepire, dalle visioni del mondo e dalle propensioni che ha maturato. Anche qui, faccio quindi riferimento alla definizione di «razionalità limitata» di Raymond Boudon citata in introduzione alla p. xx1v. Ma pur dando una definizione interessante ed esaustiva, Boudon non offre un’applicazione pragmatica di questi concetti che sia utilizzabile per la ricostruzione dei fatti sociali. In questo senso il lavoro a mio parere pit stimolante è invece quello di Frederick Barth il quale, sulla base di dati empirici, è stato in grado di costruire un modello capace di rendere conto sia delle costrizioni sia delle libertà individuali: Barth, Process and form in social life cit.; cfr. pure il dibattito sul lavoro e sulle ipotesi di Barth riportato in Kapferer (a cura di), Transaction and meaning cit. Utili inoltre sono i lavori di H. A. Simon, e in particolare La ragione nelle vicende umane, Bologna 1984, in cui si trova anche una ricca bibliografia sull’ar-
gomento.
88
Capitolo quarto
di un quartiere operaio è, come abbiamo visto — agli occhi di chi vi è nato e vi ha trascorso comunque la giovinezza -, quello di un ambiente da cui «spariscono» le traiettorie in forte mobilità ascendente cosî come quelle più critiche. Sono queste informazioni «parziali » — che riducono la complessità delle dinamiche sociali — a pesare sulla razionalità di chi, avendo conosciuto solo il mondo dei quartieri operai, deve immaginare e costruire le proprie scelte e il proprio percorso professionale. La forza di questo meccanismo è d’altronde confermata dal fatto che chi è stato socializzato in un quartiere operaio riesce ad avere una buona mobilità solo quando il suo universo di parentela è in grado di fornire esempi di stratificazione professionale e di carriere analoghi a quelli che i quartieri ibridi forniscono giornalmente attraverso le loro maglie di relazione. Consideriamo infatti ad esempio la tabella 13, in cui sono riportati i casi di mobilità raggiunta da chi è stato socializzato all’interno dei quartieri operai in rapporto alla posizione relativa dei suoi genitori all’interno dell’universo di parentela. Come si può notare, le percentuali più alte di mobilità ascendente si registrano negli individui i cui genitori sono in una posizione di mobilità relativa negativa rispetto a fratelli o cugini primi. In altri termini, mentre nel caso di Valdoria il 52 per cento di chi ha almeno uno zio con una professione più alta di quella del padre mostra una traiettoria di mobilità ascendente, solo il 12,73 per cento tra coloro il cui padre ha una professione pari o migliore di fratelli o cugini, raggiunge una mobilità positiva. Ancora una volta, anche il campione di Madonna di Campagna conferma la particolare significatività della relazione. Tabella 13.
Individui vissuti stabilmente dalla nascita al matrimonio in un quartiere operaio: rapporto tra posizione relativa del padre e mobilità professionale raggiunta. Posisionsisla na del padre
Mobilità professionale ; discend.
nessuna
ascend.
%
6,67 21,82
41,33 65,45
52,00 12573,
100,00 100,00
75 55
4,72 17,88
16,98 48,04
78,30 34,08
100,00 100,00
106 179
frequenza
Valdoria Negativa Zeroo positiva probabilità di xy? = 0,0001.
Madonna di Campagna Negativa Zero o positiva probabilità di x? = 0,0001.
Ambienti di riferimento, congiunture storiche e integrazione
89
3. Mobilità professionale e congiunture storiche.
Analizzando il ciclo di integrazione, ho spesso considerato i percorsi individuali, le loro difficoltà come i loro successi, assumendo come elemento
centrale alle dinamiche di ogni famiglia l’esperienza delle diverse generazioni e la memoria che questa costituisce per la generazione successiva. Ho mostrato infatti come molte delle spiegazioni dei comportamenti sociali siano legate all’anzianità di stanziamento, alle attitudini sviluppate dalle famiglie nel corso di più generazioni. Ora occorre invece spostare il fuoco dall’unità della generazione alla considerazione più attenta delle classi d’età per misurare il peso che le crisi e le congiunture politiche hanno avuto nel mondo torinese e in quello operaio in particolare. E vero infatti, come si è visto, che le opportunità si creano o si cancellano nel gioco intrapreso nel mondo delle relazioni familiari e di quartiere, con le figure concrete che compongono la realtà quotidiana di ogni attore sociale. Ma è anche vero che questo stesso mondo modifica le sue risposte e le sue solidarietà anche grazie ad una sensibilità molto acuta agli andamenti generali dei processi storici. Ci sono dunque anche delle determinazioni che crescono nell’orizzonte di gruppi di individui, unificati dall’appartenenza ad una stessa classe d’età. Individui che negli stessi momenti del loro ciclo di vita incontrano crisi, momenti di crescita economica, con-
giunture politiche come le guerre o i cambiamenti di regime”. Nei cinquant’anni coperti dal ciclo di integrazione delle famiglie la città ha vissuto due guerre, due crisi economiche, due cambiamenti di regime, due momenti di sviluppo. In questo panorama - che potrebbe sembrare quasi un percorso ad ostacoli — si sono adattate le vite dei personaggi che abbiamo seguito. Misurare il peso di questi eventi non è stato facile. La divisione per classi d’età che ho finora utilizzato deriva da un lungo lavoro di elaborazione attraverso cui ho scomposto e riunito parecchie volte gli individui dei campioni in gruppi d’età diversi, ampliando o chiudendo le soglie degli anni di nascita; spostando e unificando diversamente le classi d’età. Questo per capire quali delle congiunture torinesi tradizionalmente considerate come determinanti e critiche, mostrasse un peso reale; in quale
forma e in relazione a quale classe d’età. Di fatto, pur considerando diversi ? L’analisi dei comportamenti sociali di gruppi di classi d’età è sviluppata in particolare all’interno de-
gli studi già citati sulla /e course analysis. In questi studi si sottolinea l’importanza che assume la variabile «classe d’età» per chiarire il rapporto individuo-famiglia-società. Cfr. T. Hareven, Cycles, courses and cohorts: reflections on theoretical and methodological approaches to the historical study offamily development, in «Journal of Social History», n. 2, 1978; P. R. Uhlenberg, A.study of cohort life cycles: cohorts of native born Massachussetts’ woman. 1830-1920, in «Population Studies», n. 23, 1969. Per un’applicazione più estensiva e formalizzata del concetto di cobort, cfr. D. W. Hastings e L. G. Berry (a cura di), Cobort analysis: a collection of interdisciplinary readings, Knoxville 1980.
90
Capitolo quarto
raggruppamenti d’età, sono emersi come determinanti due momenti cruciali che questa divisione specifica permette di descrivere con più pertinenza. Essi sono, da un lato, la congiuntura negativa data dalla prima guerra mondiale a cui segue, quasi immediatamente, la crisi degli anni ’20, e, dal-
l’altro, la congiuntura positiva che si registra fin dagli anni °30 e che segna la netta ripresa economica e soprattutto il massiccio decollo della mobilità professionale. Due momenti che nella loro relazione sono estremamente interessanti perché ci mostrano la forma generale di un processo che, dalla crisi del primo dopoguerra, vede, già con il fascismo, l’inizio di quella crescita che continuerà negli anni ’50. Osserviamo innanzitutto le ripercussioni negative più evidenti. Come
si può notare dai dati riportati nella tabella 14, fra tutte le classi d’età che compongono i campioni, quella dei nati tra il 1892 e il 1901 è senz'altro la più penalizzata. Sia per il campione di Madonna di Campagna che per quello di Valdoria, essa presenta infatti la flessione più netta dei casi di grande mobilità ascendente. Questa classe è l’unica, tra quelle centrali dei campioni, in cui la mobilità ascendente si restringe in misura tale da esprimere quasi esclusivamente esempi di piccola mobilità. Inoltre, in questo caso, la flessione della mobilità ascendente non è neppure compensata da =
Tabella 14. Rapporto tra classi d’età e mobilità professionale. Mobilità professionale discendente grande piccola
nessuna
ascendente piccola grande
%
frequenza
5 4,44
9,84 IL,II
32,79 33,33
27,87 37,78
29,51 13,33
100 100
61 45
16,67
38,89
15,28
29,17
100
79
vor-1925"
(492
11,47
31,150
24,590
27,8]
oo
éi
1926-1937
-
6,67
31,67
45,00
16,67
100
60
Totale
IR O7
AMO
33,78
29,I0
24,08
100
299
1873-1891 1892-1901 I1902-I9II
Oglio 8,26 1,64
e II1,0I 10,66
43,18 35,78 38,52
5210057,
30,43
1926-1937
-
8,57
28,57
100 100 100 100 100
88 109 122
1912-1925
29,55 17,05 3035 31642 291070021531 20397002383 ZO}OST23581
Totale
deri
52
35,20
31,87
100
662
Valdoria
1873-1891 1892-1901 1902-I9II
Madonna di Campagna
19,94
115 105
Ambienti di riferimento, congiunture storiche e integrazione
9I
una maggiore stabilità. Una percentuale rilevante di individui mostra infatti un percorso di caduta o perlomeno di regressione (la percentuale di mobilità negativa è nel caso di Madonna di Campagna la maggiore in assoluto). I dati indicano dunque come questo gruppo abbia attraversato una serie di congiunture negative che hanno pesato — più che per altre classi d’età — in maniera unidirezionale sui percorsi individuali. Il ruolo determinante della prima guerra mondiale (e della crisi economica che la segue da vicino) nel provocare questa flessione è evidente. L’unione di questi fattori dà luogo infatti ad una congiuntura critica che è la più lunga tra quelle registrate nel corso del secolo”. Ma i dati scorporati mostrano come, ancora una volta, le determinazioni dell'ambiente si riper-
cuotano con forza sui percorsi individuali quando esse si inseriscono in un momento cruciale del ciclo di vita. Quanti hanno avuto un percorso di stasi o di scarsa mobilità si sono altresf trovati, allo scoppio della guerra, nella fase più critica della propria carriera professionale. Molti degli appartenenti alla classe d’età considerata hanno, a quella data, tra i 13 e i 17 anni. Sono quindi persone che hanno appena iniziato o appena finito il loro apprendistato professionale. Non ho potuto utilizzare — se non in pochi casi attraverso le fonti orali — i dati sull’arruolamento di questa classe. Non è quindi possibile sapere quante di queste persone siano partite per il fronte e quante invece siano rimaste a lavorare nelle fabbriche militarizzate (una grande percentuale di operai torinesi non ha partecipato direttamente alla guerra per garantire la produzione bellica). In ogni caso rimane il fatto che gli anni più critici della formazione professionale di questa classe d’età scorrono all’interno di un quadro politico ed economico che per lungo tempo vedrà da un lato l’irrigidimento e la chiusura del mercato del lavoro cittadino e dall’altro la restrizione delle possibilità di accesso a forme più complete di specializzazione o di diversificazione quali quelle offerte dalla frequenza delle scuole serali. Questo fenomeno di «simpatia negativa» tra congiuntura storica e professionalizzazione interrotta è particolarmente evidente all’interno delle famiglie operaie più mobili. In molte di esse le traiettorie meno dinamiche sono proprio quelle di chi appartiene a questa classe d’età. Fratelli più anziani o più giovani, anche di pochi anni, mostrano infatti di aver potuto godere di una accresciuta possibilità di professionalizzazione. Inoltre va forse notato che rientrano in questo gruppo anche le traiettorie di chi vede concludersi all’interno di questa congiuntura una parabola familiare di mobilità discendente. Tra i miei dati questo fenomeno si presenta in quantità minime e unicamente per il campione di Madonna di 10 Sulla crisi del primo dopoguerra a Torino cfr. G. Prato, I/ Piemzonte e gli effetti della guerra sulla sua vita economica e sociale, Bari 1925; V. Castronovo, I/ Piemonte, Torino 1977, pp. 286-389.
92
Capitolo quarto
Campagna. Ma esso è estremamente interessante per le dinamiche che lascia trasparire. Delle 5 famiglie di origine torinese registrate al censimento del 1936 nella casa operaia di Madonna di Campagna, 3 sono infatti composte da figli della classe media torinese. Dalla ricostruzione d’archivio sappiamo infatti che le famiglie di provenienza erano, fino all’inizio del secolo, di condizione agiata. Le professioni dei capifamiglia registrate all’anagrafe erano quella di «editore », di «imprenditore dolciario», e «professore di scuola media». Sono famiglie che entrano in crisi in anni diversi e per ragioni differenti. Per tutte, in ogni caso, è la congiuntura degli anni "15-21 a segnare il momento culminante della traiettoria discendente. E alla fine di questo periodo che vedremo comparire persone come Giulio Neirotti (uno dei figli dell’imprenditore) tra gli operai semplici di una grande industria torinese. Certo i casi registrati sono pochi: 5 persone nella classe 1892-1901. Ma da un lato essi giustificano la percentuale dell’8,26 per cento di grande mobilità ascendente registrata per questo gruppo all’interno del campione di Madonna di Campagna. Dall'altro essi costituiscono un caso esemplare, pur se limitato, che conferma non soltanto il ca-
rattere cruciale di questo momento storico ma anche l’interpretazione «dinamica » della società torinese che alcuni osservatori dell’epoca davano. Per alcuni intellettuali liberali come Prato, ma anche per socialisti come Casalini, la guerra e il periodo che segue non vedono, a Torino, un mondo immobile e chiuso in compartimenti stagni, ma piuttosto gruppi sociali in continuo movimento, che cercano dei possibili equilibri. Per costoro la guerra era stata l'elemento di rottura degli ultimi equilibri tradizionali ri-
masti; responsabile quindi sia di una crisi drastica e della recessione delle classi medie, sia dell’ascensione delle forze sociali nate ed impostesi con la concentrazione urbana e l’industrializzazione". Si è visto, nel corso del lavoro, come la lievitazione delle nuove forze sociali, pur se reale, non sia
certo stata dell’ampiezza da essi prevista. Ma, anche se in forma totalmente indiziaria, idati di Madonna di Campagna suggeriscono che, effettivamente, la crisi delle classi medie ha impresso un’indubbia accelerazione delle dinamiche di turnover e di mobilità interne al panorama sociale cittadino. D'altronde che gli anni tra le due guerre siano un periodo caratterizzato dalla ripresa sembra confermato, in modo ancora pit esplicito dal secondo aspetto, quello dell’incremento della mobilità professionale in tutte le classi d’età successive. Se infatti osserviamo i casi di grande mobilità ascendente, possiamo notare come le flessioni e le variazioni più significa!! Cfr. G. Casalini, Discorso alla Camera dei Deputati, in «Atti Parlamentari», seduta del 18 ottobre 1917, Roma 1917; Prato, I/ Piemonte cit. Un articolo molto interessante che dà la misura delle paure ma anche delle speranze suscitate da quelli che all’epoca apparivano come gli sconvolgimenti sociali del primo dopoguerra, è quello di P. Carrara-Lombroso, Ex poveri ed ex ricchi, in «Gazzetta del Popolo», 7 agosto 1923.
Ambienti di riferimento, congiunture storiche e integrazione
93
tive avvengano unicamente nelle classi d’età più estreme: tra i primissimi immigrati e tra i nati dopo il 1926. Gli appartenenti alle classi centrali (nati tra il 1902 e il 1911 e tra il 1912 e il 1925), che iniziano e compiono la maggior parte della loro carriera nel periodo tra le due guerre mostrano le percentuali più alte di mobilità ascendente. Anche la flessione relativa dei casi di grande mobilità ascendente che si accompagna, per l’ultima classe d’età, ad un aumento considerevole dei casi di piccolo avanzamento (il
massimo per entrambi i campioni) conferma come il momento di maggior
dinamismo sia a monte dei mitici anni ‘50. Il netto impulso alla mobilità che si osserva per i nati dopo il 1912 si propaga infatti alla classe seguente, per poi riassorbirsi negli avanzamenti di minor ampiezza di coloro che vivono in prima persona il secondo dopoguerra. Se dunque è vero che quest'ultimo gruppo è quello che raggiunge le posizioni professionali più qualificate e socialmente elevate, è altrettanto vero che le spinte dinamiche che lo sorreggono sono nate a monte della guerra. La tendenza è chiara ed estremamente marcata per entrambi i campioni. Certo è che se gli anni ’20 e 30 appaiono segnati dalla netta ripresa della mobilità, ciò nondimeno se confrontiamo le distribuzioni dei due cam-
pioni vediamo come le forme del ciclo di integrazione emergano anche al di sotto di queste tendenze. Per i valdoriani come per gli individui di Madonna di Campagna, gli anni tra le due guerre segnano sicuramente l’inizio della piena integrazione nella città, ma sono i valdoriani — inurbati da più tempo — a risentire per primi gli effetti della congiuntura positiva. C'è infatti una leggera ma sostanziale sfasatura tra i dati dei due campioni: l’ingresso anticipato dei valdoriani nei confronti di Madonna di Campagna è correlato all’anticipo del fenomeno di risonanza tra le traiettorie individuali e le congiunture del periodo. In particolare è interessante notare (osservando sempre la tabella 14) come l’incremento più netto dei casi di
grande mobilità ascendente si concretizzi per Valdoria già nella classe dei nati tra il 1902 e il 1911, mentre per Madonna di Campagna questo incremento si verifichi nella classe seguente. Un po’ come due onde di simile intensità e ampiezza, ma sfasate tra di loro, le mobilità professionali dei due 1? Questi dati sembrerebbero dunque sottolineare come gli anni ’50 e il boom economico che li ha caratterizzati siano il prolungamento di una crescita iniziata nel corso degli anni 30 e non tanto, come vorrebbero alcune ipotesi, un fenomeno specifico legato alla ricostruzione del secondo dopoguerra. Tuttavia, per confermare senza possibilità di equivoci questa ipotesi, sarebbe necessario indagare con più ampiezza sull’attività e sui comportamenti delle altre forze sociali cittadine. Per il dibattito sull'economia italiana in epoca fascista vista come fase di stagnazione o come momento del decollo industriale italiano, cfr. inumeri monografici 29-30 di «Quaderni Storici» curati da P. Ciocca e G. Toniolo, L'economia italiana nel periodo fascista, 1975. Tra i vari articoli cfr., soprattutto, P. Ciocca, L'Italia nell'economia mondiale 1922-1940; G. Tattara e G. Toniolo, Lo sviluppo italiano tra le due guerre. Cfr. inoltre E. Rossi, I padroni del vapore e il fascismo, Bari 1963; F. Bonelli, Protagonisti dell'intervento pubblico: Alberto Beneduce, in «Economia Pubblica», n.
3, 1974.
94
Capitolo quarto
campioni si gonfiano toccando i loro apici nelle classi centrali, per poi scaricarsi sulle ultime qui considerate. Ma, mentre per Valdoria il ciclo si conclude con la classe dei nati dopo il 1926 (che avranno solo il 16,67 per cento dei casi di grande mobilità e ben il 45 per cento di piccola mobilità ascendente), per Madonna di Campagna non è possibile osservarne la fine poiché il ciclo si esaurisce a valle del campionamento. In questo campione, i nati dopo il 1926 hanno quindi ancora un tasso di grande mobilità ascendente, che è superiore al 20 per cento dei casi. Per concludere, va ricordato che se globalmente gli anni tra le guerre sono un momento di mobilità ed effervescenza del mondo sociale, nello
stesso tempo è proprio in questo periodo che si manifestano e diventano pienamente attivi molti di quegli elementi di diversificazione che abbiamo lungamente analizzato. Le classi centrali, che mostrano i maggiori segni della ripresa, sono infatti quelle stesse che, in entrambi i campioni, si sono maggiormente differenziate al loro interno. Basti ad esempio riflettere sulla classe dei nati tra il 1902 e il 1911 nel campione di Valdoria. Abbiamo appena visto come siano questi individui a mostrare per primi una netta mobilità ascendente. Ma, considerando anche solo le dinamiche di questo gruppo in rapporto al loro stanziamento nella prima fase del ciclo di vita (l’opposizione analizzata nel primo paragrafo tra quartieri ibridi e quartieri operai), dobbiamo ammettere che questi individui hanno subito, più dei loro genitori e dei loro figli, gli effetti diversificanti interni al percorso urbano. L’aver vissuto o no nel corso della giovinezza all’interno di un quartiere operaio ha infatti implicato per essi quasi automaticamente la stasi o l'avanzamento professionale. Se poi consideriamo anche le altre variabili che sono emerse — quali l'ampiezza della famiglia d’origine, la forma e la storia dei rapporti di parentela, la scolarità ecc. — possiamo osservare come proprio a partire da questa classe e nel corso degli anni tra le due guerre si giochino con più forza tutte le determinazioni che pesano sull’identità e sulle possibilità di ogni attore sociale come dei suoi figli. Certo questo fenomeno è legato alla natura dei campioni. Le classi centrali sono il trait d’union tra le generazioni dei primi immigrati e quelle dei torinesi già integrati nella vita della città. In esse si rispecchiano le scelte dei primi e le possibilità dei secondi. Ma l’entità e la particolarità della frattura — che si localizza in un momento di cambiamento politico e di ristrutturazione industriale — sottolineano anche come le generazioni centrali abbiano dovuto far fronte, più dei loro padri e dei loro figli, ad una situazione che, pur in presenza di un’accresciuta possibilità di promozione sociale, richiedeva forse per la prima volta ai singoli una spiccata capacità di rielaborazione totale delle strategie e dei comportamenti individuali fino ad allora adottati.
Ambienti di riferimento, congiunture storiche e integrazione
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I tardi anni °20 ma soprattutto gli anni ‘30 ci appaiono dunque come un «calderone sociale», un melting pot che a Torino è giunto al culmine della sua ampiezza. Sono infatti questi anni che vedono il massimo della concentrazione operaia della città. Più ancora che nei primi anni del secolo, aumenta il numero delle fisionomie e delle attitudini sociali presenti nel mondo operaio. Ma il caos, lo si è visto, è solo apparente. Queste sfaccettature rappresentano anche le tappe di quello che ho finora chiamato «ciclo di integrazione urbano» ma che possiamo individuare - considerando in particolare il mondo operaio — anche come un percorso interno alla condizione operaia. Perché di questo si tratta: il ciclo di integrazione l'apprendimento di una razionalità urbana— nella sua fase centrale significa anche la lenta ascesa all’interno dei confini del mondo professionale operaio. Non attraverso le qualifiche del lavoro ma attraverso tutta quella gerarchia di attitudini che, una volta appresa, costituisce la molla del salto sociale verso le classi medio-alte. Non si tratta tuttavia di un salto sociale repentino, perché questo percorso si manifesta di fatto come un continuum. Consideriamo le ultime classi; quelle dei nati dopo il 1926 e che, lo abbiamo visto, raggiungono (soprattutto nel caso di Valdoria) le professioni più alte. Molti di questi nuovi impiegati, quadri, e dirigenti, sono figli di operai. Ma non di operai in senso generico: i loro genitori sono, nel 90 per cento dei casi, proprio quelli che hanno raggiunto quella mobilità, per cosi dire, «culturale », interna al mondo operaio che di fatto li ha avvicina-
ti ad altri gruppi sociali. Gli anni °50 rappresentano al massimo grado questo fenomeno. E questa mobilità interna raggiunta da gran parte dei gruppi operai osservati che si riflette quasi automaticamente nei risultati dei figli 13 Naturalmente con ciò non voglio sostenere che il fenomeno della mobilità si risolva in questi aspetti e tanto meno che le possibilità di miglioramento sociale dipendano unicamente dalle scelte individuali come vorrebbe ad esempio l’ideologia dell’ Azzerican dream proposta da lavori come quello di Warner. Per definire esattamente il peso di questi fattori nelle diverse classi d’età appartenenti ai diversi gruppi professionali, bisognerebbe d’altronde poter definire il grado di «mobilità strutturale» presente a Torino negli anni considerati; stimare cioè il tipo e la quantità di mobilità provocata dall’ampliarsi o dal restringersi dei diversi settori occupazionali. Questo non è però possibile per la situazione torinese della prima metà del secolo poiché mancano dati affidabili a cui fare riferimento. Oltre al censimento industriale del 1911, fino al 1951 abbiamo infatti unicamente il censimento industriale del 1927-29. Un censimento quindi fatto in un momento economicamente critico (rivalutazione della lira, «quota 90», e crisi del 29-30) i cui dati sono inoltre scarsamente unificabili con quelli del 1911 (soprattutto a livello locale poiché mancano categorie disaggregate utilizzabili). Non esistono infine neppure studi su scala nazionale cui fare riferimento. Ma, fatte queste premesse, devo dire che ciò non sembra limitare la portata dei risultati raggiunti. Innanzitutto perché la mia indagine si colloca, di fatto, all’interno del fenomeno della mobilità strutturale. Dopo aver misurato la quantità totale di mobilità espressa da tre generazioni di individui, vengono analizzati i meccanismi di differenziazione interni a questo gruppo. Gli indici di mobilità utilizzati sono quindi parametri relativi e standardizzati su un gruppo preciso. In secondo luogo, quest'ottica particolare mi è servita
per leggere le modificazioni delle percezioni e delle aspirazioni, cosi come i lenti cambiamenti nei comportamenti e nelle razionalità familiari interne al mondo operaio. E questa l’unica ottica che ci permette di definire itermini del consenso e degli antagonismi sviluppati dalle aggregazioni sociali. Questo tema è d’altronde presente anche in studi classici sulla mobilità che si sono occupati di indagare sui rapporti tra socializza-
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Capitolo quarto
Se non consideriamo questa mobilità culturale interna, il rapporto tra mondo dei colletti blu e mondo dei colletti bianchi ci appare molto più distante di quanto ci appaia quello tra manovali e operai. In effetti è vero che su 100 figli di manovali ben 50 diventano operai, mentre su 100 figli di operai solo 30 diventano impiegati; ma se non consideriamo il mondo operaio come un tutto unico privo di stratificazioni interne, potremmo vedere come 25 dei 30 impiegati siano figli di quei 50 operai che hanno avuto una mobilità «culturale » interna al loro gruppo e solo 5 siano figli dei restanti 50 che si trovavano invece ancora in una fase precedente del loro percorso. zione, ambiti di relazione ed esperienze individuali e familiari di mobilità; ma non è mai stato trattato nei termini di percorsi familiari complessivi e per chiarire esplicitamente le dinamiche di aggregazione sociale in un processo temporalmente ampio.
Il senso di queste distinzioni sarà ulteriormente chiarito nei prossimi capitoli. Qui voglio infine far notare come esista un unico lavoro sul rapporto tra mobilità sociale e stratificazioni «culturali» interne ai gruppi operai torinesi. E quello di N. Negri che analizza però il secondo dopoguerra (1960-80). Interessante è che Negri ci restituisce una fisionomia del mondo sociale torinese sorprendentemente analoga a quella che emerge dai miei dati, e ciò nonostante l’enorme allargamento del raggio di provenienza degli immigrati. Negri concludendo il suo lavoro parla infatti di Torino come di una città in continua «transizione»; una città in cui i gruppi sociali si differenziano al loro interno in rapporto all’anzianità di stanziamento e quindi all’apprendimento di modelli urbani. Gli immigrati dal Sud italiano (che formano i gruppi operai nel secondo dopoguerra) che nella prima fase di integrazione sono discriminati per la loro appartenenza etnica, sviluppano successivamente una «tendenza ad una relativa emancipazione da queste discriminazioni». Tendenza che «dipende soprattutto dal modello di organizzazione familiare messo in atto dai soggetti considerati: da quelle che si sono chiamate “astuzie del privato” » (N. Negri, I nuovi torinesi: immigrazione, mobilità e struttura sociale, in G. Martinotti (a cura di), La città difficile, Milano 1982, p. 53). Inoltre, sulla «mobilità netta» (Azzerican dream), cfr. W. L. Warner, Social class in America, Chicago 1949. Per un approccio sulle esperienze di mobilità individuale e familiare in rapporto alla socializzazione cfr. R. Bendix e C. Lipset (a cura di), Com-
portamento sociale e struttura di classe, Padova 1971; Hershberg (a cura di), Philadelphia cit. Sul ruolo della famiglia e dei rapporti di parentela nella mobilità cfr. E. Litwak, Occupationa! mobility and extended family cohesion, in «American Sociological Review», n. 1, 1960; A. Pitrou, Le soutien familial dans la société urbaine,
in «Revue frangaise de Sociologie», n. 18, 1977.
Parte seconda
La fisionomia del processo di industrializzazione torinese inizia ormai a chiarirsi. In primo luogo abbiamo visto come il fenomeno migratorio convogli in città, in modo massiccio e continuo, richieste e identità sociali
differenziate fin dall'origine. Analizzando i percorsi di centinaia di immigrati abbiamo poi osservato come la loro presenza all’interno del mondo operaio rappresenti una tappa di una traiettoria di integrazione più vasta, che unisce nello spazio di poche generazioni la campagna con la città, i lavori agricoli con gli strati medio-alti torinesi. Inoltre, ricostruendo i percorsi familiari attraverso le fasi di quello che ho definito come il «ciclo di integrazione urbana», abbiamo potuto notare come essi si frammentino in ritmi diversi. Le modalità migratorie, la storia familiare, la forma e la stra-
tificazione dei rapporti di parentela, le scelte demografiche, le scelte di stanziamento all’interno della città; tutti questi elementi determinano la posizione del percorso di ogni individuo, configurandosi in modo diverso in ogni orizzonte familiare, e modificano cost le identità dei suoi membri,
accelerano o contrastano la maturazione di nuove aspettative e di nuove strategie di integrazione. Rimangono aperti alcuni interrogativi non secondari. Se abbiamo chiarito le forme e gli elementi dinamici del ciclo di integrazione urbana, restano oscuri i contenuti convogliati nella pratica quotidiana dalle aggregazioni che segnano questo percorso. Giunti a questo punto del lavoro, occorre infatti chiedersi come mai una popolazione cost fluida e variegata, quale emerge dalla mia ricostruzione, possa dare luogo ad aggregazioni sociali e politiche. Quali sono in particolare gli elementi che possono aver legato, sia pure temporaneamente, queste figure all’interno dei mitici quartieri operai? Quale rapporto e quale identificazione hanno realmente avuto queste famiglie con l’ideologia socialista o con quella fascista? I dati demografici e statistici, da soli, non possono dare una risposta esauriente a tali domande. Occorre analizzare una specifica aggregazione sociale, coglierneicaratteri e i meccanismi interni. Per questo, necessariamente, l’indagine deve ora assumere una dimensione microanalitica. Ci oc-
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Parte seconda
cuperemo, in questa seconda parte del lavoro, di analizzare il percorso di quel gruppo di amici dalle cui testimonianze aveva peraltro preso l’avvio la ricerca. Si tratta di un gruppo di testimoni nati tra il 1902 e il 1911 che si erano incontrati nel corso dell’adolescenza legandosi, all’interno di un rione operaio, con un rapporto di amicizia durato fino alle soglie della seconda guerra mondiale. La loro esperienza e le loro testimonianze si sono ora rivelate — alla luce dei dati emersi — particolarmente interessanti. In primo luogo perché, attraverso i ricordi di quelli tra i testimoni che sono cresciuti in un quartiere operaio fin dalla prima infanzia, possiamo cogliere le figure e i comportamenti di chi ha condiviso la socialità del periodo «eroico» dei quartieri operai. In secondo luogo perché i loto percorsi individuali e di gruppo ci permettono di analizzare questi ambienti nel corso degli anni seguenti, caratterizzati dall’ascesa del fascismo ma anche, come abbiamo visto, dalla ripresa e dalla lievitazione definitiva della mobilità sociale. Nei prossimi due capitoli seguiremo dunque queste vicende, cercando di rispondere alle domande rimaste aperte. Le fonti sono principalmente quelle orali ma, come vedremo, solamente la ricostruzione finora fatta dei
percorsi sociali ci consente di riascoltare con un orecchio nuovo queste testimpnianze, avendo gli strumenti per scindere la razionalizzazione dai comportamenti praticati. Cosî come solo i percorsi familiari complessivi che precedono e accompagnano la vita dei testimoni, riescono a chiarirne la fisionomia individuale e sociale.
Capitolo quinto I meccanismi di aggregazione in un quartiere operaio all’inizio del secolo
I percorsi di Giuseppe Odasso, Mario Ferrero, Luigi Berra e Franco Rolle (i quattro testimoni appartenenti al gruppo di amici di Borgo San Paolo con i quali ho avuto il rapporto più continuativo) si incrociano nel 1924'. In quell’anno le famiglie Odasso, Berra e Ferrero si stabiliscono nella casa di corso Parigi 15, al centro di uno dei rioni del borgo: il Polo Nord. La casa è un edificio che la cooperativa dei ferrovieri ha appena terminato di costruire dando la possibilità ai suoi soci (tutti operai e macchi-
nisti delle ferrovie) di entrare in possesso di un alloggio riscattabile con un mutuo cinquantennale estremamente vantaggioso. I ragazzi, allora adolescenti, non hanno avuto, quindi, un’infanzia comune. Giuseppe, nato nel 1908, ha trascorso la sua infanzia nella zona
centrale di Borgo San Paolo dove i genitori, originari di Valdoria, si erano stabiliti nel 1910, a poca distanza da una famiglia di parenti. Luigi Berra è nato nel 1912 a Rivarolo, un paese della provincia torinese, in cui la sua famiglia risiede tra il 1907 e il 1913 per ragioni di lavoro. Dal 1913 al 1924 l’infanzia di Luigi e dei suoi tre fratelli (Marco, nato nel 1907, Luigia, 1909, e Gaetano, 1919) trascorre in un quartiere del centro torinese. Ma-
rio Ferrero, nato a Fossano nel 1909, ha vissuto stabilmente nel quartiere operaio di Lingotto dal 1911, anno in cui la sua famiglia è entrata in città. Franco Rolle, nato nel 1908, è l’unico tra i testimoni ad aver abitato sempre nel rione Polo Nord. È lf che il padre, vedovo quarantaduenne, appena rientrato da una lunga emigrazione transoceanica si era stabilito nel 1907, risposandosi con Maria, una giovane immigrata dal Sud dell’Italia. Quando i testimoni si incontrano hanno dunque alle spalle un’infanzia trascorsa in quartieri diversi della città. Ciascuno inoltre proviene da una famiglia con un diverso passato e con una diversa percezione di se stessa e della propria posizione sociale. Pure, colpisce come Giuseppe, Mario e Franco — i tre testimoni cresciuti in quartieri operai (pur se differenti) — diano della loro infanzia, della loro vita nei rioni e soprattutto dei ruoli familiari, un'immagine univoca. ! Sul quartiere di Borgo San Paolo e sui suoi aspetti urbanistici e sociali cfr. aa.vv., Toriro tra le due guerre cit.
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Capitolo quinto
Famiglia, vicinato, quartiere: reti di relazione e sistemi di scambio informale.
La segregazione sessuale che si esprime all’interno della famiglia in una rigida separazione dei ruoli dei genitori, è senz'altro l'elemento costante che emerge dai ricordi d’infanzia di Giuseppe, Mario e Franco. Nella loro memoria sono molto poche le occasioni in cui la famiglia èpresente al completo. Giuseppe Odasso ricorda ad esempio come questo capitasse solamente nelle grandi festività, a Natale o a Pasqua, quando ci si riuniva con la famiglia degli zii (anch’essi abitanti in città) o quando si tornava a Valdoria —- una volta l’anno — per la festa patronale. Erano queste le uniche occasioni in cui il padre e la madre dividevano comunemente il loro tempo con lui e la sorella Adele. Nella quotidianità — che nell'esperienza dei testimoni comprendeva anche la domenica - le figure dei genitori restano invece drasticamente divise. Da un lato la madre, al centro della casa e di un mondo femminile
legato allo spazio del vicinato; dall’altro il padre, legato al mondo del lavoro e ad uno spazio più esterno, quello del quartiere. Una separazione, questa, che si riflette direttamente nella struttura narrativa delle rievocazioni registrate. I ricordi di infanzia — spesso i più ricchi di rievocazioni visive di aneddoti e momenti quotidiani di vita — ci restituiscono infatti con chiarezza solo la figura della madre. Essa è ricordata per come si muoveva nella casa, quando chiacchierava con le vicine sul ballatoio 0, d’estate, se-
duta in strada con altre donne mentre controlla, sbrigando piccoli lavori, il gioco dei figli. Il padre invece non è mai colto direttamente dall’ottica infantile. Esterno al mondo della casa e dell’infanzia, la sua presenza e la sua vita sono ricostruite unicamente per induzione: «... si vede che il bicchiere andavano a berlo quando uscivano da lavorare... [ilpadre e i suoi compagni di lavoro]»‘. Gli unici ricordi diretti sulla figura del padre sono quelli legati ad episodi non quotidiani come le sanzioni. Ma, anche in questi casi, il genitore è come una presenza incombente, sebbene quasi irreale, che si concretizza in brevi momenti per poi ritornare a sparire: C'era il figlio di Testa... ogni tanto ce le ficcavamo tra noi... Ma non è nemmeno per farsi del male, no. Mio papà c’aveva due baffi che sembrava Vittorio Emanuele II... Noi eravamo sotto il portone... mentre ci stavamo picchiando... E arriva mio padre e ci divide... Non si era mica tagliato i baffi!... Come prima cosa gli faccio: «Lei Si agli affari suoi!» Non lo avevo riconosciuto! Dopo... Poi sono andato sopra!...’. ? Intervista a Giuseppe Odasso, nastro RR ra. > Ibid.
Un quartiere operaio all’inizio del secolo
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Un padre assente e una madre che domina l’universo quotidiano fanno emergere dunque una struttura di rapporti familiari che richiama molto da vicino quella osservata da E. Bott nelle famiglie da lei definite a «ruoli segregati». Famiglie cioè al cui interno i coniugi hanno pochissime o nessuna attività in comune giacché si dividono i compiti attraverso una separazione
netta dei ruoli e delle sfere di relazione". E difficile dire se questa particolare organizzazione dei rapporti familiari sia specifica delle famiglie che vivono all’interno dei quartieri operai. Infatti, mentre la prevalenza in questi ambienti di una struttura segregata della vita domestica è confermata per i primi decenni del secolo da molte altre testimonianze, nelle rievocazioni di coloro che hanno avuto un rapporto meno stabile con i rioni operai non troviamo riferimenti altrettanto frequenti e insistenti ad un modello predominante di relazioni familiari. Dai ricordi di Luigi Berra sembra che la vita dei genitori in un quartiere del centro tendesse ad organizzarsi in maniera meno separata. Egli ad esempio è in grado di ricordare molti momenti condivisi da tutta la famiglia come le passeggiate domenicali nei viali cittadini. La stessa famiglia Berra, però, dal momento del suo stanziamento nel rione Polo Nord, sembra conformarsi ai comportamenti diffusi nelle famiglie degli altri testimoni. Sembrerebbe dunque che il modello familiare a ruoli separati sia diffuso soprattutto nei rioni operai e non, più in generale, nella condizione operaia di quegli anni. A mio parere ciò è dovuto al fatto che la separazione dei ruoli, qui, favorisce un uso quasi ottimale delle risorse specifiche offerte dall'ambiente dei quartieri operai in cui vivono. Le famiglie operaie si trovano, nei primi decenni del secolo, del tutto sprovviste di strutture pubbliche di assistenza sociale. Mancano asili, mutue e pensioni. Inoltre la possibilità del licenziamento improvviso è una realtà sempre presente per ognuno. Esistono, è vero, i fondi di soccorso di sindacati e partiti; ma essi non sono in grado di salvaguardare, se non in parte, le famiglie nei momenti critici della loro esistenza’. In questa situazione diventa dunque 4 Come è noto, nel suo lavoro, Elisabeth Bott vede un continuum di possibili relazioni familiari ai cui
estremi si trovano famiglie con un alto grado di separazione di ruoli tra uomo e donna (segregated roles) e famiglie in cui i ruoli dei coniugi sono in molti casi intercambiabili (joîrt role). Questa ipotesi, ormai classica, ha inoltre permesso di formalizzare il rapporto esistente tra i diversi modelli di relazione tra i coniugi e la struttura delle loro relazioni sociali. Cfr. Bott, Farzi/y and social network cit. ? Tipiche strutture di prevenzione sono le società di mutuo soccorso. Molto sviluppate a Torino fin dalla seconda metà del secolo x1x, esse si proponevano di soccorrere i soci e le loro famiglie in caso di malattia o puerperio, di vecchiaia o incapacità al lavoro, di infortunio, di morte. Accanto a queste strutture vanno poi ricordate le cooperative di acquisto e consumo. Tra queste la cooperativa torinese più organizzata era l’Act che era giunta a possedere, nei primi anni ’20, decine di centri di vendita popolari e un centro di produzione e di smistamento delle merci. Su questi temi cfr. E. Greco, Le società di mutuo soccorso. Cenni storici e statistici, Torino 1922; G. Castagno, 7854-r954. Centenario A.C.T.; storia di una cooperativa, Torino 1954; M. Degli Innocenti, Storia della cooperazione in Italia. 1886-1925, Roma 1977; F. Fabbri (a cura di), I/ 720vimento cooperativo nella storia d’Italia, 1854-1975, Milano 1979.
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Capitolo quinto
essenziale la costruzione di un sistema di garanzie interno all'economia familiare. Per le famiglie residenti in un quartiere ibrido, questo significa spesso capitalizzare un piccolo risparmio attraverso un lavoro femminile d’appoggio: qui le madri di famiglia sono spesso occupate in attività saltuarie come donne delle pulizie e in pochi casi come commesse temporanee; in altri casi, più rari, possono avere un impegno lavorativo fisso (operaie, commercianti, ecc.). Per le famiglie stabili in un quartiere operaio le risorse più immediatamente raggiungibili sembrano invece essere quelle di relazione; diventano cosf indispensabili la costruzione e la buona gestione di reti di relazione, femminili e maschili, divise ma complementari tra di loro
e in grado di assolvere alle diverse richieste della famiglia (da quelle affettive a quelle economiche di sostentamento e prevenzione)”.
Quando ad esempio gli Odasso giungono a Torino, si stabiliscono in un alloggio dello stesso edificio abitato dalla famiglia di Teresa, la sorella del padre. Nei ricordi di Giuseppe compare quindi molto spesso l’immagine della madre (Domenica) e della zia Teresa mentre si aiutano a vicenda nelle
faccende di casa. Ma nello stesso tempo — quasi in maniera intercambiabile — si mescolano alle loro figure quelle di alcune donne della casa e del vicinato. E il caso ad esempio della gestione dei figli: Giuseppe ricorda come d*inverno — quando la brutta stagione non permetteva di stare all’aperto — passasse interi pomeriggi con la sorella ed altri bambini dalle vicine di casa «perché la mamma non poteva guardarci sempre...» Domenica, in poco tempo, si era cioè inserita in una rete femminile che copriva lo spazio della casa e del vicinato. Sono rapporti informali e quindi flessibili e in grado di intervenire in ogni momento di necessità, nell’accudire a turno i figli, nei piccoli scambi quotidiani di oggetti e prestazioni. Il ruolo di Domenica come quello delle altre madri si esprime dunque innanzitutto nella gestione di una complessa rete di relazioni cementata da scambi continui in un meccanismo di mutue dipendenze che costituisce un'importante risorsa nei momenti di crisi familiare. Mario Ferrero ad esempio ricorda come lo stretto rapporto che legava la madre a Rosetta, la vicina di casa, fosse stato ulteriormente rinsaldato creando un vincolo di
padrinaggio (questa infatti era stata scelta come madrina per il battesimo di una figlia). E quando, per una malattia improvvisa, il marito di Rosetta era diventato cieco, a Mario era stato affidato il compito di accompagnare l’invalido nella sua nuova occupazione di venditore ambulante: ... dall’età di sette anni c’era il marito della madrina di mia sorella che abitava di fianco a me, che era venuto cieco all’età di 36 anni. Era lf, all’ospizio. Andavo a prenderlo al giovedî, al sabato e alla domenica. E partivo da Lingotto. Da casa 6 Va notato, ad esempio, come pit del 75 per cento delle donne — maritate e non vedove — che in en-
trambi i campioni denunciano un mestiere «altro» da «casalinga» non risiedono in un quartiere operaio.
Un quartiere operaio all’inizio del secolo
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mia andavo lf in corso Stupinigi a prenderlo. A piedi neh! Però! Poi di lf lo portavo a fare il giro delle osterie a vendere le spazzole. L'ho fatto per quattro anni!”.
Come «paga» Mario riceveva quattro soldi per ogni accompagnamento. Una retribuzione ben misera che certo non giustificava il suo impegno in termini economici. Egli stesso d’altronde ammette di aver sempre consumato quei pochi soldi in sigarette (che fumava fin dall’età di sei anni). Più
verosimilmente questo è dunque un esempio di risposta solidale che i Ferrero garantiscono ai loro vicini nel momento della crisi. Lo sforzo di costruire forti vincoli di solidarietà (anche attraverso la creazione di una parentela fittizia) è poi, nel caso dei Ferrero, particolarmente accentuato, a
differenza che per gli Odasso e i Rolle, dall’assenza di parenti su cui poter contare”. La rete di relazione femminile, organizzandosi nello spazio della casa e del vicinato, coinvolge i figli nella loro infanzia, ma, come ho detto, non
tocca gli uomini adulti. Come emerge dalle testimonianze, si tratta di una divisione non solo dei ruoli familiari ma anche degli spazi e delle relazioni sociali. La netta percezione infantile di «assenza del padre » non può essere attribuita unicamente ad una distorsione della memoria che privilegia la figura materna: nel corso delle discussioni si ricostruisce infatti una figura maschile che tesse i suoi rapporti sociali quasi esclusivamente nell’ambito di lavoro ed attraverso il lavoro: Lavoravano tutta la settimana! - mi dice Franco Rolle quando gli chiedo di descrivermi la vita quotidiana dei padri. - Lavoravano 10 ore. Dalle 7 a mezzogiorno e dalle 2 alle 7. Perché le 8 ore sono poi venute dopo, la legge delle 8 ore è venuta del ’21...’. Non trovava mai il tempo di andare in giro, —- è invece il ricordo di Mario Ferrero: - o lavorava in ferrovia o faceva il ciabattino. E quando siamo venuti qui al Polo Nord, aveva anche il giardino e il pollaio sotto casa! Lui è sempre stato
sotto. Io non so come faceva a vivere!...!
Su questo punto, tutte le rievocazioni concordano: la giornata dei padri era quasi interamente occupata dal lavoro principale e - per molti - da una seconda attività artigianale. Le loro relazioni, quindi, nascevano e si
sviluppavano intorno ai rapporti intrecciati nell’ambito di queste occupazioni. Pietro Odasso, il padre di Giuseppe, lavorava come operaio specia? Intervista a Mario Ferrero, nastro RR rob.
8 L'unica parente che sarà sempre presente in città è una sorella del padre, vedova e ricoverata in un ospizio di carità. La famiglia della sorella della madre si ferma per pochi anni a Torino. Gli altri parenti sono sparsi tra le campagne torinesi in una diaspora che dura fin dal 1870, da quando il bisnonno di Mario perde la terra e la cascina. Per loro quindi la rete di relazione è anche sostitutiva della famiglia. Rispondere correttamente alle domande del vicinato significa garantirsi da possibili analoghe crisi. ° Intervista a Franco Rolle, nastro RR 9a. 10 Intervista a Mario Ferrero, nastro RR 7b.
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Capitolo quinto
lizzato nelle officine ferroviarie, i suoi amici erano alcuni compagni di lavoro, parecchi dei quali abitavano in Borgo San Paolo e rappresentavano le sue relazioni quotidiane. Inoltre, come il padre di Mario Ferrero, aveva un secondo lavoro. Era falegname, un’attività che lo metteva in contatto,
nel borgo, con una rete di piccoli fornitori e acquirenti. Tutte queste figure ricomparivano poi al caffè del rione dove ogni domenica passava il pomeriggio a giocare a carte e a bere un bicchiere in compagnia. La rete di relazione degli altri padri, ricostruibile attraverso i ricordi frammentari dei figli, è del tutto simile a quella di Pietro e si ritaglia, come nel suo caso, intorno ai tre momenti che dominano per frequenza e ripetitività il tempo sociale dei rioni: le relazioni legate al tempo libero, al primo, e al secondo lavoro. In mancanza di fonti dirette, non è possibile ricostruire i contenuti e le modalità di queste relazioni. In particolare non mi è stato possibile ca-
pire se, e in che misura, tra le relazioni intrattenute sul posto di lavoro ve ne fossero alcune esterne alle reti rionali. Dai ricordi dei figli, sembra comunque che i padri tendessero, come Pietro Odasso, a stringere rapporti
più saldi con quei colleghi che vivevano nello stesso spazio rionale, con cui spesso si incontravano nelle «osterie». Una simile tendenza sembra d’altrondè dimostrata anche dall’intensa amicizia che lega molti dei ferrovieri della casa e che data proprio dal 1924, dal momento cioè in cui rione, vicinato e posto di lavoro giungono per essi a sovrapporsi. Ma è in ogni caso la rete di relazione che si sviluppa intorno alle attività del secondo lavoro
ad assumere una rilevanza e una peculiarità tali da caratterizzare lo spazio di relazione maschile all’interno dei rioni operai. Come nel caso femminile, intorno a quest’attività marginale si costruisce infatti una complessa rete di scambi che connette e cementa - in rapporti personali fatti di amicizia, interesse, mediazioni, ecc. — un ampio insieme della socialità maschi-
le. E proprio il carattere artigianale della seconda attività e la forma particolare con cui i suoi prodotti vengono scambiati ad attribuire questi contenuti alle relazioni che si sviluppano intorno al secondo lavoro. Da un lato infatti il lavoro artigiano implica la necessità di dipendere dai grossisti e dai fornitori locali. Con essi si tessono rapporti quasi quotidiani che creano all’interno dei rioni un importante tessuto di relazioni «verticali». Sono relazioni informali, basate anch'esse su precisi meccanismi di scambi reciproci di favori, e che aprono alle famiglie operaie preziose opportunità: Una volta i falegnami non avevano le macchine eh... E andavano tutti nelle segherie a lavorare. A far lavorare il legno. E li [in Borgo San Paolo] c’era Tama-
gno, Morello Zaninatto... E allora mio papà che lavorava per conto suo, andava
anche lui per farsi fare lavorare. E quando è stato ora di mandarmi a lavorare, mi ha subito trovato il posto. Lf si conoscevano... E allora magari uno gli avrà detto:
Un quartiere operaio all’inizio del secolo
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«Non hai mica un gagnu [ragazzino] da mandarmi a lavorare? » E allora sono andato a lavorare lf e sono stato due anni".
D'altro lato, il fatto di vivere all’interno di un ambiente caratterizzato
dalla scarsità di denaro liquido favorisce la proliferazione dello scambio dei prodotti. Come tutti i testimoni ricordano, i prodotti del secondo lavoro non venivano quasi mai venduti ma venivano scambiati con altri prodotti o più semplicemente con altri favori. La casa dei ferrovieri è ancora una
volta scenario di questi meccanismi che, già sperimentati da ognuno in altri rioni operai, si ripropongono dopo il 1924, soprattutto tra le famiglie che hanno una tale esperienza. Mario Ferrero, come Giuseppe, vive ancora nel vecchio alloggio di famiglia e conserva ad esempio nella propria stanza da letto un armadio che Pietro Odasso aveva costruito per suo padre. Pietro non aveva voluto essere pagato ma d'altronde, ricorda Mario, anche suo padre «regalava» agli Odasso le scarpe che confezionava nelle sue ore di libertà. Questi sono solo alcuni esempi possibili ma mostrano come, per questa generazione, sia soprattutto il lavoro secondario e artigiano, pit della professione principale, a favorire la nascita e la connessione di un ampio ambito di relazioni maschili, base di una socialità rionale specifica e chiusa al resto della città. Se esiste un elemento comune a famiglie diverse ma con un’analoga esperienza di stabilità all’interno di un rione operaio, questo è dato dalla progressiva tendenza ad esaurire in esso la totalità dei rapporti e delle sfere di relazione. La socialità che si afferma nei primi decenni del secolo in questi ambienti è caratterizzata dalla estrema connessione raggiunta dalle reti di relazione maschili e femminili, dalla molteplicità dei ruoli e dei contenuti di relazione che gli stessi individui tendono a scambiarsi in esse. Le persone che Domenica Odasso conosce e frequenta ancora a dieci anni dal suo ingresso in città, ad esempio, fanno esclusivamente parte del quartiere in cui vive e sono tutte in contatto reciproco. Le sue amiche sono contem-
poraneamente le sue vicine di casa, le sue creditrici o debitrici di servizi, ecc. Analogamente, nei rapporti costruiti dal marito Pietro, ruoli e contenuti di relazione diversi tendono a sovrapporsi nelle stesse persone e negli stessi spazi sociali. Non sembrano dunque rari i casi di legami analoghi a quelli che, nel rione Polo Nord, abbiamo visto intercorrere tra Pietro, Giovanni Berra e Antonio Ferrero: essi sono tutti, al tempo stesso, compagni
di lavoro, coinquilini dello stesso stabile, compagni di caffè, creditoridebitori di servizi. Basandoci sulle fonti orali e non sull’osservazione diretta utilizzata dalla sociologia o dall’antropologia, non possiamo misurare
il grado esatto di connessione di queste reti”. Ciò nonostante risultano ll Intervista a Giuseppe Odasso, nastro RR 1a.
!? Molti sociologi ed antropologi hanno proposto l’uso di indici in grado di esprimere la connessione
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Capitolo quinto
chiare la «densità» e la «sovrapposizione » delle loro maglie di relazione. Sono queste caratteristiche che tendono a distinguere i rioni come comunità chiuse che esauriscono al loro interno le esigenze di relazione individuali.
2. Il rituale dell'uguaglianza, il «discorso socialista» e lo «scambio di piccolo raggio».
I ricordi di questo gruppo di amici non sono diversi da quelli di molti altri anziani da me intervistati. Da ogni rievocazione registrata affiorano
infatti i segni di una integrazione quasi immediata in questa socialità che si potrebbe descrivere con il termine evocativo di «scambio di piccolo raggio». Ma se è relativamente semplice cogliere l'aspetto formale che assume il processo di aggregazione all’interno dei nuovi quartieri operai, più difficile è definire il senso di identità sociale che questo esprime. Per Franco Rolle non ci sono dubbi. Le aggregazioni, la connessione delle relazioni interne ai rioni, derivavano dalla coscienza politica propria degli operai torinesi di quegli anni: «Erano tutti socialisti — mi dice — e operai! Erano diversi dal resto della città!» Giuseppe, Mario e Luigi, presenti alla discussione, sembrano condividere l’opinione di Franco. Soprattutto, nella loro interpretazione comune, la socialità dei genitori rappresenta un momento di uguaglianza e accordo mai più raggiunti. Pure, si è visto come sia il percorso migratorio sia quello interno alla città facessero convergere in questi ambiti aspirazioni, strategie, identità individuali e familiari fortemente differenziate. Un quadro questo a cui non sfuggono neppure le famiglie dei testimoni. I Ferrero, come gli Odasso, i Berra o i delle reti di relazione. Il più conosciuto ed anche il più utilizzato tra questi indici è quello diJ.A. Barnes. Barnes propone di misurare la dersità delle reti esprimendola come una funzione del rapporto tra i contatti reali osservati e i contatti teorici interni ad un gruppo dato (cfr. J. Barnes, Network and political process, in Boissevain e Mitchell (a cura di), Network analysis cit.). Naturalmente indici come quello appena esposto sono unicamente la base di una formalizzazione più complessa dei rapporti sociali attraverso l’ottica delle reti. Barnes stesso propone, sempre nel saggio citato, ulteriori misure sul grado di apertura delle reti, dei loro diversi livelli e intensità di contatti, ecc. Le formalizzazioni possono divenire estremamente complesse come nel caso del lavoro di Tilly, egualmente basato su di un indice di densità, o come in quello di Granovetter, basato su criteri probabilistici (C. Tilly (a cura di), Az urban world, Boston 1974; M. S. Granovetter, The strength of weak ties, in «American Journal of Sociology », n. 6, 1973). Va infine citato il lavoro di Michel Forsé che,
in un’ottica molto diversa da quella proposta dalla network analysis, giunge a costruire un sistema estrema-
mente raffinato di misurazione di diverse forme di reti di relazioni osservate in un comune della Borgogna (M. Forsé, Les réseaux de sociabilité dans un village, in
«Population», n. 1, 1984).
Tutti questi lavori ci dànno preziose indicazioni comparative sulle strutture informali della società. Ma tali indici e formalizzazioni non sono utilizzabili nello studio del passato. Mancando la possibilità dell’osservazione diretta, possiamo infatti ricostruire frammenti di reti.ma non le loro conformazioni totali. Concetti come densità, coesione, larghezza e dispersione, pur essendoci indispensabili per definire i meccanismi
di aggregazione e di relazione sociale, non ci permettono di formulare un valore numerico finito per tali strutture.
Un quartiere operaio all’inizio del secolo
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Rolle, hanno infatti alle spalle un passato familiare e una traiettoria migratoria estremamente diversi. Tutte queste famiglie, poi, sono inserite in differenti universi di parentela che ne valorizzano o ne sminuiscono la posizione sociale. Mentre i Ferrero non hanno praticamente parenti in città e sono gli unici di tutta la loro parentela ad aver raggiunto una posizione stabile, il percorso e la posizione degli Odasso sono analoghi a quelli delle due famiglie di fratelli e cognati stabilitisi a Torino. Mentre i Rolle sono i più poveri del loro gruppo, i Berra sono in una posizione di inferiorità e insieme di superiorità nei confronti rispettivamente dei parenti di parte paterna e di quelli di parte materna. Come si conciliano dunque gli elementi di diversità emersi dall’analisi con il mito di omogeneità di cui sono portatori i testimoni? In realtà, se si indaga al di là delle enunciazioni generali - quelle, per intenderci, che spesso corrispondono alle successive elaborazioni del passato o all’immagine che si vuole fornire —, le contraddizioni scompaiono. Gli stessi aneddoti, raccontati per esemplificare e confermare il mito, mostrano come nei rioni fossero presenti diversità e potenziali conflitti. Questi elementi di contrasto venivano però minimizzati e controllati ritualmente sul piano pubblico dell’interazione sociale per permettere - in un implicito patto di aggregazione — l’esistenza e la proliferazione di quel tessuto di scambi e relazioni quotidiane su cui convergevano, pur se in diversa misura, le esigenze di molti degli attori sociali. Almeno due elementi chiariscono questa dinamica. Da un lato il fatto che —- nonostante l’apparente insistenza sul carattere ideologico di queste aggregazioni — l'emarginazione o l’integrazione di un individuo o di una famiglia nel circuito di scambi di piccolo raggio si giocassero unicamente in rapporto alla loro capacità di rispondere correttamente ad ogni aspettativa creatasi nei vari momenti di transazione. Dall'altro lato il fatto che l’egemonia pubblica del discorso politico, e socialista in particolare, mostra di trovare diversi gradi di consenso a livello privato e individuale, ricoprendo soprattutto una funzione normativa e simbolica essenziale ad una comunità introflessa. Vediamo innanzitutto come era percepita l’estraneità. Come era facile prevedere, i più estranei, perlomeno nei ricordi dei testimoni, sono anche i personaggi meno stabili. Famiglie o persone che si fermano pochi anni per proseguire altrove il loro percorso (ad esempio ritornando ad emigrare o trasferendosi in altre zone della città). Ma, occupiamoci di quelle persone che, proprio per la loro stabilità, sono caratterizzanti delle dinamiche interne ai rioni, e per conseguenza più presenti alla memoria dei testimoni. Tra gli abitanti della casa cooperativa, ad esempio, i rapporti sono stati, a
r1O
Capitolo quinto
detta di Mario, Luigi e Giuseppe, quasi istantaneamente calorosi. Gli unici emarginati, o perlomeno i più emarginati, erano i Bonicelli. Perché, dice Mario, «non si davano mai da fare... Era gente che aveva altre mentalità. Sempre in sé... Si sentivano qualcosa di più...» Tra i dati demografici da me raccolti, nulla apparentemente distingue questa famiglia dalle altre della casa. Le particolarità della sua storia e della configurazione dei suoi rapporti di parentela non sono più marcate di quelle di altre famiglie ricordate invece come perfettamente integrate. Gli unici elementi che sembrano fondare questa pretesa estraneità vanno nella direzione del giudizio riportato da Ferrero che sottolinea come sia proprio la non partecipazione ai rapporti di scambio a certificare la loro distanza. Ciò che genera e definisce le distanze è dunque la mancata disponibilità ad inserirsi nelle maglie delle reti di vicinato e non, come vorrebbe il mito, l’estraneità ideologica. D'altronde, Giuseppe e lo stesso Mario ammettono che Enea Valenti, cattolico integralista, era una delle persone della casa con cui i genitori avevano i rapporti più intensi. Enea, che è anche l’ultimo sopravvissuto della generazione dei padri, è in grado di confermare la sua appartenenza alla rete di relazione della casa: Erano tutti fratelli. Tutti semplici. Tutti ci aiutavamo. Anche in cantina: «Toh... dammi una mano a me, che io do una mano a te...» C'era la familiarità, c’era la cordialità, c’era l’aiuto vero e proprio... ”.
L’integrazione della famiglia Valenti era completa. La moglie di Enea partecipava dello scambio di favori e piccoli prestiti che legava le madri dei testimoni..Il figlio, di qualche anno più giovane dei testimoni, confluirà nei primi anni ‘30 nel loro gruppo rionale. Enrico morirà nel corso della seconda guerra mondiale ma la sua figura è ancora ricordata dai vecchi amici. La fede di Valenti non è quindi un elemento di esclusione. Ma - e questo ci conduce ad esaminare il secondo aspetto dei meccanismi coesivi dei rioni - nei momenti pubblici di relazione Enea doveva osservare un attento silenzio sulle sue convinzioni politiche ed ideologiche. [Pietro Odasso] lavorava allo smistamento. Io invece lavoravo al deposito [delle officine ferroviarie]. Lui prendeva il trenino e veniva If al deposito e poi si scendeva tutti e due e si veniva a piedi. Si veniva a piedi dal deposito di via Nizza a casa. E cosî Berra e tutti gli altri [ferrovieri del rione]. C'era qualcheduno che
era un po’ attaccaticcio alla politica. Quindi era un po’ più rognoso... Bisognava stare un po’ cauti. Se parlavi in modo gentile, non attaccavano. Ma quando potece attaccare, attaccavano subito. Io poi ero molto di chiesa... Ero poi molto colpito..+%
!3 Intervista a Enea Valenti, nastro RR 8a. 14 Ibid.
Un quartiere operaio all’inizio del secolo
III
Emerge, da questo come da altri aneddoti, la doppia realtà che caratterizza questi ambiti di relazione. Da ut lato la partecipazione generalizzata alla socialità di scambio di piccolo raggio; dall'altro il mascheramento, sul piano pubblico, delle diversità individuali attraverso l’uso e l’espansione di un unico discorso che si è imposto come rappresentativo. Se infatti i contenuti su cui nascono e si cementano le socialità locali sono legati alle forme e alle modalità di relazione, l’espressione di una avvenuta integrazione del mondo rionale è il discorso sociale. La comunicazione della propria partecipazione e il controllo su quella degli altri sembrano infatti passare attraverso l’uso e l'imposizione del discorso socialista. Cosî, ad esempio, tra gli uomini che si ritrovavano alla domenica pomeriggio all’osteria del Gallo per il bicchierino o per la partita di carte, si era affermata la consuetudine di esprimere la propria intesa anche attraverso l’uso «socialista» del denaro comune: ... loro, alla domenica, - mi racconta Franco Rolle, — si giocava a tarocchi nelle piole... E c’era un’osteria, lf, in via Rivalta [nel rione Polo Nord], di un certo To-
so. Alla fine della giornata, quando si trattava di aggiustare i conti, si avanzava sempre: otto soldi, sei soldi... E, tutti d'accordo, si mandava all’« Avanti! » quei soldi lf. Non è che... E c’era otto soldi... e l'« Avanti! », il giorno dopo, due giorni dopo, faceva l’elenco e diceva: «L’osteria del Gallo di via Rivalta, e papim e
papum...».
Il discorso socialista, che si spande in ogni momento della socialità, caratterizza e controlla lo spazio pubblico del rione smorzando il proliferare di altri atteggiamenti. Sempre Franco, riferendosi agli anni del primo dopoguerra nei quali il fenomeno fascista stava acquistando una rilevanza nazionale, racconta: No, no, fascisti non ce n’erano. Per lo meno: fascisti che si fossero distinti, che avessero fatto... No, questo non ce n'era. I/ borgo non lo permetteva. Nel senso,... coso... Ma, c’era un'atmosfera... E, bisognava pur anche vivere! Anche loro... se erano fascisti, erano dentro. Lo sapevano loro dentro. Perché... non c'era... . . . z1 non c'era il discorso, non c’era l'atmosfera. No, il borgo era sano, da quel lato lf".
Quanto mi dice Franco è emblematico del carattere che assume il «discor-
so socialista» all’interno delle reti di relazione del rione in quel periodo. Al di là di una adesione ai contenuti reali dell'ideologia socialista, sembra esserci, prima di tutto, un’adesione formale al «discorso socialista»inteso
come variante sociolinguistica di identificazione in un gruppo. Il termine «variante», che qui utilizzo, definisce in sociolinguistica una particolarità del linguaggio comune «fonologica, grammaticale, lessicale » che è corre15 Intervista a Franco Rolle, nastro RR gb. 16 Ibid.;icorsivi sono miei.
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Capitolo quinto
lata con una «variabile non linguistica del contesto sociale». Più in particolare, Fishman sottolinea come l’uso di una variante sociolinguistica definisca, in un contesto sociale, l'appartenenza esplicita dell’utilizzatore ad
un gruppo che l’accetta come rappresentativa". Con la generalizzazione, anche se forzata, di questo concetto all’intero «discorso socialista» voglio quindi sottolineare come l’uso pubblico di questi temi esprimesse l’identificazione del «parlante» con una comunità in cui i contenuti che stanno alla base della sua integrazione vanno innanzitutto ricercati nella struttura di relazione e di scambio interindividuale. Visto in questo senso il discorso socialista costituisce la marca connotativa di un’appartenenza rionale che può anche non riconoscersi individualmente nei suoi contenuti espliciti. Con tutto ciò, non voglio asserire che non fosse presente una forte coscienza socialista all’interno di queste prime aggregazioni operaie ma, più semplicemente, che lo stesso «discorso » avesse diversi gradi di adesione a seconda dell’utilizzatore. E ciò è molto chiaro se si osservano i comportamenti individuali. In realtà una percentuale non irrilevante delle donne e di molti maschi adulti era sostanzialmente estranea alla politica militante socialista”. Accettavano dunque, «strategicamente», di utilizzare o perlomeno di non contrastare pubblicamente (come nel caso di Valenti) il discorso comune. D'altronde la realtà di questo meccanismo traspare anche dalla sua forza d'inerzia: esso si ripropone infatti negli stessi termini attraverso le dinamiche di gruppo instauratesi tra i testimoni nel corso delle interviste. Se nelle discussioni collettive le figure dei genitori vengono presentate come interscambiabili, nelle interviste individuali esse assumono contorni ed identità specifiche. E il caso ad esempio di Mario Ferrero. In discussioni come quelle riferite poc'anzi, Mario è pronto a sottoscrivere l’identità di riferimenti ideologici di suo padre con quelli di Giuseppe e Luigi. In altre occasioni e senza la presenza degli amici, mi fornisce invece un ritratto diverso, meno indistinto. Emerge quindi la figura di un operaio che «non si è mai occupato di politica» pur senza essere contrario alla militanza di alcuni amici o colleghi e che, a parte il lavoro, ama soprattutto le carte e la musica, «il suo trombone », come dice Mario.
Il caso di questo padre è forse quello che meglio può chiarire la realtà insieme semplice e complessa di queste aggregazioni. Antonio Ferrero, di !? La definizione è di W. Labov, The study of language in its social context, in «Studium Generale»,
XXIII, 1970.
18 Fishman, The sociology of language cit. !9_In un lavoro sulla presenza cattolica in Borgo San Paolo, Elena Beltrami fa ad esempio notare come
molti atteggiamenti celati di rifiuto o più semplicemente di distanza dall’ideologia socialista, emergano e vengano convogliati nella pratica religiosa quando i salesiani stabiliscono nel borgo centri di incontro alternativi a quelli socialisti. E questo fin dal 1918. Cfr. E. Beltrami, Una missione salesiana in un quartiere operaio di Torino tra le due guerre, in aa.vv., Relazioni cit.
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tutti i genitori rievocati è probabilmente il più integrato nei tessuti rionali. Per lui, che pit di altri ha alle spalle la miseria e la disgregazione di un’intera parentela, la socialità operaia rappresenta un punto di arrivo e la sicurezza non solo economica ma anche affettiva. Il suo gusto per l’osteria è il gusto di chi apprezza soprattutto il calore delle relazioni sociali dei rioni. Non è militante ma non è neppure ostile alla militanza. Gli scioperi hanno sempre visto la sua partecipazione. Ma ciò che lo lega più di altri ai rioni sono proprio le relazioni quotidianamente intrecciate in questi spazi. Anche se non lo saprò mai con certezza, penso di non sbagliarmi immaginandolo nei momenti corali a parlare di politica con la stessa sicurezza che poteva avere Pietro Odasso. A differenza di Valenti, infatti, Ferrero non
aveva un orientamento politico individuale da difendere o celare. Ma penso di non sbagliarmi neppure nell’ipotizzare che Antonio avrebbe potuto, in un altro momento storico, parlare con gli stessi amici e con la stessa emotività attraverso un altro gergo, un altro discorso di gruppo. 3. Ruoli familiari e ruoli sociali. Dinamiche d'apprendimento e meccanismi di controllo nello spazio di relazione di un quartiere.
Non è solo la distanza soggettiva di alcuni attori sociali a sottolineare la funzione essenzialmente simbolica e coesiva del discorso pubblico dei rioni operai. La centralità dei contenuti affettivi ed economici scambiati nelle reti di relazione è sottolineata anche dalla particolare forma comunicativa che pervade i rapporti sociali e che riflette un'attenzione marcata ai ruoli individuali che ciascuno deve rispettare nei confronti degli altri individui e del gruppo; attenzione questa che va a discapito dell’articolazione esplicita dei messaggi. In una socialità in cui le maglie di relazione sono strette e sovrapposte tra di loro, la definizione dei limiti e delle competenze che ciascun ruolo deve avere diventa infatti la condizione necessaria per prevenire e controllare contrasti e tensioni interindividuali. Questo meccanismo emerge con chiarezza innanzitutto nei comporta-
menti interni alle famiglie, per le quali la separazione marcata dei ruoli femminili e maschili richiede una gerarchizzazione e una definizione delle competenze e delle aree di autonomia di ciascuno. In ogni aneddoto rievocato, possiamo infatti cogliere i segni di una dinamica di relazione che Bernstein definirebbe tipica delle famiglie a codice posizionale. Famiglie nelle quali «il campo delle decisioni è funzione dello statuto formale dei loro membri (padre, madre, nonno, nonna, figli di tale età, di tale sesso)». In esse inoltre «c’è una separazione netta tra i diversi ruoli: i domini in cui i differenti membri sono abilitati a prendere delle decisioni e a formulare
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dei giudizi, sono delimitati formalmente in funzione dello statuto formale dei soggetti»”. Tutto ciò, delimitando i confini dei ruoli, favorisce alcuni momenti di autonomia ma tende, nello stesso tempo, ad accrescere l’aspet-
to normativo dei rapporti sociali, subordinando le espressioni e gli interessi individuali a quelli del gruppo. Vediamo un esempio. Franco Rolle ricorda della madre soprattutto il convinto clericalismo. Ma ricorda anche come questi tratti non apparissero mai in presenza del marito, sia all’interno della casa sia negli spazi pubblici non femminili. In casa, ella non contraddiceva mai il marito, socialista, né
attraverso il comportamento, né attraverso asserzioni verbali. Sul piano pubblico la vediamo poi partecipare indirettamente all’occupazione delle fabbriche del 1920, impegnandosi con doppi lavori e andando tutte le domeniche a mangiare alla mensa sociale allestita all’interno delle fabbriche occupate. Ma, nello stesso tempo, negli spazi a lei riservati a partire dal suo ruolo di donna, agiva liberamente gestendo ad esempio in totale autonomia l’educazione di Franco: Mi mandava alla dottrina cristiana della chiesa della Crocetta. Che era lontana la chiesa della Crocetta! Erano tutte lontane le chiese. E lei mi mandava If. E io non è che fossi diventato anticlericale o che... Non avevo voglia di andare fino lassi. Sa com'è... Li, nel rione, ci avevo gli amici. E un giorno ho fatto schisa, ho tagliato. E mia madre è venuta a prendermi e poi mi ha ficcato tante di quelle botte! Sa, questo vuol dire che non era sentito questo tipo... Io andavo perché mia madre mi mandava, ma non è che... E cosf era per gli altri amici... Ma tra le madri... le madri, loro no! Le madri erano...”
Indubbiamente questo esempio mostra la figura di una donna che possiede una effettiva autonomia di comportamenti rispetto al marito. Come si è visto, l’uomo non interviene nella sfera dell’educazione dei figli neppure nel caso di un figlio maschio (che gestirà invece direttamente a partire dal momento dell’apprendistato). Ma è un’autonomia rigidamente confinata negli spazi privati propri del ruolo femminile. Quando la figura di queste madri si mescola con quella del marito o si esprime nello spazio pubblico delle relazioni sociali, subentra la forza del discorso di gruppo e l’espressione individuale si sposta nello sfondo. L'autonomia di giudizio e di comportamento, in questo come in altri casi, è dunque resa possibile solo attraverso l’introiezione di una gerarchia di valori che la limitano e la costringono nei confini del privato. Ciò che ne deriva è una dinamica paradossale che implica l'accettazione di una struttura che limita, per garantirle nello stesso tempo, le possibilità di espressione individuale. Per essere pit espliciti, se la madre di Franco si esprimesse anche sul piano pubblico cosf come si 20 Bernstein, Langage et classes sociales cit., p. 204. 2! Intervista a Franco Rolle, nastro RR gb.
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esprime nel suo rapporto con il figlio, romperebbe il fragile equilibrio interno alla famiglia e al gruppo correndo il rischio di avere invasi dal marito o da altre figure anche gli spazi pur ristretti di sua competenza. Certo la donna occupa, nella famiglia, un ruolo subordinato a quello dell’uomo. Pure questo meccanismo è in parte reversibile. L'assenza del padre dagli spazi domestici, che ho pi volte sottolineata, è il comportamento che l’uomo deve assumere se, a sua volta, non vuole avere invase le sue competenze dalla donna o dagli altri familiari, aprendo la strada a una conflittualità continua. Ma tutto ciò significa anche che, attraverso queste dinamiche, i contenuti dell’esperienza individuale, le concezioni del mondo proprie di ciascuno vengono subordinate e giudicate secondarie alla definizione e alla sopravvivenza della struttura gerarchica dei ruoli. Il padre di Franco, pur essendo di fede socialista, non sembra preoccuparsi di quali ideali vengano trasmessi al figlio attraverso il suo rapporto con la madre. L'autonomia della moglie nella sfera dell’educazione infantile, cost come la sua subordinazione in quella pubblica, sono gli elementi reali su cui si sviluppa l’identità urbana di questa famiglia. L’intento educativo rispetto ai figli non va tanto nel senso di far loro accettare specifici modelli di comportamento quanto regole di ruolo; perciò non è rilevante che «l'esempio» offerto dai genitori sia discordante. Rimanendo sempre sul caso precedente, l’effetto che su Franco possono avere i messaggi contrastanti che provengono dal cattolicesimo della madre e dal socialismo del padre, è ritenuto secondario. Ciò che è importante è invece che impari a comportarsi «bene », «correttamente», rispettando cioè la sua subordinazione nei confronti della madre e, in presenza di entrambi i genitori, del padre. Il modello che si afferma in queste famiglie, dunque, si avvicina a quello descritto da Bernstein per gli ambienti caratterizzati dall’uso di un codice posizionale”. Ciò che si tende a trasmettere ad un 22 Va forse ricordato, a questo proposito, che richiamando il lavoro di Bernstein si rischia spesso di evocare la polemica da lui suscitata con il contrapporre analiticamente un codice posizionale a un codice elaborato. Da un lato un codice in cui la comunicazione esplicita è fortemente stereotipata e convoglia, per l’appunto, soprattutto definizioni di posizioni di ruolo; dall’altro lato un codice in cui i)comunicazione esplicita è l’elemento principale del messaggio e tende ad offrire agli utilizzatori gli strumenti per specificare e definire l’esperienza e le prerogative individuali. Questa contrapposizione, che nell’analisi empirica di Bernstein — spesso ma non sempre — era correlata alla stratificazione sociale, è stata vista da molti osservatori come una presa di posizione normativa circa la pretesa inferiorità del codice posizionale e insieme, quindi, delle classi più povere. Non è certo questa la posizione di Bernstein, ed egli stesso lo ha ampiamente dimostrato. L’uso di un codice posizionale non Ti di per sé, l’inferiorità di chi ne è l’utilizzatore ed inoltre non è necessariamente correlato ad una posizione sociale. Pit in generale è opportuno sottolineare l’importanza delle indicazioni che ci provengono dalla socio-
linguistica per lo studio dei comportamenti e dei rituali sociali, cost come delle ideologie. La sociolinguistica infatti sottolinea innanzitutto come non ci sia una langue dei fatti sociali ma coesistano diverse /angues il cui significato reale si esplicita solamente in relazione alla rete dei legami sociali a cui fa riferimento. In questo senso essa ci aiuta a districarci tra i diversi piani dei messaggi e dei significati ad essi legati. La letteratura sociolinguistica è sterminata. Per un’introduzione generale a questi temi cfr. Fishman, The sociology of language cit. e P. Trudgill, Sociolinguistics, Harmondsworth 1974. Per un uso di questi strumenti nello studio IO
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bambino non è un corpus di strumenti logici attraverso cui affrontare e definire individualmente il mondo. Al contrario, ogni tipo di messaggio a lui rivolto ripropone le necessità della famiglia e del gruppo di definire e far interiorizzare la struttura gerarchica dei ruoli: Sono quindi, ancora una volta, messaggi il cui significato esplicito è secondario e che spingono il bambino ad accettare le richieste soprattutto a partire dalla forza del ruolo del suo interlocutore. Gli aneddoti in cui si rievoca un’esperienza di apprendimento sono numerosi e tutti caratterizzati non tanto dalla comunicazione di un modello di comportamento a cui uniformarsi quanto dalla correzione di un episodio giudicato deviante nei confronti del ruolo e delle competenze proprie del bambino. E il caso appena citato di Franco Rolle, che viene punito proprio per non aver accettato la subordinazione al ruolo della madre. Ma abbiamo anche visto, nel primo paragrafo di questo capitolo, il caso di Giuseppe Odasso, punito per essersi permesso di contrastare pubblicamente la figura del padre, che non aveva riconosciuto. Cosf pure nel caso di questo aneddoto raccontatomi da un testimone di Borgo San Paolo: Mio padre me le ha date solo tre volte, mio padre, proprio. Una volta mi ha preso - avevo 11 anni - fumavo... Un sigaro toscano. Arriva lf...: «Cosa fai?» «Niente!...» Pach, pach!... Mi ha «unto» per bene! E poi mi ha detto: «Quando vai a soldato fumi fin che vuoi». Basta. Tutte le sere che arrivavo a casa, mio padre da una parte, mia madre dall’altra... Perché, se me ne davano una e io la scansavo, l’altro... Basta, eh... «Tira il fiato!» E me lo hanno fatto per 7 o 8 giorni di fila. Dopo mi prendevano alternato, non più sempre di fila. Lasciavano passare 4 o 5 giorni. Arrivavo a casa... Li vedevo già! Quando erano tutti e due di fianco che mi toccava passarci in mezzo... «Tira il fiato! » «Ma non ho fumato! ...» «Tira il fiato! » Allora ero obbligato a tirare il fiato. «Non hai fumato, vai pure». Dopo, lasciavano passare 15, 20 giorni, anche un mese. Quando gli pareva... « Hai fumato?» Mi han fatto proprio passare la voglia!”.
Ho indugiato sui meccanismi di comunicazione interni alla famiglia perché essi non si presentano in forma isolata ma si riflettono più in generale nelle dinamiche di relazione dei gruppi rionali più vasti. Credo cioè che le forme di apprendimento e di interazione tra genitori e figli che ho analizzato siano originate soprattutto dalla sovrapposizione di ruoli tipica dei comportamenti sociali cfr., tra gli altri, H. Hoijer, The relation of language to culture, in University of Chi cago (a cura di), Anthropology today, Chicago 1963; J. J. Gumperz, Linguistic and social interaction in two communities, in «American Anthropologist », n. 66, 1964; D. Hymes (a cura di), Language în culture and society, New York 1964; J. Fishman, The sociology of language: an interdisciplinary approach to language in society, in aa.vv., Advances in the sociology of language, The Hague - Paris 1971; Gribaudi, A proposito di linguistica cit. Un uso interessante dei concetti proposti da Bernstein si può trovare in M. Douglas, Natura! symbols, Harmondsworth 1970, passizz. 2 Intervista a Cesare Canta, archivio AGAM.
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di questi rioni e delle piccole comunità. Con questa affermazione introduco una variabile che Bernstein non aveva considerato nella definizione del suo modello ma che, applicata ai miei dati, è risultata estremamente significativa. La necessità di definire una gerarchia dei ruoli e delle competenze di ruolo che cosî frequentemente si manifesta nei rapporti familiari è presente in misura analoga in ogni momento di interazione sociale, in ogni contesto situazionale. Non solo nella famiglia ma anche negli spazi sociali nei quali, attraverso i gerghi rionali, si impone il rituale dell’uguaglianza, esistono complesse gerarchie di ruoli e latenti conflitti di competenze che necessitano di una continua definizione. Le testimonianze ci forniscono numerosi esempi di queste dinamiche; ma, prima di analizzarli, occorre considerare brevemente la forma dei rapporti sociali che le rendono necessarie. Si è visto come le reti di relazione, particolarmente quelle maschili, radunassero nelle loro maglie attori sociali definiti reciprocamente da diversi e numerosi ruoli. Per seguire l’utile schematizzazione di Southall, possiamo dunque dire che Pietro Odasso e Giovanni Berra (i quali costituiscono un frammento di una rete maschile di un rione operaio) hanno, tra di loro, ur4 sola relazione di ruolo, ma in-
terpretano in essa ruoli molteplici: collega-collega (sul lavoro), vicinovicino, amico-amico, debitore - creditore di servizi, ecc.”*. Tutti questi ruoli sono legati a momenti e situazioni diversi ed esprimono diverse posizioni reciproche nelle varie gerarchie. Sul lavoro, ad esempio, Pietro è subordinato a Giovanni nella gerarchia professionale (operaio specializzato macchinista). Cosf pure all’osteria. Infatti, se i ricordi dei testimoni non
errano nel descrivere Pietro come molto meno espansivo di Giovanni, sembrerebbe plausibile immaginarlo subordinato in quella che potremmo chiamare la gerarchia di «gradibilità», o di «propensione alla socializzazione». Nella casa e nel sistema degli scambi la posizione si inverte. Giovanni, pur avendo accesso ai prodotti di Pietro, non ha, come lui, un secondo lavoro. E, incidentalmente, possiamo notare come non a caso sua moglie sia ricordata tra le donne più attive della casa: un tentativo riuscito da parte della donna di compensare una debolezza maschile all’interno del circuito di scambio. Pietro inoltre è più anziano di Giovanni. L’enumerazione potrebbe continuare. Ma consideriamo ora invece le implicazioni di questa molteplicità di ruoli e gerarchie che diventano contraddittorie sovrapponendosi nelle stesse relazioni. Come è facilmente intuibile, se Pietro, Gio-
vanni e gli altri individui della rete rionale di relazione maschile tentassero di rispettare in ogni momento situazionale tutte le gerarchie e le reciproche posizioni di ruolo, giungerebbero sicuramente alla disgregazione del grup24 Per una definizione di analoghe strutture di ruolo cfr. Southall, An operationa! theory of role cit.
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po o alla paralisi. Nasce e cresce quindi la necessità non solo di definire le competenze e le gerarchie reciproche di ruolo ma anche quali di esse siano pertinenti in ogni situazione e in presenza di quali attori sociali. AI di sotto dell’uguaglianza rituale che sembra caratterizzare, coprendoli, gli spazi pubblici rionali, possiamo dunque leggere un'attività continua di definizione di distanze, differenze, e vicinanze di ruolo”. Gli aneddoti traboccano di questi meccanismi pur senza restituirceli esplicitamente. Credo ad esempio di non sbagliare vedendo negli attacchi e nei punzecchiamenti subiti da Enea Valenti nell’ambito professionale, anche l'intento di ribadire il suo ruolo. Enea infatti era, tra il gruppo dei ferrovieri, che si accompagnavano sulla strada di casa, il più giovane, sia per anzianità professionale sia per età. Certo il gergo pubblico si sarebbe imposto in ogni caso in quello spazio. Ma probabilmente, se Enea fosse stato il più anziano, avrebbe potuto godere di un ruolo privilegiato che lo avrebbe forse messo al riparo dall’ironia dei compagni. Ma, come già per la famiglia, gli esempi più chiari non provengono da frammenti diretti della vita di relazione dei padri. Infatti, il mondo degli adulti degli anni ’20, che i testimoni vivevano allora come estraneo, ci vie-
ne ora restituito spesso in forma idealizzata, più attraverso rielaborazioni mitiche che attraverso esempi concreti. Anche in questo caso è dunque più utile utilizzare in forma indiziaria gli aneddoti che rievocano un’esperienza personale e diretta dei testimoni nel loro rapporto con gli anziani di allora. Consideriamo ad esempio l’interazione di Franco Rolle con le reti di relazione maschili nella situazione lavorativa al momento del suo primo ingresso in un’officina. Franco va a lavorare nel 1920, all’età di 12 anni. Come molti dei suoi amici, è apprendista in un’officina meccanica del rione in cui vive. Il padrone e i nuovi colleghi sono conoscenti e amici del padre. Entrando nel suo nuovo ruolo di apprendista, Franco deve dunque definire la sua posizione e le sue competenze. E la sua posizione è indubbiamente difficile. E stato assunto grazie alla mediazione del padre e della sua rete di relazione. Potrebbe dunque aspettarsi una relazione di ruolo privilegiata, in qualche modo protettiva. Ma i legami del padre che sicuramente in altre situazioni di ruolo gli aprono rapporti privilegiati e ammiccanti con gli uomini del rione, non agiscono sul posto di lavoro e in sua assenza. Qui,
la sua posizione sembra essere quella di una netta subordinazione, in quanto giovane e, soprattutto, in quanto ancora privo di professionalità. È quanto Franco impara rapidamente. Non attraverso una definizione esplicita e argomentata dei limiti e delle competenze del suo nuovo ruolo ma, 2 Un interessante studio di una comunità in cui scambi reciproci ed intensi tra individui con posizioni sociali e interessi diversi si affiancano ad un rituale dell’uguaglianza è quello di G. Foster, Tzin tzun tzan. Mexican peasant in changing world, Boston 1967.
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come nella famiglia, attraverso messaggi impliciti ed estremamente efficaci: Ma... ci facevano filare. Ci facevano lo scherzo, magari, del pezzo che è andato alla forgia, è venuto rosso... tu non lo sapevi, e era ridiventato nero... «Prendimi quello! Bisogna metterlo là! » «Abh! ahh!»
Ma sono scherzi che fanno nel mestiere. Impari il mestiere! ”°.
Sicuramente, come lui stesso dice, Franco «impara il mestiere » attraverso
episodi di questo tipo, ma «impara » anche la sua subordinazione nei confronti degli altri operai. Questo tuttavia non è il solo messaggio che deve recepire. Le gerarchie e le competenze vanno definite rispetto ad ogni attore sociale presente nella situazione. Non è un caso quindi che il primo scontro-incontro dicui egli si ricordi sia quello avuto con un altro apprendista dell’officina. E un ragazzo come lui con il quale, nello spazio del rione, Franco potrebbe stabilire una relazione paritaria di amicizia, ma che
in quella situazione si sente in dovere di definire le distanze. Si tratta di distanze apparentemente minime (l'apprendista è solo di un anno più anziano) ma che in quel contesto vengono percepite come sostanziali: Vado alla ditta Paccardi, quando comincio a lavorare... A 12 anni, neh... E l{ ho ritrovato tutti gli amici di mio padre, neh, che facevano andare avanti quest’officina... E lf, anche... E tant'è vero che io, in un certo momento mi sono messo a cantare, ero un canterino io, mentre lavoravo, neh... Facevo quelle piccole robe che facevo allora e cantavo: «Gloria, Gloria...» No... Non mi ricordo pit... Insomma... «La gloriosa bandiera tricolore della patria»!... E uno dice... Di quelli che era già un anno... Io avevo 12 anni, quello ne aveva 13: «Ma piantala If di cantare quello! » «E cosa devo cantare?» «Canta “Bandiera rossa”! » E io mi sono messo a cantare « Bandiera rossa». Era proprio il... il crogiolo, ecco... che... Io non capivo perché dovevo cantare « Bandiera rossa» e non «Salve salve gloriosa bandiera»... Ha capito?... Non riuscivo a rendermi conto! Ma loro, loro mi hanno insegnato: «Ma piantala lf! »?.
Le dinamiche di interazione sono molto chiare. Franco, accettando
l'imposizione dell’apprendista riconosce la propria subordinazione all’interno di questa relazione specifica. Ma, nello stesso tempo, proprio perché accetta di cantare «Bandiera rossa», accetta anche il gergo rionale con tutto ciò che questo significa. Franco in questo caso dice di avere imparato. Di avere cioè capito il significato del socialismo attraverso interazioni di questo tipo. In un certo senso questo è vero. Ma ancora una volta attraver-
so queste dinamiche non si richiede essenziale l’adesione cosciente del singolo al gergo, quanto la sua accettazione indiscussa. Emerge dunque sempre di più la complessità del significato rituale del discorso socialista rio26 Intervista a Franco Rolle, nastro RR oc.
2 Ibid.
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nale. Esso è un discorso comune teso alla celebrazione dell’uguaglianza. Questa celebrazione funge da rituale che permette l'interazione tra attori sociali dalle storie e dalle identità individuali diversificate. Esso è quindi, in questo senso, anche il canale di controllo della conflittualità. Accettare il discorso socialista, nel suo risvolto locale del gergo dell’uguaglianza, significa dunque confermare gerarchie e competenze di ruolo per garantire, paradossalmente, la propria seppur minima autonomia e diversità individuale. 4. Risorse e limiti della socialità di quartiere.
Nel corso del secondo capitolo, analizzando i dati dei due campioni, avevo mostrato come lo stanziamento nei quartieri operai rappresentasse
per molte famiglie una delle tappe interne al percorso più globale di integrazione alla città. Una migliore situazione abitativa, la maggiore stabilità dei prezzi degli affitti e, per molti capifamiglia, la vicinanza alla fabbrica, erano gli elementi che sembravano offrire alle famiglie una prima concreta possibilità di miglioramento delle proprie condizioni di vita nell'ambiente urbano. Pur se estremamente differenziate tra di loro, le strategie individuali e familiari coincidevano dunque su un punto: la generale richiesta di miglioramento, l’idea di progredire socialmente stabilendosi nei nuovi quartieri.
Ora, procedendo al di là (0, meglio, all’interno) delle cifre statistiche, abbiamo visto come la convergenza di queste strategie abbia dato origine, negli anni della formazione dei quartieri, ad una strutturazione dei rapporti sociali dalle forme e dalle dinamiche particolari. Al di là delle previsioni individuali, il tessuto di relazione dei nuovi rioni ha sviluppato in pochi anni un sistema di scambi e di comunicazioni informali, caratterizzato dal-
la sovrapposizione nelle stesse maglie di ruoli ed identità differenti e insieme, necessariamente, una forte attività normativa e rituale. Se quindi la scelta di orientarsi verso un quartiere operaio è stata dettata, all’origine, soprattutto da considerazioni quali il costo della casa e/o la vicinanza del posto di lavoro, indubbiamente essa si è trasformata, nella realtà di chi si è stabilito in questi ambiti, nella complessa serie di dinamiche analizzate. Percepita come semplice opzione tra un polo abitativo e un altro, questa si è dunque rivelata, per alcune famiglie, una scelta globale che ha indotto lo sviluppo di comportamenti ed attitudini sociali particolari. Due domande sorgono a questo proposito. Da un lato in che misura le richieste individuali e familiari di miglioramento siano state esaudite; dall’altro se alcuni degli elementi nuovi e imprevisti che caratterizzano la nuova situazione hanno costituito un freno e un limite alle strategie e alle aspi-
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razioni stesse delle famiglie. Due domande alle quali è difficile dare una risposta univoca. Consideriamo innanzitutto la prima; i vantaggi cioè che questo tessuto è stato in grado di fornire ai suoi abitanti più stabili. Essi sono innanzitutto la possibilità di accesso ad alloggi meno cari, più ampi e confortevoli. A parità di grado professionale e per le stesse classi d’età in entrambi icampioni i capifamiglia che negli anni ’10 e ’20 abitano nei rioni operai hanno un’abitazione mediamente più ampia e nella quasi totalità dei casi fornita di servizi interni. In secondo luogo la possibilità di costruire, attraverso le relazioni di vicinato e rionali, un sistema di scambi che ga-
rantisce non solo l’uso razionale delle risorse familiari ma anche il sostegno in caso di crisi, individuale e familiare. E questo traspare, come si è visto,
dalle testimonianze ma anche dai dati aggregati. Ricordiamo ad esempio come, tra gli adulti che negli anni ’10 e ’20 vivevano stabilmente nei quartieri operai, non si verifichi nessun caso di grande mobilità discendente. I casi di accattonaggio o di lavoro più che precario (ambulante, facchino a giornata, ecc.) compaiono, per queste classi d’età, unicamente presso famiglie operaie esterne a questi ambienti o che li toccano tangenzialmente.
Ciò significa che i rioni hanno saputo costruire, nelle loro maglie più stabili, un sistema di garanzie indubbiamente efficace. In caso di licenziamento — per non citare che un esempio - le reti di relazione maschili sono, in quegli anni, un canale di informazione sui possibili lavori o di vero e proprio collocamento, molto più efficace di quelli ufficiali. Inoltre, sempre i dati dei due campioni mostrano come presso i primi abitanti non si registri ancora la netta flessione dei casi di grande mobilità ascendente che interesserà invece i loro figli e le classi successive d’età: i nati cioè tra il 1902 e il 1911 etrail 1912 e il 1925. Per loro (come per chi negli stessi anni viveva al di fuori degli spazi operai) le uniche variabili che diversificavano effettivamente le possibilità individuali erano infatti quelle legate alle opportunità interne al ciclo di vita individuale e familiare. Le abbiamo lungamente analizzate. Esse sono la configurazione dei rapporti di parentela e la storia familiare, il numero dei figli, l'età matrimoniale, ecc.
Se dunque consideriamo tutti questi elementi, dobbiamo ammettere che la scelta di stanziamento nei quartieri operai - quali che siano state le strategie e le determinazioni che l'hanno generata — ha indubbiamente pagato, per queste famiglie e per queste classi d’età. Tuttavia, prendendo ora in considerazione il secondo interrogativo, abbiamo visto come gli stessi elementi che contribuiscono a creare un ambiente protettivo e foriero di garanzie producono anche uno spesso strato di norme e costrizioni
sociali” 28 Un'analisi analoga a quella qui presentata che mette in rapporto la densità delle reti — la maggior intimità dei legami — e le opportunità di mobilità sociale, si trova in Granovetter, The strength of weak ties cit.
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Non so se sono stato in grado di rappresentare efficacemente il senso di chiusura e di vera e propria oppressione che, spesso al di là delle razionalizzazioni dei testimoni, ogni rievocazione ci trasmette, anche quella più agiografica: il peso costante del controllo sociale, la rigidità delle norme di comportamento e dei rituali. Si è visto come norma e ritualità fossero necessarie per permettere la coesistenza di diverse identità e di diverse strategie negli stessi spazi e negli stessi ambiti di relazione. Ma si è anche osservato come tutto ciò gravasse sulle possibilità di espressione individuale, sulle libertà di ciascuno. Stabilire in che misura questi meccanismi fossero vissuti come oppressivi è difficile. Sicuramente, riferendoci agli esempi già noti, Enea Valenti si sentiva più schiacciato dalle norme rionali di quanto non si sentisse Antonio Ferrero, il padre di Mario. E, probabilmente, anche il carattere di Pietro Odasso, che ci viene restituito come chiuso e riflessivo a differenza di quello aperto e gioviale di Giovanni Berra, nasconde una integrazione sofferta. In ogni caso, è certamente sui giovani, su chi deve costruire la propria identità, che sembra gravare maggiormente il peso di questo mondo chiuso al suo interno. E questo sia per la normatività delle scelte professionali che le famiglie dei rioni operai tendono ad imporre at giovani, sia per la scarsa possibilità offerta da questo ambiente di esprimere pubblicamente le proprie aspirazioni, i propri sogni. Nei rioni,
infatti, l’unica carriera che i genitori sembrano concepire è quella operaia. Se per le famiglie esterne a questi ambienti abbiamo esempi (seppur pochi) di figli che dopo la scuola dell’obbligo accedono a corsi superiori di studio a tempo pieno, nei rioni, come si è visto, tutti i ragazzi, di 11, 12 anni, so-
no già apprendisti. Per molti, è chiaro, non esiste realmente la possibilità di studiare. Ma per molti altri (ad esempio i figli unici in una famiglia di operai specializzati) questo passo non può che essere inteso come il prodotto di una scelta normativa introiettata dai genitori. Restano, come dicevo, i sogni, le aspirazioni; cozzano però, anche questi, con la fitta coltre del realismo sociale di cui sono impregnate tanto le famiglie come gli spazi pubblici. Ciò che caratterizza di più l'ambiguità presente nei rioni è infatti proprio la distanza spesso acuta e dolorosa che sembra aprirsi tra il mondo individuale, sempre di più obbligato nei confini della fantasia, e il mondo quotidiano, legato a discorsi e a comportamenti stereotipati. Discutendo con molti dei testimoni, mi ha colpito vedere come gli aneddoti emotivamente piu ricchi siano spesso legati a ricordi di esperienze individuali vissute quasi celandosi al rione o addirittura nonostante la presenza del rione. C'è un aneddoto in particolare che mi ha dato la misura del peso di questi ambienti. E un ricordo di Giuseppe Odasso. Giuseppe, che conosceremo meglio nel prossimo capitolo, ha forse avuto un unico grande amore, un’unica vera propensione che ha cercato — con scarso successo — di sviluppare
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per tutta la vita: quella del disegno e della fotografia. Nell’aneddoto, che di per sé potrebbe sembrare banale, compaiono quindi questi temi anticipati dalle sue fantasie di bambino. C’è un momento di intimità tra Giuseppe e la sua fantasia che lo porta a dimenticare il rione; ma esso ricompare, bruscamente, riportandolo alla realtà quotidiana: ... mi ricordo... mi ricordo che ho trovato un coperchio di lampione. Sa, e qui... Quei... faccia conto di vedere quei coperchi con quattro lati... E c’aveva un foro, nel mezzo... Cosf: [mostra un foro di 6, 7 centimetri]. Io ho trovato quell’affare If... E si vede che avevo una matita, un pezzo di carta. Sono andato... Sa dove c’è Milanesio? [un negozio di Borgo San Paolo]. Lî c’era tutti prati. E c’era dei muretti. E si vede che era d’estate. Mi son seduto sopra un muretto con quello ll... Cosf... E guardavo attraverso quello If. [Mima se stesso con il braccio teso che regge il coperchio di lampione, come per inquadrare, attraverso il foro, la prospettiva del paesaggio]. Basta, non so le ore che sono stato lf... A casa non mi trovavano più. Poi, quando sono arrivato a casa!...”°. 29 Intervista a Giuseppe Odasso, nastro RR 1a.
Capitolo sesto Gli anni del fascismo. La disgregazione dei quartieri operai vista attraverso un gruppo di giovani
Tra le maglie del mito di una idilliaca socialità degli anni eroici del rione si inserisce, nelle rievocazioni dei testimoni, il mito della loro giovinezza comune, del loro gruppo di amici. E un mito ristretto alla loro memoria, ma persistente e legato al più generale rimpianto per un’epoca e per un am-
biente poveri, ma caratterizzati dall’uguaglianza, dalla schiettezza dei rapporti sociali. Il concetto di uguaglianza, di identità, è forse quello che emerge più nettamente e che lega, spesso senza soluzione di continuità, le figure delle generazioni fondatrici dei rioni alla storia della loro amicizia e del gruppo che ne è derivato. Il mito d’origine dei loro rapporti, che tutti raccontano nella stessa forma, insiste proprio su questo tema. Li, in piazza Marmolada, era il nostro campo da football!... Da mezzogiorno alle due... si giocava a football. Perché poi avevamo tutti le biciclette... Come suonava la... allora si sentiva la sirena della ferrovia di via Pier Carlo Boggio... suonava 10 minuti alle due. E allora, vzuumm!... Via!... Si scappava via perché lavoravamo già tutti. Chi lavorava da Chiantelassa, chi da Ceirano, chi da un’altra parte... E si andava a lavorare, e si arrivava tutti sudati. Ci siamo conosciuti cosî. Del ’24. Primavera del 24... Ma abbiamo subito legato, eh... Si capisce, eravamo tutti operai e figli di operai...'.
Ho riportato le parole di Giuseppe ma esse sono intercambiabili con quelle degli altri testimoni. Tutti infatti insistono sulla profonda identità che ha permesso il loro incontro e la nascita immediata dell’amicizia: la stessa figura sociale e professionale, la condivisione dello stesso spazio rionale, ma anche le stesse aspirazioni e gli stessi interessi. Tutti questi sono gli elementi che costituiscono la falsariga del mito del loro gruppo giovanile, dai successivi sviluppi fino alla sua disgregazione. Vediamo brevemente i momenti cruciali di questa storia. Dai primi incontri informali avvenuti sulla piazza del rione, quasi automaticamente — sempre secondo il racconto dei testimoni —- ognuno matura l’esigenza di sancire ufficialmente i rapporti di amicizia appena nati. Nasce cosî, nell'inverno del 1925 e a solo un anno di distanza dalla prima ! Intervista a Giuseppe Odasso, nastro RR sa.
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aggregazione, la «Società Sportiva Polo Nord». Gravitano intorno ad essa una ventina di ragazzi. Ma il gruppo centrale, quello dei fondatori, è formato «come nelle squadre di calcio » dagli undici ragazzi «più anziani». Nell’atto di fondazione della Società - che i giovani avevano compilato con cura rituale - troviamo i nomi di Giuseppe Odasso (17 anni), Mario Ferrero (16) e Franco Rolle (17), i tre testimoni che già conosciamo. Oltre ai loro nomi, compaiono quelli di Marco Berra (il fratello maggiore di Luigi, allora diciassettenne), Giuseppe Brustia (17 anni), Silvio Bosticco (16), Silvio Casana (16), Luigi Chiusano (18), Antonio Frigerio (15), Nino Mei-
nardi (16), e Giorgio Revelli (17). Luigi Berra, che nel 1925 ha solamente 13 anni, fa parte del gruppo dei più giovani. Essi gravitano intorno agli undici fondatori partecipando ad alcune attività, ma entreranno a far parte attiva della società solo nel 1928. È questo un anno ricordato come l’anno d’oro del gruppo. La Società, ormai avviata, è divenuta numericamente più ampia e nel frattempo si sono ancor più consolidati i rapporti di amicizia. Gli adolescenti sono diventati dei «giovani» che ampliano il ventaglio dei loro interessi e, raccogliendo il gruppo dei pit giovani, trasformano la società da «Sportiva» a «Ricreativa». Il nucleo centrale rimane quello degli undici fondatori cosi come lo sport rimane l’attività privilegiata. Ma gli interessi di tutti si sono allargati e con uno sforzo comune gli amici affittano, nella via centrale del rione, un piccolo locale che viene adibito a sala da ballo e centro sociale. Competizioni sportive, feste e pranzi sociali costituiscono la memoria comune dei testimoni a partire dal 1928. Una memoria che è in grado di coprire quasi un decennio. Poi, improvvisamente, nella seconda metà degli anni ‘30, il gruppo si dissolve. «E perché ci siamo sposati tutti!... E allora, con la famiglia... E poi è venuta la guerra! » Il matrimonio e la guerra. Su questi due elementi — dicono gli anziani - il gruppo, che si era mantenuto fino ad allora compatto, si è disgregato. Nessuno si vedrà per più di trent’anni, fino a quando, nel 1972, Giuseppe, con l’aiuto di Mario Ferrero e grazie ad una paziente ricerca, riesce a rintracciare e a riaggregare dodici dei vecchi appartenenti alla Società. Non tutti fanno parte del nucleo originario. Degli undici fondatori, si sono riaggregati solamente Mario, Franco, Giuseppe, Giorgio Revelli e Antonio Frigerio. Questo perché alcuni di loro sono morti o hanno fatto perdere le proprie tracce; ma anche perché — come nel caso di Meinardi, Chiusano e lo stesso Marco, il fratello di Luigi Berra —- dopoi primi incontririhanno rolontaziamente interrotto i contatti. La storia di questo gruppo è canonica. Se si facesse un’analisi di tipo proppiano delle storie e delle rappresentazioni di diversi gruppi o bande giovanili, giungeremmo sicuramente a rintracciare gli stessi elementi strut-
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Capitolo sesto
turali: un mito originario di uguaglianza, un’epoca d’oro del gruppo, un corpus di aneddoti comuni da ricordare (simbolici e rappresentativi dell’uguaglianza), e infine il trauma della rottura e della maturità rappresentato dal matrimonio?. Se poi si potessero osservare casi di «rimpatriate» analoghi a quelli del gruppo del Polo Nord, si potrebbero sicuramente notare altrettante assenze. Di chi non ha voglia di ricordare, di chi non ha l’esigenza di ricordare, di chi è scomparso. Cost pure, infine, si potrebbe osservare come, molto spesso, nel momento del ritrovamento le persone più disponibili ed attive siano quelle una volta pit periferiche al gruppo: chi faceva da sfondo e ora invece si ricorda con gusto mille particolari e aneddoti che gli stessi interpreti avevano dimenticato. Pure, questa storia ci interessa in modo particolare. Al di là della sua canonicità, nelle scelte e nei comportamenti dei suoi protagonisti si rispec-
chia infatti la complessa trama delle determinazioni che abbiamo potuto mettere in luce finora. Il peso della famiglia, delle diverse pressioni ed informazioni che essa convoglia, il confronto con un ambiente normativo e protettivo come quello rionale, la diversa posizione di ognuno all’interno del ciclo di integrazione urbana; tutti questi elementi si riconoscono nella vita di ciascuno dei protagonisti del gruppo di amici. Esemplificando la complessità di un processo storico, essi rendono conto, nello stesso tempo, dei posti rimasti vuoti tra le tavolate odierne del gruppo, cosî come delle reinterpretazioni e delle razionalizzazioni di un passato e della vita di un ambiente di cui sono portatori gli unici commensali rimasti. Per arrivare a questo, dunque, usando ancora una volta il bisturi analitico, dobbiamo cercare di separare impietosamente il mito e le razionalizzazioni posteriori dai comportamenti e dalle aspirazioni che permeavano il gruppo tutto e il suo ambiente di allora. Nel primo paragrafo ricostruirò quindi la storia del gruppo tentando di epurarla dei suoi caratteri mitici. Confrontando le testimonianze e analizzando le scelte concrete di ognuno, disegnerò il percorso di tutti i suoi componenti. Nel secondo paragrafo vedremo agire concretamente le variabili emerse nel corso dell’intero lavoro: le modalità dell’immigrazione e dell’insediamento, il ciclo di integrazione urbana, le aspettative e le esperienze familiari ci aiuteranno a comprendere 2 I gruppi giovanili in ambiente urbano sono stati prevalentemente studiati nei loro aspetti di ribellione organizzata o in quelli sociologici delle mode di cui essi sono i portatori. Su questi temi cfr. Resistance through rituals, numeri monografici di « Working Papers in Cultural Studies», University of Birmingham, n. 7-8, 1975 che oltre ad alcuni articoli interessanti contengono una bibliografia esaustiva sull’argomento. Più in generale sulla cultura giovanile in ambiente urbano cfr. l'ormai classico W. F. Whyte, Street corner society, Chicago 1943; e P. Cohen, Sub-cultural conflict and working-class community, in «Working Papers in Cultural Studies», University of Birmingham, n. 2, 1972; G. Mungham e G. Pearson (a cura di), Workingclass youth culture, London 1976. Un’attenzione molto acuta ai gruppi di età e al loro ruolo nella vita sociale delle comunità è stata rivolta, per l’età moderna, da N. Zemon Davis; cfr. in particolare I riti della violenza
in Id., Le culture del popolo, Torino 1980 e la ricchissima bibliografia ivi contenuta.
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il senso e la direzione delle singole storie individuali, le scelte come le razionalizzazioni a posteriori. Nel térzo paragrafo infine, glielementi prima scomposti delle biografie di questi giovani degli anni °20 e ’30 verranno restituiti al teatro dei comportamenti sociali dei rioni. L'analisi si concentrerà sugli effetti e gli esiti dell’interazione tra il tessuto tradizionale e i più vasti cambiamenti intervenuti nella prima metà del secolo: il processo di crescita industriale ma soprattutto l’intervento fascista, con le nuove proposte di vita e di socialità che esso avanzava. Il quartiere e i giovani tra le due guerre. La messa in scena delle differenze.
Il periodo di formazione del gruppo che nella rielaborazione comune, recentemente operata dai testimoni, viene giudicato secondario rispetto a quello iniziato nel 1928 con l’allargamento della Società, appare invece, ad un più attento esame, quello in cui sono meno presenti tensioni e divergenze, e forse l’unico caratterizzato da una reale identificazione collettiva dei suoi appartenenti. Negli anni compresi tra il 1924 e il 1928 il gruppo e il quartiere sembrano costituire effettivamente i poli centrali e dominanti delle vite di relazione dei testimoni, allora appena adolescenti. E nel gruppo che Mario, Giuseppe, Franco e tutti gli altri amici riponevano le loro aspettative e le loro energie. Nel 1925, ad esempio, Giuseppe, che ha appena compiuto 16 anni, è legato ad almeno quattro ambiti di relazione: la sua famiglia e le reti che da essa si dipanano, il mondo dell’officina in cui lavora, quello delle scuole serali, e infine quello della socialità territoriale del gruppo. Ma l’unico mondo in cui cerca di approfondire i suoi rapporti e a cui del resto fa riferimento totale è proprio quello del gruppo. «A casa non mi trovavo! — dice Giuseppe. - Mangiavo, e poi scappavo in strada». E ciò sembra comprensibile per chi, entrato nell’adolescenza, vive il periodo del proprio ciclo di vita in cui le tensioni intergenerazionali sono inevitabili e necessarie. Ma anche sul lavoro e nelle scuole serali Giuseppe non ha costruito nessun rapporto che continui al di là dei muri della fabbrica o della scuola. D'altronde, anche Silvio Casana, l’unico che non lavora e che frequenta le scuole superiori, stando ai ricordi dei suoi vecchi amici, non sembra in
quegli anni venire meno al richiamo totale del gruppo. Certo, nelle scelte dei ragazzi emergevano già molti elementi di diversificazione. In quelle di Silvio Casana, innanzitutto, che a differenza dei suoi amici frequenta i corsi superiori di ragioneria. Ma anche nell’ambito di chi lavora le scelte si sono diversificate, per il tipo di qualificazione ri-
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Capitolo sesto
cercata nelle scuole serali. Mentre Mario Ferrero e Luigi Chiusano sono gli unici ad aver frequentato i soli corsi triennali di avviamento al lavoro, tutti gli altri seguono corsi più complessi, della durata variabile tra i sei e gli otto anni’. Tra questi ultimi, poi, mentre alcuni si sono orientati verso specia-
lizzazioni tradizionali (è il caso ad esempio di Giuseppe Odasso che, seguendo le orme paterne, si specializza in falegnameria), altri hanno puntato su materie
«nuove» come la meccanica e il disegno tecnico (i fratelli
Berra, Rolle, Revelli, ecc.). Ma questi aspetti - che favoriranno la loro differenziazione professionale e che soprattutto connotano fin da allora diverse aspirazioni e matrici di determinazioni familiari - non sembrano essere stati presenti alla coscienza individuale dei ragazzi che vedevano il gruppo come un tutto unico e indistinto. L’identità sociale e professionale utilizzata come variabile esplicativa nel mito d’origine del gruppo non è dunque alla base della sua unità. Le ragioni della forte coesione degli undici ragazzi vanno piuttosto ricercate nel carattere particolarmente indefinito del ruolo in cui si trovava un adolescente in quegli anni, all’interno di un mondo rionale cost isolato, cosî gerarchico e normativo. Non solo chi studia, come Silvio Casana, ma anche chi lavora — se
adolèscente - si trova in una posizione di ruolo del tutto «liminale». In casa come negli spazi pubblici rionali, egli non è più, come nell’infanzia, sotto il continuo e diretto controllo delle reti di relazione degli adulti. Ma, ciò nonostante, si trova ancora totalmente subordinato in ognuna delle diverse gerarchie situazionali. Giuseppe Odasso ad esempio ricorda come, pur lavorando da anni, non aveva avuto il diritto di intervenire in nessuna discussione domestica — neppure in quelle che lo riguardavano direttamente - fino al suo ritorno dal servizio militare (nel suo caso a 19 anni).
Non solo: consegnava settimanalmente l’intero stipendio ai genitori che decidevano e programmavano anche le sue piccole spese e i suoi consumi. Individualmente Giuseppe riceveva una piccola somma di denaro con cui — mi dice - poteva pagarsi unicamente i trasporti, le sigarette e, di tanto in tanto, uno spettacolo cinematografico. Cosf è per tutti gli altri ragazzi. Uno dei ricordi di quegli anni che sono rimasti impressi nella mente di Franco Rolle è ad esempio quello legato al suo desiderio di comperarsi } E necessario, a questo proposito, tenere conto dell’estrema complessità del quadro dell’istruzione tecnico-professionale torinese. Istituti statali, privati (religiosi e laici) e scuole aziendali si affiancano nel proporre ai giovani del periodo tra le due guerre decine di curricula scolastici che implicano qualificazioni diverse e scolarità variabili tra i due e gli otto anni. A corsi biennali o triennali di avviamento al lavoro si affiancavano infatti corsi più ampi nei quali, dopo un triennio di formazione generale, i giovani seguivano un indirizzo specialistico (meccanico, di carpenteria, chimico, ecc.) che comprendeva anche materie generali come il disegno meccanico, la fisica, ecc. (Cereja, L'istruzione cit.; Consorzio Provinciale per l'Istruzione, Istruzione tecnica e professionale nella città e nella provincia di Torino, Torino 1931; Id., Relazione sull'attività svolta
(1936-1940), Torino 1941; O. Bertero e G. Melano, Indagine sulle scuole professionali di Torino, Torino 1947).
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un paio di scarpe per giocare al pallone. Il desiderio, espresso in casa, era stato giudicato stravagante. Come risultato della sua richiesta, Franco aveva ricevuto un paio di scarpe di foggia militare che, secondo il parere della madre, sarebbero state utili sia per giocare, sia per andare a lavorare. D’altro lato, sul lavoro, questi ragazzi si trovano in una posizione analoga. A 16, 17 anni quasi tutti hanno terminato il loro apprendistato. Molti hanno già cambiato diverse officine. Sono, o perlomeno si sentono, abbastanza qualificati. Ma vengono trattati come operai semplici e soprattutto come dei « ragazzi». Inoltre, ad aggravare questa subordinazione vissuta come avvilente, c’è il fatto non avendo terminato le scuole professionali e non avendo ancora prestato il servizio militare, difficilmente possono iniziare una vera e propria carriera operaia all’interno delle grandi industrie torinesi. Soprattutto il servizio militare èdeterminante. Come mi ricorda continuamente Mario Ferrero, le uniche officine che offrono facilmente
lavoro a chi dovrà assentarsi per almeno un anno, sono quelle stesse che li avevano ospitati come apprendisti. Piccole officine quindi, caratteristiche per la loro conduzione familiare e la scarsità della manodopera impiegata. In questi ambienti, accanto ad un piccolo gruppo di operai stabili e più anziani, gli apprendisti e i giovani costituiscono la componente mobile e quindi totalmente subordinata della manodopera interna. Giuseppe, ad esempio, ricorda di aver lavorato, nel 1925, in una piccola officina che produceva mobili per ufficio. In tutto c’erano sei addetti: il padrone e un suo fratello, un anziano operaio specializzato (il vero factotum della ditta),
due operai semplici, Giuseppe stesso e un apprendista. A torto o a ragione Giuseppe sentiva di aver ormai raggiunto una certa professionalità. Ma, di fatto, l’immagine che gli veniva rimandata all’interno dell’officina non corrispondeva alle sue aspettative. Veniva pagato poco pit di un manovale pur svolgendo mansioni complesse ed era in una posizione di subordinazione nei confronti di tutti i colleghi, ad eccezione dell’apprendista. Sono questi gli elementi che contribuiscono a cementare cosî saldamente l'amicizia dei primi anni. La comune ristrettezza economica che, deprivando i quartieri centrali delle loro maggiori attrattive come i caffè, i cinematografi e i teatri, induce i ragazzi a rifugiarsi ulteriormente nel mondo conosciuto e più ospitale del rione; ma soprattutto la comune indeterminatezza di ruolo, la mancanza di una risposta univoca da parte di tutti gli ambienti di relazione sulla loro identità. Una risposta che invece si trova facilmente nel gruppo: stessa età, stesso territorio, stessi limitati consumi. Naturalmente una tale coesione — proprio perché nasce grazie alla comune indefinitezza di ruoli — è temporanea e superficiale. Già nel 1928, l’anno dell’ampliamento e della trasformazione del gruppo in «Società Ri-
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creativa», molti degli elementi che cementano i rapporti degli undici fondatori si stanno rapidamente trasformando. In primo luogo tutti hanno terminato le scuole e il servizio militare. Il confronto con il mercato del lavoro cittadino, fino ad allora rinviato, diventa quindi una realtà. Silvio Ca-
sana, diplomatosi ragioniere, inizia a lavorare come impiegato in un ufficio del centro. Marco Berra, Giorgio Revelli, Mario Ferrero, Bosticco e Fri-
gerio sono assunti come operai in alcune delle grandi fabbriche metalmeccaniche. Chi, come Franco o Giuseppe Odasso continua a lavorare nelle
piccole officine rionali, ricopre ora il ruolo di operaio specializzato mentre gli vengono affidati quelli che Franco definisce «lavori di responsabilità ». Forse nessuno di questi giovani ha una chiara percezione né delle possibilità offerte oggettivamente dal mercato del lavoro né delle implicazioni delle proprie aspirazioni. Pure, sicuramente proprio in quegli anni, ciascuno acquista coscienza di poter iniziare a decidere, scegliere e prospettare
il proprio percorso professionale. Per la prima volta da quando ha iniziato a lavorare Giuseppe pensa ad esempio di poter fare «carriera» o di poter cambiare attività. Percepisce sia la possibilità di gestire autonomamente una piccola officina («praticamente lf, — ricorda, —- potevo diventare padrone! »), sia la possibilità di diventare fotografo, approfondendo un hobby che coltivava quasi per caso da alcuni anni. Non diventerà padrone (il padre e i suoi amici sconsigliano un'avventura imprenditoriale che dovrebbe iniziare all’insegna delle cambiali) ma si iscrive comunque ad una scuola fotografica serale. Cosî è per tutti gli altri ragazzi. L'impatto con il mercato del lavoro «adulto» significa la possibilità di misurare concretamente la propria posizione professionale ma anche i propri sogni e le proprie paure. D'altro lato, accanto a questa mutata prospettiva nel mondo del lavoro, inizia a cambiare anche il loro ruolo all’interno della famiglia. Fin dal ritorno dal servizio militare i testimoni acquisiscono il diritto di intervenire in molte delle decisioni comuni e di gestire, per la prima volta, la quasi totalità del proprio salario e dei propri consumi. Franco ricorda bene questo cambiamento. Nel suo caso si era trattato di un vero e proprio «patto economico». Contribuiva infatti all'economia domestica pagando una parte dell'affitto e del vitto; ma aveva libertà di scegliere se risparmiare il resto del suo salario o se spenderlo in consumi secondari. Meno rigido nel caso di Giuseppe o Mario, il mutato rapporto all’interno della gerarchia familiare implicava comunque l'improvvisa possibilità di scegliere come orientare i propri consumi. Mario quindi, continuando di fatto la politica della madre, risparmia gran parte di ciò che gli rimane. Giuseppe invece inizia a soddisfare, pur con fatica, alcune delle sue aspirazioni finora represse. Piccole cose, ma per lui molto importanti. Si compera una macchina fotografica nuova (aveva un apparecchio che gli era stato regalato perché difet-
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toso) e si iscrive al Touring Club Italiano («l’iscrizione costava ben 10 lire!
Ho faticato prima di iscrivermi»). La fine dell'adolescenza significa dunque, per questi ragazzi, soprattutto un mutamento di prospettiva. L’ottica entroflessa del gruppo dei pari inizia a lacerarsi per spostarsi lentamente verso l'esterno. Un movimento che è REgHIO senza dubbio in grande misura dalla nascita dell’interesse sessuale: Il problema, il problema sessuale, eh... Quando arrivi a 18, 19 anni, hai biso-
gno delle donne e lf non era possibile chiacchierare eh!... Non era possibile parlare. Questo diventava una cosa eh... Non potevi parlare con tua mamma, nemmeno col papà; il papà non ci arrivava eh... Ma non solo il mio, e gli altri. E noi ci confidavamo tra di noi le cose più... Perché l’uomo ha bisogno di essere consigliato, vero? ”.
ì
Pur se maturato da tutti e, come dice Franco, divenuto un tema collettivo, l’interesse sessuale contribuisce ad incrinare la socialità strettamente ma-
schile del gruppo e accentua le diverse propensioni dei ragazzi. Per alcuni, come Mario Ferrero, il sesso è visto come un altro tema da vivere collettivamente: Mario Ferrero «Prima di 18 anni c’erano già quelli che si permettevano di andare a fare certi giri che gli altri non potevano andare a fare! » Luigi Berra «Certo, perché allora c'erano le case chiuse, no...» Mario Ferrero «C'erano le case chiuse! » Luigi Berra «Allora si andava... Quelli che avevano 18 anni...» Mario Ferrero «Io so che c’era Frigerio e altri che mi mettevano in mezzo... ti mettevano in mezzo e oph, tach! Ti facevano entrare [anche se non avevi anco-
ra compiuto l’età]»”.
Ma per altri, come Franco o Giuseppe, l'iniziazione sessuale è più complessa, frutto di un percorso individualmente sofferto: E allora sono andato a fare un corso lf al dopolavoro Fiat... E c’era il professor Bizzonero. Era un professore delle malattie, come si chiama If... di quelle malattie If... Un professore. E quello mi ha fatto una fifa!... «Quelli che vengono da me, sono andati tutti con sua cugina! Non sa che sua cugina ha la lue, la sifilide? Andate nelle case di tolleranza!...» Io li non ci potevo andare eh... io. Lî, dentro un bordello?... E stato un brutto momento! E proprio stato un brutto momento. E poi... vado a soldato a Bologna... E lf mi sono risolto il mio problema!... Con una figlia... era una figlia onesta, eh... Una figlia... figlia di famiglia! °.
In questa prospettiva, è chiaro che è difficile accettare l’interpretazione odierna che dànno i testimoni dell'ampliamento e della trasformazione del gruppo in «Società Ricreativa». Lungi dall’essere un momento di maggior 4 Intervista a Franco Rolle, nastro RR ob. 5 Intervista a Luigi Berra e Mario Ferrero, nastro RR sd. 6 Intervista a Franco Rolle, nastro RR gb. II
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coesione — l’inizio dell’«epoca d’oro» dei loro rapporti — esso riflette piuttosto la necessità di ridare vita ad un’unione di cui si vede o si intuisce la crisi, tentando di ricondurre in uno spazio comune nuove figure e nuovi temi di interesse. Non a caso, fin dal 1928, le maglie del gruppo iniziano a comprendere non solo i ragazzi delle classi d’età contigue (pit giovani e più anziani dei fondatori), ma anche le ragazze del rione. Cosî pure, i temi ufficiali di interesse comune, fino ad allora rigidamente confinati allo sport, si allargano fino a comprendere il ballo, le feste, i pranzi sociali. E un'operazione che riesce solo in parte. Formalmente infatti i rapporti di amicizia continuano. Ma di fatto il gruppo allargato inizia a segmentarsi in aggregazioni più piccole in cui le relazioni sono scelte a partire da affinità di temi e modelli di comportamento sempre più specifici e divergenti. Revelli, Frigerio e Meinardi, ad esempio - tre dei fondatori originari — tendono a fare gruppo a parte con nuovi soci come Bertero o Perlino. Ciò che li unisce e che li distanzia da altri giovani come Ferrero è la voglia di distinguersi attraverso consumi piccolo borghesi, la loro aspirazione ad una vita elegante: Mario Ferrero «C'era Nino Bertero, c’era Revelli... e allora erano già... Si volevano staccare un po’... Per esempio a loro al teatro piaceva andare con ilfuco/ ben messo, e...» » Giuseppe Odasso «Ma c’era anche Dario, che poteva...» Luigi Berra «Aveva una posizione già discreta! Era maresciallo dell’aviazione... quindi,... ha fatto una carriera diversa dalla nostra...» Mario Ferrero «O? come c’era Meinardi! » Lucia Odasso (moglie di Giuseppe) «Nino Meinardi, sf! » Giuseppe Odasso «Ma no! Aveva solo la canna da passeggio! Perché poi... » Lucia Odasso Mario Ferrero sempre tutto!»
«No, aveva 4/ bur! » [brillantina]. «Sf, 4/ burn! Lo chiamavano “cul dal bur”... Eh eh eh! Aveva
Lucia Odasso «No, perché sua mamma lo accudiva sempre più... sempre più dell’altro...» [si riferisce ad un fratello di Nino]. Giuseppe Odasso «No, era a lui che piaceva...» Mario Ferrero «Era ambizioso! Te prendi... Ah ah... cosu... Frigerio... Sergio Antonio Frigerio era come si dice un impeccabile, eh... Non lussuoso ma sempre ordinato! » Giuseppe Odasso «Ma anche Ruvinét, per esempio... »”.
L’ironia con cui Ferrero tratteggia le caratteristiche di Bertero, Revelli,
e degli altri «ambiziosi», sottolinea l’attrito che si era venuto creando tra di loro. Ma questi non sono certo gli unici elementi di tensione. Se si analizzano le attività di ciascuno nei primi anni posteriori all'ampliamento del gruppo, si può notare come la tendenza a ritagliare negli spazi comuni diverse figure e modelli di comportamento fosse generale e si accompagnasse ? Intervista a Luigi Berra, Mario Ferrero e Giuseppe e Lucia Odasso, nastro RR sd.
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spesso ad un tentativo di costruire relazioni indipendenti, esterne al gruppo e allo stesso territorio rionale. Emblematici sono ad esempio i rapporti costruiti da Giuseppe. Con i suoi amici «tradizionali», - come Marco, Franco, e Luigi Chiusano - frequenta di tanto in tanto i cinematografi e il teatro. Partecipa poi a qualche festa o raduno sociale. Ma inizia a privilegiare altri rapporti e altre attività. Con Giuseppe Bertotti, uno dei nuovi soci, ha stabilito un rapporto individuale fatto di lunghe escursioni domenicali in bicicletta. Contemporaneamente, con la sorella e un altro piccolo gruppo di ragazzi, inizia ad appassionarsi alla montagna, compiendo le prime escursioni. Infine intensifica la sua attività fotografica. Continua a frequentare i corsi di fotografia e partecipa a tutte le attività parallele che gli vengono proposte (mostre, concorsi, lavori di gruppo). Mario Ferrero, ricordando Giuseppe in quegli anni, lo dipinge come «un esagitato ». Qualcuno che era sempre in movimento e che «non sapeva neanche lui cosa voleva». Di fatto Mario rimproverava all’amico il suo tentativo di distinguersi su temi e attività a lui totalmente estranee. Tentativo per lui simboleggiato dalle riviste ben rilegate del Touring Club, dalle enciclopedie comperate a rate, ma anche dalle amicizie esterne al rione come quelle del gruppo fotografico. Sicuramente un tentativo di distinzione c’è stato, e lo dimostra il fatto che Giuseppe tende a dipingersi con insistenza come un solitario e un eccentrico che si contrapponeva proprio a figure come quelle di Mario: Io sono sempre stato un po’ orso... A me è sempre piaciuto andare in giro o cosa... Anche al bar, per esempio: c'erano poi quelli che avevano preso l'abitudine di andare solo pit al bar... Andavano a giocare al biliardo... Come Ferrero! Giocavano sempre al biliardo o alle carte! *.
Effettivamente, ben diversa era la strategia relazionale di Ferrero la cui vita era scandita dalla visita quasi settimanale alle case di tolleranza, dall’attività calcistica e soprattutto, come lui stesso ricorda, dal rapporto costante con un caffè del rione dove giocava alle carte con altri giovani ma spesso anche con gli avventori più anziani. E ancora diverso, infine, era l’atteggiamento di chi, come Marco Berra, sembrava concentrare gran parte delle proprie energie sulla carriera. Assunto come operaio specializzato in una grande industria meccanica, Marco ha l’occasione di iscriversi ad un corso di perfezionamento tecnico gestito direttamente dall’azienda. Passa quindi la maggior parte delle serate a studiare e anche le sue amicizie si ritagliano sempre di pit nell'ambiente del lavoro. Con il gruppo del Polo Nord va ancora qualche volta al cinema e, più raramente, a qualche pranzo sociale. 8 Intervista a Giuseppe Odasso, nastro RR 6b.
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La fioritura di questa varietà di atteggiamenti e strategie relazionali è estremamente interessante. Non solo perché ci mostra le contraddittorietà interne a un’aggregazione giovanile degli anni ’30, ma soprattutto perché
ci permette di cogliere, attraverso le scelte di questi giovani, anche la rottura dei modelli pubblici di comportamento rionale e parallelamente il riaffiorare sempre più netto delle differenze interne a questi tessuti sociali. I miti dello sport, i consumi piccolo borghesi, i viaggi, alcuni modelli professionali sono tutti aspetti nuovi che si insinuano negli spazi dei quartieri operai addobbando con le loro forme le vecchie tensioni finora celate”. Lungi dal ricomporsi, queste dinamiche si accentuano nel corso degli anni seguenti. Negli anni che precedono il matrimonio, infatti, ciascuno accentua le proprie scelte e intensifica le proprie strategie aumentando cosi il divario e le tensioni interne al gruppo e, in alcuni casi, allontanandosi definitivamente da esso. Marco Berra, già fondatore entusiasta del gruppo, a partire dal 1933-34 è di fatto uscito dal suo orizzonte. Come ricorda Ferrero, Marco «dormiva e mangiava» nel rione. Ma, di fatto, tutta la sua vita era ormai esterna. « Frequentava altra gente», mi dice sempre Ferrero.
Non ho potuto intervistare Marco perché mi ha opposto un cortese ma fermo rifiuto. Luigi, pur amando il fratello, non ricorda o non vuole ricordare le suè relazioni di quegli anni. Compagni di lavoro, mi dice. E probabile. Infatti Marco, già da tempo, spendeva molte delle sue energie sul lavoro e d’altronde la sua stessa carriera lo dimostrerebbe. Già nel 1932 era stato promosso capo operaio, nel 1935 ottiene la qualifica di «tecnico», quindi, nell’immediato dopoguerra diventa uno dei direttori di quella stessa fabbrica che lo aveva assunto come operaio. Più presente, pur se in maniera
parziale, è la figura di Giuseppe Odasso: egli, infatti, non interrompe i contatti con il rione e con il gruppo. Continua a frequentare la sede che, di fatto, è ormai diventata quasi una sala da ballo pubblica (con serate danzanti fisse, una quarantina di soci, un responsabile anziano, ecc.). Ma nello
stesso tempo accentua la sua tendenza a costruirsi relazioni esterne al rione. Ha conosciuto Rocco Focile, un giovane immigrato dal Sud Italia che abita nel rione ma che non fa parte della società. Con la sua mediazione si iscrive al gruppo alpinistico Ada, una sezione del Club Alpino Italiano che aveva la sua sede nel centro della città. Giuseppe e Rocco sono i soli del gruppo ad iscriversi a questa associazione che, a quei tempi quasi unica nel ? Sugli sviluppi della cultura di massa in Italia durante il fascismo cfr. E. R. Tannenbaum, L'esperienza fascista. Cultura e società in Italia dal 1922 al 1945, Milano 1974; A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d'Italia Einaudi, vol. IV/2, Torino 1975, cap. vi; P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media,
Roma-Bari 1975. Sulla politica del consenso e l’organizzazione del tempo libero cfr. V. De Grazia, Disciplina del lavoro e mediazione sociale sotto il regime fascista, in
«Annali della Fondazione Feltrinelli», 1979-80; Id.,
Consenso e cultura di massa nell'Italia fascista, Roma-Bari 1981. Sui temi dello sport e della sua ideologia tra le due guerre in Italia cfr. A. Ghirelli, Storia del calcio in Italia, Torino 1967; F. Felice, Sport e fascismo. La politica sportiva del regime. 1924-1936, Firenze 1976; Id., Storia dello sport în Italia, Firenze 1977.
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panorama delle associazioni alpinistiche, è estremamente eterogenea poi-
ché comprende soci di tutte le estrazioni sociali e provenienti da tutte le
zone della città". Sempre con Rocco, si iscrive nel 1935 al Partito nazionale fascista. «Perché avremmo potuto aver bisogno per lavoro... » dice Giuseppe. In parte ciò è vero e molti ragazzi del gruppo si iscrivono proprio in quegli anni. Tra questi Marco, Revelli, Casana. Il rapporto di Giuseppe con il fascismo è comunque più complesso, come vedremo in segui-
to. Ma, tornando ora alle sue relazioni di quegli anni, va infine ricordato il suo rapporto con Giuseppe Bertotti (a cui lo accomuna la passione per la bicicletta) e soprattutto quello con il club fotografico. Meno caotico e attivo è invece il mondo di Ferrero. Delle sue relazioni infatti c’è poco da di-
re. Anche Mario di fatto si è estraniato dal gruppo. Ma, a differenza di Marco, si è del tutto rinchiuso nelle abitudini e negli spazi più tradizionali del rione. E e rimarrà operaio specializzato; i suoi amici sono quelli della fabbrica e del caffè; frequenta il gruppo sempre più raramente. È il primo in assoluto a sposarsi. Da quando si sposa (nel 1934, a soli 25 anni) non parteciperà a nessuna attività comune.
Le figure di Mario, Giuseppe e Marco sono emblematiche. Esse infatti disegnano il ventaglio di scelte e comportamenti che è possibile ricostruire per gli undici fondatori del gruppo. Ai due estremi di questo ventaglio, possiamo collocare chi, come Mario e Marco, già all’inizio della seconda
metà degli anni ’30, si è definitivamente allontanato dal gruppo; Antonio Frigerio, ad esempio, seguendo le orme di Ferrero, si rifugia negli spazi tradizionali dei caffè e delle reti maschili del rione. All’altro estremo, che
può essere rappresentato dalla figura di Marco, la vicenda di Giuseppe Brustia che già nel 1935 non fa più parte del gruppo e ha costruito tutti i suoi rapporti all’esterno del rione. Il centro del ventaglio è occupato da figure assimilabili a quella di Giuseppe. Infatti Rolle, Meinardi, Revelli e gli altri ragazzi — pur se i loro atteggiamenti sono diversi - sono accomunati dalla tendenza ad utilizzare il gruppo ormai solo come base e mezzo di affermazione delle loro strategie personali. Mantengono quindi i contatti con la Società Ricreativa Polo Nord, mai rapporti su cui giocano la propria identità
ela propria figura sociale sono esternie separati tra di loro. Pi che essere la causa della dispersione del gruppo —- come vorrebbe il mito — il matrimonio costituisce quindi l’atto finale di un processo di disgregazione iniziato da anni. A parte Mario Ferrero (sposatosi nel 1934)
tutti gli altri matrimoni avvengono tra il 1936 e il 1939. E in questi anni 10 Il cavalier Giovanni Gay, presidente del Club negli anni ’30 ed ora depositario dell’archivio sociale, da me intervistato, conferma i ricordi di Giuseppé. Nel 1935-36 il Club comprendeva una trentina di soci dalle diverse estrazioni sociali: dai professionisti (un costruttore edile, un dirigente industriale, alcuni medici e ingegneri), agli impiegati e agli operai. Il Club si riuniva collegialmente una volta al mese; le attività si stratificavano per propensioni e interessi comuni: rocciatori con rocciatori, escursionisti con escursionisti, ecc.
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che vediamo definitivamente scomparire ogni traccia di quella socialità territoriale che — pur se in maniera progressivamente calante — si era conservata fino agli inizi degli anni ’30. Molti dei protagonisti si sono allontanati fisicamente dal rione. Degli undici fondatori, ad esempio, sei lasciano il Polo Nord subito dopo il matrimonio. E non casualmente molti di costoro sono quelli che raggiungeranno una maggiore mobilità professionale ascendente. Sono Marco Berra, che come ho detto diventerà direttore di fabbrica, Rolle, futuro capotecnico tipografo, Brustia, imprenditore, Casana e Meinardi, impiegati, e Chiusano, operaio capo. Ma anche chi rima-
ne, pur continuando a vivere nello spazio rionale, si è ormai isolato allontanandosi non solo dal gruppo ma anche dalla fisionomia sociale che caratterizzava i quartieri operai degli anni ’20. Nel borgo restano Odasso, Ferrero, Frigerio (che andranno in pensione come operai specializzati), Bosticco (operaio capo) e Revelli (impiegato). Giuseppe, come Ferrero e Frigerio,
non ha fatto carriera. La sua qualifica è la stessa del padre. Con la moglie Lucia va ad abitare nella stessa casa che lo aveva accolto adolescente. Ma tuttavia c'è ormai un’abissale differenza tra la sua maniera di vivere ed abitare il rione e quella che era stata dei suoi genitori. Il padre e la madre vivevano nel rione come in una piccola comunità. Con ruoli e attività rigidamente separate tra moglie e marito ma con reti di relazione molto radicate al territorio e nelle quali, soprattutto, tutti conoscevano tutti ed era-
no legati da diversi interessi e ruoli. Giuseppe e la moglie vivono nel rione come in una grande città. Non sono confinati nel suo spazio. In casa hanno ruoli intercambiabili e si aiutano a vicenda in molte attività. Non c’è una separazione netta tra le reti femminili e quelle maschili. Entrambi frequentano insieme i diversi ambiti di relazione che Giuseppe è riuscito a costruire intorno a sé: gli amici del Club alpinistico, due amici fotografi, alcuni colleghi del dopolavoro della ditta in cui è impiegato, i parenti di entrambi. Tutte queste persone non si conoscono tra di loro e sono legate a diversi
spazi della città".
2. Scelte dei giovani e quadro familiare. Vecchie aspirazioni e nuovi modelli di comportamento.
Ho spesso affermato che nelle tensioni interne al gruppo, nelle diverse aspirazioni e attitudini individuali, si poteva scorgere il riaffiorare e il 1! Va sottolineato che i ruoli coniugali stabiliti da Giuseppe e dalla moglie non sono pit — come nel caso dei genitori — segregati ma sono dunque divenuti di tipo complementare; cosî come le loro relazioni sociali descrivono una struttura di reti a maglie larghe. Si nota, cioè — spostata sull’asse del tempo (anni '20 e anni ’30) — la contrapposizione evidenziata da E. Bott in due diverse zone della città tra struttura familiare a segregated role (quella esplicitata dai padri) e una struttura a joint role (quella che si afferma attraverso le scelte dei figli). Cfr. Bott, Fazzi/y and social network cit.
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prendere corpo — nel periodo postadolescenziale - delle diverse determinazioni che la storia della famiglia, la sua identità e la sua posizione all’interno del ciclo di integrazione convogliavano nell’universo individuale e rionale. In questo paragrafo cercherò di esplicitare proprio questi elementi mostrando come il ventaglio di variabili emerse nel corso di tutto il lavoro sia in grado di spiegare scelte e percorsi di figure cosf diverse come quelle che componevano il gruppo del Polo Nord e insieme, quindi, i caratteri di contraddittorietà delle aggregazioni dei quartieri operai, la loro apparente solidità e la loro sostanziale fragilità. Naturalmente non si tratta qui di rifare il percorso analitico che abbiamo seguito nei capitoli precedenti, ma di chiederci quali degli elementi che hanno caratterizzato il ciclo di integrazione di ogni famiglia e che sono con essi confluiti nel'rione, hanno pesato, poi, in maniera determinante nella
biografia sociale dei figli. Riprenderemo perciò tre delle figure del gruppo di amici tra quelle che abbiamo seguito con maggior attenzione e che quindi ci sono ora più familiari: Marco Berra, Mario Ferrero e Giuseppe Odasso. Quali sono i tratti che hanno favorito l'atteggiamento imprenditoriale di Marco, cosî come la sua scarsa lealtà verso il gruppo e il mondo rionale? Quali sono invece per Giuseppe, le particolarità del percorso familiare che spiegano la sua sofferta ambiguità, il suo disperato bisogno di differenziarsi dal rione e dalla condizione operaia ma anche la sua lealtà verso questi stessi ambienti, la sua scarsa mobilità professionale e geografica? Cosa ha invece generato il pacato tradizionalismo e la scarsa competitività di Mario Ferrero? Il caso di Marco Berra è estremamente chiaro. Innanzitutto va detto che la sua famiglia giunge nel rione dopo un lungo percorso interno alla città che esprime globalmente tutti quei caratteri di movimento e di possibilità di promozione sociale propri del ciclo di integrazione. La campagna e l'emigrazione sono certo presenti nella memoria dei Berra quando, nel 1924, si stabiliscono nel rione Polo Nord. Ma è ancora più vivo e attivo il ricordo del loro percorso torinese. Giovanni, il padre di Marco, non è un recente immigrato. Nato nel 1881, ha fatto il suo ingresso in città nel 1888 insieme con i genitori e i quattro fratelli (Ferdinando, Enrico, Pietro e
Maddalena). A quella data i Berra non hanno parenti in città. Anche per questo, quando nel 1900 il padre improvvisamente muore, Giovanni, che allora ha appena compiuto 19 anni, deve assumersi il carico e la responsabilità di tutta la famiglia. Questa morte è un evento traumatico che segnerà il percorso e l’identità dell'intera famiglia ma che rappresenta anche un momento di stimolo delle energie dei fratelli. Non a caso infatti il ricordo del nonno, quale si è sedimentato nella memoria familiare, è legato — per chi come Luigi non l’ha conosciuto direttamente - quasi esclusivamente
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alla sua morte, alla crisi che essa ha scatenato in una famiglia appena inurbata, ma anche al senso della necessaria ripresa di un percorso intravedibile all’interno della città: ... mio nonno era un poveraccio - è appunto la testimonianza di Luigi, il fratello di Marco. - Faceva il carrettiere a Grugliasco [un piccolo paese della cintura torinese]. Poi, quando mio padre era ancora piccolo, sono venuti a Torino. Tutta la famiglia, eh... Ce l'aveva appena fatta a mettersi per suo conto, eh... E stavano tutti un po’ meglio, che è morto e hanno dovuto cominciare tutto da capo!”
Se anche non ci fosse questa testimonianza, il senso del «cominciare tutto da capo» ci sarebbe restituito con chiarezza dai dati anagrafici. Essi ci mostrano infatti i tentativi immediati di riconversione del padre e degli zii di Marco che evidentemente non hanno voluto o non hanno potuto continuare il tentativo imprenditoriale del padre. Già il censimento del 1901 registra le loro professioni di macellaio, meccanico e carrettiere (dipendente). Negli anni successivi l'anagrafe continuerà ad aggiornare le loro schede individuali aggiungendo sempre nuove professioni. Finché, nel 1906, Giovanni viene assunto in ferrovia come manovratore. Non è certo una posi-
zione qualificata ma Giovanni ne farà il punto di forza della sua strategia e di quella della famiglia. Infatti, uno dopo l’altro, i suoi fratelli vengono assunti con la stessa mansione (Pietro nel 1906, Enrico nel 1908, e Ferdinando nel 1910). Anche la sorella, che fa piccoli lavori di sartoria in casa con la madre, è in qualche modo fagocitata in questa strategia e sposerà, nel 1913, un ferroviere, collega di lavoro dei fratelli. Non è il caso di dilungarci seguendo ora dettagliatamente le strategie e le scelte di ogni componente della famiglia. E invece utile ricordare in sintesi quegli aspetti dei loro percorsi che peseranno in modo evidente sulla formazione delle scelte e sull'identità sociale di Marco. In primo luogo va sottolineata la capacità mostrata dal padre, ma anche dagli zii, di adattare le proprie strategie e di indirizzare i propri sforzi sulla base delle risorse di volta in volta disponibili. Lo si è visto in occasione delle due riconversioni professionali (la prima che segue la morte del nonno e la seconda che segue l'assunzione di Giovanni). Ma lo si può notare anche dal fatto che tutti (il padre come gli zii) accettano — una volta assunti nelle ferrovie — di spostarsi per servizio in diversi paesi e città italiane. Ad eccezione di Enrico, che muore di malattia nel 1908, tutti gli altri lasciano infatti nuovamente la città per periodi che variano dai 5 ai 10 anni (Giovanni va a Rivarolo, un paese della cintura torinese; Ferdinando è a Novi Ligure, in
provincia di Alessandria; Pietro è a Catania). I trasferimenti si trasformano per ognuno in un'occasione di qualificazione e di miglioramento pro!? Intervista a Luigi Berra, nastro RR 14b.
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fessionale. Quando rientrano a Torino (Giovanni nel 1913, Ferdinando
nel 1919, e Pietro nel 1921) hanno tutti raggiunto la qualifica di «conduttore ferroviario». In secondo luogo, poi, va notato come - accanto alla
mobilità e alla duttilità dei percorsi —- si leggano nelle figure del padre e degli zii di Marco molti elementi di diversificazione, attivi da tempo, ma che diventano pienamente manifesti nelle scelte e nelle figure sociali da loro assunte al momento del ritorno in città. Giovanni ad esempio è stato il primo a sposarsi (nel 1927). Ad eccezione di Gaetano (nato nel 1913), Marco e gli altri fratelli (Luigi e Luigina) sono quindi nati a Rivarolo e hanno accompagnato il padre per tutti gli anni del trasferimento. La famiglia al completo trascorrerà ancora un intero decennio nei quartieri del centro prima di trasferirsi nel rione Polo Nord. Lo zio Ferdinando invece ha vissuto da solo il trasferimento fuori città. Ha infatti ritardato il matrimonio e si è sposato a 39 anni. Ha fatto carriera; dopo essere stato promosso «ca-
po conduttore» (1921), diventerà impiegato tecnico nelle officine ferroviarie (1931). Fin dal 1922 si è spostato dal centro della città verso un quartiere residenziale della periferia. Non un quartiere operaio, ma un quartiere caratterizzato dalla compresenza di piccole villette e di condomini residenziali. Ha un solo figlio che si laureerà in scienze agrarie. Anche lo zio Pietro ha ritardato il matrimonio. Si è sposato a 29 anni e vive con la moglie nel centro della città. Morirà nel 1923, dopo 8 anni di matrimonio, senza avere avuto figli. Maddalena, la zia, vive con il marito nel centro. Il marito ha avuto una carriera analoga a quella di Ferdinando ed è diventato «impiegato » sempre all’interno delle ferrovie. Dei due figli avuti dalla coppia, solo uno rimane in vita e, come il cugino, compie gli studi universitari. Credo di avere già fornito implicitamente molte delle risposte agli interrogativi che pone una figura come quella di Marco. Infatti il primo elemento che sembra chiarire il suo dinamismo sta nel percorso stesso della sua famiglia. Nel lungo indugiare, prima di confluire nel Polo Nord, negli ambienti professionali e geografici più disparati della città e della provincia. E soprattutto nel tipo di approccio che il padre come gli zii mostrano di aver maturato nei confronti del tessuto urbano. Un approccio che non si potrebbe simboleggiare meglio di quanto lo facciano le parole di Luigi. È il «ricominciare tutto da capo» che ci spiega come l’orizzonte dei Berra, fin dai primi passi della loro integrazione, si sia misurato in termini di movimento. Il padre di Marco è senz'altro quello che ha avuto la minore mobilità professionale, ma ciò nonostante l’insieme di fatti, scelte e strategie che formano la memoria della famiglia sono tali da rappresentare uno spazio sociale aperto che prevede cadute e crisi ma anche riconversioni e miglioramenti. Non penso di sbagliarmi dicendo che lo stimolo fondamentale che gui-
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da figure come quella di Marco, sia proprio un analogo senso di movimento e di possibilità di crescita ereditato dalla memoria familiare, anche se tali stimoli diventano decisivi in presenza di altri elementi. Per Marco è chiaro come abbia pesato non poco la posizione professionale degli zii: di Ferdinando e del marito di Maddalena. Essi hanno infatti raggiunto una posizione superiore a quella del padre e soprattutto hanno mostrato di utilizzare con altre modalità le risorse incontrate nel corso della loro integrazione. Il ritardo al matrimonio, per esempio, che ha permesso a Ferdinando già in età avanzata di professionalizzarsi ulteriormente seguendo, unico di tutta la famiglia, le scuole serali. Quando Marco inizia il suo percorso
professionale sembra avere come riferimento proprio questa figura. E non è un caso quindi che lui come i suoi fratelli frequentino scuole serali a indirizzo meccanico cercando in esse soprattutto la preparazione in materie ancora poco conosciute, come ad esempio il disegno tecnico. E che Marco,
ma anche i fratelli Gaetano e Luigina, ritardino il matrimonio fino al momento in cui raggiungono una buona qualificazione professionale. Va in-
fatti detto che, se stiamo focalizzando la nostra attenzione su Marco perché è stato uno dei fondatori del gruppo di amici del Polo Nord, parlando della sua famiglia dobbiamo contemporaneamente ricordare come anche i suoi fratelli mostrino un’analoga mobilità. Gaetano, il più giovane, è diventàto un piccolo industriale grafico. Luigina ha aperto insieme con il marito un atelier di sartoria. Luigi, il secondogenito, è forse quello che ha conosciuto una minore mobilità professionale. E diventato impiegato; ma certo il suo percorso è stato molto più dinamico di quello di altre persone come Ferrero, Odasso o Frigerio.
Se consideriamo tutti questi elementi, ci appare chiaro come il rione e il gruppo di amici non abbiano potuto costituire dei punti di riferimento tali da poter contrastare il peso di quelli interni ad uno spazio e un’esperienza familiare cosf dinamici e variegati. I Berra - i genitori come i figli - dal momento del loro tardivo ingresso nella casa dei ferrovieri partecipano alla vita di relazione locale; lo si è visto anche nel corso del capitolo precedente. Ma non vi si identificano in maniera esclusiva. Per loro il rione è uno degli aspetti della realtà torinese, non l’unico. La scarsa lealtà di Marco nei confronti di questi ambienti, il fatto che si sia allontanato senza ripensamenti da questo mondo che pure aveva condiviso, si spiega dunque a partire dalla sua parziale presenza in esso, dalla sua memoria e dalla sua fisionomia sociale. Sono elementi come questi che si possono leggere al di sotto dell’apparente omogeneità del rione. Elementi che non sono probabilmente chiari neppure alla razionalità di chi ne è il portatore e che comunque non possono essere né espressi pubblicamente né essere compresi da chi invece si è trovato, spinto da altre circostanze, ad esaurire nei rioni
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operai la totalità delle proprie esperienze e ad identificarsi più attivamente in essi. i L’identificazione di Mario Ferrero con il rione e il suo pacato tradizionalismo possono spiegarsi d’altro canto proprio attraverso le circostanze che hanno portato la sua famiglia a radicarsi e ad identificarsi unicamente in questi spazi della realtà urbana torinese. I Ferrero — come ho spesso affermato nel capitolo precedente — approdano nel mondo operaio torinese al termine di un percorso familiare ritagliato all’interno degli ambienti più disgregati e poveri delle campagne piemontesi. Figlio di un piccolo proprietario terriero di Cherasco in crisi ormai da molti anni, il nonno di Mario fin dalla gioventà aveva imparato ad emigrare nelle campagne circostanti inseguendo i possibili lavori stagionali. Antonio, il padre di Mario, nasce nel 1883 in questo orizzonte di continue migrazioni e di povertà. È difficile, proprio a causa dell’instabilità di questa famiglia, ricostruire il percorso geografico e professionale di Antonio e dell'unico fratello rimasto in vita”. Mario, della gioventi del padre, è in grado di rievocare solo il senso della povertà senza poter focalizzare né i suoi movimenti né la sua attività lavorativa. La prima notizia certa è quindi quella che ci proviene in occasione del suo matrimonio con Domenica, una figlia di contadini di Fossano (un paese non molto distante da Cherasco). Gli sposi sono giovani: Antonio ha allora 22 anni e Domenica 20. Il matrimonio si celebra a Fossano, ma l’anagrafe di Cherasco registra l'avvenuta cerimonia informandoci cosî che a quella data la residenza ufficiale di Antonio è ancora nel paese d’origine e la professione dichiarata è quella di «bracciante». Anche in questo caso non è rilevante seguire i percorsi paralleli di tutti i familiari di Antonio. É necessario unicamente ricordare come, mentre il
quadro di povertà e di instabilità geografica e professionale della famiglia si aggrava ulteriormente, Antonio, forse l’unico della famiglia, riesca a migliorare e a sbloccare la sua posizione. Viene infatti assunto come manovratore nelle ferrovie di Fossano ed è con questa qualifica che, nel 1911, si trasferisce a Torino. Lo seguono la moglie e i due figli nati nel frattempo (Giovanna, nel 1906, e Mario, il testimone, nel 1909). Hanno pochi parenti in città. Nel centro vive una zia di Antonio, sposata con un manovale. La zia non ha figli e, quando nel 1920 resterà vedova, sarà ricoverata
nell’Ospizio di carità cittadino. Nel quartiere operaio di Lingotto vive poi una sorella di Domenica, la moglie di Antonio, sposata con un operaio tes13 I dati che abbiamo sono tutti parziali e indiziari. La famiglia di Antonio infatti, pur spostandosi, continua a mantenere la residenza a Cherasco (un paese a 65 chilometri da Torino). Dai dati anagrafici (quali ad esempio gli atti di nascita) sappiamo però che il padre di Antonio si spostava spesso anche con la famiglia. Uno dei fratelli (che morirà in seguito) nasce ad esempio a Fossano, la sorella nasce a Savigliano, la seconda
moglie del padre è di Benevagienna. Antonio è nato a Cherasco ma l’atto di nascita è stato fatto registrare in comune da uno zio perché, come riporta il documento, il padre era «assente per lavoro», ecc.
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sitore. Quest'ultima è una famiglia con tre figli, che non sembra aver trovato la stabilità economica e professionale, tanto è vero che, dopo pochi anni, lascerà la città per riguadagnare la campagna. Ciò nonostante, sono comunque queste le persone che offrono il primo e unico riferimento torinese ad Antonio e alla sua famiglia, che va cosf ad abitare nel loro stesso caseggiato.
Se consideriamo il mondo della campagna abbandonato dai Ferrero e la posizione dei parenti trovati in città, possiamo facilmente capire come essi abbiano potuto vivere l'immigrazione come un reale momento di svolta e di promozione sociale. Una promozione che appare totale quando, dopo pochi anni, il padre viene trasferito nelle officine ferroviarie diventando operaio specializzato. «E diventato tutto quello che poteva diventare! », dice infatti Mario del padre. E - come avevo già avuto occasione di ricordare - quando rievoca la posizione della propria famiglia d’origine, la descrive come quasi privilegiata, comparandola appunto con quella degli zil: Noi stavamo già bene! eh...! Mio papà era operaio specializzato, e nelle ferrovie, eh... E allora, si capisce, poi lo stipendio è diventato più grosso... Ma la famiglia dei miei cugini, erano proprio poveri! ...'*.
È questo senso di «soddisfazione relativa » — del tutto assente in altre famiglie come i Berra — a costituire lo stimolo principale che spinge i Ferrero ad accettare la propria posizione sociale, a contenere aspirazioni e
strategie all’interno dell’unico universo conosciuto in città: quello dei quartieri operai. Le loro scelte urbane sono in questo senso illuminanti. Innanzitutto, più di ogni altra famiglia analizzata, essi tendono ad esaurire nelle relazioni rionali la totalità delle proprie aspettative e delle proprie prerogative di ruolo. Lo si era visto con chiarezza nel corso del capitolo precedente. Nel vicinato essi cercano le risposte alle loro necessità economiche ed affettive, ma tendono anche a costruire una rete sostitutiva di
quei rapporti di parentela che sono mancati nel corso dell’emigrazione e che mancheranno anche nella città quando gli zii riprenderanno la strada delle campagne. Tipico è in questo senso il rapporto da loro allacciato nel quartiere di Lingotto con la coppia di vicini di casa in cui la moglie era stata la madrina al battesimo di Maria (la quarta figlia, nata nel 1915) e il marito, rimasto successivamente cieco, era accompagnato per anni e gratui-
tamente da Mario nei suoi vagabondaggi di venditore ambulante... In secondo luogo vi sono le scelte professionali imposte ai figli. Mario, che è l’unico maschio, pur avendo frequentato le scuole serali ha seguito unicamente il corso triennale di avviamento al lavoro. Un corso già allora 14 Intervista a Mario Ferrero, nastro RR r0a.
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giudicato insufficiente per garantire una qualificazione competitiva anche all’interno del mondo operaio. Le tre sorelle, a differenza della maggioranza delle ragazze figlie di operai qualificati, vanno tutte a lavorare in fabbrica giovanissime. Antonio, il padre, non ha infatti mai considerato la
possibilità che i figli potessero giungere a costruire un’altra carriera che non fosse quella operaia. Non vedeva quindi la necessità di una scolarità prolungata quando, come ricorda Mario stesso, pensava che, particolarmente per l’uomo, contassero unicamente l’apprendistato e la pratica concreta. La famiglia Ferrero ha dunque ritagliato nel mondo torinese un’ideologia parziale ma in sé completa e totalizzante. Non è un’ideologia che nasce da una particolare maturazione politica. Antonio era socialista ma non è mai stato un militante. Molto più attivi erano ad esempio i padri di Odasso e Berra. L'ideologia dei Ferrero è dunque più semplicemente il frutto delle circostanze nate e sviluppatesi nel corso della loro storia di integrazione. Certo tutto ciò avrebbe potuto generare un netto atteggiamen-
to di rifiuto da parte dei figli. Ma cosî non è stato. Mario ha fatto propria la visione del mondo paterna, continuando a riproporla nelle sue scelte successive e allontanandosi dal gruppo nel momento in cui questo si mostrerà sempre più pervaso da atteggiamenti e da aspirazioni per lui né accettabili né comprensibili. In questo senso si può interpretare anche il suo anticipo matrimoniale e soprattutto il suo matrimonio con un’operaia della sua stessa fabbrica, immigrata in città da pochi anni. È un matrimonio esogamico sia rispetto al gruppo sia al quartiere, ma che si giustifica proprio per la fisionomia della sposa, recente immigrata e quindi non ancora «contagiata» dagli atteggiamenti che altre ragazze del rione, con più anzianità di integrazione, mostravano di avere. Ma non è questo l’unico paradosso proprio della figura di Mario. Quello maggiore è infatti che il suo percorso di vita, minoritario e marginale negli anni ’30, è forse l’unico che avrebbe potuto giustificare, se generalizzabile, i miti rionali recentemente rifioriti. Più complesso è il retroterra familiare che segna la figura di Giuseppe Odasso. I tentativi di distinzione e di fuga dal mondo rionale che si accompagnano, per tutta la sua gioventii, con l’interiorizzazione di un senso dei limiti sociali e con la sua sofferta lealtà nei confronti del gruppo e del mondo di relazione tradizionale, si nutrono infatti delle determinazioni nate nel corso di una traiettoria familiare per molti aspetti contraddittoria. Vi sono, nella storia degli Odasso, sia elementi analoghi a quelli vissuti dai Ferrero e che quindi favoriscono il radicamento all’interno dei quartieri, sia elementi più dinamici e distintivi che spiegano la forza particolare con cui si manifestano le aspirazioni di mobilità di Giuseppe. Le analogie con il ciclo di integrazione dei Ferrero sono evidenti. Innanzitutto anche gli Odasso «saltano », per cosf dire, la prima fase del ci-
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clo. Partiti da Valdoria (il loro paese d’origine) immediatamente dopo il matrimonio e dopo aver passato otto anni ad Alessandria, giungono a Torino nel 1910 insediandosi direttamente nel centro del quartiere operaio di Borgo San Paolo. Anche in questo caso, ad orientare i loro primi passi torinesi è stata la presenza nel rione di una famiglia di parenti. In secondo luogo poi, come per i Ferrero, l’arrivo a Torino corrisponde per questa famiglia ad una promozione sociale e professionale sia oggettiva che relativa. Oggettiva perché Pietro, il padre di Giuseppe, assunto nelle ferrovie come manovratore, nel corso degli otto anni passati ad Alessandria, è riuscito a diventare operaio e successivamente operaio qualificato. Ed è con questa
qualifica che viene trasferito nelle officine ferroviarie torinesi. Relativa perché questa posizione si staglia all’interno di un ambito di parentela (sia quello lasciato al paese che quello incontrato in città) molto meno stabile e qualificato. La mancanza di un’esperienza di integrazione più lunga e complessa, il senso di soddisfazione relativa, sono dunque gli elementi che, anche in
questo caso, spiegano la tendenza degli Odasso a radicarsi nei quartieri operai e a ritagliare esclusivamente al loro interno scelte e aspirazioni successive. Non è certo necessario soffermarci su questi aspetti lungamente affrontati nel corso del capitolo precedente. Basterà ricordare come i genitorî di Giuseppe abbiano mostrato fin dall’inizio di essere stati sempre presenti in ogni momento di relazione proprio di questi tessuti. La madre all’interno delle reti femminili della casa e del vicinato. Il padre in quelle maschili, legandosi, oltre che attraverso le relazioni con i colleghi della ferrovia e con gli amici del bar, anche e soprattutto attraverso quei rapporti complessi e specifici dei rioni che avevamo visto nascere attorno al secondo lavoro. Ed è in questi tessuti che viene immaginata e costruita la carriera professionale di Giuseppe. Il padre è operaio specializzato ma la sua specializzazione è la falegnameria. Come falegname Pietro lavora soprattutto nelle sue ore libere e attraverso questa attività è entrato in contatto nel rione con molti artigiani e grossisti. E per lui quindi naturale mandare il figlio a compiere il suo apprendistato in una falegnameria di conoscenti. Giuseppe, a differenza di Mario, compie l’intero ciclo di istruzione professionale. Ma anche qui la strategia del padre che considera quasi unicamente le risorse da lui direttamente raggiungibili si proietta sulle scelte del figlio. Mentre molti ragazzi — e tra questi i Berra — puntano su qualificazioni professionali pit rispondenti alle esigenze del mercato del lavoro, Giuseppe si qualifica come artigiano del legno. Le modalità di integrazione degli Odasso non restringono unicamente il campo delle informazioni riducendo l’efficacia delle loro scelte. Anche in questo caso infatti il senso di «soddisfazione relativa» del padre - pro-
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prio perché nasce da una memoria e da un panorama familiare in cui la migliore posizione raggiunta è quella di operaio qualificato — si accompagna, quasi inevitabilmente, con il senso del fallimento possibile, della caduta per chi pensa di poter valicare i limiti del mondo operaio. E questo il messaggio esplicitato direttamente dal padre quando le ambizioni di Giuseppe lo avevano portato a fantasticare l'avventura imprenditoriale. Dato il carattere di Giuseppe, la sua congenita insicurezza, il consiglio del padre è stato probabilmente buono. D'altronde, non credo che Giuseppe stesso volesse tentare veramente questa strada. L’idea gli era venuta quando se ne era presentata l’occasione e con ogni probabilità l’aveva considerata unicamente perché il «mettersi in proprio » faceva parte delle aspirazioni di alcuni dei suoi amici. Ma va notato come sia invece sulle sue aspirazioni più profonde, sulle sue tensioni più reali — su cui avrebbe potuto muoversi con successo — che agisce il senso dei limiti sociali sviluppato dalla famiglia. Egli stesso ha interiorizzato questi limiti e queste paure, rifiutandosi ad esempio di far fruttare professionalmente il suo interesse per la fotografia. Un interesse profondo che aveva superato i confini dell’hobby. Per anni infatti Giuseppe aveva frequentato una scuola fotografica partecipando a molti concorsi, con fatica si eta procurato un’attrezzatura completa che gli permettesse di stampare le fotografie, si era impadronito di molte e diverse tecniche di stampa (ancora oggi stampa non solo su carta normale ma anche a seppia, a carbone, a contatto, ecc.). Ora ammette tra le righe di aver spesso fantasticato di poter trasformare questa attività in una professione. Ma non aveva comunque mai avuto il coraggio di tentare concretamente questa strada — che sicuramente gli era congeniale — anche perché, più delle altre, sembrava appartenere ad un mondo distante, sconosciuto e irraggiungibile. Limiti sociali e differenza: se si legge nel percorso di Giuseppe l’interiorizzazione dei limiti sociali, è anche vero che tutte le sue scelte e i suoi comportamenti hanno teso ad esprimere una disperata ricerca di distinzio-
ne. Quasi come se egli tentasse di costruire la propria identità nel differenziarsi: dai genitori, dai parenti, dagli amici, dal rione stesso. Ma, come ho detto, anche questo è un tratto della figura del testimone che paradossalmente trova la sua origine nel bagaglio di esperienze familiari convogliate nel rione con l'immigrazione. Già nella figura del padre e della madre troviamo, pur se in altre forme, un marcato senso della differenza, un gusto per la scelta eccentrica. Osserviamo ad esempio la genesi della loro scelta migratoria. Pietro, il padre di Giuseppe, non ha semplicemente «lasciato » il paese (come avevano fatto il padre di Mario Ferrero o il nonno di Marco Berra), ma è «fuggito» dalla sua famiglia e dalle strategie di un padre accentratore. Il
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nonno di Giuseppe infatti, che proveniva da una famiglia di mezzadri in crisi ormai da anni, aveva tentato di risollevarsi attivando tutte le risorse
interne. Aveva avuto nove figli, dei quali Pietro era stato il quarto (nato nel 1879). Ma ben cinque di essi erano morti appena dopo la nascita. L’ultimo poi aveva portato con sé la madre, nel 1886. Tutte le speranze del nonno si erano quindi accentrate sui quattro figli rimasti in vita, sul loro lavoro, sulla loro presenza. Essi sembrano aver risposto alle sue aspettative, visto che tutti ritardano il matrimonio e si sposeranno solamente poco prima o poco dopo la sua morte (i primogeniti quindi avranno già 43 anni il maschio e 41 anni la femmina). Solo Pietro contrasta apertamente questa strategia sposandosi per primo (nel 1903 a soli 24 anni) ed abbandonando immediatamente il paese. Con ogni probabilità lo aiuta in questa scelta l’esempio dei cugini le cui famiglie, a differenza della sua, avevano fronteggiato la crisi favorendo proprio l'emigrazione dei figli. Quando Giovanni si sposa e lascia Valdoria la maggioranza dei cugini è già partita: alcuni sono all’estero (in America, in Francia e in Svizzera), altri sono a Torino.
La presa di posizione del padre e la fuga di Pietro, che possiamo leggere attraverso le fonti demografiche, è uno dei temi propri della tradizione familiare degli Odasso, che Giuseppe ama rievocare. Naturalmente, essendo parte di una tradizione, la decisione del padre è letta in una forma romanzata nella quale il centro dell’azione diventa il matrimonio e, prima ancora,
il contrastato amore di Pietro e Domenica, giovani coetanei che, cresciuti in due cortili adiacenti, avevano imparato ad amarsi ed insieme avevano preso le distanze dalle loro famiglie che non vedevano di buon occhio la relazione: «Mio padre non era ben visto dalla famiglia della mamma... Ma si amavano cosf tanto!... Ci sono riusciti! [a sposarsi]»”. Qualunque sia il
fondo di verità di questa «storia d’amore contadino», resta il fatto che la memoria, registrando in questa forma la «fuga» la celebra nello stesso tempo, sottolineandone i caratteri distintivi. Ma naturalmente non è solo questa fuga a connotare l’identità di Pietro e Domenica. Dalle testimonianze del figlio conosciamo il loro impegno politico. Dalle loro scelte demografiche possiamo intuire come esso si accompagnasse ad un’attenzione consapevole verso i propri comportamenti. Dopo il matrimonio infatti la coppia per ben cinque anni non avrà figli. Potrebbe essere casuale se la nascita di Giuseppe non avvenisse ad un anno esatto di distanza dalla prima promozione del padre. E d’altronde questa politica di contenimento della prole continua visto che, dopo la nascita della secondogenita, non avranno più figli. La coppia che giunge nel quartiere operaio di Borgo San Paolo non è !> Intervista a Giuseppe Odasso, nastro RR 6a.
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dunque solo una coppia che si sente realizzata professionalmente. È anche una coppia di giovani che hanno abbandonato il loro paese, che sono socialisti e che pensano di costruire in questi spazi e in modo libero la loro fisionomia individuale e sociale. Se quindi per i Ferrero il quartiere rappresenta l'uniformità che dà sicurezza, per gli Odasso è invece il teatro della loro differenza: ... mia mamma - è sempre il ricordo di Giuseppe - era già cosf!... Perché mia mamma è stata una delle prime a tagliarsi i capelli! Che mia mamma aveva i capelli lunghi, eh... Quando è venuta qui [nella casa dei ferrovieri, cioè nel 1924], mia mamma aveva già i capelli corti!... E raccontava che da giovane, quando andava in chiesa — figurarsi se avevano voglia di andare in chiesa, erano giovani anche loro! — Si vede che c’erano le donne che avevano i vestiti lunghi... Allora pigliavano l’ago e il filo e gli cucivano i vestiti insieme! ...°.
La figura di Giuseppe, l'enorme distanza che lo separa da Mario Ferrero nonostante il fatto che i loro percorsi professionali siano rimasti appaiati, si può capire unicamente tenendo presente questa doppia realtà. Da un lato, il marcato senso della differenza appreso dalla famiglia e trasformato nella vita del testimone nelle aspirazioni e nei modelli da lui più direttamente raggiungibili, e, dall'altro, il conformismo inconscio che le figure dei genitori hanno sviluppato nel nuovo ambiente, da essi inizialmente percepito come innovativo e come tale accettato in tutte le sue implicazioni. La forbice che si è creata in Giuseppe tra le proprie aspirazioni di mobilità e di fuga e una lealtà verso le figure dei genitori e il mondo da essi condiviso è acuta e dolorosa, proprio perché il senso di oppressione provato nei confronti di questo mondo chiuso si scontra con l’immagine di apertura ereditata dalla memoria familiare. La crisi, per Giuseppe insanabile, si manifesterà, come vedremo nel prossimo paragrafo, nelle forme di una tensione intergenerazionale e di una falsa contrapposizione tra nuove e vecchie ideologie (quelle fasciste contro quelle socialiste).
3. Ifascismo e il consenso dei giovani. Conflitti generazionali e conflitti
politici.
I Berra e gran parte dei fondatori del gruppo, dopo il matrimonio, hanno lasciato il rione. Le loro figure sociali ormai apertamente distanti dal mondo dei quartieri operai li hanno condotti altrove. È questo uno degli aspetti del processo di integrazione lungamente analizzato e che implica, per l’appunto, un significativo turnover sociale nei diversi ambiti che ne 16 Ibid. zi
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segnano il percorso. Abbiamo visto come le loro scelte e i loro comportamenti abbiano tradotto, in parte, aspirazioni e tensioni familiari solo momentaneamente sopite o celate nelle maglie delle aggregazioni rionali. Ma abbiamo anche visto come, per la prima volta dalla creazione di questi ambiti, imeccanismi di continua riaggregazione e di riproposizione dei modelli tradizionali di socialità si siano inceppati. Non solo chi entra ma anche chi si è fermato in questi ambienti risponde sempre meno alle implicite regole rionali, alla ideologia dell'uguaglianza che aveva permesso alle generazioni precedenti di far coesistere nelle stesse reti identità sociali cosf
diverse tra loro. Mario Ferrero, Giuseppe Odasso, Antonio Frigerio, Silvio Bosticco e Giorgio Revelli sono stati gli unici, tra gli undici fondatori del gruppo, ad essersi fermati nel rione dopo il matrimonio. Pure, tra questi, solo Mario Ferrero e, in parte, Antonio Frigerio, sembrano continuare a cercare di ri-
proporre gli schemi della vecchia socialità. Gli altri - anche chi come Odasso continua ad essere operaio - sono cambiati e hanno cambiato il volto stesso del rione. Nessuno partecipa più con i vicini, i colleghi, gli amici del bar, alla stessa socialità. Ognuno è, isolatamente, legato a diversi
ambienti che molto spesso sono esterni ai confini dei rioni. I quartieri; per questa generazione, hanno cessato di essere esclusivi, hanno perso la capacità di mascherare il flusso e le diversità insite nel processo di integrazione, sono di fatto divenuti parte integrante della città. Ora le differenze sono pubbliche mentre le norme, il controllo sociale, i miti dell’uguaglianza sono lentamente relegati nello sfondo e vengono pienamente rispettati solo dagli anziani, quelli di loro che sono rimasti. Come si è potuta operare una frattura tanto netta da comprendere negli stessi spazi e in generazioni contigue modi sociali cosî estranei e distanti tra loro? Come mai la parte più attiva degli anziani — chi, come i genitori di Giuseppe, si identificava con i rioni e con l’ideologia socialista — non è stata in grado di riproporre i propri modelli ai figli? Credo di aver illustrato ampiamente la ragione fondamentale di questo processo, mostrando la contraddittorietà di queste aggregazioni. La discrepanza tra ideologia dell'uguaglianza e le aspirazioni individuali e familiari è una miscela troppo corrosiva per non produrre, nel tempo, crepe e conflitti sempre pit insanabili. Ma la capacità di recupero di questi tessuti, lo si è visto nel capitolo precedente, è forte proprio perché basata su meccanismi di dipendenza reciproca. Vi sono, ancora nel corso degli anni ’20, tutte le premesse della riproduzione dei rioni, della loro capacità di tacitare e smorzare le discrepanze e le tensioni interne ai loro spazi. D'altronde questo sembra essere stato il caso dei quartieri operai inglesi. Se infatti stiamo alle descrizioni di Hoggart e di Roberts, sembrerebbe che in questo paese la rottura di analoghi
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equilibri e in analoghi ambienti vada posta nei pit recenti anni ’60”. Nel caso torinese c'è dunque stata un’accelerazione del processo di disgregazione interno ai rioni, che non è imputabile unicamente all’alto turnover sociale ma che va analizzata in maniera specifica. Due variabili incidono nel produrre questa accelerazione. In primo luogo la trasformazione occorsa tra gli anni ’20 e ’30 nei servizi sociali. Nascono in questo periodo le mutue, le pensioni ma anche i nidi d’infanzia, gli asili, ecc. Sono tutte trasformazioni a cui hanno contribuito direttamente le lotte dei primi decenni del secolo e che hanno prodotto un sostanziale miglioramento della condizione operaia fornendo ad ogni lavoratore individualmente alcune garanzie di base e insieme un aiuto nella ge-
stione quotidiana della sua vita familiare ". Si è ridotta - pur senza scomparire — la paura delle crisi individuali e familiari. Chi, come già il vicino dei Ferrero, fosse rimasto cieco, non sarebbe più stato obbligato a trascinarsi come venditore di spazzole per le vie della città ma, negli anni ’30, avrebbe ricevuto una pensione di invalidità civile. Le donne — pur se non tutte le donne —- sono alleviate dal peso dei bambini. Gli esempi possono continuare. Ciò che si nota è un impercettibile miglioramento delle condizioni di vita che implica il passaggio dei servizi dalle mani dei singoli o delle organizzazioni operaie a quelle più lontane e asettiche dello stato. È chiaro dunque che ciò contribuisce ad erodere la base stessa delle aggregazioni rionali. La chiusura e la connessione delle reti di relazione che deriva,
come si è visto, principalmente dalla loro funzione di fornire, attraverso una struttura di dipendenze reciproche, un sistema di garanzie per le famiglie, perde progressivamente il suo carattere di necessità. Chi entra nei quartieri operai o chi vi resta non è dunque più cosî fortemente motivato, fin dalla fine degli anni ’30, a costruire o anche solo ad accettare il complesso sistema di dipendenze che lo scambio di piccolo raggio aveva implicato. Ma, accanto a queste ragioni, ve ne sono altre più contingenti e più forti sulle quali è necessario soffermarsi in questo ultimo paragrafo. Si tratta dell'impatto avuto dal fascismo a livello locale. Del suo inserirsi come un cuneo tra le generazioni esaltando, attraverso nuove forme e proposte sociali i conflitti latenti”. Pif che proponendosi in modo diretto e ideolo7 R. Hoggart, Uses of literacy: aspects of working-class life, Oxford 1970; Roberts, The classic slum cit. 18 Sullo sviluppo dei servizi sociali in Italia cfr. L. Conti, L'assistenza e la previdenza sociale. Storia e problemi, Milano 1958; C. Schwarzenberg, Breve storia dei sistemi previdenziali in Italia, Roma 1971; A. Che-
rubini, Storia della previdenza sociale, Roma 1977. 19 Questo è anche l’obiettivo esplicito del regime fascista che organizza i giovani in strutture rigidamente divise per età e sesso, molto ruolizzate e sotto il diretto controllo del partito. Questo intervento che non ha coinvolto direttamente i testimoni — appartenenti ad una classe d’età precedente — ha segnato soprattutto chi entra nella prima scolarità verso la fine degli anni ’20. Cfr., su questi temi, R. Treves, I/ fascismo e il problema delle generazioni, in «Quaderni di Sociologia», n. 13, 1964; M. Addis Saba, Gioventi italiana del Littorio, Milano 1973; G. Germani, Mobilitazione dall'alto: la socializzazione dei giovani nei regimi fascisti (Italia e Spagna), in aa.vv., Autoritarismo fascista e classi sociali, Bologna 1975.
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gico, il fascismo è infatti penetrato nei rioni inserendosi proprio all’interno dei meccanismi di socializzazione e di riproduzione delle norme e della socialità rionale. Non c’è mai stato uno scontro diretto all’interno dei rioni operai. Le squadre di picchiatori ben raramente si sono mostrate in questi spazi. Ma, già dalla seconda metà degli anni ’20, il regime ha ormai raggiunto una stabilità politica ed è in grado di proiettare la sua ombra anche sulla periferia operaia. Non mutano, nei primi anni, i luoghi, i tempi e le forme di socialità. I
padri e le madri continuano a tessere i loro rapporti tradizionali nelle case, nelle piazze e nei caffè. Ma nei momenti corali e pubblici, fino ad allora egemonizzati dal gergo rionale dell’uguaglianza e dal discorso socialista, cade improvvisamente il silenzio. ... in quel tempo là - dice Franco Rolle, riferendosi ai primi anni del fascismo — non c'era la possibilità di quella gente lf di trionfare, If, al Polo Nord. No, era un'isola... Noi non si usciva da If... Sf, sf, il fascismo non ci ha toccati in un primo
tempo, non... Oddio, mio papà ha cominciato a non prendere più l’«Avanti!», perché l’«Avanti!» non usciva più... E poi c'è sempre stato «La Stampa»... E, sf, e sî, eh... Ah, ci siamo rincantucciati tutti! Ecco, questo è stato il fenomeno negativo del tempo. Che loro [i padri] si sono rincantucciati, ecco. Andavano sempre a giocare ai tarocchi. Ma... non mandavano pit i soldi all’« Avanti! ». Diciamo... E mio papà, tanto per dirgliene una, ha cominciato a star zitto. Come tutti gli altri... Stavano zitti. Il fascismo è stato il trionfo del silenzio”.
È questo forse l’unico vero attacco portato dal fascismo contro i rioni operai. Ma esso è veramente importante e decisivo. In ambienti sociali in cui, come ho mostrato, la comunicazione della propria identità e soprattutto il controllo e la definizione dei ruoli sociali passano attraverso l’uso del discorso socialista, il silenzio acquista una funzione dirompente e tanto pit disgregatrice proprio perché non è riconosciuta come tale.
Il canale di questa operazione non è, come ho detto, la violenza delle squadre fasciste. Essa si concretizza attraverso la presenza assidua del controllo poliziesco in tutti i luoghi fisici in cui si intersecano le reti di relazione. Tipici sono i controlli quotidiani svolti nei caffè, come ricordano, in di-
versi colloqui, Luigi Berra e Franco Rolle: Davano... non noia nel vero senso della parola - è il racconto di Luigi. - Ma noi non potevamo andare nel caffè, ad esempio, se no, tutte le sere, non tutte le sere, ma una sera sf e una sera no, passava regolarmente la polizia, lf. E allora ci chiedeva i documenti, ecc. ecc. Ma senza succedere niente, eh... Alle dieci di sera eravamo al bar... al caffè... E alle nove di sera anche... — dice invece Franco - entravano i questurini, la questura: 20 Intervista a Franco Rolle, nastro RR ob.
«Documenta, documenta! » E
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tiravamo fuori la carta d’identità... «Cosa fate qui? Andate a dormire! » E noi... non è che ce lo imponevano... Ma noi andavamo a dormire. Perché capivamo che c’era... Li vedevamo come oggi vedere, non so, i mafiosi! E già”
Non sono unicamente i controlli polizieschi (che avvengono anche nelle piazze e nelle vie dei rioni) ad imporre il silenzio. A tutti è chiara la presenza e Duso di spie e delatori, documentata ora dagli archivi delle questure”. Pid tardi, l’istituzione dei «capi casa», di inquilini cioè responsabili dell'ordine della casa e tenuti a mantenere contatti con le sedi locali della polizia, completa quest'opera di capillare controllo giungendo ad occupare anche lo spazio legato tradizionalmente alla socialità femminile. Come ho detto, dell’attacco fascista non vengono percepiti né il peso né le implicazioni. io atteggiamento assunto dallefrange più politicizzate della generazione degli anziani è quello di un’ironica rassegnazione, mista ad un senso di superiorità, come ricorda Franco: « Vogliono comandare? Lasciamoli Pigi poi vediamo, poi tiriamo le somme... Dopo poi vediamo neh...»”. L'illusione che sta dietro a questo atteggiamento è quella di poter ROIO intatta l'egemonia politica raggiunta nei rioni astenendosi semplicemente dal dare battaglia sul piano pubblico ed arroccandosi dietro un silenzio consapevolmente distante. E una strategia quasi obbligata, e che potrebbe risultare vincente se il discorso pubblico non fosse cosf necessario alla coesione di questi ambienti e se il silenzio potesse mantenersi intatto. I militanti rionali non potevano certo percepire, nella loro posizione, la debolezza di un consenso e di un’omogeneità molto superficiali proprio perché nati dalla confluenza di interessi disparati e soprattutto non potevano prevedere che il silenzio non sarebbe rimasto tale ma sarebbe stato occupato in modo nuovo ed inatteso da altri discorsi, da altri messaggi: .. parliamoci chiaro: è venuto il fascismo, gli altri fascisti... i socialisti, i Turati, i Modigliani, i Treves, sono scappati all’estero. Han fatto bene, perché tanto non serviva a nulla... Dopo la morte di Matteotti, chiuso! L'Italia now c’era più un discorso... Non si parlava più. Si parlava d’altro... Juventus, Torino, Girardengo, ecc. Noi siamo stati tagliati fuori. E si vedeva l'Impero andare avanti. Si vedeva queste camicie nere che andavano in Africa, in Albania... Eran guerre, ben, d’ac-
cordo... Però, un tantino, questo, sul nostro animo ha fatto effetto, eh. Non è che a 12
anni sei marxista,
non
è che ALPZ
anni sei classista. Perlomeno
non
sai nem-
meno cosa sei. È poi subentrato ’sto fatto If, che quello [Mussolini] faceva dei discorsi contro l'Inghilterra con... e un bambino che arrivava da quelle scuole là liberali... Si figuri, aveva dentro, nello stomaco, aveva la storia dell’Italia, l’Italia, 21 Intervista a Luigi Berra e Franco Rolle, nastro RR ob. 22 Cfr. ad esempio l’uso che Luisa Passerini ha potuto fare di queste fonti (Passerini, Torio operaia cit.).
2 Intervista a Franco Rolle, nastro RR ob.
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Capitolo sesto neh... Allora lui eh... Non è che fossimo diventati fascisti, questo no, però, eh... E mio papà che stava in silenzio. Parlavamo d’altro e non di quello... Poi non andavo a cercare nemmeno io questo colloquio, perché non ne sentivamo il bisogno. Ah, ecco... Io lavoravo e guadagnavo soldi abbastanza bene...?*.
Sono proprio questi alcuni dei temi che abbiamo visto permeare in breve tempo lo spazio giovanile del rione. Accettati e ripresi sulla base di vecchie tensioni e aspirazioni familiari, essi si impongono però pubblicamente e in maniera generalizzata grazie alla caduta del discorso socialista, del canale tradizionale di controllo e di definizione dei ruoli. In realtà se osserviamo con attenzione questi nuovi temi, vediamo co-
me essi siano altrettanti aspetti della trasformazione capitalista avviata in Italia in quegli anni — ma che interessa pit in generale il mondo occidentale — e che implica il tentativo di conquistare un mercato più ampio e popolare”. Ma nella situazione rionale essi diventano particolarmente esplosivi non solo perché fanno emergere apertamente le tensioni già presenti ma anche perché vengono letti dalla maggioranza dei giovani come la prova della modernizzazione propagandata dal regime, come la rottura con gli aspetti più normativi e opprimenti della socialità rionale. La penetrazione fascista in questi ambienti può essere spiegata proprio in questa
ottica. Il fascismo, che all’inizio degli anni ’20 non riesce a imporsi militarmente nella periferia operaia, penetra invece pochi anni dopo spostando il conflitto sul piano dei comportamenti sociali e presentandosi come l’artefice della modernizzazione, mascherando quindi la sua presenza attraverso le forme di un conflitto generazionale”. Sono molti i giovani che, dopo aver accettato lo sport e i nuovi costumi, iniziano ad accettare anche il regime e la sua ideologia, come Franco Rolle stesso ammette ora: Il fascismo, si capisce... Eh, già! Adesso lo comprendiamo bene, ma allora non si capiva il perché si doveva combattere il fascismo... Anche perché Mussolini parlava a Eliot, della Francia, cosî... Parlava là a Eden, là in Inghilterra, no, a Chamberlain... Prima non li abbiamo mai avuti questi «vizi»! Lui ci chiamava
«l’Italietta», no, quella di prima... Se non c’era stato d’ Annunzio, che ha fatto... Nessuno, allora... [Dopo] c’era una specie d’orgoglio ad essere italiani! Questo c’era. Eh sf. Sf, la Lux, la nave... Non la Lux, la Rex. Partiva da Genova, andava
a New York, vinceva il nastro azzurro! Uhei! Pivi in gamba dei francesi!... insomma, i francesi avevano fatto un’altra nave... Insomma, questo c’era. Il Polo Nord... Lî, il Nobile, che era andato al Polo Nord...”. 24 Ibid. 2 K. Polanyi, The great transformation, New York 1944, cap. n [trad. it. La grande trasformazione, Torino 1974]. Sulla trasformazione industriale italiana cfr. L. Villari, I/ capitalismo italiano del Novecento, Bari 1972; Ciocca e Toniolo (a cura di), L’economzia cit. 2 Sui temi delle discontinuità culturali tra le generazioni e sui conflitti che le accompagnano cfr., tra gli altri, K. Davis, The sociology of parent-youth conflict, in «American Sociological Review», n. 5, 1940; S. N. Eisenstadt, Frorz generation to generation: age group and social'structure, New York 1956; K. Keniston, Social change and youth in America, in «Daedalus», n. 91, 1962; C. Lison-Tolosana, Belzzonte de los Caballeros.
A sociological study of aSpanish town, Oxford 1966. 27 Intervista a Franco Rolle, RR ob.
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Naturalmente, anche in questo caso, vi sono diversi gradi di identificazione con la nuova proposta ideologica. Trai giovani del gruppo, ad esempio, alcuni sembrano essere rimasti del tutto estranei. È inutile ricordare cheè questo il caso di Mario Ferrero. Ma, a parte Mario, tenuto sempre al riparo dalle polemiche dal proprio esasperato tradizionalismo, va detto che, paradossalmente, sono stati maggiormente affascinati da questa politica proprio i giovani con maggior anzianità nei rioni. Non chi, come Marco Berra, ha avuto un percorso più mobile ma chi è cresciuto in questi
spazi fin da bambino, come Giuseppe Odasso. Marco durante il fascismo di fatto ha continuato a riproporre le strategie di mobilità che lo zio aveva già operato anni prima. Non c’è stata, per Marco, la necessità di costruire nuovi valori né per definire la propria identità, né per distanziarsi da quella della famiglia. Le sue scelte sono state lineari e circoscritte al mondo del lavoro. Si è iscritto al Partito nazionale fascista, ma solo quando l’oggettiva possibilità di carriera sarebbe risultata compromessa od ostacolata per la mancanza della tessera. Anche Giuseppe dice di essersi iscritto per poter lavorare. Ma i suoi atteggiamenti tradiscono nello stesso tempo il fascino che l’aspetto modernista di cui si ammantava il regime aveva su di lui. Giuseppe ha forse creduto di veder concretizzarsi attraverso il fascismo quell’innovazione dei costumi e dei comportamenti sociali di cui avevano sempre parlatoi suoi genitori, ma che era consistita— nella sua esperienza e ai suoi occhi di ragazzo - in rigide norme di comportamento, nel mon-
do ossessivamente chiuso dei rioni operai” C’è un aneddoto, che purtroppo non ho potuto registrare perché mi è stato raccontato da Giuseppe mentre mi mostrava il suo appartamento, ma che mi ha profondamente colpito. Prima del matrimonio, raccontava Giuseppe, aveva passato molte serate davanti ad un negozio di mobili del centro in cui erano esposte camere da letto di lusso. Pazientemente aveva copiato i modelli e poi, con l’aiuto del padre, aveva riprodotto con le sue mani una di queste stanze per farne la sua camerada sposo. E mentre mi racconta questo aneddoto, mi mostra il risultato. È una stanza che si ispira alle opere di architetti razionalisti torinesi quali Chessa o Levi Montalcini. Legni impiallacciati, con morbide curvature e controcurvature, elementi schematici, propri del razionalismo degli anni ’30. Certo nella «traduzione» compiuta da Giuseppe alcuni elementi si sono persi. Soprattutto perché i legni pregiati sono stati sostituiti con materiali meno costosi. Ma l’ef28 Uno dei meccanismi su cui si innestano i conflitti generazionali e che troviamo nella storia di Giuseppe, nasce proprio dal tentativo della gioventi di risolvere nelle proprie scelte e nei propri atteggiamenti le contraddizioni lette nella vita dei genitori. E questa una dinamica già osservata da Cohen che sottolinea come spesso la funzione latente delle sottoculture giovanili sia quella di «esprimere e risolvere, sebbene “magicamente”, le contraddizioni nascoste o irrisolte nella cultura dei genitori» (Cohen, Sub-cultural conflict cit.,
p. 23).
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fetto d’insieme non è distante dallo spirito originale, la traduzione dei modelli non ha indotto il kitsch. Ciò che mi ha colpito è dunque il fatto di ritrovare una simile ambientazione all’interno di una casa operaia. Ma soprattutto, l’immagine evocata dall’aneddoto. L’indugiare di Giuseppe alla sera davanti alle vetrine del centro, il suo ricopiare con carta e matita il progetto. Il desiderio di porre al centro della sua nuova vita matrimoniale proprio questa stanza, proprio questi mobili.
Giuseppe, come altri giovani, ha proiettato sul fascismo le proprie esigenze di cambiamento. E in questo senso i suoi comportamenti e le sue
scelte hanno preso anche le forme di un conflitto intergenerazionale, doloroso e ora accuratamente celato da razionalizzazioni successive, ma che
emerge ciò nonostante nelle contraddizioni narrative delle interviste. Tipico è ad esempio il fatto che ad ogni domanda diretta sul fascismo, Giuseppe si senta in dovere di ridicolizzare le opere del regime. Ma, mentre su tutti gli altri temi trattati ogni aneddoto è legato ad una sua esperienza direttamente vissuta, gli esempi sul fascismo sono ricavati dall'ambiente delle ferrovie. E cosi, per il curioso ribaltamento operato dalla memoria, mi ritrovo ad ascoltare dalla sua viva voce quelle parole che dovevano essere state dette dal padre — ferroviere e socialista — in risposta alle asserzioni provdcatorie del figlio: ... che neanche fossi stato contrario, per dire [al fascismo]. Che io non pensavo a
quello lf. Non pensavo a quelle cose li. Perché per esempio a me... Mi piaceva tutte queste opere che facevano... o quello che hanno detto di fare... Per esempio, la cassa dei ferrovieri... non le hanno fatte il fascio. Le hanno incominciate prima... Però gli hanno messo lo stemma del fascio sopra... Ah, ah, ah...”.
È quindi una situazione sociale estremamente lacerata e conflittuale quella venutasi a creare nel rione degli anni ‘30. Conflitti all’interno dei gruppi rionali, ma anche conflitti intergenerazionali. La rottura della connessione delle reti, della sovrapposizione nelle loro maglie di diversi ruoli sociali, l’imporsi del nuovo modello di socialità attraverso le scelte di chi resta e popola questi ambienti negli anni successivi, sono il frutto inevitabile di questo processo complesso. I diversi ruoli che ciascuno ha sviluppato non possono più essere interpretati indifferentemente con tutti e in tutti gli spazi sociali. Il ruolo interpretato da Giuseppe in famiglia non può sovrapporsi — se non generando un aperto conflitto — con quello da lui interpretato con gli amici del club fotografico, mentre entrambi questi ruoli sono incompatibili con quello tenuto nell’ambiente di lavoro, con quello tenuto all’interno del gruppo del Polo Nord, ecc. Quello che ne deriva è una frammentazione delle vicende in una serie di ruoli e figure che ciascu2° Intervista a Giuseppe Odasso, nastro RR 6a.
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no tenta di tenere separate perché non entrino in contraddizione tra di loro e soprattutto perché ogni figura sociale venga impersonata esclusivamente nell’ambiente che è in grado di recepirla. Non è un caso, quindi, che anche una cerimonia corale come il matrimonio possa trasformarsi in quegli sl in una successione di riti di riconoscimento rigidamente separati tra di loro: Giuseppe Odasso
«E poi, a sposarsi al 28 di ottobre davano 500 lire. Allo-
ra, sempre il mio amico Focile, adesso... Ci siamo sposati insieme, no, lo stesso giorno».
Lucia Odasso «E si è dovuto mettere la camicia nera! » Giuseppe «Allora lui [Focile] fa: “Guarda che ti dànno 500 lire!” Allora ci siamo sposati al 28 di ottobre. Perché poi, anche If, io non volevo nessun, nessun cosu... E ho detto: “Nessuna macchina né niente!” E io sono andato a piedi da qui alla chiesa! E allora io ho detto: “Macchine nessuna!” Vestiti non me ne sono fatto fare nessuno. Anzi, me lo sono fatto fare da montagna. E lei anche. No, lei, mia sorella le aveva fatto fare un vestito. Allora io sono partito da casa, sono andato a prendere lei, a piedi. Allora sono arrivato là. E suo papà aveva poi trovato un taxi o qualche cosa... Mio papà, al matrimonio, non l’ho lasciato venire, no. Allora siamo andati io e lei... Allora eravamo in cinque, no... Io, lei e i due testimoni e il mio nipotino che aveva due fiori e poi non voleva lasciarli in chiesa. Allora ci siamo sposati alle sette...» Lucia
«No, no! Erano le sei! Ah, ah, ah...»
Giuseppe «Alla mattina presto che non ci fosse nessuno per la strada!... Allora siamo andati a trovare un mio amico fotografo in via San Donato che ha mandato la foto da sposo in uno sfondo di giardino... Poi siamo andati al camposanto, che c’era mia mamma sotterrata e le abbiamo messo questi due fiori... Ah, o... Prima siamo andati a vedere sposarsi il mio amico. Quello lf che si chiamava Focile che si sposava alle 9, no... E poi siamo giusto andati a trovare quel mio amico di via San Donato, siamo andati al camposanto, poi siamo venuti a... Ah, siamo passati da casa sua che abbiamo bevuto una volta, mi sembra... Poi i suoi hanno fatto il pranzo a casa sua». Lucia «Erano soli! Noi siamo venuti qui!...» Giuseppe «Qui ho mangiato con mio papà e lei, eh... Lucia «Sf, perché sua sorella [la sorella di Giuseppe] eraoa da suo amico. È andata da Focile che si è sposato. E noi due siamo venuti qua.. Giuseppe «Mio padre aveva già preparato da mangiare. Abbiamo ala alle undici e mezza... All’una e mezza abbiamo preso il treno per Sause [una località di montagna a poca distanza da Torino]»”
L’aneddoto è esemplare. Sono accostati in questa occasione sociale diversi ruoli e ambiti di relazione fino ad allora tenuti separati da Giuseppe. Sono ambiti a cui lo legano diverse aspettative e diverse lealtà. Il conflitto tra queste diverse lealtà in cui Giuseppe si viene a trovare produce iinevitabilmente la rottura di una cerimonia altrimenti corale. Il matrimonio è infatti un rito che, sancendo l’allonitanamento dalla famiglia d’origine e la 30 Ibid.
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Capitolo sesto
fine della gioventii, vede normalmente la compresenza della parentela e del gruppo dei pari. Ma Giuseppe, consigliato dall'amico Focile, sceglie di sposarsi il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma, e sceglie quindi di
sposarsi indossando la camicia nera in un giorno che rappresenta per il padre e anche per molti dei suoi vicini di casa l'anniversario della sconfitta. Giuseppe spiega e giustifica questa scelta a partire dalla necessità di procurarsi in questo modo le 500 lire promesse dallo stato e contemporaneamente ci tiene a sottolineare la sua estraneità ai riti tradizionali e in generale alle manifestazioni ufficiali a partire da un concetto di semplicità spartana. Ma, al di là di questa razionalizzazione, rimane il fatto che il matrimonio si celebra alle sei del mattino, fuori dallo sguardo e dalle possibili sanzioni degli abitanti della casa. Gli amici del Polo Nord sono rigidamente esclusi e anche dopo la cerimonia non compaiono. Compare invece Focile (che è stato anche il tramite della sua iscrizione al partito) e i due testi-
moni che sono, come spiega Lucia, il suo fratello ed un suo amico. Neppure i genitori partecipano alla cerimonia. Essi compaiono solamente nel breve spazio che precede la partenza per la luna di miele e separati tra di loro: gli sposi vanno a bere a casa della famiglia di Lucia e poi pranzano in compagnia del solo padre di Giuseppe. Da soli infine si son recati a fare visita ad urmamico della scuola fotografica e a visitare la tomba di Domenica, la madre di Giuseppe. Non credo che sia necessario commentare ulterior-
mente questo matrimonio. Giuseppe, che è forse la figura più sofferta tra quelle che ho potuto conoscere ricostruendo la storia di questi ambienti, aveva voluto tentare di coinvolgere in quel giorno gli ambiti a cui si sentiva più legato. La famiglia, il mondo della fotografia e anche, quasi in maniera istrionesca e provocatoria, il partito fascista. Ma le tensioni e i conflitti ancora aperti non potevano certo permettere una sovrapposizione seppur
momentanea di reti e comportamenti cosf distanti tra loro. La conseguenza è che Giuseppe suddivide il suo matrimonio in momenti diversi e divisi tra loro e che corrispondono alle diverse sfere di relazione che ha voluto implicare. Da rito sociale, il matrimonio si riduce a rito individuale in cui, in
momenti successivi, gli sposi passano in ambienti diversi e si fanno riconoscere sui contenuti propri di ciascun ambiente. Questo matrimonio, la figura stessa di Giuseppe e dei suoi amici ci mo-
strano le profonde fratture presenti nel rione degli anni ’30 e insieme tutta la distanza di questa realtà dai miti odierni. Il mondo della periferia operaia non è dunque un insieme omogeneo ma è estremamente stratificato al
suo interno; innanzitutto dalla diversità dei cicli di integrazione delle famiglie, ma anche dai confini generazionali che durante il fascismo diventano particolarmente netti. Se infatti abbiamo letto nella vita di ognuno
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l’impronta della storia familiare, abbiamo anche visto come ogni generazione medi le identità e le aspettative incanalate dal proprio passato in funzione delle risorse, delle informazioni e dei miti del presente. Le generazioni degli «anziani», quelle che avevano vissuto in prima persona gli anni della formazione dei rioni, avevano dato origine ad aggregazioni segnate dalle loro richieste e aspettative ma anche da un’epoca in cui risorse, servizi, informazioni e spazio geografico dei gruppi meno ricchi si ritagliano necessariamente nell’orizzonte quotidiano di relazione. Le generazioni dei giovani degli anni ’30 sono invece marcate dall’apertura di questi confini; un’apertura che sembra a loro concretizzarsi, attraverso l’intervento fascista, nello spirito modernista dell’epoca, nei consumi individuali, nei miti dello sport e del tempo libero. Un rione operaio sotto il fascismo esprime dunque contemporaneamente tutte queste realtà ed identità sociali. Nel 1936, l’anno dello strano matrimonio, Giuseppe e Pietro Odasso, il figlio e il padre, sono entrambi operai specializzati e condividono la stessa casa. Ma esiste un baratro tra le loro identità sociali. Cosî come esiste un baratro tra Giuseppe e alcuni dei suoi stessi amici, come Mario. Seguendo la vita degli 11 fondatori del gruppo del Polo Nord e dei loro genitori abbiamo osservato da vicino unicamente gli atteggiamenti di due delle numerose generazioni che compongono questi ambienti; ma nel 1930 sono attive anche le generazioni di mezzo, quelle più anziane dei testimoni ma pit giovani dei loro padri. Per esse il fascismo come già il socialismo hanno fatto la loro comparsa in una fase diversa del ciclo di vita, marcando le loro identità in forme diverse.
Parlare di «cultura operaia», di «risposta popolare al fascismo» non ha quindi senso. Ci sono stati comportamenti e adesioni diversificati per ogni generazione e, all’interno di questi, diversificati dal ciclo di integrazione urbana. Queste due variabili, nel loro rapporto reciproco, sono le uniche
che possono permetterci di descrivere e analizzare la realtà interna ad un ambiente e ad un gruppo sociale cosf complesso. Il fascismo è comunque stato presente, e ha trovato molte adesioni come molte estraneità. Sicuramente non c’è stata una risposta univoca a questo fenomeno da parte dei rioni come del mondo operaio. E, possiamo aggiungere, proprio questa
marcata diversificazione di atteggiamenti ha contribuito a distruggere dall’interno quei meccanismi di integrazione e di ricomposizione delle tensioni che, altrimenti, sarebbero forse stati in grado di frenare il processo di disgregazione in atto.
Conclusioni
Nel corso di questa indagine ho cercato di costruire un modello di interpretazione dei meccanismi che aggregano e disaggregano il mondo operaio torinese, in una fase della sua storia caratterizzata da una imponente crescita industriale, da crisi e rivolgimenti politici. L’ottica che ho scelto per analizzare questo processo è stata quella longitudinale dei percorsi di più generazioni di famiglie che hanno attraversato questi ambienti e hanno vissuto in essi identificandovisi in forme e misure diverse. Questa osservazione un po’ inusuale dei processi storici ci ha fatto considerare una serie numerosa ed eterogenea di elementi. Alcuni di essi si sono imposti come le variabili necessarie per spiegare fatti e dinamiche emerse nel corso stesso dell’analisi. Altri — spero il minor numero - sono forse elementi la cui necessità è nata dai dati, dall’incrocio di fonti di natura di-
versa, dalla novità dell’approccio tentato che, in quanto tale, è ancora da definire nelle sue essenzialità. Il giudizio sull’insieme di essi, sul loro valore euristico, va quindi lasciato innanzitutto al lettore. Qui è forse necessario
considerare unicamente gli aspetti particolari ed imprevisti che questo percorso ha permesso di mettere in luce, i problemi che ne derivano. Seguire i percorsi familiari spiando, attraverso il loro orizzonte, le modalità di abbandono della campagna; partecipare al primo insediamento in città degli immigrati e al loro incontro con il mondo operaio; ricostruire i loro passi successivi; tutto ciò ci ha permesso di scoprire le logiche secondo cui si organizzava la fitta rete di connessioni interne alla città, ai suoi spazi geografici e professionali. Dalle scelte e dalle traiettorie familiari è emersa la sagoma di un percorso corale che si esprime nei termini di un vero e proprio «ciclo di integrazione urbana». Si tratta dell’integrazione del mondo delle campagne nel tessuto geografico e professionale torinese. A partire dalla fine dell'Ottocento, continue ondate migratorie fanno confluire in città ogni anno sempre nuove generazioni di contadini che hanno abbandonato il loro paese. Ciascuna di queste scelte di emigrazione ha la sua storia particolare, e insieme esse convogliano diverse identità ed aspettative individuali. Tutte - o perlomeno la stragrande maggioranza di esse — con-
Conclusioni
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ducono comunque alla condizione operaia. Ma è questa unicamente una
prima fase. I neo-cittadini e neo-operai, nel corso di una vita individuale o di due e in alcuni casi anche tre generazioni, attraversano questa condizione toccandone i diversi aspetti, fino ad uscire da essa per integrarsi negli strati medi del mondo torinese. In pochi casi l’operaio-contadino appena inurbato raggiunge personalmente l’ultima tappa di questa integrazione; ma è sempre, comunque, il padre o il nonno di un figlio o di un nipote che arrivano a toccarla. Questa integrazione non è solo un percorso professionale ma ha un rapporto spa-
ziale con la città; secondo le gerarchie e i significati specifici della composizione sociale dei suoi quartieri. Si entra orientandosi verso i quartieri centrali e verso le case più malsane, quindi si tende a spostarsi verso i quartieri operai e verso case ancora povere ma più confortevoli e dotate di servizi; infine si riconfluisce, nelle ultime fasi del ciclo, nei quartieri centrali,
ma, questa volta, nelle zone residenziali piccolo borghesi. Nell’introduzione avevo usato, per cercare di definire alcune delle domande che mi ero posto nei confronti di questo mondo, la metafora della «casa». Paragonando la condizione operaia ad un edificio, mi chiedevo se e in quale misura gli inquilini che lo avevano popolato nei diversi momenti della sua storia erano stati gli stessi; se i figli avevano ereditato la posizione dei padri. Il ciclo di integrazione ci ha restituito l’immagine di una casa in cui la maggioranza di chi l’ha popolata negli anni della sua formazione non è più presente o se ne sta andando fin dagli anni immediatamente successivi, lasciando cost il posto a nuovi inquilini. In altri termini — sciogliendo la metafora - la condizione operaia non definisce, nella Torino della prima metà del secolo, un gruppo stabile. Chi la vive negli anni ’10 e ’20 del secolo appartiene — nella quasi totalità dei casi — ad un'ondata migratoria che è quella della fine dell'Ottocento e dell’inizio del secolo. Chi la vive negli anni ’30 appartiene ad un’ondata migratoria successiva. E questo è senza dubbio un aspetto non secondario, particolarmente nella situazione torinese perché implica che poche, tra le famiglie che hanno vissuto negli spazi operai le lotte d’inizio secolo, vivono il periodo fascista negli stessi ambienti e nelle stesse condizioni professionali. In secondo luogo il turnover professionale, e il fatto che esso si concretizzi attraverso il percorso a tappe caratteristico del ciclo di integrazione, sottolinea la non ereditarietà della professione operaia. Non solo i manovali o gli operai semplici, ma anche gli stessi operai qualificati, visti spesso quasi come una corporazione di mestiere ereditaria, sono figure sociali la cui identità professionale è poco stabile. Direttamente o attraverso la figura del padre, la maggioranza degli operai qualificati torinesi ha conosciu-
to l’esperienza del lavoro contadino, poi del lavoro operaio scarsamente
160
Conclusioni
qualificato, e cosî via. Inoltre le stesse persone intravedono spesso nel proprio futuro un ulteriore miglioramento professionale, per sé o per i propri figli. È anche questo il senso del ciclo di integrazione: un legame, che si legge attraverso i percorsi individuali e familiari, che connette verticalmente la campagna con la città e, all’interno di questa, diverse figure professionali e diversi spazi urbani. La stessa tendenza all’instabilità e alla non ereditarietà si può leggere anche nei confronti dei quartieri operai, di quegli ambienti peculiari della geografia torinese che si vorrebbero stabili ed unici ricettacoli del mondo operaio d’inizio secolo. Una famiglia che vive in un quartiere operaio ha conosciuto la campagna ma anche i quartieri socialmente ibridi del centro cittadino. La casa che occupa, inizialmente percepita come un obiettivo, ha perso con l’andare del tempo le sue attrattive mentre le aspirazioni si sono spostate verso nuovi quartieri e verso nuove
modalità abitative che i figli, se non i padri, raggiungeranno. Gli elementi generali che un’ottica processuale come quella adottata in questo lavoro ha fatto emergere sul tema della condizione operaia di una grande città industriale tra 1900 e 1950 sono indubbiamente questi: un intenso turnover sociale, una scarsa ereditarietà professionale, uno scambio e unaconnessione continua tra i diversi strati della città. E dunque difficile confermare immagini della classe operaia univoche e lineari, come quella proposta per esempio dal gruppo dell’«Ordine Nuovo» all’inizio degli anni ’20 e che ancora oggi caratterizza più o meno direttamente molte interpretazioni e dibattiti. Le loro imprecisioni mostrano di rispondere più ad un progetto politico che ad una esigenza analitica. Sono due livelli spesso difficili da separare ma in questo caso chiaramente percepibili. Quando Gramsci, Tasca, Togliatti, Terracini e gli altri militanti della sinistra operaista parlavano di un gruppo socialmente definito che si riproduceva in gran parte al suo interno, esprimevano un progetto politico di definizione dei confini di un ambito sociale, tale da permettere la nascita di una identificazione di gruppo e insieme la radicalizzazione degli scontri sindacali dei primi anni ’20. La loro azione ha effettivamente contribuito a radicalizzare le tensioni sociali nei primi anni ’20 e ha determinato anche una certa coesione operaia. Ma questa visione cosf nettamente dicotomica ha impedito nello stesso tempo di cogliere la complessità di meccanismi che hanno
prima favorito lo sviluppo del movimento socialista, ma hanno successivamente assicurato però la penetrazione della politica e dell'ideologia fascista. Ho analizzato a lungo i meccanismi di aggregazione sociale e il loro rapporto con le ideologie politiche. Prima di rievocarli sinteticamente, voglio ricordare come, se globalmente il ciclo di integrazione urbana traccia un percorso corale di mobilità geografica e professionale, esso si concretizza,
Conclusioni
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al suo interno e in particolare nell’orizzonte familiare, in forme estremamente diverse. Non c’è infatti una determinazione causale univoca tale per cui ogni famiglia, dal momento del suo ingresso in città, passa necessariamente attraverso ogni fase del ciclo, con gli stessi ritmi, mettendo in atto
le stesse scelte e gli stessi comportamenti sociali. Fin dall’inizio del ciclo ogni immigrato, pur affluendo negli stessi ambienti, mostra di inserirsi nel mondo urbano costruendo diversi tipi di relazioni familiari, sollecitando diverse risorse, mettendo in opera differenti strategie di integrazione. Sono scelte e atteggiamenti ritagliati all’interno di una gamma di opzioni necessariamente limitata e circoscritta alle principali sfere che compongono l'universo della condizione operaia: nella famiglia, attraverso le sue dimensioni e i suoi ruoli interni; nello spazio urbano, attraverso le relazioni intrecciate nei quartieri ibridi del centro o in quelli operai della periferia; nella sfera del lavoro, attraverso le strategie di qualificazione o di riconversione professionale. Ma la combinazione di queste scelte, le risposte trovate e le dinamiche che esse attivano, sono tali da mutare il ventaglio di scelte successivamente operabili da ogni famiglia, determinando, di volta in volta, le forme e i ritmi del loro percorso di integrazione. Sono queste dinamiche ad aver prodotto l’estrema dispersione di forme osservabili all’interno della condizione operaia torinese. Una dispersione
caratteristica non solo della situazione di questa città, e che ha spesso limitato le capacità esplicative di modelli tesi a definire una struttura di comportamenti e di forme di vita operaie «tipiche ». Se questa ricostruzione
dei percorsi familiari ha dato qualche risultato, uno di essi è senz'altro quello di averci mostrato un senso all’interno di una dispersione di forme apparentemente casuale e irrilevante. E vero infatti che i miei dati mostrano senza possibilità di equivoci come non esista una forma strutturale caratteristica del mondo operaio. Tuttavia essi ci mostrano come le diverse forme osservate siano tutte significative, in quanto espressione di una condizione - quella operaia — che non è stabile ma si modifica attraverso le scelte individuali, modificandole a sua volta.
Su questo punto in particolare penso che valga la pena di fare chiarezza. Abbiamo visto come ogni attore sociale operi, lungo il suo percorso, una serie continua di scelte. Si è poi ampiamente dimostrato come ciò non avvenga in modo casuale ma grazie ad una razionalità che considera la propria posizione attraverso il filtro delle esperienze che fanno parte del bagaglio individuale e familiare, attraverso le informazioni canalizzate dalle maglie dell’universo di relazione. Una razionalità, in altri termini, che è
«limitata» entro i confini dettati dalla storia di cui ciascuno è portatore, dalle immagini e dai messaggi dell’ambiente. Ma una razionalità che, proprio perché definita dal passato e dal presente di relazione, si modifica at-
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Conclusioni
traverso ogni scelta e ad ogni passo del percorso di integrazione, facendo confluire nel tessuto sociale sempre nuove richieste, nuovi atteggiamenti e nuove strategie, e contribuendo cosf a modificarne gli aspetti. Le implicazioni di queste dinamiche sono numerose. Mi sembra importante ricordare come esse mostrino soprattutto una continua rielaborazione — che è individuale, familiare, e di gruppo — della propria storia, della propria posizione e delle proprie possibilità sociali. In alcuni momenti, in alcuni ambienti, prevale la rielaborazione familiare o individuale; in altri
prevale quella di gruppo; spesso, infine, esse si sovrappongono, anche contraddittoriamente, rimanendo presenti ma confinate in spazi diversi. Anche il tema dell’identità operaia si chiarisce all’interno di questa ottica. Rielaborare la propria storia significa infatti rappresentare se stessi e la propria famiglia all’interno dello spazio sociale, cercando di definire il senso della propria posizione: ci si può identificare col gruppo, il quartiere, o con l’ambito professionale momentaneamente condiviso; oppure si possono percepire questi stessi elementi come aspetti transitori di un
percorso di mobilità che può avere il suo fulcro nelle classi medie della città ma anche nel mondo della campagna. Non c’è quindi ur4 sola identità operaia, ma fante possibili identità. Anch’esse non infinite e casuali ma legate alle forme che assume per ognuno il ciclo di integrazione; mai interamente consolidate, ma sempre passibili di mutazioni. Questo non vuol dire che non sia esistita una qualche unità di classe.
Ma sono stati proprio questi elementi ad averci permesso di chiarire, al di là delle razionalizzazioni dei testimoni, il senso delle aggregazioni operaie, la loro consistenza reale cosî come i loro elementi di debolezza. Sulla base di questi risultati, si sono infatti ricostruite le dinamiche di relazione che saldano e poi disaggregano la vita sociale di uno dei quartieri operai più mitici di Torino, Borgo San Paolo. Si sono viste famiglie, diversificate per posizione e per identità dal ciclo di integrazione, unirsi negli stessi spazi grazie all'esigenza comune di garantire per sé e per i propri familiari l’uso delle risorse affettive ed economiche ricavabili dalle reti di relazione locale. L’ideologia socialista che permea lo spazio pubblico dei discorsi rionali ha cosf mostrato di corrispondere più ad un rituale di eguaglianza atto a salvaguardare e favorire gli scambi interpersonali che alla emanazione diretta di una identità e di una compattezza sociale, come vorrebbe il mito evocato dai testimoni. Certo questo non significa che non sia mai esistita una forma di identificazione attiva con l'ideologia socialista. Ho sottolineato pit volte come attraverso queste dinamiche sia cresciuto, soprattutto negli anni che circondano la prima guerra mondiale, un consenso di massa attivo e reale nei confronti del partito socialista. Ma si è trattato di un consenso maturato come
Conclusioni
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un fattore indotto da dinamiche di aggregazione le cui ragioni stanno nelle storie e nelle aspirazioni familiari, oltre che da una coesione strutturale del mondo operaio. Solo tenendo conto di tali dinamiche si è potuta chiarire la diversa intensità delle adesioni date alle sinistre da ogni attore sociale. Solo attraverso di esse si è potuto ricostruire l'aspetto normativo e il controllo sociale nato tra le maglie di relazione locale. E, solo riconoscendo la presenza e l’intensità di conflitti e di tensioni irrisolte nelle famiglie come nella socialità del quartiere, si sono potuti chiarire icomportamenti e le scelte dei figli e delle generazioni seguenti, la progressiva disgregazione dei quartieri operai, la penetrazione dell’ideologia fascista. Ed è forse interessante notare, a questo proposito, come la realtà di questi meccanismi sia-stata probabilmente chiara all’ala riformista del partito socialista e, paradossalmente e in un senso pit pragmatico, ai fascisti e ai cattolici. I fascisti e i cattolici hanno teso, in maniera più o meno consapevole, a favorire le tendenze verticali all’aggregazione come una contrapposizione alle tendenze di solidarietà di classe. Al contrario, l’intervento socialista nel mondo operaio deve forse il suo successo alla capacità di proporsi come una struttura integrativa dell'economia di scambio locale, dei ruoli familiari stessi. Tra il 1900 e il 1914 i socialisti, più che nel mondo delle fabbriche, lasciato alle organizzazioni sindacali, sono presenti nei
quartieri operai; aprono società ricreative rivolte essenzialmente alle famiglie, fondano asili nido e scuole elementari. Una politica pragmatica che mostra di tenere conto della complessità delle richieste familiari. Dal 1918, con il disorientamento della guerra ma soprattutto con l’impatto del modello bolscevico, prende forza, tra i militanti torinesi, l’interpretazione
dell’«Ordine Nuovo» e del futuro partito comunista. Il mondo operaio cessa di essere visto come un insieme fluttuante, dotato di esigenze diverse e di una dimensione che lo definisce anche all’esterno della fabbrica: diventa invece espressione di un processo storico in cui si vogliono vedere le mansioni professionali come l’unico, effettivo momento di omogeneità sociale. Le conseguenze negative di quest'ottica appaiono oggi evidenti: messa a tacere la lotta sindacale, disgregatisi i quartieri e cambiati molti dei soggetti sociali, la classe operaia torinese ha conquistato il suo mito ma non ha certo trovato la sua storia.
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115 Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo x1. A cura di Italia Pia Sbriziolo. Con un saggio introduttivo di Dmitrij S° Lichagév. 116 Hugh Seton-Watson, Storia dell'impero russo (1801-1917). 117 Peter Brown, Agostino d’Ippona. 118 Lawrence Stone, La crisi dell’aristocrazia. L'Inghilterra da Elisabetta a Cromwell. 119 Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci. 120 Claudio Rotelli, Una campagna medievale. Storia agraria del Piemonte fra il 1250 e il 1450. 12I Marc Bloch, I re taumaturghi. Studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re partico122 123 124
125 126
larmente in Francia e in Inghilterra. Con una prefazione di Carlo Ginzburg e un Ricordo di Marc Bloch di Lucien Febvre. Andrzej Walickj, Una utopia conservatrice. Storia degli slavofili. Hugh Thomas, Storia di Cuba 1762-1970. Edwin O. Reischauer e John K. Fairbank, Storia dell’ Asia orientale. i. La grande tradizione. n. Verso la modernità (in collaborazione con Albert M. Craig). Richard A. Webster, L’imperialismo industriale.italiano 1908-1915. Studio sul prefascismo.
Renzo De Felice, Mussolini il duce.
1.
Gli anni del consenso 1929-1936.
mi. Lo Stato totalitario 1936-1940. 127 Peter Brown, Religione e società nell'età di sant’ Agostino. 128 Joyce e Gabriel Kolko, I limiti della potenza americana. Gli Stati Uniti nel mondo dal 1945 al 1954. 129 Ruggiero Romano, Napoli: dal Viceregno al Regno. Storia economica. 130 Stuart Piggott, Europa antica. Dagli inizi dell’agricoltura all’antichità classica. 13I Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli xv-xvm).
1. Le strutture del quotidiano. n. Igiochi dello scambio. mi. I tempi del mondo. 132 Pierre Broué, Rivoluzione in Germania 1917-1923.
134
Joseph Ki-Zerbo, Storia dell’Africa nera. Un continente tra la preistoria e ilfuturo. Jacques Gernet, Il mondo cinese. Dalle prime civiltà alla Repubblica popolare.
135
Frances A. Yates, Astrea. L'idea di Impero nel Cinquecento.
133
136 Storia del marxismo. Progetto di EricJ.Hobsbawm, Georges Haupt, Franz Marek, Ernesto Ragionieri, Vittorio Strada, Corrado Vivanti.
I. Ilmarxismo ai tempi di Marx. n. Il marxismo nell'età della Seconda Internazionale. m. I/ marxismo nell'età della Terza Internazionale. 1. Dalla rivoluzione d’Ottobre alla crisi del 29. 2. Dalla crisi del’29 al XX Congresso. Iv. Il marxismo oggi.
137 Frederic C. Lane, Storia di Venezia. 138 Lucien Febvre, Filippo II e la Franca Contea.
Jon Halliday, Storia del Giappone contemporaneo. Le Thanh Khoi, Storia del Viet Nam. Dalle origini all'occupazione francese. Philip Jones, Economia e società nell'Italia medievale. Jacques Le Goff, La civiltà dell'Occidente medievale. 143 Joseph Needham, Scienza e civiltà in Cina. 1. Lineamenti introduttivi. n. Storia del pensiero scientifico. m. La matematica e le scienze del cielo e della terra. 139 140 I4I 142
144
1. Matematica e astronomia. 2. Meteorologia e scienze della terra (in preparazione). IV-VII. (in preparazione). Arnold J. Toynbee, L'eredità di Annibale. Le conseguenze della guerra annibalica nella vita romana. i. Romae l'Italia prima di Annibale. i. Romae il Mediterraneo dopo Annibale.
145 E. Ashtor, Storia economica e sociale del Vicino Oriente nel Medioevo. 146 Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo xvI al secolo xvm. 147 Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio. 148 Frederic C. Lane, I mercanti di Venezia.
159 160
Paolo Spriano, I comunisti europei e Stalin. Lawrence Stone, Farziglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento. Valerio Castronovo, Storia di una banca. La Banca Nazionale del Lavoro e lo sviluppo economico italiano 1913-1983. Frederic C. Lane, Le navi di Venezia fra i secoli x1m e xvi. Storia del Medioevo. A cura di Robert Fossier. I. Inuovi mondi. 350-950. n. Ilrisveglio dell'Europa. 950-1250. mi. Il tempo delle crisi. 1250-1520 (in preparazione). Federico Chabod, Carlo Ve il suo impero. Augusto Placanica, I/ filosofo e la catastrofe. Un terremoto del Settecento. Energia e sviluppo. L'industria elettrica italiana e la Società Edison. A cura di Bruno Bezza. Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano. Marshall Sahlins, Isole di storia. Società e mito nei mari del Sud. Fernand Braudel, I/ secondo Rinascimento. Due secoli e tre Italie. Giuseppe Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell'Italia con-
I6I
Marcello Pera, La rana ambigua. La controversia sull’elettricità animale tra Galvani e Volta.
162
Karl Polanyi, Il Dabomey e la tratta degli schiavi.
149 150 I5I “ 152 153
154 155
156
157 158
temporanea.
163 Maurizio Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Nove-
cento.
S
minuziosa ricostruzione analitica dei loro «movimenti» sociali permettono di costruire un’immagihe della condizione operaia molto più transitoria di quanto non si sia immaginato. Se analizzata su scala territoriale, questa transitorietà può trovare ulteriori conferme. Si possono riconoscere nei percorsi delle famiglie operaie, negli spostamenti dal centro alla periferia di Torino e poi di nuovo dai quartieri periferici a quelli centrali, altrettante tappe di un «ciclo di integrazione urbana» che si realizza di norma nel corso di due o tre generazioni. ; Di fronte a questi processi reali si pongono i meccanismi dell’autorappresentazione. Attraverso quello che l’autore chiama «il rituale dell’eguaglianza» le spinte alla disgregazione e alla mobilità vengono contenute entro un impianto ideologico volto a celebrare l'omogeneità del quartiere operaio e delle sue componenti sociali. In quest’ultimo aspetto sta insieme la forza e la debolezza del «discorso socialista», del richiamo
all'identità di classe: esso riesce da un lato ad assorbire le tensioni, a controllare le rinascenti dif-
ferenze, a garantire una rappresentazione ridotta ma efficace della vita del quartiere; ma non riesce dall’altro lato a determinare una coesione sociale realmente capace di comprendere in sé le differenze, ed è semplicemente portato a non riconoscerle, a negarne pregiudizialmente l’esistenza. Nato nel 1951, Maurizio Gribaudi ha pubblicato numerosi saggi su riviste italiane e francesi. Attualmente è ricercatore presso l’Ecole pratique, dove prosegue i suoi studi sulla mobilità geografica e sociale nelle società europee del xIx e xx secolo.
Uno studio sulla formazione dei gruppi sociali a Torino attraverso l’analisi dei percorsi di centinaia di famiglie, tra campagna e città, tra condizione operaia e classi medie.
ISBN 88-06-59411-7
LIL Lire 24 000 (Iva compresa)
88806
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