Il mito moderno. Racconto, arte e filosofia nel primo Schelling 8831101722, 9788831101721

Mito e modernità: un rapporto da sempre conflittuale ed affascinante. Dopo la condanna di un mito giudicato antitetico a

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Il mito moderno. Racconto, arte e filosofia nel primo Schelling
 8831101722, 9788831101721

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IDEE / filosofia nuova serie

Collana diretta da Massimiliano Marianelli IL MITO MODERNO

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Comitato scientifico-editoriale / Editorial Board Adriano Fabris - Massimo Ferrari - Elio Franzini Emmanuel Gabellieri - Francesco Tomatis

IDEE/filosofia è una collana sottoposta a valutazione da parte di revisori anonimi. Il contenuto di ciascun volume è valutato e approvato da specialisti scelti dal comitato scientifico-editoriale e periodicamente resi noti.

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Francesco Forlin

IL MITO MODERNO racconto, arte e filosofia nel primo Schelling

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In copertina: Karl Friedrich Schinkel (1781-1841), Pegaso sulla città. Berlino, Musei Statali. © 2012, Foto Scala, Firenze. Grafica di Rossana Quarta © 2012, Città Nuova Editrice Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-0172-1

Finito di stampare nel mese di febbraio 2012 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via Pieve Torina, 55 00156 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]

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«L’arte è lunga, la vita breve, il giudizio arduo, l’occasione fuggevole. Facile è agire, difficile pensare; gravoso agire secondo il pensiero. Ogni inizio è lieto, la soglia è il luogo dell’attesa. Il fanciullo si meraviglia, l’impressione lo determina, egli impara giocando, la serietà lo sorprende. L’imitazione ci è innata, ciò che è da imitare non è riconoscibile facilmente. È raro incontrare l’eccellenza, più raro apprezzarla. L’altezza ci attira, non i gradini; con l’occhio fisso alla meta noi amiamo camminare in piano». J.W. von Goethe, Lettera di fine apprendistato di Wilhelm Meister Dedicato a chi, come Felix per Wilhelm Meister, impersona agli occhi di chi scrive la scoperta che non si può bastare a se stessi né, allo stesso tempo, all’altro. Di qui la volontà di essere reciprocamente un mistero infinito da sondare, lasciando indietro limiti ed idoli propri, così da far esser l’amore l’incontro sempre rinnovantesi di due mondi distinti e proprio per questo sempre più capaci di comprendersi ed amarsi. E nel momento in cui non si cammina più in piano ma in salita è bello riprendere a guardare nella stessa direzione, verso quella meta audace, alta e bellissima. «Non prendere mai alla leggera l’amore. La verità è che la maggior parte della gente non ha mai avuto la fortuna di amare qualcuno. Quando questo succede, è la cosa più importante che può capitare ad un essere umano». E. Hemingway, Per chi suona la campana

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INTRODUZIONE

Mito e modernità: un rapporto conflittuale e affascinante lega fra loro gli estremi di questa relazione. Dopo la condanna di un mito giudicato antitetico e quasi preclusivo rispetto al discorso razionale, espressa dai teorici di più rigorosa obbedienza illuministica, è nella Germania preromantica che la ricerca sul mito inizia a emanciparsi dall’ipoteca classicista. Ciò avviene nel momento in cui allo studio della mitologia antica prende ad affiancarsi in modo sempre più esplicito una riflessione sui fondamenti mitici della stessa età moderna, così da mettere gradualmente a fuoco la problematica nozione di mito moderno. Nello studio che segue verranno messe a tema genesi e sviluppo di tale nozione in F.W.J. Schelling, che all’interno di quella temperie culturale ebbe a giocare un ruolo di grande importanza. In particolare, ci si occuperà della produzione del primo Schelling, compresa cioè fra gli esordi a Tubinga (1792-93) e il trasferimento a Würzburg (1803). All’interno di tale decennio si è scelto di polarizzare la trattazione su tre nuclei fondamentali, rispettivamente costituiti dalle basi della prima riflessione schellinghiana sul mito – che si condensa nello studio delle lingue antiche e dell’esegesi veterotestamentaria e trova espressione soprattutto nel saggio Sui miti del 1793 – dalla stesura del Più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco del 179697 –, e dalla professione delle lezioni sulla Filosofia dell’Arte nel 1803-04. La prima parte verte pertanto sulla formazione del filosofo, rispetto alla quale il tema del mito moderno è visibile ancora

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INTRODUZIONE

soltanto attraverso la filigrana della sottolineatura del valore di legittimazione sociale fornito dal mito stesso. La saldatura fra l’interesse per il mito e la questione di un suo uso strumentale è ciò che si trova alla base del mito moderno come mitologia della ragione: questo il senso del riferimento al Systemprogramm che occupa la seconda parte, nella quale si cerca anche di dare brevemente conto delle principali questioni ermeneutiche ad esso legate e il discorso si apre inevitabilmente ad altri autori. Con la terza parte il focus della ricerca torna su Schelling, segnatamente in riferimento alla preparazione e alla stesura della Filosofia dell’Arte nella quale la questione del mito moderno viene sviluppata e risolta. Nel corso di tutta la ricerca abbiamo voluto affiancare la trattazione dei plessi speculativi alla puntuale descrizione dei passaggi fondamentali della vita del filosofo, guardati principalmente attraverso il suo ricchissimo epistolario e altre testimonianze coeve. Incrociando questi dati con l’introduzione nella ricerca di capitoli dedicati ai principali interlocutori (diretti e indiretti) di Schelling nelle varie fasi della sua vita, si è cercato di fornire un quadro il più possibile veridico di un itinerario tale da descrivere una sorta di biografia intellettuale del primo Schelling, così da cogliere le principali tessere del mosaico del mito moderno nella loro fase genetica. Ci auguriamo, così, di aver fatto cosa gradita e utile a tutti coloro che, a vario titolo, intendano immergersi nel flusso continuo del pensare schellinghiano.

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PARTE PRIMA ALLE FONTI DELL’INTERESSE SCHELLINGHIANO PER IL MITO

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I. GLI ANNI DELLA FORMAZIONE: IL PERIODO TUBINGHESE (1792-1795)

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1. STUDIO DELLE LINGUE ANTICHE ED ESEGESI VETEROTESTEMENTARIA La ricostruzione genetica dell’interessamento per il mito si intreccia direttamente con due distinti aspetti della formazione di Schelling: l’amore per le lingue antiche e lo studio di problemi legati all’esegesi biblica1. Per comprendere il primo aspetto è necessario fare riferimento al rapporto fra Schelling e suo padre, il pastore Joseph Friedrich Schelling. Come osserva Plitt, il padre del filosofo era «uomo coltissimo, assiduo nella ricerca e particolarmente operoso e versato

1 Per un inquadramento generale dell’argomento cf. C. Hartlich - W. Sachs, Der Ursprung des Mythosbegriffs in der modernen Bibelwissenschaft, Mohr, Tübingen 1952. Circa tale questione in riferimento a Schelling vedasi il vetusto ma ancora indispensabile G.L. Plitt, Schellings Leben in Briefen, Hirzel Verlag, Leipzig 1869, I, pp. 39-52. Per una sintetica presentazione del problema, arricchita da una bibliografia esaustiva, vedansi inoltre le pagine iniziali di V. Verra, Mito, rivelazione e filosofia, Marzorati, Milano 1966, pp. 9-14, mentre l’argomento viene messo analiticamente a tema alle pp. 85-120 dello stesso testo. È inoltre possibile fare riferimento a W. Pannenberg, Späthorizonte des Mythos in bibilischer und christlicher Überlieferung, in M. Fuhrmann (hrsg.), Terror und Spiel. Probleme der Mythen-Rezeption, Fink, München 1971, pp. 473-525. Interessanti sono anche le pagine presenti in T. Griffero, Senso e immagine. Mito e simbolo nel primo Schelling, Guerini, Milano 1994, pp. 216-218 e relative note. Doveroso, infine, citare l’efficace sintesi con la quale l’argomento viene introdotto in W. Jacobs, Gottesbegriff und Geschichtsphilosophie in der Sicht Schellings, Frommann-Holzboog Verlag, Stuttgart 1993, pp. 38-44, laddove l’intera storia dell’esegesi biblica del Seicento e del Settecento viene definita come storia della «risoluzione dell’universo delle immagini bibliche», in forza della quale la cultura europea prese congedo dall’idea – ancora egemone in età riformata – della Bibbia come testo base tanto della conoscenza rivelata quanto di quella scientifica.

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nello studio delle lingue […] il suo principale campo d’indagine era dato dalla letteratura orientale»2. Egli padroneggiava a tal punto l’arabo, il siriano e l’aramaico che in tali materie fungeva da maestro e mentore di quello stesso F. Schnurrer che, divenuto docente di Lingue orientali a Tubinga, sarebbe stato il principale artefice della formazione del figlio Friedrich. Oltre ad orientare in misura decisiva la direzione degli studi del figlio, l’influenza paterna determinò anche l’emersione di quella geniale precocità che avrebbe costituito uno dei caratteri distintivi del pensiero schellinghiano: stimolato dalle letture e dagli studi che gli venivano sottoposti dal padre e dai discorsi che intratteneva con quest’ultimo, già a quindici anni Schelling stupiva insegnanti e colleghi di corso più grandi di lui (compreso il giovanissimo Hölderlin) presso il monastero di Bebenhausen, ove stava attendendo agli studi liceali, con la composizione di poemi in esametri redatti in latino fluente aventi ad oggetto la questione dell’origine del linguaggio. Tale precocità valse a Schelling la possibilità di iscriversi, a soli quindici anni, al prestigioso Stift di Tubinga nel 1790, ove l’amicizia con Hölderlin era destinata a maturare e rafforzarsi e quella con Hegel a vedere la luce. Bastò poco tempo perché si diffondesse nello Stift la reputazione della straordinaria erudizione del giovane Schelling in fatto di lingue antiche. Quest’ultima lo rese noto fra docenti e colleghi prima ancora che egli avesse modo di mettersi in luce per l’acutezza delle argomentazioni e la spregiudicatezza degli atteggiamenti nei confronti della cosiddetta “ortodossia tubinghese”3.

G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 4, tr. nostra. Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., pp. 30-32. A questo riguardo il Plitt dà conto dell’episodio, già celebre, della danza intorno all’Albero della Ragione che Schelling e Hegel avrebbero inscenato sulle rive del Neckar all’arrivo dalla Francia delle notizie dei fatti rivoluzionari. Circa l’effettiva veridicità dell’aneddoto, tuttavia, egli confessa di non essere stato in grado di disporre di testimonianze attendibili. 2

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I. GLI ANNI DELLA FORMAZIONE: IL PERIODO TUBINGHESE

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La passione per le lingue antiche, e in particolare per quella ebraica, e la confidenza con il loro studio avevano dunque radici antiche nella famiglia Schelling. Non può pertanto stupire il fatto che, nel concludere il secondo anno di frequenza a Tubinga, Schelling decidesse di svolgere la dissertazione destinata a conferirgli il titolo dottorale sul III libro del Genesi4. Questa scelta, peraltro, riveste un certo interesse per la nostra ricerca dal momento che la Magisterdissertation del 1792 precede immediatamente la stesura del saggio Sui miti dell’anno successivo preparandone, per molti versi, l’argomento. Osserva Plitt: la scelta di questo argomento esprime l’esito della direzione di pensiero presa da Schelling nel corso del suo secondo anno di soggiorno tubinghese. Tale direzione potrebbe essere descritta come critico-teologica o filosofico-religiosa. Essa mostra come Schelling intendesse indagare la genesi delle rappresentazioni religiose in generale e di quelle bibliche in particolare, distinguendo quale parte in esse avessero avuto il sentimento religioso, i filosofemi, e l’invenzione poetica. Questa finalità critica lo avrebbe condotto a delle ricerche sempre più approfondite, specialmente sul concetto di mito, segnatamente in riferimento all’interpretazione delle Scritture5.

La dissertazione del 1792 segnala dunque la nascita dell’interesse schellinghiano per il mito, il quale trova il suo humus fertile proprio all’interno del precedente studio delle lingue antiche e delle Scritture6. 4 Cf. F.W.J. Schelling, Antiquissimi de prima malorum humanorum origine philosophematis Gen. III explicandi tentamen criticum et philosophicum, in F.W.J. Schelling, Historisch-kritische Ausgabe, Frommann-Holzboog Verlag, Stuttgart 1976, I, pp. 59-99. Per un inquadramento dell’opera cf. T. Griffero, Senso e immagine, cit., pp. 215-227. 5 G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 36, tr. nostra. 6 Per una introduzione alla primissima produzione schellinghiana in relazione al mito è possibile fare riferimento a F. Viganò, Filosofema e mito. Dallo strappo della ragione alla filosofia della storia, in C. Tatasciore (a cura

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Il saggio Sui miti 7, pubblicato nel 1793, diede a Schelling una certa fama e si impose quale primo, autentico frutto della sua produzione scientifica. Anche per questo, ma soprattutto per il suo contenuto, tale saggio riveste per noi una importanza di primo piano, valendo come principale testimonianza dell’interessamento schellinghiano al mito negli anni tubinghesi e meritando pertanto una trattazione approfondita. Tuttavia, da principio il saggio si segnalò non per l’argomento mitico, ma per le sue implicazioni teologiche. Quando, nel dicembre 1794, Hegel, che già da un anno aveva lasciato Tubinga per esercitare la professione di precettore privato a Berna, scrive a Schelling per congratularsi con l’amico della pubblicazione del saggio, egli fa riferimento alle importanti e coraggiose dottrine teologiche in esso contenute, senza menzionare affatto la questione mitica. Del pari, quando il noto teologo D.F. Strauss darà alle stampe, nel 1835, la sua opera principale La vita di Gesù presa in esame in modo critico, egli citerà il saggio giovanile schellinghiano quale precedente decisivo di riduzione a mito dell’elemento sovrannaturale contenuto nel racconto evangelico. Agli occhi dei contemporanei «Schelling si presentava, come dimostra la lettera di Hegel, come un alfiere dell’ingresso dell’illuminismo nella teologia, come un distruttore del razionalismo dotto»8. Per spiegare questa impostazione non è più sufficiente avere chiaro il ruolo avuto dal padre di Schelling e da Schnurrer nella sua formazione, dal momento che i due nomi in questione indirizzarono il giovane Friedrich più allo studio delle lingue antiche che a quello dell’esegesi biblica. Bisogna osservare co-

di), Dalla materia alla coscienza. Studi su Schelling in memoria di G. Semerari, Guerini e Associati, Milano 2000, pp. 175-198. Cf. anche A. Pieretti, Il mito, sapienza partecipativa, in «Hermeneutica», 2011, pp. 220-223. 7 Cf. F.W.J. Schelling, Über Mythen, historische Sagen und philosophemen der ältesten Welt, in F.W.J. Schelling, Historisch-kritische Ausgabe, cit., pp. 185-246, in italiano F.W.J. Schelling, Sui miti, a cura di F. Forlin, Mimesis, Milano 2009. 8 G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 38, tr. nostra.

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I. GLI ANNI DELLA FORMAZIONE: IL PERIODO TUBINGHESE

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me lo stesso Schnurrer fosse un fervido estimatore di tale impostazione, pur non avendo dedicato ad essa degli studi specifici9. 9 Sembra però che già il padre di Schelling fosse stato influenzato, negli anni della sua formazione – all’incirca fra il 1756 e il 1760 – dalla lezione del teologo e biblista J.D. Michaelis (cf. Id., Deutsche Uebersetzung des alten Testaments mit Anmerkungen für Ungelehrte, Göttingen 1769 e Id., Einleitung in das Alte Testament, Göttingen 1787), l’opera del quale risulta a sua volta incomprensibile se non in riferimento a quella dell’inglese R. Lowth (cf. Id., De sacra poesia Hebraeorum, Göttingen 1758). Il testo di Lowth, edito da Michaelis a Gottinga con un ricco apparato di note, raccoglie i corsi tenuti da questi a Oxford, durante i quali i testi della poesia sacra ebraica, con particolare attenzione al Cantico dei Cantici, se da un lato vengono considerati eccezionali in virtù della loro ispirazione divina, dall’altro vengono sottoposti ad un'analisi del tutto analoga a quella riservata alla poesia epica classica. La critica – afferma il Lowth a chiare lettere – deve poter avanzare i propri diritti anche sulla poesia sacra. Il Michaelis, professore nella prestigiosa università di Gottinga di cui diremo in seguito, ascoltò con attenzione le lezioni londinesi di Lowth e mise le sue idee in circolazione anche in Germania. Qui l’esegesi storico-critica trova terreno fertile, probabilmente in virtù del retaggio luterano, e si afferma nel giro di pochi anni, soprattutto in conseguenza dell’opera di divulgazione svolta dal Michaelis stesso. Egli asserisce che le parole della Sacra Scrittura sono da comprendere secondo molteplici significati, in considerazione della vitalità intrinseca di ogni lingua, ivi compresa quella ebraica. In aggiunta a ciò, come non è possibile far risalire le lingue umane a quella ebraica – secondo una unilaterale ed erronea lettura del mito di Babele – così non è possibile dedurre i contenuti delle mitologie politeiste da quelli della religione rivelata come se le prime rappresentassero una perversione della seconda. Se di influenza si può parlare, osserva piuttosto Michaelis, si dovrà farlo non a proposito di quella ebraica sulle culture confinanti ma, al contrario, di quella egiziana su tutti i vicini, compresi gli ebrei costretti per ben due secoli alla condizione di servaggio proprio in Egitto. Questa tesi infiammò la discussione fra filologi e linguisti tedeschi, provocando fra l’altro la reazione polemica e sdegnata di Herder che riteneva la Bibbia la più antica testimonianza del genere umano e stimava altamente improbabile la derivazione egiziana del nucleo dell’insegnamento biblico, consistente nella rivendicazione dei fondamentali attributi di Dio espressa da Mosè proprio nel momento in cui questi cercava di eradicare dai cuori del suo popolo l’idolatria politeista. Quanto a Michaelis, giova, a mo’ di conclusione, riportare alcune osservazioni avanzate in un vecchio studio di K. Müller (cf. K. Müller, Prälat Joseph Friederich Schelling, in «Blätter für württembergische Kirchengeschichte», 42, [1938], pp. 89-124) e riproposte nella già citata monografia di Jacobs. L’importanza di Michaelis consisterebbe, essenzialmente, nel suo aver ricondotto lo studio dell’ebraico a quello delle altre lingue semitiche – rinunziando all’idea della “lingua sacra” –, nell’approfondimento della critica testuale mediante il

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Introduciamo così l’altra figura di spicco (dopo quella di Schnurrer) all’interno del corpo docente di Tubinga: il professore di Teologia G. Storr. Così il Plitt tratteggia il suo profilo: un uomo la cui importanza nella Chiesa locale non è possibile sovrastimare e non solo per quello che insegnava, ma per il modo in cui lo insegnava. Fu lui a formare una intera generazione di teologi proprio negli anni ruggenti del razionalismo, coniugando nella sua figura e nel suo insegnamento l’indistruttibile venerazione al cospetto della parola di Dio e la purissima erudizione dello studioso. Tutto questo sortì senza dubbio un grande effetto su Schelling10.

Mentre, dunque, il magistero di Schnurrer confermò e irrobustì nel giovane Schelling interessi ai quali era già stato iniziato dal padre – lo studio delle lingue antiche e di quelle orientali in particolare – quello di Storr gli fece scoprire orizzonti in buona parte inesplorati, insegnandogli l’importanza derivante dall’applicazione delle conoscenze filologiche e linguistiche ai testi antichi, particolarmente alle Scritture. La rivoluzionarietà dell’approccio di Storr alla teologia dogmatica consisteva nel fatto che mentre la teologia dogmatica del tempo era solitamente suddivisa in due ambiti, il primo dei quali dato dalla esposizione sintetica dei contenuti della fede tratti dalla Bibbia, e il secondo dalla cosiddetta teologia razionale, così che fra le due non esisteva un reale confronto ma piuttosto la riconduzione della prima alla seconda, la posizione di Storr rappre-

ricorso ai manoscritti e nello sforzo di isolare lo studio della Bibbia dalla teologia dogmatica riconducendolo alle discipline storiche. Da questo punto di vista, secondo Jacobs, Michaelis avrebbe dato più o meno consapevolmente seguito ai postulati metodologici di Spinoza, la cui critica alla tradizione viene usualmente posta alla base dell’esegesi moderna. Ma l’influenza diretta di Lowth o Michaelis sul giovane Schelling è tutt’altro che provata; al più, stando a quanto ricostruito da Jacobs, sarebbe possibile ipotizzare che tali autori abbiano indirettamente influenzato il filosofo mediante il padre – lettore di Michaelis – e di Schnurrer – simpatizzante nei confronti dell’esegesi storico-critica. 10 G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 50, tr. nostra.

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sentava una eccezione in quanto si sforzava di riconsegnare il primato al contenuto del racconto biblico […] ponendo tuttavia al vertice della sua ermeneutica il criterio dell’attendibilità storica e psicologica quale condizione irrinunciabile di credibilità del contenuto scritturale11.

Anche se Storr viene poco citato in Sui miti, a conferma dell’interesse schellinghiano per le questioni appena introdotte troviamo le frequenti e importanti citazioni di J.G. Eichhorn, professore a Gottinga e figura chiave del metodo della filosofia mitica applicato all’esegesi veterotestamentaria. Scrive Jacobs: finché si mantenne entro il campo della filologia antica, la discussione non fu di scottante attualità. Lo divenne invece quando cautamente il teologo Johann Gottfried Eichhorn introdusse questa teoria nell’esegesi dell’Antico Testamento. La cautela era d’obbligo; i teologi infatti, in larga misura, accettavano il dogma dell’ispirazione verbale, il che vuol dire che ogni parola della Bibbia è stata ispirata da Dio stesso […] all’inizio dell’età moderna, questo dogma venne a trovarsi in notevoli difficoltà, perché era difficile conciliare le conoscenze scientifiche naturali, nel frattempo acquisite, con le storie bibliche della creazione, e lo stesso accadde alla cronologia biblica con le altre cronologie che nel frattempo erano divenute note12.

L’opera di Eichhorn si presenta come punto di giuntura fra la prima generazione di esegeti (Michaelis, Herder) e la seconda (Bauer, Gabler). Formatosi filosoficamente al Seminario filologico di C.G. Heyne a Gottinga – del quale si dirà diffusamente a breve – fu professore di Lingue orientali a Jena nel 1775 e di Filosofia a Gottinga a partire dal 1788. Le sue opere principali sono Storia delle origini (1775) e Introduzione al Vecchio Testamento (1780-1783). G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., pp. 50-51, tr. nostra. W. Jacobs, Leggere Schelling, a cura di C. Tatasciore, Guerini e Associati, Milano 2008, p. 60. 11

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Eichhorn si impegna costantemente ed alacremente all’applicazione del metodo mitico, al quale in quegli anni stava attendendo Heyne, alla Bibbia, giungendo a distinguere, in questa, dei nuclei poetici, dominati da intenti pedagogici, dai nuclei autenticamente mitici, vale a dire centrati sull’interpretazione primitiva di esperienze primitive. L’idea che il mito rappresenti la modalità di conoscenza concessa all’umanità primitiva viene di fatto accettata da Eichhorn, il quale però la inserisce all’interno di una filosofia della storia che guarda anche alle Scritture come ad una tappa del processo di rivelazione divino all’opera nella storia. Della Bibbia, pertanto, può dirsi per Eichhorn quello che, come vedremo, si dice del mito in Heyne: da un lato si assiste ad una sua valorizzazione (perché ne viene riconosciuta l’autonomia, la verità, e la piena adeguatezza alle capacità dell’umanità che lo innalza a forma di conoscenza) ma dall’altro ad una sua relativizzazione (perché inesorabilmente legato al contesto che gli è proprio). Si potrebbe dire che in Eichhorn muova i suoi primi passi un approccio di tipo demitizzante nei confronti del Vecchio Testamento, alla luce all’accostamento dichiarato fra mitologia pagana e rivelazione biblica13. Tale riflessione esegetica verrà portata avanti, sulla scia della lezione di Eichhorn, da J.P. Gabler, il quale, ripubblicando la Storia delle origini di Eichhorn nel 1790-1793 e proseguendo lungo la via della classificazione dei miti – riprendendo la tripartizione heyniana in storici, filosofici e poetici – gettò le basi per la moderna teologia biblica, distinguendo fra teologia biblica, che si interessa allo studio delle credenze teologiche di coloro che materialmente redassero la Bibbia, e teologia dogmatica, interessata all’interpretazione ed alla contestualizzazione mo13 Cf. V. Verra, Mito, rivelazione e filosofia, cit., pp. 94-101, ma anche W. Jacobs, Gottesbegriff, cit., pp. 44-46, in cui Eichhorn viene definito «il più significativo studioso di esegesi biblica di fine secolo». Espressioni dello stesso tenore si trovano già anche nell’importante studio di H.J. Kraus, Geschichte der historisch-kritischen Erforschung des Alten Testaments, Neukirchner Verlag, Neukirchen 1969, p. 133.

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derna degli insegnamenti da essa deducibili14. Per quanto riguarda G.L. Bauer, è senz’altro degno di menzione il fatto che nella sua opera maggiore15 egli citi in più occasioni il saggio Sui miti di Schelling, concentrandosi soprattutto sul carattere inevitabilmente storico del mito; in aggiunta a ciò il titolo stesso («Mitologia ebraica») sta a mostrare quanto l’idea della contiguità fra mito e Bibbia fosse stata accettata16. Torniamo a Eichhorn. Nelle prime tre occasioni nelle quali lo cita17 Schelling si limita a servirsene per avvalorare la tesi che, sovente, feste, ricorrenze pubbliche e la narrazione delle gesta di uomini famosi vengano utilizzate dal popolo come mezzi per perpetuare la trasmissione del contenuto dei miti. Più interessante la quarta citazione, laddove Schelling, riguardo alle difficoltà di lettura storica dei miti, osserva che «le supposizioni presero il posto della storia e avvenimenti che non avevano mai avuto luogo vennero costruiti sulla base di decifrazioni arbitrarie e di tracce oscure ed ambigue»18 e a margine di queste righe inserisce un riferimento ad Eichhorn, segnatamente alle pagine della Introduzione al Vecchio Testamento nelle quali l’autore fornisce un esempio di quelle che Schelling ha appena definito «decifrazioni arbitrarie» e «tracce oscure ed ambigue» traendolo dal quarto libro del Pentateuco (12, 1), in cui si fa menzione di una moglie etiope di Mosè. Da questa notizia, peraltro non verificabile in altro modo, avrebbe tratto spunto la storia del matrimonio della principessa Tharbis di Saba con Mosè19. Il filo 14 Cf. V. Verra Mito, rivelazione e filosofia, cit., pp. 75-55, pp. 102-105 e pp. 109-111. 15 Cf. G.L. Bauer, Hebraeische Mythologie, Leipzig 1802. 16 Cf. V. Verra, Mito, rivelazione e filosofia, cit., pp. 106-109. 17 Cf. F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., pp. 38-39. In realtà l’influenza di Eichhorn su Schelling va ben al di là del saggio Sui miti. Come viene ricordato in W. Jacobs, Gottesbegriff, cit., pp. 44-45, egli è il teologo più citato in tutto il primo volume dell’edizione storico-critica dell’opera schellinghiana: il suo nome compare 15 volte, appena dietro a quello di Herder (16) e Heyne (17). 18 F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 41, nota 9. 19 Per il contenuto sommario della storia si faccia riferimento alla sopra

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del ragionamento di Eichhorn è il seguente: il vago riferimento a una sposa etiope presente in un testo ritenuto sommamente affidabile e di veneranda tradizione si aggiunge ad una serie di equivoci dovuti ad ignoranze di ordine geografico e storico nel dare vita ad una storia che è un’invenzione bella e buona. È significativo notare come Eichhorn, e conseguentemente anche Schelling che lo cita, non esiti a coinvolgere nel discorso sulla dubbia affidabilità storica delle fonti mitiche anche la Bibbia. D’altro canto, questo fatto emerge con sufficiente chiarezza anche nei passi in cui Schelling cita direttamente le Sacre Scritture. Nel primo caso20 si tratta di un riferimento a Genesi 11, il libro che dalla storia dei patriarchi di tutto il genere umano passa a quella degli ascendenti di Abramo, mostrandone le linee di discendenza. Poiché a partire da questo libro la “Storia della Salvezza” perde la sua connotazione genericamente riferita a tutto il genere umano (come ad esempio nel caso di Noè), e prende invece a concentrarsi sul particolare patto stipulato fra Dio ed un determinato popolo (ovviamente Israele), Schelling se ne serve come esempio della tendenza, invero presente in tutti i popoli, ad intrecciare le proprie storie con quella generale del mondo più antico, così da nobilitare le prime: «questo poté accadere anche nel momento in cui un qualche filosofo o poeta, desiderando rivestire una speculazione filosofica di una veste mitica, si sia servito di un fatto tratto dalla storia della sua gente (vedasi ad esempio Mosè nel Vecchio Testamento, libro XI del Genesi)». È confermata l’assenza di un trattamento riservato o di favore nei confronti del Vecchio Testamento: Mosè, al pari di un qualunque altro saggio legislatore antico, ha impresso nella sua opera la volontà degli ebrei di ricondurre la propria generazione ai più antichi progenitori dell’intero genere umano (da Adamo e Noè fino ad Abramo). citata nota 9 presente in F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., pp. 41-42. 20 F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 47.

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Meno originale e, tutto sommato, più prevedibile è la “demitizzazione” che Schelling mette in campo nei confronti del racconto che apre il Genesi: se per esempio un sapiente volesse chiarirsi i pensieri, per lui così sublimi, circa gli autori (non i creatori) sovrasensibili del mondo, la breve frase «gli dèi hanno tratto il mondo dal caos» non sarebbe per lui sufficiente; piuttosto la sua immaginazione creerebbe una raffigurazione vivente del caos dal quale il mondo scaturì, costruirebbe l’intera storia della graduale origine del cielo e della terra, gli porrebbe dinanzi agli occhi come una parte del mondo si sia sviluppata dopo l’altra grazie all’azione degli dèi, come gli elementi si siano separati, la terra gradualmente sia sorta dalle profondità del caos, abbia iniziato a vivere ed a produrre forme di vita organica, le stelle abbiano iniziato a splendere, come il sole e la luna siano diventati signori del giorno e della notte, gli uccelli del cielo abbiano iniziato a vivere ed a muoversi nell’aria ed i pesci nell’acqua, ed infine come sia comparso l’uomo, coronamento di tutta la creazione, creato ad immagine di uno spirito più alto, respiro degli dèi sulla terra21.

Allo stesso modo Schelling si serve di Genesi 3, 7-8 per mostrare l’ottima capacità mitica di descrivere narrativamente mediante immagini le forme essenziali della condizione umana: com’è psicologicamente corretta la rappresentazione – presente nel mito dell’albero della conoscenza – della triste condizione nella quale l’uomo si trovò a seguito del primo esercizio della sua libertà. «Così stavano gli uomini, i loro occhi erano aperti, si videro nudi, e coprirono la loro nudità con una foglia di fico. Alla sera la voce degli dèi passeggiava nel giardino, e colà loro si nascosero dietro gli alberi»22.

L’amore per le lingue e le letterature antiche fornisce l’og-

21 22

Ibid., p. 56. Ibid., p. 64.

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getto della ricerca, vale a dire le più antiche testimonianze dell’umana civiltà, mentre lo studio dell’esegesi scritturale storico-critica il metodo dell’analisi: il programma di Sui miti è tutto qui. Ma l’allargamento dell’interesse schellinghiano al mito crea le premesse perché il percorso del filosofo vada a incrociare quello della nascente filosofia mitica moderna che proprio in quegli anni stava muovendo in Germania i suoi primi passi. Da questa intersezione fortunata deriva l’incontro di Schelling con quelle che sono le principali fonti di ispirazione del saggio del 1793, oltre che alcune fra le più importanti figure della cultura del tempo: Heyne, Lessing, Herder. Grazie al confronto con costoro il respiro dell’itinerario schellinghiano abbandona i confini del pur prestigioso Stift tubinghese e la sua prima filosofia del mito può finalmente vedere la luce23. 2. DEFINIZIONE DI MITO E DISTINZIONE FRA STORIA MITICA E FILOSOFIA MITICA: LA LEZIONE DI HEYNE Dichiarato punto di partenza del saggio schellinghiano Sui miti è la convinzione che «i più antichi documenti di tutti i popoli iniziano con la mitologia»24, cui si accompagna la distinzione fra «storia mitica» e «filosofia mitica». Né la prima asserzione né la seconda, dalla quale dipende anche l’interna suddivisione del saggio in due parti, sono tuttavia un parto originale di Schelling. Per rinvenirne la provenienza è necessario cercare 23 In realtà la teologia rimarrà, al pari del mito, uno degli interessi sui quali Schelling sarà destinato a tornare ripetutamente nel corso del suo arco speculativo. A riprova del perdurare di tale passione Plitt trascrive per intero quello che resta di una prefazione redatta da Schelling nell’estate del 1793, evidentemente destinata ad introdurre una serie di trattazioni – poi abbandonate – aventi argomento teologico. Il testo in questione – circa sette pagine – conferma la competenza schellinghiana sulle questioni teologiche ed esegetiche e attesta l’ottimo livello di approfondimento e ricerca delle stesse raggiunto dal filosofo appena diciottenne. Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., pp. 39-46. 24 F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 33.

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nell’opera di C.G. Heyne25, autore che gioca un ruolo decisivo nella formazione di Schelling26. Heyne, fondatore e principale esponente della cosiddetta “scuola mitica di Gottinga”, esercitò la sua influenza non solo su Schelling ma su quasi tutti i grandi classicisti tedeschi di fine secolo decimottavo, tra i quali Alexander e Wilhelm von Humboldt, August e Friedrich Schlegel, J.H. Voss. La Georgia Augusta Università di Göttingen, fondata nel 1734 da re Giorgio II di Gran Bretagna, si trasformò in breve tempo nel laboratorio della nascente filosofia moderna del mito. Questo avvenne in massima parte grazie all’azione dello stesso Heyne che, ottenuta nel 1763 la locale cattedra di Eloquenza, promosse, in quanto direttore della Biblioteca e del Seminario filologico, lo studio della mitologia elevandolo al rango di scienza autonoma. Sembra che, in particolare, l’incarico legato alla Biblioteca si sia rivelato determinante perché diede modo ad Heyne di avere costantemente sott’occhio una grande mole di materiale documentario, sul quale poté rodarsi ed esercitarsi la sua acribia filo25 Per quanto riguarda le linee filosoficamente essenziali del pensiero di Heyne si faccia riferimento in primo luogo a V. Verra, Mito, rivelazione, filosofia, cit., pp. 21-33. Il testo si compone di una prima parte (pp. 1-158) in cui Verra inquadra l’opera di Heyne, Herder e altri ai fini della ricostruzione della nascente filosofia mitica e dell’esegesi veterotestamentaria, e di una seconda (pp. 159ss.) contenente l’edizione – nell’originale latino – di alcuni saggi di autori in Italia raramente studiati, fra i quali si enumerano ben cinque saggi dello stesso Heyne. In secondo luogo cf. anche S. Fornaro, I Greci barbari di C.G. Heyne, in C.G. Heyne, Greci barbari, a cura di C. Pandolfi, Argo, Lecce 2004, pp. 9-41. A seguito del saggio citato, peraltro corredato da un’utile bibliografia heyniana, è presente la traduzione in italiano di due studi di Heyne. 26 Cf. l’opinione espressa nella monografia di W. Jacobs, Gottesbegriff, cit., p. 47, ove si dice che «nello scritto sui miti Schelling si mantiene così fedele a Heyne che tale saggio può essere considerato una riformulazione dei pensieri di quest’ultimo» (tr. nostra). Su questo punto Jacobs dipende peraltro dallo studio di H. Gockel, Mythos und Poesie, Klostermann, Frankfurt 1981, p. 55. Secondo Cesa fu Schnurrer a richiamare l’attenzione del suo allievo Schelling sull’importanza di Heyne e della Scuola di Gottinga: cf. C. Cesa, Il pensiero politico di Schelling, Laterza, Bari 1969, p. 30. Altri riferimenti sono presenti in G. Frigo, Matematismo e spinozismo nel primo Schelling, Cedam, Padova 1969, pp. 11-14.

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logica. Questo pose in essere un circolo virtuoso per il quale, mano a mano che affinava i suoi mezzi, Heyne fu in grado di applicarli alla catalogazione del materiale custodito nella Biblioteca ed alla scelta delle nuove acquisizioni, rendendosi in questo modo primo artefice del grande prestigio di cui l’Ateneo di Gottinga può tuttora fregiarsi: i fratelli Grimm e, più recentemente, J. Habermas vi insegnarono, mentre i futuri cancellieri tedeschi Bismarck e Schroeder ne furono studenti. Tutte le opere di Heyne consistono in prolusioni accademiche piuttosto brevi, redatte in latino e raccolte nei volumi degli Opuscula academica, nel caso delle lezioni svolte all’Accademia delle Scienze (sono sessanta), più altre quarantotto tenute alla Società delle Scienze poi riunite nelle Commentationes. L’enunciazione più chiara della distinzione fra mito filosofico e mito storico si trova nello studio Temporum mythicorum memoria a corruptelis nonnullis vindicata27, composto da Heyne nel 1763. Tale saggio, che Schelling non cita direttamente ma da lui sicuramente conosciuto, inaugura la serie di studi heyniani a Gottinga e riveste un’importanza determinante ai fini del nostro oggetto, in quanto «dev’essere considerato l’atto di nascita dello studio scientifico della mitologia, uno studio cioè consapevole del proprio oggetto»28. In esso il filologo elabora per la prima volta l’idea che l’unico modo valido e fruttifero per accostarsi al mito non possa che consistere nella comparazione dei miti stessi fra di loro, evitando il più possibile di riferire ad essi quelle modalità di inferenza argomentativa tipiche degli scritti scientifici di epoca successiva. Poiché il mito viene definito da Heyne come narrazione o animi iudicium giunto a noi a partire da un tempo in cui ogni 27 C.G. Heyne, Temporum mythicorum memoria a corruptelis nonnullis vindicata, in «Commentationes societatis regiae scientiarum gottingensis», VIII, 1785-86, pp. 1-19. 28 S. Fornaro, I Greci barbari di C.G. Heyne, in C.G. Heyne, Greci barbari, cit., p. 14.

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genere di informazione non veniva ancora tramandato per scritto ma sermone, ne discende che ad esso debba corrispondere una natura diversa ed irriducibile a quella di ogni successiva espressione scritta dello spirito umano. Già questa basilare definizione di mito viene accettata in toto da Schelling, al punto da costituire il fondamentale punto di contatto fra le due espressioni fondamentali del mito: «mitica, nel senso preciso del termine, è quella storia che contiene saghe di un tempo in cui nessun avvenimento veniva ancora annotato per iscritto ma solo tramandato oralmente»29, così come «filosofia mitica era dunque originariamente quella dottrina tramandata oralmente anche fra le popolazioni incolte, e che discese come eredità sacra di padre in figlio»30. Tanto Heyne quanto, sulle sue orme, Schelling, prendono dunque l’etimo greco muvqo~ legandolo con forza alla dimensione dell’oralità. Nel caso di Heyne questa impostazione è funzionale alla rivendicazione di autonomia dell’ambito mitico, a sua volta indirizzata alla sottolineatura di come il mito trovi solo nella preistoria la sua irrinunciabile cornice di riferimento. L’unico uomo mitico possibile è quello preistorico, giacché il mito esprime l’esigenza di conoscenza e di spiegazione propria a una umanità ancora incapace di un approccio puramente razionale ai propri problemi. Qui si rivela l’altra faccia della medaglia della filosofia mitica di Heyne che, se da un lato ritaglia lo spazio di autonomia del mito, dall’altro lo circoscrive una volta per sempre all’antichità, vale a dire ad una fase irrimediabilmente trascorsa. Pertanto, come si evince dagli studi successivi31, il cuore pulsante dell’interpretazione mitica di Heyne consiste nella classificazione dei miti in base alla loro forma F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 35. Ibid., p. 54. 31 Il riferimento è a C.G. Heyne, De theogonia ab Hesiodo condita, in «Commentationes societatis regiae scientiarum gottingensis», II, 1779, pp. 125-154, e a Id., De fide historica aetatis mythicae, in «Commentationes societatis regiae scientiarum gottingensis», XIV, 1798-9, pp. 107-120. 29

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(storici o filosofici) e al loro contenuto (attendibili o meno), condotta sul filo di una rigorosa analisi storico-filologica. Il margine di autonomia concesso da Heyne alla scienza mitica scongiura il rischio che i miti vengano degradati al rango di invenzioni arbitrarie, ma si risolve comunque in una lettura sostanzialmente riduzionistica del mito stesso. In quest’ultimo, infatti, non viene scorto niente di più – e niente di meno – dell’anticipazione della scienza propria alle civiltà che hanno conosciuto la scrittura e pertanto nulla vale ad evitargli di finire sul tavolo da dissezione dell’analisi filologica. 2.1. Mito vero versus mito falso: Omero ed Esiodo Appunto perché Heyne è convinto che il mito altro non sia che un tipo di ragionamento condotto da uomini non ancora in grado di padroneggiare i concetti razionali, il problema del reperimento di un metodo scientifico in grado di separare i miti autentici da quelli fasulli è centrale nella sua teoria mitica. A tale metodo Heyne affida infatti il duplice compito di classificare i miti per poi procedere ad un’analisi scrupolosa, avente per fine l’attingimento di una verità che va liberata dalle incrostazioni mitologiche. Si badi bene: a differenza di quanto sostenuto dagli autori di più stretta obbedienza illuministica, questi intendimenti non implicano il pronunciamento di un giudizio di condanna nei confronti del mito. Invano si cercherà nei saggi di Heyne il benché minimo accenno di dileggio o di spregio nei confronti del mito. Quest’ultimo, anzi, è latore di una verità: la sua verità, che poi è in realtà la verità di sempre, solo colta mediante forme ad essa non perfettamente adeguate. La considerazione di questo punto ci porta lontano, alla natura stessa dell’uomo mitico, di cui si dirà. Dobbiamo però trattenerci ancora un poco sull’effettiva applicazione del metodo storico-filologico di Heyne allo studio e alla classificazione di alcuni miti, così da poter mettere a fuoco

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quello che lo stesso pensatore riteneva, allo stesso tempo, l’autentico banco di prova e il vero frutto originale della sua ricerca. Il tutto risulta per noi di interesse tanto più elevato se si tiene presente come e quanto tale direzione della ricerca di Heyne abbia esercitato la sua influenza sul saggio Sui miti di Schelling. Il principale campo di applicazione del metodo heyniano è dato dalla mitologia greca, segnatamente dall’epos omericoesiodeo, che Heyne mette a tema soprattutto nel De origine et causis fabularum homericarum (1777)32 e nel De theogonia ab Hesiodo condita (1779). Nel primo testo Heyne puntualizza la sua idea della poesia come luogo dell’abbellimento e dell’utilizzo consapevole di miti ad essa precedenti; all’incirca lo stesso viene detto nel secondo nei riguardi di Esiodo. Qui il punto è la separazione, all’interno della poesia di età mitica, del contenuto mitico vero e proprio, evidentemente anteriore, dalla forma poetica, nella quale si rivelerebbe l’ingegno di chi ha saputo servirsi della suggestione proveniente dalle figure mitiche al fine di rendere la narrazione più accattivante. Per questo motivo, essendo l’intendimento di Omero ed Esiodo né storico né filosofico, tale considerazione obbliga Heyne ad introdurre un terzo genere di mito, quello poetico, il quale non consiste nella divulgazione di miti “didascalici” e nemmeno in quella di miti fondativi, ma nel sapiente utilizzo e riorganizzazione, con esclusive finalità che potremmo definire artistiche, di racconti e filosofemi mitici magari aventi in principio una funzione eziologica. Schelling segue Heyne, ma a modo suo. Egli cita in due occasioni il saggio su Omero. Nella prima il riferimento è presente a margine della seguente osservazione: «quella filosofia resa comprensibile mediante il ricorso alla sensibilità non era opera dell’arte, ma del bisogno»33.

32 C.G. Heyne, De origine et causis fabularum homericarum, in «Novi commentarii societatis regiae scientiarum gottingensis», VIII, 1777, pp. 34-54. 33 F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 57.

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Con questo Schelling accetta l’idea che dietro al mito filosofico non possa esservi arte, ossia una creazione deliberata e fine a se stessa, ma un vero e proprio «bisogno» (Bedürfnis) di esprimere determinate verità in forma mitologica, ossia narrativa e tale da guadagnare attenzione e fiducia da parte dell’uditorio. Si noti però che questo non basta in Schelling a configurare la specifica irriducibilità del mito poetico rispetto a quello storico o filosofico. La seconda citazione schellinghiana dello studio heyniano su Omero è presente in una lunga nota34 inerente la relazione fra natura interiore dell’uomo mitico e linguaggio mitico. Nel corpo della nota Schelling rinvia ad Heyne utilizzandolo come conferma a questo passaggio: molti autori credettero di poter spiegare l’origine della filosofia mitica asserendo che questa fosse stata creata con il fine di celare al popolo la verità. Anche concedendo che presso alcuni popoli taluni miti siano sorti con tale scopo, in questo modo non viene ancora gettata luce sulla prima nascita della filosofia mitica.

Come si legge, Schelling si limita a ribadire l’idea, che sappiamo sottesa alla posizione di Heyne, che il mito non possa in alcun caso essere inteso come semplice contraffazione della verità. Ma è allo stesso tempo evidente come la questione della poesia mitica non rappresenti una priorità agli occhi del filosofo di Leonberg. O, meglio ancora, come non lo sia la questione della delineazione di un ambito di autonomia della stessa. Schelling cita Omero in tre occasioni ed Esiodo in due35. Al di là dei passi nei quali Omero viene chiamato in causa come esempio della forte presenza dell’elemento straordinario nel mondo mitico: in esso gli enti immateriali agiscono sempre direttamente sul mondo sensibile. Dèi e semidei camminano fra i mortali co-

Ibid., pp. 58-59. Per quanto riguarda le citazioni di Omero, cf. F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 43 note 10 e 11; p. 67 nota 21; di Esiodo invece p. 60 nota 8; p. 69. 34

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me fratelli maggiori e prendono dimora nelle abitazioni dei devoti; sogni ispirati dagli dèi avvolgono gli uomini nel sonno; la voce degli spiriti parla loro attraverso l’aria.

Il riferimento più interessante è il terzo, collocato a margine delle seguenti righe contenute nelle ultime pagine del saggio: «il pensiero degli antichi padri, che spesso ripetevano al cospetto dei giovani ed in occasione dei raduni del popolo le esperienze della loro vita e le saghe del tempo passato, non è un pensiero semplicemente poetico». È probabile che in questo caso il «pensiero degli antichi padri», in quanto costituito dalle «esperienze della loro vita» e dalle «saghe del tempo passato», si riferisca più al mito storico che a quello filosofico, tanto è vero che nelle righe successive, per dare conto dell’influenza di tali racconti sui popoli primitivi, si osserva che «i legislatori diedero a tutti i loro insegnamenti e prescrizioni la veste della storia, ed il popolo li ricevette con profonda devozione ed attenzione come saghe ereditate dai padri»36. Di tale genere di mito, pertanto, Schelling ci dice che «non è un pensiero semplicemente poetico», appunto perché dietro di esso si lascia intravedere qualcosa di diverso dalla semplice volontà di abbellimento. Arte e poesia si accompagnano spesso al mito, ma la rilevazione di tale stato di cose non induce Schelling, come invece fa Heyne, a dedicare al mito poetico uno statuto a sé ma anzi ad osservare come «non appena la mitologia perviene nelle mani dell’artista viene perfezionata sempre di più, e presenta una forma sempre più sensibile ed attraente, al punto che solo con difficoltà si può riconoscere nelle sue immagini principali la prima origine delle sue composizioni»37.

36 37

F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 68. Ibid., p. 67.

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A margine di queste righe Schelling inserisce un riferimento alla Dottrina degli dèi di Moritz38. In tale passo Moritz osservava che, al pari di un uomo in carne ed ossa, anche Zeus principalmente significa anzitutto se stesso, con la differenza che il primo lo fa nel regno della realtà e il secondo in quello della fantasia. Ma, mercé l’arte di Omero o di Fidia, Zeus viene rivestito di una tale bellezza da far ritenere a chi se lo immagina o a chi l’osserva che in esso si riveli qualcosa di più alto39. Da questa estetica dell’arte e del mito antico, che da Winckelmann arriva fino a Goethe passando per Moritz, lo Schelling del saggio Sui miti, che non ha ancora del tutto chiara davanti agli occhi quella che sarà la sua propria via al mito, prende ciò che gli interessa. In altre parole Schelling cita Moritz ma se ne serve per un fine opposto a quello originale: egli ritiene che l’arte intervenga sul mito non elevandolo, ma ricoprendolo con 38 Cf. K.P. Moritz, Scritti di estetica, a cura di P. D’Angelo, Aesthetica, Palermo 1990. 39 Tuttavia Moritz non si spinge al punto da ritenere, come fa Winckelmann, che questo rinvio ad altro da sé dischiuda all’opera d’arte la dimensione dell’allegoria, ritenendo che ogni opera d’arte debba essere e rimanere pienamente compiuta e conchiusa in se stessa. D’altro canto, nella sua opera principale (per l’appunto quella Dottrina degli dèi risalente al 1791 che colpì molto Schelling, il quale tornerà a citarla ripetutamente anche nella Filosofia dell’Arte del 1803) Moritz dipende direttamente da Winckelmann, che già nel 1764, nella sua Storia dell’arte antica, aveva gettato le basi per quella lettura estetica dell’arte e della mitologia greca che, grazie a Goethe, avrebbe dominato in Germania fino allo scorcio di inizio secolo decimonono. Goethe nutriva grandissima stima nei confronti del pensiero di Winckelmann sull’arte, giungendo a spendere parole di forte condanna allorché, a seguito del progressivo declino del paradigma neoclassico e della contestuale affermazione di quello romantico, si tenderà a sviluppare una lettura simbolico-religiosa dell’arte antica, privilegiando peraltro quella orientale rispetto a quella greca. Scrive Goethe in una lettera del 1818: «la via di Winckelmann, che conduceva diritta al concetto d’arte, era quella giusta […] ben presto però la contemplazione si trasformò in interpretazione, sino a perdersi da ultimo in vacue congetture. Chi non sapeva guardare prese a vaneggiare, e si finì così col perdersi in remote contrade d’India ed Egitto, mentre il meglio era invece vicinissimo». Nel momento in cui si occuperà a fondo della questione nella Filosofia dell’Arte, Schelling, come vedremo, attingerà ad entrambe le scuole.

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un travestimento che rende ostico l’attingimento della sua verità originaria. La posizione di Schelling, pertanto, contiene in nuce anche il ripensamento dell’eccezionalità dell’arte greca, i presupposti del quale andrebbero rinvenuti già in alcuni saggi piuttosto ignorati dello stesso Heyne: in essi emerge come, in virtù della già discussa equazione mito = antichità = infanzia dell’umanità, nemmeno la mitologia greca possa sfuggire al dato di fatto di essere il prodotto di un’età primitiva, comunque destinata ad essere superata40. Quello che vale per la poesia omerica vale anche per quella esiodea. Anzi, commentando i miti esiodei di Pandora e di Prometeo Schelling pronunzia parole ancora più esplicite: «la cosa più verosimile è che i poeti greci abbiano preso a prestito le immagini della vita innocente dei loro progenitori per descrivere l’età dell’oro. Appunto per questo sono convinto che i miti greci di Prometeo e di Pandora non siano né più né meno che miti inventati al fine di materializzare una speculazione filosofica»41. Il fatto che il mito sia per Schelling «inventato» in vista di un fine ben preciso – la materializzazione di una speculazione nel caso di un mito filosofico – indica chiaramente che Schelling non potrebbe mai essere dell’avviso che il mito esprima un linguaggio universale dello spirito umano. Così invece crede Heyne42, nel quale peraltro questa rivendicazione di “universalità” del mito si sposa all’affermazione dell’altrettanto universale stato di indigenza speculativa dell’umanità primitiva43. 40 Si rimanda a questo riguardo alla lettura del già citato saggio di S. Fornaro che fa da introduzione a C.G. Heyne, Greci barbari, cit., pp. 9-37. 41 F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 46 nota 14. 42 Cf. S. Fornaro, I Greci barbari di C.G. Heyne, in C.G. Heyne, Greci barbari, cit., p. 16. 43 D’altro canto, la predicazione dell’universalità del mito non impedì a Heyne di condannare fermamente, negli anni della sua vecchiaia, la nascente filosofia mitica romantica, basata sull’analisi comparativa delle mitologie al fine del rinvenimento di una dimensione mitica sorgiva: per Heyne, al contrario, ogni singola tradizione mitica andava dapprima studiata separatamente, per cercare eventualmente solo in seguito di stabilire delle relazioni, aventi

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Heyne ritiene che l’arte di Omero ed Esiodo, intervenendo sul più antico materiale mitico, sublimi questo facendone poesia, per cui viene lasciato uno spiraglio sulla possibilità che la mitologia, in quanto poesia, venga letta ed interpretata come manifestazione artistica fine a sé propria dell’uomo antico. Non la pensa così T. Griffero, il quale ritiene che «sull’esclusione dell’intenzionalità artistica dalla tradizione mitica (soprattutto orale) Schelling segue alla lettera la rivoluzione di Heyne»44. In realtà si potrebbe forse dire che la piena sovrapponibilità delle due posizioni risulti, per quanto esse siano indubbiamente affini, un poco offuscata dall’assenza, in Schelling, del tipo del “mito poetico” in forza di una riconduzione dello stesso ora al mito storico ora a quello filosofico. Quando Schelling giungerà a prendere sul serio il plesso arte-mito – il che avverrà nel Sistema dell’idealismo trascendentale del 1800 – egli si spingerà molto oltre, facendo del mito una struttura portante non soltanto dell’uomo antico, ma anche di quello moderno. Ma questo Schelling è ancora di là a venire, e il diciottenne estensore di Sui miti concede poco o niente ad Esiodo. Ancora a proposito dei miti di Pandora e Prometeo45, egli ritiene che questi – ancorché belli e piacevoli da leggersi e ascoltarsi – rivelino la volontà educatrice dei sapienti che li hanno ideati nel tentativo di consentire il transito dell’umanità ad un più alto livello di consapevolezza. Anche Heyne considera la realtà di quest’ultimo genere di miti, e giunge, per essi, ad escogitare una quarta categoria di classificazione – dopo quella di

in ogni caso carattere meramente estrinseco. Inoltre, ricordiamo come quella dell’uomo primitivo come uomo fanciullo in balia del terrore sia immagine ricorrente in tutta la speculazione europea sulla religione del ’600 e ’700. In particolare Heyne dipende dallo scritto Storia naturale della religione di Hume, del quale lesse nel 1755 una traduzione tedesca. Ma già nel De rerum natura di Lucrezio sono presenti accenni analoghi. Questo tema della natura dell’uomo mitico è centrale anche in Schelling, come vedremo in seguito. 44 T. Griffero, Senso e immagine, cit., p. 228. 45 F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 60 nota 8 e p. 69.

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mito storico, filosofico e poetico – vale a dire quella dei miti etici46. In Schelling, viceversa, non sembra che la distinzione mito filosofico - mito storico possa lasciare spazio ad altre categorizzazioni. Qui emerge peraltro l’evidente tendenza di Heyne a privilegiare un approccio da filologo, amante delle distinzioni e delle classificazioni, mentre in Schelling si mostra già un piglio teoretico, tendente alla semplificazione e alla sintesi. Poiché la ricostruzione del progresso dell’umanità si trova alla base dell’interesse schellinghiano per il mito filosofico, che dunque viene a riassorbire al suo interno anche quello che Heyne distingueva invece come mito poetico, è nei confronti del mito storico che lo sguardo di Schelling rivela con maggiore chiarezza il suo vero fine. In questo caso, infatti, la sua prima e dichiarata preoccupazione consiste nell’asseveramento di cosa vi sia di vero e cosa di falso in detto mito. Già la presenza di questo intendimento ci dice quanto Schelling si muova ancora all’interno di una prospettiva illuministica. Anche in questo egli dipende da Heyne, per il quale la cura del riscontro storico-filologico è prima ed essenziale applicazione del metodo elaborato. Ne deriva la ricerca di una verità mitica, unilateralmente declinata come storicità effettivamente dimostrabile o almeno verosimile del mito stesso. La questione della distinzione fra mito vero e mito falso viene messa analiticamente a tema da Schelling nelle pagine conclusive della prima parte di Sui miti47; essa, tuttavia, riecheggia in tutto il saggio. Si potrebbe dire, come sostiene Cesa, che mentre nelle pagine di Heyne si sente la commozione per la scoperta del significato storico della tradizione orale di un popolo, Schelling guarda il fenomeno con molta freddezza […] ciò che gli interessa mettere in chiaro è se ciò che dalla tradizione passa nel documento scritto e poi giunge sino a noi sia vero o no: e la conclusione è negativa, senza riserve48.

Cf. V. Verra, Mito, rivelazione e filosofia, cit., p. 31. F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., pp. 49-52. 48 C. Cesa, Il pensiero politico di Schelling, cit., pp. 45-46.

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Accordiamo senz’altro il nostro assenso alla lettura di Cesa: la sottolineatura del legame fra mito e storia è cifra della valorizzazione del mito promossa da Heyne, della sua riscoperta a fronte di una tradizione illuministica che ne faceva sistematicamente oggetto di dileggio o di repulsa. Questo, se non vale ancora al mito il riconoscimento di una sua validità perenne, gli riconosce almeno quello della sua validità storica, il che vuol dire che Heyne fa del mito la via d’accesso, se non unica senz’altro privilegiata, alla comprensione dell’umanità antica ossia di quella umanità che, di fatto, è essa stessa mitica nel senso che, in quanto ancora fanciulla, non poteva che pensare miticamente. Per questo motivo è importante chiarire la verità o meno di ciascun mito: perché ogni mito è un documento storico di primaria importanza. Il discorso si sposta allora, come anticipato, sulla necessità di provare la storicità di un dato mito: Schelling declina tale questione nel rapporto più o meno necessario che è possibile instaurare fra l’avvenimento narrato nel mito ed un avvenimento, a quello il più possibile contiguo nel tempo e nello spazio, la cui storicità sia stata già provata. A seconda dell’esistenza o meno di questa relazione sarà possibile osservare se il mito in questione risulti confermato in ogni suo particolare, nel suo nucleo centrale, o per nulla. Nel primo caso il mito andrebbe definito vero, nel terzo falso, ossia inventato. Il secondo caso, per Schelling, è quello più frequente, «essendo altamente verosimile che siano sorte ben poche saghe storiche alla base delle quali non si trovi niente di reale»49. In questo caso il mito, più che vero, sarà definibile come verosimile. Molto interessante è il commento in nota che Schelling aggiunge alla riga appena citata, ove spiega che l’estrema improbabilità che alla base di un mito non vi sia niente di reale «riguarda le saghe originarie, non i miti successivi inventati dai poeti»50. 49 50

F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 50. Ibid., nota 24.

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Ecco espresso, in estrema sintesi, il principale motivo della distanza fra Heyne e Schelling circa il giudizio sui “miti poetici”: questi, per Heyne, celano sotto la loro forma abbellita il nocciolo di verità dei miti originari, pertanto non possono in nessun caso essere derubricati come semplici “invenzioni”. Di converso, il filosofo di Leonberg ritiene che la poesia intervenga in profondità sul mito antico, modificandone forma e contenuto al punto tale da renderlo spesso irriconoscibile e sostanzialmente inutilizzabile per lo storico. Il fatto è che Schelling sembra ritenere i miti storici molto più degni di attenzione rispetto a quelli filosofici appunto perché, in questi ultimi, l’interpolazione avvenuta mediante la rilettura razionalizzante e con finalità pedagogico-eziologiche interferisce più fortemente con il contenuto della saga originaria, che è l’unica voce cui lo storico ed il filosofo debbano prestare orecchio per intendere la testimonianza proveniente dal tempo più antico. Il filosofo del mito deve, anzi, procedere nei riguardi del mito filosofico in senso contrario rispetto a quello utilizzato con il mito storico. Mentre in questo caso più la connessione fra mito ed evento è stretta, più alta è la possibilità che il mito sia vero – ossia provenga realmente dalla tradizione antica – nel caso del mito filosofico bisogna stare in guardia di fronte a quelle narrazioni che sembrano adattarsi perfettamente ad un evento. Qui, infatti, è alta la probabilità che l’evento in questione sia stato inventato a bella posta allo scopo di esemplificare quell’insegnamento morale o quella spiegazione filosofica che è il vero oggetto della narrazione in questione. Paradossalmente, al contrario «una saga, nella quale sia stata riposta una data verità secondo un proposito così estrinseco che si potrebbe ritenere la connessione fra saga e verità opera del puro caso, è una vera saga storica alla quale è stata solo aggiunta una saga filosofica»51. Come si vede, tanto nel caso del mito storico quanto in quello del mito filosofico l’attenzione di Schelling è sempre e 51

Ibid., pp. 51-52.

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soltanto rivolta all’eventuale verità storica che si può trarre dal mito, giammai al mito in sé. Circa, poi, l’effettiva utilità di questa ricerca Schelling conclude laconicamente: dalle osservazioni sinora fatte è sufficientemente chiaro quanto possa essere difficile per lo storico trarre la verità da una storia mitica e quanto scarso sia il guadagno storico che noi dobbiamo ad una tale storia, dal momento che proprio quelle poche ed imprecise notizie che da essa abbiamo tratto avrebbero forse potuto essere scoperte al di fuori della stessa in modo magari ancor più chiaro e definito […] in conclusione, attraverso ogni via che percorriamo noi riceviamo sempre e solo frammenti di una storia vera, singole rovine che giacciono abbandonate in un distante campo vuoto e che si cerca inutilmente di riunire in un intero52.

Non ha dunque una filosofia del mito alcuna ragion d’essere? Diamo nuovamente la parola a Schelling: per noi è già sufficiente che quelle saghe ci guidino, se non direttamente, almeno indirettamente in direzione della verità. Lasciateci seguire le orme del cammino della cultura umana dinanzi a questi monumenti del mondo passato che un puro caso fortunato ha conservato contro l’assalto del tempo e degli elementi, lasciateci imparare e ricordare l’infantile spirito innocente del mondo antichissimo che da essi spira verso di noi, lasciateci infine venerare con animo appassionato al cospetto di essi uno dei primi mezzi di educazione della nostra specie53.

Il mito ci accompagna alla verità non direttamente, ma «indirettamente» (mittelbar): esso allude, accenna alla verità, più che mostrarla, sicché quelli che riceviamo sono «frammenti di una storia vera». Frammenti, certo, ma di una storia vera. Questa preoccupazione di separare, nel mito, il vero dal falso, appare supe-

52 53

Ibid., p. 52. Ibid.

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rata e criticabile per chi, come noi, ha alle spalle la grande filosofia del mito novecentesca: Walter Otto e Mircea Eliade, fra gli altri54, hanno offerto delle letture molto convincenti, ancorché fra loro non sovrapponibili, circa l’inapplicabilità al mito delle categorie vero-falso55. Lo stesso Schelling si spinge però almeno in parte al di là di questa discussione nel momento in cui osserva che «ogni mito va invece compreso proprio in quanto mito»56. Questo dimostra come Schelling prenda sul serio quello che J.J. Heß chiama mito «puro» (reiner)57. V’è, in tale forte ri54 Restando solo fra i maggiori, facciamo i nomi di E. Cassirer, K. Kerenyi, H. Blumenberg, F. Jesi, K. Hübner. 55 Solo a titolo introduttivo, e senza la benché minima velleità di esaustività, è possibile far riferimento almeno a W. Otto, Gli dèi della Grecia, a cura di G. Moretti, Adelphi, Milano 2004 e a M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, a cura di G. Cantoni, Borla, Roma 1989. Nella lettura di Otto gli dèi sono modi fondamentali dell’essere e pertanto la questione della loro realtà risulta non ponibile. La sua analisi si rivolge in particolare agli dèi greci: con essi tocchiamo le corde più profonde dell’animo greco, giacché in essi si rivela il modo in cui la civiltà greca vedeva in primo luogo se stessa ed in secondo il mondo. Chiedersi se i greci credessero o meno nei loro dèi ha tanto senso quanto ne avrebbe chiedersi se credessero o meno di essere ciò che erano. In Eliade, invece, ogni racconto mitico affonda le sue radici nella tradizione, il cui perenne esercizio si fa da solo garante della sua validità. Il mito, in quanto legato alla ripetizione del tempo rituale, si configura pertanto come l’esorcismo lanciato dall’umanità contro la finitezza, la caducità del tempo fisico. Il mito è in quanto tale anti-storico, ed esprime anzi la paura innata dell’uomo nei confronti della storia, sinonimo di mortalità. Per questo il mito per antonomasia è quello dell’eterno ritorno. 56 F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., pp. 69-70, n. 25. 57 Per una breve ma perspicua esposizione delle linee principali del pensiero di Heß si faccia riferimento a V. Verra, Mito, rivelazione, filosofia, cit., pp. 112-117. L’importanza dell’accertamento della verità o meno di un mito discende in Heß dalla radicale irriducibilità fra sapere biblico e sapienza mitica. Nella sua opera maggiore, più volte menzionata da Schelling, (Gränzenbestimmung dessen, was in der Bibel Mythos, Anthropopatie, personificierte Darstellung, Poesie, Vision, und was wirklich Geschichte ist, Zürich 1792) egli sottolinea la sostanziale lontananza della mentalità ebraica rispetto ad ogni tendenza al fantastico, al miracoloso, in virtù di una naturale propensione “cronachistica”. Heß sottolinea, al contrario, l’intrinseca “mitologicità” di ogni religione politeista, il suo essere racconto teogonico, a fronte della dimensione necessariamente storica e normativa della religione rivelata. Trat-

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vendicazione di significanza del mito in quanto tale, il motivo dell’attenzione che Schelling tributa alla questione “mito veromito falso” ed un accenno che ha fatto osservare a Griffero come «questo intendere in senso proprio ha già qualcosa della simbolicità e tautegoricità intransitive della sua posteriore filosofia della mitologia»58. Per questa lettura Griffero dipende da X. Tilliette, che parla al riguardo di «annuncio implicito della tautegoria»59, cioè della chiave interpretativa propria all’ultimo Schelling, nel quale il mito sarà vero tautegoricamente, ossia in quanto tale. Tilliette e Griffero rinvengono i prodromi della interpretazione mitica tautegorica nel passo di Sui miti appena citato. Tale lettura getterebbe dunque un ponte fra la primissima riflessione schellinghiana sul mito e quella conclusiva. Di parere differente è invece G. Dekker, che dipende a sua volta da A. Allwohn60, il tando, nelle ultime pagine del saggio, della forma dei miti, Schelling dedica una lunga nota alla discussione della distinzione, introdotta da Heß, fra mito «puro» (reiner) e «impuro» (unreiner). Per Heß è puro quel mito in cui non vi sia nulla da comprendere, mentre è impuro quello mediante il quale venga veicolata la comprensione di qualcosa. Tale distinzione sembrerebbe essere abbastanza simile a quella avanzata dallo stesso Schelling fra mito “vero” e “falso”, laddove, si ricorderà, vero è quel mito il cui contenuto sia il più possibile avulso da una eventuale finalità didascalica. Ma Schelling confessa di non riuscire a seguire Heß, in virtù della sua scarsa chiarezza e del dubbio che questi confonda mito impuro ed allegoria. L’allegoria costituisce qualcosa d’altro dal mito perché sorge a partire dall’intenzionale volontà di trasferire un contenuto in una forma figurata, mentre sappiamo quanto per Schelling il mito non possa aver a che fare con la predeterminazione, e pertanto nemmeno con l’arte o con l’allegoria. Del pari, il mito non va confuso nemmeno con la parabola, la quale, a differenza dell’allegoria, presuppone almeno la possibilità di un fatto, ma selezionato esclusivamente in quanto esemplare al fine di trarne un certo insegnamento. Schelling cita espressamente il trattato Sulle favole di Lessing (Sui miti, cit., pp. 54-55 nota 2), dal quale dipende per questa definizione. Circa l’influenza di Lessing su Schelling, cf. W. Jacobs, Gottesbegriff, cit., pp. 52-87. 58 T. Griffero, Senso e immagine, cit., p. 233. 59 X. Tilliette, La mythologie comprise, Bibliopolis, Napoli 1984, p. 16. 60 Lo studio di A. Allwohn, Der Mythos bei Schelling, Heise Verlag, Charlottenbourg 1926, viene usualmente considerato “il padre”, se non altro

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quale ritiene che le due prospettive siano radicalmente differenti e conclude laconicamente sostenendo che «la semplice parola d’ordine della mitologia non può esserci d’aiuto». A parere di Dekker, le considerazioni schellinghiane sul mito presenti nel saggio del 1793 e quelle presenti nelle successive opere sulla filosofia della mitologia sono talmente diverse da avere in comune solo il nome del proprio oggetto: «la sua concezione del mito, dapprima illuministica poi via via più idealizzata, è talmente diversa da quella della filosofia della mitologia quanto a metodo, contenuto e scopo, da avere in comune con essa appena il nome»61. 3. IL LINGUAGGIO DEL MITO: SCHELLING ALLIEVO DI HERDER? Il presupposto antropologico della metodologia heyniana era che l’uomo primitivo non potesse che esprimersi in modo mitico in virtù della peculiarità della sua stessa natura, di quella del linguaggio di cui si serve come strumento per dare voce ai suoi tentativi, e della natura che lo circonda. Così Heyne nel De caussis fabularum seu mythorum veterum physicis (1764)62. È importante ricordare che Schelling non solo cita il testo suddetto63, ma anche che ne ripropone i contenuti quasi integralmente: le intuizione heyniane sul rapporto fra mito e natura si trovano, come si vedrà, alla base dei passi schellinghiani sull’argomento di cui daremo conto in un capitolo a parte. in senso cronologico, di tutti i successivi studi sul mito in Schelling. Alle pp. 11-23 dell’opera in questione lo Allwohn si dedica all’analisi del saggio Sui miti del quale, come quattro anni dopo scriverà Dekker, l’autore rileva l’immaturità e l’incapacità, da parte di Schelling, di emanciparsi da una semplice serie di enunciazioni di principio e notazioni prive di mordente. 61 G. Dekker, Die Rückwendung zum Mythos. Schellings letzte Wandlung, Oldenbourg, Berlin 1930, p. 23, tr. nostra. 62 C.G. Heyne, De caussis fabularum seu mythorum veterum physicis, in «Opuscula academica», Göttingen 1785, I, pp. 184-206. 63 F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 44.

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Quanto alla citazione di Schelling, questa concerne il linguaggio del mito. Prima di passare a tale questione, rivolgiamo conclusivamente la nostra attenzione a ciò da cui eravamo partiti, vale a dire la distinzione fra mito storico e mito filosofico. Per Heyne il primo consiste nel prodotto della sapienza e della scienza umana, il secondo nella storia antichissima dei popoli, ovviamente prima che delle une e dell’altra si desse una fissazione scritta. Schelling accetta questa definizione ma, appunto perché dipende da Heyne, non riesce a scioglierne la principale debolezza, vale a dire quella fragilità dovuta al comune riferimento dei due generi mitici a un linguaggio di tipo narrativo-rappresentativo. Osserva Tilliette che «la distinzione fra miti storici (storia mitica) e filosofici (verità resa sensibile) non può essere netta, dal momento che il mito viene ancora definito “rappresentazione storica o analoga”»64. Poiché ad ogni forma mitologica, sia essa storica o filosofica, pertiene la modalità della rappresentazione (Darstellung), il senso stesso della distinzione fra le due viene a vacillare. In un caso come nell’altro, infatti, la modalità di accesso al contenuto mitico è data mediante una rappresentazione di volta in volta «storica» o «analoga», termine con il quale Tilliette traduce il termine schellinghiano geschichtähnlich letteralmente equivalente a “simile alla storia”. La stessa cosa viene notata anche da Griffero: «questa quasi-storicità, o meglio, narratività, anche del mito filosofico dimostra quanto labile sia la distinzione fra mito storico e mito filosofico»65. Come si legge, per Griffero la contiguità di mito storico e mito filosofico si lascia cogliere nella dimensione della «narratività», all’interno della quale si muoverebbero entrambi. Già questa osservazione evoca di fatto la questione del linguaggio del mito, che viene posta sul tappeto da Verra insieme 64 65

X. Tilliette, La mythologie comprise, cit., p. 15. T. Griffero, Senso e immagine, cit., p. 230.

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alla notazione di una difficoltà mutuata da Schelling direttamente da Heyne:

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i caratteri di questa impostazione emergono ancor più chiaramente quando Heyne, cercando di spiegare come mai non solo la tradizione, ma anche la sapienza primitiva debba assumere necessariamente forma narrativa, e quindi mitica, riporta questo atteggiamento semplicemente alla debolezza ed all’insufficienza del pensiero e del linguaggio umano dei primordi della storia66.

In una delle prime righe del saggio Schelling definisce le saghe più antiche «figlie dell’udito e del racconto»67, traendo tale definizione dalle Idee68 di Herder al fine di mostrare come questo debba «renderci sospetti circa il loro valore storico. L’udito non è certo il più chiaro e affidabile dei sensi»69. A margine di quest’ultima considerazione troviamo il secondo riferimento schellinghiano ad Herder, questa volta al saggio sull’origine del linguaggio70 citato a conferma della scarsa affidabilità dell’udito. In realtà, già il tono dell’interpretazione schellinghiana di questi due passi herderiani dà il senso della vicinanza e, al tempo stesso, della lontananza che intercorre fra i due autori, così da spiegare il punto interrogativo che abbiamo voluto significativamente inserire già nel titolo del presente capitolo. La lettura schellinghiana è chiara: tutte le storie antiche affondano le loro radici nella mitologia. Tuttavia, proprio in virtù dell’antichità, che lo vincola alla dimensione dell’oralità, il mito è afflitto da una fondamentale carenza di credibilità. In quanto

V. Verra, Mito, rivelazione, filosofia, cit., p. 26. F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 35. 68 J.G. Herder, Idee per una filosofia della storia dell’umanità, a cura di V. Verra, Laterza, Bari 1992. 69 F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., pp. 35-36. 70 J.G. Herder, Saggio sull’origine del linguaggio, a cura di G. Necco, SES, Roma 1954. 66

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orale si appoggia all’udito, che per Schelling non è certo il senso più affidabile in quanto «i suoi oggetti si confondono troppo rapidamente fra di loro perché possano rimanere ben distinti nella memoria»71. Qui si inserisce il duplice riferimento a Herder, coronato da un’immagine tratta dallo stesso autore della quale Schelling si serve per porre in relazione il predominio dell’udito sugli altri sensi con quel linguaggio orale e gestuale caratterizzante la fanciullezza dell’umanità: osservate il figlio della natura: tutto ciò che si verifica all’interno della sua anima egli lo manifesta esternamente attraverso il suo corpo, tutto ciò che egli racconta lo riproduce in se stesso mediante gesti e movimenti del corpo e lo offre palpitante di vita davanti agli occhi dell’ascoltatore. Qui l’immaginazione non giace morta: la riportano in vita la dolce melodia della voce, che l’orecchio afferra avidamente, e il linguaggio magico del corpo, che richiama alla mente ogni cosa72.

Con queste parole siamo introdotti nel cuore di un discorso nuovo, al centro del quale non si trova più la questione della verità del mito o quella della distinzione fra mito storico e mito filosofico, bensì la natura del linguaggio del mito e, di converso, la natura del soggetto di tale linguaggio, vale a dire dell’uomo mitico. In ciò consiste propriamente il maggiore lascito di Herder a Schelling: nell’avere fornito alla filosofia del mito uno sbocco speculativamente più fecondo di quello – pur interessante – dischiuso dalla prospettiva filologica di Heyne73. Naturalmente non F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 36. Ibid. 73 Così Allwohn tratteggia il senso dell’originalità della posizione di Herder nel contesto delle altre letture razionaliste ed illuministe: «Herder va oltre le spiegazioni puramente razionaliste del mito nel momento in cui egli giudica le personificazioni, le imprecisioni e le esagerazioni mitiche come qualcosa di necessario. Egli concepisce il mito come una testimonianza della poesia popolare, ritenuta il linguaggio originario dell’umanità» (A. Allwohn, Der Mythos, cit., pp. 19-20, tr. nostra). 71

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è possibile separare in modo netto i richiami, spesso incrociati, fatti dal giovane Schelling al pensiero dell’uno e dell’altro, la valutazione dei quali rivela la contiguità di fondo delle tematiche sollevate dagli autori in questione: la forma ed il contenuto della conoscenza mitica, il rapporto di questa con la storia, le ricadute di tale discorso sulla filosofia del linguaggio e sull’antropologia. Le parole con le quali Schelling descrive «il figlio della natura» sono parole dolci, quasi poetiche: la stessa locuzione possiede una sua tonalità emotiva che risveglia in noi la languida nostalgia nei confronti di una sorta di “innocenza perduta”, patrimonio dei nostri progenitori andato smarrito con lo sviluppo della civiltà. Questa linea di pensiero è presente in Sui miti ed è tutt’altro che secondaria: Schelling dedica innumerevoli passi alla discussione di quello «spirito della fanciullezza» (Geist der Kindheit), a suo parere consistente nella «profonda innocenza» (tiefe Einfalt) che è condizione necessaria per la comparsa dell’uomo del mito. Questi, infatti, è l’uomo che presta fiduciosamente ascolto al proprio cuore più che al proprio intelletto e pertanto popola la realtà circostante di enti animati ed antropomorfi, strutturando in questo modo il racconto sulle origini della sua stirpe e del mondo intero nel quale propriamente consiste il mito. Di qui la centralità dell’udito. Schelling sottolinea la dimensione primitiva del mito anche per svincolarlo da ogni sospetto legame con l’arte e l’allegoria. Ma di questo si è già detto. Ciò che non si è ancora detto è quanto la lettura “svalutativa” dell’udito proposta da Schelling, che prende le mosse da una definizione di Herder, sia invece lontana dalla lettura herderiana. Certo, dopo aver osservato che la conoscenza mitica è figlia «del racconto e dell’udito», Herder sostiene che questo non può essere inteso come il più affidabile dei sensi. Ma, allo stesso tempo, «poiché l’uomo solo con l’udito accoglie il linguaggio della natura maestra, e senza l’udito non può inventare il linguaggio, l’udito è diventato, in certo qual modo, il suo senso

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intermedio, la porta vera e propria dell’anima, il nesso connettivo degli altri sensi»74. La rivendicazione dell’udito quale «senso intermedio» – posto, cioè, a metà fra l’estrema imprecisione del tatto e la suprema chiarezza della vista – serve, in Herder, lo scopo di valorizzare il tipo di conoscenza stante alla base del mito. Quanto sono severe, al riguardo, le parole di Schelling, una volta messe a confronto con quelle di Herder! Lì c’è la malcelata insofferenza di fronte ad una conoscenza che «rapidamente confonde i propri oggetti» e non riesce a tenerli «ben distinti nella memoria», qui un senso che «chiarifica ciò che era troppo oscuro, rende più piacevole ciò che era troppo nitido». C’è di più: dal momento che l’udito consente di afferrare l’essenziale e, insieme, di scorgere «il molteplice nell’uno e nel contrassegno», ne deriva per Herder che «l’udito è l’organo del linguaggio», giacché «il suono percepito dall’udito penetra così addentro alla nostra anima, da divenir necessariamente contrassegno, senza tuttavia essere così soverchiante da perdere la chiarezza. Ecco il senso del linguaggio»75. E se anche Schelling spende parole dolci per descrivere la condizione del «figlio della natura», il suo vero taglio prospettico si rivela allorché, convenendo su alcune delle osservazioni di Herder circa l’udito, chiosa freddamente che d’altro canto anche in noi, che a differenza degli uomini primitivi possediamo altri mezzi di apprendimento oltre a quello orale, spesso solo il suono udito dal nostro orecchio determina esito e modalità di ricezione del contenuto del racconto; a maggior ragione coloro che sono stati educati attraverso l’udito vengono avvinti dalla voce narrante, e questa, quanto più profondamente risuona nel ricordo, tanto più riesce ad avere potentemente presa76.

J.G. Herder, Saggio, cit., p. 64. Ibid., p. 66. 76 F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 36. 74

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Sembra quasi che sia proprio quella misteriosa capacità dei suoni di imprimersi nella memoria, a dispetto del loro contenuto verbale, a suscitare il sospetto schellinghiano che la conoscenza orale possa risultare “contaminata” da un incontrollabile residuo di irrazionale emotività. Qui, evidentemente, è l’ancora razionalista Schelling a parlare, uno Schelling le cui parole evidenziano l’attenta lettura dell’illuminista Lessing, nell’opera del quale esegesi storico-critica ed estetica si saldano nel nome di una filosofia della storia che vede nell’educazione ad un uso sempre più pieno della ragione il senso del progresso umano77. Quello che a Schelling appare come un gravame, si mostra invece a Herder come un valore aggiunto: come sarebbe imbarazzante il linguaggio della troppo sottile vista! Chi può continuamente degustare, tastare e odorare senza morir presto […]. E chi può fissare attentamente una gamma di colori senza rimanere abbagliato? Ma ad ascoltare parole, a pensarle, per così dire, ascoltando, possiamo durare più a lungo e quasi all’infinito78.

Questa particolare sensibilità herderiana, riscontrabile nel saggio del 1772 citato da Schelling, riflette un aspetto decisivo della riflessione di Herder, già presente nei suoi primi scritti79. In questi, l’attenzione del pensatore è costantemente rivolta alla ricerca delle forme essenziali dell’umanità nella sua infanzia. Tuttavia, mentre in Heyne questa ricerca si modella secondo le categorie di una scienza che ambisce a rigore metodologico e filologico al preciso fine di elaborare una classificazione dei miti, in Herder essa prende ben presto una forma dettata dall’e-

77 Sulla genesi e lo sviluppo della filosofia della storia schellinghiana si faccia riferimento a W. Jacobs, Gottesbegriff, cit., pp. 187-269. 78 J.G. Herder, Saggio, cit., p. 66. 79 Cf. V. Verra, Mito, rivelazione, filosofia, cit., pp. 42-49, in cui si fa riferimento agli scritti inediti del periodo di Königsberg e Riga (1764-1766), fra i quali Über die Ode, Versuch einer Geschichte der lyrischen Dichtkunst, Über die verschiedenen Religionen, Von den ältesten Nationalgesängen.

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sigenza – evidentemente avvertita dall’uomo Herder, prima ancora che dallo studioso – di

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una comprensione non soltanto storico-filologica del mondo primitivo, della sua poesia e del suo linguaggio, ma di una viva penetrazione di esso, che non può mai essere raggiunta con mezzi soltanto estrinseci quale l’erudizione, ma richiede una viva sensibilità per quanto nell’uomo è vivo e originario, irriducibile a un tessuto di concetti ed astrazioni80.

Se la passione per l’antichità e la ferma decisione di dotare la scienza del mito di un suo autonomo statuto epistemologico fanno in qualche modo già di Heyne un post-illuminista, con Herder viene compiuto un passo in avanti decisivo verso la liquidazione del paradigma razionalista. Nella diversa sensibilità di quest’ultimo l’amore per il passato inizia a nutrirsi della convinzione che solo mediante lo studio delle forme tradizionali sia possibile attingere alla conoscenza di quanto di più profondo ed autentico v’è nell’uomo. In ogni uomo: in quello mitico come in quello moderno. Ad appena un anno dalla pubblicazione del saggio sull’origine del linguaggio, Herder sviluppa il suo pensiero nel saggio su Shakespeare contenuto in quel Von deutscher Art und Kunst (1773) che, anche grazie al saggio di Goethe sull’arte gotica, viene unanimemente considerato come il manifesto dello Sturm und Drang insieme al romanzo epistolare I dolori del giovane Werther pubblicato dallo stesso Goethe l’anno successivo81.

V. Verra, Mito, rivelazione, filosofia, cit., p. 42. Negli anni seguenti, mentre Herder proseguirà sul solco già segnato aprendo il suo sguardo alla filosofia della storia, Goethe tornerà parzialmente sui suoi passi, ripudiando gli eccessi irrazionalistici e caotici presenti nello Sturm und Drang, rivalutando progressivamente l’ideale ellenico della misura e del classico in chiave anti-moderna ed anti-romantica nel dar vita a quello che, in conseguenza del sodalizio con Schiller, verrà chiamato il “classicismo di Weimar”. 80

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La rivalutazione del sentimento e della religione, l’orgogliosa rivendicazione della pari dignità dell’arte e della letteratura moderne – di cui lo stile gotico ed il dramma shakespeariano sono cifre – rispetto a quelle classiche, la fervente difesa dei diritti del genio rispetto ad ogni “canone” estetico: sono tutte tematiche talmente precorritrici dei tempi, e destinate ad imporsi come egemoni solo negli anni jenesi degli Schlegel cioè più di vent’anni dopo, da non poter risultare decisive sulla formazione del giovane Schelling, che si consuma sugli autori allora sugli scudi – vale a dire quella linea di pensatori che da Hume e Lessing arriva fino alla scuola di Gottinga. Al di là dell’effettiva presenza di Herder in Sui miti82, dunque, le posizioni dei due autori restano distanti. Alle differenze già citate bisogna aggiungere anche quelle relative alla spinosa questione dell’esegesi storico-critica della Bibbia sulla quale, come abbiamo visto, Schelling dipende integralmente da Eichhorn mentre Herder, soprattutto a seguito della menzionata polemica con il Michaelis, si mantenne sempre fedele alla convinzione, presente già nelle Idee, che il racconto biblico rappresenti «la più antica tradizione scritta circa l’origine dell’umanità», il quale «trova conferma nell’esperienza» e soprattutto si distingue in modo così unico da tutte le favole e le tradizioni dell’Asia per coerenza, semplicità e verità. Per quanto quelle altre favole e tradizioni possano contenere alcuni germi della fisica e della storia, vi regna però ancora una somma confusione, un caos favoloso, come all’inizio del mondo, come del resto non poteva non accadere trattandosi del resoconto di una tradizione sacerdotale e popolare non scritta e poetica. Il sapiente autore del racconto mosaico ha superato

82 Schelling fa riferimento alle Idee per confermare la propria tesi circa la tendenza delle saghe nazionali a intrecciarsi con quelle cosmogoniche; inoltre egli riporta una leggenda groenlandese della quale Herder aveva già fatto menzione.

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il caos e ci presenta una costruzione che nella sua semplicità e coerenza imita gli stessi ordinamenti della natura83.

Come si vede, Herder si muove del tutto all’interno di una cornice di pensiero ancora incline a fare della Bibbia il punto d’appoggio non solo della teologia ma anche della scienza e dell’antropologia, delineando così un profilo ermeneutico radicalmente irriducibile a quello che, in quegli stessi anni, si veniva irrobustendo in Germania a Gottinga grazie all’insegnamento di Michaelis ed Eichhorn84. Anche se Schelling legge Herder con attenzione questo non giustifica pertanto l’idea, propria soprattutto ad una vetusta ed ormai superata tradizione storiografica tedesca, che l’influenza di Herder sul giovane Schelling sia realmente decisiva85. In realtà il debito contratto da Schelling nei confronti di Herder si esaurisce essenzialmente con la conferma che quella del linguaggio sia questione decisiva ai fini della comprensione del mito. D’altro canto tale riferimento era in qualche modo presente anche in Heyne: in Sui miti Schelling cita proprio Heyne a riguardo della natura del linguaggio mitico e scrive: il tipo di rappresentazione di un popolo ancora incolto viene guidato da una fantasia sfrenata e priva di regole, gli oggetti non vengono solo illustrati ma anche ritratti con i colori più materiali e che più saltano all’occhio. Le persone parlano ed agiscono non solo davanti ai nostri occhi ed orecchie: tutti i loro discorsi ricevono dalla lingua nella quale si presentano la forma più materiale e tutte le loro azioni l’aspetto di una meravigliosa ed insolita grandezza86. J.G. Herder, Idee, cit., pp. 195-196. Per una trattazione della ermeneutica biblica di Herder è possibile fare riferimento a V. Verra, Mito, rivelazione, filosofia, cit., pp. 121-158. 85 Cf. R. Haym, Die romantische Schule, Weidmannische Buchhandlung, Berlin 1870, p. 557; K. Fischer, Geschichte der neuern Philosophie, Heidelberg 1872, p. 17; K. Rosenkranz, Schelling, Danzig 1843, p. 17; H. Zeltner, Schelling, Stuttgart 1954, p. 218. 86 F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 44. 83

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In questo caso la lezione di Herder si aggiunge a quella di Heyne nel guidare Schelling verso la considerazione del linguaggio del mito. Entrambi gli autori sembrano concordare nel ritenere che la conoscenza del linguaggio mitico schiuda la via d’accesso all’anima dell’uomo mitico. Ma è sulla modalità attraverso la quale conseguire questo fine che i due divergono. Per Heyne la via da battere è quella di una ricerca etno-antropologica, procedente dall’osservazione diretta delle popolazioni primitive ancora esistenti – nel De caussis fabularum l’autore porta l’esempio di alcune tribù di indigeni nordamericani – che si trova alla base dell’idea che quella lingua palpitante fatta di gesti e suoni fosse, un tempo, patrimonio di tutta l’umanità. Di qui la convinzione che l’uomo europeo, civilizzato ed amico della scienza, scorga nell’indigeno il suo stesso passato, il passato di una umanità che si serve del mito per dare ordine al mondo e possa pertanto trarre conferma dell’esistenza di una tappa iniziale dello sviluppo umano. Uno sviluppo che, peraltro, l’autore immagina lineare e unidirezionale. Da questo punto di vista sarebbe forse possibile accostare Heyne a Lessing, solo che il primo si attiene ad una analisi filologica del passato mentre il secondo attende alla progettazione del futuro. Anche per Herder lo studio del mito è la porta che conduce alla conoscenza dell’uomo antico. Ma mentre per Heyne la lente attraverso cui guardare al linguaggio del mito è esclusivamente quella dell’anticipazione dell’argomentare razionale secondo il modello delle scienze esatte, per Herder il linguaggio del mito configura un dominio a sé. Ciò si spiega con il fatto che per Heyne il linguaggio – ogni linguaggio: quello del mito come quello della scienza moderna – assolve una funzione essenzialmente conoscitiva, per cui il ruolo della parola poetica del mito è il medesimo, mutatis mutandis, del concetto filosofico o della formula matematica. Herder invece è convinto che, nel linguaggio, l’uomo, più che conoscere ri-conosca, vale a dire trovi fuori di sé quella stessa realtà che gli è propria interiormente. Come osserva Jacobs «noi non diamo espressione alla natura delle co-

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se, spiega Herder, ma alle nostre descrizioni astratte, e per questo motivo dubitiamo di comprenderci gli uni gli altri»87. Per Herder ogni conoscenza è tale da riflettere la natura del conoscente: chi conosce anche soltanto un paio di lingue, non potrà credere che sussista un legame sostanziale tra il linguaggio e il pensiero, per non dire tra il linguaggio e le cose. E le lingue sono assai più di due e in tutte la ragione compie i suoi calcoli, soddisfatta del miraggio di legami arbitrari. E perché? Perché essa stessa possiede soltanto caratteri non sostanziali e le è in fondo indifferente valersi di queste o quelle cifre […] giacché ciò che sappiamo di una cosa è soltanto un simbolo esterno che abbiamo strappato e rivestito di un altro simbolo arbitrario88.

Lo Schelling del 1793 fa limitatamente tesoro di questi spunti. L’idea che il linguaggio descriva non soltanto delle cose, ma soprattutto la natura del locutore lo convince anche perché verso questa conclusione converge anche Heyne: si ricordi a questo riguardo la già menzionata intuizione heyniana dell’uomo mitico come uomo “fanciullo”, abbondantemente ripresa da Schelling. Ma egli non procede oltre. Soprattutto, Schelling si tiene lontano dall’avvicinamento del linguaggio e del mito in genere al simbolo: questa intuizione di Herder è di ampio respiro e metterà radici nell’opera di Schelling in seguito, come vedremo nella Filosofia dell’Arte del 1803. In definitiva, è necessario riconoscere come Schelling mostri «di non accettare in nessun modo quello che è il fondo di gran parte delle considerazioni herderiane: il nucleo di verità permanente di certe storie mitiche (come per esempio la storia mosaica) e la possibilità che esse parlino ancora oggi a chi si dispone ad ascoltarlo»89. W. Jacobs, Gottesbegriff, cit., p. 104, tr. nostra. J.G. Herder, Idee, cit., p. 166. 89 C. Cesa, Il pensiero politico di Schelling, cit., p. 41. 87

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4. UOMINI FANCIULLI E UOMINI SAPIENTI:

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MITO, NATURA UMANA, TRADIZIONE, NOMOPOIESI

V’è però un aspetto, tutto sommato poco indagato dagli studiosi, sul quale Schelling si rivela insospettabilmente più vicino a Herder di quanto non lo sia a Heyne, ed è quello relativo alla visione d’insieme sull’uomo che i due autori ricavano dall’analisi mitica. Verra osserva che «mentre Heyne e Herder avevano fatto leva piuttosto sui caratteri del linguaggio […] per comprendere il mito, Schelling lo riporta a un movimento della coscienza nel suo sforzo di stabilire un’identità con le cose, e non manca di trarne conseguenze metafisiche assai impegnative»90. In realtà, è indubbio che il linguaggio del mito non possieda, nel saggio del 1793, quella centralità assoluta avente in Heyne e Herder, tuttavia è importante rilevare come, proprio tramite esso, Schelling pervenga a mettere a tema la questione cruciale della natura dell’uomo mitico. La metafora heyniana dell’uomo del mito come uomo “fanciullo”, dotato di una razionalità ancora imperfetta – ossia per l’appunto quella che trova espressione nella narrazione mitica – trova largo seguito in Schelling, nel quale tuttavia essa si carica di un significato più profondo, dal quale derivano quelle «conseguenze metafisiche impegnative» di cui scrive Verra. In Schelling, il rapporto del mito con la natura è duplice. In un senso più semplice, il mito riproduce la natura esteriore che fa da cornice all’esperienza dell’uomo. Scrive Schelling: la mitologia è in relazione alla natura: è perciò del tutto naturale che essa riproduca la differenziazione che ha già interessato le condizioni esteriori di un popolo. Un popolo che vive sotto un cielo terso, sopra una luminosa vetta del mondo, dove la natura si mostra nella sua più alta e bella attività […] si tratterrà volentieri in compagnia di questa madre 90

V. Verra, Mito, rivelazione, filosofia, cit., p. 79.

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benevola, ricercherà con piacere il suo andamento silenzioso e il suo segreto funzionamento, dimenticherà facilmente le difficoltà di questa ricerca nel godimento della sua bellezza […] ma in un luogo triste del mondo, fra enormi e oscure foreste, oppure in strisce desertiche di terra bruciate dal sole, dove l’uomo, per così dire smarrendo se stesso, esagera nella smisuratezza, la mitologia non potrà che ricevere la forma più bizzarra e l’impronta dell’immaginazione più sfrenata ed esaltata91.

Il filosofo resterà sempre fedele all’idea che i tratti essenziali di una mitologia siano determinati anche dalle condizioni geografico-ambientali nelle quali un dato popolo si trova a vivere: ancora più di cinquant’anni dopo, nelle berlinesi lezioni sulla Filosofia della Mitologia, Schelling tornerà a descrivere con parole ammirate la perfetta umanità che traspare dal pantheon ellenico, caratterizzata dal regno della misura, evidentemente figlio di un popolo abituato a essere accarezzato e benvoluto da una natura solare e materna. Ma nel senso più profondo il mito rivela la natura interiore dell’uomo: se riconosciamo lo spirito del mondo antichissimo, troveremo del tutto naturale che proprio coloro, che per primi iniziarono a ragionare su oggetti più alti, abbiano scelto una veste storica per i loro filosofemi non solo per un popolo di indole materiale, ma anche per loro stessi, e capiremo anche che li costrinse a ciò la mancanza di concetti pienamente sviluppati, di principi saldi, di segni di rappresentazioni astratte, e che pertanto loro stessi furono obbligati a rischiarare attraverso la luce di una rappresentazione sensibile l’oscurità delle loro stesse rappresentazioni, il mistero delle loro stesse impressioni92.

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F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 66. Ibid., p. 58.

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Preso per se stesso, questo passo potrebbe esser ricondotto in tutto e per tutto alla lettura heyniana del mito come “ragionamento pre-razionale”. Ma in realtà esso presuppone un’idea di uomo che in Heyne non viene tematizzata. Schelling ritiene che il «saggio pensante» sia in grado di servirsi del mito per comunicare con l’umanità ancora fanciulla però si avvede del fatto che, perché questo sia possibile, è necessario che l’idea stessa di umanità venga privata di quella rigidità – retaggio del riduzionismo razionalistico proprio all’Illuminismo – che impedisce di guardare all’umano come a qualcosa in divenire, come ad un processo tuttora in corso di evoluzione. Tale percezione manca completamente in Heyne, il quale si appaga del rinvenimento dell’uomo moderno pienamente razionale come punto di arrivo dell’intero processo evolutivo a partire dal quale studiare e classificare gli stadi precedenti. Commenta Cesa al riguardo: Schelling ha derivato dal filologo di Gottinga molto materiale, ma non l’idea fondamentale. Per Heyne l’importanza dei poeti come educatori deriva esclusivamente dal fatto che un popolo non ancora civilizzato esprime tutti i suoi sentimenti con un’attività che impegna tutto il corpo e trova la sua espressione nelle danze e nei carmi […] in Schelling l’andamento del discorso è molto diverso […] ciò che interessa a Schelling è il momento nel quale i sapienti smettono di condividere le credenze comuni93.

È invece nelle Idee di Herder che troviamo dei passi molto interessanti al riguardo, ove si dice che «l’attuale stato dell’uomo probabilmente è uno stato intermedio che collega due mondi». Herder riconosce che qua e là è venuto un saggio, un buono, e ha sparso pensieri, consigli e azioni nel fiume dei tempi […] ma sulla terra non si è mai sviluppato compiutamente ciò che è più nobile, e

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C. Cesa, Il pensiero politico di Schelling, cit., pp. 48-49.

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ciò che è più puro, di rado ha avuto durata e consistenza: per le forze del nostro spirito e del nostro cuore questa scena è sempre soltanto un luogo di esercizio e di prova […] la corrente ha trascinato via e cancellato ogni loro [dei sapienti] traccia […] l’animale vive la sua vita e, se anche non la vive per scopi superiori, pure il suo scopo interno è raggiunto: le sue capacità ci sono ed esso è quel che deve essere. L’uomo soltanto è in contraddizione con se stesso e con la terra […] la causa è palesemente questa, cioè che il suo stato, l’ultimo per questa terra, è insieme il primo per un’altra esistenza, rispetto alla quale l’uomo appare come un bambino nei suoi primi movimenti […] l’uomo, dunque, esprime due mondi insieme e questo costituisce la palese duplicità del suo essere94.

Quest’idea di un uomo ancora in itinere si trova alla base della convinzione schellinghiana che il mito possa essere impiegato al fine del transito dell’umanità verso un più alto livello di coscienza. L’intuizione del mito come possibile strumento dell’educazione umana, che si trova direttamente alla radice de Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco95 (d’ora in poi Systemprogramm) come vedremo in seguito, in Sui miti è appena abbozzata. Abbozzata, dunque presente, segnatamente nella forma dell’uso e definizione che Schelling dà di tradizione (Überlieferung). Lette le belle parole di Herder, ci si potrebbe forse aspettare che lo stesso Herder si ponesse su questo sentiero. E invece è qui che cominciamo a intravedere i primi segni di originalità della posizione schellinghiana. Non che Herder non J.G. Herder, Idee, cit., pp. 94-95. Cf. F. Rosenzweig, Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus. Ein handschriftlicher Fund, in «Sitzungberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse», V, 1917, ora in C. Jamme - H. Schneider, Mythologie der Vernunft. Hegels “ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus”, Suhrkamp, Frankfurt am Mein 1984, pp. 79125; presente in italiano come Hegel-Schelling-Hölderlin, Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, a cura di L. Amoroso, ETS, Siena 2009. 94

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tessa le lodi della tradizione, anzi! Ma proprio perché al suo cospetto sembra nutrire una sorta di devoto rispetto – si ricordi che per Herder l’oggetto primo di ogni tradizione è religioso e che la religione esprime la vocazione ultima dell’uomo – egli si ferma di fronte all’eventualità di un suo “uso” consapevolmente orientato a un fine, per quanto buono e illuminato esso possa essere. Come scrive Cesa: vien fatto di chiedersi, riteneva Herder ancora possibile riunire e riformare un popolo appoggiandosi alla tradizione? Dai suoi scritti, e limitatamente alle grandi nazioni civili dell’Occidente, si può trarre solo una risposta negativa. Quando egli cerca che cosa resti del passato in una società, come quella del suo tempo, tesa verso la creazione di una umanità nuova […] non trova che la piccola comunità familiare, quella che esisteva anche al tempo dei patriarchi, e che ora è ridotta ai margini della società, condannata a non poter realizzare che una minima parte della sua potenzialità educativa. E pure questo nucleo può esercitare un ruolo importante: non si può escludere, infatti, che al dischiudersi di una grande scena nuova si debba arrivare attraverso il corrompersi del tutto, e in questo caso i valori della tradizione dell’umanità saranno conservati in queste isole naturali, nelle quali famiglia e religione costituiscono un tutto indissolubile96.

96 C. Cesa, Il pensiero politico di Schelling, cit., p. 40. Come si evince dalle righe appena citate, la lettura di Cesa riconosce la specifica riluttanza di Herder a procedere ad un utilizzo consapevole del mito, ma, allo stesso tempo, ne sottolinea la valenza “sociale”. Quest’ultima viene posta in rilievo da Cometa, che fa di Herder il maestro di Schelling e dell’intera generazione preromantica nella delineazione di «un mito affatto esoterico, ma che in accordo con la tradizione herderiana è essoterico tout-court, forma di diffusione del sapere comunitario, proiezione verso l’utopia della ricomposizione sociale» (M. Cometa, Iduna. Mitologie della ragione, Novecento, Palermo 1984, p. 21). Sostanzialmente su questa linea interpretativa si colloca anche Jacobs, il quale osserva come per Herder la tradizione sia «non solo un dono, ma anche un compito» (W. Jacobs, Gottesbegriff, cit., p. 105, tr. nostra), declinando così la tradizione in modo “aperto”, alla stregua di un lascito che fornisce delle linee-guida bisognose di una progettazione ulteriore.

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Si domanda Schelling:

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cosa, più della tradizione e delle saghe sulle gesta dei padri verso le quali tutti nutrono lo stesso interesse, potrebbe essere in grado di unire in una società anche uomini incolti? Cosa, meglio degli esempi comunemente accettati di eroismo, valore e virtù dei progenitori? Cosa, più degli usi, costumi e leggi che loro tutti osservano come lascito sacro dei padri?97.

Il mito interessa a Schelling essenzialmente in virtù di una sua capacità che potremmo definire nomopoietica, vale a dire istitutiva di valori e leggi. Lo studio del mito, trasceso il suo interesse filologico e archeologico, consente a Schelling di lumeggiare non tanto, o comunque non soltanto, le strutture sociali e le credenze religiose dei primi uomini, ma soprattutto le modalità attraverso le quali questi furono in grado di dare vita alle prime società e di legiferare. Il mito è ciò che fa di un gruppo di uomini una comunità, unita da una comune genealogia e da una comune visione del mondo e della vita. Per questo motivo, e qui tocchiamo il cuore pulsante di Sui miti, il mito è – di fatto – qualcosa di «inventato» (erdichtet). Dietro al mito si cela l’intenzione educativa del saggio, del legislatore che «sceglie l’abito storico e il richiamo alla tradizione perché egli conosce la mentalità popolare, e sa che solo in questo modo le sue prescrizioni saranno accettate senza resistenza»98. Posizione, questa, non nuova, solamente che in Schelling «sono i legislatori a compiere l’opera che in Lessing e Herder era della provvidenza divina»99. Detto con Cometa, l’aver posto l’accento sulle finalità pedagogiche e politiche del mito piuttosto che sulla sua essenza […] è prova eviden-

F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 53. C. Cesa, Il pensiero politico di Schelling, cit. p. 49. 99 Ibid., p. 50.

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te di quell’atteggiamento disincantato nei confronti della tradizione del primissimo Schelling […] il problema della mera utilizzazione a fini pedagogici si tramuta in un vero e proprio progetto politico e filosofico che permetta di riconvertire l’immenso potenziale coercitivo-consensuale del racconto tradizionale in strumento di legittimazione sociale100.

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Così anche Griffero, per il quale nel saggio in questione il mito diviene strumento comunicativo ed etico, passibile di ripresa in senso pedagogico-estetico da parte della filosofia moderna […] dovrebbe essere ormai chiaro che Schelling, più che ermeneuta metodico del mito, intende essere un attualizzatore a fini educativo-politici della sua primitiva ed inconsapevole forza poietica […] egli si interessa della forza e delle modalità legittimanti della sua trasmissione culturale, insomma della verità ed efficacia dinamico-performativa che il mito mutua dalla sua analogia con il racconto storico101.

Questo punto, sul quale come si è visto insistono tutti i maggiori studiosi italiani dell’argomento, è veramente decisivo perché costituisce lo snodo fondamentale attraverso il quale è possibile collegare direttamente Schelling al contenuto del Systemprogramm, e di lì alla tematizzazione del mito moderno che, evolvendo, troverà ampio sviluppo nella Filosofia dell’Arte. Due sono le questioni che ci paiono rilevanti. In primo luogo: il soggetto dell’invenzione mitica, ovvero la persona o le persone che concretamente posero mano, in un dato momento ed in un dato luogo, all’ideazione o alla redazione di un determinato mito. In secondo luogo: il medium del quale costui, o costoro, si servirono per rendere tale invenzione in grado di catalizzare su di sé il consenso e l’osservanza della comunità cui è rivolta.

100 101

M. Cometa, Iduna, cit., p. 74. T. Griffero, Senso e immagine, cit., pp. 231-234.

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Circa il primo punto, la risposta di Schelling è molto chiara, oltre che largamente desumibile da quanto già detto: sono i saggi, gli uomini desti a farsi carico dell’educazione dell’umanità “fanciulla”, dormiente, ingenua. In questo passaggio si rivela, per Jacobs, l’evoluzione della mente umana: la ragione rivendica di essere strutturata; essa pretende di fornire con la sua struttura la misura per la conoscenza e per l’agire. In quanto tale, la sua storia non può essere pensata come arbitraria. Allorché Schelling iniziò i suoi studi, era disponibile l’analisi kantiana della struttura della ragione. Il contributo di Schelling è consistito nel non assumere la storia della religione in modo semplicemente fattuale, bensì nel pensarla come sviluppo della facoltà più bassa dell’immaginazione fino a quella più alta della ragione. In tal modo l’epoca del mito va intesa come quella del primo livello di sviluppo della ragione102.

Ciò avviene mediante la trasmissione di concetti filosofici morali e speculativi, ma anche di leggi e costumi, presentati sotto una «veste sensibile» (sinnliche Gewand) ossia in forma storico-mitica. Tuttavia, come sappiamo, queste rappresentazioni contribuiscono a rischiarare anche la mente degli stessi saggi, i quali mediante esse riescono, per così dire, a oggettivare i loro pensieri, guadagnando ulteriormente in lucidità. Ora, al di là di quanto tale spiegazione sia poco originale, va detto che essa lascia sullo sfondo il difficile problema dell’effettivo consenso di cui la mitologia venne fatta oggetto, a tutte le latitudini, in quanto tale, ossia non in quanto ragionamento razionale più o meno dissimulato, ma per come essa stessa si mostra in quanto racconto religioso delle origini. Tale stato di cose, presente senza eccezioni al principio di ogni civiltà, eccede di molto l’obiettivo che l’eventuale sapiente si sarebbe dato con la sua invenzione, così come rende almeno problematico il fatto che qualcosa di

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W. Jacobs, Leggere Schelling, cit., p. 62.

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I. GLI ANNI DELLA FORMAZIONE: IL PERIODO TUBINGHESE

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inventato di sana pianta, da un gruppo limitato di uomini, con una precisa finalità, possa essere alla base di un fenomeno universale e caratteristico dello spirito umano quale la mitologia. Schelling non sembra nel 1793 riflettere a fondo su questo problema, sia perché non possiede ancora gli strumenti teorici per padroneggiarlo, sia perché il suo intendimento di fondo pone tale riflessione fuori dal novero dei suoi interessi. L’unica risposta che il giovane filosofo abbozza ci introduce alla seconda questione: la tradizione è dunque ciò che rende sacre la dottrina, la fede, e gli usi di un qualsiasi popolo; in quanto il padre racconta al figlio le gesta e la sorte dei padri, in tanto gli racconta anche la loro fede e dottrina. Queste saghe sono un continuo insegnamento per un popolo ancora fanciullo che non è in grado di riconoscere la verità universale, e al quale la verità deve essere presentata in forma di storia, se deve comprenderla e crederla103.

La tradizione è il medium essenziale grazie al quale il mito riesce a spiegare la sua fascinazione e a diffondere il suo insegnamento. Non solo, pertanto, il mito non è autonomo rispetto alla tradizione, ma anzi esso stesso «si definisce solamente in quanto narrazione legata alla tradizione e quindi, in definitiva, alla sua funzione legittimante»104.

103 104

F.W.J. Schelling, Sui miti, cit., p. 52. M. Cometa, Iduna, cit., p. 74.

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II. ANNI DI TRANSIZIONE: DA TUBINGA A LIPSIA (1796-1797)

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1. EVOLUZIONI: FRA MITO E FILOSOFIA La tradizione guadagna importanza nell’ambito della filosofia del mito non tanto a motivo della ricostruzione filologica ispirata dai docenti di Gottinga, ma alla luce di una impostazione nella quale già si lasciano intravedere le intenzioni di Schelling nei confronti del mito, vale a dire «porre le basi per una utilizzazione filosofica e quindi politica del mito nei moderni»105. Riconoscere quanto appena scritto non può tuttavia a nostro parere significare, come invece ci pare indicare Cometa, che la riflessione schellinghiana sul mito moderno sia giunta, già in Sui miti, ad un sufficiente livello di maturazione. Non vi sono, nel saggio in questione, tracce evidenti che rivelino il conseguimento, da parte del filosofo, di un punto di vista realmente originale sulla questione, né dell’elaborazione di un discorso pienamente filosofico sull’argomento. Esistono, però, i presupposti perché questo possa avvenire in tempi brevi. Il diciottenne Schelling si misura senza complessi con alcuni fra i maggiori autori del suo tempo – Heyne e Herder – dimostrando in primo luogo di averne ben saputo cogliere ed interpretare il pensiero. Ma c’è di più: quello che di lì a poco sarebbe stato riconosciuto da tutta la Germania come il genio precoce della filosofia tedesca, lascia scorgere nel 1793 almeno un tratto distintivo del suo pensiero. Scopo del presente studio è mostrare come la riflessione schellinghiana sul mito moderno, che trova il suo primo manifesto nel Systemprogramm e la sua evoluzione decisiva nella Filosofia dell’Arte, affondi le sue radici 105

Ibid., p. 76.

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II. ANNI DI TRANSIZIONE: DA TUBINGA A LIPSIA

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in quella sottolineatura del valore legittimante del mito di cui abbiamo trovato una prima traccia nel saggio giovanile. Non si tratta, peraltro, dell’unica linea interpretativa con la quale Schelling accosta il problema del mito, né probabilmente della più presente. Riteniamo infatti che la questione della verità del mito, alla quale Schelling dedica attenzione e che lo porta a dialogare a distanza con autori (soprattutto Eichhorn ed Hess) nei quali la tematica dell’interpretazione storico-critica dei testi sacri è centrale, rivesta una posizione preminente in Sui miti. A questo riguardo, riteniamo anzi che quello della definizione dell’autentico punto di vista prevalente di Sui miti sia un problema meno semplice di quanto non si possa credere. I corni del dilemma sono i seguenti: da un lato la – peraltro chiarissima – sottolineatura schellinghiana della utilizzabilità del mito a fini socio-politici. Questo punto non ammette discussioni: a sua conferma abbiamo già enumerato svariate citazioni tratte dal testo, oltre che dalla più autorevole letteratura secondaria sull’argomento (in particolare Cesa e Cometa). D’altro canto, però, ci pare non si possa enfatizzare la dimensione della artificialità del mito, sottesa alla sua utilizzabilità, senza correre il rischio di obliare un altro fatto, ugualmente importante, vale a dire la stretta relazione che Schelling lascia intercorrere fra mito e natura umana. Sotto questo rispetto il mito non può essere del tutto artificiale, perché in esso si imprime senza mediazioni il carattere più proprio dell’umanità “fanciulla”106. 106 La lettura di Jacobs inclina verso tale impostazione, ponendo Schelling sulla falsariga di Kant nel senso dell’approfondimento delle facoltà razionali umane: partendo dall’esegesi biblica Schelling scopre il mito e giunge a riservargli un posto pensabile filosoficamente. Questo può accadere perché le facoltà razionali vengono pensate come elementi strutturali della storia, con il che il mito, che corrisponde all’immaginazione, guadagna una posizione di rilievo storica razionalmente indagabile e argomentabile. La giusta collocazione della prima filosofia schellinghiana del mito sarebbe dunque quella di una filosofia della storia ispirata dalla gnoseologia kantiana. Cf. W. Jacobs, Leggere Schelling, cit., p. 67.

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Si potrebbe dunque sostenere che i due aspetti, a volerli cogliere appieno, rinviino a un punto di reciproco bilanciamento. Non solo non deve esservi contraddizione fra il legame costitutivo intercorrente fra mito e natura umana e l’uso intenzionale che ne viene fatto dal legislatore, ma anzi devesi riconoscere come quest’ultimo sia possibile proprio grazie al primo. Dal momento che il mito tocca corde profonde dell’animo umano, è possibile servirsene per educare l’umanità. A cercare il tratto più originale che pervade l’intera stesura di Sui miti non si può, in definitiva, che trovarlo nel taglio essenzialmente progettuale dell’interesse per il mito, nella vocazione “pratica” del pensiero schellinghiano che da Sui miti conduce direttamente al Systemprogramm. Non si tratta, lo ripetiamo, di una linea interpretativa dominante, sia perché ve ne sono svariate sia perché il diciottenne Schelling ancora non conosce una propria via al mito e finisce spesso col battere quelle già aperte da altri; si tratta di una sorta di “rumore di fondo” che in alcuni momenti si fa più distinguibile e che si renderà percepibile in tutta la sua forza e la sua novità pochi anni dopo. Ai fini del compiuto conseguimento di tale prospettiva è necessario attendere il trasferimento di Schelling a Jena, l’ingresso nel circuito della Frühromantik e, soprattutto, l’evoluzione interna del suo pensiero; ciò non toglie che i presupposti di questo discorso siano presenti nel movimento speculativo avviato da Schelling nel 1793, nell’ambito del quale il giovane filosofo assegna il ruolo chiave alla tradizione che unisce gli uomini in società. Il paradosso cui ci si trova innanzi nel momento in cui si prende sul serio il delicato ruolo della tradizione consiste nel fatto che, per un verso, Schelling intende farne un uso che, con termine in questa sede equivoco, potremmo definire progressista, vale a dire funzionale al passaggio dell’umanità a un più alto livello di consapevolezza. Ma per l’altro verso, stante la definizione della stessa tradizione nella quale Schelling si riconosce, abbiamo a che fare con qualcosa che sembra in grado di assol-

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vere a un compito esclusivamente votato alla conservazione. Detto altrimenti: la tradizione esplica la sua funzione principale nella trasmissione alle generazioni presenti e future di contenuti spirituali, morali, politici aviti, in vista della perpetuazione di un legame di continuità del passato con il presente107. È possibile che lo Schelling del 1793 non si avvedesse ancora con chiarezza di questa situazione problematica, destinata evidentemente a trovare soluzione nel Systemprogramm laddove sarebbe stata additata con forza la via del mito moderno, vale a dire del mito quale luogo di progettazione dell’avvenire. La questione evocata da tale teoria – l’effettiva portata spirituale del mito e della tradizione – poté però collocarsi al centro dell’attenzione dell’autore del Systemprogramm solo a patto 107 Sulla maggiore o minore sottolineatura di questi due aspetti riposano le due fondamentali letture della tradizione. Un ottimo esempio della letteratura “progressista” al riguardo è la raccolta di saggi presente in E. Hobsbawm, L’invenzione della tradizione, a cura di T. Renger, Einaudi, Torino 1987. In tale studio si osserva come l’intento conservatore, lungi dall’essere quello originario, rappresenti al contrario l’elemento caratterizzante del “mito moderno”, qui inteso come invenzione avente il fine di sclerotizzare un determinato modello sociale in chiave reazionaria. Al contrario, le tradizioni vere e proprie garantirebbero un certo livello di mobilità e trasformazione. Per una confutazione puntuale di questa scuola di pensiero è possibile fare riferimento al saggio di H. Rech, Mos maiorum. La tradizione a Roma, a cura di V. Vernole, Settimo Sigillo, Roma 2006, nel quale, in riferimento alla civiltà antica a noi più prossima nel tempo e nello spazio, la distinzione introdotta da Hobsbawm viene rovesciata. Nell’antica Roma, infatti, la differenza maggiore fra mos maiorum e leges consiste nel fatto che il primo mira al rispetto di un ordine sociale e spirituale immutabile, mentre le seconde fotografano i cambiamenti di volta in volta occorsi nella società romana. Di fronte all’alternativa di obbedire all’uno o alle altre, l’autore cita il comportamento di Cicerone allorché questi, da console, decide di mandare a morte Catilina in ossequio al mos non scritto che, contrariamente al diritto positivo rappresentato dalle leges Valeriae-Semproniae, comminava ai traditori della Patria la pena di morte. Nel far questo Cicerone avrebbe scelto di mantenersi fedele alla tradizione: una tradizione che, come si vede, viene intesa in chiave fortemente conservatrice. Per quanto riguarda un più generale inquadramento del rapporto fra società tradizionali e moderne e il passaggio dalle prime alle seconde è indubbiamente interessante l’analisi presente nella Prima Parte di J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma 1998.

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della sottrazione della questione mitica all’ambito teologico ed esegetico in favore del suo inserimento nel campo filosofico. Per quanto riguarda Schelling, questo moto di pensiero può ritenersi concluso soltanto nel corso del 1794, il che significa che il saggio Sui miti si colloca come punto d’arrivo della primissima fase della riflessione schellinghiana sull’argomento, preannunciata dal De malorum origine e contrassegnata dalle coordinate ricordate più sopra. A partire dai primi mesi del 1794 gli studi teologici vengono sempre più relegati in secondo piano108, principalmente a motivo della crescente centralità delle letture filosofiche, verosimilmente inaugurate da Schelling all’inizio del 1791 con la scoperta della prima Critica di Kant. A Tubinga il giovane Schelling spiegava sovente alcuni dei punti più discussi del pensiero kantiano ai compagni di corso, eppure questo non fece mai di lui un fervido sostenitore del filosofo di Königsberg: il richiamo nei confronti di tutto ciò che era antico – le lingue mediorientali, la Bibbia, il mito – restava più forte. Tuttavia il seme della passione per la filosofia era stato gettato, anche se non riusciva ancora a germogliare. Il carattere freddo e asettico del criticismo kantiano divergeva troppo dal cuore ardente che batteva nel petto del giovane Schelling, il quale si sentiva chiamato ad una impresa più audace ed esaltante rispetto a quella destinata a cozzare contro l’intrasgredibile limite della cosa-in-sé. Schelling avrebbe trovato la “scossa” di cui era in cerca fra le pagine della Dottrina della Scienza di Fichte, l’avida lettura della quale impegnò a fondo Schelling nella primavera del 1794. L’incontro con il pensiero di Fichte fu un’autentica svolta nell’itinerario speculativo schellinghiano e rappresentò il principale motivo del graduale allontanamento del filosofo dalle letture teologiche: nel volgere dell’estate di quello stesso anno Schelling era divenuto il principale diffusore delle idee fichtiane 108

Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 52.

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all’interno dello Stift e a coronamento di quello che avvertiva come un vero e proprio apostolato nei confronti della Verità decise di intraprendere la stesura del suo primo saggio filosofico109, concluso nella prima settimana di settembre e subito inviato a Fichte medesimo, preceduto da una breve missiva nella quale il giovane studioso pregava il filosofo di accettare il suo saggio come attestazione di gratitudine ed ammirazione, definendo se stesso come qualcuno che è appena all’inizio di un percorso che egli si augurava di poter, un giorno, compiere insieme a lui110. Non sappiamo se Fichte abbia risposto o meno all’epistola di Schelling, ma quel che sappiamo per certo è che da quel momento in poi egli avrebbe sempre guardato con occhi molto interessati alla successiva produzione filosofica di Schelling: dopo tutto sarebbe stato proprio grazie al pressante interessamento di Fichte che Schelling avrebbe ottenuto, nel 1797, di essere chiamato a Jena per un incarico di docenza111. Dopo Fichte, è Spinoza l’altro nume della vocazione filosofica di Schelling. Nel segno di questi due nomi la transizione di Schelling verso la filosofia può dirsi compiuta. In una lettera risalente all’Epifania del 1795 Schelling scrive a Hegel: «ormai da qualche tempo ho interrotto i miei studi teologici. Chi preferirebbe seppellirsi vivo nelle polveri dell’antichità, quando lo spirito del suo tempo lo richiama in ogni momento a sé? Ora io vivo e ragiono per la filosofia. La filosofia non è ancora giunta alla sua conclusione»112. Nell’autunno dello stesso anno Schelling avrebbe lasciato Tubinga, chiudendo così la fase cruciale della sua formazione filosofica. La sua attenzione si è ormai stabilmente centrata sull’esito idealistico della lettura fichteana del criticismo kantia-

109 Si tratta del saggio Über die Möglichkeit einer Form der Philosophie überhaupt, in F.W.J. Schelling, Historisch-kritische Ausgabe, cit., pp. 265-300. 110 Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 56. 111 Cf. ibid., pp. 135-136. 112 G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 73, tr. nostra.

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no113, circa la quale il giovane pensatore non manca di fungere, almeno per quanto riguarda la questione della deduzione speculativa del diritto naturale, da fonte di ispirazione per lo stesso Fichte114. Sotto questo punto di vista lo scritto su Marcione115, risalente allo stesso periodo, non è che il canto del cigno delle pubblicazioni schellinghiane a sfondo teologico-esegetico.

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2. A LIPSIA Quando il padre di Schelling seppe che il barone von Riedesel di Stoccarda era in cerca di un precettore per i suoi due figli, in quanto il professor Ströhlin era andato in pensione, egli non perse tempo ed avviò una corrispondenza con Ströhlin stesso, con il fine di fare al barone il nome del figlio quale candidato a sostituirlo. Ströhlin era docente di Lingua e Letteratura francese e per questo motivo il barone, stimando saggia la scelta di proseguire sulla strada già intrapresa e in virtù del prestigio sociale e scientifico del francese, riteneva preferenziale l’opzione per uno studioso di francese quando non di un madrelingua francese. Ma Ströhlin, alle orecchie del quale il nome di Schelling era già noto, osservò che poiché l’obiettivo prima113 Vedansi a questo riguardo gli scritti filosofici che chiudono il periodo tubinghese, vale a dire F.W.J. Schelling, Vom Ich als Prinzip der Philosophie, in F.W.J. Schelling, Historisch-kritische Ausgabe, II, cit., pp. 69-175, in italiano Dell’Io come principio della filosofia, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1997; Id., Philosophische Briefe über Dogmatimus und Kritizismus, in F.W.J. Schelling, Historisch-kritische Ausgabe, III, cit., pp. 49-112, in italiano Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, a cura di G. Semerari, Laterza, Bari 1995. 114 È questo il caso, come osservato dal Plitt in Schellings Leben, cit., pp. 64-65, della Neue Deduction des Naturrechts (presente in F.W.J. Schelling, Historisch-kritische Ausgabe, III, cit., pp. 139-175) redatta da Schelling negli ultimi giorni di residenza a Tubinga e pubblicata al più tardi nel mese di gennaio 1796, vale a dire in ogni caso prima che Fichte avesse avuto modo di dare alle stampe, nel corso dello stesso anno, la Grundlage des Naturrechts. 115 Cf. F.W.J. Schelling, De Marcione paullinarum epistularum emendatore, in F.W.J. Schelling, Historisch-kritische Ausgabe, II, cit., pp. 219-255.

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rio del precettore sarebbe stato quello di preparare i due rampolli von Riedesel allo studio nell’Università di Lipsia, la scelta migliore sarebbe stata quella del giovane Schelling, che senz’altro conosceva la realtà delle università tedesche meglio di qualunque francese. Il barone acconsentì ponendo come unica condizione che Schelling accettasse di vivere per qualche tempo nella residenza dei von Riedesel a Stoccarda, così da poterne fare la conoscenza personale e da poter verificare il rapporto che si sarebbe instaurato con i due – ancora eventuali – allievi. Fu così che Schelling lasciò Tubinga verosimilmente alla fine del settembre o al massimo all’inizio dell’ottobre 1795. Le cose andarono bene: nei mesi che trascorse a Stoccarda Schelling fece un’ottima impressione sia al barone che ai suoi figli, guadagnando la stima e la fiducia di tutti. Il trasferimento a Lipsia avvenne al principio della primavera dell’anno successivo, e Schelling vi sarebbe rimasto fino al 1797, anno nel quale sarebbe stato chiamato a insegnare a Jena, in quel momento coacervo e crocevia del pensiero tedesco. Gli anni che Schelling trascorse a Lipsia rivestono una particolare importanza nel nostro studio, in quanto descrivono, come vedremo, il periodo al quale la comunità scientifica fa comunemente risalire la redazione del Systemprogramm, vero e proprio manifesto del mito moderno oltre che autentico turning point della biografia intellettuale di Schelling e dell’idealismo tedesco. Proprio per questo, prima di passare ad esaminare da vicino il contenuto ed il significato del frammento in questione, dedichiamo ancora un briciolo di attenzione alla sommaria delineazione di quel periodo. Nel biennio 1796-97 Schelling guadagna la piena maturità speculativa, sviluppando un punto di vista originale sulla filosofia coeva116. Il suo programma, osserva il Plitt, è quello di «apri116 Circa questo punto è possibile fare riferimento a G. Riconda, Schelling storico della filosofia (1794-1820), Mursia, Milano 1990, pp. 5-125.

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re la strada verso una filosofia in grado di andare al di là dei suoi precedenti confini mediante la scienza naturale»117. I limiti di cui sopra sono evidentemente quelli imposti dal criticismo kantiano ma, in realtà, anche quelli del pensiero fichteano, come Schelling avrà presto modo di realizzare. Nel momento in cui l’attenzione schellinghiana si appunta sulla natura egli mirerà infatti alla liquidazione della stessa giustapposizione fra Io e Non-Io sull’insuperabilità della quale riposa l’indeducibilità del Secondo Principio della Dottrina della Scienza. Questo esito, che farà del sistema di Schelling il primo, vero esempio di idealismo compiuto, si appalesa gradualmente negli scritti di questi anni118, nei quali emerge con sempre maggiore chiarezza quella tendenza a fare della filosofia della natura il fulcro della ricerca che renderà il giovane Schelling il filosofo più adatto ad interpretare le pulsioni e la sensibilità della Frühromantik. In definitiva, come scrive Fuhrmans, si può dire che a Lipsia Schelling visse un periodo di lavoro intenso, durante il quale restò ben poco tempo per tutto il resto, relazioni interpersonali incluse. Fu un tempo di preparazione in ogni senso, e questo Schelling voleva che fosse. Si trattò di una fase tranquilla […] durante la quale si crearono però i presupposti della chiamata a Jena119.

Se si tiene l’occhio rivolto a quella che sarà la trattazione schellinghiana del mito, intrapresa negli anni dell’insegnamento jenese nel Sistema del 1800 e poi nella Filosofia dell’Arte, è senz’altro possibile affermare come l’interesse degli scritti degli anni di Lipsia sia essenzialmente riassumibile in due punti.

G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 130, tr. nostra. Cf. F.W.J. Schelling, Allgemeine Übersicht der neuesten philosophischen Literatur, in F.W.J. Schelling, Historisch-kritische Ausgabe, IV, cit., pp. 59-224; Id., Ideen zu einer Philosophie der Natur, in F.W.J. Schelling, Historisch-kritische Ausgabe, V, cit., pp. 69-306. 119 H. Fuhrmans, F.W.J. Schelling. Briefe und Dokumente, I, Bouvier Verlag, Bonn 1962, p. 76, tr. nostra. 117

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a) La delineazione, figlia dell’esigenza di leggere la natura come un organismo vivente, di un metodo volto al coglimento della struttura processuale dell’essere. La filosofia stessa è pensata sempre più chiaramente da Schelling come storia dell’autocoscienza: una storia che si articola su differenti livelli. Sotto questo punto di vista i saggi sulla filosofia della natura del 179697 fungono con ogni evidenza da prove generali per quello che sarà il Sistema del 1800. Poiché, come vedremo, la valorizzazione filosofica del mito presuppone, in Schelling, l’idea che quest’ultimo sia un riflesso dell’indistinzione originaria dell’Assoluto, ne discende che la messa a punto della filosofia dell’identità rappresenti la precondizione del nuovo sguardo schellinghiano sul mito stesso, destinato non a caso a mostrarsi per la prima volta proprio allorché, nel Sistema, la configurazione di pensiero schellinghiana apparirà oramai completa. b) Questa direzione del pensiero schellinghiano si rivelò decisiva nell’orientare la carriera scientifica del filosofo in quanto, incrociando direttamente la nascente sensibilità romantica, diede modo a Schelling di essere letto e conosciuto anche al di fuori delle Università. La reputazione di cui il giovane filosofo si trovò a godere accrebbe le attenzioni di cui era da tempo oggetto da parte di Fichte e fece giungere il suo nome alle orecchie di Goethe. Proprio al diretto interessamento di questi due personaggi Schelling fu debitore della chiamata a Jena, città nella quale, oltre a Fichte, operavano fra gli altri Schiller, i fratelli Schlegel e Novalis: Schelling avrebbe così avuto modo di entrare da protagonista nel luogo nel quale in quegli anni si decideva il corso della cultura tedesca.

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PARTE SECONDA INTERLUDIO. L’ALBA DEL MITO MODERNO

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I. IL SYSTEMPROGRAMM

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1. QUESTIONI PRELIMINARI Quando, nel 1917, Franz Rosenzweig curò l’edizione di una pagina scritta a mano da Hegel egli, esaminatone il contenuto e datatane la stesura, decise di chiamare tale testo Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco. Si trattava di un unico foglio vergato sia sul recto che sul verso, acquistato nel 1913 da parte della Biblioteca Reale di Berlino dalla Ditta Leo Liepmannsohn. In esso, a partire dalla sottolineatura dell’autoposizione del soggetto come libero, viene sviluppata una critica allo Stato portata avanti mediante la propugnazione di una sintesi di vero e buono nella forma del bello da conseguire, infine, grazie all’edificazione di una mitologia della ragione in grado di consentire il transito dell’umanità verso un più alto livello di consapevolezza. La sterminata letteratura critica che da allora prese ad occuparsi delle righe in questione avrebbe messo più volte in discussione la maggior parte delle conclusioni che Rosenzweig aveva tratto su di esse, ma in nessun caso fu possibile negare l’importanza della sua scoperta: in virtù della precocità della sua composizione e della forza icastica delle immagini in esso presenti il Systemprogramm si impone all’attenzione di chiunque intenda lumeggiare la nascita dell’idealismo ma anche e soprattutto esplorare uno degli snodi decisivi della temperie culturale tedesca ed europea a cavallo fra Settecento ed Ottocento. Dal momento che non costituisce l’oggetto specifico del nostro studio, non entreremo analiticamente nel merito delle discussioni suscitate dal Systemprogramm, per le quali rinviamo senz’altro alla recente edizione italiana1 oltre che alle principali 1 Cf. G.W.F. Hegel - F.W.J. Schelling - F. Hölderlin, Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, a cura di L. Amoroso, ETS, Siena 2009.

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opere in lingua straniera2. Nondimeno, alla luce della rilevanza del testo in riferimento alla nostra linea di argomentazione, non ci sarà possibile esimerci dal darne almeno parzialmente conto. La prima questione con la quale è doveroso fare i conti riguarda il senso stesso del nostro interesse per una pagina manoscritta di Hegel nell’ambito di un percorso che ha per protagonista Schelling. Bisogna dunque dire che il principale nodo riguardante il Systemprogramm consiste proprio nella identità del suo autore, giacché mentre non sussistono dubbi sul fatto che il foglio sia stato materialmente redatto da Hegel, già Rosenzweig suggeriva che Hegel avesse trascritto idee o scritti non propri, e attribuiva l’effettiva paternità del frammento a Schelling. Non si tratta, d’altro canto, dell’unico nodo: allorché Rosenzweig pubblicò il frammento nel 1917 egli non si limitò a portarlo all’attenzione della comunità scientifica, ma determinò anche i binari lungo i quali la critica avrebbe dibattuto nei decenni a venire, a partire dal titolo con il quale l’opera sarebbe stata nota da quel momento. Già il fatto che per Rosenzweig la pagina in questione rappresenti il «più antico programma» dell’idealismo tedesco comporta infatti il raggiungimento di un consenso nel merito della sua dimensione programmatica e della sua datazione. In realtà, sia su un punto che sull’altro il conseguimento di una posizione in grado di mettere d’accordo gli studiosi è ben lungi dall’essere realizzato. Secondo D. Heinrich sarebbero ad esempio da rimettere in discussione tanto la dimensione programmatica del frammento quanto la sua precedenza cronologica3. Mentre la prima sarebbe da escludere sulla base del tono colloquiale ed al tempo 2 Cf., in ordine cronologico, R. Bubner, Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus. Studien zur Frügeschichte des deutschen Idealismus, in «Hegel Studien», IX, Bonn 1973; C. Jamme - H. Schneider, Mythologie der Vernunft, cit.; F.P. Hansen, Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus, De Gruyter, Berlin-New York 1989. 3 Cf. D. Heinrich, Systemprogramm? Vorfragen zum Zurechnungsproblem, in R. Bubner, Das älteste Systemprogramm, cit., pp. 5-16.

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I. IL SYSTEMPROGRAMM

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stesso irruento del Systemprogramm, il quale rende l’idea di un pensiero in divenire non ancora cristallizatosi al punto da poter essere fatto oggetto di una lucida esposizione programmatica, per quanto riguarda il secondo aspetto la precedenza spetterebbe al testo Urteil und Sein di Hölderlin, risalente al 1795. Questo passaggio implica la trattazione del problema della datazione, risolta inizialmente da Rosenzweig con l’opzione per il 1796. In effetti, a seguito di una serie piuttosto articolata di analisi sulla filigrana della carta del foglio e delle sue caratteristiche fisiche (tagli, piegature, macchie) per le quali si rinvia al già citato testo di Jamme e Schneider4, è almeno possibile fissare il 1796 quale terminus a quo oltre il quale non risalire, mentre resta in piedi l’ipotesi di una stesura fra gli ultimi giorni del 1796 e i primi del 1797. Come si vede, la precedenza del frammento di Hölderlin resta indiscutibile anche se questo non consente, a nostro parere, di far derivare il contenuto del Systemprogramm da quello di Urteil und Sein: mentre quest’ultimo verte interamente sul problema della separazione e della relazione fra Soggetto ed Oggetto, dietro la quale si lascia chiaramente cogliere la discussione del problema dell’intuizione intellettuale generata dalla Dottrina della Scienza di Fichte pubblicata appena un anno prima (1794), il contenuto del Systemprogramm è decisamente più vario e, se si vuole, meno organico. Come osserva Cometa, in esso è possibile distinguere almeno tre nuclei tematici5: il primo legato alla questione etica ed imperniato sul ripensamento della Postulatenlehre di Kant, il secondo avente ad oggetto lo sviluppo di una teoria estetica sulla falsariga di Schiller ed il terzo – il più originale – centrato sulla necessità di dare vita ad un mito moderno all’interno di una mitologia della ragione (Mythologie der Vernunft) destinata a favorire una palingenesi spirituale e sociale nella quale si lascia cogliere il senso del tono messianico del frammento. 4 5

Cf. C. Jamme - H. Schneider, Mythologie der Vernunft, cit., pp. 9-62. Cf. M. Cometa, Iduna. Mitologie della ragione, cit., pp. 27ss.

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Il Systemprogramm consente pertanto di gettar luce sulla rilevanza che l’argomento del mito moderno avrebbe rivestito negli anni che vedevano compiersi contemporaneamente la maturazione della Frühromantik jenese – che avrebbe trovato il suo momento decisivo di coagulazione nella fondazione della rivista Athaeneum nel 1798 ad opera di Novalis ed August e Wilhelm Schlegel – e dell’idealismo6, anni durante i quali Schelling estremizza le tendenze “illuministiche” della sua formazione tubinghese, già emerse dalla riscoperta del mito nel Sui miti, nella direzione di una critica radicale alla cultura contemporanea7. Ma questa critica non si esprime nella decisione di preparare una rivoluzione vera e propria e sfocia piuttosto nella scelta, che accomuna i tre sodali Schelling, Hegel e Hölderlin (fra i quali certamente si cela l’autore del frammento), di dare vita ad una “rivoluzione teorica” di cui lo stesso frammento è traccia privilegiata. L’idea che il mito debba occupare una posizione di assoluto rilievo all’interno di questo discorso ha radici nel pensiero di Herder8, autore nel 1796 di un testo intitolato Iduna, oder der Apfel der Verjüngung, nel quale viene difesa l’idea della perenne validità del mito e della sua capacità rigenerante, innestata nel profondo dell’essenza umana. Questa tesi, propugnata da Herder con la consueta prosa vibrante ed appassionata, in realtà differisce alquanto dall’impostazione dell’autore del Systemprogramm, poiché più che una “rivoluzione” sembrerebbe implicare una “restaurazione”, ma ha comunque il merito di esprimere per la prima volta in modo chiaro quanto avevamo cercato di trovare adombrato fra le righe schellinghiane di Sui miti nel 1793. Mano a mano che Schelling guadagna sicurezza e padronanza dei propri mezzi speculativi, il peso dell’influenza esercitata sul suo pensiero dall’impostazione heyniana diminuisce,

6 Cf. L. Knatz, Kunst-Geschichte-Mythos, Königshausen & Neumann, Würzburg 1999, p. 255. 7 Cf. C. Cesa, Il pensiero politico di Schelling, cit., pp. 64-68. 8 Cf. M. Cometa, Iduna, cit., pp. 1-6.

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I. IL SYSTEMPROGRAMM

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consentendo ai tratti originali di emergere: così, ad esempio, lo studio mitico rivolto al passato nel Sui miti si trasforma, nel Systemprogramm, nell’attenzione rivolta alla progettazione di una mitologia della ragione prossima a venire9. Ma sarebbe prematuro procedere lungo questa china senza aver prima affrontato la questione delle questioni inerente il Systemprogramm, vale a dire quella relativa alla sua paternità.

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2. IL PROBLEMA DELL’AUTHORSCHAFT La domanda circa la paternità del frammento ha interpellato i maggiori studiosi della filosofia classica tedesca sin dall’anno della sua pubblicazione: si può ben dire che negli ultimi novant’anni non vi sia stato interprete di spicco dell’idealismo tedesco che non si sia misurato, in modo più o meno originale e proficuo, con la questione10. Va tuttavia preliminarmente detto come alcuni di essi, al termine delle loro ricerche, abbiano raggiunto la conclusione dell’insolubilità della questione o addirittura della sua irrilevanza. D. Heinrich11 osserva ad esempio che, in virtù della data di composizione del frammento, è estremamente difficile poter ricondurre con certezza la sua stesura ad uno in particolare fra Hegel, Schelling ed Hölderlin. Bisogna infatti considerare come fra i tre esistesse, tra il 1796 ed il 1797, una notevole concordanza di vedute, con la conseguenza che influenze reciproche e suggerimenti erano verosimilmente all’ordine del giorno. Per questo motivo, come apertamente sostenuto da H. Braun12, l’asseveramento di un autore determinato risulterebbe Cf. T. Griffero, Senso e immagine, cit., pp. 235-236. Per una rassegna esaustiva delle varie proposte avanzate al riguardo presentate in ordine cronologico cf. F.P. Hansen, Das älteste Systemprogramm, cit., pp. 19-345. 11 Cf. D. Heinrich, Vorfragen, cit., pp. 10-15. 12 Cf. H. Braun, Philosophie für Freie Geister, in R. Bubner, Das älteste Systemprogramm, cit., p. 24. 9

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non solo impossibile ma di fatto inutile, in quanto il contenuto del Systemprogramm andrebbe riferito al circolo dei tre ex studenti di Tubinga nel suo insieme, colto quale momento sorgivo tanto del Romanticismo – del quale Hölderlin sarebbe poi diventato il maggiore esponente poetico – quanto dell’idealismo filosofico a cui Schelling ed Hegel avrebbero in seguito dato forma. L’idea del frammento come testimonianza privilegiata di un momento in cui le sorti di Romanticismo e Idealismo non si erano ancora separate è indubbiamente affascinante, anche perché ne aumenta l’importanza estendendola ben al di là della definizione di Rosenzweig. Proprio per questo, rileva F. Strack13, non è opportuno accettare il dissolvimento della specifica identità del suo autore, soprattutto alla luce del fatto che nel testo abbondano espressioni in prima persona come «dalla natura passo all’opera umana», «voglio qui stendere i principi», «ora io sono convinto», e ancora «per la prima volta parlerò qui», mentre i plurali sembrerebbero rispondere più ad un’esigenza retorica che ad un effettivo “lavoro di gruppo” nella redazione. Forti di questo intendimento, veniamo a prendere brevemente in considerazione le principali ipotesi di attribuzione ai tre autori. 2.1. Hölderlin? L’ipotesi che il Systemprogramm fosse da attribuire ad Hölderlin fu avanzata per la prima volta da W. Böhm14 nell’ormai lontano 1926 ed è stata ripresa, in tempi più recenti, nel già citato saggio di Strack15. 13 Cf. F. Strack, Das Systemprogramm und kein Ende, in R. Bubner, Das älteste Systemprogramm, cit., p. 107. 14 Cf. W. Böhm, Hölderlin als Verfasser des Ältesten Systemprogramms des deutschen Idealismus, in «Deutsche Vierteljahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», IV, 1926, pp. 339-426. 15 Cf. F. Strack, Das Systemprogramm, cit., pp. 107-150.

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Alla fondamentale rivendicazione del rilievo nel frammento di temi squisitamente hölderliniani come il ruolo salvifico della bellezza e la necessità di una mitologia moderna declinata nella forma di un “reincantamento del mondo”, che secondo Böhm erano ancora sostanzialmente assenti nella speculazione di Schelling ed Hegel, Strack aggiunge una serie di considerazioni volte per un verso ad escludere l’attribuzione a Schelling e Hegel, per l’altro a mostrare la ragionevolezza di quella ad Hölderlin. Nel 1796, osserva Strack, Hegel, nel suo “esilio” a Berna, era troppo isolato per concepire una sintesi potente come quella presente nel Systemprogramm: si potrebbe anzi dire che i suoi unici contatti con il mondo fossero dovuti ai frequenti scambi epistolari che il filosofo intratteneva proprio con Schelling ed Hölderlin, dalle suggestioni dei quali egli sarebbe dipeso e ai quali la questione della paternità andrebbe pertanto circoscritta. Ma anche in Schelling tanto il tema della bellezza quanto quello della nuova mitologia sarebbero stati ancora lontani dall’avere l’importanza che avrebbero avuto nel Sistema del 1800. Osserviamo però che se questa sottolineatura è inequivocabile quanto alla bellezza, risulta più problematica in riferimento al mito, dal momento che l’argomento era già stato al centro dell’interesse schellinghiano nel saggio del 1793, se pure non ancora nella forma della delineazione di una nuova mitologia della ragione. In effetti pare alquanto ostico trovare una menzione di questa tematica che si possa accostare a quella presente nel Systemprogramm, cosa di cui sembra d’altro canto avere piena contezza lo stesso autore del frammento allorché ne scrive usando queste parole: «per la prima volta parlerò qui di una idea che, a quanto ne so, non è ancora venuta in mente a nessuno: noi dobbiamo avere una nuova mitologia»16. Di fronte a questa novità dichiarata, che costituisce il tratto più interessante e fecondo del frammento, non ci pare possibile 16

Hegel-Schelling-Hölderlin, Il più antico programma, cit., p. 25.

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cercare “precedenti” di sorta, né in Schelling né in Hölderlin, ma eventualmente soltanto parlare di percorsi speculativi interpretabili come più o meno capaci di assolvere alla funzione di “premessa” o “preparazione” al Systemprogramm. A questo mira la seconda parte dell’analisi di Strack, che intende mostrare come il problema della riconciliazione fra mondo ed essere morale presente nel frammento sia del tutto inconciliabile con l’impostazione già risolutamente idealista adottata da Schelling nel suo Dell’Io del 1795, nel quale tale dilemma, ereditato da Kant, appare già superato alla luce dell’accettazione della dottrina fichteana dell’Io assoluto. In effetti è indubbio che la prima parte del frammento risenta esplicitamente della filosofia di Kant, come si evince chiaramente dalla domanda: «il problema è questo: come dev’essere fatto un mondo per un ente morale?»17. Tuttavia tale interrogazione è immediatamente preceduta dall’affermazione, eventualmente decisamente in linea con il Dell’Io e per nulla kantiana, secondo la quale «la prima idea è naturalmente la rappresentazione di me stesso come essere assolutamente libero. Con l’essere libero, autocosciente, sorge al contempo un intero mondo dal nulla»18. Ad ogni modo la vera colonna portante della lettura di Böhm e Strack è la sottolineatura dell’intreccio fra culto della bellezza e mitologia, evidentemente al centro del pensiero di Hölderlin già nel primo libro dell’Iperione, la cui pubblicazione incrocia direttamente i mesi nei quali il frammento vide verosimilmente la luce19. Come osserva Strack, Schelling era ancora Ibid., p. 21. Ibid. 19 Per una breve delineazione dell’itinerario di Hölderlin, soprattutto in relazione all’anticipazione della categoria schellinghiana di intuizione estetica, è possibile fare riferimento al saggio di G. Meinhold, Die Deutung des Schönen. Zur Genese der intellectualen Anschauung bei Hölderlin, in F. Strack (hrsg.), Evolution des Geistes: Jena um 1800, Cotta, Stuttgart 1994, pp. 373392. Per quanto riguarda una introduzione al tema estetico nell’Iperione cf. G. Moretti, Introduzione all’estetica del romanticismo tedesco, Nuova Cultura, Roma 2007, pp. 99-103. 17

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troppo ostile all’idea stessa di religione per ritenere che si potesse edificare un nuovo illuminismo sulla base della mitologia intesa quale culto del bello, mentre Hölderlin legge avidamente le Lettere sull’educazione estetica del genere umano di Schiller negli stessi giorni nei quali attende alla stesura di Urteil und Sein e matura la convinzione che solo l’unificazione della bellezza con il mito in una nuova religione possa realizzare la finalità educativa dell’estetica propugnata da Schiller. La prova decisiva del fatto che Hölderlin avrebbe guadagnato per primo questa prospettiva, che si trova direttamente alla base del Systemprogramm, verrebbe proprio dalla stesura, praticamente contemporanea a quella del frammento, del già citato primo libro dell’Iperione20. Resta però difficile mettere d’accordo il tono amaro e disilluso del romanzo, centrato sul senso di inadeguatezza provato dal giovane Iperione nel constatare la perduta grandezza della Grecia e la sua attuale miseria incarnata nella sottomissione alla Turchia, con l’afflato messianico con il quale l’autore del frammento annunzia all’umanità il prossimo avvento di una nuova età dello spirito, procacciata da chi, più che rimpiangere un passato idealizzato, ha la certezza di riuscire a preparare la via al futuro21. Che, però, il leitmotiv dell’Iperione – la mitologia della bellezza capace di forza salvifica – incontri frontalmente la materia del Systemprogramm è convinzione diffusa anche fra alcuni degli studiosi che propendono per la paternità hegeliana dello scritto, così come la convinzione che l’obiezione di Böhm circa l’impossibilità che Schelling potesse scrivere certe cose nel 1796 resti insuperabile. O. Pöggeler ritiene che Hegel abbia composto il frammento a Francoforte nel 1797 sotto l’influsso di Hölderlin, a sua volta a Francoforte dal giugno 1796 e la 20 Per un inquadramento della tematica mitica in Hölderlin è possibile fare riferimento a U. Gaier, Hölderlin und der Mythos, in M. Fuhrmann (hrsg.), Terror und Spiel, cit., pp. 295-340. 21 Non che, peraltro, non sia possibile riscontrare un tale ordine di considerazioni anche nel pensiero di Hölderlin. Cf. su questo argomento L.A. Macor, Friedrich Hölderlin fra Illuminismo e rivoluzione, ETS, Pisa 2006.

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presenza del quale nel Systemprogramm sarebbe «inequivocabile» nei passi inerenti la bellezza come sintesi di vero e buono22. Lo stesso Pöggeler asserisce anche che proprio nell’amicizia di Hölderlin e Hegel, iniziata durante gli studi a Tubinga e proseguita a Francoforte, andrebbe ricercata la chiave di accesso al significato più profondo del frammento, evidentemente legato a doppio filo a quella idea di rivoluzione in nome del bello vagheggiata nell’Iperione in forma letteraria e della quale il Systemprogramm altro non sarebbe che la traduzione speculativoprogrammatica23. Questa influenza di Hölderlin su Hegel, che avvalora l’idea di questi come studioso ancora in cerca di una sua identità rispetto ad uno Schelling in qualche modo già fichteano convinto e ad un Hölderlin già sostanzialmente romantico, viene accettata anche da C. Jamme, il quale però, a differenza di Pöggeler, la declina nella forma di una reazione hegeliana alla “sfida” portata dall’Iperione24, costituita precisamente dallo scacco cui è costretto nel mondo un soggetto morale (questione etica) dotato di profondo senso estetico (questione estetica) in assenza di una sintesi (mitologia della ragione). A tale compito avrebbe atteso l’autore del Systemprogramm, cioè, secondo Pöggeler e Jamme, lo stesso Hegel. 2.2. Hegel? Potrà suscitare un qualche stupore il fatto che, nonostante la grafia del frammento fosse manifestamente di Hegel e il 22 Cf. O. Pöggeler, Hegel, der Verfasser des ältesten Systemprogramms des deutschen Idealismus, in C. Jamme - H. Schneider, Mythologie der Vernunft, cit., pp. 126-127. 23 Cf. O. Pöggeler, Hölderlin, Hegel und das älteste Systemprogramm, in R. Bubner, Das älteste Systemprogramm, cit., pp. 220-223. 24 Cf. C. Jamme, Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus, in C. Jamme - H. Schneider, Mythologie der Vernunft, cit., pp. 45-46.

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frammento stesso fosse stato rinvenuto all’interno di una raccolta di testi hegeliani, l’effettiva attribuzione a Hegel del suo contenuto sia stata rivendicata soltanto nel 196525, mentre nei cinquant’anni precedenti la scena era stata contesa dalle opposte scuole schellinghiane e hölderliniane. L’attribuzione del frammento ad Hegel, che negli ultimi quarant’anni ha fatto registrare consensi sempre crescenti fra gli studiosi fino a guadagnare una posizione di egemonia, riposa secondo Pöggeler su due pilastri: in primo luogo, la forte affermazione del fatto che, in assenza di un originale manoscritto ascrivibile a Schelling o Hölderlin, non vi sia motivo ragionevole per dubitare che Hegel, oltre che l’estensore, sia stato anche l’ideatore del contenuto del frammento. Il che significa che l’onus probandi ricade interamente sulle spalle degli avversari della scuola hegeliana, i quali non possono limitarsi a suggerire le eventuali, maggiori affinità della situazione speculativa schellinghiana o hölderliniana con il contenuto del frammento, ma sono invece chiamati a produrre prove documentarie definitive che siano in grado di escludere quello che, allo stato della ricerca, è l’unico dato di fatto, vale a dire che quel foglio sia stato materialmente redatto dalla mano di Hegel. In secondo luogo, Pöggeler non nega la difficoltà di ricondurre direttamente al pensiero di Hegel la tematica, centrale nel frammento, della bellezza, ma tenta di aggirarla facendola risalire al rapporto con Hölderlin, in particolare alla ripresa della frequentazione fra i due a seguito del trasferimento di Hegel a Francoforte, con conseguente proposta di datazione del Systemprogramm alla prima metà del 1797, vale a dire leggermente più tardi rispetto a quella avanzata da Rosenzweig26. Rovesciando l’accusa di incompatibilità, Pöggeler osserva poi che questa stessa critica può essere mossa soprattutto 25 Cf. O. Pöggeler, Hegel, der Verfasser des ältesten Systemprogramms des deutschen Idealismus, in Hegel-Tage Urbino 1965, a cura di H.G. Gadamer, in «Hegel Studien», IV, 1969, ora in C. Jamme - H. Schneider, Mythologie der Vernunft, cit., pp. 126-142. 26 Cf. O. Pöggeler, Hölderlin, cit., pp. 231-240.

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a Schelling per quanto concerne la tematica del mito, rispetto alla quale le posizioni del filosofo di Leonberg erano, nel 17961797, ancora sostanzialmente le stesse del 1793; del pari, sempre la tematica mitica sarebbe il grimaldello per escludere dalla partita anche Hölderlin, il quale guarda al mito con gli occhi che saranno propri alla Romantik jenese, declinandolo cioè in senso estetico e naturalistico ma non certo in quello della mitologia della ragione. La nuova mitologia della ragione corona invece il percorso alla ricerca della religione sensibile, già intrapreso da Hegel negli scritti teologici giovanili. Altri autori hanno ripreso e sviluppato il cuore di queste tesi, argomentando la concordanza della mitologia della ragione con la filosofia della natura jenese di Hegel27 e sottolineando, più in generale, l’importanza della chiusa del frammento: «uno spirito superiore, inviato dal cielo, deve fondare fra noi questa nuova religione che sarà l’ultima, la più grande opera dell’umanità»28. Tali parole presupporrebbero la questione della modernità come luogo dell’ultima riforma religiosa, dell’instaurazione della “chiesa invisibile” da porsi direttamente in relazione con la fondazione della mitologia moderna, avvertita da sempre con la massima urgenza da Hegel e invece del tutto assente nel più illuminista giovane Schelling29. Quanto alla dottrina etica con la quale si apre il Systemprogramm essa rivelerebbe, secondo Düsing30, l’utilizzo positivo della dottrina kantiana dei postulati tentato dall’autore 27 Cf. J.H. Trede, Mythologie und Idee, in R. Bubner, Das älteste Systemprogramm, cit., p. 167. 28 Hegel-Schelling-Hölderlin, Il più antico programma, cit., p. 27. 29 Cf. K. Düsing, Die Rezeption der kantischen Postulatenlehre in den frühen philosophischen Entwürfen Schellings und Hegels, in R. Bubner, Das älteste Systemprogramm, cit., pp. 82ss.; A. Gethmann-Siefert, Die geschichtliche Funktion der Mythologie der Vernunft, in C. Jamme - H. Schneider, Mythologie der Vernunft, cit., p. 226; F.P. Hansen, Das älteste Systemprogramm, cit., pp. 366-367. 30 Cf. K. Düsing, Die Rezeption, cit., p. 82.

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del frammento, il quale doveva evidentemente aver chiara la distinzione di tale dottrina rispetto alla cosiddetta “ortodossia” morale tubinghese, ben presente in Hegel e non altrettanto in Schelling. Questi, fedele alla rigorosa obbedienza fichteana, condannava entrambe e mostrava un atteggiamento molto più intransigente nei confronti dello stesso Kant. Il filosofo di Königsberg, d’altro canto, gioca un ruolo decisivo nella formazione giovanile di Hegel, come si può evincere dalla esaltazione della figura di Gesù come maestro morale e dalla critica alla religione positiva e al sacerdozio presenti ne La vita di Gesù (1795) ripresi quasi alla lettera dallo scritto kantiano La religione nei limiti della pura ragione del 1793. Da questa impostazione kantiana, molto più debole in Schelling, Hegel si sarebbe allontanato solo dopo la partenza da Berna, allorché a Francoforte il confronto serrato con Hölderlin e la lettura di Schiller (avvenuta intorno alla metà del 1796, dunque dopo Hölderlin) gli avrebbero aperto gli occhi sulla necessità di procedere ad una sintesi estetica di vero e buono: evidentemente quella medesima sintesi il cui avvento viene predicato nel Systemprogramm31. 2.3. Schelling? L’ipotesi della paternità schellinghiana del frammento fu la prima ad essere avanzata e godette per lunghi anni del prestigio derivante dal fatto che nella prima edizione del Systemprogramm lo stesso Rosenzweig si fosse espresso autorevolmente in questo senso: nonostante la proposta hölderliniana avanzata da Böhm nel 1926 si può dire che tale attribuzione non fu mai seriamente messa in dubbio fino a quando, nel 1965, non si fece largo l’opzione hegeliana.

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Cf. C. Jamme, Das älteste Systemprogramm, cit., pp. 45-54.

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Tuttavia, proprio nel corso dello stesso convegno urbinate nel quale Pöggeler presentò l’attribuzione a Hegel, X. Tilliette32 rilanciò l’ipotesi schellinghiana, ribadendo i principali argomenti forniti da Rosenzweig e proponendone di nuovi. L’asse portante dei sostenitori di Schelling quale autore del frammento è dato dalla convinzione che il contenuto di quest’ultimo, all’interno del quale viene data predominanza alle questioni della bellezza e del mito, sia non solo coerente con quello che era il pensiero di Schelling nel 1796-1797, ma anche e soprattutto con quelli che sarebbero stati gli sviluppi della sua filosofia. Detto altrimenti, si tratterebbe di rilevare che, se il Systemprogramm voleva essere un manifesto programmatico, all’attuazione effettiva di tale programma sarebbe dedicato il solo Schelling. Solo nel suo complesso itinerario speculativo si incontrerebbe, infatti, quel sodalizio unico fra la lucidità teoretica necessaria all’elaborazione di un sistema – assente in Hölderlin – e la disponibilità a prendere davvero sul serio la dimensione tautegorica del mito e dell’arte – assente in Hegel. Vero è, come osserva Pöggeler, che a valutare la schellinghiana filosofia del mito del 1797 avendo già in mente quello che sarebbe diventata decenni dopo si può correre il rischio di falsarne la prospettiva, tuttavia non ci si può sbagliare nel momento in cui si pensa di poter “estrarre” dagli sviluppi del secondo Schelling delle linee di indagine i cui prodromi devono pur essere riconoscibili anche nel suo pensiero giovanile33. L’idea secondo cui, dato per certo che la mano di Hegel abbia redatto la pagina del frammento, la direzione della sua ricerca successiva valga a smentire de facto – ancorché ovviamente non de jure – l’originale ispirazione hegeliana di quelle righe esprime la ragione più forte in base alla quale Rosenzweig,

32 Cf. X. Tilliette, Schelling als Verfasser des Systemprogramms, in HegelTage Urbino 1965, a cura di H.G. Gadamer, «Hegel Studien», IV, 1969, ora in R. Bubner, Das älteste Systemprogramm, cit., pp. 35-52. 33 Cf. G. Dekker, Die Rückwendung, cit., pp. 22-23.

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pur trovandosi di fronte ad una pagina vergata con la grafia di Hegel e collocata fra altri scritti hegeliani, non ebbe dubbi nel riferirne la reale ispirazione a Schelling vedendo in Hegel soltanto un trascrittore. Questa lettura del 1917 viene ripresa, come abbiamo detto, da Tilliette nel 1965 e proprio da Tilliette dipendono direttamente quanti, fra gli studiosi dell’idealismo, si trovano concordi nel ritenere decisivo l’argomento dell’incoerenza delle tematiche principali del frammento rispetto al pensiero hegeliano34. Le prove della paternità schellinghiana del Systemprogramm andrebbero pertanto ricercate sia nella produzione di Schelling precedente che in quella successiva. Per quanto riguarda quest’ultima, il riferimento che l’autore del frammento fa alla necessità di ridare le ali alla nostra lenta fisica che procede a fatica fra gli esperimenti. Così, se la filosofia dà le idee, e l’esperienza i fatti, potremo finalmente ottenere quella fisica in grande che io mi aspetto da epoche avanzate. Non sembra che la fisica d’oggi possa soddisfare uno spirito creatore quale il nostro è o deve essere35

porta senz’altro acqua al mulino dell’attribuzione del testo a Schelling se si tiene presente che di lì a qualche mese, e per tutti i tre anni successivi, il filosofo avrebbe profuso il massimo impegno nel tentativo di rifondare la filosofia della natura iniziando proprio dalla fisica, in particolare a partire dalle Ideen del 1797 passando per le innumerevoli pubblicazioni uscite sulla Rivista di fisica speculativa (Zeitschrift für die spekulative Physik) fino al più importante Sistema dell’idealismo trascendentale del 1800. In aggiunta a ciò, già Rosenzweig aveva notato come, proprio al termine del Sistema, Schelling facesse riferimento ad un 34 Cf. H. Braun, Philosophie für freie Geister, cit., pp. 27-32; T. Griffero, Senso e immagine, cit., p. 239; L. Knatz, Kunst-Geschichte-Mythos, cit., pp. 255-256. 35 Cf. Hegel-Schelling-Hölderlin, Il più antico programma, cit., p. 21.

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proprio «precedente lavoro sulla mitologia». Dal prosieguo del passo si evince inoltre come non possa trattarsi del saggio del 1793 in quanto l’oggetto del discutere non è tanto la mitologia isolatamente considerata, ma la sua relazione originaria con poesia e filosofia, alla luce della quale così come il pensiero è nato in grembo alla poesia ed alla mitologia è lecito attendersi che ad esse questo debba fare ritorno. Il tono, profetico e trasognato al tempo stesso, rievoca indubbiamente quello usato dall’autore del frammento tre anni prima. È, questo, l’unico riferimento ad uno scritto schellinghiano andato perduto del quale avremmo poi posseduto solo le trascrizioni fatte da Hegel nel Systemprogramm? Si tratta di una ipotesi suggestiva, forse addirittura verosimile in considerazione della precocità della maturazione filosofica di Schelling e della natura del suo rapporto con Hegel. Ciò detto, allo stato dell’arte risulta senz’altro impossibile dare una risposta certa. Né l’oggettiva consonanza della filosofia del mito schellinghiana posteriore, né la testimonianza del saggio del 1793, cui Tilliette guarda come ad una delle prove decisive utili a gettare un ponte fra lo Schelling di Tubinga e l’autore del Systemprogramm, e nemmeno la tabella comparativa con la quale Tilliette conclude il suo saggio allo scopo di mostrare l’insistenza con la quale parole chiave ed espressioni presenti nel frammento ricorrrono nelle opere coeve di Schelling rispetto a quelle di Hegel, sono sufficienti a dissipare il mistero che tuttora avvolge l’autore del frammento del 1796-1797. Come, quasi vent’anni dopo, avrebbe avuto a dire lo stesso Tilliette36, evidentemente scosso nelle sue certezze dall’analisi di Pöggeler, la questione della paternità del Systemprogramm risulta probabilmente insolubile, anche se la maggior parte degli elementi in esso presenti mantengono aperta una pista che conduce direttamente al Sistema dell’idealismo trascendentale prima ed alla Filosofia dell’Arte poi. 36

X. Tilliette, La mythologie comprise, cit., pp. 17-18.

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Con questa chiusa, che potremmo utilizzare come una bussola per l’andamento della presente ricerca, prendiamo ora congedo dalla trattazione con la quale abbiamo voluto dare brevemente conto delle fondamentali questioni storiografiche insolute relative all’inquadramento del Systemprogramm e passiamo a esaminarne i principali nodi teoretici.

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3. IL NODO ETICO: IL RIPENSAMENTO DELLA POSTULATENLEHRE DI KANT Veniamo finalmente a leggere le parole con le quali l’autore del Systemprogramm sviluppa la parte etica del suo programma: un’etica. Poiché in futuro l’intera metafisica rientrerà nella morale (cosa di cui Kant, con i suoi postulati pratici, ha solo dato un esempio, ma che non ha affatto portato a compimento), quest’etica non sarà nient’altro che un sistema completo di tutte le idee o – il che è lo stesso – di tutti i postulati pratici. La prima idea è naturalmente la rappresentazione di me stesso come un essere assolutamente libero. Con l’essere libero, autocosciente, sorge al contempo un intero mondo dal nulla – l’unica creazione dal nulla vera e pensabile. Qui calerò nei campi della fisica; il problema è questo: come dev’essere fatto un mondo per un ente morale? Vorrei una buona volta ridare le ali alla nostra lenta fisica che procede a fatica fra gli esperimenti37.

Bisogna in primo luogo osservare come non sia possibile conoscere quali argomenti l’autore avesse portato avanti nelle righe precedenti, in quanto il frammento inizia laddove una frase si chiude con le parole “un’etica”; si può pertanto ipotizzare che la parte destinata alla trattazione etica fosse decisamente più estesa, dal momento che nelle righe citate la questione viene 37 Cf. Hegel-Schelling-Hölderlin, Il più antico programma, cit., p. 21. Le parole in corsivo sono sottolineate nella versione originale.

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discussa soltanto nelle sue considerazioni conclusive. Questo, d’altro canto, se ci impedisce di valutare le vie attraverso le quali tali conclusioni erano state guadagnate, ci consente almeno di confrontarci con quella che, verosimilmente, dovrebbe essere la parte più interessante ed originale della trattazione. Si ha qui a che fare con il tentativo, peraltro proprio a tutta la generazione preromantica, di procedere oltre Kant nel segno di Kant. Questo il senso del voler seguire una via cui il filosofo di Königsberg avrebbe più o meno implicitamente additato (fornendone «un esempio») senza tuttavia intraprenderne l’esplorazione (un esempio che dunque non è stato «portato a compimento»). Il mezzo mediante il quale realizzare la conversione della metafisica in morale sarebbe dunque dato dalla identificazione di idee e postulati pratici. Onde chiarire questo punto l’autore del frammento adduce l’esempio della «rappresentazione di me stesso come un essere assolutamente libero». Poiché però tale asserto postulatorio non può restare sul solo piano morale, esso dà luogo alla seconda affermazione secondo la quale «con l’essere libero, autocosciente, sorge al contempo un intero mondo dal nulla», con il che la saldatura fra morale e metafisica diviene evidente. Mentre in Kant l’esistenza del postulato, definito «una proposizione teoretica, ma non dimostrabile come tale, in quanto inerisce inseparabilmente a una legge pratica che vale incondizionatamente a priori»38, riposa sull’evidenza della legge morale e sulla necessità che il sommo bene, ossia la coincidenza della virtù (consistente nell’esercizio di tale legge) e della felicità, possa essere realmente attuato, l’autore del Systemprogramm recide da principio il nodo gordiano rappresentato dalla difficoltà kantiana di accordare la legge del mondo con la legge morale. Dal postulato della libertà del soggetto morale discende quella 38 I. Kant, Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2004, pp. 261-263.

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che, con chiara asprezza antireligiosa, l’autore del frammento definisce «unica creazione dal nulla vera e pensabile», vale a dire l’autoposizione del soggetto cui fa inevitabilmente seguito anche il sorgere dal nulla del mondo. Mondo ed Io si coappartengono reciprocamente sin dall’inizio. Questo non significa che l’autore del frammento non sia già talmente lontano dalla prospettiva kantiana da non porsi più nemmeno il problema del loro accordo: «il problema è questo: come dev’essere fatto un mondo per un ente morale?»39. Ma questo interrogativo, come abbiamo visto nella citazione estesa poco sopra, conduce non tanto a problematizzare il plesso Io-Mondo, la cui realtà originaria non viene messa in discussione, quanto ad introdurre la questione dell’effettiva dimostrazione dell’essere-per-l’Io del mondo mediante l’edificazione di una «fisica in grande» all’altezza dello «spirito creatore» del tempo presente. A cosa ci si riferisce qui con l’idea di uno «spirito creatore» (schöpferische Geist)? Lo spirito creatore evidentemente non è altri che lo spirito moderno, educato ad essere creatore dalla trasformazione della soggettività trascendentale kantiana nell’Io metafisico fichteano. Sotto questo punto di vista la nuova fisica non potrà che essere una fisica in grado non tanto di studiare la realtà materiale, quanto di costruirla, o, meglio ancora, dedurla come dirà Schelling nel 1800 nella Deduzione universale del processo dinamico (Allgemeine Deduktion des dynamischen Prozesses). Lo spazio del moderno è, per l’autore del Systemprogramm, lo spazio dell’autoaffermazione assoluta dell’Io, la cui libertà, da Kant soltanto postulata, assurge ora a punto focale sul quale far poggiare la creazione di ogni realtà. Per questo motivo è giusto sottolineare l’estrema importanza delle prime righe del frammento, dietro le quali si lascia chiaramente cogliere il ripensamento della dottrina kantiana dei 39

Cf. Hegel-Schelling-Hölderlin, Il più antico programma…, cit., p. 21.

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postulati cercato in quel momento tanto da Schelling quanto da Hegel40, a sua volta utilizzabile come filigrana della modernità delineata dalla generazione preromantica e postkantiana. Ma, come già sappiamo, l’infatuazione per Kant non si trasforma mai, in Schelling, in vera e propria passione, e l’ammirazione per la svolta prodottasi nella filosofia grazie al criticismo fa sempre il paio con la considerazione dei limiti insiti sia in Kant che nella sua scuola, come scrive lo stesso Schelling in una lettera vergata all’inizio del 1795: Kant ha spazzato via tutto […] ma i grandi kantiani sono rimasti fermi alla lettera e sono spaventati di fronte all’idea di guardare più in là. Io sono sempre più convinto che la vecchia superstizione della religione positiva, ma anche della cosiddetta religione naturale, si sia combinata, nella testa dei più, con l’ortodossia kantiana41.

Tale ripulsa nei confronti di ogni considerazione religiosa costituisce uno dei caratteri più tipici del giovane Schelling, così come l’avversione ed il desiderio di abbattere quella «superstizione» (Aberglaube) in cui ogni religione sembra consistere è indubbiamente un elemento che può gettare un ponte verso la pars destruens del Systemprogramm, oltre che marcare il segno della differenza rispetto ad Hegel. Mentre, infatti, l’interesse hegeliano alla questione dei postulati si spiega soprattutto con l’esigenza di trovare un uso pratico delle idee42 destinate così a dare corpo alla nuova fondazione religiosa, Schelling si spinge ben oltre: egli modifica completamente il senso del postulato dell’esistenza di Dio contrapponendosi sia alla scuola di Tubinga che allo stesso Kant. Schelling non postula l’esistenza di un creatore divino del mondo, ma esige lo sforzo verso la realiz40 Cf. K. Düsing, Die Rezeption, cit., p. 53. Su questo punto vedasi anche il Plitt, il quale ritiene che proprio lo studio di Kant abbia cementato il sodalizio fra Schelling e Hegel: cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 70. 41 G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 73, tr. nostra. 42 Cf. F.P. Hansen, Das älteste Systemprogramm, cit., pp. 347ss.

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zazione della divinità nell’Io finito […] tanto Dio quanto l’immortalità dell’anima non possono pertanto essere considerati come qualcosa di separato dall’Io. La legge morale richiede all’Io finito di realizzare entrambi al suo interno43.

Il senso di questa radicalizzazione, all’opera in Dell’Io del 1795, consiste pertanto nel superamento schellinghiano non solo dell’uso dei postulati fatto da Kant, realizzato anche da Hegel, ma anche del loro contenuto, che viene a perdere ogni radicamento nella sfera morale e religiosa giungendo invece a descrivere quella metafisica dell’Io che è l’atto fondativo dell’idealismo. Proprio il fatto che lo spazio della morale venga occupato dalla metafisica realizza, se pure a parti invertite, quella conversione della metafisica in morale propugnata nel Systemprogramm. Sull’Io, capace di trarre se stesso ex nihilo, poggia il peso della contingenza di ogni cosa: il ripensamento dei tre postulati kantiani coincide a ben guardare con la riconduzione di due di essi – quello dell’esistenza di Dio e quello dell’immortalità dell’anima – all’unico postulato relativo alla libertà del soggetto. Tale libertà viene intesa dall’autore del frammento non più come libertà di sottomissione alla legge morale che il soggetto trova posta nel suo cuore, ma come «rappresentazione di me stesso come un essere assolutamente libero»: essa esclude cioè il riferimento a qualcosa di altro da sé – la legge morale kantiana – ed impernia sulla propria capacità di produzione assoluta la dotazione di qualsiasi valore morale. In quanto auto-istituitosi l’Io realizza il postulato della propria libertà – che da semplice postulato pratico si trasforma dunque in idea – dalla quale discende inevitabilmente la propria immortalità e pertanto in ultima analisi la propria divinità. Che l’autore del frammento mirasse a questa conclusione sembra d’altro canto indicato dall’allusione alla facoltà di creare dal nulla, significativamente trasferita da

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K. Düsing, Die Rezeption, cit., p. 66, tr. nostra.

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Dio all’Io. Solo tale creazione, infatti, sarebbe «vera e pensabile» (wahre und gedenkbare): essa è vera esattamente in quanto pensabile, ed è pensabile perché questa creazione, che consiste nell’autoposizione ab imis dell’Io, viene di fatto presupposto da ogni atto cogitativo dello stesso Io. Il limite della pensabilità è il limite della verità, ed entrambi non possono cadere al di fuori dell’Io, la cui attività abbraccia fatalmente ogni realtà eventuale e fattuale. La modernità vagheggiata dall’autore del frammento nasce decisamente nel segno del Soggetto: «è indubbio che l’idea di una Schöpfung aus dem Nichts nel Systemprogramm sia proprio una forma retorica per far risaltare l’assoluta centralità dell’Io»44. 4. IL NODO POLITICO ED ESTETICO: LA LEZIONE DI SCHILLER Poiché l’Io è il nuovo centro di un pensiero che non vuole restare puramente teoretico ma intende tradursi in prassi, lo sguardo dell’autore del frammento passa ora a posarsi sull’opera dell’uomo, sulla storia e sulla politica: Dalla natura passo all’opera umana: l’idea dell’umanità al primo posto, voglio mostrare che non si dà alcuna idea dello stato, perché lo stato è qualcosa di meccanico, così come non si dà l’idea di una macchina. Solo ciò che è oggetto della libertà si chiama idea. Dobbiamo dunque oltrepassare anche lo stato! Ogni stato, infatti, non può non trattare uomini liberi come rotelle di un meccanismo; ma non deve farlo; perciò deve finire. Vedete da voi che qui tutte le idee della pace perpetua ecc. non sono che idee subordinate a un’idea più elevata. Al contempo voglio qui stendere i principi per una storia dell’umanità e mettere completamente a nudo tutta la miserevole opera umana di stato, costituzione, governo, legislazione. Alla fine vengono le idee di un mondo morale,

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M. Cometa, Iduna, cit., p. 36.

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della divinità, dell’immortalità: rovesciare ogni superstizione, attaccare i preti, che di recente simulano la ragione, mediante la ragione stessa! Assoluta libertà di tutti gli spiriti che portano in sé il mondo intellettuale e non devono cercare né Dio né l’immortalità fuori di sé!45.

In questo passaggio alla trattazione storico-politica si consuma nel modo più forte la riduzione dei postulati relativi a Dio ed all’immortalità dell’anima a quello della libertà dell’Io: quello che l’autore del frammento chiama «il portare in sé il mondo intellettuale» (die intellektuelle Welt in sich tragen) equivale con ogni evidenza alla conversione della questione teologico-psicologica in una metafisica dell’Io assoluto. Tutto questo, se da un lato riporta come già detto alla lezione fichteana, dall’altro è direttamente riconducibile a Schiller, le cui Lettere sull’educazione estetica dell’uomo Hegel e Hölderlin stavano leggendo avidamente nell’aprile del 179546. Quanto a Schelling, il filone schilleriano non porta acqua al mulino della sua paternità del frammento. Nel corso dell’aprile del 1796, mentre ancora si trovava a Lipsia, Schelling decise di visitare Jena per la prima volta, senza sapere che di lì a poco più di un anno sarebbe stato chiamato a insegnare proprio in quella che era la città culturalmente più importante della Germania. Piuttosto deluso per non aver potuto incontrare personalmente Fichte, che era fuori città, Schelling ebbe comunque modo di fare la conoscenza di Schiller, rimanendone alquanto deluso: ho visto e incontrato Schiller, con il quale ho parlato a lungo […] è sorprendente quanto possa essere spiacevole parlare con degli scrittori famosi: egli è timido e tiene gli occhi sempre bassi. La sensazione di disagio che lui prova sortisce l’effetto di mettere ancora più a disagio il suo interlocutore […] lo stesso uomo che, quando scrive, padroneggia la sua linHegel-Schelling-Hölderlin, Il più antico programma, cit., pp. 21-23. Cf. F.P. Hansen, Das älteste Systemprogramm, cit., p. 379 e A. Gethmann-Siefert, Die geschichtiliche Funktion, cit., p. 229. 45

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gua fin quasi a tiranneggiarla, mentre parla non riesce sovente a trovare la parola giusta, al punto che, non trovandola in tedesco, preferisce esprimersi in francese […]. Schiller non riesce a dire cose di scarso interesse, ma dire quel che dice sembra costargli un grande sforzo: questo fa sì che non ci si senta a proprio agio in sua presenza47

Più in generale, si può dire che fra i due non si giungesse mai a quella profondità di rapporto che, probabilmente, era più desiderata da Schiller di quanto non lo fosse da Schelling48. In aggiunta a ciò, secondo Plitt, la reciproca ostilità esistente fra gli Schlegel e Schiller avrebbe fatto sentire il suo peso anche sulla relazione di quest’ultimo con Schelling, che fra il 1797 e il 1798 era ospite fisso nel salotto schlegeliano, culla di quella Frühromantik piuttosto invisa al classicista Schiller49. Eppure il pensiero di Schiller è una delle principali chiavi di accesso al senso del Systemprogramm, poiché è essenzialmente ad esso che è possibile far risalire il nesso strettissimo in esso presente fra dimensione politica e dimensione estetica. Già nel 1793, dunque nei mesi durante i quali Fichte stava ancora attendendo all’ideazione e alla stesura della prima edizione della Dottrina della Scienza (1794), Schiller dava infatti alle stampe il suo primo grande saggio di estetica, Grazia e dignità50, nel quale l’eredità della Critica del Giudizio di Kant, la cui lettura aveva inaugurato gli interessi filosofici di Schiller, appare ampiamente superata nel senso di una radicale antropologizzazione del discorso estetico. Le categorie kantiane di bello e di sublime appaiono infatti reintepretate nella forma delle qualità umane della grazia e della dignità. Il concetto ontologico del bello, rinvenibile in Hölderlin, viene qui rimodulato quale base di una educazione estetica G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 113, tr. nostra. Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 243. 49 Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 245. 50 Cf. F. Schiller, Grazia e dignità, a cura di D. Di Maio, SE, Milano 2010. 47

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adatta a dare seguito alle potenzialità dell’uomo. Tale educazione si concreta pertanto sia nella grazia (Anmut), ossia nella bellezza interiore derivante dall’introiezione della legge morale e dall’accordo della propria natura con questa – e qui sta la distanza di Schiller da Kant e Fichte, la cui morale ascetico-agonistica sarebbe rea, per Schiller, di distruggere ogni bellezza e grazia – che nella dignità (Würde), vale a dire il sublime dominio sulle passioni. Entrambe le virtù si saldano in Schiller in un orizzonte nel quale lo sviluppo concreto dell’estetica si fa politico, nella forma di una radicale critica allo Stato che assorbe completamente l’afflato spirituale schilleriano e lo rende sordo a ogni prospettiva realmente religiosa, cioè legata al rapporto con il divino e con l’aldilà. Questo spiega la sostanziale assenza, in Schiller, del tema della schöne Religion, per il quale l’asse portante resta quello della riflessione di Hölderlin prima e di Hegel poi, e contemporaneamente fornisce la principale fonte di ispirazione dell’attacco allo Stato ed al clero presente nel frammento. Schiller ispira nell’autore del Systemprogramm l’idea che il problema politico sia da declinarsi in chiave morale, vale a dire alla luce della rivisitazione dell’insegnamento kantiano circa l’autonomia del soggetto morale51: che, però, lo Stato debba fungere da vittima sacrificale nell’esercizio di tale autonomia, è convinzione originale di Schiller52 che ritroviamo tale e quale nel frammento53. In aggiunta a ciò, l’antropologizzazione dell’estetica promossa da Schiller consente di spiegare la provenienza della

Cf. F. Strack, Zu Hölderlins, cit., p. 125. Cf. F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, a cura di A. Negri, Armando, Roma 2005, pp. 128-135. La polemica di Schiller contro lo Stato si colloca nel più ampio contesto della critica all’uomo moderno, parcellizzato e settorializzato rispetto all’“uomo totale” dell’Ellade. 53 Non ci sentiamo, pertanto, di seguire qui la lezione di Trede, per il quale l’idea schilleriana non mirerebbe tanto alla distruzione dello Stato, ma ad una sua evoluzione nel senso di una superiore comunità spirituale. Cf. J.H. Trede, Mythologie und Idee, cit., pp. 204-205. 51

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convinzione, fatta propria dall’autore del frammento, che l’educazione al bello riveli un tratto decisivo del filosofo o, meglio ancora, di ciò che il filosofo dovrà imparare ad essere nella nuova età dello spirito: Per ultimo, l’idea che le unifica tutte, l’idea della bellezza, prendendo la parola nell’elevato senso platonico. Ora io sono convinto che l’atto supremo della ragione, quello col quale essa abbraccia tutte le idee, è un atto estetico e che verità e bontà sono affratellate solo nella bellezza. Il filosofo deve possedere altrettanta forza estetica quanto il poeta. Gli uomini senza senso estetico sono i nostri filosofi che si fermano alla lettera. La filosofia dello spirito è una filosofia estetica. Senza senso estetico non si può essere ricchi di spirito in niente, non si può nemmeno ragionare, in modo ricco di spirito, di storia. Qui deve diventar manifesto che cosa propriamente manca agli uomini che non comprendono le idee e confessano alquanto candidamente che per loro tutto è oscuro non appena si va oltre le tabelle e gli elenchi. La poesia riceverà così una dignità superiore, ritornerà a essere, alla fine, ciò che era all’inizio: maestra dell’umanità; infatti, non ci saranno più né filosofia né storia, l’arte poetica soltanto sopravviverà a tutte le altre arti e scienze54.

L’immagine, senz’altro suggestiva, del filosofo-poeta fa subito pensare a Hölderlin, massimo rappresentante della poesia romantica ed autentico “profeta” di una vocazione poetica intesa come testimonianza resa alla Verità. Decisamente più schilleriano è invece l’interessamento alla storia55, nel quale si lascia cogliere l’intenzione programmatica dell’autore del frammento. La certezza che la storia sia animata da un senso profondo, la fede che si dia qualcosa come una Universalgeschichte – stante Hegel-Schelling-Hölderlin, Il più antico programma, cit., pp. 23-25. Ricordiamo qui che Schiller fu professore di Storia presso l’Università di Jena a partire dal 1789 e che fra le sue opere figurano due imponenti scritti monografici su Storia dell’insurrezione dei Paesi Bassi e Storia della Guerra dei Trent’Anni. 54

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ad esempio alla base del breve saggio schilleriano Che cosa significa la storia universale e per quale scopo la si studia (1789) – rappresentano, unitamente alla convinzione che si tratti ora di preparare la strada al momento in cui tale processo conoscerà la sua conclusione, i punti che qualificano realmente la natura dell’insegnamento schilleriano. Il fatto che lo sviluppo del senso del bello sia propedeutico tanto nei confronti del ragionamento storico quanto nei confronti del ragionamento filosofico dà la misura di una concezione estetica fortemente sbilanciata nella direzione del suo “impegno”, il che lumeggia e giustifica ulteriormente il saldissimo legame che l’autore del frammento lascia intercorrere fra politica ed estetica. Il percorso di Schiller è, anche da questo punto di vista, esemplare56: nata con Kant, la sua teorizzazione estetica sfocia nella creazione di pezzi letterari nei quali la dimensione del sublime (Erhabene) si rivela infine come patetico (Pathetische) ossia come ciò che è in grado di «toccare l’animo umano» (Rührung des Gemüts) al punto tale da cambiarne le disposizioni. Ma poiché ciò che commuove l’uomo in sommo grado è la rappresentazione della realtà dell’umano, ecco che tali opere non potranno essere né trattati né poesie, ma opere teatrali a sfondo storico: così avrebbero visto la luce Wallenstein, Maria Stuarda, Don Carlos, La pulzella d’Orleans e Guglielmo Tell. Proprio quest’ultimo passo, però, è utile a spiegare la distanza che separa l’estetica di Schiller da quella avanzata dall’autore del frammento. Schiller, infatti, afferma nelle Lettere la superiorità del bello rispetto al sublime in virtù dell’essere fine a se stesso del primo, ma sconfessa di fatto tale impostazione nel momento in cui lascia che la parola principale e conclusiva della sua opera spetti ai propri drammi, nei quali evidentemente è l’elemento sublime, in quanto patetico, ad agire. L’esalta56 Per una ricostruzione di tale percorso è possibile fare riferimento a L.A. Macor, Il giro fangoso dell’umana destinazione. Friedrich Schiller dall’illuminismo al criticismo, ETS, Pisa 2008.

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zione, presente nel frammento, dello stadio estetico, caratterizzato come momento in cui l’uomo è libero da condizionamenti, contrasta frontalmente con l’estetica “militante” di Schiller, la quale deve la sua carica catartica essenzialmente alla capacità di coinvolgere e condizionare il pubblico che assiste alla rappresentazione scenica del sublime57. È dunque possibile scorgere fra le righe del frammento le tracce di una tale impostazione estetica, senza però che quest’ultima gli risulti del tutto sovrapponibile. Va inoltre osservato come il passo sull’abbraccio finale nel quale la poesia tornerà a racchiudere in sé ogni altra espressione umana rimandi alla chiusa del Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) di Schelling. In realtà, la decifrazione del frammento risulta anche in questo caso particolarmente complessa. Volendo semplificare si potrebbe comunque dire che, per quanto riguarda il plesso politico-estetico, la chiave d’accesso resta quella della teoria del bello salvifico di Hölderlin guardata attraverso la lente dell’antropologia di Schiller presente nelle Lettere58, la quale nel suo insieme appare forse come la formulazione che più si avvicina a quella presente nel frammento. 5. PER UNA MITOLOGIA DELLA RAGIONE La profezia circa la prossima re-intronizzazione della poesia, luogo sorgivo di ogni umano sapere, funge da momento di passaggio all’ultimo nucleo tematico del Systemprogramm, aperto da un periodo nel quale lo sguardo dell’autore, che scrivendo della poesia si era come posato in lontananza su un tempo ancora futuro, torna ad interessarsi della situazione immediatamente

57 Una trattazione più approfondita del rapporto fra bello e sublime in Schiller non è in questa sede possibile. Circa tale questione in riferimento al Systemprogramm cf. F.P. Hansen, Das älteste Systemprogramm, cit., pp. 448ss. 58 Cf. T. Griffero, Senso e immagine, cit., pp. 241-242.

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presente: «al contempo, sentiamo tanto spesso dire che la gran massa deve avere una religione sensibile. Non solo la gran massa, anche il filosofo ne ha bisogno. Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell’immaginazione e dell’arte: ecco ciò di cui abbiamo bisogno!»59. Il concetto di «religione sensibile» (sinnliche Religion) è la chiave di volta del discorso perché conduce direttamente alla questione che più ci interessa, quella cioè della mitologia della ragione. Prima di toccare questo argomento, però, è necessario soffermarsi ancora un po’ sulle righe suddette. Va in primo luogo segnalata l’idea che la religione sensibile debba coinvolgere non soltanto la massa, ma anche i dotti. È, questo, un punto di grande interesse, perché colloca il Systemprogramm completamente al di là dell’ideale illuministico della «educazione popolare» (Volkserziehung) riposizionandone le coordinate nell’alveo del nascente Romanticismo: non si tratta più, o comunque non soltanto, di trovare una via per educare il popolo, ma di elaborare una «religione sensibile» l’adozione della quale è auspicabile anche per gli intellettuali. Questa sottolineatura implica l’elevazione della religione sensibile a vero e proprio paradigma della nuova età dello spirito, la cui importanza non è più data soltanto dall’utilizzo che è possibile farne ma dall’effettivo coglimento di una verità profonda che esso consente. Lo stesso autore del frammento si rende conto di solcare in questo modo delle acque inesplorate, e nel far questo introduce nel suo discorso la questione del mito moderno: Per la prima volta parlerò qui di un’idea che, a quanto ne so, non è ancora venuta in mente a nessuno: noi dobbiamo avere una nuova mitologia, ma questa mitologia deve stare al servizio delle idee, deve diventare una mitologia della ragione. Prima che le rendiamo estetiche, cioè mitologiche, le idee non hanno alcun interesse per il popolo e, viceversa, prima che la mitologia sia razionale, il filosofo deve vergo59

Hegel-Schelling-Hölderlin, Il più antico programma, cit., p. 25.

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gnarsene. Così, alla fine, illuminati e non illuminati dovranno tendersi la mano, la mitologia dovrà diventare filosofica, e il popolo razionale, e la filosofia dovrà diventare mitologica, per rendere sensibili i filosofi. Allora regnerà eterna unità fra noi. Non più lo sguardo pieno di disprezzo, non più il cieco tremare del popolo davanti ai suoi saggi e ai suoi preti. Solo allora ci attende un eguale sviluppo di tutte le forze, sia del singolo sia di tutti gli individui. Nessuna forza verrà più oppressa, allora regnerà un’universale libertà ed eguaglianza degli spiriti! Uno spirito superiore, inviato dal cielo, deve fondare fra noi questa nuova religione che sarà l’ultima, la più grande opera dell’umanità60.

Al di là del tono messianico con il quale il frammento si chiude, le righe più interessanti sono le prime. Come detto, è l’autore a catalizzare l’attenzione del lettore sull’elemento più originale, vale a dire la definizione di una «mitologia della ragione» (Mythologie der Vernunft) quale momento centrale verso l’affermazione della nuova età dello spirito. Balza agli occhi l’importanza della sottolineatura del mito moderno qualora se ne consideri la differente caratterizzazione rispetto a quello antico61: il primo si costituisce come luogo dell’affermazione delle idee, dunque come mitologia della ragione: è qui che le strade della filosofia del mito tardo illuministica di Gottinga – il mito come discorso pre-razionale inseparabile dallo studio e dalla analisi della civiltà antica – e della nascente filosofia del mito romantico – il mito come discorso sulle origini – si separano decisamente dal sentiero di quello che diverrà l’idealismo. L’introduzione della mitologia della ragione, vera novità del Systemprogramm, ha in primo luogo il notevole merito euristico di portare tale chiarezza nella discussione storico-filosofica, e in secondo luogo quello di fornire una chiave di lettura in grado di piegare l’interpretazio60 61

Ibid., pp. 25-27. Cf. A. Gethmann-Siefert, Die geschichtliche Funktion, cit., p. 245.

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ne dell’intero testo del frammento in senso più idealistico che romantico. Anche se, come osserva Jamme62, è in qualche modo possibile rintracciare le origini della ricerca sul mito moderno già in Herder, è necessario osservare come nel Systemprogramm non si tratti tanto di rilanciare lo studio sul mito, ma di passare alla mitologia della ragione come «luogo di progettazione del futuro»63. La novità di questa posizione emerge con ancora maggiore chiarezza in riferimento al fatto che l’annuncio della mitologia della ragione si sposa a quello di una «nuova religione», che ne completerebbe la realizzazione. Sulla base del passo precedente nel frammento, sappiamo anche che tale religione dovrebbe prendere la forma di una «religione sensibile» in grado di attrarre a sé tanto la comunità dei dotti quanto il popolo. In realtà, la natura del plesso religione sensibile-nuova mitologia è oggetto di discussione fra gli interpreti. Si tratta infatti di capire se la creazione e la diffusione della mitologia della ragione siano fenomeni in qualche modo propedeutici all’instaurazione della religione sensibile e pertanto destinati a fare la loro comparsa in un momento precedente, come sembrerebbe alla luce del fatto che la nascita della nuova religione è definita come «ultima» opera dell’umanità. Questa considerazione, che peraltro ha una sua rilevanza all’interno della disputa infinita sulla paternità del frammento64, manca tuttavia di attenzione nei confronti dell’esplicita sottolineatura di importanza con la quale lo stesso autore del frammento introduce la mitologia della ragione. Se, infatti, la religione sensibile è opera «ultima e più grande» dell’umanità, la mitologia della ragione è un’idea che «non è ancora venuta in mente a nessuno». Difficile pensare che l’enfasi con la quale viene descritto il momento in cui «la mitoloCf. C. Jamme, Das älteste Systemprogramm, cit., pp. 58-59. T. Griffero, Senso e immagine, cit., p. 244. 64 Secondo Trede la supremazia dell’elemento religioso su quello mitico varrebbe a suffragare la paternità hegeliana, data la centralità del tema nelle opere giovanili del filosofo. Cf. J.H. Trede, Mythologie und Idee, cit., pp. 168-169. 62

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gia diverrà filosofica e il popolo diverrà razionale» possa essere derubricato sotto la definizione di “momento preparatorio”. Risulta dunque più verosimile immaginare che in realtà la religione sensibile coincida con la mitologia della ragione, con la conseguenza che l’attimo in cui «nessuna forza verrà più oppressa» e «regnerà un’universale libertà ed eguaglianza degli spiriti» descriva proprio il trionfo della nuova mitologia. Le stesse parole impiegate dall’autore del frammento per descrivere questo stato dell’umanità ventura mescolano suggestioni tratte tanto dal piano del radicale rinnovamento religioso – il popolo che non dovrà più tremare di fronte ai sacerdoti – quanto da quello della nuova creazione mitologica –, il popolo che diviene razionale mediante la razionalizzazione della mitologia. Tutto ciò concorre a dar vita ad una idea che la proposta kantiana di costruzione di una “religione morale” non più positiva – tradizionale cavallo di battaglia di ogni progetto riformatore – non riesce più a descrivere. Lo stesso vale anche per la posizione di Schiller che, pur annunciando implicitamente la necessità di una nuova religione, non arriva mai, nel descriverla, a pronunziare quel nome che invece possiamo a buon diritto definire la parola d’ordine conclusiva del Systemprogramm: una nuova mitologia65. 6. APPUNTI PER UNA CONCLUSIONE Ai fini della ricostruzione del percorso del mito moderno, il Systemprogramm rappresenta un documento di eccezionale importanza. Esso consente, infatti, di cogliere il tema che ci interessa nel suo momento sorgivo, dando la possibilità di scorgerne e isolarne la fase genetica e i nuclei principali. Da questo punto di vista ci troviamo ora nella condizione di poter trarre le prime conclusioni, che diverranno altrettante coordinate per la prosecuzione del nostro itinerario. 65

Cf. F.P. Hansen, Das älteste Systemprogramm, cit., pp. 465ss.

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a) Il mito moderno si radica in un ricco contesto di suggestioni che ne fanno una delle principali componenti di una mescola che stava dando forma al pensiero post-kantiano. b) Esso è punto di snodo centrale nella transizione che dal kantismo avrebbe condotto da un lato al Romanticismo, dall’altro all’Idealismo. Sotto questo rispetto il Systemprogramm è testimone privilegiato di un momento nel quale i due percorsi appena citati non si sono ancora separati. c) Tuttavia proprio il mito moderno inaugura l’uscita da tale indistinzione: esso corona e completa una serie di intuizioni precedenti stanti direttamente alla base della nascita dell’Idealismo: la conversione della Postulatenlehre di Kant in una dottrina dell’Io, la trasformazione della fisica in filosofia della natura, la riconduzione del problema di una riforma politica alla sfera estetica e l’affermazione della suprema capacità sintetica di quest’ultima. d) Il mito moderno viene subito esplicitamente declinato in quanto mitologia della ragione, ossia come racconto razionalmente orientato fatto dalla modernità su se stessa e per se stessa. e) La stessa difficoltà dell’attribuzione del frammento ad uno fra Schelling, Hölderlin e Hegel, pur all’interno di una disputa ermeneutica che ha addotto ottimi motivi per tutte e tre le soluzioni, potrebbe a nostro parere – ci si passi la provocazione – risultare provvidenziale. Tale situazione, infatti, consente di avere piena contezza di come il tema del mito moderno non possa essere ricondotto all’esclusiva primogenitura di un autore, appartenendo di diritto ad una temperie culturale che in quegli anni accomunava le migliori menti di Germania. Per questo motivo presentazione e analisi del frammento trovano inevitabilmente spazio tanto nelle ricerche hegeliane, quanto in quelle schellinghiane o hölderliniane, contribuendo così ad allargare il respiro dell’analisi e a ricordare sempre come, al di là di ogni percorso specialistico, la questione del mito moderno fosse punto d’incontro privilegiato di tanti percorsi convergenti e divergenti.

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IL MITO MODERNO

Allo stesso tempo è senz’altro impossibile negare come Schelling sia, dei tre, l’unico che negli anni immediatamente successivi al frammento si sarebbe dedicato a svolgere coerentemente tutti i punti presentati nel Systemprogramm. Di conseguenza, e ovviamente senza avanzare la pretesa che questo possa valere come una soluzione all’intricata questione della Authorschaft, proseguiamo ora la nostra ricerca prendendo congedo dal frammento e tornando a seguire da presso il percorso schellinghiano sul sentiero del mito moderno, con l’avvertenza di utilizzare il contenuto del frammento stesso come una preziosa bussola.

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PARTE TERZA IL MITO MODERNO NELLA FILOSOFIA DELL’ARTE

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I. LA PREPARAZIONE (1798-1802)

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1. DA LIPSIA A JENA Che il Systemprogramm risulti o meno ascrivibile a Schelling, esso vale senz’altro a introdurci ad una temperie culturale e filosofica alla quale Schelling apparteneva, recitandovi un ruolo da protagonista. Nel periodo immediatamente successivo a quello proposto per la redazione del frammento il filosofo vive e opera nella Jena pre-romantica e idealista dei fratelli Schlegel, di Novalis, di Fichte e di Schiller. L’eventualità del trasferimento a Jena prese consistenza nel corso dell’autunno del 1797, allorché Fichte decise di interessarsi in prima persona alla carriera accademica di Schelling. In una lettera risalente al novembre del ’97 il filosofo informa per la prima volta suo padre degli sviluppi, definendo «altamente probabile» la chiamata alla docenza a Jena, e descrivendo in questo modo i suoi pensieri sull’eventualità del trasferimento: sono sicuro che a Jena potrei contare non solo su di un grande numero di uditori, ma anche su un grande seguito […] è certo che a Jena riuscirei ad avere di che vivere anche senza ricevere uno stipendio e che di lì la mia fama si diffonderebbe ben più velocemente di quanto ora non potrei mai sperare […] l’unico pregio del mio attuale incarico è che mi consente di ingrassare a piacimento1.

L’incarico di precettore iniziava dunque ad andare stretto a Schelling, il quale si rendeva perfettamente conto di come una cattedra a Jena avrebbe potuto rappresentare il giusto palcoscenico per iniziare una sfolgorante carriera scientifica. All’atto 1

G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 210, tr. nostra.

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IL MITO MODERNO

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di prendere una decisione, egli chiude però la sua missiva chiedendo il parere paterno: Le ho descritto la situazione così da poter contare sul Suo giudizio, dal momento che i tempi per giungere ad una decisione sono decisamente brevi, soprattutto se io dovessi decidere di partire per Jena entro Pasqua […] devo peraltro confessare di non avere ancora pensato ad una sistemazione, essendo accaduto in modo del tutto inatteso che il prof. Fichte abbia fatto di tutto perché io venissi chiamato a Jena. Ora egli è in viaggio e durante la sua assenza mi lascerebbe perfino tutti i suoi uditori, che hanno numero di due-trecento2.

Il padre di Schelling prese molto a cuore la questione della sistemazione del figlio, e cercò di fare il possibile perché questi potesse tornare in patria, presso lo Stift di Tubinga, questa volta in veste di docente. Nei primi mesi del 1798 la situazione appare ancora incerta: Schelling oscilla fra il desiderio di riavvicinarsi ai suoi genitori e alla sua terra e quello di aprire una nuova pagina della sua vita. In più occasioni egli confessa che il problema è rappresentato dal fatto che, a fronte di una chiara offerta di lavoro a Jena, da Tubinga non arriva ancora alcuna proposta concreta. In questo stallo, il padre di Schelling decide di prendere l’iniziativa scrivendo di suo pugno al vecchio amico e maestro del figlio Schnurrer chiedendogli di sondare la situazione tubinghese, ma non ottiene risposte definite. Nel frattempo, Schelling scrive di continuare a preferire, in linea di principio, l’incarico a Tubinga a patto che, però, questo non lo costringa ad accettare una cattedra da professore straordinario. Intorno alla fine di maggio egli si reca più volte a Jena, ove ha modo di frequentare personalmente Goethe in più occasioni. Quest’ultimo resta profondamente impressionato dal giovane filosofo, in particolare dalle sue idee in merito alla fisica speculativa, e si persuade che esse rappresentino la perfetta

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Ibid., p. 211, tr. nostra.

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I. LA PREPARAZIONE

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traduzione teoretica delle proprie convinzioni di filosofia della natura: decide quindi di impiegare la propria influenza, che si somma così a quella di Fichte, perché a Schelling sia conferito a Jena un incarico da professore ordinario di Filosofia. Tale corso di eventi sortisce l’effetto di far uscire Schelling dall’indecisione: in una lettera del 25 giugno egli comunica al padre la scelta di accettare l’incarico a Jena. Il 5 di luglio il destino di Schelling è ormai deciso: lo stesso Goethe gli invia una breve missiva per congratularsi della recente nomina e per augurargli ogni fortuna nel suo nuovo incarico. Di fronte a questa situazione, il padre di Schelling compie un estremo tentativo tornando a contattare Schnurrer aggiungendo alle opere del figlio la notizia recente dell’incarico jenese, ad ulteriore riprova del valore di quest’ultimo. Ma ormai il dado è tratto, e alla fine di luglio il barone von Riedesel scrive a Schelling per ringraziarlo dell’impegno profuso e dell’ottimo insegnamento impartito ai suoi due figli, dicendosi sicuro dell’avvenire luminoso e ricco di soddisfazioni che avrebbe atteso il giovane studioso. Ottenuto l’incarico e con l’inizio delle lezioni fissato al 29 di ottobre, Schelling ha di fronte a sé due mesi liberi da impegni accademici e decide di impiegarli per visitare la città di Dresda, rinomata in tutta Europa come uno scrigno di arte e cultura, capolavoro del barocco tedesco e sede di una prestigiosa pinacoteca. In una lettera del 20 di settembre il filosofo descrive con parole vibranti le sue emozioni: a Dresda ho visto tutto quello che c’era da vedere: la pinacoteca, dove sono custodite le divine tele di Raffaello e Correggio, la collezione d’arte antica, nella quale il mondo antico vive ancora in statua […] debbo confessare di aver provato una felicità cui non ero più abituato. I tesori dell’arte e della cultura che ho ammirato non mi hanno lasciato un attimo per scrivere, se non adesso che, purtroppo, l’ora della partenza si avvicina3. 3

G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 240, tr. nostra.

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Si potrebbe forse dire che, a cercar bene, l’interesse schellinghiano per l’arte affondi le sue radici proprio qui, nelle fortissime impressioni ricevute dalle opere ammirate a Dresda, allorché Schelling associa per la prima volta la bellezza della natura, colta nelle valli e nei monti che punteggiano il confine boemo a sud-est di Dresda, a quella dell’opera dell’uomo4. Come scrive Griffero: l’evento davvero decisivo per la svolta estetica e ora anche artistica della filosofia schellinghiana è quella sorta di tirocinio estetico ed esistenziale vissuto nelle sei settimane della tarda estate 1798 trascorse a Dresda, la cosiddetta “Firenze del Nord”. Quasi ogni mattina Schelling e i nuovi amici romantici monopolizzavano in certo qual modo la splendida pinacoteca della città, s’aggiravano per le varie sale ingaggiando brillanti disquisizioni sulle opere ivi esposte5.

Il destino volle che proprio a Dresda, nel corso di quella fatidica estate del 1798, avesse luogo l’incontro con il quale si fa iniziare il Romanticismo tedesco. Al principio di maggio, vale a dire circa un paio di mesi prima che Schelling giungesse a 4 In effetti, mentre l’amore per la natura fu e rimase una costante del sentire schellinghiano, l’interesse per l’arte si affaccia proprio nel periodo in cui Schelling incontra a Dresda i romantici jenesi: «a parte tale inclinazione paesaggistica, non vi sono nell’epistolario anteriormente al 1798 affermazioni che attestino un deciso interesse per l’arte, né ci è dato di sapere qualcosa di preciso circa gli studi sull’arte che il figlio-biografo colloca ipoteticamente nell’ultimo periodo trascorso a Tubinga» (T. Griffero, L’estetica di Schelling, Laterza, Bari 1996, p. 12). Sulla stessa lunghezza d’onda anche R. Assunto: «le lunghe e ripetute visite alla Galleria di Dresda, l’incontro in questa città con letterati, come si direbbe oggi, d’avanguardia, quelli erano in quel finire di secolo i due Schlegel e gli amici che con loro dovevano costituire la scuola romantica, non debbono essere passati senza traccia nell’evoluzione intellettuale di Schelling, soprattutto per quanto riguarda il problema dell’arte. La attenta e appassionata osservazione dei dipinti e delle statue deve aver indotto Schelling a concentrare la propria meditazione sull’arte in quanto non è soltanto Poesie ma Kunst, attività che produce il proprio oggetto» (R. Assunto, Estetica dell’identità. Lettura della Filosofia dell’Arte di Schelling, STEU, Urbino 1962, p. 75). 5 T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., p. 53.

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I. LA PREPARAZIONE

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Dresda, la moglie di August Schlegel, Caroline – futuro grande amore e moglie di Schelling – si recò infatti nella città sassone ove sarebbe stata raggiunta da suo marito e dal di lui fratello Friedrich, i quali, di ritorno da Berlino, fecero tappa a Dresda prima di fare rotta a loro volta a Jena all’inizio di luglio. Per l’occasione giunse da Freiberg a Dresda anche Novalis, mentre da Amburgo arrivò lo scrittore e traduttore J.D. Gries. L’incontro di Schelling con il circolo preromantico coagulatosi intorno ai fratelli Schlegel è uno dei momenti di svolta nella biografia intellettuale del filosofo. In realtà, anche se si può affermare con relativa certezza che i tre non avessero avuto modo di conoscersi personalmente prima dell’estate 1798, sembra che Friedrich Schlegel, sempre ricettivo nei confronti di ogni autore che mostrasse delle potenzialità innovatrici, avesse iniziato a leggere gli scritti schellinghiani già al principio del 17966. All’epoca dell’incontro con Schelling gli Schlegel avevano già in mente il progetto della rivista Athenaeum quale strumento di rinnovamento della cultura tedesca: August, in particolare, era impegnato a fondo nella traduzione in tedesco delle opere di Shakespeare, per la quale si giovava della preziosa collaborazione della moglie, mentre il fratello Friedrich stava approfondendo le ricerche che l’avrebbero condotto, due anni dopo, a redigere quel Discorso sulla poesia i destini del quale si sarebbero intrecciati con quelli del Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling. Novalis, dal canto suo, aveva già iniziato la composizione degli Inni alla notte, che ne avrebbero consacrato la grandezza poetica. Gli incontri di Dresda ebbero una cadenza piuttosto regolare nel corso di tutta l’estate e cementarono quella comunità di intenti e di sentire che stava dando vita alla Frühromantik. Gries, il più giovane del gruppo, rimase folgorato da Schelling non appena lo conobbe: 6

Su questo punto cf. H. Fuhrmans, F.W.J. Schelling, cit., pp. 153-155.

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Schelling è uno dei pochi uomini la cui conoscenza personale supera l’impressione che si ricava dai suoi scritti. Ha ventiquattro anni e il suo aspetto fisico è, pur senza essere bello, potente e attraente come il suo spirito. La grandezza delle sue idee mi sorprende; io stesso mi sento innalzato tramite esse; in fatto di cose politiche la vediamo all’incirca allo stesso modo. Lo slancio della sua ispirazione è altamente poetico, anche se lui non è certo un poeta7.

Fra i due giovani uomini, peraltro coetanei, nacque una profonda amicizia: Schelling e Gries impararono a conoscere insieme le bellezze di Dresda e della campagna circostante, mentre il secondo, convintosi che il primo potesse essere il migliore interprete filosofico delle posizioni letterarie e poetiche del nascente Romanticismo, ne favorì l’ingresso nel circolo degli Schlegel e di Novalis. Quando, all’inizio di ottobre, i due si misero in viaggio insieme per tornare a Jena, Schelling era ormai in confidenza con alcuni fra i maggiori protagonisti della vita culturale jenese8. L’attività di insegnamento impegnò Schelling a fondo, ed egli vi si dedicò con il massimo scrupolo, non senza attirarsi qualche invidia ed antipatia fra i colleghi. Alla prima contribuì il grande seguito che le sue lezioni ebbero sin dall’inizio, risultando seconde, nel gradimento degli studenti, a quelle del solo Fichte. Quanto all’antipatia, essa faceva pendant con la sicurezza con la quale il giovane professore prese a muoversi da subito: destò un certo scalpore il fatto che, in concomitanza con la prima de I Piccolomini di Schiller a Weimar alla quale era stato invitato l’intero corpo docente di Jena, il solo Schelling si rifiutasse di spostare la propria lezione.

Ibid., pp. 242-243, tr. nostra. Per una bella descrizione del salotto degli Schlegel a Jena è possibile fare riferimento a E. Behler, A.W. Schlegels Vorslesungen über philosophische Kunstlehre. Jena 1798, 1799, in F. Strack (hrsg.), Evolution des Geistes, cit., pp. 412-416. 7

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I. LA PREPARAZIONE

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2. L’INFLUENZA DEGLI SCHLEGEL: CRESCITA ED EVOLUZIONE DEL TEMA ESTETICO. VERSO IL MITO MODERNO Fra il 1798 e il 1799 Schelling intensifica lo studio della filosofia della natura, accentuando il taglio sistematico della propria produzione e partorendo opere sempre più impegnative e ambiziose9. A parere del Plitt questa tendenza all’elaborazione di un sistema filosofico universale è un tratto caratteristico del pensare schellinghiano, che fa la sua prima comparsa durante lo studio di Kant e sarebbe rintracciabile nella precoce critica avanzata da Schelling alla struttura “aperta” e non conchiusa del criticismo10. Sono, questi, gli anni nei quali i fratelli Schlegel, insieme a Novalis, profondono il massimo sforzo teorico nel tentativo di creare un nuovo alfabeto per la letteratura tedesca. Questo obiettivo, se da un lato non costituiva una novità assoluta per un ambiente culturale attraversato già da anni dalle pulsioni innovatrici dello Sturm und Drang del primo Goethe e di Herder e, più recentemente, da quelle della Weimarer Klassik11 del 9 È questo il caso di F.W.J. Schelling, Von der Weltseele, in Id., Historischkritische Ausgabe, VI, cit., pp. 65-270 e Id., Erster Entwurf eines Systems der Naturphilosophie, in Id., Historisch-kritische Ausgabe, VII, cit., pp. 65-357. Circa l’approfondimento della filosofia della natura in rapporto alla filosofia dell’identità si faccia riferimento a F. Moiso, Vita, natura, libertà. Schelling (1795-1809), Mursia, Milano 1990; a S. Poggi, Il genio e l’unità della natura. La scienza nella Germania romantica (1790-1830), il Mulino, Bologna 2000, pp. 211-277 e a M. Marchetto, Materia, qualità, organismo. La filosofia schellinghiana della natura e il primo sorgere della filosofia dell’identità, Mimesis, Milano 2011. 10 Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 150. 11 Con il termine di “classicismo di Weimar” ci si riferisce solitamente a quel periodo, inaugurato dal ritorno di Goethe dal suo primo viaggio in Italia (1788) e consolidatosi grazie all’inizio del sodalizio di questo con Schiller a Weimar nel 1794, che apre l’età dell’oro della letteratura tedesca. Esso si caratterizza per l’intenzione di dare vita ad un nuovo umanesimo, basato essenzialmente sul recupero, sia a livello artistico che speculativo, del canone ellenico quale irraggiungibile modello di realizzazione spirituale. Circa tale argomento è possibile fare riferimento a M. Cometa, L’età di Goethe, Carocci, Roma 2006.

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Goethe “di mezzo” e Schiller, dall’altro spingeva molto oltre la linea di confine, radicalizzando le suggestioni vitalistiche e sentimentalistiche del primo ed entrando di fatto in rotta di collisione con la seconda. Tale rivoluzione, nella quale si situa la nascita del Romanticismo, cambia in profondità i termini della discussione estetica: ad essere investito non è però il nesso di quest’ultima con la questione politica, già messo a fuoco nelle Lettere di Schiller prima e nel Systemprogramm poi, ma il contenuto di tale relazione. Mentre, infatti, per Schiller e per Goethe la valorizzazione della dimensione fondante del bello fa il paio con la riscoperta dell’uomo-totale dell’Ellade, ciò che gli Schlegel e i romantici rivendicano nei fatti è la pari dignità della specifica ed irriducibile natura dello spirito dell’età presente, di volta in volta declinato come romantico (in opposizione a classico), cristiano (in opposizione a pagano), germanico (in opposizione a greco-romano), o più semplicemente come moderno. Rifacendosi alla lezione impartita da Herder nel 1774 con il suo saggio su Shakespeare, A. Schlegel riprese in mano la questione della polemica nei confronti del classicismo del teatro francese di Corneille e Racine, allargando tuttavia il respiro della sua analisi al teatro spagnolo del siglo de oro. Grazie alla sua opera di traduzione una intera generazione di studiosi tedeschi ebbe modo di scoprire i tesori del teatro di Lope de Vega, di Tirso de Molina e, soprattutto, di Shakespeare e Calderón de la Barca, oltre che di ampie parti dell’Inferno dantesco. Uno dei principali filoni della Filosofia dell’Arte di Schelling affonda le sue radici in queste letture, come avremo modo di spiegare in seguito. Più che all’erudito August, è però all’estroso e poliedrico Friedrich che bisogna guardare se si vuole comprendere fino in fondo natura e portata del debito schellinghiano. Mentre, infatti, nel caso di August considerazioni e implicazioni filosofiche vanno sempre estratte dalle pieghe di ben più pregnanti e dotte questioni letterarie e linguistiche, Friedrich non si nasconde di fronte alla necessità di “prendere di petto” il nodo teoretico. In aggiunta a ciò egli ritiene, in forma del tutto accostabile a

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I. LA PREPARAZIONE

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quella presente nel Systemprogramm, che tale problema vada affrontato insieme a quello di una nuova mitologia. Tale interesse di F. Schlegel precede, se pure di poco, gli anni indicati come i più verosimili per la stesura del frammento stesso. Scrive a tale riguardo Cometa: «il progetto di una neue Mythologie è una costante del pensiero di Friedrich Schlegel negli anni che vanno dal 1795 […] sino al 1800 quando in termini decisamente espliciti pubblica all’interno del Gespräch über die Poesie la famosissima Rede über die Mythologie»12. Nonostante tale precocità, è tuttavia opportuno osservare come la piena chiarezza circa i caratteri della mitologia dei moderni emerga soltanto negli scritti schlegeliani risalenti al 1799, vale a dire quando l’influenza fra Schlegel e Schelling aveva oramai cessato di essere a senso unico. Proprio il piglio filosofico di F. Schlegel aveva infatti fatto sì che quest’ultimo si fosse trasformato in un attento lettore degli scritti schellinghiani di filosofia della natura, almeno a partire dalla pubblicazione delle Ideen e della Weltseele (1797-1798), al punto che «i principi esposti in queste due opere divennero in breve dei canoni speculativi per tutta la filosofia dell’epoca»13. Fu soprattutto Novalis, colpito dalla grande considerazione di cui Schelling godeva presso Fichte e Goethe, a far conoscere a Schlegel gli scritti di Schelling. Sulle prime lo Schlegel mantenne un atteggiamento di prudente e quasi sdegnoso distacco: pare giudicasse duramente la ritrosia del giovane filosofo nell’inserirsi nel circolo jenese ritenendola sinonimo di provincialismo. In un secondo momento, quando iniziò a leggere gli scritti di Schelling, Schlegel si espresse su di essi con toni contrastanti, ora biasimandone la confusione: «la filosofia di Schelling, che si potrebbe chiamare misticismo su base critica, si conclude, co-

12 13

M. Cometa, Iduna, cit., p. 85. Ibid., p. 114.

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me il Prometeo di Eschilo, in terremoto e rovina» 14, ora apprezzandone l’ampiezza dell’impostazione pur non senza ulteriori rilievi polemici: rappresentare in modo migliore questo processo chimico del filosofare, chiarirne, se possibile, le leggi dinamiche, e analizzare la filosofia nelle sue vitali energie primarie, essa che sempre di nuovo si deve organizzare e disorganizzare, è ciò che considero il compito effettivo di Schelling. All’opposto, la sua polemica, specialmente però la sua critica letteraria della filosofia, mi sembra una falsa tendenza; ancora, la sua disposizione alla universalità non è ancora sviluppata abbastanza per poter trovare nella filosofia della fisica ciò che vi cerca15.

Passò però poco tempo prima che Schlegel si rendesse conto della statura speculativa di Schelling, anche se questa considerazione si accompagnò a una certa invidia destinata ad acuirsi nel 1800, allorché lo stesso Schlegel, fermamente intenzionato a legittimarsi con il celebre Discorso sulla poesia come il massimo rappresentante filosofico del movimento romantico, dovette assistere al grande successo arriso nello stesso anno al Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling. La delusione dello Schlegel era tanto più cocente quanto più marcata era stata la sua sottolineatura del valore e dell’importanza della filosofia; una sottolineatura, questa, tutto sommato eccentrica rispetto agli altri romantici. In uno scritto pubblicato sul terzo fascicolo di Athenaeum del marzo 1799 egli si esprimeva nei riguardi della filosofia con parole sorprendenti sulla bocca di uno dei fondatori del movimento romantico: «che la poesia si rivolga alla terra, la filosofia, invece, sia più sacra e simile a Dio, è tanto chiaro ed evidente che non ho bisogno di soffermarmici ancora» 16. 14

p. 166. 15 16

AA.VV., Athenaeum, a cura di G. Cusatelli, Bompiani, Milano 2008, Ibid., p. 194. Ibid., p. 309.

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I. LA PREPARAZIONE

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Naturalmente, questo elogio della filosofia tout-court non esclude la mordace critica schlegeliana nei confronti di quel sapere che procede «collegando all’infinito concetto a concetto» senza elevarsi così all’utilizzo pieno e consapevole dell’intelletto (Verstand) il quale, più della ragione (Vernunft) è invece in grado di dare vita al pensiero (Gedanke), qui inteso come «rappresentazione che esiste in sé, perfettamente compiuta, infinita all’interno dei confini»17. Mentre questa definizione riecheggia, come vedremo, nella descrizione schellinghiana di idea contenuta nella Filosofia dell’Arte, praticamente l’intero impianto del pensiero schlegeliano prende, inversamente, ad essere influenzato dall’idea schellinghiana di una contaminazione fra spirito (Geist) e materia (Materie), messa a tema nelle Ideen, e da quella di un recupero di tale unità originaria che faccia riferimento all’antico credo naturale del mondo, presente nella Weltseele. Di qui la dolorosa presa di coscienza del fatto che alla prosa rigorosa ed alla pura speculazione di Schelling riusciva assai bene di mettere a fuoco ed esplicitare chiaramente quei plessi problematici che, ormai da anni, si agitavano nei pensieri e negli scritti frammentari ed asistematici dello stesso Schlegel18. Schlegel arriva infatti per primo alla esplicita tematizzazione del mito moderno. Quest’ultima procede dalla grande attenzione rivolta in prima battuta al medium letterario quale vera e propria epifania dello spirito umano e luogo privilegiato della distinzione fra antichi e moderni. L’accusa a Schelling di dare prova di una «universalità non ancora sviluppata abbastanza», di cui abbiamo dato conto poche righe sopra, si salda con quella di una scarsa coscienza critica letteraria: è forse possibile ritenere che per Schlegel proprio quest’ultimo aspetto spieghi il primo. Detto altrimenti: poiché a Schelling sfugge il valore Ibid., p. 310. Per ciò che riguarda la specifica influenza di Schelling su F. Schlegel fra il 1797 e il 1799 cf. M. Cometa, Iduna, cit., pp. 111-143. 17

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dell’arte e della letteratura, inevitabilmente egli non riesce, con la sua filosofia, ad abbracciare un punto di vista realmente universale. Ciò che Schlegel rivela a Schelling è la fecondità di un approccio che, muovendo dallo studio della mitologia classica, ne metta in luce l’intelaiatura concettuale estetica al fine di creare un apparato applicabile a ogni mitologia in quanto tale, pertanto in grado di dare corpo e sostanza a quel mito moderno della ragione già proposto dall’autore del Systemprogramm quale coronamento del progetto riformatore. «Gli antichi dèi», spiega Schlegel in un frammento redatto verosimilmente a Dresda sul finire di quella fatidica estate del 1798, «sono le categorie dell’arte» 19: il percorso di tangenza fra arte e mitologia non potrebbe essere esposto più icasticamente. Le direttrici sulle quali si innerva la teorizzazione del mito moderno sono dunque le seguenti: la convergenza di poesia e filosofia da un lato, quella di ragione e mitologia dall’altro. Entrambe presuppongono di fatto la coappartenenza di arte e mitologia. Questo tema diviene, nel corso del 1799, il perno sul quale ruota lo sforzo di costruzione del mito moderno tanto per Schlegel quanto per Schelling. Mentre, però, il primo si avvia risolutamente lungo un sentiero già ampiamente battuto negli anni precedenti, come mostrano appunti e frammenti a partire dal 1795, per il secondo si tratta di una via in parte nuova, che affonda le radici per un verso nell’orizzonte di pensiero del Systemprogramm, per l’altro nei nuovi stimoli ricevuti all’interno del circolo romantico, e per un altro verso ancora nelle ragioni dell’evoluzione interna del pensiero schellinghiano. Lo sforzo teorico di Schlegel e Schelling fruttifica nel 1800, in un caso nel Discorso sulla mitologia di Schlegel, contenuto nel Dialogo sulla poesia, nell’altro nel Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling. 19 F. Schlegel, Frammenti critici e poetici, a cura di M. Cometa, Einaudi, Torino 1998, p. 280.

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I. LA PREPARAZIONE

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Prima di passare alla trattazione di questo snodo, diamo conto di alcuni cambiamenti intercorsi nel contesto jenese all’interno del quale Schelling si trovava ad operare. Nella primavera del 1799 Fichte, al centro della polemica sul presunto ateismo del suo pensiero, fu di fatto costretto a lasciare la cattedra: si recò a Berlino, ove per qualche anno avrebbe rinunciato all’insegnamento dedicandosi alle lezioni private. Questo consentì a Schelling, ancora una volta grazie all’appoggio di Goethe, di assurgere ad astro unico ed indiscusso dell’insegnamento filosofico jenese. La nomina di Schelling non contrariò affatto Fichte, il quale si limitò a rimpiangere il poco tempo avuto per collaborare direttamente con il più giovane collega, il cui pensiero, rispetto al proprio, compensava con la genialità quanto gli mancava in fatto di sistematicità. Per Fichte, però, il colpo più duro doveva ancora arrivare. In agosto Kant, acclamato da un’intera generazione di studiosi come l’iniziatore di una nuova stagione della filosofia occidentale, prese apertamente le distanze da Fichte, condannando senza riserve e con parole molto dure la direzione idealistica presa dalla filosofia più recente e respingendo nel modo più netto ogni lettura che volesse piegare il suo sistema di pensiero verso questo genere di esito. Tale critica era in particolare rivolta allo stesso Fichte, il quale, com’è noto, aveva presentato la sua Dottrina della Scienza come la naturale evoluzione del trascendentalismo kantiano, fedele allo spirito di quest’ultimo20. 20 Queste le parole con le quali Kant chiudeva il suo intervento riferendosi a Fichte: «Un proverbio italiano dice: “dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”. Ci sono infatti amici di buona indole, che provano per noi simpatia, ma che si comportano erroneamente nella scelta dei mezzi per favorire i nostri propositi; ma ci sono talora cosiddetti amici ingannatori, insidiosi, intesi alla nostra rovina e tuttavia parlanti il linguaggio del benvolere, di fronte ai quali e di fronte alle cui trappole non si può mai stare sufficientemente in guardia. Ma ciononostante, la filosofia critica deve, con la sua inarrestabile tendenza alla soddisfazione della ragione sia dal punto di vista teoretico che da quello pratico morale, sentirsi convinta che non le è riservato alcun ulteriore mutamento di opinioni, nessun miglioramento postumo o un sistema altrimenti

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La presa di posizione di Kant avvenne sotto forma di articolo pubblicato sulla Allgemeine Literaturzeitung, vale a dire l’organo ufficiale del corpo docente dell’Università di Jena, al tempo la rivista filosofica più letta ed influente in tutta la Germania. Fra coloro che scrivevano sulla rivista, la cui linea editoriale era quella dell’approfondimento sul criticismo filtrato dalla riflessione di Reinhold, il solo A. Schlegel ebbe l’ardire di polemizzare con Kant. Al fianco di quest’ultimo, e nel segno della sconfessione degli sviluppi idealistici, sorsero invece Herder e, se pure in tono minore, Goethe. A questi si aggiunse presto anche Schiller. Fichte, dal canto suo, espresse le sue riflessioni in una lettera a Schelling risalente al 10 settembre 1799, nella quale si diceva persuaso che la durezza del testo kantiano fosse da addebitare alla vetustà del filosofo di Königsberg, evidentemente ormai non più disponibile a confrontarsi con i recenti sviluppi del suo stesso pensiero21. Schelling rispose con una appassionata professione di stima nei confronti di Fichte, spingendosi a stigmatizzare, al di là del «profondo rispetto dovuto all’età e ai grandi meriti», il tempismo della critica kantiana, sopraggiunta proprio nel momento in cui Fichte, appena allontanato dall’Università di Jena, era più debole22. Di fronte al divampare della polemica anti-idealistica Schelling, rimasto di fatto in silenzio al di là delle attestazioni private di consenso a Fichte, non poté rimanere neutrale e, nel corso del semestre invernale, rese pubblica la sua presa di posizione in senso contrario alla Allgemeine Literaturzeitung, sulla quale erano recentemente comparse delle recensioni molto critiche delle sue Ideen. Fichte accolse favorevolmente la “discesa in campo” del giovane amico riservandogli le seguenti parole in una lettera del giugno 1800: «ho letto il Suo scritto con piacere, ma insieme costruito, ma che il sistema della Critica, poggiando su un fondamento completamente sicuro, è per sempre stabilito» (J.G. Fichte - F.W.J. Schelling, Carteggio e scritti polemici, a cura di F. Moiso, Prismi, Napoli 1986, p. 53). 21 Cf. J.G. Fichte - F.W.J. Schelling, Carteggio, cit., pp. 51-52. 22 Cf. ibid., pp. 54-56.

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con il rammarico che oggi l’ingegno che avrebbe di meglio da fare che occuparsi di ignominie letterarie, vi è talora costretto»23. In segno di evidente rottura con l’ambiente accademico jenese il giovane filosofo fondò la Rivista di fisica speculativa, destinata a fungere da luogo di discussione della filosofia della natura e, più in generale, da strumento di aggregazione dei giovani idealisti. Nel marzo del 1799 Schelling invitò Eschenmayer a collaborare alla rivista con l’invio di articoli e saggi critici ma, con Fichte di fatto “epurato” e ormai lontano, lo schieramento idealistico jenese rimaneva fortemente minoritario. Le cose erano destinate a mutare nel gennaio del 1801, quando Hegel raggiunse Schelling a Jena. Fino a quel momento le due principali figure di riferimento in campo idealistico restarono quelle dello stesso Schelling e di F. Schlegel. Tale stato di cose, però, più che intensificare gli scambi di idee e le sinergie fra i due sortì l’effetto di aumentare la loro rivalità, a onor del vero alimentata soprattutto dalla “gelosia” di Schlegel nei confronti di Schelling. All’ostilità “teoretica” fra F. Schlegel e Schelling si accompagnava però un altro motivo di inimicizia fra i due, un motivo di ordine personale destinato ad esplodere proprio nel 1800, vale a dire la relazione sentimentale fra Schelling e la moglie di August Schlegel, della quale si dirà in seguito. Ciò detto, i due autori stavano in realtà battendo sentieri decisamente convergenti, come avrebbe dimostrato in modo inequivocabile la pubblicazione, avvenuta pressoché in contemporanea, del Dialogo e del Sistema. 3. DESTINI INCROCIATI. LA SVOLTA DEL 1800 Stabilire un ordine cronologico fra i due scritti in questione può essere molto arduo. Il Discorso sulla mitologia comparve, a firma di F. Schlegel, sul quinto fascicolo di Athenaeum, risalente 23

Ibid., p. 68.

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al maggio del 1800, quale parte di un’opera più vasta, ossia il Dialogo sulla poesia. Schlegel fu assiduamente impegnato nella redazione dell’opera nel corso dei mesi conclusivi del 1799, ma ancora in agosto, in una lettera a Schleiermacher, Friedrich descrive le varie parti che andranno a comporre il Dialogo come separate. Fra queste, esistono prove documentarie che consentono di ritenere di più antica elaborazione quelle relative al romanzo e all’arte poetica, con particolare riferimento alle figure di Goethe e Shakespeare: su questi temi l’interesse di Friedrich risultava rafforzato e stimolato da quello di August, oltre che dalla più generale Shakespeare-renaissance che aveva fatto seguito in Germania alla pubblicazione del saggio di Herder del 1774. La parte più recente del Dialogo sulla poesia, vale a dire il Discorso sulla mitologia, è invece la parte per noi più interessante. In calce alla Prefazione al Sistema dell’idealismo trascendentale è annotata la data di «fine marzo 1800». Naturalmente, anche in questo caso la stesura dell’opera va pertanto retrodatata di qualche mese, ma le idee ad essa sottese erano presenti nelle opere schellinghiane da anni, almeno due, vale a dire da quando Schelling, dopo il trasferimento a Jena, aveva preso ad occuparsi regolarmente e sistematicamente di filosofia della natura. A differenza del Dialogo di Schlegel, il Sistema di Schelling si rivelò da subito come l’opera filosofica che l’intera Germania attendeva da quando, nel 1794, la prima Dottrina della Scienza di Fichte aveva fatto avanzare lo status quaestionis inaugurato dal criticismo kantiano. Il Sistema, con rigorosa ed analitica esposizione, compendiava le pregresse ricerche schellinghiane sulla fisica speculativa e sulla filosofia della natura, dando in questo modo traduzione teoretica non solo alle intuizioni dei preromantici, ma anche a quelle di ampi settori della cultura ufficiale tedesca – basti su tutti il nome di Goethe – che, pur non riconoscendosi nell’avanguardia del circolo jenese, si facevano portavoce della necessità di un profondo ripensamento del paradigma meccanicistico cartesiano nel campo della fisica.

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In aggiunta a ciò, mentre F. Schlegel, dando seguito ad idee che anticipavano sin troppo i tempi e puntando tutto su forme espressive e contenuti figli di un dialogo interdisciplinare – come si direbbe oggi – fra poesia, teatro, mitologia, religione, narrativa, filosofia ed arte, sortì l’effetto di attirare soprattutto l’attenzione di coloro che già avevano abbracciato la rivoluzione romantica, l’ispirata ma asciutta prosa speculativa dello Schelling conferiva al Sistema una sorta di universale intelligibilità, molto apprezzata all’interno di una comunità di dotti che, formatasi sugli scritti di Kant e prima ancora su quelli di Wolff, vedeva nella univocità di espressione e chiarezza di significato di questi un merito valido ben al di là dell’ambito puramente filosofico. 3.1. Poesia, mito e modernità: il Discorso sulla mitologia di F. Schlegel La genesi del Dialogo sulla poesia si radica in una serie di riflessioni da tempo al centro dell’attenzione di F. Schlegel. Nell’impostazione schlegeliana la nozione di Poesie occupa una posizione di estremo rilievo, che ne fa il perno del progetto romantico anche in riferimento alla questione mitologica: «in essa si risolvono i più stringenti problemi teorici dell’estetica del tempo, dalla Querelle [la disputa sugli antichi e sui moderni] al progetto mitologico appunto» 24. La trattazione schlegeliana del mito è dunque figlia di tale declinazione “forte” della poesia. Il termine Poesie, peraltro, investe un orizzonte semantico molto più vasto di quello di Dichtung, giacché non si riferisce semplicemente alla poesia in quanto genere letterario, ma all’ispirazione che si accompagna ad ogni manifestazione artistica. Questo tratto autorizza un parallelo con Hölderlin, il quale già negli anni del Systemprogramm si 24

M. Cometa, Iduna, cit., p. 149.

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muoveva, come abbiamo visto, su posizioni analoghe. V’è, però, una importante differenza fra i due. Mentre per Hölderlin la poesia è essenzialmente, per così dire, un memoriale dell’originario, il ponte che consente all’uomo di riallacciare il contatto con una sorgente altrimenti indicibile, Schlegel si fa incessantemente araldo dell’emancipazione dal modello classico di poesia, concentrando i suoi sforzi sulla teorizzazione della poesia romantica: la poesia romantica è una poesia universale progressiva. Suo fine non è solo riunire nuovamente tutti i distinti generi della poesia e mettere a contatto la poesia con la filosofia e la retorica. Vuole, e anche deve, ora mescolare ora fondere poesia e prosa, genialità e critica, poesia d’arte e poesia naturale, rendere viva e sociale la poesia e far poetiche la vita e la società25.

Così Schlegel nel celebre frammento 116 di Athenaeum, risalente al luglio 1798. All’interno del più vasto disegno del Dialogo sulla poesia, nel quale si lascia dunque cogliere il cuore della neonata estetica romantica, il Discorso sulla mitologia occupa un posto di tutto rilievo, ma manca di autonomia. Sin da principio, infatti, Schlegel spiega che l’esigenza di una nuova mitologia sorge in seno alla questione dell’oggetto della poesia moderna: voi stessi avete composto poesie, e nell’esercizio poetico dovete aver sentito spesso la mancanza di un solido sostegno per il vostro operare, un suolo materno, un cielo, un’aria viva […] alla nostra poesia, questa è la mia tesi, manca un centro simile a quello che era la mitologia per la poesia degli antichi, e la sostanza di ciò che rende inferiore l’arte moderna in confronto all’antica si può riassumere in poche parole: noi non possediamo una mitologia. Però, vorrei aggiungere, siamo prossimi ad averla, o piuttosto è tempo che noi operiamo seriamente insieme per produrne una26.

25 26

F. Schlegel, Athenaeum, cit., p. 167. Ibid., p. 671.

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Se la chiara distinzione fra poesia antica e poesia moderna rivela il peso della nuova estetica romantica, la quale mira a definire il proprium dell’arte moderna allo scopo di emanciparsi dal modello antico, la dichiarazione più “programmatica” delle ultime righe non può non far pensare al tono enfatico del Systemprogramm. In questo, la mitologia moderna veniva definita «mitologia della ragione», qui invece di essa si dice che «deve essere formata dalla profondità estrema dello spirito: deve essere la più artistica fra tutte le opere d’arte, dovendole comprendere tutte, nuovo letto e nuovo invaso per l’antica e perenne fonte originaria della poesia»27. Poesia e mitologia si coappartengono: la prima si nutre della seconda, la quale a sua volta fornisce espressione alla prima. Si cela qui, secondo Cometa, l’elemento nuovo della riflessione schlegeliana, vale a dire «l’aver posto l’accento sull’aspetto formale e trascendentale di questo rapporto dove la forma mitologica rappresenta piuttosto la veste sensibile della poesia e della sua funzione trascendentale»28. Schlegel riconosce l’importanza dell’idealismo – «il più importante fenomeno della nostra epoca» – e ritiene che lo stimolo da questi esercitato su tutte le altre forme del mondo spirituale prefiguri, in qualche modo, il compimento di questa rivoluzione, che sarà dato dalla comparsa di una nuova mitologia. Facendo implicito riferimento alle ricerche di Schelling, Schlegel osserva come l’idealismo abbia attecchito dapprima nella fisica e soltanto in seguito nella filosofia: ciò comporta l’idea che l’idealismo rappresenti qualcosa di più dell’evoluzione del pensiero di Kant e Fichte, venendo di fatto ad identificarsi con l’anima profonda del tempo. Questo non vuol dire che Schlegel non sia attento nei confronti degli sviluppi filosofici, anzi: la parte centrale del Dialogo è dedicata all’esaltazione di

27 28

Ibid., p. 672. M. Cometa, Iduna, cit., p. 74.

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Spinoza e del valore del suo pensiero29. Ma mentre la filosofia moderna deve fermarsi di fronte all’impossibilità di rendere sensibile e materiale quell’unione suprema che essa predica su piano teoretico, la mitologia – che sotto questo punto di vista è la migliore e più fedele testimonianza dell’idealismo – ha un grande vantaggio: ciò che altrimenti non manca mai di rifuggire dalla coscienza, qui diviene segno visibile, sensibile e spirituale, e viene trattenuto come l’anima nel corpo che la circonda, dal quale essa brilla nel nostro occhio e parla al nostro orecchio […] la mitologia è una siffatta opera d’arte della natura. Nelle sue trame, il sommo è realmente formato; tutto è relazione e mutamento, assimilato e trasformato, e questo informare e trasformare sono appunto il suo procedimento peculiare, la sua vita interiore30.

Tutto ciò è possibile alla mitologia purché essa riesca ad attingere a «qualcosa di originario, primo ed inimitabile», vale a dire quel centro al quale solo la poesia, in quanto specchio della «bella confusione del caos originario», può elevare l’uomo. La passione per una origine immaginata come pre-razionale spiega la preferenza accordata da Schlegel alla poesia spagnola del siglo de oro, nella quale un fervore religioso decisamente antirazionalistico e anticartesiano avvolge ogni moto di spirito. La convinzione che l’origine della poesia affondi nella religione

29 Questo tratto esprime, per Tilliette, uno dei punti di maggiore distanza fra F. Schlegel e Schelling nel 1800, giacché mentre quest’ultimo aveva già fatto i conti con Spinoza negli anni precedenti e stava ormai muovendo all’edificazione di qualcosa di molto diverso – la filosofia della natura su base idealistica – il primo testimonia, nel Dialogo, una esaltazione di Spinoza che sarebbe solo apparentemente conciliabile con la professione di fede idealistica di Schlegel, dal momento che l’idealismo, grazie all’opera congiunta di Fichte e Schelling, aveva già da anni inalberato il vessillo dell’Assoluto come Soggetto in chiave antisostanzialista. Cf. X. Tilliette, La mythologie comprise, cit., p. 22. 30 F. Schlegel, Athenaeum, cit., pp. 674-675.

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si salda con la nascita degli studi europei sul sanscrito nel dare vita alla persuasione che la vera culla della civiltà non sia la Grecia, ma l’India: «in Oriente dobbiamo cercare ciò che è più sommamente romantico, e quando saremo in grado di attingere direttamente alla fonte, forse l’apparenza di ardore meridionale che attualmente tanto ci affascina nella poesia spagnola, ci apparirà nuovamente occidentale e sobria»31. Queste parole lanciano un ponte verso il cosiddetto “secondo” Romanticismo, o Romanticismo di Heidelberg, ed hanno il merito di segnare una importante linea di confine fra gli Schlegel e Schelling, vale a dire fra Romanticismo ed Idealismo32. La schlegeliana professione d’amore per Spinoza e per l’idealismo entra infatti in rotta di collisione con la convinzione che proprio ciò che è «sommamente romantico», ossia moderno al massimo grado, conduca non a battere le vie del lovgo~– le vie dell’Occidente – ma quelle del muvqo~– le vie che risalgono ad Oriente. Tale linea di indagine fornisce quella che, a nostro parere, è la tessera centrale del mosaico mitologico composto da Schlegel nel Discorso: mentre i presupposti circa la necessità di dare vita ad una «nuova mitologia» sembravano descrivere un contesto per certi versi accostabile a quello che aveva fatto da humus al Systemprogramm33 – il mito moderno come mito al Ibid., p. 676. Se si accetta l’idea che già nel Dialogo di F. Schlegel sia possibile rinvenire un punto di comunione fra Jena e Heidelberg, con la conseguenza di ripensare la distinzione fra “primo” e “secondo” Romanticismo, risulterà invece tanto più fecondo, ai fini del confronto fra Schlegel e Schelling, l’approfondimento della linea di demarcazione che separa il Romanticismo nel suo insieme dall’Idealismo. Su questo punto cf. G. Moretti, Heidelberg romantica. Romanticismo tedesco e nichilismo europeo, Guida, Napoli 2002, pp. 145-186. 33 Circa l’approfondimento di tale linea di considerazioni cf. R. Assunto, Estetica dell’identità, cit., pp. 108-109, laddove l’autore ritiene che la valorizzazione dell’idealismo contenuta nel Discorso possa gettare un ponte fra il progetto della mitologia moderna presente nel Systemprogramm e il Discorso stesso. Assunto spiega la posizione di F. Schlegel nel Discorso immaginando che questa sia figlia delle conversazioni del medesimo Schlegel e Schelling, con la conseguenza di proporre la controversa concezione di uno Schelling ispiratore del progetto 31

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servizio della ragione, funzionale all’instaurazione del trionfo di questa su ogni superstizione – il prosieguo del discorso schlegeliano rivela l’irriducibilità del progetto romantico a quello idealistico, dal momento che il primo, a differenza del secondo, non intende tanto tradursi nell’effettiva elaborazione di qualcosa di nuovo, quanto nella scelta di rinnovare il legame con la fonte34. di Athenaeum. Nel ricollegare tale questione a quella della dibattuta precedenza cronologica fra Sistema e Discorso, Tilliette da un lato segue Assunto circa gli echi del Systemprogramm presenti nel Discorso, dall’altro però, sulle orme di R. Haym (R. Haym, Die romantische Schule, cit., p. 693), sottolinea la verosimile precedenza del progetto del Discorso rispetto al Sistema e conclude ribadendo l’idea che i temi in esso contenuti risultino ampiamente inscrivibili all’interno dell’itinerario di F. Schlegel anche senza scomodare influenze schellinghiane. Cf. su questo X. Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, I, Vrin, Paris 1970, pp. 442-443. Così anche S. Givone osserva che «le osservazioni schlegeliane, riprese da Schelling di lì a pochi mesi, anticipano anche, sia pure in modo inconsapevole, il successivo passaggio schellinghiano dalla filosofia dell’identità alla filosofia della libertà […] nell’identità di natura e spirito è lo spirito che redime se stesso dalla natura, esattamente come nell’identità di necessità e libertà è la libertà che redime se stessa dalla necessità e nell’identità di finito ed infinito è l’infinito a redimersi dalla finitezza. Due anni più tardi Schelling riproporrà il problema nella Filosofia dell’Arte, che per l’appunto inaugura quel passaggio e, com’era inevitabile, lo inaugura per via estetica» (S. Givone, La questione romantica, Laterza, Bari 1992, pp. 11-12). 34 Questo punto di vista viene chiaramente illustrato in M. Frank, Einführung in die frühromantische Ästhetik, Suhrkamp, Frankfurt 1989. Caratteristico dell’atteggiamento romantico è il bramare (sehnen) un Assoluto che si immagina però inaccessibile al pensiero concettuale. Tale irrisolutezza di fondo propria al romanticismo è puntualmente presente non soltanto nell’opera, ma anche nella personalità di F. Schlegel, il cui estro poliedrico gli faceva concepire mille progetti geniali senza però dargli la determinazione e la capacità di condurne alcuno in porto. Sotto questo aspetto egli era diverso dal fratello August, che scelse di seguire la propria vocazione di traduttore e storico della letteratura senza accarezzare sogni filosofici, ma soprattutto da Schelling e, ancora di più, da Hegel. Questa differenza trova puntuale espressione nella differente concezione del mito, che per l’estensore del Systemprogramm deve stare al servizio della ragione, mentre per Schlegel deve dare nuova voce alla sorgente della poesia originaria. Cf. K. Vieweg - T. Grüning, Wissen oder Ersehnen des Absoluten. Hegel contra Novalis und Friedrich Schlegel, in F. Strack, Evolution des Geistes, cit., pp. 532-544. Contrariamente a questa chiave di lettura, F. Mennemeier ritiene che l’intera produzione di F. Schlegel sia segnata da una fortissima carica di «rivoluzione culturale» rispetto alla quale il sentiero

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Quella romantica è una rivoluzione che può esser definita tale solo in senso astronomico35. La presenza nel Systemprogramm dell’esaltazione della poesia come «maestra dell’umanità» non basta ad avvicinare quest’ultimo al Discorso, soprattutto alla luce delle parole conclusive del frammento nelle quali, con fare messianico, viene preconizzato l’avvento di uno spirito in grado di fondare una nuova religione dell’umanità in grado di realizzare l’uguaglianza degli uomini. È proprio questo tono, frutto evidente dell’infatuazione rivoluzionaria dell’estensore del frammento, a marcare la differenza con la chiusa del Discorso: mi pare che chi comprendesse la nostra epoca, cioè quel grandioso fenomeno di generale ringiovanimento, quei princìpi dell’eterna rivoluzione, dovrebbe essere in grado di ravvisare i poli dell’umanità, di distinguere e conoscere l’operato dei primi uomini, come anche il carattere dell’età aurea che ancora deve venire. Allora tacerebbero le chiacchiere insulse e l’uomo si renderebbe conto di ciò che è e comprenderebbe la terra e il sole. Questo è quanto intendo io per nuova mitologia36.

schlegeliano sarebbe in tutto e per tutto equiparabile a quello descritto nel Systemprogramm, con la differenza che l’istanza progettuale sarebbe chiaramente ed esplicitamente demandata alla poesia moderna, destinata ad ispirarsi all’idealismo nel suo tentativo di dare la luce a qualcosa di radicalmente nuovo. Più in generale, lo spunto dello studio di Mennemeier è quello di mostrare come non esista autentica cesura fra Illuminismo e pre-romanticismo jenese. Cf. F. Mennemeier, Friedrich Schlegels frühromantisches Literatur-Programm, in C. Jamme - G. Kurz (hrsg.), Idealismus und Aufklärung. Kontinuität und Kritik der Aufklärung in Philosophie und Poesie um 1800, Cotta, Stuttgart 1988, pp. 283-296. 35 Di diverso parere è invece Cometa, il quale fa di mitologia ed idealismo i due poli della riflessione schlegeliana, ponendo l’accento sull’anticipazione, presente nell’opera di F. Schlegel, di gran parte delle intuizioni filosofiche presenti nel Sistema di Schelling. Cf. M. Cometa, Iduna, cit., pp. 106-108. Da questo punto di vista la lettura di Cometa si colloca agli antipodi rispetto a quella di Assunto. 36 F. Schlegel, Athenaeum, cit., pp. 676-677.

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Non può non colpire il fatto che all’utopistica immagine della nuova umanità con la quale si chiude il Systemprogramm si contrapponga quella di una nuova mitologia intesa come chiave di accesso alla comprensione della terra e del sole, da realizzarsi mediante l’instaurazione di una «età aurea» che non può tuttavia prescindere dall’operato «dei primi uomini». L’idea stessa di rivoluzione, una volta eternificata, finisce inevitabilmente col perdere i caratteri della sua irripetibilità connessa all’avvento del Moderno, e si trasforma in una sorta di legge storico-cosmica sempre in esercizio la quale, più che separare antico e moderno, li ricollega. In altre parole: lì, il mito di una palingenesi, dell’inaugurazione di una nuova età dello spirito; qui, la riappropriazione del senso profondo della storia mediante il ricongiungimento con la sorgente viva che si trova all’origine37. 3.2. La svolta estetica di Schelling: il Sistema dell’Idealismo trascendentale La pubblicazione del Sistema dell’Idealismo trascendentale38 segna uno spartiacque nella carriera filosofica di Schelling: essa non è soltanto l’opera che dona al filosofo una grande notorietà ma anche il progetto di gran lunga più impegnativo ed ambizioso tentato da Schelling fino a quel momento. Nel Sistema confluiscono e si danno convegno tutti i principali nuclei del pensare schellinghiano: l’opzione idealista figlia della lettura di Fichte, lo sviluppo di una filosofia della natura come momento di spiega-

37 Alla luce di queste considerazioni ci pare di poter ritenere utile il momentaneo accantonamento della canonica distinzione fra un “primo” e un “secondo” Romanticismo, il primo dei quali “progressista” e il secondo dei quali “reazionario”, in favore di una opposizione, giocata su di un livello più generale, fra Romanticismo ed Idealismo. 38 Cf. F.W.J. Schelling, System des transzendentalen Idealismus, in Id., Historisch-kritische Ausgabe, cit., IX 1-2, in italiano F.W.J. Schelling, Sistema dell’Idealismo trascendentale, a cura di G. Boffi, Bompiani, Milano 2006.

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mento dell’Assoluto, la centralità della dimensione estetica, tratta dalle suggestioni ricevute dal circolo romantico, all’interno della quale Schelling riprende e porta avanti il suo interesse giovanile per il mito. Ora, a soli venticinque anni, Schelling è in grado di riconsiderare tutti questi ingredienti e di portarli a reagire in modo tale che da essi abbia origine qualcosa di nuovo ed originale, prova irrefutabile del conseguimento di piena maturità scientifica e padronanza dei propri mezzi speculativi. Scrive Moiso: l’evoluzione di Schelling comporta, con il System, un ripensamento della filosofia trascendentale, reso urgente dalla stessa impostazione ultima della sua filosofia della natura: poiché questa ha mostrato la costante traccia della ragione nella natura […] la filosofia trascendentale di Schelling ricalca solo apparentemente struttura e contenuto della dottrina della scienza: a differenza di questa, infatti, non vuole collocarsi solo sul piano dell’osservazione, della rappresentazione e della sistemazione della coscienza reale, ma porsi nel diretto punto di vista della produzione […] il System compie quanto Schelling aveva promesso nell’Ideen: ricondurre la filosofia nel reale e nella vita. Il suo culmine infatti è la presentazione dell’arte come quell’attività in cui ciò che riesce a una piccola parte dell’umanità e a un frammento dell’uomo totale, cioè al filosofo, cogliere cioè il supremo, diviene o almeno può divenire patrimonio di tutta l’umanità e di tutto l’uomo: nell’arte avviene la definitiva riconciliazione della speculazione con la vita dell’umanità39.

L’idea di un’opera siffatta era evidentemente presente in Schelling già da molto tempo, come provano i titoli dei corsi da lui tenuti a Jena fra il 1798 e il 1800: «Elementi di Idealismo trascendentale. Filosofia della natura» per il semestre invernale dell’A.A. 1798-1799; «Filosofia della natura. Sistema universale di filosofia trascendentale» per il semestre estivo; «Principi 39 F. Moiso, Introduzione, in J.G. Fichte - F.W.J. Schelling, Carteggio, cit., pp. 23-24.

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di filosofia dell’arte» per il semestre invernale dell’A.A. 1799180040. In una missiva del 19 aprile Goethe scrive a Schelling: La ringrazio moltissimo del fatto che, con la Sua opera [il Sistema], mi abbia dato l’opportunità di intrattenermi con Lei spesso e a lungo. Solo il tempo potrà dire se io mi stia semplicemente illudendo di afferrarne il senso o se invece la grande vicinanza che io sento nei confronti di questo scritto potrà tramutarsi in una reale partecipazione; ritengo quantomeno che in esso si trovino molti pregi per tutti coloro la cui vocazione è praticare l’arte e contemplare la natura41.

Circa due settimane più tardi anche Schiller scrive a Schelling, prendendo congedo con le seguenti parole: «dal momento che Lei, nel Suo Sistema, ha fatto intercorrere una così stretta relazione fra poeti e filosofi, lasci che ciò contribuisca a rendere indistruttibile anche la nostra amicizia» 42. Più complessa la questione del giudizio che, probabilmente, Schelling riteneva il più importante, vale a dire quello di Fichte. In realtà Fichte, che aveva ricevuto lo scritto schellinghiano nel maggio del 1800, non avrebbe comunicato a Schelling alcuna opinione su di esso. Restano aperti gli interrogativi Cf. H. Fuhrmans, F.W.J. Schelling, cit., p. 163. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 297, tr. nostra. Il rapporto di Goethe con la filosofia si sarebbe sempre mantenuto ondivago. In una lettera che precede di pochi giorni quella appena citata, egli scrive a Schiller di concordare con l’idea che di fronte all’attività del genio ogni riflessione debba cedere il passo. Quasi un anno dopo, nel febbraio 1802, Goethe confesserà a Schiller le proprie difficoltà con la filosofia proprio in relazione al confronto con Schelling: «Ho trascorso una serata molto piacevole con Schelling. Quando chiarezza e profondità si uniscono è sempre cosa gradita. Vorrei incontrarlo più spesso, se solo io non fossi sempre in cerca di momenti di ispirazione poetica, e la filosofia non distruggesse in me ogni poesia, e precisamente perché mi spinge alla considerazione dell’oggettività. Io, invece, non riesco mai a ragionare in modo puramente speculativo e debbo cercare l’intuizione in ogni frase e allora fuggo subito nelle braccia della natura» (Schiller - Goethe, Briefwechsel, Insel Verlag, Frankfurt am Mein 2005, p. 938, tr. nostra). 42 Ibid., p. 298, tr. nostra. 40

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su questa decisione. Schelling attese sei mesi prima di rimettersi in contatto con Fichte e quando lo fece, in novembre, era fermamente intenzionato ad aprire una discussione inerente non tanto il giudizio sul Sistema quanto il reciproco posizionamento filosofico dei due. Questa discussione avrebbe dato vita ad un serratissimo confronto epistolare sulla natura dell’idealismo che, com’è noto, si sarebbe protratto per tutto l’anno successivo per concludersi nella clamorosa rottura del 1802. Su questo punto, non ci è tuttavia possibile procedere oltre43. Dei sei capitoli dei quali l’opera si compone, è soltanto l’ultimo ad interessarci, nel quale il filosofo tratta della «deduzione di un organo generale della filosofia, ovvero proposizioni fondamentali di filosofia dell’arte secondo i principi dell’idealismo trascendentale». Nel tentativo di offrire una ostensione del punto di equilibrio fra spirito e natura nel quale l’Assoluto consiste, Schelling approda all’idea che tale non possa essere altro che il prodotto artistico (das Kunstprodukt). Per comprendere la natura di quest’ultimo è necessario fare riferimento a chi lo produce, vale a dire il genio, concetto definito «oscuro» dal filosofo in quanto, al pari del destino (Schicksal), esso riesce a realizzare dei «fini non immaginati»: esso è, ancora, l’inafferrabile (das Unbegreifliche) che supera e sfugge la libertà «aggiungendo al cosciente l’oggettivo». In questa attività di “immissione” (hinzubringen) dell’oggettivo (das Objektive) nel cosciente (das Bewußte) si rivela il carattere sintetico di un’azione che non può risultare circoscritta dalla libertà – la quale, fichteanamente pensata come autoposizione assoluta, delimita l’ambito della suprema coscienzialità – proprio perché si allarga fino ad abbracciare ciò che Schelling definisce «l’oggettivo», vale a dire l’irriflesso, il naturale. Esat43 Circa il presente argomento è possibile fare riferimento a H. Fuhrmans, F.W.J. Schelling, cit., pp. 217-230 e soprattutto a J.G. Fichte - F.W.J. Schelling, Carteggio, cit., pp. 83-160.

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tamente per questa ragione, peraltro, tale attività non coincide con la pura luce dell’autocoscienza e non può pertanto essere compresa – resta infatti «inafferrabile» – proprio come il concetto di genio rimane «oscuro» 44. Schelling non si nasconde la difficoltà di un plesso che può sembrare contraddittorio – in quanto pretende di mettere insieme coscienza ed incoscienza, soggettivo ed oggettivo, spirituale e naturale – ma è anzi deciso a fare di tale apparente contraddizione il punto archimedeo del proprio sistema: «questa contraddizione, mettendo in movimento l’uomo intero con tutte le sue forze, è senza dubbio una contraddizione che investe quel che v’è di ultimo in lui, la radice di tutta la sua esistenza» 45. Questa sottolineatura del richiamo a «l’ultimo» (das Letzte), a «la radice» (die Wurzel) dell’uomo non può non far pensare a ciò che F. Schlegel chiama, nel Discorso, «l’originario» (das Ursprüngliche): v’è certo una certa concordanza nel modo in cui i due autori, a poche settimane di distanza, cercano di descrivere il fondo del pozzo al quale è necessario attingere per portare alla luce l’acqua più fresca e pura. Né è da sottovalutare la comune intenzione di introdurre nella discussione un piano che sia tale da eccedere, in qualche modo, l’orizzonte della razionalità. Il passo ulteriore di Schlegel consiste, l’abbiamo visto, nella delineazione della poesia come luogo di rivelazione dell’originario. Del pari, anche Schelling ritiene che la produzione artistica riveli l’attività del genio, la quale possiede la caratteristica principale di realizzare «fini non immaginati», cioè di procedere in modo parzialmente inconscio. Pertanto, chiosa il filosofo, «nel privo di coscienza che entra

44 Su tale questione è possibile fare riferimento a G. Moretti, Il genio. Origine, storia, destino, Morcelliana, Brescia 2011. Circa la specifica trattazione del problema in Schelling l’autore osserva che: «genio è per Schelling una particolarissima forma della coscienza, e precisamente una coscienza che espone l’unità di coscio e inconscio nel prodotto artistico, là dove invece ogni coscienza, anche quella del filosofo, proprio mentre è tale, necessariamente separa e cioè perde l’identità» (G. Moretti, Il genio, cit., p. 127). 45 F.W.J. Schelling, Sistema, cit., p. 557.

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nell’arte dobbiamo cercare quanto in essa non si può imparare né ottenere esercitandosi, o in altro modo, ma può essere solamente innato per un favore gratuito della natura, e che costituisce ciò che, in una parola, possiamo chiamare la poesia nell’arte» 46. Torna, qui, il tema della Poesie come punto di giunzione fra la posizione di Schlegel e Schelling: la sottolineatura della centralità della poesia è infatti punto di passaggio, tanto nell’uno che nell’altro, verso la questione del mito moderno. Con una differenza: in Schlegel tale questione è nativa, vale a dire presente sin dall’inizio, come dimostra il profilo letterario della sua precedente produzione, mentre in Schelling essa si aggiunge in un secondo momento, sovrapponendosi ad una intelaiatura concettuale speculativa già robusta. In Schlegel, l’importanza del dato poetico come medium di finito e infinito discende dallo studio delle letterature e, soprattutto, dal perno sul quale è centrata tutta l’estetica schlegeliana: il tentativo di trovare una soluzione chiara alla Querelle su antichi e moderni mediante l’individuazione del canone romantico come canone della modernità, includente al suo interno l’idealismo quale parte dello sviluppo di una nuova mitologia, destinata a dare corpo e sostanza alla poesia romantica. Tale ordine di considerazioni è del tutto assente in Schelling almeno fino al 1798, quando il soggiorno a Dresda ne risveglia la sensibilità artistica. L’arte viene trattata da Schelling nei corsi preparatori alla redazione del Sistema quale momento di coronamento della parabola tangenziale fra natura e spirito. Ma proprio per questo la Poesie, in Schelling, non è che una faccia della medaglia, quella dell’inconscio, essendo l’altra rappresentata dall’elemento conscio. Da questo punto di vista è come se il riferimento alla produzione artistica consentisse a Schelling di trovare il punto d’appoggio del quale necessitava per stabilizzare il sistema filosofico che era venuto elaborando negli anni della filosofia della natura. 46

Ibid., p. 561.

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Egli situa dunque nell’opera d’arte quella «infinità priva di coscienza» (bewußtlose Unendlichkeit) che consente di procedere al di là di ogni apparente ossimoro. Tale realtà rischia però di esaurirsi in una pura locuzione, nella predicazione di qualcosa la cui esistenza viene semplicemente postulata per coronare il sistema. È in questo momento, allorché Schelling si trova nell’obbligo non solo di definire, ma anche di esibire la realtà di ciò da cui ormai dipende la sua intera struttura di pensiero, che il filosofo compie il passaggio decisivo ai fini del nostro discorso, introducendo in esso il tema della mitologia quale concreta esemplificazione della natura ancipite della produzione poetica: prendiamo, per illustrare in modo perspicuo, un solo esempio: la mitologia greca, di cui non si può negare che contenga un senso infinito e simboli per tutte le idee, è nata in seno a un popolo e in una maniera tali, l’uno e l’altra, da far ritenere impossibile un’intenzionalità permanente nell’invenzione e nell’armonia con la quale il tutto si trova unificato in un unico vasto insieme. Così avviene per ogni vera opera d’arte, perché essa, quasi vi fosse in lei una infinità di intenzioni, è capace di un’infinita interpretazione, benché non si possa mai dire se questa infinità sia stata presente nell’artista medesimo o si trovi soltanto nell’opera d’arte47.

Questo passaggio testimonia di una svolta decisiva nell’atteggiamento schellinghiano sul mito, alla luce dell’esplicita rinuncia del filosofo ad associare alla mitologia la categoria di invenzione (Erfindung) alla quale, in modo più o meno chiaro, essa era stata collegata nel saggio Sui miti e di fatto ancora – si badi bene – nel Systemprogramm. Schelling prende così congedo, in una forma che diverrà paradigmatica nella Filosofia dell’Arte, dalla convinzione che un mito possa essere, per così dire, creato a tavolino in vista di un determinato fine. Non è l’oggetto dell’attenzione del filosofo ad essere diverso. A dif-

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Ibid., pp. 563-565.

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ferenza dei romantici Schelling non si interessa ancora di Shakespeare o di Cervantes: egli resta concentrato sulla mitologia ellenica48. È la natura dello sguardo del filosofo ad essere cambiata, come testimonia nel modo più lampante il passaggio ad una definizione di mitologia come «un unico vasto insieme» contrassegnato da tale intima armonia da rendere impensabile qualunque intenzionalità creatrice. L’idea di mitologia frutto dell’azione del denkender Weise appare ora lontana come non mai. Ciò non vuol dire che non si dia la possibilità di risalire ad un “autore”: in quanto produzione artistico-poetica, la mitologia riposa sull’opera del genio. La differenza essenziale fra il genio ed il saggio consiste nel fatto che mentre il secondo agisce – così nel Sui miti – in vista di un fine razionale quale l’educazione del suo popolo, la trasmissione di un dato insegnamento morale o scientifico, o ancora la creazione di un patrimonio identitario condiviso, il primo è tale solo e soltanto nella misura in cui ciò che esce dalle sue mani, o dalla sua penna, conserva in sé un surplus di significato del quale l’autore stesso non intende né può disporre. Giova sottolineare come questa posizione schellinghiana non rappresenti in alcun caso il cedimento di fronte alla magnificazione dell’elemento irrazionale fine a se stesso: l’attività del 48 Già negli anni precedenti il Discorso abbondano, invece, i riferimenti di August e Friedrich Schlegel all’importanza di Dante, Shakespeare, Cervantes e Calderón. Soprattutto nei frammenti di Athenaeum è chiara la sottolineatura del valore moderno e romantico della poesia cristiana, destinata, per gli Schlegel, a trasformarsi prossimamente nella mitologia moderna. Basti, a tale riguardo, il riferimento al frammento 247 di Athenaeum, risalente al luglio 1798: «la poesia profetica di Dante è l’unico sistema della poesia trascendentale, nel suo genere sempre il supremo. L’universalità di Shakespeare è come il centro dell’arte romantica. La poesia puramente poetica di Goethe è la più perfetta poesia della poesia. Questo è il grande accordo triplice della poesia moderna, il circolo più intimo e più sacro fra tutte le sfere vicine e lontane che nascono dalla scelta critica dei classici della poesia moderna» (F. Schlegel, Athenaeum, cit., p. 187). Questa impostazione non tarderà molto ad esercitare la sua influenza sullo stesso Schelling, come si vedrà nella Filosofia dell’Arte e nello scritto su Dante.

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genio si colloca, infatti, in un punto che sovrasta tanto il conscio quanto l’inconscio. Nell’opera d’arte convivono pertanto la Kunst propriamente intesa (la techné, l’abilità che può essere appresa, il fattore razionale) e la Poesie (l’ispirazione originaria, il fattore inconscio)49. È la tangenza dei due fattori a determinare il sovrappiù di significato dell’opera d’arte. Solo sulla base di tale sovrappiù può trovare giustificazione ciò che Schelling scrive a proposito della infinita potenzialità di interpretazione di ogni vera opera d’arte e circa l’impossibilità nel discernere ciò che in essa è stato tratto dall’artista da ciò che in essa eccede l’artista stesso. È bene tenere a mente questo punto, perché è a partire da un tale ordine di considerazioni che Schelling arriverà, nella Filosofia dell’Arte, a spiegare la valenza simbolica delle rappresentazioni mitologiche. Per ora Schelling sceglie di non battere questo sentiero, anche se la menzione dei «simboli per tutte le idee» contenuta nel passo sopra citato è comunque già un segno. L’impegno del filosofo è dedicato primariamente alla delineazione della intuizione estetica (ästhetische Anschauung) quale via d’uscita maestra dalla contraddizione altrimenti incombente sull’intera esistenza intellettuale. Si inizia ora a capire, sia detto per inciso, come l’allontanamento di Schelling da Fichte affondi le sue radici proprio nel Sistema, giacché il piano risolutivo non è più quello dell’intuizione intellettuale ma di quella estetica, involontaria (unwillkürlich)50. Il filosofo asserisce a chiare lettere che la sintesi esistenziale conseguita dall’intuizione estetica si realizza non grazie al bello, ma mercé il sublime (das Erhabene) il quale ha la capacità di «mettere in movimento tutte le forze dell’animo». Tale asserto

Cf. T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., p. 70. Per una trattazione analitica della genesi dell’intuizione estetica e della relazione di questa con l’intuizione intellettuale si faccia riferimento a X. Tilliette, L’intuizione intellettuale da Kant a Hegel, a cura di F. Tomasoni, Morcelliana, Brescia 2001. 49

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ricollega Schelling direttamente alla lezione estetica di Schiller51 e fonda un regno estetico nel quale il sublime non è più declinato nella sola forma del sublime naturale, come in Kant, ma anche e soprattutto in quella del sublime artistico. Di conseguenza, anche se l’opposizione fra bello e sublime recede di fronte al loro comune radicamento nella sintesi di conscio e inconscio, essa resta nondimeno valida quanto all’effetto che essi producono: la sottolineatura della commozione (Rührung) esercitata dal sublime sull’animo ribadisce il senso di quella che potremmo definire una precedenza del sublime nel segno del tragico52. Ancora una volta, è la nozione di genio a soccorrerci: solo il genio spiega il carattere infinito – e dunque sublime – dell’arte, la quale, a differenza di ogni altra creazione umana, ha la particolarità di procedere da una «contraddizione infinita» (unendlicher Widerspruch). L’arte, pertanto, racchiude in sé una contraddittorietà che, se non può essere ricomposta, rende però possibile la sua apertura all’illimitato. Ora, tale apertura viene rivelata solo nel momento in cui tale infinita contraddizione viene ad essere effettivamente ricomposta nonostante la sua infinitezza: questa la prodigiosa attività del genio. Il punto non è, per Schelling, circoscrivere la genialità umana alla sola sfera della produzione artistica, giacché egli concede che Newton o Keplero fossero dei geni: il punto è prendere atto del fatto che mentre l’apporto del genio rimane problematico nella scienza, dal momento che ciò che la scienza produce può essere prodotto del genio ma ordinariamente non lo è, «ciò che l’arte produce è possibile esclusivamente ed unica51 La superiorità del sublime sul bello risiede, in Schiller, nella capacità del primo di provocare quella commozione dell’animo (Rührung des Gemüts) in grado di purificare e migliorare l’uomo. Ciò vale in massimo grado nel caso dell’arte che più di tutte è a ciò destinata, cioè quella tragica, nella quale il sublime dispiega la sua potenzialità catartica nella forma del patetico (pathetisch) allorché lo spettatore è chiamato ad assistere alla sofferenza subìta ingiustamente dall’eroe tragico e da questi affrontata con quella dignità (Würde), che è poi la traduzione antropologica dello stesso sublime. 52 Sulla nozione di tragico in Schelling cf. F. Moiso, Vita, natura, libertà, cit., pp. 135-200.

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mente per via del genio, perché in ogni problema risolto dall’arte si trova composta una contraddizione infinita» 53. Il genio si qualifica risolvendo problemi che sarebbero insormontabili in base alle conoscenze in suo possesso, ideando soluzioni nelle quali l’idea del tutto precede quella delle singole parti: in esso si realizza cioè, come sappiamo, l’inattesa coincidenza di conscio ed inconscio. Questo vale in massimo grado per il genio artistico, il quale si trova a ricomporre una contraddizione infinita: ciò che è al principio sublime, vale a dire contraddittorio e inafferrabile, si rivela infine, grazie all’attività del genio, come bello, ossia come misteriosamente commisurato alla nostra facoltà estetica. In questo consiste propriamente il miracolo dell’arte in generale e, segnatamente, dell’intuizione estetica rispetto a quella intellettuale: solamente l’opera d’arte mi riflette ciò che non viene riflesso da nient’altro: quel medesimo assolutamente Identico che nell’io si è già scisso; l’arte opera il miracolo di irradiare dai suoi prodotti quello che il filosofo ha lasciato che si scindesse già nel primo atto della coscienza, e che altrimenti è inaccessibile ad ogni intuizione54.

La scissione istituisce l’Io: l’Io stesso è scissione in quanto articolazione logico-metafisica del por-si, rispetto alla quale la partizione originaria fra Io in quanto ponente ed Io in quanto posto cade sempre alle spalle. L’unità guadagnata mediante l’intuizione intellettuale è pertanto fallace, perché pretende riunire ciò che, già scisso, non può che ritirarsi di fronte ad ogni successivo tentativo di riunificazione: questa via risulta impercorribile, «impraticabile» (unzugänglich) ad ogni intuizione. Tranne che all’intuizione estetica. Questa, infatti, aprendosi al frutto dell’oscura attività del genio, spezza il cerchio magico dell’autoreferenzialità dell’Io, custodisce il mistero di una sintesi che proviene da sentieri che all’Io è 53 54

F.W.J. Schelling, Sistema, cit., p. 571. Ibid., p. 575.

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impossibile ripercorrere perché parzialmente inconsci, ed infine intuisce la suprema sintesi di natura e spirito divenuta accessibile mediante la realtà di un terzo – l’opera d’arte – fisicamente altro rispetto all’Io ed alla natura. Come osserva Griffero «vi è una radicale differenza tra l’armonia puramente pensata o puramente creduta e quella concretamente oggettivata per l’io stesso» 55. L’arte assolve pertanto ad un compito particolarmente delicato soprattutto se raffrontato alla durezza con la quale la scissione soggetto-oggetto si è venuta coagulando come uno specifico portato della modernità. Naturalmente, dietro tale declinazione implicitamente critica del moderno è forse possibile ravvisare anche un’anticipazione della contestazione schellinghiana alla distinzione fichteana fra Io e Non-Io: sotto questo rispetto la filosofia dell’arte del Sistema si rivela come “l’arma definitiva” della filosofia della natura di Schelling, capace di condurre in porto quello scardinamento della scissione originaria che è allo stesso tempo, per Schelling, destino e condanna del moderno. Il ruolo “eversivo” giocato dall’estetica schellinghiana all’interno di questo contesto è evidente: «ciò che si oggettiva unicamente con la produzione estetica è non soltanto il primo principio della filosofia e la prima intuizione da cui essa procede, bensì anche l’intero meccanismo che la filosofia deduce e sul quale essa stessa riposa»56. Giova premettere che in queste righe l’attenzione di Schelling perde momentaneamente di vista l’intuizione estetica in sé per concentrarsi invece su ciò che mediante essa viene intuìto, ossia l’unità di conscio ed inconscio. L’argomentazione del filosofo procede su due piani. A parte post, si può dire che l’intuizione estetica riveli la natura del «primo principio» della filosofia, vale a dire l’Assoluto come sintesi di Natura e Spirito. Tuttavia, a parte ante ci si rende conto di come tale Assoluto, prima ancora che come risultato, valga anche come processo, con il che l’intuizione estetica 55 56

T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., p. 66. F.W.J. Schelling, Sistema, cit., p. 575.

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rivela la struttura stessa del reale che essa medesima presuppone. Questo consente a Schelling di tirare le fila della propria filosofia della natura, saldando in un unico discorso i propri studi sulla fisica speculativa con il pensiero dell’intuizione estetica, via d’accesso all’Assoluto e, in uno, percorso istitutivo dell’Assoluto stesso. E cos’altro è, difatti, l’Assoluto se non «un’unica opera d’arte»? L’arte – qui elevata ad una altezza forse mai più raggiunta nel pensiero di Schelling – diviene «organo della filosofia», poiché essa, e solo essa, dischiude al filosofo quel sacrario nel quale Natura e Spirito ardono in un’unica fiamma. Questa visione dell’Assoluto, che quoad nos viene conseguita al termine di un percorso che culmina nell’intuizione estetica, è in realtà la natura originaria dell’Assoluto per come il genio la contempla costantemente, senza essere in grado di conoscerne il perché. Allo stesso tempo è chiaro come l’atto del genio, in quanto sintetico, debba necessariamente riunire in sé l’aspetto teoretico e quello pratico, il che poi vuol dire che in esso contemplazione e creazione vengono a coincidere57. Ciò che si rivela nell’opera d’arte non è dunque soltanto la verità dell’Assoluto, ma anche la verità della Natura: 57 Una decisa sottolineatura della imitazione (Nachahmung) come aspetto prevalente è invece presente nell’analisi di F. Viganò, Il mito della ragione fra estetica ed intuizione. Tensione all’ontologia nel primo Schelling, in «Giornale di Metafisica», XXVI (2004), pp. 7-22. In queste pagine l’autrice tematizza la questione estetica presente nel Sistema mediante la filigrana concettuale delle Ricerche del 1809, evidenziando i limiti di una operazione che nel 1800 non esulerebbe dai confini di una teoria fondamentalmente emotivo-mimetica dell’arte, la quale richiederebbe, per la sua soluzione, l’approdo ontologico suggellato, per l’appunto, dalle stesse Ricerche. Per quanto ci riguarda siamo disposti ad accettare il rilievo mosso all’impostazione del Sistema, purché non si finisca col prescindere dall’idea di arte come luogo del farsi dell’Assoluto, nel quale l’operazione mimetica, che presuppone che l’Assoluto sia già compiuto, si affianca all’elemento poietico della creazione, nel quale l’artista non si limita a riprodurre l’idea, ma le dà sempre nuova vita. Obliare o far passare questo aspetto in secondo piano equivarrebbe, a nostro parere, a mettere in discussione l’azione del genio in quanto attività sintetica.

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ciò che chiamiamo natura è un poema che giace nascosto in una segreta, meravigliosa scrittura. Se però l’enigma potesse svelarsi, vi potremmo riconoscere l’odissea dello spirito che, mirabilmente ingannato, rifugge se stesso nell’atto di cercarsi; giacché attraverso il mondo sensibile, al pari del senso attraverso le parole, traluce stentatamente come in una nebbia semidiafana quel paese della fantasia cui aneliamo58.

Tali, ispiratissime, immagini eccitarono i romantici, i quali trovavano in esse perfettamente rispecchiata la loro idea di natura: un mondo splendido e quasi magico di idee cristallizzate in forma materiale. In realtà, come abbiamo visto, questa impostazione è figlia, in Schelling, di una salda e robusta lettura idealistica del reale, la quale persegue risolutamente lo scopo di attingere ad una fondazione assoluta dell’esistente. Il filosofo avrebbe radicalizzato e condotto a termine questo progetto nelle sue opere successive, nelle quali la filosofia della natura confluisce in quel “sistema dell’Identità” imperniato sulla teorizzazione, già data in nuce nel Sistema, dell’Assoluto come identità indifferente59. Questo non impedì che il Sistema venisse recepito dai più come la “Bibbia filosofica” del movimento romantico, esattamente ciò che non era riuscito essere al Dialogo di F. Schlegel: ciò accadde non senza una certa ironia, dal momento che mentre Schlegel mancò l’obiettivo che si era prefissato, Schelling ne conseguì uno che non era affatto nelle sue intenzioni perseguire, giacché il Sistema era diretto non a gettare le fondamenta della rivoluzione romantica in atto, ma a portare avanti il punto F.W.J. Schelling, Sistema, cit., p. 579. Citiamo, a sostegno di questa tesi, la lettura di Tilliette, il quale osserva: «non si tratta di considerare soltanto le righe conclusive, che introducono esplicitamente l’identità, l’armonia e l’Assoluto, ma anche le allusioni sparse all’intelligenza infinita, alla Ragione eterna ed assoluta, all’In-sé, alla coincidenza di reale ed ideale» (X. Tilliette, Schelling, cit., p. 228, tr. nostra). Più in generale, piace sottolineare come tutta l’interpretazione di Tilliette riposi sul presupposto della sostanziale unità del percorso schellinghiano, costantemente in dialogo con se stesso al di là di ogni eccesso di periodizzazione e dell’enfatizzazione di eventuali ed ipotetiche “svolte”. 58

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della discussione filosofica sull’asse Kant-Fichte. E sotto il rispetto filosofico, peraltro, bisogna osservare come anche qui il punto dirimente sia dato dalla teoria schellinghiana dell’inconscio, la quale marca la divergenza filosoficamente più rilevante fra F. Schlegel e Schelling, laddove da un lato si incontra «il soggettivismo assoluto dello Schlegel (da cui la sua notissima teoria dell’arte come ironia)»60 e dall’altro «l’accentuazione che Schelling dà al momento oggettivo dell’arte, spostandosi dalla scuola romantica verso Goethe […] mentre per Federico Schlegel l’arte era assoluta soggettività, per Schelling essa era identità, nell’Io, del conscio (soggettività) e dell’inconscio (oggettività)»61. L’arruolamento, per così dire, di Schelling fra le fila dei romantici fu in massima parte dovuto all’effetto di involontario “depistaggio” che gli ultimi periodi del Sistema esercitarono sui romantici stessi: in essi, infatti, Schelling si lascia in qualche modo prendere la mano dal proprio argomento e cede ad una prosa immaginifica e poetica, in forza della quale è facile concludere la lettura del testo quasi dimenticandosi dello sforzo speculativo di fondazione e sistematizzazione – al quale i romantici erano decisamente poco affini – che ha preparato la strada a quelle poche pagine conclusive. In effetti potrà forse suscitare qualche stupore il notare come la parte da subito più letta e commentata dell’intero Sistema, quella riservata all’arte ed all’intuizione estetica di cui abbiamo brevemente dato conto, non occupi che una ridotta quantità di pagine all’interno del piano complessivo dell’opera, nella sua quasi totalità centrata su definizione, deduzione e trattazione teoretica, pratica e teleologica dell’idealismo trascendentale. Certo, si tratta della parte conclusiva, destinata a fungere da chiave di volta dell’intero sistema; tuttavia si può ben dire che nel 1800 il programma di una vera e propria filosofia dell’arte, eletta ormai con ogni evidenza 60 61

R. Assunto, Estetica dell’identità, cit., p. 89. Ibid., p. 90.

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a luogo privilegiato di trattazione del mito, venga, più che svolto, appena annunziato e lasciato a trattazione futura, come risulta chiaro dalle celebri parole con le quali lo scritto si chiude: c’è da attendersi che la filosofia, così com’è scaturita ed è stata nutrita dalla poesia nell’infanzia del sapere, e con essa tutte quelle scienze che per mezzo suo vengono recate a perfezione, una volta giunte alla loro pienezza, come altrettanti singoli fiumi riconfluiranno in quell’universale oceano della poesia da cui erano uscite. Quale poi sarà il tramite del ritorno della scienza alla poesia, non è in generale difficile a dirsi, questo termine intermedio essendo esistito nella mitologia, prima che fosse avvenuta questa separazione che ora sembra insuperabile. Ma come possa nascere una nuova mitologia, che non sia invenzione del singolo poeta ma di una generazione nuova che quasi rappresenti, per dir così, un unico poeta, ciò è un problema la cui soluzione si può attendere solamente dai futuri destini del mondo e dal corso ulteriore della storia62.

La conclusione aperta del testo è più che un manifesto, è una promessa di approfondimento sulla natura della nuova mitologia moderna, oltre che la confessione della problematicità della stessa63; ma Schelling si dedicherà a questo compito non nei termini vaghi e messianici del Systemprogramm, né in quelli primariamente poetici e letterari di F. Schlegel, bensì nell’ambito di una filosofia dell’arte quale organo principale della filosofia F.W.J. Schelling, Sistema, cit., p. 581. Circa la chiusa del Sistema cf. M. Cometa, Iduna, cit., pp. 179-184, laddove l’autore sostiene la tesi secondo la quale le ultime righe dell’opera conferirebbero a quest’ultima un carattere utopistico di apertura ad un “futuro assoluto” sempre di là da venire. A questa lettura del mito come “sempre attuale” perché “mai stato”, sarebbe forse possibile opporre il tentativo schellinghiano, messo in cantiere all’indomani della stesura del Sistema e destinato a prender forma nella Filosofia dell’Arte, di dare un contenuto ed un senso preciso tanto al mito antico quanto a quello moderno. E infatti l’indubbia centralità che il mito viene ad acquistare rispetto all’arte, alla luce delle righe in questione, è evidente: cf. su questo punto T. Griffero, Senso e immagine, cit., pp. 254-255. 62

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IL MITO MODERNO

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dell’identità. In forza di un progressivo slittamento, certo non imprevisto né indesiderato dal filosofo, il cuore pulsante della proposta schellinghiana si sposta dalla filosofia della natura alla filosofia dell’arte, centrata sul tema dell’intuizione estetica, e da questa ad una filosofia del mito assurta a crinale dirimente sul quale si gioca il discorso nel suo insieme: rispetto al Systemprogramm si nota dunque soprattutto un’ulteriore accentuazione del carattere storico e sopraindividuale del processo di formazione della mitologia […] il ritorno della filosofia nella poesia come ritorno della ragione all’unità perfetta con le forze prodigiose dell’oggettività e rifluire delle singole correnti nell’oceano universale rimane così affidato a una identità dei due aspetti dell’intuizione intellettuale, quello filosofico e quello artistico, che è appunto la mitologia, e si presenta come opera insieme dei “destini del mondo” e del “corso della storia”64.

3.3. Verso la Filosofia dell’Arte Nel marzo del 1800, con la stesura del Sistema ormai completa e il testo appena pubblicato, Schelling torna a guardare con interesse e fiducia alla propria carriera accademica. I fatti della primavera del 1799 – l’allontanamento di Fichte dall’insegnamento a seguito dell’accusa di ateismo, la polemica a distanza con Kant sull’idealismo sulla Allgemeine Literaturzeitung – se da un lato avevano rafforzato il profilo di Schelling quale principale araldo del rinnovamento filosofico presso l’Università di Jena, dall’altro avevano anche interrotto l’idillio del filosofo con la città che l’ospitava. In un tale contesto prese corpo l’ipotesi di un incarico a Vienna, ma l’elemento che si sarebbe rivelato decisivo nell’orientare il futuro immediato di Schelling fu l’amore per Caroline, vedova Böhmer, moglie di August Schlegel.

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F. Moiso, Vita, natura, libertà, cit., pp. 190-191.

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I. LA PREPARAZIONE

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Era, costei, donna di eccezionale intelligenza e raro fascino: un passato da attivista politica filogiacobina, che le era costato anche l’arresto, e una preparazione culturale che le dava modo di collaborare da pari a pari con il marito nell’opera di traduzione delle tragedie di Shakespeare, consentivano alla sua personalità di imporsi su quella di gran parte delle donne del tempo. Schelling, astro nascente della filosofia tedesca e più giovane di lei di dodici anni, non era passato inosservato al suo sguardo sin dall’estate del 1798, quando ne aveva fatto per la prima volta conoscenza a Dresda. Voci sempre più insistenti su di una loro relazione presero a circolare a partire dall’anno successivo in molti salotti jenesi, ma fu solo nel 1800 che una serie di eventi rese la cosa nota ai più. A partire da quell’anno, infatti, A. Schlegel intensificò i suoi contatti con Berlino, evento che preludeva al trasferimento dello studioso nella capitale prussiana; contestualmente la salute di Caroline prese a peggiorare in marzo: Schelling, più che mai innamorato della donna, pensò di proporle un lungo soggiorno presso la casa di cura nella località termale di Bad Kissingen, nelle vicinanze di Bamberga, ove egli stesso avrebbe potuto attendere ai suoi studi medici senza dover con ciò rinunziare ad una frequenza quotidiana con Caroline. La partenza dei due rese pubblica la relazione fra Schelling e Caroline e sortì l’effetto di frammentare ulteriormente quello che era stato lo Jenaer-Kreis anche perché, nelle previsioni di Schelling, al soggiorno a Bamberga avrebbe fatto seguito, in autunno, il trasferimento a Vienna. Allorché, però, Caroline decise di fare rientro a Jena in ottobre, forse nella speranza di fare un estremo tentativo di salvare il matrimonio con lo Schlegel, Schelling abbandonò i progetti viennesi e scelse di seguire l’amata tornando a Jena a sua volta. Nel frattempo August Schlegel si risolse di trasferirsi definitivamente a Berlino, ove già teneva delle lezioni, sul finire del 1801. Tutto questo produsse l’effetto di avvicinare ulteriormente Caroline e Schelling: tale situazione, che inasprì grandemente l’antipatia di Friedrich Schlegel e di sua moglie Do-

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rothea per Schelling trasformandola in autentico risentimento, fu in realtà gestita con grande delicatezza e rispetto dalle tre parti direttamente coinvolte. Negli anni successivi A. Schlegel e Schelling avrebbero intensificato il loro scambio epistolare rendendolo, come vedremo, fecondissimo di spunti e reciproci consigli, mentre lo Schlegel e Caroline iniziarono ad accordarsi per una separazione consensuale, la quale in fondo era desiderata da entrambi, ormai impegnati in due vite diverse in due città lontane. Tale accordo sarebbe stato raggiunto all’inizio del 1803, grazie alla diretta intercessione di Goethe presso il Duca Carl August. Il 26 di giugno Schelling e Caroline poterono dunque sposarsi e parve loro opportuno, come coppia sposata, abbandonare quella Jena fattasi oramai ingombrante di ricordi per entrambi, tanto più che il filosofo aveva appena ricevuto una proposta di trasferimento presso l’Università di Würzburg. Fra i due era nato un grande amore, destinato ad interrompersi tragicamente con la morte della donna che sarebbe sopraggiunta solo sei anni dopo. Nel momento in cui entrambi gli Schlegel orbitavano sempre più decisamente intorno a Berlino e Schelling stesso iniziava a progettare il suo futuro lontano da Jena il gruppo fu colpito da un grave lutto: all’età di soli ventinove anni si spegneva Novalis, uno dei protagonisti del circolo preromantico, capace di unire nella sua produzione poesia, romanzo e riflessione storica e filosofica. Il circolo preromantico di Jena, che per tre irripetibili anni era stato un formidabile coacervo di intuizioni ed innovazioni letterarie e filosofiche, cessava di fatto di esistere65.

65 Nel trarre un bilancio dei rapporti effettivi di Schelling con il circolo di Jena Tilliette svolge delle osservazioni conclusive interessanti: «a dispetto delle apparenze, l’appartenenza di Schelling al circolo non era stata che marginale. Filosofo romantico sì, ma solo fino ad un certo punto e giammai il pensatore del romanticismo né il teorico dell’arte romantica. Egli si limitò ad assimilare l’apporto romantico filtrandolo ed integrandolo grazie ad una formazione filosofica già più che matura» (X. Tilliette, Schelling, cit., p. 452, tr. nostra). Troviamo in queste righe conferma di quanto detto più sopra: anche

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I. LA PREPARAZIONE

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Questo accadde però non prima che le idee in esso partorite avessero avuto modo di influenzare in modo decisivo la biografia intellettuale di Schelling, le cui letture favorite nel biennio 1801-1802 sono sempre più chiaramente orientate all’approfondimento della letteratura e della poesia. Tale linea di ricerca, che come vedremo conduce direttamente alla Filosofia dell’Arte, si aggiunge alla prosecuzione degli studi di filosofia della natura ai quali Schelling attendeva da anni. In questo contesto i principali eventi di quegli anni sono due: la polemica con Fichte, che come abbiamo visto si accende nei mesi successivi alla pubblicazione del Sistema, e l’arrivo a Jena di Hegel. Il ritorno di Schelling a Jena fu rallegrato dall’arrivo del vecchio amico al principio del 1801. Ospite di Schelling, Hegel riuscì ad aprirsi la strada all’insegnamento jenese con la pubblicazione in luglio della Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, nella quale l’influenza dell’amico è evidente. In questo periodo della sua vita Hegel dipende fortemente da Schelling, sia per ciò che concerne la produzione filosofica sia per quello che riguarda la carriera accademica: nel tentativo di aiutare l’amico ad inserirsi a pieno titolo nella vita culturale cittadina, Schelling lo mette in contatto con Goethe e Schiller in autunno e lo coinvolge, sul finire dell’anno, nella fondazione e nella redazione di una nuova rivista, il Kritische Journal der Philosophie. In una lettera del 20 ottobre 1801 Goethe riferisce a Schelling la propria disponibilità ad incontrare Hegel. L’incontro ebbe luogo ma quest’ultimo non riuscì a impressionare favorevolmente lo scrittore: anni dopo, in una successiva missiva a Schiller, lo stesso Goethe definirà Hegel «uomo eccellente, la modalità espressiva del quale contrasta tuttavia nel modo più stridente se i contemporanei vollero vedere in Schelling e nel suo Sistema del 1800 la migliore interpretazione speculativa del romanticismo, l’intendimento proprio al Nostro fu e rimase sempre di attingere a piene mani dai contenuti di riflessione forniti dal “laboratorio” degli Schlegel riservandosi sempre, allo stesso tempo, il diritto di rielaborarli alla luce della propria vocazione schiettamente idealistica.

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con i pensieri», alludendo alla stentatezza al limite della balbuzie da cui Hegel era afflitto nella conversazione. Se la scintilla con Hegel tarda a scoccare, la stima di Goethe per Schelling cresce costantemente. Goethe si dice entusiasta del progetto della nuova rivista e nel settembre del 1800 scrive a Schelling: da quando ho preso congedo dalla ricerca naturale e, come una monade, mi sono concentrato su me stesso prendendo a librarmi nelle regioni spirituali della Scienza, di tanto in tanto mi è occorso di avvertire un impulso, che mena nella direzione della Sua dottrina. Io desidero una piena riunificazione che spero di riuscire a realizzare grazie allo studio delle Sue opere e, meglio ancora, grazie al rapporto personale con Lei, oltre che mediante l’affinamento delle mie capacità nel loro insieme; questa riconciliazione sarà tanto più pura quanto più procederò lentamente e quanto più mi riuscirà di rimanere fedele alla mia propria natura66.

Lo scrittore identifica la chiave di volta del pensiero schellinghiano nella unificazione (Vereinigung) che ne sarebbe il motore; egli declina tale categoria nella forma che più gli sta a cuore, vale a dire quella della riconciliazione dell’uomo con se stesso, destinata a prendere forma nella delineazione di un uomo inteso, alla maniera greca, come perfetta unità psico-fisica: quell’essere armonico e completo che lo stesso Goethe si sarebbe sempre sforzato di incarnare. Schelling, dal canto suo, cerca piuttosto di fare leva sull’unificazione per portare a conclusione la rivoluzione idealistica: in questi mesi il filosofo si impegna a fondo nel confronto a distanza con Fichte, che si traduce nello sforzo di misurarsi con l’esigenza di costruire quella che prende sempre più le forme di una via alternativa al pensiero contenuto nella Dottrina della Scienza, cioè la costruzione del primo sistema di idealismo assoluto. Nel

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G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 314, tr. nostra.

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I. LA PREPARAZIONE

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battere tale sentiero il principale interlocutore di Schelling, oltre a Fichte, non è pero Hegel, il cui pensiero non era ancora giunto a piena maturazione, ma A.K.A. von Eschenmayer. Questi, già invitato da Schelling nel 1799 ad inviare contributi alla Rivista di fisica speculativa, era un fervido studioso di fisiologia e filosofia della medicina e della fisica: Schelling riteneva pertanto estremamente preziose le sue osservazioni in fatto di filosofia della natura e ne richiese a più riprese un giudizio sul Sistema. Eschenmayer rispose nell’ottobre del 1800, elogiando metodo e contenuti del Sistema, con particolare riferimento alla chiusa su arte e storia, laddove Schelling avrebbe fornito una nuova dimostrazione di ciò che lo stesso Eschenmayer andava sostenendo in ambito fisico e medico, ossia la tendenza moderna a scoprire la convergenza di tutte le branche del sapere verso un unico punto67. In aggiunta a ciò, Eschenmayer si rallegrava dei progressi evidenziati da Schelling nello studio della fisica speculativa, apprezzandone in particolare l’intuizione relativa all’accostamento fra i tre momenti del processo dinamico e le tre dimensioni dello spazio. La collaborazione di Eschenmayer alla redazione di saggi pubblicati sulla Rivista di fisica speculativa si intensifica proprio nel momento in cui sulla stessa rivista compare, nel maggio del 1801, l’Esposizione del mio sistema filosofico68, con la quale Schelling sviluppa le premesse di filosofia dell’identità contenute nel Sistema e le riepiloga nella delineazione di un ideal-realismo assoluto69. Qui, per la prima volta, Schelling tira le fila della sua Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., pp. 318-319. Cf. F.W.J. Schelling, Darstellung meines Systems der Philosophie, in Id., Historisch-kritische Ausgabe, cit., X, pp. 107-211, in italiano F.W.J. Schelling, Esposizione del mio sistema di filosofia, a cura di G. Semerari, Laterza, Bari 1969. 69 All’opera in questione, ben più che al Sistema, Schelling affidava il compito di diffondere la conoscenza e lo studio del proprio pensiero originale. Mentre il Sistema presenta una chiave di lettura più agevole perché univoca – giacché si colloca al vertice ideale del percorso iniziato con gli scritti di filosofia della natura – la decifrazione della Esposizione presenta maggiori difficoltà, in quanto in tale opera vengono a confluire molteplici linee di in67

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filosofia naturale rivelandone il presupposto speculativo, consistente nell’esplicita predicazione dell’Assoluto come indistinzione assoluta (Absolute Indifferenz). Tale nozione, che era peraltro possibile leggere in filigrana già dietro alla definizione di genio presente nel Sistema, aprì la strada alla rottura con Fichte, che in essa vedeva compromesso il delicato equilibrio fra primo e secondo principio della Dottrina della Scienza e non mancò di apparire problematica anche a Schiller e Eschenmayer70. Il primo si esprime al riguardo in questo modo: mi pare che Lei abbia scelto di trattare la questione nel modo più risolutivo, ma anche più difficile […] non riesco ancora a capire come potrà riuscire a svolgere positivamente il Suo sistema a partire dall’asserto dell’indifferenza. Non dubito che lo abbia fatto, sono anzi proprio per questo tanto più curioso di conoscere la soluzione dell’enigma71.

Quanto ad Eschenmayer, egli rispose a Schelling con una lunga missiva nella quale contestò in modo puntuale ed esteso i princìpi della filosofia dell’identità 72. fluenza: dalla visione goethiana del mondo e della vita alla necessità di una diversificazione rispetto a Fichte, dalla riconsiderazione degli stimoli ricevuti anni prima da Hölderlin alla sintesi sulla lezione appresa da Spinoza. Circa tale ordine di considerazioni cf. H. Fuhrmans, Schelling, cit., pp. 230ss. 70 Tale, anni dopo, sarebbe apparsa anche a Hegel, il quale, com’è noto, avrebbe fatto della critica all’indifferenza come «quella notte in cui tutte le vacche sono nere» il pernio della presa di distanza da Schelling contenuta nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito del 1807. Per una ricostruzione della polemica fra Schelling e Hegel a partire dalla differente comprensione della natura si faccia riferimento a M. Marchetto, La natura contesa. Schelling critico di Hegel, ETS, Pisa 2008. 71 G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 332, tr. nostra. 72 Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., pp. 336-343. Si trattava, in sostanza, dell’anticipazione della critica che Eschenmayer stesso avrebbe rivolto a Schelling nel 1803 con lo scritto La filosofia nel suo passaggio alla non-filosofia, riassumibile nell’impossibilità di derivare alcunché da un Assoluto postulato come indistinto ed indifferente. Pur condividendo l’impostazione schellinghiana, Eschenmayer era infatti convinto che gli studi filosofico-naturali dovessero sfociare non nell’idealismo schellinghiano, ma in una sorta di fede

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I. LA PREPARAZIONE

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Inizia nel frattempo a evidenziarsi un certo interessamento di Schelling per la religione. Questa linea di riflessione si appalesa nell’estate del 1801 e si salda con l’altra direzione di lavoro schellinghiana, quella legata all’approfondimento degli studi estetici intrapresi nel Sistema e ispirati dagli scritti degli Schlegel. Proprio August Schlegel è infatti il principale interlocutore di Schelling per tutto ciò che concerne la sfera estetica. In una lettera del 3 luglio 1801 Schelling confessa a Schlegel di essere diventato «un lettore avido e infaticabile dei Discorsi sulla religione» 73. Grazie allo studio dello scritto di Schleiermacher Schelling inizia a rivalutare la religione come il sacrario dell’originaria connessione di ogni cosa74, riservandosi dunque di approfondirne il legame con la bellezza, nel nome del recupero della riflessione platonica sul vero e sul bello, consapevolmente volto al servizio della filosofia dell’identità. Tale ordine di considerazioni è alla base del progetto del dialogo Bruno. O del principio naturale e divino delle cose75, non a caso annunciato “in anteprimistica in Dio definita, per l’appunto, non-filosofia. Tale critica, com’è noto, è direttamente alla base del saggio Filosofia e Religione (1804) con il quale Schelling cercò di rispondere alle obiezioni di Eschenmayer inaugurando, di fatto, la fase del suo pensiero più impegnata nel confronto con questioni di ordine teologico e religioso. 73 G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 345, tr. nostra. 74 All’interno della sua monumentale ricostruzione della Goethezeit, postulante una fondamentale unità evolutiva dal Classicismo di Weimar allo Sturm und Drang fino al Romanticismo, Korff definisce i Discorsi di Schleiermacher il principale medium della reimmissione del Cristianesimo storico nel dibattito dotto in Germania. È a partire da Schleiermacher prima, e Novalis poi, che la religione torna a reclamare per sé quello spazio che, dopo l’Illuminismo, era stato occupato principalmente dall’arte. Cf. H.A. Korff, Geist der Goethezeit, III, Hirzel Verlag, Leipzig 1949, pp. 334ss. Questa “riscoperta” della religione metterà frutto anche in Schelling, che ne offrirà il proprio manifesto in Filosofia e Religione del 1804, ma nella Filosofia dell’Arte la sua presenza è trascurabile. 75 Cf. F.W.J. Schelling, Bruno. Oder über das göttliche und natürliche Prinzip der Dinge, in Id., Sämtliche Werke, hrsg von K.F.A. Schelling, Cotta, Stuttgart 1859, IV, pp. 213-332, in italiano F.W.J. Schelling, Bruno. O del principio naturale e divino delle cose, a cura di E. Guglielminetti, ESI, Napoli 1994.

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ma” a Schlegel nella stessa missiva. In marzo l’opera è conclusa e Schelling scrive a Schlegel chiedendogli aiuto nella ricerca di un editore berlinese che possa garantire la pubblicazione del testo entro la Fiera del Libro di Pasqua76: il Bruno uscirà nel maggio del 1802 presso i tipi dell’editore Unger di Berlino. Si tratta di un’opera nella quale i due grandi filoni presenti nel Sistema – la spinta verso l’Assoluto come indistinzione e la sfera estetica come chiave di volta del sistema – convergono nel segno della dedica al panteista Giordano Bruno – nel pensiero del quale Schelling ritiene di trovare una anticipazione alla propria polemica anti-meccanicista – e nella scelta della forma dialogica – omaggio alla tradizione platonica77. Il tema del mito resta decisamente in secondo piano rispetto alla questione principale, vale a dire la caratterizzazione estetico-filosofica dell’Assoluto; nondimeno è possibile rintracciare dei riferimenti interessanti fra le righe del dialogo, come la contiguità fra misteri e mitologia nel rivelare la natura dell’Assoluto o l’idea, ripresa e tematizzata nella Filosofia dell’Arte, delle figure mitologiche come rappresentazioni ideali dell’Assoluto còlto nella sua bellezza78. Per un inquadramento dell’opera cf. C. Tatasciore, Bruno. Le ragioni di un dialogo, in C. Tatasciore (a cura di), Dalla materia alla coscienza, cit., pp. 65-96. 76 Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 356. 77 Su questo punto cf. G. Dekker, Die Rückwendung zum Mythos, cit., pp. 29ss. Lo studioso ritiene che tale linea platonica rappresenti uno dei principali filoni dell’ispirazione schellinghiana, destinato ad emergere dapprima nella tematica del finito come caduta in Filosofia e Religione (1804) e poi nella tumultuosa ripresa del mito negli anni successivi. Da questo punto di vista è notevole l’accordo di Dekker con Allwohn nel ritenere che, per Schelling, la partita decisiva sul mito si giochi, almeno negli anni della maturità, sul crinale religioso della Filosofia della Mitologia. Cf. A. Allwohn, Der Mythos bei Schelling, cit., pp. 51ss. Questa chiave di lettura viene radicalizzata da Hennigfeld, il quale osserva che l’intera riflessione schellinghiana sul mito compresa negli anni della “infatuazione estetica” (1800-1803) rimanda, per le soluzioni ai problemi sollevati, alla successiva Filosofia della Mitologia. Cf. J. Hennigfeld, Mythos und Poesie. Interpretationen zu Schellings Philosophie der Kunst und Philosophie der Mythologie, Anton Hain Verlag, Meisenheim am Glan 1973, pp. 82-83. 78 Osserva Knatz che «i misteri vengono giudicati attinenti alla filosofia, la mitologia alla poesia; l’arte è, secondo la sua natura, essoterica, la filosofia

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I. LA PREPARAZIONE

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Schelling è sempre più attento alla questione della bellezza, come si evince dall’impegno ognora più costante con il quale si dedica ad ampliare le proprie conoscenze letterarie, quasi a voler superare i rilievi che gli erano stati fatti da F. Schlegel. Ed in realtà, mentre il rapporto con F. Schlegel si è ormai guastato irreparabilmente, August Schlegel è per Schelling un’autentica finestra aperta sul vasto mondo della poesia e della letteratura. A partire dalla fine del 1800 lo Schlegel inizia ad educare il gusto letterario di Schelling con i classici italiani: in una lettera di dicembre Schelling lo ringrazia per l’invio di alcune pagine di Dante unitamente ad un dizionario di italiano, grazie al quale il filosofo inizia a prendere confidenza con la nostra lingua. Quasi tre anni dopo, nel gennaio del 1803, è Schelling ad allegare alla missiva a Schlegel la sua traduzione del secondo canto del Paradiso. Qualche giorno dopo, Schelling ringrazia Schlegel per le traduzioni di Petrarca che questi gli ha fatto pervenire. Quando, in maggio, il divorzio fra Caroline ed August fu cosa compiuta, Schelling iniziò a sognare di realizzare, sulle orme di Goethe, il proprio grand-tour in Italia: lo stesso Schlegel, quando seppe del progetto, chiese a Schelling di cercare e acquistare nelle librerie di Roma le Poesie di Michelangelo79. In realtà, dopo la partenza da Jena, Schelling e Caroline soggiornarono presso amici e parenti a Bamberga, Murrhard ed infine a Stoccarda, ove il filosofo ebbe modo di reincontrare il vecchio sodale Hölderlin e di constatarne il grave stato di prostrazione mentale e fisica80, dopo di che ricevette una chiamata all’inseesoterica. Nei misteri filosofici vengono intuiti gli archetipi, nella poesia estetica le immagini […] nella distinzione di filosofia e poesia si rivela il nuovo concetto di filosofia dell’identità» (L. Knatz, Kunst-Geschichte-Mythos, cit., p. 259, tr. nostra). Si ricorda che l’interesse schellinghiano per i misteri, del quale sia ha nel Bruno una prima testimonianza, resterà vivo fino alla Filosofia della Mitologia e alla Filosofia della Rivelazione laddove Schelling, com’è noto, farà dei Misteri di Eleusi il momento nel quale la coscienza politeista veniva a partecipare dell’imminente avvento del monoteismo. 79 Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 458. 80 Ibid., p. 468.

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gnamento presso Würzburg81 e del viaggio in Italia non si parlò più 82. Oltre alla poesia italiana del Trecento, con particolare riferimento a Dante83, l’altra grande scoperta di quegli anni della quale Schelling è debitore nei confronti di A. Schlegel è quella del teatro spagnolo di Calderón de la Barca. In una lettera allo stesso Schlegel dell’ottobre 1802 egli scrive: il pezzo di Calderón mi ha rapito e profondamente meravigliato. Si tratta di una intuizione del tutto nuova ed apre più di quanto non avrei creduto la prospettiva su quale sia la grandezza di cui la poesia romantica è capace […] perfino lo stesso Shakespeare mi sembra al confronto più nebuloso84.

Il pezzo in questione, del quale Schelling riferirà abbondantemente nella Filosofia dell’Arte, è La devozione alla Croce: ciò che Schelling apprezza oltremodo è l’esplicita inclusione, nel teatro di Calderón, della tematica religiosa, dalla quale Shakespeare si tiene invece sempre a distanza. Nel recepire il testo dello scrittore spagnolo Schelling dimostra peraltro di essere del tutto sotto l’influenza di Schlegel, cui si deve l’arruolamento del teatro spagnolo di età barocca, oltre che di quello elisabettiano, nelle fila della poesia «romantica». Qualche mese dopo Schlegel invierà a Schelling delle altre traduzioni di Calderón, che il filosofo porterà all’attenzione di Goethe il quale ne rimarrà a sua volta molto colpito85.

Ibid., p. 483. Cf. H. Fuhrmans, Schelling, cit., pp. 279-280. 83 L’interesse di Schelling per il Sommo Poeta era tale che il filosofo scelse di estrapolare dalle proprie lezioni sulla Filosofia dell’Arte i punti salienti sull’autore della Commedia per pubblicarli a parte sul Kritische Journal nel 1803 con il titolo Über Dante in philosophischer Beziehung, in Id., Sämtliche Werke, cit., V, pp. 152-163; in italiano F.W.J. Schelling, Considerazioni filosofiche su Dante, a cura di A. Klein, in F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, a cura di A. Klein, Prismi, Napoli 1997, pp. 385-393. 84 Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 425, tr. nostra. 85 Cf. G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 454. 81

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Con l’acquisizione delle fondamentali coordinate letterarie e poetiche della nuova estetica romantica degli Schlegel – le principali tragedie di Shakespeare, ampi stralci dell’Inferno e del Paradiso danteschi oltre che di Petrarca, Boccaccio, Ariosto e Tasso, il riferimento al teatro di Calderón de la Barca, la conoscenza del Don Chisciotte di Cervantes – che vanno ad aggiungersi alla ben più rodata conoscenza della mitologia classica greca e romana, Schelling si trova ormai a disporre interamente del materiale del quale ha bisogno per intraprendere l’avventura della Filosofia dell’Arte. Concludiamo questa parte del nostro lavoro con il riferimento alle Lezioni sul metodo dello studio accademico86, tenute da Schelling a Jena nel semestre estivo dell’A.A. 1802/1803: in esse il progetto della Filosofia dell’Arte è di fatto già delineato. L’ultima lezione è infatti dedicata all’arte e segnatamente al problema del rapporto che la filosofia può intrattenere con essa: il filosofo se ne servirà, praticamente omettendo di introdurre modifiche, integrandola nell’introduzione alla Filosofia dell’Arte. Schelling imposta la questione nei termini della possibilità di una costruzione filosofica dell’arte, la quale inevitabilmente implica la considerazione dell’arte stessa come «fenomeno necessario che emana immediatamente dall’Assoluto e che non ha realtà se non in quanto può essere evidenziato e dimostrato come tale» 87. Ciò che interessa Schelling è dunque l’arte in quanto «fenomeno necessario», il che vuol dire non nei suoi contenuti storici e contingenti, ma nella forma in sé di “Assoluto oggettivato”. Rispetto all’Assoluto in quanto ideal-reale ogni opposizione deve però essere sciolta, risolvendosi in pura identità «e nondimeno anche la filosofia, nella sua opposizione all’arte, rimane sempre soltanto ideale»88. 86 Cf. F.W.J. Schelling, Sämtliche Werke, cit., V, pp. 207-352; in italiano F.W.J. Schelling, Lezioni sul metodo dello studio accademico, a cura di C. Tatasciore, Guida, Napoli 1989. 87 F.W.J. Schelling, Lezioni sul metodo dello studio accademico, cit., p. 196. 88 Ibid., p. 198.

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Proprio per questo motivo l’arte provoca incessantememente il filosofo, il quale «in questa vede l’intima essenza della sua scienza come in uno specchio magico e simbolico» 89. Quanto detto vale in misura ancora maggiore per il filosofo della natura, che «impara con questo mezzo [lo studio della filosofia dell’arte] a riconoscere nelle opere d’arte, sotto una figurazione sensibile, i veri archetipi delle forme che egli nella natura trova espresse solo in maniera confusa, ed il modo in cui le cose sensibili procedono da quegli archetipi» 90. In aggiunta a ciò, Schelling perviene anche alla delineazione della specificità dell’arte cristiana moderna, qui solo accennata ma che avrà grande importanza nella Filosofia dell’Arte. La civiltà moderna, che a differenza di quella antica reca in sé il carattere dell’infinito, si volge pertanto con doppia urgenza al compito della costruzione dell’arte91: si può anzi dire che solo in età moderna «sono date le condizioni per una visione completa e totalmente oggettiva dell’arte, anche dell’arte antica» 92. La realizzazione di tali premesse è il compito cui Schelling si prefigge di attendere nella Filosofia dell’Arte.

Ibid., p. 202. Ibid. 91 Su tale punto è possibile fare riferimento a G. Dekker, Die Rückwendung zum Mythos, cit., pp. 26-27. 92 Ibid., p. 197. 89

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II. MITO E MODERNITÀ NELLA FILOSOFIA DELL’ARTE

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1. INTRODUZIONE. FORMA E CONTENUTO DI UNA FILOSOFIA DELL’ARTE Con il termine di Filosofia dell’Arte93 si indica un testo avente per oggetto il contenuto delle lezioni tenute da Schelling in occasione di due corsi universitari: il primo a Jena nel semestre invernale dell’A.A. 1802/1803 ed il secondo a Würzburg nel 1804/1805. Schelling decise di non pubblicare lo studio in questione, ad eccezione del già citato saggio su Dante, con la conseguenza che il suo contenuto divenne noto solo quando ne venne curata la pubblicazione postuma da parte del figlio del filosofo: la critica successiva avrebbe in buona parte considerato questa scelta di Schelling come una testimonianza della sua scarsa considerazione nei confronti della Filosofia dell’Arte, dedicandole, tutto sommato, un’attenzione assai modesta94. Non senza generalizzare è possibile ricondurre le ragioni di questo giudizio ad un duplice ordine di argomenti. In primo luogo, viene chiamato in causa il rigido impianto schematico del quale Schelling si serve per “sezionare” l’oggetto del suo studio; in secondo luogo, viene sottolineata la chiara derivazione schlegeliana o comunque romantica della maggior parte delle intuizioni schellinghiane. In un passo che ha il pregio di racchiudere in sé entrambi i punti Tilliette scrive: la Filosofia dell’Arte costituisce un insieme molto didattico, molto professorale, ricco di astrazioni tranne che nella parte 93 Cf. Philosophie der Kunst, in F.W.J. Schelling, Sämtliche Werke, cit., V, pp. 357-736; in italiano F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit. 94 Cf. ad esempio W. Jacobs, Gottesbegriff, cit., p. 237 e Id., Leggere Schelling, cit., p. 94. Più articolato e, nel complesso, veritiero il giudizio di Griffero, il quale ricollega la mancata pubblicazione alla esitazione schellinghiana nel pronunziare una parola definitiva sull’arte. Cf. T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., pp. 88-89.

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letteraria, che racchiude un insieme di dissertazioni ben riuscite e di certe altre disperse, senza con ciò dimenticare il bell’articolo su Dante […] tutto questo risulta in una monotonia che sarebbe travolgente se non esistesse l’illustrazione empirica […] i suoi esempi sono poco originali, assimilati per osmosi e sviluppati senza fare mistero dei limiti delle proprie conoscenze […] ecco perché la sua [di Schelling] esposizione assomiglia ad un breviario, un’antologia dei gusti dell’epoca95.

Al di là della severità del giudizio v’è, da un lato, la questione della collocazione della Filosofia dell’Arte all’interno dell’orizzonte speculativo schellinghiano, che ne determinerebbe l’intelaiatura concettuale. È, questa, una considerazione che prende in esame essenzialmente la forma dell’opera in questione. Dall’altro lato esiste invece il problema del suo contenuto, dietro il quale si cela in realtà la ben più articolata domanda circa natura ed entità del debito contratto da Schelling nei confronti del circolo romantico degli Schlegel. Iniziamo da quest’ultimo punto. Non è un mistero che l’influsso esercitato da August Schlegel sulla selezione del materiale contenuto nella schellinghiana Filosofia dell’Arte sia stato determinante. Mentre Schelling era impegnato nella delineazione della sua filosofia della natura e i suoi interessi per l’arte avevano appena iniziato a destarsi dopo le frequenti visite alla Pinacoteca di Dresda, August Schlegel professava già, nel semestre invernale jenese dell’A.A. 1798/1799, delle seguitissime Lezioni sulla dottrina filosofica dell’Arte. Queste avrebbero costituito il punto di partenza per le Lezioni su Arte e letteratura96, X. Tilliette, Schelling, cit., pp. 454-455, tr. nostra. Sei anni dopo August Schlegel avrebbe preparato un altro corso berlinese sullo stesso argomento, dal quale, fra il 1809 e il 1812, egli trasse la pubblicazione del suo capolavoro, ovvero le celeberrime Lezioni sull’arte e la letteratura drammatica (presenti in italiano come A. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, a cura di M. Destro, Aletheia, Roma 2003), tradotte nelle maggiori lingue europee e principale veicolo di diffusione del Romanticismo letterario al di fuori dell’area tedesca. 95

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tenute dallo Schlegel a Berlino e che Schelling chiese all’amico di consultare proprio all’inizio del settembre 1802, quando quest’ultimo stava attendendo alla preparazione della Filosofia dell’Arte. Schelling avrebbe a sua volta ricambiato inviando a Schlegel il piano della sua Filosofia dell’Arte un paio di mesi dopo, al principio di novembre. Che il rapporto fra i due fosse in quegli anni molto stretto è acclarato da tempo, e noi stessi ne abbiamo riferito in precedenza. Ciò, tuttavia, non equivale necessariamente ad affermare la scarsa originalità delle idee schellinghiane presenti nella Filosofia dell’Arte. E. Behler è risoluto nel ritenere che le lezioni schlegeliane abbiano costituito il primo chiaro studio sull’estetica portato avanti presso l’Università di Jena e anche in tutta la Germania. Esse crearono i presupposti per la nascita di una nuova disciplina accademica […] dopo la pubblicazione della Critica del Giudizio egli [A. Schlegel] fu l’unico a sviluppare, muovendo dal principio dell’autonomia dell’arte, non tanto un compiuto sistema di estetica, quanto una filosofia dell’arte coerente e ampia97.

Stando a questa lettura l’intero progetto di una filosofia dell’arte troverebbe in A. Schlegel un precedente puntuale ed esemplare. Egli avrebbe fatto leva sulla scoperta della dimensione trascendentale dell’arte riservandosi però di non trattare tale termine in senso rigorosamente “tecnico”, ossia facendo riferimento alla speculazione di Kant e Fichte, ma dandogli una lettura più duttile, in forza della quale esso starebbe ad indicare la realtà esclusivamente umana dell’arte, essendo il bello inesistente in natura, e facendo derivare da questa la fondamentale teoria romantica del bello come frutto dell’attività creatrice

97 E. Behler, A.W. Schlegels Vorlesungen über philosophische Kunstlehre, in F. Strack (hrsg.), Evolution des Geistes, cit., p. 420, tr. nostra.

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(Erschaffen) in luogo della dottrina illuministico-classicista del bello come imitazione (Nachahmung). La sottolineatura della figura dell’artista-creatore si traduce nella crescente centralità della Kunst, cioè l’arte in quanto poivhsi~, in quanto fattiva chiamata all’esistenza di qualcosa che prima era fisicamente assente dal mondo. Per Schlegel tale attività non si limita alla sfera delle arti plastiche ma riguarda essenzialmente anche la parola, strumento principe del quale l’uomo si serve in via privilegiata per denominare e pertanto “chiamare all’essere” tutte le cose. Quanto detto vale in misura speciale per la parola poetica. Così si giustifica la definizione schlegeliana di mito come poesia originaria (Urpoesie) del genere umano, nella quale si realizza, grazie all’immaginazione, il primo contatto dell’uomo con il mondo: contatto artistico e pertanto creativo, istitutivo. Che un tale impianto di pensiero appartenga in linea di massima alla Filosofia dell’Arte di Schelling è indubbio. Tuttavia lo stesso Tilliette, che poc’anzi abbiamo letto essere tutt’altro che morbido nei confronti dell’opera in questione, circa il debito nei confronti di A. Schlegel afferma che «Schelling prese con moderazione da A. Schlegel e in ogni caso solo delle indicazioni tecniche» 98. Su questo punto lo studioso francese dipende peraltro da R. Haym, il quale già nell’ormai lontano 1906 osservava che il confronto fra i due testi [le Lezioni di A. Schlegel e la Filosofia dell’Arte di Schelling] rivela che il filosofo trasse dallo storico della letteratura molto meno di quello che ci si sarebbe aspettato. Schlegel aveva costruito uno sfavillante sistema di estetica sulla base delle intuizioni contenute nei paragrafi conclusivi del Sistema dell’Idealismo trascendentale di Schelling. Per quest’ultimo, di converso, quel sistema dell’identità annullava la comprensione della viva genesi del bello mediante una sorta di apoteosi speculativa del concetto di bellezza99.

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X. Tilliette, Schelling, cit., p. 455, tr. nostra. R. Haym, Die romantische Schule, cit., p. 837, tr. nostra.

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Nella lettura di Haym l’opera di A. Schlegel viene ricondotta all’ambito di una analisi puramente estrinseca, che in questo modo mancherebbe di cogliere il punto che più sta a cuore a Schelling, ovvero la comprensione del nesso intercorrente fra arte e filosofia. Sotto questo punto di vista l’influsso schlegeliano, e più in generale romantico, viene ridimensionato – così crede anche Tilliette – e si cerca invece di salvaguardare l’originalità della prospettiva schellinghiana. A conferma di questa tesi è possibile citare un passo illuminante contenuto nella stessa lettera nella quale Schelling chiedeva a Schlegel l’invio del progetto del suo corso berlinese: così come ci sono cose necessarie e cose empiriche, allo stesso modo esiste un’arte necessaria e una empirica: la teoria si riferisce a quest’ultima. Ma così come ci sono cose intellettuali, cose in-sé, allo stesso modo esiste anche un’arte in-sé, della quale quella empirica è solo una manifestazione, ed è questo il punto sul quale si innesta la relazione fra arte e filosofia100.

Come si può leggere, Schelling aveva ben chiaro il sentiero da battere ancora prima di potersi confrontare con i contenuti delle lezioni berlinesi di A. Schlegel101. Allo stesso tempo, devesi riconoscere come l’influsso schlegeliano avesse già avuto modo di esercitarsi allorché Schelling, appena giunto a Jena, ebbe modo di ascoltare le prolusioni del corso tenuto da Schlegel nel 1798/1799. Giunti a questo punto, ci pare che una buona via d’uscita possa essere rappresentata dal diversificare la natura dell’apporto schlegeliano alla Filosofia dell’Arte di Schelling. Se da un lato, come tutti gli studiosi riconoscono, il filosofo deve agli G.L. Plitt, Schellings Leben, cit., p. 397, tr. nostra. Cf. M. Cometa, Iduna, cit., p. 197: «tale passo dimostra come Schelling avesse sin dal primo momento chiaro l’impianto dell’opera tanto che la questione della priorità della parte poetologica (la teoria empirica delle arti) su quella teoretica (lo sviluppo del System) risulta pretestuosa». 100

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Schlegel – e a partire dai primi anni dell'Ottocento soprattutto ad August – l’ampliamento delle proprie conoscenze letterarie e storiche, dall’altro è necessario osservare come sia un tratto originale di Schelling quello di inserire tali “contenuti” nella peculiare “forma” della filosofia dell’identità. Sotto questo rispetto, è anzi doveroso invertire la direzione dell’influsso. Come scrive al riguardo Cometa, le Vorlesungen schlegeliane rappresentano una sintesi esemplare della poetologia preromantica così come si era sviluppata da Jena negli anni immediatamente precedenti e sono ispirate per gran parte alle soluzioni teoriche del System schellinghiano prima, e del Bruno in un secondo tempo. Schelling quindi non vi dovette trovare niente di particolarmente nuovo da un punto di vista teorico anche se le utilizzò moltissimo per quanto riguarda l’aspetto poetologico e storico102.

In questo modo la nostra attenzione viene a spostarsi sulla questione della forma della Filosofia dell’Arte, vale a dire l’intelaiatura concettuale destinata a “reggere il peso” della costruzione filosofica. La comprensione dell’apparato speculativo della Filosofia dell’Arte passa attraverso la sua corretta collocazione all’interno della riflessione schellinghiana. La prima considerazione da svolgere al riguardo concerne la necessità di valutare la Filosofia dell’Arte a partire dalla filosofia dell’identità, così da porre in luce sin dall’inizio la sua sistematicità. Senza dubbio questa è, se non la principale, almeno la caratteristica più appariscente del peculiare taglio prospettico che differenzia Schelling dai romantici di Jena, al di là dei debiti contratti con questi a livello letterario103. Il fatto che il tentativo schellin-

M. Cometa, Iduna, cit., p. 201. «Non sarà difficile riconoscere in molte di queste idee spunti e concezioni diffuse negli ambienti romantici: ciò ch’è originale in Schelling è la fondazione filosofica e la rigorosa sistemazione di queste teorie, le quali ne guadagnano in tal modo in approfondimento e fondatezza» (L. Pareyson, L’estetica di Schelling, Giappichelli, Torino 1964, p. 127). 102

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ghiano di comprensione filosofica dell’arte si collochi all’interno di un sistema compiuto e coerente – quale quello dell’identità a partire dal 1800 – implica eventualmente la precedenza accordabile, nella Filosofia dell’Arte, all’aspetto della tenuta formale e speculativa rispetto a quello della selezione del materiale analizzato104; non implica, viceversa, che la Filosofia dell’Arte debba necessariamente essere letta come la semplice conferma di quanto da Schelling già detto nel Sistema e nel Bruno105. La stessa scelta di dedicare piena attenzione all’arte è ciò che, piuttosto, consente a Schelling di sviluppare un sapere che «può ora finalmente svolgersi nella forma del sistema»106, il che vuol dire che il fenomeno artistico, posto al vertice del Sistema come «organo della filosofia», sembra quasi retrocedere finendo con l’essere “assimilato” dalla filosofia. In ciò si compendia la scelta schellinghiana di non dare vita all’ennesima estetica ma ad una filosofia dell’arte, il che vuol dire ad una comprensione dell’arte per come questa è in-sé 107. Ciò non significa che Schel-

104 Su questo punto cf. J. Hennigfeld, Mythos und Poesie, cit., p. 3, tr. nostra: «la Filosofia dell’Arte è esposizione della filosofia dell’identità e tutte le affermazioni sull’arte riescono ad essere cogenti solo sulla base di tale sistema». Ancora più esplicite le parole presenti in L. Knatz, Kunst-GeschichteMytos, cit., p. 194, tr. nostra: «l’elemento essenziale della Filosofia dell’Arte non va cercato in ciò che viene fatto oggetto di analisi, vale a dire l’arte stessa, ma nella collocazione dell’arte nel contesto di una filosofia sistematica». 105 Come invece sostenuto in M. Cometa, Iduna, cit., p. 194: «è certo che Schelling le considerasse [le lezioni sulla Filosofia dell’Arte] in fin dei conti come un approfondimento e un’articolazione di una fase del suo pensiero già compiuta con la chiusa mitologica del System». 106 T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., p. 87. 107 Cf. L. Knatz, Kunst-Geschichte-Mythos, cit., p. 175, tr. nostra: «già il titolo di Filosofia dell’Arte fa riferimento a ciò che era già stato contestato da Kant e lo sarebbe stato da Hegel: il riconoscimento del rango filosofico dell’arte senza specificazioni ulteriori. Il termine estetica risulta consapevolmente sminuito, in quanto sta ad indicare una disciplina descrittiva ed empirica, mentre la filosofia dell’arte intende essere una scienza sistematica, inquadrata all’interno di un sistema filosofico onnicomprensivo. Il suo oggetto non è il particolare nella forma dell’oggetto estetico, ma l’universale nel particolare, l’idea dell’Assoluto nella forma del bello».

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ling rinunci ad inquadrare in tale disegno anche i contenuti empirici dell’arte storicamente individuata: proprio le principali intuizioni in questo ambito esprimono il debito contratto nei confronti degli Schlegel. Ma il cuore della Filosofia dell’Arte batte altrove. Siamo così introdotti ad un secondo ordine di considerazioni. Schelling trae l’ossatura concettuale della Filosofia dell’Arte dalla sua precedente riflessione, in particolare dalla filosofia della natura, la quale risulta l’autentica radice delle lezioni del 1802. Di conseguenza, se la filosofia dell’identità illustra – con la definizione di Assoluto come compenetrazione di reale ed ideale – lo sfondo ed il punto di riferimento supremo del sistema, e l’universo artistico si mostra come la manifestazione più adatta ad esibire tale sintesi in atto, è la filosofia della natura a fornire il “motore” di tale struttura108, consentendo a Schelling di mettere analiticamente e diffusamente a tema quell’idea dell’arte come punto più alto del sistema cui, nel Sistema, si era solo accennato. La prossimità di Arte e Natura si rivela nel fatto che, per Schelling, esse forniscono risposta alla fondamentale domanda circa la possibilità di ostensione del lato oggettivo dell’Assoluto in quanto ideale e reale al tempo stesso. L’approfondimento di arte e natura consente a Schelling di accedere alla dimensione storica dell’Assoluto in quanto reale – il lato «empirico» della filosofia dell’arte – che, specularmente, riverbera l’articolazione puramente spirituale dell’Assoluto in quanto ideale – il lato «insé» della filosofia dell’arte – grazie alla quale il filosofo tenta di uscire dal dilemma kantiano-fichteano rappresentato dalla impossibilità di immaginare un mondo commisurato ad un essere morale, vale a dire un punto di contatto fra l’Universale (l’essere morale) ed il Particolare (il mondo)109. In realtà, Schelling si Cf. X. Tilliette, Schelling, cit., pp. 439-440. Su questo punto è possibile fare riferimento a S. Dietzsch, Die Construktion des Grundes oder vom Werden. Schellings Idee der Naturphilosophie, 108

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dibatte in un problema che deriva dalla specifica impostazione che è propria al suo pensiero, il quale, a differenza di quello fichteano, come osserva D. Jähnig, «non si appoggia su di una coscienza assoluta, ma piuttosto procede a partire da una assoluta certezza» 110. Il fatto che Schelling, a differenza di Fichte, deduca a partire da un punto fermo dato al di là del pensiero – l’Assoluto come identità indifferente ideal-reale – e non a partire da una attività – la fichteana Tathandlung – espone il suo sistema alla difficoltà per la quale, rispetto a ciò che viene saputo, l’atto stesso del sapere – l’egoità (die Selbstheit) – cade sempre alle spalle, il che vuol dire che resta sempre non-saputo. La ragione profonda di ciò consiste per Jähnig nel fatto che Schelling, a differenza di Fichte, pretenderebbe di pensare il principio stesso del sapere in quanto tale, vale a dire in quanto oggetto saputo, invece di fare di questo principio l’Assoluto stesso (come fa Fichte), dal momento che per Schelling l’Assoluto non consiste nell’autocoscienza (Selbstbewußtsein) del Soggetto con se stesso ma nella assoluta identità (absolute Identität) indifferente di Soggetto ed Oggetto. Al di là della forte critica di Jähnig alla posizione di Schelling, sulla quale torneremo fra poco, giova osservare come la difficoltà sottolineata dallo studioso agisca come una molla sul sistema schellinghiano, piegandolo inevitabilmente verso una soluzione processuale, nella quale si tratterà di costruire un percorso orientato, di volta in volta, alla progressiva costruzione dell’assolutezza indifferente operata però, sul piano storico, dall’Io non soltanto mediante l’affermazione di sé – declinata da Fichte nella forma della riconduzione del Non-Io all’Io – ma mediante la scoperta della natura spirituale dello stesso mondo

in F. Strack (hrsg.), Evolution des Geistes, cit., pp. 625-635. Sopratutto, però, è possibile fare riferimento a D. Jähnig, Schelling. Die Kunst in der Philosophie. Erster Band, Neske, Pfullingen 1966, pp. 222-233. 110 D. Jähnig, Schelling, cit., p. 224, tr. nostra.

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esteriore. In aggiunta a ciò, tale realtà non andrà soltanto postulata, ma dimostrata ed esibita. Fin qui, la filosofia della natura all’interno del sistema dell’identità. L’introduzione del contenuto artistico all’interno dello schema della filosofia della natura sortisce però l’effetto di mutare considerevolmente il tono di quest’ultima, finendo col rendere manifesto qualcosa che, ancora nel Sistema e nel Bruno, era possibile soltanto leggere fra le righe. Veniamo così ad un terzo punto focale. Nel momento in cui Arte e Natura si saldano nel segno della “estroflessione” idealreale dell’Assoluto, Schelling si rende conto di poter riprendere in mano un discorso lasciato interrotto anni addietro: «insieme alla compiuta riabilitazione della natura, svolta in chiave antifichteana, Schelling rivendica al tempo stesso di aver posato la pietra angolare per la soluzione poetica della nuova mitologia»111. Questo vuol dire che «egli è l’unico fra gli idealisti ad avere elevato l’idea di una nuova mitologia a momento centrale dell’intera filosofia della natura» 112. Il tema mitologico, saldandosi con la valorizzazione dell’arte, reagisce con la più generale riscoperta schellinghiana della storia quale luogo di manifestazione e rivelazione del lato empirico dell’Assoluto e finisce per coagularsi dando corpo al sogno giovanile di una mitologia del moderno, legato all’ispirazione del Systemprogramm. Mentre, tra il 1802 ed il 1804, la salute mentale di Hölderlin va rapidamente peggiorando e Hegel prende congedo una volta per sempre dalla prospettiva mitica, è il solo Schelling, dei tre sodali di Tubinga, a tornare ad inalberare il vessillo del mito moderno, cercando così di dare seguito e realizzazione alle righe messianiche del frammento.

111 L. Hühn, Die Idee der neuen Mythologie. Schellings Weg einer naturphilosophischen Fundierung, in F. Strack (hrsg.), Evolution des Geistes, cit., p. 395, tr. nostra. 112 Ibid., p. 395, tr. nostra.

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Solo il mito, inoltre, può presentarsi come punto di convergenza della complessa discussione schellinghiana della dottrina kantiano-fichteana della libertà cui si è fatto cenno poche righe più sopra. La via d’uscita scelta da Schelling per tirarsi fuori dalle secche speculative denunziate da Jähnig è proprio quella del mito. Un passo di H. Freier ci pare al riguardo molto esplicativo: la relazione dialettica intercorrente fra autonomia della ragione ed eteronomia di un principio che viene prima della ragione, che si trova alla base del problema della vincolanza della legge morale nella filosofia pratica di Kant, si rivela di importanza decisiva ai fini della ricerca della relazione filosofico-sistematica fra la concezione dell’autonomia della ragione e quella di una futura mitologia moderna. Questo perché il progetto di una mitologia moderna deve, o almeno così pare, venire tematizzato sulla base dell’abbraccio fra l’autonomia della ragione e l’eteronomia di un sistema simbolico-religioso collettivo, il quale deve garantire, in quanto meccanismo di controllo, una sintesi sociale113.

Letta da questo punto di vista la Filosofia dell’Arte, lungi dal limitarsi a ripetere le conclusioni del Sistema, chiude idealmente un arco che occupa un decennio di riflessione schellinghiana sul mito, a partire dal Sui miti, passando per il Systemprogramm114. La riemersione del mito quale luogo di «sintesi sociale» richiama in vita le suggestioni del saggio giovanile: queste si saldano

113 H. Freier, Die Rückkehr der Götter. Von der ästhetischen Überschreitung der Wissensgrenze zur Mythologie der Moderne, Metzler, Stuttgart 1976, p. 73, tr. nostra. 114 Così anche A. Allwohn, Der Mythos, cit., pp. 26ss., laddove il Systemprogramm e la FdA racchiudono la “fase estetica” dell’interesse schellinghiano per il mito, seguente una prima fase storico-esegetica (il saggio Sui miti) e precedente la terza fase, metafisico-religiosa (la Filosofia della Mitologia). L’idea di una sostanziale continuità fra Systemprogramm e FdA quanto alla trattazione del mito moderno è presente anche in L. Knatz, Kunst-GeschichteMythos, cit., pp. 185-194.

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però con la categoria di «sistema collettivo simbolico-religioso», alla luce della quale il mito si rivela, in uno, come soluzione non soltanto del problema politico – il mito come luogo della nomopoiesi – ma anche di quello metafisico, giacché nella forma della comunità agente nella storia unita da un vincolo mitico-religioso è finalmente possibile l’attingimento, dal lato oggettivo, dell’Assoluto quale punto di equilibrio ideal-reale115. Tutto questo è possibile grazie all’apertura al fenomeno estetico. Nella Filosofia dell’Arte, pertanto, la mitologia non è un semplice “contenuto” fra gli altri generi di espressione artistica: «l’interesse che la Philosophie der Kunst presenta, così dal punto di vista di una storia interna del pensiero schellinghiano come per la storia generale dell’estetica, risiede dunque soprattutto nel concetto di mitologia come giustificazione filosofica dell’arte»116. Al termine di questa prima serie di ricognizioni introduttive, destinate a fungere da approccio ermeneutico alla Filosofia dell’Arte, cerchiamo di sunteggiare alcuni punti importanti. a) Nell’accostare la Filosofia dell’Arte è utile separare la forma del testo dal suo contenuto. Quest’ultimo rivela in particolar modo l’influenza di August Schlegel, stanti le limitate conoscenze schellinghiane in fatto di arte e letteratura. La prima, al contrario, consente di penetrare in profondità negli aspetti originali della riflessione schellinghiana. b) Lo sfondo generale sul quale la Filosofia dell’Arte deve essere proiettata e all’interno del quale questa trova collocazione è rappresentato dal sistema della filosofia dell’identità. c) Emerge, in questo modo, come l’impalcatura strutturale della Filosofia dell’Arte sia tratta direttamente dalla filosofia della natura. d) L’incontro fra il metodo della filosofia della natura e l’oggetto del fenomeno artistico consente a Schelling di ripren115 116

Cf. D. Jähnig, Schelling, cit., pp. 245-248. R. Assunto, Estetica dell’identità, cit., p. 162.

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dere in mano il discorso del mito moderno, a sua volta luogo di soluzione dell’aporia kantiana del mancato contatto fra libertà e storia, giungendo finalmente a portare a compimento un discorso apertosi con il Systemprogramm.

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2. MITO E ARTE L’introduzione alla Filosofia dell’Arte contiene sin da principio l’enunciato cardine dello sguardo schellinghiano sull’arte, unitamente al raccordo di quest’ultima con la natura: essa è «un tutto conchiuso, organico e necessario in tutte le sue parti qual è la natura»117. La categoria che unifica arte e natura è pertanto quella di interezza, il loro essere, cioè, un intero (das Ganze), un Tutto in sé compiuto118. Tuttavia l’arte gode di un vantaggio rispetto alla natura: si rivela più adatta a farci conoscere i prodigi dello spirito umano data la perfetta inerenza, in essa, dell’elemento materiale con quello spirituale. La ragione di una filosofia dell’arte consiste allora nella esposizione dell’arte-totalità in quanto reale, laddove quest’ultimo elemento viene unificato all’elemento filosofico, ossia puramente ideale. Questo processo, che costituisce di fatto il manifesto della Filosofia dell’Arte,

F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 65. Sulla base di tale definizione Schelling procede nel criticare ogni dottrina dell’arte incapace di elevarsi ad un punto di vista scientifico, destinata pertanto a rimanere irretita in una serie di giudizi reciprocamente contraddicentesi. Nel dare conto di tale stato della discussione, il filosofo osserva come quelli presenti siano tempi nei quali la comune ispirazione dello spirito – che animava ad esempio gli animi di Raffaello, Dürer, Cervantes e Shakespeare accomunandoli senza che questi lo sapessero – è stata sostituita dall’accademismo della discettazione di tali contenuti, con la conseguenza che all’unità è subentrata la divisione. Questo duro giudizio della contemporaneità come luogo della conservazione e studio della cultura e non più di produzione della stessa può richiamare alla mente, mutatis mutandis, la nota distinzione introdotta da O. Spengler fra civiltà (Kultur) e civilizzazione (Zivilisation). 117

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dà luogo a quella che Schelling definisce «costruzione dell’arte», l’esibizione in atto delle innervature ontologiche sottese al fenomeno artistico. Sono, queste, quelle che il filosofo definisce potenze descrivendole in questo modo: ad essere veramente e in sé è soltanto un essere, un assolutamente reale, e questo essere, in quanto assoluto, è indivisibile, e perciò non può passare, mediante divisione o separazione, in esseri diversi. Essendo esso indivisibile, la diversità delle cose è possibile in generale solo in quanto esso viene posto, nella sua totalità e indivisibilità, sotto determinazioni diverse. Queste determinazioni io le chiamo potenze119.

Ciascuna determinazione (Bestimmung), ciascuna potenza rappresenta una faccia ideale dell’unico essere: l’apparente diversità dell’oggetto della filosofia della natura o della filosofia dell’arte si spiega così con la differenza delle determinazioni, non certo con quella reale dell’oggetto, che in effetti è e non può essere altro che l’Assoluto stesso. Cogliere quest’ultimo nella pura assolutezza, vale a dire nella radicale assenza di determinazione, è compito e privilegio della filosofia qua talis; ciò, tuttavia, non toglie legittimità a una filosofia dell’arte o della natura, vale a dire una filosofia orientata all’illuminazione di una particolare potenza, giacché in ogni potenza, in ogni determinazione dell’Assoluto, è sempre presente l’Assoluto stesso nella sua interezza, in quanto è senz’altro impossibile che l’Assoluto subisca una effettiva partizione. Questo significa che ogni determinazione contiene in sé tutte le altre, anche se secondo la forma inessenziale che è loro di volta in volta propria. Nel caso della filosofia dell’arte, il filosofo procederà alla selezione di quel materiale che sia tale da prestarsi ad una trattazione volta a separare, nel suo oggetto, quanto in esso v’è di essenziale da quanto v’è di inessenziale120. In generale, si può dire essenziale F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 71. La relazione fra arte e filosofia è, secondo Assunto, il perno sul quale ruota tutta la Filosofia dell’Arte. L’identità paritetica delle due sarebbe a fon119

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ogni elemento tale da essere sussunto sotto la categoria dell’universalità: una filosofia dell’arte non potrà pertanto riservare alcun ruolo all’individuale. Schelling ammette però l’eccezione di quegli individui definiti «rappresentativi di tutto un genere: Omero, Dante, Shakespeare» 121. Questa definizione di «individui rappresentativi di tutto un genere» contiene allo stesso tempo la chiave ed una delle maggiori questioni della Filosofia dell’Arte. In Dante o in Shakespeare prende corpo l’idea di tangenza fra Assoluto e storia dalla quale dipende la possibilità stessa di un discorso filosofico, cioè fondante, che abbia l’arte a proprio oggetto. È come se la difficoltà di dedurre il reale a partire dall’ideal-reale, verso la quale converge il progetto della filosofia della natura, venisse ora arricchita dall’ulteriore plesso problematico rappresentato dalla effettiva presenza di tale punto di contatto nelle persone fisiche, spazialmente e temporalmente determinate, di alcuni uomini. È evidente come qui si riproponga la problematica del genio, cui si è già fatto riferimento a proposito del Sistema del 1800. Lo sguardo di Schelling sul problema è, nella Filosofia dell’Arte, diverso rispetto a quello del Sistema122. Alla rivendicazione del primato del genio in quanto miscela di conscio ed inconscio si sostituisce ora una apologia della genialità i cui spazi d’azione vengono decisi dalla filosofia: ogni personalità menzionata ha il merito di rappresentare in sé «un genere», cioè una determinazione dell’Assoluto. Sullo sfondo si avverte un rafforzamento damento dell’intera opera oltre che il punto d’arrivo di tutta la filosofia della natura precedente. In particolare Assunto fa dell’incontro fra arte e filosofia, in quanto abbraccio di bellezza e verità, la cifra della perfetta ideal-realità dell’Assoluto schellinghiano. Cf. R. Assunto, Estetica dell’identità, cit., pp. 137ss. 121 F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 70. 122 Tale diversità viene spiegata da Moretti come «parte dell’incertezza generale che permea il sistema schellinghiano e si manifesta anche nella decisione di non pubblicare le Lezioni, fra una filosofia estetica ed un’estetica filosofica, senza però che lo spazio del genio venga ad esserne toccato più di tanto. Esso resta infatti essenzialmente nell’ambito del rapporto finito-infinito» (G. Moretti, Il genio, cit., p. 127).

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IL MITO MODERNO

dello statuto della filosofia, che Griffero descrive in questo modo: «non solo è ora possibile una filosofia che faccia dell’arte l’oggetto di un sapere, ma le si ascrive pure, fondendo esigenze speculative e di critica della cultura, il compito di ostacolare la decadenza del gusto della civiltà europea» 123. Il proprium della filosofia è il vero, quello dell’arte il bello. Ciò significa che mentre la prima conosce le potenze, o anche le idee, in quanto vere, la seconda le contempla in quanto belle124. In aggiunta a ciò, la filosofia si rapporta a un contenuto di pensiero ideale, l’arte ad un contenuto di pensiero reale125. Ora, le idee reali, viventi ed esistenti per come l’arte le contempla altro non sono che gli dèi. Lasciamo la parola a Schelling: il simbolismo universale, ovvero la raffigurazione universale delle idee come reali, è pertanto contenuto nella mitologia, e la soluzione del secondo compito che ci siamo posti [come

123 T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., p. 92. Griffero specifica ulteriormente il suo punto di vista, riassumibile nel primato della filosofia sull’arte, nelle pagine seguenti. Contrariamente a tale lettura, Jacobs sunteggia invece con queste parole il proprio giudizio sulla FdA: «la filosofia schellinghiana dell’arte formula prima un principio per la ripartizione delle arti e poi un principio per la comprensione storica dell’arte. Oltre a ciò – e questo potrebbe essere il suo risultato più importante – essa apre la possibilità di vedere nell’arte una maniera peculiare e non ulteriormente riducibile di esporre l’incondizionato. Se il XIX secolo costruisce grandi musei, se a poco a poco l’arte viene a sostituire la religione, se essa può affermare la sua indipendenza e reclamare come un diritto la sua libertà, tutto ciò è dovuto al lavoro di Schelling» (W. Jacobs, Leggere Schelling, cit., p. 101). 124 Detto altrimenti, «la verità è l’intuizione archetipica dell’unità di soggettivo e oggettivo, la bellezza è intuizione per immagine della stessa unità» tr. nostra (J. Hennigfeld, Mythos und Poesie, cit., p. 40). 125 Griffero inserisce a questo riguardo la distinzione fra bello naturale e bello artistico, osservando come nella FdA si celebri la superiorità del secondo rispetto al primo, giacché solo quello sa e vive quella stessa libertà che il bello in natura contiene in germe. Sotto questo punto di vista, allora, tale asserzione confermerebbe, a un livello ulteriore, il primato della serie ideale (la filosofia) rispetto a quella reale (l’arte), in quanto quest’ultima verrebbe ricondotta a un essere «non-ancora pervenuta a se stessa». Cf. T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., p. 101.

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dall’unità indifferente dell’Assoluto si passi alla distinguibilità delle potenze] consiste precisamente nella costruzione della mitologia. Di fatto gli dèi di ogni mitologia altro non sono se non le idee della filosofia, contemplate però oggettivamente, ossia realmente126.

Il legame fra mito e arte viene introdotto e spiegato chiaramente dal filosofo: la mitologia, in quanto insieme di dèi, rappresenta la specifica modalità nella quale l’arte rappresenta a se stessa la bellezza delle idee, vale a dire le determinazioni dell’Assoluto127. Seguono delle considerazioni volte alla distinzione dei vari generi artistici. Non batteremo questa via. Al di là della distinzione di arti figurative ed arti della parola e delle innumerevoli suddivisioni ulteriori, ci interessano di più le righe conclusive dell’introduzione, nelle quali Schelling passa alla questione dei condizionamenti “esterni”, vale a dire storici, che interessano le produzioni artistiche. Su tale argomento il filosofo osserva che come l’arte è in sé eterna e necessaria, così anche nella sua manifestazione temporale non v’è casualità, ma necessità assoluta […] peraltro le opposizioni che, relativamente all’arte, vengono messe in essere dalla sua dipendenza dal tempo, sono necessariamente, come del resto il tempo stesso, opposizione inessenziali e meramente formali, affatto diverse quindi dalle opposizioni reali, che hanno il loro fondamento

F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 75. Nonostante ciò, a parere di Allwohn l’interesse schellinghiano per la dimensione estetica del mito è passeggero e, tutto sommato, di modesta importanza rispetto alla fondamentale questione dello sfondo religioso del mito stesso. Tale questione riemergerà in tutta la sua centralità nella Filosofia della Mitologia. Cf. A. Allwohn, Der Mythos bei Schelling, cit., pp. 51ss. Di diverso avviso è Korff, il quale assegna alla posizione schellinghiana il valore epocale del compimento filosofico dell’estetica della Goethezeit, con la conseguenza che la FdA sarebbe al tempo stesso collegata alla lezione di Moritz – gli dèi come prime intuizioni dell’Assoluto – e a quella dei posteriori romantici di Heidelberg – il mito come rivelazione originaria di tali intuizioni. Cf. H.A. Korff, Geist der Goethezeit, IV, Hirzel Verlag, Leipzig 1964, p. 707. 126

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nell’essenza o idea dell’arte stessa. Questa generale opposizione di natura formale, che attraversa tutti i rami dell’arte, è l’opposizione fra arte antica ed arte moderna128.

In questo modo Schelling ribadisce con forza la distinzione, nella sua analisi del fenomeno artistico, di due piani: quello formale129, intrinseco, le cui determinazioni sono radicate nelle potenze stesse, e quello materiale, caratterizzato da articolazioni estrinseche, quali ad esempio quelle dettate dalla periodizzazione storica. La principale opposizione estrinseca è quella fra arte antica e arte moderna, per noi di grande importanza perché da essa, come vedremo, dipende la distinzione fra mito antico e mito moderno. Ora torniamo però a seguire da presso l’andamento del ragionamento schellinghiano, che si dipana lungo la direttrice dell’equazione fra idee e dèi. Contemplare l’universo nelle idee dischiude due possibilità di intuizione dello stesso: la prima, secondo la quale esso è caos, la seconda secondo la quale esso è forma. La prima intuizione fonda la possibilità dell’esperienza del sublime, la seconda quella del bello. Schelling ritorna in modo conclusivo su tale questione nelle pagine centrali della Filosofia dell’Arte130, laddove, citando a più riprese Schiller, egli specifica il senso dell’arte sublime quale momento di rivelazione della vittoria del «vero infinito» sull’«infinito sensibile», dando così corpo alla carat-

F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 76. Potrebbe forse generare più di un equivoco il fatto che Schelling impieghi, nel passo appena citato, l’aggettivo formell associandolo a quello che noi, invece, definiamo piano materiale, laddove l’impiego di formale vale, nel presente studio, nell’accezione di forma intelligibilis con il quale la filosofia medioevale tradusse il greco eivdo~, e che vanta, proprio rispetto alla materia, una precedenza sia cronologica che ontologica. Al contrario, Schelling impiega il termine in questione accostandolo all’altro aggettivo unwesentlich, inessenziale. D’altro canto, il filosofo si serve del sostantivo Form nel senso analogo a quello da noi impiegato. 130 Cf. F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., pp. 150-159. 128

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terizzazione specifica del sublime artistico come unico caso nel quale anche l’oggetto stesso – cioè l’opera d’arte – è sublime, e non soltanto la disposizione presente nel soggetto. Schelling legge Schiller, ma si serve della sua lezione per procedere oltre131, ponendo in essere un piano reduplicato del sublime nel quale la capacità di sopportazione e resistenza dell’animo – vale a dire la dimensione del sublime in quanto dignità (Würde) in Schiller – rinvia al sublime dell’arte in sé, ultimamente rivelativo dell’orizzonte dell’universo in quanto caos. Ora, se nel sublime è l’infinito a mostrarsi, il bello, in quanto intuizione dell’universo come forma, reca in sé il carattere del finito, ma solo perché quest’ultimo, proprio in quanto bello, appare già informato di infinitezza, cioè come riconciliato con l’infinito stesso. Dal che Schelling trae le seguenti conclusioni: il rapporto fra bello e sublime è identico a quello fra le due unità, ciascuna delle quali, nella sua assolutezza, comprende appunto in sé anche l’altra. Il sublime, ove non sia bello, non sarà appunto perciò neanche sublime, ma soltanto immane e bizzarro. Parimenti la bellezza assoluta deve sempre anche essere ad un tempo, in misura maggiore o minore, bellezza terribile132.

Bello e sublime convergono nell’unità di ideale e reale, di forma e materia133. 131 «Radicalizzando la posizione schilleriana, Schelling riprende poi la fondamentale opposizione fra bello e sublime, sia riconducendola, come ogni altra opposizione, a una differenziazione solo quantitativa e i cui membri coinciderebbero pienamente nell’assoluto, sia inquadrandola problematicamente all’interno tanto della sistematica dell’in-formazione, quanto della storia superiore intesa come successione di natura, destino e provvidenza» (T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., pp. 111-112). 132 F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 155. 133 «Adesione al romanticismo, dunque, ma anche distacco dal romanticismo, dal momento che Schelling attribuisce alla finitezza (bello, ideale) una importanza pari a quella riconosciuta alla infinità (sublime, reale). Se il sublime risponde alla esigenza della realtà, in cui l’infinito si mostra nel particolare e questo si espande oltre le angustie di una forma che lo imprigiona

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IL MITO MODERNO

Ogni idea testimonia tale equilibrio nella propria natura134. In quanto uni-formazioni (Ineinsbildungen) di universale e particolare, le idee, considerate non in se stesse ma in quanto reali, sono gli dèi. La realtà di questi ultimi consegue dalla loro stessa possibilità: proprio in virtù della loro assolutezza, il che vuol dire in virtù della loro definizione, gli dèi sono reali. In altre parole, ciò che è assoluto può esistere esclusivamente in virtù di se medesimo, in quanto ogni eventuale dimostrazione della sua esistenza presupporrebbe la possibilità di una sua afferrabilità che, di nuovo, ne distruggerebbe l’assolutezza: l’essenza degli dèi implica la loro esistenza. Ecco perché, osserva Schelling, la fede dei Greci e degli altri popoli politeisti negli dèi era fede più alta di quella del senso comune, la quale riposa sulla credenza nell’esistenza sensibile dell’oggetto creduto. La fede negli dèi non è di tal fatta, essa si rivela sin da principio come una religione estetica, all’interno della quale gli dèi vengono creduti «non come passaggio dalla unità alla molteplicità, dalla identità alla differenza, ma come passaggio della unità identica nella molteplicità diversa, un passaggio senza caduta e senza peccato» 135. L’organo dell’arte viene a questo punto a essere l’immaginazione (Einbildungskraft) che Schelling sceglie di giocare in relazione alla fantasia secondo il rapporto intercorrente in filosofia fra ragione ed intuizione: la prima plasma e concepisce, la

in se stesso, il bello risponde alla esigenza della idealità: è l’esposizione del particolare nell’Assoluto, e richiede una delimitazione formale del particolare in quanto tale» (R. Assunto, Estetica dell’identità, cit., pp. 294-295). Secondo Assunto, la scelta conciliatoria di Schelling avviene nel segno dello stile come punto di mediazione fra romantico e classico. Questa impostazione rivelerebbe, in particolare, l’influenza di Goethe sulla FdA. Dell’importanza di Goethe si dirà in seguito. 134 In aggiunta a ciò, ogni idea risponde anche al canone della bellezza, giacché ogni forma che si mostra bella nello spazio e nel tempo trova, nelle idee, il proprio archetipo di esistenza assoluta. Cf. su questo punto J. Hennigfeld, Mythos und Poesie, cit., p. 47. 135 R. Assunto, Estetica dell’identità, cit., p. 176.

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seconda proietta fuori di sé e rappresenta136. L’immaginazione coglie come molteplicità quella stessa unità che la ragione conosce come una: ecco realizzati il «monoteismo della ragione» ed il «politeismo dell’immaginazione» dei quali si diceva nel Systemprogramm137. Questa linea di pensiero mette capo alla delineazione di quella che Griffero chiama teogonia trascendentale, vale a dire la deduzione delle principali figure di dèi, tratte nello specifico dal pantheon olimpico, in quanto figurazioni delle possibilità incluse nel regno delle idee. Schelling dichiara di non voler ripercorrere le vie già battute dall’evemerismo e dalle altre spiegazioni mitiche più o meno razionalizzanti: egli intende partire dalle figure stesse per rinvenirne le condizioni di possibilità così da non fare torto al fondamentale dato di fondo in virtù del quale gli dèi, al pari delle idee, non significano, ma sono. Lasciamo, per ora, questa considerazione senza approfondirla, anche se torneremo su di essa fra poco allorché si tratterà di discutere la natura simbolica del mito. Torniamo invece alla teogonia trascendentale messa in campo da Schelling, riservandoci però di trattarla solo incidentalmente così da dare conto di come abbia luogo la costruzione schellinghiana della mitologia. A partire dalla nera e cieca indistinzione rappresentata dal fato, grembo dal quale tutti gli 136 In realtà questo plesso, come osserva Griffero, «non è dei più chiari, soprattutto perché, ammesso e non concesso che Schelling intenda con ciò qualcosa di rigoroso, incerta è l’attribuzione della Phantasie» (T. Griffero, Senso e immagine, cit., pp. 271-272). 137 «Il passaggio dal monoteismo della ragione al politeismo della immaginazione coincide col passaggio dalla considerazione ideale alla considerazione reale delle Idee: diciamo, col passaggio dal punto di vista della filosofia, che è il punto di vista della ragione, al punto di vista dell’arte, che è il punto di vista della immaginazione […] il Divino, che è unico per la ragione è molteplice e diverso per l’immaginazione, che lo considera realmente, come bellezza non in sé e per Sé ma nelle cose particolari, e cioè dal punto di vista dell’arte. Nella Filosofia dell’Arte trova dunque il proprio adempimento definitivo il progetto enunciato nel Systemprogramm» (R. Assunto, Estetica dell’identità, cit., pp. 155-158).

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IL MITO MODERNO

olimpici sono emersi138, Giove è il «punto di indifferenza assoluto», nel quale forza e sapienza si equivalgono. Rispetto ad esso, Minerva è invece «sapienza assoluta», trionfo della pura forma scaturita direttamente dal capo del Padre degli dèi. Seguono poi analoghe “deduzioni” di Apollo, Plutone, Nettuno e Vulcano. In realtà, Schelling dedica solo alcune pagine a tale questione, che tuttavia resterà nei suoi pensieri e sarà destinata a trovare trattazione analitica nella Filosofia della Mitologia. Quello che in questa sede interessa è insistere sulla convinzione schellinghiana che il processo teogonico sia l’unica forma adatta a rappresentare la natura di filiazione delle relazioni che intercorrono fra idee e, dunque fra dèi. La mitologia è appunto l’insieme delle opere poetiche aventi ad oggetto tale materiale. Da questo ultimo passaggio Schelling deriva la fondamentale affermazione secondo la quale «la mitologia è la condizione necessaria e la materia prima di ogni arte» 139. Spiega il filosofo: la mitologia non è altro che l’universo nella sua veste più alta, nella sua forma assoluta, il vero universo in sé, l’immagine della vita e del mirabile caos nell’immaginazione divina, esso stesso già poesia, eppure di per sé ancora materia ed elemento della poesia. Essa è il mondo e quasi il terreno su cui soltanto possono vivere e sbocciare i fiori dell’arte140.

138 W. Otto ritiene che la coscienza greca serbasse memoria di tale passato nella figura delle Erinni e di Dioniso, recante su di sé lo stigma di tale primigenia indifferenza più di ogni altra divinità olimpica. Egli, peraltro, cita a più riprese Schelling proprio nel momento in cui afferma che «l’arcano originario è esso stesso delirio, è la matrice della duplicità e dell’unità del discorde» (W. Otto, Dioniso, a cura di A. Ferretti Calenda, Il Melangolo, Genova 2002, p. 145). Per un confronto fra Schelling ed Otto in relazione alla trattazione del mito si faccia riferimento a G. Moretti, Der Gott in kreatürlicher Gestalt. Schelling, W. Otto ed il sentiero del mito, in C. Tatasciore (a cura di), Dalla materia alla coscienza, cit., pp. 219-238. 139 F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 105. 140 Ibid., p. 105.

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Queste parole, che suggellano nel modo più forte l’intimo legame intercorrente nella Filosofia dell’Arte fra arte e mitologia, appaiono in realtà del tutto giustificabili ed ampiamente prevedibili sulla base di quanto detto in precedenza. A ben guardare il rapporto fra arte e mitologia si fonda sull’equazione fra idee e dèi: data questa, quello ne discende automaticamente. Ciò non equivale però a misconoscere il fatto che tale esplicitazione dello statuto “forte” del quale Schelling dota la mitologia nella Filosofia dell’Arte si rivela come il punto decisivo ai fini del nostro discorso, vale a dire la ragione stessa del voler trattare la Filosofia dell’Arte come il punto di arrivo della prima riflessione schellinghiana sul mito. La saldatura di idee e dèi, sulla quale si appoggia quella fra arte e mitologia141, implica la scoperta della mitologia come poesia ab-soluta, sciolta da vincoli storici e contingenti, sì che la mitologia ha un significato universale ed eterno, valido per tutti gli uomini e per tutti i tempi, in quanto è una rappresentazione “tipica”, cioè in quanto è rappresentazione del mondo delle idee, del regno degli archetipi. Essa rappresenta delle possibilità assolute ed eterne, che valgono sempre, non solo per il passato, come nella storia, ma anche per il futuro142.

Nelle ultime parole citate Pareyson coglie il ponte verso l’altro polo tematico della Filosofia dell’Arte, vale a dire la possibilità di progettazione del futuro dischiusa dalla sottrazione del mito all’ordine dell’archeologia letteraria e religiosa, in virtù del 141 «Questa valenza monadico-simbolica dell’uni-formazione sovrafenomenica di universale e particolare spetta alle idee in ambito filosofico, ma anche e nel medesimo tempo (nell’assoluto coincidono infatti ideale e reale) agli dèi nel campo dell’arte, qui concepiti come Dio in una forma particolare o idee intuite nel reale. L’arte autentica, quindi, non può avere, pur in tutta la varietà delle sue creazioni, altra materia o archetipo che la mitologia, ossia quel mondo di forme perenni e determinate che si potrebbe definire poesia assoluta o poesia in massa» (T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., p. 106). 142 L. Pareyson, L’estetica di Schelling, cit., p. 99.

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IL MITO MODERNO

suo inserimento all’interno di un progetto che non può che essere quello del Systemprogramm. Ecco allora che la nozione di costruzione, sull’approfondimento della quale ha tanto insistito la critica schellinghiana, viene ad applicarsi per un verso alla teogonia trascendentale delle mitologie politeiste, ma anche, per l’altro, alla delineazione del mito moderno come chiave di decifrazione e progettazione di una età ancora a venire. Nel momento in cui trova che la mitologia, in quanto materia e prima condizione di ogni arte, possiede un valore eterno, sì che in essa abbiano necessariamente a mostrarsi le idee – in tutte le loro Bestimmungen – Schelling riflette su quanto ogni arte, ivi compresa quella moderna, non possa che continuare a basarsi su di un mito che, con ogni evidenza, mantiene intatta nei secoli – in verità nei millenni – la sua potenza generatrice, così che sia possibile tornare a volgersi ad esso nel tentativo di contribuire a costruire il volto del moderno e, soprattutto, di ciò che verrà dopo di esso. È, questo, un tratto genuinamente ed originalmente schellinghiano, nel quale il filosofo si emancipa a pieno titolo da ogni debito contratto nei confronti del circolo romantico143, riuscendo al tempo stesso ad ampliare e far evolvere la stessa prospettiva del Systemprogramm grazie ad una meditazione profonda sulla natura dell’arte, favorita peraltro dalle riflessioni suggerite proprio dai romantici. Riusciamo, in questo modo, a isolare le due principali linee di sviluppo lungo le quali si articola la trattazione del mito nella Filosofia dell’Arte. V’è, da un lato, la riflessione sul valore archetipico del mito, che rimonta alle ricerche dei romantici sull’arte e sulla connessione di quest’ultima con il mito stesso. D’altro canto, tale discorso si incrocia con la tendenza più radicata nel pensiero schellinghiano, di cui abbiamo già scorto le tracce nel Sui miti e, soprattutto, nel Systemprogramm: la tendenza, cioè, a ricondurre il mito alla sua dimensione storica. Scrive al riguardo Jähnig: 143

Cf. R. Haym, Die romantische Schule, cit., pp. 838-839.

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tanto nella sua fase “estetica” come in quella “religiosa”, la mitologia è per Schelling antropomorfica, nel senso per cui essa rivela all’uomo l’originaria e reale somiglianza del mondo esteriore con se stesso. In ciò, in tale forza ermeneutica, risiede per Schelling il tratto tipico della mitologia144.

Proseguendo sul crinale dell’antropologizzazione della natura, conseguita nella speculazione sulla filosofia della natura mediante la riconduzione della natura stessa alla categoria di pre-figurazione dello Spirito, Schelling si avvia così ad applicare la medesima forma mentis all’arte in primo luogo ed al mito in secondo. Come già nel Systemprogramm, così anche nella Filosofia dell’Arte l’avvicinamento del mito all’uomo si riverbera in un guadagno di centralità della questione della storia: in effetti, non sarebbe possibile vedere nella Filosofia dell’Arte il compimento del progetto presente nel frammento, se in essa il mito non si rivelasse solo come l’immagine archetipica – e pertanto astorica – del vero, ma anche come lo spazio di edificazione del moderno storico. Il punto di contatto fra queste due argomentazioni è dato dalla riflessione schellinghiana sulla natura simbolica del mito. Schelling ritiene che la rappresentazione dell’assoluto nel particolare possa essere possibile, nella sua assoluta indifferenza, solo nel simbolo, che si rivela pertanto come la forma propria tanto all’arte quanto al mito. Il termine tedesco per simbolo (Sinnbild) riunisce due sostantivi, Sinn (senso) e Bild (immagine), così che Sinnbild indica, sin dall’etimo, l’idea di una “immagine dotata di senso”. Questa definizione aiuta Schelling a distinguere il simbolo dallo schema e dalla allegoria, laddove il primo è un universale che significa il particolare e la seconda un particolare che significa l’universale145: rispetto ad entrambi, il simbolo si caratterizza come ciò in cui universale – la compoD. Jähnig, Schelling, cit., p. 240, tr. nostra. Circa tale distinzione è possibile fare riferimento a J. Hennigfeld, Mythos und Poesie, cit., pp. 71-76. 144 145

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IL MITO MODERNO

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nente del Sinn, del significato – e particolare – la componente del Bild, dell’immagine – sono propriamente una cosa sola146. Nel simbolo Schelling trova la via d’uscita definitiva dalla filologia mitica di Heyne appresa durante gli anni tubinghesi, e che egli riassume ora sotto la dicitura di “interpretazione allegorica”. Il filosofo non esclude che tale lettura non abbia i suoi punti di forza, ma osserva però che il fattore primario in ogni mito è quello simbolico, almeno per quanto riguarda i miti più antichi: le poesie e i filosofemi allegorici, come Heyne li chiama, sono indubbiamente di epoche più tarde: a venire per prima è la sintesi […] appare del resto evidente come la mitologia cessi non appena inizia l’allegoria […] l’esigenza della rappresentazione artistica assoluta è: rappresentazione con piena indifferenza, tale cioè che l’universale non significhi, ma sia interamente il particolare, e insieme il particolare non significhi l’universale, ma lo sia completamente. Questa esigenza è risolta poeticamente nella mitologia147.

Solo il simbolo può godere dell’assoluta priorità estetica spettante alla sintesi fra schema ed allegoria, cifra dell’identità indifferente nella quale consiste l’Assoluto stesso148. Questo sembra autorizzarci a dire che non solo il mito o l’arte, ma l’Assoluto medesimo siano simbolici. È inoltre importante sottolineare come la possibilità di un uso del mito moderno sia del pari esclusa dalla scoperta del146 Nel commentare questo passaggio, Knatz osserva che: «l’arte si presenta pertanto come sintesi simbolica di pensare (schema) ed agire (allegoria) […] il movimento dello spirito esprime il principio di repulsione ed attrazione in natura. Nella mitologia queste figure danno vita alla tensione fra la sintesi simbolica nella coscienza mitologica del soggetto e l’idea eterna del divino» (L. Knatz, Kunst-Geschichte-Mythos, cit., pp. 190-199, tr. nostra). In aggiunta a ciò, Knatz carica la caratterizzazione simbolica del mito di un significato ulteriore, ritenendo che solo tramite questa Schelling sia finalmente riuscito a lasciarsi alle spalle la lezione di Heyne, riassumibile nella lettura allegorica del mito. 147 F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., pp. 108-109. 148 Per un approfondimento di questo punto cf. T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., p. 109.

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la natura simbolica del mito stesso, con la conseguenza che la riflessione schellinghiana sul mito moderno dovrà necessariamente percorrere delle vie nuove. Questo sarebbe, come scrive Pareyson, «un uso estrinseco di figure simboliche già costituite, forzatamente adattate a significare nuovi concetti. Sarebbe una violazione del carattere simbolico della mitologia»149. La Filosofia dell’Arte rappresenta sì il punto d’arrivo del progetto lanciato nel Systemprogramm, ma nel senso di un suo compimento, di una sua conclusione, conseguita mediante il guadagno di un punto di vista oramai inconciliabile con la stessa intenzione di manipolazione riferita al materiale mitico. La natura simbolica del mito consente a Schelling di riprendere però in mano anche l’altro filo, quello legato alla dimensione storica del mito stesso, del quale egli si occupa in alcuni passi davvero significativi che potrebbero essere eletti a “manifesto” dello statuto mitico nella Filosofia dell’Arte: la mitologia va, con pari immediatezza, compresa storicamente. Indubbiamente la concezione più prosaica che si abbia di questi poemi è quella secondo cui gran parte delle storie degli dèi conterrebbe echi di grandi rivolgimenti naturali nel mondo arcaico, gli dèi stessi significherebbero antichi re e così via. Se però così fosse la stessa relazione della mitologia con l’intuizione dell’universo e della natura risulterebbe altra da quella che appare sotto il profilo storico, e cioè quanto di assoluto e universalmente valido v’è nella mitologia andrebbe perduto […] la poesia mitologica va considerata unicamente in se stessa. Non vi stupirà a questo punto che io abbia fatto alcun uso di quelle popolarissime spiegazioni storico-psicologiche della mitologia, secondo le quali la sua origine andrebbe ricercata negli sforzi compiuti dai rozzi figli della natura di personificare e animare ogni cosa […] la mitologia non può essere opera né del singolo uomo né della stirpe o della specie, bensì unicamente della stirpe in quanto

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L. Pareyson, L’estetica di Schelling, cit., p. 139.

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essa stessa è un individuo ed equivalente a un singolo uomo. Non del singolo, perché la mitologia deve possedere oggettività assoluta, dev’essere un secondo mondo che non può essere quello del singolo. Non di una stirpe o di una specie intesa semplicemente come una somma di individui, perché altrimenti sarebbe priva di un accordo armonico150.

Queste righe confutano punto per punto la maggior parte delle conclusioni tratte dallo stesso Schelling nel saggio Sui miti: eziologia evemeristica e teoria della mitologia come specchio dell’umanità fanciulla – entrambe presenti nel saggio del 1793 – vengono criticate frontalmente e il tutto trova la sua piena formulazione nel cuore della pars destruens appena letta, vale a dire l’asserto in virtù del quale nessun mito può essere ricondotto all’azione creatrice di un uomo o di un gruppo di uomini. Una mitologia, per nascere, abbisogna di una comunità capace di pensare, ragionare e poetare «come se fosse un solo individuo». Dietro tale nozione si lascia agevolmente scorgere la sottolineatura romantica del Volk come comunità di spirito e di destino, eppure Schelling non se ne serve, a differenza dei romantici, per circoscrivere il perimetro del sancta sanctorum della sapienza delle origini, destinato ad esser venerato151, bensì per riflettere sulla distinzione fra poesia antica e poesia moderna, la cui opposizione relativamente alla mitologia è il secondo punto focale della Filosofia dell’Arte. 3. MITO ANTICO E MITO MODERNO La teorizzazione della storia nella Filosofia dell’Arte risulta, per Jacobs, polarizzabile intorno alla nozione di costruzione, con la quale il filosofo intende nient’altro che il suo proprio meF.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., pp. 110-112. Difatti, mentre per A. Schlegel «la mitologia è un prodotto della fantasia consapevole, una riserva poetica cui attingere in epoche ormai demitizzate, in Schelling è l’universo stesso» (T. Griffero, Senso e immagine, cit., p. 275). 150 151

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todo filosofico. La storia, nell’ambito di una filosofia dell’arte, concerne la materia di quest’ultima, ossia la mitologia. Agli occhi di Schelling non esistono che due generi di mitologia: quella antica – mirabilmente compiuta nel pantheon olimpico – e quella cristiana moderna. Il punto filosofico del discorso diviene così quello della delineazione del concetto dell’una e dell’altra mitologia. Sappiamo già cosa voglia dire, per Schelling, costruire una mitologia: portare in piena luce le fondamentali determinazioni ideal-reali – le idee nella forma simbolica degli dèi – dell’intero sistema mitologico in questione. Se, però, l’emersione della distinzione fra mito antico e mito moderno diviene, con la sua tensione continua, «la sola legge razionale della costruzione storica»152, l’applicazione di tale discorso alla mitologia moderna pone Schelling di fronte al problema di dover “costruire” quello che è il materiale del mito moderno, vale a dire il cristianesimo: «quando Schelling parla di una costruzione del cristianesimo, ci si deve attendere la genesi di una idea, più precisamente una deduzione trascendentale del cristianesimo stesso» 153. Tale questione si rivela di soluzione piuttosto ostica e resterà al centro dell’interesse di Schelling fino alla Filosofia della Rivelazione154. In un primo momento egli difende l’impiego 152 T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., p. 115. Proprio per il motivo appena menzionato, ci si trova di fronte al seguente dilemma: «da un lato l’opposizione tra arte antica e arte moderna è dichiarata inessenziale, perché solo formale e relativa unicamente al lato storico dell’arte, tanto che la costruzione scientifica se ne occupa ma, come rispetto ad ogni altro dualismo, solo in vista della sua eliminazione. E tuttavia questa opposizione, più di ogni altra, appare difficilmente eludibile. Se vi prescindessimo, tutto ciò che Schelling dice circa lo stato di decadenza in cui versa il Moderno e l’esigenza di una nuova mitologia rischierebbe di apparire una concessione, se non mistificante quanto meno superflua, alle mode filosofiche dell’epoca» (T. Griffero, L’estetica di Schelling, cit., p. 136). 153 W. Jacobs, Gottesbegriff, cit., p. 245, tr. nostra. 154 Circa tale linea di indagine cf. M. Borghesi, L’età dello spirito in Hegel. Dal Vangelo storico al Vangelo eterno, Studium, Roma 1995, pp. 99-120 e pp. 211-228.

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del metodo costruttivo in riferimento privilegiato alla mitologia greca:

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non solo un primo sguardo, ma anche una disamina più dettagliata della mitologia greca, convince chiunque sia in grado di comprenderlo che codesta mitologia ripresenta nella sfera dell’arte la natura stessa; ma è appunto la costruzione, che indica anticipatamente e con necessità questo che è il posto occupato dalla mitologia nell’universale connessione delle cose155.

La trattazione in via preliminare della mitologia greca si impone non soltanto in virtù della precedenza cronologica di quest’ultima rispetto alla mitologia moderna, ma anche alla luce del fatto che detta mitologia si rivela essere un osservatorio privilegiato della relazione fra arte e natura156. Ogni produzione spirituale ellenica, e la mitologia più di tutte, si mostra infatti sotto il segno di finitezza (Endlichkeit) e limitazione (Begrenzung): questa perfetta compiutezza del pensiero greco è ciò che lo rende in massimo grado affine alla natura e costituisce anche il miglior contraltare alla mitologia moderna, la quale viene da Schelling associata alla apertura alla infinitezza e pertanto alla tendenziale illimitatezza. Ora, stante tale distinzione di base, il filosofo ritiene che determinate manifestazioni della cultura greca – segnatamente la poesia lirica e la tragedia – rivelino dei tratti mistici sostanzialmente irriducibili all’opera di Omero, nella quale si compendiano interamente senso e contenuto del mito antico, tali da dare vita, già all’interno della grecità, ad una opposizione che,

F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 116. «La mitologia è una simbolica della natura e dell’universo. In effetti quello che vale per l’arte vale anche per essa. Questa presenta una trasfigurazione della natura, l’universo in una veste più degna. Come rappresentare la relazione fra mitologia e natura? La mitologia greca è una sorta di produzione naturale, essa ricollega la natura all’arte, integra la natura nella sfera dell’arte» (X. Tilliette, Schelling, cit., pp. 446-447, tr. nostra). 155

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colta al suo culmine, altro non è che l’opposizione fra paganesimo e cristianesimo157, il che vuol dire che dette manifestazioni portano alla luce «la presenza nel paganesimo stesso di elementi cristiani, così come, d’altro canto, nel cristianesimo è possibile additare la presenza di equivalenti elementi pagani» 158. In questo modo Schelling guadagna un punto di vista che gli consente di far uscire paganesimo e cristianesimo dal contesto storico-geografico dei popoli politeisti e della civiltà occidentale, trasformando e l’uno e l’altro in categorie perenni dello spirito, la cui presenza attraversa, ovviamente in forma e quantità differente, tutte le produzioni spirituali dell’umanità, al punto che si possono constatare elementi pagani in opere cristiane e viceversa. Tutto questo si riflette direttamente sul senso che Schelling dà alla storicità del cristianesimo, la quale da un lato viene mantenuta perché, di fatto, egli associa a questo l’idea di un grande cambiamento effettivamente prodottosi nel momento in cui il mondo antico venne meno, ma dall’altro viene anche superata perché inserita in un disegno più ampio all’interno del quale «il cristianesimo non fu, nel suo primo sorgere, che una manifestazione particolare di quello spirito universale destinato ad impadronirsi di lì a poco del mondo intero»159. Peraltro, proprio il rapporto fra storia e cristianesimo si rivela della massima importanza, giacché la materia della mitologia greca era la natura, l’intuizione generale dell’universo come natura; la materia di quella cristiana è invece l’intuizione generale dell’universo come storia, come

157 Scrive Jacobs: «la cesura definitiva consiste nel fatto che solo nel cristianesimo viene pienamente concepita l’idea di libertà e solo così nasce la storia in senso proprio. Questa cesura divide la storia in antica e moderna, e di conseguenza la storia moderna comincia con la comparsa del cristianesimo, cioè nell’età tardo-antica» (W. Jacobs, Leggere Schelling, cit., p. 98). A parere di Jacobs, l’aver fatto dipendere la natura storica dell’arte moderna dalla comparsa del cristianesimo rappresenta un portato originale di Schelling rispetto a F. Schlegel. 158 F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 118. 159 Ibid., p. 120.

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un mondo della provvidenza. Questo è il vero e proprio spartiacque fra religione e poesia antica e quella moderna160.

Il mito antico coglie l’Assoluto in guisa di perfezione della compiutezza, cioè nella natura; quello moderno – cristiano – nell’infinito del mondo morale, vale a dire nella storia. A partire da questa intuizione di fondo Schelling dà seguito alla deduzione dei principali punti della dottrina cristiana; dalle Persone della Ss.ma Trinità ai sacramenti, dal culto dei Santi a quello della Vergine: il denominatore comune è dato dall’intenzione di esibire le forme nelle quali il mito moderno veicola i medesimi significati presentati negli dèi delle religioni politeiste. Se il cristianesimo viene innalzato quale spazio di rivelazione di una civiltà basata sull’amore per la libertà, esso viene allo stesso tempo abbassato in quanto destinato – nella sostanza – a ripetere contenuti spirituali già venuti alla luce nell’Ellade, al culmine della civiltà pagana. L’oblio della dimensione fattuale, esistenziale dell’Incarnazione e Risurrezione di N.S. Gesù Cristo, accantonata in favore del disegno della storia universale scandita dalle potenze ideal-reali nelle quali si mostra l’articolazione inarticolata dell’Assoluto come indifferenza, non manca di far sentire qui le sue ripercussioni161. Ciò, d’altro canto, è richiesto dall’esigenza di superamento di ogni opposizione che è costantemente sotteso alla speculazione schellinghiana. Ibid., p. 122. Oltre che universale, la storia è anche intrinsecamente mitologica, e precisamente «a misura del suo essere poetica, tratta fuori dal proprio infondato fondamento […] perciò anche i moderni, nel loro disincanto ed anzi proprio in virtù di questo, sono destinati alla mitologia. Essi non possono non riconoscere che la storia non ha altra ratio che quella che la storia stessa si dà, così come non ha altro destino che quello di cui essa è (tragicamente) responsabile» (S. Givone, La questione romantica, cit., pp. 13-14). La storia mitologica di cui scrive Givone è con ogni evidenza la “storia eterna” delle potenze: si potrebbe allora forse dire che il riferimento all’orizzonte tragico non sia inevitabile allorché si tiene presente che, in fondo, la ratio che la storia dà a se stessa altro non è se non la ratio dell’Assoluto. 160

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Questo, tuttavia, non può tradursi nel far finire in secondo piano quelle che per Schelling restano le fondamentali differenze fra la civiltà antica e quella moderna. In primo luogo, osserva Schelling, in un popolo nella cui poesia domini la limitazione, il finito, mitologia e religione sono cosa dell’intera stirpe: l’individuo può costituirsi in specie ed essere veramente uno con essa. Dove invece domina l’infinito, l’universale, l’individuo non può mai diventare al tempo stesso stirpe: egli è la negazione della stirpe. Qui dunque la religione può diffondersi solo attraverso l’influsso esercitato da singoli uomini di sapienza superiore che, soltanto a titolo personale, sono posseduti dall’universale e dall’infinito, e che sono perciò dei profeti, dei visionari, degli uomini ispirati da Dio. La religione assume qui necessariamente il carattere di una religione rivelata, ed è perciò storica già nel suo fondamento. La religione greca invece, in quanto religione poetica fatta vivere dalla stirpe, non abbisognava di alcun fondamento storico, così come non ne abbisogna la natura che resta sempre aperta162.

Schelling recupera pertanto il ruolo e il peso della storia all’interno del mondo moderno, tentando di contemperare l’esigenza dell’inserimento di quest’ultimo nel contesto della storia eterna dello Spirito con quella della dimensione di rivelazione (Offenbarung) della religione cristiana, la quale a sua volta implica il riferimento ad un intervento divino che squarcia il piano orizzontale della immanenza storica e, con ciò stesso, imprimendo il proprio sigillo su quel momento – il momento dello squarcio – entra nella storia in un punto, storicamente determinato nel tempo e nello spazio163. Oltre che storica, la civiltà cristiana è anche civiltà dell’individuo: proprio l’ingresso Ibid., pp. 130-131. È questo il nodo, cruciale e quasi istitutivo del Cristianesimo, del cosiddetto “tema di Lessing”, inerente la possibilità della relazione fra una verità eterna e un fatto storico. Su questo punto è possibile fare riferimento a A. Rizzacasa, Il tema di Lessing, San Paolo, Milano 1996. 162

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dell’Assoluto nella storia implica l’uscita dal mondo greco, nel quale la sostanziale a-storicità del pensiero si sposa alla indistinguibilità del singolo rispetto all’orizzonte destinale di senso e significato rappresentato dalla comunità di appartenenza164. Giunti a questo punto, la domanda che dobbiamo porci è la seguente: quale lo spazio del mito nell’uno e nell’altro contesto? Una prima risposta è agevole. La religione antica è mitica nella sua essenza più profonda: essa contempla negli dèi le determinazioni dell’Assoluto. Più complicato è dare conto del mi-

164 L’uomo moderno può tollerare un’unica forma di comunità in senso forte, cioè la Chiesa, la quale per Schelling va intesa al pari di un’opera d’arte. Cf. F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 145. A giudizio di Cometa, peraltro, proprio l’esistenza della Chiesa scaverebbe un solco incolmabile fra antichità e modernità, in quanto «la prima non ha bisogno di alcuna mediazione clericale, cosicché l’esperienza del divino è allo stesso tempo individuale e generale» (M. Cometa, Iduna, cit., p. 207). Sull’importanza di questa dottrina schellinghiana circa la Chiesa insiste anche Griffero, che la pone direttamente in relazione con la precedenza, nel mondo moderno, della dimensione dell’agire rispetto a quella dell’essere, all’interno della quale trovano valore i sacramenti e il culto come unico ponte verso l’Aldilà. Cf. T. Griffero, Senso e immagine, cit., pp. 290-291. Schelling inserisce in questo punto della trattazione la menzione del Protestantesimo al quale, se da un lato viene riconosciuto il merito di avere interrotto tale «autorità della forma», dall’altro viene mosso l’appunto di essersi tradotto in una altrettanto asfissiante «autorità della lettera», peraltro incapace, rispetto all’altra, di autentica bellezza artistica. Su questo punto cf. F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 132. D’altro canto, la stessa rivoluzione protestante, cui per Schelling va il merito di avere inalberato il vessillo della libertà di pensiero, deve al Cattolicesimo quella separazione fra Stato e Chiesa sulla quale si fonda la libertà dell’uomo moderno e che era semplicemente impossibile nel mondo antico, laddove la vita del singolo trovava la sua fondazione nell’appartenenza allo Stato-organismo. Su questo punto è possibile fare riferimento a W. Jacobs, Gottesbegriff, cit., p. 253 ed anche a Id., Leggere Schelling, cit., pp. 97-98. Anche per Knatz, il quale si dedica diffusamente alla questione del rapporto fra Stato ed arte, l’idea di una “estetizzazione della politica” è centrale nel Systemprogramm, presente nelle Lezioni sul metodo dello studio accademico ma, di fatto, decisamente secondaria nella FdA: lo studioso spiega tale stato di cose con la progressiva emersione, nella riflessione schellinghiana, del tema dell’autonomia e della dignità del moderno. Cf. su questo punto L. Knatz, Kunst-Geschichte-Mythos, cit., pp. 244ss.

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to moderno165. Scartata, in forza della sua natura simbolica che ne decreta l’indisponibilità, l’eventualità di una sua creazione finalizzata al consapevole utilizzo che ne veniva di fatto preconizzato nel Systemprogramm, si tratta ora di verificarne la possibilità all’interno della religione cristiana, la cui connotazione storica sembrerebbe mal conciliarsi con la dimensione mitica166. Schelling osserva a questo riguardo che l’unica materia mitologica del cristianesimo può essere reperita nell’elemento miracoloso (das Wunderbare). Sotto questo rispetto le storie dei martiri e dei santi avrebbero preso il posto dell’epica eroica. Ma in realtà questa considerazione si spinge molto oltre, allorché il filosofo sottolinea come «il cristianesimo, che è possibile solo nella scissione assoluta, è già nella sua stessa origine fondato sul miracolo. Il miracolo è, visto dal punto di vista empirico, alcunché di assoluto che interviene nel finito senza per ciò stesso avere un rapporto col tempo» 167. Mentre il mito antico segue la scansione regolare e inesorabile della natura, quello moderno trae la sua linfa proprio dalla rottura di tale ordine: verso tale conclusione convergono tanto l’essenza della religione rivelata quanto la dimensione individuale del soggetto moderno il quale, per la sua realizzazione, necessita di trovarsi in quella «scissione assoluta» fra infinito e finito che è per Schelling condizione irrinunciabile di possibilità dello stesso cristianesimo168. 165 Solo Schelling, per Pareyson, fa della distinzione fra mito antico e mito moderno il perno della separazione fra poesia antica e poesia moderna, variamente già presente tanto in Schiller quanto in F. Schlegel. Cf. L. Pareyson, L’estetica di Schelling, cit., pp. 107-111. 166 Scrive al riguardo Pareyson: «nel mondo antico la religione è basata sulla mitologia, nel mondo moderno la mitologia è basata sulla religione. Il rapporto fra religione e poesia è che la prima è soggettiva e la seconda oggettiva. Ciò vuol dire che nella religione prevale l’idealità, nell’arte la realtà» (L. Pareyson, L’estetica di Schelling, cit., pp. 125-126). 167 F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 131. 168 Da questa scissione prende le mosse la lettura pareysoniana del cristianesimo schellinghiano, la quale si sviluppa secondo una sensibilità schiet-

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Parlare del mito moderno implica però parlare di poesia moderna, in quanto sappiamo come per Schelling la mitologia altro non sia che la comprensione in forma poetica dell’Assoluto. Ora, dire che la mitologia moderna trova il suo materiale nel miracolo, vale a dire nella diretta “intromissione” divina nella storia, equivale per il filosofo a sostenere che il mito moderno consiste, di fatto, nell’intuizione poetica del mondo in quanto regno di Dio. Ecco perché, posto di fronte alla necessità di fornire un esempio di Omero cristiano, Schelling non ha esitazioni nel fornire il nome di Dante, autore che per primo avrebbe dato alla luce una compiuta rappresentazione poetica dell’universo cristiano moderno nella forma dei tre piani sovrannaturali di Inferno, Purgatorio e Paradiso. 4. DAL CONTE UGOLINO A FAUST: IL PERCORSO DEL MITO MODERNO

Come già detto, non esiste prova migliore dell’altissima considerazione che Schelling tributava alla Divina Commedia del fatto che l’unica parte della Filosofia dell’Arte che egli volle tamente platonizzante: «l’occhio del cristiano è tutto per il mondo spirituale: l’infinito è la sua patria, ed egli vi aspira come a sua sede familiare. Ciò che è finito, particolare, sensibile, non ha l’importanza per lui che come figura dell’assoluto: di per sé esso non l’interessa; egli non lo studia nella sua essenza indipendente: la natura ridiventa per lui segreta e misteriosa» (L. Pareyson, L’estetica di Schelling, cit., p. 117). Queste parole, indubbiamente suggestive, hanno forse il demerito di forzare un poco su di un aspetto “gnostico” della civiltà cristiana moderna secondo Schelling, che corre evidentemente il rischio di obliare l’altrettanto deciso coinvolgimento di questa nella storia. In effetti, la lettera schellinghiana sembrerebbe autorizzare la lettura pareysoniana nel momento in cui definisce l’arte cristiana eminentemente allegorica, tuttavia tale giudizio di principio è destinato ad essere ripensato dal filosofo allorché viene chiaramente predicata la dimensione simbolica di Don Chisciotte, di Macbeth e, soprattutto, di Faust. In effetti, il delicato equilibrio sul quale si regge la FdA non è privo di asperità, dietro le quali si lascia scorgere la difficoltà di calare il cuore speculativo della filosofia dell’identità in un sistema delle arti.

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pubblicata fu proprio quella concernente le «considerazioni filosofiche su Dante»169. La premessa obbligata a questo discorso è la seguente: proprio perché l’epos moderno non può trarre la sua materia dall’elemento naturale ma da quello sovrannaturale – il miracoloso – mentre sotto il nome di Omero non si nomina altro che la vivente comunità ellenica, il nome dei grandi poeti cristiani moderni sarà a maggior diritto da onorare, in quanto in essi si celebra la originalità, tratto peculiare dell’individualismo moderno, e la creazione di una personalità così forte da trarre dalla storia la propria mitologia. Di conseguenza, laddove la mitologia antica è più perfetta nella sua simbolicità, ossia nel suo essere perfetta unione di infinito e finito, quella moderna vede invece inevitabilmente accentuato il proprio carattere allegorico. E ciò per un duplice ordine di motivi. In primo luogo perché l’allegoria, nella quale il finito viene reso veicolo e manifestazione dell’infinito, esprime la stessa natura profonda del mito moderno, il quale si nutre, in quanto cristiano, della tensione fra elemento ideale ed elemento reale posta in essere nel momento in cui il divino, con l’Incarnazione, ha fatto la sua irruzione nella storia: tale tensione pone capo allo sforzo poetico di ricondurre il finito all’infinito. In secondo luogo: il mito moderno è frutto ed espressione della personalità creatrice del poeta. Questa non può mancare di esprimersi nell’attività di donazione di significato nella quale la materia grezza tratta dal vissuto esperienziale dello stesso autore – la Toscana del Duecento per Dante, l’Inghilterra elisabettiana per Shakespeare, la Spagna del siglo de oro per Calderón – viene elevata a soggetto mitologico. Ora, tale attività è precisamente quella stante alla base dell’allegoria, in quanto in 169 Tale saggio si presenta, a parere di Assunto, come «conclusione esemplare di tutta quanta la riflessione estetica di Schelling» (R. Assunto, Estetica dell’identità, cit., p. 258). Allo stesso modo anche Lore Hühn osserva che «allorché Schelling si accinge a tratteggiare l’idea di una nuova mitologia egli la modella pensando a Dante» (L. Hühn, Die Idee der Neuen Mythologie, in F. Strack, Evolution des Geistes, cit., p. 395, tr. nostra).

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essa significante e significato sono – e debbono rimanere – pienamente distinguibili se si vuole che l’effetto poetico possa dirsi raggiunto. All’opposto, l’epos omerico fluisce, per così dire, in modo del tutto naturale dal corpus valoriale e religioso di un intero popolo al punto che, per Schelling, è nell’ordine delle cose che la questione omerica sia destinata a rimanere insoluta. Dante si presenta dunque, agli occhi di Schelling, non solo come il primo e più grande cantore della modernità, «sommo sacerdote che inaugura solennemente tutta l’arte moderna», ma anche, in qualche modo, come una delle prime grandi personalità della modernità nel suo insieme. Quanto alla Commedia, essa rappresenterebbe la rivelazione di un mondo a sé, perfettamente compiuto, perfetta come ogni manifestarsi originario di qualcosa di nuovo. Per dirla con le parole del filosofo: «l’esplicita identificazione dell’intera epoca del poeta, la compenetrazione degli eventi di essa con le idee della religione, della scienza e della poesia nella mente più alta che quel secolo abbia avuto» 170. Di qui l’unicità della Divina Commedia, opera nella quale l’intuizione poetica della civiltà cristiana moderna prende forma concreta mercé l’altrettanto unica azione creatrice di Dante, il cui genio padroneggia e domina una miniera di conoscenze teologiche, filosofiche, politiche, geografiche, storiche nelle quali si compendiano le coordinate spaziali e temporali all’interno delle quali l’opera vide la luce. L’assoluta centralità dell’autore Dante è dunque il tratto che rivela la predominanza dell’individuo umano all’interno della civiltà moderna in generale. Ancora una volta: laddove Omero è voce impersonale di una compatta comunità di destino, Dante è demiurgo solitario di un mondo che viene reso vivo e disponibile agli sguardi stupefatti della posterità – e dunque universale ed eterno – solo in quanto visto attraverso i

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F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 386.

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suoi occhi171. Ciò diviene possibile in quanto nell’opera dantesca allegoria e storia appaiono mescolate così che le figure in essa presenti se per un verso non risultano indipendenti dal loro significato dall’altro sono indubbiamente dotate di propria consistenza, dovuta in moltissimi casi al fatto di essere state tratte dalla cronaca del tempo quando non dalla storia universale. Sublimati dalla poesia di Dante, i personaggi della Commedia si trasformano pertanto nell’equivalente moderno delle figure mitologiche dell’antichità. Ciò che ad esse manca in quanto non più inserite all’interno di una simbolica religiosa – giacché la fede dell’uomo cristiano moderno nell’unico Dio rivelato non lascia più margini alla credenza in differenti personificazioni dello stesso, con l’unica eccezione, contemplata dai soli cattolici, del culto della Vergine e dei Santi – viene da loro ripreso in virtù del mondo ultraterreno nel quale parlano ed agiscono. Proprio perché il conte Ugolino, Catone l’Uticense o Cacciaguida vengono incontrati da Dante in un contesto nel quale la loro umanità appare fissata nella forma eterna nella quale il giudizio di Dio l’ha ormai cristallizzata, costoro incarnano in modo assai particolare – e del tutto inconcepibile per l’uomo antico – un tratto specifico della natura umana, mostrandosi come dei simboli viventi nei quali l’intento allegorizzante, che pure il Dante filosofo ha impresso in essi, risulta in qualche modo scivolare in secondo piano, come se la magia della poesia dantesca riuscisse ad infondere vita propria, sì che personaggio e valore – o disvalore – simboleggiato fossero realmente inseparabili172. 171 In ciò risiede, per Knatz, la ragione per la quale la Commedia non può in nessun caso rimpiazzare il vuoto apertosi nella modernità: «l’opera di Dante testimonia la possibilità storica di un epos che, non potendo aspirare all’universalità in mancanza di una mitologia universale, reca su di sé il carattere dell’invenzione individuale» (L. Knatz, Kunst-Geschichte-Mythos, cit., p. 260, tr. nostra). 172 È come se nella Divina Commedia simbolo e allegoria cessassero di essere due linee parallele: l’umanità dantesca si presta, certo, ad essere allegorizzata, eppure, come scrive Auerbach, «la trasposizione nell’aldilà fa sì che la Commedia, con tutta la sua tangibile e particolare autenticità, conten-

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Dal diritto di primogenitura che Dante esercita sull’intero complesso della poesia moderna Schelling non deriva, però, una sorta di assoluta unicità del Sommo Poeta, anzi: l’altissimo valore della creazione dantesca rifulge di luce ulteriore nel momento in cui questa apre una strada mai battuta prima, assurgendo al rango di modello ed esempio per coloro che abbiano l’ardire di seguirne le orme. Così, del pari, scopriamo che anche Shakespeare si è creato una propria sfera mitologica a partire dal materiale fornitogli non solo dalla storia nazionale, ma anche dai costumi della sua epoca e del suo popolo. Nonostante la grande varietà delle sue opere, quello di Shakespeare resta tuttavia un mondo unitario: in ogni parte si ammira sempre lo stesso identico poeta, e, una volta penetrati sino a quella che è la sua intuizione fondamentale, ci si ritrova sempre di nuovo, in ciascuna delle sue opere, sullo stesso terreno a lui famigliare (Falstaff, Lear, Macbeth). Cervantes ha tratto dalla materia del suo tempo la storia di Don Chisciotte, considerato ancora oggi, come del resto Sancho Panza, un personaggio mitologico. Ci troviamo qui in presenza di miti eterni. Per quanto se ne può giudicare dall’unico frammento che ne possediamo [Schelling si riferisce qui al cosiddetto Urfaust, pubblicato da Goethe nel 1790. Le aggiunte seguenti sarebbero arrivate nel 1808 e nel 1832], il Faust di Goethe altro non è se non la quintessenza della nostra epoca: qui materia e forma sono tratte da ciò che l’intera epoca recava in sé e persino da ciò di cui era, e ancora è, gravida. Appunto per ciò il Faust va definito come un poema autenticamente mitologico173.

Dante non è dunque solo, ma la lista dei membri di questo club esclusivo è comunque estremamente corta: Shakespeare, Cervantes, Goethe. In realtà Schelling dedica parole di vibrante ga qualcosa del sogno, un’atmosfera peculiare […] la realtà della vita non è scomparsa ma la luce in cui si trova è un’altra» (E. Auerbach, Studi su Dante, a cura di M. De Pieri Bonino, Feltrinelli, Milano 2005, p. 156). 173 F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 137.

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approvazione anche ad Ariosto e Calderón, ma è indubbio che la sua attenzione sia principalmente rivolta ai quattro nomi suddetti. La ragione di questa scelta è facilmente intuibile. È necessario rammentare come l’intero discorso schellinghiano sulla poesia moderna venga condotto sullo sfondo dell’equazione fra arte e mitologia, svolta a sua volta sulla base dell’assunto della mitologia come condizione e materia prima di ogni forma artistica: a tale, capitale definizione si riferisce anche la distinzione fra arte antica ed arte moderna la quale postula, proprio per detto motivo, l’avvenuta comprensione della specificità del mito antico rispetto al moderno. Ora, il fatto che il mito resti il fondamentale orizzonte di significato dell’arte si rispecchia nell’evidente peso di quello ai fini della classificazione dei generi poetici messa in campo da Schelling. Di conseguenza, rispetto a poesia lirica, drammatica ed epica, il filosofo accorda la propria preferenza al genere che, più degli altri, si mostra adatto a dare forma e volto a figure di spessore mitologico, vale a dire, ovviamente, il genere epico. Anche in questo caso, però, tale discorso si incrocia, non senza dare luogo a problemi, con quello della periodizzazione dell’arte in antica e moderna, soprattutto nel momento in cui la risoluta decisione di arruolare un autore drammatico come Shakespeare fra i maggiori mitografi moderni rischia di far sì che la fitta ragnatela di categorie estetiche, storiche e teoretiche sulla quale si regge la Filosofia dell’Arte debba infine mostrare la corda. Il ragionamento schellinghiano prende dunque le mosse da una considerazione di ordine storico-politico, finendo però col derivarne delle conseguenze di ordine letterario: lo spirito dell’età moderna, che nei suoi tratti generali abbiamo già avuto modo di esporre, portò con sé una limitazione degli argomenti trattati dalla lirica moderna. Negli stati moderni la lirica non poteva più fungere da immagine e da accompagnamento della vita pubblica e sociale, di una vita vissuta entro una totalità organica. Non le restarono quindi altri argomenti che non fossero o le momentaneità di singoli

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sentimenti puramente soggettivi, in cui la poesia lirica, anche nelle sue più belle effusioni di epoche successive, si è come persa e da cui solo indirettamente trapela la vita nella sua interezza, oppure la costanza di sentimenti riferiti ad un determinato oggetto, come nelle poesie del Petrarca, il cui insieme viene a comporre una sorta d’unità romantica o drammatica174.

Ad eccezione di Petrarca, la cui grandezza riempie il vuoto che separa Dante da Shakespeare e Cervantes, la condanna schellinghiana della poesia lirica è senza appello, e questo primariamente a motivo della sua incapacità di assolvere a quella funzione sociale cui, in età classica, poteva ancora attendere in ragione della compattezza dello stesso tessuto sociale – si rammenterà: una intera comunità che «pensa e giudica come un sol uomo». In altre parole, il problema fondamentale messo a fuoco da Schelling è quello al quale facevano riferimento sia l’autore del Systemprogramm che F. Schlegel nel suo Discorso del 1800: il problema dell’assenza di un mito moderno. Questo interrogativo situa l’intero impianto della Filosofia dell’Arte in un’ottica diversa, riattivando i canali di comunicazione con le due opere appena citate, il Systemprogramm ed il Discorso. In queste, tutta l’attenzione è rivolta all’ostensione di una possibile via d’uscita rispetto alla situazione problematica del moderno, nei confronti del quale l’autore percepisce se stesso ancora sulla soglia di una modernità in corso d’opera quando non, addirittura, da progettare in toto. Nella Filosofia dell’Arte, invece, Schelling è forte di una impalcatura concettuale rodata, dall’alto della quale egli si sente di guardare al moderno come ad un evento già compiuto, rispetto al quale il tono messianico del frammento e del Discorso viene accantonato in favore di una analisi che presuppone la serena consapevolezza di poter

174

Ibid., pp. 299-300.

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fare del moderno l’oggetto della propria analisi. E la lente attraverso la quale Schelling scruta la modernità è quella del mito moderno, che non gli appare come un progetto da realizzare ma come una realtà già viva e con un suo bagaglio di espressioni e simboli, grazie al quale il filosofo sviluppa e ravviva a modo suo la romantica presa di congedo dal complesso di inferiorità nei confronti dei classici: se gli antichi hanno avuto Omero, Esiodo, Alceo, Eschilo e Sofocle, i moderni hanno Dante, Cervantes, Milton, Calderón e Shakespeare; se i primi hanno costruito gettando poderose e salde fondamenta sulla dimensione comunitaria della povli~ i secondi hanno sondato le abissali e vergini profondità dell’animo del singolo uomo. Sappiamo già che il linguaggio del mito è, sempre, soprattutto un linguaggio epico, ma quale epos sarà possibile nell’età dell’uomo-individuo cristiano moderno, l’ineliminabile “essere-scisso” del quale sembrerebbe doverne pregiudicare a priori la possibilità? Schelling ritiene che l’essenza dell’epos consista nella «rappresentazione dell’azione nell’identità di libertà e necessità»175: questa la traduzione, nel duro linguaggio filosofico del Nostro, della categoria di “figura mitologica” come personaggio nel quale volontà (libertà) e destino (necessità) si identificano. Tale definizione prelude ad una torsione del genere dell’epos moderno – o «romantico» come Schelling significativamente asserisce – nel senso della conversione di quest’ultimo in romanzo. Sulla scorta delle teorie letterarie schlegeliane, Schelling trova nel genere romanzesco il medium più adatto a dare voce alla specificità del mito moderno: limitato nell’argomento, rispetto al genere epico, il romanzo riesce a surrogare l’universalità epica nella riconduzione di significati molteplici all’unica personalità del protagonista, la cui sublimazione in simbolo viene resa possibile dall’implicita alterità di quello rispetto al narratore. Allorché il protagonista, elevato a simbolo universale, si trasforma in caleidoscopio della condizione umana, il romanzo 175

Ibid., p. 301.

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diviene specchio di un’epoca: da simbolo che era, il personaggio ascende così al rango di figura mitologica nel momento in cui, grazie alla mediazione dello scrittore, si fa arte. Ma a differenza delle figure degli antichi, quelle dei moderni si stagliano sullo sfondo di una società irrimediabilmente uscita dall’identità: pertanto, il motivo centrale di ogni romanzo non potrà essere altro che lo scontro fra ideale e reale, altrimenti presentabile come lo sforzo di autoaffermazione del singolo. Il mito moderno, per come si presenta nella sua forma principale nel romanzo, è dunque in primo luogo destinato a mostrarsi nella forma del romanzo di formazione (Bildungsroman), specie sotto la quale Schelling ricomprende quelli che ritiene essere i soli, grandi romanzi della modernità, vale a dire il Don Chisciotte di Cervantes ed il Wilhelm Meister di Goethe. A onor del vero, la Commedia avrebbe titolo a costituire un primo tentativo anche in questo campo, in quanto una delle sue chiavi di lettura è proprio quella che narra il percorso spirituale di Dante-personaggio; mentre però in quest’ultimo caso tale percorso si conclude nell’estasi del Sommo Poeta, visione beatifica di Dio che annulla e supera sul piano della mistica ogni iato residuo fra Egoità ed Assoluto, fra reale ed ideale, la “redenzione” di Don Chisciotte e di Wilhelm Meister è affidata alla personalissima iniziazione a gioie e dolori del mondo cui i due protagonisti vanno incontro, esperendo sulla propria pelle – nel bene e nel male – la soluzione alla contrapposizione fra ideale e reale. Oltre al romanzo, che rappresenta per Schelling la parte più importante e più originale del mito moderno, resta da riferire brevemente circa i due generi letterari che trovano spazio in questo discorso, ossia quello epico e quello drammatico. Al primo, s’è detto, riesce ad elevarsi la sola creazione dantesca, la quale rappresenta così, al tempo stesso, il momento sorgivo e quello conclusivo dell’epica moderna: il seggio più alto del Parnaso, lasciato libero da Omero con la fine dell’età antica, è destinato, in età moderna, a rimanere occupato dal Sommo Poeta. Ed anche se Schelling non chiude del tutto la porta sull’e-

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ventualità che tale supremo alloro possa in futuro essere nuovamente reclamato, l’insistenza con la quale il filosofo ribadisce a più riprese la convinzione che la Commedia sia opera unica ed irripetibile ci autorizza a supporre che l’epos moderno abbia già vissuto il suo momento più alto. In questo contesto, Schelling assegna al dramma il riscatto della parola poetica moderna, altrimenti schiacciata fra l’afasia dell’epos post-dantesco e la progressiva ed inesorabile affermazione della prosa con il romanzo, ed è in questo modo che l’attenzione del filosofo viene a posarsi analiticamente sull’opera di Shakespeare e Calderón. Il dramma, nella sua essenza, fonde la forma della poesia lirica con il carattere universale proprio all’epica, traendo la sua linfa vitale dalla messa in scena del conflitto fra libertà del soggetto e necessità oggettiva. Sotto questo rispetto il genere drammatico rappresenta per un verso l’opposto di quello epico – il quale come detto si nutre dell’identità di libertà e destino – per l’altro l’omologo poetico del romanzo, nel quale tale opposizione viene rappresentata prosasticamente. Schelling ritiene evidente il fatto che l’arte drammatica moderna abbia avuto, nelle sue manifestazioni più alte, dignità mitologica, traendo il proprio oggetto dalla mitologia antica, dalla storia o da leggende religiose. Ai primi due ambiti ha attinto Shakespeare, al terzo Calderón. Se l’inglese evidenzia una sconcertante conoscenza dell’animo umano in ogni suo moto e si compiace nel porlo vividamente di fronte ai nostri occhi forzando il nostro sguardo sullo spettacolo della tragedia insita in ogni esistenza umana in quanto tale, lo spagnolo mette in scena una umanità sofferente ma pur sempre incamminata lungo la via della redenzione, da conseguirsi mercé l’intervento della grazia divina nella storia e la conversione dei cuori di fronte alla bontà di quella. Riprendendo le teorie estetiche degli Schlegel, Schelling rovescia la critica razionalista al “primitivismo” di Shakespeare facendone invece il prototipo del poeta romantico anglo-germanico, così come Calderón diviene invece l’araldo del moderno

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cattolico mediterraneo. Particolarmente interessante è la trattazione che il filosofo riserva al primo autore, la tragedia del quale viene definita «tragedia della libertà», in contrapposizione alla «tragedia del destino» di epoca antica: se Calderón evidenzia la propria ortodossia cattolica nel corso provvidenziale degli eventi narrati, sì che le sue opere non possano essere definite in senso stretto “tragedie” ma “commedie”, Shakespeare rivela la natura cristiana – dunque moderna – del suo teatro nella scelta di situare la colpa umana nella profonda caratterizzazione dei personaggi, rispetto ai quali una colpa imposta dal destino, come nel caso del teatro antico, non si rivela soddisfacente176. E proprio sulla linea di confine fra l’ispirazione di costoro si colloca, per Schelling, il frutto più maturo della letteratura cristiana, nel quale trova forma il mito moderno più noto: stiamo parlando ovviamente del Faust di Goethe. In esso si danno convegno tanto la rappresentazione del supremo slancio della soggettività lanciata verso l’impossibile conquista dell’Assoluto, quanto la felice riconciliazione della prima con il secondo, segno dell’avvenuta assimilazione delle verità più profonde di Sturm und Drang e Romanticismo, le quali si mostrano come trasfigurate nella creazione di Goethe, la cui anima neoclassica traluce nel fatto che

176 Ciò non toglie che fra i due filoni debba esistere una possibile linea di convergenza. Osserva Assunto al riguardo: «l’interesse filosofico di questa teoria schellinghiana della poesia drammatica risiede, ancora una volta, nel suo configurarsi come risposta alla domanda circa la genesi della coscienza finita e la sua posizione di fronte all’Assoluto. I patimenti e le traversie dell’eroe tragico sono il segno della sua finitezza e particolarità, che in quanto finitezza e particolarità viene a conflitto con l’infinito, l’universale, configurantesi come fato, destino; codesti patimenti, codeste traversie non sono però il risultato di una costrizione esterna: l’eroe tragico, che Schelling esemplifica in Edipo, li vive, e per così dire se li costruisce, attraverso un suo libero agire […] la necessità, dunque, è intrinseca alla libertà come tale, l’universale è in conflitto col particolare, ma senza negarlo, anzi affermandolo nella sua liberta particolarità» (R. Assunto, Estetica dell’identità, cit., p. 217).

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l’impostazione serena, sin da questo primo abbozzo, del Tutto, la verità presente anche in quell’aspirazione traviata, l’autenticità del desiderio rivolto alla vita suprema, fanno già prevedere che il conflitto troverà la sua soluzione presso un’istanza superiore e che Faust verrà infine sollevato in più alte sfere177.

Ecco che, allora, solo Goethe riesce forse ad avvicinarsi a Dante, dacché «sotto questo rispetto il poema, per quanto strano possa sembrare, ha un respiro davvero dantesco» 178, in quanto l’opera acquista la sua ragion d’essere più propria una volta che le vicende in essa narrate – la storia di un’anima – vengono valutate e ricostruite sub specie aeternitatis. E se il Faust è manchevole della complessa interazione fra storia terrena e storia ultraterrena messa in campo da Dante, esso contiene tuttavia una riflessione sul concetto di destino così abissalmente profonda da essere, per Schelling, realmente unica179. Che quello di Faust sia o meno, come vorrebbe una veneranda tradizione di pensiero che passando per Schelling e Goethe arriva fino a Spengler e T. Mann, il mito fondativo della modernità è argomento che non può essere trattato in questa sede. È però chiaro che Schelling, non senza una certa dose di orgoglio nazionale, fa della vicenda faustiana, nata intorno alla storia di un celebre studioso, astrologo e alchimista tedesco vissuto fra Heidelberg e Praga nella prima metà del Cinquecento, l’emblema dell’identità tedesca e, insieme, di quella moderna toutcourt, preferendola a quella di Don Chisciotte o di Macbeth, giudicandola la più adatta ad esprimere il mito moderno come racconto del guanto di sfida lanciato dalla civiltà cristiana nei confronti dell’infinito. F.W.J. Schelling, Filosofia dell’Arte, cit., p. 370. Ibid., p. 370. 179 Scrive Pöggeler: «gli dèi greci vengono costruiti da Schelling a partire dall’universo delle idee, la poesia e la mitologia dei moderni, invece, trovano nel Faust di Goethe la loro stella polare» (O. Pöggeler, Hegel und die Jenenser Romantik, in F. Strack [hrsg.], Evolution des Geistes, cit., p. 551, tr. nostra). 177

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Comunque lo si guardi, il senso del percorso che Schelling descrive a partire dai personaggi che popolano l’Oltretomba dantesco, passando per Don Chisciotte e Macbeth fino ad arrivare a Faust, rivela il cambiamento che investe la nozione stessa di mito moderno nella Filosofia dell’Arte. Se, infatti, si prende quest’ultima opera come punto di arrivo di una riflessione che, come abbiamo visto, occupa i primi dieci anni della produzione scientifica del Nostro, risulta agevole osservare come il mito moderno si sia evoluto da ipoteca sull’instaurazione di una nuova età dello spirito da conseguirsi mediante una mitologia della ragione (Systemprogramm), in cifra simbolica – e pertanto indisponibile rispetto ad ogni progetto finalisticamente orientato al conseguimento di un obiettivo estrinseco – dell’intera civiltà moderna. A questo ri-orientamento della questione mitica ha senza dubbio contribuito in misura determinante la progressiva considerazione schellinghiana del fenomeno artistico – dapprima limitato alle arti figurative, poi gradualmente esteso alla poesia ed alla letteratura – dietro la quale si lasciano cogliere influssi non direttamente riconducibili al novero degli interessi nativi del filosofo. Ciò detto, l’analisi schellinghiana brilla senz’altro per originalità nel momento in cui gli stimoli ricevuti vengono raccolti ed organizzati all’interno di un discorso di respiro particolarmente ampio, che supera e riassume in sé sia il tono programmatico del Discorso di F. Schlegel – giacché per Schelling non si tratta più di farsi banditore dell’avvento del mito moderno ma di saperne decifrare i segni – che la chiusa volutamente irrisolta ed aperta posta in calce al Sistema. Questo non vuol dire che la trattazione del mito moderno nella Filosofia dell’Arte sia del tutto esente da un certo residuo millenaristico, come rilevato da Griffero180, ma che tale impo180 Nel definire questo aspetto della FdA, Griffero per un verso si serve di Dioniso come cifra rivelativa di quello che sarà, negli anni berlinesi, lo sguardo di Schelling sulla “mitologia a venire”, per l’altro sottolinea la dimensione utopica del discorso schellinghiano: «e proprio di utopia si deve parlare, vista l’insistenza con cui si ripete che il cristianesimo mitologico dev’essere

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stazione risulti, nel complesso dell’opera, decisamente minoritaria rispetto alla trattazione di qualcosa che – con la parziale eccezione del Faust incompiuto cui Schelling sembra significativamente assegnare il compito di chiudere il discorso sul mito moderno – di fatto il filosofo trova come già dato. Se il tratto messianico perde di mordente, la stessa sorte tocca anche alla critica serrata alla modernità: il lamento sulla latitanza di un mito moderno viene di fatto ribadito, come abbiamo visto; ma questo accade, ci pare, senza eccessiva convinzione da parte dello stesso Schelling, che, più che a criticare, sembra oramai molto più interessato a comprendere e collocare una produzione mitologica moderna evidentemente ritenuta ormai ingente e degna di fare da contraltare a quella classica. Ecco perché, simultaneamente alla critica alla contemporaneità, anche l’anelito alla riproposizione del classico si attenua fino quasi a venir meno, così che la nostalgia del mito antico appare vinta dalla beatificazione del mito moderno, vegliato da Dante e Goethe nelle vesti di suoi numi tutelari181. rimandato a un futuro imprecisato» (T. Griffero, Senso e immagine, cit., p. 299). Pur nella condivisione di massima di queste righe, ci pare opportuno osservare come, a nostro parere, la “mitologicità” del cristianesimo consista già nella materia, talmente intrinsecamente mitologica, in quanto artistica, da essere sbocciata nell’opera di Dante. Rispetto alla caratura mitologizzante di tale materia ogni discorso spostato su di una mitologizzazione ancora di là a venire risulta arduo. Così, ad esempio, Tilliette osserva che «effettivamente il cristianesimo possiede una vocazione ecumenica: si impadronisce di tutto l’universo storico e, attraverso tale universalità, si struttura in materia mitologica» (X. Tilliette, Schelling, cit., p. 448, tr. nostra). 181 Per questo motivo non ci sentiamo di condividere l’analisi di Jamme, il quale ritiene che, rispettivamente, critica del moderno e istanza di “ripresa” del modello antico siano le cifre di fondo alla base dell’interessamento per la mitologia non del solo Schelling, ma dell’intero Romanticismo. Cf. C. Jamme, Aufklärung via Mythologie, in C. Jamme - G. Kurz (hrsg.), Idealismus und Aufklärung, cit., pp. 52-55. Del pari, ci pare eccessivamente sbilanciata verso questo tipo di soluzione anche l’analisi di Knatz, per il quale «in età moderna il cristianesimo è un elemento mitico, ma la modernità non possiede in sé alcuna mitologia: lo sforzo verso il conseguimento di una nuova mitologia è ciò che assegna alla modernità il suo carattere storico» (L. Knatz,

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Ciò che la venuta meno dell’orizzonte totalizzante rappresentato dalla comunità ha reso impossibile, sorge ogni volta di nuovo come frutto della creazione del poeta-mitografo: ecco allora che «ogni singolo grande poeta è chiamato a costruire la propria mitologia sulla base della materia offertagli dal suo tempo. Questo hanno fatto Dante, Shakespeare, Cervantes e Goethe nel suo Faust» 182. La chiave di volta dell’intero sistema non può pertanto essere data dal tentativo inevitabilmente inefficace di rimodellare il mito moderno sull’antico, né sull’altrettanto irricevibile proposito di costruzione del mito moderno: la filosofia dell’identità esige, per trovare compimento, l’affermazione dell’indistinzione originaria. Ecco allora che l’unica via d’uscita dall’impasse non potrà che consistere nella teorizzazione di una oltre-modernità nella quale le figure mitologiche reali e naturali antiche diverranno uno con le figure mitologiche ideali e storiche dei moderni183. Il senso del cambio di passo schellinghiano rispetto all’estensore del Systemprogramm e agli Schlegel diviene ora lampante: non solo il mito moderno è già fra noi – per cui la sua progettazione, peraltro resa impossibile dalla scoperta della sua natura simbolica, non può più essere all’ordine del giorno – ma esso è già in fase di maturità piena.

Kunst-Geschichte-Mythos, cit., p. 267, tr. nostra). Eppure il carattere storico è proprio alla modernità sin dall’inizio, in quanto si inscrive nel suo statuto di luogo di testimonianza della religione rivelata, così come una volta ammessa la valenza mitologica del Cristianesimo risulta complicato affermare l’assenza di una mitologia moderna. Inoltre la sottolineatura dell’assenza di una mitologia moderna se per un verso è cogente dato l’intrinseco statuto individuale dell’uomo moderno, per l’altro confligge frontalmente con l’attenzione che Schelling tributa alle figure dantesche, shakespeariane e goethiane, così come al genere romanzesco come nuovo veicolo di affermazione del mito moderno. 182 R. Haym, Die romantische Schule, cit., p. 839, tr. nostra. 183 Su questa falsariga si colloca anche Pareyson: «la nuova poesia sorgerà da una nuova mitologia, la quale dovrà essere la sintesi della mitologia greca e della mitologia cristiana» (L. Pareyson, L’estetica di Schelling, cit., p. 135).

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Si può dire che Schelling ritenga di averne già intravisto la conclusione nella prima parte del Faust: il materiale è già lì, la scintilla dell’ispirazione è già all’opera, il filosofo si trova perfino nella condizione di mostrare di sapere nel segno di quale mitografo – Goethe – verrà toccato il punto più alto. Solo una forma di pudore nei confronti dell’amico gli impedisce di dire a chiare lettere quello che è chiaramente evincibile dalle pagine della Filosofia dell’Arte: l’ignoto “novello Omero” destinato a compendiare nella sua opera tutto l’itinerario del mito moderno è, in realtà, già fra noi. Se, dunque, nella Filosofia dell’Arte è dato rinvenire degli accenti messianici, questi non sono rivolti al mito moderno, ma a qualcosa che è già dietro l’uscio, pronto a chiudere e rinnovare una modernità non da annunziare, ma prossima al compimento. Verso tale conclusione spinge la logica interna al sistema schellinghiano dell’identità, rispetto al quale la differenza fra mito antico e mito moderno non può, in ogni caso, non essere ultimamente superata. Anche la fiducia che Schelling ripone nella capacità di innovazione contenuta nella sua stessa filosofia della natura, come riteneva già F. Schlegel, va nella stessa direzione. Infine, si aggiunge a questo ragionamento la questione di “segni dei tempi” particolarmente propizi che il filosofo vede moltiplicarsi intorno a sé. Fra questi, ci sia concesso di tornare sul punto a mo’ di conclusione, si segnala per importanza l’emersione, decisiva ai fini della comprensione che l’uomo moderno può avere di se medesimo, del mito di Faust. Si è già accennato al fatto che, probabilmente, i fattori che concorrono nel sottolineare l’importanza di quello agli occhi di Schelling siano due: in primo luogo, l’oggettivo interesse della figura in sé, adatta come nessun altra a rappresentare l’essenza dell’uomo moderno –“uomo faustiano”, come più di un secolo dopo avrà a dire con fortunata espressione Oswald Spengler nel Tramonto dell’Occidente – in secondo luogo, il fatto che su tale materia stesse lavorando quello che non solo Schelling, ma l’intera Germania considera-

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va il massimo genio poetico e letterario vivente. Il filosofo elogia a più riprese lo stile di Goethe, che sta a significare la capacità dell’artista di procedere al di là della semplice imitazione della realtà – vale a dire quella Nachahmungstheorie che era cardine di ogni estetica preromantica – nel mostrare l’unità di realtà ed idea. Tale carattere, che costituisce il contrassegno di tutti i grandi poeti citati da Schelling, si carica di una importanza particolare nel caso del Faust, giacché in esso viene data dignità mitica all’ultimo uomo moderno, all’abitante della modernità in procinto di trapassare nell’età successiva; questo, per Schelling, il destino del popolo tedesco: arrivare per ultimo alla piena maturità spirituale – dopo che i migliori semi di Italia, Francia, Spagna ed Inghilterra hanno già fruttificato – con l’onore, però, di chiudere il discorso del moderno. Il compimento del mito moderno corona il compimento dell’uomo, dell’arte e della filosofia moderna. Riguardo a quest’ultima, Schelling sembra forse alludere, all’epoca della Filosofia dell’Arte, al fatto che l’ultimo e decisivo arco speculativo della modernità, iniziatosi con la rivoluzione portata da Kant, conosca il suo punto di risoluzione proprio nel sereno acquetarsi della filosofia dell’identità, di cui la stessa Filosofia dell’Arte sarebbe un documento. Ecco perché era fatale che nel 1802-1803 Schelling avvertisse una profonda vicinanza spirituale con Goethe: al fondo di questa rispondenza sta l’effettivo incontro della poesia di Goethe e della filosofia di Schelling, nel momento in cui quest’ultima sembra per un istante essersi placata nella concorde identità del finito e dell’infinito, dell’Assoluto e del particolare. In questa fase della sua ricerca speculativa, Schelling non poteva non riconoscersi in Goethe184.

Una dolcezza infinita, un cadere in deliquio di fronte ad un punto di equilibrio e di pace lungamente agognato e finalmente 184

R. Assunto, Estetica dell’identità, cit., p. 302.

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conseguito, l’attimo immoto nel quale l’intera peregrinazione descritta dalla filosofia della natura viene ripercorsa e risolta: ecco ciò che spira dalle pagine della Filosofia dell’Arte ed ecco ciò che, del pari, Schelling trovava fra le pagine del Wilhelm Meister e, soprattutto, nello «stile altissimo» del Faust. Di qui, forse, la possibilità di aggiungere una tessera al già complesso mosaico dei difficili rapporti di Schelling con il romanticismo: nella professione d’amore per l’armonia conseguita e per l’arte di Goethe viene alla luce la ragione profonda del ripudio dell’ironia, dell’esaltazione del sentimento e dell’indescrivibile; misticismo e tensione verso l’informe non hanno nulla in comune con il mito moderno. Un mito, lo si ricordi, che solo apparentemente affonda le sue radici nelle sulfuree figure di dannati della Divina Commedia – come volevano gli Schlegel trovando in esse delle anticipazioni del titanismo moderno – giacché ciò che Schelling ammirava sopra ogni cosa in Dante era l’amore per l’ordine e le simmetrie, l’irraggiungibile maestria nel dare forma poetica – e dunque mitica – ad un intero universo, coerente e fermo nel rispetto di leggi ferree. Anche nella riscoperta di Dante, di Shakespeare e di Calderón, pertanto, Schelling si mostra eccentrico rispetto agli Schlegel: l’attribuzione dell’alloro più alto al Sommo Poeta trova la sua corretta comprensione alla luce dell’altro alloro che il filosofo riconosce a Goethe, nelle righe del quale egli trova il suo pensiero riflesso «come in uno specchio».

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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE LA FILOSOFIA DELL’ARTE E OLTRE

Quello che abbiamo conosciuto come “mito moderno” è oramai destinato a dileguarsi prossimamente: Schelling allude con chiarezza a tale prospettiva nel momento in cui egli «concepisce la nuova unità a venire, la cui espressione sarà la nuova mitologia, come il risultato di un generale dissolvimento delle tradizioni, fra le quali, per ultima, anche quella cristiana, privata della sua posizione di privilegio, finirà per soccombere e venire meno» 185. Se perfino il Cristianesimo, che della mitologia moderna è anima e ispirazione, rinvia ad un suo tramonto, la sorte del mito moderno appare ormai segnata. Nella lettura che abbiamo inteso proporre quella che Freier definisce neue Mythologie – e che noi abbiamo chiamato mitologia dell’“oltre-moderno” – appare a Schelling già parzialmente realizzata nel Faust, opera-cesura nella quale si compie il destino della coscienza moderna così che quest’ultima scopre se stessa come già, in qualche modo, “oltre-moderna”. La Filosofia dell’Arte segna la fine di una fase importante della riflessione schellinghiana sul mito: sotto la nozione di mito moderno ci è stato possibile porre variamente in relazione articoli e volumi nei quali, a partire da Sui miti, passando per il Systemprogramm fino al Sistema, Schelling riflette a fondo sulle possibilità dischiuse dallo studio della legittimazione mitologica del moderno. Questa via di approfondimento viene chiusa da due scoperte: la natura simbolica del mito e l’imminente esaurimento del mito moderno stesso. Sulla base di questi risultati, che coronano il progetto della Filosofia dell’Arte, Schelling è spinto a 185

H. Freier, Die Rückkehr der Götter, cit., p. 182, tr. nostra.

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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

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battere nuove vie, destinate a condurlo sui sentieri della religione e della ricerca del fondamento (Grund) secondo una nuova fase di produzione filosofica che trova i suoi punti più alti in Filosofia e Religione (1804) e nelle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809). Mosso dalle critiche ricevute dall’amico Eschenmayer, il filosofo si concentra ora sul problema del residuo negativo di una filosofia dell’identità che sembra conoscere le sue maggiori difficoltà nel trovare risposta al problema del male e del finito186. Tutto questo prelude a un ritorno in grande stile della questione del mito negli anni successivi, allorché essa tornerà al centro dell’interesse schellinghiano in riferimento prioritario al problema religioso. La Filosofia dell’Arte non chiude soltanto una fase della riflessione schellinghiana, ma anche una fase nella vita del filosofo: gli anni della sua duplice stesura (1803-1804) sono in certo senso i più felici nella vita di Schelling, quelli nei quali la sua stella filosofica brillava con maggiore lucentezza. Ecco come Fuhrmans descrive quel periodo: conosciuto da tutti, riconosciuto nell’intera Germania come genio precoce e mente pensante della “nuova” filosofia tedesca, finalmente unito alla donna amata, stimato dal più alto funzionario dello Stato, il Barone Thürheim, professore ordinario, membro del Senato e di una Università rinnovata e prediletta dal governo: sembrava che gli anni a Würzburg dovessero essere grandi anni per Schelling. E questo furono davvero: il punto più alto nella vita del giovane Schelling187.

L’esito della Filosofia dell’Arte va inserito nel particolare momento che Schelling stava vivendo: una fase della sua vita dominata da un ottimismo confortato dalla consapevolezza di avere ottenuto tutto ciò per cui aveva fino a quel momento lot186 Ci permettiamo, su questo punto, di rinviare al nostro F. Forlin, Limite e fondamento. Il problema del male in Schelling (1801-1809), Guerini e Associati, Milano 2005. 187 H. Fuhrmans, Schelling, cit., p. 287, tr. nostra.

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IL MITO MODERNO

tato, sia sul piano professionale che su quello sentimentale. L’identificazione con Goethe, nume tutelare della cultura tedesca dal quale spirava la dolce brezza dello spirito olimpico dell’equilibrio, si spiega anche in questo modo. Purtroppo per Schelling, questo momento di grazia sarebbe stato di breve durata. La critica di Eschenmayer circa l’impossibile deduzione di alcunché dall’Assoluto come identità indifferente segnerà il pensiero di Schelling molto più a fondo del previsto, producendo una serie di increspature che, alla lunga, diverranno onde in grado di intaccare la serenità del sistema dell’identità uscito dalla Filosofia dell’Arte. In Filosofia e Religione (1804) egli cercherà di rispondere a Eschenmayer finendo con il recuperare la problematica nozione neo-platonica e misterica di caduta originaria (Urfall) sancendo l’apertura del suo pensiero alla religione. Nel 1807 sarebbe stata la volta della pesantissima critica hegeliana contenuta nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito: non solo il filosofo, ma l’uomo Schelling ne sarebbe uscito talmente scosso da riuscire a dare alle stampe una sola opera, le Ricerche del 1809188, prima di chiudersi in un silenzio che si sarebbe protratto fino alla morte, che l’avrebbe raggiunto soltanto nel 1854. L’asprezza della critica e l’improvviso, travolgente successo di Hegel sortirono l’effetto di rompere l’amicizia fra i due e di condannare Schelling ad un ruolo secondario sulla scena filosofica nazionale. Infine, il colpo più duro con la morte prematura dell’amata Caroline. Questo tragico evento – verificatosi nel settembre del 1809 – avrebbe fatto sì che Schelling accentuasse e approfon-

188 Proprio le Ricerche costituiscono la principale testimonianza dell’evoluzione del pensiero schellinghiano oltre che uno dei principali testi dell’Idealismo filosofico tedesco. Per una introduzione allo scritto in questione cf. F. Forlin - M. Dalla Valle (a cura di), L’essenza della libertà. Guida alla lettura delle Ricerche Filosofiche di Schelling, Mimesis, Milano 2010.

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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

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disse gli aspetti crepuscolari del suo pensiero189, lasciandosi per sempre alle spalle la caratterizzazione luminosa della filosofia dell’identità e finendo anzi così con il fornire ulteriore forza all’immagine hegeliana che, come un marchio di infamia, avrebbe perseguitato per decenni la caratterizzazione schellinghiana dell’Assoluto, screditandola come “notte in cui tutte le vacche sono nere”. Insomma, tutto concorda nel fare della Filosofia dell’Arte un momento di svolta della vicenda esistenziale e speculativa schellinghiana; un momento di irripetibile armonia ed equilibrio nel quale la parola conclusiva del filosofo sul progetto del mito moderno sembra non essere più quella assertiva e stentorea del Systemprogramm, ma quella dell’abbandono carico di fiducia con il quale Faust affronta la morte, guadagnandosi infine la redenzione grazie all’amore per l’infinito sotteso ad ogni suo peccato.

189 Tali elementi erano sempre più forti a partire dal trasferimento a Monaco nel 1806. Si trattava di influenze complesse, legate sia alla particolare Stimmung cattolico-mistica monacense sia alla conoscenza di autori come von Baader e Ritter. Per quello che concerne questa linea di studio è possibile fare riferimento a D. Sisto, Lo specchio e il talismano. Schelling e la malinconia della natura, Alboversorio, Milano 2009.

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INDICE DEI NOMI

Alceo: 203 Allwohn A.: 38, 42, 156, 171, 177 Amoroso L.: 54, 73 Ariosto L.: 159, 201 Assunto R.: 112, 129, 130, 131, 146, 172, 174, 175, 180, 181, 197, 206, 212 Auerbach E.: 199, 200 Baader F., von: 217 Bauer G.L.: 17, 19 Behler E.: 114, 163 Bismarck O., von: 24 Blumenberg H.: 37 Boccaccio G.: 159 Boffi G.: 132 Böhm W.: 78, 79, 80, 81, 85 Borghesi M.: 189 Braun H.: 77, 87 Bruno G.: 156 Bubner R.: 74, 77, 78, 82, 84, 86 Calderón de la Barca P.: 116, 139, 158, 159, 197, 201, 203, 205, 206, 213

Cantoni G.: 37 Cassirer E.: 37 Catilina: 63 Cervantes M., de: 139, 159, 173, 200, 202, 203, 204, 210 Cesa C.: 23, 33, 50, 53, 55, 56, 61, 76 Cicerone: 63 Cometa M.: 55, 56, 57, 59, 60, 61, 75, 76, 94, 115, 117, 119, 120, 125, 127, 131, 147, 165, 166, 167, 194 Corneille P.: 116 Cusatelli G.: 118 D’Angelo P.: 30 Dalla Valle M.: 216 Dante Alighieri: 139, 157, 158, 161, 175, 196, 197, 198, 199, 200, 202, 203, 204, 207, 209, 210, 213 De Pieri Bonino M.: 200 Dekker G.: 39, 86, 156, 160 Destro M.: 162 Di Maio D.: 96 Dietzsch S.: 168

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INDICE DEI NOMI

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Dürer A.: 173 Düsing K.: 84, 92, 93 Edipo: 206 Eichhorn J.G.: 17, 18, 19, 20, 47, 48, 61 Eliade M.: 37 Eschenmayer A.K.A., von: 123, 153, 154, 215, 216 Eschilo: 118, 203 Esiodo: 26, 27, 28, 32, 203 Evola J.: 63 Ferretti A.:182 Fichte J.G.: 64, 65, 66, 69, 75, 95, 96, 97, 109, 110, 111, 114, 117, 121, 122, 123, 124, 127, 132, 133, 134, 135, 140, 146, 148, 151, 152, 153, 154, 163, 169 Fidia: 30 Fischer K.: 48 Forlin F.: 14, 215, 216 Fornaro S.: 23, 24, 31 Frank M.: 130 Freier H.: 171, 214 Frigo G.: 23 Fuhrmann M.: 11, 81 Fuhrmans H.: 68, 113, 134, 135, 154, 158, 215 Gabler J.P.: 17, 18 Gadamer H.G.: 83, 86 Gaier U.: 81

Gethmann-Siefert A.: 84, 95, 102 Givone S.: 130, 192 Gockel H.: 23 Goethe J.W.: 30, 46, 69, 110, 111, 115, 116, 117, 121, 122, 124, 134, 139, 146, 150, 151, 152, 158, 180, 200, 204, 206, 207, 209, 210, 211, 212, 213, 216 Gries J.D.: 113, 114 Griffero T.: 11, 13, 32, 38, 40, 57, 77, 87, 100, 103, 112, 140, 143, 147, 161, 167, 176, 179, 181, 183, 186, 188, 189, 194, 208 Grimm J.: 24 Grimm W.: 24 Grüning T.: 130 Guglielminetti E.: 156 Habermas J.: 24 Hansen F.P.: 74, 77, 84, 92, 95, 100, 104 Hartlich C.: 11 Haym R.: 48, 130, 164, 165, 184, 210 Hegel G.W.F.: 12, 14, 54, 65, 73, 74, 76, 77, 79, 81, 82, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 91, 92, 93, 95, 97, 98, 101, 105, 131, 151, 152, 153, 154, 167, 216 Heinrich D.: 74, 77

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INDICE DEI NOMI

Hennigfeld J.: 156, 167, 176, 180, 185 Herder J.G.: 15, 17, 19, 22, 23, 39, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 53, 54, 55, 56, 60, 76, 115, 122, 124 Heß J.J.: 37, 38 Heyne C.G.: 17, 18, 19, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 31, 32, 33, 34, 35, 39, 40, 41, 42, 46, 48, 49, 50, 51, 53, 60, 186 Hobsbawm E.: 63 Hölderlin F.: 12, 54, 73, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 89, 91, 95, 97, 98, 100, 101, 105, 125, 126, 154, 157, 170 Hübner K.: 37 Hühn L.: 170, 197 Humboldt A., von: 23 Humboldt W., von: 23 Hume D.: 32, 47 Jacobs W.: 11, 15, 16, 17, 18, 19, 23, 38, 45, 49, 50, 55, 58, 61, 161, 176, 188, 189, 191, 194 Jähnig D.: 169, 171, 172, 184, 185 Jamme C.: 54, 74, 75, 82, 83, 84, 85, 103, 131, 209 Jesi F.: 37

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Kant I.: 61, 64, 75, 80, 85, 89, 90, 91, 92, 93, 96, 97, 99, 105, 115, 121, 122, 125, 127, 141, 146, 148, 163, 167, 171, 212 Keplero J.: 141 Kerenyi K.: 37 Klein A.: 158 Knatz L.: 76, 87, 157, 167, 171, 186, 194, 199, 209 Korff H.A.: 155, 177 Kraus H.J.: 18 Kurz G.: 131, 209 Lessing G.E.: 22, 38, 45, 47, 49, 56 Lope de Vega: 116 Lowth R.: 15, 16 Lucrezio: 32 Macor L.A.: 81, 99 Mann T.: 207 Marchetto M.: 115, 154 Mathieu V.: 90 Meinhold G.: 80 Mennemeier F.: 130, 131 Michaelis J.D.: 15, 16, 17, 47, 48 Michelangelo Buonarroti: 157 Milton J.: 203 Moiso F.: 115, 122, 133, 141, 148 Moretti G.: 37, 80, 129, 136, 175, 182 Moritz K.P.: 30, 177

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INDICE DEI NOMI

Moscati A.: 66 Müller K.: 15

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Necco G.: 41 Negri A.: 97 Newton I.: 141 Novalis: 69, 76, 109, 113, 114, 115, 117, 150, 155 Omero: 26, 27, 28, 30, 32, 175, 190, 196, 197, 198, 204 Otto W.: 37, 182 Pandolfi C.: 23 Pannenberg W.: 11 Pareyson L.: 166, 183, 187, 195, 210 Petrarca F.: 157, 159, 202 Pieretti A.: 14 Plitt G.L.: 11, 12, 13, 14, 16, 17, 22, 64, 65, 66, 67, 68, 92, 96, 109, 111, 115, 134, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 165 Pöggeler O.: 81, 82, 83, 86, 88, 207 Poggi S.: 115 Racine J.: 116 Raffaello Sanzio: 173 Rech H.: 63 Reinhold: 122 Renger T.: 63 Riconda G.: 67

Ritter: 217 Rizzacasa A.: 193 Rosenkranz K.: 48 Rosenzweig F.: 54, 73, 74, 75, 78, 83, 85, 86, 87, 88 Sachs W.: 11 Schiller F.: 46, 69, 75, 81, 85, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 109, 114, 134, 141, 151, 178, 179, 195 Schlegel A.: 23, 76, 69, 96, 109, 112, 113, 114, 115, 116, 122, 123, 129, 139, 148, 149, 150, 151, 155, 156, 157, 158, 159, 162, 163, 164, 165, 166, 168, 172, 188, 205, 210, 213 Schlegel C.: 148, 149, 150, 157, 216 Schlegel D.: 150 Schlegel F.: 23, 47, 69, 96, 109, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 136, 137, 139, 146, 148, 150, 151, 157, 162, 166, 168, 191, 195, 202, 205, 208, 210, 211, 213 Schleiermacher F.: 124, 155 Schneider H.: 54, 74, 75, 82, 83, 84 Schnurrer F.: 12, 14, 15, 16, 23, 110, 111

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INDICE DEI NOMI

Semerari G.: 66, 153 Shakespeare W.: 46, 116, 124, 139, 149, 158, 159, 173, 175, 197, 200, 201, 202, 205, 206, 210, 213 Sisto D.: 217 Sofocle: 203 Spengler O.: 173, 207, 211 Spinoza B.: 16, 65, 128, 129, 154 Storr G.: 16, 17 Strack F.: 78, 79, 80, 97, 114, 130, 163, 169, 170, 197, 207 Strauss D.F.: 14 Tasso T.: 159 Tatasciore C.: 13, 17, 156, 159, 182

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Tilliette X.: 38, 40, 86, 87, 88, 128, 130, 140, 145, 150, 161, 162, 164, 165, 168, 190, 209 Tirso de Molina: 116 Tomasoni F.: 140 Trede J.H.: 84, 97, 103 Vernole V.: 63 Verra V.: 11, 18, 19, 23, 33, 37, 40, 41, 45, 46, 48, 51 Vieweg K.: 130 Viganò F.: 13, 144 Voss J.H.: 23 Winckelmann J.J.: 30 Wolff C.: 125 Zeltner H.: 48

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INDICE GENERALE

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INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

pag.

7

Parte prima ALLE FONTI DELL’INTERESSE SCHELLINGHIANO PER IL MITO I. GLI ANNI DELLA FORMAZIONE: IL PERIODO TUBINGHESE (1792-1795) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Studio delle lingue antiche ed esegesi veterotestamentaria. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Definizione di mito e distinzione fra storia mitica e filosofia mitica: la lezione di Heyne . . . . . . . 2.1. Mito vero versus mito falso: Omero ed Esiodo 3. Il linguaggio del mito: Schelling allievo di Herder? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Uomini fanciulli e uomini sapienti: mito, natura umana, tradizione, nomopoiesi . . . . . . . . . II. ANNI DI TRANSIZIONE: DA TUBINGA A LIPSIA (1796-1797) . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Evoluzioni: fra mito e filosofia . . . . . 2. A Lipsia . . . . . . . . . . . . . . . . .

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INDICE GENERALE

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Parte seconda INTERLUDIO. L’ALBA DEL MITO MODERNO I. IL SYSTEMPROGRAMM . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 73 1. Questioni preliminari . . . . . . . . . . . . . . » 73 2. Il problema dell’Authorschaft . . . . . . . . . . » 77 2.1. Hölderlin? . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 78 2.2. Hegel? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 82 2.3. Schelling? . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 85 3. Il nodo etico: il ripensamento della Postulatenlehre di Kant . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 89 4. Il nodo politico ed estetico: la lezione di Schiller . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 94 5. Per una mitologia della ragione . . . . . . . . . . » 100 6. Appunti per una conclusione . . . . . . . . . . . » 104 Parte terza IL MITO MODERNO NELLA FILOSOFIA DELL’ARTE I. LA PREPARAZIONE (1798-1802) . . . . . . . . . . . 1. Da Lipsia a Jena . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. L’influenza degli Schlegel: crescita ed evoluzione del tema estetico. Verso il mito moderno . . . . . 3. Destini incrociati: la svolta del 1800 . . . . . . . 3.1. Poesia, mito e modernità: il Discorso sulla mitologia di F. Schlegel . . . . . . . . . . . 3.2. La svolta estetica di Schelling: il Sistema dell’Idealismo trascendentale . . . . . . . . . 3.3. Verso la Filosofia dell’Arte . . . . . . . . . II. MITO E MODERNITÀ NELLA FILOSOFIA DELL’ARTE . . 1. Introduzione. Forma e contenuto di una filosofia dell’arte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Mito e Arte . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

» 109 » 109 » 115 » 123 » 125 » 132 » 148 » 161 » 161 » 173

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INDICE GENERALE

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3. Mito antico e mito moderno . . . . . . . . . . pag. 188 4. Dal conte Ugolino a Faust: il percorso del mito moderno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 196 E OLTRE.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. LA FILOSOFIA DELL’ARTE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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INDICE DEI NOMI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

» 229

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THE MODERN MYTH

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TALE, ART AND PHYLOSOPHY IN THE EARLY SCHELLING

A fascinating and contentious relationship binds together Myth and Modern Age. After the Enlightenment and the conviction of the myth, judged antithetical to rational discourse, Early Romanticism in Germany begins to focus again on this topic. This happens when the study of ancient mythology develops himself in a more explicit reflection on the mythical foundations of the modern epoch, so as to gradually bring into focus the concept of a modern myth problematic. In the study that follows will be put at issue the genesis and development of this notion in F.W.J. Schelling, who played a major role in that cultural climate. In particular, we will deal with the production of the first Schelling, including that between the early days at Tübingen (1792-93) and the transfer to Würzburg (1803). Within this decade, he chosed to polarize the discussion of three fundamental points, the first of which consists of the bases of Schelling’s first reflection on the myth, that is namely condensed in the study of ancient languages and Old Testament exegesis and finds expression particularly in the essay Über Mythen of 1793. The second point of interest focuses on the drafting of the Älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus of 1796-97, while the third is about the lectures on Philosophie der Kunst in 1803-04. The first part focuses on the formation of the philosopher, with respect to which the theme of the modern myth is still visible through the filigree of the value of social legitimacy provided by the myth itself. The weld between the interest in the myth and the question of its instrumental use is what lies behind the myth as a modern mythology of reason: this is the meaning of the reference to Systemprogramm – which occupies the second part, where is

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240 also given a brief account of the main issues related to it and the hermeneutic discourse is inevitably open to other authors. In the third part the focus of the search goes back to Schelling, with reference to the preparation and drafting of the Philosophy of Art in which the question of the modern myth is developed and solved. Throughout the research it was chosen to associate the treatment of the complexes speculative detailed descriptions with the basic steps of the philosopher’s life, watched mainly by its rich collection of letters and other contemporary evidence. This has sought to provide a truthful picture of an itinerary that describes a sort of Schelling’s intellectual biography, in order to understand the main pieces of the mosaic of modern myth in their genetic phase.

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IDEE / filosofia nuova serie

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Marco Vannini Meister Eckhart e «il fondo dell’anima» Angela Ales Bello Fenomenologia dell’essere umano lineamenti di una filosofia al femminile Edith Stein La ricerca della verità dalla fenomenologia alla filosofia cristiana a cura di A. Ales Bello Martin Buber Profezia e politica sette saggi a cura di G. Morra trad. di L, Velardi Jean Brun Attesa di verità il destino della filosofia nella modernità pres. di M. Malaguti trad. di F. Polato Francesco Tomatis L’argomento ontologico l’esistenza di Dio da Anselmo a Schelling

Gaspare Mura Ermeneutica e verità storia e problemi della filosofia dell’interpretazione Pier Paolo Ottonello Rosmini: l’ordine del sapere e della società Martin Buber Incontro frammenti autobiografici a cura di D. Bidussa trad. di A. Franceschini Francesco Tomatis Escatologia della negazione Franco Percivale L’ascesa naturale a Dio nella filosofia di Antonio Rosmini Giuseppe Riconda Xavier Tilliette Del male e del bene Aurelio Rizzacasa L’eclisse del tempo il fine e “la fine” della storia pref. di A. Ales Bello

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Leonardo Messinese Un passo oltre la scienza filosofia e trascendenza in Karl Jaspers pres. di A. Ales Bello pref. di G. Penzo

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Massimo Donà Aporie platoniche saggio sul Parmenide Anita Bertoldi Il pensatore della parola Ferdinand Ebner, filosofo dell’incontro Maurizio Schoepflin (ed.) La felicità secondo i filosofi Aniceto Molinaro Tra filosofia e mistica Anna Maria Pezzella L’antropologia filosofica di Edith Stein Vittorio Possenti L’azione umana morale, politica e Stato in Jacques Maritain Isabella Adinolfi Diritti umani realtà e utopia Paolo Diego Bubbio Il sacrificio la ragione e il suo altrove

Angela Ales Bello Anna Maria Pezzella Il femminile tra Oriente e Occidente religioni letteratura storia cultura Bruno Forte Vincenzo Vitiello Dialoghi sulla fede e la ricerca di Dio intr. di O. Di Grazia a cura di L. Bove Angela Ales Bello Philippe Chenaux (edd.) Edith Stein e il nazismo in appendice la lettera di Edith Stein a Pio XI Nicola Ricci In trasparenza ontologia e dinamica dell’atto creativo in Antonio Rosmini pref. di M. Malaguti Giovanni Zuanazzi Pensare l’assente realtà e utopia Angelo Capecci Il pregiudizio storico il problema della storiografia filosofica Mauro Grosso Alla ricerca della verità la filosofia cristiana in E. Gilson e J. Maritain pref. di P. Viotto

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Angela Michelis Libertà e responsabilità la filosofia di Hans Jonas

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Marcello Acquaviva Il concreto vivente l’antropologia filosofica e religiosa di Romano Guardini Paolo Diego Bubbio Piero Coda (edd.) L’esistenza e il logos filosofia, esperienza religiosa, Rivelazione

Philippe Nemo Giobbe e l’eccesso del male con un contributo di Emmanuel Levinas Gennaro Cicchese Incontro a te antropologia del dialogo Fabrizio Turoldo L’etica di fine vita Ireneusz Wojciech Korzeniowski L’ermeneutica di Emilio Betti pres. di G. Mura

Massimiliano Marianelli Ontologia della relazione la “convenientia” in figure e momenti del pensiero filosofico

Anna Pelli (ed.) L’Essere come Amore percorsi di ricerca

Gianluca Falconi Metafisica della soglia sguardo sulla filosofia di Hans Urs von Balthasar

Enrico Cerasi Il mito nel Cristianesimo per una fondazione metaforica della teologia

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