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Italian Pages 394 Year 2001
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ROMA 2001
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA
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ROMA 2001
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA
Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere. G. W. E HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto
INDICE
Premesse
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PARTE PRIMA - La storiografia filosofica italiana del Novecento: prospettive di ricerca 1. Storia e storicismo nella cultura filosofica del secondo
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2. Gli studi di storia della filosofia in Toscana (1930-1960) .
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PARTE SECONDA - Sul concetto di Rinascimento: interpretazioni e problemi
1. Balbo e Romagnosi interpreti del Rinascimento
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63
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3. Umanesimo e Rinascimento nella storiografia filosofica deliri danteRio ne o, ni
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2. Rinascimento e Riforma nei Quadetni di Gramsci
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PARTE TERZA - Interpretazioni di Croce, Gentile e Gramsci
1. Filosofia e autobiogratia in Croce... .......-.... 2. Malattia/sanità. Momenti
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della filosofia di Croce fra le
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XII
INDICE
4. Gramsci e il linguaggio della ‘vita” 5. Cosmopolitismo CICERO
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6. Storiografia e politica: una testimonianza su Franco De
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PREMESSA Questa raccolta di saggi è nata dalla persuasione, fattasi in me più viva e più netta col passar del tempo, che nel nostro paese un'epoca degli studi storico-filosofici si è, per alcuni aspetti rilevanti, compiuta. Quali siano le ragioni di questo fatto, che coinvolge una pluralità di piani (filosofici, storiografici, politici, ideologici...), ho cercato di dire nei saggi riuniti nella prima parte del volume, esplicitamente dedicati ad aspetti e momenti della storiografia filosofica italiana del Novecento. Né è il caso che io le ripeta qui, non avendo avuto motivo di mutare opinione. Vale invece la pena di dire che in queste pagine si parla della storiografia italiana che si è confrontata, in modo programmatico, con la politica: con la politica, cioè con la praxis, muovendo (o risalendo attraverso di essa) dalla ‘filosofia della praxss’ di Labriola, di Gentile, di Gramsci. Una tendenza molto tipica
della filosofia e della cultura italiane del nostro Novecento, le
quali — pur con notevolissime differenze e forti scansioni interne — sono state concordi nell’individuare nel nesso tra filosofia,
storiografia, politica il ‘punto di vista’ decisivo. Nella storiografia filosofica italiana del XX secolo ci sono altre, fondamentali,
tendenze
che hanno stabilito un diverso
rapporto con la politica e che hanno svolto un ruolo assai importante, assai significativo, tuttora attuale; né da parte mia c’è alcuna sottovalutazione dei loro risultati. Ma in questo volume
è sulla storiografia che ha assunto l’essenzialità di quel nodo che è fissata, in primo luogo, l’attenzione. E questo il ‘problema’ che unifica i vari saggi: in questo senso (almeno per quanto mi
concerne) il centro del volume è costituito dal saggio Rirascimento e Riforma nei Quaderni di Gramsci che, collocato nella
seconda parte, fa da ponte concettuale fra i saggi raccolti nella prima e nella terza parte del libro. Per quanto riguarda la struttura del volume mi limito a dire che nella seconda parte ho raccolto una serie di saggi sulla storiografia del Rinascimento nell’Ottocento e nel Novecento, perché in Italia la ricerca intorno al Rinascimento è stata il luogo in cui si sono lungamente e in modo consapevole intrecciati interessi storiografici e problemi di ordine culturale e ideologico. Discutendo del Rinascimento (della Riforma e, natu-
XIV
PREMESSA
ralmente, degli ‘eretici italiani del Cinquecento’), una parte consistente della storiografia italiana del XX secolo si è confrontata prima con la questione della ‘decadenza’ della ‘coscienza italiana’, poi con il problema della costituzione interiore dello stato nazionale (compreso il rapporto tra Chiesa e Stato), infine con il nodo della crisi e del declino dello stato-nazione. Tutti problemi che questa storiografia ha variamente discusso, con differenti impostazioni, ma sempre intrecciando la ‘questione del Rinascimento’ con la ‘questione delle origini del mondo moderno’,
trovandosi ad affrontare negli ultimi decenni — sia
detto di passaggio — problemi del tutto nuovi per la sporgenza, sempre più vasta proprio su questo terreno, della ‘rivoluzione scientifica moderna’. Nella terza parte, mettendo anche alla prova nuove piste di ricerca, sono stati invece esaminati gli ‘autori’
(Croce, Gentile, Gramsci) che per questa storiografia hanno costituito, al tempo stesso, il punto di partenza e il punto di approdo, in un circolo che è stato virtuoso fino alla svolta degli anni Sessanta del secolo scorso, quando si è prima incrinato, poi definitivamente spezzato. Non è il caso di insistere sulle intenzioni; se un libro ha un
‘problema’, parla autonomamente. Desidero invece dire una parola sulla dedica di questo lavoro a Delio Cantimori e Cesare Luporini. Di entrambi sono stato allievo all’Università di Firenze: dal primo ho imparato l’importanza della storia della storiografia nel porre, e avviare a soluzione, problemi sia storici che teorici; dal secondo ho imparato (per riprendere una sua espressione)
che nessuna
‘coscienza
storica’
può mai sostituire la
‘coscienza teorica’. Della mia gratitudine, cresciuta con gli anni,
per l’uno e per l’altro, il presente volume vuole essere un’affettuosa testimonianza.
L’idea di questo libro è nata nell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, presso il quale negli ultimi anni si è costituita una vivace comunità di giovani studiosi. Non posso ricordarli tutti; ma un ringraziamento particolare desidero
rivolgere a Simonetta Bassi, Elisabetta Scapparone, Nicoletta Tirinnanzi e, soprattutto, a Fabrizio Meroi che, oltre a seguire il
lavoro in tutte le fasi redazionali, ne ha discusso con me struttura e impostazione, dandomi utili suggerimenti. Un ringraziamento desidero infine rivolgere al personale dell’Istituto per la preziosa collaborazione che quotidianamente mi offre. Palazzo Strozzi, luglio 2001
PARTE PRIMA
LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA DEL NOVECENTO: PROSPETTIVE DI RICERCA
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I STORIA E STORICISMO NELLA CULTURA FILOSOFICA DEL SECONDO DOPOGUERRA
In queste pagine mi propongo di affrontare il problema del rapporto tra storia e storicismo nella cultura filosofica italiana dal dopoguerra ai primi anni Sessanta. Ma - lo dico subito — non ho alcuna pretesa di esaurire questo complesso e difficile tema. Mi limiterò solamente a presentare alcuni ‘appunti’ per una ricerca da fare, concentrandomi in modo specifico sugli orientamenti metodici e storiografici nei quali, in modi più forti e più consapevoli, è stato posto (e praticato) il rapporto tra storiografia e politica — attraverso la mediazione, ed è questo il punto fondamentale, dello storicismo. Credo che per comprendere alcuni caratteri della storiografia filosofica in Italia tra la fine della guerra e i primi anni Sessanta, si debbano fare, anzitutto, alcune affermazioni di carat-
tere generale. La prima è questa: nella tradizione italiana la storiografia, nelle sue varie diramazioni, non è mai stata una disciplina come le altre, una forma del sapere tra altre forme del
sapere. Si può essere netti su questo punto: la storiografia, per un lungo, lunghissimo periodo è stata la struttura fondamentale della coscienza e della vita civile nazionale. In questo senso, l’attività storiografica — anche nell’ambito degli studi filosofici — è stata, e resta, uno dei migliori punti di osservazione disponibili per cogliere i tratti fondamentali dell’autocoscienza del paese, dei suoi problemi fondamentali, oltre che degli orizzonti culturali e civili — e delle attitudini politiche — delle nostre classi dirigenti. A dirla in breve, in Italia è nella storiografia — anche nella storiografia filosofica — che è scritta l'autobiografia della nazione !. E con questo arriviamo al secondo punto di ! Su questo punto mi sono soffermato in modo più esteso in La storiografia, in Manuale di letteratura italiana, IV, Dall'unità d'Italia alla fine del Novecento, a cura di F. BRIOSCHI e C. Di GIiroLAMO, Torino 1996, pp. 975-992. Quando, in
queste pagine, parlo di ‘storicismo’, non mi riferisco — vale la pena di sottolinearlo - allo storicismo «critico-problematico» di Fulvio Tessitore e della sua scuola.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
ordine generale che vorrei sottolineare. Mi riferisco al rapporto organico tra storiografia e politica da un lato, tra storiografia e filosofia dall’altro, che segna tanta parte della nostra storia distinguendola da altre tradizioni nazionali e culturali. Stanno qui sia la prima radice di una funzione speciale della storiografia nella cultura e nella vita civile dell’Italia, sia un ruolo specifico degli intellettuali — e in modo particolare degli storici, anche degli storici della filosofia — nella elaborazione dell’autocoscienza nazionale italiana. È appena il caso, naturalmente, di sottolineare il peso che su entrambi i lati — storiografia e politica, storiografia e filosofia — hanno esercitato Croce e Gentile, ri-
prendendo e sviluppando in modi originali una tradizione che aveva dato significative prove si sé già nella esperienza ottocentesca. In rapporto al tema che devo trattare, mi interessa sottolineare invece, in modo specifico, un altro punto: i rapporti della storiografia con la politica da un lato, con la filosofia dall’altro, non proseguono di pari passo, non si sviluppano in modo simmetrico. Si situa qui, precisamente, un primo elemen-
to di differenza fondamentale fra lo storicismo idealistico (nelle sue varie forme) e lo storicismo post-idealistico affermatosi in Italia fra la fine della guerra e gli anni Cinquanta. Esso risiede, appunto, in una diversa prospettazione dei rapporti della storiografia — anche di quella filosofica — con la teoria, con la filosofia. Naturalmente, quando dico questo penso in modo particolare alle tendenze che, in modo più esplicito, si riferiscono — per consenso o per contrasto — alla tradizione storicistica italiana (da Croce a Gentile); non a quei filoni di ricerca che mantengono volutamente — addirittura polemicamente, a volte — un rapporto stretto tra storiografia e filosofia, variamente sviluppandolo (da Banfi a Paci, da Dal Pra a Preti, per limitarsi a fare
solo qualche nome). Nell'ambito delle prime tendenze — ed è di esse che, in queste pagine, mi interessa discorrere, senza peral-
tro sottovalutare in alcun modo le seconde - il punto di distinzione, e di massima distanza, con lo storicismo idealistico è individuato, e svolto, nella critica del nesso
tra storiografia e
filosofia, non di quello tra storiografia e politica. Nei testi di quegli anni, si parla spesso di una diversa concezione della filosofia — e, in modo particolare, della ‘storia della filosofia come filosofia” —; ma questa, in effetti, è, a quella data, la posta in
gioco: la messa in discussione del rapporto tra storiografia e filosofia, quale si era sviluppato nel neoidealismo italiano (la fi-
STORIA E STORICISMO NELLA CULTURA FILOSOFICA
5
losofia di ascendenza hegeliana, dunque, cui viene contrapposto un programmatico elogio del ‘limite’ kantiano). In altre parole, se Croce in tutta la sua opera si era sforzato, sul piano sistematico, di stringere in un nodo solo «filosofia e storiografia» (come si intitola un suo libro assai importante), la storiografia filosofica che comincia a svolgersi in Italia fin dal primo dopoguerra, imponendosi poi negli anni Cinquanta, si propone di riguadagnare uno spazio al lavoro storiografico in quanto tale distaccandolo, programmaticamente, dalla filosofia (da quella filosofia, lo ribadisco: fino al punto di evocare nei primi anni Sessanta, con Cantimori, addirittura l’attualità del grande Lu-
dovico Muratori) ?. Come è noto — e anche in questo caso mi esprimo in modo
sintetico — si è trattato di un processo tutt’altro che facile o indolore; né pochi, o di scarso rilievo, sono stati i prezzi che, a questo scopo, si è ritenuto opportuno dover pagare: a essere espliciti, fino in fondo, con la filosofia idealistica si è rischiato
di liquidare, oltre ad ogni forma di teoria, il problema stesso del rapporto tra filosofia e storiografia nel campo specifico degli studi storico-filosofici. Eppure — ed anche questo va osservato —, per la costituzione interiore che aveva assunto nella nostra
tradizione, il problema della ridefinizione del significato e della ‘autonomia’ della storiografia, in Italia, a quella data, non pote-
va essere affrontato se non scendendo direttamente sul terreno della filosofia — cioè, in questo caso, della polemica con la filosofia idealistica, con tutto ciò che questo poteva comportare (e, in effetti, comportò): tale era, ancora in quel momento, la forza
della posizione che Croce, in particolare, aveva individuato trasformandola addirittura in una sorta di ‘senso comune’ — per gli storici in primo luogo, occorre aggiungere, prima ancora che
per gli storici della filosofia in senso stretto. Come dimostra 44 abundantiam il bel saggio di Chabod su Croce storico, nel quale all'ordine del giorno è, precisamente, il problema della necessità di un confronto con l’eredità complessiva di tutta la tradizione idealistica, della quale vengono individuati e valorizzati, selettivamente, gli elementi più coerenti con un primato della storio-
2 Su questo, D. CANTIMORI,
Conversando
di storia, Bari 1967, nel quale
sono raccolte le ‘lettere’ che Cantimori scrisse dal 1960 al 1964 per la rivista «Itinerari».
6
PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
grafia in quanto tale, come disciplina autonomamente fondata, senza vincoli di carattere filosofico’. Se non si tiene conto di tutto questo diventa difficile capire il significato, e l’importanza, del dibattito che si apre, negli anni Cinquanta, sui caratteri e sul significato della storia della filosofia, toccando il vertice sia nel convegno fiorentino del ’56,
sia nel volume di Garin sulla Filosofia come sapere storico *. Nel marzo del ’56, in una lettera (inedita) a Ugo Spirito, proprio Garin definisce con molta chiarezza quelli che erano, allora, i termini del problema, sforzandosi di definire un punto di vista che, distanziandosi dalla filosofia idealistica, fosse in grado di mantenere un contatto con la teoria, con la filosofia, spostando
consapevolmente l'orizzonte da Hegel a Kant. Lo storico — egli scrive — sa bene che la totalità dei rapporti è a/ di là della nostra presa, e sa che questa totalità è la fine — o il fine — della storia, appunto sempre 4/ di la. Ma entro un certo ambito considera possibili certe determinazioni (per esempio i libri che un ‘filosofo’ ha più letto, pur senza credere di avere con ciò ‘esaurito’ il campo della conoscenza del proprio autore). Proprio questo modesto lavoro — determinazione di certi rapporti, e quindi definizione di certi limiti — è compito dello storico; ed è possibile solo in una prospettiva filosofica, quella che richiama al limite, e cioè alla ‘condizione’, alla
‘storicità’, i filosofi troppo propensi a credersi gli uccelli di quel famoso volo nel vuoto di kantiana memoria. Perciò — conclude Garin — è valida anche una polemica dello ‘storico’ contro il ‘filosofo’ 0, se
preferisci, del ‘filosofo-storico’ contro il ‘filosofo-filosofo’: che è polemica contro le sue pretese ‘storiche’, ossia contro la sua pretesa di presentare come vero il Platone che entra nei suo: quadri personali, assunti come la totalità della verità. Il ‘filosofo-storico’ si rende conto, invece, che, certo, anche quel Platone rientra nella ‘vita’ di Platone; ma,
in quanto ‘storico’, cerca di rendersi conto — e invita a rendersi conto
— del limite, ossia di un complesso di determinati rapporti — di quel Platone: ed è il ‘limite’ che rende possibile la storia e il ‘rendersene concretamente conto’ è fare storia. Così, in realtà, il ‘filosofo-storico’ e
? E CHABOD, FIRPO, Bari 1969.
Croce storico, in ID., Lezioni di metodo storico, a cura di L.
* E. GARIN, La filosofia come sapere storico, Bari 1959. Ma di questo testo —
fondamentale per i temi che stiamo affrontando — cfr anche la recente ristampa (Roma-Bari
1990), con un ampio ‘saggio autobiografico’, in cui Garin rievoca
anche i caratteri della discussione in cui si inseriscono i saggi poi raccolti nel volume (Sessanta anni dopo, pp. 117-158).
STORIA E STORICISMO NELLA CULTURA FILOSOFICA
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il ‘filosofo-filosofo’ appartengono a diversi ‘ordini’ di grandezza [...]: si tratta di due lavori diversi - comunque vogliamo chiamarli 5.
Ho voluto citare lungamente questo testo sia per l’esplicita polemica, oltre che verso Croce, anche nei confronti di Paci e
di Preti; sia perché tesi come queste — perfezionate nella tesi della «filosofia come sapere storico» — hanno fortemente condizionato la cultura filosofica italiana, alla luce di una determi-
nata interpretazione dello storicismo, fino a tutti gli anni Sessanta.
Ma
c'è un
altro elemento
che mi interessa
ribadire,
proprio alla luce della posizione di Garin: l’incrinatura del nesso tra storiografia e filosofia — dei termini in cui esso era stato istituito nella cultura neoidealistica italiana — non implica in alcun modo la rottura del rapporto tra storiografia e politica, tipico della nostra tradizione. Anzi, per certi versi quel nesso si rafforza, anche nell’ambito della cultura storico-filosofica, per
impulso diretto della lezione di Gramsci e dei Quaderni, che — per esplicite motivazioni di politica culturale — stimola un processo di ripensamento e reinterpretazione complessivi di tutta la nostra cultura nazionale, compreso lo storicismo crociano di cui
si sforza di individuare le origini nazionali, connettendolo da un lato alla ‘formula’ di Quinet sulla ‘equivalenza di rivoluzione-restaurazione nella storia italiana’, dall’altro al concetto di ‘rivo-
luzione passiva’ del Cuoco.
p:
Esse — osserva Gramsci — forse esprimono il fatto storico dell’assenza di una iniziativa popolare unitaria nello svolgimento della sto-
ria italiana e l’altro fatto che lo svolgimento si è verificato come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico, elementare,
disorganico delle masse popolari con ‘restaurazioni’ che hanno accolto una qualche parte delle esigenze dal basso, quindi ‘restaurazioni progressive’ o ‘rivoluzioni-restaurazioni’ o anche ‘rivoluzioni passive’. Si potrebbe dire — conclude — che si è sempre trattato di rivoluzioni dell’ ‘uomo del Guicciardini’
(nel senso desanctisiano), in cui i diri-
genti hanno sempre salvato il loro ‘particulare’: il Cavour avrebbe appunto ‘diplomatizzato’ la rivoluzione dell’uomo del Guicciardini ed egli stesso si avvicinava come tipo al Guicciardini °. > La lettera è depositata presso la Fondazione Ugo Spirito di Roma alla quale esprimo la mia più viva gratitudine. Ringrazio, naturalmente, Eugenio Garin che mi ha autorizzato a pubblicarla. 6 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, Edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura di V. GERRATANA, Torino 1975, pp. 1324-1325.
8
PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
Sono affermazioni che andrebbero discusse in modo analitico, esaminando anzitutto il concetto gramsciano di «rivoluzio-
ne passiva» e, muovendo di qui, il nesso che egli stabilisce fra «rivoluzione passiva», storicismo e storia nazionale. Non è que-
sto il luogo per un simile lavoro, che dovrebbe, di necessità, coinvolgere la concezione che Gramsci ha dello storicismo. Mi interessa invece ribadire il dato sopra individuato: tra il dopoguerra e gli anni Sessanta e fino ai primi anni Settanta, la di-
mensione storiografica continua ad essere il terreno di determinazione dei problemi fondamentali della società nazionale, e, in
questo ambito, il luogo ‘ideale’ della formazione del cittadino. Né sto, ora, a dire che cosa abbia significato per un paese come l’Italia una tale sporgenza della storiografia: senza alcun dubbio, si inseriva all’interno di una tradizione che aveva, in genere, sa-
crificato quelle che si è soliti chiamare ‘scienze sociali’, sia dal punto di vista dell’analisi della società nazionale, sia dal punto di vista della formazione delle sue classi dirigenti. Su questo, del resto, si è richiamata a più riprese l’attenzione. Alla luce delle cose dette, i punti che mi interessa riepilo-
gare sono tre: 1. il primato, sul piano conoscitivo, della storiografia, che già, di per sé, pone un problema; 2. il rapporto con la politica che, organicamente, la connota; 3. il ruolo svolto dallo storicismo, nelle sue varie forme —
tra il dopoguerra e i primi anni Sessanta —, quale terreno privilegiato di mediazione tra storiografia (anche filosofica, s’intende) e politica, in modo particolare nell’ambito della cultura di sinistra sia di ispirazione genericamente laica che di ispirazione marxista. «Lo storicismo — ha scritto Cesare Luporini in un testo au-
tobiografico del 1974 — appariva l’unica interpretazione del marxismo perfettamente adeguata e corrispondente alla politica del partito, alla sua linea strategica»”.E ancora oggi, a mio giudizio, un'osservazione giusta e condivisibile. Se non si afferra questo nesso organico dello storicismo con la politica — con una
? C. LUPORINI, Dialettica e materialismo, Roma 1974, p. XXIX.
STORIA E STORICISMO NELLA CULTURA FILOSOFICA
9
certa interpretazione della politica, con una determinata strategia politica — si rischia di non cogliere uno dei principali elementi di affermazione dello storicismo in Italia per almeno un ventennio. Intendiamoci: la costituzione di una cultura storicistica di ascendenza marxista in Italia non fu né scontata né acquisita senza problemi o contrasti (come dimostra, da ultimo, il bel volume di Luisa Mangoni sulla casa editrice Einaudi dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta) 3. Da questo punto di vista può risultare esemplare proprio l’esperienza di una rivista importante come «Società», fondata nel 1945 da un letterato come Romano Bilenchi e dallo stesso Luporini?. Dell’incidenza dell’uno e dell’altro ci sono, certo, tracce visibili nelle prime anna-
te della rivista, nell'apertura verso le forme più avanzate della letteratura degli anni Trenta, o nella forte attenzione dedicata alla filosofia tedesca — da Kant a Fichte, a Hegel — ad opera, oltre che di Luporini, di uno studioso come Arturo Massolo !°. Ma se si scorrono le annate della rivista — specialmente quelle successive al ‘48 — non è difficile rilevare due elementi particolarmente interessanti dal nostro punto di vista: da un lato il rilievo che la storiografia acquista nell’ambito di un’impostazione teorica e politica imperniata nella promozione di uno storicismo di impronta marxista ispirato alla lezione di Antonio Gramsci, a sua volta ripresa e interpretata secondo un modello assai preciso alle cui basi sta l'orientamento politico e culturale del partito «nuovo»; dall’altro, il peso che, nella vita della rivista, assume progressivamente la discussione con la cultura filosofica italiana — specificamente di matrice idealistica —, sottoposta ad un’analisi critica assai serrata, come risulta, tra l’altro, anche
dalla recensione del Ritorzo della ragione di Guido De Ruggiero, di cui — e va notato — è autore proprio Luporini !!. Senza 8 L. MANGONI, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Torino 1999.
? Per un primo approccio a «Società» resta utile il lavoro di G. DI COSTANzo, Saggio su «Società», Napoli 1979. 10 Per l’attività di Luporini cfr i saggi raccolti in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947. Per quanto riguarda Massolo, nella prima annata di «Società» escono tre saggi importanti: Esistenzialismo e borghesismo, La hegeliana dialettica della quantità, L'essere e la qualità in Hegel. ll C. LUPORINI, rec. di G. DE RUGGIERO, Il ritorno della ragione, Bari 1946, «Società», III, 1947, pp. 406-422.
10
PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
alcun dubbio — ed è questo che voglio sottolineare — in «Società» ci fu una netta — e progressiva — prevaricazione delle esigenze della politica sulle ragioni che avevano presieduto alla nascita della rivista (sul cui primo numero Cantimori - e anche questo va ricordato — aveva già pubblicato gli Appunti sullo storicismo, cioè una stroncatura senza appello del libro di Antoni Dallo storicismo alla sociologia) !?. Una prevaricazione tanto netta, da indurre Giulio Einaudi a intervenire: Da tempo - scrive nel gennaio del ’53 a Carlo Salinari, responsabile della Commissione Culturale del PCI — noto con dispiacere che «Società» è scarsamente seguita dal pubblico, non solo dal pubblico medio, ma da quello degli intellettuali professionisti [...] D'altra parte, che la rivista non sia considerata viva e interessante e necessaria è confermato dalla scarsità di collaborazioni esterne da parte anche di nostri compagni e amici per i quali sarebbe logico che costituisse il naturale terreno di lavoro [...] perfino molti componenti del comitato di redazione sono inattivi o assenti dalla rivista. Il quadro dei collaboratori abituali è notevolmente ristretto, ma questo non sarebbe ancora il peggiore dei mali se almeno la rivista desse il senso di un lavoro comune,
di un programma
da svolgere sistematicamente,
se
aprisse nuove e coordinate prospettive di studio e di discussione: tutto questo manca affatto [...] !.
Di qui, per Einaudi, la opportunità di ricorrere «anche a collaboratori esterni», dando al comitato direttivo della rivista
un carattere «più largamente consultivo», oltre ad affiancare al direttore Manacorda «uno o più nomi che — scrive Einaudi — ci garantiscano una maggiore ampiezza di rapporti, una più spre-
giudicata varietà e vivacità d’interessi, al quadro reale degli uomini e delle questioni vive della nostra cultura [...]» !. In altre parole, l’Editore chiedeva una maggiore indipendenza ‘culturale’ della rivista dalla politica del PCI, sottolineando che «Società» non era una rivista ufficiale del PCI. Ma è paradossale — e, al tempo stesso, sintomatico — che rivolgesse questa richiesta 1? Il saggio, fondamentale, di Cantimori è raccolto in Studi di storia, Torino 1959, pp. 5-45 (una prima redazione del saggio di Cantimori era uscita in «Civiltà fascista», VII, 1940, con il titolo del libro di Antoni: Dallo storicismo alla socio-
logia). 1} MANGONI, Pensare i libri, cit., p. 642.
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STORIA E STORICISMO NELLA CULTURA FILOSOFICA
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al responsabile culturale del Partito, al quale proponeva addirittura di assumere la direzione del periodico. Si capisce dunque perché «Società» — nonostante i vari tentativi fatti, e i rimedi tentati sulla scia delle indicazioni di Einaudi — non si sia più risollevata da una crisi che scaturiva, a ben vedere, da uno stra-
volgimento radicale di quelli che, nel ‘44-45, erano stati i principi costitutivi della rivista. Sta qui, credo, la ragione effettiva della situazione che Einaudi deprecava: «Società» muore perché viene colpita, e intaccata, alle ‘radici’, nel senso forte del termi-
ne. Di fronte alla huova politica culturale che si impone nella cultura di sinistra — incentrata sullo storicismo, su una particolare interpretazione dello storicismo — quelli che vengono meno, fino a dileguarsi, sono proprio i temi che, maturati negli anni Trenta — nel vivo di un ampio confronto con la cultura europea moderna — avevano costituito la base del programma della rivista, dischiudendo, nei primissimi numeri, nuovi orizzonti critici alla cultura italiana, a partire, in prima linea, da quelli di carattere filosofico. Del resto proprio l’esperienza culturale e politica di Luporini — con una adesione al comunismo ed al marxismo tutta in chiave ‘volontaristica’, come egli stesso ebbe a scrivere di sé — è una conferma di tutto ciò ”. Non sorprende, dunque, che l’identificazione piena tra storia e storicismo si sia compiuta, più che su «Società», su una rivista come «Studi storici», cioè su una rivista di storia in°senso stretto, esplicita-
mente
estranea — se non, addirittura, ostile — a riflessioni di
carattere filosofico o storico-filosofico (a meno che non fossero direttamente connessi, s'intende, a problemi di storia del marxi-
smo, compresi i ‘precorrimenti’ — hegeliani in Germania, spaventiani in Italia) !°. Né c’è alcun dubbio, credo, sul fatto che
nella interpretazione di questo nesso abbia agito anche una forzatura della stessa riflessione gramsciana. E qui, per intendere la natura dei problemi, occorre introdurre un nome oggi poco di moda, ma allora influentissimo, oltre che su quello politico, sul
piano strettamente culturale: il nome di Palmiro Togliatti.
5 Su Luporini cfr ora AA.Vv., I/ pensiero di Cesare Luporini, Milano 1996. 16 Sul complesso di questi temi mi sia consentito rinviare al mio Filosofia e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari 1982. A «Società» è dedicato l’ultimo capitolo: Filosofia e storiografia nella genesi di «Società», pp. 317-341.
12
PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
Vorrei essere esplicito, anche su questo punto: se si analizzano, oggi, alcuni importanti capitoli della storiografia filosofica degli anni Cinquanta —- ad esempio il libro di Badaloni su Bruno (uscito nel ’55)!”, o i tanti contributi usciti in quegli anni sull’hegelismo italiano, su Labriola, sullo stesso De Sanctis — è
difficile sopravvalutare le parole pronunziate da Togliatti in un intervento assai importante alla Commissione Culturale del PCI: «Per una cultura socialista italiana — osserva -, Giordano Bruno
e Galileo Galilei hanno una importanza ben più grande che per altri paesi, per ciò che sono stati e per la traccia profonda che hanno lasciato [...]». E così continua, delineando un ampio programma di ricerca, che ha riscontri concreti nei lavori allora pubblicati: Dobbiamo certamente far conoscere agli uomini colti italiani, per esempio, il pensiero di Belinskij, grande pensatore e critico dell’Ottocento, e dobbiamo farlo anche per combattere quell’analfabetismo in cui il Croce, per esempio, vorrebbe mantenere la cultura italiana per quanto si riferisce alla conoscenza di quelle correnti intellettuali progressive che hanno contribuito al trionfo del marxismo in Russia. Per la formazione, però, di una cultura socialista italiana, il pensatore di cui, in questo campo, dobbiamo saper valutare sia le posizioni progressive che i limiti, è prima di tutti Francesco De Sanctis. Così non voglio nemmeno aprire un dibattito circa i meriti relativi di Georgij Pleckhanov e di Antonio Labriola; per noi, però, Antonio Labriola rimane il pensatore che, affondando le radici nella cultura italiana delOttocento, con un colpo d’ala apre al pensiero progressivo del nostro paese la via maestra del marxismo !8. Sono, mi pare, battute che colpiscono sia per la chiarezza
del disegno sia per l'efficacia che hanno avuto. Ma nella posizione di Togliatti c'è un altro punto che colpisce e che vale la pena di sottolineare; colpisce la consapevolezza, anzitutto, che
quel disegno poteva aver successo solo a patto di diventare parte costitutiva di quella che egli, sulla scia di Gramsci, chiamava «quistione degli intellettuali»; e, poi, che di quest’ultima erano parte fondamentale, in primo eco i filosofi — anzi, gli storici della filosofia —, ai quali è affidato, in chiave program!? N. BADALONI, La filosofia di Giordano Bruno, Firenze 1955 (libro che con-
serva un suo significativo posto nella storiografia bruniana degli ultimi decenni). 15 P. TOGLIATTI, La politica culturale del PCI, Roma 1974, pp. 201-202.
STORIA E STORICISMO NELLA CULTURA FILOSOFICA
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matica, il compito di ripensare in termini nuovi — ‘gramsciani’ — il pensiero contemporaneo italiano, dalla ‘crisi’ del positivismo
a Croce, a Gentile... Di qui, precisamente, l’attenzione - e il fortissimo interesse — con cui Togliatti guardò immediatamente alle Cronache di filosofia italiana di Garin, sottolineandone il rilievo e l’importanza in una lunghissima recensione pubblicata su «Rinascita», nel giugno del 1955, con l’evidente obiettivo di indicare un modello da seguire per almeno due motivi: l’analisi — in termini ‘gramsciani’, appunto — della cultura filosofica italiana contemporanea; lo schierarsi a fianco del ‘movimento operaio’ di uno dei più significativi intellettuali nazionali di matrice laica e liberale — punto, questo, del tutto decisivo per Togliatti, nell'orizzonte della costituzione, in Italia, di una moderna democrazia antifascista, impossibile, a suo giudizio, senza una salda-
tura organica fra alta cultura e movimento operaio; in una parola: fra ‘Riforma’ e ‘Rinascimento’, per riprendere le metafore utilizzate da Gramsci nei Quaderni. [...] per la prima volta, crediamo, nel nostro paese — scrive Togliatti — si ha un libro scientifico, non scritto da un marxista, dove le posizio-
ni filosofiche vengono considerate non come espressione di un processo puramente ideale, idee generate da altre idee, ma come elemento (e l’elemento più elevato, se volete) di un assai complicato movimento di forze oggettive e soggettive, dal quale la speculazione filosofica sorge e nel quale si inserisce, a vofte riuscendo ad aver efficacia sopra di esso, a volte invece essendo travolta, o miseramente galleggiando alla mercè del corso delle cose e dell’ignavia degli uomini. S’intende come, per chi siasi anche solo avvicinato a siffatta concezione, assuma valore l’opera da Antonio Gramsci dedicata, nel carce-
re, a questi problemi; e la comprensione e valutazione giusta di Gramsci e del suo pensiero, continuamente tenuto presente, è — conclude — uno dei momenti più significativi di tutta la trattazione !?.
Mi pare, a rileggerlo oggi, un giudizio assai sintomatico, tutt'altro che casuale: di lì a poco, nel 1958, sarà proprio Garin ad aprire il primo Convegno di studi gramsciani, con una relazione su Antonio Gramsci nella cultura italiana, destinata ad es-
sere pubblicata nella Filosofia come sapere storico, a «indicare — scriverà Garin — un’esperienza per molti aspetti decisiva per chi
19 Ivi, p. 245-258.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
scrive nell’approfondimento di problemi essenziali» ?°. In via di composizione già nei primissimi anni del dopoguerra — e nell’ambito di un’ispirazione di tipo ‘liberale’ —, le Cronache di filosofia italiana, uno dei capolavori della storiografia filosofica italiana degli anni Cinquanta, si presentano oggi come uno dei
modelli più riusciti, sul piano metodico e storiografico, del programma di lavoro suggerito, nel ’52, da Togliatti nell'intervento alla Commissione Culturale del PcI. Può sembrare paradossale,
certo; ma è un paradosso sul quale conviene riflettere per comprendere alcuni aspetti della ricerca storico-filosofica, e, più in generale, del dibattito culturale di quegli anni difficili: attraverso la mediazione dello storicismo (sia nel versante gramsciano che in quello, più generico, di carattere ‘mondano’, ‘umanistico’) è il rapporto — tipico della nostra tradizione — tra storiografia e politica che qui si ripresenta e si impone. E questa — credo — la prima la radice di quell’incontro, sia sul piano culturale che su quello politico. Ho insistito su questo anche per sottolineare un altro punto. La crisi della storiografia filosofica di ispirazione storicistica (e lato sensu marxista) è stata, per molti versi, anche la crisi
di una cultura fondamentale dell’antifascismo, quella di ispirazione comunista.
Si è trattato, in questo senso,
propria crisi di ‘egemonia’
(per riprendere
di una vera e
una
espressione
famigerata), se è vero, come è vero, che questa cultura politica attraverso un complesso e ricco sistema di mediazioni era stata capace di sollecitare, oltre a solidi e ramificati orientamenti culturali ‘di massa’ (come si era soliti dire), contributi di alto, ta-
lora altissimo, valore scientifico — dalle ‘approssimazioni marxiste’ di Cantimori agli studi di Cesare Luporini sull’illuminismo francese o su Leonardo, con un’inedita e notevole apertura, in
quest’ultimo caso, anche verso la storia del pensiero scientifico. Se si riflette sull'insieme di questa storia — e sul parallelo declino delle altre tradizioni culturali e politiche che avevano connotato la vita del paese: da quella di ascendenza laica a quella di matrice cattolica — si può osservare che è nei primi anni Ses2° Istituto Antonio Gramsci, Studi gramsciani, Atti del Convegno tenuto a Roma nei giorni 11-12 gennaio 1958, Roma 1958. Gli interventi di Garin — Appunti e Relazione su Antonio Gramsci nella cultura italiana — sono alle pp. 3-14 e 395-418 (la relazione è anche raccolta in La filosofia come sapere storico, cit.,
pp. 93-116).
STORIA E STORICISMO NELLA CULTURA FILOSOFICA
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santa che comincia a manifestarsi la crisi. Insisto su questa periodizzazione: nel ’68 esplodono problemi che avevano cominciato a maturare nel vivo di un convulso processo di scomposizione degli assetti politici, culturali e istituzionali che avevano sorretto il paese dal ’48 in poi, al quale il centro-sinistra si sforzerà di dare una risposta a suo modo organica. Sono i primi anni Sessanta il punto di discontinuità: la crisi — perché di questo si tratta — colpisce quelli che erano stati i principi cardinali della cultura alla quale si è fatto sopra riferimento: il primato in chiave etico-politica del sapere storiografico; il nesso organico tra storiografia e politica; la concezione dell’intellettuale organico; il ‘partito nuovo’ di Togliatti. In modo specifico — ed è questo
che, ora, mi interessa rilevare — colpisce, sintomatica-
mente, anzitutto lo storicismo — una determinata interpretazione della storia e, in questo quadro, dello storicismo («storia non
è storicismo», scrive Guido Guglielmi sul «Menabò» di Vittorini nel 1967)?! —, con tutto ciò che esso aveva significato sia sul piano teorico, sia sul piano della strategia e della iniziativa politica. Né questo sorprende, se è vero — come sopra si è cercato di dire — che nella posizione storicistica i due piani (quello teorico e quello politico) si erano, fin dall’inizio, strettamente e organicamente intrecciati; e come tali, appunto, erano stati pensati e vissuti anche da chi si era avvicinato a una posizione di quel
genere specialmente per una scelta di erdine politico. E il terreno fondamentale di questa mediazione che s’incrina e viene meno, mentre si apre una fase convulsa di movimento e di trasformazione. Da questo punto di vista, è significativo che agli inizi degli anni Sessanta, nel Partito Comunista — sulla scia del libro di Badaloni Marxismo come storicismo ** —, proprio intorno allo storicismo si sia aperto un dibattito dalle vaste risonanze politiche, di cui furono protagonisti sia intellettuali che uomini politici di primo piano, compresi il responsabile della politica culturale del partito Mario Alicata. Ma fu Luporini, e va sottolineato — cioè un filosofo formatosi nella prima metà degli 21 G. GUGLIELMI,
Storia non è storicismo, «Il menabò
di letteratura», X,
1967, pp. 97-104. Guglielmi si riferisce alla posizione di Vittorini, al quale il numero della rivista è dedicato. 22 Sul libro di Badaloni si aprì un’ampia discussione — dai netti significati politici — su «Rinascita». I testi sono ora raccolti in F. CASSANO, Marxismo e filosofia in Italia. 1958-1971, Bari 1973, pp. 157-248.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
anni Trenta, in tutt'altro ambiente culturale e ‘filosofico — ad
aprire la discussione dopo la morte di Togliatti e la pubblicazione del Merzoriale di Yalta: In quel clima — egli ha scritto — mi sembrò giusto mettere in discussione dinanzi a un più vasto pubblico di compagni (e lo feci nella ‘Tribuna congressuale’ de «l’Unità» del 19 gennaio 1966) quel termine di ‘storicismo’ che, come scrivevo, «era nato fuori del marxismo». Met-
tere in discussione quel termine, scrivevo, «non significa affatto rinunciare né al senso della essenziale della classe dersi conto non solo coscienza storica che
storia né alla coscienza storica che sono retaggio operaia rivoluzionaria. Significa semmai [...] rendell'importanza, ma anche dei limiti della stessa né Marx né Lenin hanno mai sostituito alla co-
scienza teorica». E cercavo di precisare, nel concreto: «Nessuna co-
scienza storica come tale è in grado da sola di dominare conoscitivamente le profonde trasformazioni che si sono venute producendo in questi ultimi anni e continuano a prodursi nel nostro tessuto sociale» ??.
Su tutta la questione, che è assai rilevante, converrebbe soffermarsi più a lungo. Qui, a conferma della profondità della crisi e delle vaste incrinature che si stavano aprendo in un intero sistema sia culturale che politico, mi limito a rilevare che a Luporini rispose subito, e in modo drastico, Mario Alicata: il quale, già nel ’62, su «Rinascita», per evidenti ragioni politiche, aveva sottolineato la necessità di distinguere tra le varie forme di storicismo diffuse nella cultura italiana, criticando, in modo
specifico, la tendenza a «confondere lo storicismo marxista, attraverso la mediazione del cosiddetto storicismo assoluto, con
una sorta di storicismo di sinistra». Il marxismo — continua Alicata — è in primo luogo materialismo e scienza; né era dunque lecito, a suo avviso, confondere con il marxi-
smo lo storicismo del Garin che pure ha immesso nella cultura tradizionale italiana una più robusta capacità di collocare nella loro esatta dimensione storico-culturale le ideologie, i movimenti di idee, ecc., arricchendo così la visione della storia della società italiana dei secoli
scorsi e contemporanea ‘*.
E, anche questo, un testo sintomatico: come avviene sempre nei momenti di crisi e di trasformazione, le vecchie alleanze si ? LUPORINI, Dialettica e materialismo, cit., p. XXXIV.
24 M. ALICATA, Intervento, «Rinascita», XIX, 1962, pp. 44-45. Per un commento cfr CANTIMORI, Conversando di storia, cit., p. 120.
STORIA E STORICISMO NELLA CULTURA FILOSOFICA
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incrinano, vengono meno; agli inizi degli anni Sessanta cominciano a dissolversi le convergenze definitesi nel decennio precedente; ciascuno riprende il proprio posto, rivendicando l’originalità e l'autonomia della propria posizione. Da ogni punto di vista, la tradizione italiana era arrivata ad un punto di svolta. Dopo, niente più sarà come prima.
Se si considera questo processo e in modo particolare il dibattito al quale si è fatto riferimento si percepisce infatti — senza difficoltà, credo — la nostra grande distanza da questo tipo di discussione, di problemi, di ambienti: appartengono, in ogni senso, a un altro tempo. E dicendo questo mi guardo bene dall’aderire a quelle che sono state le ‘filosofie di moda’ dopo la crisi dello storicismo ‘marxista’, a cominciare dagli anni Settanta. Voglio soltanto sottolineare il declino — la fine, forse — di
quel rapporto fra storiografia e politica che, in vari modi, ha lungamente condizionato i nostri studi, anche in ambito storicofilosofico. Si tratta — procedo anche qui per accenni generali — di un mutamento che viene da lontano: dalla crisi delle culture politiche dell’antifascismo all'avvento di nuove ideologie politiche e culturali; dall’imporsi di nuove tendenze storiografiche, estranee alle linee di fondo della nostra tradizione, alla crisi dello storicismo italiano nelle sue varie diramazioni. Scaturisce,
insomma, da una pluralità di motivi, anche di carattere ‘generazionale’, in cui si intrecciano elementi di ordine sia teorico che
politico e culturale. Fatto sta che, con la caduta del nesso tra storiografia e politica, in Italia è venuto perdendo peso il primato complessivo del sapere storiografico nell’insieme del nostro sistema culturale. Si è, in altre parole, incrinata una lunga, lunghissima tradizione nazionale. Disciplina tra discipline, la storiografia — anche quella filosofica — è stata riassorbita nell’ordinario curriculum accademico. Questo non vuol dire che oggi la storiografia italiana — a cominciare da quella filosofica — versi in uno stato di crisi o di stagnazione, che sia ridotta a pura filologia. E vero il contrario: si distingue — anche in ambito internazionale — per contributi importanti ed originali, in molteplici campi di ricerca. E un altro l'elemento di novità ed è quello sopra richiamato: la storiografia ha perso peso e funzioni dal punto di vista della comprensione e dello sviluppo della vita nazionale. L’antico primato è venuto meno, con conseguenze di vario genere su cui non vale ora la pena di insistere. Forse alla
base di tutto ciò c’è soprattutto un elemento che va ben al di
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
là sia della storiografia sia dei nostri confini nazionali: forse è con la crisi dello stato-nazione che si è affievolita e illanguidita la funzione della ‘forma’ culturale in cui la nazione italiana e le sue classi dirigenti si sono lungamente identificate, specchiandosi in essa come nella propria autobiografia. Fra storiografia e nazionalità in Italia — ma non solo in Italia — si è stretto, per un lunghissimo periodo storico, un rapporto organico arrivato ormai a una fase di' compimento e, forse, di dissoluzione. Sta qui la prima radice della incrinatura — non voglio dire della fine - di quel nesso strutturale: nel progressivo venir meno della configurazione nazional-statale cui esso faceva esplicitamente riferimento. Ma, su questo sfondo, mi sia lecito fare un'affermazione
conclusiva. Io credo che si debba considerare positiva questa crisi, questa incrinatura. Dicendo questo, non intendo proclamare in alcun modo la necessità di una storiografia filosofica di impronta teoreticistica; non credo che sia questa la strada da battere. Paradossalmente, oggi il problema è quello di ricostituire i testi filosofici nelle loro strutture fondamentali — dall’analisi dei lessici alla determinazione della molteplicità dei livelli teorici, culturali, storici attraverso cui essi si esplicano,
fino alla individuazione dei tratti fondamentali della loro fortuna (una sorta di storia della filosofia alla seconda potenza, che mostra sempre più la sua fecondità). E per far questo non servono tagli drastici fra storiografia e politica, né dal punto di vista dell'oggetto né dal punto di vista di chi svolge una ricerca. Quella che va respinta, senza indugio, è un’interpretazione ideologica — di carattere immediato — del rapporto; da questo, credo, dobbiamo drasticamente separarci, prendendo con net-
tezza le distanze dalle varie forme di storicismo
che hanno
campeggiato in Italia fra la fine della guerra e gli anni Sessanta, favorendo, anche, la dissoluzione della storia della filosofia in storia della cultura, o di altre, e varie, discipline. Il che non si-
gnifica ripiombare in una concezione ‘metafisica’ della filosofia, come
qualcosa di distaccato
dal tempo;
vuol dire solamente
porre il problema di una ricognizione del sapere filosofico nella sua specifica autonomia e individualità: cioè, nella capacità che esso ha di sporgere oltre le ‘muraglie’ del tempo, se e quando è in grado di dire qualcosa di significativo; s'intende, di significativo anche per noi.
II GLI STUDI DI.STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
1. La polarità Pisa-Firenze.
C'è un elemento che distingue nettamente la Toscana: a differenza di altre realtà regionali, nelle quali è possibile individuare un nucleo centrale di svolgimento e di irradiazione degli studi filosofici, anche per una lunga tradizione politica e civile qui le cose si presentano in modo diverso. In Toscana, le Università sono tre: Pisa, Siena, Firenze . Le prime due sono atti-
ve fin dal Medioevo, mentre a Firenze l’Università arriva solamente nel 1922, con la trasformazione dell’Istituto di Studi Superiori e di Perfezionamento,
fondato, a sua volta, nel di-
cembre del 18592, La nuova situazione, piuttosto che ridurle, accentua le distanze, rinsaldando antiche differenze di gusto, di sensibilità, di
approccio alla filosofia e agli studi storico-filosofici. Se a Firenze, specialmente lungo il primo decennio del secolo, agiscono dei free-lancers come Giovanni Papini (corrispondente di James e di Peirce)}, o istituzioni di carattere extra-accademico quale la Biblioteca Filosofica (assai importante per aprire la cultura filosofica fiorentina, e in genere italiana, al pensiero orientale), a
Pisa, a cominciare specialmente dagli anni Venti, svolge una funzione essenziale la Scuola Normale Superiore — cioè una ! Senza nulla togliere a Siena quale importante centro universitario, in queste pagine mi soffermo, in modo specifico, su Pisa e su Firenze, che hanno marcato in modo più netto il clima filosofico in Toscana. 2 Cfr E. GARIN, L'Istituto di Studi Superiori di Firenze (cento anni dopo), in Ip., La cultura italiana tra ’800 e ‘900, Bari 1962, pp. 29-66.
3 Su Papini cfr Giovanni Papini nel centenario della nascita, a cura di S. GENTILI, Milano 1983.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
struttura strettamente ‘accademica’ —, nella quale operano alcuni dei più eminenti rappresentanti dell’Università pisana (e che dal 1928 al 1943 è ‘riformata’ e diretta, con poche interruzioni,
da Giovanni Gentile, prima come Regio Commissario poi come Direttore a pieno titolo). A Pisa, Gentile non si limita a dirigere con lungimiranza e con intelligenza la Scuola Normale, come risulta con chiarezza dai vari carteggi finora pubblicati; interviene e incide sostanzialmente anche nella vita della Facoltà di Lettere e Filosofia, presso la quale, del resto, era stato professore di Filosofia teoretica,
prima di trasferirsi definitivamente a Roma. Un esempio: «qui — cioè a Pisa, dove in quel momento era rettore Carlini — ci siamo messi subito d’accordo per chiamarti alla cattedra di Storia della filosofia; e spero che tu possa venire fin da quest'anno. E allora sarà facile vederci, e intenderci per i nostri lavori, che c’interes-
sano», scrive a Guido Calogero nel novembre 19344. A Firenze non si riscontra niente di paragonabile a questo, né sul piano istituzionale, né su quello culturale e specificamente filosofico. Si fanno, certo, i conti con il lavoro di Gentile, ma sul piano storiografico (anzitutto per i suoi studi sul Rinascimento italiano e per la sua interpretazione del significato e della funzione della filologia umanistica), non su quello teoretico. E anche su questo terreno la situazione nel capoluogo non è facile né tranquilla: il Centro Nazionale di Studi sul Rinascimento, fondato da Papini nel 1937, si situa consapevolmente in
una prospettiva culturale assai distante da quella di Gentile. Il quale ne segue infatti la nascita con diffidenza e ostilità, pur accettando che alla «Rinascita» — la rivista del Centro — collaborino studiosi a lui vicini come Paul Oskar Kristeller e Alessandro Perosa, i quali svolgono, anzi, una importante funzione di trait d’union. Ben diversa è la situazione a Pisa, dove — fra Normale
e Facoltà — insegnano e lavorano Giuseppe Saitta, Armando Carlini, Guido Calogero, Cesare Luporini, Arturo Massolo, per non dire di Delio Cantimori: in una parola, tutte personalità legate, direttamente o indirettamente, all’esperienza gentiliana, pur nella differenza, talvolta assoluta, delle scelte politiche ed
etico-politiche. 4 G. GENTILE-G. CALOGERO, Carteggio (1926-1942), a cura di C. FARNETTI, Firenze 1998, p. 117.
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
ZI
E un clima, un’atmosfera, uno stile del tutto caratteristico,
connesso a opzioni prepolitiche, che non viene meno neppure nei momenti di crisi radicale, quando ciascuno è chiamato a fare scelte che valgono una vita. Arrestato e chiuso alle Murate di Firenze, esprimendogli nel maggio del ’42 la sua solidarietà per la morte del figlio Giovannino, Guido Calogero riconosce e ribadisce, in quella situazione, di essere «stato indirizzato al suo specifico mestiere di studioso e di insegnante essenzialmente» proprio da Gentile, del quale, «nonostante ogni odierna divergenza d'idee in taluni campi», dichiara di continuare a sentirsi «figlio spirituale»?. A sua volta, e con non minore intensità, Cesare Lu-
porini, 18 agosto 1943, scrivendo a Gentile dall’Ospedale militare di Firenze dopo gli attacchi che quest’ultimo aveva subito in seguito alla pubblicazione della sua lettera ‘privata’ al ministro Francesco Severi, fa un’affermazione sulla quale vale la pena di meditare: «Il momento che attraversiamo è veramente oscuro e tremendo»; ma — subito precisa — «noi che, direttamente o indi-
rettamente, per altre vie che avessimo prese, siamo stati suoi allievi, delle parole che spesso udimmo dalla sua bocca riteniamo solo quelle più vere e veramente sue che ci insegnarono a cre-
dere nel libero futuro degli uomini e ad operare per esso» °. Sono, l’una e l’altra, lettere — e gesti — straordinarie, che get-
tano luce su molte cose, soprattutto su quel «Gentile maestro» di cui aveva parlato in pagine assai effifaci proprio Calogero in un articolo della fine degli anni Venti”. Ma, pur provenendo da personalità non formatesi a Pisa, sono anche testimonianze stret-
tamente connesse al clima culturale (e perfino politico) pisano, di cui Gentile — erede, a sua volta, della tradizione di Donato
Jaja — è, prima e dopo, complesso e anche ambiguo punto di riferimento. Per la personalità degli interlocutori, per il tono che le connota, per l’esperienza comune, anche filosofica, cui alludono, quelle due lettere sono, e restano (mi si conceda l’espressione) documenti inconfondibilmente ‘pisani’. E di ciò va tenuto conto, per un motivo assai semplice: al di là delle polemiche municipalistiche così caratteristiche, del resto, della società to-
scana, Firenze e Pisa rappresentano per larga parte del secolo,
3 Ivi, p. 204. 6 Cfr P. SIMONCELLI, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, Milano 1994.
? G. CALOGERO, Gentile maestro, «Civiltà moderna», I, 1929, pp. 229-237.
22.
PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
sia in Italia che in Toscana, culture e stili filosofici profondamente diversi, almeno fino agli anni Sessanta. Successivamente,
anche per la crisi complessiva del modello tradizionale di università, la situazione comincia a cambiare fino a diventare, nell'insieme, del tutto diversa.
2. Pisa prima e dopo la guerra. Pisa presenta a lungo una situazione, per molti aspetti, assai
particolare, anzitutto (si è già detto) per l’influenza di Gentile. Negli anni Trenta vi insegnano Armando Carlini, al quale Gentile affida la gestione della sua ‘scuola’ (Filosofia teoretica), Guido Calogero (Storia della filosofia, ma anche Filosofia morale e Pedagogia), Enrico Chiavacci (Filosofia morale): tutte personalità legate all’attualismo nelle sue varie diramazioni. Come risulta anche dai (pochi) titoli dei corsi che è possibile rinvenire: nel °37-°38 Calogero, a Storia della filosofia, discorte di Hegel (con
particolare riferimento all’Erciclopedia), mentre a Filosofia morale si misura con «I problemi fondamentali della morale». A sua volta Carlini, a Filosofia teoretica, tiene nel ’37-’38 un corso sul
«Problema logico», nel ’38-’°39 si impegna su «Realtà e mito» (nel quale è plausibile abbia ripreso i motivi spiritualistici già svolti nel Mito del realismo, pubblicato nel ’36); infine Chiavacci, che di lì a poco sarà chiamato a Firenze, analizza i «Rapporti tra il problema morale e il problema gnoseologico» (con particolare riferimento a Spinoza). Sempre nel ’38-’39, a Storia della filosofia, Calogero tiene un corso su «La filosofia morale e lo sviluppo del problema gnoseologico». Basterebbero questi titoli — e l’impostazione fortemente teoretica che li distingue, di chiara matrice gentiliana — per misurare subito la distanza con Firenze. Ma c’è un altro elemento che contribuisce a spiegare perché a Firenze, nel complesso, il clima filosofico fosse nel complesso
meno statico, più aperto: c'era minor controllo dal punto di vista politico. Come risulta dalla lettera a Gentile del 7 novembre del 1939, Calogero aveva in animo di discorrere del pensiero contemporaneo, e precisamente del pragmatismo: «Il programma che avrei previsto per quest'anno — scrive a Gentile — è James,
con particolare riguardo alla Volontà di credere. Ho preferito alla Normale sempre ‘fonti’ del pensiero contemporaneo, o comun-
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
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que moderno, perché testi greci ne ho letti tre anni di seguito nei seminari tenuti contemporaneamente all’Università». Ma, afferrando immediatamente le implicazioni (anche) politiche del progetto, Gentile gli risponde in un modo che non ammette repliche: «Non siamo d’accordo - gli scrive —. Nelle tue esercitazioni non voglio letture di filosofi contemporanei. L'utilità del lavoro fatto coi giovani — con pochi giovani — sulle fonti antiche, greche o non greche, è immensamente superiore. E questo si chiede a te». A Pisa l'incidenza di Gentile sui suoi ‘scolari’ e sui suoi collaboratori si manifesta, dunque, a un duplice livello: sul piano delle ‘scelte’ filosofiche (e anche, su questo terreno, come con-
sapevole auto-censura nel momento della crisi e del distacco), e come controllo ‘esterno’ dei loro programmi di insegnamento, specie nella Scuola Normale, della quale egli conosce assai bene tutta l'inquietudine. Specialmente su questo secondo punto Gentile è intransigente; mentre è più aperto sul primo, pur nella netta dichiarazione del proprio dissenso — nel quadro di un sostanziale, per quanto patetnalistico, riconoscimento della libertà della ricerca che ciascuno è chiamato a svolgere. Ciò non toglie che nell’ambito della ‘scuola’ gentiliana si esprimano posizioni assai diverse, come dimostrano Giuseppe Saitta, da un lato; Armando Carlini e Augusto Guzzo, dall’altro.
Il primo, muovendosi in direzione di una interpretazione in chiave fortemente immanentistica dell’attualismo — strettamente connessa, sul piano politico, a una concezione del fascismo come ‘rivoluzione di popolo’, erede del Risorgimento e dei suoi lavori —, si contrappone frontalmente alle posizioni e agli atteggiamenti di ispirazione cattolica che specie dopo il 29 cominciano ad affiorare e ad imporsi sia nell’ambito dell’attualismo che del fascismo (come risulta con chiarezza, soprattutto, dalle battaglie ingaggiate su «Vita Nova», la rivista che Saitta dirige, alla quale collabora, con articoli assai ‘rivoluzionari’, anche il
giovane Cantimori). Mentre Carlini — affiancato in questo da Guzzo — si muove, programmaticamente, in direzione di un recupero della tradizione religiosa cattolica, suscitando le reazioni dello stesso Gentile, in occasione della pubblicazione del Mito del realismo, nel quale Carlini (come ricorda, polemicamente, proprio Gentile) svolge in chiave nettamente spirituali8 GENTILE-CALOGERO, Carteggio, cit., pp. 195-196.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
stica il suo ‘baldanzoso’ attualismo di una volta. «Lo' spiritualismo — scrive infatti polemicamente Carlini, chiarendo il senso complessivo del suo itinerario filosofico — è [...] il presupposto e il punto di partenza di ogni idealismo. Ma, poi, l'interesse dell’idealismo può arrestarsi a quel mondo stesso ch'è il mondo del positivismo, e credere che questo sia il punto d’arrivo, la meta definitiva della sua speculazione L .] E idealismo — conclude, e l'osservazione è significativa — s’è fregiato addirittura del titolo di ‘positivismo’ assoluto»?. Le differenze di ordine filosofico non intaccano comunque in alcun modo le solidarietà di carattere accademico fra il ‘maestro’ e gli ‘allievi’. E proprio Carlini che, anche in qualità di Rettore, contribuisce attivamente allo sviluppo e alla attuazione della politica accademica gentiliana. È su proposta sua, e di Guzzo, ad esempio, che nella seduta del 12 novembre del 1934 la Facoltà di Lettere e Filosofia chiama, all'unanimità, Guido Ca-
logero alla cattedra di Storia della filosofia, soddisfacendo immediatamente
quello che, come
si è visto, era un
desiderio
profondo del Maestro, per motivi sia filosofici che personali, di tipo sentimentale. È con la guerra e con la fine del fascismo che il clima, a Pisa,
muta profondamente: è allora che si squarciano i veli che avevano coperto, spesso malamente, le inquietudini che da tempo, ormai, fermentavano specie dentro la Normale. Basta, anche qui,
un solo esempio, per dare il senso di un mutamento complessivo di situazione, di atmosfera, di clima: i corsi di Filosofia della storia tenuti da Cantimori, nel ’46-°47 e nel ’47-’48, riguardano,
il primo, «Interpretazioni e studi intorno al pensiero di Marx e di Engels. 1919-1939»; il secondo «Critici e interpreti del materialismo storico dal punto di vista della storiografia». Né meno ? A. CARLINI, Il mito del realismo, Firenze 1936, p. 33. Si è citato il libro di Carlini anche per un altro motivo, che può apparire — a prima vista — sorpren-
dente e che, invece, getta luce sui caratteri della prima fortuna di Heidegger nel nostro paese: nel Mito del realismo è pubblicata la prima traduzione italiana di Was ist Metaphysik? L'unico a non stupirsene era stato Benedetto Croce, che sulla questione ebbe fin dall'inizio idee assai chiare: «Ah, quello Heidegger! — scriveva a Vossler il 10 agosto del ’33 —. Lo avevo individuato già sei anni fa, attraverso quel che me ne fecero leggere suoi scolari e ammiratori italiani; e avevo preveduto che sarebbe finito come è finito. Bisognerebbe fargli conoscere il precursore che ha avuto in Italia nel Gentile» (Carteggio Croce-Vossler 1899-1949, Bari 1951 (ultima ed. Napoli 1991), p. 340).
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
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significative sono le tesi discusse nell'immediato dopoguerra. Alberto Tenenti si laurea su Diderot; Giorgio Giorgetti su Giovanni Maria Lampredi; Claudio dla sul «Soggetto morale nell'etica kantiana» (discutendo in Normale, per il perfezionamento, «La questione del proletariato presso FE Von Baader»; «La questione operaia presso Ketteler»; «La questione dell’immortalità dell'anima in Feuerbach»); Aldo Zanardo si laurea sugli «Aspetti della formazione filosofica di Carlo Marx» (con una ‘tesina’ su Labriola, «Discorrendo di socialismo e filosofia»).
Dal punto di vista degli argomenti, si tratta di novità assai importanti, pur nel quadro di una tradizione assai precisa, testimoniata dalla presenza, sia alla Scuola Normale che all’Università, di personalità già presenti e attive a Pisa prima della guerra. Sono mutamenti evidenti, sia sul piano dell’approccio metodico che su quello della individuazione di nuovi ambiti disciplinari. Basta pensare al rilievo assunto anzitutto dal pensiero di Marx e dalla storia del marxismo nella attività di studiosi,
e di insegnanti, quali Cantimori e Luporini. A dirla in breve: è a Pisa che, nel dopoguerra, si formano alcuni dei rappresentanti più notevoli del marxismo italiano, nelle sue varie diramazioni (filosofiche, storiografiche, politiche, istituzionali...), da Giorgetti a Franco Ferri, da Zanardo a Badaloni, il quale, dopo
la breve ma intensa parentesi rappresentata da Arturo Massolo, sale sulla cattedra di Storia della filosoffa della Facoltà di Lettere e Filosofia, avviando allo studio di Marx generazioni e generazioni di studenti. Non è dunque un caso se, nel ’68, Pisa sarà uno dei centri più vivi e dinamici del movimento studentesco, sia sul piano politico che su quello teorico: è nella Facoltà di Lettere e Filosofia pisana, e presso la Scuola Normale, che si
formano sia leaders del movimento studentesco come Adriano Sofri, sia giovani destinati ad assumere, negli anni, ruoli e responsabilità centrali nel Partito Comunista Italiano — da Massimo D'Alema a Fabio Mussi. È a Pisa, infine, che nascono alcune delle riviste più importanti della ‘nuova sinistra’ — come «Nuovo impegno», ad esempio, per iniziativa di intellettuali quali Romano Luperini e Gianfranco Ciabatti. C'è, però, un tratto specifico che distingue il marxismo pisano rispetto a quello fiorentino: esso ha una più netta, marcata dimensione filosofica, almeno fino ai primi anni Sessanta. È una differenza connessa anche alla personalità dei maestri che
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lavorano nei due atenei della regione: da un lato Luporini e Badaloni; dall’altro Ernesto Ragionieri, il quale, a Firenze, pro-
muove e sviluppa studi e ricerche sul socialismo italiano, sui rapporti tra socialismo italiano e socialdemocrazia tedesca, sulla figura e l’opera di Palmiro Togliatti, formando una vera e propria scuola, tuttora assai viva e operosa nell’ambito di questi studi. Ma per spiegare questa differenza non basta rifarsi, solamente, alla diversa personalità — e sensibilità — dei maestri che insegnano nelle due Università (Luporini, del resto, da Pisa pas-
serà poi a Firenze, lasciando un’orma assai significativa): nel diverso approccio a Marx e alla storia del marxismo agisce, e si rinsalda, qualcosa di più antico e di più profondo, connesso al differente rapporto che Firenze e Pisa avevano stabilito, rispettivamente, con la filosofia da un lato, con la filologia dall’altro.
Naturalmente, sono differenze che non vanno enfatizzate al di là del necessario, costruendo quadri di maniera. Per misurare quanto sia stato profondo, a Pisa, l’intreccio tra filosofia e filologia, è sufficiente pensare alle ricerche di Nicola Badaloni,
il quale, muovendosi nella prospettiva del ‘marxismo come storicismo’, ripensa le ‘stazioni’ fondamentali della tradizione neo-idealistica italiana - da Bruno a Vico, da Campanella a Spaventa —, fino a delineare sulla base di opzioni ideologiche e politiche assai nette una storia complessiva della storia della filosofia italiana dal Rinascimento ai nostri giorni. Volutamente si è sottolineata la dimensione politica della ricerca di Badaloni, presidente per molti anni dell’Istituto Gramsci e autore di un libro dal titolo assai eloquente, Per i! comunismo !°: si tratta, infatti, di un’altra costante specifica del clima pisano, almeno
dagli anni Trenta in poi; a differenza, anche in questo caso, di Firenze, dove la componente politica (nel senso largo del termine) è meno diretta, meno esplicita, meno coinvolgente: in una parola, più mediata.
Nel dopoguerra e nei decenni successivi il clima pisano è dunque connotato da novità e mutamenti assai significativi. Ma essi non riguardano solo gli studi su Marx. E anche qui vale la pena di fare subito qualche riferimento preciso. Vittorio Sainati, titolare prima della cattedra di Filosofia morale e poi di quella di Filosofia teoretica, si ricollega, certamente, con piena con10 Torino 1972.
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
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sapevolezza alla lezione di Carlini e, in modo specifico, al «suo tentativo di superare l’antitesi ideale tra la coscienza religiosa e la cultura moderna in grazia di quella problematizzazione esistenziale del trascendentalismo kantiano, ch’è la nota individuante e
caratteristica della sua avventura speculativa» !!; ma anche procede in nuove direzioni avviando una ricerca incentrata da un lato sulla logica (colta anche nel suo versante storico), dall’altro sulla teologia. A sua volta, Luigi Scaravelli pubblica i suoi importanti contributi kantiani, dalle Lezioni sulla “Critica della ragion pura’ del 49, alle Osservazioni sulla “Critica del giudizio’ del 955 !, sforzandosi di delineare una prospettiva teorica alternativa all’attualismo. Giorgio Colli, poi, oltre a tenere interessanti corsi di storia della filosofia antica, avvia i lavori che confluiranno da
una parte nei volumi sulla ‘sapienza greca’, dall’altra nell’edizione, in collaborazione con Mazzino Montinari, dell’opera di Nietzsche . Sono tutte esperienze assai notevoli, destinate, nell’insieme, a lasciare una traccia assai netta nel clima pisano.
Ma c’è un altro importante punto di novità da sottolineare nel quadro degli studi filosofici svolti a Pisa, a cominciare dagli anni Cinquanta; e concerne gli studi di logica e di filosofia e storia della scienza. Non che, prima, fossero mancati importanti sondaggi in questa direzione: Cesare Luporini, nel 1954, pubblica un importante lavoro sulla Mente di Leonardo, assai notevole proprio per le consapevoli aperture in direzione della storia della scienza; ma — come ebbe a scrivere su «Società» Delio
Cantimori, pur elogiandolo — esso si colloca in una prospettiva teorica assai precisa: «sulla scia del pensiero marxista e dei suoi svolgimenti» 14. Con Francesco Barone, succeduto a Pisa sulla cattedra di Filosofia teoretica a Luigi Scaravelli, si comincia, in-
vece, ad avviare con successo una nuova prospettiva dando mano, in modo programmatico, a una ricerca di tipo originale ll V. SAINATI, Arzeando Carlini, Torino 1961. Di Sainati si veda anche Lo
‘spiritualismo cristiano’ e la sua formula dinastica: Carlini-Guzzo-Sciacca, «Giornale di metafisica», X, 1955, pp. 248-282.
!? Cfr per questo L. SCARAVELLI, Scritti Rantiani, Firenze 1973 (si tratta di corsi tenuti originariamente a Roma).
13 Preziose notizie sull’attività di Colli si trovano in G. CAMPIONI, Leggere Nietzsche. Alle origini dell'edizione critica Colli-Montinari, Pisa 1992.
4 D. CANTIMORI, La mente di Leonardo di Cesare Luporini, in ID., Studi di storia, cit., pp. 399-407.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
la quale, pur tenendo fermo il significato e l’importanza della logica trascendentale, mette in primo piano la logica formale modernamente intesa. Del resto, quando arriva a Pisa (nell’anno accademico 1957-58), Barone — assai legato, oltre che a Guzzo, del quale era stato scolaro diretto, a Ludovico Geymonat —, aveva già scritto saggi su Reichenbach, Wittgenstein, Carnap, Morris, Schlick e, soprattutto, aveva dato alle stampe un libro complessivo sul neopositivismo logico, uscito in prima edizione nel 1953 ”. Qualunque sia il giudizio che si voglia dare, ora, su questi lavori, essi, a Pisa, introducono significativi elementi di novità sia in Facoltà che alla Scuola Normale, nella
quale Barone, per alcuni anni, insegna per incarico, dopo avervi tenuto nel 1964 due seminari su «Alcuni esempi di familiarità delle ricerche logiche e matematiche».
A Firenze, invece, su
questo terreno le cose procedono con più lentezza — nonostante la presenza di una figura eccezionale come Giulio Preti — per una serie di motivi su cui più avanti ci fermeremo, a comincia-
re dalla presenza di una humus assai caratteristica in cui, fin dalla fine dell'Ottocento, si inseriscono gli studi filosofici svolti
nel capoluogo regionale. 3. Kantismo e tradizione storico-filologica. Parlare di climi, di ambienti, di stili filosofici ha senso solamente se si lavora su un ampio arco di tempo, individuando autori, testi, culture (nel senso più ampio del termine) che hanno lungamente pesato in una situazione delineando modi di pensare e di lavorare, vere e proprie sensibilità storiografiche — delle ‘mode’ addirittura (come Croce sapeva assai bene) — che sono
poi passati da una generazione all’altra, con alcune costanti di fondo. Se questo è vero, è possibile individuare con sufficiente chiarezza la figura che a Firenze è riuscita a costituire una ‘tradizione’, che con varianti, arricchimenti e anche trasformazioni
è durata lungamente, caratterizzando anche il nostro secolo. Si tratta, naturalmente, di Felice Tocco, «forse il maggiore storico della filosofia che l’Italia abbia avuto in questo secolo», come ha scritto una volta — ed è un riconoscimento sintomatico, per en> F. BARONE, I/ neopositivismo logico, Torino 1953 (la seconda edizione, «riveduta, ampliata e aggiornata», appare presso Laterza nel 1977).
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
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trambi — Eugenio Garin !°, Se si guarda al lavoro di Tocco, balzano immediatamente all’occhio due cose: una forte attenzione per Kant, analizzato in una importante serie di saggi, e una concezione del lavoro storico-filosofico che ha molto a che fare con una determinata interpretazione di Kant e del kantismo, dal tono fortemente anti-idealistico. Per Tocco infatti — ed è qui che sono specialmente evidenti le profonde radici da lui gettate nella humus culturale fiorentina — la storia della filosofia «deve fare i conti con i ‘fatti’, con i documenti, in uno scambio inces-
sante fra storia della filosofia e storia della cultura», nel quadro di una prospettiva teorica e storiografica per la quale «il dato fenomenico rappresenta il limite su cui si confronta e verifica la dimensione speculativa» !. Contro questa impostazione aveva fin dall’inizio polemizzato Gentile, che pure di Tocco era stato scolaro all'Istituto di Studi Superiori di Firenze, ritenendola estrinseca e del tutto inadeguata per formulare una qualunque valutazione storiografica: «se la filologia considera i testi come fatti, ebbene ‘pensieri’ (o atti spirituali, in genere: poesie, miti, credenze religiose, norme giuridiche, ecc.) che siano fatti non ce ne sono». Né Gentile si era limitato a considerazioni di ordine generale; nel merito, non trovava persuasivi i contributi offerti
da Tocco agli studi su Bruno: «a furia di istituire riscontri ed indagare fonti», Tocco cancella «differenze essenziali [...] stroz-
zando perciò l’unità del pensiero bruniano dal De Umbris ai poemi latini» !5. Comunque, al di là delle valutazioni particolari su testi o autori è assai chiaro il nesso esistente fra quelle opposte concezioni del lavoro storico-filosofico (compreso il rapporto tra filosofia e filologia) e le interpretazioni antitetiche che Tocco e Gentile offrono del pensiero di Kant, a cominciare dalla concezione dei rapporti fra noumeno e fenomeno (per riprendere il titolo di un famoso articolo dello storico meridionale) !?. Proprio nella discussione intorno a Kant — e, in primo luogo, nella 16 GARIN, La cultura italiana tra "800 e ‘900, cit., p. 67. !7 F Tocco, Fenomeni e noumeni, «Rivista filosofica delle scuole italiane», 1881, poi in ID., Studi kantiani, Milano-Palermo-Napoli 1909. 18 G. GENTILE, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, introduzione di E. GARIN, Firenze 1991, pp. 125, 139.
19 Cfr supra, nota 17.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
opposta interpretazione della sintesi a priori — maturano prospettive di lavoro nettamente antagonistiche. «La teorica che più s’oppone all’idealismo assoluto è senza dubbio quella del noumeno, che pone un limite all’attività costruttiva dello spirito», osservava significativamente Tocco: per questo motivo, il nome d’idealismo «è male applicato alla teoria kantiana, e peggio ancora se vi sia aggiunga la misteriosa parola trascendenta-
le, adoperata nella prima edizione» 20, Questa impostazione, nella quale temi neokantiani si intrecciano con motivi di matrice positivistica, si impone sul lungo periodo a Firenze, sfociando in uno stile storiografico caratterizzato dallo studio dei testi e delle fonti, degli inediti, dall’ana-
lisi dei rapporti fra produzione latina e produzione volgare degli autori studiati; in breve, del rapporto tra filologia e filosofia. Ciò risulta chiaro proprio dal contributo dello stesso Tocco all'edizione nazionale delle opere latine di Bruno in un impegno quotidiano di lavoro con Girolamo Vitelli, al quale è dedicata la grande monografia del 1889 Le opere latine di Bruno confrontate con quelle italiane *!. Né va dimenticato il nucleo filosofico che sta a base di questa impostazione, imperniata su un consa-
pevole rapporto fra «scienze positive» e «scienze speculative». Come alle scienze positive è necessaria la teoria e la deduzione
per raggiungere quell’alto valore a cui aspirano, così le scienze speculative hanno bisogno dell’induzione per sottrarsi a quell’aridità, a quella vuotezza, a quell’arbitrio di cui abbiamo toccato fin dal principio. L'opposizione adunque tra scienze naturali e filosofia della
natura deve cessare. E se questo — scrive Tocco — è il significato del naturalismo dei positivisti, noi non possiamo non accettarlo ??.
Filologia e storia, filologia e filosofia: per buona parte del secolo, anche dopo il magistero di Vitelli, Firenze ha continuato a essere, nel nostro paese, uno dei centri fondamentali della filologia sia classica che moderna — da Giorgio Pasquali a Gianfranco Contini, per limitarsi a fare solo il nome di due studiosi
2° Su tutto questo è prezioso il lavoro di S. BASSI, I/ sogno di Ezechiele. Felice Tocco e Giovanni Gentile interpreti di Bruno, Roma 2001.
21 Firenze 1889. 2 F. Tocco, Studi sul positivismo, «Rivista contemporanea», PE2DE
XVII, 1869,
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
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capaci, entrambi, di mantenere rapporti vivissimi con l’ambiente dei filosofi. Basta pensare, del resto, al peso che hanno avuto
i saggi di Pasquali su Aby Warburg, sull’«arte allusiva» o sul «Medioevo bizantino», o quello di Contini su Croce, per com-
prendere un intreccio che è stato vitale per Firenze ??. Quella che si è poi è chiamata «filosofia come sapere storico» viene, a ben vedere, da molto lontano. Ma proprio pensando a un libro ‘programmatico’ come quello scritto da Garin 24 è difficile non fare il nome di un altro maestro che ha contribuito fortemente a delineare il clima filosofico fiorentino: quello di Ludovico Limentani. Laureatosi nella Padova di Giovanni Marchesini e di Roberto Ardigò, Limentani era stato chiamato nel 1921 a insegnare Filosofia morale presso l’Istituto di Studi Superiori, avviando un lavoro che, pur innestandosi felicemente nella vita
accademica della città, opera importanti innovazioni anch'esse destinate a durare. Nell'ambito delle interpretazioni kantiane Limentani valorizza fortemente il formalismo in ambito etico, in
un colloquio assai penetrante con alcuni dei principali esponenti della filosofia tedesca contemporanea - da Simmel, di cui
legge con attenzione l’Esn/eitung in die Moralwissenshaft, a Dilthey, con il quale si misura fin dal 1905, studiandone alcuni testi fondamentali. Sul piano della ricerca storico-filosofica (e anche su quello dell’ insegnamento), estende il campo d’indagine in direzione sia dell’illuminismo francese sia, soprattutto, di
quello inglese, dedicando particolare attenzione alla «morale della simpatia», per riprendere il titolo della monografia dedicata nel 1914 ad Adam Smith ”, oltre a favorire l’interesse per il pensiero francese e americano contemporaneo,
da Friedrich
Rauh a Josiah Royce, del quale apprezza, in modo particolare, il principio della «fedeltà alla fedeltà». Al tempo stesso, nel solco della tradizione del positivismo sia padovano che fiorentino, Limentani mantiene stretti rapporti con i maggiori esponenti della ‘filosofia scientifica’ in Italia, da Mario Calderoni a 23 G. PASQUALI, Aby Warburg, in ID., Pagine stravaganti di un filologo, a cura di C. F. Russo, Firenze 1994, I, pp. 40-54; Ib., Arte allusiva e Medioevo bizanti-
no, ivi, II, pp. 275-282, 341-370; G. CONTINI, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino 1972.
24 La filosofia come sapere storico, cit. 2 L. LIMENTANI, La morale della simpatia: saggio sopra l'etica di Adamo Smith nella storia del pensiero inglese, Genova 1914.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
Giovanni Vailati, distinguendo sempre fra ‘positivismo come metodo’ e ‘positivismo come concezione del mondo”. Infine ripropone in modo programmatico, ma con una inedita apertura
verso il mondo inglese, lo studio del Rinascimento italiano e in modo particolare di Giordano Bruno, al quale dedica nel 1921 la sua ‘prolusione’ 26, ponendo il problema del rapporto fra Rinascimento italiano
e mondo moderno, mettendolo a fuoco in
una duplice direzione: da un lato Spinoza, dall’altro l’illuminismo, anzi i moralisti inglesi del Settecento ””.
Dei saggi bruniani di Limentani — inclusa la fondamentale monografia del ’24 — si è quasi perso il ricordo, ed è un peccato. Si tratta di lavori originali nei quali si rivela la migliore eredità della ‘scuola storica’, messa a frutto in un’analisi dei testi,
delle fonti, degli Frances A. Yates degli anni Trenta. notevole sia come
studi critici più recenti, compresi quelli che comincerà a pubblicare nella seconda metà Non si mette però a fuoco il suo tratto più studioso che come professore, né si intendo-
no le ragioni di una presenza tanto intensa quanto discreta, se ci si limita a questo. Mentre Tocco, nei suoi lavori sull’eresia
medievale, riteneva di poter ricondurre nell’alveo della filosofia anche l’esperienza religiosa (attirandosi più tardi, proprio per questo, le critiche di Cantimori), Limentani si muove in tutt’al-
tra direzione, spingendosi consapevolmente in zone di confine — tra sociologia, diritto, economia — e operando un significativo allargamento di quello che era anche a Firenze il terreno dell'indagine storico-filosofica tradizionalmente intesa. Muovendo da una formazione positivistica Limentani rimette a fuoco il concetto di storia della filosofia, situandosi in un orizzonte di
carattere europeo, con proiezioni anche nell’ambito della filosofia contemporanea: nel ’33-’34 si sofferma sul Corso difilosofia positiva di Comte, e sul problema dei rapporti tra scienza e fede; nel ’34-’35 sulla filosofia di Feuerbach e sulla relazione tra
vita individuale e vita sociale; nel ’35-’36 sulla filosofia tedesca da Feuerbach e Nietzsche (in sintonia, si potrebbe osservare,
con le coeve indagini di Karl Lowith) e sull'idea e sul sentimento di responsabilità; nel ’36-°37 sulla morale dell’Illuminismo in Inghilterra, Francia, Italia e Germania e sulla que26 L. LIMENTANI, La morale di Giordano Bruno, Torino 1922.
2? Cfr E. GARIN, Ludovico Limentani: il pluralismo etico e una discussione di Ernesto Rignano, Bari 1983, pp. 235-254.
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
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stione delle valutazioni economiche e delle valutazioni etiche;
nel ’37-’38 sul pragmatismo, sulle utopie, sulla Repubblica di Platone. È, questo, il suo ultimo corso, prima dell’estromissio-
ne dall’università per motivi razziali. «Fu Limentani — ha detto un suo allievo fedele — che nelle lezioni, nelle conversazioni e
nei libri, e poi in un’amicizia durata fino alla sua scomparsa nel °40, nell’amarezza della campagna razziale mi dette il senso di un modo di fare filosofia e di affrontarne la storia, al cui spirito ho cercato di mantenermi fedele» 28, Effettivamente uno de’ miei migliori scolari, l’anno scorso mio assistente — aveva scritto, a sua volta, Limentani alla Yates, il 23 gennaio
del 1939, a proposito di Eugenio Garin —: ho desiderato io stesso che mi succedesse
come
incaricato
sulla cattedra
di Filosofia
morale,
quando la ho dovuta lasciare per motivi razziali: il suo libro su Pico è davvero eccellente, certo il migliore tra i parecchi che in questi ultimi anni sono stati pubblicati sull'argomento. Ma anche il Garin — precisa Limentani — ha incominciato, sotto la mia guida, con lavori sopra
la filosofia inglese (Butler, Clarke, Mandeville, Burke, ecc.) ??.
Neé l’allievo, bisogna aggiungere, ha mai dimenticato il debito contratto 7°, Da Limentani Garin ha dichiarato costantemente di aver imparato alcune cose importanti, poi diventate parte della tradizione fiorentina: che la problematica filosofica non passa solo attraverso i libri canonici di filosofia; che se si studia filoso-
fia morale, è bene leggere Balzac, Flaubert, Tolstoj; che c’è più filosofia della storia in Guerra e Pace che in un trattato filosofico...
4. La filosofia come ‘sapere storico’: la ricerca di Garin. Da quanto si è detto emergono con chiarezza, se non mi in-
ganno, radici vicine e lontane di una posizione come quella di Garin, certo la personalità che nel nostro secolo ha contribuito 28 GARIN, Sessanta anni dopo, cit., p. 128. 29 Cfr S. Bassi, Bruzo secondo Bruno: le ricerche di Ludovico Limentani, «Rivista di storia della filosofia», L, 1995, pp: 617-644. 30 Cfr E. GARIN, L'età nuova. Ricerche di storia della cultura dal XII al XVI
secolo, Napoli 1969, p. 10: «Questo libro esce esattamente quarant'anni dopo la laurea del suo autore; il clima culturale italiano di allora sembra, oggi, remotissi-
mo, e tale da dover pesare irrimediabilmente su chi iniziava in quel momento gli studi. Eppure se una importanza anche minima ha avuto il mio lavoro, sento di doverlo proprio a quella scuola universitaria fiorentina, al professore con cui mi laureai e il cui ricordo negli anni è rimasto sempre ugualmente caro».
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
più di ogni altro a definire i caratteri della cultura filosofica fiorentina. Non sorprenderà, ad esempio, riscontrare il peso che nella sua formazione e nel suo lavoro hanno avuto Kant e Hume, oggetto, quest’ultimo, del suo primo corso universitario, nel ’35-’36, come titolare dell’insegnamento di Filosofia teoretica: «Il problema del soggetto. David Hume, Trattato sulla natura umana» (mentre a Kant, nell’anno accademico ’38-’39, sono dedicati addirittura due corsi). Kant e Hume stanno, l’uno e l’altro, al centro di una ricerca concentrata fin dall’inizio nella
messa a fuoco di un concetto di ragione imperniato nell’individuazione del limite che, in modo insuperabile, la definisce e la
struttura. ‘Limite’ anzitutto come consapevolezza della alterità del passato, della sua strutturale irriducibilità — proprio perché ‘altro’ e ‘altro da noi’ — a filosofie della storia di carattere provvidenzialistico. ‘Limite’, di conseguenza, come coscienza della pluralità dei concetti di filosofia, delle filosofie, della moltepli-
cità dei livelli e dei percorsi presenti all’interno di uno stesso filosofo. Si tratta di una costante della ricerca di Garin, pronta a riaffiorare nei momenti cruciali della sua attività. Anche nei saggi confluiti nella Filosofia come sapere storico, così come nel coevo interesse per il neo-illumuinismo e il neo-razionalismo, è difficile non vedere in azione, pur rielaborata e ravvivata, la le-
zione di Hume e di Kant, che aveva appreso a Firenze negli anni della sua formazione filosofica. Nella polemica contro la storiografia (e la metafisica) idealistica che segna a fondo quel lavoro agisce proprio quel positivismo metodologico che, appreso alla scuola di Limentani, resta sempre la sorgente più o
meno segreta, più o meno esplicita, del lavoro di Garin e, in modo specifico, della concezione della storia della filosofia che,
a metà degli anni Cinquanta, egli oppone a Giulio Preti e a Enzo Paci: storia della filosofia «come sforzo di portare alla luce i procedimenti autentici, e quindi il senso di un pensatore, analizzando sul serio — sui documenti — i suoi tentativi, i suoi svi-
luppi, le sue contraddizioni, le varie sue risposte alle domande che emergevano nella situazione in cui si muoveva» 3!. Per quanto possa apparire paradossale, alla base di quella che è stata una delle maggiori versioni dello storicismo post-idealistico vi sono temi che risalgono da un lato al neo-kantismo, dal?1 GARIN, Sessanta anni dopo, cit., p. 152.
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
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l’altro al positivismo metodologico, cioè ad aspetti tipici della cultura filosofica fiorentina — da Tocco a Limentani. Questo non significa che Garin non abbia intrattenuto rapporti con Croce e, soprattutto, con Gentile, o che egli si sia
limitato semplicemente a riprendere temi e motivi della sua formazione filosofica giovanile. Per quanto riguarda il primo punto, la frequentazione del pensiero di Croce ha agito, sul piano teorico, proprio sul terreno di una concezione della filosofia — e della storia della filosofia — imperniata nella distruzione della figura del ‘filosofo’, degli ‘eterni problemi’, del concetto tradizionale di ‘sistema’, inserendosi nell’ambito di una più generale polemica anti-metafisica (del resto, già Calogero aveva parlato nel 1930, a proposito di Croce, di «positivismo assoluto», di «tramonto definitivo dei vecchi grandi problemi dell’essere e del conoscere, di fronte alla nuova e universale con-
cezione dello spirito, e cioè del mondo come assoluto fare» ’*). Mentre il rapporto con Gentile è stato decisivo, anzitutto, nello sviluppo degli studi rinascimentali, a cominciare dall’interpretazione della filologia umanistica come ‘nuova filosofia’, in diretta polemica con altre interpretazioni dell'Umanesimo, anzitutto con quella di Kristeller. E poi, specialmente nell’ultimo decennio, anche su un piano più ampio e complesso, come ri-
sulta chiaro dall’attenzione rivolta da Garîn, all’inizio degli anni Novanta, agli scritti teorici di Gentile, situati in un quadro critico di carattere europeo teso, consapevolmente, a mettersi alle
spalle interpretazioni in chiave più direttamente ideologica proposte da lui stesso in altri lavori: [...] attraverso Gentile — scrive Garin nel 1991 — la cultura italiana sperimentò in forme proprie ed originali la crisi profonda del pensiero europeo tra Ottocento e Novecento [...] La sperimentò con i limiti propri della tradizione nazionale [...] Ciò non toglie che sul piano del pensiero filosofico l’Italia si aprì molto presto, e più di altri grandi paesi europei, ad Hegel, e proprio con Gentile (e con Antonio Labriola) a cogliere l’importanza del nesso Hegel-Marx e della ‘filosofia della prassi’. Così pure l’Italia visse intensamente la crisi fra un secolo e l’altro, e sul terreno del pensiero proprio il confronto con la filosofia dell’atto, con i suoi risvolti religiosi, aiutò
a comprendere valore e limiti del pragmatismo. Così quando Croce accu32 G. CALOGERO, I/ carattere della filosofia crociana, in G. CALOGERO-D. PETRINI, Studi crociani, Rieti 1930, pp. 11 e 13.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
sò Gentile di liquidare con l’attualismo la filosofia colse sì nel segno, anche se non aggiunse che era una ‘traduzione’ della filosofia della praxis che faceva giustizia di tradizioni ‘scolastiche’ [...]??.
Affermazioni, tutte queste, sintomatiche — e perciò si cita-
no — di un visibile spostamento d’accento nei confronti delle Cronache di filosofia italiana, in cui è netta la scelta a favore di Croce, e nelle quali è, di conseguenza,
svolto in modo
assai
diverso il motivo delle vie di accesso nella cultura nazionale italiana di Hegel, di Marx, e della filosofia della prassi nella sua complessità — con una complessiva ridefinizione, ed è il punto da sottolineare, sia del ruolo di Croce che di quello di Gentile e Labriola. Il volume delle Opere filosofiche pubblicato nel 1991 è assai interessante anche per i testi di Gentile che Garin sceglie di antologizzare: dentro La filosofia di Marx, La riforma della dialettica hegeliana e la rinascita dell’idealismo, La teoria generale dello spirito come atto puro; fuori il Sisterza di logica come teoria del conoscere,
La filosofia dell’arte,
Genesi
e struttura
della
società. Alla base di questa scelta — e della periodizzazione che essa presuppone — ci sono due convincimenti precisi, su cui
Garin ha battuto a più riprese. Anzitutto, a suo giudizio, non c'è alcun rapporto organico tra fascismo e filosofia dell’atto. In secondo luogo — ed è questa tesi che l’antologia dei testi esprime in modo assai netto — con l’avvento del fascismo, e l’inizio degli anni Trenta, si conclude, secondo Garin, la fase creativa
della filosofia gentiliana. A loro volta queste valutazioni scaturiscono da una serie di considerazioni di più ampia portata. In
prima istanza, da una rimessa in questione del nesso filosofiapolitica come chiave di accesso fondamentale alla storia del pensiero e della cultura, con la presa d’atto, assai lucida e consapevole, della fine dell’epoca storica che in questo rapporto — e attraverso di esso — si era identificata. Dall’affiorare poi, su questo sfondo, di un interesse più chiaro e più marcato per una problematica di carattere spiccatamente filosofico, addirittura di tipo metafisico (sia pure di una metafisica particolare quale ad esempio quella rappresentata dalle filosofie della storia di ma? E. GARIN, Introduzione di E. GARIN, Milano
a G. GENTILE, Opere filosofiche, antologia a cura
1991, pp. 79-80.
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
DI
trice araba e rinascimentale, con tutto ciò che esse comportano sul piano della concezione delle idee di ‘decadenza’ e di ‘progresso’). Infine, da una problematizzazione delle posizioni sostenute nella Filosofia come sapere storico e, in modo particolare, da una presa di distanza dagli esiti di carattere più marcatamente erudito che ne erano scaturiti. È da un complesso insieme di motivi che scaturisce, dunque, all’inizio degli anni Novanta, la ridefinizione del quadro interpretativo — di matrice crociana da un lato, gramsciana dall’altro — delineato sia nelle
Cronache di filosofia italiana sia in altre lavori dedicati alla filosofia contemporanea italiana, a cominciare da un’opera come Intellettuali italiani del XX secolo. Nella sovracoperta di questo libro, uscito nel 1975, l’una a fianco all’altra erano state pubblicate le riproduzioni delle copertine della «Critica» e dell’«Ordine Nuovo», ad indicare che queste riviste — ed i loro direttori — erano le figure centrali, e dominanti, della cultura italiana del Novecento. È questo quadro che ora cambia, con un riconoscimento sempre più netto della funzione del pensiero e dell’opera di Gentile, il quale, pro-
gressivamente — ma in modo via via più intenso — si viene ad
affiancare alle figure di Croce e di Gramsci come personalità dominante della cultura filosofica del Novecento italiano ed europeo. All’origine di questo spostamento d’accento c’era, sicuramente, una presa di distanza da quelle che erano state le linee di fondo della storiografia filosofica dell’antifascismo, dalla quale peraltro Garin aveva cominciato a distaccarsi già nel saggio Apogeo e crisi dell’idealismo, sostenendo che la crisi del neoidealismo italiano si era prodotta con il ’68, non con il ’45: con una consapevole disgiunzione — ed anche questa era una novità - dei tempi della crisi politica da quelli della crisi culturale e filosofica. Ne discendeva, di conseguenza, una nuova periodizzazione della filosofia italiana del Novecento, che riducendo
peso e significato della rottura bellica e dell'avvento della Repubblica apriva la strada a quello che sarà un tema fondamentale della storiografia filosofica del ‘postfascismo’, consentendo
una considerazione più ricca e più aperta di Gentile ‘tilosofo europeo’ (per riprendere il titolo di un libro di Natoli, al quale, del resto, Garin fa riferimento in modo esplicito 4): sulla base 24 Ivi, p. 79, nota 83.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
- va notato anche questo — della critica, anzi del rifiuto più netto che mai del cosiddetto ‘provincialismo’ del pensiero italiano del Novecento; tesi, questa, contro cui del resto Garin si
era sempre battuto. Alla radice della ‘riscoperta’ di Gentile nell’ultimo decennio c’è dunque un complesso di motivi, fra i quali è da ricordare anche l’atteggiamento assai critico assunto da Garin nei confronti di quelle che gli sembravano riedizioni di antiquate posizioni di matrice scientista e positivistica contro
cui proprio Gentile, a suo tempo, si era battuto con più vigore. Non per nulla nelle prime pagine del volume garzantiano dedicato ai principali scritti filosofici gentiliani, si fa riferimento a Ferdinand Brunetière e al suo libro sulla Bancarotta della scienza, indicando subito una linea interpretativa assai precisa. Infine, in questa rinnovata attenzione a ‘Gentile filosofo’ può aver giocato l’attenzione persistente di Garin nei confronti delle ‘filosofie della vita” affermatesi nel primo Novecento, sia in Germania che in Francia e in Italia. Comunque
sia, è significativo
che la parabola filosofica di Garin si concluda con un’attenzione specifica per ‘Gentile filosofo’: ma più che di una esplosione improvvisa è giusto parlare di una lunga, e complessa, fedeltà. E rivelatore, tra l’altro, il suo rapporto con il «Giornale
critico della filosofia italiana», al quale collabora in modo intenso lungo tutti gli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta, fino ad assumerne la direzione alla morte di Ugo Spirito, con cui, per moltissimi anni, tiene un carteggio di notevo-
lissimo rilievo per lo studio della cultura filosofica italiana dal dopoguerra in poi. Il tema della ‘tradizione nazionale’ — cui si fa riferimento anche nei testi sopra citati — è, in effetti, centrale in Garin, e in-
cide a fondo nel suo lavoro di storico della filosofia. Si tratta di un tratto originale della cultura italiana rispetto ad altre culture nazionali, almeno a partire dai ‘neoguelfi’ (se non si vuol fare, direttamente, il nome di Machiavelli e di Guicciardini). Ma in
Garin, fin dall’antologia di testi rinascimentali pubblicata nel 1941 con il titolo I/ Rinascimento italiano, questo nesso, poi rinsaldato dalla lezione di Gramsci e dei Quaderni del carcere, assume valore centrale ex parte objecti, e anche — verrebbe da
sottolineare — ex parte subjecti. > E. GARIN, I/ Rinascimento italiano, Milano 1941.
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
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Sul primo aspetto è sufficiente pensare al valore esemplare che nelle sue pagine ha assunto la figura di Pasquale Villari, o al saggi critici dedicati ai ‘professori socialisti’, da Gaetano Salvemini a Rodolfo Mondolfo, da Ranuccio Bianchi Bandinelli a
Ernesto Ragionieri: saggi nei quali si presenta, in chiave (anche) autobiografica, una concezione dell’intellettuale che, pur spez-
zando i confini in cui Croce aveva serrato la pratica dei «savi», non si risolve mai nell’‘organicità’ di partito, tipica della tradizione comunista. Su questo Garin ha marcato la sua differenza di orientamento; al tempo stesso — e sta qui la nota individuante della sua posizione — ha però sottolineato costantemente il carattere ‘politico’ di tutto il suo lavoro — dagli scritti sull’‘umanesimo civile’ ai lavori sulla filosofia contemporanea, a cominciare dalle Cronache di filosofia italiana, certo il lavoro più impegnativo da lui scritto in questo campo ’°. E sintomatico che
il libro sia concluso da una citazione di Gramsci, relativa al rapporto tra storia e storia della filosofia, e alla concezione della filosofia: è, di per sé, una ‘spia’ importante. Ma il debito di Garin nei confronti di Gramsci è assai più largo e profondo, come egli ha costantemente riconosciuto, anche in un testo esplicitamen-
te metodologico e programmatico quale la Filosofia come sapere storico, concluso proprio dalla relazione tenuta da Garin su Antonio Gramsci e la cultura italiana a Roma, nel 1958, in
occasione del primo Convegno di studi gramsciani?”. Colpito, assai profondamente, dalla figura e dall’opera di Gramsci fin dalla pubblicazione, nel 1947, delle Lettere dal carcere cui dedicò subito una nota su «Leonardo» ’5, Garin
s'incontra con la posizione gramsciana su alcuni punti essenziali: la concezione civile e politica del lavoro intellettuale; il convincimento della ‘impossibile separazione’ tra politica e cultura; la persuasione che le idee vanno considerate — e giudicate — nei loro rapporti reali (‘incestuosi’, direbbe Garin), non quali astratti prodotti del pesiero; la visione terrestre, mondana, con36 E. GARIN, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari 1955.
>? Cfr il cap. precedente, nota 20. Garin parteciperà in seguito come relatore anche al convegno «Gramsci e la cultura contemporanea» del ’67 con la relazione Politica e cultura in Gramsci (il problema degli intellettuali), ora in Gramsci e la cultura contemporanea, Atti del Convegno internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967, a cura di P. Rossi, Roma 1969, I, pp. 37-74.
38 E. GARIN, Le lettere di Gramsci, «Leonardo», XVI, 1947, pp. 245-246.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
creta dello storicismo, frontalmente contrapposta alla tradizione storicistica di matrice neo-idealistica; l’interpretazione dei momenti — e delle figure — essenziali della storia contemporanea italiana... Si tratta, come si vede, di una convergenza culturalmente importante; ma a metà degli anni Cinquanta, per l’autore che coinvolge e i temi che tocca, essa travalica il campo specifico della ‘cultura’, sviluppandosi in termini nettamente ideologici e politici. Del significato e della importanza di questa convergenza — e di ciò che essa poteva significare ai fini dello sviluppo della politica del PCI fra gli intellettuali italiani — il primo a rendersi conto fu proprio Togliatti, il quale alle Cronache, e al rilievo da esse dato alla ‘lezione’ di Gramsci, de-
dicò una recensione assai importante, anche dal punto di vista della ‘funzione’ di Garin nella cultura italiana: fino a quel momento era stato un autorevole professore dell’università, specializzato
nello studio
dell’Umanesimo
e del Rinascimento;
dopo le Cronache — e dopo quella recensione — diventa una personalità di primo piano della vita culturale e politica italiana nella sua complessità ?? A differenza degli studi sulla filosofia italiana del Novecento, da Gramsci Garin è, invece, assai lontano nella interpreta-
zione dell’Umanesimo e del Rinascimento, anche per il peso che, su questi punti, la tradizione desanctisiana aveva continuato ad avere nei Quaderni del carcere. Occorre però distinguere tra giudizi di merito e prospettive metodiche e programmatiche. Rispondendo, nel dicembre 1957, a un giovane collega che gli aveva segnalato quelle che a suo giudizio erano alcune lacune delle Cronache difilosofia italiana, Garin se ne esce in una serie
. di battute — intrise d’ironia — che dicono molto sulla coscienza che egli aveva di questo aspetto del suo lavoro (e anche dei limiti che ad esso erano intimamente collegati): La verità è che, a voler esser sinceri, è la premessa da cui parte che non regge: non si tratta di un ‘bel libro’. È un libro parziale, tendenzioso, ineguale, volutamente privo di equilibrio — in fondo, diciamo la parola, un lungo ‘pamphlet’. Nelle zone in cui mi picco, forse
a torto anche lì, di far lavoro da storico, non mi perdonerei mai pagine del genere. Ma quando si scende a fare alle sassate per strada, allora si fa diverso. 39 Cfr il cap. precedente, nota 19.
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4l
E così continua:
Il giorno in cui Le venisse la malinconia di indagare qualche aspetto della storia della cultura fra le «età buie» e la «retorica» umanistica — per usare i termini del caro amico Preti — allora, forse, potrà
trovare qualche utile indicazione erudita nelle mie ricerche. Non altro, creda. A me, e a pochi altri come me, è capitato in sorte di capire, quando era troppo tardi, di avere sbagliato tutto, e allora non siamo troppo pietosi verso i coetanei — o quasi — che continuano nei loro tri-
sti amori, così come non sentiamo alcuna gratitudine per i padri 9,
Dicendo questo —- e sottolineando la differenza tra le sue ricerche sull’Umanesimo e quelle sulla cultura italiana tra Otto e Novecento — Garin aveva però ragione e torto, al tempo stesso:
dal punto di vista politico le sue ricerche sull’Umanesimo e sul Rinascimento sono, infatti, tutt'altro che neutre; anzi, riflettono,
talvolta in modo immediato, i mutamenti politici e ideologici del tempo storico in cui nascono e si sviluppano. E qui può valere la pena di dire qualcosa sul peso che sul suo lavoro di storico ha avuto la svolta politica degli anni Sessanta. Su un punto, infatti, non c'è dubbio: uno spostamento assai
netto, in quel periodo, c’è stato nel lavoro di Garin. Certo, bisogna sempre evitare forzature e parallelismi fuorvianti, ma basta mettere a confronto le pagine Di alcuni aspetti della filosofia italiana dopo la guerra del 19564! o # saggi raccolti in Scienza e vita civile del Rinascimento del 1965 *, con le pagine su Leon Battista Alberti del 1972 # e gli studi raccolti in Rirascite e rivoluzioni del 1975 o nello Zodiaco della vita del 197644, per avere il senso di questo spostamento. Sono lavori che ruotano tutti intorno a quello che è, fin dall’inizio, il problema storico di Garin: vale a dire ‘la genesi e i caratteri del mondo moderno’ (per riprendere una espressione utilizzata da Werner Kaegi a 4° La lettera è indirizzata a Paolo Facchi, che gentilmente me ne ha dato «notizia.
4! cultura 42 4
Il saggio, uscito su «Il Ponte», XII, 1956, pp. 793-805 è ora in GARIN, La italiana tra ’800 e ‘900, cit., pp. 211-228. ‘Bari1965. Il saggio, uscito su «Belfagor», XXVII, 1972, pp. 501-521, è ora in Rira-
scite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari
pp. 133-160. 44 Roma-Bari 1976.
1975,
42
PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
proposito di Burckhardt). Ma, a distanza di pochi anni, quel problema è trattato in modo assai diverso, come appare chiaro in primo luogo dal peso e dal rilievo che nell’indagine di Garin assumono, progressivamente, le problematiche connesse alla
magia e all’astrologia. L'attenzione per questi temi è antica: risale, in effetti, alla
metà degli anni Trenta, e si dispiega interamente nei saggi pubblicati lungo gli anni Cinquanta. Magza e astrologia nella cultura del Rinascimento è del 1950, ed è coevo al saggio Interpretazioni del Rinascimento * in cui è centrale l’interrogativo sulle «linee orientatrici della nostra cultura», alla luce del trauma
della guerra; le Considerazioni sulla magia nel Rinascimento sono del 1953; le Note sull’ermetismo del 1955 (lo stesso anno
per intenderci in cui esce anche Politica e cultura di Norberto Bobbio). Ma se l'interesse per questi aspetti ‘sommersi’ dell’Umanesimo e del Rinascimento viene da lontano, ciò che alla
svolta tra gli anni Sessanta e Settanta comincia a mutare è, da un lato, l’interpretazione della funzione di queste correnti nella costituzione del mondo moderno nella sua complessità; dall’altro — e conseguentemente — la valutazione del significato e del valore dell’Umanesimo civile: Alle origini — scrive in un saggio del 1973, polemizzando tra l’altro con Franco Simone — non si incontra in nessun caso la consape-
volezza critica di un processo in atto: la famosa coscienza della rinascita.
Si trova,
variamente
modulata,
la denuncia
di una
crisi
profonda: la ribellione — o il tentativo di ribellione — contro una situazione culturale insostenibile 45.
Per chi conosce L'urzanesimo italiano o i saggi degli anni Cinquanta, lo spostamento d’accento non potrebbe essere più
® Magia e astrologia nella cultura del Rinascimento esce su «Belfagor», V, 1950, pp. 657-677; Interpretazioni del Rinascimento in Dal Medioevo al Rinascimento. Due saggi, Firenze 1950. Entrambi, insieme alle Considerazioni sulla magia nel Rinascimento (uscito in Cristianesimo e ragion di Stato. L'umanesimo e il demoniaco nell'arte, Roma 1953, pp. 215-224), sono ora in E. GARIN, Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari 1961, pp. 90-108; 150-191. Per le Note sull’ermetismo cfr il fascicolo dell’«Archivio di filosofia», 1955, Testi umanistici sull’ermetismo, p. 7-19.
4° E. GARIN, Età buie e rinascita: un problema di confini, in ID., Rinascite e
rivoluzioni, cit., pp. 5-38.
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forte: tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta Garin avvia un ripensamento di tutto l’Umanesimo, sottolineandone il carattere di ‘programma’, di ‘utopia’, di ‘ideale’,
piuttosto che di processo effettivamente compiuto. Può darsi che mi sbagli, ma è nel ‘mondo storico’ prima che nel ‘mondo storiografico’ che bisogna individuare le radici di tutto questo, nel vivo di un ripensamento complessivo che tocca anche il senso, e l'attualità, del nesso tra filosofia e politica, tra storiografia e politica. È un ripensamento che si rivela anche nei corsi universitari di quegli anni: nel ’62-’63 «Scienza e filosofia tra Trecento e Quattrocento»; nel ’63-’64 «Platone e Locke»; nel ’64-’65 «La dialettica trascendentale di Kant»; nel ’65-’66 —
ed è questo che interessa rilevare — «La filosofia europea tra le due guerre», con particolare riguardo alle correnti di tipo ‘irrazionalistico’, considerate in una prospettiva da un lato affine, per molti aspetti, a quella delineata da Luk4cs nella Zerstorurg der Vernunft, dall'altro frontalmente contrapposta alle posizioni sostenute da Paci nel suo profilo della filosofia italiana contemporanea ‘. Per cogliere qualità — e ritmo interiore — di questo spostamento occorre, però, sottolineare un punto ulteriore, di ordine più direttamente teorico: bisogna, cioè, richiamare l’attenzione sul peso decisivo che sulla sua esperienza storiografica ha avuto la lezione di Dilthey. È una incidenza che si svolge su vari piani: anzitutto nel mettere a fuoco il nesso tra biografia e filosofia (verso il quale Garin è sollecitato anche dalla storiografia inglese dell'Ottocento). E qui i riscontri testuali sono molteplici: dall’Introduzione alle Lettere di Hegel 4 al lavoro sulla ‘vita’ di Cartesio 4°, agli stessi ‘ritratti’ di umanisti ?° — insomma all’insieme di un lavoro critico che ha costantemente battuto su questo rapporto, distanziandosi da posizioni come quelle di Croce o di Alexandre Koyré. Su questo sfondo c’è però un secondo, e fondamentale, elemento da sottolineare: la centralità del momento della E:nfiiblung nella costituzione — e nella variazione, occorre aggiungere — del giudizio storiografico * E. Paci, La filosofia contemporanea, Milano 1957. #5 Bari 1972,
4 La vita e le opere di Cartesio, in CARTESIO, Opere, I, Bari 1967 (2000°), pp VII-CLXXXVI.
50 Ritratti di umanisti, Firenze 1967.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
di Garin. Certo, nel suo lavoro, l’Einfiiblung non inclina mai in senso irrazionalistico, sorretta com'è da una straordinaria arma-
tura erudita e da una consapevole distinzione tra historia rerum gestarum e res gestae (di chiara matrice crociana). Ma riscatta
quella erudizione proiettandola in un giudizio storico capace di aprire nuove prospettive critiche su testi, su autori, su un intero periodo storico. Garin non è mai stato, infatti, un ‘puro’ sto-
rico della cultura o delle idee, così come non è mai stato un ‘razionalista’ in senso astratto. Naturalmente, inclinazioni eru-
dite o ripiegamenti di tipo ‘culturalistico’ sono del tutto possibili nella prospettiva della ‘filosofia come sapere storico’, e si sono variamente prodotte sia, direttamente, nella ‘scuola fiorentina’ sia fuori di essa; ma non è, in effetti, il caso di Garin:
il quale è riuscito a rivivere, a ripresentare — e ad attualizzare con grande intensità — i testi e gli autori con cui si è venuto con-
frontando da prospettive anche assai diverse; e tutto ciò anche attraverso uno stile di scrittura fortemente rievocativo che della sua Einftiblung è momento,
e struttura, fondamentale. Intima-
mente connessa a una specifica personalità di studioso questa capacità di ripensamento del passato non è però qualcosa che si possa trasmettere in una ‘scuola’; né, in effetti, è stata trasmessa. Per quanto possa apparire paradossale — alla luce della vasta influenza che ha esercitato in Italia — nella nostra cultura filosofica Garin, in effetti, non ha avuto ‘eredi’. Con il suo magi-
stero la tradizione fiorentina è giunta al suo culmine, e si è definitivamente compiuta. 5. L'isolamento di Preti.
Nelle pagine precedenti si sono sottolineati quelli che sono stati i caratteri di fondo degli studi storico-filosofici a Firenze, lungo un ampio arco di tempo del Novecento, sottolineando in modo particolare il ruolo, e la funzione, di maestri come Tocco,
Limentani, Garin. Ma questo non vuol dire che a Firenze non
abbiano agito altri maestri, specie nel periodo che va dal secondo dopoguerra alla crisi degli anni Sessanta. Basta pensare
ad Andrea Vasa, che nella Facoltà di Lettere, dopo un lungo periodo d’insegnamento a Milano, introduce temi nuovi, come ri-
sulta bene anche dai titoli e dagli argomenti dei suoi corsi: nel 1962-63, ad esempio, si ferma su «La ‘forma’ logica e la sua portata reale nell'opera di Carnap». Vasa succede a Giulio Preti,
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anch'egli di formazione milanese, cresciuto alla scuola di Antonio Banfi, che da Pavia era giunto a Firenze verso la metà degli anni Cinquanta e che è stato, fino alla morte precoce avvenuta nel ‘72, una delle personalità filosofiche di maggior rilievo dell’Ateneo fiorentino, insegnando prima nella Facoltà di Lettere e poi in quella di Magistero. Diversamente che a Milano o a Pavia, a Firenze, però, Preti resta fondamentalmente una figura appartata, non incide in modo sostanziale nella furzus accademica e culturale fiorentina, pur formando scolari che hanno avuto, e
hanno, un peso nella generale cultura filosofica italiana. Perché questo sia accaduto, è difficile dire. Esponente di primissimo piano della «breve stagione dell’empirismo in Italia» (per riprendere una espressione di Norberto Bobbio); autore di studi storici fondamentali — dal saggio sul cristianesimo universale di Leibniz al libro su Smith e le origini dell’etica contemporanea ?! —; strenuo
sostenitore,
da buon
allievo di Banfi, dell'autonomia
della filosofia contro ogni riduzionismo di tipo storicistico (0 culturalistico), Preti — come ha scritto efficacemente Mario Dal Pra
— si impegna fecondamente anche nella «disamina particolarmente approfondita delle condizioni generali di significato della storiografia filosofica con la determinazione dei concetti metodici di ‘continuità’, di ‘discontinuità’, di ‘essenze’ e col chiarimen-
to dell'incidenza che rivestono nella formazione delle dottrine filosofiche la permanenza di strutture logithe generali e la loro individuata espressione storica» ?°. Svolge, cioè, un lavoro ampio, a vari livelli, di forte rilievo sia sul piano storico che su quello filosofico, contrapponendosi per molti aspetti, in modo frontale, alla impostazione, e ai risultati, ai quali viene giungendo contemporaneamente nei suoi lavori Garin: basta pensare a un libro come Retorica e logica, e alle discussioni che ne scaturirono, per misurare una distanza che, su punti centrali, era incolmabile 3,
È stato però Garin, non Preti, a dare il segno decisivo agli studi storico-filosofici svolti a Firenze, almeno fino ai primi anni 51 G. PRETI, I/ cristianesimo universale di G.G. Leibniz, Milano-Roma Ip., Alle origini dell'etica contemporanea. Adamo Smith, Bari 1957.
1953;
?? M. DAL PRA, Rscordo di Giulio Preti. I saggi, «Rivista critica di storia della filosofia», XXIX, 1974, pp. 439-440. Per la battuta di Bobbio, cfr nello stesso fa-
scicolo F. ALESSIO, I/ periodo pavese e milanese, p. 435. 53 G. PRETI, Retorica e logica. Le due culture, Torino 1968. Per un giudizio di Garin su questo libro cfr Tre libri, in «Rivista critica di storia della filosofia»,
XXIX, 1974, pp. 441-447.
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Settanta. In questo risultato giocarono, certo, vari elementi. An-
zitutto Preti era sostanzialmente estraneo alla linee di fondo della cultura filosofica fiorentina: il suo kantismo, per fare un
esempio, non aveva molto a che fare con il kantismo di Tocco. Ma Preti era altrettanto estraneo alla tradizione italiana, nelle
sue varie componenti: da Croce a Gentile, a Gramsci. Il che non vuol dire che egli non scendesse sul piano della discussione e della polemica culturale e filosofica, come appare in piena evidenza da quel libro che è Praxis ed empirismo 4, senza riuscire tuttavia a rovesciare la situazione. E in questo agirono, oltre a
ragioni filosofiche, anche motivi di ordine politico e politicoculturale, legati alla particolare situazione dell’Italia a quel momento. A differenza di Preti, Garin era assai più attento al problema
della ‘tradizione’ italiana, con la quale si misura in
modo aperto nelle Cronache di filosofia, e nella stessa Filosofia come sapere storico. Bisogna sempre distinguere, naturalmente, i tempi della filosofia da quelli della politica, né è lecito stabilire nessi di tipo meccanico.
Ma, certo, Garin, oltre a riprendere
esplicitamente temi di fondo della cultura fiorentina, con il suo lavoro si collega, in modo consapevole, con quelli che sono gli orientamenti centrali della politica culturale del Partito Comunista Italiano, a quel momento. Come la recensione di Togliatti alle Cronache, sopra richiamata, esemplarmente dimostra. In breve,
alla base della ‘solitudine’ di Preti a Firenze agisce un insieme di motivi, destinati a incrinarsi, e ad esaurirsi, solo all’inizio degli
anni Settanta: cioè, paradossalmente, proprio quando egli scelse di lasciarsi morire. Ma che i tempi fossero maturi, ormai, per un
mutamento, lo rivelano l’arrivo, e il successo, proprio nella metà degli anni Sessanta, di Ettore Casari, che era stato allievo di
Geymonat e che di Preti aveva ascoltato le lezioni a Pavia, e prima ancora di Paolo Rossi, che dopo essersi laureato con Garin passerà parecchi anni a Milano, come assistente di Banfi.
Egli, diversamente da Preti, riesce ad inserirsi profondamente nell’ambiente e nella cultura filosofica fiorentini trasformandoli, dall’interno, in modi originali, perché, oltre a congiungersi alle
correnti più vive della cultura filosofica e scientifica contemporanea, comprende la necessità di tener conto, a Firenze, sia della
lezione di Banfi che di quella di Garin. Scelta che Rossi fa, con forte autonomia, ma naturaliter (si potrebbe dire), essendosi for24 Torino 1957.
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mato alla scuola di entrambi (come appare in piena luce da quel vero e proprio classico della stotiografia italiana degli anni Cin-
quanta che è Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza”). 6. Ira Kant e Hegel: l'itinerario di Luporini. SI sono sottolineate, a più riprese, le differenze tra Firenze e Pisa. Ma è proprio su questo sfondo che assume particolare significato l’esperienza di una figura come Cesare Luporini, il quale, muovendosi lungo tutta la sua vita fra Pisa e Firenze, ha rappresentato una sorta di ‘ponte’ fra due mondi per molti aspetti — e per lunghissimi periodi — così profondamente diversi. In una lettera (inedita) a Ugo Spirito dell’ottobre 1965 Luporini, precisando quelli che a suo giudizio sono i meriti del suo interlocutore come direttore del «Giornale critico della filosofia italiana», fa un’affermazione significativa dal punto di vista del suo sviluppo intellettuale: Lo dirigi mantenendolo così consapevolmente, mi sembra, nella linea e all'altezza di una tradizione in cui l’interesse speculativo confluisce e si armonizza col gusto della precisa ricostruzione storica [...] A parte, inoltre, la particolare attenzione alla storia della filosofia e cul-
tura filosofica italiana: due aspetti che io amo sempre distinguere ’°.
Storia della filosofia e cultura filosofica: è una distinzione importante, con cui Luporini intende subito sottolineare la propria autonomia rispetto al clima filosofico italiano di quegli anni. Ma quella osservazione risulta particolarmente significativa se si pensa, per contrasto, all'ambiente fiorentino, del quale aveva cominciato a far parte, a pieno titolo, solo da poco tempo: dall'anno accademico 1959-60, quando da Pisa — dove aveva per vari anni insegnato Storia della filosofia, sulla cattedra prima di Vito Fazio-Allmayer, poi di Arturo Massolo e di Nicola Badaloni — era stato chiamato a Firenze a insegnare Filosofia morale. A precisare meglio questa volontà di differenziarsi basta pensare al libro che Eugenio Garin aveva pubblicato nel 1961 presso 5 Bari 1957 (nuova edizione Torino 1974). Cfr. P. RossI, Mario Dal Pra e la
storia della filosofia, in Un altro presente: saggi sulla storia della filosofia, Bologna
1999, p. 186.
36 La lettera è conservata presso l’Archivio della Fondazione Spirito di Roma: ringrazio il direttore della Fondazione per avermi consentito di prenderne visione.
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la Sansoni dal titolo La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Non c’è, infatti, alcun dubbio sul fatto che con quella sua precisazione Luporini volesse prendere le distanze proprio dalla concezione della ‘filosofia come sapere storico’ proposta dallo stesso Garin e al centro, nella seconda metà degli anni Cinquanta, di una vasta discussione, alla quale egli si era voluto mantenere estraneo, nonostante la promessa di intervenire nel dibattito ribadita nella lettera (anch’essa inedita) del 28 maggio 1959 a Ugo Spirito, che doveva averlo sollecitato in tal senso:
«mantengo naturalmente — gli scrive — la promessa di intervenire sul saggio di Garin. Solo che pare che debba entrare in una clinica [...] e se è così, dovrai pazientare qualche poco ancora, fino alla convalescenza, che sarà dedicata a questo lavoro» ?”. Di fatto quell’intervento non venne mai pubblicato, e non a caso, si potrebbe dire (con espressione cara a Garin e, prima di lui, a Ludovico Limentani). Evidentemente, per un comples-
so di ragioni accademiche, personali, culturali Luporini non aveva intenzione, in quel momento, di rendere esplicito un dissenso che di lì a poco sarebbe diventato del tutto evidente, nel quadro di una più generale polemica contro lo storicismo. Il che non toglie che, appena arrivato a Firenze, abbia voluto sottolineare subito la sua ricerca di autonomia e di specificità, in primo luogo con i corsi che professa. Nel 1959-60, in una sorta di dichiarazione programmatica, egli teneva il suo primo corso fiorentino sulla Ferorzenologia dello spirito di Hegel, un filosofo e una tematica che, certo, erano stati presenti anche prima a Fi-
renze (nello stesso anno, per fare un esempio, il corso di Garin
verteva su «L. Feuerbach e la sinistra hegeliana»), ma in misura minore rispetto ad altri autori altrettanto capitali della filosofia moderna, a cominciare da Kant: senza alcun dubbio l’‘au-
tore-principe — si può ben dire — della tradizione filosofica fiorentina fin dalla seconda metà dell’Ottocento. Qualche esempio, cominciando dalla seconda metà degli anni Trenta. Nel 1938-39 Paolo E. Lamanna, nel corso di Sto-
ria della filosofia, leggeva e commentava i Prolegomeni, mentre Garin, in quello di Filosofia morale, analizzava la Critica della
ragion pura e la Fondazione della metafisica dei costumi, oltre a
tenere un ‘corso libero” su «Empirismo e razionalismo critico ? Anche questa lettera è conservata presso l'Archivio della Fondazione Spirito.
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nel pensiero precritico», presentato, appunto, come «Introduzione a Kant»; a loro volta, a Magistero, Giuseppe Capone-Braga teneva un corso sulla Critica della ragion pura, mentre Ernesto Codignola lavorava sul «Pensiero etico-pedagogico di Kant». Dell’idealismo sia classico che italiano in questi anni non c'è traccia all’Università di Firenze: si discute di Platone (Lamanna, Codignola °5, Capone Braga), di Aristotele (Capone-Braga, Garin), di Dante (Lamanna, Lantrua), di Locke (Codignola), di Hobbes
(Capone-Braga), dei moralisti inglesi (Garin), di illuminismo (Capone-Braga), di Feuerbach e dello ‘svolgimento’ della filosofia morale in Germania nella seconda metà dell'Ottocento (Limentani), di Rosmini (Capone-Braga), del ‘nuovo spiritualismo’ (Lamanna). Non ci sono invece corsi dedicati a Hegel; perché si parlasse del neo-idealismo italiano occorre aspettare Ernesto Chiavacci il quale, arrivato a Firenze nel 1939-40, commentava l’anno successivo la Logica di Gentile. Né la situazione muta significativamente nel periodo del secondo dopoguerra, fino agli anni Sessanta. Qualche altro esempio, sulla base della (ristretta) documentazione disponibile (mancano negli Annuari i titoli dei corsi dal ’41-’42 al ’55-’56, dal ’60 al ’62 e dal ’65 al ’71): nel
1962-63 Garin tiene corsi su «Scienza e filosofia fra Trecento e Quattrocento» e sulle «Origini dell’irrazionalismo contemporaneo»; nel ’63-’64 su Platone e Locke; nel ’64-’65 sulla «Dialetti-
ca trascendentale di Kant» e su Platone; mentre Luporini insiste su Hegel, con un corso biennale (1961-63), sulla sinistra hegeliana, anche in questo caso con un corso biennale (1964-65),
oltre che sui «Problemi dello storicismo» nel corso di Filosofia della storia del ’64-’65 (e naturalmente, poi, a lungo su Marx). Nell’ambiente filosofico fiorentino Hegel e l’idealismo italiano restano, nel complesso, una voce minoritaria: giudizio paradossalmente confermata dal fatto che su Croce e su Gentile si misurano figure di minor rilievo come Dario Faucci e Domenico Pesce. Su questo terreno Luporini opera una vera e propria svolta della quale è difficile, oggi, misurare l’efficacia, dal punto di vista dei risultati. Comunque sia, è dal suo insegnamento che a Firenze germina un interesse specifico per il pensiero di Hegel
da una parte, di Marx dall’altra, oltre che per alcuni aspetti assai significativi della filosofia contemporanea. 58 Ernesto Codignola, insegnante a Magistero, fu personaggio di primo piano nella cultura filosofica toscana. Cfr almeno Epistolario di Ernesto Codignola conservato nel Centro di Studi Pedagogici «Ernesto e Maria Codignola», catalogo a cura di R. GORI, Firenze 1987.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
Non che Luporini non si interessasse di Kant; è vero precisamente il contario. Su Kant si era laureato (con Lamanna) a
Firenze nel 1933, e sull’opera kantiana si interrogherà per un periodo assai lungo. Scrivendo a Spirito il 15 agosto 1942 da Marlia — la stessa località da cui firmerà la prefazione a Situazione e libertà nell'esistenza umana — si esprimeva in termini che non lasciano dubbi in proposito: «Io sono sempre più preso da certi determinati interessi: in storia della filosofia Kant come (per esprimersi un po” sommariamente e rapidamente) filosofo della finitezza; e per il resto, dal problema etico-sociale: certo questo non è molto [...] originale, ma non mi vergogno di vivere i miei tempi» ??. Battute importanti, sia per l’accenno al motivo della ‘finitezza’ nel quale traspare ovviamente una eco della frequentazione friburghese di Heidegger, sia per l’incidenza della lezione scheleriana, come risulta da un articolo che egli doveva considerare particolarmente importante, visto che lo ripubblica più volte: prima su «Società» con il titolo Torti e ragioni del moralismo, poi in Filosofi vecchi e nuovi con quello di Kant e il moralismo moderno ®. Ciò che, però, ancora oggi colpisce in questo articolo è la durezza con cui Luporini attacca frontalmente Kant e la sua concezione della morale, contrapponendolo alla consapevolezza leopardiana secondo cui «la stessa ‘morale’ esce dalla astrattezza speculativa e diventa concreta solo in rapporto alla politica». Mentre «la morale kantiana è [...] una tipica morale difensiva, una morale potremmo dire, da campo trincerato», diffusa spesso in modo «inavvertito» e «inconsapevole», «specialmente là dove non esistono salde tradizioni eticopolitiche di gruppi dirigenti, né ad esse si sono ancora sostituite vigorose etiche rivoluzionarie». Appunto per questo, egli conclude, «il moralismo moderno ha una natura kantiana»®.
È un testo del ’45, dal chiaro carattere etico-politico, che non chiude però il problema dei rapporti di Luporini con Kant: ciò risulta anzitutto sia dai corsi che egli tiene a metà degli anni °° Come le precedenti, anche questa lettera è conservata presso l'Archivio della Fondazione Spirito. Torti e ragioni del moralismo, «Società», II, 1946, pp. 310-317; Kant e il moralismo moderno, in LUPORINI, Filosofi vecchi e nuovi, cit., pp. 115-123. 60
9! LUPORINI, Kant e il moralismo moderno, cit., p. 120.
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Cinquanta presso l’Università di Pisa sia dal suo libro Spazio e materia in Kant, a quei corsi strettamente legato, che apparve a
Firenze nel 1961 (quando cioè teneva corsi hegeliani). In questo volume sono raccolti due saggi, l’uno del 1955 («una introduzione storica e teorica al problema del criticismo»), e un secondo, più recente, nel quale si prendono «in considerazione alcuni dei principali problemi concernenti la oggettività nella concezione kantiana» °. Tema decisivo per la riflessione di Luporini in quegli anni, che ci riporta, secondo un ritmo circolare, ai temi hegeliani da lui contemporaneamente svolti. Proprio sul problema della «oggettività» reale della contraddizione come «principale elemento di continuità fra Hegel e Marx» egli mette l'accento nella discussione fra ‘filosofi marxisti’ apertasi su «Rinascita» nel 1964, richiamandosi in modo esplicito all’Introduzione al libro su Kant da poco uscita, incentrata proprio su questo tema. Insomma: Kant e Hegel su un problema cruciale, sia sul piano teorico sia su quello politico; non Kant contro Hegel e, in generale, contro l’idealismo ottocentesco o contemporaneo. Non è il caso di insistere ora sui rapporti di Luporini con Kant;
va
ribadito,
invece,
che
la sua
analisi
del pensiero
kantiano si muove fra Heidegger e Scheler da un lato e Hegel dall’altro: a differenza, anche in questo caso, dell'ambiente fiorentino, il quale si interessa molto di Kant, ma nel quadro di
una tradizione interpretativa assai precisa, definitasi con chiarezza fra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. E che, quando si misura con la discussione novecentesca, si misura con impostazioni come quelle di Ernst Cassirer, piuttosto che con i lavori di Heidegger e di Scheler. Cassirer: un nome ben noto a Firenze, non soltanto per i suoi studi kantiani, quanto — e forse
soprattutto — per i suoi lavori sul Rinascimento, a cominciare dal saggio, veramente notevole, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento. Rispetto a tutto questo Luporini è, effettivamente, su un’onda diversa. Personalità fra le più europee della filosofia italiana del Novecento, visto in Toscana appare assai più ‘pisano’ che ‘fiorentino’. A Pisa, peraltro, aveva iniziato la sua carriera acca€ C. LUPORINI, Spazio e materia in Kant, Firenze 1961, p. 7.
63 Per una riflessione ‘autobiografica’ su tutto questo cfr C. LUPORINI, Ixtroduzione a ID., Dialettica
e materialismo, cit., pp. VII-LXVI. Sul pensiero e sulla
figura di Luporini cfr ora I/ pensiero di Cesare Luporini, cit.
DZ
PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
demica, prima come lettore di tedesco presso la Scuola Normale per volontà esplicita di Gentile volta a impedire l’arrivo di un lettore nazista, poi come professore incaricato di Pedagogia, infine come ordinario di Storia della filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Ovviamente, non si tratta solo di questioni accademiche. L'ambiente pisano era, nel complesso, struttural-
mente estraneo alla concezione della filosofia come ‘sapere storico’, e alla peculiare risoluzione della filosofia in storia della filosofia che esso supponeva e realizzava. E proprio a questa antica opposizione che allude nel 1958, in filigrana, Delio Cantimori discorrendo della Bibliografia di Giordano Bruno di Virgilio Salvestrini, prima rievocando gli scontri fra idealisti e positivisti che avevano contrassegnato la sua giovinezza, poi facendo, su questo sfondo, esplicitamente il nome di Limentani e di Garin, citati entrambi come esempio di «serietà e altezza di
lavoro storico» . Sono nomi canonici, non sorprendono: può sorprendere invece che perfino Luporini, prima di laurearsi a Firenze, in Storia della filosofia con Lamanna, abbia pensato di chiedere la tesi, in Storia medioevale, a Nicola Ottokar. ‘Filologia’ a Firenze; ‘filosofia’ a Pisa: si trattava, certo, di una formu-
la di natura polemica, di una forzatura; e proprio Cantimori lo sapeva assai bene. Ma, per quanto distorta, in essa si celava un elemento di verità: per buona parte del secolo a Pisa e a Firenze si sono sviluppate culture filosofiche differenti, percepite addirittura come antagonistiche. Il che non vuol dire, ovviamente, che fosse corretto il modo in cui la contrapposizione era
proposta. Non è affatto vero che ci fossero da un lato i ‘filosofi’, dall’altro i ‘filologi’. A Firenze, come a Pisa, si faceva filosofia e storia della filosofia, ma in un modo peculiare, all’interno
del quale è Kant, l’interpretazione di Kant — l'abbiamo appena visto — che fa da spartiacque.
7. La ‘funzione’ Cantimori.
Si è appena fatto il nome di Cantimori, che dall’attualismo proveniva, essendosi laureato e perfezionato a Pisa con Giuseppe Saitta con un lavoro su Ochino e un altro su Ulrich von Hut% CANTIMORI, Studi di storia, cit., p. 429.
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ten; eppure è difficile comprendere il clima fiorentino (anche quello di ascendenza più nettamente filosofica) senza tener conto del lavoro che egli venne svolgendo nella Facoltà di Piazza San Marco, per molti anni, quale titolare della cattedra di Storia moderna. Pronto a discorrere anche con allievi giovanissimi di testi come il Testazzento di Theodor Mommsen - e, attraverso di essi, del rapporto tra storiografia e politica e anche, implicitamente, delle delusioni brucianti toccate in sorte a intellettuali che come Mommsen (e come lui) avevano cercato di essere ‘cittadini’ — Cantimori, specie nella seconda metà degli anni Cinquanta, a Firenze s'impegna a fondo per dissolvere, in modo radicale, l’eredità idealistica e anche storicistica (nelle sue varie forme), spezzando il nesso tra storiografia, filosofia e politica, da cui essa era stata connotata, in forme varie ma conti-
nue. Su questa base, sviluppa una concezione del rapporto tra passato e presente in cui ciò che più conta non è il rapporto dell’‘altro’ con noi, ma l’individuazione di ciò che l’‘altro’ effet-
tivamente è stato; e a questo fine rivaluta significato e funzione della storia della storiografia, battendosi per una concezione del lavoro storico che ha come vertici, da un lato, la ricerca erudita di Muratori, dall’altro la coscienza — acquisita con Burckhardt
- che la nostra sola «consolazione è nella conoscenza» ©. In stretta connessione con questa impostazione generale, sul piano del lavoro storico specifico si concentra, poi, sui caratteri e sulle
strutture fondamentali dell’intellettuale europeo moderno, avviando a dissoluzione il concetto di ‘Rinascimento’ (nel quadro di una polemica complessiva nei confronti dei concetti storiografici di carattere generale), individuando nella storia dell’ Europa una lunga epoca dai tratti comuni, dalla fine del Trecento fino al Settecento — quella che egli chiama l’«età dell’Umanesimo». Infine, su questo sfondo di problemi — entro cui ha forte rilievo una moderna interpretazione del significato e della funzione della filosofia della storia - Cantimori si pone esplicitamente il tema di una riconsiderazione organica della istituzione universitaria europea tenendo corsi e seminari sulle origini della
5 Per un commento di Cantimori a questa battuta, che è di Momigliano (Ixtroduzione a J. BURCKHARDT,
Storia della cultura greca, Firenze 1955, p. XXX),
cfr D. CANTIMORI, Introduzione a J. BURCKHARDT, Meditazioni sulla storia universale, Firenze 1959, p. XV.
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
università moderna, e segnalando con grande prontezza il punto di crisi cui essa era, ormai, pervenuta, insieme alla tradizione culturale avviata secoli prima, proprio a Firenze, da Francesco Petrarca e dagli umanisti italiani ©°. È difficile dire in che misura Delio Cantimori abbia inciso nel clima culturale della città e della Facoltà: fra gli studenti, certo, fu una influenza complessa, anche se, come diceva Pasquali, non era un ‘tenore’, e non aveva ‘masse’ alle sue lezioni.
Colpivano l'eccezionale abilità che aveva di suonare tasti tematici diversi, e una straordinaria capacità fascinatrice durata fino
agli ultimi anni, quando, invecchiato e appesantito, camminava appoggiandosi a un bastone. Agli occhi degli studenti, Cantimori rappresentava un enigma affascinante: non era filosofo, ma toccava temi che avevano a che fare, direttamente, con la filosofia («si considera un filosofo», diceva di lui bonariamente Sestan che, sulle orme di Salvemini, nella filosofia vedeva solo un
modo per perdere tempo); non era più iscritto al PCI, ma faceva seminari sul settimo capitolo del primo libro del Capitale, compiacendosi con gli studenti che criticavano la sua vecchia traduzione di quel testo; aveva conosciuto le delusioni — e i gorghi — della politica, ma trasmetteva il sentimento della sua importanza, anzi della sua indispensabilità, a patto di non illudersi, finendo nelle grinfie del drago... Ma c'è un’altra cosa che contribuisce a spiegare la sua influenza tanto complessa quanto silenziosa: con Cantimori, tutto era aperto, problematico, in discussione permanente; niente era definito, o chiuso, una volta per tutte: perciò dava il meglio di
sé nei seminari, piuttosto che nelle lezioni. Dopo Pasquali, non c'è stato a Firenze nessuno che padroneggiasse in modo più pieno questa forma di insegnamento proprio perché, nel suo caso, essa corrispondeva intrinsecamente a un abito culturale e °© Si vedano per questi i Testi e documenti, Corso di Storia moderna 196465, distribuiti a cura del Consiglio studentesco della Facoltà di Lettere e Filosofia, Firenze 1965. Per corsi e seminari tenuti da Cantimori a Pisa e Firenze cfr Corsi e seminari di Delio Cantimori (1935-1966), a cura di G. MICCOLI e L. PERINI, in G. MICCOLI-D. CANTIMORI, La ricerca di una nuova critica storiografica,
Torino 1970, pp. 339-374; per i due corsi su «L'università in Germania, Francia, Italia nell'Ottocento» (tenuto alla Scuola Normale nell’anno accademico ’63-’64), e «Alta politica’ e riforme universitarie nel secolo XIX, in Europa e in Italia» (tenuto alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze nell’anno accademico ’64°65), cfr ivi, pp. 370-372.
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mentale totalmente libero, fino all’‘eresia’. In questo senso Cantimori era diversissimo dagli altri ‘maestri’ fiorentini — da Ragionieri che, nel pieno rispetto dei canoni scientifici, mirava,
consapevolmente, anche a un lavoro di alta ‘formazione politica’ —; ma era molto diverso anche da Luporini, che, membro del Comitato Centrale del PCI, aveva fatto, e continuava a tenere
ferma, una scelta politica assai netta, combattendo le sue battaglie all’interno del Partito. Cantimori, infine — ed è questo che voglio sottolineare — si muoveva su un’onda assai diversa rispetto allo stesso Garin, e non solo per la critica del concetto di Rinascimento, o per la valorizzazione degli ‘eretici’ rispetto ai
‘cancellieri fiorentini’ (differenza non piccola, se i primi si erano ribellati a ogni forma di chiesa e di autorità religiosa, mentre i
secondi erano stati uomini di governo e di potere). La differenza era più profonda, filosofica: Cantimori diffidava profondamente di ogni tipo di Einfublung; era affascinato, specie negli ultimi anni, da un modello ‘scientifico’ di storiografia; pur tentato dal ‘racconto’ storico, non amava lo stile di tipo evocativo,
che, a suo giudizio, confondeva i problemi, senza distinguerli uno per uno, come si deve fare nel lavoro storiografico; mirava a una storia in cui al centro fossero le idee, non la loro riduzio-
ne a ‘ideologie’... E per questo insieme di motivi che Cantimori, a Firenze, ha rappresentato una figura‘assai singolare di studioso e di insegnante, del tutto originale e irripetibile: fedele al primato della filologia, ma attentissimo alle questioni filosofiche, purché scaturite dal vivo della ricerca storica e non sovrapposte ad essa; ‘distaccato’, ma (come ebbe a precisare una volta ad Eugenio Garin, dedicandogli un libro di poesie di Trakl) non ‘separato’ dalla vita politica, con la quale aveva un rapporto tanto difficile e aspro quanto capace di affascinare studenti che, proprio perché stavano per darsi in quel giro d’anni a una scelta politica assai coinvolgente, intuivano, da parole, da gesti, da guizzi degli occhi (verrebbe da dire), che quel professore apparentemente così votato alla scienza li aveva preceduti sullo stesso terreno. A chi frequentava le sue lezioni un punto appariva immediatamente chiaro: fingendosi ‘impolitico’, Cantimori nella Facoltà di San Marco continuava ad essere il più
politico di tutti... Se si potesse usare una formula, si potrebbe dire che mentre Luporini si sforzò di essere — e fu — un trazt d’union fra Pisa
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
e Firenze, Cantimori fu ‘dentro’ e ‘fuori’ la tradizione fioren-
tina, rimanendo nel fondo sempre, irriducibilmente pisano. Il segreto della sua ‘funzione’ — minoritaria, in quell’ambiente forse risiede proprio qui: con il suo insegnamento alludeva sempre a qualcosa di altro, di diverso, di non istituzionalizzato. Ma come tutti quelli che stanno sui confini, pur ammirato e, addirittura, amato, fu sempre,
sostanzialmente,
un uomo
solo, un solitario. Stanno qui le ragioni della sua forza e, al tempo stesso, della sua debolezza: come
sempre, l’ambiente
fiorentino era diviso in schieramenti troppo netti e contrapposti per accogliere, e far propria, una lezione così multiforme e sinuosa...
Ma a spiegare tutto questo, forse non basta riferirsi solamente a Firenze e all’Università. Cantimori, del resto, aveva rap-
porti intensi con tutto il ‘sistema culturale’ fiorentino, di cui perni fondamentali, oltre alla Università, erano alcune importanti case editrici (Sansoni, Le Monnier, La Nuova Italia); gior-
nali come il «Nuovo Corriere» di Romano Bilenchi, al quale Cantimori collaborò assiduamente; importanti centri di iniziativa politica come il Circolo di Cultura... Se si vuole trovare una ragione più complessa di questa situazione, bisogna, credo, riferirsi alla politica prima che alla storiografia. E soprattutto a un anno preciso, al 1956: fu allora che in Cantimori si produsse una ferita mai più rimarginata, che, acuendo al massimo un rovello tipicamente suo, lo spinse a collocarsi in una condizione
appartata, scegliendo di lavorare ‘sotto traccia’, assumendo come luogo privilegiato del suo insegnamento, oltre alle aule della Università, le sale della Biblioteca Nazionale di Firenze,
della quale era una sorta di istituzione. Sono, appunto, gli anni in cui Cantimori si ‘distacca’ dalla politica e ‘sceglie’ la storiografia, individuando quale punto di riferimento privilegiato un autore come il Burckhardt delle Meditazioni sulla storia universale, del quale offre una immagine profondamente diversa da quella presentata da Garin nella Introduzione all'edizione sansoniana della Civiltà del Rinascimento. Sono gli stessi anni nei quali la sua solitudine si acuisce fino a trasformarsi in una sorta
® Cfr E. GARIN, Introduzione a J. BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1952 (ultima ed. 1996), p. XXXVI.
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
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di isolamento, mentre l’Italia si avvia a una fase di trasforma-
zioni profonde e la cultura fiorentina s'impone con forza sul piano nazionale, nel quadro di un complesso rapporto con l'iniziativa politica e culturale del Pci. Un solo esempio: al primo Convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma nel 1958, Garin e Luporini, sia pure in toni assai diversi, tengono, insie-
me a Togliatti, le relazioni di apertura. La parabola di Cantimori segue, invece, un’orbita opposta:
distaccato, volutamente,
da
tutto questo, si mantiene estraneo a Gramsci, al suo pensiero, a
tutto ciò che esso, a quella data, significa (anche in rapporto alla interpretazione dello storicismo nelle sue varie diramazioni, del quale Cantimori si sforzava di fare la critica). Si colloca in controtendenza sottolineando l’importanza della distinzione crociana fra historia rerum gestarum e res gestae. Volutamente, alla svolta degli anni Sessanta, sceglie di vivere i suoi ultimi anni in una condizione di consapevole — quasi terapeutica — ‘disarmonia’ con il proprio tempo storico, fino a trasferirsi, per un periodo, negli Stati Uniti, a Princeton. Forse è per tutto questo che a Firenze la sua influenza è stata minore di quella che avrebbe potuto essere.
8. Il tramonto delle ‘differenze.
è
Nelle pagine precedenti ho insistito sulle differenze tra Pisa da un lato, Firenze dall’altro: e spero di aver portato qualche argomento a conferma. Non si darebbe però un quadro corretto della situazione se non si sottolineasse che queste differenze progressivamente si sono consumate fino a venir meno. Oggi, forse, si può cercare addirittura di periodizzare questo fenomeno. Se si volesse indicare un evento simbolico — e in questo caso può servire —, si potrebbe dire che con la chiamata a Pisa, presso la Scuola Normale, di Eugenio Garin (e con lui di Gianfranco Contini e di Giovanni Nencioni), si conclude una lunga crisi. Ma, a quella data, non
è solo il ruolo e la funzione del-
l’Università che cambia. In Toscana avviene qualcosa di più profondo: alla svolta degli anni Sessanta entra in crisi, e si compie, la funzione ‘nazionale’ che la cultura accademica toscana di matrice umanistica aveva esercitato nel nostro paese fin dagli anni dell’immediato dopoguerra, contribuendo a delineare dopo
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PARTE PRIMA: LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA ITALIANA
il neo-idealismo un nuovo orizzonte di senso e di riferimento degli studi filosofici e storico-filosofici: sforzandosi di essere ‘postcrociana’, senza essere ‘anticrociana’, come ebbe una volta a dire, con efficacia, Contini (segnalando un merito, ma anche
il limite, di un’intera stagione culturale 98). A quella data entra in crisi, e finisce, un complesso sistema culturale comprendente, insieme alla Facoltà di Lettere, anche un variegato mondo fatto di case editrici, di riviste, di importanti centri di iniziativa
culturale. Non si capisce molto della cultura toscana nel nostro secolo se non si fa riferimento a case editrici come La Nuova Italia (che pubblica Hegel, Dilthey, Cassirer),
o come Sansoni,
la casa editrice di Giovanni Gentile, alla quale si deve la pubblicazione dei più importanti lavori di Luporini, di Garin, di Kristeller, di Cantimori; o come Le Monnier, presso cui lo stes-
so Gentile dirige una importante collana di «Studi filosofici» presso cui escono libri di Adolfo Omodeo, Fazio-Allmayer, Saitta, Spampanato, Galvano Della Volpe, Massolo, Luporini. Allo stesso modo, si comprende poco di tutto questo se non si riflette sul ruolo svolto da una rivista come «Società», così deci-
siva per la costituzione di quel particolare intreccio fra storicismo e marxismo che connota la cultura filosofica italiana degli anni Cinquanta, alla quale collaborano, oltre Luporini — che ne è direttore con Bilenchi - intellettuali come Badaloni e Massolo. E questo complesso ‘sistema’ culturale, istituzionale, organizzativo — strettamente collegato al ‘partito nuovo’ di Palmiro Togliatti — che si è, infine, dissolto, con una perdita di peso generale della Toscana nel panorama culturale italiano. E tutto
questo nel vivo di eventi politici e di trasformazioni ideologiche che hanno segnato a fondo il nostro paese, aprendo la strada ai miti e alla credenze degli anni Ottanta. Non che non si sia tentato, a Firenze come a Pisa, di promuovere nuovi orientamenti culturali, anche nell’ambito della Facoltà di Lettere, ad esempio nell’ambito delle scienze umane (ad opera, specialmente, di Luporini), o della filosofia e della 6 «Riuscire a essere postcrociani senza essere anticrociani fu lo sforzo di quegli anni, che non è forse immeritevole di essere ricordato tra coetanei abbandonati a un anticrocianesimo rigorosamente postumo ejuniores fruenti di alcuni risultati postcrociani quando ormai erano trapassati di moda, senza loro sudore»:
così CONTINI, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, cit., p. IX.
GLI STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA IN TOSCANA (1930-1960)
DO.
storia della scienza, collegandosi a una tradizione peraltro degnamente rappresentata, e da secoli, nella vita della regione. Tentativi anche riusciti, come testimonia anzitutto il ruolo svolto a Pisa da Barone e a Firenze da Paolo Rossi, che ha avviato
una vera e propria scuola di storia della scienza °° — o da Ettore Casari, pioniere degli studi logici nel nostro paese. Ma su un punto non ci possono essere dubbi: né Pisa né Firenze hanno più avuto, negli ultimi decenni, il ruolo e la funzione che erano riuscite a svolgere in Italia - da sponde diverse — lungo il Novecento. Sono diventate più simili — o, almeno, meno differenti — nel quadro di una comune perdita di funzione e d’influenza. Fra Firenze e Pisa le strade si sono incrociate quando
il viaggio era ormai finito.
69 Sulle figure, e sul lavoro, di Paolo Rossi e di Cesare Vasoli cfr, per alcune osservazioni, il cap. III della seconda parte.
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PARTE SECONDA
SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO: INTERPRETAZIONI E PROBLEMI
I BALBO E ROMAGNOSI INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
1. Sull’importanza della storiografia italiana dell'Ottocento ha richiamato per primo l’attenzione Benedetto Croce nella sua Storia della storiografia italiana del secolo XIX (pubblicata per i tipi di Laterza nel 1921, ma uscita sulla «Critica» fra il 1915 e
il 1920) !. A questo lavoro — con cui Croce si propone in modo esplicito di colmare una lacuna lasciata aperta, a suo giudizio, dal Fueter — risalgono motivi critici e modelli interpretativi divenuti col passar del tempo luoghi comuni storiografici. Ne cito, per brevità, qualcuno: l’Ottocento, specie nella prima parte, è stato il «secolo della storia»; è allora che declina la storiografia di matrice illuministica, della quale sopravvivono solamente pochi, anacronistici esponenti; massimi rappresentanti della nuova tendenza storiografica sono gli uonfini della scuola neoguelfa (Capponi, Troya, Balbo); nella loro opera essi combinano intimamente ricerca storiografica, ideologia indipendentistica, passione nazionale. E mirano, in primo luogo, alla delineazione di una storia d’Italia entro cui si staglia come periodo fondamentale il Medio Evo. In breve: nella nuova storiografia si intrecciano
strettamente
historia
rerum
gestarum
e res gestae,
nuova filosofia e nuova filologia; Vico e Muratori, sullo sfondo di una rivendicazione programmatica dell’età di mezzo. Se, come diceva Croce, ogni vera storia è autobiografia ?, il Medio ! B. CROCE, Storza della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari 1964 (in particolare I, pp. 119 sgg.). L'opera, composta nel 1914-15, era «stata pubblicata capitolo per capitolo» nella rivista «La Critica» (XII-XVIII, 1915-1920), «e ora —- precisa Croce nel maggio del 1920 — viene ristampata in forma alquanto più breve, tolti o compendiati molti brani testuali che nei fascicoli della rivista riferii per disteso, quasi per costringere a leggere scrittori nostri a torto negletti». 2 B. CROCE, I/ carattere della filosofia moderna, Bari 1963 (ultima ed. Napoli 1991), pp. 154-157. Il tema —- fondamentale in tutti i sensi — era stato al centro
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
Evoè l’archetipo effettivo della coscienza nazionale e storiografica italiana della prima metà dell’Ottocento. Tutto ciò non stupisce. Il Medio Evo non è categoria esauribile nei canoni della buona storiografia accademica. Neppure è categoria autonoma, isolabile, sul piano genetico. Fin dalle origini è connessa all’ affiorare, e poi all’imporsi, del mito e del concetto di Rinascimento ?. Se periodizzare vuol dire interpretare 4, a seconda del primato dell’uno o dell’altro — e dell’arco di tempo in cui sono compresi —, Medio Evo e Rinascimento delineano opposte visioni dell’uomo, della società e delle strutture e dei caratteri fondamentali della modernità. L'uno o altro si affermano o declinano quando si sviluppano o tramontano quelle categorie di ‘coscienza moderna’ e di ‘mondo moderno’ che in essi si sono lungamente — e polarmente — espresse. Sono pro-
cessi che non attengono solo al mondo storiografico. Riguardano anzitutto il mondo storico, e le crisi e le trasformazioni che
in modi complessi l’investono e lo scuotono. Ma si sa: tra storia e storiografia non si danno rapporti simmetrici, corrispondenze lineari. Sta proprio qui, del resto, la ragione della permanenza — e della resistenza — di concetti come questi, e del loro perdurante intreccio strutturale 7. È quello che puntualmente si riscontra anche nella prima metà dell'Ottocento. Discutendo anche della riflessione filosofica diltheyana. Cfr W. DILTHEY, Critica della ragione storica, introduzione e traduzione di P. Rossi, Torino 1969°, pp. 304 sgg. } GARIN, Età buie e rinascita: un problema di confini, cit. Su questi temi si veda sempre E. GARIN, La cultura del Rinascimento, Milano 1988, che costituisce
la riedizione con aggiunte e integrazioni del testo già uscito in versione tedesca nel 1964 (Propylien-Weltgeschichte. Eine Universalgeschichte, hrsg. von G. MANN-A. NITSCHKE, Berlin-Frankfurt-Wien 1964, VI, pp. 429-534) e in versione italiana nel 1967 (Bari, più volte ristampata). Utile è anche il volume di C. VASOLI, Urzanesimo e Rinascimento, Palermo 1972.
* D. CANTIMORI, La periodizzazione del Rinascimento, in ID., Studi di storia, cit., pp. 340 sgg. In particolare cfr pp. 340-341: «È un fatto — scrive Cantimori— che le periodizzazioni vengono usate da tutti gli storici; alcuni accettano quelle tradizionali e scolastiche o come schemi più o meno
comodi, o come
mezzi di
espressione, formule e simboli d’uso comune sui quali non si riflette; altri ne propongono di proprie, in corrispondenza della loro concezione generale dello svolgimento storico in generale o in particolare; la differenza fra il primo gruppo e i secondi sta nel fatto che isecondi sono consapevoli dell'operazione compiuta, del carattere ‘interpretativo’ o ‘filosofico’ della periodizzazione, mentre i primi non ne sono consapevoli». ? Cfr il cap. VII di questa sezione.
BALBO E ROMAGNOSI INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
65
del Medio Evo, gli storici neo-guelfi prendono, al tempo stesso, posizione sul Rinascimento. Naturalmente in sede storica contano, anzitutto, le diffe-
renze. Oggi l’asse della storia europea tende a rispostarsi fortemente e nuovamente verso il Medio Evo, mentre si distanziano
e declinano l’educazione e la cultura ‘classiche’ . Ma l’immagine dell’età di mezzo che attualmente si diffonde — e diventa quasi senso
comune
attraverso
i mezzi di comunicazione
di
massa — non ha nulla in comune con il ‘mito’ del Medio Evo degli uomini della prima metà dell’Ottocento e con il loro drastico rifiuto del Rinascimento. All’opposto: tra la prima e i secondi c’è una distanza radicale, germinata da un motivo storico preciso. Di fatto, oggi stanno venendo completamente meno tutti i punti di riferimento ideologici e politici di quella coscienza storiografica. Anzitutto s’offusca e declina il principio dello Stato-nazione, che della storiografia neoguelfa costituisce il vero e proprio fondamento politico-culturale, e la prima ragione della sua originalità storica e ideale. 2. Alle spalle del lavoro di uomini come Balbo, Troya, Capponi stava il forte dibattito che intorno al concetto di Medio Evo e di Rinascimento si era venuto svolgendo lungo tutto il Settecento in Italia e in Europa ”. S'impongono allora soprattutto tre posizioni, destinate a influenzare in profondità la discussione sia
sul terreno storiografico che su quello filosofico-storico 8. Nel Discorso preliminare all’Enciclopedia D'Alembert costruisce la categoria di ‘mondo moderno’ incardinandola da un lato nel Rinascimento italiano («l’aurora»), dall’altro nel secolo
dei lumi («il sole interamente apparso all’orizzonte»). Nel ‘400 comincia in Italia un movimento ascendente della storia europea, culminato, secondo un intrinseco ritmo progressivo, nell’età delle /uzzières. È la prima posizione in campo ?. Da essa 6 Cfr per questo le lucide osservazioni di A. MOMIGLIANO, Ira storia e storicismo, Pisa 1985 (si veda in particolare la prima parte: «Dalla storia universale all'insegnamento della storia», pp. 9-96). ? Per un’ampia ricostruzione di questo dibattito è prezioso VASOLI, Urzaresimo e Rinascimento, cit., specialmente pp. 72 sgg.
8 GARIN, La cultura del Rinascimento, cit., pp. 6 sgg. ? J. LE RonD D’ALEMBERT, Discours préliminaire à l’Encyclopédie, in La filosofia dell'Illuminismo, Bari 1966, pp. 91 sgg. Sulle posizioni di D’Alembert — e
66
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
prende le mosse Rousseau nel Discorso sulle scienze e sulle arti (uscito nel 1750, un anno prima del testo di D’Alembert, nel quale erano genialmente sistemati motivi critici ampiamente circolanti). E con due sole mosse ne rovescia i fondamenti. Accetta lo schema illuministico sul punto dell'opposizione tra Rinascimento e Medio Evo. Ma, al tempo stesso, ne capovolge il senso dal punto di vista del giudizio di valore. Il Rinascimento costituisce una svolta rispetto ai secoli barbari; ma è stato fatale allo svolgimento della vera civiltà. Scindendo apparenza e realtà, la «rinascita delle scienze e delle arti» ha distolto l’uomo
dalla virtù, e l’ha reso servo del potere. L’epoca moderna ha intrinsecamente corrotto l’umanità. Se è vero che Rinascimento e
Illuminismo si situano all’interno di un ciclo unitario, essi rappresentano stadi di un universale processo di corruzione del genere umano !°, È da questa posizione che, a sua volta, muove Herder nelle pagine di Ancora una ie della storia per l'educazione dell'umanità. Ma radicalizzando ulteriormente la tesi di Rousseau. Prima che il valore, Herder contesta frontalmente il fatto del Rinascimento. Quel fiore, sia pure corrotto,
non è mai effettivamente germinato. E solamente una costruzione artificiosa della razsor illuministica. Non solo: alle radici di quanto di meglio presenta il nostro mondo sta il Medio Evo, non il Rinascimento; stanno quei secoli barbari che hanno rinvigorito e rinsanguato l'umanità europea squassata dalla crisi dell'Impero romano. Da essi, infine, è scaturita una nuova visione dell’uomo, della vita, delle relazioni nella comunità origi-
naria, naturale, organica !!
Sono posizioni che andrebbero analizzate una per una, e anche schiarite nei loro rapporti reciproci. Ma qui interessa determinare, e solo per abbozzo, un punto generalissimo. Se quein genere sulla discussione francese intorno al Rinascimento nel ‘700 —- sono fondemente pagine di F. SIMONE, I/ Rinascimento francese. Studi e ricerche, Torino 1965? (con particolare riguardo alla seconda parte: «Nuovi contributi alla storia del termine e del concetto di Rinascimento», pp. 257-439). 10 J. J. RoussEAU, Discours sur les sciences et les arts, in ID., Scritti politici, I, introduzione di E. GARIN, Bari 1971, pp. 9 sgg. 1! J. G. HERDER, Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschbett, in ID., Ancora una filosofia della storia per l'educazione dell'umanità, a cura di F. VENTURI, Torino 1951. Sulla posizione di Herder sono importanti le notazioni di GARIN, Età buie e rinascita: un problema di confini, cit.
BALBO E ROMAGNOSI INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
67
sti sono i grandi orientamenti della discussione europea settecentesca, la storiografia italiana della prima metà dell’Ottocento si muove su un’onda assai diversa. Respinge il modello delineato da D’Alembert e l’idea di ‘mondo moderno’ messa a fondamento del Discorso preliminare. Ma non accede alle posizioni di Herder. Anzi. Il Medio Evo di Cesare Balbo e di Carlo Troya è incentrato sulla critica radicale della ‘barbarie’ germanica, e sul riscatto programmatico della esperienza storica e civile, universale, dei Comuni italiani !, Nonostante il loro limite
intrinseco — non riuscirono mai a diventare Repubbliche in modo organico — sono essi il fulcro decisivo dell’età di mezzo. Ovviamente è qualcosa di più di un contrasto — o di una querelle - di tipo storiografico. Affiorano opposti mondi storici, tradizioni e strutture nazionali sentite in modo antagonistico. E
ciò agisce nel senso di un drastico, programmatico, distanziamento. Più complesso risulta, invece, il rapporto con Rousseau, del quale è netta l'incidenza — e non solo nel caso di Balbo, su
cui appare documentabile fin dagli anni giovanili. Ma questo, a ben vedere, non stupisce. La critica ‘moralistica’ di Jean Jacques travalica il piano storiografico, e anche il terreno della interpretazione del Rinascimento (dove pur agisce fortemente, e fino al
De Sanctis !). Oltre il mondo storiografico tocca, appunto, originari fondamenti etico-politici. E qui traccia, e delimita, zone di consenso. 3. Ma,
come
s'è accennato,
la storiografia
italiana
della
prima metà dell'Ottocento si muove, in generale, su linee differenti da quelle della discussione sttecentesca. É un altro il suo problema fondamentale. Attiene anzitutto al nodo dello Stato1? CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono,
cit., I,
pp. 127 sgg.
13 Su De Sanctis e il Rinascimento cfr, in generale, il saggio fondamentale di D. CANTIMORI, De Sanctis e il Rinascimento, in ID., Studi di storia, cit., pp. 321 sgg. Per una esemplificazione della varietà — e della complessità — delle fonti della Storia della letteratura italiana, cfr G. AQUILECCHIA, I/ capitolo desanctisiano sulla
«nuova scienza», in ID., Schede di italianistica, Torino 1976, pp. 285 sgg. Per una rinnovata interpretazione della posizione di De Sanctis sul Rinascimento cfr ora M. PALADINI MISITELLI, I/ punto su De Sanctis, Roma-Bari
1988 (con puntuali
riferimenti ai saggi di G. SAVARESE, De Sanctis e i problemi dell'Umanesimo e di F. TATEO, I/ realismo critico desanctisiano e gli studi rinascimentali, entrambi raccolti in F De Sanctis e il realismo, Napoli 1978, I).
68
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
nazione, della indipendenza, e al tema — strettamente connesso - della condizionalità politica ed etico-politica della cultura. Sono i temi ideologici, storiografici e politici intorno ai quali la storiografia neo-guelfa ha costituito in Italia una tradizione di lungo periodo e di peso straordinario, oltre ogni immaginabile confine. Sono, appunto, i ‘problemi’ di Cesare Balbo, che da essi — lo vedremo — è indotto a valorizzare, sintomaticamente, il
Quattrocento, visto come il secolo nel quale politica e cultura si sono connessi in modo organico, intrecciandosi ai processi coevi
di accentramento statale e di indipendenza dell’Italia dagli stranieri, dai barbari. Sarebbe interessante discutere oggi queste posizioni, nel pieno della crisi degli Stati-nazione e del progressivo dissolvimento di realtà nazionali storicamente consolidate. E,
su questo sfondo, altrettanto interessante potrebbe essere l’analisi di un modello interpretativo che ha pesato a lungo e, con forza, sia sul piano etico-politico che su quello strettamente storiografico. L'elogio del Quattrocento — e la condanna simultanea del Cinquecento, interpretato come «elegantissimo baccanale di colture» 14 — si connettono geneticamente alla visione della indipendenza nazionale e della unità politico-statale quali strutture fondamentali della costituzione interiore di un popolo moderno. Senza stato non c’è nazione, né è possibile scriverne la storia (sintetizzerà Croce, a proposito della storia d’Italia !°). Allo stesso modo, senza ‘condizionalità’ etico-politica non germina vera cultura: ci sono decadenza, corruzione, l’‘uomo del
Guicciardini’ (per riprendere una categoria desanctisiana assunta e sviluppata da Gramsci nei Quaderni !9). S'è detto: è una tradizione critica e ideale arrivata fino a noi, incidendo su cul-
ture politiche diverse, perfino opposte, rispetto a quella che per prima l’ha definita, strutturata, diffusa. Ma, forse, varrebbe la
pena oggi di chiedersi quanto sia fecondo questo modello interpretativo di ascendenza ‘machiavelliana’ (per intendersi, sommariamente). Fecondo, s'intende, sul piano storico: in relazione
ai caratteri, e alle condizioni, dell’Italia nella prima metà del
14 C. BaLBo, Sommario della storia d'Italia, Firenze 1937.
» B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1964 (1928; ultima ed. Milano 1991). Sul lavoro di Croce cfr G. SASSO, La Storia d’Italia di Benedetto Croce. Cinquant'anni dopo, Napoli 1979.
16 Cfr il capitolo seguente.
BALBO E ROMAGNOSI INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
69
Cinquecento. Senza nulla togliere, dunque, al significato e al valore del punto di vista storiografico elaborato dalla cultura italiana negli anni del Risorgimento. Si è fatto sopra il nome di Guicciardini, generalmente maltrattato durante tutto l’Ottocento (e oltre, fino a Gramsci !”). E da tutti, in genere, su basi di tipo morale o moralistico. Quel
giudizio, lo sappiamo, era storicamente infondato, in tutti i sensi !. Ma è anche sui caratteri, e sui fondamenti, di quelle va-
lutazioni che oggi occorre liberamente interrogarsi. E prima di tutto sulla legittimità e sulla congruenza storica di un concetto di ‘crisi’ e ‘decadenza’ destinato a così larga e duratura fortuna, anche lungo il Novecento !. Ovviamente, sono problemi che travalicano il tema affrontato in queste pagine. Ma sono importanti, e andranno
affrontati in modo
analitico su entrambi
i
piani: su quello storico e su quello storiografico. Mai come in questo caso la distinzione tra res gestae e historia rerum gestarum risulta essenziale per individuare il problema, e metterlo a fuoco °°. 4. Coerentemente al quadro sopra descritto — cui conviene tornare — nel suo lavoro Cesare Balbo si concentra in modo programmatico sull'età di mezzo, vista come centro di quel «poema» storiografico che tutti, allora, intendono scrivere. Ma
il Medio Evo presentato nel Sorzzzario della storia d’Italia non è
17 Cfr GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., I, pp. 294, 677; II, pp. 762, 956-
957, 1325; III, pp. 1814-1815, 2227. Per una discussione serrata di questo tipo di posizioni cfr R. RIDOLFI, L'uomo Guicciardini cento anni dopo L'uomo del Guicciardini, in ID., Studi guicciardiniani, Firenze 1978, pp. 225 sgg. 18 Un eccellente contributo al rinnovamento della ricerca guicciardiniana è nel volume
Francesco
Guicciardini
1483-1983,
nel V centenario
della nascita,
Firenze 1984, in cui sono contenuti saggi di studiosi come G. Sasso, F. Gaeta, N. Rubinstein, P. Jodogne, G. Nencioni, E. Cochrane). 1? Sono superflue indicazioni bibliografiche, in questo caso. Da Croce a Gentile, da Cantimori a Chabod, da Garin a Banfi, il tema della ‘decadenza’ — variamente affrontato e tematizzato — è uno dei motivi essenziali della ricerca
storiografica e filosofica del ’900 italiano, con particolare riferimento al periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento. 20 Su questo nodo critico, sia pur da un punto di vista determinato, sono rilevanti le osservazioni di D. CANTIMORI, Storia e storiografia in B. Croce [1966], in ID., Storici e storia. Metodo, caratteristiche e significato del lavoro storiografico, Torino 1971, pp. 397 sgg.
70
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
solo un fascio di luce. Al contrario. Risulta pieno d’ombre, ed è segnato da un limite costitutivo. Per Balbo c’è, anzitutto, un
elemento fondamentale da notare: in Italia, già intorno all’anno Mille, si costituiscono nuove, moderne forme di governo «con un magistrato supremo di 3, 6 o 12 consoli, un consiglio minore o ‘credenza’, e uno maggiore od ‘adunanza’ di tutti i cittadini» 2! E senza dubbio «questo nome, questo ufficio, questo governo, diedero alle città italiane quel compimento di libertà ch’elle ebbero poi, poco più poco meno, in tutti i lor secoli di libertà» 22. Ma quel compimento fu «pur troppo insufficiente», quella libertà non fu «mai compiuta», e perciò si «rifece soggetta or ai conti, marchesi, o duchi antichi, or ad usurpatori o
tiranni, e sempre al signor sommo feodale straniero, l’imperatore» ?. Insomma - e qui il limite fondamentale della nostra storia comunale — quella libertà non divenne mai indipendenza dallo straniero, dal «barbaro invasore». Germina da questa in-
sufficienza la nostra decadenza. E da essa derivano anche le differenze essenziali della storia nazionale italiana rispetto a quella di altre, più progredite, nazioni europee. Introducendo un altro tipico motivo osserva nel Sorzzzarzo: «in Italia dove il Principe era straniero e lontano, odiato e disprezzato, i Comuni appena sorti sciolsero la monarchia, senza saper fondare né una né molte repubbliche, vere di nome e di fatto, ben equilibrate e in-
teramente indipendenti»; altrove, invece, dove erano «principi nazionali e vicini, e così amati o temuti, i Comuni e i popoli nuovamente sorti non pensarono mai a sciogliere le monarchie,
non pensarono ad altro se non ad entrarvi essi, ad ottenervi lor parte di governo; e l’ottennero entrando ne’ parlamenti antichi, facendovi uno stato terzo (talora anche un quarto) oltre ai due primi e fin allor soli» ?4. Di qui, e per intrinseca necessità, sorse
?! BaLBo, Sommario della storia d’Italia, cit., p. 217. Per un penetrante ritratto di Balbo cfr W. MATURI, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia
della storiografia, prefazione di E. SESTAN, aggiornamenti bibliografici di R. Romeo, Torino 1962, al quale si rinvia anche per il ricco apparato bibliografico. Su Balbo e il Rinascimento pp. 151 sgg.
Ibid:
23 Ivi, pp. 217-218. 24 Ivi, pp. 219-220.
si veda VASOLI,
Umanesimo
e Rinascimento,
cit.,
BALBO E ROMAGNOSI
INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
71
quel governo rappresentativo che, assente in Italia per le ragioni dette, costituisce invece, per Balbo, «il più perfetto, il più civile, il più progredito tra tutti gli inventati o provati mai, il solo conforme alla civiltà presente e futura, il solo destinato a trionfarvi e a farla trionfare» ??. L'Italia comunale è stata dunque al centro di un processo contraddittorio, entro cui s'intrecciano elementi di sviluppo e insufficienze radicali, progressi e arretratezze. Sta qui la ragione di quello che a prima vista può sembrare un paradosso: proprio nel momento di massimo splendore cominciano a delinearsi caratteristiche differenze di svolgimento storico che hanno fatto dell’Italia un caso specifico nel quadro della generale storia dell'Europa. Da un lato indipendenza, governo rappresentativo, monarchia nazionale (insomma, il model-
lo inglese, culla, per Balbo, della modernità); dall’altro assenza di
indipendenza, assenza di governo nazionale, assenza di rappresentanza politica. Insisto volutamente su questo lemma: ‘assenza’. Quella che Balbo delinea in queste pagine è, appunto, una caratteristica ‘ideologia dell'assenza’, destinata anch'essa a vari e
duraturi sviluppi, a incidere a fondo nella costituzione delle culture politiche italiane dell'Ottocento e del Novecento, a riaffiorare periodicamente, nel. quadro di un ricorrente giudizio sull’‘arretratezza’ e l'‘incompiutezza’ della storia italiana °°. «Noi — insiste Balbo — siamo nelle condizioni delle nazioni nuove che debbono imparare poco meno che tutto da quelle che le precedettero in civiltà». E aggiunge: «siamo tuttora quella fra tutte che ha più bisogno di imparare la libertà rappresentativa; perciocché ormai, dall’ultimo tentativo in qua, non è più, come sperammo, l’indipendenza che ci possa dare la libertà, ma la libertà
che sola ci può condurre alla indipendenza» ?”. É un passaggio sul quale conviene riflettere, anche alla luce di quanto più avanti si dirà a proposito del giudizio sul Quattrocento. Il nesso tra analisi storica e prospettiva politica resta fermo. Ma si complica su un nodo delicatissimo. Quella che era 2? bid. 26 Per un esempio di questa impostazione si veda il libro di C. POGLIANO, Piero Gobetti e l'ideologia dell'assenza, Bari 1976. Giudizi sintomatici di Gobetti su Balbo si leggono ora in P. GOBETTI, Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di P. SPRIANO, con due note di F. VENTURI e V. STRADA, Torino 1969, specialmente pp. 172 sgg.
2? BaLBo, Somzzario della storia d’Italia, cit., pp. 221-222.
72
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
apparsa l’assenza fondamentale della nostra storia, dalai» ne effettivo criterio esplicativo -l' indipendenza — si situa all’interno di un quadro più vasto, entro cui spicca come motivo dominante il principio della libertà. Di fatto qui muta, in modi complessi, il rapporto tra indipendenza e libertà che distingue tanta parte delle analisi e dei giudizi storiografici espressi nel Sommario, anche a costo — si vedrà — di non trascurabili aporie,
proprio nelle parti che più direttamente ci riguardano. Distanziando passato e presente la critica di Balbo si trasforma in programma politico concreto, ponendo problemi nuovi alla coscienza nazionale italiana. E lo fa in positivo e in negativo. All’analisi dei vizi antichi si salda, nel Sorzzzario, un programmatico e drastico rifiuto di tutti i vizi capitali della società moderna: della repubblica, della eguaglianza, di «que’ socialismi e comunismi, che sono barbare idee in barbare parole» °8
5. Il discorso di Balbo sull’età di mezzo è dunque netto; e getta luce — sia pure per contrasto — sui motivi fondamentali della critica svolta nei confronti del nostro Cinquecento. Ma su questo sfondo problematico non meno interessante risulta il ragionamento svolto intorno a un nesso cruciale a quella data e per quella storiografia. Del resto, insieme a quelli della indipendenza e del governo rappresentativo, la centralità del rapporto tra politica e cultura è un altro dei grandi miti della storiografia neoguelfa, destinato anch’esso a straordinaria e complessa fortuna, oltre l’Ottocento. «A tutta la cultura generalmente, alle lettere principalmente» sono essenziali — osserva in linea di principio Balbo — «l’ indipendenza anche iincompiuta, la libertà anche con i suoi inconvenienti e talora eccessi» 29, Eventilalmente cò può giovarsi anche di quegli «accrescimenti di personalità» che sono, invece, fatali allo stato, perché si risolvono in un processo di dissoluzione?° (e qui è interessante notare, sia pur di passaggio, il trasformarsi di un giovanile — ma pur significativo — atteggiamento alfieriano }!). Ma per poter vi-
28 Ivi, p. 260. 29 Ivi, pp. 286-287.
30 Ivi, p. 286. 3! A questo proposito cfr il classico lavoro di E. PASSERIN D’ENTREVES, La giovinezza di Cesare Balbo, Firenze 1940, pp. 13 sgg. nel quale è messo a fuoco anche il complesso rapporto del giovane Balbo con Rousseau (cfr pp. 21, 54 sgg.).
BALBO E ROMAGNOSI
INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
175)
vere e svolgersi la cultura ha bisogno, anzitutto, di condizioni
politiche adeguate: appunto di indipendenza e libertà. La ‘condizionalità’ politica della cultura per Balbo è dunque ineludibile. E netto è conseguentemente (e rousseauianamente) il primato della civiltà sulla cultura, della politica sulle arti e sulle lettere. Dal punto di vista degli effetti critici, è un nodo fondamentale. Il giudizio positivo sul Quattrocento al quale si faceva prima riferimento si radica in questa posizione etico-politica, da cui scaturiscono organiche prospettive storiografiche. «Quel secolo — scrive a proposito del Quattrocento — ebbe col secolo ultimo della libertà latina la sorte comune di tramandar tutte educate le grandezze ai due secoli nomati da Augusto e da Leon X» 22, Ma fu allora, invece, che si ampliarono e si riorganizzarono in modi nuovi gli stati italiani, limitando il tradizionale «sminuzzamento» della penisola. In quel tempo comparvero anche, e s’imposero, «splendidi nomi politici e militari». In sintesi: dalla metà del Quattrocento — e precisamente dall’avvento dello Sforza alla signoria di Milano — incominciò «un periodo, pur troppo breve, non arrivante a mezzo secolo, ma che fu forse il più felice, il più vicino all'indipendenza compiuta, certo il più fecondo di grandezza e splendori che sia stato mai all'Italia, dopo il vero imperio romano» 7. Grandezza — si noti — sia sul piano politico che su quello culturale: ed è un nesso consapevole, sul quale conviene
brevemente
richiamare l’attenzione,
anche per i problemi che, se non mi inganno, esso porta alla luce. Si legge nel Sorzzzario: «in coltura come in politica, la cosiddetta mediocrità del secolo XV si riduce alla prima metà od al primo terzo di esso». Grazie alla pace religiosa e politica, e all'invenzione della stampa, dopo una fase di rallentamento ebbe inizio un periodo di sviluppo e di splendore. Fiorirono uomini come Valla e Bracciolini, Cusano e Pulci, Filelfo, Alberti, Poli-
ziano. E fu allora che nacquero «i maggiori uomini dell’età seguente» 4. Quello che si continua a chiamare il secolo di Leone X è stato dunque il secolo di Lorenzo il Magnifico. Di più: sul piano della periodizzazione il Quattrocento rappresenta il culmine effettivo della storia iniziata intorno all’anno Mille. E si 32 BaLBO, Sommario della storia d'Italia, cit., p. 333.
33 Ivi, por 294e 31);
34 Ivi, pp. 347 sgg.
74
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
contrappone frontalmente alla crisi e alla decadenza dell’Italia cinquecentesca. Col secolo XVI inizia un’altra storia. Di fronte a questi giudizi — e alla periodizzazione che li fonda — colpisce il grado di incidenza e di penetrazione del-
l'ideologia nazionale e indipendentistica nell’analisi storiografica svolta nel Sorzzzario. Ma quello che colpisce più di tutto è la consapevole tensione cui viene sottoposto da questo atteggia-
mento il punto di vista elaborato dallo stesso Balbo su nodi critici essenziali. Nel Sorzzzario, l'abbiamo visto, si batte, con forza
e a più riprese, sul nesso tra politica e cultura. E si spiega a questa luce l’‘incompiutezza’ della nostra storia nazionale, prodot-
ta dallo scarto fra un forte sviluppo sociale e culturale e una persistente debolezza politica e statale. Ma, detto questo, Balbo nel Sorzzzario allarga, e complica, il discorso. Allora, osserva,
l'indipendenza fu riscattata dalla presenza della libertà. E precisa, ponendo un principio essenziale della sua posizione: «[...] la libertà anche cattiva, anche barbara, disordinata, eccessiva,
cadente in licenza, è tuttavia culla più favorevole alla cultura che non possa essere il principio assoluto o feodale». Così stanno le cose, anche sul piano dei fatti: «[...] in tutti i tempi, in tutti i luoghi le grandi colture furono figlie o d’una libertà legittima, legale, stabilita, o d’una reale quantunque non riconosciuta, o almeno d’una incipiente quantunque non progredita» ?. L'analisi storica conferma dunque la validità di un principio che, in essenza, appare metastorico e metapolitico: «le colture aver bisogno di libertà, e quasi sempre la libertà aver bisogno di coltura» ?° (si noti di passaggio come questo «quasi» ribadisca il primato della civiltà sulla cultura, secondo un atteggiamento critico su cui si è già richiamata l’attenzione). Appunto: la libertà — non l'indipendenza, che mancò — fu la con-
dizione del forte sviluppo culturale dell’Italia dei Comuni. Ma se così stanno le cose, in linea di fatto e di principio,
resta difficile comprendere la fioritura di cultura del nostro Quattrocento. Il nesso tra politica e cultura qui si situa al di là di quella libertà, che, si è visto, è pur la prima scaturigine in
tutti i luoghi di ogni grande cultura. Dal punto di vista critico, è un passaggio assai complesso. Per ragioni politiche cruciali 3 Ivi, pp. 330-331.
osi
BALBO E ROMAGNOSI
INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
73
Balbo rivendica con forza il significato positivo dell'età di Francesco Sforza e di Cosimo de’ Medici: e non può non farlo — nel quadro del suo ragionamento — se non rivalutando, al tempo stesso, la cultura della loro età. Ma, a sua volta, questo mette
necessariamente in discussione il nesso tra cultura e libertà prima indicato, e con la forza che si è visto. Resta infatti da comprendere di quale libertà sia figlia, nel Quattrocento, quella cultura. E prima ancora si tratterebbe di chiarire cosa significhiin quel Quattrocento ‘libertà’ ?”. E un nodo critico troppo evidente perché Balbo non l’avverta,
e non
cerchi,
a modo
suo, d’affrontarlo in modo
esplicito: [...] noi — scrive a proposito dei processi di unificazione avviati nel Quattrocento, e a giustificazione del suo atteggiamento critico — salutammo siffatte riunioni con compiacimento, senza guari compiange-
re le garanzie repubblicane perdutesi in quell’opera, senza lamentare i principati sorti sulle loro rovine; perché — sottolinea, a conferma ulteriore dell’evidenza del problema — crediamo che anche nei principati possa esser libertà e felicità; perché ai tiranni e semibarbari di que’ secoli ne succedettero di quelli civili, e che van diventando liberi 38.
Si noti, in questo passo, la periodizzazione e la specificazione («van diventando liberi»), che è una intrinseca limitazio-
ne della tesi appena dichiarata (anche nei principati possono esservi libertà e felicità). Ma lo spiraglio, pur così ristretto, subito si chiude. Non era teorico, né filosofico il problema di Cesare
37 È appena il caso di ricordare che proprio su questo tema si è impegnata la migliore storiografia contemporanea sul Quattrocento. Tra i molti lavori spiccano le opere fondamentali di E. GARIN, L'urzanesimo italiano, Bari 1949 (I edizione tedesca 1947) e H. BARON, La crisi del primo Rinascimento italiano, edizione riveduta e aggiornata, Firenze 1970 (1955!). Su questi temi critici si vedano, tra gli altri, G. Sasso, «Florentina libertas» e Rinascimento italiano nell'opera di H. Baron (a proposito di due libri recenti), «Rivista storica italiana», LXIX, 1957, pp.
250-276; E. GARIN, Le prime ricerche di H. Baron sul Quattrocento e la loro influenza fra le due guerre, in Renaissance Studies in Honor of Hans Baron, a cura di A. MOLHO eJ. A. TEDESCHI, Firenze 1971, pp. LXI-LXX; R. PECCHIOLI, ‘Urzanesimo civile’ e interpretazione ‘civile’ dell'’Umanesimo, «Studi storici», XIII, 1972, pp. 3-33. Si vedano anche VASOLI, Umanesimo e Rinascimento, cit., e M.
CILIBERTO, I/ Rinascimento. Storia di un dibattito, Firenze 1988?. 38 BALBO, Sommario della storia d'Italia, cit., p. 354.
76
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
Balbo. E neppure la consapevolezza di una possibile aporia era in grado di bloccare il senso e la direzione complessiva della posizione critica che, a oltranza, intendeva porre e sviluppare. All’opposto: proprio a muovere di qui Balbo ribadisce con nettezza il valore esplicativo del principio politico messo a base di tutta la sua analisi, e, conseguentemente, anche della sua riven-
dicazione dell’età quattrocentesca: [...] insomma - scrive senza possibilità di equivoci — noi teniamo l’occhio fermo principalmente al bene di tutte insieme le terre italiane, e [...] tenendo sempre più impossibile la riunione totale di esse, noi stimiamo sommo bene lo sminuzzamento quanto maggiori sieno possibili ??.
quanto minore, le riunioni
Concludendo: la civiltà, intesa in primo luogo come indipendenza nazionale, può subordinare a sé anche l’intrinseco principio animatore di ogni vera cultura. 6. Se questo è il fondamento etico-politico dell’analisi storiografica di Balbo, si comprende agevolmente il rifiuto senza appello dell’età cinquecentesca espresso nel Sorzzzario: il periodo compreso tra il 1492 e il 1559 — si legge — fu «uno splendidissimo, spensieratissimo precipitare, e non più» 4°, Ma questa
decadenza ha, per Balbo, una radice politica fondamentale. I processi di unificazione e di accentramento avviati nel Quattrocento si bloccarono, anzi decaddero. Riaffiorarono i limiti strut-
turali della nostra storia nazionale: «incompiutezza antica dell'indipendenza»; «antico disordine delle libertà»; «antico difetto d'armi
nazionali»;
«stranieri
nuovamente
chiamati,
sofferti,
lasciati antiquarsi»4. La politica italiana che nei secoli precedenti, pur rinunciando alla indipendenza, aveva saputo salvaguardare la libertà, nel Cinquecento decade integralmente: «non ebbe più scopo nessuno, e, salve poche eccezioni, non fu più politica nazionale, ma provinciale, la pessima di tutte per qualunque nazione, la più stolta per una, che ha tante comunanze di schiatte e di lingue, tante solidarietà d’interessi e di
3 Ibid.
40 Ivi, p. 357. 441014)
BALBO E ROMAGNOSI
INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
ui
bisogni» 4. Nel 500 si rinuncia definitivamente alla indipendenza nazionale. E, prima ancora; si scava una scissione profon-
da tra etica e politica, tra politica e cultura. In breve: l’epoca di Leone X rappresenta il rovesciamento speculare del mondo morale e civile di Cesare Balbo, e della tradizione storiografica e politica che alla sua opera ha fatto lungamente capo. Eppure chi studia il Cinquecento si trova davanti un fatto che a prima vista sembra un paradosso. Proprio in quel periodo di «politica pessima» è fiorita la più splendida cultura «fra quante furon mai da Pericle a’ nostri dì» #. Fatto indiscutibile, sembra inesplicabile, una insuperabile contraddizione. Ma non è così, per Balbo; e per un duplice ordine di ragioni. Anzitutto quella cultura — priva com’era di fondamento etico-politico — aveva in sé il germe della decadenza e della corruzione. E questa era, in effetti, la sorte che storicamente l’attendeva. Ma c’è
anche una seconda spiegazione di questo fenomeno paradossale. Quel fiore splendidissimo era sbocciato su un terreno che non era, di fatto, rappresentato dalla società e dalla politica cinquecentesche. Sprofondava le radici in quella civiltà del Quattrocento che aveva avuto il merito d’avviare un processo di unificazione e di indipendenza nazionale così precocemente e infelicemente sfiorito: [...] tutti gli impulsi eran nati e più o meno educati, ed uomini non potevano tempo più sereno doveva
già dati — scrive Balbo —, tutti gli uomini già quando incominciò questo periodo; impulsi cessare ad un tratto; il fior maturato al
fruttificare a malgrado la tempesta **
Il ’500 ha solo corrotto quel che già era nato. Si noti il riemergere — ed il rafforzamento — di un motivo critico già visto all'opera. Pur di deprimere il Cinquecento — e condannare la decadenza etico-politica che, a suo giudizio, l'avrebbe attana-
gliato, corrompendo l’Italia per secoli e secoli -, Balbo è indotto a rappresentare la civiltà quattrocentesca come una sorte di ‘età dell'oro’ della nostra storia, da rivalutare nella totalità. I limiti pur intravisti — per contrasto, ma su un terreno cruciale —
2 Ivi, p. 393. 5 Ibid. 44 Ibid.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
scoloriscono, si dileguano. Tante erano per Balbo le ‘colpe’ del Cinquecento; e tanta — si può aggiungere — era l’incidenza della passione nazionale e indipendentistica. nella interpretazione della storia d’Italia offerta nel Sorzzzario. Passione nazionale e,
s'intende, passione civile, etico-politica. C’è un nesso intrinseco, per Balbo, tra cultura e vita morale; tra valore e civiltà. Nascono, crescono e decadono insieme. In ultima analisi, la decadenza è, appunto, scissione tra cultura e fondamento etico-civile,
nazionale: «insomma - scrive Balbo, a proposito del tempo di Leone X - moralmente, politicamente e religiosamente parlando, non sarebbe troppo il dire che fu un vero baccanale di tutte le culture». Anzi: [...] un elegantissimo baccanale di coltura; un rimescolio di scelleratezze e patimenti e sollazzi, per cui l’intiera Italia del Cinquecento si potrebbe paragonare alla lieta brigata novellante, cantante e amoreggiante in mezzo alla peste del Boccaccio; se non che qui, oltre alla peste — aggiunge Balbo —, eran pure le ripetute invasioni straniere, le guerre, i saccheggi, le stragi, i tradimenti, le pugnalate e i veleni; ed oltre ai canti e alle novelle, ogni genere di scritture e di stampe, e pitture e sculture e architetture; ogni infamia, ogni eleganza, ogni
contrasto ”?.
Declino politico e degenerazione culturale: tutto si tiene nella generale decadenza italiana.
7. Si è insistito a lungo sul Sorzzzario perché esso costituisce un testo tipico, entro cui si organizzano — in modo più o
meno coerente — motivi destinati a incidere lungamente nella cultura italiana e sulla ideologia di molti gruppi intellettuali anche nel ’900, e non solo sul piano storiografico. Se ne sono citati alcuni più importanti: lo Stato-nazione, la condizionalità politica della cultura, l'ideologia dell’assenza. Si pensi, appunto, a quest’ultimo motivo. Tra la fine del secolo e i primi decenni del Novecento l'ideologia dell'assenza si è riconfigurata come principio esplicativo, in forme nuove, dell’arretratezza dello Stato-nazione
italiano, e, prima ancora,
4 Ivi, pp. 372 e 393.
dei limiti intrinseci,
BALBO E ROMAGNOSI INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
strutturali, del nostro
processo
nazionale ‘. In una
79
sorta di
gioco degli specchi, il motivo delle insufficienze della moderna storia italiana si è trasformato in modello interpretativo della storia italiana contemporanea (ben al di là, dunque, dell’orizzonte politico e intellettuale di Cesare Balbo, ma nel solco di una tradizione comune, con la quale, anche nel nostro secolo, è stato necessario fare lungamente i conti). Su tutt'altro terreno ideale e storiografico si situa, invece,
l’analisi svolta da Giandomenico Romagnosi nel Risorgimento dell’incivilimento italiano, uscito nel 1832 #. Di fatto, è un testo
che si oppone al modello di Balbo su punti capitali, e in modo consapevole, programmatico. Poco apprezzato dal giovane Cantimori che per Cattaneo e Romagnosi mostra quasi fastidio #8, distanziandosi perfino dai riconoscimenti presenti nella Storia di Croce ‘?, il Risorgizzento di Romagnosi rappresenta uno dei con4° Per una prima messa a fuoco del problema cfr POGLIANO, Piero Gobetti e l'ideologia dell'assenza, cit. Ma l'indagine andrebbe sistematicamente allargata, ed estesa anche al periodo del postfascismo. # La memoria Sull’indole e sui fattori dell’incivilimento con esempio del suo Risorgimento in Italia uscì per la prima volta negli «Annali universali di statistica» nel 1832. Su di essa — e sulla complessiva posizione di Romagnosi — si vedano le pagine di E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Torino 1966, III, pp. 1046 sgg. (cui si rimanda anche per ulteriori indicazioni bibliografiche). Sull’interpretazione del Rinascimento di Romagnosi si veda, in particolare, VASOLI, Umzanesimo e Rinascimento, cit., pp. 149 sgg. Un’utile edizione di testi di Romagnosi è in Opere di G. D. Romagnosi, C. Cattaneo, G. Ferrari, a cura di E. SESTAN, MilanoNapoli 1957. In queste pagine faccio riferimento a G. D. ROMAGNOSI, Scritti filosofici, 2 voll., a cura di S. MORAVIA, Milano 1974 (lo scritto sul Risorgirzento del-
l’incivilimento italiano è compreso nel volume secondo, pp. 184 sgg.). 48 D. CANTIMORI, Sulla storia del concetto di Rinascimento, in ID., Storici e
storia, cit., pp. 413 sgg. (il testo fu pubblicato originariamente nel 1932 sugli «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», II s., I, 1932, pp. 229 sgg.). Scrive Cantimori: «Maggior luce di direttive non veniva alla cultura italiana neppure da due stimatissimi studiosi, come il Cattaneo ed il Romagnosi. Per entrambi vale la vecchia concezione che abbiam visto nel Bettinelli, del ‘Risorgimento’ della vita italiana dopo il Mille, culminante con Tommaso d'Aquino e con Dante Alighieri, e permanente a lungo fino alla metà del XVI secolo, nonostante guerre ed invasioni. Onde il loro interesse per il Rinascimento piglia tutt'altro tono da quello che attribuisce loro il Croce. E stanno ancor troppo sulle generali perché si possa dare particolare importanza alla ampiezza dei limiti da loro assegnati all’epoca del ‘Risorgimento’. Per la Riforma, in loro, nessun interesse. Tale il terreno sul quale
dovevano lavorare lo Spaventa e il De Sanctis» (p. 446). 4 CROCE,
pp. 206 sgg.
Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono,
cit., I,
80
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
tributi più originali, fecondi, e moderni, a una rinnovata interpretazione del Medio Evo e del Rinascimento. E questo, si noti, al di fuori di qualsiasi visione rigida o schematica del nesso, pur cruciale, tra storiografia e politica. Del resto proprio questo era stato il limite — di merito e di metodo — che nel 1839 Carlo Cattaneo aveva individuato nella Vita di Dante di Cesare Balbo, il
quale — scrive — ha «lo strano proposito di rappresentar Dante come Dante non fu. Il che — prosegue — proviene da spirito di parte, e da due supposti, nei quali non è facile convenire; il primo de’ quali si è che il poema di Dante, perché dettato a lui da passioni civili e religiose, possa avere oggidì un’efficacia civile e religiosa che veramente non ebbe mai; ed il secondo si è che le forze dell’età nostra possano riguardarsi come raffigurate in quelle del tempo di Dante» 2°. Ma nel mondo moderno, sottolinea Cattaneo, non vi sono né «guelfi», né «ghibellini». E
questo per un motivo storico preciso. Sono cadute le ragioni del loro contrasto: da un lato, beni feudali, unità imperiale di tutta l’Italia, avversione alla Chiesa; dall’altro, beni mercantili, re-
pubbliche municipali, avversione all’Impero. Oggi tutto è cambiato, ribadisce. E «se nel tempo dei guelfi la civiltà italiana fece troppo poco affidamento sulla sua agricoltura, potrebbe dirsi che oggi sia trascorsa all’ opposta estremità» 24 È un testo chiaro, sul piano teorico e su quello storiografico. Ma non è un caso, mi pare, che Cattaneo in queste pagine faccia riferimento esplicito al Rzsorgizzento, citandone la tesi sull’‘ordine inverso’ che avrebbe distinto il nostro incivilimento. Già nel ’32, infatti, Romagnosi aveva preso con nettezza le di-
stanze da posizioni come quelle del Sorzzzario (presentate da Balbo già in altri lavori precedenti), avviando l’elaborazione di 90 C. CATTANEO, rec. della Vita di Dante di Cesare Balbo, in C. CATTANEO,
Opere scelte, I, a cura di D. CASTELNUOVO FRIGESSI, Torino 1972, pp. 313 sgg. (la recensione venne pubblicata per la prima volta sul «Politecnico», I, 1839, fasc. 4, pp. 381 sgg.). Su questa posizione di Cattaneo cfr A. VALLONE, La critica dantesca nell'Ottocento, Firenze 1958, passim. Ma si veda anche, ovviamente, CROCE,
Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, cit., I, pp. 209 sgg. 2h Iwiypad16: ? Penso, naturalmente, a C. BALBO, Storia d’Italia, 2 voll., Torino 1830. Tengo tuttavia a precisare che in queste pagine non mi interessa tanto l’indivi-
duazione di una relazione e di una ‘dipendenza’ specifica, quanto la messa a fuoco di due opposti modelli interpretativi del Rinascimento italiano nella prima metà del XIX secolo.
BALBO E ROMAGNOSI INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
81
una prospettiva critica radicalmente differente. Si è sottolineata, a più riprese, l’incidenza in Balbo dell’ideologia dell’assenza. «Che cosa dunque mancò?», si chiede, a sua volta, Romagnosi.
E risponde, in chiari termini polemici: né «indole politica», né «virtù militare» ??. Forse mancarono altre cose: concordia e unificazione delle forze delle varie città; conoscenza della potenza degli stati; spirito politico nazionale; capacità di contenere e moderare le prepotenze dei magnati; coscienza dei principi e della ragione naturale... 4. Ma non sta qui, per Romagnosi, il nodo del problema. Potrebbe continuare all’infinito questo elenco di carenze. E senza frutto. Ciò che Romagnosi intende rifiutare, in primo luogo, è proprio questa astratta ideologia dell'assenza, delineando, per opposizione, un altro più concreto
approccio alla storia dell’Italia medievale e moderna: Guardiamoci — scrive con efficacia — dall’abbandonarci a un senso di riprovazione nel giudicare di questa età; e domandiamoci in vece se fosse possibile di supplire a queste mancanze. Speculativamente possiamo raffigurare ciò che avrebbesi potuto fare; ma volendo ridurlo a pratica cosa ne risulta? Che sarebbe stato necessario impastare altri uomini con altre cognizioni, con altre abitudini, con altra fortuna”.
Ma questi sono, appunto, ragionamenti astratti, dottrinari,
senza fondamento nella realtà storica effettiva. In primo luogo, confederandosi le varie città avrebbero avuto timore di perdere i loro vantaggi specifici. In secondo luogo, se anche si fosse riusciti nell’intento, resta da vedere quali effetti avrebbe avuto una confederazione, e chi concretamente ne sarebbe stato a capo. Ma soprattutto resta da stabilire se in quella particolare situazione una confederazione di città avrebbe avuto effetti progressivi superiori, almeno, a quelli storicamente accertabili e accertati. Né, a questo fine, serve interpretare la storia italiana medievale e moderna alla luce di altri modelli nazionali — da quello inglese che, come si è visto, Balbo privilegia, a quello francese, o a quello germanico. Alla simiglianza di nomi — osserva Romagnosi — non corrispondono sempre le stesse circostanze, li stessi interessi, li stessi poteri pre53 ROMAGNOSI, Risorgimento dell'incivilimento italiano, cit., p. 263. 94 Ibid. ? Ibid.
82
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
dominanti, la stessa indole di popolazione, e le stesse antecedenti tra-
dizioni ed abitudini °.
Non giova, insomma, stabilire astratte asimmetrie, che possono solamente allontanare da una realtà storica concreta irriducibile ai criteri dell'assenza e dell’arretratezza. All’opposto, per Romagnosi è proprio allora che sono iniziati «la vita e i progressi della nostra attuale civiltà». Ma, per conoscerli, occorre analizzarli senza astratti paragoni, segnalandone gli svolgimenti peculiari, nell’ambito di una determinata realtà nazionale, rispetto ad altre realtà nazionali. È un ragionamento consapevolmente ostile all’«impaziente
speculazione», basato su una chiara scelta storiografica e teorica. A differenza di Balbo e dei neoguelfi — concentrati, anzitutto, sulle dinamiche etico-politiche, risolte in chiave nazionale e
indipendentistica - Romagnosi guarda alla dimensione sociale dei processi, senza preclusioni di carattere astrattamente moralistico. E si sforza di delinearne i caratteri morfologici nel quadro di riferimenti economici
spazialmente definiti, e secondo
unità di tempo lunghe, internamente articolate e profonde. I tempi storici, per Romagnosi, non possono infatti prescindere dai tempi naturali. Per questo, anche, usa un lessico specifico di carattere biologico e vegetale. Ma questo non vuol dire che non sia altrettanto sensibile alla dinamica politica dello svolgimento. Occorre distinguere. Romagnosi rifiuta con nettezza un primato della politica intesa come forma autonoma e onnicomprensiva dei processi. Allarga il quadro, sul terreno teorico e su quello storiografico. La politica è momento essenziale — ma un momento — di una configurazione storica complessa entro cui agisce una pluralità di elementi e di fattori, da consi-
derare nella loro specifica funzione. Al di fuori dunque di arbitrarie gerarchie di tipo ‘politicistico’, e di simmetriche, arbitrarie semplificazioni, imperniate sulla confusione di problemi e soluzioni. In Italia — ed è questo il nodo effettivo su cui riflettere — non si è avuto un processo moderno di unificazione politica, a differenza di altri paesi europei. Questo, che è un fatto,
pone un problema. Ma non si può scioglierlo — teoricamente e storiograficamente — assumendo il superamento delle divisioni 56 Ivi, p. 264.
BALBO E ROMAGNOSI
INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
83
come un valore in sé, senza riferimenti specifici al «carattere dei governati» e alle «condizioni dei governanti» — cioè alla situazione storica reale. Romagnosi, consapevolmente, muove di qui, rovesciando punto per punto lo schema ideologico di ascendenza ‘nazionale’ e ‘indipendentistico’: se si tien conto delle «distrazioni, sia politiche, sia personali, dei governanti — scrive a
proposito dei progressi della cultura in Italia tra ’200 e ’400 — le genti italiane non avrebbero certamente ottenuto verun inci-
vilimento, se lo avessero dovuto aspettare da essi» ”. E così continua, radicalizzando ulteriormente il discorso: Se poi i loro principi si fossero allora fusi in uno solo, e alla discrezione politica del governo fosse mancata la cognizione dell’assoluta necessità della moderazione per la potenza e sussistenza del principato, certo i nemici dell’equità comune si sarebbero furiosamente scatenati contro le Communi, usando della forza stessa dell’unito principato, come appunto in questo torno stesso di tempo si praticava nella vicina Francia ?8.
Il modello interpretativo di matrice machiavelliana — cui sopra si faceva riferimento — qui viene nettamente corretto e delimitato, oltre che sul piano storico-politico, su quello strettamente storiografico, prendendo con forza le distanze dalle stesse Storie fiorentine. Le quali — scrive polemicamente — non sono altro che la «storia delle ambizioni fiorentine»: mentre «lo stato economico e morale di quel popolo è così obliato, che tu non ravvisi la differenza tra i secoli dei Medici e quello dei Buondelmonti e degli Amidei» ??. In sintesi: Machiavelli si è tenuto alla superficie dei processi, senza cogliere le connessioni profonde della società, alla quale bisogna saper guardare in tutta la sua complessità. E, in generale, una posizione teorica e di metodo assai moderna e suggestiva. Ma quello che ora conta, anzitutto, rilevare è la prospettiva storiografica che organicamente ne di-
scende, incrinando alle radici ogni possibile interpretazione di ascendenza ‘machiavelliana’ (nel senso, s'intende, di ciò che a Machiavelli,
a quella data, viene genericamente e riduttivamen-
ZAN 38 Ibid.
3 Ivi, p 285.
84
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
te attribuito °°). Quella unificazione che tutti rimpiangono, in Italia — osserva Romagnosi — sarebbe stata foriera di mali, non di bene: in primo luogo «sarebbe stato tolto il frutto della già introdotta civiltà»; in secondo luogo «sarebbe stata spenta ogni forza progressiva, o almeno avventurata alla fortuna». Certo: la medesima Fortuna avrebbe anche potuto sollevare al trono un Principe illuminato, giusto, energico, che liberasse «i più dal soffocante dominio dei privilegiati» ‘*. Ma questa era, appunto, solo una possibilità. Indubitabili, invece, sul piano dei fatti,
sono i progressi che la nostra cultura, in quel periodo, seppe fare. L'Italia, allora, non soggiacque a nessuno dei due mali sopra detti. Ma poté, «malgrado le sciagurate ambizioni de’ suoi Principi, e durante le reciproche loro insidie e le spaventose loro ingiurie, proseguire nelle sue parti diverse nell’agricoltura, nelle arti, nel commercio e nelle lettere» °?.
8. Romagnosi non si limita, comunque, a dissolvere il principio della unità nazionale ideologicamente concepito e propagandato. Va oltre, consapevolmente. Non solo è inutile rimpiangere qualcosa che sarebbe stato storicamente controproducente; ma è discutibile che l’unità si configuri in sé come un valore indiscriminatamente positivo, come un progresso necessario. In effetti, proprio la divisione giovò a quella cultura. Quello che generalmente è visto come una debolezza organica del nostro sviluppo nazionale, fu radice di autonomo sviluppo. Può sembrare, a prima vista, un paradosso storiografico; o un atteggiamento di carattere polemico. Non è così. Questa tesi è
connessa in modo organico da un lato alle tesi di Romagnosi sul nodo del rapporto tra politica e cultura, cultura e incivilimento; dall’altro alla sua concezione delle forze motrici dell’incivili-
mento umano. Il genio dell’incivilimento — osserva — è congiunto a una congregazione di uomini aventi nido ed abitazione sopra un dato territorio © Sulla fortuna di Machiavelli nella prima metà del secolo XIX si veda, in prima approssimazione, G. PROCACCI, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma 1965, pp. 402 sgg. °° ROMAGNOSI, Risorgimento dell’incivilimento italiano, cit., pi 297
© Ibid.
BALBO E ROMAGNOSI INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
85
propizio. Quindi i progressi di questo incivilimento sono assai più
opera della natura, che dell’arte. I migliori governi servono assai più a tutelarlo che a produrlo. Essi sanno che, tranne la giustizia, ogni progresso è così opera oscura, graduale e complessiva del tempo, che ogni dettame fisso dell’umana sapienza diverrebbe disastroso. Poste le basi e armonizzati i poteri l’incivilimento assimiglia a un fiume che scorre da sé medesimo, né vuole impedimenti 3,
I rapporti tra politica e cultura vanno dunque considerati a questa stregua, senza assegnare al principio politico funzioni che non ha. E senza attribuire alla cultura poteri e primati che non sono suoi. Ciò che conta è l’incivilimento che deve procedere senza intralci di alcun tipo, organicamente. Cultura e politica ne sono aspetti importanti. Ma la cultura individuale non potrebbe mai coincidere con l’incivilimento sociale di un popolo nella sua generalità. Può essere, al massimo, «un segnale, ma non il concetto unico e pieno col quale si decide del destino delle nazioni» ©. Muovendo di qui Romagnosi analizza la storia italiana, senza insistere, tematicamente, sul nesso tra politica e cultura
visto come nodo ermeneutico primario. Ma qui si può dire di più. Di fatto, il concetto di incivilimento dissolve teoricamente e storiograficamente il principio nazionale e unitario come cri-
terio di interpretazione storica. E corrode; al tempo stesso, le basi delle interpretazioni di matrice etico-politica, in senso generale. Muta, e trasforma in un sol colpo, il fondamento della
analisi storiografica e l'oggetto della conoscenza storica, spostando su un terreno del tutto diverso, e originale, anche il problema della valutazione della ‘crisi italiana’, del Rinascimento. L’incivilimento mette in questione ogni visione riduttiva e unilaterale della nostra decadenza. Ne limita, e ne snerva, la razzo
etico-politica che le ispira. Ne incrina, quindi, la legittimità e la conseguenza. Ma questo non significa — si è già detto — che Romagnosi non si ponga il problema politico in generale, e in relazione specifica alla storia italiana. All’opposto: affronta l'uno e l’altro, assumendo, anzitutto, il nodo teorico del fondamento del potere. E analizzando, poi, a questa luce, i caratteri e i
problemi della nostra storia nazionale. Nel suo ragionamento 5 Ivi, p. 294.
6" Tuipr297
86
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
Romagnosi muove dalla costituzione di un modello teorico preciso: come l’agricoltura è il fondamento dell’economia, così la possidenza territoriale è il fondamento del potere politico. Questo, in effetti, è l’«ordine naturale» dell’incivilimento.
Ma in
Italia le cose sono andate in modo difforme: i municipi «cominciarono dal ramo industriale e commerciale, per giungere al territoriale» 9. Sta qui la differenza fondamentale tra la storia italiana e quella di altre nazioni europee naturalmente progredite. E qui sta la prima scaturigine della lunga crisi italiana. Da noi il potere è stato costantemente incerto, squilibrato, perché privo del suo fondamento originario. Questo, in ultima analisi,
è il limite organico di una storia scandita, sintomaticamente, da dittature, armi mercenarie, tiranni, principi °°. Insomma — per
dirla con Gramsci, che avrebbe apprezzato, credo, le tesi di Romagnosi — i comuni italiani non sono usciti dalla fase economico-corporativa perché non sono mai stati capaci di stringere
in unità politico-territoriale città e campagna”. Eppure da questa persuasione Romagnosi
non
deriva in
alcun modo un giudizio critico sull'età di mezzo, e nemmeno sul nostro Cinquecento. Per ragioni sistematiche — connesse alla sua visione dell’incivilimento — non identifica mai limite politico e arretratezza generale, decadenza. Si sforza, invece, di allargare
il quadro dell’analisi, individuando il nesso genetico tra Europa e Italia: «[...] una grande preformazione organica si operò in questo periodo», scrive a proposito dell’Italia comunale. Ma «lo sviluppamento suo — continua — sta appunto nella moderna europea civiltà, la quale si va ogni dì più svolgendo e rafforzando» ®. Tra storia italiana e storia europea c’è dunque un rapporto organico, profondo, che va al di là della nostra decadenza, e unifica, come
un filo rosso, tutta la storia dell’umanità
europea. Su questo lungo sfondo spazio-temporale affiorano alla luce, e s'impongono con forza, gli aspetti positivi e progressivi 5 Ivi, p. 289. 5 Ivi, pp. 289 sgg. Si potrebbero citare molti testi. Cfr, tra gli altri, GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., pp. 641 sgg. (= Quaderno 5 [XI], 1930-32, Miscellanea) e, soprattutto, pp. 1555 sgg. (= Quaderno 13 [XXX], 1932-34, Noterelle sulla politica di Ma-
chiavelli).
° ROMAGNOSI, Risorgimento dell’incivilimento italiano, cit., p. 249.
BALBO E ROMAGNOSI INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
87
del nostro incivilimento. E qui Romagnosi riesce a scrivere pagine straordinariamente acute anche sul valore rinnovatore della filologia; sul significato della erudizione; sull'importanza dell’uso del latino in quel Risorgimento di cui è parte, a pieno titolo, anche il ‘400. E già una scelta significativa. Ma proprio su questo secolo Romagnosi getta lo sguardo particolarmente a fondo: «l’Italia — scrive — uscita dal naufragio dovette necessariamente ricercare le reliquie superstiti della sua eredità per riannodare il suo mentale incivilimento» 9°, E questo per un motivo preciso (che poi Labriola svilupperà e da par suo ‘°): il nostro sapere è sempre
radicato in una tradizione, «e il suo tesoro consiste
nell’eredità conservata de’ nostri maggiori, a mano a mano aumentata o raffazzonata dai posteri» ’!. Perciò i dotti italiani dovettero rinunciare al volgare per oltre due secoli, e dedicarsi alle lingue classiche e all’erudizione. Fu, in effetti, una scelta obbligata. Né serve lamentarsi di questo, come hanno fatto gli amatori del «bel dire italiano». Naturalmente occorre saper distinguere, e sapere quando una cosa è necessaria, nel ritmo dell’incivilimento, e quando diventa invece superflua, improduttiva. L’erudizione può ricostituire il nesso tra presente e passato,
e contribuire potentemente alla riscoperta della verità; ma può anche chiudersi in una veduta incerta e passiva dell’antichità. «Guardiamoci — scrive Romagnosi — dalle-vedute meschine de’ Licei e delle Accademie, nelle quali l’erudizione non viene riguardata che come pascolo di sterile curiosità. In questi secoli fu necessaria meno come un sussidio mentale, che per disingannare i dotti e il popolo da opinioni predominanti inconciliabili con ogni vera civiltà» ’2. Fu, cioè, uno strumento reale di
incivilimento; ebbe funzione autenticamente liberatoria e pro-
5? Ivi, pp. 297-298. 70 Si veda, per esempio, A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici, a cura di F. SBARBERI, Torino 1973, II, p. 704: «[...] la tradizione è ciò che ci tiene nella sto-
ria, il che è quanto dire, che è ciò che ci ricollega alle condizioni faticosamente acquisite, le quali agevolano il lavoro nuovo e rendono possibile il progresso. A fare altrimenti si è bestie; perché il solo lavorio secolare della storia differenzia noi dagli animali». Su un terreno più specifico sarebbe interessante, a mio giudizio, un confronto analitico tra il lessico intellettuale di Romagnosi e quello di Labriola. 7! ROMAGNOSI, Risorgimento dell'incivilimento italiano, cit., p. 299.
?2 Ivi, p. 298.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
gressiva. Allora solo le lingue dotte erano in grado di «servire per raccogliere e porre in valore le poche reliquie della nostra cultura, raccolte dal sofferto naufragio della barbarie» ??. Ma studio della tradizione non vuol dire rifiuto dell’innovazione; né
erudizione e studio delle lingue classiche sfociano necessariamente in una sterile e infeconda imitazione. Tutt'altro: le stesse «forme della rinnovata italiana cultura del Medio Evo, non si
debbono riguardare come sirzzli a quelle della latina anteriore, ma tanto nello spirito quanto nei modi conviene confessare una importante diversità» 4. Muovendo dall’antico, la nuova cultura va oltre l’antico. Effettivamente, qui Romagnosi mostra di aver colto a fondo il significato di quel rinnovamento, e la sua funzione nella genesi complessa della moderna civiltà ??. 9. Se si tien conto di tutto questo — e, prima ancora, della posizione teorica di Romagnosi — si intende facilmente perché egli non acceda mai a una interpretazione del ‘500 come pura decadenza di carattere, essenzialmente, etico-politico. Sottolinea
invece, con energia, due punti: 1. non è possibile confondere la «variata fecondità» del ‘500 con la «inventiva, benché ristretta,
originalità» del ‘200, la «cultura ubligata» del primo con lo «slancio libero» del secondo ”; 2. con il ’500 inizia un nuovo
periodo, coincidente con quello che egli chiama l’incivilimento europeo associato. Ma, su questo sfondo, Romagnosi non pensa che il Cinquecento italiano si identifichi con una fase di crisi aperta e dispiegata, con la generale decadenza. Situa, invece, l’Italia nell'insieme di un processo storico complesso connotato dal «movimento ascendente» di «tutte le grandi potenze sociali», che proprio allora mettono capo a un «nuovo mondo di nazioni sconosciuto da prima negli annali dell’umanità» 77. E sottolinea, a più riprese, il valore del patrimonio lasciato in eredità dall'Italia all’europeo «incivilimento che doveva annodarsi al suo». Stabilisce, insomma — s’è già visto — un nesso organico PPROSZITI
7 Ivi, pp. 247-248. ? Per uno svolgimento di questi temi nella storiografia contemporanea mi limito a citare GARIN, Medioevo e Rinascimento, cit.
7° ROMAGNOSI, Risorgimento dell’incivilimento italiano, cit., p. 274.
71.Ivi,ps316.
BALBO E ROMAGNOSI INTERPRETI DEL RINASCIMENTO
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fra storia italiana ed europea: «Raccogliendo e paragonando le grandi transazioni del precedente italico incivilimento con quello della moderna Europa, si trova che in una scala più grande e in una maniera più strepitosa queste transazioni furono ripetute» ‘3. In sintesi: l’Italia ha anticipato, in chiave nazionale, il
generale incivilimento dell'Europa. Ma ad esso — ed è questo il secondo, essenziale punto da notare — continua a partecipare con la «meravigliosa fecondità» della sua cultura. Nel ’500, insomma, non si ha solo una storia di «inutilità»
o di «sciagure», come sembrano pensare quelli che da un lato esaltano lo «splendore immenso» delle arti e delle lettere, e dall’altro rimpiangono la «perduta prosperità» 7?. Sul piano dei fatti, il quadro si presenta più vario e articolato; ed è solcato da luce e da ombre. E vero: nemmeno nel Cinquecento si sviluppa, in Italia, un potere politico moderno. Eppure il predominio dei «privilegiati interni» allora è abbassato dalle dominazioni straniere. Restano in vigore le leggi statutarie italiane. Né sono «proscritte» le nostre industrie, pur «intisichite» da un regime «repugnante e aberrante», mentre l’«idiotismo economico subentra alla libera concorrenza» 5°. Rispetto al periodo precedente, un arresto risulta dunque indubitabile. Ma durante il Cinquecento l’Italia continuò a svolgere un ruolo, e non fu inferiore a nessun'altra nazione: né all’Inghilterra, né alla Francia,
come accadrà, invece, nel Seicento. All’opposto: riuscì a dare contributi fondamentali sul terreno della giurisprudenza, della statistica, della stessa economia politica, che, di lì a poco, inizia
a crescere e svilupparsi 5). | Arresto, dunque, non decadenza. Ma, certo, arresto — e Romagnosi non lo nega. Pesava anzitutto il limite organico del nostro Risorgimento progrediente secondo un ritmo di incivilimento inverso rispetto a quello naturale, al quale si erano, invece, tenute fedeli quelle nazioni europee che proprio nel XVI secolo venivano consolidando il loro dominio politico. Ma questa, per Romagnosi, è solo una prima spiegazione, di carattere generale. In Italia — ed è questa la seconda spiegazione, più spe78 Ibid. 79 Ibid. 901674.
Sertvi{po922
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
cifica — non si costituì né si diffuse un’«opinione civile» filosoficamente basata, in cui la nazione, nella sua generalità, potesse nei momenti di crisi riconoscersi e rinsaldarsi. Se ci fu «forza»,
mancarono «consenso», «egemonia». In sintesi: alla base del nostro arresto c'è anche un limite di natura schiettamente civile,
pubblica. I nostri scrittori politici «non insegnarono che massime sgranate, e molte volte versatili, di civile sapienza; talché
nella sopravenuta irruzione li Italiani non trovarono il rifugio in un convincimento interno ed in una possente coscienza che facesse fronte alla prevalente civile corruzione, e ne attenuasse almeno i progressi sollecitati perfino dai maestri di morale» *2. Romagnosi — si è detto e ripetuto — non isola mai un solo lato dell'organismo storico; né si ferma unilateralmente al livello strutturale dell’incivilimento. Si sforza di guardare all’insieme del processo, e nell’insieme individua le ragioni ‘dell’arresto. Nella crisi del Cinquecento si stringono, e si potenziano, caratteri organici di lungo periodo e specifiche insufficienze dello spirito pubblico. Si intrecciano limiti storici e politici e limiti filosofici ed etico-civili. Sono complesse, e assai profonde, le ragioni dell’arresto del nostro incivilimento, nel quadro del contemporaneo sviluppo della civiltà europea. Né serve semplificarle e ridurle sul piano politico e su quello teorico e storiografico alla luce di astratti criteri di comparazione e di giudizio. Può sembrare anche un paradosso. Ma questa analisi — e la valutazione complessiva che ne scaturisce — sono assai più taglienti e radicali di quelle degli storici neoguelfi. Non per nulla — vien da pensare — Giandomenico
sconfitto.
82 Ivi, p. 335.
Romagnosi
è stato, e resta, uno
II
RINASCIMENTO E RIFORMA NEI QUADERNI DI GRAMSCI
1. Nei Quaderni del carcere sono numerosi, dall’inizio alla fine, i riferimenti all’Umanesimo, al Rinascimento, alla Riforma. Non scaturiscono da una preoccupazione di carattere storiogra-
fico. Anzi: il giudizio è spesso fondato su materiali di seconda e anche terza mano. Né Gramsci si mostra particolarmente interessato alle nuove tendenze critiche che si affermano tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta, in Italia e in Europa. Incidono in questo, ovviamente, la sua condizione di carcerato e l’im-
possibilità effettiva di seguire i termini della discussione propriamente storiografica. Ma non si tratta solo di questo. È sintomatico, ad esempio, che non mostri alcun interesse verso
una monografia come quella dello Schnitzer su Savonarola, discussa da Chabod su «Leonardo», una rivista che Gramsci co-
nosce bene !. Eppure Savonarola è uno di quegli autori sui quali; nei Quaderni, Gramsci fa osservazioni di notevole interesse, oltre-
passando anche le tesi esposte da Luigi Russo, agli inizi degli anni Trenta, nei Prolegomeni a Machiavelli. Né suscita il suo interesse l'articolo di Carlo Morandi,
pubblicato
da «Civiltà
moderna» — un’altra rivista che egli conosce — sulle origini della riforma in Francia, destinato ad avere notevole influenza nella storiografia contemporanea ai fini di una riconsiderazione com-
plessiva della questione”. Il fatto essenziale è che a Gramsci non interessa una problematica di carattere storiografico in senso ! Cfr F. CHABOD, Scritti sul Rinascimento, Torino 1967, pp. 738-739. 2 Sul significato di questo intervento di Morandi cfr D. CANTIMORI, L. Febvre, in ID., Storici e storia, cit., pp. 233 sgg.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
stretto. Tanto meno gli interessa una discussione sull’Umanesimo, sul Rinascimento e sulla Riforma di carattere specialistico. Al contrario: al centro del suo discorso stanno una interrogazione di carattere storico-politico, imperniata sulla individuazione dei caratteri propri della nostra storia nazionale, considerata dal punto di vista del suo approdo; e una interrogazione di carattere più schiettamente teorico, imperniata sulla delineazione dei caratteri costitutivi della filosofia della praxis, intesa come «riforma intellettuale e morale» moderna, in grado di racchiudere dentro di sé il germe più fecondo sia del Rinascimento che della Riforma. A conferma di questo è significativo, ad esempio, il riferimento alla discussione sul concetto di Riforma accesasi in Italia nei primi anni Venti, da cui pure prende, al tempo stesso, e con nettezza, le distanze: «Le osservazioni sparsamente fatte sulla diversa portata storica della Riforma protestante e del Rinascimento italiano, della Rivoluzione francese e
del Risorgimento (la Riforma sta al Rinascimento come la Rivoluzione francese sta al Risorgimento) possono essere raccolte — scrive nel Quaderno 3 — in un saggio unico con un titolo che potrebbe essere anche Riforma e Rinascimento e che potrebbe prendere lo spunto dalle pubblicazioni avvenute dal 20 al 25 intorno, appunto, a questo argomento: ‘della necessità che in Italia abbia luogo una riforma intellettuale e morale’ legata alla critica del Risorgimento come ‘conquista regia” e non movimento
popolare per opera di Gobetti, Missiroli e Dorso». Qui, la radice storico-politica dell'interesse di Gramsci per il Rinascimento e per la Riforma appare chiara, sul piano genetico. Il che non toglie che egli, sulla base di materiali talvolta assai grezzi, prenda posizione anche sul terreno propriamente storiografico. Si tratta, del resto, di uno svolgimento necessario,
intimamente connesso all'oggetto dell’analisi. Nel concetto di Rinascimento come in quello di Riforma, temi storici e temi storiografici si intrecciano in modo strutturale, e quasi inestricabile. Nel caso di Gramsci si fondono nel fuoco di un problema critico che, prendendo le mosse da una discussione storiografica definita, si estende progressivamente, fino ad investire due
nodi cruciali: quello della storia generale dell’Italia e quello del destino, nel mondo contemporaneo, della filosofia della praxis. ? GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., pp. 317-318.
RINASCIMENTO E RIFORMA NEI QUADERNI DI GRAMSCI
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Questo spostamento concettuale di per sé non meraviglia. Ponendo temi cruciali come quelli della Riforma e del Rinascimento, la prospettiva storico-politica si esprime — e non può non esprimersi — che attraverso una posizione storiografica. E, a sua volta, questa posizione non può non congiungersi a una
interpretazione complessiva della genesi e delle strutture della modernità,
destinata a oltrepassare, necessariamente,
una di-
mensione storico-politica più ristretta. Nell’essersi situato, pienamente e consapevolmente, all’interno di questo doppio movimento concettuale stanno, a ben vedere, la forza e l’originalità della riflessione di Gramsci, ben al di là dei materiali di cui è costretto in carcere a servirsi.
Su questo sfondo generale, ci sono due punti da rilevare nella interpretazione dell’Umanesimo e del Rinascimento offerta nei Quaderni. In primo luogo, Gramsci si emancipa progres-
sivamente dalle sue fonti e da una prospettiva critica di carattere nettamente negativo, elaborando un giudizio assai complesso, entro cui si distinguono dinamicamente livelli culturali e livelli politici, e aspetti italiani e aspetti europei del periodo considerato. In secondo luogo, questa riconsiderazione dell’Umanesimo e del Rinascimento si stringe, in modo organico, allo sviluppo della concezione del marxismo come filosofia della praxzs e all’approfondimento dei caratteri propri detla «riforma intellettuale
e morale» che essa deve promuovere,
superando i limiti
costitutivi della modernità. Stanno qui le prime scaturigini di un affinamento del giudizio sull’Umanesimo e sul Rinascimento, e del contemporaneo assottigliarsi e affievolirsi di echi e motivi di matrice rousseauiana e desanctisiana, ulteriormente appesantiti,
in una prima fase, dalla peculiare mediazione in chiave cattolicizzante di Giuseppe Toffanin. In limine, qualche esempio può essere utile, per dare il senso di questo lavoro critico. Nelle note del 1930-31, il giudizio di Gramsci è netto e senza appello: «l’Umanesimo e il Rinascimento [...] — scrive — sono reazionari, perché segnano la sconfitta della nuova classe, la negazione del mondo economico che le è proprio». E ancora: il richiamo all’antico è un puro elemento strumentale-politico e non può creare una cultura di per sé e [...] perciò il Rinascimento doveva per forza risolversi nella Controriforma, cioè nella sconfitta della borghesia nazionale dei Comuni e nel trionfo della romanità, ma come
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
potere del Papa sulle coscienze e come tentativo di ritorno al Sacro Romano Impero: una farsa dopo la tragedia 4.
Sulla stessa linea, e a chiarimento ulteriore della sua posizione, osserva ancora in una nota del 1930: «di romano non ci fu nulla nel Rinascimento italiano, altro che la vernice letteraria,
perché mancò proprio ciò che è specifico della civiltà romana: l’unità statale e quindi territoriale». È a cominciare dal 1930, però, che il giudizio inizia ad affinarsi e a precisarsi, sia sul piano lessicale che su quello concettuale. Già definito reazionario, ora, con evidente restrizione,
l’Umanesimo è qualificato «in gran parte reazionario». Esso — scrive Gramsci nel 1933 — rappresenta «il distacco degli intellettuali dalle masse che andavano nazionalizzandosi e quindi un’interruzione della formazione politico-nazionale'italiana, per ritornare alla posizione (in altra forma) del cosmopolitismo imperiale e medioevale» ©. Il carattere ir gra parte reazionario dell’Umanesimo è dunque messo a fuoco in termini schiettamente e specificamente politici: sottolineando, cioè, l’arresto da esso prodotto nel processo di formazione dello Stato-nazione in Italia. E già una delimitazione di giudizio significativa, rispetto alla condanna indiscriminata sopra vista. Ma Gramsci non si ferma qui. Continua ad interrogarsi sia sull’Umanesimo che sul Rinascimento, sia in prospettiva nazionale che europea, individuando, a questa luce, nell’uno e nell’altro, differenti piani di svi-
luppo e, quindi, differenti misure di giudizio. L'Umanesimo e il Rinascimento — scrive nel 1935 — «furono essenzialmente reazionari dal punto di vista nazionale-popolare e progressivi come espressione dello sviluppo culturale dei gruppi intellettuali italiani ed europei» 7. Vanno dunque distinti, nel giudizio, livello politico-nazionale e livello culturale. Non solo: al di là di questa prima, fondamentale distinzione, è possibile distinguere ulteriormente nell’ambito dello stesso cosmopolitismo rinascimentale, individuando anche su questo terreno un lato progressivo e un lato regressivo, a seconda della funzione svolta dai nostri 4 Ivi, pp. 1054 e 645.
? Ivi, p. 643.
6 Ivi, p. 1829. ? Ivi, p. 2350 (corsivo mio).
RINASCIMENTO E RIFORMA NEI QUADERNI DI GRAMSCI
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intellettuali: «Il Rinascimento — osserva ancora Gramsci — può essere considerato come l’espressione culturale di un processo storico nel quale si costituisce in Italia una nuova classe intellettuale di portata europea, classe che si divise in due rami: uno esercitò in Italia una funzione cosmopolitica, collegata al Papato e di carattere reazionario, l’altro si formò all’estero, coi fuo-
riusciti politici e religiosi, ed esercitò una funzione cosmopolita progressiva nei diversi paesi in cui si stabilì o partecipò all’organizzazione degli Stati moderni come elemento tecnico nella milizia, nella politica, nell’ingegneria ecc.». Il cosmopolitismo degli intellettuali italiani si definisce dunque, in un senso o nell’altro — positivo o negativo — in rapporto ai processi di costituzione dei moderni Stati-nazione. Se si tien conto del punto di partenza, non è un raffinamento di giudizio irrilevante. Né, d’altronde, esso rappresenta il momento conclusivo del giudizio di Gramsci sull’Umanesimo e sul Rinascimento. Nel 1935, ripone
il problema del loro «doppio aspetto». E, prima ancora, in una nota del 1933, pur criticando la tesi (di ascendenza burckhard-
tiana) secondo cui il Rinascimento avrebbe «scoperto» l’uomo, ne parla, al tempo stesso, come di una «grande rivoluzione culturale»: «non perché dal ‘nulla’ tutti gli uomini abbiano cominciato a pensare di essere ‘tutto’, ma perché questo modo di pensare si è diffuso, è diventato
un fermento
universale
ecc.».
Insomma, conclude: con il Rinascimento, «non è stato ‘scoperto’ l’uomo, ma è stata iniziata una nuova forma di cultura, cioè
di uno sforzo per creare un nuovo tipo di uomo nelle classi dominanti» ?. E, chiaramente,
una limitazione delle tesi otto-
novecentesche tradizionali: ma è, simultaneamente, una riaffer-
mazione del significato progressivo, sul piano culturale, del Rinascimento in senso generale. Sul piano lessicale è un raffinamento ribadito dalla modificazione dell’aggettivazione utilizzata per definire, nei vari testi ora citati, il carattere dell’Uma-
nesimo e del Rinascimento dal punto di vista della stessa storia nazionale italiana: reazionari, in gran parte reazionari, essenzialmente reazionari. Non sono varianti da enfatizzare. Ma, al loro
livello, risultano significative. Per quanto circoscritte, esse mirano, evidentemente, a ridurre l’aporia che, in effetti, si apre col
8 Ivi, p. 1910. *Ivisp21907%
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
riconoscimento di un duplice aspetto e di una duplice funzione dell’Umanesimo e del Rinascimento drasticamente contrapposti. Ma qui c’è altro da notare. Pur limitata all’Italia, una qualificazione in termini univocamente reazionari non avrebbe potuto
dar luogo a quello che, pure, a Gramsci interessa nei Quaderni — riscattare, cioè, il momento rinascimentale, dal punto di vista
della filosofia della praxis, oltre le ristrettezze dell’esperienza storica concreta. In questo senso, approfondimenti concettuali e varianti lessicali appaiono strettamente congiunti — come si è cominciato a dire — alla individuazione dei caratteri propri della «riforma intellettuale e morale» di cui deve farsi promotrice la filosofia della praxss. 2. C'è però un ulteriore elemento da notare. Questi approfondimenti e queste variazioni di giudizio intorno all’Umanesimo e al Rinascimento sono, a loro volta, connessi a una rimessa a fuoco, nei Quaderni, del nesso tra Italia ed Europa, tra
storia europea e storia nazionale. Dal punto di vista della nostra analisi, è un momento centrale. «Il Rinascimento — scrive Gram-
sci nel 1933 — è un movimento di grande portata, che si inizia dopo il Mille, di cui Umanesimo e il Rinascimento (in senso stretto) sono due momenti conclusivi, che hanno avuto in Italia
la sede principale, mentre il processo storico più generale è europeo e non solo italiano» !°. E ancora, alla stessa data, ribadisce: «L'’Umanesimo e il Rinascimento come espressione lettera-
ria di questo movimento storico europeo hanno avuto in Italia la sede principale, ma il movimento progressivo dopo il Mille, se ha avuto in Italia gran parte coi Comuni, proprio in Italia è decaduto e proprio coll’Umanesimo e il Rinascimento, che in Italia sono regressivi, mentre nel resto d'Europa il movimento generale culminò negli Stati nazionali e poi nell’espansione mondiale della Spagna, della Francia, dell'Inghilterra, del Portogallo» !!. Nel Quaderno 17, Gramsci offre dunque una pluralità di definizioni dell’Umanesimo
e del Rinascimento,
assu-
mendo come pietra di paragone, da un lato la storia nazionale, dall'altro la storia europea. «Movimento di grande portata», «movimento
storico più generale», movimento
Sttvi pi ‘0915. !l Ibid.
«in senso più
RINASCIMENTO E RIFORMA NEI QUADERNI DI GRAMSCI
97
ristretto»: sono appunto distinzioni nelle quali si esprime plasticamente un giudizio sulla molteplicità e varietà di linee della storia dell'Europa, colta nei suoi momenti di sviluppo e nelle sue fasi di blocco, di arresto, al di fuori di qualsiasi prospettiva di carattere genericamente unitario. È precisamente in questo quadro, segnato da fondamentali asincronie, che diventa possibile discutere di Umanesimo e di Rinascimento in ‘senso ristretto” come aspetti regressivi di un processo di ‘larga portata’ che, in forme diverse, ha investito l’intera Europa e che ha con-
tinuato a svolgersi anche dopo la ‘crisi’ italiana. Di fatto, sono stati gli altri paesi europei che, strutturandosi in moderni Statinazione, hanna portato a compimento il processo che si era manifestato da noi per la prima volta !?. Sta appunto qui la radice della nostra decadenza: protagonista originariamente di un processo storico generale, l’Italia si è poi contratta in una dimensione ristrettamente culturale, separandosi dalle correnti vive della storia dell'Europa. L'individuazione del nesso tra dimensione nazionale e dimensione europea che contraddistingue costantemente l’opera di Gramsci sia dal punto di vista dell’analisi storica che da quello dell’analisi storiografica incide dunque a fondo nella interpretazione dell’Umanesimo e del Rinascimento e nella messa a fuoco, all’interno di essi, di una pluralità di livelli, di tendenze
e anche di significati. In altre parole: è dal rapporto con la storia europea che scaturisce il giudizio sulla nostra storia nazionale. Questo, in linea generale. Nel ragionamento svolto nei Quaderni — e nel duplice livello che lo contraddistingue — agisce, però, una pluralità di motivi critici, riconducibile, a sua
volta, a una pluralità di tradizioni storiografiche sulle quali vale la pena di richiamare l’attenzione, anche per sottolineare il lavoro di profonda rielaborazione cui esse sono sottoposte, autonomamente, da Gramsci. Ritradotto in termini storico-politici, nei Quaderni si avverte anzitutto un eco del modello critico spaventiano imperniato sulla tesi della ‘circolazione’ della filosofia europea — dall’Italia all'Europa, dall'Europa all’Italia. Ma esso è recepito, sostanzialmente, solo nel primo ‘movimento’. E 12 Ivi,p. 653: «Lo Stato moderno e la filosofia moderna furono in Italia importati RE i nostri intellettuali erano anazionali e cosmopoliti come nel Medio Evo, in forme diverse, ma negli stessi rapporti generali».
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non per caso, ovviamente. Agli occhi di Gramsci la ricostituzione del rapporto tra storia europea e storia nazionale resta problema tuttora aperto, e drammaticamente aperto. Risiede qui, precisamente, uno dei compiti essenziali che stanno dinnanzi alla filosofia della praxzs, nel quadro di una nuova unità del genere umano. In secondo luogo, agisce nei Quaderni la tradizione critica, prima neoguelfa poi desanctisiana, incentrata sulla interpretazione del Cinquecento come «secolo vuoto», senza «tempra morale», amante della «forma», indifferente ai contenuti !. Gramsci è, però, del tutto consapevole del limite esplicativo di questa tradizione, anzitutto dal punto di vista del rapporto tra storia europea e storia nazionale, al quale, invece, egli guarda in modo sistematico. Tanto più è consapevole del limite di questa interpretazione, se si pensa all’altra tradizione critica che ha presente — e in modo via via più netto — redigendo le sue note: quella cioè che fa capo ad Antonio Labriola e, specificamente, al primo saggio Ir memoria del «Manifesto dei comunisti». E qui, a conferma del giudizio, vale la pena di citare qualche testo. Il mondo borghese nasce in Italia, scrive, ad esempio, Labriola, criticando la tesi sostenuta nel Marifesto, secondo cui la
borghesia sarebbe nata dai «servi del Medio Evo, via via incorporati in città». Questo processo — ribadisce — riguarda la Germania, non l’Italia, la Spagna, la Francia meridionale. Non riguarda, in sintesi, l’Europa latina dove muovono i primi passi la storia e la civiltà moderne. «In questa prima fase — precisa — sono le premesse di tutta la società capitalistica, come Marx avvertì in una nota al primo volume del Capitale»; ma è appunto la fase che raggiunge la «sua forma perfetta nei Comuni italiani». Qui si ritrova «la preistoria di quella accumulazione capitalisti ca, che Marx studiò con tanta evidenza di particolari nella serie chiara e compiuta della evoluzione dell’Inghilterra». Il modernoborghese, continua ancora Labriola, si connette al «precoce dis-
solversi della società feudale in alcune parti dell’Italia centrale e settentrionale» e al «sorgere dei Comuni, che furono repubbliche di produttori corporativi e di corporazioni di mercati» !4, 1} Su questi temi si veda il capitolo precedente. 14 A. LABRIOLA, In memoria del «Manifesto dei comunisti», in ID., Scritti filosofici e politici, cit., p. 928.
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Sono, appunto, i motivi critici che Gramsci svolge e rielabora discorrendo del Rinascimento come struttura di lungo pe-
riodo della storia europea, prendendo le mosse dall’anno Mille. Ed è a questa luce che nei Quaderni viene delimitata la tradizione desanctisiana (e neoguelfa), ponendo il concetto di Rinascimento «in senso più ristretto». Disposte su piani differenti — e inconfondibili —, nella interpretazione gramsciana del Rinascimento agiscono dunque due tradizioni critiche, consapevolmente riorganizzate e ripensate alla luce della problematica complessiva messa a fuoco nei Quaderni. La prima consente a Gramsci di tenere fermo il giudizio sul carattere «reazionario» dell’Umanesimo e del Rinascimento «in senso stretto», illumi-
nando una radice della nostra crisi nazionale; la seconda gli consente di individuare la funzione dell’Italia nella formazione dell'Europa moderno-borghese, intesa come processo di lunga durata, coincidente, essenzialmente, con il periodo compreso tra
il risveglio dell’anno Mille e la genesi e la costituzione dei moderni stati nazionali europei. Ovviamente, non sono indifferenti le conseguenze di questa prospettiva dal punto di vista della periodizzazione — cioè della interpretazione — della storia italiana ed europea. Da un lato, c'è un Rinascimento che è alle radi-
ci della modernità; dall’altro, c'è un Rinascimento estraneo alla modernità, destinato a confluire, senza soluzione di continuità,
nella Controriforma: «il movimento reazionario, di cui l’umanesimo era stato una premessa necessaria, si sviluppò nella Con-
troriforma», scrive nel 1930”. E poco dopo ribadisce: «proprio la Controriforma doveva automaticamente accentuare il carattere cosmopolitico degli intellettuali italiani e il loro distacco dalla vita nazionale. Botero, Campanella ecc. sono politici europei ecc.» !°. Di questa ‘duplicità’ della prospettiva critica illuminata nei Quaderni, Gramsci si rende conto. Non solo. Si pone il problema del processo storico generale in cui si situano Rinascimento concepito come «movimento di grande portata» e Rinascimento
«in senso più ristretto». Pone, cioè, il nodo della
loro relazione. Ma lo risolve nel senso di una loro radicale 5 Quaderni del carcere, cit., p. 645. Per la cronologia dei Quaderni, cfr G. FRANCIONI, L'officina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei Quaderni del carcere, Napoli 1984. 1e*Tvatpa099:
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distinzione, imperniata da un lato sul concetto di «cultura»; dall’altro su quello di «spontaneità». «Il Rinascimento spontaneo italiano, che si inizia dopo il Mille e fiorisce artisticamente in Toscana, fu soffocato dall’Umanesimo
e dal Rinascimento
in
senso culturale, dalla rinascita del latino come lingua degli intellettuali, contro il volgare, ecc.», scrive tra il 1933 e il 1934. E
così continua: «Che questo Rinascimento spontaneo (del Duecento specialmente) possa essere solo paragonato alla fioritura della letteratura greca, è innegabile; mentre il ‘politicismo’ del Quattrocento-Cinquecento è il Rinascimento che può essere riferito al Romanesimo» !. Agli occhi di Gramsci è una differenza essenziale, già sottolineata, peraltro, tra il giugno e il luglio del 1933, distinguendo in polemica con Rostagni i diversi aspetti della cultura italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento: 1. «Lo studio umanistico-erudito della classicità greco-romana che diventa esemplare modello di vita, ecc.»; 2. «il fatto che tale
riferimento al mondo classico non è altro che l’involucro culturale in cui si sviluppa la nuova concezione della vita e del mondo in concorrenza e spesso (poi sempre più) in opposizione alla concezione religiosa-medioevale»; 3. «Il movimento originale che ‘l’uomo nuovo’ realizza come tale, e che è nuovo e originale nonostante l'involucro umanistico esemplato sul mondo antico» !8. E appunto nel quadro di questa distinzione preliminare che Gramsci riafferma la differenza tra spontaneità e cultura, tra «spontaneità originaria» del processo storico complessivo e «sistemazione» operata dalla «cultura» umanistica e rinascimentale. Né lascia dubbi sul senso della sua posizione: «è da osservare — sottolinea — che spontaneità e vigore di arte si ha prima che l’umanesimo si ‘sistemi’» !?, Si noti il lessico: spontaneità/cultura; fioritura/sistemazione. A ben vedere, nella posi-
zione storiografica di Gramsci sull’Umanesimo e sul Rinascimento riaffiora la distinzione, del resto assai caratteristica, tra
‘forma’ e ‘vita’. S'intende: non una qualsiasi forma, una qualsiasi sistemazione. Ma quella forma e quella sistemazione che hanno curvato in senso reazionario la nostra vita nazionale. La «sistemazione» umanistica — riconferma sintomaticamente nel ’33 —
7 Ivi, p. 1936. 18 Ivi, pp. 1828-1829. !9 Ivi, p. 1829.
RINASCIMENTO E RIFORMA NEI QUADERNI DI GRAMSCI
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rappresenta, appunto, «il distacco degli intellettuali dalle masse che andavano nazionalizzandosi e quindi una interruzione della formazione politico-nazionale italiana, per ritornare alla posizione (in altra forma) del cosmopolitismo imperiale e medioevale» 20, Sulla presenza di questo lessico, e, in genere, del tema della vita nei Quaderni ci sarebbe da insistere. Ma qui si vogliono sottolineare, sommariamente,
solo due punti?. Anzitutto l’inci-
denza del lessico ‘vitalistico’ nella interpretazione gramsciana del Rinascimento. E, poi, il fatto che, sul piano dei significati e dei valori, la differenza tra i due concetti di Rinascimento
illuminati nei Quaderni venga posta sullo sfondo di questo specifico modello critico. Da un lato Rinascimento come vita, fioritura, risveglio, «risorgimento» (per riprendere l’espressione classica); dall’altro Rinascimento come forma, sistemazione: in una parola, come arresto della vita, come blocco, decadenza.
A questa luce è interessante sottolineare anche l'intreccio che si opera nella pagina di Gramsci tra questo lessico filosofico di matrice vitalistica e le tradizioni critiche cui egli, direttamente o indirettamente, si collega. Il concetto del Rinascimento come «spontaneità», «fioritura», si connette alla interpretazione di Labriola (e, prima ancora, di Romagnosi); il concetto di
Rinascimento come «forma», «sistemazione», si connette alla interpretazione di Balbo, di De Sanctis e anche, con modalità
differenti, a quella di Giuseppe Toffanin. Non sono tradizioni critiche unificabili; allo stesso modo in cui non sono unificabili,
nella pagina di Gramsci, quel concetto di ‘vita’ e quel concetto di ‘forma’. Non si unificano, infatti. Si pongono in una situazione di permanente tensione, corrispondente a quella sempre aperta, sul piano storico, tra dimensione nazionale e dimensione europea. 3. L’interpretazione della funzione e dei caratteri propri del Rinascimento italiano si situa dunque all’interno di una più generale interpretazione,
e periodizzazione,
del Rinascimento
inteso come struttura di lungo periodo della storia europea. Su
lord.
21 Su questo tema si rinvia al cap. IV della terza parte.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO
DI RINASCIMENTO
questo motivo conviene, però, continuare a insistere, per inten-
dere con maggiore precisione la posizione sostenuta nei Quaderni. Nell’analisi della storia italiana, Gramsci muove
da un
modello teorico preciso, delineato con chiarezza nell’aprile del 1932: «Ogni movimento intellettuale — osserva — diventa o ridiventa nazionale se si è verificata una ‘andata al popolo’, se si è avuta una fase ‘Riforma’ e non solo una fase ‘Rinascimento’ e se le fasi ‘Riforma-Rinascimento’ si susseguono organicamente e non coincidono con fasi storiche distinte (come in Italia, in cui
tra il movimento comunale [Riforma] e quello del Rinascimento c’è stato uno iato storico dal punto di vista della partecipazione popolare alla vita pubblica). Anche se si dovesse cominciare con lo scrivere ‘romanzi d’appendice’ e versi da melodramma, senza un periodo di ‘andata al popolo’ non c’è Rinascimento e non c’è letteratura nazionale» 2°. Insomma: senza riforma non sono possibili né il processo di nazionalizzazione degli intellettuali e delle masse né, conseguentemente, la formazione del mo-
derno Stato-nazione. Su questo punto, che è capitale, Gramsci è netto: si spezza il ritmo ascensivo di una civiltà, quando si rompe il nesso tra Riforma e Rinascimento. Non è infatti possibile che il Rinascimento si dispieghi interamente, se non sfocia nella fondazione di uno stato nazionale. Ma a sua volta, la na-
scita di questo Stato è resa possibile solo da un’«andata al popolo», cioè da un movimento riformatore. Da questo punto di vista la Riforma è un momento cruciale del processo costitutivo della civiltà europea moderna. Si capisce dunque perché Gramsci insista a più riprese nei Quaderni su questo insieme di problemi. Discorrendo, ad esempio, nel 1931, delle ricerche di Ezio Levi ne sottolinea l’importanza, perché esse tendono appunto a «dimostrare che i primi elementi del Rinascimento non furono di origine aulica o scolastica, ma popolare, e furono espressione di un movimento generale culturale religioso (patarino) di ribellione agli istituti medioevali, chiesa e impero». E subito dopo, criticando la tesi
secondo cui nel Duecento si sarebbe originata una «nuova civiltà italiana», osserva come la civiltà che allora sorge non sia «‘nazionale’, ma di classe», e come essa sia destinata ad assumere «forma ‘comunale’» e locale non unitaria, non solo 22 Quaderni del carcere, cit., p. 1030.
RINASCIMENTO E RIFORMA NEI QUADERNI DI GRAMSCI
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politicamente, ma neanche culturalmente. La nuova civiltà — sottolinea — sorge appunto opponendosi all’«universalismo» europeo-cattolico, del quale l’Italia era la base, «con i dialetti locali e col portare in primo piano gli interessi pratici dei gruppi borghesi municipali. Ci troviamo quindi — continua — in un periodo di disfacimento e disgregazione del mondo culturale esistente, in quanto le forze nuove non si inseriscono in questo mondo, ma vi reagiscono contro sia pure inconsapevolmente e
rappresentano elementi embrionali di una nuova cultura». E, riprendendo il motivo sopra accennato, così conclude: «Lo studio delle eresie medioevali diventa necessario» ?. Nel «Rinascimento spontaneo» italiano affiorano dunque nuovi elementi linguistici e nuovi elementi religiosi, che Gramsci considera in un contesto unitario, pur segnalando i limiti del processo allora avviato: «Che il volgare scritto appaia in Lombardia come prima manifestazione di una certa portata, è fatto da mettere in grande rilievo; che sia legato al patarinismo è anch'esso fatto molto importante», osserva nel 1931. Ma subito precisa: «In realtà la borghesia nascente impone i propri dialetti, ma non riesce a
creare una lingua nazionale: se questa nasce è confinata ai letterati e questi vengono assorbiti dalle classi DESZIONALe, dalle corti, non sono ‘letterati borghesi”, ma aulici»74 È visibilmente in atto, in queste pagine, il modello teorico
sopra individuato: nella storia italiana «Riforma» e «Rinascimento» sono rimasti separati, senza intrecciarsi in modo orga-
nico. Non si sono quindi sviluppati né una cultura nazionale, né un moderno Stato-nazione. Sta qui la scaturigine della nostra decadenza: al fondo, non c’è stato un processo di nazionalizza-
zione degli intellettuali e delle masse nell’unità di una moderna struttura statale. Questo è il nocciolo del problema. Né serve affrontarlo ponendo il problema della «mancata riforma» in Italia. Del resto, a Gramsci un punto appare chiaro: in Italia, a ben vedere, una Riforma c’è stata, ed è appunto il «Rinascimento spontaneo», che di un movimento riformatore ha avuto, in realtà, i tratti fondamentali sia sul piano linguistico che su quello schiettamente religioso. Ciò che è stato assente in Italia non
23 Ivi, pp. 787-788.
34, 1p.10799!
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è la Riforma, come tendono a pensare quelli che restano invischiati in una concezione confessionale del momento riformatore (sia esso di carattere luterano, oppure di carattere calvinista); ma, appunto, il rapporto tra «Riforma» — intesa in senso ampio — e «Rinascimento». Ed è — si è visto — un problema che riguarda sia il passato che il presente dell’Italia, se è vero che quella crisi di lungo, lunghissimo periodo è sempre e ancora aperta nella nostra storia nazionale. Alla base di siffatte posizioni ci sono, evidentemente, alcuni convincimenti sui caratteri fondamentali della modernità, sui
quali, sia pure in modo sommario, conviene soffermarsi. Alle radici del mondo moderno stanno, per Gramsci, lo Stato-nazione e, in questo quadro, la creazione di una lingua nazionale (il vol-
gare) e di una Chiesa nazionale. In questo senso, tra modernità, statualità e lingua e religione nazionali c'è un nesso organico, costitutivo: quel nesso che è appunto mancato in Italia per lo iato che si è aperto tra «Riforma» e «Rinascimento». «Mentre nel resto d'Europa il movimento generale culminò negli stati nazionali e poi nell'espansione mondiale della Spagna, della Francia, dell’Inghilterra, del Portogallo», in Italia — sottolinea Gramsci — «agli stati nazionali di questi paesi ha corrisposto l’organizzazione del Papato come Stato assoluto». Ma non è stata, ovviamente,
casuale l’assenza in Italia di una moderna
struttura nazionale. Al contrario: essa sprofonda le radici in un limite organico della nostra borghesia comunale rivelatasi incapace di superare un orizzonte «grettamente corporativo», di crearsi cioè «una propria civiltà integrale» stringendo, appunto,
in un nodo solo «Riforma» e «Rinascimento». È per questo che in Italia l’esperienza comunale è decaduta; si è imposta in forme nuove l'anarchia feudale; ha trionfato, infine, la dominazione
straniera. E nello scarto tra momento riformatore e momento rinascimentale — fondato, a sua volta, in un limite di classe — che si radica, insomma, in Italia l'assenza dei principi fondamentali della modernità — ossia dello Stato-nazione, del volgare, della
Chiesa nazionale. Su questi tre punti, che verificano la capacità esplicativa del modello critico adottato, Gramsci insiste puntigliosamente, a più riprese. Nonostante i vari richiami alla romanità, di romano, osserva, non ci fu nulla nel Rinascimento italiano. Anzi:
mancò proprio quello che è il tratto caratteristico della civiltà di
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Roma, cioè l’unità statale e territoriale ?. Allo stesso modo
mancò una lingua nazionale, dal. momento che «il volgare per gli umanisti era come un dialetto, cioè non aveva carattere nazionale». A conferma, appunto, del fatto che essi «erano i continuatori dell’universalismo medioevale — in altre forme, si capisce — e non un elemento nazionale», erano, cioè, «una ‘casta
cosmopolitica’, per i quali l’Italia rappresentava forse ciò che la regione è nella cornice nazionale moderna, ma nulla di più e di meglio: essi erano apolitici e anazionali» 2°. In effetti, se è vero che «ogni lingua è una concezione del mondo integrale», nel Rinascimento, sul piano linguistico, ci fu uno scontro tra due concezioni: una borghese-popolare che si esprimeva nel volgare; una aristocratico-feudale, che si esprimeva in latino e si richiamava a Roma”. Ma non c’è dubbio, per Gramsci, su chi abbia
prevalso in questo scontro. Infine — ed è l’ultimo elemento dell’analisi svolta nei Quaderni —, in Italia, a differenza di altri
paesi, la religione non è stata «elemento di coesione tra il popolo e gli intellettuali». Non si è quindi costituito «un ‘blocco nazionale-popolare’ nel campo religioso». «In Italia — ribadisce Gramsci nel ‘32 — non esisteva ‘chiesa nazionale’, ma cosmopolitismo religioso, perché gli intellettuali italiani erano collegati a tutta la cristianità immediatamente come dirigenti anazionali» 25. E così conclude, riecheggiando sintomaticamente temi e lessico di matrice desanctisiana: «Distacco tra scfenza e vita, tra reli-
gione e vita popolare, tra filosofia e religione; i drammi individuali di Giordano Bruno ecc. sono del pensiero europeo e non italiano» 22. | Assenza di una borghesia nazionale; assenza di uno Statonazione; assenza di un «volgare» egemone; assenza di un bloc-
co «nazionale-popolare» sul terreno propriamente religioso: sono queste le ragioni della crisi della società italiana tra Quattrocento e Cinquecento, del suo complessivo arresto di sviluppo. Non si tratta, quindi, di una crisi circoscrivibile in termini culturali: «L’umanesimo - precisa Gramsci nel ’31 — fu un fatto CIV NOIA
2 Ip 602: 27 Ivi, pp. 644-645. : Ivijpp. 1129-1130: 29 Ibid.
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reazionario nella cultura perché tutta la società italiana stava diventando reazionaria», con il «passaggio ai principati e alle signorie», con «la perdita della iniziativa borghese», con «la trasformazione dei borghesi in proprietari terrieri» 2°. Nello iato tra «Riforma» e «Rinascimento» — che è, dunque, il carattere
fondamentale della nostra storia nazionale — si è incuneata una aristocrazia staccata dal popolo-nazione, mentre per la borghesia affiorata prepotentemente alla ribalta nel periodo comunale si è aperto un processo di decadenza destinato a durare fino al Settecento ?!. In sintesi: proprio dove il «Rinascimento spontaneo» ha preso le mosse, configurandosi con i tratti propri di una «Riforma», c’è stato un blocco, un arresto generale nella formazione delle strutture costitutive della modernità. Questa, in essenza, è la posizione di Gramsci nei primi anni Trenta. A ben vedere, si tratta di un modello teorico di chiara matrice ‘machiavellica’, in cui si avvertono anche echi e motivi
della tradizione neoguelfa ??, ma ripensati e radicalmente riorganizzati, alla luce del nesso «Riforma»-«Rinascimento». Qui sta l'originalità del giudizio gramsciano. Né è difficile avvertire quanto in esso incida la concezione del marxismo come filosofia della praxis che Gramsci viene progressivamente elaborando nei Quaderni, ponendo, al tempo stesso, il problema di una moderna «riforma intellettuale e morale» che oltrepassi nettamente e definitivamente le modalità moderne del nesso tra «Riforma» e «Rinascimento», sia nei suoi punti di crisi che nei suoi
punti di sviluppo.
4. È appunto alla luce di questo modello critico che vanno analizzati e interpretati i giudizi di Gramsci sia su Girolamo Savonarola che sullo stesso Segretario fiorentino. Muovendo di qui risaltano infatti con chiarezza l’originalità e il carattere ‘progressivo’ della posizione di entrambi al di là di vecchie contrapposizioni. A proposito di SeRadla Gramsci prende nettamente le distanze anzitutto dalle interpretazioni di matrice piagnona. Ma si distacca anche da posizioni come quelle di
Luigi Russo — uno studioso cui per altri versi è assai vicino —, 90 Ivi, p. 906
31 Ivi, p. 644, 3? Si veda ancora il capitolo precedente.
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respingendo la tesi secondo cui Machiavelli e Savonarola rappresentano, rispettivamente, l’uno il momento «politico», l’altro
il momento «religioso». Di più: sviluppando una linea critica assai originale, specie a quel momento, sottolinea energicamente la dimensione schiettamente politica della posizione del frate, ponendolo in netto contrasto con le tendenze fondamentali che allora si stavano affermando nella storia italiana. «Chi sostiene che il Savonarola fu un ‘uomo del medio Evo’ — scrive nel 1933 — non tiene sufficientemente conto della sua lotta col potere ecclesiastico, lotta che in fondo tendeva a rendere Firenze indipendente dal sistema feudale chiesastico». E immediatamente
ribatte: «Per il Savonarola si fa la solita confusione fra l’ideologia che si fonde sui miti del passato e la funzione reale che deve prescindere da questi miti ecc.» 77. Considerato in relazione all’Umanesimo e al Rinascimento —- e alle forze che avevano arrestato il processo innescato dal «Rinascimento spontaneo» dell’anno Mille —- Savonarola rappresenta, a suo modo, e in forme proprie, una tendenza progressiva, moderna, al di là delle apparenze. E si rapporta, in modo organico, a quelle energie popolari che preparavano la reazione allo «splendido parassitismo»
di una aristocrazia staccatasi, irrimediabilmente,
dal po-
polo-nazione. Con i suoi «bruciamenti delle vanità» — aveva già osservato alla fine del 1930 — il savonarolismo si congiunge dunque intimamente alla riforma protestante, e anche a forme di «banditismo popolare» come quello di re Marcone in Calabria, «e ad altri movimenti che sarebbe interessante analizzare e registrare come sintomi indiretti». Non solo: si congiunge alla stessa riflessione di Machiavelli, se è vero che il pensiero politi-
co del Segretario fiorentino «è una reazione al Rinascimento, è il richiamo alla necessità politica e nazionale di riavvicinarsi al popolo come hanno fatto le monarchie assolute di Francia e di Spagna, come è un sintomo la popolarità del Valentino in Romagna, in quanto deprime i signorotti e i condottieri ecc.» ?*. Al di là di vecchie immagini consolidate, nell’analisi di Gramsci la figura e la personalità di Savonarola sprigiona dunque una notevole energia politica, che lo congiunge da un lato a esperienze cruciali dell'Europa moderna, come quella della Riforma 33 Quaderni del carcere, cit., pp. 1831-1832. 34 Ivi, p. 648.
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protestante; dall’altro alla riflessione machiavelliana. In sintesi: egli rappresenta una critica efficace dei caratteri ‘regressivi’ assunti dalla storia italiana e anche uno sforzo di collegarsi, sia
pure in modi specifici, ai caratteri fondamentali della esperienza europea moderna. Per quanto possa sembrare paradossale, si tratta di una interpretazione di matrice ‘machiavellica’, come
del resto appare chiaro dall’accostamento esplicito della figura del frate e di quella del Segretario fiorentino accomunate dalla ‘reazione’ al Rinascimento. Dal punto di vista del giudizio sull’Umanesimo e sul Rinascimento, l’importanza di Machiavelli, nei Quaderni, va però ben al di là del rapporto, pur significativo, con Girolamo Savonarola. La sua figura è decisiva per almeno due altri motivi: in primo luogo, oltrepassando l’orizzonte storico-politico nazionale, è riuscito ad essere il teorico del processo che ha messo capo
alla formazione dei moderni Stati-nazione, affermatisi in Inghilterra, in Francia, in Spagna. In secondo luogo — ed è appunto questo che gli ha consentito di mettere a fuoco ciò che è avvenuto fuori d’Italia — egli ha connesso il problema della formazione dello Stato moderno al processo di nazionalizzazione degli intellettuali e delle masse, dei «semplici» e dell’alta «cultura». E riuscito, cioè, a comprendere la necessità di un nesso organico tra «Riforma» e «Rinascimento», intendendo che solo da siffatto intreccio poteva sgorgare una nuova civiltà, imperniata in una
nuova forma di statualità. Nel pensiero di Machiavelli coincidono insomma, geneticamente e strutturalmente, formazione dello stato moderno e rapporto tra momento riformatore e momento rinascimentale: questa è la sua intuizione fondamentale, ed è qui che sta il suo contributo decisivo alla modernità, fino a Marx, fino alla filosofia della praxis. Muovendo precisamente da questa intuizione, dispiegatasi pienamente sul piano teorico,
egli ha superato il limite intrinseco all’Umanesimo e al Rinascimento italiani, cosciente com'era che «il Rinascimento non può essere tale senza la fondazione di uno Stato nazionale», senza,
cioè, quell’«andata al popolo» che è indispensabile per «nazionalizzare» il «movimento intellettuale», e stabilire quindi le fondamenta del moderno Stato-nazione e, in generale, della civiltà
moderna. Erede consapevole del «Rinascimento spontaneo», ha perciò inteso con chiarezza l’esito regressivo in cui esso poteva sfo-
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ciare se non si fossero organicamente connessi nello Stato — che è il luogo costitutivo del loro intreccio — da un lato la «Riforma», dall’altro il «Rinascimento». In questo senso, Machiavelli
è stato l’«esponente più espressivo» di quell’Umanesimo «politico-etico» teso, programmaticamente, alla «ricerca delle basi di uno ‘stato italiano’ che avrebbe dovuto nascere insieme e parallelamente alla Francia, alla Spagna, all’Inghilterra» 7. In Machiavelli si esprime, dunque, un’altra concezione dell’Umanesimo, radicalmente irriducibile all’Umanesimo culturale, vale
a dire a quell’Umanesimo e a quel Rinascimento in senso stretto che Gramsci, come si è visto, oppone frontalmente al «Rinascimento spontaneo» che si inizia dopo il Mille. Il modello teorico machiavelliano, coincidente in punti essenziali con il modello teorico gramsciano, non consente però di individuare solamente il ‘vizio di origine’ della storia nazionale italiana. Per genesi e struttura, ha ben altra potenza esplicativa. Mirando all'Europa, consente di individuare carenze e insufficienze della stessa modernità, muovendo appunto dall’analisi del rapporto tra «semplici» e «colti», «popolo» e «intellettuali». Apre, cioè, la strada a una riconsiderazione della storia europea moderna nella sua complessità, contribuendo, al tempo stesso, a delineare quelli che devono essere i caratteri di una «riforma
intellettuale e morale» che intenda integralmente oltrepassare i confini e i limiti della modernità. Da questo punto di vista, sono assai notevoli le osservazio-
ni di Gramsci intorno alla Riforma protestante, anzitutto per il nesso stabilito tra il movimento riformatore promosso da Lutero e quello promosso da Marx. La riforma — osserva Gramsci — è stata sterile sul terreno «immediato» dell’alta cultura. E tale è rimasta finché «dalla massa popolare, rimasta fedele, non si seleziona lentamente un nuovo gruppo di intellettuali che culmina nella filosofia classica» 5°. In forma arrovesciata — e a ben rivi, ppo1914 21936)
36 Ivi, p. 1862 (per la prima redazione del testo cfr ivi, pp. 424-425: «questa vigliaccheria degli intellettuali spiega la ‘sterilità’ della Riforma nell'alta cultura, finché dalle classi popolari riformate non si seleziona lentamente un nuovo gruppo di intellettuali ed ecco la filosofia tedesca del 700-800. Qualcosa di simile avviene anche per il marxismo: non crea un’alta cultura perché i grandi intellettuali che si formano sul suo terreno non sono selezionati dalle classi popolari, ma dalle classi tradizionali, alle quali ritornano nelle ‘svolte’ storiche o se rimangono con esse, è per impedirne lo sviluppo autonomo»).
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altro livello — nella Riforma è dunque individuabile un limite e una carenza affine a quello che ha compromesso in Italia il destino del «Rinascimento spontaneo». Ma quel limite - ed è qui che risiede il centro del ragionamento gramsciano — non si è esaurito con la Riforma protestante; né riguarda solamente movimenti e concezioni trascorsi. Tutt'altro. Incide, direttamente,
nello stesso destino della filosofia della praxzs, la quale è chiamata a risolvere lo stesso problema che, in forma differente, hanno avuto dinanzi «Rinascimento spontaneo» e Riforma in
senso proprio. In altre parole: in quel limite si esprime una struttura di lungo periodo di tutta la modernità che è al tempo stesso una ragione fondamentale della sua intima fragilità. Osserva Gramsci nel 1932: «La debolezza delle filosofie immanentistiche in generale consiste appunto nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra gli intellettuali e la massa (cfr. motivo ‘Rinascimento e Riforma’)» ?”. E così continua nella seconda redazione del testo: «Nella storia della civiltà occidentale il fatto si è verificato su scala europea,
col fallimento immediato del Rinascimento e in parte anche della Riforma nei confronti della chiesa romana» ?8. Ma, appunto, non è un problema risoltosi nell’ambito del ‘moderno’. Venendo all’oggi, questo è, precisamente, il nodo che deve scio-
gliere la filosofia della praxis: se è vero, come è vero, che «i grandi intellettuali formatisi nel suo terreno, oltre ad essere poco numerosi, non erano legati al popolo, non sbocciarono dal
37 versità tronde zazione
Ivi, p. 1070: «I tentativi di movimenti culturali ‘verso il popolo’ — Unipopolari e simili - hanno sempre degenerato in forme paternalistiche: d’almancava in essi ogni organicità sia di pensiero filosofico, sia di centralizorganizzativa».
38 Ivi, p. 1381. Vale anche qui la pena di citare in modo esteso la seconda redazione del testo di Gramsci: «Una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale consiste appunto nel non aver saputo creare un'unità
ideologica tra il basso e l'alto, tra i ‘semplici’ e gli intellettuali. Nella storia della civiltà occidentale il fatto si è verificato su scala europea, col fallimento immediato del Rinascimento e in parte anche della Riforma nei confronti della Chiesa romana. Questa debolezza si manifesta nella questione scolastica, in quanto dalle filosofie immanentistiche non è stato neppur tentato di costruire una concezione
che potesse sostituire la religione nell'educazione infantile, quindi il sofisma pseudo storicistico per cui i pedagogisti areligiosi (aconfessionali), e in realtà atei, concedono l’insegnamento della religione perché la religione è la filosofia dell’infanzia dell'umanità che si rinnova in ogni infanzia non metaforica».
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popolo, ma furono l’espressione di classi intermedie tradizionali, alle quali ritornarono nelle grandi ‘svolte’ storiche». Ed è vero che «altri rimasero, ma per sottoporre la nuova concezione a una sistematica revisione, non per procurarne lo sviluppo autonomo» 7, Il problema del rapporto tra «Riforma» e «Rinascimento», individuato, in forme proprie, da Machiavelli, resta
dunque centrale; riguarda il passato come il presente; coinvolge, fin dalle fondamenta, il carattere del ‘moderno’ in tutta la sua complessità. Così inteso, Machiavelli è per Gramsci un autore decisivo in tutti i sensi. Ponendo questo problema, egli ha colto da un lato il limite della storia italiana ed europea (anche nei suoi punti più alti); dall’altro ha intravisto l'orizzonte della storia contemporanea, che può darsi come effettiva ‘storia della libertà’ solamente superando quello che è stato il confine della modernità. Nel modello elaborato da Machiavelli c'è dunque il germe di ogni concezione del mondo che voglia essere stato, religione, cultura — in una parola, integrale civiltà. Germina qui la prima scaturigine della filosofia della praxzs, ma con un essenziale elemento di novità. Procedendo da Machiavelli, essa ne ra-
dicalizza il motivo fondamentale, e lo oltrepassa ponendosi il problema della risoluzione integrale dello Stato nella società, della società politica nella società civile. In questo sviluppo, che è un rivoluzionamento, risiede la sua originalità, anche rispetto all'esperienza del Segretario fiorentino. A ben vedere, è con Marx che l’Umanesimo politico-etico di Machiavelli dispiega tutte le sue potenzialità, focalizzando fin dalle fondamenta la
ratio della fragilità del ‘moderno’ e assumendosi, contemporaneamente, il compito effettivo del suo superamento, oltre le forme dello Stato-nazione. In conclusione: Machiavelli è l’autentico precursore di Marx, e Marx ne è l’autentico erede, il vero prosecutore. Nel concetto machiavellico di religio c’è la prima ‘cellula’ (avrebbe detto Gramsci) del concetto marxiano di praxis. Provando a precisare meglio il nesso sul piano testuale: sullo sfondo di un ulteriore, essenziale rivolgimento, è nei Discorsi che si individuavano le radici originarie della «riforma intellettuale e morale» promossa dalla filosofia della praxss.
39 Ivi, p. 1862. Si veda per un confronto la nota 36, dove è riportata la prima redazione del testo.
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Se si tiene presente tutto questo, appare chiaro che il Machiavelli di Gramsci non ha niente in comune, sul piano teorico, con le varie interpretazioni del Segretario fiorentino circo-
lanti in Italia e in Europa tra gli anni Venti e gli anni Trenta da quella di Ercole a quella di Chabod, da quella di Meinecke a quella di Russo (pur citata e apprezzata nei Quaderni 4°). Né ha molto in comune con quella delineata negli Elementi di politica, in pagine di straordinaria intensità e drammaticità, sia sul piano teorico che su quello politico. Scaturisce da tutt’altre ragioni, da tutt’altri problemi, strettamente connessi, a loro volta,
a una specifica analisi della storia italiana ed europea e, su questo sfondo, dell’Umanesimo e del Rinascimento. C’è però una battuta di Croce a proposito di Marx che può contribuire a gettare luce sulla interpretazione gramsciana: quella, famosa, su Marx come «Machiavelli del proletariato» — depurata, naturalmente dall’‘aroma’ crociano e dall’intento ‘riduzionista’ che, in
effetti, l’ispira. In questo nesso, che pure è fondamentale, va però, simultaneamente, segnalata una differenza decisiva: se, per Croce, Marx ha insegnato al proletariato il valore e l’importanza della «forza», Machiavelli, per Gramsci, ha insegnato ai pro-
letari come ai borghesi quale sia il vincolo originario di una civiltà e quali siano le ragioni della sua decadenza. E, in questo quadro,
ha delineato,
sul piano filosofico-storico,
i caratteri
morfologici della modernità. Attraverso l’interpretazione di Machiavelli — e dell’Umanesimo politico-etico, di cui egli è stato l’«esponente più espressivo» — si vede dunque bene come Gramsci nei Quaderni offra una pluralità di significati del termine Umanesimo (corrispondente alla pluralità di significati. del termine Rinascimento). E soprattutto s'intende meglio in che modi si ponga, dal suo punto di vista, il problema del rapporto tra Umanesimo, Rinascimento e modernità. Essa non germina dall’Umanesimo e dal Rinascimento in «senso stretto». L'interpretazione in chiave ‘reazionaria’ dell'uno e dell’altro toglie letteralmente fondamento a questa posizione. Del resto, questo appare chiaro dalla
4° Su Gramsci e Machiavelli, cfr il saggio ancora utile di L. PAGGI, Machia-
velli e Gramsci, «Studi storici», X, 1969, pp. 833 sgg. Per alcune osservazioni sul dibattito intorno a Machiavelli tra gli anni Venti e gli anni Trenta mi permetto di rinviare al mio Filosofia e politica nel Novecento italiano, cit., pp. 135 sgg.
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netta presa di distanza dalla ‘vulgata’ burckhardtiana: «c'è una interpretazione del Rinascimento e della vita moderna che viene attribuita all'Italia [come se fosse nata originariamente e nei fatti in Italia] ma — precisa, a questo proposito, nel 1933 — non è che l’interpretazione di un libro tedesco sull’Italia» 4. Tuttavia, in sé e per sé, la modernità non germina neppure dalla Riforma protestante, alla quale Gramsci attribuisce un rilevantissimo significato, ma senza aderire, in sostanza, allo schema
della genesi del ‘moderno’ di matrice hegeliana. Fondamentalmente, la modernità scaturisce da quel «Rinascimento spontaneo» iniziatosi dopo l’anno Mille che — si è visto — in essenza è stato appunto una ‘riforma’ (in senso largo, non strettamente confessionale). A ben guardare, è appunto all’interno di questo processo di ‘grande portata’, svolgentesi secondo ritmi anche asincronici, e comunque non riconducibili a un minimo comun denominatore, che si situano, per Gramsci, eventi decisivi come
la formazione dello Stato-nazione, dei volgari, delle chiese na-
zionali, della stessa Riforma protestante. Ed è in questa struttura di lungo periodo della storia europea moderna che si situa Niccolò Machiavelli, segnalandone, con il suo pensiero politico, caratteri fondamentali, ma anche possibili limiti, carenze, insufficienze. Assumendo, al tempo stesso, il punto di vista dell’Ita-
lia e dell'Europa, Machiavelli è riuscito ad essere, simultaneamente, il primo teorico e il primo critico della modernità. 5. Machiavelli-Marx: è dunque un nesso cruciale. E questo sia in senso ‘positivo’ che in senso ‘critico-negativo’. Nei Qua-
derni, infatti, esso si oppone, frontalmente, a nessi teorici e politici altrettanto decisivi per Gramsci: a cominciare da cu Croce-Erasmo e da quello Croce-Guicciardini, sui quali,s pure in modo sommario, vale la pena di richiamare l’attenzione, almeno per due motivi specifici (al di là, insomma, del quadro critico generale in cui si inscrivono). In primo luogo, essi consentono di approfondire alcuni aspetti dell’interpretazione dell’Umanesimo e del Rinascimento in senso culturale offerta da Gramsci nei Quaderni, rilevandone il peso e l’incidenza al di là dello stesso periodo umanistico-rinascimentale, lungo tutta la storia europea, anche nei suoi punti più alti. In secondo luogo, 4! Quaderni del carcere, cit., p. 1908.
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consentono di verificare, sia pure per contrasto, la funzionalità del rapporto «Riforma»-«Rinascimento» come criterio esplicativo dei caratteri costitutivi della storia moderna e della prospettiva che, a muovere di qui, la filosofia della praxis è chiamata a realizzare. Analizziamo, anzitutto, il primo nesso — quello tra Croce ed
Erasmo. Scrive Gramsci: come moltissimi intellettuali del suo tempo, di cui anzi era il «capo», Erasmo «piegò» di fronte alle persecuzioni e ai roghi. Non «andò», cioè, «verso il popolo», che fu, invece, l’autentico «portatore» della Riforma in Germania («il popolo tedesco nel suo complesso, come popolo indistinto, precisa Gramsci, non gli intellettuali» 4). Nell’opera erasmiana «Riforma» e «Rinascimento» restarono dunque, vo-
lutamente, divisi, separati. Né ciò fu privo di conseguenze sul piano storico. Anzi. È appunto con la «vigliaccheria» di intellettuali come Erasmo che si spiega l’infecondità della Riforma di Lutero e di Calvino sul terreno dell’alta cultura, alla quale, in effetti, essi riuscirono a dare un contributo solo in un momento successivo. Ma — e, come si è già cominciato a vedere, risiede
principalmente qui il nodo del problema — lo scarto tra «Riforma» e «Rinascimento» non è stato mai superato nella cultura europea. E questo per un motivo preciso — che ora si può meglio determinare —: «la filosofia moderna continua la Rinascita e la Riforma nella sua fase superiore, ma coi metodi della Rinascita, senza l’incubazione popolare della Riforma che ha creato le basi solide dello Stato moderno nelle nazioni protestantiche» 4. Pur germinando dalla Riforma, la filosofia classica non è stata, insomma, in grado di intrecciare in modo organico
«Riforma» e «Rinascimento». Sta qui del resto — lo abbiamo già notato — «una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale»: «nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i ‘semplici’ e gli intel# Ivi, p. 1862. * Ivi, p. 423. Per un confronto con la seconda redazione del testo si veda ivi, p. 1859: «E vero che anche la Riforma nella sua fase superiore necessariamente assunse i modi della Rinascita e come tale si diffuse anche nei paesi non protestanti dove non c’era stata l’incubazione popolare; ma la fase di sviluppo popolare ha permesso ai paesi protestanti di resistere tenacemente e vittoriosamente alla crociata degli eserciti cattolici e così nacque la nazione germanica come una delle più vigorose dell'Europa moderna».
RINASCIMENTO E RIFORMA NEI QUADERNI DI GRAMSCI
115
lettuali» 4. Alla radice della fragilità del moderno è dunque individuabile la persistenza di un originario momento ‘erasmiano’ che, opponendosi al momento ‘machiavelliano’ appena visto, ha scandito — e tuttora scandisce — la storia e la cultura europee, anche nei punti di più forte e spiccato progresso. Senza esaurirsi, o risolversi l’uno nell’altro, sono questi i due momenti che tengono in costante tensione la nostra civiltà, dischiudendole prospettive nettamente alternative. Da questo punto di vista, se
Marx è l’autentico erede e prosecutore di Machiavelli, Croce è l’autentico erede e prosecutore di Erasmo. Dall’uno e dall’altro, si dipana una vera e propria tradizione, imperniata su una se-
parazione programmatica — e variamente ribadita — di «Riforma» e di «Rinascimento», che tende a incrinare il fondamento
progressivo della modernità. «La posizione di Croce — osserva Gramsci nel 1932 — è quella dell’uomo del Rinascimento verso la Riforma protestante con la differenza che il Croce rivive una posizione che storicamente si è dimostrata falsa e reazionaria e che egli stesso [...] ha contribuito a dimostrare falsa e reazionaria [...] Che Erasmo potesse dire di Lutero: “dove appare Lutero, muore la cultura” si può capire. Che oggi il Croce riproduca la posizione di Erasmo non si capisce, poiché il Croce ha visto come dalla primitiva rozzezza intellettuale dell’uomo della Riforma è tuttavia scaturita la filosofia classica tedesca e il vasto movimento da cui è nato il mondo moderno». Non solo. Proprio perché Croce ha compreso la insussistenza della tesi sulla «mancata riforma religiosa» in Italia ed ha allargato e precisato il concetto di religione, più grave appunto gli si deve fare per non aver capito che appunto la filosofia della praxîs, col suo vasto movimento di massa, ha rappresentato e rappresenta un processo storico simile alla Riforma, in contrasto col liberalismo, che riproduce un Rinascimento angustamente ristretto
a pochi gruppi intellettuali e che a un certo punto ha capitolato di fronte al cattolicesimo [...] Croce rimprovera alla filosofia della praxss il suo ‘scientismo’, la sua superstizione ‘materialistica’, un suo presunto ri-
torno al ‘medioevo intellettuale’. Sono — insiste Gramsci — i rimproveri che Erasmo, nel linguaggio del tempo, muoveva al luteranesimo.
Ma, così facendo, Croce toglie vigore e originalità al tipo di intellettuale di cui egli è rappresentante, che è moderno perché
4 Ivi, p. 1381.
116
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
fonde in sé sia «l’uomo del Rinascimento» che «l’uomo creato dallo sviluppo della Riforma». In altri termini: misconoscendo il suo passato, Croce contrae e depotenzia la sua stessa, peculiare modernità. Semplifica ciò che egli storicamente significa, tenendo fermo solamente il lato rinascimentale — e, a sé preso,
tendenzialmente controriformistico — della sua posizione. Per un pregiudizio ideologico, fa insomma un passo indietro, invece di andare avanti dal punto di vista della coscienza critica: l’intellettuale moderno del tipo Croce — sottolinea Gramsci — sarebbe incomprensibile senza la Riforma, ma esso non riesce più a comprendere il processo storico per cui dal ‘medioevale’ Lutero si è necessariamente giunti allo Hegel e perciò di fronte alla grande riforma intellettuale e morale rappresentata dalla filosofia della praxzs riproduce meccanicamente l’atteggiamento di Erasmo #.
Sono battute che andrebbero considerate analiticamente. Ma qui interessa anzitutto rilevare come nell’interpretazione gramsciana di Croce agisca chiaramente il modello critico «Riforma»-«Rinascimento». È su questo sfondo che Erasmo si configura come l’archetipo originario della posizione di Croce, interpretata, a sua volta, come una struttura di lungo periodo di tutta la modernità. Sia Erasmo che Croce si'confinano nel l'orizzonte del Rinascimento. Questoè il carattere della loro posizione. «La sua filosofia specialmente nelle sue manifestazioni meno sistematiche [...] è stata una vera e propria riforma intellettuale e morale di tipo ‘Rinascimento’», ribadisce Gramsci a proposito di Croce. Il che vuol dire, precisamente, che egli, come Erasmo, «non è ‘andato al popolo’, non ha voluto diventare un elemento nazionale (come non lo sono stati gli uomini del Rinascimento, a differenza di luterani e calvinisti) [...]» 4°.
Su questo punto tra Erasmo e Croce c’è dunque sintonia, piena corrispondenza.
Al tempo
stesso,
però,
ci sono
importanti
elementi di differenziazione sia sul piano storico che su quello storiografico.
Erasmo,
direttamente;
Croce è ‘figlio’ dell’uno e dell’altro. È già una
anzitutto,
si è scontrato
con
Lutero,
distinzione importante. Ce n’è però una seconda, anche più ri4 Ivi, pp. 1293-1294 (per un confronto con la prima redazione del documento si veda ivi, p. 852).
4 Ivi, p. 1294.
RINASCIMENTO E RIFORMA NEI QUADERNI DI GRAMSCI
117
levante dal punto di vista teorico. Croce accetta l’eredità del primo ‘padre’, mentre tende invéce a disconoscere quella del secondo. A ben vedere, anzi, è proprio in questo disconoscimento che si situa la nascita del moderno Erasmo. Né il disconoscimento, né la nascita sono però semplici, lineari. Questo è il problema di Croce, e qui si radica la differenza fondamentale tra il nuovo e il vecchio Erasmo. Situare su nuove basi il modello erasmiano, vuol dire misurarsi con la tradizione che dal Riformatore è scaturita, ossia con la filosofia classica te-
desca. In altre parole: se vuole essere effettivamente tale, il moderno Erasmo non può non intrecciare in un nodo solo riforma della dialettica hegeliana e riaffermazione della centralità del momento rinascimentale. E rispetto a Hegel che deve, cioè, fare un netto passo indietro, riproponendo, in questo quadro, il primato
del Rinascimento e del «ceto intellettuale». Tra Croce ed Erasmo ci sono dunque fondamentali differenze — storiche e storiografiche — nell’ambito di un comune motivo di fondo, che Gramsci, del resto, non si stanca di sottolineare. Osserva, ad esempio, a
proposito della «concezione ‘rivoluzione-restaurazione’»: un tal modo di concepire la dialettica è proprio degli intellettuali, i quali concepiscono se stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali, quelli che impersonano la ‘catarsi’ dal momento economico al momento etico-politico, cioè la sintesi del processo dialettico stesso, sintesi che essi ‘manipolano’ speculativamente nel loro cervello dosandone gli elementi ‘arbitrariamente’ (cioè passionalmente). Questa posizione — conclude — giustifica il loro ‘non impegnarsi’ interamente
nell’atto storico reale ed è indubbiamente comoda: è la posizione di Erasmo nei confronti della Riforma #”. Sono, anche in questo caso, affermazioni che andrebbero
analizzate una per una. Ma non è il giudizio complessivo di Gramsci sulla ‘riforma’ della dialettica hegeliana operata da Croce e sulle modalità del suo ‘passo indietro’ che ora, specificamente, ci interessa. Dal nostro punto di vista vale la pena invece di notare come in questo testo si complichi e si raffini il giudizio di Gramsci sui caratteri e sul significato del momento erasmiano. Al di là del piano strettamente storiografico, o di generici atteggiamenti pratici, esso qui si configura come aspetto
4? Ivi, p. 1222.
118
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
costitutivo di una posizione teorica della quale Croce, con la sua riforma della dialettica, è artefice fondamentale. Se dunque Marx innova profondamente il momento machiavelliano, Croce innova altrettanto radicalmente il momento
erasmiano, rimar-
cando in modi nuovi lo scarto tra «Riforma» e «Rinascimento». Colto nelle sue variazioni, il motivo ‘erasmiano’ del «non
impegnarsi interamente nell’atto storico reale» è dunque criterio esplicativo essenziale dell’analisi di Gramsci, sia dal punto di vista filosofico che dal punto di vista storico-politico. Sintomaticamente, oltre che sul nesso Croce-Erasmo, esso getta luce anche sul secondo nesso che si vuole evocare sommariamente in queste pagine: quello su Croce e Guicciardini. E su questo sfondo contribuisce a dimostrare come, alle radici, «erasmismo» e
«guicciardinismo» abbiano significativi punti di intreccio e di convergenza. In questo senso, è chiarificatrice la domanda che Gramsci pone nel Quaderno 10: «non ci può essere — si chiede nel 1932 — un neomalthusianismo voluto nel Croce, la volontà di non ‘impegnarsi’ a fondo, che è il modo di badarosologi proprio ‘particulare’ del moderno ‘guicciardinismo’ proprio di molti intellettuali per i quali pare che basti il ‘dire’: “Dixi et salvavi animam meam”?» 4. Mediato dal motivo del «non impegnarsi», il nesso tra Erasmo e Guicciardini appare chiaro in questo testo. Ma simultaneamente — ed è l’altro, essenziale elemento da notare — qui comincia ad apparire chiaro anche il nesso
organico
tra «erasmismo»,
«guicciardinismo»
e «rivolu-
zione passiva» — una delle categorie fondamentali di tutta la strategia teorica elaborata da Gramsci nei Quaderni. Soffermiamoci, brevemente, su questo punto decisivo. «È da vedere — scrive ancora nel Di 10 — se la formula di Quinet può essere avvicinata a quella di ‘rivoluzione passiva’ del Cuoco; esse forse esprimono il fatto storico della assenza di una iniziativa popolare unitaria nello svolgimento della storia italiana e l’altro fatto che lo svolgimento si è verificato come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico, elementare, disordinato delle classi popolari con ‘restaurazioni’ che hanno accolto una qualche parte delle esigenze dal basso, quindi ‘restaurazioni progressive’ o ‘rivoluzioni-restaurazioni’ © 8 Ivi, p. 1261. Su Gramsci e Guicciardini si veda l’utile lavoro di G. FRANCIONI,“x studi su Gramsci, Napoli 1993, pp. 113 sgg.
RINASCIMENTO E RIFORMA NEI QUADERNI DI GRAMSCI
119
anche ‘rivoluzioni passive’. Si potrebbe dire — osserva — che si è sempre trattato di rivoluzioni dell’uomo del Guicciardini (nel senso desanctisiano), in cui i dirigenti hanno sempre salvato il loro ‘particulare’ ecc.» 4. A ben vedere, il «guicciardinismo» è, quindi, il modo peculiare con cui la «rivoluzione passiva» si è espressa in un paese come il nostro, connotato, strutturalmente, da un blocco, dall’arresto di sviluppo del «Rinascimento spontaneo» iniziatosi dopo il Mille. E in questo quadro specifico che in Italia coincidono «rivoluzione dell’uomo del Guicciardini» e «rivoluzione passiva». Esse rappresentano, in modo organico, l’atteggiamento di fondo delle nostre classi dirigenti che hanno governato lo svolgimento del paese, tenendo costantemente aperto, a loro favore, lo scarto tra «Riforma» e «Rinascimento». E l’una e l’altra si connettono, direttamente, al mo-
dello erasmiano che ha caratterizzato il nostro ceto intellettuale — dagli umanisti fino a Benedetto Croce. In questo senso, «erasmismo» e «guicciardinismo» sono due aspetti — anzi, due livelli — di un medesimo processo, che si struttura e si sviluppa attraverso le modalità della «rivoluzione passiva». Pur muovendo da De Sanctis, Gramsci innova dunque notevolmente l’immagine dell’uomo del Guicciardini’ offerta dalla Storia della letteratura italiana, delineandone il senso politico complessivo (senza per questo rinunciare a un’accezione più de-
bole del termine) 2°. Su questo sfondo generale c’è però una differenza importante da segnalare. Guicciardini e il «guicciardinismo» appartengono anzitutto alla nostra storia nazionale, di cui rappresentano il principio esplicativo fondamentale. Erasmo e l’«erasmismo» hanno lungamente e variamente inciso nella struttura di tutta la modernità, al di là del nostro specifico orizzonte nazionale. E sono riusciti a farlo perché, oltre il Rinascimento, si
sono confrontati con la Riforma di Lutero e di Calvino. Da questo punto di vista Croce, come moderno Erasmo, è figura europea, non solo italiana. Sta qui la sua specificità. Con una «rifor4? Ivi, pp. 1324-1325.
30 Ivi, p. 1815: «Ansaldo — scrive ad esempio Gramsci tra il maggio e il giugno del 1933 — è l'‘uomo del Guicciardini’ divenuto esteta e letterato e che ha letto le pagine del De Sanctis sull'uomo del Guicciardini. Si potrebbe dire dell’Ansaldo: “un giorno l’uomo del Guicciardini lesse le pagine del De Sanctis su se stesso e si camuffò da G. Ansaldo, prima e da stelletta nera più tardi: ma il suo ‘particulare’ non riucì a camuffarlo”».
120
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
ma intellettuale e morale di tipo ‘Rinascimento’», ha cercato di curvare in senso conservatore la tensione che ha sempre animato la modernità, riformandone a questa luce gli aspetti più alti e progressivi. Criticarlo e superarlo vuol dire rafforzare, e svolgere, l’altra tendenza che ha animato la modernità. E, a sua volta,
questo significa determinare i caratteri di una «riforma intellettuale e morale» radicalmente alternativa, potenziando, per con-
trasto, i punti più forti e più avanzati della filosofia e della cultura della modernità. Soprattutto, questo vuol dire riallacciarsi a Machiavelli, e porre e risolvere in modi radicalmente nuovi il problema del rapporto tra «Riforma» e «Rinascimento». 6. Se si tiene presente questo insieme di problemi s’intende bene il ragionamento di Gramsci sulla «nuova cultura integrale», che deve essere creata dalla filosofia della praxis. Questa nuova cultura — scrive — deve avere «i caratteri di massa della Riforma protestante e dell’illuminismo francese» e i «caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano». Deve cioè essere in grado di «sintetizzare» Robespierre e Kant, politica e filosofia?!. In una parola: essa ha il compito di portare a fusione «Riforma» e «Rinascimento», superando quelli che sono stati i limiti fondamentali della modernità, i motivi della sua intima, strutturale, fragilità. Si è visto: la Riforma non è riuscita a
creare, subito, una cultura superiore; ma neppure l’illuminismo, che pure è stato «una grande riforma intellettuale e morale del popolo francese, più completa di quella luterana», ha avuto una «fioritura immediata di alta cultura»; la stessa filosofia della praxis, infine, «si è venuta, per la necessità della vita pratica
immediata, volgarizzando». Eppure, nonostante le cadute nel «pregiudizio» e nella «superstizione» ?7, la filosofia della praxis può animare una «riforma intellettuale e morale» imperniata sul superamento radicale dello scarto tra «Riforma» e «Rinascimento». E può farlo in ragione della sua intrinseca struttura che è, di per sé, al di là di queste opposizioni perché riprende, e svolge pienamente, la concezione machiavelliana della modernità. La filosofia della praxis — precisa Gramsci — «presuppone» Rinascita e Riforma,
3 Ivip,,1235. ?2 Ivi, pp. 1860-1861.
filosofia tedesca e Rivoluzione
francese,
RINASCIMENTO E RIFORMA NEI QUADERNI DI GRAMSCI
121
calvinismo ed economia classica inglese, liberalismo laico e storicismo. Essa è il «coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma protestante-Rivoluzione francese: è una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia» ??. In sintesi: è una «Riforma» che è anche un «Rinascimento» e un «Rinascimento» che è anche una «Riforma». Radicalizzando il momento machiavelliano, la filosofia della praxis è dunque il superamento definitivo del confine che ha delimitato la modernità anche nei suoi punti più alti di sviluppo e di progresso. Quelle appena citate sono battute notissime, analizzabili da una pluralità di punti di vista: nella rivendicazione dell’unità, nella filosofia della praxzs, di Riforma e di Rinascita è netta, ad
esempio, anche la critica delle forme politiche e culturali proprie dello stalinismo, connotate appunto da un rinnovato iato tra «Riforma» e «Rinascimento». A conferma, se ce ne fosse bi-
sogno, che il modello critico di matrice machiavelliana vale sia per il presente che per il passato. Ma non è su questo che qui si vuole insistere. Dal punto di vista scelto in queste pagine, conta soprattutto sottolineare il nesso organico che progressivamente si stringe nelle pagine di Gramsci tra svolgimento della concezione del marxismo come filosofia della praxis e riscatto del Rinascimento italiano, colto nei suoi caratteri di classicità.
Questo è il punto essenziale, sul piano interpretativo. Dalla determinazione delle strutture della nuova «riforma intellettuale e morale» scaturisce una rivalorizzazione del momento rinascimentale destinata a produrre significative variazioni (lessicali e concettuali) anche nel giudizio di Gramsci sul Rinascimento in senso proprio, al di là delle prime, drastiche valutazioni critiche. In questi, come in altri casi, è dunque la filosofia della praxis che dischiude a Gramsci punti di approdo diversi — o assai diversi — da quelli individuati nelle fasi originarie della scrittura dei Quaderni. E soprattutto, in questo caso, essa porta a piena
maturità teorica e politica un problema decisivo per la nostra riflessione: quello, sempre e ancora aperto, del rapporto tra «Riforma» e «Rinascimento».
5 Ivi, p. 1860.
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III
UMANESIMO E RINASCIMENTO NELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA DELL'ULTIMO CINQUANTENNIO
1. I risultati più importanti della storiografia filosofica italiana dell’ultimo cinquantennio in ambito umanistico e rinascimentale sono stati, anzitutto, questi: — si è definitivamente abbandonata la concezione (di matrice ottocentesca, ma ancora assai viva nel nostro secolo) del Ri-
nascimento come epoca di decadenza della coscienza italiana; — si sono messi a fuoco i rapporti organici tra i vari aspetti della cultura rinascimentale (umanistico, artistico, scientifico)
sottolineandone la radicale estraneità alle partizioni disciplinari delle moderne enciclopedie del sapere; — si è messa alla prova una rinnovata concezione dell’idea di ‘filosofia’ che ha consentito di guardare con occhi nuovi a questa cultura, individuando, ad esempio, il valore schiettamente filosofico della retorica umanistica;
— si è individuata la forte incidenza, nell’ambito di questa cultura, delle tematiche astrologiche, ermetiche, con un abban-
dono definitivo delle tradizionali impostazioni di carattere ottocentesco; — si sono segnalati i rapporti tra ermetismo e rivoluzione scientifica precisando, anzitutto sul piano del metodo, la diffe-
renza fra genesi e struttura di un’idea o di una teoria scientifica;
— si è sviluppata una forte attenzione verso problematiche di carattere profetico, religioso, apocalittico, con la conseguente assunzione della centralità dell'idea di rezovatio nell’ambito del Rinascimento;
124
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO - si è, infine, sottolineato
il carattere
‘drammatico’
di
un'epoca, portandone alla luce i conflitti profondi e rinunciando definitivamente a ogni tradizionale tentazione di carattere ‘armonicistico’.
Negli ultimi cinquant’anni è stato dunque sviluppato un lavoro imponente, condotto in stretto collegamento — ed è un altro punto da rilevare — con i maggiori centri della ricerca sul Rinascimento in Europa e nel mondo: dall’Inghilterra del Warburg Institute alla Francia di Renaudet, di Margolin, di Bec;
dall'Ungheria di Klaniczay alla Germania di Flasch; dalla Polonia di Nowicki e Szezucki alla Russia della Bragina e di Gorfunkel’; fino, naturalmente, agli Stati Uniti, dove hanno operato maestri come Baron, Gilbert e soprattutto Kristeller, i quali,
in questo ambito di studi, hanno rappresentato un vero e proprio trait d’union tra la cultura americana e la loro originaria cultura europea. In conclusione — ed è questa la mia tesi — nell’ambito degli studi umanistici e rinascimentali la storiografia filosofica italiana dell'ultimo mezzo secolo ha compiuto una vera e propria rivoluzione interpretativa, innovando in profondità gli orizzonti critici tradizionali. Nelle pagine che seguono cercherò di argomentare queste affermazioni
sforzandomi,
anzitutto,
di stabilire una
serie di
comparazioni fra i tratti distintivi della storiografia sul Rinascimento tra Otto e Novecento e i caratteri più salienti della storiografia sull’Umanesimo e sul Rinascimento dal dopoguerra a oggi. Come diceva giustamente Federico Chabod, in sede storica «giudicare» è, prima di tutto, «comparare».
2. La discussione sull’Umanesimo e sul Rinascimento è stata centrale nella storia italiana perché si è intrecciata, costantemente, a due distinti ordini di problemi: da un lato alla questione dei caratteri essenziali della storia nazionale, della decadenza
italiana, del nostro
ritardo nella formazione
dello
stato unitario; dall’altro al problema delle origini e delle strutture costitutive del mondo e della coscienza moderni. Problemi distinti, certo; ma anche, per taluni aspetti, strettamente intrec-
ciati, almeno per una lunga fase della tradizione storiografica nazionale. Per quanto riguarda il primo punto è sufficiente pensare alla storiografia neo-guelfa, a Cesare Balbo e al suo giudizio sul
UMANESIMO E RINASCIMENTO NELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA
125
Cinquecento: la politica italiana nel XVI secolo, egli osserva,
«non ebbe più scopo nessuno, e salve poche eccezioni, non fu più politica nazionale, ma provinciale, la pessima di tutte per qualunque nazione, la più stolta per una, che ha tante comunanze di schiatte e di lingue, tante solidarietà d’interessi e di bisogni». Quell’epoca, scrive ancora Balbo, fu «un elegantissimo baccanale di colture; un rimescolio di scelleratezze e patimenti e sollazzi, per cui l’intiera Italia del Cinquecento si potrebbe paragonare alla lieta brigata novellante, cantante e amoreggiante in mezzo alla peste del Boccaccio; se non che qui, oltre alla peste, eran pure le ripetute invasioni straniere, le guerre, i saccheggi, le stragi, i tradimenti, le pugnalate e i veleni; e oltre ai canti e
alle novelle, ogni genere di scritture e di stampe, e pitture e sculture e architetture; ogni infamia, ogni eleganza, ogni contrasto» !. Sono temi destinati ad avere amplissima vita, come testimonia in modi originali la stessa Storia della letteratura italiana del De Sanctis, nella quale il tema della «crisi», della «decadenza», assume rilievo centrale. Si tratta di un momento costi-
tutivo delle interpretazioni del Rinascimento tra Otto e Novecento, su cui non vale la pena d’insistere se non per sottolineare
che è su questo sfondo di problemi che si situano, nel nostro secolo, da un lato la posizione di Gentile; dall’altro quella di
Gramsci. Egli, nei Quaderni, svolge una serrata critica nei confronti sia dell’Umanesimo
sia del Rinascimento,
individuati
come i principali ostacoli — sul piano culturale e su quello eticopolitico — alla costituzione dello stato nazionale italiano. A suo giudizio (ed è un’osservazione rivelatrice) tra Umanesimo e Rinascimento, da un lato, e Machiavelli, dall’altro, non c'è alcun
rapporto; anzi, c'è netta opposizione tra il modello intellettuale e politico rappresentato dal «Principe» e i caratteri cosmopolitici e sovranazionali — ribaditi dal primato della chiesa di Roma - del Rinascimento italiano?. C'è, forse, un solo autore, se non
mi sbaglio, che nell’Ottocento si svincola da questa impostazione: Gian Domenico Romagnosi, il quale, spostandolo verso l’anno Mille, situa il problema del Rinascimento 1 BaLBo,
Sommario
italiano nel più
della storia d'Italia, cit., pp. 217-218.
approfondimento, il cap. I di questa sezione. ? Cfr il capitolo precedente.
Cfr, per un
126
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
generale processo di «incivilimento» umano, al di fuori di qualsiasi connotazione di carattere nazionale e, a questa luce, di tipo
moralistico 3. Non per nulla (si può aggiungere fra parentesi) Romagnosi è stato il maestro di Carlo Cattaneo, di cui è ben nota la concezione della politica e dello stato. Per quanto riguarda il secondo punto al quale sopra si è fatto riferimento, basta pensare a Bertrando Spaventa, alla sua
visione del Rinascimento come momento costitutivo della genesi della coscienza moderna, alla tesi della circolazione europea del pensiero italiano. Né è il caso di insistere ora sul peso che questa impostazione ha avuto su Giovanni Gentile e la sua scuola, da Giuseppe Saitta a Fausto Meli, fino allo stesso Delio Cantimori, i quali, affrontando il problema dell’Umanesimo e del Rinascimento fra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta (e prendendo esplicitamente le mosse da Francesco De Sanctis e dalla sua concezione della decadenza italiana) insistono sul significato e sul valore degli «eretici» italiani, in cui individuano, sintomaticamente, il germe di un’altra storia — cioè
di una diversa concezione sia dell’intellettuale che della vita etico-politica e religiosa *. Nel quadro, occorre aggiungere, di una visione storico-filosofica che congiunge consapevolmente il problema della riforma dello stato nazionale italiano e il problema delle origini della coscienza europea moderna, proprio
sulla scia della migliore lezione di Bertrando Spaventa, vero e proprio archetipo, nella tradizione italiana, degli studi sulla filosofia del Rinascimento. Ho insistito sommariamente su questi temi perché è rispet-
to a questo complesso di problemi che la storiografia filosofica italiana degli ultimi cinquant'anni ha operato un rinnovamento radicale, dissolvendo in via definitiva la tesi, di matrice prima
neo-guelfa, poi desanctisiana, del Rinascimento come epoca di crisi, di decadenza della coscienza italiana. Si è appena visto, del resto: il dibattito sul Rinascimento è stato per un lungo periodo parte integrante di una più generale riflessione sulla nazione italiana, sulla genesi e sui caratteri del nostro stato nazionale. Proè Cfr ancora il cap. I di questa sezione. * D. CANTIMORI, rec. di F. MELI, Spinoza e due antecedenti italiani dello spinozismo pp. 86-88.
[1934],
«Giornale
critico
della
filosofia
italiana»,
XVI,
1935,
UMANESIMO E RINASCIMENTO NELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA
127
cedono, l'uno e l’altra, di pari passo; l’interesse per l’Umanesimo e il Rinascimento si trasforma, in modo radicale, quando
tramonta e decade il problema storiografico dello stato nazionale italiano (del suo ‘ritardo’, della sua ‘costituzione interiore’).
E con la crisi della nazione italiana — resa drammatica dal crollo della seconda guerra — che mutano dunque, profondamente, forme e caratteri dell’approccio critico all’archetipo culturale ed etico-politico cui essa, in positivo o in negativo, aveva fatto riferimento. Stanno precisamente qui, a ben vedere, alcune radici essenziali della storiografia filosofica italiana degli ultimi cinquant'anni: consapevole di una crisi radicale delle prospettive tradizionali, essa ha spostato il problema del Rinascimento dal quadro della storia nazionale italiana all'insieme della storia moderna europea, rovesciando il modello di matrice ri-
sorgimentale ripreso — e sviluppato — nella prima metà del nostro secolo, con particolare vigore, da Giovanni Gentile. La qual cosa significa che questa storiografia, oltre che con le ‘eredità’ risorgimentali, ha dovuto fare i conti, fino in fondo, con le in-
terpretazioni del Rinascimento fiorite nel periodo del fascismo, che del Risorgimento si era proclamato erede e continuatore (a cominciare, naturalmente, dal ‘mito’ di Machiavelli, alla cui ri-
presa — e diffusione — aveva contribuito direttamente Benito Mussolini con un famoso articolo su «Gerafchia» ?). 3. Si è trattato di un lavoro assai complesso, al quale hanno partecipato, oltre ai filosofi, storici come Delio Cantimori e .Federico Chabod
e letterati come
Carlo Dionisotti, intellettuali
cioè che hanno avuto al centro della loro ricerca il problema etico-politico dello stato e, in generale, della storia moderna ita-
liana, colto in rapporto — ed è l’essenziale — all’«età del Risorgimento» (come si intitola un libro famoso di Adolfo Omodeo), ai caratteri e ai limiti che l'hanno, strutturalmente, contraddi-
stinta sia sul piano politico che su quello religioso (nel senso più ampio del termine): «La questione morale che impedì alla cul. tura del Risorgimento di accettare come propria l'eredità del Rinascimento, e che la indusse a preferire altre età, prima e dopo, altri rinascimenti, fu anche e anzi tutto questione religio5 B. MUSSOLINI, Preludio a Machiavelli, «Gerarchia», III, 1924, p. 208; su cui
cfr il Commento a un Preludio apparso in «Rivoluzione liberale», III, 1924, p. 77.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
sa, di una classe dirigente che perseguiva una politica contraria a quella della chiesa di Roma e conseguentemente contraria alla disciplina e fede religiosa della maggioranza», ha scritto appunto Dionisotti nel 1987, in un bel saggio dal titolo assai eloquente, Rinascimento e Risorgimento: la questione morale. Vi aggiungeva: II nuovo Stato cercava di mantenere la sua indipendenza, ma di fatto, sul piano del costume e del diritto, nella realtà della vita, non
poteva sfuggire al paragone con la Chiesa. Non poteva opporre al catechismo e a una tradizione secolare un proprio codice, un proprio cerimoniale, ma neppure poteva correre il rischio di apparire, nonché di essere, tollerante del malcostume e dell’anarchia. Questa preoccupazione si aggravò negli anni Settanta, dopo la Comune, quando anche in Italia il nuovo stato avvertì la minaccia di una rivoluzione sociale. Di qui la tendenza, nel presente e di riflesso nella interpretazione del passato, ad assumere quella difesa della moralità tradizionale, che già era stata e tuttavia era esercitata dalla Chiesa. Era, e ancora è in Italia, uno Stato vicario della Chiesa ©.
È uno scritto assai caratteristico anzitutto per l’intensità
veramente rivelatrice con cui è affrontato, nel pieno degli anni Ottanta, il problema del rapporto fra Risorgimento e Rinascimento (al quale anche Croce aveva dedicato un saggio fondamentale), puntando sulla centralità della questione religiosa. E poi perché è accostabile — dal punto di vista del ‘problema’ — a testi di altri autori (di Cantimori, ad esempio), sia pure in una
prospettiva che privilegia, più che il Risorgimento, l’età contemporanea (cioè l’epoca dei movimenti e dei partiti “di massa’), con tutto ciò che questo comporta sul terreno della definizione dell'oggetto storico come dei metodi con cui dev'essere affrontato. Basta pensare a quanto Cantimori scriveva, fin dalle origini della sua attività, discorrendo delle ricerche proprie e di quelle di Fausto Meli, sugli «scrittori della emigrazione italiana» nei quali i due giovani allievi di Saitta «vedevano [...] riscattarsi l'accusa di scarso vigore che grava sul mondo intellettuale italiano del Rinascimento; vedevano uomini che avevano affronta°C. DIONISOTTI, Rinascimento e Risorgimento: la questione morale, in Il Ri-
nascimento nell'Ottocento in Italia e in Germania. Die Renaissance im 19. Jabrbundert in Italien und Deutschland, a cura di A. BUCK e C. VAsOLI, Bologna-Berlin
1989, pp. 168-169.
UMANESIMO E RINASCIMENTO NELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA
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to problemi sempre ancora aperti alla vita spirituale italiana, e dolorosamente aperti». Oppure alle battute che, nel 1939, apro-
no gli Eretici italiani del Cinquecento, imperniati — sulla scia di Gentile,
Croce,
Ruffini,
Church
—
nell’individuazione
dei
problemi di fondo della «storia della coscienza italiana» (come appunto scrive Cantimori usando un lemma tipico, in tutti i
sensi) ‘. Quando Dionisotti scrive il saggio su Rinascizzento e Risorgimento, si muove in una situazione di distacco ormai consu-
mato da quei temi e da quelle angosce; nel 1939, Cantimori è invece nel pieno del gorgo. Ma ho voluto citare quel suo testo anche per un altro motivo che mi pare importante e che conferma la profondità, e la novità, del lavoro svolto dalla storio-
grafia italiana in ambito umanistico e rinascimentale nell’ultimo mezzo secolo: paradossalmente, è stato proprio lo storico romagnolo — prima fascista, poi comunista — a condurre negli anni
Cinquanta, con massima consapevolezza, le ricerche sull’Umanesimo e sul Rinascimento su un terreno assai più solido e concreto, contribuendo in modo decisivo a liberarle dai condizio-
namenti di carattere etico-politico e ideologico (nel senso più forte del termine) che ne avevano condizionato — ma favorito, al
tempo stesso — lo sviluppo, e l’imporsi, tra Otto e Novecento. Lo fece — e anche questo va notato — usando una sorta di rasoio di Occam: da un lato avviando a dissoluzione, sulla scia di Konrad Burdach, lo stesso concetto di Rinascimento («come il ‘Me-
dioevo’ è una costruzione storiografica, corrispondente ad una intuizione più che ad una ricerca scientifica»); dall’altro, proponendo al suo posto la concezione di una «età umanistica», intesa come periodo storico che va «in letteratura dal Petrarca al Goethe, nella storia della Chiesa dallo scisma d'Occidente alle secolarizzazioni, nella storia economico-sociale dai Comuni e
dal precapitalismo mercantile alla rivoluzione industriale, nella storia politica dalla morte dell’imperatore Carlo IV alla rivoluzione francese» 5. Una periodizzazione — e anche questo va notato — che sarà poi fatta propria da Eugenio Garin, il quale, nel 1974, intitolerà una sua raccolta di saggi Da/ Rinascimento ? D. CANTIMORI,
Erezici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Firenze
1939 (nuova ed. Torino 1992), p. vii. Per le citazioni precedenti ctr la nota 4. 8 CANTIMORI, La periodizzazione dell'età del Rinascimento, cit., pp. 340-365.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
all’Illuminismo, facendo esplicito riferimento al saggio di Cantimori e alla «periodizzazione» in esso sostenuta?. Ma con una differenza evidente già dal titolo appena citato: Garin non rinuncerà mai al termine e al concetto di Rinascimento, con una sostanziale fedeltà al modello burckhardtiano che in Cantimori,
assai più sensibile alla lezione di Burdach, non agisce con pari intensità.
Sono noti, del resto, gli stretti rapporti di lavoro tra Garin e Cantimori, specie negli anni Cinquanta, presso l’Università di Firenze. Né può certo stupire questa collaborazione fra studiosi provenienti da diverse discipline, se si considera l’urgere del problema etico-politico — direttamente connesso al nodo della coscienza e dell’identità nazionali italiane — che si concentra in questo tipo di ricerche, come sopra si è accennato. Per questo
complesso di motivi, negli ultimi cinquant’anni, nell’ambito degli studi umanistici e rinascimentali, è impossibile distinguere con nettezza il contributo degli ‘storici-storici’ da un lato, e quello degli ‘storici della filosofia’ in senso stretto, dall’altro: fra le indagini di Cantimori, di Chabod o di Dionisotti, da un lato; e quelle di Garin, di Corsano o di Castelli, dall’altro. Così come, in sede di analisi storica, è impossibile separare con un taglio netto i diversi rami della cultura umanistica e rinascimentale — dalla letteratura alla filosofia, dalla storia dell’arte all’astrologia,
dalle arti figurative all'arte della memoria, dai modelli sociali a quelli religiosi e politici. E, anzi, merito fondamentale della storiografia italiana degli ultimi cinquant'anni avere sottolineato, acutamente, questo punto: studiare l Umanesimo e il Rinascimento alla luce di un concetto ristretto, corporativo di ‘cultura’,
significa non capire niente di quell’età — compresa la filosofia che allora fiorisce, la quale, piuttosto che nei ‘manuali’ per le scuole, va studiata nei testi di filologia, di retorica, di astro-
logia, di arte della memoria, nei trattati sulle arti figurative o sull’ars bistorica, colti, a loro volta, nei molteplici nessi che — in modo organico, diretto — reciprocamente li determinano e li
qualificano.
4. Questo non vuol dire, naturalmente, che gli storici della filosofia non abbiano dato contributi specifici allo studio di ? E. GARIN, Dal Rinascimento all’Illuminismo, Pisa 1970.
UMANESIMO
E RINASCIMENTO NELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA
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quell’età, alla luce — va subito precisato — di un rinnovato concetto di ‘filosofia’ e di ‘storia della filosofia’. Anzi, è proprio dal lavoro degli storici della filosofia che, nell’ultimo mezzo secolo, è germinata una nuova, originale interpretazione dell’Umanesimo e del Rinascimento che ha fatto epoca sia in Italia che nel mondo. Volendo seguire un criterio caro a Dionisotti, si può dire che si è trattato, dal punto di vista ‘geografico’, di un lavoro assai vario e articolato. A Trieste è stato importante il magistero di Giorgio Radetti, allievo di Giovanni Gentile, al quale si devono importanti studi (specie sul Valla, di cui ha procurato la traduzione degli scritti filosofici). A Padova si è lavorato intensamente intorno a due campi di ricerca: anzitutto sull’aristotelismo rinascimentale, al quale, per parte sua, ha dato un contributo decisivo Bruno Nardi con i suoi saggi su Pietro Pomponazzi e sui più eminenti rappresentanti della Scuola (tema, questo dell’aristotelismo, variamente presente, come è noto, anche nell’ambito delle discussioni sulle origini della rivoluzione scientifica moderna, con particolare riguardo al problema della formazione dello stesso Galileo); e poi, soprattutto per merito della scuola di Santinello, sui problemi di storia della storiografia del Rinascimento. A Milano Dal Pra, oltre a promuovere la pubblicazione d’importanti studi su questo periodo, ha fondato alla fine degli anni Sessanta — la data è importante — il «Centro di studi del pensiero filosofico del Cinquecento e del Seicento in relazione ai problemi della scienza». A Pisa una funzione assai significativa è stata svolta prima da Cesare Luporini (autore del bel libro sulla Mente di Leonardo !°), poi da Nicola
Badaloni, il quale, intrecciando in modo originale eredità spaventiane
e metodologia e orientamenti critici di matrice marxi-
sta, ha offerto contributi notevoli allo studio sia di figure di primo piano come Bruno e Campanella (interpretati, entrambi, in chiave nettamente antispiritualistica), sia della cultura e della filosofia umanistica nella sua complessità. A Roma hanno operato efficacemente, tra gli altri, Gennaro Sasso, sviluppando in modo originale la lezione di Chabod specie nelle ricerche su Machiavelli e il suo pensiero politico, ed Enrico Castelli, che ha trasformato l’«Archivio di filosofia» in uno strumento fondamentale per questi studi, pubblicando testi importanti — ed 10 LUPORINI, La mente di Leonardo, cit.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
eccezionalmente innovativi — sia sulla retorica che sull’ermetismo). A Bari, infine, ha formato una solida scuola Antonio Cor-
sano, autore nel 1940 di quello che è forse il più bel libro scritto in Italia, nel nostro secolo, su Giordano Bruno !. In conclusione, nell’ultimo cinquantennio c’è stata una pluralità di centri culturali e accademici che, muovendo da impostazioni anche molto diverse, ha messo l’Umanesimo e il Rinascimento
al centro del suo campo di studio; né, del resto, ciò stupisce alla luce delle considerazioni fatte all’inizio. Ma facendo oggi un ‘bilancio’ — sia sul piano geografico che su quello culturale — un punto, a mio giudizio, risulta chiaro. Dalla fine della guerra, il centro degli studi sull’Umanesimo e sul Rinascimento, in Italia, è stata Firenze, grazie all’attività di
Eugenio Garin e della sua scuola. Credo si possa dire anche di più: nello sviluppo e nel complesso variare dei temi centrali della ricerca di Garin, si possono individuare, con sufficiente
chiarezza, quali sono state le tendenze più rilevanti della storiografia filosofica italiana in quest'ambito di studi. Sono tendenze e variazioni che oggi appaiono in piena luce: in modo particolare, hanno riguardato l’interpretazione e la valutazione dell'Umanesimo e, su questo sfondo, il problema del rapporto tra Umanesimo e rivoluzione scientifica, tra scienza e vita civile del Rinascimento. Né ci sono dubbi sul fatto che, all’interno di
questa complessa ricerca, sia stata la discussione sull’ermetismo (con tutto ciò che essa comporta) a svolgere, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, una funzione di vero e proprio spartiacque. Ma vale la pena di procedere con ordine, senza alcuna pretesa, naturalmente, di esaurire un quadro assai complesso e ancora in movimento — almeno fino a poco tempo fa. Se si riflette sul lavoro di Eugenio Garin, si pensa subito alla sua interpretazione dell’Umanesimo in chiave ‘civile’, quale si venne dispiegando prima nelle grandi antologie dei primi anni Quaranta, poi nel fondamentale lavoro del 1947 (pubblicato in Italia nel ’49), infine in molti altri importanti contributi sino — almeno — alla fine degli anni Settanta. A sua volta, il termine «Umanesimo civile» evoca subito il nome di Hans Baron, in 1 A. CORSANO, Il pensiero di Giordano Bruno nel suo svolgimento storico, Firenze 1940. Della figura di Corsano si tratta più diffusamente nel capitolo seguente.
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modo particolare gli studi pionieristici dedicati a Leonardo Bruni, pubblicati alla fine degli anni Venti, e più in generale le sue importanti ricerche sull’Umanesimo del primo Quattrocento, sfociate poi, all’inizio degli anni Settanta, nel massiccio vo-
lume sulla Crisi del primo Rinascimento italiano. Si è spesso discusso sulla priorità di questa interpretazione: se sia stato Baron oppure Garin a segnarne l’inizio. Discussioni di lana caprina, quando siano poste in questo modo !. Riconsiderando le cose
adesso, due punti appaiono chiari: in primo luogo, l’«Umanesimo civile» è stato uno dei maggiori contributi offerti dal Novecento nell’ambito degli studi umanistici e rinascimentali; in secondo luogo, si tratta di un’interpretazione che, cominciando a svilupparsi tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, giunge a compimento e a conclusione con la crisi degli anni Sessanta. Se si riflette, come oggi è possibile fare, su questa lunga periodizzazione, si può forse cogliere meglio il tratto costitutivo di questa interpretazione: dall’inizio alla fine, l'«Umanesimo civile» si è strettamente intrecciato alla storia degli intellettuali europei (in modo particolare di quelli italiani e di quelli tedeschi), della cui ‘autobiografia’ intellettuale e morale la difesa dell’«Umanesimo civile» è stata parte costitutiva,
scandendone — e rispecchiandone — ascesa, crisi, decadenza. In altre
parole,
nell’interpretazione
dell’«Umianesimo
civile»
si
sono espressi, oltre che importanti problemi storiografici, essenziali problemi storici ed etico-politici che riguardavano la costituzione interiore e la funzione politica e sociale dell’intellettuale europeo di ascendenza illuministica, laica, liberale.
In questo senso, la vicenda di Hans Baron, emigrato in America per ragioni razziali, è da ogni punto di vista esemplare. Ma altrettanto caratteristica è quella di Eugenio Garin, il quale con i suoi studi — a partire dalla grande antologia del ’41, conclusa dal testamento di Filippo Strozzi ! — si è inserito in questa corrente di studi e di riflessioni, riprendendo e sviluppando il problema (tipico nella nostra tradizione), del rapporto tra storiografia e politica, tra filosofia e politica - problema che, come è ben noto, negli scritti di Giovanni Gentile aveva tocca!? Per una presa di posizione di Garin su questo punto cfr GARIN, Scienza e vita civile nel Rinascimento, cit., pp. XVI-XVII. 13 GARIN, I/ Rinascimento italiano, cit.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
to un punto di massima consapevolezza e compimento. Né del resto Garin, per parte sua, ha mai celato questo debito, sottolineando a più riprese il contributo offerto da Gentile a questi studi, a partire dall’individuazione della filologia umanistica quale nuova, e specifica, forma della filosofia, affermatasi fra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento in polemica diretta con i «barbari britanni». Da questo punto di vista le ricerche di Garin sull’Umanesimo e sul Rinascimento si situano nel pieno della tradizione italiana. Ma con due importanti distinzioni: il rifiuto sempre più netto della concezione della decadenza italiana (a cominciare dal drastico rigetto della interpretazione desanctisiana di Petrarca); e poi, ma con altrettanto vigore, la collocazione dell’Umanesimo nel pieno della storia della coscienza europea, al
di fuori delle connessioni di carattere nazionale e statale che l'avevano lungamente distinto. Con una differenza, in questo caso, anche rispetto alla matrice burckhardtiana (cui sopra si è fatto brevemente riferimento) — se è vero, come è vero, che nella
Kultur der Renaissance la tematica della genesi e dei caratteri dello stato moderno è assolutamente centrale. Differentemente,
Garin si è sforzato piuttosto di misurarsi con la dimensione prestatuale e prepolitica — civile, nel senso più ampio del termine — dell’epoca rinascimentale, concentrandosi su quelli che sono gli elementi originari, primordiali, dell'esperienza umana in tutta la
sua complessità. Sta qui — lo vedremo più avanti — la radice del suo interesse per la magia, per l’astrologia, per l'alchimia: temi per i quali Burckhardt non provava alcuno specifico interesse e che anzi aveva tenuto lontani da sé, preso — e assorbito — dalla centralità del problema etico-politico. È sintomatico da questo punto di vista il saggio dal titolo Interpretazioni del Rinascimento (nato come conferenza alla Scuola Normale Superiore di Pisa), nel quale l’urgere dei problemi posti dalla guerra appare in piena luce, insieme alla crisi spirituale che ne scaturisce. Scrive Garin nel 1950: L'interesse che muove oggi da varie parti verso un ripensamento
degli aspetti più importanti della cultura umanistico-rinascimentale non è dovuto, io credo, solamente all’essersi logorata, sotto tanti punti di vista, un’interpretazione storica che a suo tempo sedusse molti di
noi [...] Questa crisi particolare di una impostazione storica opera
senza dubbio; ma in verità essa è come secondaria rispetto al bisogno
UMANESIMO E RINASCIMENTO NELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA
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di renderci conto fino in fondo delle linee orientatrici essenziali della nostra cultura; ed è, appunto, questo bisogno che ci riporta di continuo a quello che rimane un momento cruciale nella storia dell’Occidente; e non solo della filosofia in senso stretto come tecnica discus-
sione di determinati problemi, ma di tutta la vita dell’uomo [...] !*. Sono, se non mi sbaglio, battute rivelatrici, che forse s’in-
tendono meglio se si considerano gli interessi culturali — etici e anche religiosi — di Garin in quegli anni, quali si rivelano scorrendo ad esempio le note scritte per la rivista «Leonardo», scandite da nomi che oggi possono perfino stupire — da Berdjaev a Jankélévitch a Tolstoj ! — e che, pure, sono sullo sfondo di tante di quelle affermazioni: nomi e opere — sia detto per inciso — su cui varrebbe la pena di soffermarsi, anche per discutere la tradizionale interpretazione in chiave razionalistica della posizione di Garin. In questa sede interessa però sottolineare anzitutto due punti: respinta l’interpretazione in chiave ‘nazionale’ del Rinascimento, Garin ha sviluppato in modi nuovi il problema delle origini del mondo moderno, riprendendo un motivo tipico soprattutto della storiografia francese dell'Ottocento (da Michelet a Quinet fino a Louis Blanc), come, nel 1955, scrive acutamen-
te Delio Cantimori: «la questione del Rinascimento — egli osserva — s’incrocia fin dall'origine con quella dell’‘origine dell’età moderna’,
cioè dell’inizio storico della società, o delle fonda-
menta della società, alla quale apparteniamo nel nostro presente, o alla quale abbiamo appartenuto nel nostro immediato passato» !°. Né occorre sottolineare, oggi, l’acutezza della specificazione finale («nel nostro immediato passato»): di lì a poco, proprio quel nesso sarebbe stato, infatti, messo frontalmente in discussione con l’imporsi via via più impetuoso dell’interpretazione della rivoluzione scientifica come momento genetico essenziale della ragione e del mondo moderni, con un drastico ridimensionamento del Rinascimento come «aurora» della modernità (secondo uno schema interpretativo delineato per la 14 GARIN, Interpretazioni del Rinascimento, cit., p. 90. 15 Si veda per questo la Bibliografia degli scritti di Eugenio Garin 1929-1999, Roma-Bari 1999, alla quale si rinvia anche per l’aggiornamento bibliografico relativo ai testi di Garin citati nell'intero volume. 16 CANTIMORI, La periodizzazione dell'età del Rinascimento, cit., p. 344.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
prima volta, con massima
chiarezza, nel Discorso preliminare
all’Enciclopedia di D’Alembert !). In secondo luogo, e su questo sfondo di problemi, interessa sottolineare che l’«Umanesimo civile», del quale ho cercato di indicare sommariamente le complesse radici (percepibili ad esempio nell’accostamento fatto nel 1968 — e la data conta — fra Pico e Sartre a proposito della natura umana come «scelta», «disegno», e non «destino» !5), resta al centro
del lavoro di
Garin almeno fino al compimento degli anni Sessanta, cioè fino a quando diventa cruciale la questione del rapporto tra Rinascimento e rivoluzione scientifica: in altre parole, quando si riaffaccia in modi nuovi il problema di quali siano le origini effettive del mondo moderno, con un possibile — e incipiente — tramonto del concetto stesso di Rinascimento. Intendiamoci: se si analizza il lavoro svolto negli anni Cinquanta da Garin, si vede subito il rilievo che egli attribuisce alle tematiche magiche, alchemiche, astrologiche. Già nel 1950
pubblica un saggio fondamentale intitolato Magza e astrologia nel Rinascimento, al quale si aggiungono le Considerazioni sulla magia del 1951, entrambi connessi al volume di Testi umanisti ci sull’ermetismo curato, nel 1955, da Garin e da alcuni dei suoi
allievi, fra i quali spiccano i nomi di Paolo Rossi e di Vasoli. L'interesse di Garin per questi temi è dunque antico, come appare, del resto, già dal libro su Pico uscito nel 1937 (ma pron-
to fin dal ’35), sulla scia delle importanti ricerche di Reitzenstein e, in ambito umanistico, di Kristeller, e, prima ancora, di
Burdach (il cui contributo a questi studi non è mai stato considerato come meriterebbe). Ma è solo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta che questa tematica diventa dominante, situandosi al centro della sua interpretazione
dell’Umanesimo e del Rinascimento, nel pieno di un ripensamento complessivo che disloca su un altro piano la stessa questione dell’«Umanesimo civile» — interpretato ormai in termini di ‘coscienza’ (cioè di programma, di progetto, d’ideale) piuttosto che sul piano dell’‘essere reale’, come realizzazione stori-
ca effettiva. ! Le RoND D’ALEMBERT, Discorso preliminare all’Enciclopedia, cit.
!5 E. GARIN, Quel «Humanisme»? (Variations historiques), «Revue internationale de philosophie», XXII, 1968, pp. 263-275.
UMANESIMO E RINASCIMENTO NELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA
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Conviene essere chiari su questo mutamento di prospettiva, che è al tempo stesso sia teorico sia storiografico: esso si situa all’interno di un ripensamento di carattere generale, che tocca tutti gli aspetti della posizione di Garin: a cominciare dal concetto di storia, di progresso, di ragione. Si situa nel vivo — ed è questo il punto essenziale — di una crisi storica e politica che mette in discussione radicale l’immagine dell’intellettuale europeo di matrice umanistica di cui Garin aveva ricostituito l’archetipo nei suoi saggi sull’«Umanesimo civile», alla luce di una determinata interpretazione assai caratteristica del rapporto tra filosofia e politica, tra filosofia e vita civile. Arriva a compimento a quella data il modello etico-politico di intellettuale e di cultura che aveva cominciato a maturare alla fine degli anni Venti, negli scritti di Hans Baron su Leonardo Bruni. Alla svolta degli anni Sessanta, quello che è il problema costante di Garin — l’individuazione della genesi e dei caratteri del mondo moderno — si sviluppa, ormai, in modi nuovi, accentrandosi sulle problematiche di carattere ermetico, magico, astrologico assunte, ora, come chiave di volta per intendere un intero periodo storico in tutta la sua complessità, con una netta presa di distanza dalla tradizionale problematica della «coscienza degli umanisti» di cui in pagine assai fini aveva parlato, tra gli altri, uno studioso quale Franco Simone ! Non si intenderebbe questa complessiva reimpostazione del problema storico dell’Umanesimo e del Rinascimento alla svolta degli anni Sessanta se non si sottolineassero, al tempo stesso,
altri due punti importanti: in primo luogo, a quel momento, al centro del lavoro di Garin comincia a stagliarsi il problema della nascita della scienza moderna, la quale ai suoi occhi — ed
è il secondo punto da notare — si configura, ed essenzialmente si risolve, nel problema del rapporto tra ermetismo e scienza moderna. Beninteso, nella sua ricerca Garin ha sottolineato a più riprese il forte peso avuto dall’Umanesimo nella costituzione della scienza moderna, enfatizzando, ad esempio, il valore e
il significato della scoperta dei codici degli antichi scienziati. Da questo punto di vista è assai importante il volume Scienza e vita
civile nel Rinascimento, nel quale questa prospettiva è messa con vigore alla prova 2%; ma si tratta, nel complesso, di un lavo19 Cfr anzitutto SIMONE, I/ Rinascimento francese, cit. 20 GARIN, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, cit.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
ro di transizione, di una pista di ricerca che Garin abbandona abbastanza rapidamente, ponendo invece subito con forza la centralità della questione dell’ermetismo, come appare chiaro dalle lezioni tenute al Collège de France nel 1974 e raccolte poi nello Zodiaco della vita ?*. Né ci sono dubbi sul fatto che gli ultimi decenni della sua attività abbiano continuato a privilegiare questi temi piuttosto che la tradizionale tematica dell’«Umanesimo civile», dalla quale egli ha preso le distanze, più che attraverso dichiarazioni esplicite, con un sostanziale silenzio su temi che, in altri momenti, erano stati essenziali nella sua ricerca storiografica.
5. Ho insistito sulla figura di Garin per due motivi. Anzitutto per l’originalità dei suoi contributi, sia sul piano del metodo, con un ripensamento del concetto di filosofia che ha consentito di individuare contributi di ordine teorico in autori e testi prima ascritti all’universo della retorica o della grammatica; sia sul piano interpretativo, con una valorizzazione della dimensione ‘drammatica’ della cultura rinascimentale che ha contribuito a dissolvere definitivamente le immagini di carattere estetizzante, imperniate sul principio dell’‘equilibrio’ e dell'armonia’. In secondo luogo, perché è alla sua scuola che si sono formati alcuni dei più eminenti studiosi dell’Umanesimo e del Rinascimento degli ultimi cinquant'anni — da Paolo Rossi a Cesare Vasoli, i quali, pur riconoscendo nelle loro prime opere i debiti nei confronti del maestro, hanno poi cercato, in maniere diverse, una propria strada, offrendo contributi di particolare importanza nell’ambito di questi studi. È appena il caso di sottolineare, per quanto riguarda Rossi, l’importanza dei suoi libri su Francesco Bacone e della Clavis
universalis *?, certamente uno dei lavori più significativi usciti sulla tradizione lulliana nella seconda metà del nostro secolo. Ma credo sia importante ricordare anche, sia pur sommariamente, il punto su cui Paolo Rossi ha segnato il suo distacco da
Garin, nel quadro — e anche questo è rilevante — di una discussione che ha riguardato, precisamente, il significato dell’ermeti2! GARIN, Lo zodiaco della vita, cit.
2° Rossi, Francesco Bacone, cit.; ID., Clavis universalis, Bologna 1983 (rist. 2000).
UMANESIMO E RINASCIMENTO NELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA
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smo in rapporto alla costituzione della nuova scienza. Alla base del dissenso — nitidamente illustrato da Rossi nella sua introduzione alla nuova edizione del Bacone per i tipi dell’editore Einaudi, uscita nel 1974 — è, appunto, il problema del rapporto tra genesi e struttura nella costituzione, e nella valutazione, della
filosofia e della scienza moderne. Pur essendo Paolo Rossi storico più attento ai processi genetici delle teorie piuttosto che alla loro formulazione e strutturazione sistematica, l’obiezione che Rossi muoveva a Garin riguardava, precisamente, la distinzione fra la genesi della rivoluzione scientifica (che, certo, aveva a che fare con l’ermetismo) e la sua costituzione sia interiore che esteriore (verificabilità, pubblicità, ecc.), le quali, a suo giu-
dizio, non avevano più: niente in comune con la tradizione ermetica (enfatizzata in massimo grado, proprio in quegli anni, da E. A. Yates), strutturalmente estranea, tra l’altro, a quell’«eguaglianza delle intelligenze» che Rossi considera tipica del sapere e della scienza moderni: «Questo libro conserva, anche in questa edizione, il sottotitolo Dalla magia alla scienza», scrive nel 1974. E aggiunge: Oggi, proprio in parziale dissenso con F. A. Yates e P. M. Rattansi che tendono a vedere in Bacone il presentatore, in linguaggio più aggiornato, degli ideali e dei valori della tradizione ermetica, sarei portato a insistere di più sugli elementi di distànza da quella tradizione
presenti nella filosofia di Bacone e a sottolineare con maggiore energia l’importanza di quel nuovo ritratto dell‘uomo di scienza’ che è presente in tante sue pagine. Col passare degli anni si è fatta in me più
forte la convinzione che illuminare la genesi - non solo complicata, ma spesso assai ‘torbida’ — di alcune idee ‘moderne’ sia altra cosa dal credere di poter annullare o integralmente risolvere queste idee nella loro genesi ??. Di Garin, Rossi non parla; ma ai nomi della Yates e di Rat-
tansi si potrebbe aggiungere senza difficoltà anche il suo, nel quadro di una complessiva presa di distanza teorica e storiografica incentrata, come si è visto, proprio intorno al giudizio sull’ermetismo e ai suoi rapporti con la rivoluzione scientifica.
Sta qui dunque l’effettivo punto di distanza fra Garin e Paolo Rossi: il quale, sulla scorta di questa impostazione, negli ultimi 2 RossI, Francesco Bacone, 1974?, cit., p. XVII.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
vent'anni è venuto concentrando le sue ricerche sulla scienza e sulla filosofia dei ‘moderni’. Né c’è alcun dubbio che, su questa strada, egli abbia dato un contributo importante a una rinnovata interpretazione — e periodizzazione — della genesi del mondo moderno, imperniata appunto sul primato e sulla centralità della rivoluzione scientifica, in un arco temporale che va «da Copernico a Newton», come recita il titolo di una sua famosa antologia di testi 24. A differenza di Paolo Rossi, Cesare Vasoli non si è mai
esplicitamente confrontato con problemi di carattere generale, preferendo concentrarsi su punti storiografici specifici — dall’analisi del rapporto tra retorica e dialettica (cui ha dedicato un lavoro fondamentale) allo studio dei temi di carattere religioso, profetico e apocalittico; dalla ricerca sulla fortuna dell’idea e dei modelli enciclopedici all’indagine sulle relazioni tra pensiero filosofico e pensiero giuridico, con un allargamento del campo tradizionale di ricerca assai significativo. Tanto più ha svolto questo tipo di indagini quanto più è venuto individuando come suo specifico campo di studio la ‘storia della cultura’ dell’Umanesimo e del Rinascimento nell’intreccio di tutte le sue componenti, al di fuori, dunque, di un privilegiamento particolare sia della dimensione scientifica che di quella strettamente filosofica. Certo, Vasoli ha scritto pagine importanti sulla ‘nuova scienza’ e i suoi protagonisti; ma non sta qui il centro della sua attività, costituito invece dall’analisi delle forme della ‘vita morale’ (volendo riprendere una espressione classica). Se si volesse poi individuare in quest'ambito di studi una sfera dell’esperienza umana verso cui Vasoli si è sentito maggiormente attratto si potrebbe, forse, far riferimento alla dimensione di carattere reli-
gioso nel senso più largo del termine(a cominciare dagli studi raccolti in Profezia e ragione”). E sintomatico, del resto, che gli autori ai quali si è venuto maggiormente dedicando in questi ultimi anni siano stati Francesco Patrizi e Jean Bodin °° — parti4 La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, a cura di P. Rossi, Tori1Oal976,
? C. VASOLI, Profezia e ragione. Studi sulla cultura del Cinquecento e del Seicento, Napoli 1974; di Vasoli cfr anche La dialettica e la retorica dell'’Umanesimo. «Invenzione» e «Metodo» nella cultura del XV e del XVI secolo, Milano 1968. °° Per Patrizi cfr C. VASOLI, Francesco Patrizi da Cherso, Roma 1989; per i
contributi su Bodin cfr da ultimo C. VASOLI, Civitas mundi. Studi sulla cultura del Cinquecento, Roma 1996.
UMANESIMO E RINASCIMENTO NELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA
141
colarmente significativo quest’ultimo, anche per sottolineare lo sforzo fatto da Vasoli nell’estendere i confini dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani ben al di là di quelli tradizionalmente intesi. Sta proprio qui — in questo lavoro di ampliamento dei confini — uno dei tratti più significativi della sua attività, imperniata, nel complesso, su un’interpretazione assai conseguen-
te e, per certi aspetti, radicale, della ‘filosofia come sapere storico’: nella quale l’attenzione per gli elementi di ‘continuità’ prevale, nel complesso,
su quelli di ‘rottura’, a differenza di
quanto accade, su questo punto, nel lavoro di Paolo Rossi. Da quanto sono venuto dicendo risultano, dunque, con chiarezza la vastità e la ricchezza dei contributi che la storiografia filosofica italiana degli ultimi cinquant'anni ha dato agli studi sull’Umanesimo e sul Rinascimento, consentendo di presentare oggi un bilancio sicuramente positivo del lavoro compiuto. Consumate le metodologie e le impostazioni di carattere ‘idealistico’ (curiosamente più vive, a volte, negli interpreti di matrice marxista) si è dato mano a un'’interpretazione originale
dell’Umanesimo e del Rinascimento, studiato in aspetti e in figure prima mal note o addirittura ignote. Si è anche avviata un’amplissima attività di carattere editoriale, pubblicando testi fondamentali, a cominciare dagli epistolari di Lorenzo de’ Medici, di Ficino, di Bracciolini, di Francesco Barbaro ?’, i quali
hanno contribuito a offrire nuove chiavi di lettura per comprendere una intera epoca storica, lasciandosi progressivamen-
te alle spalle le interpretazioni che avevano dominato fra l'Ottocento e la prima metà del nostro secolo. Per dirlo con una
formula, nomi come quelli di Spaventa e di Gentile, dei quali è appena il caso di sottolineare la lunghissima influenza, appartengono ormai all’‘archeologia’ di questi studi: si è affermato un nuovo
concetto di ‘filosofia’; si sono valorizzati temi come la
magia, l'astrologia, l’alchimia; si è rivolta notevole attenzione ai
temi profetici, apocalittici, religiosi; si sono messi a fuoco rapporti (possibili) tra ermetismo e rivoluzione scientifica; si sono riconsiderate, in modo originale, le radici della moderna filoso-
fia della storia. Insomma — come si osservava all’inizio — negli ultimi cinquant'anni è stato svolto un lavoro, per molti aspetti, imponente. 27 Mi riferisco, in modo particolare, alla collana «Carteggi umanistici» promossa dall'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
6. Se si prova invece a considerare quale sia oggi la situazione degli studi sull’Umanesimo e sul Rinascimento non è difficile vedere come essi stiano attraversando un periodo di crisi e di trasformazione e come ormai necessitino, per svilupparsi, di nuove motivazioni. Non si tratta peraltro di una crisi (se si vuole usare questo termine) che riguardi solo l’Italia o l'Europa; anche negli Stati Uniti, che nel nostro secolo sono stati uno dei principali centri degli studi umanistici e rinascimentali, sono avvertibili i segni di una situazione di difficoltà che, sul piano istituzionale, si è manifestata in una significativa riduzione delle
cattedre concernenti lo studio del Rinascimento e in un gressivo predominio, sul piano culturale, di quella che si chiamare «early modern history». Alla base di questa crisi ci sono elementi complessi, impossibile esaminare analiticamente in questa sede. È
prosuole
che è suffi-
ciente pensare al peso che ha avuto, in tutto questo, l’imporsi
della rivoluzione scientifica come momento genetico fondamentale del mondo moderno, con un conseguente inabissamento nella premodernità di tutte le posizioni filosofiche che nel corso del Rinascimento hanno consapevolmente insistito sul primato del principio della ‘vita’, nel quadro di ontologie di carattere essenzialmente qualitativo. Da questo punto di vista, il giudizio di Alexandre Koyré su Giordano Bruno è veramente significativo, per non dire esemplare. Per quanto riguarda, in modo specifico, la nostra cultura, non c'è poi dubbio che in questa crisi ha
pesato, e continua a pesare, il tramonto dello stato nazionale italiano, con tutto ciò che questo ha significato dal punto di vista dei valori — e dei momenti — costitutivi della nostra identità etico-politica e culturale, a cominciare dall’Umanesimo e dal Rinascimento che, nel bene e nel male, si sono costantemente
configurati come archetipi della storia della nostra coscienza nazionale. Misurarsi con questa crisi significa, in primo luogo, sforzarsi
di ripensare caratteri e finalità di questi studi e, simultaneamente, riconcepire in modi nuovi il ‘classico’ problema del rapporto tra Umanesimo e Rinascimento da un lato, e mondo moderno dall’altro. A questo fine è anzitutto necessario prendere definitivamente atto dell’esaurimento di quell’interpretazione che è andata sotto il nome
di «Umanesimo
civile», la quale,
oggi, sembra appartenere anzitutto alla storia degli intellettuali
UMANESIMO E RINASCIMENTO NELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA
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italiani ed europei di matrice liberale, piuttosto che configurarsi come prospettiva critica in grado di aprire nuove linee di studio nell’ambito della cultura umanistica e rinascimentale. Ma non si tratta solo dell'’«Umanesimo civile», cioè di un’interpretazione storiografica ben definita: al fondo è il problema generale stesso dell’Umanesimo — e del suo significato — che va ripreso in modi nuovi e, per certi versi, radicali. Ad essere più chiari, è con difficoltà che autori come Machiavelli e Cardano, Pomponazzi e Bruno oppure Campanella possono essere ricon-
dotti nell'alveo della tradizione e dell’ideologia umanistica. Bruno, ad esempio, sottopone l’antropocentrismo umanistico di matrice
tradizionale
a una
critica radicale, situando
fino in
fondo l’uomo nell’esperienza dell’infinità; ma discorso analogo, sia pure da altri punti di vista, si potrebbe fare per molti degli autori costitutivi del ‘canone’ rinascimentale. Allo
stesso
modo,
è venuto
il momento
di operare
un
drastico ridimensionamento delle problematiche di carattere ermetico che negli ultimi decenni sono state al centro di questi studi (addirittura più dello stesso «Umanesimo civile», la cui presenza si è molto affievolita negli ultimi decenni). È appena il caso di ribadirlo: sia dal punto di vista teorico che storiografico, quella dell’ermetismo è stata, senza alcun dubbio, la ‘sco-
perta’ più eminente apportata a questi studi dal nostro secolo. Ma è venuto ormai il momento di ripensare dalle fondamenta questo approccio, a cominciare dalle discussioni sui rapporti tra ermetismo e rivoluzione scientifica, le quali, come oggi appare chiaro,
non
si sono
dimostrate
Samticolarmente
feconde
dal
punto di vista degli effettivi risultati critici. Né questo sorprende, del resto, trattandosi di due fenomeni strutturalmente imparagonabili. Studiare il Rinascimento oggi vuol dire porsi dopo l’«Umanesimo civile» e o/tre l’ermetismo, concentrandosi su nuovi temi e analizzando a questa luce i rapporti tra Rinascimento e mondo
moderno. Significa, in primo luogo, mettere a fuoco la ricchezza e la pluralità dei modelli culturali che agiscono nella cultura rinascimentale, proiettandosi verso mondo moderno oppure ripiegandosi su se stessi. E a questo proposito è sufficiente pensare, tra l’altro, al principio del ‘vincolo’ quale base del ‘vivere civile’, rapporto tra governanti e governati; ai caratteri qualitativi della scienza rinascimentale, di cui è espressione conse-
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
guente il primato assegnato all’operare magico; alla teoria e alla pratica della vita civile imperniate sul tema della maschera e della dissimulazione,
da Alberti
a Sarpi, da Campanella
a
Bruno; ai modelli letterari e artistici basati sul rapporto organico tra ‘figurazione’ e scrittura; alle filosofie della storia imperniate sul concetto di ‘vicissitudine’ di cui ‘rinascita’ e ‘decadenza’ sono momenti costitutivi; ai progetti di ‘riforma interiore’ fino alla riflessione di carattere schiettamente ‘autobiografico’ ‘8. Rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta, oggi i problemi centrali della ricerca sull’Umanesimo e sul Rinascimento appaiono, dunque, mutati; ma se si considerano con attenzione le
prospettive affiorate negli ultimi decenni si vede bene che esse sono state in buona parte preparate sia dalle trasformazioni determinatesi nel ‘mondo storico’, sia dalle ricerche condotte nel
‘mondo storiografico’ a cominciare dagli anni Settanta. Al fondo, in questi studi, pur nei mutamenti di prospettiva è percepibile una continuità. Né questo di per sé stupisce: come ha scritto Konrad Burdach, uno dei più grandi storici dell’Umanesimo e del Rinascimento del nostro secolo: «la teoria della storia dello spirito deve riconoscere l’esistenza di momenti ‘esplosivi° nello sviluppo storico (e storiografico)»; ma se si guarda più attentamente si può vedere che «le forze di questi impulsi personali sono pur sempre anelli di una lunga catena, di sforzi connessi fra loro, susseguenti e antecedenti» °°. Non è sempre vero, ma in questo caso rispecchia, nel complesso, la realtà.
28 Sull’insieme di questi temi, qui sommariamente richiamati, mi sono soffermato in modo più analitico nel Prologo al mio Umbra profunda. Studi su Giordano Bruno, Roma 1999. Sul rapporto tra ‘figurazione’ e scrittura con particolare riferimento all’arte della memoria si veda, almeno, l’ottimo libro di L. BOLZONI, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell'età della stampa, Torino 1995.
29 K. BURDACH,
Riforma, Rinascimento,
Umanesimo.
Due dissertazioni sui
fondamenti della cultura e dell’arte della parola moderne, Firenze 1935 (seconda
ed. 1986), p. 77.
IV IL BRUNO DI ANTONIO CORSANO
Antonio Corsano è certamente uno dei grandi maestri della storiografia filosofica italiana del Novecento. In modo particolare, i suoi lavori bruniani costituiscono un momento essenzia-
le degli studi intorno al Nolano nel secolo appena concluso. Essi hanno aperto la strada a quella interpretazione di Bruno in chiave ermetica che ha dominato soprattutto nella seconda metà del Novecento, anche se questa funzione dei lavori di Corsano non viene sempre adeguatamente illuminata. Per quanto possano, poi, valere le considerazioni di ordine personale, voglio dire
che quello di Antonio Corsano, per la mia formazione di studioso di Bruno, è stato per certi aspetti il libro più importante che mi sia capitato di leggere, insieme a quello di Frances Yates. Si tratta di un lavoro che, a mio giudizio, ha ancora molte cose da dire, a cominciare da quella valorizzazione della dimensione
antiumanistica dell'esperienza bruniana che è un nucleo essenziale della sua interpretazione, denso ancora oggi di straordinarie prospettive di sviluppo sia in rapporto a Bruno che all’intera cultura del Rinascimento. Se si considera la fortuna di Bruno nel Novecento si vede subito che i punti critici più rilevanti sono costituiti dalle interpretazioni di Giovanni Gentile e di Frances A. Yates!. Si tratta in verità di studiosi e di impostazioni molto diversi: se il primo si colloca nell’alveo del neoidealismo italiano, la seconda riela-
bora in modi originali la lezione di Aby Warburg applicandola in modo specifico alla rova philosophia di Giordano Bruno. Entrando più nel merito della questione, l’interpretazione di Gentile si connota anzitutto per l’individuazione in Giordano Bruno ! Su questo mi sono soffermato in modo più analitico in Umbra profunda. Studi su Giordano Bruno, cit., pp. 13-34.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
di uno dei punti più alti del pensiero del Rinascimento, interpretato alla luce delle categorie fondamentali dell’idealismo attuale, secondo una prospettiva che, alle origini, è quella di Bertrando Spaventa. Mi limito a fare solo due riferimenti precisi: alla concezione del rapporto fra religione e filosofia e alla interpretazione della veritas filia temporis. Nel primo caso Gentile distingue nettamente tra livello religioso, proprio della plebe e dei ‘popoli rozzi ed ignoranti’, e livello filosofico, proprio degli uomini colti, cioè dei ‘contemplativi’. Nel far questo, si riferisce in modo particolare ai primi tre dialoghi italiani e alle posizioni che Bruno svolge special mente nella Cera de le Ceneri, nella quale è posta con la massima chiarezza questa distinzione. Gentile trascura invece di analizzare, e di considerare, il peso della riflessione svolta da Bruno nello Spaccio e anche nella Cabala, in cui la distinzione fra campo religioso e campo filosofico si consuma interamente alla luce di una concezione della religio — di matrice machiavelliana — concepita come vincolo costitutivo di tutta la civiltà. Gentile procede in questo modo sulla base di preoccupazioni di carattere filosofico (e soprattutto ideologico) direttamente connesse alla costituzione interiore del neoidealismo italiano e alle complesse battaglie che egli affronta, specie nel primo decennio del secolo, per imporre anche sul piano politico il suo punto di vista. Né risulta meno connessa alla prospettiva teorica dell’idealismo attuale la sua interpretazione della concezione della veritas filia temporis, inquadrata, sintomaticamente, nell’ambito
di una visione di carattere storicistico che individua in Giordano Bruno uno dei primi teorici del moderno concetto di ‘progresso’ esplicitamente contrapposto alle posizioni di matrice illuminista 2. Alla sua visione del rapporto tra filosofia e politica si congiunge, naturalmente, anche il rilievo dato da Gentile a
tale aspetto della personalità di Bruno, anche se nella sua prospettiva è Tommaso Campanella ad incarnare nel modo più ampio e compiuto il nesso tra ‘filosofo’ e ‘riformatore’ 3. ? G. GENTILE, Giordano Bruno nella storia della cultura e Veritas filia temporis. Postilla bruniana, in ID., Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze 1920 (nuova ed. 1991), pp. 13-62, 89-110. ? C. VASOLI, Gentile e la filosofia del Rinascimento, in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, a cura di M. CILIBERTO, Roma 1993, pp. 267-308.
IL BRUNO DI ANTONIO CORSANO
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Nel suo lavoro Gentile non ha dato, invece, alcun rilievo
alle opere magiche di Bruno e alla riflessione, pur così fondamentale, in esse svolta. Né, del resto, questo stupisce: Gentile si muoveva all’interno di una concezione del mondo e della filosofia moderni radicalmente estranei a concezioni di questo genere. Nei suoi studi sul Rinascimento, assai penetranti ed acuti,
manca in generale una valutazione di questo tipo di opere e testi, ben spiegabile — si è già detto — alla luce della sua concezione del Rinascimento e del rapporto tra Rinascimento e mondo moderno, declinata secondo una impostazione definita per prima in Italia dall’idealismo spaventiano. Sono invece i temi ai quali si dedica Frances Yates per impulso del Warburg Institute e in modo particolare di Edgar Wind, il primo che la spinse ad avviarsi in questo campo di ricerche. Come è noto, la Yates si era prima concentrata sui rap-
porti tra Bruno ed Oxford, tra Bruno e i puritani, interpretando la Cena de le Ceneri alla luce di polemiche e contrasti di ordine teologico (a cominciare dal titolo, assai sintomatico, del
dialogo). È a partire dalla fine degli anni ’30 e dai primi anni ’40 che comincia, invece, a mettere a fuoco il problema dell’ermetismo, avviando una ricerca che trova il suo culmine nel fondamentale libro del ’64 su Bruzo e la tradizione ermetica, nel quale
lo stesso tema del copernicanesimo è ripensato in modi radicalmente nuovi attraverso l'individuazione di un nesso costitutivo tra ermetismo da un lato e rivoluzione copernicana dall’altro. In questo lavoro — che certo è stato decisivo negli studi bruniani del nostro secolo — la Yates valorizza in primo luogo le opere magiche di Bruno, cioè la sua produzione degli anni finali, conosciuta e pubblicata solamente negli ultimi anni dell’Ottocento grazie all'edizione nazionale delle opere di Bruno curata da Fiorentino, Tocco e Vitelli 4.
Si è già detto: si tratta di un’interpretazione distantissima da quella di Gentile, anche sul punto decisivo della generale concezione della modernità e dei rapporti tra filosofia bruniana e modernità. Ciò non vuol dire che la Yates non abbia avuto rap4 F. A. YATES, Giordano Bruno e la disputa con i dottori di Oxford e La politica religiosa di Giordano Bruno, in EAD., Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, introduzione di E. GARIN, Roma-Bari 1999, pp. 11-57; EAD., Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1969 (2000°).
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
porti profondi con la storiografia filosofica italiana sul Rinascimento del nostro secolo. Anzi, nel lavoro del ’64 la Yates si è
esplicitamente riferita alle pagine sulla magia e sull’astrologia pubblicate da Garin nei primi anni ’50, individuando in esse un incunabolo della sua interpretazione di Giordano Bruno. Meno importanti — e meno significativi — sono invece 1 riconoscimenti che la Yates fa nei riguardi del lavoro di Antonio Corsano,
evocato solamente in una nota del capitolo dedicato dalla Yates al ritorno di Bruno in Italia. Si può capire l’atteggiamento della Yates teso a rivendicare il valore e l’originalità della sua ricerca: «Nessuno aveva ancora posto Bruno in rapporto con l’ermeti-
smo», scrive nel ’64 a proposito delle sue ricerche bruniane, sottolineando come ella stessa avesse avuto difficoltà a comprendere che la magia di Bruno, insieme a tutta la sua filosofia,
rientrava nell’ambito dell’ermetismo. «Solo pochi anni fa — continua — arrivai a comprendere, improvvisamente, che l’ermeti-
smo rinascimentale costituiva quello spunto decisivo per l’interpretazione di Bruno che avevo cercato a lungo !...]»?. Questa ricostruzione è imprecisa e anche parziale dal punto di vista della storia della storiografia; ed è imprecisa e parziale perché non riconosce, e non apprezza, nel giusto valore proprio la ricerca che Antonio Corsano aveva svolto nella seconda metà degli anni Trenta sfociata nella grande monografia del ’40°. Se si legge questo testo si vede, infatti, senza difficoltà che Corsano è stato il primo a sottolineare con acume e con intelligenza l’importanza delle opere magiche di Bruno — e conseguentemente dell’ermetismo —, interpretando in questa luce lo stesso cruciale problema del ritorno di Bruno in Italia. A metà degli anni Trenta, altri studiosi avevano cominciato a procedere in questa direzione: per esempio Ludovico Limentani, come risulta da una lettera alla Yates già depositata presso la Biblioteca del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Trieste. Ma si trattava, nel complesso, dei primi abbozzi di un’indagine che Limentani non ebbe modo di concludere: ebreo, fu addirittura costretto ad abbandonare l'università, senza riuscire ad emigrare
in Inghilterra come era nelle sue aspirazioni. ? YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 7 (per il riferimento a Corsano cfr p. 368). ° CORSANO, I/ pensiero di Giordano Bruno nel suo svolgimento storico, cit.
IL BRUNO DI ANTONIO CORSANO
149
Ben altra cosa il lavoro di Corsano che, muovendo da una
prospettiva di matrice gentiliana, procede, in modo via via più autonomo e consapevole, verso la riscoperta del valore e del significato delle opere magiche, costituendosi come vero e proprio trait d’union fra lo stesso Gentile e Frances Yates. Da questo punto di vista — per i problemi che è riuscito ad individuare e per le soluzioni che ha cominciato a definire —, Corsano è stato, senza alcun dubbio, uno dei punti più alti della storio-
grafia bruniana del nostro secolo. Tanto più ciò appare chiaro se si considera la situazione della storiografia italiana intorno a Bruno nella seconda metà degli anni ’30. Sullo sfondo si staglia, anzitutto, la lezione di Giovanni Gentile ben presente a tutti gli studiosi del Nolano di quel periodo; c'è poi il lavoro di Augusto Guzzo attento lettore e notevole commentatore dei dialoghi italiani, come dimostra in modo particolare il suo commento del De la causa. Ma — tornando al punto che ci interessa — Guzzo resta sostanzialmente estraneo alla dimensione magica ed ermetica del pensiero di Bruno, arrivando addirittura a vedere in un testo come la Figuratio il primo apparire di nuovi elementi barocchi; mentre si tratta, invece, di un’opera di chiara ascenden-
za ermetica ‘. Del resto — nell’alveo di una determinata interpretazione della lezione neoidealistica — ciò che a Guzzo interessa è soprattutto la valorizzazione degli elementi di convergenza, nel pensiero di Bruno, tra filosofia e teologia e religione: sul piano storico, tra zova philosophia, da un lato, e cristianesimo in versione cattolica, dall’altro. Di qui, appunto, una continua e, per molti aspetti, fuorviante rivendicazione degli elementi ‘trascendenti’ della ‘musa’ nolana in aperta polemica con le interpretazioni di ispirazione immanentistica o positivi-
stica, quali in Italia erano state rappresentate da un personaggio come Erminio Troilo. A metà degli anni ’30 escono anche i saggi di Limentani sul Nolano in Inghilterra, a cominciare da quello — veramente fondamentale — su Bruno a Oxford: ma si tratta, nel complesso, di
una produzione che si muove in un ambito di carattere storicopositivo, per certi versi erudito, senza entrare nel merito dei
caratteri e del significato della filosofia di Bruno alla quale Li? A. Guzzo, Giordano Bruno, Torino 1960. Di Guzzo, cfr anche I dialoghi del Bruno, Torino 1932.
150
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
mentani, per altro, aveva già dato importanti contributi sia nel libro sulla morale di Bruno che in altri, notevoli saggi pubblicati negli anni ‘20 8. Ma sul tema della magia e delle opere magiche mancano, anche in Limentani, riferimenti organici, di tipo tematico. Da questo punto di vista Corsano, in Italia, è stato veramente un pioniere, nel quadro di una interpretazione che colpisce per l'originalità e l'autonomia con cui si muove nei confronti dello stesso Gentile, come accade, per esempio, nel caso della concezione della veritas filia temporis (alla quale anche Garin all’inizio degli anni ‘50 dedicherà preziose osservazioni °): «A me non pare però — egli scrive in modo netto — che sian qui da trarre le conseguenze che si è soliti, da che il Gentile scrisse le sue insigni pagine sulla veritas filia temporis, poiché — osserva — Bruno non combatte il presupposto umanistico in antiquis est sapientia, se non per trascinarlo fino a quel
suo più radicale e intero sviluppo che lo rovesci nella vicenda ciclica: con procedimento dunque piuttosto illimitatamente regressivo che progressivo» !°, In breve: fin dall’inizio, Corsano si oppone a una conversione in chiave storicistico-attualistica
della posizione di Bruno sottolineando con forte penetrazione storica la dimensione ciclica della concezione bruniana del tempo, e rivendicandone la radicalità, alla luce delle battute del
Candelaio. Non solo: dopo avere insistito su questo, sottolinea come proprio tali posizioni contribuiscano a dimostrare come la «razionalissima fede» nella «impassibile e inflessibile razionalità del divenire universale» sia «rimasta vicina alle posizioni aristoteliche e averroistiche»,
compromesso
pur venendo
col pitagorismo
«sincretisticamente
e platonismo,
a
così da esserne
quasi sopraffatta, almeno nelle più appariscenti dichiarazioni» (e vale la pena di rilevare, in questo testo, sia il «quasi» che l'«almeno») !.
8 Su Limentani e i suoi studi bruniani cfr BASSI, Brurzo secondo Bruno, cit. Per una storia della fortuna di Bruno cfr EAD., Storia della critica, in M. CILIBER-
TO, Introduzione a Bruno, Roma-Bari 1999 (2000 *), pp. 139-166.
° E. GARIN, La storia nel pensiero del Rinascimento, in ID., Medioevo e Rinascimento, cit., pp. 192-210. !° CORSANO, Il pensiero di Giordano Bruno nel suo svolgimento storico, cit.,
Di Dil
ll Ivi, p. 56.
IL BRUNO DI ANTONIO CORSANO
Ibi
Siamo, come ben si sa, a uno dei punti chiave dell’interpretazione di Corsano imperniata, tematicamente, su una forte at-
tenzione alla dimensione aristotelica e averroistica del pensiero di Bruno (e al concetto di razionalità che questo implica), pur nell’esplicito riconoscimento dell’incidenza della tradizione platonica e neoplatonica: un’attenzione che lo spinge a sottolineare in modi nuovi i caratteri della stessa formazione del Nolano,
mostrando il peso, e l’influenza, in essa avuti da un personaggio come Vincenzo da Colle detto il Sarnese specialmente sul punto delicatissimo dal rapporto tra parole e pensiero, fra res et verba (problema cui aveva dato, fra gli altri, un notevolissimo contributo Sperone Speroni mettendo in scena il radicalismo, al tempo stesso, filosofico e linguistico di Pietro Pomponazzi) !?. Punto, quest’ultimo, che serve a illuminare un altro elemento
assai originale della interpretazione di Corsano: ossia il suo distaccare Bruno dall’Umanesimo, o, più precisamente, il metterlo in tensione con questo movimento, nel quadro di una impostazione storiografica che tende, in generale, a tenere aperto il momento
del conflitto, della tensione, anche della contraddi-
zione — al di fuori di qualsiasi pacificazione di ordine retorico. Su questo punto, che è centrale, vorrei insistere: se c’è in-
fatti un elemento che ha sempre reso complicata l’interpretazione del pensiero del Nolano è il problema del suo rapporto con l’Umanesimo. Da Gentile a Garin, su questo, c'è una lunga tradizione critica con la quale ancora oggi è necessario continuare a fare i conti. Bruno, invece, come Corsano intuisce bene,
è del tutto estraneo a prospettive di carattere umanistico o a umanistiche glorificazioni della dignitas bominis: la radicalizzazione in chiave infinitistica del copernicanesimo spinge il Nolano in dimensioni e prospettive teoriche del tutto irriducibili ai canoni dell’Umanesimo tradizionale. Né si tratta, in verità, solo
di Bruno: varrebbe la pena di indagare, oggi, in modi nuovi il significato e il peso complessivo dell’Umanesimo nel quadro della cultura rinascimentale: problema, sia detto di passaggio, che tocca, oltre a Bruno, Machiavelli, Pomponazzi, Campanella
- per limitarsi a fare solamente qualche nome !. 12 Ivi, pp. 35 sgg. 13 Mi sia lecito rinviare anche per questo a Umbra profunda. Studi su Giordano Bruno, cit.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
Ma torniamo a Corsano; del quale colpisce anche l’originalità con cui si confronta con le stesse posizioni di Tocco — insieme a Gentile l'interprete di Bruno più autorevole che egli aveva di fronte, quando scrive il suo libro. Corsano infatti non si limita a sottolineare l’importanza dell’aristotelismo e dell’averroismo individuandone i segni fin nella prima formazione di Bruno; ma — a differenza di Tocco e anche di Gentile — riconsidera in modo del tutto nuovo anche il lullismo bruniano,
vedendo nelle opere dedicate dal Nolano a questo tema non qualcosa di bizzarro e di inconsistente, ma il primo determinarsi di una energia ‘eroica’ e ‘trasformatrice’ che modifica in radice il significato e la funzione del sapere — e il suo rapporto con la realtà. In sintesi: senza grandi dichiarazioni di ordine generale, Corsano opera un profondo rinnovamento degli studi bruniani sia in rapporto alla tradizione italiana sia, più in generale, alla complessiva critica bruniana del Novecento. E, su questo argomento, vorrei cercare di essere più preciso soffermandomi su quello che è a mio giudizio il punto di maggiore originalità della sua posizione. L'ho già detto, sinteticamente:
esso concerne
l’interpreta-
zione, e l’uso, che Corsano fa delle opere magiche, presentando quelle che egli definisce, sobriamente, «ipotesi di lavoro» e che invece, con il passare degli anni, si sono rivelate intuizioni di eccezionale rilievo dal punto di vista sia storico che storiografico. Il punto da cui Corsano muove è una classica crux delle interpretazioni dell’opera e della figura di Bruno, fin dagli anni della sua morte sul rogo: perché torna in Italia, qual è il movente che lo spinge ad abbandonare la Germania? Certo: nella sua decisione pesa anche il complicarsi della situazione in Germania, nella quale, peraltro, egli aveva passato alcuni anni memorabili per l’attività svolta, gli incontri fatti, i discepoli avuti. Ma tutto
ciò non attutisce l’intensità, e il significato, di quel problema, tanto più arduo agli occhi della storiografia italiana di matrice ‘laica’ per le luci inquietanti che esso poteva, di fatto, gettare sullo stesso andamento del processo veneto, sulle strategie che Bruno, volta per volta, si era sforzato di seguire, cercando di sal-
vaguardare sia la sua persona che l’eterna verità. Ciò che colpisce nell’analisi di Corsano e che la rende classica, è precisamente questo: per la prima volta si cerca di avviare a soluzione questo intricatissimo problema facendo riferi-
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mento alle opere magiche di Bruno e alle tesi in esse sostenute: facendo cioè capo a un precisò progetto di ‘riforma universale’ del mondo, di cui quel ritorno in patria è parte organica e costitutiva. Ben altro che un gesto improvviso e incomprensibile sollecitato dalle difficoltà vissute in Germania, quella scelta appare per la prima volta connessa a un giudizio preciso sul proprio tempo storico — con particolare riguardo all’azione del Navarra in Francia — e, in questo quadro, alle azioni che Bruno
stesso si era proposto di svolgere grazie alle sue capacità di ‘mago’, di ‘vincolatore’ degli animi; facendosi, in una parola,
‘capitano’ dei popoli e promotore della rezovatio mundi. Ben prima della Yates, Corsano individua nelle opere magiche la chiave di volta di quella scelta così difficile e, infine, così fatale
per le sorti del Nolano !. Ma non si capirebbe fino in fondo l’importanza di questa scelta se non si tenesse conto che fino a quel momento le opere magiche erano rimaste sostanzialmente fuori dall’indagine bruniana. Come ho avuto già modo di ricordare, esse erano state pubblicate per la prima volta nel 1891 da Felice Tocco, il quale dedica alle ‘opere inedite’ di Bruno anche una importante memoria napoletana !. Ma, pur trattandosi di lavori fondamentali. — dal De magia alle Theses de magia, dal De vinculis al De rerum principiis, alla Lampas triginta statuarum * a nessuno, fino a quel
momento, era parso opportuno spendere il proprio tempo su questo aspetto dell’opera di Bruno. Né questo, ovviamente, sorprende: l’immagine di Bruno come anello costitutivo della modernità classicamente intesa — della filosofia e della scienza moderne — spingeva a tralasciare, se non a cancellare, questo tipo
di produzione: stravaganze, bizzarrie, secondo un modulo tipico quando si tratta del Nolano, fin dagli anni della morte. Per restare in Italia basta pensare alle pagine classiche di Labriola — e ai collegamenti da lui stabiliti fra Bruno e Hegel — per capire come quelle opere risultassero, oltre che incomprensibili, difficili da situare nel quadro delle interpretazioni moderne del pensiero del Nolano. Sta, precisamente, qui il punto di maggiore 14 CORSANO, I/ pensiero di Giordano Bruno nel suo svolgimento storico, cit., pp. 265 sgg. 15 Le opere inedite di Giordano Bruno, Memoria letta all'Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Reale di Napoli, Napoli 1891.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
originalità di Corsano: valorizzare quei testi — e in quel modo — implicava un giudizio, prima che su Bruno ‘mago’, sui rapporti
della zova philosophia con la filosofia moderna nella sua complessità; e comportava, al fondo, una messa in questione radicale delle categorie storiografiche del neoidealismo gentiliano. Al tempo stesso, la ‘scoperta’ delle opere magiche implicava una concezione della modernità — e della scienza e della filosofia moderne — assai più complessa e articolata di quella che ha spinto, tante volte, a vedere in Giordano Bruno un antesignano di Cartesio, oppure uno Spinoza in formato minore. Infine, last but not least, la valorizzazione di quell’aspetto della produzione
di Bruno si intrecciava a una profonda riproblematizzazione dei rapporti tra filosofia e religione, con un netto superamento delle distinzioni stabilite da Bruno nella Cera (ed enfatizzate da Gentile), alla luce di una interpretazione capace di cogliere il pieno dispiegarsi della dimensione riformatrice della filosofia bruniana, dal lullismo alle opere magiche, ricongiunti, l’uno e le altre,
in una prospettiva teorica ed etico-politica profondamente originale, direttamente contrapposta alle posizioni tipiche del controriformismo cattolico. In conclusione, dal libro di Corsa-
no emergeva una nuova immagine di Bruno, che individuava nella riforma religiosa e filosofica, magicamente attuata, il centro propulsore di tutto il suo pensiero !°. Ma, detto questo in senso generale, conviene ora cercare di
vedere quali sono i testi magici che Corsano predilige e in quale modo egli li utilizza, al fine di spiegare il ritorno di Bruno in Italia. Esclude dalla sua analisi — ed è questo il primo punto che intendo sottolineare — il De rerum principiis («che posson considerarsi una concentrazione su peculiari problemi di fisica della dottrina generale condotta a maturità nel De imzzenso») ed esclude anche la Medicina lulliana («che dichiaratamente non intende esser altro che una compilazione») !”; mentre si ferma a lungo sul De magia, sulle Theses de magia e sul De vinculis, sottolineando come in tutte queste opere Bruno abbia volutamente riscattato il nome di ‘mago’ da tutte le calunnie dalle quali era stato in genere circondato: «A philosophis — scrive Bruno — !© CORSANO, I/ pensiero di Giordano Bruno nel suo svolgimento storico, cit., pp. 265 sgg.
17 Ivi, pp. 280-281.
IL BRUNO DI ANTONIO CORSANO
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ut sumitur inter philosophos, tum magus significat hominem sapientem cum virtute agendi» !. Soprattutto, nella sua analisi Corsano insiste acutamente sul tema del ‘vincolo’ e del ‘vincolare’, osservando come in Bruno «domini la preoccupazione del dominio etico-sociale, del ‘civiliter vincire’» !9, e individuando
anzi in questo il Le:tzotiv di tutte le opere magiche. La valorizzazione del nesso tra magia e politica è, in effetti, uno dei contributi maggiori apportati nel suo lavoro da Corsano, che, su questo sfondo di problemi, mostra con osservazioni assai penetranti quale peso, nel determinare le azioni degli uomini, abbia secondo Bruno la credulitas, la fede, la quale, appunto per questo, è «vinculum magnum et vinculum vinculorum», cui seguo-
no «veluti filiae» tutte le altre più importanti forze dello spirito umano — «da quelie più alte, spes, azzor, religio, alle più torbide e irruente ma anche potenti e operose passioni; e la scienza
non men che l’ignoranza, causatrice di prava disposizione all’agire» 2°. Corsano dimostra anche come per Bruno sia organico il rapporto tra «vinciens» e «vincibile», tra «il soggetto attivo operante e il passivo credente»: non è possibile far credere senza credere — osserva, spiegando il pensiero di Bruno —, poiché «non est possibile vincire quenquam sibi, cui vinciens ipsum non sit etiam obligatus»; allo stesso modo in cui non può «essere veramente amato chi non ami, ceme non c’è retore che
persuada senza essere persuaso»21. Del resto, lo stesso Cristo
ebbe bisogno della credulitas per operare i suoi miracoli; se essa fosse mancata il miracolo sarebbe stato impossibile: «Neque enim credibile est nec credendum proponitur quod omnes praeter credentes etiam sanitati restituerit» 2. Da questo punto di vista è sintomatico che, nel suo lavoro, Corsano si sia fermato
ad esaminare anche gli aspetti più propriamente rituali dell’esperienza magica, precisando come Bruno abbia elaborato un complesso linguaggio simbolico fatto di ‘segni’ e di ‘sigilli’ in grado di consentire l'operazione del mago.
18 Ivi, p, 281. "Ivi, 232.
20 Ivi, p. 283. lt bid:
2 ipso 285.
156
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO Si tratta, come si vede, di un discorso assai ricco e sfaccet-
tato; ma quello che colpisce in questa sua analisi non è soltanto la penetrantissima attenzione a testi fino ad allora trascurati, quanto l’uso che Corsano ne fa per spiegare — come sopra si è detto - il ritorno di Bruno in Italia, servendosi, a questo scopo,
anche delle battute di Giovanni Mocenigo nella sua denuncia alla Inquisizione: «Pensiamo — egli scrive — che dopo il frettoloso ma ampio e compiuto riesame degli aspetti della magia, il Bruno riteneva aver in pugno non solo una dottrina di universale dominio della natura e dell’uomo, ma pur una potenza operatrice di portenti che gli avrebbe concesso di gareggiare con qualunque più venerato fondatore di movimenti religiosi, non esitando a comprendervi Cristo e gli apostoli. Pensiamo — continua — che egli doveva considerare matura la propria concezione religiosa per tutti gli aspetti: primo per quello teologico e speculativo [...]; secondo per l'aspetto più puramente interiore e più ricco di azione morale (la filantropia); terzo, per l'aspetto liturgico-rituale, la cui necessità e serietà gli era stata più pienamente confermata dalla magia, come procedimento irresistibile per ‘operare civiliter’ [...]» 2}. In altre parole, la persuasione di aver ormai acquisito le tecniche della magia faceva sì che Bruno potesse sentirsi pronto a presentarsi quale ‘capitano’ dei popoli, come educatore e riformatore, mettendo fine al ciclo delle tenebre cristiane per riaprire la porta alla luce dell’‘antica-nuova’ verità. Il Nolano non era dunque tornato a Venezia per difficoltà di ordine personale; oppure per l’esaurirsi della sua esperienza in Germania; o, anche, per motivi imperscrutabili; era venuto a Venezia convinto che si stesse aprendo un nuovo ciclo della Verità, testimoniato, sul piano politico, dall'azione di Enrico di Navarra al
quale egli, come grande mago, poteva dare un contributo fondamentale. Più di venti anni prima del libro della Yates, analizzando per la prima volta in modo sistematico i testi magici ed ermetici, Antonio
Corsano
offriva, su questo
terreno,
quello
che, a mio giudizio, è il contributo più alto da lui dato agli studi bruniani del nostro secolo. Su Giordano Bruno, Corsano ha avuto modo di tornare a più riprese, anche in anni più recenti, con vari contributi (per-
3 Ivi, p. 289.
IL BRUNO DI ANTONIO CORSANO
157
fino il mio Lessico di Giordano Bruno ebbe l’onore di una sua recensione, come sempre atterita a cogliere gli aspetti positivi dei lavori esaminati, lasciando da parte, da gran maestro quale egli era, gli aspetti più schematici e discutibili). A questo proposito, mi limito a citare solamente due testi, il primo letto al
simposio bruniano del 1975, il secondo pubblicato negli studi in onore di Bruno Nardi usciti nel 1955 #4. Nel testo del 1975 egli riaffronta il problema della scelta del volgare fatta da Bruno nei dialoghi riconsiderando, anzitutto,
criticamente, l’interpretazione che ne aveva dato nel libro del 1940: «Non ho difficoltà a confessare — scrive — che nell’ormai lontano lavoro del 1940 mi orientai verso la soluzione ‘idealistica’ del ‘nuovo pensiero richiede nuova lingua’ limitandone e precisandone la funzione rispetto al carattere per me prevalentemente eversivo dei sei dialoghi». Dichiarando esplicitamente di allontanarsi da questa interpretazione, Corsano propone ora un’altra ‘ipotesi di lavoro’ (‘ipotesi’: un termine che gli era caro e che esprime bene la concezione sperimentale — empirica vorrei dire — che egli aveva del lavoro storiografico): «Non poteva il Bruno — si chiede — in un momento critico della sua vicenda letteraria e scientifica, quando gli si schiudeva l'immenso orizzonte di una ricerca che abbattesse le nove o dieci sfere aristotelico-tolemaiche che gli parevano aver tenuto in dorata o ferrea prigionia la natura e il pensiero umano, al momento di mettersi per il gran mare dell’essere con ben altra lena e foga che non concedesse la comoda cabina del sistema copernicano,
non poteva egli sentire il bisogno di scrivere con quella napoletana e nolana franchezza che gli garantiva piena libertà inventiva ed espressiva? Il fatto stesso che nei dialoghi trovano posto onorevoli uomini legati alle sue origini familiari e cittadine mi pare — concludeva Corsano — conferma della sua costante fedeltà a codeste sue origini: se familiari e precisamente localizzate, per ciò stesso linguisticamente determinate» ?. In altre parole, nel momento della scoperta dell’infinità, Bruno avrebbe
24 A. CORSANO, Arte e natura nella speculazione di Bruno, in Medioevo e Ri-
nascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Roma 1955, pp. 116-126; ID., Bruno e Nola, in Simposio bruniano, 15-17 febbraio 1975, Nola 1977, pp. 43-52.
2 CoRsaNO, Bruno e Nola, cit., pp. 49 e 51.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
scelto la lingua che gli consentiva di muoversi con la più grande libertà, privilegiando di conseguenza la lingua natale per la totale libertà espressiva che essa gli concedeva, a differenza del latino. É una ipotesi, appunto: interessante per quanto sempre
incardinata nel motivo ‘nuovo pensiero, nuova lingua’, pur nella rivendicazione dei caratteri ‘libertari’ della scelta fatta. Non credo —- lo dico con franchezza — che sia un'ipotesi accettabile, né, del resto, è stata mai ripresa dagli storici della fi-
losofia o della lingua. In Bruno la scelta del volgare ha una pluralità di motivazioni di cui quella segnalata da Corsano è solo una parte, per quanto significativa. Il che non toglie che egli avesse ragione nel sottolineare la dimensione teorica della opzione del Nolano rispetto a posizioni come quelle di altri studiosi tendenti a risolvere in termini puramente storico-culturali (o storico-scientifici) la scelta di Bruno. Il saggio raccolto nella miscellanea dedicata a Bruno Nardi è dedicato al problema del rapporto tra Arte e natura nella speculazione di Bruno, ed è interessante per varie ragioni. Anzitutto per la ripresa del motivo antiumanistico e antifilologico — di cui sopra si è sottolineata l’importanza — determinato, a giudizio di Corsano, dalla fedeltà di Bruno al «più esatto rigore del
raziocinio aristotelico-averroistico, senza dubbio la più alta voce della fede classica nella ineccepibile funzione illuminatrice della ratio». In secondo luogo è un lavoro interessante per la individuazione delle radici ‘classiste’ di questo atteggiamento di Bruno: il quale, a giudizio di Corsano (che adopera per altro il condizionale), sarebbe stato forse indotto a questo atteggiamento dal dissidio tra una «formazione plebea e disordinata di proletario autodidatta e la signorile raffinatezza del curriculo umanistico riservato ai più nobili e facoltosi». Ma il saggio del ’55 è importante, soprattutto, per il rilievo dato alla dimensione didattica e pedagogica dell’esperienza di Bruno, esattamente connessa alla dimensione operativa e prati-
ca della filosofia bruniana che aveva avuto già modo di esprimersi nelle arti della memoria parigine e che si afferma, poi, nel primato della natura connotante la riflessione più matura di Bruno, strettamente fermo, nel suo «tenace antinominalismo»,
per «assicurare — nota Corsano — la pienezza della realtà fisica e metafisica, e insieme la più alta fecondità educativa e produttiva di invenzioni benefiche alle reali specie naturali: lasciando’
IL BRUNO DI ANTONIO CORSANO
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agli atti prossimi dell’arte i compiti più labilmente artificiosi ed estrinseci» 9. E interessante osservare come anche in questo saggio Cor-
sano si interroghi nuovamente sulle ragioni del ritorno di Bruno, cercando di chiarire i motivi per i quali il Nolano ascoltò «lo sciagurato invito del Mocenigo, vagheggiando di gettarsi tutto nell’azione, disperatamente illusoria quanto veramente rischiosa». A suo giudizio la ragione fondamentale sarebbe, ora,
da vedere nella «forzata rinunzia alla più limpida e disinteressata missione di maestro», alla quale Bruno avrebbe tentato di sostituire «quella di capitano, di agitatore sovversivo e di seduttore senza scrupoli» 2”. Colpisce, però — e va notato —, che in questo lavoro non si faccia riferimento né alle opere magiche né all'ipotesi di lavoro abbozzata nel libro del ‘40, sostanzialmente
collocata sullo sfondo di un'indagine tesa a valorizzare, in primo luogo, gli aspetti pedagogici e didattici dell'esperienza di Bruno. Sono scelte nelle quali incidono, certo, anche motivi di coe-
renza interna al discorso — e all’esposizione — fatto. Comunque sia, sono persuaso che il contributo più importante dato da Corsano ai nostri studi sia, al contrario, nelle pagine finali del libro sul pensiero di Bruno uscito nel 1940. Muovendosi in una condizione di sostanziale solitudine, egli ebbe, allora, il merito di
cogliere per primo e con straordinario acume quella che la storiografia del nostro secolo ha individuato come una struttura fondamentale di tutta l’esperienza intellettuale, filosofica e (anche) personale di Giordano Bruno. Di questo gli va dato atto, riconoscendogli il posto che gli spetta nella storiografia bruniana del Novecento.
26 CORSANO, Arte e natura nella speculazione di Bruno, cit., pp. 121, 120, 124.
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V STUDI (NON ITALIANI) SUL RINASCIMENTO
Il volume miscellaneo I/ Rinascimento. Interpretazioni e problemi!, pubblicato in occasione del settantesimo compleanno di
Eugenio Garin, si distingue per un elemento: ad esso — scrivono gli editori — «sono stati chiamati a collaborare soltanto autori non italiani sia per offrire al lettore i risultati di ricerche spesso rimaste accessibili, nel nostro paese, ai soli specialisti, sia per documentare la fitta rete di rapporti fra la storiografia straniera e quella italiana sempre presente nei saggi di questo volume». È una scelta felice, che serve però a rendere evidente, obiettiva-
mente, un altro elemento assai notevole: la peculiarità dell'intreccio di storiografia e politica della tradizione italiana sul piano della sensibilità, degli interessi, delle metodologie; e su quello degli oggetti specifici dell'indagine. È una prospettiva connotata da elementi di forza e di vitalità e, simmetricamente,
da limiti e chiusure, su cui a più riprese — e insistentemente — si è richiamata l’attenzione. Ma è un elemento tipico della nostra tradizione storiografica, e non solo degli studi di ‘contemporaneistica’. Il Rinascimento. Interpretazioni e problemi è una raccolta di saggi scritti da studiosi insigni, da maestri abituati a muoversi secondo originali linee di ricerca. Non è dunque un volume uniforme, né dal punto di vista delle discipline, né dal punto di vista delle metodologie, che sono varie, corrispondenti, almeno
in parte, alla diversità dei campi d’indagine passati in rassegna. Ed è perciò caratteristico che in queste pagine l’analisi del rapporto politica-cultura (filosofia e politica, religione e politica, ! Roma-Bari 1979. Raccoglie saggi di Boas, Chastel, Grayson, Hay, Kristeller, Rubinstein, Schmitt, Trinkaus, Ullmann.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
scienza e politica...) sia poco presente. Con alcune eccezioni che vedremo analiticamente: il saggio di Rubinstein e, con connotati assai peculiari, quelli di Ullmann e di Grayson (scolaro inglese di Carlo Dionisotti). C'è, per questo, un dato esterno da considerare, connesso al
carattere medesimo del volume, che si presenta come un insieme di rassegne su punti chiave della discussione sul Rinascimento; ma non è solo questo. In primo luogo, non sempre è rispettato il genere rassegra; nel caso di Rubinstein, per esempio,
si tratta di una vera e propria ricerca originale, di notevole ricchezza ed equilibrio. In secondo luogo, una cosa sono le ‘messe a punto’ di Grayson e di Kristeller; un’altra i contributi di Hay o di Marie Boas. E ciò sul piano dei fatti, non dei giudizi di valore. E sulla base di queste differenze che emerge con chiarezza la relativa consistenza del ‘criterio’ politico. Non solo: l’autore che nel mondo di lingua inglese ha più insistito su questi temi, Hans Baron, è scarsamente citato in queste pagine, ed è generalmente criticato: da Hay, attraverso la descrizione del dibattito rinascimentale; da Grayson direttamente, su un punto specifico, la datazione dei Diglogi ad Petrum Paulum Histrura,
ma nel quadro di una critica e di un ridimensionamento complessivi dell'incidenza dell'‘umanesimo civile” e del valore dell’'‘ideologia repubblicana’ del primo Quattrocento fiorentino. Su questo sfondo problematico si colloca anche il giudizio espresso da Hay sul significato medesimo del lavoro di Garin, la cui fama, a suo giudizio, è legata fondamentalmente
alla scoperta di nuovi testi e alle diligentissime edizioni di quelli già noti [...] Questa insistenza sullo studio testuale è l’eredità più autentica del Rinascimento, che ci riporta a Bracciolini, a Salutati, a Niccoli
e ai loro pari. A mio avviso — precisa Hay —- l’impegno di Garin in questo tipo di ricerca non soltanto rientra nella tradizione rinascimentale, ma esemplifica anche gli interessi di molti studiosi in Italia dalla guerra in poi.
È un’interpretazione in chiave filologica non priva di fondamento, basata però, obiettivamente, sull’enfatizzazione di un
lato solo della ricerca di Garin (sebbene Hay si dichiari poi d'accordo con Martini nel riconoscere la centralità della linea Garin-Baron negli ultimi venticinque anni di studi sul Rinascimento). E tuttavia, non si tratta di un’interpretazione persona-
STUDI (NON ITALIANI) SUL RINASCIMENTO
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le, isolata: risale, e si congiunge, a un motivo conduttore del volume intero: una storicizzazione integrale, in sede storica e in sede storiografica, del Rinascimento, che coincide con una sorta di radicale deideologizzazione del concetto (Kristeller) oppure con un suo sostanziale accantonamento (Boas). Sulle tracce di Cantimori, Grayson distingue fra Umanesimo e Rinascimento, definendo il primo una «vera e propria rinascita consapevole di se stessa, e perciò rinascimento per eccellenza»; il secondo, una «costruzione parte storica e parte ideologica dell’età romantica». Simmetricamente Chastel, iniziando il suo saggio, rileva la
necessita di «rimediare alle distorsioni e alle carenze provocate nel discorso storico da quelle stesse nozioni che hanno reso il Rinascimento un oggetto di studio di sì grande fascino». In sintesi: da Kristeller a Grayson, da Chastel a Marie Boas,
in queste pagine è generale, sistematica, almeno in linea di principio, la critica nei confronti del Rinascimento come categoria storiografica, a favore di ricerche ‘specifiche’, ‘particolari’, ‘empiriche’, definite sul campo. E perciò sono limitati o messi in discussione il valore e il principio delle periodizzazioni: per Kristeller, essi hanno
costitutivamente
valore relativo, «dipende
tutto dal punto di vista» volta per volta assunto; per la Boas «gli storici hanno preso l’abitudine di ignorare le periodizzazioni precise e di interessarsi alle continuità più che alle cesure»; per Grayson, le «grosse questioni della periodizzazione storica» si risolveranno «dall’interno della storia, non con l’imporvi schemi di comodo, o magari d’incomodo». Elogio del metodo descrittivo, deideologizzazione del Rinascimento,
critica
e i
erdafianenta
delle periodizzazioni:
sono lati connessi di una impostazione che in questo caso attraversa unitariamente i saggi raccolti nel volume, costituendone un elemento di notevole originalità (il che, ovviamente, non
vuol dire che nella storiografia italiana non siano state e non siano presenti tendenze di questo genere; al contrario, sono
state rilevanti, per una fase perfino dominanti, ed hanno dato frutti significativi). AI fondo di questa impostazione unitaria agiscono, plausibilmente, vari motivi. Uno fra gli altri, che si cita essendo un elemento caratteristico della raccolta: eccettuati Kristeller e Schmitt, nati rispettivamente nel 1905 e nel 1933, tutti gli altri appartengono alla generazione compresa fra il 1910 e il 1920.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
Come è noto, le date contano. E tuttavia l'elemento generazionale ha un valore limitato, specialmente quando, come in questo caso, si tratta di studiosi provenienti da aree geografiche e storico-culturali diverse, o parzialmente diverse. C’è differenza fra Trinkaus e Chastel; e questo è ovvio. Ma c’è differenza — e questo è meno ovvio, a prima vista — fra Marie Boas e Paul Oskar Kristeller, fra Denis Hay e Nicolai Rubinstein. Se comune è il giudizio sul Rinascimento (e lo è solo parzialmente), i punti di partenza e i processi di svolgimento sono assai diversi. Ci sono, alla base, un movimento e un intreccio di tradizioni differenti (non riconducibili, integralmente, alla distinzione
delle discipline). C'è, in primo luogo, l'incidenza della diaspora della cultura tedesca degli anni Trenta, la sua radicazione in aree geografiche e culturali americane e inglesi, la permanente fedeltà ad alcune ‘forme’ culturali del proprio mondo originario che, filtrate attraverso complesse esperienze, riemergono, anche in forma dominante, nelle patrie d’adozione, nel mondo
di lingua inglese, ed anche in queste pagine. E il caso di Kristeller e, sebbene assente e criticato, è la vicenda di Hans Baron,
scolaro di Goetz, curatore nel ‘23 degli scritti politici di Ernst Troeltsch, i cui primi lavori su Leonardo Bruni escono alla fine degli anni Venti in Germania, nel cuore della crisi di Weimar. E da qui Baron prende le mosse per avviare, attraverso l’analisi del caso fiorentino, una rilevante indagine etico-politica e storiografica sulle forme di sviluppo della cultura europeo-occidentale, in relazione alla politica, e sul ruolo svolto in questo quadro problematico, dal ceto intellettuale, imperniando l’analisi sulla categoria di crisz. La quale — ed è questa la ragione del riferimento — sintomaticamente costituisce la chiave di volta del saggio di Nicolai Rubinstein, l’unico autore, complessivamente, che in questo vo-
lume si confronti in modo positivo con Baron e la sua interpretazione del Rinascimento. Ma Rubinstein è un caso tipico di quell’intreccio di tradizioni cui prima accennavo: già emzeritus, al Westfield College dell’Università di Londra, ha studiato a Berlino e a Firenze, dove si è laureato con uno storico quale Nicola Ottokar. Sono dati da rilevare, per la complessità e la varietà dei nessi storici e storiografici che lasciano intravedere, per la luce che gettano sui rapporti, gli scambi, la vita culturale in Italia e
STUDI (NON ITALIANI) SUL RINASCIMENTO
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in Europa durante gli anni Trenta, in un momento di crisi radicale della tradizione moderna e rinascimentale. Fu allora che si formarono molti dei protagonisti del dibattito sul Rinascimento fra guerra e dopoguerra, di fronte a un’esperienza che mise in discussione le radici del ‘mondo dei colti’ di matrice liberale (per usare un'espressione generica), più unito e solidale di quanto talvolta si pensi, fedele ad alcuni valori etici e civili, ad una concezione della ricerca scientifica, dell'esperienza accademica e della funzione dell’università, destinati ad essere dispersi — in senso geografico e in senso culturale — ma non travolti definitivamente dalla guerra. Fu allora che quel mondo trovò nel Rinascimento, nelle concezioni umanistiche dell’uomo, della società e della scuola, un punto di riferimento essenziale, sul piano storico e su
quello storiografico (senza con questo voler dire che negli anni Trenta il Rinascimento sia stato oggetto di studio solo degli studiosi di matrice liberale. Per convincersi del contrario basta pensare a Der Ubergang vom feudalen zum biirgelichen Weltbild, Studien zur Geschichte der Philosophie der Manufakturperiode, di Franz Borkenau, uscito a Parigi nel ‘34, nella collana dell’Insti-
tut fur Sozialforschung di Francoforte. Semmai il problema è di capire perché Borkenau abbia scelto quel tema e come l’abbia pensato, individuando concordanze e differenze). Su Rubinstein comunque torneremo. Giova invece ora ve-
dere un altro motivo assai significativo in senso generale, strettamente intrecciato a quella deideologizzazione del Rinascimento, cui già si è fatto cenno: l’interpretazione dell’opera di Jacob Burckhardt. Non ci troviamo, per la verità, di fronte ad un giudizio del tutto uniforme. Secondo Hay, «la permanenza delle principali categorie create dal Burckhardt non sembra più in pericolo», in primo luogo per la «elaborazione cui tali categorie sono state sottoposte».
Ciò — secondo Hay - è stato reso possibile soprattutto costruen-
do un'immagine del Rinascimento riferita ad un periodo piuttosto lungo. Malgrado la sua tendenza a ricavare testimonianze in modo al-
quanto indiscriminato da tre secoli, malgrado la lunghezza della trattazione storica contenuta nella parte prima della Civiltà del Rinascimento (da Federico II a Carlo V), non credo che Burckhardt pensasse al Rinascimento come ad un vero e proprio periodo storico. Egli immaginava le trasformazioni culturali che andava studiando ed illu-
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
strando come uno spartiacque nel tempo piuttosto che come un’epoca della storia universale.
L'opposizione spartiacque nel tempo/lepoca della storia universale, esposta da Hay con molta finezza, è però direttamente connessa a una interpretazione in chiave ‘culturalista’ della Ku/tur der Renaissance, vista con occhio di storico moderno come
una sorta di ‘torsolo’ geniale da completare punto per punto, senza privilegiare né temi né problemi né discipline né aree geografiche e culturali (tipica in questo senso la critica — non solo di Hay, per la verità — alla ‘centralità’ fiorentina). Ed è caratteristico, in questa prospettiva, che Hay ritenga sostanzialmente ‘esterna’, una ‘lungaggine’, la prima parte della Kultur der Renaissance, quella in cui Burckhardt introduce con chiarezza la cellula sistematica della propria ricerca: lo Stato, la «creazione principale della storia moderna», la «forma di vita dei popoli più importanti». E la dimensione dello Stato che configura il mondo moderno come un periodo storico complesso, il cui destino è, in certo modo,
definito già dalla forma
della sua
genesi, dal carattere peculiare delle sue origini. Questo è il problema di Burckhardt: e perciò Die Kultur der Renaissance è delimitata dalla figura di due imperatori: Federico II e Carlo V. Eliminata questa dimensione, è difficile capire la persistenza del Versuch burckhardtiano, perché esso resti ancora un punto di riferimento fondamentale, qualunque sia il giudizio che si voglia dare delle singole valutazioni. Di più: la persistenza della Ku/tur der Renaissance getta luce sulla complessità, e sul carattere problematico della riflessione rinascimentale degli ultimi venticinque anni. E per questo, riprendendo una bella immagine di Hay, il Versuch burckhardtiano continua a sopravvivere al vento delle critiche come una nave ben costruita. Da questo punto di vista è assai significativo il saggio sulle Origini medievali del Rinascimento: senza richiamare esplicitamente Burckhardt (né Burdach, che pure è presente in alcuni passaggi essenziali dell’analisi), Walter Ullmann ripropone, aggiornandoli, da un punto di vista determinato, alcuni lineamenti tipici dello schema burckhardtiano. Assumendo come punto
di riferimento essenziale il diritto romano, «il quale fu il primo strumento che contribuì a diffondere l Umanesimo e il Rinascimento», Ullmann sostiene che «il Rinascimento del secolo XV
STUDI (NON ITALIANI) SUL RINASCIMENTO
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ritrova le sue radici già nel secolo XII. In altri termini - prosegue — fu sul piano del governo che ebbe inizio il processo di secolarizzazione dei fondamenti dello stesso potere politico e la desacralizzazione della società. Senza l’iniziativa da parte del governo non vi sarebbero stati né una rinascita carolingia né
Umanesimo e Rinascimento nel tardo Medioevo». E precisa, sul piano storico: «il governo degli Staufen a partire dalla metà del secolo XII mostra chiaramente questo progetto: utilizzare il diritto romano per scopi di governo e trasformare così nell’essenza i fondamenti del governo stesso». L’Umanesimo e il Rinascimento che risulteranno da questo processo ebbero dunque «in origine motivazioni politiche». Come si vede, è, aggiornata, la genesi burckhardtiana. Die
Kultur der Renaissance è una pietra d’inciampo difficilmente eludibile. E a conferma di questo, si pensi a Charles Trinkaus, il quale alla fine del suo saggio su I/ pensiero antropologico-religioso nel Rinascimento, dopo aver sottolineato che l'insieme degli scritti da lui esaminati — di Petrarca, Valla, Salutati — raccoglie ed esprime molti degli atteggiamenti propri degli uomini rinascimentali, si chiede, in conclusione, se egli stesso non abbia
eventualmente sovrapposto ai loro testi le sue «personali e neoburckhardtiane concezioni della cultura rinascimentale». E tuttavia, la linea fondamentale di questi saggi si muove nel senso di un ridimensionamento netto, se non di una critica sempre esplicita, nei confronti della Ku/tur der Renaissance. La critica
del concetto storiografico di Rinascimento nei confronti della cittadella costruita da sotto la medesima critica (ma resistono, mente). Con una differenza: nei confronti me una critica senza appello; nei confronti cede ‘storicamente’, evidenziando
s’intreccia alla critica Burckhardt. Cadono entrambi, energicadel concetto s’espridi Burckhardt si pro-
il carattere datato della sua
interpretazione, l’eterogeneità dei punti di veduta in campo: «la nostra prospettiva cambia — scrive Kristeller — se consideriamo il Rinascimento
come
il precursore
dell’età
presente,
come
poteva fare ancora il Burckhardt, o come il precursore di un passato ormai concluso, come dobbiamo fare noi». Senza citare Burckhardt (ritenendolo, dal suo punto di vista, inutile) Marie Boas si muove in una direzione simile (non
identica), distinguendo esplicitamente, a proposito di Leonardo, fra «concezione rinascimentale» e «concezione moderna», rile-
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
vando nello stesso tempo che l’attenzione degli storici è oggi rivolta a individuare gli elementi di connessione con il passato piuttosto che quelli che anticipano la modernità (la quale, d’altro lato, per la Boas, affonda semmai le sue radici nella Rivolu-
zione scientifica). La crisi del Rinascimento e dell’interpretazione burckhardtiana, sul piano teorico e ideologico, è la crisi di una concezione del mondo e della storia, di una concezione della modernità;
sul piano storiografico è la crisi di un metodo che procedeva attraverso l'individuazione delle grandi categorie costitutive del mondo moderno, come quella della scoperta dell’uomo e della natura; oggi, scrive Chastel, le ampie prospettive si risolvono in problemi e questi non si lasciano facilmente ricondurre a ciò che riguarda la genesi della civiltà moderna come, sia pure in termini differenti, hanno pensato Voltaire, Goethe o Nietzsche; essi emergono infatti proprio da quelle concrete situazioni che ora ci si sforza di ricostruire con qualche successo [...] Questo punto di vista comporta una certa tendenza a riportare alla singolarità del momento atteggiamenti, esperienze, il significato stesso delle opere.
E conclude: «siamo entrati — ci sembra — in una fase in cui
l’interesse è centrato piuttosto sulla particolarità dei fatti culturali che non su quel valore universale ritenuto, prima, l’unico valido». Sono dichiarazioni limpide, sembrerebbero scontate, se non
fossero esse stesse problematiche. Ed è lo stesso Chastel a rilevarlo, dopo aver notato che alcuni dei caratteri peculiari del Ri-
nascimento sono la diffusione dei mass media (il libro); il de-
terminarsi di nuove tecniche figurative (l’incisione); il lungo rapporto, la «lunga coabitazione tra ‘discipline scientifiche’ — anatomia, prospettiva o archeologia — e attività artistica». È in questa novità, osserva, che si radica l'interesse attuale verso una realtà storica «lontana nel tempo», di un’età come la nostra, ca-
ratterizzata da uno sviluppo inusitato dei 7745ss rzedia e da un intreccio prima sconosciuto delle ricerche tecniche. E però — precisa Chastel —, nel sottolineare ciò che ci pare un fatto evidente, non siamo affatto certi di non proiettare una volta di più una nozione assolutamente moderna, quella di ‘belle arti’, in una
realtà storica dove questa nozione non entra affatto. Questa stessa
prima affermazione si risolve in molteplici interrogativi, d’altronde essi stessi rivelatori.
STUDI (NON ITALIANI) SUL RINASCIMENTO
169
Liberarsi del Rinascimento (e di Jacob Burckhardt) non è dunque facile, o scontato. È vero: forse è bene rinunciare o delimitare l’uso di questo termine generatore di equivoci. A patto di capire che in esso si è espresso — e in parte continua ad esprimersi — una realtà complessa, qualcosa d’irriducibile a un semplice mito, una struttura della coscienza e del mondo moderni resistente e flessibilissima. Il Rinascimento ha vissuto, contemporaneamente, due vite a lungo strettamente intrecciate: una vita storica e una vita storiografica che si sono quindi progressivamente dissociate (ma non ancora scisse) nella crisi del mondo da cui erano insieme derivate, su basi unitarie, ma se-
condo ritmi diversi. Questa crisi si è sviluppata, e si sviluppa, su una serie di piani o di livelli, in modi tortuosi, su tempi lunghi, non coincidenti, asimmetrici. Ciò che risulta storicamente chia-
ro, è storiograficamente complesso: perché in quella categoria storiografica s'è concentrata, identificandosi, una memoria storica organicamente intrecciata — come causa e come effetto — ad
un'intera tase della tradizione europeo-occidentale. La crisi di una tradizione storica di lungo periodo non coincide meccanicamente
con il suo tramonto,
con la sua fine storiografica: la
crisi dell’una può esprimersi — e si esprime — attraverso la resistenza dell’altra. La storiografia può diventare un’estrema postazione difensiva. E questo specialmente*quando in quella memoria, in quella tradizione, s'è raccolta — come in questo caso — una concezione assai forte e duratura dell’uomo, della natura,
della storia. Quando entrano in discussione — e possono esserlo per un’intera fase storica —, strutture così ‘potenti’ possono sviluppare — e sviluppano, proprio allora — una capacità di reazione
e di resistenza
non
comune,
sorprendente,
tuttavia,
solo se si tralascia, in modo astratto, il complesso autentico di forze etiche, conoscitive, teoriche da cui esse sono state e sono sostenute. Storia e storiografia non coincidono; non si riassorbono in termini semplici; sono relativamente autonome e muo-
vono con modi e ritmi differenti, nel tempo e nello spazio, nella società e nella cultura, specialmente quando la storiografia è diventata — come è diventata nella tradizione occidentale, e in
quella italiana in modi originali e dominanti - una forma principale della conoscenza (distinta e caratterizzata, per un lungo periodo, da un rapporto peculiare con la politica e l’azione politica). E per questo, 4/ suo livello, il Rinascimento risorge ogni
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
volta come la Fenice dalle ceneri, in modi singolari, quasi e perfino imprevedibili. Come si vede agevolmente, Il Rinascimento. Interpretazioni e problemi è un libro assai ricco. È un esempio notevole delle interpretazioni del periodo rinascimentale in aree culturali e geografiche non italiane;è, nello stesso tempo, e per questa via, una verifica precisa dell molteplicità di tendenze storiografiche presenti, in modo particolare, nel mondo inglese e in quello americano (che non sono immediatamente assimilabili, neppure in questo caso). La varietà di linee interpretative, riscontrate a proposito del concetto di Rinascimento e della Kultur der Renaissance, è riscontrabile anche sul terreno dell’Umanesimo. Il fatto che si tratti di un movimento storicamente considerato meglio de-
terminato e storiograficamente meglio definibile non coincide con una semplificazione del campo interpretativo. Paradossalmente, è una conferma del fatto che «in certo senso, come Amore e gentil core, Umanesimo e Rinascimento son una cosa». Paradossalmente, s'è detto; e infatti lo sforzo di Cecil
Grayson, cui si deve questa affermazione, come s’è già visto, è precisamente quello di distinguere l’uno e l’altro, la vera e propria rinascita consapevole di sé e la ricostruzione storico-ideologica dell’età romantica. L'aporia è però solo apparente: il discorso di Grayson è drastico su entrambi i lati: l’umanesimo di cui parla, e che apprezza, non è l’Umanesimo. Una cosa è, a suo giudizio, il «mito tre-quattrocentesco di rinascita dell’eloquenza e degli studia bumanitatis, e anche delle arti figurative»; una cosa è il «concetto di umanesimo, nato pure nell’Ot-
tocento sulle testimonianze e sulle attività di studiosi e scrittori del Tre-Quattrocento, ma esteso ad abbracciare tutto il culto
dell’antichità e a significare, più che precisi interessi intellettuali, tutto un 47/7245 volto allo sviluppo e alla perfezione delle capacità umane in contrasto con lo spirito di un’età preceden-
te in cui prevaleva la rinuncia alle cose di questo mondo». Sono queste vecchie formule ad essere cadute; sono venuti meno i termini della vecchia discussione — più ideologica che storica — tra Medio Evo e Rinascimento; è caduto «il vecchio contenuto emotivo dei termini Medio Evo, Umanesimo e Rinascimento». Quel contenuto emotivo che invece nel ’32 Delio
Cantimori dichiarava esplicitamente, alle soglie di un suo fon-
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damentale saggio uscito sugli «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» ?: Noi infatti — scriveva Cantimori — sentiamo sì il bisogno di abbeverarci alla grandezza greca, a quella romana; vediamo, sì, nel Medioevo il sorgere di condizioni su cui sarà fondata la società moderna; ma nello studio dell’epoca seguente al Medioevo non siamo più sereni e tranquilli: sulle valutazioni di quegli uomini ci sentiamo differenti, e soprattutto direttamente impegnati nel respingere o nell’accettare le loro condizioni. Non siamo [...] ancora liberi — concludeva significativamente — dalla loro concezione del Medioevo!
La prospettiva delineata da Grayson è lontanissima, in modo esplicito, da queste preoccupazioni; è su un’onda diversa, sul piano storico e su quello storiografico. È critica nei confronti dei concetti di Umanesimo
e di Rinascimento,
come
e
quali si sono delineati nel Sette-Ottocento, e sono risorti, rafforzandosi, nella prima metà del Novecento, fra le due guerre,
mentre venivano messe in discussione, alle radici, le strutture
della civiltà europea. È critica nei confronti delle interpretazioni in chiave ideologico-politica del movimento umanistico inteso come elemento genetico del mondo moderno. E perciò si distacca nettamente dall’interpretazione dell’umanesimo fiorentino come ‘umanesimo civile’: se una tale visione ha caratterizzato e dato impulso agli umanisti fiorentini della prima metà del Quattrocento, essa — sottolinea Grayson — rimane fenomeno locale e non incide sugli altri centri, a cui ciò che si trasmette non consiste in un messaggio politico-civile ma in esem-
pi di attività filologiche, storiche ed etiche. Giova dunque, senza dubbio, tener conto delle particolari circostanze politiche e del conseguente elemento ‘repubblicano’ presente nell’umanesimo fiorentino di quel periodo, ma non conviene esagerare tali fattori sul piano generale degli studi umanistici in Italia, attribuendovi peso che allora
non avevano. Conseguentemente,
e a rafforzamento del suo discorso, e
della validità dell’asse su cui esso si svolge, Grayson sostiene la necessità di estendere l’indagine ad altri centri (Veneto, Padova, Mantova), «dove — egli scrive — indipendentemente e senza
beneficio di particolari motivazioni storiche simili alle fiorenti2 CANTIMORI, Sulla storia del concetto di Rinascimento, cit., p. 231.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
ne si davano contributi non trascurabili al progresso degli studi e dell'educazione umanistica». E conclude: «conviene [...] in una veduta d’insieme del Rinascimento, ridurre alla giusta misura l’angolo visuale fiorentino, e colmare il varco del contrasto,
spesso sopravvalutato, tra repubblica e tirannia». Alla base di una tale valutazione, su cui è visibile l’incidenza di un maestro come Carlo Dionisotti, c’è l’interpretazione, già vista, degli studia humanitatis come attività storiche, filolo-
giche, etiche: su questo sfondo si pone la questione della tradizione letteraria nazionale, del volgare e del latino, una storia bilingue, da seguire e determinare sulla base delle testimonianze e delle fonti contemporanee, distinguendo con precisione singole figure e vari e diversi tempi di sviluppo, politici e individuali (al di fuori, quindi, di qualsiasi schema moderno, o peggio, modernizzante,
giustapposto
o sovrapposto
al concreto
svolgimento storico). Era e resta una fondamentale lezione di metodo; un'idea regolativa cui, pur volendo, non è semplice essere fedeli. E specie in un campo come quello che si sta guardando, così irto di problemi e difficoltà reali, così ancora e sempre vivo, in un senso o nell’altro, nella ‘coscienza’
di chi lo
studia. Si pensi, per esempio, all’interpretazione che Walter Ullmann offre degli studia bumanitatis, in questo volume, nel quadro della sua visione ‘politica’ delle origini medievali del Rinascimento, del suo «indiscutibile rapporto genetico col sostrato ecclesiologico del Medio Evo». A suo giudizio sono individuabili tre momenti: «la prima fase del Rinascimento nella sua forma umanistica» fu «caratterizzata dall’utilizzazione del diritto romano da parte dei governi» (secoli XII-XIII); la seconda fase è distinta dalla «grandissima attenzione dedicata al cittadino»: è la fase dell’umanesimo politico, con la quale il Rinasci-
mento si manifestò tangibilmente (seconda metà del secolo XIV); la terza fase è quella dell’umanesimo classicheggiante (secolo XV). La differenza tra la seconda e la terza fase è la differenza del ruolo in esse rispettivamente svolto dagli studia humanitatis: individuarlo significa determinare i caratteri dello svolgimento rinascimentale. Gli studia humanitatis — scrive Ullmann discorrendo della seconda fase — non concernevano la grammatica, la retorica, la sintassi e simili, ma, come dimostrano persuasivamente il termine stesso e la con-
trapposizione
con
gli studia
divinitatis,
l'essenza
più profonda
STUDI (NON'ITALIANI) SUL RINASCIMENTO
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dell’uomo, la sostanza umana dell’uomo non rigenerato e [...] l’uomo stesso nella sua condizione pubblica, politica, di cittadino. Nel corri-
spondente ambito privato egli avrebbe ricevuto l’attenzione che gli spettava solo molto più tardi. Ma, in qualunque dimensione venisse studiata la sua buzzanitas, non venivano mai comprese in tale concetto la grammatica e altre materie pertinenti non all’umanità, ma all’istruzione elementare.
Studia bumanitatis e studia divinitatis corrispondevano ai generi di vita principali: vita activa e vita contemplativa, le quali, in quanto tali, non s’escludevano a vicenda, erano complemen-
tari. In questo quadro bipolare, armonico, gli «studia bumanitatis furono considerati lo strumento della formazione del cittadino». Con il trascorrere del tempo — e le mutazioni delle strutture ideologiche e istituzionali, di governo — gli studia humanitatis persero questa dimensione civile, politica, intrinsecamente connessa alla natura dell’uomo quale cittadino; si allontanarono dalla loro «funzione originaria»; si «occuparono di problemi soprattutto linguistici, estetici ed educativi e dei modelli pertinenti», privilegiando nei confronti dello stesso studio degli antichi la ricerca dello stile e della scrittura come tali, in senso solamente «formalistico». E la fase finale del Rinascimento, quella della sua decadenza complessiva. Sul piano ideologico-politico, è la fase del ritorno della monarchia e della crisi della repubblica. Sul piano teorico, è la fase di Platone, mentre il Rinascimento nelle sue prime fasi aveva privilegiato Aristotele, da cui era dipeso. Sul piano generale — e per Ullmann è tipico il caso del Pontano — si ebbe «un ‘rinascimento’, una riattivazione della concezione ‘totalitaria’ — proprio l’idea abbandonata nel periodo immediatamente precedente — e il suo complemento, la tesi dell’unipolarità». E infatti, per Pontano, l’unico e supremo criterio dell’azione pubblica è il bene dello Stato. In sintesi, è la fase del «polito-centrismo», cioè di un pri-
mato della politica che avvolge e chiude dentro di sé l’intera realtà, il pensiero e l’azione, la Chiesa e la società civile, riproponendo, rovesciato, il modello prerinascimentale, cui avevano
reagito, con i loro impulsi loro periodo più fecondo. Le categorie politiche pretazione sono esplicite, derivano. In questo senso,
liberatori, gli studia bumanitatis nel messe a fondamento di questa intere chiara è la tradizione da cui esse quello di Ullmann è forse il saggio
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
ideologicamente più connotato dell’intero volume. Sullo sfondo, s’intravedono le figure della ‘democrazia’ e della ‘dittatura’, della ‘libertà’ e dell’‘autorità’, del ‘pluralismo’ e del ‘monismo’ (sotto la specie del panpoliticismo). L’elogio della bipolarità, la critica del politocentrismo, l’interpretazione ‘civile’, in un oriz-
zonte ‘armonico’, degli studia hbumanitatis, corrispondono, limpidamente, ad una visione della vita e della storia di carattere ‘liberal-democratico’,
fosse vo; e fosse cetto
che sarebbe
superfluo
rilevare, se non
così significativa in queste pagine, sul piano interpretatise nel mondo di lingua inglese, e in questo volume, non così tenace e persistente la critica nei confronti del cone dell’ideologia ottocentesca (e novecentesca) dell’Uma-
nesimo e del Rinascimento
(assente invece, e non
è un caso,
nelle pagine di Ullmann). Semmai sarebbe utile sottolineare, in un saggio come questo, la relativa — e conseguente — labilità dei termini Umanesimo
e Rinascimento, il carattere giuridico-for-
malistico di alcune sezioni del discorso (che tuttavia offre risultati apprezzabilissimi sul piano dell’analisi terminologica). L’uno e l’altro risalgono comunque, almeno in parte, alla complessità e alla profondità del quadro problematico individuato e al carattere del metodo seguito e utilizzato. C'è un nesso fra il metodo scelto e i risultati conseguiti. Diversa l’impostazione, e diversa la veduta degli studia bumanttatis, nel saggio di Paul Oskar Kristeller, che si cita a questo punto, per rilevarne, in modo esplicito, le differenze con l’analisi e le tesi ullmanniane. E si cita rapidamente, data la sua notorietà. Mentre Ullmann, come s'è visto, insiste energicamen-
te sul carattere ‘non grammaticale’ degli studia burzanitatis nella seconda fase del Rinascimento; Kristeller ribadisce che gli studia bumanitatis cui l’umanesimo del Rinascimento è strettamente connesso, comprendono «la grammatica, la retorica, la poesia,
la storia e la filosofia morale». Conseguentemente «l’umanesimo non costituisce l’insieme del sapere o del pensiero del Rinascimento, ma soltanto un settore parziale e ben definito. Tra le discipline filosofiche — insiste Kristeller —, soltanto la filosofia morale fa parte degli studia bumanitatis mentre le altre ne rimangono fuori». Sono tesi note; e noto è il giudizio secondo cui i temi e gli
argomenti trattati dagli umanisti sono «interessanti», ma filosoficamente «non profondi» o «rigorosi secondo i criteri della filosofia antica o moderna o anche medievale». Sicché le con-
STUDI (NON ITALIANI) SUL RINASCIMENTO
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clusioni sono generalmente «ambigue», non riuscendo Petrarca, Bruni, Valla a costituire «un pensiero sistematico o un insieme di dottrine generalmente accettato dagli altri umanisti», i quali non sono quindi uniti da concezioni specifiche, ma da un atteggiamento generale, da un ideale culturale. Da anni, su queste tesi, è aperto un dibattito, anche in Ita-
lia dove Kristeller ha avuto rapporti fecondi, fin dagli anni Trenta. Ed è una discussione dalla quale, infine, sono usciti mutati in parte, o approfonditi, aspetti significativi del discorso kristelleriano (e, corrispettivamente, dei suoi interlocutori). Il giu-
dizio sugli studia humanitatis non è però mutato,
connesso
com'è, non solo, e non tanto, a ricerche e a valutazioni specifi-
che, ma ad un modo di pensare il processo storico che privilegia le strutture fondamentali, le forme dello svolgimento culturale, inconcepibile — in quanto tale — al di fuori dello ‘schema trascendentale’ che ne consente l’esistenza e la comprensione. Da qui, una enfatizzazione dei movimenti e una relativa considerazione delle figure e delle esperienze ‘individuali’, ‘concrete’, ‘empiriche’, come avviene appunto in queste pagine in cui a Te-
lesio, Patrizi e Bruno sono dedicate solamente poche righe. Ed è sintomatico, contro questo sfondo, che Kristeller concluda il
suo intervento da un lato sottolineando l’eredità della filologia classica e della critica storica lasciata dall’Umanesimo ai secoli posteriori, dall'altro rilevando che queste discipline, «malgrado gli sforzi del Croce e Gentile, del Dilthey, Rickert e Cassirer,
non hanno ancora penetrato la coscienza dei filosofi che dovrebbero trovarvi un campo fecondo per la logica e gnoseologia e per una filosofia complessiva della cultura». Idealismo, neo-kantismo, filosofia della cultura: è il mondo di Kristeller, la sua tradizione; è l’esperienza teorica e storio-
grafica — filosofica,
a questo modo — dei primi decenni del
secolo in Germania (e in Italia). Ed è qui che si determinano, in
forma originale, la ricerca di questo grande ‘atleta’ della cultura, la sua concezione dell’Umanesimo e del Rinascimento, delle
forme dello sviluppo storico e, in questo quadro, del nesso dell’esperienza umanistica con lo svolgimento successivo del mondo moderno (a non voler citare, in questo caso, il Supplementum ficinianum e l’Iter Italicum, vale a dire i contributi per cui oggi Kristeller è, in primo luogo, un ‘classico’). È, questo, un tema che ritorna a più riprese, variamente, nel volume che stiamo analizzando. Per Kristeller — e il suo testo va
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citato direttamente anche per rilievo e consapevolezza terminologici — gli umanisti, grazie allo sviluppo del metodo filologico e della critica testuale, determinarono «un fermento e varietà
delle idee scelte e ricombinate da molte fonti che scioglie i concetti precisi ma rigidi della tarda scolastica e che, pur non portando immediatamente a una nuova sintesi chiara e ferma, prepara l’ambiente per l’opera più precisa e duratura di Galileo e Cartesio». È lo stesso nodo con cui si confronta Charles Trinkaus, in modo più aperto e positivo: sostenendo che le concezioni degli umanisti sulla natura umana e le sue manifestazioni religiose, politiche e sociali, «costituiscono la base delle prime discussioni moderne sull’uomo e così pure del pensiero antropologico moderno»; e citando a questo proposito, tra gli altri, Hobbes e Descartes, Vico e Mandeville. Base quindi, e non solo fase preparatoria, come per Kristeller. Ma questa diversa visione del nesso fra esperienza umanistica e pensiero moderno deriva — e va notato — dalla considerazione che la «potenza» dell’umanesimo rinascimentale è irriducibile all’«espressione di un gruppo pedante di letterati classicisti». E ciò perché «gli studi letterari e filologici condussero gli umanisti a importanti interpretazioni del carattere storico del pensiero e della cultura umana». Il diverso carattere del rapporto fra esperienza umanistica e pensiero moderno deriva dunque, fondamentalmente, da una differente concezione del ruolo e della figura degli studia humanttatis. Con Trinkaus ci troviamo perciò di fronte a un’interpretazione dell’Umanesimo distinta sia da quella di Kristeller che da quella di Ullmann. E distinta anche da quella offerta da Marie Boas, la quale, da un lato, interpreta l’Umanesimo come movimento letterario caratterizzato dalla pubblicazione di nuovi testi e traduzioni; dall’altro, riallacciandosi a un aspetto dell’interpretazione di Garin, insiste sul carattere vitale, liberatorio, del
movimento che, partito dall’antichità, «finì per trovare nuove soluzioni, prima di problemi letterari, poi di problemi filosofici». Dalla politica e dall’etica alla metafisica e alla filosofia naturale: fu dunque questo il percorso degli umanisti che alle une e alle altre applicarono unitariamente i loro metodi. E tuttavia nell’analisi della Boas si rivela, in vari punti, un motivo di tensione fra i due lati principali della sua interpretazione, che si scioglie, fondamentalmente, a favore della concezione dell’Umanesimo come movimento letterario, attraverso l’indivi-
duazione e la rivendicazione del contributo da esso dato alla
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storia della scienza sul piano della riscoperta e delle edizioni degli antichi testi. E ciò conferma un elemento detto: per la Boas, è la rivoluzione scientifica l’orizzonte principale: l’Umanesimo è visto in questa prospettiva. Da esso derivano significato, funzioni e limiti.
I problemi sono dunque molti e complessi; e diverse sono le soluzioni individuate dai vari autori. E un segno della vitalità del libro, della sua importanza, di un ruolo effettivo che esso
può svolgere come testimone e indicatore di problemi in campo e della molteplicità e della varietà delle vie percorribili, al di là
di schemi consolidati, ma anche di facili condanne o di liquidazioni sommarie. Un punto d’equilibrio, di temi e di problemi, assai notevole e fecondo, un modello di ricerca in questo senso,
è rappresentato nel volume dal saggio di Nicolai Rubinstein, un punto alto della ricerca rinascimentale di questi anni. Il saggio è dedicato, specificamente, all’analisi delle dottrine politiche nel Rinascimento, ma su questo terreno offre un’interpretazione assai interessante dei caratteri, e delle forme di sviluppo, della società italiana lungo tre secoli cruciali. E raggiunge questi risultati senza discutere la validità o meno dei concetti generali, senza esprimere valutazioni ‘pregiudiziali’ sui limiti di Burckhardt e della storiografia ottocentesca: procedendo storicamente riesce a stabilire un circolo non vizioso fra analisi empiriche e categorie ermeneutiche, fra individuazione di problemi specifici e connessioni d’ordine generale. Rubinstein prende le mosse dalla metà del XIII secolo, dalla traduzione della Politica di Aristotele, la quale, da un lato, in senso generale, «forniva un modello di una dottrina politica formale, che
abbracciava
l’intera estensione della vita politica e sociale»;
dall’altro, in Italia, in una situazione assai favorevole alla sua
diffusione, «offriva al nuovo mondo cittadino una chiave interpretativa unica e una guida per affrontare — o addirittura risolvere — le sue crisi». E perciò la traduzione della Politica e il rilievo assunto dalle sue tematiche nel pensiero di Tommaso d’Aquino costituiscono un momento di svolta fondamentale nello svolgimento del pensiero politico occidentale. Su questo sfondo storico-problematico, Rubinstein colloca la figura di Tommaso e, sul versante «repubblicano», quelle di Tolomeo da Lucca, Remigio de’ Girolami e Marsilio da Padova. L’Aquinate ebbe il merito di mettere in crisi la coppia tra-
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dizionale monarchia/tirannide,
estendendo l’analisi alle altre
forme di governo — governo dei pochi, governo dei molti —, nel quadro di una preferenza persistente per la forma monarchica, il cui valore sembrava essere obiettivamente ribadito, in Italia,
dalla più rapida involuzione tirannica dei regimi «pluralistici». Tolomeo da Lucca, basandosi sulla Politica e seguendola assai più fedelmente di Tommaso, si serve di Aristotele per rilevare «la superiorità del governo repubblicano sul regizzen regale». A sua volta, Remigio de’ Girolami individua nel concetto aristotelico di bonum coramune la leva teorico-politica adeguata per superare le lotte di fazione che laceravano la sua città, minacciandone, a suo giudizio, l’esistenza medesima. Marsilio da Pa-
dova elabora, infine, la teoria di «un governo soggetto alla legge, una definizione di questa in termini di legge statutaria invece che naturale», nel quadro dell’opposizione al potere arbitrario. Con Tolomeo, Remigio e Marsilio, siamo a un punto centrale dello sviluppo della teoria e del pensiero politici italiani, geneticamente intrecciato alla crisi della società comunale nella seconda metà del Duecento, della quale queste elaborazioni sono espressione organica, diretta.
E tipico del metodo ‘storicistico’ di Rubinstein saldare strettamente processi ideali e processi storici, l'evoluzione del pensiero politico e le trasformazioni della società italiana. Con una caratteristica essenziale: il rilievo assunto nella sua analisi dalla categoria di crisi. E una crisi che mette in moto le idee politiche italiane nella seconda metà del Duecento; è una crisi che riapre il dibattito teorico nei primi anni del Cinquecento: «fino all’epoca di Machiavelli le idee politiche italiane non subirono una svolta paragonabile per ampiezza a quella che ebbe luogo tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo e, quando ciò accadde di nuovo, fu ancora una volta in risposta ad una crisi italiana». È
questa la categoria centrale, il fondamento dell’analisi storico-sistematica svolta in queste pagine; ed è su queste basi che viene individuato e definito il valore dell’elaborazione quattrocentesca. Agli inizi del XV secolo, forse — osserva Rubinstein — a causa
della relativa stabilizzazione della divisione d’Italia in Stati repubblicani e monarchici, le posizioni ideologiche sembrano essersi cristallizzate in un punto in cui l’antico problema della superiorità di una di queste forme di governo era, per il momento, sempre meno considerato in termini generali e sempre più visto in relazione ai singoli
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Stati, dove poteva servire a sostanziare descrizioni celebrative o a rafforzate. invettive,
Contro questo sfondo, in relazione alla crisi italiana, si svol-
ge il pensiero di Guicciardini e Machiavelli: gli sviluppi della situazione in Italia, dopo l’invasione francese, ebbero un effetto traumatico sullo sviluppo del pensiero politico; produssero un
vero e proprio «cambiamento metodologico»; resero possibile «il sorgere di nuove problematiche e di una nuova sensibilità». E significativo che Rubinstein, per definire questa svolta, questo cambiamento metodologico, si serva delle medesime categorie
usate
per caratterizzare
il pensiero
politico italiano
emerso dalla crisi della seconda metà del Duecento. Ed è significativo
che, nell’uno
e nell’altro
caso,
si tratti di categorie
opposte a quelle utilizzate per definire l’esperienza quattrocentesca: descrittivo/normativo; celebrativo/critico; occasionale/si-
stematico. In sintesi: il '400 è un secolo povero di teoria e filosofia della politica sia sul versante «repubblicano» sia su quello «monarchico»; la svolta che si determina a Firenze nel secondo e nel terzo decennio del Cinquecento si caratterizza, appunto, per la sostituzione, momentanea tuttavia, dei «resoconti descrit
tivi e in gran parte celebrativi delle costituzioni vigenti, dovuti agli umanisti, con analisi critichedi quelle costituzioni e con prescrizioni per la loro riforma». È questo il cambiamento metodologico in atto nelle opere di Francesco Guicciardini e, in primo luogo, in quelle di Niccolò Machiavelli; ed è un mutamento connesso alla ripresa della teoria politica; reso possibile dalla crisi italiana. Nella valutazione degli umanisti offerta nel saggio di Rubinstein convergono, in modo equilibrato, due motivi: da un
lato si riconosce il rilievo degli studi di Garin e Baron, evidenziando l’importanza e l’autenticità della questione (e dell’ideale) vita activa/vita contemplativa e sottolineando «che fu proprio il maggiore coinvolgimento degli umanisti fiorentini nella vita politica che rese così importante e urgente per loro il problema di armonizzare la vita attiva con la vita degli studi»; dall’altro,
con un vocabolario di ascendenza kristelleriana, si ribadisce, a
più riprese, che gli umanisti non erano «pensatori politici sistematici», che recalcitravano ad analisi rigorose, che ai loro insegnamenti sulla vita civile accoppiavano trattati sul governo del principe, disposti a fornire, senza problemi, gli uni e gli altri. E
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ciò, precisa Rubinstein, non solo perché questa era «la loro funzione in qualità di maestri di filosofia morale e di retori professionisti»: c'era «un’antica tradizione [...] di attingere ai precetti politici antichi negli specula principum». Maestri di filosofia morale e retori di professione, tuttavia: è una definizione esplicita, coerente con la valutazione che Rubinstein offre in queste
pagine dell’esperienza politica umanistica. Ed è una definizione che serve a chiarire, a me pare, quella che è una delle suggestioni più vivide del saggio: il rapporto fra crisi e teoria politica e, in questa prospettiva, l’individuazione, pur nelle differenze problematiche e di sensibilità, di una dimensione morfologica comune fra l’esperienza trecentesca e quella del primo Cinquecento, rispetto alle quali il pensiero quattrocentesco si colloca su un altro piano o livello, altrettanto interessante, madiverso: per quanto importante sia stato il ruolo svolto dalla filologia umanista nel favorire una migliore comprensione del testo [dell’opera di Aristotele], essa non necessariamente provocò anche una discussione
dei problemi che questa sollevava e delle risposte che forniva, né della loro applicazione all'esperienza contemporanea. Piuttosto che stimolare tale discussione, essa fornì agli umanisti il materiale con cui costruire l'ossatura ideale di una politica repubblicana.
Con queste categorie Rubinstein analizza il pensiero politico rinascimentale, individuandone i centri principali di svolgimento. Da una crisi a una crisi, attraverso una fase di stabilizzazione relativa: nel ’2-'300, Lucca con Tolomeo, Padova con Marsilio e Albertino Mussato, attraverso l’elaborazione di una
ideologia repubblicana della tirannide che fu «una delle innovazioni principali nel pensiero politico italiano», cui Firenze si aggregò senza svolgere un ruolo originale; nei primi decenni del Cinquecento,
Firenze
con
Machiavelli,
al quale Rubinstein
dedica pagine assai notevoli e originali. Ma notevoli sono anche le pagine sull'importanza assunta dalla storia di Roma e, verso la metà del secolo XIV, dal pro-
blema della periodizzazione nella interpretazione della storia delle città italiane; sull'importanza della storiografia nello svolgimento del pensiero politico («Dal tempo di Tolomeo da Lucca
fino a quello di Machiavelli il senso della storia occupò un posto di grandissimo rilievo nel pensiero politico, e questo legame divenne uno dei contributi principali del Rinascimento italiano
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all'evoluzione del pensiero politico europeo»); sul rilievo dei verbali dei dibattiti nelle Pratiche (i quali, sebbene influenzati spesso dalla retorica umanista, «forniscono una inestimabile documentazione dei presupposti condivisi dagli uomini del reggimento e della loro consapevolezza dei problemi politici»); sulla persistenza a Firenze dell’ideologia repubblicana anche sotto i Medici (i verbali dei dibattiti delle Pratiche «mostrano come,
più avanti nel secolo, l'ideologia repubblicana non fosse affatto estinta nella Firenze medicea e rivelano che, a prescindere da un breve periodo di rinascita sotto Piero di Cosimo, nel 1465-66, essa era sopravvissuta clandestinamente»). Assai più che una rassegna, il saggio di Rubinstein è un lavoro nel quale fatti e concetti si saldano in modo esemplare, raccogliendo in sintesi originale, con equilibrio, anche esiti critici di tradizioni interpretative e metodiche diverse. Illustrando il rilievo assunto nel corso del Trecento dalle discussioni sul «destino» delle città, Rubinstein, nel suo saggio,
nota come Garin abbia «sottolineato l’importanza delle speculazioni astrologiche arabe sulle congiunzioni degli astri per «le questioni sui periodi storici e le crisi della civiltà nel tardo Medio Evo». È un cenno significativo, tanto più importante dal momento che nel volume non è fatto posto eccessivo ‘a questo tipo di problemi: astrologia, magia, ermétismo. Ci sono spunti e riferimenti nel bel saggio di Charles B. Schmitt, e in quello di Chastel che ripropone in modo esplicito la concezione di Garin dell’astrologia come «un’antropologia che tendeva con ostinazione a tradursi in immagini», citando le lezioni tenute da Garin al Collège de France e raccolte nel ’76 in Lo zodiaco della vita. Ma un’analisi specifica, circoscritta, di questa problematica manca; sia nel saggio di Hay: Storici e Rinascimento negli ultimi venticinque anni, che in quello di Marie Boas: I/ Rinascimento scientifico. E si sottolinea questo sia per l’obiettivo rilievo del problema, sia per l'incidenza di questi temi nella ricerca di Garin e nella storiografia rinascimentale, e della scienza, contemporanea. È possibile che in questo abbia pesato, almeno in parte, la
relativa conoscenza in Inghilterra di questo lato della ricerca di Garin: Hay sottolinea esplicitamente che L’Umanesimo italiano, del quale è apparsa una traduzione nel ‘68 a Oxford, è stata l’opera di Garin che nei paesi di lingua inglese ha esercitato «la
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
maggiore influenza»; Marie Boas elogia a più riprese la «ben nota e autorevole raccolta di conferenze e saggi dal titolo Scienza e vita civile nel Rinascimento», tradotta a sua volta in inglese nel ’69, con alcuni mutamenti (è inserito, fra l’altro, il saggio del °50 Magia e astrologia nella cultura del Rinascimento); ma sul tema specifico della magia, dell’astrologia e dell’ermetismo l’analisi si restringe ai Testi umanistici sull’ermetismo del ’55. Eppure Frances A. Yates ha riconosciuto con chiarezza l’impor-
tanza complessiva della ricerca di Garin nella genesi del suo Giordano Bruno e la tradizione ermetica. Di cui — e va notato — è la stessa Boas a riconoscere l’«eco immediata ed amplissima» avuto nella cultura di lingua inglese, spingendo la stessa «autrice e altri studiosi a dedicarsi al problema delle possibili influenze dell’ermetismo sulla scienza». È dunque probabile che nella ‘scrittura’ di questi saggi abbiano agito anche altri motivi, più complessi della relativa diffusione in Inghilterra dei lavori di Garin: nel caso di Hay, una noncuranza spontanea verso questi motivi magici, ermetici e astrologici, riconducibili, forse, alla sua diffidenza di ‘storicostorico’ verso la filosofia (ravvisabile, d’altronde, nel medesimo giudizio sul lavoro di Garin); nel caso della Boas, la tendenza a delimitare, e a contenere criticamente, il campo di influenza del-
l’ermetismo. E ciò appare sia dal rilievo da lei dato alle critiche alle tesi della Yates («l'indirizzo più recente mostra però un deciso rifiuto di accettare totalmente la tesi della Yates, soprattutto quando viene applicata al XVII secolo piuttosto che al XVI»); sia dal carattere dei meriti riconosciuti al libro di Wal-
ter Pagel, William Harvey's Biological Ideas («In quanto ricerca di storia intellettuale quella di Pagel può essere difficilmente migliorata; ma essa è anche un utile correttivo alla tendenza a ritenere ogni nuovo approccio metodologico alla storia della scienza non solo applicabile, ma essenziale allo studio di singole personalità;
Pagel ha infatti abbondantemente
dimostrato
come l’‘ermetismo’ non abbia svolto alcun ruolo essenziale nell'evoluzione del pensiero di Harvey, per quanto affascinante possa sembrare il tentativo di sostenere il contrario»). Da un lato dunque agisce una concezione determinata dello sviluppo della scienza moderna, e, in questo quadro, della funzione svolta dall’ermetismo, e più generalmente dal ‘Rinascimento scientifico’; dall'altro — nel saggio di Hay — insieme
STUDI (NON ITALIANI) SUL RINASCIMENTO
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all’interpretazione in chiave ‘filologica’ che s’è vista, una persistenza della cosiddetta linea Baron-Garin, la quale, già relativamente valida per il passato, ostruisce oggi la veduta dei caratteri originali della ricerca di Garin, dal dopoguerra in poi. E questo a conferma del fatto che quella linea, indiscriminatamente assunta, è fondamentalmente un mito storiografico riduttivo delle problematiche di due studiosi per tanti aspetti assai diversi (e si dice questo non solo in nome delle corseguenze, che pure hanno una loro importanza). Ma non è questo ovviamente che s'intende ora discutere. Il punto che in chiusura si vuole analizzare è invece un altro; ed è connesso a una affermazione di Marie Boas, ad apertura del suo bel saggio: «come molti autori che hanno incentrato la loro attenzione sulla scena italiana, Garin — osserva la studiosa inglese — non ha sentito la necessità di indagare se il termine ‘Rinascimento’ rappresenti un concetto storicamente vitale e durevole». Il rilievo non è casuale, ovviamente: s’inquadra in una ricerca che intende discutere la validità del concetto fuori d’Italia, nel Nord Europa. E del resto una caratteristica generale del volume è la critica nei confronti della ‘centralità’ fiorentina, toscana, italiana. Ed è, si noti, una critica solo in parte com-
prensibile alla luce della provenienza geografico-culturale dei vari autori. Il problema esiste; ed è importante. Meno convincente è invece quel rilievo. Basta scorrere qualche pagina della Bibliografia a lui dedicata?, per vedere come Garin, fin dall’inizio, riflette sul concetto di Rinascimento, raccogliendo testi in
antologie che hanno segnato una fase della ricerca rinascimentale; confrontandosi esplicitamente con posizioni di grandi storici del passato, da Burckhardt a Huizinga; avviando infine una riflessione teorico-storiografica sui concetti di rinascita e rivolu-
zione in una serie di saggi rivolti a far luce sulla «complicatezza» della genesi di 47 mondo, e, in questa prospettiva, sul ruolo svolto dalle tematiche magiche, ermetiche e astrologiche, in rapporto al Rinascimento e alla rivoluzione scientifica. E tuttavia credo che in Garin, ieri e oggi, sia individuabile una peculiarità: cosciente del carattere ‘ideologico’ del concetto di Rinascimento, non ha mai ritenuto di potersene disfare. È sempre stato consapevole, in modo via via più chiaro, del nodo 3 Bibliografia degli scritti di Eugenio Garin, cit.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
storico e storiografico che lì si racchiudeva, della necessità preliminare di individuarlo e approfondirlo, di precisarne tempi e momenti di sviluppo — dal mito al concetto storiografico — nel quadro di un’indagine che ha raggiunto, col tempo, nuovi territori, nuovi campi d’analisi progressivamente estendendo, fino a renderli talvolta problematici, i confini dell'‘umanesimo civile’. «Non paragonabile con la nozione di ‘rivoluzione scientifica’, quella di Rinascimento,
o Rinascenza,
o Rinascita,
o
Renovatio, fu [...] un ideale e un programma che realizzò un rinnovamento profondo all’insegna di un ritorno al passato: inserendosi in una concezione ciclica del divenire storico, in una
precisa filosofia della storia; utilizzando e trasfigurando teorie generali della vicenda cosmica (per esempio la teoria delle grandi congiunzioni, degli spostamenti delle civiltà, dei loro mutamenti secondo i ritmi celesti, dell’oroscopo delle religioni e cosi via)». Sono parole del ‘75: le prospettive storiografiche s’estendono fino a raggiungere zone prima ignote; il linguaggio si apre a termini che esprimono visibilmente l’approfondimento in atto; sul piano teorico s’incrina l’antica identità di storia e storicismo. Teoria e storiografia si dispongono in un quadro diverso da quello disegnato nel passato. Eppure l’energia di questa interpretazione risiede nel problema che è riuscita ad individuare, e al quale, fra tanti mutamenti storici e storiografici, s'è sempre tenuta fedele. Ieri e oggi, storiografia e politica: è la forza — se si vuole, il limite — della nostra tradizione. E come
si vede dai
saggi raccolti in questo volume, è una tradizione che viene davvero da molto lontano.
VI RINASCIMENTO E CONTRORINASCIMENTO
Desidero fare anzitutto due precisazioni: in queste pagine, muovendo dal problema del rapporto tra Rinascimento e Controrinascimento,
mi interessa anzitutto svolgere una riflessione
di ordine generale sui problemi che ha di fronte, oggi, la storiografia sul Rinascimento italiano. Desidero anche precisare che affronto questi temi da storico della filosofia: essendo, cioè, interessato anzitutto a problemi di ordine teorico, filosofico,
con una specifica attenzione — ed è il terzo punto che mi interessa preliminarmente sottolineare — al secondo Cinquecento e, in modo particolare, al pensiero di Giordano Bruno. Dichiaro, weberianamente, questo mio punto di vista perché esso possa essere più apertamente criticato. =
Credo sia opportuno, in primo luogo, rilevare il carattere fortemente ideologico e, più specificamente, la forte impronta etico-politica che ha avuto la discussione sul Rinascimento in larga parte del nostro secolo. Non c’è dubbio, ad esempio, che discorrendo dell’Umanesimo civile — specie tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento — si è spesso avuto, sullo sfondo, il
problema del conflitto tra totalitarismo e democrazia moderna. Da questo punto di vista è assai sintomatico che i caratteri salienti della storiografia sull’Umanesimo e sul Rinascimento del nostro secolo si siano delineati proprio nel cuore del terzo decennio del secolo, cioè in un periodo del tutto decisivo per
la ‘coscienza’ e la storia europea. Sono tra l’altro gli anni nei quali — proprio per impulso dei tragici eventi politici allora in corso — inizia l'emigrazione in America degli intellettuali europei di origine ebrea: costretti a lasciare il vecchio continente di fronte all’irrompere e al fermarsi del razzismo prima nazista, poi anche fascista, studiosi eminenti come Baron, Gilbert, Kristeller,
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
trapiantano in America fiorentissime scuole di studi umanistici e rinascimentali entro cui — come avviene in modo particolare con Baron —- spicca, fra tutti, il problema etico-politico dello scontro fra ‘libertà’ e ‘tirannide’ — ieri tra Firenze repubblicana e Milano viscontea, oggi tra i paesi di cultura democratica e liberale e la Germania nazista. Sottolineo un punto, su questo sfondo di problemi. Nel delinearsi, e nello svolgersi, di questa impostazione critica — dal forte spessore etico-politico — agivano, accanto a quelli di breve periodo, elementi strutturali della storia dell’intellettualità europea, a cominciare dal Discorso preliminare alla Enciclopedia che, pur sottoposto a una critica assai profonda nella cultura europea del secondo Ottocento, riassume nella situazione di crisi tragica che avvolge il Novecento nuova forza e nuova attualità. Altrettanto intensa era l’incidenza delle nuove concezioni dell’attività intellettuale che — specie nell’ambito delle scienze politico-sociali — erano maturate nel vecchio continente nei primi anni del secolo, specificandosi in modo più netto al tornante della prima guerra mondiale. In entrambi i casi, ed è questo che voglio dire, si tratta di discussioni nelle quali rilievo centrale assume il problema della funzione e del ruolo degli intellettuali — un problema con il quale la cultura moderna europea, a partire appunto dal Settecento, si è costantemente interrogata in chia-
ve schiettamente ‘autobiografica’, ponendo il problema della sua genesi, dei suoi padri fondatori, dei suoi caratteri costitutivi e, naturalmente, anche dei nemici con cui essa era chiamata a combattere e scontrarsi. Si tratta di un punto, a mio giudizio,
decisivo: anche nel Novecento la discussione sull’Umanesimo e sul Rinascimento si è inserita in questo più ampio dibattito sulla storia degli intellettuali europei, sulla costituzione interiore della loro identità — in rapporto in modo particolare con l’etica, da un lato; con la politica, dall'altro. So bene, naturalmente, che il
! Sul concetto di Rinascimento in generale, cfr almeno W. K. FERGUSON, Il Rinascimento nella critica storica, Bologna 1969 (prima ed. 1948); VASOLI, Urzanesimo e Rinascimento, cit. Si veda anche CILIBERTO, I/ Rinascimento. Storia di un
dibattito, cit. Per quanto riguarda Baron, cfr BARON, La crisi del primo Rinascimento italiano, cit. Su Baron è assai interessante il saggio di GARIN, Le prize ricerche di H. Baron sul Quattrocento e la loro influenza tra le due guerre, cit.; per
una precisazione sui rapporti di quest’ultimo con Baron, cfr GARIN, Scienza e vita civile nel Rinascimento, cit., pp. XVII-XVII.
RINASCIMENTO E CONTRORINASCIMENTO
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concetto di Umanesimo civile è stato assai fecondo — anzi fecondissimo — nello studio e nella interpretazione della realtà storica italiana tra Quattro e Cinquecento; ciò non toglie che esso sia stato, al tempo stesso, il terreno storico e storiografico attraverso il quale, nel nostro secolo, gli intellettuali europei si
sono interrogati sul loro destino, in un momento di crisi totale della propria identità intellettuale ed etica. Se questo è vero, non mi pare sorprendente che la discussione sull’Umanesimo civile — e sul significato dell’intellettuale ‘umanista’ inteso come intellettuale europeo per eccellenza — si sia avviata a compimento tra la fine degli anni ’60 e gli anni ‘70, cioè quando tutta la questione degli intellettuali di tradizione europea, in modo particolare di quelli di matrice umanistica, entra in discussione radicale configurandosi, a quel momento, come questione del passato sia sul piano etico-politico che su quello strettamente storiografico. La stessa discussione sul problema della periodizzazione, e della medesima pertinenza storiografica del termine ‘Rinascimento’ — discussione che ha assunto negli ultimi anni particolare rilievo — va collocata in questo quadro di problemi. Per intendere come e perché l’attenzione degli storici si sia venuta concentrando sul termine e sul concetto di ‘prima età moderna’, è anche sul carattere delle interpretazioni del Rinascimento nel nostro secolo che occorre interrogarsi?.Così come occorre far riferimento a questo complesso e variegato processo per comprendere l’inclinazione di carattere filologico ed erudito che la discussione è venuta assumendo quasi per contrappasso, man mano che si è venuta staccando dagli interrogativi etico-politici dai quali essa, a partire dagli anni Trenta, ha preso forza e vigore. Certo, la filologia e l’erudizione sono entrambe importanti e fondamentali per lo sviluppo di questi come di altri studi. Ma — è appena il caso di ricordarlo — senza ‘interrogazione’, senza ‘problema storico’, cioè senza frage (come avrebbe detto Droysen) la ricerca stagna, si affievolisce,
può morire. Non è dalla rivendicazione del primato della filologia che può dunque germinare la ripresa dei nostri studi. Occorre battere nuove strade individuando nuovi problemi, nuove periodizzazioni, rispetto alle quali il Rinascimento — ed io sono
2 Sul problema della periodizzazione cfr il saggio tuttora fondamentale di CANTIMORI, La periodizzazione dell'età del Rinascimento, cit.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
per difendere questa definizione — può assumere nuovo valore e nuovo significato. Sia chiaro: non è che nell’ambito della storiografia sull’Umanesimo e sul Rinascimento non ci siano state, negli ultimi anni, prese d’atto di questa situazione e della necessità di individuare nuovi campi tematici entro cui rideterminare il significato del Rinascimento. Per quanto riguarda l’Italia e la situazione italiana, già nei primissimi anni Settanta Eugenio Garin cerca, con molta acutezza, di spostare il fronte della discussio-
ne su due piani: da un lato avvia a riconsiderazione il concetto di Umanesimo civile, sottolineandone con forza inedita il carat-
tere ideologico (di programma, voglio dire, piuttosto che di realizzazione
concreta,
effettiva), nell’ambito
di una
riflessione
nella quale comincia a staccarsi con grande forza la figura di Leon Battista Alberti; dall’altro comincia a porre il problema del rapporto tra Umanesimo e rivoluzione scientifica, tra scienza e vita civile nel Rinascimento 4. Senza alcun dubbio si è trattato di un tentativo importante destinato, peraltro, a suscitare polemiche assai vivaci in modo particolare fra gli studiosi di storia della scienza, impegnati a ridefinire una nuova periodizzazione del mondo moderno, concepito sostanzialmente autonomo dalle origini umanistiche. A riconsiderare, oggi, quella discussione — che non fu solo italiana, ma ebbe molta risonan-
za anche in ambito anglo-americano ? — non è difficile notare come si sia trattato spesso di problemi e temi che, avendo a che
fare più con il ‘mondo storiografico’ che con il ‘mondo storico’, hanno cercato di riproporre in termini originali il problema del significato e dell’eredità, nel mondo moderno, dell’Umanesimo } Su questi temi mi sia consentito rinviare al Prologo del mio lavoro Umbra profunda. Studi su Giordano Bruno, cit.
* Da questo punto di vista sono significativi Scienza e vita civile nel Rinascimento, cit.; Dal Rinascimento all’Illuminismo, cit. (nel quale è raccolto un saggio assai caratteristico su Leonardo Bruni, La retorica di Leonardo Bruni); Rinascite e
rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, cit. (nel quale-sono raccolti due fondamentali saggi su L. B. Alberti: Per un ritratto; Miseria e grandezza dell’uomo). Per un giudizio differentemente modulato su Alberti, cfr Interpretazioni del Rinascimento, cit.
? Per questi temi — e anche per importanti riferimenti bibliografici — si veda il lavoro di P. Rossi, Immagini della scienza, Roma 1977 (soprattutto si veda il saggio Tradizione ermetica e rivoluzione scientifica, uscito in prima edizione inglese nel 1975).
RINASCIMENTO E CONTRORINASCIMENTO
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— cioè di quella struttura intellettuale che, secondo un nostro eminente storico, Delio Cantimori, avrebbe sostenuto la storia europea dal Trecento al Settecento: in una parola, da Petrarca a Rousseau. È stato del resto lo stesso Garin a rendersi conto dei problemi aperti o irrisolti, spostando, negli anni Settanta, il centro della sua ricerca verso le tematiche di carattere magico, astrologico, ermetico: nel vivo di una indagine, occorre aggiungere, che si è sforzata programmaticamente di porre in modi nuovi il problema stesso della genesi, dei caratteri, della interna struttura della ‘ragione’ moderna. Sono state, lo voglio ribadire, ricerche importanti, con le quali ancora oggi è necessario fare
i conti” Ma ciò non toglie quello che sopra ho cercato di dire: i termini delle antiche discussioni sono, ormai, dietro di noi — sia
che si tratti dell’Umanesimo civile e del primato etico-politico della tradizione umanistica degli intellettuali europei; sia che si tratti delle discussioni sui rapporti tra scienza e Umanesimo civile, tra ermetismo e rivoluzione scientifica (problema, quest'ultimo, del tutto inconsistente sul piano storico). Può darsi
che mi sbagli: ma, a mio giudizio, ciò che oggi appare indispensabile è andare oltre questo terreno,
cambiando
radical
mente punto di vista. E per far questo occorre, anzitutto, situarsi nel punto più alto della civiltà rinascimentale, cioè nel pieno e maturo Cinquecento, valorizzando più di quanto si sia finora fatto il lato ‘notturno’, ‘umbratile’, ‘oscuro’ della cultura del Rinascimento,
terpretative
mettendosi alle spalle vecchie tradizioni in-
imperniate
sul principio
dell’‘equilibrio’
e del-
l'‘armonia’, compresa la loro reincarnazione novecentesca, cioè
l'ideologia dell’Umanesimo civile. E, precisamente, in questo orizzonte che oggi appaiono importanti i contributi di quello che è stato chiamato il Controrinascimento (da Haydn) o l’antirinascimento (da Eugenio Battisti). Nelle storie anche più recenti delle interpretazioni del Rinascimento nel Novecento non si fa, in genere, cenno né dell’uno né dell’altro. Eppure, si tratta in entrambi i casi di lavori significativi e, soprattutto, assai
6 Cfr il saggio di CANTIMORI, La periodizzazione del Rinascimento italiano, cit. ? Per le ricerche di Garin cfr la prima parte del volume e il cap. III di questa stessa sezione.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
utili per intraprendere nuove direzioni di ricerca. Vale dunque la pena di esporne, in primo luogo, le tesi fondamentali ®. A giudizio di Haydn —- questo è il centro della sua interpretazione — nel Rinascimento sono individuabili tre grandi e distinte correnti intellettuali: «il primo è # Rinascimento classico o umanistico»; il secondo è il Controrinascimento, il quale «ebbe origine in un moto di protesta contro i principi fondamentali del Rinascimento classico non meno che contro quelli della scolastica medioevale [...] Il terzo movimento, che fa capo a Galileo e a Keplero, è forse meglio classificabile come la Riforma scientifica». «Inutile dire — prosegue Haydn — che queste correnti di pensiero non si seguirono cronologicamente,
con
rigore nell’ordine indicato. Permeando, come fecero, l’intero campo della civiltà e della cultura occidentali, essesi svilupparono a poco a poco ‘organicamente’, ciascuna di esse sovrap-
ponendosi in parte alle altre, e con le altre confliggendo. Tuttavia quanto detto è l’ordine con il quale esse raggiunsero, nel tempo,
il momento
della loro più alta maturità» ?. Secondo
Haydn, ciò che unisce i pensatori del Controrinascimento è il comune possesso di un atteggiamento integralmente anti-intellettualistico, anti-moralistico, anti-sintetico, anti-autoritario. In
questo quadro, sono essenzialmente quattro le grandi istanze critiche attraverso cui il Controrinascimento si esprime: anzitutto il sentimento e la coscienza della vanità di ogni posizione
dottrinale
di carattere
teologico,
scientifico,
letterario,
morale; in secondo luogo la corrosione e il dissolvimento di qualunque concetto di legge naturale universale; in terzo luogo la messa in discussione di tutti ideali di limite, gerarchia, equilibrio propri della tradizione classica cristiana e umanistica; infine, il passaggio dallo scientismo di matrice cabalistica o aristotelica all’empirismo puro !°. In verità non è stato Haydn ad utilizzare per la prima volta il termine Controrinascimento: già Theodore Spencer nel 1938, discorrendo di Harzlet and the Nature of Reality, aveva esplici* H. HavyDn, I/ Controrinascimento,
presentazione
di B. BASILE, Bologna
1967 (prima ed. 1950) e E. BATTISTI, L'antirinascimento, con un'appendice di testi inediti, prefazione di A. CHASTEL, Milano 1989 (la prima edizione è del 1962). ? HAYDN, I/ Controrinascimento, cit., pp. 5-6. 10 Ivi, pp. 9-10.
RINASCIMENTO E CONTRORINASCIMENTO
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tamente parlato di Controrinascimento, mostrando come nel Cinquecento fossero stati corrosi dal dubbio tutti i vari sistemi di leggi — cosmologiche, politiche e naturali - che avevano costituito la base generale della filosofia tradizionale: Copernico mette in questione l’ordinamento del cosmo, Machiavelli quello della politica, Montaigne quello della natura. Le conseguenze — scrive Spencer — furono enormi. Nel momento in cui Shakespeare scrisse l’Arz/eto egli era in grado, ormai, di scegliere fra due opposte interpretazioni della natura umana,
del mondo, dello stato [...] Sa-
rebbe interessante ed utile studiare più dettagliatamente perché, proprio in quel momento, il conflitto fosse particolarmente vivo. La pressione delle forze materiali, sociali ed economiche, la situazione politica e religiosa, l'affermarsi di una scuola letteraria realistico-satirica, la re-
crudescenza dell’enfasi sulla morte, queste ed altre cose contribuirono a creare un movimento,
più emotivo che cosciente, che, da un certo
punto di vista, potrebbe essere chiamato Controrinascimento !!.
In anni più vicini anche Robert Heilman, in uno studio sul King Lear (This Great Stage !°), utilizza, nuovamente, il termine, pur senza estenderlo alla qualificazione di un intero periodo storico. Nel suo lavoro, pubblicato nel 1950, Haydn aveva, dunque, dei precedenti, come
egli stesso riconosce, del resto, in
modo esplicito. Quello che, però, in Speneer rimane solo una brillante intuizione, in Haydn diventa il criterio interpretativo — di carattere sistematico — di «una grande rivoluzione intellettuale» contrassegnata dal suo esser contraria a quella che era stata la corrente principale del Rinascimento umanistico, vale a dire la reminiscenza delle lettere classiche, della
filosofia morale e della ‘greca arte della vita’: contraria sia nel senso di una vera e propria opposizione sia nel senso di una vera alternativa. Di opposizione, ovviamente, per la sua mancanza di fiducia così nella ragione e nel lume di natura come nell’intelletto speculativo; per la sua convinzione della vanità delle arti e delle scienze; per il suo di-
sprezzo nei confronti dell’artificio del pensiero sistematizzante,
il
quale rinveniva leggi razionali nella natura, creava repubbliche ideali,
!l Ivi, pp. 3-4, dove Haydn richiama in modo esplicito il lavoro pubblicato nel 1938 da T. SPENCER, Harzlet and the Nature of Reality, «ELH», pp. 253-277.
12 R. B. HEILMAN, This Great Stage, Baton Rouge 1948.
V, 1938,
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
e formulava commentari interpretativi. Di alternativa, in quanto opponeva a quello che è il ritorno all’attività classica proprio dell’Umanesimo una ‘rinascenza’ o ‘rinascita’ sua propria e cioè un ritorno ai primi principi, in una sorta — va aggiunto — di primitivismo culturale,
tecnologico, psicologico, e religioso !?.
Ciò che a giudizio di Haydn caratterizza, infatti, gli uomini del Rinascimento è anzitutto il loro relativismo e pragmatismo, il loro empirismo, con uno schietto ‘ritorno al segno’ (avrebbe detto Machiavelli) e, in modo specifico, alla esperienza di prima mano — sia sul piano religioso (l’esperienza della fede personale di Lutero) che su quello politico (la ‘verità effettuale’ di Machiavelli), che su quello antropologico (il ‘toccare con mano’ di Montaigne) 14. Relativismo, pragmatismo, radicale empirismo e su questo sfondo critica dell’astrattismo e dell’intellettualismo: questi sono per Haydn i caratteri tipici del Controrinascimento ai quali si saldano in modo organico, da un lato, un atteggiamento
radicalmente scettico; dall’altro, una «tendenza decen-
tralizzante» rivolta a «rimuovere il concetto unificato e unificante di una legge e di un ordine universale e ad affermare la singolarizzazione e la relativizzazione delle ‘scienze’ dell’uomo e della società». Assieme a Machiavelli, Agrippa, Montaigne, Lutero, Calvino, Bodin, Donne, l’autore che per Haydn rappresenta nel modo più ampio e consapevole questi atteggiamenti è proprio Giordano Bruno: il quale — egli scrive — «completa quella decentralizzazione, quella particolarizzazione, quella relativizzazione della sintesi medioevale che è stata l’opera capitale del Controrinascimento» ”. In altra parole Bruno compie sul terreno fisico e cosmologico quella stessa operazione che Montaigne, Agrippa, Machiavelli realizzano sul piano della concezione della politica, della natura, della storia e della religione. Intendiamoci: Haydn sa bene (anche sulla scorta di un vecchio lavoro come quello di Héffding) che l’opera di Bruno non si risolve nello scetticismo e che essa mira a ridare ordine e significato all’universo al di là dell'orizzonte proprio degli ‘scettici relativisti’. Ma, a suo vedere, il Nolano avrebbe com1} HAYDN, I/ Controrinascimento, cit., p. 12. ivi
pri
3 Ivi, p. 248.
RINASCIMENTO E CONTRORINASCIMENTO
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piuto questa operazione attraverso un ‘misticismo’ di carattere
radicalmente anti-intellettualistico e tenendo fermo il carattere decentralizzante proprio del Rinascimento, da una parte negando il concetto di limite, dall’altra valorizzando i processi di differenziazione e di particolarizzazione tipici del Controrinascimento !°. In conclusione, in stretto collegamento con Agrippa, Montaigne, Machiavelli, Bruno avrebbe portato a compimento il ripudio dell’idea di legge universale, nel vivo di un processo storico che porta a riconsiderare in modi nuovi anche i rapporti tra Riforma e Rinascimento. Ma per gli impulsi anti-intellettualistici e anti-moralistici che lo distinguono, anche Lutero — come si è già avuto modo di accennare — è, per Haydn, parte integrante del Controrinaseimento. Ci sono forzature, si vede bene, in queste posizioni. Mi limito, per fare un esempio, al suo giudizio di Bruno: a differenza di quanto sostiene Haydn, il Nolano crede nel primato dell’intelletto; critica il senso !” (utilizzando a questo proposito anche i tropi scettici, come Haydn osserva acutamente); si batte per una universale legge di fraternità e di umana filantropia; sostiene un rapporto stretto fra ragione e giustizia, combatten-
do perciò aspramente Lutero che in nome del principio della justitia sola fide ha infranto questo nessg fondamentale per il mantenimento e lo sviluppo del ‘convitto umano? !*. Il che non toglie, naturalmente, che Haydn abbia colto, al tempo stesso,
tratti decisivi del pensiero di Bruno, a cominciare dalla sua attitudine ‘decentralizzatrice’ e dalla sua tensione all’individuale, al minino, al dettaglio, all’accidente, secondo una prospettiva
filosofica che mette al suo centro il concetto di ‘pienezza’ della Vita, in piena coerenza — occorre dirlo — con l'ispirazione di fondo
del Controrinascimento.
Già Kristeller,
del resto, nel
1955 sul «Journal of the History of Ideas» aveva avuto modo di precisare che il Controrinascimento di Haydn coincide, essenzialmente, con il tardo Rinascimento e che esso ha, soprattutto,
16 Ivi, p. 256. !7 Cfr M. CILIBERTO, Senso e intelletto nei Dialoghi di Bruno, in AA.VVv., Sensus-Sensatio, VIII Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale (Roma, 6-8 gennaio 1995), a cura di M. L. BIANCHI, Roma 1996.
Europeo
18 Sul contrasto tra Bruno e Lutero cfr M. CILIBERTO, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Roma 2000.
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO
DI RINASCIMENTO
il merito di contribuire a far comprendere in modo particolare «the English Renaissance», mentre più discutibile è il tentativo di stabilire un rapporto tra scolastica aristotelica da un lato, movimento umanistico dall’altro sotto l’insegna dell’Umanesimo: la qual cosa a Kristeller appariva «a simple classification and reduction» !?. Sono, lo ribadisco, critiche giuste su importanti punti specifici, che non intaccano, però, il valore fondamentale del lavoro di Haydn, la sua capacità di darci un quadro generale alla Burckhardt, che [...] descriva ed illustri un momento della storia della vita intellettuale europea cioè cosmopolita, che si incrocia parzialmente, dal punto di vista cronologico, con i ‘periodi’ della Riforma protestante, del Rinascimento, della Controriforma e infine della rivoluzione scientifica iniziata da Galilei 2°,
Può apparire sorprendente, ma è un giudizio di Delio Cantimori, del quale tutto si può dire tranne che avesse simpatia per i discorsi generici, privi di solide fondamenta storiche e critiche: giudizio tanto più interessante quando si tenga conto, per con-
trasto, dei rilievi critici — per non dire della dichiarata diffidenza — che nei confronti della interpretazione di Haydn ha costantemente
avuto
(e se ne comprendono
i motivi) Eugenio
Garin. Al contrario, quello che a Cantimori interessa è, precisamente, il concetto di Controrinascimento e, in modo specifi-
co, il rapporto che, a questa luce, Haydn riesce a stabilire fra Rinascimento
da un
lato e Riforma
dall’altro, mettendosi
alle
spalle una lunga tradizione interpretativa, di matrice essenzialmente
controversistica.
Libro «interessantissimo»,
scrive dun-
que Cantimori; né meno positiva è l’ampia - e illuminante — discussione che al libro di Haydn dedica, nel 1958, B.W. Whitlok
sulla «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance» 2!, determinandone con chiarezza valore e limiti. Resta, comunque,
sintomatico che per avere una chiara, ed
esplicita, ripresa della interpretazione — e dei temi — del libro, 1° P_O. KRISTELLER, rec. di H. HAYDN, The Counter-Renaissance, New York
1950, «Journal of the History of Ideas», XII, 1955, pp. 468-472. 2° D. CANTIMORI, L'Antirinascimento, in ID., Studi di storia, cit., pp. 495-460 (in particolare pp. 455-456). 21 B. W. WHITLOK, rec. di H. HayDN,
The Counter-Renatssance, New York
1950, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XX, 1958, pp. 434-449. Whitlok fa anche una breve storia del termine e del concetto di Counter-Renaisssance.
RINASCIMENTO E CONTRORINASCIMENTO
195
si debba attendere, se non m’inganno, il 1962, quando esce il libro di Eugenio Battisti, eloquentissimo già dal titolo: L’antirinascimento.
Intendiamoci,
anche in questo caso: non che, in
Italia, siano mancati altri lavori che ad Haydn si sono direttamente o indirettamente legati: penso, ad esempio, alle ricerche di Raimondi sul «Rinascimento inquieto» o a quelle, assai importanti, di Giancarlo Mazzacurati 2. Ma è Battisti che più di tutti si è impegnato in un organica ripresa di quello «stupendo volume» (la definizione è sua), spostandone l’asse — e anche questo è significativo — nel campo delle arti figurative. Cerchiamo dunque di vedere, più da vicino, quali sono le tesi che sostiene.
Anzitutto — ed è un punto capitale del lavoro — Battisti mette in discussione le tradizionali interpretazioni delle relazioni tra classicismo e anticlassicismo: i quali, egli osserva, fin dalle origini [...] stettero fianco a fianco, in una polemica dialettica, e almeno in sede plastica e pittorica assai positiva, così che furono quasi innumeri gli scambi reciproci, specialmente a Firenze, dove artisti rinascimentali e tardo gotici (si veda il caso di Masolino e Masaccio) lavorarono anche sugli stessi palchi e per gli stessi committenti ??.
Di più: a ben vedere, «il classicismo del primo Quattrocento fiorentino [...] appare addirittura un rocCione isolato entro la brughiera o la selva fiorita del tardo gotico», sullo sfondo di
lotte senza quartiere fra opposti ambienti e diverse generazioni. Il che vuol dire che la bellezza della Firenze di Brunelleschi non è tanto una «norma», quanto, piuttosto, una «eccezione», in un
quadro complessivo che, al fondo, è quello dell’antirinascimento, cioè, per Battisti, dell’anticlassicismo #4. Ma sull’anticlassicismo — ed è un altro punto sul quale Battisti insiste a più riprese — occorre intendersi: esso non ha nulla di primitivo, di ingenuo o di barbarico; al contrario è una tendenza millenaria almeno quanto il classicismo; e a differenza di quest’ultimo, sul piano sociologico, ha avuto una diffusione addirittura più vasta e capillare: «Classicismo ed anticlassicismo — 22 E, RAIMONDI, Rinascimento inquieto, Palermo 1965; ID., Anatomie secen-
tesche, Pisa 1966; G. MAZZACURATI, I/ Rinascimento dei moderni, Bologna 1985. 23 BATTISTI, L'antirinascimento, cit., p. 24.
24 Ivi, p. 40.
196
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
sottolinea Battisti — hanno dietro a sé due tradizioni antitetiche ma che risalgono entrambe legittimamente all’antichità», anche se nella cultura ufficiale è risultata dominante l’interpretazione in chiave razionalistica che il classicismo ha offerto dell’antichità - interpretazione che, a sua volta, proprio l’antirinascimento, nel Cinquecento, critica fin dalle fondamenta. Se, infatti, il ra-
zionalismo del primo Quattrocento toscano ha prodotto «una coincidenza di onestà e decoro, cioè di virtù morale e bellezza fisica, intesa come simbolica estrinsecazione dell’intimo valore»,
nel corso del Cinquecento questo connubio di matrice essenzialmente umanistica si è venuto progressivamente disgregando, e con esso si è incrinata anche la capacità degli artisti di «tradurre l’idea iniziale, il modello, in una composizione di grandi dimensioni». Si sono imposti schizzi, bozzetti, oltre che un
nuovo tipo di disegno di carattere sperimentale e naturalistico, con una forte incidenza della «magia» e della «illusione» — tutti sintomi di una profonda insoddisfazione verso le opere finite, realizzate (come si vede, esemplarmente, con la Pietà Rondani-
ni). E tutto questo nel vivo di una reazione di carattere generale nei confronti della concezione
classica della vita, culminante,
forse, proprio nel razionalismo toscano, ma già ampiamente preparato da analoghe tendenze del Due e Trecento. Siamo appunto, per Battisti, all’antirinascimento che, come il Manierismo al quale è per molti versi intrecciato, esplode intorno al 1520, esprimendo quelli che sono i tratti di fondo della «nuova fase» che si è aperta: «l'incertezza», «la mancanza sempre più palese di ottimismo», lo scivolare parallelo della letteratura e dell’arte verso il cupo, il tragico, il tenebroso in una decisa opposizione alla solare serenità o indifferenza dei primi decenni del secolo, che avevano visto trionfare con Raffaello, l’Ariosto, il Bembo,
un mondo
di immagini singolar-
mente lontano dalla vita concreta ”?.
Rispecchiantesi nell’opposizione tra lo stile artistico ufficiale e la concreta vita politica, devozionale e quotidiana, è una situazione nella quale predominano, ormai, i «valori simbolici magici ed espressionistici». E questo sia in Europa che in Italia D: Ivi, p. 49,
RINASCIMENTO E CONTRORINASCIMENTO
197
dove, sciogliendosi da un contesto di carattere razionale, risor-
gono con forte aggressività simbolica i miti più arcaici. Finora — osserva Battisti — si è evitato questo problema di base insistendo sugli aspetti antitetici fra Rinascimento nordico e Rinascimento italiano: ma una componente analoga si ritrova a Firenze e a Roma e spesso si manifesta una vivacità ed una tale altezza espressiva da non poter venire spiegata con la sola ipotesi di presenze nordiche.
Non solo: spesso sono state proprio nuove idee nate in Italia a produrre nuove espressioni anticlassicheggianti in Europa. Insomma — conclude Battisti — il concetto per quanto provvisorio di Courter-Renaissance anche se
probabilmente fu suggerito dall’antipatia per la nostra cultura ufficiale sembra darci una chiave preziosa per scoprire dietro alle monumentali facciate cinquecentesche, che creano il volto eroico delle nostre città, non solo ribellione e velleità esoterica ma una nobilissima
civiltà umana °°,
Naturalmente, non è facile riportare alla luce tutto questo, superando antichi pregiudizi e, soprattutto, vecchi modi di vedere. Una cosa comunque è certa, per Battisti: per farlo occorre liberarsi dai limiti della critica ufficiale pre-romantica; dal predominio dei concetti di ordine, di decoro e di coerenza; dal mito di un artista del tutto risolto nella tradizione; dalla ten-
denza a vincolare i valori dell’arte moderna a quella aulica del passato. Soprattutto bisogna mettersi alle spalle «la condanna, quasi sempre accompagnata da accuse di immoralità, di tutte le tendenze artistiche anticlassiche, accomunate generalmente sotto l’accusa di capricciosità e stravaganza». Insomma, alla cor-
rente classicista imperniata sul principio dell’organizzazione coerente e logica della realtà con l'eliminazione di ogni dettaglio, occorre contrapporre la validità di un’opposta tendenza imperniata, da un lato, sul rifiuto delle auctoritates; dall’altro su
una consapevole inclinazione di carattere empirico. Una tendenza distinta da quelli che sono i caratteri tipici dell’antirinascimento:
mutevolezza,
irrequietezza,
tensione
al movimento,
ricerca dell’originalità, ansia, angoscia, contatto diretto con la
materia, sperimentazione di carattere tecnico... 2”. IVI ppRo0:51) 27 Ivi, pp. 60-61.
198
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
Non insisto ulteriormente sul libro di Battisti; del quale mi sembra del tutto evidente, e riconoscibile, la matrice culturale. Né sto ora a dire delle forzature che sono, certo, presenti nella
sua ricerca: basta pensare alla contrapposizione che egli stabilisce fra il classicista Alberti e l’anticlassicista Bruno, citando da
un lato il Theogerius, la Cena de le Ceneri dall’altro. In Alberti ci sarebbe, addirittura, «la più solenne condanna, in nome della moralità e del decoro, ad ogni sperimentazione», nel quadro di una critica radicale dell’irrequietezza e dell’impazienza dell’uomo teso con arroganza a violare i segreti della natura, a «emendarla», «contraffarla», con l’unico risultato di procurarsi «nuove calamità»; a differenza, appunto,
di Bruno, il quale, facendo
nella Cera l’elogio di Copernico, rivendica al contrario la necessità di spezzare ogni fantastica muraglia e di procedere «co’ la chiave di solertissima inquisizione» fino ad aprire «i chiostri della verità, denudare
la natura,
donare gli occhi alle talpe,
illuminare i ciechi», liberando una volta per tutte la nostra ragione ‘8. E una contrapposizione del tutto inconsistente, se si
pensa, da un lato, alle Intercenali; dall’altro al peso straordinario che Leon Battista Alberti ha avuto per Bruno fin dalla ripresa del personaggio di Momo nel primo grande dialogo morale, cioè nello Spaccio de la bestia trionfante, incomprensibile — io credo — quando si prescinda dalla lezione, oltre che di Erasmo,
di Alberti. Ciò non
toglie che Battisti, alla luce
dell’opposizione classicismo-anticlassicismo, Rinascimento-antirinascimento, abbia offerto osservazioni assai fini, e proprio in questo stesso ambito problematico, a cominciare dal tema dell'ombra che egli svolge prendendo le mosse dall’analisi dello studiolo di Francesco I: «al Rinascimento solare, alla burckhardtiana sicurezza dell’uomo dominatore e sapiente succede un Rinascimento notturno, shakespeariano, turbato dall’amarezza,
conscio dei propri limiti» ??. Sta precisamente qui l’originalità di questo lavoro: nella capacità di cogliere, sulla scia di Haydn — e grazie al concetto di antirinascimento — gli aspetti ‘umbratili’, ‘notturni’, ‘inquieti’ dell'esperienza rinascimentale; nella individuazione
dei motivi
di irrequietezza e di angoscia di un tempo che fu ben più dram28 Ivi, pp. 64-65. 2° Ivi, pp. 213-214.
RINASCIMENTO E CONTRORINASCIMENTO
199
matico di quanto lascino pensare i tradizionali quadri di maniera imperniati sui principi dell’equilibrio e dell'armonia. Sarebbe interessante — credo — fare un’analisi di carattere storico-filosofico di questa posizione, la quale andrebbe considerata, se non m’inganno, alla luce dell’opposizione forma-vita che caratterizza la cultura europea dei primi decenni del Novecento: da un lato, appunto, le strutture formali, chiuse nella
loro immobile perfezione; dall’altro l’irrompere della vita che travolge, con i suoi impulsi barbarici, fantastici, popolari ogni forma, ogni struttura, compresa l’idea stessa della forma. Ma non è questo, ora, il nostro compito. Conviene invece sot-
tolineare come dal concetto di Controrinascimento — e da quello, strettamente connesso,
di antirinascimento — siano scaturiti
semi utili per una comprensione del Rinascimento nella sua complessità. Mi sia, però, consentito fare anche qualche osservazione critica. Anzitutto a me pare scarsamente sostenibile la scansione in tre tendenze del Rinascimento: Umanesimo cristiano, Controri-
nascimento, Riforma scientifica. Tenderei piuttosto a sostenere che il Controrinascimento è il momento strutturalmente aporetico di una realtà che non si lascia risolvere mai, in alcun mo-
mento — neppure nella fase umanistica —, in sintesi di carattere armonico. L'equilibrio, l'armonia appartengono alla storiografia, non alla storia del Rinascimento; alla storiografia — e all’‘autobiografia’ — degli intellettuali europei, non alla realtà concreta effettiva dell’epoca umanistica e rinascimentale nella sua .complessità. Sta proprio qui il contributo di fondo dei lavori di Haydn e di Battisti: essi hanno svolto una straordinaria funzione proprio per la capacità che hanno avuto di contribuire ad avviare a dissoluzione una tradizione storiografica concentrata sul
primato ‘ideologico’ dell’Umanesimo, mettendo in questione tanta parte delle interpretazioni del Rinascimento del nostro secolo e dell'universo di valori simbolici di cui esse, in chiave
etico-politica, si sono nutrite. Se si riflette a quello che l’umanesimo (e il classicismo) ha rappresentato su questo terreno, si
comprende bene come questi lavori — con la loro polemica antiumanistica e anti-classicistica — abbiano contribuito a farci riafferrare più direttamente i termini effettivi del processo storico che si svolge e si compie in Italia e in Europa fra la fine del Trecento e i primi del Seicento, ponendo le basi di quel cam-
200
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
biamento di punto di vista al quale sopra ho fatto riferimento. Ma, detto questo, un punto va ribadito: Controrinascimento e antirinascimento sono aspetti ‘interni’, direttamente costitutivi,
del Rinascimento, piuttosto che altro da esso. Quello che noi, oggi, dobbiamo fare è, precisamente, mettere a fuoco — al di
fuori di ogni semplificazione ideologica — l'età del Rinascimento come terreno di tensioni, anche contraddittorie, situate dertro e
oltre le strutture moderne classicamente intese; quale straordinario campo di istanze destinate, da un lato, a proiettarsi (e a risolversi) nel mondo moderno, dall’altro a ripiegarsi e, a volte, a
chiudersi su se stesse. Soprattutto, quello che occorre fare è individuare la pluralità di concezioni che si agita nel quadro della cultura rinascimentale, mettendo a fuoco la varietà di modelli e
di prospettive che si affrontano, e talvolta si contrappongono, sia fra autori diversi, sia negli stessi, singoli autori. Ci si è spesso interrogati sul problema della continuità tra cultura rinascimentale e cultura moderna, dando risposte molto diversificate, a volte insistendo su una continuità di tipo linea-
re, a volte sottolineando irriducibili incompatibilità, oppure insistendo sul carattere essenzialmente ‘genetico’ delle concezioni rinascimentali rispetto alla struttura complessiva delle concezioni moderne pienamente sviluppate. È in questo quadro di problemi che si è individuato anche il concetto di ‘prima età moderna’, come punto di intersezione fra ‘passato’ e ‘futuro’, fra Rinascimento e modernità. Sono tutte discussioni interessanti, a patto di aver chiaro anzitutto che quando si parla di Rinascimento si intende un insieme di processi che riguardano, essenzialmente, l’universo della cultura, e che è dunque a questo livello che vanno individuati eventuali elementi di persistenza o di discontinuità. E, poi, che all’interno dell’universo culturale vanno distinti, a loro volta, livelli e momenti diversi, il
cui sviluppo, o arresto, va misurato sullo sfondo di processi di più ampia portata, a cominciare da quelli che investono la sfera politica e istituzionale. In altre parole: sono le stesse sfere dell’universo culturale che procedono in modi e con tempi diversi: quello che vale per la scienza o per la politica non vale, ad esempio, allo stesso modo per l’etica, per l'estetica, o per le tecniche e le pratiche di vita. Fra la concezione che Bruno e Hobbes hanno della politica c'è un abisso; così come c’è un abisso fra la concezione della scienza di Bruno e Campanella da
RINASCIMENTO E CONTRORINASCIMENTO
201
un lato e quella di Galileo dall’altro. Né ha senso, come si è spesso fatto, cercare di individuare nessi a questo livello. Ci troviamo di fronte a mondi culturali, e spirituali, complessivamente diversi. Il concetto di ‘vincolo’ elaborato da Bruno, come base
del rapporto fra ‘governanti’ e ‘governati’ costituisce senza alcun dubbio un modello alternativo rispetto alle forme di dominio e di controllo che si impongono nello stato assoluto moderno, imperniate in opposte concezioni dell’uomo, della natura. E anche della scienza: il concetto bruniano di ‘vincolo’ è, infatti, ancorato a una determinatissima concezione della magia e dell’operare magico alla quale Galileo è del tutto estraneo; una concezione di carattere nettamente qualitativo, alla quale si congiunge (in modo non meccanico, ovviamente) una determinatissima concezione della lingua e, in generale, dei linguaggi umani, scientifici, naturali 7°. La quale, a sua volta, pone fra l’altro il problema cruciale, in tutti i sensi, dei rapporti fra lingue nazionali e tradizioni dialettali. Su questo terreno non sono, dunque, individuabili continuità. Ma rilevare queste discontinuità non vuol dire togliere il problema del rapporto tra Rinascimento e mondo moderno, relegando il Rinascimento nella premodernità (come si è fatto spesso negli ultimi decenni, prendendo le mosse dalla tesi della centralità e della originalità della rivoluzione scientifica moderna). Il discorso non si esaurisce su questo terreno. Prendiamo, ad esempio, sul piano storico, la questione cruciale dell’umanesimo e, sul piano storiografico, la questione dell’‘ideologia umanistica’ che ne è scaturita: l’una e l’altra strettamente connesse, come proprio la concezione dell’Umanesimo civile elaborata nel Novecento esemplarmente testimonia e conferma. È proprio Bruno che consente di riaprire dalle fondamenta il discorso sul significato e sulla funzione della tradizione umanistica (sia sul piano storico che su quello storiografico), mettendo a fuoco — e qui Haydn coglie nel segno — una prospettiva ‘decentralizzante’,
strutturalmente
estranea
alle tradizionali
concezioni di carattere antropocentrico. Muovendo dalla concezione dell’‘universo infinito’ e dei ‘mondi innumerabili’, su 30 Per la concezione bruniana del ‘vincolo’, e in genere della magia e dell’operare magico, cfr G. BRUNO, Opere magiche, edizione diretta da M. CILIBERTO, a cura di S. Bassi, E. SCAPPARONE, N. TIRINNANZI, Milano 2000.
202
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
questo terreno Bruno dischiude dunque il varco alla modernità, intrecciando in modi nuovi, e indissolubili, prospettive cosmologiche e posizioni di carattere etico, religioso e anche estetico (come dimostra, per contrasto, la complessa, e stratificata, cri-
tica svolta nei suoi confronti da una figura d’eccezione come Mersenne, il quale si sforza, precisamente, di sciogliere quel nodo — da un lato rifiutando in modo addirittura virulento le sue concezioni sull’anima e su Dio; dall’altro considerando in
termini aperti la possibilità di una prospettiva che ponga l’infinità dell’universo ?!). Né questo discorso riguarda solo Bruno: basta pensare a Machiavelli e alla sua concezione della politica, della storia, della
natura per cogliere la sua sostanziale estraneità alle concezioni umanistiche di carattere tradizionale. Nel suo pensiero c’è una consapevolezza addirittura tragica del destino delle civiltà: la decadenza di un popolo coincide con la perdita della propria libertà, della propria funzione di soggetto politico autonomo, libero, potente; coincide con l’uscire dalla storia, con il diventare
oggetto della potenza altrui. Si può -cercare di resistere, si può ‘tornare ai principi’, ma questo è, infine, il destino di ogni corpo misto, repubblica o regno che sia, in un ‘cerchio’ inesauribile: E questo è il cerchio nel quale girando tutte le repubbliche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi, perché quasi nessuna repubblica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede. Ma bene interviene che nel travagliare una repubblica, mancandole sempre consiglio e forze, diventa suddita d’uno stato propinquo che sia meglio ordinato di lei,
scrive Machiavelli dunque; anzi, più denza — di matrice religiosa. Si tratta,
nel primo libro dei Discorsi #2. Decadenza, precisamente, modelli alternativi di decabiologica, astrologica, oppure apocalitticocome ormai ben sappiamo, di un tema de-
cisivo nella cultura umanistica e rinascimentale, destinato ad
ampio, e complesso, svolgimento nei secoli moderni. Né questo può stupire. Il concetto di ‘rinascita’, di rezovatio — su cui, al?! Su Mersenne interprete di Bruno cfr Giordano Bruno. 1600-1750, prefazione di E. ?2 N. MACHIAVELLI, Discorsi sulla prima G. SASSO, note di G. INGLESE, Milano 1984,
S. RICCI, La fortuna del pensiero di GARIN, Firenze 1990, pp. 86 sgg. Deca di Tito Livio, introduzione di p. 67.
RINASCIMENTO E CONTRORINASCIMENTO
203
l’inizio del Novecento, Burdach scrisse pagine decisive — ha complesse radici religiose ed esprime appunto il sentimento ed il valore della vita che ritorna, e si rinnova; ma appunto per questo implica — e presuppone — al tempo stesso una crisi, una decadenza, un disvalore rispetto al quale si afferma il valore del
rinascere. Il che vuol dire che parlare di Rinascimento significa, simultaneamente, discorrere della fine, della decadenza, come
momento ineludibile del processo delle civiltà. Di crisi, di decadenza parlano, infatti, Leonardo Bruni, Machiavelli, Giorda-
no Bruno, Campanella, Bodin, nel quadro di un progressivo processo di relativizzazione — e secolarizzazione — della visione dello svolgimento storico, della quale è punto culminante la concezione delle conversiones elaborata da Bodin e la sua liquidazione della teoria delle quattro monarchie: alla visione universale della decadenza imperniata sul contrasto fra cristianesimo e paganesimo si sostituisce, con Bodin, l’idea tutta moderna di una molteplicità di decadenze, che spezza alle radici il modello cristiano — prima di Agostino, poi di Orosio — di storia universale, riproponendoci — ed è questo che voglio sottolineare — una visione del Rinascimento come epoca di crisi, di travagli, di inesauribili corversiones . Non per nulla un eminente storico
del mondo
antico,
Santo
Mazzarino,
ha scritto
che
«l’epoca che va da Loewenclaw (1576, Apologia di Zosimo) alla questione procopiana (pubblicazione degli Arekdota nel 1623, ad opera di Nicola Alemanni) è stata [...] in un certo senso, la più
profittevole per la fondazione di una storiografia critica sul basso impero» 34. Ma — ed è un altro punto essenziale — il problema della decadenza, e delle conversiones, ci porta direttamente a un
altro tema, anch'esso costitutivo della cultura rinascimentale, al
tema della vicissitudo rerum, nel quale la tematica stessa della decadenza si compie e si risolve, come ben si vede — per citare solo qualche autore — nei testi di Bruno, oppure negli scritti di Campanella e di Bacone e prima ancora di Pomponazzi: Unde et sic ponendo neque in Deo videbitur esse iniustitia neque crudelitas, quandoquidem unusquisque et de bono et de malo aequaliter partecipabit; nam et qui erit rex aliquando erit pauper, et qui 3 Su Bodin esiste una ricca bibliografia: mi limito qui a citare M. D. COUZINET, Histoire et méthode è la Renaissance. Une lecture de la Methodus de Jean Bodin, Paris 1996, con una ricca bibliografia alla quale rimando. 34 S. MAZZARINO, La fine del mondo antico, Milano 1988”, p. 108.
204
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
pauper aliquando rex. Quod si iterum dicatur iste videtur esse unus
ludus deorum [...] — si legge nel De fato —. Unde Plato in I De Leg: bus dixit se ignorare, cum homo sit miraculum Deum eum fecerit, an ludo an serio [...]??.
in natura, ad quid
Non intendo soffermarmi sul problema del rapporto tra Rinascimento e mondo moderno. Mi interessa sottolineare l'opportunità di uscire da una discussione tutta incentrata sul rapporto tra Rinascimento e rivoluzione scientifica, tra ermetismo e scienza moderna, che ci ha condotto, credo, in un vico-
lo cieco, facendoci talvolta perdere di vista sia l'originalità del Rinascimento che la specificità della rivoluzione scientifica moderna. E mi interessa, soprattutto,
rilevare l’importanza
che
nella rimessa in questione di questi problemi hanno avuto i concetti di Controrinascimento e di antirinascimento, e le linee
di ricerca da essi suscitate. Criticando le prospettive umanistiche di carattere tradizionale e l’antropocentrismo ad esso collegato (con tutto ciò che questo significa), e rivendicando con forza il valore, e il significato, della dimensione antigerarchica, antimoralistica, antiautoritaria — insomma, decentralizzante, su
tutti i piani — del Rinascimento, i sostenitori dell’antirinascimento e del Controrinascimento, con i limiti che ho cercato di
dire, hanno contribuito in modo consistente ad aprire strade nuove, con le quali dobbiamo continuare a fare i conti. Per noi,
oggi, il ‘problema’ del Rinascimento non coincide più con il ‘problema delle origini del mondo moderno’, come momento centrale della moderna ‘autobiografia’ — e storiografia — europea. È possibile scoprire, oggi, un altro Rinascimento, muovendo dalla consapevolezza del compimento, della fine di un’intera epoca storica, individuando nuovi campi di ricerca: dalla concezione della politica come ‘vincolo’ all’incidenza dei modelli qualitativi - di ascendenza magica, per intendersi — nelle scienze della natura e della vita; dalle arti della memoria
allo
studio, in generale, dei rapporti tra scrittura e figurazione; dai rapporti tra microcosmo e macrocosmo di fronte alla scoperta di ‘nuovi mondi’ e ‘nuove terre’ ai progetti di ‘riforma interiore; dai testi sulla dissimulazione fino alle scritture di carattere
? PETRI POMPONATII Libri quinque De fato, de libero arbitrio et de praedestinatione, edidit R. LEMAY, Padova 1957, p. 206.
RINASCIMENTO E CONTRORINASCIMENTO
205
autobiografico — da Alberti a Guicciardini, da Cardano a Campanella —: nelle quali, pur in termini obiettivi, estraniati (verrebbe da dire) è avviata un’analisi di carattere introspettivo che illustra in modo luminoso la varietà — e la complessità — delle moderne ‘scritture del sé’. Il Rinascimento di Burckhardt, di Michelet, di Gentile, di Hans Baron, il ‘Rinascimento dei
moderni’ (per riprendere il titolo di un libro molto acuto) è ormai alle nostre spalle. Ma è anche merito dei propugnatori del Controrinascimento e dell’antirinascimento, se oggi possiano fare questa affermazione.
208
PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
sto, del resto, ha garantito la persistenza del concetto di Rina-
scimento anche quando sono apparsi chiari i suoi limiti di penetrazione storica in senso stretto. Il Rinascimento, prima come mito, poi come concetto, ha strutturato l’‘autobiografia’ della
coscienza europea moderna situandosi in una dimensione eticopolitica, civile, anche religiosa, che non coincideva in modo im-
mediato con il terreno storico che esso originariamente intendeva illuminare. Sta qui una prima radice della sua durata. Ma, a questo proposito, c'è un secondo punto da notare. Gli universi storiografici non sono compatti, lineari; né persistono immobili, sempre eguali a se stessi. Sono animati da una
propria, specifica dinamica che, a sua volta, discende dalla peculiare autonomia conoscitiva del sapere storiografico. Distanziandosi dai luoghi e dalle forme della loro genesi, mondi storiografici che sembravano avviati al tramonto possono riaffiorare alla luce, situandosi entro nuovi campi di relazione con-
cettuale.
E muovendo di qui riescono nuovamente a illuminare
universi storici ormai consolidati, o in via di ridefinizione sia sul
piano ermeneutico che su quello della periodizzazione. Ovviamente, si danno molte forme di relazione. Ma è soprattutto una che, in questo caso, va notata. Molti dei principali concetti storiografici moderni si determinano per opposizione, ed hanno vita — e morte — in questa forma: il Rinascimento classicamente
inteso è inconcepibile al di fuori del rapporto originario e antagonistico con il mito e il concetto di Medio Evo. Geneticamente si configura come valore opposto a un disvalore. E questo lo schema ‘ideologico’ di Leonardo Bruni, di Lorenzo Valla, di Biondo Flavio, dispiegatosi pienamente sul piano storiografico
e su quello storico-filosofico nelle pagine di Voltaire, e, soprattutto, di D’Alembert. È precisamente questa la tradizione che oggi si è spezzata. Quel Rinascimento, quel Medio Evo sono irrimediabilmente lontani; non ci parlano più; sono tramontati. Si può dire di più: il Medio Evo tende oggi a configurarsi come valore, anche a livello di senso comune, attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Nella crisi del sapere e dell'educazione classica tende a situarsi alle origini di una rinnovata periodizzazione della storia europea. L'opposizione costituiva della modernità umanisticamente concepita si è dunque risolta, compiuta. Se il Rinascimento continua a vivere, e riaffiora, è perché ha imboccato sen-
UN'IDEA DI RINASCIMENTO
209
tieri nuovi, originali. Emancipandosi dal Medio Evo è uscito dalla cittadella burckhardtiana, stabilendo nuove — fondamen-
tali — relazioni concettuali
e storiografiche.
All’opposizione
Medio Evo/Rinascimento è subentrato il nesso Rinascimento-Ri-
voluzione scientifica. Sta qui la radice della sua ‘rinascita’. Ma non è stato, in alcun modo, un processo facile, o indolore.
2. Bisogna avere chiaro un punto: la Rivoluzione scientifica ha riaperto alle radici tutto il problema del ‘moderno’, fino a mettere in crisi, progressivamente, la stessa ragione costitutiva
del Rinascimento. Fin dalle origini il nodo dell’‘età nuova’ si è intrecciato, programmaticamente, a quello della genesi del mondo moderno, delle sue strutture fondamentali. Ora il quadro cambia. La Rivoluzione scientifica tende a collocarsi, in
modo dominante, al centro di questa problematica. Non solo. Generando nuove periodizzazioni e nuove posizioni storiografi-
che procede nel senso di un forte ridimensionamento dell’‘età nuova’, o, anche, di un suo drastico superazzento, nel quadro delle strutture principali della modernità. Da fatto il Rinascimento è diventato problema; infine si è configurato come limzite da superare
e oltrepassare.
La nuova
relazione
in cui l'età
nuova’ si è venuta situando ha dunque partorito un doppio effetto: da un lato ha riattualizzato il Rinascimento al di là delle tradizionali opposizioni; dall’altro l’ha avviato a un tramonto radicale, distaccandolo dal terreno che era stato sempre e strutturalmente suo: quello della modernità. Insomma: in questa forma di ‘rinascita’ si annidava il germe di una morte definitiva,
senza appello. In questo senso è tipica la discussione sulla magia e sull’ermetismo che ha caratterizzato tanta discussione dell’ultimo decennio. Negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta in questa ‘riscoperta’ era stato individuato uno dei contributi fondamentali del Rinascimento alla costituzione del mondo — e della scienza — moderno. Successivamente la magia è stata vista anzitutto come un ‘residuo’ da cui la scienza ha dovuto necessariamente e drasticamente emanciparsi, al fine di specificare la sua intrinseca struttura. Né la critica si è limitata a toccare questo punto capitale. Poco a poco — ma inarrestabilmente - il Rinascimento è retrocesso sullo sfondo del moderno, nel premzo-
derno. O è stato visto come fase propedeutica di un periodo
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
sto, del resto, ha garantito la persistenza del concetto di Rinascimento anche quando sono apparsi chiari i suoi limiti di penetrazione storica in senso stretto. Il Rinascimento, prima come
mito, poi come concetto, ha strutturato l’‘autobiografia’ della coscienza europea moderna situandosi in una dimensione eticopolitica, civile, anche religiosa, che non coincideva in modo im-
mediato con il terreno storico che esso originariamente intendeva illuminare. Sta qui una prima radice della sua durata. Ma, a questo proposito, c'è un secondo punto da notare. Gli universi storiografici non sono compatti, lineari; né persistono immobili, sempre eguali a se stessi. Sono animati da una propria, specifica dinamica che, a sua volta, discende dalla peculiare autonomia conoscitiva del sapere storiografico. Di-
stanziandosi dai luoghi e dalle forme della loro genesi, mondi storiografici che sembravano avviati al tramonto possono riaffiorare alla luce, situandosi entro nuovi campi di relazione con-
cettuale.
E muovendo di qui riescono nuovamente a illuminare
universi storici ormai consolidati, o in via di ridefinizione sia sul
piano ermeneutico che su quello della periodizzazione. Ovviamente, si danno molte forme di relazione. Ma è soprattutto una che, in questo caso, va notata. Molti dei principali concetti storiografici moderni si determinano per opposizione, ed hanno vita — e morte — in questa forma: il Rinascimento classicamente
inteso è inconcepibile al di fuori del rapporto originario e antagonistico con il mito e il concetto di Medio Evo. Geneticamente si configura come valore opposto a un disvalore. È questo lo schema
‘ideologico’ di Leonardo
Bruni, di Lorenzo Valla, di
Biondo Flavio, dispiegatosi pienamente sul piano storiografico e su quello storico-filosofico nelle pagine di Voltaire, e, soprattutto, di D’Alembert. È precisamente questa la tradizione che oggi si è spezzata. Quel Rinascimento, quel Medio Evo sono irrimediabilmente
lontani; non ci parlano più; sono tramontati. Si può dire di più: il Medio Evo tende oggi a configurarsi come valore, anche a livello di senso comune, attraverso i mezzi di comunicazione di
massa. Nella crisi del sapere e dell'educazione classica tende a situarsi alle origini di una rinnovata periodizzazione della storia europea. L'opposizione costituiva della modernità umanisticamente concepita si è dunque risolta, compiuta. Se il Rinascimento continua a vivere, e riaffiora, è perché ha imboccato sen-
UN'IDEA DI RINASCIMENTO
209
tieri nuovi, originali. Emancipandosi dal Medio Evo è uscito dalla cittadella burckhardtiana, stabilendo nuove — fondamentali — relazioni concettuali e storiografiche. All’opposizione Medio Evo/Rinascimento è subentrato il nesso Rinascimento-Ri-
voluzione scientifica. Sta qui la radice della sua ‘rinascita’. Ma non è stato, in alcun modo, un processo facile, o indolore.
2. Bisogna avere chiaro un punto: la Rivoluzione scientifica ha riaperto alle radici tutto il problema del ‘moderno’, fino a mettere in crisi, progressivamente, la stessa ragione costitutiva
del Rinascimento. Fin dalle origini il nodo dell’‘età nuova’ si è intrecciato, programmaticamente, a quello della genesi del mondo moderno, delle sue strutture fondamentali. Ora il qua-
dro cambia. La Rivoluzione scientifica tende a collocarsi, in modo dominante, al centro di questa problematica. Non solo. Generando nuove periodizzazioni e nuove posizioni storiografi-
che procede nel senso di un forte ridimensionamento dell’‘età nuova’, o, anche, di un suo drastico superazzento, nel quadro
delle strutture principali della modernità. Da fatto il Rinascimento è diventato problema; infine si è configurato come limite
da superare e oltrepassare. La nuova relazione in cui l'età nuova’ si è venuta situando ha dunque partorito un doppio effetto: da un lato ha riattualizzato il Rinascimento al di là delle tradizionali opposizioni; dall'altro l’ha avviato a un tramonto radicale, distaccandolo dal terreno che era stato sempre e strutturalmente suo: quello della modernità. Insomma: in questa forma di ‘rinascita’ si annidava il germe di una morte definitiva, senza appello. In questo senso è tipica la discussione sulla magia e sull’ermetismo che ha caratterizzato tanta discussione dell'ultimo decennio. Negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta in questa ‘riscoperta’ era stato individuato uno dei contributi fondamentali del Rinascimento alla costituzione del mondo — e della scienza — moderno. Successivamente la magia è stata vista anzitutto come un ‘residuo’ da cui la scienza ha dovuto necessariamente e drasticamente emanciparsi, al fine di specificare la sua intrinseca struttura. Né la critica si è limitata a toccare questo punto capitale. Poco a poco — ma inarrestabilmente — il Rinascimento è retrocesso sullo sfondo del moderno, nel prerzoderno. O è stato visto come fase propedeutica di un periodo
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
storico in sé autonomo e autosufficiente, o è stato considerato
come aspetto ‘regressivo’ di un processo incentrato nella determinazione della ragione critica moderna. In entrambi i casi quello che già era stato fondamento del moderno, diventa arretratezza, limite negativo. Si incrina alle radici lo schema storiografico e teorico messo a base del Discorso preliminare di D'Alembert, imperniato nella connessione organica di Rinascimento e Illuminismo. La modernità esibisce nuovi padri, nuove strutture, nuove dimensioni critiche. Appunto: nel quadro delineato della Rivoluzione scientifica il Rinascimento sembra riaffiorare solo per morire in modo radicale. Ma questo è solo un primo aspetto del problema. A vederle da vicino le cose appaiono meno semplici, più intricate. Paradossalmente proprio nel momento più acuto del tramonto, il ‘tema’ del Rinascimento è tornato a reimporsi all’attenzione. Ma in modi nuovi, originali. Si è risituato al centro della di-
scussione sul moderno, senza ripiegare nella riaffermazione di vecchie opposizioni, nell’apologia dell'ideologia umanistica, o in una critica distruttiva della scienza. Sporgendosi oltre l Umanesimo — e confrontandosi dialetticamente con i princìpi, le strutture, le finalità della Rivoluzione scientifica — ha realizzato prospettive di senso che nel tradizionale quadro critico apparivano impossibili, o strutturalmente limitate. Oltre le barriere della erudizione e della filologia è ridiventato punto essenziale del dibattito teorico e storiografico contemporaneo. Nel punto massimo di crisi delle strutture moderne, il Rinascimento è riaf-
fiorato come archetipo originario di una idea più larga e complessa di modernità. 3. Illuminare questo nodo critico, si è detto, non è facile.
Ma soprattutto un punto va considerato, quando si tratta di concetti come questi. Incessantemente nella storiografia penetrano specifiche posizioni teoriche. L'indagine sul Rinascimento, sulla Rivoluzione scientifica, sulla modernità si nutre di teoria (di una determinata forma di teoria). Si può esserne coscienti oppure no, ma stanno così le cose. Nel mondo storiografico agiscono costantemente peculiari visioni dell’uomo, della natura, della ragione. Schematizzando. al massimo: nella rivendicazione della Rivoluzione
scientifica
agiscono,
in genere,
una
concezione
UN'IDEA DI RINASCIMENTO
211
della ‘ragione’ essenzialmente come ‘scienza’; una concezione della ‘scienza’
come
‘scienza della natura’;
una
concezione
della ‘scienza della natura’ di carattere ‘quantitativo-meccanicistico’. A loro volta queste posizioni si situano in una prospettiva filosofico-storica che è quella della /zicizzazione, cioè dell’autolegittimazione della modernità. La critica della magia — cui prima si faceva cenno — ha questo fondamento. E qui germina una periodizzazione del mondo moderno basata sulla pubblicazione del De Revolutionibus di Niccolò Copernico; sulla centralità di figure come Bacone, Cartesio, Newton; sul-
l'emarginazione di tutto ciò che appare estraneo a questo schema perché ‘vitale’, ‘prescientifico’, ‘premoderno?’. Se si riflette,
in molte di queste posizioni riaffiorano aspetti costitutivi dello schema di D’Alembert, sia sul piano delle ‘figure’ che su quello dei ‘concetti’. Ma con una differenza fondamentale: il rifiuto dei padri, la cesura con il Rinascimento. La ‘coscienza’ sto-
riografica contemporanea ha contratto progressivamente il terreno dell’origine. Ma questo, a ben vedere, non è privo di qualche solida ragione. Posizioni come quelle ora ricordate si sono anche contrapposte a una visione della modernità — e, in questo quadro, del Rinascimento — che ha battuto sistematicamente sul primato, contro la ragione, dell’emozione, del sentimento, dell’intuizione.
E che ha privilegiato in maniera programmatica figure e posizioni ‘regressive’ — o perché effettivamente estranee al mondo moderno, e alla sua complessa dinamica costituiva; o perché illuminate solo nei loro aspetti rivolti al passato (anche a costo di notevoli semplificazioni). Non solo. Queste posizioni si sono costantemente opposte a una concezione del ‘destino’ dell’Occidente in termini di secolarizzazione. Hanno costituito una barriera nei confronti di una visione della storia occidentale come tramonto e decadenza imperniata nella riduzione della scienza a tecnica, e della tecnica a puro strumento
di dominio, sullo
sfondo di un progressivo indebolimento nel secolo del principio originario. Sono state, in sintesi, posizioni importanti.
Ma oggi non è difficile individuare i limiti di questa impostazione. Schematizzando ancora: essi risiedono nella costituzione di un concetto di ragione che si determina, a tutti i livelli, per un intrinseco e progressivo processo di selezione, di riduzione, di astrazione. Il principio selettivo della Rivoluzione
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
scientifica quindi s'impone come limite necessario e insuperabile della complessità e della pluralità di tutte le sfere degli universi umani, civili, naturali. Opponendosi in modo frontale alla secolarizzazione, la laicizzazione — cioè l’autolegittimazione — sbocca in una programmatica semplificazione della ‘pienezza’ rinascimentale della vita. Tutto questo non è stato privo di conseguenze anche sul piano del sapere storiografico. S’offusca l’intreccio essenziale di vecchio e di nuovo, di antiche superstizioni e di rinnovate, rivoluzionarie concezioni del mondo e dell’uomo. Decade l’attenzione per le fasi di crisi, di trapasso, di
svolta. Si ricostituiscono in modo rigido i confini disciplinari nell’ambito di un’enciclopedia del sapere nettamente delimitato. Oltre l’ombra della contaminazione, l’analisi si incentra sulle
categorie selettive fondamentali della modernità, illuminate alla luce di puri paradigmi scientifici. Effettivamente, in questo quadro il Rinascimento sembra appartenere a un altro mondo, a un’altra storia: una storia finita, del tutto compiuta. 4. Eppure, come ho già detto, a vederle da vicino le cose sono più complesse, e contraddittorie. Dalla lunga crisi delle strutture centrali della modernità è scaturito un esito, a prima
vista, singolare, anzi paradossale. Il Rinascimento si è ripresentato sulla scena, nel quadro di nuove prospettive storiografiche e teoriche. Ma proprio qui sta il paradosso. Quello che prima sembrava il suo limite fondamentale — la ragione della sua premodernità — è riaffiorato come motivo di vitalità. Il ‘tema’ del Rinascimento ha risituato al centro della discussione quel principio della ‘pienezza’ della vita che dall’insieme della Rivoluzione scientifica era stato programmaticamente limitato, contenuto, controllato, secondo precisi criteri
selettivi. Rispostando il centro dell’analisi al di qua del processo di selezione e di riduzione da cui germina il modello scientifico moderno, la riscoperta degli archetipi rinascimentali riapre la via a una riconsiderazione della pluralità e della complessità della ‘vita’, nell’ambito di un mobile e dinamico ridelinearsi e riprospettarsi di campi disciplinari e, più radicalmente, di livelli di realtà. Riaffiora, in sintesi, un’idea più larga di uomo,
di natura,
di ragione, intimamente
connesse,
sul
piano storiografico, alla messa a fuoco di quelle figure e posi-
UN'IDEA DI RINASCIMENTO
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zioni più nettamente impegnate nella rivendicazione della pluridimensionalità e della ‘pienezza’ dei piani storico-vitali. Questa — non altra — è la radice di quella vera e propria Bruno-Renaissance che si è avuta negli ultimi anni. Ma qui sta anche la ragione di un rinnovato interesse per esperienze linguistiche come quella di Teofilo Folengo e, più in generale, della forte, continua riconsiderazione della vita religiosa del Cinquecento, anzitutto nelle sue tendenze dissidenti, ereticali, anche popolari. Al fondo è la questione della modernità che attraverso il Rinascimento tende a riproblematizzarsi, fin dalle fondamenta. Si incrina una visione unilineare e semplificata delle strutture fondamentali del mondo moderno. Si individua la pluralità di linee e di tendenze che, muovendo dalla comune matrice rinascimentale, hanno caratterizzato il mondo moderno, sboccando in
forme culturali differenti, a volte anche contrapposte, ma tutte di lungo, lunghissimo periodo. Sembra riconfermarsi, a prima vista, un vecchio intreccio. Ma è proprio su questo nodo capitale che l'indagine è progredita in modo più spedito e chiarificatore, al di là di vecchie ambiguità. Si pensi, per esempio, alla
questione fondamentale dell’izzzaginazione nel Rinascimento. Se ne è sottolineata giustamente l’importanza eccezionale. Ma si sono anche prese con nettezza le distanze da quell’apologia dell’emozione, dell’intuizione, del sentimento che aveva distin-
to autorevole parte della storiografia degli anni Sessanta, creando vere e proprie mode culturali. A ben vedere, è riaffiorato quello che era stato il motivo ispiratore della ‘scoperta’ dell’ermetismo fatta tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, quando
-— nel pieno della crisi delle linee orientatrici della nostra civiltà — si era mirato, essenzialmente, all’individuazione di un con-
cetto più categorie posizione continua
largo di esperienza e di ragione. Per riprendere due oggi assai diffuse e sopra utilizzate: sta cadendo l’oprigida di /aicizzazione e secolarizzazione. La realtà a mostrare un volto più intricato e multiforme di
qualsiasi rigida, formalistica, definizione.
5. Situato dalla Rivoluzione scientifica nel prerzoderno, il
Rinascimento riappare, in sintesi, come artefice — e archetipo — di un'idea più estesa e plurale di modernità. Spezzando antichi confini, allude a orizzonti più vasti, sul piano filosofico come su quello religioso, civile, scientifico, linguistico. Da oggetto di
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
superamento si riconfigura, all'opposto, come principio esplicativo del limite intrinseco alla Rivoluzione scientifica, dell’unilateralità — che non vuol dire falsità, tanto meno
danno-
sità — dei suoi processi di selezione, di riduzione, di astrazione. In modi singolari e paradossali cominciano, dunque, a incrinarsi schemi storiografici che apparivano consolidati, quasi inattaccabili. Ma, si è già accennato, questa ‘rinascita’ non è un puro e semplice ritorno del ‘mito’ classico, o del modello di Michelet, di Burckhardt,
di Gentile. Si situa anche oltre l’orizzonte di
quella cultura di matrice liberale che nel Rinascimento aveva individuato un essenziale caposaldo difensivo durante gli anni Trenta, nel periodo dei totalitarismi. Ciò che rinasce — in modo non indolore, contraddittorio — è un’altra cosa. Germina dopo l’esaurirsi dell'opposizione tradizionale con il mondo medioevale, studiato, ormai, nella sua autonomia specifica e nelle sue interne differenziazioni, al di là di vecchie condanne e cesure.
Ma oltrepassa, al tempo stesso, quell’ideologia umanistica che così fortemente ha distinto le interpretazioni rinascimentali di questo nostro secolo. Di fatto, ha perso peso una periodizzazione della storia europea moderna come ‘età umanistica’ compresa tra Umanesimo e Illuminismo. Gli «umanisti» che, nel 1955, Delio Cantimori considerava ancora «presenti» si sono ri-
tratti sullo sfondo del quadro. La ‘continuità storica’ cui essi avevano dato inizio — e che si è dispiegata tra Trecento e Settecento, perdurando fino al Novecento - si è infranta, spezzata. È vero: Saint-Just «invocava Bruto e Scipione, Licurgo e Solone», e alla «scuola dell’Umanesimo gesuitico era andato anche il Robespierre». Ma è appunto questo che oggi è radicalmente in questione. E con l’educazione umanistica sono in crisi le discipline cui essa si intrecciava e, soprattutto, i fondamenti teorici dai quali unitariamente germinavano. Non per nulla, del resto, su questo problema si è arrovellato fino alla fine uno studioso come Arnaldo Momigliano, interrogandosi sul destino della «storia in un’età di ideologie». Qualunque sia la diagnosi, la cesura appare netta, irreversibile. L'‘età umanistica’ è compiuta. Se vuole ancora dirci qualcosa il Rinascimento deve imboccare nuovi sentieri. In sintesi: deve ridiventare ‘problema’. E riscoprire, o/tre l’Umanesimo e dopo la Rivoluzione scientifica, il senso positivo della pluralità,
UN'IDEA DI RINASCIMENTO
215
della pienezza, dell’universo infinito. Su questo sfondo sono anzitutto due prospettive critiche che s'impongono all’indagine sul Rinascimento. Al di là del primato umanistico dell’uomo vanno rianalizzati in modo prioritario il motivo della ‘vita’, dei suoi livelli di espressione, e gli atteggiamenti e le posizioni di carattere etico-politico, religioso, scientifico, linguistico, filosofico che da questa radice scaturiscono. Ma ciò non basta. Assieme alle ‘scienze della natura’ — e a quanto esse rappresentano — vanno rimesse a fuoco le ‘scienze della vita’ nella loro accezione più larga e complessa. Problematizzando dall’interno i criteri selettivi della Rivoluzione scientifica, vanno situati al centro dell’analisi i concetti di vita, di natura, di esperienza, di ragione. Spezzando antiche — e importanti — tradizioni storio-
grafiche, la ricerca sugli archetipi rinascimentali può riaprire spazi storici che sembravano compiuti, destini individuali e collettivi in apparenza conclusi, posizioni critiche a prima vista dominanti e indiscutibili. Ma, come sta accadendo in larga parte degli studi di questi anni, può farlo senza scadere nelle nostalgie regressive, nell’apologia del sentimento o dell’immaginazione a sé considerati come valori indiscriminatamente positivi, in
un’azione di dissolvimento della ragione scientifica moderna. Tanto meno deve precipitare nel rifiuto del ‘buon metodo storico’. Tutt'altro. Ma, sulla base di indagini rigorose e circoscritte sul Rinascimento, si può anche contribuire ad affronta-
re il nodo di un concetto più largo e più esteso di ‘ragione’. Questo è il problema. E qui storia e storiografia possono oggi trovare un fecondo e dinamico punto di equilibrio (pur nella consapevolezza dell’asimmetria fondamentale dei due campi rispettivi). Si sa, ogni problema ha i suoi autori, i suoi punti di riferimento spazio-temporali. Non si definisce astrattamente in un laboratorio. Né è pensabile che un concetto come questo possa fare eccezione ad un principio in cui si manifesta il carattere più autonomo e più specifico del sapere storiografico. Il problema del Rinascimento oggi si intreccia, in primo luogo, ai nomi di Bruno e di Machiavelli, di Folengo e di Copernico, di Erasmo e di Guicciardini. Sono grandi nomi, nomi classici. E sono citati a puro titolo d'esempio. Appartengono però tutti, e volutamente, al Cinquecento, a un secolo lungo di crisi e di
trasformazioni radicali. Del resto la forza di un classico sta appunto nella capacità di continuare a parlarci e a interrogarci,
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PARTE SECONDA: SUL CONCETTO DI RINASCIMENTO
nella capacità di sporgere oltre le muraglie storico. Ma qui c’è qualcosa d’altro da notare, tale. Si può farlo con le parole di un filosofo che è stato anche uno straordinario storico della
del suo tempo e di fondamencontemporaneo filosofia del Ri-
nascimento: questi autori passati non sono passato; sono pregni
di un futuro che aspetta ancora di dischiudersi in tutta la sua complessità.
PARTE TERZA
INTERPRETAZIONI
DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
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I FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
È bene sottolineare, in via preliminare, un punto: il proble-
ma dell’autobiografia s’intreccia strutturalmente al problema teoretico della conoscenza e della coscienza di sé. In altre parole, s’intreccia alla questione del valore e del significato dell’individualità e dell’individuo. È in questo quadro che si pone il problema del rapporto tra opera e individualità, tra opera e scrittura. Che tipo di rapporto c’è tra la prima e la seconda? In che relazione stanno? L'individuo si risolve nell'opera, oppure è al tempo stesso rell’opera e oltre l’opera? E la scrittura è ‘luogo’ di un'effettiva conoscenza di sé, oppure si presenta come una ‘figura’ della dissimulazione? Al di là dunque delle questioni di ordine retorico e letterario che coinvolge, quello dell’autobiografia è un tema squisitamente filosofico, geneticamente connesso alla problematica del sé, dell’io, dell'individuo. Eppure, proprio da questo punto di vista, Croce presenta una situazione straordinaria, quasi paradossale, almeno a un
primo sguardo. È un critico feroce dell’individuo, e al tempo stesso scrive un Contributo alla critica di me stesso che ha fatto epoca nelle scritture autobiografiche del secolo. Ma si tratta effettivamente di un paradosso? Sta qui il nodo teorico da sciogliere. Scrivendo un tale testo Croce resta fedele al suo pensiero — alla sua filosofia — oppure entra in contraddizione con se stesso? E, in ogni caso, da dove germina il progetto, e l’esecuzione, di uno scritto come il Contributo?
1. Nella prima pagina della sua Vita, Henry Brulard, cioè Henri Beyle, insomma Stendhal, così scrive: «Sto per compiere cinquant'anni, sarebbe tempo di conoscermi. Che cosa sono stato, che cosa sono? Sarei davvero molto imbarazzato a dirlo». ! STENDHAL, Vita di Henry Brulard, Torino 1976, p. 4.
220
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
Come Brulard anche Croce scrive il Contributo alla critica di me stesso, che è dell’aprile del 1915, alle soglie dei cinquanta. Su questo punto si distanzia quindi dall'amico Mann che di lì a poco,
nelle Considerazioni
di un
impolitico,
individuerà
nei
«quarant'anni» la svolta della vita2.Prossimo a Stendhal nella scelta cronologica, Croce ne è, però, assai lontano in tutto il
resto. Henry vedere mappa
E questo anzitutto per un motivo, che è fondamentale: Brulard dubita, con Shakespeare, che «un occhio possa se stesso» }, e perciò cerca di conoscersi costruendo una umana e spaziale ricca di dettagli, di particolari, di fatti
anche minimi, abbandonandosi a una sorta di scrittura incontrollata, quasi automatica, in un intreccio continuo di presente
e passato. Cerca, cioè, di specchiarsi in se medesimo,
spec-
chiandosi nel mondo, nella varietà e nella molteplicità delle esperienze fatte, delle persone incontrate, delle donne amate, delle sensazioni avute, in un movimento continuo, che cresce, senza sosta e senza ordine, su di sé. A differenza di Stendhal, Croce crede, invece, che l’occhio possa vedersi, guardarsi.
Sta qui la lontananza: «Perché ciò che lo storico ha fatto ad altri, non dovrebbe fare a se stesso?»: è con questa battuta di Goethe
che si apre, sintomaticamente,
il Contributo, illu-
minando una scelta che è, al tempo stesso, un programma di lavoro 4. Lontananza
dunque, tra Croce e Stendhal, ma anche con-
vergenza, e su un punto decisivo: l’io, il 707, di cui si parla nel
Contributo non è quello, per intendersi, che domina nelle Coxfessioni di Jean-Jacques, filtrando e rispecchiando in se stesso il mondo intero, la realtà vissuta e quella immaginata. Come Stendhal, Croce odia dire «io», «io». «Quel mucchio spaventevole di “Io” e di “Me”; c’è di che irritare il lettore più benevo-
2 T. MANN, Considerazioni di un impolitico, Bari 1967 (nuova ed. Milano 1997), p. 7: «Quarant'anni è la svolta della vita; e [...] non è cosa da poco quando la svolta della propria vita è accompagnata dai tuoni di una svolta del mondo e diviene un fatto tremendo per la propria coscienza». ? STENDHAL, Vita di Henry Brulard, cit., p. 4. Si tratta, peraltro, di un tema
filosofico classico: cfr, ad esempio, PLATONE, Alcibiade maggiore, 132 D-133 C. ' B. CROCE, Contributo alla critica di me stesso, in ID., Etica e politica, Bari
1967 (ultima ed. Milano 1994), p. 309. Del Contributo è uscita anche una preziosa edizione a cura di G. GaLaAsso, Milano 20004.
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
221
lo», scrive Henry Brulard?. «I mistici, come Giovanni della Croce, conoscono il “santo aborrimento di se stesso”; Pascal, il
mot haissable; Baudelaire, la preghiera a Dio che ci porga forza e coraggio a guardare la nostra anima e il nostro corpo sans dégout», ribatte per parte sua Croce nel 1947, riprendendo con asprezza, quasi alla fine della vita, un motivo strutturale di tutto il suo lavoro filosofico, in polemica con «personalisti» ed
«esistenzialisti» °. E una convergenza importante, da notare; ma sullo sfondo di posizioni che restano, al fondo, assai diverse: dopo quelle battute preliminari, Stendhal — che non per caso, e a differenza
di Croce, amava la musica appassionatamente — si fa un’altra domanda, non meno importante, ponendo un problema ai suoi occhi cruciale da ogni punto di vista: «A rigore si potrebbe scrivere in terza persona
‘fece’, ‘disse’. Sì, ma come
rendere conto
dei moti interni dell’anima?». In altri termini: come porre la questione dell’io, del 770f — insomma la questione dell’identità
personale — senza correre, al tempo stesso, il rischio della scrittura del sé, dell’ecriture du moi? «[...] le mie Confessioni non esisteranno più trent'anni dopo la stampa, se gli ‘io’ e i ‘me’ infastidiranno troppo i lettori; eppure avrò avuto il piacere di scriverle e di fare a fondo il mio esame di coscienza», scrive
Brulard 7. Sta qui — in questa consapevolézza, che è al tempo stesso filosofica e stilistica — la radice della scrittura della Vita di Henry: «una sorta di scrittura incontrollata, quasi automati-
ca». Essa germina dalla sua «assoluta fiducia nel ‘primo getto’ e nella ‘non correzione’, anche quando correggere gli farebbe assai comodo», una fiducia nata, a sua volta, «dalla certezza che
il primo momento è quello meno contaminato dalla ‘letteratura» 8. Scrittura di getto: è una scelta opposta a quella fatta da Croce nel Contributo che, pure, come è stato giustamente osservato, rappresenta «il capolavoro dell’espressione crociana», anzi, «il culmine espressivo» e «anche il culmine intellettivo del
? STENDHAL, Vita di Henry Brulard, cit., p. 5 6 B. CROCE, Filosofia e storiografia, Bari 1949, pp. 252-253.
? STENDHAL, Vita di Henry Brulard, cit., pp. 6-7. 8 G. MACCHIA, Introduzione a STENDHAL, Vita di Henry Brulard. Ricordi di egotismo, Milano 1964, pp. XI-XNI.
222
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
Croce»?. Né si tratta, ovviamente, di una scelta casuale, come ri-
sulta, con tutta evidenza, da un confronto, appena abbozzato, fra il Contributo e le Memorie della mia vita (cioè gli «appunti che sono stati adoprati e sostituiti dal Contributo alla critica di me stesso»). Scaturisce, anch’essa, da una serie di motivi filoso-
fici precisi: intanto, a Croce, nel racconto autobiografico non interessa tanto rilevare la passione, quanto la sua trasformazione (secondo il motto che apre, come un programma, i Framzzzenti di etica: «quod nunc ratio est, impetus ante fuit»). In secondo luogo — ed è questo il punto teoricamente capitale —, Croce ha una chiara, nettissima, concezione di chi debba essere il soggetto effettivo del racconto autobiografico. Ciò che l’occhio può vedere non è — e non può mai essere — l’«empirico o astratto individuo», quella «vanità che par persona», «la nostra individualità» che «è una parvenza fissata dal nome, cioè da una con-
venzione» !°. Per vedere se stesso, l'occhio deve guardare all’opera, che è nostra e non è nostra, perché è, al tempo stesso,
di tutti gli altri uomini, essendo opera del tutto. E questo vale sia per il racconto autobiografico che per quello biografico, vale cioè per ogni tipo di storia, per una ragione che è il fondamento di tutto il ragionamento crociano: Nella storia che sia storia i personaggi che agiscono come drarzatis personae sono atteggiamenti morali, atteggiamenti di pensiero, atteggiamenti estetici, atteggiamenti religiosi, e lo spirito dei tempi e lo spirito dei popoli e le correnti dominanti e quelle di opposizione, e simili, alle quali talvolta si danno nomi di persone, che di queste cose
tutte sono non gli autori, ma i simboli, scrive nel 1948. E così continua, riconcertando una cellula ori-
ginaria della sua filosofia, che proprio nel Contributo tocca un punto di massima determinazione critica ed espositiva: La biografia stessa, la seria, la grande biografia, quando assurge a storia, s'idealizza e coincide con la storia dell’opera della quale l’individuo è stato il rappresentante e il simbolo; e quando resta mera biografia, decade a cronaca o si converte in una tipizzazione psicolo-
? CONTINI, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, cit., p. 5. !° CROCE, I/ carattere della filosofia moderna, cit., p. 153; ID., Filosofia e sto-
riografia, cit., p. 251; ID., I trapassati, in Etica e politica, cit., p. 25.
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
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gica alla quale collabora l'immaginazione come si dice (e la parola suona quasi ironica), integratrice !!
Sta qui la radice schiettamente filosofica dello stile biografico e autobiografico di Croce e, in generale, di tutta la sua opera, se è vero, come è vero per Croce, che ogni vera storia è sempre autobiografia. E sta qui dunque la radice dello stile del Contributo alla critica di me stesso, che della posizione filosofica di Croce è in ogni senso un'espressione estrema, un esperimento condotto fino in fondo, sulla propria pelle, in prima persona, con assoluta oltranza e massima consapevolezza: «quel mio scrittarello autobiografico è, più che altro, un saggio pedagogico», scrive a Gentile il 16 maggio del 1918; «non avendo altra pratica di scuola che quella che ho fatta io a me stesso, è quello l’unico saggio che potessi mai comporre!» !°
2. Il ‘disprezzo’ di Croce per l’io, e la sua concezione della biografia, hanno una radice teorica precisa, determinatissima. Ma a leggere le lettere a Gentile, a Vossler e anche
a Omodeo,
o altri appunti di carattere privato — insomma, leggendo quel tipo di scritti che Croce avrebbe invitato a lasciar perdere, specie quando concernevano la sua persona — si può vedere abbastanza agevolmente che, al di là della posizione filosofica stricto sensu, quel disprezzo affonda le radici in tin terreno complesso, ambiguo, oscuro, al quale Croce guarda sempre con timore, prendendone continuamente le distanze. Vale dunque la pena di citare in modo esteso qualcuno di questi testi tanto singolari,
quanto in genere trascurati dalla critica crociana. «Io non soglio guardarmi allo specchio», scrive a Vossler il 24 dicembre del 1935 !. Invece si osservava, di continuo: «con le fattezze mi vedo e col pensiero mi sento molto vivo», scrive, infatti, nella
stessa lettera !*. E tornando sullo stesso tema, così si esprime, in un biglietto sempre a Vossler, del 24 febbraio del 1941: «in verità io mi sento sempre alacre intellettualmente, e non ho da lamentare ancora alcuna screpolatura nel mio corpo» !. Non !l CROCE, Filosofia e storiografia, cit., pp. 120-121. 12 B. CROCE, Lettere a Giovanni Gentile, 1896-1924, a cura di A. CROCE, in-
troduzione di G. SAsso, Milano 1981, p. 559. 13 Carteggio Croce-Vossler, cit., p. 355. SAIDIÙ
15 Ivi, cit., p. 379.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
sono battute casuali, o estemporanee. Al contrario: Croce fu lungamente dominato, anzi ossessionato da un rapporto assai complesso con la propria ‘empiricità’, con la propria individualità, col proprio corpo — sentito sempre come un fardello necessario, un «cavallo»
che si cavalca per necessità,
come
una
«macchina» che bisogna curare per poter svolgere il proprio lavoro, il proprio compito nel mondo. Non si tratta di inclinare a facili psicologismi; ma, assai diversamente da quanto non lascino pensare le immagini in chiave ‘erasmiana’ e ‘goethiana’, Croce, per quanto ‘trionfatore’, fu
sempre «tributario delle Madri, dell’irrazionale». E, sul piano empirico, individuale, si sentì costantemente insidiato, dall’inizio alla fine, dalla malattia, dalla paura della malattia, che, ai
suoi occhi — ed è anche questo un punto rilevante —, è sempre malattia nervosa, colta sia nel suo lato ‘cosciente’ che in quello ‘subcosciente’. Anche qui basta citare qualche pagina del suo epistolario, per vedere come questo tema — cioè la paura della perdita di sé — torni ossessivamente, e scandisca, per un lungo tratto, la sua vita, sia in rapporto a se stesso che agli amici più cari. «Sono di nuovo in uno stato di depressione nervosa e di umore nero, che m’impedisce di far qualsiasi cosa», scrive a Gentile nel 1903; «con la neurastenia ci vuol pazienza. Vi raccomando di non preoccuparvi, e di aiutare con l’energia psichica la guarigione che non mancherà», gli dice nel 1906; e nel 1907 ribatte: «non impegnarti troppo con l’animo (bada sopra tutto all’appetizione subcosciente), perché non ti accada, allorché avrai vinto la partita, di perdere per un altro rispetto e in modo più grave, cadendo in una depressione nervosa [...]» !°. Sono, appunto, motivi ricorrenti, destinati a toccare il diapason soprattutto nei momenti di crisi, di difficoltà, quando affiora in piena luce il carattere di un uomo sensibilissimo, lungamente alla ricerca di se stesso e lungamente afflitto da una ‘diffidenza’ sulle proprie forze, vulnerabile ed espostissimo alle critiche, specialmente di quelle persone sulle quali si rendeva conto di aver sbagliato giudizio, con un senso di responsabilità così tormentoso da trasformarsi, quasi, in senso di colpa: «Devo con-
fessarvi che il sudicio libro del P.[orena] mi ha fatto del male:
16 CROCE, Lettere a Giovanni Gentile, cit., pp. 151-152, 194, 275.
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
225
non immediatamente, ma dopo un paio di giorni», scrive a Gentile nell'agosto del 1905. E sono ormai dieci giorni che io soffro di una fortissima depressione nervosa, con insonnia, umor nero, impossibilità di occuparmi in un qualsiasi lavoro. È vero, che da qualche tempo mi sentivo nervoso, e inchinevole alla tristezza. Ma la sudiceria del P., che mi ha raggiunto qui dove mi trovo in solitudine, ha determinato il processo nervoso, che potrebbe dirsi una vera malattia [...] !”.
Non è, mi pare, il caso di insistere su questi testi; mi preme sottolineare invece un secondo punto strettamente connesso a quello prima visto. Pronto a controllarsi, a sorvegliarsi, a guardarsi «con occhio medico», pronto, perfino, a temersi, è nel
lavoro continuo e assiduo («mi riposo nella fatica e fatico nel riposo che mi riempie di tristi e insopportabili pensieri», dice una volta a Vossler, riprendendo un fopos delle sue lettere private 15), nel lavoro metodico, programmato anno per anno, che Croce individua, con totale consapevolezza, la propria cura, la propria terapia, il modo per sfuggire alla malattia, alla nevrosi, alla depressione, all’ostinata malinconia: «nelle malattie nervose la preoccupazione d’animo è un fattore di primaria importanza; e cerca quindi di non preoccuparti», scrive, appunto, a Gentile nel giugno del 1907. E così prosegue: «ciò che ti raccomando di nuovo è di farti un piano di lavori, e di non accettare lavori extra. Io debbo a ciò se non mi sono ancora rovinato i
nervi» !?. Scritta in punta di penna, è una confessione tanto più preziosa: oltre a esprimere il sentimento di un’amicizia rarissima che tende quasi naturalmente a trasformarsi in qualcosa di più profondo, essa getta anche luce sull’origine ‘pratica’ dei «piani di lavoro» di Croce, dei suoi scritti autobiografici, degli
stessi Taccuini di lavoro. Si situano uno dopo l’altro, con assoluta consapevolezza, in un processo di controllo e di difesa di una ‘identità’, di cui si avverte, momento per momento, un'in-
tima, e insuperabile, precarietà. E questa anche la radice del Contributo del 1915: autobiografia mentale, esso scaturisce dal
«regno delle Madri», nasce dal bisogno di mettere ordine in se Ma Tvi,p.. 1/5. 18 Carteggio Croce-Vossler, cit., p. 361. 19 CROCE, Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 249.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
stesso in un momento di crisi radicale, quando sembrano sovvertirsi, e precipitare, i fondamenti di un intero mondo. Del resto, questo è il carattere specifico dell’autobiografia: essa, scrive Croce, sorge a ogni tratto della nostra vita, a ogni pausa della nostra azione, sempre che una oscurità si addensa in noi e ci sforza a procacciarci luce, ad acquistare coscienza ed intelligenza di quel che si è fatto ed è accaduto; e l’autobiografia, nella sua forma letteraria, corrisponde a questo perpetuo momento ideale °°.
3. Si potrebbe osservare che questi testi non riguardano, né servono a capire, la filosofia di Croce, compreso il Contributo.
Ma questo significherebbe solamente restare nell'orizzonte teorico crociano sul punto cruciale del rapporto tra opera e individuo, tra opera e scrittura, che è precisamente il nodo teorico che qui si intende mettere in questione. Alla base degli scritti autobiografici di Croce — e della straordinaria struttura stilistica e concettuale che li caratterizza — c'è dunque una pluralità di motivi, di ordine ‘empirico’ e di carattere ‘trascendentale’, che potenziandosi a vicenda contribuiscono unitariamente a uno stravolgimento del modello classico delle écritures du mz0î. Conseguono questo risultato, rimuovendo e trasformando in radice il concetto del 7707, dell'io che ne è il fondamento tradizionale,
e ripensando in questa luce il problema decisivo del rapporto tra opera e individualità, tra opera e scrittura. Les écritures du moi! hanno generalmente teso a stabilire una equivalenza tra scrittura e io. Di questo, per fare un nome, Montaigne era si-
curamente convinto, anche se si tratta di una equivalenza discutibile: il 7z0î — ha scritto, a questo proposito, uno studioso come Gusdorf — «non è in alcun modo identificabile con una scrittura; il 77z0/ esiste al di qua, al di là, al di fuori della scrit-
tura, la quale rappresenta una testimonianza tra le altre sulla realtà umana di Montaigne» ?. In sé è un’obiezione seria, condivisibile, ma non è valida per Croce, e per un motivo decisivo: la scrittura, nel Contributo, non è il luogo della ‘consistenza’ °° CROCE, I/ carattere della filosofia moderna, cit., p. 153.
2! È questo il titolo di un lavoro assai importante di G. GUSDORE, Les écritures du moi, Paris 1991, che ho avuto presente nella stesura di queste pagine. 22 GUSDORE, Les écritures du moi, cit., p. 43.
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
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dell'io, della continuità e della identità del zz07. Il problema dell'equivalenza tra io e scrittura qui decade perché svanisce l’io, dissolvendosi l’empiricità. La scrittura ha come referente essenziale la trascendentalità, lo Spirito. In questo senso, si potrebbe dire che il Contributo è una sorta di autobiografia senza soggetto: oltre l’empiricità, è l’io trascendentale l'effettivo protagonista di questo testo straordinario. E, in effetti, che cosa siamo noi, che cosa è la nostra empirica individualità? «La nostra individualità», scrive Croce in uno dei Framzzenti di etica, «è una parvenza fissata dal nome, cioè da una convenzione; e non potrebbe persistere se non come persiste il nulla, come spasimo;
laddove gli affetti e le opere persistono come persiste la realtà, serenamente, eternamente nella nuova realtà. Che cosa è la no-
stra vita se non appunto un ‘correre alla morte’, alla morte dell’individualità; che cosa è il lavoro se non la morte nell’opera,
che si stacca dal lavoratore e gli si fa estranea? È, codesta», conclude Croce, «perfino la gloria, la gloria vera, la sopravvivenza effettiva ben diversa dal rumore mondano intorno ai nomi e alle parvenze» >. E, si è detto, uno dei Framzzzenti di etica, quello sui
«trapassati», ed è decisivo per comprendere il ritmo e la struttura del Contributo, che è, appunto, un exermzplum di morte in atto dell’individualità, una radicale affermazione della transito-
rietà dell'individuo rispetto all’eternità dell’opera, che è nostra e non è nostra, perché è l’opera del Tutto, con cui l'individuo, in quanto istituzione, deve sentire la propria identità. In questo senso, sono assai significativi il tono e il contesto in cui Croce situa il Contributo, parlandone a Gentile per la prima volta: «quest'anno», gli scrive il 22 giugno del 1915, ho riscritto da capo molti lavori miei giovanili; e queste e altre faccen-
de simili, che menano a una compiuta liquidazione del passato, a un assetto dato alle cose mie tamquam moriturus, mi terranno ancora occupato sino ad ottobre [...]. Ho perfino scritto un mio fascicoletto di memorie, col titolo filosofico di: Contributo alla critica di me stesso.
Tamquam moriturus, appunto: nel Contributo Croce guarda al se stesso da un punto di vista che, programmaticamente, va
oltre se stesso, oltre la sua empirica individualità, oltre la vita. 23 CROCE, Etica e politica, cit., p. 25. 24 CROCE, Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 498.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
Corre cioè alla morte, situandosi nella prospettiva della conoscenza storica, la quale spiega, qualifica, intende, senza lodare o condannare consapevole che «l’individuo non è responsabile della sua azione, ossia che l’azione non è scelta da lui ad arbi-
trio, e perciò non gliene spetta né biasimo né lode, né castigo né premio» 2. É per questo che Croce, a differenza di Rousseau,
insiste, qui e altrove, sull’ordinarietà del proprio io, della propria individualità, respingendo ogni enfasi sulla eccezionalità del suo destino. E perciò — e sta qui il punto concettualmente più importante — il Contributo è costruito secondo il modulo stilistico dell’individuo che è actus, ron agens, essendo «strumento di qualcosa che lo supera». È un punto sul quale merita fermarsi, anche per vedere come lavorava Croce, e come egli adeguasse progressivamente i propri testi, ripensandoli e riscrivendoli alla luce delle nuove posizioni individuate. Nel Curriculum del 1902, il motivo actus/non agens è sostanzialmente assente, non è tematizzato. E
valga qualche esempio, qualche confronto tra il Curriculum e il Contributo. «Nel 1892 il nuovo filosofare sulla storia, congiungendosi col vecchio filosofare sull’arte, dette origine alla mia prima memoria filosofica, che col titolo: La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte fu da me letta all'Accademia Pontaniana. Da allora in poi», scrive Croce nel 1902, «nolente o volente, non ho potuto più abbandonare gli studi filosofici» 29. Nel 1915 il quadro cambia, si espande e si complica, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo, oltre a modificarsi e a specificarsi ulteriormente sul terreno strettamente cronologico. Scrive dunque Croce nel Contributo: dopo lunghe titubanze e una serie di soluzioni provvisorie, nel febbraio o marzo del 1893, meditando intensamente un giorno intero, alla sera abbozzai una memoria col titolo: La storia ridotta sotto il con-
cetto generale dell’arte, che fu come una rivelazione di me a me stesso, perché non solo mi diè la gioia di vedere chiaramente certi concetti di solito confusi e l’origine logica di molteplici indirizzi erronei, ma mi meravigliò per la facilità e il calore col quale la scrissi [...] ?”. ? CROCE, Etica e politica, cit., p. 102 (si tratta del frammento intitolato Responsabilità). °° B. CROCE, Memorie della mia vita. Appunti che sono stati adoprati e sostituiti dal Contributo alla critica di me stesso, Napoli 1966 (rist. anast.
p. 16. ? CROCE, Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 327.
1992),
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
229
Analizzando questa pagina non è difficile vedere quale sia l’elemento di differenza, propriamente concettuale, fra il testo del 1902 e quello del 1915: nel Contributo in azione è il modulo stilistico actus/non agens. Sta qui la novità, rispetto al Curriculum. Né quello appena visto è l’unico caso in cui è possibile sorprendere in movimento un modulo critico in cui si esprime, con oltranza, una posizione filosofica determinata. Discorrendo
dell’opuscolo sulla Critica letteraria, Croce si esprime negli stessi termini, a conferma che quel modulo è il risultato di una scelta teorica consapevolissima: E solamente per un’altra di quelle spinte improvvise e irresistibili, di quelle accensioni involontarie, quasi a dar forma più ampia e precisa a una discussione che avevo avuta durante la villeggiatura con un amico professore di filologia, scrissi sul finire del ’94, rapidamen-
te, in un paio di settimane, un libricciuolo polemico sul metodo della
Critica letteraria [...1 3.
Non insisto su altri esempi, e confronti, che pure potrebbero essere fatti. Quello che ora mi preme rilevare, in generale, è la variazione stilistica e concettuale che Croce opera nel Contributo rispetto al Curriculum del 1902. Si tratta di una ‘riscrittura’ programmatica, consapevole, fatta avendo sotto gli occhi il vecchio testo, di cui sopravvive solo qualche frammento. E anche qui vale la pena di fare una citazione, per il carattere del testo trapassato dalla redazione del 1902 a quella del 1915, che riguarda, e non per caso, gli anni trascorsi a Roma, tra il 1884 e il 1885. Si legge nel Curriculum: «Passai a Roma due anni, il 1884 e il 1885, e sono fra i più malinconici della mia vita: il solo
periodo in cui abbia vagheggiato talvolta il suicidio, e desiderato sinceramente molte e molte sere, nel porre la testa sul capezzale, di non svegliarmi il giorno dopo», scrive nel 1902. E così riprende, quasi letteralmente, il motivo nel Contributo del
1915: «Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio» °°. Tranne poche variazioni («più dolorosi e cupi» invece di «i più malinconici»; «guanciale» invece di «capezzale»; «bramato» al posto di «vagheggiato»; Si pn323. 29 CROCE, Memorie della mia vita, cit., p. 12; ID., Contributo alla critica di me S1e350 CH, PD. 922.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
«persino» al posto di «talvolta»), il testo del 1902 è ripreso quasi alla lettera. Ma è l’unico caso, e appunto per questo tanto più prezioso, per vedere cosa continuasse ad agitarsi, anche nel 1915, dentro quella «calma»: un turbamento controllato, trattenuto, ma profondissimo, e reso esplicito dalla persistenza di quell’unico reperto: quasi che Croce non volesse più tornare su quegli anni crudeli, e volesse tenerli distanti da sé, intraveden-
do in quella brama di suicidio il peccato contro lo spirito, il momento della tentazione. Ma è appunto un caso isolato. Per il resto il Contributo si distacca radicalmente dal Curriculum che,
per quanto più breve, è paradossalmente più ricco di notizie, di riferimenti a fatti e persone, ed è caratterizzato da una presentazione più lineare dell’itinerario di Croce, non scandita, e non è un caso, da illuminazioni e spinte improvvise. Né questo meraviglia, alla luce di quanto si è detto sulla dominanza, nel 1915,
del motivo actus/non agens. A questo proposito si può dire anzi di più, sul punto specifico dell’‘autoritratto’ di Croce, estendendo l’analisi alla nota del 1907, che costituisce una sorta di
prezioso trat d’union fra il Curriculum e il Contributo. In effetti, ciò che colpisce nel leggere il testo del 1902 è un’enfasi con cui Croce presenta sia se stesso che le origini e i caratteri del suo lavoro e del suo impegno intellettuale: discorrendo della polemica con Zumbini e con Troiano parla del suo «spirito battagliero giovanile», di «violenta ripugnanza e ribellione intellettuale e morale contro l'abbandono delle migliori tradizioni del suo pensiero italiano», del suo «cantare» dure verità. E, in ge-
nerale, discorrendo della sua condizione nella cultura italiana, e del suo «isolamento», così si autopresenta: La mia adesione al movimento liberale e radicale e le mie simpatie al socialismo da una parte, e dall’altra le aspre polemiche letterarie che ho combattuto, e l’esser conosciuto per elemento poco accomodante e alieno dagl’intrighi personali, mi hanno alquanto zsolato; ma tutto ciò mi ha dato in cambio qualche soddisfazione interna e delle salde amicizie, che mi compensano satis supergue di quanto ho
perduto e perdo nella Varzty faîr?0.
Sono toni che sorprendono, pensando all’autoritratto che Croce in genere traccia di sé, alla sua insistenza sull’ordinarietà
della sua vicenda individuale, personale. Non meraviglia quindi °° CROCE, Memorie della mia vita, cit., pp. 18 e 22-23.
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
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che, nel 1907, proprio su questo punto abbia espresso le sue uniche riserve («dovrei fare qualche riserva sui punti in cui si accenna al mio carattere personale») 1, riconoscendo, invece, l'esattezza di tutte le altre cose scritte. Del resto, a quella data,
di tutto si può parlare, fuorché di isolamento di Croce nella cultura italiana: per fare un solo esempio, assai significativo, «La Critica» aveva allora seicento abbonati, e anche la «vendita spicciola» della rivista era «molto abbondante». Si può anche essere più netti: Croce non sarà mai più così egemone in Italia come
in quegli anni. Eppure alla base di quella riserva non stava solamente la consapevolezza di svolgere, ormai, un ruolo decisivo nella cultura del paese. Agiva, anzitutto, un approfondimento di ordine teorico, che riguardava in primo luogo la critica della individualità, dell’«individuo astratto ed empirico». E qui, di passaggio, sul piano storico-filosofico si può fornire una specificazione ulteriore, più precisa: nella variazione fra il testo del 1902 e la nota del 1907 — e più in generale nella riconsiderazione della tematica della individualità — agisce sicuramente anche Hegel, quello Hegel al quale Croce si dedica intensamente proprio in questo giro d’anni pubblicando contemporaneamente, nel 1907, sia la traduzione della Enciclopedia delle scienze filosofiche che il saggio su Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia hegeliana. È appunto qui che si insiste a fondo sul nesso tra individualità e universalità («l’individualità non è altro che il veicolo dell’universalità, la sua effettualità»); sull’astuzia della
ragione che trasfigura, universalizzandoli, gli interessi particolari dei singoli individui; sul valore dei grandi uomini (cioè sugli individui cosmico-storici). Qui si critica l'applicazione della dialettica all’«individuale» e all’«empirico»; ed è in queste pagine, infine, che si distingue con nettezza livello storico-biografico e livello storico-filosofico, irriducibili, strutturalmente, l’uno all’altro: Vico, ad esempio — osserva Croce —-, considerato dal
punto di vista biografico fu «cattolico sincerissimo e senza equivoci»; considerato dal punto di vista filosofico fu «non solo anticattolico, ma antireligioso» ??. Dunque, tra livello ‘empirico’, biografico e livello filosofico, ‘trascendentale’, non solo non c'è
rapporto, ma può darsi contrasto, opposizione. Il che significa 2 Tipi 24: 32 B. CROCE, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, con un
saggio di bibliografia hegeliana, Bari 1907, p. 70 (per gli altri temi cfr pp. 62 sgg.).
252
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
che biografia e filosofia sono piani inconfondibili sia dal punto di vista soggettivo che dal punto di vista oggettivo, sia dal punto di vista del filosofo che elabora una posizione, sia dal punto di vista dello storico che la ricostruisce. Confonderli vuol dire non comprendere né l’uno né l’altro. E da parte del biografo, significherebbe fare come il cameriere che pretende di giudicare il grande uomo, senza comprenderne la grandezza, non perché il grande uomo non sia grand’uomo, ma perché il cameriere è, appunto, un cameriere. Il cameriere e il biografo hanno, insomma,
un punto di vista in comune, che è quello della ‘empiricità’: il primo si interessa del corpo in senso stretto, il secondo del corpo in senso traslato. Ma sia l’uno che l’altro sono incapaci di toccare il piano dello Spirito, della ‘trascendentalità’. A questa luce si può forse meglio intendere la battuta, in ogni senso eccezionale, con cui Croce chiude la nota apposta al Curriculum del 1907: «Per fortuna, la mia individualità non importa, o ben
poco, agli altri: importa ora a me, che cavalco questo cavallo; e quando ne sarò disceso, gli altri faranno bene a non occuparsene. Come
Catullo una volta voleva essere fotus nasus, così io
vorrei essere giudicato come zutto pensiero» ??. E davvero una metafora straordinaria, questa del cavallo:
esprime con grande intensità, anche figurativa, la posizione che Croce intende, polemicamente,
sostenere.
Ma, forse, il senso
speculativo di questa metafora affiora con ancora maggior chiarezza se si tiene conto del significato che essa aveva avuto, a lungo, sia nel dibattito filosofico che in quello teologico. Mi limito a citare un solo testo, che, se non mi inganno, è decisivo.
Mi riferisco al De servo arbitrio di Lutero, nel quale la metafora svolge un ruolo cruciale, in rapporto alla interpretazione del valore e del potere della volontà dell’uomo nella prospettiva della sua salvezza. Scrive Lutero: Sic humana voluntas in medio posita est, ceu iumentum, si insiderit Deus, vult et vadit, quo vult Deus, ut Psalmus dicit: Factus sum
sicut iumentum et ego semper tecum. Si insiderit Satan, vult et vadit, quo vult Satan, nec est in eius arbitrio ad utrum sessorem currere aut eum quaerere, sed ipsi sessores certant ob ipsum obtinendum et pos-
sidendum?. ? CROCE, Memorie della mia vita, cit., p. 24. ? D. M. Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe, p. 635.
XVIII, Weimar
1908,
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
233
E un testo chiarissimo nella sua radicalità, ed è centrale
nella polemica di Lutero contro il De libero arbitrio erasmiano: la volontà dell’uomo è simile a un cavallo, che, senza poter scegliere, è spinto in una direzione o nell’ altra, a seconda della volontà di chi — Dio o il diavolo — riesce a impadronirsene e a cavalcarlo. Non so se Croce conoscesse direttamente questo testo
di Lutero, che può essergli pervenuto, del resto, attraverso la mediazione hegeliana. Ma certo è un motivo affine che risuona, secolarizzato, nella battuta finale della nota del 1907: come la volontà luterana, l’io empirico, l’individualità, è uno strumento, un mezzo, senza autonomia, senza libertà, un cavallo che il pensiero, l’io trascendentale, insomma lo Spirito cavalca, finché non
si compie il suo «correre alla morte», che è appunto morte della individualità. Altro che «moderno Erasmo», come tante volte si è detto, e ripetuto, a proposito di Croce! È la tradizione di matrice luterana, imperniata nel dissolvimento dell’arbitrio umano che, Adorni
o direttamente, qui agisce e si rivela; ed è di
qui, sostanzialmente, che germina il motivo svolto da Croce nel Frammento di etica dedicato alla «responsabilità»: l’individuo — scrive Croce — non è responsabile della sua azione, ossia [...] l’azione non è scelta da lui ad arbitrio, e perciò non gliene spetta né biasimo né lode, né castigo né premio. Il che, se anche possa
sembrare paradossale,
è comprovato dalla forma perfetta del cono-
scere, il conoscere storico, nel quale le azioni sono spiegate, qualificate e intese, ma non lodate o condannate, e non vengono riportate
agli individui come a loro autori ma all’intero corso storico, del quale sono aspetti. La stessa verità traluce nella tante volte lodata modestia dei grandi, consapevoli di essere stati strumenti di qualcosa che li supera, e, per converso, nella candidezza di certi scellerati, che affer-
mano di aver dovuto fare quello che hanno fatto e non potevano non fare, ubbidendo a una necessità ?
Actus/non agens, appunto, è il motivo del Contributo che qui si dispiega, sul piano della riflessione di ordine morale. Ma esso riaffiora con la stessa intensità, negli stessi termini, quando la polemica con Gentile, che Croce aveva cercato a lungo, e con assoluta consapevolezza,
di circoscrivere, entra nella sua fase
conclusiva: «Ma da filosofo — scrive a Gentile nella lettera del 35 CROCE, Etica e politica, cit., pp. 102-103 (si tratta, appunto, del framzzento intitolato Responsabilità).
234
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
22 gennaio del 1920 — considero anche che non siamo noi responsabili degli urti delle idee, di cui gli individui sono strumenti». E nella lettera suprema del 24 ottobre 1924 così ribadisce il suo pensiero: «Bisogna che la logica delle situazioni si svolga attraverso gl’individui e malgrado gl’individui» ?°. 4. Nell'immagine del cavallo — come nella fonte da cui essa, forse, scaturisce direttamente o indirettamente — si annida dun-
que un nucleo speculativo che caratterizza, in modo strutturale, tutta la filosofia crociana. Appunto per questo vale la pena di vedere un altro momento della fortuna di quel topos, relativo agli stessi anni e, ciò che più conta, strettamente inserito in una discussione radicale dei fondamenti del pensiero di Croce. Mi riferisco all’ Esperienza religiosa di Giovanni Boine, che, come è noto, esce nel X fascicolo de «L'Anima»,
a Firenze, nel 1911.
Boine, naturalmente, non conosceva il testo di Croce, ma è assai
significativo che, sviluppando a fondo il tema del rapporto fra vita e pensiero, si serva dell'immagine già sfruttata da Croce, riconfigurandola dalle fondamenta. Se si accetta l’identificazione di pensiero e di vita, è il pensiero — osserva Boine — che come un «cavaliere stregato», «abbrancato», «spaurito», viene trascinato «da un cavallo-dimonio», «dove vuole», «per valle e per
monte nel buio» ?. In Boine si trasforma dunque il rapporto stabilito da Lutero: il demonio non è il cavaliere («Sic humana voluntas in medio posita est, ceu iumentum
[...]. Si insiderit
Satan vult et vadit, quo vult Satan [...]»), ma il cavallo. E questo, ritradotto in termini crociani, vuol dire che il pensiero, lo
Spirito non è agens, ma actus, ad opera della Vita infinita inesauribile. E ciò per due ragioni, osserva Boine: «per la natura stessa della vita (per l’ansioso muoversi di ogni cosa nella vita) e perché l’identificazione di vita e pensiero non è se mai, non può essere la pacifica identificazione degli opposti in un con-
cetto distinto [...]» 25. Tornando all'immagine da cui abbiamo preso le mosse, in Boine, dunque, il cavallo è tutt'altro che accidentalità, empiricità, individualità di cui ci si libera col morire. Al contrario, esso configura e simbolizza il carattere del pro°° CROCE, Lettere a Giovanni Gentile, cit., pp. 592 e 670.
?? G. BOINE, Esperienza religiosa, Milano 1948, p. 46. 8 Ivi, p. 47.
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
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cesso di identificazione di pensiero e vita, che non può essere
esaurito, strutturalmente, dalla logica della distinzione. Sta qui, in ultima analisi, il significato, propriamente teorico, della riformulazione operata da Boine nel rapporto tra cavallo e cavaliere. Varrebbe quindi la pena di soffermarsi ulteriormente su questo testo, anche alla luce della concezione che Boine svolge della religione come «eresia», «ribellione», «rivoluzione», «mistici-
smo», come «forma preformale, precategorica di attività spirituale», insomma
alla luce della sua concezione dell’esperienza
religiosa come elemento primigenio della vita??.Ma quello che qui conta rilevare è che alla base di quella concezione del rapporto tra cavallo e cavaliere — e nella rivendicazione della funzione del cavallo — c’è, in Boine, una riconsiderazione dell’indi-
viduo, dell’individuo umano, di quello che per Croce, si è visto, è unicamente uno strumento, una cavalcatura. Ma davvero, si chiede Boine, l'individuo è «solamente un concetto? Pietro è bontà, è etcaetera, è umanità. Ma s’io distruggo Pietro, la bontà, gli altri universali, l'umanità ch’eran concreti in lui, sono, vivo-
no ancora: dunque io non ho distrutto Pietro? E Pietro tuttavia non è più (ed io non sarò più!) e l’empiricità (e la vera concretezza) di Pietro non è più». Al fondo, il concetto non è quindi in grado di dar conto di Pietro, della sua esistenza, della sua in-
dividualità concreta; c'è qualcosa che fuoriesce dal pensiero, non si lascia afferrare, e risolvere. Ora, «questo quasi-residuo
extralogico, di cui, sì, senza la logica non m’accorgerei, e che dinnanzi alla logica, in mezzo alla logica pare d’altra parte un riflesso vano, una inconsistente apparenza, è nel concetto la vita, è il segno, lo spiraglio per cui passa la vita» ‘°. Dal nostro punto di vista, sta qui il centro del ragionamento di Boine, che pure prende le mosse dalle pagine finali della Filosofia della pratica, contrapponendo esplicitamente il concetto della vita come «mala infinità» della Logica al concetto della vita come «infinito inesauribile» della Pratica. In Boine, è dal ri-
3? Ivi, p 59: «Chiamo religioso tutto ciò che risale, contro corrente, attraverso il sentimento, verso l’inesauribile [...]. Tutto ciò è religioso, tutto ciò è espe-
rienza religiosa: dico dunque religioso chi si sforza, chi si dibatte e permane in questa mostruosa esperienza, chi violenta le forme dello spirito, chi si agita in questa forma preformale, precategorica di attività spirituale, in questa antispirituale, antistorica agitazione». I Ivifips43.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
scatto della individualità, della empiricità, dell’esistenza’ che scaturisce la scoperta della inesauribilità della vita, del suo perenne fluttuare, contro l’infinità del pensiero: «della particolarità dell’individuo il concetto s'impingua e l'individuo par rientrare, ordinarsi così dentro il concetto, pianamente sottoporsi al concetto. Ma l’individuo», scrive Boine con grande efficacia, «è
come un messaggero, come l’avamposto, come il banditore di un popolo barbaro, di un popolo nuovo che s’avanzi, d’una legge non nostra che ci s’imponga [...1». Individuo, individuo umano, particolarità dell’individuo, empiricità. Ma questo vuol dire, appunto, biografia, valore della biografia. Non sorprende dunque che sia stato proprio un altro scrittore dell’«Anima», Giovanni Amendola, a porre, tematicamente, il problema, sottolineando il rilievo decisivo, per la riflessione etica, della conoscenza e dell’analisi delle vite individuali. L'etica, osserva
Amendola, mira alla rappresentazione, dal punto di vista del concetto, della realtà della vita individuale. Ma, dal punto di
vista storico, questa realtà è, precisamente, l’oggetto della biografia. Di più: rispetto all’etica, la «biografia», attraverso le biografie, può fornirci una conoscenza della vita morale «più ricca e più nitida, di quanto la stessa etica non sappia darci». Fra etica e biografia si stringe dunque, per Amendola, un nesso strutturale, ineludibile, in primo luogo per l’etica. E questo per un motivo preciso: «il concetto del bene etico come attività volitiva si concreta e si particolarizza nella rappresentazione del bene attuato; e cioè della volizione prodottasi nelle vite individuali» 4. 5. La posizione di Croce, si è visto, è del tutto diversa, anzi
opposta: «l’errore», scrive a Gentile alla fine del 1905, «è appunto l’invasione della persona, dell’arbitrio ecc. dell’individuo, nell'opera teorica di arte o di scienza». Il che significa, #! G. AMENDOLA, Etica e biografia, Milano 1953, p. 50. Amendola così precisa il suo pensiero: «Un concetto è sempre concetto della realtà; e la rappresentazione della realtà è in ogni caso il suo presupposto e il suo coronamento. Un’etica concepita come scienza delle leggi della vita è per l'appunto un concetto che raggiunge la sua determinazione più perfetta nella rappresentazione di quella realtà che conferisce all’etica il suo problema: la realtà della vita individuale. La rappresentazione di questa realtà — correlativo storico della filosofia pratica —: ecco ciò che costituisce l’oggetto della ‘biografia’».
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
237
precisamente, che «la critica dell’errore include un elemento morale» 4. È una posizione che si esprime con oltranza proprio nel Contributo; che è, al tempo stesso, «il capolavoro dell’espressione crociana» 4 e uno dei massimi esempi della filosofia dello spirito, nel senso più rigoroso del termine. Anzi, è uno di quei testi che mostra con maggior forza quale fosse, al di là delle impressioni, la pulsione estremista di questa filosofia e quanto fosse intensa, al di là dei risultati, la sua vocazione alla coerenza. In effetti, l'individuazione della centralità del motivo actus/non
agens — e di una scrittura in grado di esprimerlo — fu il risultato di un lungo lavoro, che resta visibile, per quanto Croce si sforzasse di cancellarne le tracce distaccandosi da se stesso, come era
solito cercare di fare, guardandosi con occhio di storico. La «calma» — è stato scritto — è «il tema psicologico dominante nel Contributo» #; ed è vero, a patto di aggiungere che si tratta della calma di chi sa di essere sempre affacciato su un'estrema ringhiera spalancata sull’abisso: «L'animo rimane sospeso», scrive nelle ultime righe, dopo aver evocato la «guerra grandiosa» che stava per investire anche l’Italia; «e l’immagine di sé medesimo, proiettata nel futuro, balena sconvolta come quella riflessa nello specchio d’un’acqua in tempesta» #. Quando, infine, decide di guardarsi allo specchio, Croce vede dunque il suo volto, dissolto, frantumato, travolto dall’onda tempestosa=A conferma, se ce
fosse bisogno, del turbamento e della inquietudine che si celavano, senza mai dissolversi definitivamente, in quel negarsi alla vi-
sione dello specchio. Nella «calma», come
nella scrittura di
Croce, si nasconde un elemento permanente di dissimulazione,
incapace, tuttavia, d’impedire che «a tratti» si riveli quella «maschera dura pesante tetra di un pensiero ignoto», che, se non m’inganno, Renato Serra ha avuto il merito di cogliere con fulminea intuizione, prima di tutti, e meglio di tutti 4° * CROCE, Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 185. # Il giudizio è di CONTINI, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, cit., p. 5: uno dei libri più acuti e, al tempo stesso, più partecipi che siano stati dedicati alla figura di Croce (a cominciare dalle pagine, in ogni senso fondamentali, sul Contributo). (olyrabsi. 45 CROCE, Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 334. 46 R. SERRA, Scritti letterari, morali e politici, a cura di M. ISNENGHI, Torino
1974, p. 456.
238
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
Il Contributo, si è già ricordato, si presenta all’insegna della battuta di Goethe: «Perché ciò che lo storico ha fatto ad altri,
non dovrebbe fare a se stesso?». É una battuta che in questo caso ha un valore circolare: nel senso che Croce applica il modulo critico sperimentato e perfezionato nel Contributo ai vari lavori biografici che venne scrivendo, anche se non avrebbe mai sottoscritto la tesi di Dilthey secondo cui la moderna biografia è, in certo senso, «la forma più filosofica di storiografia» #. E qui il pensiero corre, naturalmente, e in primo luogo, alle Vite di avventure, di fede e di passione, cioè alla vita del Conte di Campobasso, o di Isabella di Morra, o di Galeazzo Caracciolo,
marchese di Vico, per limitarsi a citare solo qualche supremo exemplum dell’arte biografica crociana. Ritorna, si è detto, il modulo critico già individuato: così, ad esempio, discorrendo dei baroni napoletani nella vita del Campobasso si sottolinea come «una forza che li trascendeva, trascinava i singoli a quei modi di azione, a quella forma di vita», e a proposito dei re impegnati a combatterli si rileva come essi stessi non possedessero «netta e rigida coscienza» della loro causa; così a proposito del ritorno in Italia di Bruno e della sua morte, in un inciso
della Vita del Marchese di Vico si sottolinea come egli fosse andato «come affascinato a quella fine prevista»: 4cf4s, dunque, non agens, secondo un motivo critico che avrebbe influenzato lungamente la storiografia bruniana; così, infine, a proposito della dottrina della predestinazione, si osserva, da un punto di
vista generale, come essa contenesse in germe l’idea stessa della storia, la quale, nel suo corso, condanna e distrugge individui e generazioni e popoli, e dall’ecatombe fa sorgere, mercé i grandi uomini o gli eletti, i valori ideali, di pensiero, di bellezza, di dignità morale, che vivono eterni; e, dunque, non si svolge per la salvazione o la felicità degl’individui, ma come appunto il Calvino voleva, ad maiorem dei gloriam [...).
* W. DILTHEY, Per la fondazione delle scienze dello spirito, scritti editi e ine-
diti 1860-1896, a cura di A. MARINI, Milano 1985, p. 430. Vale la pena di leggere il testo di Dilthey: «[...] il secolo scorso e il presente, sotto lo stesso influsso dell’orientamento verso una storia naturale dell’uomo, hanno creato la moderna biografia: in un certo senso, la forma più filosofica di storiografia. Il suo oggetto è l’uomo come dato originario di ogni storia. Essa descrive il singolare, ma in quanto vi si rispecchia la legge generale dello sviluppo».
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
255,
Del resto, non per caso, proprio a proposito di queste Vite di avventure, di fede e di passione, un interprete acuto ha parlato di un’abolizione dell’anima, da parte di Croce #8. Il che non toglie che a sprazzi, proprio in questi testi, baleni ex abrupto, ma in modo impetuoso, una materia di chiara, e incontenibile,
natura autobiografica. «Chi può osare», scrive ad esempio a proposito del secondo matrimonio di Galeazzo Caracciolo, di entrare nel segreto dei suoi umani tormenti, delle sue nostalgie, delle sue brame, dei pungenti ricordi per l’immagine che lo assillava nella sua povera e deserta casa di Ginevra? E chi può osare di approvare o condannare la deliberazione che egli prese di porre una pietra sul passato e formarsi un nuovo legame e cancellare quell’immagine lontana e pur vicina con la realtà di un’altra figura muliebre, che gli stesse accanto amorevole? Eppure c’è chi ha osato [...].
Resta difficile, di fronte ad affermazioni come queste, non
ricordare la tragedia che Croce aveva vissuto alla fine del 1913, con la morte di Angelina Zampanelli: «Io mi sono venuto rasserenando», così aveva scritto a Gentile il 20 ottobre di quello stesso anno; «ma mi riesce impossibile occuparmi in qualche studio, perché ho sempre lo spirito altrove. E questo è il punto che debbo ora vincere. Come si fa a strappare da tutto il proprio essere una consuetudine di venti anni?».
Nelle interrogazioni sulle scelte di Galeazzo Caracciolo si agitavano, consapevolmente e inconsapevolmente, tormenti che avevano segnato, e inciso a fondo, l’animo e il carattere di Croce; ma, al di là del rilievo autobiografico, su quella doman-
da merita fermarsi e interrogarsi ulteriormente, per i problemi di ordine squisitamente teorico ai quali essa, in effetti, allude: «Chi può osare di entrare nel segreto dei suoi umani tormenti [...]?», si chiede Croce. «Nel sacrario del cuore umano penetra soltanto l'occhio del supremo Esaminatore, e, fino a un certo segno, quello dell’amore e dell’amicizia reciproci; ma non quel-
lo del giudice, né giuridico né storico», così avrebbe risposto Droysen 4. Ma questa non è, e non può essere, la risposta di Croce, e per un motivo fondamentale. 48 Mi riferisco a Pietro Citati.
4°J. G. DROYSEN, Istorica. Lezioni sulla Enciclopedia e Metodologia della storia, trad. it. di L. Emery, Milano-Napoli 1966, p. 186.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
A giudizio di Droysen c’è un doppio punto di vista della verità dell’individuo. Quella dell'individuo per se stesso, che è la coscienza, e che la storiografia lascia all'individuo, perché con i suoi mezzi non è in grado di trovarla e di comprenderla. Quella dell’individuo per la storiografia che riguarda il «posto» e il «dovere» che gli spetta nelle grandi comunanze etiche e nel loro «effettivo progresso». Sulla base di questa distinzione, Droysen da un lato riconosce l’insondabilità della coscienza individuale («solo la propria coscienza è [...] per ognuno assoluta certezza;
è per lui la sua verità e il centro del suo mondo»); dall’altro sottolinea che sul terreno propriamente storico, oggetto dell’indagine storiografica, «le doti degli individui, le loro volontà e desideri, la loro più propria totalità, sono soltanto le tappe, le maglie dell’incessante divenire delle cose», le quali «come si suol dire «vanno per la loro strada malgrado la buona o la cattiva volontà di coloro per mezzo delle quali si compiono». Insomma, per Droysen sul piano storico «anche l’individuo più potente non è che un momento nel perpetuo fluire della storia, non è che uno dei mezzi attraverso i quali procedono e si attuano le entità del mondo morale [...]»?°. Ora, è precisamente questa distinzione che Croce non può
accettare: quella fra un «conoscere delle cose umane, che sarebbe storiografico» e un «altro conoscere che sarebbe di coscienza». E non può accettarla, e infatti non l’accetta, proprio per la sua concezione dell’individuo e, quindi, della biografia. E una posizione chiara, ormai: la biografia «si risolve tutta in storia, non avendo l’individuo realtà fuori dell’universale che in lui si attua e ch'egli attua». Il che vuol dire che, a giudizio di Croce, non esiste né un conoscere proprio della coscienza, né
un sacrario nel quale solo Dio possa penetrare. «In effetto», scrive, con la solita intransigenza, su questo punto che certo è
capitale, «la cosiddetta intimità della coscienza è nient'altro che
il sentimento, poeticamente e intellettivamente muto, il sentimento che si travaglia e si dibatte, e sua manifestazione fonica e mimica è l’interiezione [...]» ?!. Siamo così tornati al punto da cui siamo partiti: al di là della espressione, della effabilità, del-
l’opera non c’è nulla, non resta nulla. Questo, e solo questo, è 20 Ivi, pp. 186-188. ?! B. CROCE, La storia come pensiero e come azione, Bari 1965, pp. 207-208.
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA IN CROCE
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l'orizzonte della comprensione e della comunicazione, che, a sua volta, ha un fondamento autobiografico strutturale, ineludibile. Il simpatizzare, nella sua profonda e rigorosa concezione, non è altro che un momento necessario del comprendere, dell’intelligenza; perché se non si riesce a far nostro un oggetto [...], se non si riesce a
unificarsi con esso e a riviverlo, è impossibile comprenderlo e intenderlo: non se ne ha l’esperienza e, senza l’esperienza, non c’è intelligenza:
così scrive nei Frammenti di etica. E anni dopo, risvolgendo il motivo, determina, su questa scia, un punto teorico di rilievo
generale: «[...] ogni vera storia è sempre autobiografia» ??. Dunque: la dimensione autobiografica è costitutiva di qualsiasi lavoro storiografico, sia dal punto di vista del ‘soggetto’ che dal punto di vista dell'oggetto’. Ma Croce precisa subito il significato, e il limite, del suo ragionamento, in termini che ormai non
possono stupirci. Chi pensa, e ripensa, la storia non è mai l’io empirico. Il che significa che non c’è differenza tra l’opera mia e «ogni altra opera, della quale sono mosso a rifare in me e pensare la storia». Ciò che io faccio è mio e non mio, perché è
anche degli altri, essendo opera del tutto e non opera mia. Allo stesso modo, «l’opera che si dice di altri [...] è mia e non mia, parte della mia umanità, quale è concretamente, cioè storica-
mente divenuta». Insomma: le opere mie come le opere degli altri non appartengono all’«empirico o astratto individuo», a questa «vanità che par persona»; appartengono a chiunque sappia «ritrovarle» e «riviverle»: perciò, osserva Croce, se l'autobiografia è storia delle opere nostre, anche tutte le restanti storie delle opere della umanità, che tutte ci appartengono, sono sostanzialmente autobiografiche; e anzi nella maggiore o minore interiorizza-
zione o riduzione autobiografica delle opere ed eventi storici è la misura dell'eccellenza di una comprensione ed elaborazione storiografica. Il nesso
tra espressione, comprensione,
comunicazione
è
dunque svolto in termini rigorosamente ‘autobiografici’, a loro volta riconcepiti in termini rigorosamente trascendentali, riget-
tando ogni riferimento empirico. É appunto per questo che l’oc-
52 CROCE, Etica e politica, cit., p. 62 (si tratta del framzziento intitolato Compassione e giustizia); ID., Il carattere della filosofia moderna, cit., p. 153.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
chio può vedere se stesso: perché non c’è nulla al di fuori dell'occhio e dell’oggetto dell'occhio. Dissolvendosi l’«io empirico o astratto», l’uno e l’altro sono unu
et idere, una cosa sola.
Tutto il resto è «spasimo», «parvenza», «interiezione». Questa è la posizione di Croce. Eppure, dopo aver seguito le sue analisi oltranziste e coerenti, la domanda di Henry Brulard, di Henri Beyle, insomma di Stendhal persiste, insistente: «quale occhio può vedere se stesso?». Può darsi che mi sbagli: ma è con questa interrogazione che oggi dobbiamo tornare a misurarci in modo radicale, sul piano teoretico (e anche su quello etico-politico). Si può farlo, credo, solamente riponendo al tempo stesso, dalle fondamenta, il problema di quella «vanità che par persona». E un nodo solo. Dal suo punto di vista, su questo Croce aveva, senz'altro, ragione ??.
© Per un giudizio di Croce su Stendhal, si veda naturalmente Stendhal in B. CROCE, Poesia e non poesia, Bari 1955, pp. 87-99.
II
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE FRA LE DUE GUERRE
1. E consueta l’immagine della ricerca di Benedetto Croce come un lungo fiume, snodatosi dall'inizio alla fine linearmente, senza scosse e impedimenti. La rappresentazione goethiana della sua morte risale a questo persistente stereotipo che, del resto, non è privo di agganci nella realtà. Effettivamente Croce muore come un vecchio saggio, persuaso di essere arrivato al momento solenne della morte dopo una vita operosa, mai diventata «ozio stupido». Nello stesso tempo, proprio allora, percepisce l’affiorare irresistibile, nel suo sistema, di possibili aporie, di problemi radicali, che l'individuazione della vitalità come forza «viva» e «verde» comincia a mettere 4 fuoco, senza avvia-
re a soluzione. Il filo della ricerca crociana s’arresta, dunque, in un mo-
mento di acuto travaglio teorico, aggravato da un senso malinconico di impotenza, dalla consapevolezza di essere arrivato alla fine del lavoro e della vita. E di sé che parla, discorrendo di una
«pagina della vita di Hegel»; ed a sé, anzitutto, ricorda nel 1948 i versi che Giambattista Vico scrisse quando «sentì di aver terminato il compito suo nel mondo», per segnare «questo evento
della sua storia personale»: «Dalla tremante man cade il mio stile, e dei pensier s'è chiuso il mio tesauro» !. Su questi motivi, peraltro, da anni ha richiamato l’attenzione Gennaro Sasso, che ha contribuito efficacemente a dis-
solvere l’immagine canonica di un Croce pensatore impertur-
! B. CROCE, Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel, in Ip., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari 1967 (ultima ed. Napoli 1998), PID:
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
babile, «moderno Erasmo», e ha sottolineato il travaglio, ed anche la drammaticità, di una ricerca che, pur distinta da svolte
e mutamenti profondi, ambiva, nello stesso tempo, alla «unità» e alla «coerenza», considerate come dovere morale — prima che speculativo — di un filosofo autentico. I testi inediti ora pubblicati — anzitutto le lettere a Giovanni Gentile — hanno poi segnalato l’opportunità di sperimentare approcci critici distanti dalla tradizione interpretativa imperniata sul primato degli aspetti ‘ideologici’ del pensiero crociano; ed hanno ulteriormente confermato l'urgenza di uscire da una rappresentazione ‘classica’, in chiave goethiana, dell’esperienza filosofica di Croce2. L'immagine di Croce «moderno Erasmo» infatti persiste, e stenta tuttora a cadere. Viene da lontano, del resto: risale alla
sua nascita come filosofo, alle battute polemiche di Antonio Labriola che, nelle lettere, ne sferza a più riprese l’intellettualismo e l’epicureismo, il formalismo e l’incapacità di professare seriamente una filosofia, e di impegnarsi in essa. Sta qui, a ben vedere, il luogo d’origine del Croce «frigido», pronto a rinunziare a tutte quelle cose «per le quali tanti s’affannano e ci perdono la pace e la vita»: ricercatore «spregiudicato», ma anche spensierato, e incapace di cogliere, nel marxismo, l'intreccio intrinseco di «dottrine», «passioni», «programmi politici» ?. Polemicamente distorta, e ridotta a inclinazioni empiriche,
di temperamento,
nel ritratto di Labriola
affiora, in realtà,
? CROCE, Lettere a Giovanni Gentile, cit. Prezioso è anche il Carteggio CroceOmodeo, a cura di M. GIGANTE, Napoli 1978. Fra i contributi ‘crociani’ di SASSO,
ctr Per una interpretazione di Croce, in ID., Passato e presente nella storia della filosofia, Bari 1967, pp. 69-151; Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975; La Storia d’Italia di Benedetto Croce. Cinquant'anni dopo, Napoli 1979. Importanti, per una reimpostazione del discorso su Croce, sono i saggi di E. GARIN, Appunti sulla formazione e su alcuni caratteri del pensiero crociano, in ID., Intellettuali italiani del XX secolo, Roma
1974, pp. 3-32; ID., Lo storicismo del Nove-
cento (Materiali per una definizione), «Giornale critico della filosofia italiana», LXII (LXIV), 1983, pp. 1-57. Di GARIN si vedano anche le Cronache di filosofia italiana (1900-1943), cit., e Benedetto Croce o della ‘separazione impossibile’ fra politica e cultura, in ID., Intellettuali italiani del XX secolo, cit., pp. 47-68. Cfr anche M. MAGGI, La logica di Croce e altri scritti, Napoli 1995; ID., La filosofia di Be-
netto Croce, Napoli 1998. ? A. LABRIOLA, Lettere a Benedetto Croce (1885-1904), Napoli 1975, pp. 329, 323, 311. Le lettere di Labriola a Croce sono ora raccolte anche in A. LABRIOLA,
Epistolario, introduzione di E. GARIN, a cura di D. DUGINI, R. MARTINELLI, V. GERRATANA, A. SANTUCCI, 3 voll., Roma 1983.
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
245
quella che per Croce era già una posizione teoretica fondamentale; s’affaccia, per contrasto, il nodo cruciale del rappor-
to tra teoria e prassi, tra «proposizioni filosofiche» e «programmi pratici e politici»: quel nodo che sta costantemente al centro del lavoro filosofico crociano e che, ripensato e rideterminato attraverso spostamenti teoretici anche profondi, sarà, nel 1938, alle radici della Storia come pensiero e come
azione. Al fondo, dunque, persona empirica di Croce losofia messa dall'amico Marx. Era questo il punto cerca,
nei giudizi di Labriola, prima della era in questione il carattere della fia fondamento della sua critica di effettivo di un dissenso che Croce
programmaticamente,
di circoscrivere,
rifiutandosi
in
modo esplicito di scendere sul piano delle critiche personali, di carattere. Eppure, per quanto contrastata e delimitata fin dall’inizio, quella immagine erasmiana, epicurea, avrà fortuna, e accompagnerà Croce fino alla morte, trasformandosi, infine, in luogo
comune storiografico. Ma inizialmente, alle origini di quella fortuna sta un motivo preciso, messo a fuoco dalla sua diffusione presso intellettuali, filosofi, letterati, politici che, pur provenendo da esperienze differenti, e talvolta antagonistiche, sono accomunati dalla critica del carattere della filosofia di Croce e del risveglio filosofico da lui promosso, e, anzitutto, dal
rifiuto, variamente argomentato, delle soluzioni individuate intorno al nodo cruciale del rapporto fra prassi e teoria. Quella immagine affiora sintomaticamente negli scritti di Renato Serra,
che, per antitesi, elogia la vitalità e la passione del Carducci; nelle polemiche caratteristiche di Giovanni Papini, che contrappone la serietà di Serra alla pedanteria di Croce; si ritrova, infine, nelle critiche dei giovani seguaci di Gentile, negli anni
del primo dopoguerra, quando accusare Croce di «frigidità», più che una valutazione critica, diventò moda diffusa *. A ben
4 Cfr R. SERRA, Per un catalogo, in ID., Scritti letterari, morali e politici, cit.,
pp. 191-192: «O col Croce non c'erano mica terreni privilegiati! Io gli parlavo di tutto ed ero certo di esser compreso. Eppure, se ci penso bene, la mia soddisfazione non n'era per nulla cresciuta [...] Vorrei dire che il beneficio di lui si risolve in una forma logica e universale; non è abbastanza umano per suscitare principi di spirituale imitazione [...] Torno indietro, a quell’altra intelligenza che ognuno mi afferma più limitata. Limitata è veramente; poca imprudenza bastava a farmene accorto, con urto contro uno dei limiti improvviso e terribile. Quin-
246
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
vedere, dunque, la critica del Croce-Erasmo coincide, costantemente, con il rifiuto della concezione dei distinti, e delle modi tempesta, e fuga cacciata da aspre parole. Ma il giudizio di lui, anche nell’ira,
investiva la mia persona come un raggio di luce, ne fermava il carattere con pochi tratti scultori; mi sento signoreggiato». È, come si vede, l’immagine di Croce-Erasmo che qui, di fatto, riaffiora attraverso l'opposizione a Carducci. Ed essa, al di là dei rispettivi caratteri empirici, individuali, esprimeva un radicale dissenso storico imperniato sulla concezione che Serra — «schiavo della cosa in sé» (cfr R. SERRA, Epistolario,
a cura di L. AMBROSINI, G. DE ROBERTIS, A.
GRILLI, Firenze 1953, p. 459) — aveva del limite, dell'opposizione. Alle basi quel contrasto investiva Kant, il problema della conoscenza, le sue condizioni di possibilità. Si vedano per questo Partenza di un gruppo di soldati per la Libia, in Scritti letterari, morali e politici, cit., pp. 277-288; e il modo in cui Serra — ringraziando Croce per l’invio della memoria Storia, cronache, false storie — allude
a questo testo nella lettera dell'11 novembre del ’12 (Epistolario, cit., pp. 459460): un «articolo» — scrive — in cui «sorgevano nel mio spirito il problema della storia contemporanea e quello della conoscenza storica, in modo molto simile e
pur molto diverso [...]». Su questi temi, cfr il libro molto bello di A. ACCIANI, Renato Serra. Contributo alla storia dell’intellettuale senza qualità, Bari 1976 (par-
ticolarmente i capp. IV e V). Sull’opposizione Croce-Serra stabilita da Papini, cfr Stroncature, in G. PAPINI, Opere. Da «Leonardo» al futurismo, a cura di L. BALDACCI con la collaborazione di G. NICOLETTI, introduzione di L. BALDACCI, Milano 1977 (1982?),
pp. 670-671: «Sarà un mistero — ma non per molto — l'ammirazione che il nostro Serra ebbe, anni fa, per Benedetto Croce. Ch’è difficile trovare due macchine
umane
così minimamente
combacianti.
Uno,
il senatore,
bestione
da
lavoro e da soma, capace di far solchi (ma quanto leggeri!) nei più diversi poderi [...]. L'altro, invece, uomo di pochi libri e d’una sola ambizione, ma in quel-
lo fortissimo e con due braccia tali da rivoltare il suo campo fin sotto le midolla dove nasce la vena d’acqua e dove riposa la terra che non ha mai fruttificato». Assai involgarito, torna qui il motivo sviluppato da Serra attraverso la contrapposizione Croce-Carducci. Su Papini, cfr Giovanni Papini nel centenario della nascita, Milano 1982 (in particolare la relazione di G. INVITTO, Papini e l’idealismo italiano, pp. 54-76). Le accuse di «frigidità», nel dopoguerra, sono rivolte a Croce anzitutto dagli scolari romani di Gentile. Si veda a questo proposito la lettera a Ugo Spirito del 31 marzo del 1923 (B. CROCE, Epistolario, I, Scelta di lettere curata dall’autore, 1914-1935, Napoli 1967, p. 98): «Quanto poi all'unità della filosofia e della vita, l'ho teorizzata anch'io; ma mi rifiuto di intenderla nel modo cretino del quale ho
visto esempio recente nella nuova e deplorata rivista politica [La nuova Italia liberale]. Quando si giunge ad identificare idealismo e fascismo, o si fa una de-
duzione sbagliata o si muove da un principio mal concepito: perché che quella sia una sciocchezza è evidente. Del resto, in tutta la letteratura filosofica italiana recente io sento il vuoto, e ciò mi dà fastidio perché il mio spirito aborre dal vuoto». Per polemiche pubbliche altrettanto aspre, cfr Troppa filosofia, Contro la troppa filosofia politica e Ancora filosofia e politica, in B. CROCE, Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, terza edizione, Bari 1955 (ultima ed. Napoli 1993), pp. 238-252 (il primo testo è del ’22, gli altri del ’23).
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
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dalità del lavoro filosofico e intellettuale che ne discendono ?.
Sta qui la genesi effettiva di quel topos fortunato ‘. ° È noto che l’immagine del Croce-Erasmo è presente anche in GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit. Cfr, ad esempio, pp. 1221-1222: «Si può osservare — scrive — che un tal modo di concepire la dialettica è proprio degli intellettuali, i quali concepiscono se stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali, quelli che impersonano la ‘catarsi’ dal momento economico al momento etico-politico, cioè la sintesi del processo dialettico stesso, sintesi che essi ‘manipolano’ speculativamente nel loro cervello dosandone gli elementi ‘arbitrariamente’ (cioè passionalmente). Questa posizione giustifica il loro non ‘impegnarsi’ interamente nell’atto storico reale ed è indubbiamente comoda: è la posizione di Erasmo nei confronti della Riforma». L'atteggiamento erasmiano di Croce è dunque intrinsecamente connesso a una specifica concezione del processo storico, della lotta politica, e della funzione superiore degli intellettuali, incentrata sul contenimento e il depotenziamento dell’antitesi. Ma questo è solo un primo aspetto della critica di Gramsci. Essa si svolge ulteriormente attraverso l’individuazione di una serie complessa di relazioni (e di opposizioni) di carattere storico-ideologico: Lutero-Hegel; ErasmoCroce; Rinascimento-Liberalismo; Riforma-Filosofia della praxis (e «movimento di massa» da essa promosso). «La posizione di Croce è quella dell’uomo del Rinascimento verso la Riforma protestante con la differenza che il Croce rivive una posizione che storicamente si è dimostrata falsa e reazionaria e che egli stesso [...] ha contribuito a dimostrare falsa e reazionaria. Che Erasmo potesse dire di Lutero: “dove appare Lutero, muore la cultura” si può capire. Che oggi il Croce riproduca la posizione di Erasmo non si capisce, poiché il Croce ha visto come dalla primitiva rozzezza intellettuale dell’uomo della Riforma è tuttavia scaturita la filosofia classica tedesca e il vasto movimento culturale da cui è nato il mondo moderno». Non solo. Proprio perché Croce ha inteso la insussistenza delle tesi sulla «mancata riforma religiosa in Italia», ed ha allargato e precisafo il concetto di religione, «più grave appunto gli si deve fare di non aver capito che appunto la filosofia della praxis, col suo vasto movimento di massa, ha rappresentato e rappresenta un processo storico simile alla Riforma, in contrasto col liberalismo, che riproduce un Rimascimento angustamente ristretto a pochi gruppi intellettuali e che a un certo punto ha capitolato di fronte al cattolicesimo [...] Croce rimprovera alla filosofia della praxis il suo “scientismo”, la sua superstizione “materialistica”, un suo presunto ritorno al “medio evo intellettuale”. Sono i rimproveri che Erasmo, nel linguaggio del tempo, muoveva al luteranesimo. L'uomo del Rinascimento e l’uomo creato dallo sviluppo della Riforma si sono fusi nell’intellettuale moderno del tipo di Croce, ma se questo sarebbe incomprensibile senza la Riforma, esso non riesce
più a comprendere il processo storico per cui dal ‘medioevale’ Lutero si è necessariamente giunti allo Hegel e perciò di fronte alla grande riforma intellettuale e morale rappresentata dal diffondersi della filosofia della praxis riproduce meccanicamente l’atteggiamento di Erasmo» (Quaderni del carcere, cit., pp. 1293-1294). Gramsci impernia, dunque, il suo ragionamento su una serie di topo: storiografici e di ‘figure’ politiche, ristrutturandole alla luce della sua prospettiva. Discutere la sua immagine del Croce-Erasmo vorrebbe dire, anche, verificare la validità dei complessivi punti di riferimento su cui essa poggia. Ma, anzitutto, l’analisi di quel nesso specifico (e della intera costellazione concettuale e politica in cui viene inserito), implica una reinterpretazione generale del rapporto Croce-Gramsci, che non è oggetto di queste pagine; ma che si riconfigura, oggi, come problema aperto, nel quadro di una rideterminazione dei ‘caratteri’ del secolo. 6 Superfluo dire, qui, che l’immagine di Erasmo messa a base delle varie relazioni con Croce è, in linea generale, storicamente inconsistente. Sbocca in essa
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
Né Croce, allora e poi, si stancò di rilevare questo punto, contestando sistematicamente un giudizio polemico che, ai suoi occhi, deformava i caratteri e la qualità propriamente filosofica della sua ricerca: «batto anch’io talora — replica nel 1922 ai giovani attualisti — alla chiusa porta del mistero, a quella che un altro e a me caro poeta ha chiamato una volta «il battente finto sullo spessor duro del niente». Ma — continua — me ne sto a quel battere e risonare sordo: e considero quell’aspettazione, che risorge di tanto in tanto, come l’effetto di un antico abito mentale, che ormai si consuma in sé stesso, non essendo più ca-
pace di crearsi una mitologia: un caso di strana incontentabilità e di insaziabilità» 7. In discussione, dunque, non erano, in sé, né
l'esigenza del mistero, né il riconoscimento dell’ansia e dell’angoscia quotidiana del pensare. Né discutibili erano i compiti dell’intellettuale in quanto cittadino di uno stato, membro di una nazione. In questione erano, anzitutto, i caratteri del rapporto tra pensare astratto e pensare concreto, tra campo proprio dell’intellettuale, e del filosofo, e campo proprio del cittadino, e del politico; le relazioni da stabilire fra gli uni e gli altri, al di là di una immediatezza che si configura, per Croce, come malattia del pensiero e della realtà della vita nella sua complessità. La salute della vita spirituale sta nella distinzione, nel rifiuto della immediatezza astratta e della astratta opposizione. E, sul piano individuale, ‘empirico’, la salute consiste nello sforzo
positivo, nel superamento dell’ansia del mistero, nell’oltrepassamento dell’angoscia che coinvolge chiunque sia impegnato nell’impresa del pensare; sta nel riconoscimento del primato del lavoro quotidiano quale misura di equilibrio e sanità: «Mi riposo nella fatica e fatico nel riposo che mi riempie di tristi e insopportabili pensieri», scrive a Karl Vossler il 7 dicembre del 1938 (nel periodo in cui stampa la Storia come pensiero e come una interpretazione ‘critica’ del Rinascimento, nella quale si intrecciano motivi della tradizione controversistica sia cattolica che protestante. A ben vedere poi,
alle radici di quella visione d’Erasmo stanno Lutero, la polemica svolta nel De servo arbitrio, e l’interpretazione in chiave scettico-sofistica che della posizione erasmiana viene offerta in quel testo capitale. Per una interpretazione assai più convincente di Erasmo — al di là delle classiche vedute di J. HUIZINGA (Erasmo,
Milano 1958) — cfr l’Irntroduzione di E. GARIN alla edizione da lui curata dell’Elogio della follia, Milano 1984 (rist. 1992), pp. IX-XXVII. ? B. CROCE, L'insoddisfazione per la filosofia, in ID., Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, cit., p. 236 (il testo è del 1922).
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
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azione), radicalizzando, nella crisi, il suo ideale ‘umanistico’ di
operosità È. Confrontarsi con l’immagine del Croce-Erasmo vuol dire, in primo luogo, risalire a questi nodi fondamentali, e ricostituire il quadro problematico nel quale effettivamente Croce si muove, distinguendo livelli ‘empirici’ e piani ‘filosofici’, e differenziando fasi e momenti di una elaborazione che si distende lungo un arco di oltre sessanta anni. La medesima immagine erasmiana, ove fosse accettata, implicherebbe, di necessità, un simile lavo-
ro di scavo e distinzione. Ma per entrambe le cose è necessario, poi, sgombrare il campo dal topos — parallelo a quello ‘erasmiano’, ‘epicureo’ — di un Croce immobile, pensatore statico, permanentemente impegnato sulle «quattro parole», incapace di promuovere e sperimentare travagli speculativi corrispondenti ai problemi della modernità. In parte, ancora oggi, questa immagine resta. E riflette, al fondo, la persistente difficoltà a misurarsi con un filosofo che può, ormai, essere considerato un ‘classico’, diventan-
do — esso stesso — problema storiografico. In questo intreccio compiuto — ma non scontato, né lineare — sta la possibilità di ripensare il pensiero di Croce al di là di pregiudizi ideologici consumati dal tempo, rilevandone, con le costanti, i mutamenti, le
svolte, le fasi del passaggio. Ma non è facile, neppure per gli anni del fascismo. Anzitutto per quella ambizione alla «unità e alla «coerenza» sopra richiamata, e per la tendenza, tipica di Croce, a ripensarsi cancellando le tracce dei propri spostamenti. E poi per l’adozione di un lessico filosofico connotato da una consistente omogeneità e staticità, organico al carattere di una
riflessione distinta dal rapido affiorare di cellule tematiche fondamentali. In Croce, il lessico ha una funzione di contenimento
e di occultamento, piuttosto che di esplicitazione e chiarificazione dei dati di novità. E gli elementi nuovi — sia sul piano terminologico che su quello concettuale — si esprimono, più che per immissione di materiali inediti, attraverso la varia e differente ‘concertazione’ di cellule tematiche e di lemmi, dati, in gran
parte, originariamente.
Il mutamento
assume,
in Croce,
questa forma: e qui stanno, insieme, la ragione di una obiettiva difficoltà analitica, e il dato di verità colto, e distorto, nell’immagine erasmiana e statica prima evocata. 8 Carteggio Croce-Vossler, cit., p. 361.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
2. Intanto, se si considerano gli anni del fascismo, si vede
anzitutto che essi, dal punto di vista della produttività, sono fra i più intensi e ricchi della vita di Croce, in senso assoluto. Nascono, allora, opere che consegnano questo filosofo alla storia del pensiero contemporaneo. Ma, insieme a questo, balza subito, in primo piano, un altro elemento. Nel primo decennio prevalgono opere di carattere storiografico (Storia del Regno di Napoli, 1925; Storia d’Italia, 1928; Storia dell’età barocca, 1929; Storia d'Europa nel secolo decimonono, 1932); nel secondo spic-
cano invece i ‘saggi’ filosofici (La poesia, 1936; La storia come pensiero e come azione, 1938; Il carattere della filosofia moderna, che esce nel 1941). Né si tratta, ovviamente, di un caso. Il pri-
mato delle ricerche storiografiche scaturisce dalla persuasione, netta in Croce fino alla prima metà degli anni Trenta; che la fase filosofica in senso stretto si fosse compiuta in Italia, e che compito fondamentale fosse diventato quello di applicare i risultati acquisiti sul piano teoretico all’analisi e alla comprensione dei problemi storici concreti, delle ‘cose’, ristabilendo un circolo positivo, ‘sano’ tra idee e realtà, filosofia e storiografia: quando una crisi spirituale ha avuto il suo svolgimento e ne è stato raccolto il frutto — scrive nel 1922 —, è impossibile continuarla ad arbitrio ed ottenerne nuovi frutti. Non si riesce ad altro, in questo caso, che a ripetere, combinare, sottilizzare, fraintendere ed esagerare il già
trovato. I nuovi tempi — osserva — chiedono altro: chiedono che sia digerito e assimilato ciò che si è raccolto: e digerire e assimilare le verità filosofiche è quello che comunemente si chiama «applicare le teorie» cioè valersene per l’indagine dei fatti, trasfonderle in critica e storiografia, e così insensibilmente accrescerle e correggerle e inverarle?.
Nella critica della troppa filosofia si esprime, dunque, con nettezza il rifiuto del pensiero astratto e vuoto, ‘malato’, che
gira su sé stesso, distaccandosi dalla realtà della vita e della storia. E allora, in opposizione agli attualisti — e distinguendo tra crisi teorica e crisi politica — si riafferma e si rinsalda il carattere della scelta storiografica come momento sano del pensare. Ma è questa persuasione che s’incrina a metà degli anni Trenta, sullo sfondo di un progressivo ripensamento della crisi radicale che investe le strutture fondamentali del mondo mo? Troppa filosofia, cit., p. 241.
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derno-liberale. E qui declinano la scelta e il programma storiografico, e riaffiora il primato della filosofia in senso stretto, qua talis, alla quale, del resto, Croce aveva continuato a lavorare, in
varia forma, anche negli anni precedenti. Ma in quello spostamento d’asse programmatico — nel passaggio dalla storiografia alla filosofia — incide e s'impone, anzitutto, il bisogno propriamente teoretico di rideterminare le condizioni di possibilità della vita e del pensiero, in una fase della storia del mondo connotata dal travolgimento degli argini in cui essa, fino ad allora, si era venuta spontaneamente componendo e strutturando. «Nell’età moderna — aveva scritto nel 1924 — la vita scorre non più idilliaca e sulla terra ferma, ma sul mare e drammatica» 1%; ma non
avrebbe mai immaginato, allora, quale tempesta avrebbe scosso i vincoli politici, culturali, etici che avevano tenuto insieme co-
stantemente la comune umanità. Da tali esperienze germina, nella seconda metà degli anni Trenta, il programma filosofico culminato nella Storia come pensiero e come azione: dal bisogno di reindividuare le condizioni di possibilità dell’equilibrio, dell'ordine, della sanità, in un secolo profondamente e struttural-
mente malato. Actus, non agens: dalla riconsiderazione della situazione storico-universale — e dalla radicalità della crisi in atto — Croce è dunque ricostretto a spostar l’asse del proprio lavoro, a ridefinire il proprio ‘compito’ nel mondo, a rimisurarsi con la filosofia: quella filosofia - vedremo più avanti — che rappresenta, ai suoi occhi, l’eccezionalità, non la norma, la malattia,
non la salute del pensiero.
3. A illuminare questa problematica, e gli svolgimenti della posizione crociana a metà del terzo decennio del secolo, può essere utile muovere proprio di qui, dal motivo della sanità e della malattia. E, precisamente, dalla vana configurazione e progressiva centralità che, proprio allora, essa viene assumendo nell'ambito della riflessione crociana, in relazione all’affiorare e
all’imporsi del tema della crisi e della decadenza. Quello biologico, medico, è del resto un lessico che conno-
ta frequentemente il discorso crociano. E al di là degli usi 10 B. CROCE, Unità reale e unità panlogistica, in ID., Ultimi saggi, Bari 1948, p. 339 (il testo, del 1924, è la discussione di R. G. COLLINGWOOD, Speculum mentis or the Map of Knowledge, Oxford 1924).
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
propri del ‘senso comune’, segnala un primato e una incidenza costante del modello della ‘vita’, spesso rimossi in base al pregiudizio — esso sì, di matrice crociana — di una rottura radicale tra filosofia dello spirito e cultura filosofica e scientifica ottocentesca. Al contrario lemmi come «sangue», «linfa», «circolazione», «organismo», «cervello», «germe» e, appunto, «malat-
tia» e «sanità» si individuano con frequenza nel campo delle analisi teoriche come in quello delle indagini storiografiche, etiche, politiche. E si situano nel quadro di una centralità del motivo
della ‘vita’, distinto, internamente,
da due accezioni
fondamentali, quella umanistico-goethiana e quella biologicodarwiniana, che in una prima, lunga fase si compongono spontaneamente nell’unità del circolo spirituale; poi, dalla metà degli anni Trenta, tendono irresistibilmente a configurarsi come poli antagonistici, attraverso l’aspirazione di ciascuna forma speciale a sopraffare le altre, determinandosi come totalità. Il fine del-
l'armonia si viene allora complicando, e si disloca dal campo della spontaneità a quello della direzione necessaria del processo storico-vitale da parte di una forma delle forme cui è delegato il compito, propriamente etico-politico, di ricostituire l'equilibrio malato, e non più intrinsecamente garantito. Goethe e Darwin, le rispettive concezioni della vita, il loro
reciproco primato: sono questi, a ben vedere, gli assi fra cui si muove la riflessione crociana dalla Filosofia della pratica alla Storia come pensiero e come azione, nel quadro di un mutamento, via via più accelerato, delle condizioni di possibilità della
vita spirituale, incrinate alle radici dalla espansione impetuosa e scoordinata degli impulsi vitali elementari, ribelli alle antiche e naturali leggi di controllo e autogoverno. Ma su questi temi si tornerà più avanti. Anzitutto conviene presentare, brevemente,
una serie di occorrenze
di carattere biologico, medico, esclu-
dendo gli usi più comuni, e concentrando l’inchiesta sul periodo !! — e sui motivi teorico-politici — messi al centro di queste pagine.
!! L'incidenza del lessico biologico nelle analisi di Croce è riscontrabile senza difficoltà anche negli scritti precedenti al periodo tra le due guerre. Mi limito qui a citare un testo significativo del 1911; il passaggio dall’«utopia» alla «scienza», dal socialismo utopistico al socialismo moderno («o marxismo»), «era effettivamente nient'altro che il passaggio dall’astratto ideale alla concretezza della storia,
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Sul piano dell'analisi della vita dello spirito: «come la sanità della vita organica è di volta in volta turbata dalle malattie, così
ogni altra parte della vita spirituale»; «lo svolgimento storico accade attraverso crisi che sono vie e modi dello svolgimento stesso, e mercé strazî e sofferenze che sono rimedî: quei rimedî, quei farmachi, che il filosofo definiva “l’indigeribile” e pertanto atti a stimolare mercé la resistenza e la ribellione le forze vitali»; il fatto che ciascun uomo, in quanto spiritualità, sia poeta,
non toglie «la pratica distinzione del poeta e del non poeta, del poeta dal filosofo e dall'uomo d’azione»; allo stesso modo che «essere la malattia momento eterno della sanità e vita ipsa m20rbus» non toglie la differenza tra «sanità» e «malattia», «sani» e «malati»; gli «insoddisfatti della filosofia, e bramosi del mistero e del ‘di là’, hanno dunque molto, troppo appetito: laddove, da mia parte, quando mi sono cibato di quanto fa d’uopo per la sanità dell’organismo spirituale, sento che non conviene chiedere altro»; «non è da ammettere il concetto di un pensiero che stia per sé solo, scompagnato dalle altre forme della vita; perché quell’unità stessa che si pone come pensiero, si pone come tutte
le altre forme insieme, e lo stesso sangue circola in tutto l’organismo, e, dove c’è pensiero,
c'è morale, c’è azione, c’è arte,
buona, sana, energica, come quel pensiero stesso»; «non ho mai
gustato questa ‘boria dei filosofi’, e non fntendo quale torto si faccia al cuore o al cervello considerandolo cuore e cervello di un organismo, e perché bisogni, digritatis causa, postulare un sopracuore o sopracervello o sopraorganismo»; «ma l'accaduto non è il definitivo e terminale: la storia del mondo continua e perciò pensarla non basta: bisogna far la nuova storia, operare. Dunque nessuna contraddizione: testa fredda e cuore caldo non sono termini conttraddittorî, dappoiché lo stesso cuore caldo vuole e comanda che la testa sia fredda»; «quello che si chiama una filosofia malsana o immorale non può non essere se non
l'abbandono dell'‘eguaglianza’, cioè di un concetto aritmetico e geometrico, per un concetto biologico, per la vita che è disuguaglianza e asimmetria. Quindi: lotta di classe, aristocrazia lavoratrice (ben distinta dal proletariato cencioso, dalla pezzenteria), che vinca la borghesia e trasformi il complesso sociale, dominio cre-
scente sulle forze cieche della natura, predominio della tecnica». Cfr La morte del socialismo, in CROCE, Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, cit., p. 152. Il
testo, del gennaio 1911, s'accompagna all’altra «conversazione» sulla «mentalità massonica», del novembre del 1910.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
malsania o immoralità, che, non paga di restare nel campo pratico, si versa anche nella sfera teoretica, assume sembiante di
filosofia ed è in effetto odiosa o falsa filosofia»; la famiglia, l’arte, la religione, la scienza, «hanno vigore solo in quanto posso-
no far sentire la loro efficacia nella vita dello stato, e, messe in luoghi separati, e sia pure riverite e carezzate, inaridiscono e intristiscono, venendo a mancar loro la linfa che le nutre» !. Sul piano dell'analisi politica: la libertà non è l'opposizione allo Stato: «salvo che non si voglia pensare che il sangue, che circola nelle vene e di continuo si rinnova, sia un’illecita irrequietezza contro la sovrana calma dell'organismo fisiologico»; fine delle reazioni è anche quello di «indire una pausa e dar tempo alle forze morali di ripigliare coscienza di sé e della pro‘pria responsabilità e rendere possibile il ristabilimento dell’unione etico-politica, del consenso, del ricambio, dell'amore»; 12 Per questi luoghi cfr, in ordine, Vecchie e nuove questioni intorno all'idea dello Stato, in Orientamenti. Piccoli saggi di filosofia politica, Milano 1934, p. 20; Il concetto
di decadenza,
ivi, pp. 80-81; L'insoddisfazione per la filosofia, cit.,
pp. 236-237; Rileggendo il discorso del De Sanctis sulla «scienza e la vita», ivi, pp. 272-273; p. 357; Contro
La filosofia come lo «storicismo».
«inconcludenza
sublime»,
in Ultimi saggi, cit.,
Battute di un dialogo, in Conversazioni
critiche,
serie quinta, Bari 1939, pp. 378-379; Filosofia e azione politica e morale, ivi, p. 260; Vecchie e nuove questioni intorno all'idea dello Stato, cit., p. 16. Quest’ultimo testo, col titolo Arzore e avversione allo Stato, insieme ad altri fu ristampato
in Ultimi saggi, cit., p. 380. Ma qui e altrove preferisco citare anzitutto da quell’autentico capo d’opera che sono gli Orzentarzzenti, un volume che per essenzialità teorica e nitore stilistico si affianca a Eternità e storicità della filosofia, Rieti
1930 (raccolto, poi, anch'esso in U/tirzi saggi, cit., pp. 325-390). Su questo piano sono notevoli anche le battute della replica di Croce a Giovanni Ansaldo, sul tema del rapporto tra pensiero (storiografico) e azione (morale): «La mente storica —
gli scrive il 20 febbraio del ’28 — riconoscerà-la ragione dell’accaduto; ma essa oltrepasserebbe la sua competenza e si cangerebbe in sofisma storico, se consacrasse l'accaduto e gli conferisse l’intangibilità e la perpetuità. Bisognerebbe, invece, dire irrazionale e arbitrario l'accaduto? Ma esso vi smentisce con la sua stessa esistenza: esso è una positività, e il male e l’arbitrario non è mai positivo, ed esiste come tale soltanto nella nostra coscienza che lo supera. Dunque, salvare la storia e salvare la coscienza morale; questo che a Lei sembra una mia contradizione, 0 cortesemente una felix culpa, è invece una contrarietà, che si unifica come l’affermazione e la negazione (come il maschio e la femmina, direbbe Claudel che pensa solo per immagini sessuali). E la contrarietà è la definizione della vita; almeno, finora, non se n’è trovata La
I fisiologi dicono cheè l’insieme delle forze che si
oppongono alla morte: cioè che la vita è un rapporto di vita e morte. Togliete la morte, togliete la vita. Togliete il fatto, togliete l’ideale. Togliete la storia, togliete la volontà che la crea in sempre nuove forme» (Epistolario, I, cit., p. 145). Si veda anche, naturalmente, lo scritto Lo spirito sano e lo spirito malato, uno dei Frammenti di etica raccolti in Etica e politica, cit., pp. 51-59.
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
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ma ciò «non può essere un loro fine diretto, ed esse vi concorrono solo negativamente con la privazione o con la dieta, per far
uso di un termine medico»; gli anarchici sono «mossi da malsana insofferenza del dovere e della disciplina» !. Infine, sommariamente, su/ piano dell'analisi della civiltà: «per gli ‘occidentali’, o meglio per gli spiriti sani, la forza della civiltà è nella sua continua distinzione e contrapposizione di pensiero ed azione, che solo così si fecondano a vicenda»; uno dei sintomi più spiccati delle malattie che affliggono il nostro tempo (ogni tempo ha malattie che possono dirsi sue particolari) è la perdita o la grave diminuzione della fiducia che l’individuo pone in sé stesso, e l’avida ricerca di qualcosa che a lui sia esterno [...] Tutto ciò,
importa ripeterlo, è segno di diminuzione di forza vitale !.
13 Vecchie e nuove questioni intorno all'idea dello Stato, cit., pp. 15, 23, 10. 14 Teoretico e pratico, in Conversazioni critiche, serie quinta, cit., p. 356; La sottomissione all’universale, ivi, p. 341. Non cito nel testo luoghi dalle opere storiografiche, nelle quali l'incidenza del lessico biologico — sia pur interpretato in termini di ‘senso comune’ — è stata rilevata. Si veda, a conferma, la Storia d’Italia,
Bari 1964: «Con immagine opposta a quella del “popolo vecchio” si soleva anche dire che l’Italia era una “nazione giovane” o uno “stato giovane” e la gracilità e le malattie dell'adolescenza non si possono negare nell'Italia di quel periodo» (p. 112); «Ma non gli riuscì (al Crispi) di porre riparo né alla crisi finanziaria del bilancio dello stato, né a quella gravissima economica, in cui era allora entrato il paese; la quale deficienza non è da riferire a sua scarsa capacità, giacché si tratta di malattie che debbono fare il loro corso e che si risolvono con l’aiuto di forze che oltrepassano quelle del singolo individuo» (pp. 197-198); «Che quella crisi avesse in definitiva effetti benefici, che la guerra commerciale con la Francia liberasse dalla troppa dipendenza francese il commercio italiano e desse le condizioni favorevoli al crescere delle industrie, è vero, almeno in un certo senso; ma ciò non toglie che la crisi fosse crisi, cioè che la malattia fosse malattia. E urgeva raccogliere le forze per il risanamento» (pp. 198-199); «In questa così rigogliosa rinascita di fervore speculativo, che per sé stesso era indubbiamente un bene o principio di bene, si insinuava, per altro, qualcosa di malsicuro e di poco sano.
Condizione di una vigorosa ed efficace attività filosofica è un vigoroso e schietto sentire morale, che, a sua volta, è condizionato da quella e si accresce di quella
circolazione vitale. Ma la coscienza morale d'Europa era ammalata» (p. 262); «Era cotesta una disposizione psichica che, con vario grado e con vario miscuglio, si notava dappertutto nel mondo, come altri dei sentimenti e dei pensieri che abbiamo descritti; e questa sua generalità, che la dimostra pertinente a una età storica e non a un particolare popolo, confermando la profondità e gravità della malattia, diminuisce la taccia particolare che voglia darsene al popolo italiano, il quale, tutto considerato, è ancora uno dei più sani d'Europa, dei meno torbidi e morbosi
nel sentire, dei più disposti alla chiarezza e semplicità nei concetti»
(pp. 305-306).
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
Sono, come
si vede, luoghi sintomatici,
che potrebbero,
senza difficoltà, essere estesi (specie in direzione delle indagini storiografiche), e che andrebbero analiticamente considerati nel quadro di una ricerca (che andrà pur svolta) sul rapporto, nella cultura filosofica del Novecento anche italiano, tra lessico bio-
logico e scientifico, da una parte; e lessico filosofico e politico, dall’altro. Non è questo, ovviamente, che qui s’intende fare. Va rilevato, invece, da un punto di vista individuale, empirico, che
il motivo della sanità si ripresenta con forza nelle lettere di Croce, nei suoi carteggi privati, dove affiora, e poi si impone con straordinaria nettezza, l’immagine d’un uomo assillato dalla malattia, dal timore della possibile perdita di sé, e che, momento per momento, si sforza di riacquistare e rinsaldare
l'equilibrio, attraverso un lavoro quotidiano consapevolmente inteso a tener lontane «tentazioni» che, osserva con ironia, non
appartengono solo all'uomo «nordico» !. Agli occhi di Croce la sanità, oltre che come fatto fisico, si
configura, anzi, come dovere proprio dell’uomo di studi, come condizione del suo lavoro: Badate a rifarvi in salute — scrive
a Omodeo nel 1929 —, e a non
ammalarvi in niun modo, per dovere verso i vostri e verso gli studii. In circostanze come
queste bisogna sapersi sdoppiare e cingere di
freddezza: le cose si accomodano, ma, intanto, se non si segue quel metodo, ci si rovina in quel che più importa, nelle forze di cui si deve
poter disporre !°. Eppure, quello dell’equilibrio, e della salute, è un difficile
ideale, di fronte all’urgere degli impulsi vitali, e alla tentazione permanente di sorpassare il limite entro cui occorre stare e la-
vorare: «Ma crede egli davvero — obietta a Carabellese nel 1921 — che si possa aver dato i migliori momenti della propria vita alla meditazione filosofica, ed essere rimasto affatto immune dalle ansie, dalle angosce, dai rapimenti, dalle delusioni, che ac-
compagnano la ricerca del vero? Crede sul serio che non sia Intorno alla filosofia della natura, in Ultimi saggi, cit., p. 385. «La leggenda della mia impassibilità — aveva scritto a Girolamo Vitelli, alla fine del ’17 — è una leggenda. Io procuro di non perder la testa: ecco tutto. Nondimeno ciò mi è costato e mi costa sforzi dolorosi» (Epistolario, I, cit., p. 18). 16
Carteggio Croce-Omodeo, cit., p. 19.
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
stato o non sia un po’ anch'io,
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a modo mio, “vittima di Dio”,
per adoperare la espressione che a lui piace? Crede che io non abbia provato o non provi i tormenti che sono insuperabili dalla vita del pensiero? Vero è soltanto che ho acquistato coscienza che è necessario soffrire questi tormenti, non per offrirsi vittima a Dio, ma per comprendere meglio le cose del mondo» ! 4. L'opposizione sanità/malattia non è, d’altronde, una novità. Antica era, ad esempio, l'applicazione generale di una terminologia medica in sede politica (a cominciare da Machiavelli che ne fa un uso sistematico, e dai seguaci del machiavellismo) !8. Ma essa riacquista in Croce forza e originalità per la pluralità di campi tematici che viene, progressivamente, connotando, fino a qualificare lo stato complessivo del mondo. «Il linguaggio è metafora, e i nostri affetti si esprimono con metafore», osserva nel ’25. Ma, in questo caso, il lessico biolo-
gico-medico è più che metaforico; scaturisce da esigenze e problemi più profondi. Segnala il valore di modello che, per la filosofia dello spirito, assume,
anzitutto, la vita intesa come
equilibrio, e spontanea armonia di organi e funzioni. Sta qui la pietra di paragone della comune umanità, nei distinti gradi del suo sviluppo. Alla vita così concepita sono, estranee strutturalmente rotture radicali, definitive, che si configurerebbero come
un impossibile arresto del suo ritmo naturalmente armonico. Sono perciò patologiche quelle posizioni e tendenze pratiche che intendono storicamente legittimarsi attraverso una rottura, uno strappo della tradizione e della storia. Questa rottura è barbarie, e ricaduta nella animalità. E barbarie è il giacobinismo,
che si contrappone alle leggi di svolgimento della vita; interrompe il corso sano delle cose; introduce elementi di malattia nel corpo sociale e politico. Esso va dunque rifiutato per ragioni ‘vitali’, ‘elementari’, prima che politiche. Su questo sfondo problematico, si colloca, per opposizione, l’analisi del fascismo, nell’ambito di una riflessione generale intorno alle forme politiche reazionarie, che non possono mai essere interpretate come puri e semplici ritorni al passato. Esse, !7 La filosofia come «inconcludenza sublime», cit., p. 359. 18 Per questi temi, cfr PROCACCI, Studi sulla fortuna di Machiavelli, cit. Sul
motivo politico-chirurgo, cfr CROCE, Etica e politica, cit. (in particolare si veda L'onestà politica, p. 134, già uscita in «Politica», I, 1919, pp. 13-17).
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
invece, quando sono serie ed autentiche reazioni, germinano da
una situazione obiettiva di crisi e di malattia della società che,
per la parte che loro compete, contribuiscono a sanare. Essenzialmente, le reazioni scaturiscono dalla «incapacità degli impulsi della vita a innalzarsi a richieste morali, e perciò a incanalarsi in istituti e a serbare lo Stato» !, ed hanno il compito di restaurare l’equilibrio che è venuto a mancare, e che va, di continuo, ricostituito, secondo una legge che accomuna individui e società: giacché, scrive, «come l’individuo deve riacquistare oggi giorno e ognora sé stesso, così le società debbono di continuo riacquistare la loro forma di equilibrio» 2°. Qui sta il significato effettivo di quella che, impropriamente, si chiama reazione. Allo stesso modo, la necessità effettiva della rivoluzio-
ne sta nella «colpa» dello Stato, «diventato restio ed incapace ad accogliere in sé gli impulsi della vita e le richieste della coscienza morale» 21. Sia l’una che l’altra, sia la reazione che la rivoluzione, corrispondono dunque a situazioni straordinarie della società e dello stato; rappresentano l’eccezione, che conferma la regola cui si conformano normalmente la vita e la storia nel loro processo fondamentalmente armonico. Sono rimedi, i quali hanno la sola funzione di ricostituire le condizioni di un sano funzionamento degli «organi» dell’«organismo» sociale e politico: e a questa stregua vanno apprezzate, e delimitate. La reazione, in particolare, si contrappone — unilateralmente, come «mero utile e mera forza» — al pericolo della caduta nell’anarchia, nel caos; esprime «l’elementare e fondamentale bisogno umano dell’ordine sociale» 22. Essa è, perciò, sempre preceduta da «indebolimento e da debolezza morale degli individui», ed ha, come fine precipuo, quello di «stimolare mercé la resistenza e la ribellione le forze vitali» ?. E qui finisce il compito storico delle reazioni, che hanno carattere «schiettamente politico», consistente, 17 720do diretto, nell’abbattere le tendenze anarchi-
che; ir m20do indiretto, nell’«indire una pausa» e nel «dar tempo alle forze morali di ripigliare coscienza di sé e della propria responsabilità», rendendo possibile «il ristabilimento della unio!9 Vecchie e nuove questioni intorno all’idea dello Stato, cit., p. 19. “i ipadl yi piol9)
è Ibid, 2 Tia pi20)
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
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ne etico-politica, del consenso, del ricambio, dell'amore». Ma
direttamente e positivamente questo compito spetta alle «forze morali, le quali, quanto più sono inferme e lente, tanto più ne ritardano l'adempimento e rendono necessario il persistere delle reazioni» 24, che, d’altronde, per intrinseca natura, sono desti-
nate a perire, qualunque sia lo sforzo fatto per darsi compiti ad esse stutturalmente estranei. A nulla serve, dunque, che le reazioni cerchino di ottenere «consenso morale», di promuovere cultura, di «chiamare a sé le teorie della scienza, le parole e le
immagini delle arti». La cultura, la scienza e le arti non nascono e non possono nascere da una situazione di malattia della vita; costitutivamente spontanee, sane, sono estranee alle forme
politiche reazionarie. Rappresentano la qualità, non la quantità, la fisiologia, non la patologia della vita dello spirito: mentre «il punto debole delle culture promosse o piuttosto foggiate dalle reazioni è proprio questo: che la quantità non crea la qualità, o
piuttosto che l’apparenza non è sostanza. Durum et durum: non faciunt murum — sottolinea Croce —: vi bisogna il cemento, e il cemento essendo in questo caso metafora della spontaneità, non è dato ottenerlo col comando, cioè con la mera volontà utilita-
ria, e neppure con l’inebriamento e col fanatismo che spesso il comando suscita e che non è schietta e verace spontaneità e si dimostra, al far dei conti, sterile». E, difatti, «la cultura dei pe-
riodi di reazione si ritrova e si cerca soltanto negli oppositori delle reazioni» ©, che hanno continuato, nella crisi, a manife-
stare la spontaneità delle forze vitali e spirituali. Sono, queste, posizioni di un saggio del 1933 — Vecchie e nuove questioni intorno alla idea di Stato — ripubblicato l’anno dopo, in un volumetto significativo già dal titolo, Orientamenti,
stampato a Milano da Gilardi e Noto. Si presenta come un testo di filosofia della politica. Ma in esso Croce, di fatto, riconside-
ra attraverso l’idea di Stato gli anni della lotta politica in Italia fra guerra e dopoguerra; la nascita e l'avvento del fascismo; il ruolo di necessaria reazione da esso svolto.
“luppo 2 Ivi, pp. 26-27: «come in Italia, nell’età della Controriforma, in Bruno e
Campanella e Galileo, e nell’età della restaurazione in coloro che l’avversarono e si appartarono, o, in certa misura, in quegli altri che dettero all’assolutismo monarchico il loro ossequio politico ma non il loro animo o non tutto l'animo loro». Cfr, per questi temi, B. CROCE, Storia dell'età barocca în Italia, Bari 1929 (ultima ed. Milano 1993).
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
Abbattendo le tendenze anarchiche e restaurando l’autorità dello Stato, il fascismo aveva, infatti, ristimolato le «forze vitali», e ristabilito le condizioni di una rispresa «naturale», «sana», della vita nazionale. Ma la malattia era ormai finita; il «farmaco» aveva funzionato; nuove energie erano, finalmente, germinate. E se il fascismo non avesse preso atto della situazione, da
questo «sforzo contro la propria natura» sarebbe stato indotto a rivelare a se stesso e agli altri il suo carattere di transitorio «stato d’assedio» °°: giacché questo è, appunto, il destino delle reazioni che non sanno metter fine, autonomamente, all’opera positiva da esse, indirettamente e per antitesi, sviluppata. In questo testo dei primi anni Trenta confluiscono, dunque,
motivi molteplici, di carattere etico, politico, filosofico. Era poi svolta e presentata una delle analisi più aperte che Croce avesse mai fatto delle carenze e delle debolezze ideali e politiche della classe dirigente liberale, e delle sue responsabilità nella crisi dello Stato italiano e nell’avvento, conseguente, del fascismo 2”. Ma sia nella interpretazione del fascismo come reazione,
e come «farmaco indigeribile» con cui curare una forte malattia, sia nella critica del giacobinismo come innaturale rottura della tradizione storica, agiva anzitutto la concezione crociana della vita come armonia «spontanea» ed equilibrio di funzioni, in cui ciascuna parte — ciascun «organo» — svolge la parte che gli è propria secondo un ritmo fisiologico, che è imperniato sul «libero giuoco» delle «forze spontanee e inventive degli individui e dei gruppi sociali, perché solo da queste forze si può aspettare il progresso mentale, morale ed economico, e solo nel libero giuoco si disegna il cammino che la storia deve percorrere» 28. Il primato della concezione liberale si radica qui: nella sua capacità di aderire intrinsecamente alle leggi di svolgimento della realtà. Reazionarismo e socialismo esprimono anch'essi ip ? È un motivo critico presente, in forma nettamente politica, fin dagli anni del primo affermarsi del fascismo: «quando il liberalismo degenera com'è degenerato in Italia tra il 1919 e il 1922 e resta poco più di una vuota e ripugnante maschera - scrive a Sebastiano Timpanaro il 5 giugno del ’23 —, può essere benefico un periodo di sospensione della libertà: a patto che restauri un più severo e consapevole regime liberale» (Epistolario, I, cit., pp. 100-101). 28 Liberalismo, in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, cit., pp. 284285. Il testo è del 1925.
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
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«bisogni eterni» delle società umane, ma di carattere «estremo»,
«critico», e perciò transitorio; rappresentano la malattia, non la salute. La libertà è destinata naturalmente, spontaneamente ad imporsi all’autorità reazionaria e alla violenza rivoluzionaria: quella libertà che è, appunto, la «linfa», il «sangue» che scorre nell’organismo della vita e della società, dello Stato ?°. La superiorità e il ruolo perenne del liberalismo sono, dunque, strutturalmente garantiti dal fondamento originario, elementare, vita-
le, su cui esso è basato. È la vita che ne legittima il primato e l'eternità. E, come s'è detto, la prospettiva che si incrina a metà degli anni Trenta, quando il caos sembra travolgere l'armonia delle forme, e il disordine pare scardinare le leggi fondamentali della vita: quando, in sintesi, sembrano esaurirsi le condizioni di possibilità della storia e della società. Si delinea allora lo sfondo contro cui si riafferma una fase nuova della filosofia crociana, in senso stretto, come malattia e guarigione della malattia. Questo è, infatti, la Storia come pensiero e come azione: un saggio della salute dello spirito europeo. Ma esso scaturisce da una riconsiderazione — né semplice né scontata — del ruolo e dell’attualità, a quel momento, della filosofia qua talis, e della sua obiettiva necessità 7, pa 5. Sul tema della malattia nella vita spirituale Croce insiste costantemente (come, del resto, appare chiaro anche dalle occorrenze prima citate). Malattia è, fondamentalmente, la confu-
sione indiscriminata dei piani della realtà e della vita; è la 29 Vecchie e nuove questioni intorno all'idea dello Stato, cit., pp. 15 e 16. 30 In questo quadro di problemi — e a conferma del riaffiorare a metà degli anni Trenta della problematica schiettamente filosofica (prima sul piano della riflessione estetica, poi su quello dell'indagine intorno alla storia) — è sintomatica la modificazione apportata al ‘programma’ della «Critica» pubblicato in quarta di copertina. Dal fasc. IN del 1935, esso è riformulato così: «La Critica, nella sua terza serie, continua a illustrare largamente la storia della moderna letteratura italiana, e a schiarire problemi di estetica e di metodologia storica; pubblica scritti e documenti inediti di notevole importanza; offre indagini di svariata erudizione letteraria; e tien dietro al moto degli studi italiani e stranieri negli argomenti di sua competenza». La storia civile e culturale d’Italia, fino ad allora al primo posto, viene meno, e avanti rivengono i problemi estetici e storici, che, dapprima, o non erano esplicitamente sottolineati o non si configuravano come aspetto prioritario
del programma della rivista.
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violazione della unità, la sovrapposizione delle forme dello spirito. Che cosa è invece, concretamente, questa unità, «se non
ciò stesso che si pensa come distinzione concreta e organica, e perciò come processo di unificazione e di unità?». «All’occhio che ha guardato — osserva Croce, con un riferimento tipico —, segue il moto della mano, che si protende. È necessario per spiegare questo, affermare che l’occhio si contradice perché vuol essere e non è una mano e che il vero occhio è la mano che si protende?». E «non è più giusto dire che l’occhio e la mano sono determinazioni dell’unico organismo, che senza esse e le altre determinazioni non sarebbe né organismo né uno?» ?!. Questa è l’unità «concreta» e «organica» della filosofia, opposta a quella «astratta» delle matematiche. Ma la stessa filosofia, abbandonata a sé stessa e sciolta dai nessi vitali con i fatti
concreti e gli effettivi problemi, può decadere, ammalarsi, dissolversi. Il filosofare stricto sensu non è né una moda né un capriccio; è imposto — quando giova — dalla forza delle cose, ed è un momento eccezionale e transeunte della vita del pensiero. Tra gli anni Venti e i primissimi anni Trenta, su questo punto delicato e fondamentale, Croce batte a più riprese, nel quadro della polemica antiattualistica, insistendo — per opposizione — sulla costante positività del lavoro storiografico. Nel 1922 — s'è già visto — sottolinea come la fase schiettamente filosofica in Italia si sia conclusa, e sia arrivato il tempo di applicare le conquiste realizzate dal punto di vista teoretico e categoriale, trascorrendo dalla filosofia alla storiografia ??. Ma la stessa prospettiva riaffiora, con eguale chiarezza e anche più forza polemica, a metà del ’33, a conferma di una permanenza ‘programmatica’, ancora a quella data, sulla medesima posizione: «non sarebbe giusto, e anzi non avrebbe senso», scrive, discorrendo delle condizioni presenti della filosofia in Italia, istituire raffronti malinconici col primo decennio o quindicennio del secolo, che fu tanto ferace di fresca e rigogliosa filosofia; perché con siffatti alti e bassi procede il ritmo della filosofia, e anzi quello di tutte le cose umane, e perché la presente sterilità è in diretto rapporto con la fecondità di allora. Si usciva, allora, da mezzo secolo di naturalismo
e positivismo e si era accumulata la materia di innumeri problemi che ?! Unità reale e unità panlogistica, in Ultimi saggi, cit., pp. 337-338. ?2 Troppa filosofia, cit., pp. 240-241.
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la logica naturalistica e l’agnosticismo positivistico non avevano, non che affrontati, neppur sospettati. Quale meraviglia se, al primo gettar della semenza, la terra così a lungo in riposo, desse una messe splen-
dida per qualità ed abbondanza? #3. Ma ora, nel ’33, la situazione si profila diversa, e neces-
sariamente statica, dal punto di vista propriamente teoretico. Né sarebbe servito eccitare, «in modo artificiale», un filosofare cui mancava
la materia essenziale.
Non erano, di fatto, sorti
«nuovi» problemi, «tali che per copia ed importanza» stessero alla pari di quelli «formulati e risoluti» nel primo quindicennio del secolo. Nel ’33 la via da seguire resta dunque quella segnalata nel ’22: «armati di cultura filosofica, immergersi nello studio delle cose, della storia in tutte le sue forme, e lasciare che
da questo lavoro sorgano, se mai, nuovi problemi speculativi». Senza lamentarsi, qualora non fossero sorti: giacché «il proprio e normale esercizio delle cose è il giudizio o la conoscenza delle cose». Mentre la filosofia qua talts, il filosofare in senso specifico, ossia il risalire ai supremi concetti e alle categorie, il pensare sul pensiero, è (parlando, beninteso, historice) un incidente, un fatto fuori dell’ordinario, simile a una malattia e a una crisi, che conviene di necessità subire e superare, ma che non è lecito
andar cercando per sé stessa e pretender di procacciarsela per diletto, o fingerla vanamente a sé stesso per il gusto di seguitare a scrive-
re volumi cosiddetti di filosofia
(un nome del quale Croce, del resto, ‘volentieri’ si sarebbe sbarazzato, sostituendolo con quello più proprio di metodologia). A ben vedere, anzi, la stessa «indifferenza, la ritrosia, l’avver-
sione che l’uomo normale, l’uomo che conosce il mondo e discerne il bene dal male e viene operando e lavorando in conformità, l'indifferenza che sovente egli dimostra verso la filosofia» si radica proprio in questo carattere di malattia, e di guarigione della malattia, che è nel filosofare, il quale, sebbene rappresenti una crisi di crescenza dello spirito umano, non è il pane quotidiano, non è ciò senza di cui non si vive e non si pensa: anzi, per contrario,
è una sospensione del vivere
33 Condizioni presenti della filosofia in Italia, in Conversioni critiche, serie quinta, cit., p. 270. Il testo esce, originariamente e con lo stesso titolo, sulla «Cri-
tica», XXXI, 1933, pp. 319-320.
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e del pensare stesso nella sua particolarità e concretezza, cioè del pensare a ogni altra cosa che non sia la forma stessa del pensiero 34 °*.
Malattia/sanità; filosofia/storiografia; pensare sul pensiero/pensare concreto: sta qui il ‘primato’ del programma storiografico svolto tra gli anni Venti e i primissimi anni Trenta. Radicandosi nei ritmi ordinari di svolgimento della vita, la storiografia costituisce il momento sano del pensare, rispetto alla ‘anormalità’ della filosofia, alla sua eccezionalità e transitorietà.
Ma qui sta anche la ragione strutturale delle opzioni concrete che la conoscenza storiografica compie, concentrandosi, per intrinseca natura, sui momenti normali dello sviluppo della storia e delle società, piuttosto che sulle fasi di crisi, di sconvolgimento degli ordini naturali. Conformandosi alla vita, la storiografia è, anzitutto, conoscenza dello sviluppo, non delle crisi di sviluppo; dell'armonia, non delle disarmonie; dell’equilibrio,
non degli squilibri. A questo proposito, si è criticamente rilevato come nella Storia d'Italia la narrazione inizi nel 1870 e si concluda nel 1914,
sia, cioè, compresa fra due fasi di malattia, che essa direttamente non indaga. E si sono, giustamente, rilevate le scelte di
carattere ideologico che sono alla base di questa posizione ??. 34 «Perciò — concludeva — tutti gl’intelletti seri, nutriti di filosofia, oggi si
sono volti o si vengono volgendo alla storia, e, così facendo, ben provvedono alle sorti della vita spirituale italiana. L'‘età filosofica’ della nuova Italia, piaccia o non piaccia, per ora è passata, avendo dato quel che doveva dare, ossia certi determinati concetti direttivi, e solo quando questi non fossero più bastevoli al bisogno o se non si sapesse tenerli vivi, risorgerebbe acuto il bisogno di filosofare e si riaprirebbe, forse, una più o meno ricca ‘età filosofica’» (ivi, p. 271). » Si veda, ad esempio, GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., pp. 1226-1229 (dove si mette a fuoco, oltre che la Storia d’Italia, la Storia d'Europa nel secolo decimonono). In questa prospettiva sono interessanti le repliche di Croce a chi, già nel ’28, gli faceva notare come - sul piano storiografico — non si fosse confrontato, nella Storia d’Italia, con la guerra e la crisi (la malattia). E conviene citarle,
sullo sfondo del ragionamento che, più avanti, si svolgerà nel testo: «Quanto alla mia dichiarazione che dopo il ’15 non saprei pensare storicamente — scrive nel febbraio del 28 a Giovanni Ansaldo —, essa non si riferisce ai singoli uomini e avvenimenti, che penso storicamente, cioè che cerco di conoscere e intendere, per potermi magari ad essi opporre, ma alla linea gererale del nuovo periodo, che non è ancora un periodo o un’età, perché quella linea non si vede. E per questo, cioè, non potendo scrivere storia ove non posso segnare una linea generale, mi rifiuto a continuare la storia dopo il ’15. La marcia su Roma e la politica dell’ Aventino le conosco bene, ma dove condurranno? L'Italia darà, per la prima, l'esempio dell’irrigidimento bizantino, di cui Spengler crede minacciata la vita europea? O ne
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Ma non basta, questa analisi?. La Storia d’Italia germina anche da una concezione del processo storico-vitale che privilegia, internamente, i momenti di salute, le fasi ordinarie rispetto a quelle «traumatiche». E che anche nei periodi di decadenza segnala, programmaticamente, i punti vitali, di svolgimento spontaneo, rispetto a quelli di arresto o di trasformazione violenta, uscirà più forte e liberale, come io spero? Questo né io né altri potrebbero storicamente stabilire perché la storia è del passato e non del futuro. Ma se il mio ex amico Gentile ama Bisanzio, io tendo all'opposto e fo il mio dovere assumendo la responsabilità di cercare e raccomandare e promuovere l’antibizantinismo. Una malattia - conclude — può essere un fenomeno di crescenza, e tuttavia bisogna curarla, ossia opporvisi, altrimenti, invece che di crescenza, potrà essere di morte» (Epistolario, I, cit., pp. 145-156). Il fatto, insomma, che la malattia fosse tuttora in corso, e indeterminato ne restasse l’esito, contrastava con la possibilità di po-
terne tracciare, in sede storiografica, la linea generale. Era un limite strutturale, intrinsecamente attinente, per Croce, alla dimensione storiografica; non era, di per
sé, una scelta politica: «Mi sono fermato nella Storia al 1915 — scrive a Maurice Muret nel luglio dello stesso anno —, non per calcolo politico, ma perché di quel che è accaduto in Europa e in Italia da quel tempo in poi né io né gli altri è ancora in grado di scrivere la storia propriamente detta, trattandosi di un processo ancora in corso assai complicato, in cui è impossibile,
o almeno sommamente dif-
ficile, veder chiaro» (Epistolario, I, cit., pp. 150-151). Su questa, che era una posizione fondamentale — radicata nella concezione crociana del processo storico, vitale e conoscitivo —, aveva del resto, sintomaticamente, insistito già dieci anni
prima: «Mi hanno molto interessato — scrive a Ettote Marroni il 17 novembre del ’19 — le cose che voi dite dell’età storica in cui siamo entrati. Vi confesso che anche io, durante la guerra, sono stato hanté del fantasma
della decadenza
di
Roma antica [...] Anche Dante (a proposito) — continua — vedeva in modo catastrofico la situazione del mondo ai suoi tempi; e il subisso non accadde. Ciò mi
conduce a fare un’osservazione generale e metodica, che del resto mi pare di avere accennata nel volume di Pagine sulla guerra, discorrendo del De Ruggiero. Penso cioè che non si possa segnare il carattere di un periodo che è appena iniziato e nel quale e del quale viviamo. Sono possibili in questo caso solo vedute parziali, che facilmente si completano nella mente con immaginazioni, sia ottimistiche sia pessimistiche. Se la storia è un divino mistero, mi sembra convenga adottare, anzitutto, verso di essa l’atteggiamento dell’umiltà» (Epistolarzo, I, cit., pp. 37-38). Sta qui anche la radice della critica svolta nei confronti di G. Simmel, e della tesi da lui affacciata nel °17 secondo cui l’«idea Europa» era stata distrutta per lungo tempo, e che proprio in ciò fosse da individuare una «perdita secca» apportata dalla guerra (cfr La guerra secondo il prof. Simmel, in B. CROCE, Pagine sulla guerra, Napoli 1919, pp. 183-185). 36 Un ‘limite’ di questo tipo è individuabile nel saggio di E. RAGIONIERI, Rileggendo la Storia d’Italia di Benedetto Croce, «Belfagor», XII, 1966, poi in E. RAGIONIERI, Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Bari 1967, pp. 263-290. Pur importante e per molti aspetti prezioso, il saggio di Ragionieri
si situa all’interno di una stagione critica che appare ormai conclusa. Sulla Storia d'Italia, cfr SASSO, La Storia d’Italia di Benedetto Croce. Cinquant'anni dopo, cit.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
innaturale. Lo spirito è progresso — scrive Croce nel ’34 —, «e
come tale contiene in perpetuo il momento della decadenza». Esso è «il salire dalla vitalità o animalità alla più alta umanità, ma anche l’arrivare al termine, e perciò la ridiscesa nell’animalità per iniziare un nuovo ciclo ascendente». La vita è, infatti, «vita e morte, e non sarebbe vita se non fosse morte»; ma que-
sto non vuol dire che «per essere la malattia momento eterno della sanità e vita ipsa morbus, non c'è più da parlare di sanità e malattia, e da discernere i malati dai sani» 7”. Questo era, anzi,
il compito che s’era scelto, anche sul piano storiografico, contrapponendosi costantemente alle visioni della vita come perpetuo cangiamento dei principi, instabilità, come caos, disordine, disarmonia, da cui saranno infine partorite le estreme degenerazioni razzistiche e naturalistiche. i L'ideale al quale continuava ad ispirarsi — e Ri; per opposizione polemica tendeva a rinsaldare — restava quello umanistico-goethiano: ed un motivo di Goethe — destinato ad essere ripreso nella Storia come pensiero e come azione — evoca nel °32, polemizzando con Oswald Spengler e con la sua «immaginaria tela teorica tessuta sopra una reale bassezza o rozzezza d'animo». Riaffiora, quel motivo, attraverso le parole di Thomas Mann che, parlando alla gioventù di Lubecca e accennando all’opera spengleriana, aveva ricordato che «il vero si riconosce soltanto dalla sua capacità di promuovere la vita»: il che — osserva Croce — proprio non è «l’effetto delle teorie dello Spengler, atte soltanto, in chi presti loro fede, ad accrescere pessimismo e scoraggiamento, cosa della quale non c’è bisogno ora nel mondo, e meno che altrove in Germania» 35, 6. Fra scelte storiografiche, da un lato, e concezione della
vita, dall’altro, c'è dunque un nesso intrinseco nell’opera di Croce, che andrebbe, d’altronde, ulteriormente schiarito alla luce della distinzione fra conoscenza e azione, fra giudizio sto-
rico e azione individuale. Ma sullo sfondo dei problemi ora ab?? Il concetto di decadenza, cit., pp. 80-81. ?5 Due recenti pensatori politici della Germania, in Orientamenti, cit., p. 103. Il rapporto Croce-Spengler è, tuttavia, un altro di quei nodi critici da riaffrontare in modo nuovo, al di là di pregiudizi ‘ideologici’ consolidati fin dagli anni di Croce.
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bozzati è un’altra questione che conviene approfondire, relativa al carattere, in Croce, della storiografia etico-politica, e del suo primato, dichiarato — come si sa — in forma esplicita, nell’intro-
duzione alla Storia del Regno di Napoli. «Storia per eccellenza» — scrive Croce nel ’25 — è «solamente quella etica o morale e, in alto senso, politica», della quale sono «promotori» i «ceti o i gruppi che si chiamano dirigenti, e gl’individui che si dicono politici e uomini di Stato». E «nella considerazione storico-politica si tratta di vedere non dove ci sia stata maggiore o minore felicità e contentezza (ricerca, per sé presa, priva d’interesse
oltreché assai malagevole), ma dove ci sia stata o no vivace attività etico-politica» ??. Sono i principi ai quali si ispirano anche le altre tre grandi storie (Storia d'Italia, Storia dell’età barocca, Storia d'Europa).
Ma il primato della storiografia etico-politica che connota queste opere di Croce — distinguendole nettamente dalle posizioni definite in Teoria e storia della storiografia — non si salda allora al primato corrispondente della moralità quale suprema categoria ordinatrice della vita e della storia, come avverrà, invece, nella Storia come pensiero e come azione. In questa fase di così
ricca ‘applicazione’ storiografica, si delinea una asimmetria tra filosofia e storiografia, resa esplicita, del resto, dalla persuasione, più volte ribadita da Croce, secondo cui l’età filosofica s'era
compiuta, in Italia. Nel 1927, preparando uno schema di Manualetto del metodo storico (destinato dunque a un pubblico vasto di studenti e di insegnanti) e affrontando il rapporto tra la «storia» e le «storie», precisa che la «storia non è che le varie forme di storia rispondenti alle varie categorie del giudizio o forme dello spirito» (storia della poesia, e dell’arte; storia della filosofia e delle scienze; storia economica; storia politico-morale o religiosa) 4°. E nel
1930 — in nome dell’armonia «spontanea» delle forme dello spirito —, polemizza con chi, dalla tesi secondo cui «niente si attua se la volontà non lo attua», deduce astrattamente «il primato 39 Storia del Regno di Napoli, Bari 1944 (ultima ed. Milano 1992), pp. 27-28, 31, 34. Cfr su questi temi l'importante saggio di G. GALASSO, Croce storico, poi raccolto nel volume dello stesso autore Croce, Grarzsci e altri storici, Milano 1969, pp. 9-91.
49 Carteggio Croce-Omodeo, cit., pp. 121-124. È sintomatica la fermezza con cui Croce dichiara di non aver più alcuna intenzione di compiere il lavoro progettato dieci anni prima.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
della volontà sulle altre forme spirituali», conferendo solo ad essa lo «svolgimento storico», e abbassando le altre a sua mera materia. Sostenere questo - ribadisce — «tanto vale quanto, dalla
considerazione che una pittura non si può fare senza il moto della mano,
concludere, nella teoria della pittura, al primato
della mano rispetto alla fantasia, ‘materia’ questa, ‘forma’ quella!». E precisa, sviluppando il discorso: in Italia, per render ben chiaro e per sempre rammentare che la storia della vita morale, religiosa o culturale che si dica non si può intendere ed esporre fuori della storia economica e politica, determinata dall’incrinarsi obiettivo degli equilibri e delle relazioni dalla prima, si particolarizza in una storia di una o di altra specialità tecnica (guerra, agricoltura, industria, diritto, diplomazia, amministrazione, e simili), è stata coniata la formula, ora, si può dire, entrata nell’uso, della storia
che deve essere ‘storia etico-politica’ 4.
Si è citato, volutamente, a lungo, per verificare in modo diretto come, in questa fase, la storiografia etico-politica conti-
nuasse ad inserirsi spontaneamente nell’armonia, in sé garantita, della vita spirituale; e non presupponesse, quindi, come poi avverrà, una riconsiderazione di carattere sistematico, determi-
nata dall’incrinarsi obiettivo degli equilibri e delle relazioni naturali. Sta qui, essenzialmente, la ragione, allora, di quella condizione di staticità della filosofia qua talis e di dinamicità della storiografia sopra richiamata, destinata a rovesciarsi, sintomati-
camente,
nella seconda
metà
degli anni
Trenta.
Ma
più in
profondità, alla base di questa situazione — e della differenza di svolgimento concettuale individuata — sta un motivo più intrinseco, connesso ai distinti caratteri della crisi messi a fuoco da
Croce nelle varie fasi della sua esperienza filosofica e politica. Nella ‘scoperta’ dell’etico-politico — come si delinea lungo gli anni Venti —, sbocca e, di fatto, si manifesta il riconoscimento della dimensione politica della malattia in corso in Italia, che, però, non trascorre, immediatamente, sul piano teorico, e non 1! Storia dello stato e storia della cultura, in B. CROCE, Conversazioni critiche,
serie quarta, Bari 1932, pp. 137-139. Il testo esce originariamente sulla «Critica», XXVIII, 1930, pp. 453-454, come recensione di O. WESTPHAL, Feinde Bismarcks. Geistige Grundlagen der deutschen Opposition 1848-1918, Munchen u. Berlin 1930. E interessante anche per la critica — persistente in quegli anni — delle posizioni di Friedrich Meinecke e, anzitutto, del suo «evidente e crudo dualismo».
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
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colpisce né intacca la struttura categoriale, il livello dei supremi principi del conoscere. Al contrario, in questo periodo, Croce distingue con nettezza ed enfasi particolari fra crisi teorica e crisi politica, ribadendo — specie tra il ’22 e il ’25 — la differenza fondamentale tra campo della filosofia e campo della politica, e fra le responsabilità civili del cittadino di uno stato e i compiti propri dell’uomo di pensiero: ciò che «nessuna filosofia o teoria può dare, è la formula che permetta di sapere con sicurezza quello che caso per caso sia da operare e risparmi la fatica e la responsabilità della risoluzione individuale». Né, osserva, l’«azione pratica» è deducibile da qualche teoria: «essa è un atto d’amore e di odio, ed è la creazione di ogni istante, né più né meno della parola e della poesia, e, come questa, non si riduce a termini intellettuali e si giustifica solo in se stessa, nella purità della propria ispirazione, della propria coscienza» 4. Secondo moduli
consolidati, teoria e politica restano, dunque,
consapevolmente e anche più radicalmente distinti, nel fuoco della polemica filosofica specificamente italiana, antiattualistica. Manca, del resto, in questa fase, quella persuasione della di-
mensione europea, storicouniversale, della crisi che emergerà a metà degli anni Trenta, di fronte alla decadenza dell’«amata» Germania dei Kant, dei Fichte, dei Goethe, degli Hegel; e al-
l’imporsi del nazismo, e degli Spengler, det Bergmann, e dei vari teorici del nazionalsocialismo *. Ma, sopratutto, lungo gli anni Venti, la scoperta dell’eticopolitico configura una esigenza di direzione politica nel quadro di una situazione ancora e strutturalmente sana, e connotata, nonostante
l’affiorare
di inquietanti
zone
umbratili,
da una
fondamentale e persistente relazione intrinseca tra vitalità, spontaneità, positività. Ripensata — non più assunta come dato scon* Contro la troppa filosofia politica, cit., pp. 246-247. # Per Spengler e Bergmann, cfr Due recenti pensatori politici della Germania, cit., pp. 95-110. Per il ‘mito’ crociano del mondo tedesco, cfr La Germania che abbiamo amata, in B. CROCE, Propositi e speranze (1925-1942), Scritti vari, Bari 1944, pp. 33-45. Uscito, prima, su un giornale di Berna — «Die Nation» — nel 1936, poi, nello stesso anno, sulla «Critica», l'articolo così si chiudeva: «Ma nei
nostri cuori rimane viva la Germania del pensiero e della poesia, che è quella che abbiamo devotamente amata e che sempre amiamo. E l’amiamo non solo nella sua grande età e nei suoi grandi autori, ma anche in tutto quel che di essa vediamo ancora tralucere in tanti uomini tedeschi, che, in condizioni avverse, ne conti-
nuano insieme con noi i concetti e gli ideali, guardando all’avvenire».
270
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
tato, lineare — resta, allora, dominante la visione umanisticogoethiana della ‘vita’. Il mutamento che si manifesta nel mondo
storico, e che nel mondo storiografico inizia a esprimersi nella eccellenza dell’etico-politico, non è costretto, dunque, a svelarsi e a determinarsi sul piano sistematico. Questa è la differenza fondamentale con la Storia come pen-
siero e come azione: nel ’38 il primato dell’etico-politico esprime la necessità obiettiva della direzione universale del processo storico-vitale, nel quadro di una situazione fondamentale malata, sul piano politico e su quello teorico; internamente corrosa dall’affiorare di impulsi reciprocamente distruttivi, da una lotta elementare di carattere biologico-darwiniano. Il primato della moralità e della storiografia etico-politica scaturisce, qui, da una riconsiderazione di carattere sistematico; dalla riproposizione del tema del rapporto tra prassi e teoria, pensiero e azione; dall'individuazione, in questo ambito problematico,
di una crisi
generale del mondo moderno-liberale nella sua complessità. Dal ’25 al ’38, da Goethe a Darwin: il ruolo dell’etico-politico si modifica in relazione allo svolgimento del giudizio di Croce sui caratteri della crisi che avvolge prima l'Italia, poi l'Europa e il mondo; alla varietà di concezioni della vita che ad essi si intrecciano; alla individuazione degli strumenti che — a seconda della percezione del grado di sviluppo della malattia — si profilano opportuni o indispensabili, per guarirla o per contenerla, in sintesi per governarla. Eppure,
in questo
ambito
tematico,
resta significativo un
fatto, che è un problema e, a prima vista, un paradosso. Dopo il 38 — e la fondazione teoretica del primato della storiografia etico-politica —, l’attività di Croce non è più distinta da opere come le quattro Storie. Non si darà più una applicazione storiografica pari, per intensità e qualità, a quella svolta tra il ’25 e il 32. Alla dinamicità della filosofia si contrappone, ora, la staticità della storiografia (nel senso, s'intende, delle quattro grandi Storie); nuovamente si ripropone una asimmetria tra indagine teorica e ricerca storiografica. Ma, al fondo, è lo stesso problema che, in termini arrovesciati, riemerge (a conferma, se
si vuole, dell’analisi qui svolta): la storiografia concreta declina quando s’offusca la sanità, e si impone la malattia. In effetti, nella Storia del ’38 assumono rilievo, balzando in primo piano, problemi di ricerca incentrati, come mai prima, su situazioni di
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
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crisi, su squilibri, disarmonie. E di qui scaturiscono delicate questoni teoretiche e metodiche, che avrebbero comportato un ripensamento del lavoro storico di Croce e della sua intrinseca struttura; e un riadeguamento del suo modello storiografico alla luce delle posizioni acquisite sul piano sistematico, attraverso un ripensamento deciso dei caratteri del processo storico-vitale 44. Questo non ci fu. Intanto, quelle posizioni si rivelavano precarie; instabile permaneva il confine tra sanità e malattia; né la guarigione appariva di per sé garantita. E sopratutto a Croce continuava a restare strutturalmente estranea — perché innatu-
rale — la relazione tendenziale tra storiografia e malattia. Una storiografia malata non poteva sorgere: e di fatto non sorgerà. 7. Alla base della Storia stanno dunque, da un lato, la riu-
nificazione della dimensione politica e della dimensione teorica della crisi; dall’altro, su questo sfondo, la riproposizione del nesso tra prassi e teoria, pensiero e azione. Diversa, come s'è
visto, era stata la posizione tenuta da Croce lungo gli anni Venti, e prima, di fronte alla guerra. «La nostra Italia — scrive il 15 no-
vembre del 1918 — esce da questa guerra come da una grave e mortale malattia, con piaghe aperte, con debolezze pericolose nella sua carne, che solo lo spirito prontorl’animo cresciuto, la mente ampliata rendono possibile sostenere e volgere, mercé duro lavoro, a incentivi di grandezza» #. E, in effetti, fin dal
primo momento aveva inteso che quella guerra sarebbe stata determinante per l’Italia, decidendone per secoli il destino. Ma, nello stesso, per scelta strategica aveva badato costantemente a distinguere posizioni teoriche e responsabilità politiche, pur consapevole della propria solitudine, e d’essere stato abbandonato da quei giovani di cui rileva, a più riprese, la «morbosissima condizione d’animo», e che — scrive a Gentile — si rilevano «diversi assai da quel che noi eravamo al tempo della nostra giovinezza» 4°. Negli anni della guerra sceglie dunque la vita del# Su questi problemi, che sono cruciali, ma che vanno al di là del periodo qui considerato, non insisto in questa sede.
v Pagine sulla guerra, cit. 46 Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 487. Sulla propria «solitudine», Croce
batte a più riprese, sia in questi anni che dopo: «Voi sapete — scrive ad Alfredo Gargiulo nel novembre del ’21 — che con le mie esigenze, con le mie critiche af-
272
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
l’alta politica, lavorando in vista di un dopoguerra, quando sarebbero stati ripresi i rapporti tra vincitori e vinti («vinti», appunto, non «rei») ‘7. E scarta, criticandolo, l'atteggiamento di Friedrich Meinecke che nel conflitto aveva visto l'occasione storica, per la Germania, di diventare un popolo definitivamente universale. Nell’ultima guerra — osserverà nel 1925 vasta esperienza, con quanta cedevolezza un si di tutte le nazioni si siano dati a sostenere tevano ignorare la falsità, a foggiare teorie
— si è visto, come in una gran numero di studiocose di cui essi non po-
che conoscevano artifi-
ciose e sofistiche, a disdire vergognosamente
quanto avevano
per
lunghi anni affermato o dimostrato; e s'immaginavano così di adempiere il loro dovere di buoni patrioti, quasi che la patria possa mai giovarsi del disonore di cui si coprono i suoi figli, della corruttela che introducono nelle loro anime 583,
fettuose ma incessanti, ho fatto fuggir da me tutti grazie al cielo, godo la solitudine col mio pensiero, miglia. Voi sapete che da anni sono gridato, su per frigida; e, di conseguenza, i giovani ora si provano a
i pretesi ‘scolari’; sicché ora, col mio lavoro, con la mia fale riviste, anima insensibile e superarmi, sfoggiando e spre-
cando sensibilità; quella sensibilità che io serbo tutta per me e che, nella critica,
procuro di convertire in meditata intelligenza [...] Io lascio fare e dire, e mi tengo responsabile solo di ciò che dico e fo io, e anche voi solo di ciò avete diritto di chiamarmi responsabile. Non credo che vi siano in Italia mie scimmie-scolari; ma se anche ve ne fossero, è la sorte che tocca a tutti gli uomini di qualche carattere [...]» (Epistolario, I, cit., pp. 87-88). Per inciso — e al di là di queste specifiche battute — si può dire che quando si sostiene la tesi di una fondamentale solitudine di Croce nel Novecento italiano (specie nel secondo decennio del secolo, ma anche dopo), si dà per scontato il fatto di una diffusione ‘manualistica’ di sue vedute presso insegnanti, critici, e via discorrendo; e si dà per scontata anche l’esistenza di «scimmie-scolari». Queste cose — direbbe Bruno — le sa anche Manfurio. Ma sottolineando quel motivo si vuole anzitutto indicare il carattere generalmente solitario ed anche minoritario della posizione di Croce in punti essenziali, strutturali. Proprio qui, del resto, si radica la necessità di una riconsiderazione del secolo come problema da riaffrontare in termini rinnovati, uscendo da vedute ideologiche tradizionali che sono un fatto, ormai, da «comprendere indagando», non una prospettiva storica, tanto meno un criterio storio-
grafico. Ma ovviamente — e sempre citando Bruno — «il principio dell’inquisizione, è il sapere, et conoscere che la cosa sii, o sii possibile, et conveniente, et da
quella si cave profitto». 4 La questione circa la responsabilità della guerra, in Conversazioni critiche, serie quinta, cit., p. 282.
48 Contrasti di cultura e contrasti di popoli, in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, cit., p. 308.
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
273
Il compito dell’uomo di scienza — del moderno ‘sacerdote’ delle idee — sta proprio nel non farsi travolgere dalle passioni e dagli istinti elementari, che vanno schiariti nel loro significato effettivo, e ricondotto alla misura pratica che intrinsecamente li connota: Guardare bene in faccia quei sentimenti e atteggiamenti, farne la psicologia e la storia: ecco il nostro còmpito; e non già inserirli e nutrirli e vezzeggiarli nei nostri petti, che è cosa di quel tale volgo che si è detto e nella quale esso volgo varrà sempre più di noi, perché si darà a quelle passioni con una spontaneità, un abbandono, una sorta di buona fede, che in noi, uomini colti e riflessivi, non potrebbe esser mai‘.
Eppure questo volgo, di cui bisogna schiarire e governare le passioni e gli istinti elementari, esiste, fa parte della storia; né può essere cancellato dalla scena della vita, come, da «impolitico», aveva auspicato Thomas Mann: al contrario, esso resta «perché opera (a suo modo, ben s'intende), e compie i suoi molteplici ufficii, tra i quali c'è anche quello di stimolare e accrescere nell’aristocrazia la coscienza dell’aristocrazia» 7°. Pur così radicalmente critico del vecchio e del nuovo Pathos,
Mann s'era lasciato travolgere da quegli istinti che avrebbe dovuto controllare e schiarire: a suo moda, era stato anch'egli un giacobino. Ma la vita, la storia non tollerano la distruzione di organi
essenziali, senza i quali non potrebbero svolgersi; né consentono anacronistici ritorni al passato, che sarebbero antitetici alle leggi che presiedono al loro procedere. Ritorni e restaurazioni non importano, e non possono mai importare «un assurdo ritorno a condizioni di fatto passate, ma soltanto il richiamo a una categoria ideale, della quale si sente più forte l'urgenza, e che appare spiccatamente rappresentata in una o più epoche passate» ?!. Né, ribatte in polemica con i vari sostenitori della salute dell'Oriente contrapposta alla r24/attia dell'Occidente — le crisi si superano con il «ritorno alle tradizioni indigene o nazionali», De IVIÙ p. 309: 50 Recensione di T. MANN, Betrachtungen eines Unpolitischen, Berlin 1918, «La
Critica», XVIII,
JO20) Pp.
182-183.
51 Restaurazioni e ritorni del passato, in Orientamenti, cit., pp. 85-86 (poi in Conversazioni critiche, serie quinta, cit., pp. 357-358).
274
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
o «con l’appigliarsi a forme di civiltà distaccate da quelle tradizioni» 0 «col sommare questi due ordini di tradizioni». Al contrario, da esse si esce ridiscendendo alle «pure regioni dell’essere, alla profondità della coscienza, alla inesauribile umanità»,
traendo da essa «motivi di forza mentale e morale» 72. Dominato da un senso della storia così intenso da procurargli perfino sofferenza fisica, Croce non fu mai afflitto da ‘nostalgie’ reazionarie del passato (del quale ebbe un sentimento differente anche da quello di un uomo inquieto e sensibilissimo come Adolfo Omodeo, quasi secondo ‘autore’ della Critica, e pur da
lui così diverso) ??. 8. Se dunque sono queste le strutture di lungo periodo della posizione crociana, rimodellata tra guerra e fascismo attraverso
la scoperta dell’etico-politico, più decisi elementi di novità e di mutamento si individuano alla svolta del terzo decennio del secolo, in primo luogo sul terreno della ricerca storiografica e della riflessione storico-politica. Né questo meraviglia, alla luce di quanto finora s'è detto intorno ai temi specificamente affrontati in queste pagine. In questa prospettiva, è importante, anzitutto, l’analisi che
comincia allora a svolgere in modo tematico sul ‘900: un secolo «così torbido, di così poca fede, così diffidente» ?* — scrive nel 1930 —; e caratterizzato, alle radici, da «meccanizzamento» e da
«materializzamento» ??; da «torbidezza intellettuale e morale ed abbassamento estetico» ?°. Soprattutto, un secolo connotato da «tendenze» fortemente, «impetuosamente economiche», che inducono a parlare, taluni, dell’«avvento del nuovo governo della °2 La salute dell'Oriente, in Conversazioni critiche, serie quarta, cit., p. 271 ” Di A. OMODEO si vedano le pagine, incompiute, dell’ultimo, splendido saggio, La nostalgia del passato, in ID., Il senso della storia, a cura di L. RUSSO, To-
rino 1955, pp. 617-620. Sintomaticamente, esse si aprivano con i versi famosi del Carducci: «sol nel passato è il bello, sol nella morte è il vero». Su Omodeo, e sulla sua funzione fondamentale nella lavorazione della «Critica» durante il fascismo, cfr B. CROCE, Adolfo Omodeo, «Quaderni della Critica», V, 1946, pp. 3-6 (poi in Ib., Nuove pagine sparse, Napoli 1949, pp. 40-44). °* Cultura tedesca e cultura mondiale, in Conversazioni critiche, serie quarta, Cit., p.- 287.
” Meccanizzazione e stile, ivi, p. 288. 56 Ibid.
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
25)
società, non più etico-politico ma economico»: cosa strutturalmente impossibile, giacché la «vera classe dominante politica è la classe dirigente, coi suoi concetti religiosi, filosofici, morali,
quali che siano». E quand’anche la «gente spirituale» rinunziasse alla «direzione della società a favore degli operai o degli industriali o degli uni e degli altri uniti», essa «non andrebbe a favore di costoro, ma sempre di una gente spirituale, sebbene di spiritualità deteriore» ?”. L'ideale liberale ha, infatti, un fonda-
mento vitale che non può declinare, perché la libertà è la linfa, il sangue della società: ed essa non è in funzione della borghesia o di altra economia, ma dell’anima umana e dei suoi profondi bisogni. Sono motivi costanti, già richiamati. Senonché Croce, all’av-
vio degli anni Trenta, non si limita a riproporre con energia il suo ideale della vita e della storia. Lo allarga, e lo riespone alla luce di quelle che gli sembrano, nel disordine, esigenze autentiche della moderna società. Discutendo della crisi del ’29, scarta
naturalmente l’interpretazione di parte comunista; ma non accede nemmeno alla posizione di coloro che l’intendono, tradizionalmente, come una crisi simile a quelle avutesi nell’Ottocento. E rileva la sensatezza — o almeno la minore unilateralità — di chi l’interpreta «come la necessità di un migliere assetto della produzione, nell’indirizzo della economia in certa misura regolata o
razionalizzata, che già il Rathenau intravedeva e disegnava nel suo noto libro: assetto economico — osserva — che richiede un analogo assetto politico di pace e unione europea» ?*. È, quest’ultimo, un ulteriore elemento dinamico dell’analisi politica svolta allora da Croce, imperniato, da un lato, nella in-
terpretazione della grande guerra, e degli avvenimenti che l’hanno seguita, come «reductio ad absurdum dei nazionalismi» ?9; dall’altro, nella individuazione, nei tempi «nostri», di un’«alba nuvolosa, ma pure un'alba, di unione europea e di unione mondiale» 0. In sintesi, Croce in questi anni avverte l'esigenza di un 3 Contro
le sopravvivenze
del materialismo
storico, in Orientamenti,
cit.,
pp. 39-40, 44, 42 (poi in Conversazioni critiche, serie quinta, cit., pp. 207-215).
58 Due recenti pensatori politici della Germania, cit., pp. 99-100. LI vif.pr408:
60 Ibid. Sia il riferimento alla crisi dei nazionalismi che quello alla «economia razionalizzata» (con una delimitazione ulteriore, e senza citare il nome
di
276
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
ordine economico più equilibrato; e l’urgenza di un nuovo ordine politico che superando antiche barriere, vecchi nazionalismi, avvii una nuova epoca della storia del mondo. Si distacca,
dunque, da posizioni come quelle sostenute durante e dopo il conflitto, svolgendo una riflessione sul destino dell'Europa che tocca il vertice nella Storia del ’32 e che lo induce a condannare in radice, quale forma di barbarie, posizioni alla Ernst Bergmann; e ad apprezzare, per contrasto, la «protesta piena di pathos di Drieu La Rochelle, ma — precisa — non meno vigorosa di logica contro i nazionalismi (francese, tedesco, italiano, e
tutti quanti)». L'Europe contre les patries si configura ai suoi occhi come un’altra voce che viene ad attestare la crisi di morte e di vita prodotta dalla guerra mondiale: «l’esaurimento dei nazionalismi e il sorgere della idealità europea» ®!. Alla svolta del terzo decennio del secolo, il pensiero storico-politico di Croce è dunque distinto da importanti elementi di dinamicità, che segnalano, anche, la direzione di un processo possibile. Ma ad intenderne lo svolgimento effettivo, i caratteri accelerati e ‘imposti’, e lo sbocco teorico-storiografico del ’38, occorre mettere a
fuoco un altro, e più radicale, elemento di trasformazione attivo nel mondo storico, direttamente antagonistico alle posizioni politiche che Croce, in modo più libero e autonomo, veniva allora
maturando. Occorre, cioè, riconsiderare la crisi definitiva dell’antica e «amata» Germania, l’avvento e il consolidamento del nazismo, e la dimensione urzversale della crisi che esso proiet-
ta, saldandosi, progressivamente, ad un'espansione impetuosa e inedita, in quella specie, di forme estreme di filosofia tenden-
ziosa. E bisogna farlo, s'intende, senza stabilire rapporti immediati, rispecchiamenti lineari. Del nazismo Croce segue, infatti, fin dall’inizio le vicende, attraverso l’analisi, la discussione e la ripulsa dei vari «filosofi»
che ad esso si richiamavano ‘2. Ma è solo a metà degli anni Trenta che ne individua il senso, interpretandolo come una forza di rinascente, radicale giacobinismo, simmetrico a quello che s’era Rathenau) ritornano, più ampiamente svolti, nell’«epilogo» della Storia d'Europa nel secolo decimonono, Bari 1961 (ultima ed. Milano 1991), pp. 370-371. °! Il mondo presente, in Conversazioni critiche, serie quarta, cit., p. 296. ° Cfr, ad esempio, Filosofia e storiografia nazionalsocialista, «La Critica»,
XXXII, 1934, pp. 397-398.
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
277
sviluppato e imposto in Russia. Organicamente connessi, nazismo
e comunismo
sovietico
si chiariscono
reciprocamente,
e
segnalano l’attualità e la dimensione originaria, prepolitica, dell'ideologia astratta — perché innaturale — da cui entrambi discendono,
contrapponendosi
unitariamente
alle strutture fon-
damentali del mondo moderno-liberale: non è da negare — scrive alla fine del ’34 — che una voragine si sia aperta tra il passato e il presente, e un nuovo giacobinismo, non più
come quello di un tempo appellantesi all’astratta furzarzité, ma tutto: piantato sull’astratta economia e sull’astratta forza politica, si osservi da per ogni dove, che pretende costruire nuove società umane col calcolo e con la tecnica e sostituire all'uomo complicato, ossia civile, l’uomo semplificato, all'uomo storico l’uomo tratto fuori della storia,
o piuttosto, l’animale addestrato ®?.
Si erano, dunque, diffuse per l'Europa — a Occidente come in Oriente — forme di patologia politica, le quali chiamavano a nuovi doveri e nuove responsabilità quello storico che, fedele alle leggi della vita, intendesse «tener saldo il legame del passato col presente», evitando la dispersione degli acquisti intellettuali, morali, estetici e sentimentali compiuti lungo il corso dei secoli, e impedendo che, rotta la tradizione, si rientrasse nella
barbarie. Ma confinarsi nella salvaguardia e nella custodia statica della tradizione — compresi i limiti che l'avevano, variamente, offuscata — a Croce non appare più possibile, in quella situazione. L'ideale liberale della vita e della storia andava rideterminato, purificato dalle incrostazioni che su di esso si erano depositate; andava ridistinto con nuova forza dal «liberismo»,
rischiarando il carattere «transitorio», «contingente» — mai «perpetuo» e «necessario» — del suo legame con «la proprietà privata della terra e dell'industria». Liberalismo e capitalismo «classico», «concorrenziale», alle radici, non erano né identificabili, né convertibili °*. 5 Gli studi storici nella varietà delle loro forme e i loro doveri presenti, in Ultimi saggi, cit., pp. 321-322 (si trattava, alle origini, del testo del messaggio all'adunanza della Arzerican Historical Association tenutasi a Washington il 27-29 dicembre del ’34, uscito poi sulla «Critica», XXXIII, 1935, pp. 1-8).
64 Tardi infatuamenti marxistici di un professore inglese di politica, in Conversazioni critiche, serie quinta, cit., pp. 287-290.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
Era, in questo contesto, una novità. E rinnovata era l’‘enfa-
si’ della argomentazione, in cui s’esprime un'incidenza netta, per antitesi, delle nuove
forme di giacobinismo,
dalle quali
l'ideale liberale esce riqualificato e riattualizzato nella sua ‘purezza’ antagonistica: esso — precisa Croce nel ’36 — «si oppone
primamente e direttamente all’oppressione e falsificazione della vita morale, da qualunque parte si eserciti, da assolutisti o da democratici, da capitalisti o da proletari, da czar o da bolscevi-
chi, e sotto qualunque finzione mitica, sia quella della razza ariana, sia l’altra della falce e martello». L'unico criterio che
l'ideale liberale s’assegna, e con cui misura «istituti politici e ordinamenti economici, in rapporto alle varie situazioni storiche», è quello del promovimento della libertà ”. Il compito dell’ideale liberale coincide dunque con il compito che, sul piano del processo storico-vitale-spirituale, viene assegnato, nella Sforza del ‘38, alla r70oralità.
9. Eppure, è difficile comprendere la genesi e i caratteri di quel libro, se non si concentra l’attenzione su un altro elemento che, progressivamente, diviene dominante agli occhi di Croce,
saldandosi
alla dimensione
politica della crisi, della
malattia dell'Europa. Se, cioè, non si concentra l’analisi sulla polemica — simmetrica alla critica delle forme politiche neogiacobine — che, a metà degli anni Trenta, Croce svolge contro le
filosofie «tendenziose» ad esse corrispondenti, individuandone le radici in Karl Marx e Friedrich Nietzsche °°, E, a ben vedere, 6 Ivi, p. 289. °° Ciò che la filosofia non deve essere: la filosofia tendenziosa, in Ultimi saggi, cit., pp. 241-245 (e, prima, sulla «Critica», XXXIII, 1935, pp. 157 sgg.): «[...] mi piace — scriveva — richiamare l’attenzione, come a singolare esempio e che ci tocca più da vicino, alla corruttela della scuola hegeliana dopo il 1840 nella cosiddetta ‘sinistra’, nella quale concorsero uomini di scarsa disposizione e mente speculativa (scarsa in tutti essi, anche nel Marx, del quale è stato oltre il merito esaltato il
valore filosofico), e accesi e convulsi di azione democratica, socialistica o anarchica che fosse. Il Marx, per l'appunto, invece di ‘comprendere’ il mondo si proponeva di ‘cangiarlo’; e la storia tramutava in apologo del suo presente bramare e volere, e la storia della filosofia e delle religioni in una sequela di camuffate tendenze economiche e di classe; e la scienza stessa dell'economia, matematica e neutra qual è di sua natura, distorceva a difesa e offesa di particolari ordinamenti economici [...] Al tipo di pseudo-filosofo, allora spiccatamente foggiato, si collega altresì Federico Nietzsche, che si nobilita in confronto di quelli per la sua sincera quanto tormentosa e aberrante ansia morale e per i suoi fulgori di poeta, ma
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
237)
il medesimo modulo interpretativo che allora Léwith comincia a sviluppare, muovendo dall’analisi del decisionismo politico ©: sia Croce che Fiala cita, del resto, Delio Cantimori nel saggio da lui dedicato, nel ’35, alla politica di Schmitt 68. Ma ciò che ora importa rilevare non è tanto la singolare e varia fortuna di quel motivo nella cultura italiana (che andrebbe, comunque, vista) ®;
quanto il fatto che si esprimeva nello svolgimento da parte di Croce di quel tema, e che è quello della identificazione intrinseca di forme politiche neogiacobine e di forme filosofiche «tendenziose», «decisionistiche». E, insieme a questo fatto, importa
rilevare il problema, nuovo per l'universalità e i caratteri, che esso individuava, ponendo le basi e l'esigenza, il bisogno di una nuova indagine teorica, di una ripresa dello svolgimento della filosofia qua talis. Svelandosi come momenti strutturalmente connessi di un processo unitario di decadenza della società europea e, più a fondo, delle fondamenta del mondo modernoliberale, patologia teorica e patologia pratica configuravano la necessità di individuare quali fossero state la genesi, e le prime scaturigini, di quella malattia, per intervenire in essa, e risanare le modalità e le strutture ‘corrotte’ del processo storico-vitale, che nondimeno, se depresse valori spirituali ed espresse ideali di rapacità e di ferocia, non stabilì nessun filosofema che valga [...]».
© Cfr H. FIALA, Politischer Dezisionismus, «Revue Internationale de la Théorie du Droit», IX, 1935, pp. 101-123 (dove si batteva anzitutto su Marx e Kierke-
gaard). Su Lòwith-Fiala, si veda il bel saggio di G. Sasso, Leo Naphta e Hugo Fiala, «La Cultura», XII, 1974, pp. 100-112.
i
6 D. CANTIMORI, La politica di Carl Schmitt, «Studi Germanici», I, 1935,
pp. 476 e 479-480 e nota: «[...] le radici del decisionismo dello Schmitt stanno soprattutto nella tesi antiromantica del ‘pensatore esistenziale’, del Kierkegaard, con la sua esigenza attivistica ed anarchicamente soggettiva [...] accanto al Kierkegaard sta per questo rispetto anche il Marx, con la sua rivendicazione, ch’e-
gli definiva antiborghese, della esigenza che il pensiero deve farsi pratico, a mezzo della quale rivendicazione il rivoluzionario di Treviri poneva - fuori del corso della storia — i rapporti esterni e generali ‘esistenziali’ delle masse di fronte, anch'egli, ad una decisione, astratta come quella del Kierkegaard». Su questi temi, sia consentito rinviare a M. CILIBERTO, Intellettuali e fascismo. Saggio su Delio Cantimori, Bari 1977, pp. 49 sgg. 5 Lo «schema» di Lowith è ripreso, ad esempio, da Cesare Luporini, prima, nel 1943, su «Primato»; poi, rielaborato profondamente, su «Società», nel ‘46. La prima edizione del libro di Lowith, Vor Hegel zu Nietsche, è del ’41; la nuova edi-
zione riveduta del ‘49, l’anno della traduzione italiana di Giorgio Colli. Mi sono soffermato su questi problemi in Filosofia e politica nel Novecento italiano, cit., pp. 322 sgg.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
muovendo dalle condizioni proprie della moderna società, dal punto di vista politico e dal punto di vista teorico. «Ah, quello Heidegger! — scrive a Vossler il 10 agosto del °33 — Lo avevo individuato già sei anni fa, attraverso quel che ne fecero leggere suoi scolari e ammiratori italiani; e avevo preveduto che sarebbe finito come è finito. Bisognerebbe fargli conoscere il precursore che ha avuto in Italia nel Gentile». E, pochi giorni dopo, ribatte: «Il Heidegger, e accanto a lui quel Karl Schmitt, autore di libri di diritto pubblico e politico, di-
scepolo, fino a un certo punto, di Georges Sorel, lando come i due disastri intellettuali della nuova Lo Schmitt mi pare anche più pericoloso» 7°. Sono tomatici, ripresi — a conferma del loro rilievo — in temporanee ad Adolfo Omodeo:
si van riveGermania. giudizi sinlettere con-
Ho letto — gli scrive il 10 agosto dello stesso anno — un bellissimo discorso su Stato e Chiesa di un teologo protestante svizzero, tenuto alla conferenza dei pastori di Zurigo, e, poi, a contrasto, un di-
scorso del filosofo Heidegger [...], che conferma quel che io da anni sospettavo del necessario aboutissant pratico del filosofare vacuo, attualistico. Ho scritto una recensione del discorso del teologo, e forse
un’altra ne farò per il prof. Heidegger, un Gentile più dotto e più acuto, ma sostanzialmente della stessa pasta morale ”!.
Quell’attualismo che Croce combatteva da decenni in Italia come fenomeno nazionale di crisi e negazione del pensiero si ripresenta, con nettezza, come aspetto di un moto di decadenza complessiva del pensiero europeo-occidentale. E come malattia generale si configura, ora, il fascismo. La crisi non era solo, o essenzialmente, politica; né risultava circoscrivibile in ambiti nazionali definiti; era radicale, e riguardava le strutture originarie
della modernità, sul piano del pensiero e su quello dell’azione. Gentile e Mussolini, ciascuno per la sua parte, avevano precorso 70
Carteggio Croce-Vossler, cit., pp. 340, 342.
?! Carteggio Croce-Omodeo,
cit., pp. 69-70.
E cfr la recensione
di M.
HEIDEGGER, Dye Selbstbehauptung der deutschen Universititen, Breslau 1933 e di K. BARTH, Theologische Existenz heute!, Minchen 1933, «La Critica», XXXII,
1934, pp. 69-70 (poi in Conversazioni critiche, serie quinta, cit., pp. 362-363, col titolo Ur filosofo e un teologo): «Il Barth - concludeva - degnamente tutela l’indipendenza della teologia, mentre il prof. Heidegger si è affrontato a far getto di quella della filosofia».
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
281
situazioni generali. Fascismo, nazismo, comunismo sono aspetti
intrinseci di un nuovo giacobinismo, «tutto piantato sull’astratta economia e sull’astratta forza politica»; attualismo, heideggerismo, marxismo sono aspetti intrinseci di una medesima filosofia
deteriore, la cui ‘sostanza’ sta nelle tendenze pratiche che essi esprimono e promuovono. Ed entrambi i lati del processo di decadenza in atto si presentano internamente connessi, e saldati. E contro questo sfondo problematico che si situano la Storia del ’38 e la ripresa teoretica da cui essa procede. La linea ‘difensiva’ imperniata sulla storiografia, e culminata nella Storia d'Europa, si svela, in quella crisi, insufficiente, ‘arretrata’. E, in
primo piano, ribalza il nodo del senso dell’azione, della sua costituzione. A livelli più profondi si impone il problema di ricostituire la possibilità di un ordine, di un'armonia,
di un
equilibrio, mentre si dissolvono antichi rapporti, e relazioni fondamentali di un’epoca intera della storia dell'Europa moderna e liberale, traumaticamente pervenuta a una svolta che ne rimette in discussione i principi elementari. Qui germina, infine, la Storia come saggio della salute dello spirito europeo, come sforzo di ricostituire le condizioni della sanità della vita, compromesse, unitariamente, da destra e da sinistra, dagli czar e dai
bolscevichi, da proletari e da capitalisti. Del libro, Croce parla ad Omodeo già nel ’36 («nell’agosto conto di ripigliare la preparazione del mio libro sulla Storia», gli scrive nel luglio da Meana). Nello stesso mese dell’anno dopo, il libro era già «tutto pronto per la stampa» ’?. Nel 1938, dopo alcune difficoltà, viene pubblicato. Era stato quindi composto nello stesso periodo in cui Croce ristudia il suo carteggio con Labriola, preparando Corze nacque e come morì il marxismo teorico in Italia ”?. E, certo, Labriola e il marxismo sono presenti ?? Carteggio Croce-Omodeo, cit., pp. 105 e 117. 3 Ivi, p. 117: «Sto rileggendo le lettere che mi scriveva il Labriola tra il 1895 e il 1898, epoca del materialismo storico» (24-VII-37). E, poi, a p. 118: «[...] vorrei scrivere alcuni ricordi sulle origini del marxismo in Italia, servendomi del ricchissimo carteggio del Labriola dal 1895 al 1900: carteggio curiosissimo per la descrizione della condizione e degli uomini rivoluzionari d'Italia, ma del quale mi varrò con discrezione, e solo rispetto al problema indicato». Sul significato del Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), e della ripubblicazione nel ’38 dei saggi marxisti del Labriola, cfr le importanti osservazioni di C. LUPORINI, I/ marxismo e la cultura italiana del Novecento, in Storia d'Italia, V, I documenti, 2, Torino 1973, pp. 1588 sgg.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
nella Storia; ma non sta solo qui il nocciolo del saggio. Esso consisteva, anzitutto, nello sforzo di ristrutturare la vita, di rior-
dinarla di fronte alle generali tendenze anarchiche e disgregatrici della «moderna società». E qui si radica, nel ’38, il prima-
to riconosciuto alla moralità come fondamento primario dell’armonia e dello sviluppo della vita e della storia. «Viva chi vita crea», scrive Croce, citando il verso famoso di Goethe: ma come in ogni organismo c’è la tendenza al disorganismo, e la sanità è l’equilibrio dello squilibrio perché domina e rinserra in sé la malattia, così ogni forma speciale, in forza della sua specialità che è la sua individualità, e nell’impeto del suo proprio fare che non può farsi senza impeto, si sforza verso il tutto, e si spinge innanzi quando deve cedere il luogo, avendo raggiunto il proprio fine; e in questo sforzo ed esuberanza distruggerebbe l’unità spirituale e sé medesima, e lo spirito tutto morrebbe, se non fosse da raffrenare e infrenare con le altre
che le susseguono e che a lor volta tengono lo stesso metro [...] Ora, l’azione che mantiene nei loro confini le singole attività, che tutte le eccita ad adempiere unicamente il loro ufficio proprio, che si oppone in tal modo al disgregamento dell’unità spirituale, che garantisce la libertà, è quella che fronteggia e combatte il male in tutte le sue forme e gradazioni, e che si chiama l’attività morale ‘4.
Fra il ’36 e il ’37, la concezione crociana delle categorie entra dunque in una nuova fase, nello sforzo d’individuare un criterio il quale ordini e disciplini una vita che tende a dissolversi, a perdere senso, quando sia abbandonata alla spontaneità del suo farsi. E la moralità diventa il principio e la condizione della sanità, configurandosi come la forma che garantisce l'equilibrio dell'organismo nella sua unitarietà. Era una posizione intrinsecamente distante da quella sostenuta fin allora, e a
lungo ribadita nelle critiche sviluppate contro chi ritenesse che 7 CROCE, La storia come pensiero e come azione, cit., pp. 42 e 43-44. Ed è qui che, in connessione al primato della moralità, viene fondato, dal punto di vista teoretico, il primato della storiografia etico-politica: «[...] un altro punto si rischiara — precisa Croce —: perché mai tra le forme della storiografia si sia sempre mirato ad una che è parsa la storia per eccellenza, una storia sopra le storie; e, considerando storie speciali quella dell’arte, della filosofia e della varia attività economica, si sia additata come la vera e propria storia, la storia sopra le storie, quella dello Stato, inteso come stato etico e regola della vita, o quella della Civiltà, che meno imperfettamente designa la vita morale, traendola fuori dall’angustia politica del concetto di stato».
MALATTIA/SANITÀ. MOMENTI DELLA FILOSOFIA DI CROCE
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nella vita spirituale era necessaria una «superforma» — «un sopracuore», «un sopracervello», «un sopraorganismo», aveva scritto Croce nel ’21”. Ed era perciò sensata l’osservazione fatta da Gentile, nelle glosse alla sua copia della Storia, secondo cui le quattro categorie si erano, infine, ridotte a tre. Effettivamente, «aveva intuito un punto importante» 7°. Ma prima
che l’ordine e la relazione delle categorie, in Croce s'era incrinata la visione umanistico-goethiana della vita. E in primo piano risaliva la dimensione biologico-darwiniana del processo storico-vitale. La spontaneità, concepita come positività, minacciava di ri-
solversi nella disgregazione; il «libero gioco», concepito come fermento essenziale della realtà, in sopraffazione; la malattia tendeva a configurarsi come stato più naturale della sanità. La vita si configurava
intrinsecamente
tendente
alle disarmonie,
agli squilibri, a situazioni di tipo patologico. Imperniata sul primato delle categorie, e sulla concezione delle categorie come
«potenze del fare», la Storta è lo sforzo più radicale fatto da Croce per controllare quella forza «viva» e «verde» che — infine, più del marxismo —- lo aveva insidiato fin dalla sua nascita alla filosofia. Spontaneità, direzione, controllo: erano problemi
cruciali del mondo contemporaneo
che il ‘provinciale’ Croce
trascriveva, originalmente, nella sua filosofia. Ma morirà consa-
pevole d’aver perduto la partita.
5 La filosofia come «inconcludenza sublime», cit., p. 357. 76 Cfr G. Sasso, Note e documenti per la storia dell’idealismo italiano, III: Glosse marginali di Giovanni Gentile a libri di Benedetto Croce, «La Cultura»,
XIV, 1976, p. 311.
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III UNA BIOGRAFIA DI GENTILE
Non credo sia possibile discorrere del libro di Turi! senza dichiarare, subito, che si tratta di un lavoro che lascia un segno
nella ricerca su Giovanni Gentile e — più in generale — sulla vita culturale e politica del XX secolo. E un libro, occorre anche dire, imperniato su alcune scelte molto nette e precise, tutte
convergenti nella messa a fuoco, in primo luogo, dell’intellettuale Gentile (per riprendere il titolo di un contributo di Turi del ’94, nel quale egli definisce con molta chiarezza i punti di fondo di tutta la sua ricerca 7). Di questa scelta Turi si assume la responsabilità: non ha dunque senso, a mio giudizio, mettersi a discutere su ciò che non c’è in questo Javoro, a cominciare da un’analisi specifica — di carattere teoretico — della filosofia di Gentile, dell’attualismo. Non è questo l’obiettivo dell’autore, il
quale s’interroga anzitutto sulla ‘funzione’ di Gentile e della filosofia gentiliana lungo la prima metà del nostro secolo: Ha senso invece chiedersi se, muovendo dal suo punto di vista, Turi consegua risultati significativi, come io, in effetti, penso: ci tro-
viamo di fronte più completa e una conoscenza storia nazionale.
alla biografia intellettuale e politica di Gentile informata oggi in circolazione, sullo sfondo di approfondita delle linee di fondo della nostra Alla base di questo lavoro ci sono altre ricer-
che, com’è ovvio. Pur ripensato, e come dilatato, un valore im-
portante mi pare abbia avuto per Turi il modello della storia ! G. TURI, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995.
2 G. TURI, L'intellettuale Giovanni Gentile, «Belfagor», IL, 1994, pp. 129147. Si tratta di un intervento che contribuisce a chiarire in modo decisivo sia le traiettorie critiche di fondo che gli obiettivi polemici fondamentali della biografia di Turi.
286
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
degli «intellettuali italiani» del XX secolo di Eugenio Garin (delle cui analisi c'è l’eco in tante pagine). Ma si tratta di un lavoro autonomo, originale, che s'inserisce anche nell’interesse
attuale per la dimensione biografica sul piano del lavoro storiografico — una dimensione difficile, impervia, alla quale Turi si avvicina da un punto di vista assai determinato, che, per certi versi, fa venire in mente la biografia di Togliatti scritta dal suo maestro, Ernesto Ragionieri. Ciò non toglie, naturalmente, che
si possa affrontare il problema da altre prospettive, com'è naturale: sia dal punto di vista di Gentile, sia sul terreno proprio dell'indagine biografica. Ma vorrei evitare, per quanto mi riguarda, discussioni di lana caprina, e discorrere invece di questo libro muovendo da quello che ha voluto dire, non da quello che, consapevolmente, ha lasciato sullo sfondo (alla luce, s’in-
tende di una determinata interpretazione di Gentile e della ‘rinascita neoidealistica’). Nel suo lavoro Turi muove da un convincimento essenziale: dalla ‘politicità’ come struttura di fondo, originaria, del pensiero di Gentile (e anche di Croce) }. Tanto più è necessario sottolineare questo punto di partenza perché è di qui che discende, direttamente, il carattere dell’analisi che egli svolge, la ‘legittimità’ per così dire del suo concentrarsi — per interpretare futfo Gentile — sulla sua attività di intellettuale e di politico, nella quale si intrecciano organicamente, secondo un modello coerente, lavoro filosofico e lavoro culturale, attività teorica e progetto politico. E questa dunque la prima domanda da farsi: se questa scelta — che è fondamentale nella costruzione del lavoro — abbia senso, se sia cioè legittima l’assunzione della ‘politicità’ come chiave euristica dell’opera gentiliana. Personalmente, sono convinto che le cose stiano così: che la
‘politicità’ sia una struttura di fondo della posizione di Gentile e, in generale, del neoidealismo italiano, in stretta connessione,
peraltro, con il carattere — e lo «spessore politico», è stato scritto — che ha avuto in Italia l'introduzione dell’hegelismo nel corso del XIX secolo *. Sta qui, del resto, un tratto di autono? Lungo una prospettiva di questo tipo si era mosso, come Turi ricorda, il Convegno organizzato nel 1991 dalla Fondazione Gramsci, i cui atti sono stati pubblicati in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, cit. * C. LUPORINI, Dall'idealismo italiano a Heidegger: un'esperienza giovanile all'inizio degli anni Trenta, «Intersezioni», XI, 1991, p. 429.
UNA BIOGRAFIA DI GENTILE
287
mia e di originalità della filosofia italiana rispetto ad altre tradizioni filosofiche e culturali europee del Novecento. Valga un esempio: sono sempre rimasto assai colpito dalla profonda diversità di atteggiamento di Croce e di Thomas Mann di fronte alla guerra. Nelle Considerazioni di un impolitico, dopo essersi dichiarato «vero figlio del secolo nel quale cadono i primi venticinque anni della mia vita, il Diciannovesimo», Mann si chiede — in modo patetico, senza ironia — dove sia
più, oramai, «traccia» di quella «sottomissione al reale» in cui era la sostanza etica del suo mondo: «al suo posto — egli commenta — ecco l’attivismo, il volontarismo, il migliorismo, il poli-
ticismo, l’espressionismo, in una parola il predominio dell’ideale. L'arte ha da fare propaganda per le riforme di natura sociale e politica [...] Politica, Politica!»: questo — osserva sconsolato — è il sigillo del nuovo secolo che nasce ?. Croce, com'è noto,
dedicò a Mann la Storia d'Europa, ma si tenne distantissimo — allo stesso modo di Gentile, del resto — da una simile visione sia
del secolo sia della guerra e delle nuove forme assunte dalla politica in Italia e in Europa. Si rifiutò caparbiamente di accogliere la distinzione manniana di «aristocrazia» e «volgo», per tutto
ciò che essa comportava: giacché il volgo, scrive nel ’20 sulla «Critica»,
-
resta perché opera (a suo modo, ben s'intende), e compie i suoi molteplici uffici, tra i quali c'è anche quello di stimolare e accrescere nel-
l’aristocrazia la coscienza dell’aristocrazia. Nessuna guerra, nessuna conquista, nessun assoggettamento, nessuna rivoluzione, nessuna invasione l’ha mai distrutto; e se la Germania (la Germania che pensa e sente come il Mann) si proponeva questo fine, non fa meraviglia che
abbia perduto la guerra, e l'abbiano guadagnata invece coloro che hanno saputo fare i conti meglio col volgo °.
Né c’è alcun dubbio, credo, che in questa ‘politicità’ originaria, costitutiva, abbia giocato un ruolo decisivo il peso avuto in Italia dalla discussione su Marx, alla quale, in modi diversi,
partecipano sia Croce sia Gentile, contribuendo alla discussio© MANN, Considerazioni di un impolitico, cit., pp. 13, 15-16, 18. 6 «La Critica», XVIII, 1920, pp. 182-183. Sul tema sono assai importanti le osservazioni di LUPORINI, I/ marxismo e la cultura italiana del Novecento, cit., pp. 1608-1609.
288
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
ne europea sul revisionismo. Sta qui, lo dicevo sopra, un tratto di originalità, o comunque di specificità della nostra tradizione che non si può trascurare, se si vogliono comprendere alcuni aspetti di fondo della ‘riforma intellettuale e morale idealistica’. È la «prassi» la «chiave d’oro dell’attualismo», scrisse una volta a questo proposito Ugo Spirito, usando un termine di cui conosciamo
tutto
il peso
nella tradizione
italiana:
e aveva,
io
credo, ragione. Né meno significative, per quanto diverse nel tono, sono le battute di Croce in apertura della terza edizione
di Materialismo storico ed economia marxistica, nelle quali ribadisce ammirazione e gratitudine per «il vecchio pensatore rivoluzionario», il quale — egli scrive — aveva «conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni della Dea giustizia e della Dea umanità» 7. Se non si coglie nella giusta luce questo rapporto essenziale con Marx — sul quale del resto si è variamente insistito, da Garin e de Giovanni a Luporini * — diventa difficile afferrare una delle leve costitutive della ‘politicità’ del neoidealismo italiano, che Turi mette, giustamente, al centro del suo
lavoro. Da questo punto di vista io concordo, dunque, con il fondamento stesso dell’analisi di Turi: dalla quale egli muove per individuare l'intreccio di politica e teoria fin dai primi saggi gentiliani, secondo una prospettiva critica che gli consente di sottolineare sia come Gentile non aspetti la guerra per ‘nascere’ alla politica, sia di rimarcare fino in fondo il carattere politico e culturale in ogni senso decisivo della battaglia sulla scuola e sull’Università (un tema cruciale, sul quale si è scritto molto, al
quale Turi ha il merito di dedicare molte pagine), situando, infine, su questo sfondo complessivo l’approdo — ‘naturale’, non ‘traumatico’ — di Gentile al fascismo. Vale la pena di insistere su questo punto: il Gentile di cui ci parla Turi, dall’inizio alla tragica fine, non è segnato da crisi che mettano in discussione il Cia ot svolto, sul piano intellettuale e po? B. CROCE, Materialismo storico ed economia marxista, Bari 1968, p. XIV. 8 Di GARIN si veda la fondamentale Introduzione a GENTILE, Opere filosofiche, cit.; di B. DE GIOVANNI, Sulle vie di Marx filosofo in Italia, «Il Centauro», n. 9, 1983, pp. 3-25 (di DE GIOVANNI si veda anche l’ottimo intervento su Giovanni Gentile e il Novecento, in Giovanni Gentile. La filosofia, la politica, l'orga-
nizzazione della cultura, Venezia 1995, pp. 23-28); di LUPORINI cfr I/ marxismo e la cultura italiana del Novecento, cit.
UNA BIOGRAFIA DI GENTILE
289
litico. E una ‘forza’ che si svolge progressivamente, prendendo consapevolezza di se stesso e del suo compito nell’Italia e nella discussione filosofica e politica, riportando volta per volta i problemi a quello che è il centro, precocemente acquisito, della sua personalità. Da questo punto di vista si potrebbe dire che quella di Turi è una biografia di tipo diltheyano: nella giovinezza sta il segreto di una vita (senza con questo minimamente togliere
valore e peso agli svolgimenti che l’hanno volta a volta segnata). Una ‘spia’ di questa impostazione è lo stile che Turi sceglie e pratica, sul quale vale la pena di fare qualche osservazione: anzitutto perché la biografia è un genere letterario assai particolare e, poi, per il rilievo e il significato che il linguaggio, lo stile hanno, anche, in storiografia. Qui la scrittura si snoda in modo compatto e uniforme dall’inizio alla fine, senza scosse o modificazioni di ritmo, risarcendo, per così dire, tutte le ferite, secon-
do una cifra stilistica che rispecchia il continuum sostanziale dell’‘esperienza’ di Gentile. Interpretazione e stile fanno, effettivamente, un nodo solo in queste pagine, secondo una scelta narrativa del tutto consapevole, della quale credo sia stato opportuno fare almeno un cenno. Se mi è lecito aggiungere un’osservazione di carattere personale, io non ho particolare simpatia per questo stile e, in generale, per interpretazioni di questo tipo, amando invece l’individuazione dei momenti di crisi e di
trasformazione, sia sul piano della narrazione biografica che dell’analisi dei testi. Avrei dunque sottolineato con più energia il momento della guerra, e l’affiorare, ad esempio, in Gentile di un'attenzione verso le masse, che, in effetti, è una novità, almeno in quella forma; così come avrei rilevato più energicamente
il ‘tornante’ rappresentato dal fascismo (con tutto ciò che esso significa). Ma c’è coerenza, voglio ripeterlo, fra stile e interpre-
tazione, in modo perfino intransigente. Semmai si può osservare che la continuità che Turi individua, e segnala anche stilisti camente, si accosta alla ‘autorappresentazione’ che Gentile aveva, e presentava, di se stesso e del suo sviluppo intellettuale. Il punto di fondo, comunque, è quello della ‘politicità’ come tratto originario di questa posizione, ben al di là dunque dell'opposizione fascismo/antifascismo: e su questo, come ho detto, concordo. Sarei più problematico sul secondo punto che sta alla base di questo lavoro, cioè sul rapporto di Gentile con Croce — di sostanziale «concordia di complementarietà» a giu-
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE EGRAMSCI
dizio dell’autore —, pur nella diversità di atteggiamento teorico su punti importanti. Turi arriva a parlare addirittura di un «complesso giuoco di apporti e suggestioni, anche dopo l’avvento del fascismo al potere» ?. Su questo, invece, marcherei in modo più netto le differenze, anche dal punto di vista politico e intellettuale. E qui mi limito a fare un solo esempio, concernente la questione della scuola della quale ho già sottolineato l’importanza: per quanto poco rilevato, l'atteggiamento di Croce ministro della Pubblica Istruzione è assai diverso da quello di Gentile, proprio sul punto dell’esame di stato e della riduzione delle classi. E lo è perché in Croce agisce una concezione del rapporto fra stato e società civile — radicalmente estranea a mo-
delli di tipo ‘giacobino’ — assai diversa da quella da cui muoverà Gentile realizzando la ‘riforma della scuola’; nella quale posizione si esprimono, a loro volta, importanti differenze anche sul
piano politico e intellettuale, alle quali occorre fare riferimento se non si vuol dare un quadro troppo compatto e organico di questa storia difficile (senza con questo voler negare i punti di convergenza, che furono tanti, lungo il primo quarto di secolo, ed esplicitamente riconosciuti) !°. Il fatto è che Turi tende a presentare un quadro molto unitario, molto lineare, che mira consapevolmente più agli elementi di convergenza che a quelli di differenziazione; più alle funzioni concrete che alle distinzioni teoriche, astratte. Ed è una
scelta legittima. Ma penso che sia altrettanto legittimo cercare di complicare il discorso, sull’uno come sull’altro piano. E a questo proposito mi sia lecito fare un’osservazione. Gentile, come è noto, fu maestro amatissimo (Gerzile maestro, si intitola un
bel testo di Calogero sul quale ha richiamato l’attenzione Eugenio Garin !!). E fu percepito — e qui sta il nodo della ‘contraddizione’, per usare un termine impegnativo — come maestro ca-
pace di insegnare a credere nel «libero futuro» dell’umanità da parte di uomini come Adolfo Omodeo e Cesare Luporini (volendo limitarsi solo a qualche nome). «Come vede, ho lavori per ° TURI, L'intellettuale Giovanni Gentile, cit., p. 147.
'° Su questo punto mi permetto di rinviare a quanto ho scritto in modo più esteso nel volume La scuola e la pedagogia del fascismo, a cura di M. BELLUCCI e M. CILIBERTO, Torino 1978. !! GARIN, Cronache difilosofia italiana (1900-1943), cit., pp. 239; CALOGERO, Gentile maestro, cit.
UNA BIOGRAFIA DI GENTILE
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molti anni della mia vita. E in tutto questo sento di serbar fede ad un impegno d’onore assunto negli anni di Palermo, negli entusiasmi che il Suo insegnamento suscitava in noi; anche se gli anni tristi ci hanno separato, e il vecchio scolaro è stato sconfessato», gli scrive Omodeo nella sua ultima lettera, del 4 dicembre del ’29 2, E molti anni dopo, l’8 agosto del ’43, è in
questi termini che gli si rivolge Luporini, in quel momento in osservazione all'Ospedale militare di Firenze: In quest’atmosfera in cui, almeno per ora, si ha il curioso spettacolo di veder crollare le istituzioni e rimanere indenni gli uomini si è voluto far scoccare una sola saetta a colpire Giovanni Gentile. Io non voglio entrare nel merito della lettera a cui alludo: non sta a me e non ne ho gli elementi, ma sono rimasto addolorato e sdegnato che essa, comunque, con atto di facile politica, fosse stata resa di pubblica ra-
gione. Proprio per questo sentimento di sdegno ho sentito il bisogno di scriverle. Il momento che attraversiamo è veramente oscuro e tremendo: noi che, direttamente o indirettamente, per altre vie che aves-
simo prese, siamo stati suoi allievi, delle parole che spesso udimmo dalla sua bocca riteniamo — continua Luporini — solo quelle più vere e veramente sue che ci insegnarono a credere nel libero futuro degli uomini e ad operare per esso !
Sono testimonianze, naturalmente, mA pongono un problema con cui fare i conti, alla luce di una biografia come questa. Per cercare di sciogliere un nodo che, senza alcun dubbio, è
assai complesso, credo che si debba riportare l’attenzione, direttamente, proprio su quel concetto di ‘politicità’ che è il filo conduttore di tutta l’analisi svolta in questo libro. Non voglio — sia chiaro, e proprio per quanto ho detto sopra — soffermarmi in analisi di tipo strettamente filosofico, ma su un punto, di fondo, occorre essere netti: la ‘politicità’ è, in senso proprio, una forma, una struttura originaria — ma formale, appunto — di questo neoidealismo. Non coincide, né s’identifica, immediatamente, con un contenuto specifico, con una scelta politica im1? Carteggio
Gentile-Omodeo,
a cura
di S. GIANNANTONI,
Firenze
1974,
p. 436 (su Omodeo si veda ora l'eccellente libro di M. MusTÈ, Adolfo Omodeo. Storiografia e pensiero politico, Bologna 1990). 1} SIMONCELLI, Cantimori, Gentile e la Scuola Normale di Pisa, cit., p. 157 e
TURI, Giovanni Gentile. Una biografia, cit., p. 503, dove però questo brano è citato in modo ridotto.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
mediata. Si intreccia, sul terreno storico, a precise prese di posizioni, a opzioni, a scelte concrete: ma senza risolversi, unili-
nearmente e di necessità, in una di esse. Dischiude, entro un
ambito preciso, un campo di possibilità, di cui è parte integrante anche l’opzione fascista. Ma come mi guarderei dal sostenere — e qualcuno l’ha fatto — che tra fascismo e attualismo non c’è un rapporto profondo !4, così mi guarderei dal dire che tra fascismo e attualismo c’è un nesso organico, lineare. Il che non significa che l’attualismo sia una forma neutra, indifferente. Tutt'altro: voglio solo dire che quella che Gentile offre aderendo
al fascismo
è un’interpretazione’
dell’attualismo,
che
getta luce sull’attualismo, ma che non risolve di per sé il problema stesso dell’attualismo e di quella ‘politicità’ che ne è il tratto costitutivo; «[...] disinnescato e rifiutato lo ‘stato etico’ —
quale proiezione necessaria del Soggetto trascendentale e convivenza organica nella storicità della nazione-popolo nei diversi soggetti empirici — non per questo era soppressa la filosofia dell'Atto. Tutt'altro. Ci si poteva esaltare in esso, nella sua universalità presunta concreta, proprio come individui-persone, e perfino come gruppi sociali in conflitto: non a caso — ha scritto, nel 1989, lo stesso Luporini poco prima di morire — è esistito un gentilianesimo di sinistra, con diverse gradazioni e fasi, fino ad accogliere istanze ‘marxistico-rivoluzionarie’» !. Sottolineando tutto ciò, io non intendo, l'ho già detto, contestare le scelte che
stanno a base di questa biografia, le quali dal punto di vista di Gentile ‘intellettuale’ e ‘politico’ risultano legittime; quanto piuttosto riaprire — e proprio sul terreno storico, che è quello che preme a Gabriele Turi — il problema della varia e non lineare funzione dell’attualismo in Italia, fra le due guerre. Oltre lo stesso Gentile — e le sue scelte specifiche — un nodo di contraddizioni, con cui vale ancora la pena di fare i conti.
Questa di Turi è dunque un'importante biografia intellettuale e politica di Gentile: il che non vuol dire, naturalmente, 4 Penso ad esempio alle tesi di A. NEGRI, L'inquietudine del divenire. Giovanni Gentile, Firenze 1992, con cui Turi giustamente polemizza (L'intellettuale
Giovanni Gentile, cit., p. 132). P LuPORINI, Dall'idealismo italiano a Heidegger, cit., p. 435. Significativa anche un’altra battuta di Luporini: «[...] poteva accadere (a me, ma anche ad altri meno giovani accadde) di sentirsi più vicini a Gentile filosoficamente, e più a Croce politicamente» (ivi, p. 434).
UNA BIOGRAFIA DI GENTILE
293
che non ci siano altri modelli di biografia. Del resto, sul genere biografico si discute vivacemente fin dal tempo degli antichi greci (come ci ha insegnato Momigliano), così come si discute di vari modelli di autobiografia: una cosa sono, ad esempio, le ‘autobiografie’ di Cartesio e di Croce, una cosa è l’autobiografia di Cardano, nella quale c’è un’attenzione alla dimensione empirica, corporea (il corpo, la dieta, la malattia) che è originalissima anche nella cultura italiana e che, non per niente, colpirà Rousseau. In questo quadro, la scelta compiuta da Turi è assai netta: l’oggetto della sua biografia è l’opera di Gentile, nella quale si risolve integralmente l’individuo Gentile: opera quale a noi è dato conoscere attraverso i documenti a nostra disposizione (teorici, politici, istituzionali...). E — si potrebbe osservare (sommariamente,
me ne rendo ben conto) — una scelta di
carattere ‘idealistico’, se si pensa a quel testo straordinario che è il Contributo alla critica di me stesso di Benedetto Croce, oltre
che ai vari contributi che il filosofo napoletano venne scrivendo sul significato storico sia del genere biografico che di quello autobiografico — incardinati, l’uno e gli altri, in una determinata concezione, da un lato, dell'individuo, dall'altro, del rappor-
to tra opera e individuo. E dicendo questo penso, per contrasto, alla bella battuta di Renato Serra sul rapporto tra «uomo» e «pagina» — come egli si esprime in una lettera a Giuseppe De Robertis !° dell’11 ottobre del 1914, osservando senza mezzi
termini che il primo l'«attira» più della seconda. È, si vede, subito, un altro modello biografico e stilistico connesso a un’altra dimensione di carattere teorico (né, a questo proposito, andrebbero dimenticate — penso — le riflessioni sul rapporto fra etica e biografia che, alla svolta del primo decennio del secolo,
venne facendo in Italia Giovanni Amendola). Comunque, in questa prospettiva, la domanda che si pone è questa: esiste un problema dell’uorzo Gentile — oltre la pagina, oltre l’opera —, e proprio sul terreno schiettamente biografico? E in che modo affrontarlo, posto che esso abbia un senso? Che abbia cioè senso dal punto di vista della comprensione storica di Giovanni Gentile, che è quella che interessa a tutti noi? Immagino bene le perplessità di Turi di fronte a una simile domanda: quali sono — 16 «L'uomo mi attira più che la pagina»: cfr E. GARIN, Per De Robertis, in Giuseppe De Robertis, Firenze 1985, p. 7-17 (la battuta di Serra è a p. 9).
294
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
egli dirà - i documenti su cui lavorare per procedere su questa strada, posto che ne valga la pena, dal momento che di Gentile ciò che ha effettivamente contato sono state la funzione e l’opera politica e intellettuale, storicamente documentate? Né è facile rispondere a un quesito come questo, per i nodi teorici che esso, senza alcun dubbio, stringe. Si può tentare di farlo, in questa sede, ma solo per abbozzo: intanto si possono usare in altra
prospettiva le fonti più consuete di cui già disponiamo (lettere, carteggi, scritti privati...); si possono utilizzare le varianti dei testi di Gentile che, su questo piano, sono uno strumento decisivo se analizzate in tale dimensione... !”. Cosi come può essere
assai utile lavorare più ampiamente e in modo critico sulla ricezione di Gentile da parte dei suoi scolari diretti, dei suoi lettori, dei seguaci di quegli anni, e anche da parte dei suoi avversari, dei suoi antagonisti. Su un punto infatti non credo che ci siano dubbi: il modo vario e contraddittorio con cui fu letto, e percepito, è qualcosa che appartiene intrinsecamente a Gentile;
è parte integrante della sua figura di uomo,
di studioso, di
politico: insomma,
Per riprendere
è sostanza,
non
accidente.
una bella immagine di Cusano: come ogni autore importante, Gentile è un grande specchio che si rifrange in una pluralità di specchi, i quali, a loro volta, rifrangono la loro luce su di lui illuminandolo in nuovi modi, secondo inesauribili prospettive originali...
!? Tanto più sono importanti le osservazioni critiche che Turi fa su questo tema, discorrendo dei criteri seguiti nell’edizione delle Opere complete di Gentile: «[...] non si può non rilevare che, mentre-ottima è la cura degli epistolari — il volume V delle lettere a Croce riproduce anche le comunicazioni di Croce ministro a Gentile e ripristina le parti delle lettere di Croce a Gentile che erano state omesse nell'edizione Mondadori —, in alcuni casi nei testi gentiliani sono state introdotte delle varianti rispetto agli originali finora conosciuti che, se pur dichiarate di pugno del filosofo, non sono segnalate; e talvolta sono tali da danneggiare la contestualizzazione storica degli scritti. Se è possibile che in una sua copia, rivedendo gli articoli pubblicati sui giornali, Gentile abbia voluto ripristinare la lezione originaria di testi corrotti da interventi redazionali, o apportare modifiche in vista di una raccolta, la variante andava segnalata, perché in assenza di indicazioni resta il dubbio sulla corretta edizione del testo originale; ed è questo che, anche con i suoi eventuali errori, i contemporanei hanno letto» (L'in-
tellettuale Giovanni Gentile, cit., p. 135). Sul significato ermeneutico delle varianti dal punto di vista biografico ho insistito in Bruro allo specchio. Filosofia e autobiografia nel Cinquecento, «Rinascimento», II s., XXXIV, 1994, pp. 83-111 (ora in Umbra profunda. Studi su Giordano Bruno, cit., pp. 65-95).
UNA BIOGRAFIA DI GENTILE
295
Ma non voglio insistere, ora, su quello che è un delicato problema di metodo (e di teoria). Si sa, del resto: per quanto sia ‘pensata’, ogni ricerca individua, e sceglie, le proprie fonti, i propri documenti. Non intendo neppure nascondermi dietro un dito: ponendo questo problema, mi rendo perfettamente conto di proporre un concetto di biografia come genere filosofico e letterario diverso da quello cui pensa Turi; così come mi rendo conto che esso è fondato su un’idea diversa di individuo e, di conseguenza, del rapporto tra opera € individuo. E sono anche consapevole che tutto ciò muta il problema storico del nostro rapporto con Giovanni Gentile, spostando necessariamente la ricerca su un orizzonte più largo di quello costituito dalla sua figura di intellettuale e di politico in senso stretto, che è quella sulla quale Turi si concentra. Mi rendo conto di tutto questo: ma, per ragioni teoriche e per motivi di carattere storiografico,
sono persuaso che si debba battere arche questa via per sciogliere il nodo di contraddizioni che Gentile rappresenta, per comprendere sul piano storico ciò che è stato e ciò che ha rappresentato. «Il suo occhio, altre volte così luminoso, ora si è ridotto opaco» — così, alludendo a Gentile, scrive Luigi Russo al
fratello nel 1938. Con questo «occhio» — con questo specchio — e con tutto ciò che esso significa, io credo che occorra fare i conti, su tutti i piani: s'intende, senza nulla togliere al lavoro di Gabriele Turi.
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IV GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
E utile una precisazione preliminare. Non intendo presentare in queste pagine un’analisi complessiva del linguaggio morale di Gramsci. Non sarebbe, del resto, possibile. E questo per un duplice ordine di considerazioni: uno di carattere ‘interno’, l’altro di carattere ‘esterno’. Anzitutto, il linguaggio di Gramsci — specie negli anni giovanili — è, fondamentalmente, un linguaggio ‘etico-politico’. Non per caso, ovviamente. Discendeva,
in modo organico, da una specifica concezione della politica, della rivoluzione, del comunismo. Ma questo vuol dire che un’a-
nalisi del linguaggio etico-politico di Gramsci coincide, tendenzialmente, con un’analisi della totalità del suo linguaggio. E ciò è reso ulteriormente difficile dal secondo.motivo di carattere esterno cui si faceva sopra riferimento. Manca, a tutt'oggi, un
lessico gramsciano; mancano anche le concordanze sia degli scritti giovanili che dei Quaderni del carcere. È un’opera alla quale, credo, occorre cominciare a porre mano. Ne esistono; del
resto, le condizioni e le possibilità?.Il mio tema è dunque cir! È assai utile il lavoro di U. CERRONI, Lessico gramsciano, Roma
1978, nel
quale si espongono sinteticamente i concetti fondamentali del pensiero di Gramsci. Ma io qui parlo di lessico in senso proprio: cioè di un lavoro imperniato sull’analisi completa delle concordanze di tutto il corpus degli scritti gramsciani. Le basi di un’opera simile, in gran parte, ci sono. Dei Quaderni del carcere esiste l’ottima edizione critica dell'Istituto Gramsci, cit. Degli scritti precedenti si dispone di buone edizioni in via di completamento (A. GRAMSCI, La Città futura 19171918, a cura di S. CAPRIOGLIO, Torino 1982; ID., I/ rostro Marx. 1918-1919, a cura di S. CAPRIOGLIO, Torino 1984; ID., L'Ordine Nuovo. 1919-1920, a cura di V. GERRATANA e A. SANTUCCI, Torino 1987). Non mi nascondo, ovviamente, i problemi
anche di ordine strettamente testuale connessi a un’iniziativa di questo genere. Ma allo stato degli atti essi sono, a mio avviso, superabili.
2 Nel corso di questo lavoro mi sono potuto giovare delle concordanze di parte del quaderno II (XVIII), pp. 1374-1450, preparate, in via sperimentale, dal
298
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
coscritto. Mi limiterò ad analizzare solamente alcuni aspetti del linguaggio di Gramsci, cercando di mettere a fuoco la rete concettuale cui esso è intrecciato. Dal punto di vista cronologico mi concentrerò essenzialmente sugli scritti giovanili, riservando solo alcune considerazioni di ordine generale ai Quaderni, allo scopo di delineare alcune significative variazioni di ordine linguistico e concettuale. 1. Al centro di questo esperimento — che mira anzitutto a mettere a fuoco una serie di caratteri del ‘vocabolario’ di Gramsci — colloco due categorie fondamentali: quella di disciplina e quella di spontarettà (a loro volta inserite in una costellazione concettuale e terminologica in cui si stagliano le categorie di zecessità e di libertà, di ordine e di volontà). Le ho scelte perché costituiscono un aspetto organico della riflessione di Gramsci fin dagli anni giovanili. E una considerazione che balza agli occhi da una semplice analisi di tipo quantitativo: nelle pagine dell’«Ordine Nuovo» il tema della disciplina, dell’ordine, del-
l’organizzazione ricorre ossessivamente. E così quello della volontà, della libertà, della creazione di una nuova società. Non
solo: essi si situano all’interno di pagine connotate, intimamente, da uno stile ‘dilemmatico’, imperniato da un lato sull’analisi
dei processi di disfacimento, di disordine organico, di decom-
posizione della società capitalistica; dall’altro sulla individuazione dei caratteri strutturali del nuovo ordine, della nuova comunità umana, ad opera di una forte, consapevole volontà. Come è noto, a questo proposito si è insistito a lungo su inci-
denze di matrice bergsoniana nella posizione di Gramsci (0, anche, di carattere gentiliano: del resto sono critiche diffuse fin dagli anni del primo dopoguerra) ?. Non intendo qui riaprire la questione, che può diventare di lana caprina. Nel caso di un audott. Ubaldo
Ceccoli, in collaborazione
con Carlo Borracchini,
dell'Opera del
vocabolario, Centro di studi del CNR, che vivamente ringrazio. ? Su questo tema la letteratura è assai vasta. Mi limito quindi a richiamare solamente alcuni lavori particolarmente significativi: L. PAGGI, Grarzsci e il moderno Principe, I, Roma
1970; G. BERGAMI, I/ giovane Gramsci e il marxismo. 1911-1918, Milano 1977; N. BADALONI, I/ marxismo di Gramsci. Dal mito alla ri-
composizione politica, Torino 1975. Resta, comunque, fondamentale la relazione di GARIN al primo Convegno di studi gramsciani, Roma, 11-13 gennaio 1958, Grarzsci nella cultura italiana, cit.
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
299
tore come Gramsci ciò che effettivamente conta è l'originalità della posizione, l'autonomia teorica con cui ha espresso temi che, prima di essere oggetto di libri e di riviste, appartenevano allo sfondo culturale di un’epoca 4. In questo caso a me preme rilevare anzitutto un elemento: il quadro concettuale e linguistico entro cui si situano, negli anni dell’«Ordine Nuovo», la
categoria di disciplina e la categoria di spontaneità. Esse, a ben vedere, si fondano su un duplice concetto di ‘vita’, potenziandosi in modo reciproco, ma, anche, senza mai integralmente fondersi in una sintesi univoca, definitiva.
Il primo concetto è quello (per intendersi) genericamente bergsoniano di vita come ‘slancio’, ‘impulso vitale’, ‘nuova creazione’. Gramsci, del resto, ad esso fa esplicito riferimento (sia in
chiave positiva che negativa) ?. A questo primo concetto risale, in effetti, l'opposizione forme/vita che percorre tante pagine degli scritti giovanili, e anche dell’«Ordine Nuovo». Ma anche in questo caso occorre evitare di ridurre la posizione specifica di Gramsci alla discussione generale che intorno a questo tema si era Pasinzana diffusa in Italia e in Europa negli anni precedenti la guerra £. È appunto il conflitto che muta radicalmente i dati del problema. Quando l’«Ordine Nuovo» comincia ad uscire, l'opposizione vita/forme, nel modo in cui era stata posta nel periodo prebellico, si è di ei. in primo piano —- e che si riflette autonomamente nelle pagine di Gramsci — non è più la generica opposizione di forma e di vita. All'ordine del giorno, nel primo dopoguerra, è l’individuazione
dei caratteri politico-istituzionali, statuali, entro cui
essa può e deve essere risolta. Sta qui il discrimine. Se la società 4 Su questo punto sono assai persuasive le osservazioni di LUPORINI, I/ marxismo e la cultura italiana del Novecento, cit. ? Per qualche esempio significativo cfr A. GRAMSCI, Maggioranze e minoranze nell'azione socialista. Postilla, in ID., L'Ordine Nuovo, cit. (da ora in poi ON), p. 24: «la rivoluzione internazionale ha inventato (nel senso bergsoniano) lo Stato dei consigli [...]; ID., Bergson, «L'Ordine Nuovo», 30 ottobre 1921 (su cui si vedano le osservazioni di PAGGI, Grarzsci e il moderno Principe, cit., pp. 351 sgg.). 6 Si vedano a questo proposito i due lavori di E. GARIN, Intellettuali italiani del XX secolo, cit. e Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l'Unità, Bari 1983. Mi permetto di rinviare anche al mio lavoro Filosofia e politica nel Novecento italiano, cit.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE,E GRAMSCI
è sempre stata organizzata, il problema diventa quello del nuovo Stato, del nuovo ordine che deve subentrare alla crisi e alla de-
composizione del mondo borghese. La vecchia società è, ormai, un organismo amorfo, distaccato dalla vita. Questo è il nodo teorico-politico che la guerra stringe in modo radicale. Ed esso non si scioglie né con una generica apologia dell’inesauribile processo della vita, né con una retorica proclamazione dell’impossibilità, nella crisi, di qualsiasi forma, della stessa idea di
forma. All’opposto: tutta l’analisi di Gramsci è concentrata nell’individuazione dei nuovi istituti entro cui la crisi va risolta. A identificarla contribuisce potentemente il modello della vita come ‘impulso’, ‘slancio vitale’. Ma è appunto qui che si esaurisce tutta la sua potenza conoscitiva.
Esso appare del tutto inadeguato a specificare il'terreno e i caratteri dei nuovi istituti da costruire. Dà unilateralmente spazio al momento della pura spontaneità, delle nuove energie che premono sulle vecchie forme avviandole a definitiva dissoluzione. Ma non riesce a determinarsi come principio di disciplina,
di ordine, di organizzazione. Rappresenta un fondamentale momento negativo, antagonistico — di critica dell’esistente, dell’af-
fiorare di forze nuove. Ma non risolve il problema centrale, non produce nuove, positive istituzioni. Sul piano teorico si apre dunque uno scarto: ed è precisamente qui che interviene, e si afferma, il modello della vita come organismo disciplinato, intimamente organizzato, strutturato secondo principi interni di
coesione, di solidarietà, di unità fra il tutto e le singole parti. Sta qui, a ben vedere, il paradigma dei nuovi istituti di potere. A questo aspetto della posizione di Gramsci non si è fatto, in genere, riferimento adeguato. Ma è fondamentale, e del tutto evidente sul piano lessicale. Si è già fatto accenno al termine decomposizione”. Se ne potrebbero aggiungere altri senza difficoltà: disfacimento, putrefazione, fermentazione. Ma è più utile, forse, offrire qualche esempio esteso di questo lessico ‘vitale’, * Per qualche esempio tra i tanti cfr A. GRAMSCI, La taglia della storia, in ON, pp. 58-59: «La guerra lunga e disgraziata aveva lasciato una triste eredità di miseria [...] La compagine umana stessa si era ridotta a un’orda nomade di senza lavoro, senza volontà, senza disciplina, materia opaca di un'immensa decomposizione [...]»; ID., Lo stato e il socialismo, in ON, p. 118: «La società umana subi-
sce un processo rapidissimo di decomposizione coordinato al processo dissolutivo dello Stato borghese».
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
301
cercando di rilevare il ruolo che:esso svolge sul piano della critica della società borghese, da un lato; della individuazione dei nuovi istituti della società comunista, dall’altro. Scrive sull’«Or-
dine Nuovo» nel novembre del 1919: La guerra ha irrimediabilmente rotto l’equilibrio mondiale della produzione capitalistica. Prima della guerra si era venuta costituendo nel mondo una fitta rete di relazioni commerciali; economicamente il mondo era diventato un organismo vivente a rapida circolazione san-
guigna. Un immane lavoro era stato compiuto dai capitalisti per decine e decine d’anni, milioni e milioni d’individui spinti dal desiderio del lucro personale avevano lavorato ad annodare rapporti, a sistemarli, a suscitare una molteplicità di vasi sanguigni venosi e arteriosi, attraverso ai quali circolava la vita del mondo per l’impulso di una molteplicità di ‘cuori’, i vari grandi mercati di produzione e di consumo. Questo sistema di vita mondiale si era venuto formando a caso,
per il confluire di iniziative innumerevoli, tanto numerose e diverse da non potersi riassumere che in una espressione astratta: lo stimolo dell’interesse individuale, il desiderio di proprietà privata o, come dico-
no i sicofanti dell'economia politica, la libertà. Al periodo del caso [...] — continua Gramsci -, dell’iniziativa individuale libera, successe
nel secolo XX il periodo imperialistico, il periodo delle economie nazionali che muovono come complesso organizzato in potenza militare alla conquista dei mercati mondiali, alla conquista del mondo. Questo periodo culmina nella guerra, e distrugge le condizioni di esistenza dell'economia liberale, distrugge le condizioni di esistenza del capitalismo. La fitta rete dei rapporti che dava vita al mondo viene lacerata violentemente; vengono recise le vene e le arterie del gran corpo mondiale; la Germania, l’Austria-Ungheria, la Russia, tre grandi cuori della vita mondiale, vengono soffocati, tutto l'equilibrio del sistema economico mondiale è rotto, e rimane un formidabile squarcio dal quale a fiotti purpurei scorre il sangue. In ogni nazione d’Europa, in tutta l'Europa, nel mondo esiste uno squarcio economico; ogni sforzo di produttività, ogni slancio per la ripresa, per il progresso si annulla in quello squarcio 8.
Pure e semplici metafore, luoghi comuni indifferenti dal punto di vista concettuale, obietterà qualcuno. Non è la mia opinione. Restiamo ancora oggi troppo legati a una tradizione storiografica che ha pensato di vedere nella filosofia italiana del Novecento una sorta di rapidissimo, catastrofico dissolvimento 8 A. GRAMSCI, La settimana politica. Italia e Stati Uniti, in ON, pp. 303-304.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
del lessico delle ‘scienze della vita’ (anche di ascendenza positivistica), cui sarebbe immediatamente, e trionfalmente, suben-
trato il lessico idealistico (sia di Croce che di Gentile). A vederle da vicino, le cose non stanno affatto così?. La persistenza di un lessico ‘vitale’ è, ad esempio, fortissima in Croce; né ha bisogno
di essere scoperta negli scritti del secondo dopoguerra. Al contrario: il ‘vocabolario’ della vita è costitutivo della filosofia crociana — sia della vita come sazità che della vita come wealattia !°. Né diversa, mi pare, è in questo caso la situazione per Gramsci. Dall’inizio alla fine, sia pure sullo sfondo di radicali mutamenti teorici, si è costantemente servito — e non per caso — del lessico delle ‘scienze della vita’. Ma, come si è detto, questo è un discorso di tipo generale. A me ora interessa. vedere in che modi questo lessico agisce nelle posizioni elaborate sull’«Ordine Nuovo». anzitutto, nella critica dei caratteri costitutivi
Esso incide, della società
borghese-capitalistica; nella determinazione della polarità corpagno/cittadino; nella interpretazione della struttura e della funzione dei consigli di fabbrica; nella posizione di carattere comunitario, organico, che allora Gramsci propone. Vediamo ancora qualche testo: Nell’epoca moderna — scrive nel giugno del 1919 — la società viene sciolta da ogni vincolo collettivo e ridotta al suo elemento primordiale: l’individuo-cittadino [...] La concorrenza viene instaurata come fondamento pratico del consorzio umano: l’individuo-cittadino è la cellula della nebulosa sociale, elemento irrequieto e inorganico che non può aderire a nessun organismo. Su questa inorganicità e irrequietezza sociale si basa appunto il concetto di sovranità della
legge, concetto puramente astratto, potenziale truffa della buona fede e innocenza popolare. Concetto antistorico, perché immagina il ‘cit-
tadino’ in eterna guerra con lo stato, pone gli individui come nemici perpetui e implacabili dello stato, che è il corpo vivente e plastico della società !!.
? Importanti osservazioni su questo punto fondamentale in GARIN, Intellet-
tuali italiani del XX secolo, cit. (particolarmente l’Introduzione). !° Su questo cfr il secondo capitolo di questa sezione. Utile è il lavoro di E. GIAMMATTEI, Retorica e idealismo. Croce nel primo Novecento, Bologna, 1987, ricco di osservazioni degne di discussione, al di là di possibili dissensi (almeno per quanto mi riguarda). 1 A. GRAMSCI, La sovranità della legge, in ON, p. 49.
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
303
«Organismo», «cellula», «corpo vivente e plastico» (plasticità — sia detto tra parentesi — è termine tipicamente gramsciano); e, nel testo sopra citato, «cuore», «vene», «arterie», «vasi sanguigni», «organismo vivente»: sono tutti lemmi caratteristici
del vocabolario delle ‘scienze della vita’. Negativamente esprimono una critica radicale della frenesia ‘concorrenziale’, ‘indi-
vidualista’ propria del mondo borghese; positivamente esprimono la tesi per cui «nello Stato proletario gli individui varranno in quanto associati, in quanto parte di una comunità» !’, cioè,
appunto, di un corpo plastico, di un organismo vivente entro cui ciascuna parte si ordina e si disciplina, assumendo, a questa
stregua, valore e funzione universali. La differenza tra capitalismo e comunismo si spiega alla luce di questo fondamento vitale, originario. Essa risiede «nell’essere il regime capitalista fondato sull’individuo-cittadino in lotta con lo Stato e quindi con la società, mentre il comunismo avrà per base cellule già organiche di compagni solidali, i quali risolvono i loro problemi e soddisfano i loro bisogni non singolarmente, in lotta gli uni contro gli altri, come problemi e bisogni privati, ma nella sfera sociale della comunità» !. Riaffiorano lemmi già segnalati: «cellula», «corpo», «organismo». Ma essi, ora, contribuiscono ad esprimere con massima chiarezza una caratteristica conce-
zione della rivoluzione comunista. È la massima rivoluzione — scrive Gramsci —: poiché vuole abolire la proprietà privata e nazionale, abolire le classi, essa coinvolge tutti gli uomini, non una sola parte di essi. Obbliga tutti gli uomini a muo-
versi, a intervenire nella lotta, a parteggiare esplicitamente. Trasforma la società fondamentalmente: da organismo unicellulare (di individuicittadini) la trasforma in organismo pluricellulare; pone a base della società nuclei già organici di società stessa !*.
In sintesi: la rivoluzione trasforma la base organico-vitale della società, e muta, quindi, in modo radicale modelli esisten-
ziali, comportamenti individuali, la psicologia di massa. Oltre la frantumazione, si ricostituisce l’unità del genere: il comunismo abitua «all'idea che non
esiste un ‘io’, un ‘tu’, un ‘egli’, ma
12 A. GRAMSCI, Cronache dell'Ordine Nuovo [III], in ON, p. 54.
13 Ibid. 1 GRAMSCI, La taglia della storia, cit., p. 56
304
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
esistiamo ‘noi’, solidali, spiriti partecipi della vita e del bene comune» 5. È appunto riafferrando l’unità del genere che il movimento operaio esprime la sua funzione universale nella storia dell’umanità: esso è la «reazione della società che vuole ricomporsi in armonico organismo solidale e retto dall'amore e dalla pietà. Il cittadino viene rinnegato dal compagno; l’atomismo sociale viene rinnegato dall’organizzazione. Nascono spontaneamente
le cellule del nuovo
ordine, aderiscono,
fondano più
vaste stratificazioni solidali» !°. Non è il caso, credo, di insistere ulteriormente su questo
lessico, né sulle prospettive di ordine teorico-politico che ne derivano (semmai sarebbe interessante fare un’analisi delle fonti di Gramsci, e le sorprese non sarebbero poche !’). Un punto, però, mi interessa in modo specifico rilevare per il suo significato e per la varietà d’accenti che su di esso si registra nei Quaderni: la critica radicale di Gramsci, a questa data, dell’‘individuali-
smo’ nella sua generalità. «Noi non siamo degli individualisti — scrive nell'ottobre del 1919, in piena coerenza al punto di vista sviluppato —, siamo socialisti e marxisti e per questo crediamo che l’azione degli individui non vale se non si estende e approfondisce nella massa umana, se non si genera una cooperazione di uomini avvinti da legami reali di lavoro comune» !8, E 5 A. GRAMSCI, Cronache dell'Ordine Nuovo [V], in ON, p. 86.
16 GRAMSCI, La sovranità della legge, cit., p. 50. !? Credo che questo sia un compito ineludibile della critica gramsciana. Ma sono anche persuaso che tale ricerca debba essere svolta in maniera assai spregiudicata. Anche alla luce di quanto cerco, ad esempio, di dimostrare in queste pagine è pure da riconsiderare, in modo nuovo, il rapporto di Gramsci con la cultura linguistica, sociologica, scientifica tardottocentesca, sulla quale, del resto, si stanno pubblicando contributi rilevanti ormai da tempo. Ma al di là di questo caso specifico è il problema complessivo che va reimpostato, oltre la tradizione storiografica imperniata nell’opposizione ideologica idealismo/positivismo (risalente, di fatto, a Croce e Gentile), in cui viene esaustivamente riassorbita tutta la vicenda del marxismo italiano, in primo luogo di Gramsci, salvo poi operarne una drastica — e paradossale, ma solo a prima vista:— liquidazione.
18 A. GRAMSCI, Cronache dell'Ordine Nuovo [XVI], in ON, pp. 228-229. Cfr anche A. GRAMSCI, I risultati che attendiamo, ivi, p. 320: «L’individualismo ani-
malesco, proprio delle popolazioni arretrate e senza cultura, è morto. Gli uomini si sono aggruppati, l'umanità italiana è diventata società, finalmente». Da questo punto di vista è assai rilevante l’approfondimento del motivo operato nei Quaderni del carcere, cit., pp. 1110-1111: «E da vedere quanto ci sia di giusto nella tendenza contro l’individualismo e quanto di erroneo e di pericoloso. Atteggiamento
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
305
svolgendo il motivo in chiave filosofico-storica ribadisce: «è passato il regno degli individui. La storia domanda grandi unità sociali organiche, coese, capaci di incarnare un solo grande spirito animatore, ingranato in modo da funzionare per una sola spinta d’azione» !. La originalità e la grandezza politica e teorica della Russia comunista stanno appunto nel fatto che essa è la negazione integrale del moderno individualismo, e dei processi di degenerazione che gli sono intimamente connessi. «La Repubblica russa dei Soviet — continua — è il primo grande esempio di gigante sociale, di unità storica vivente; il Soviet sostituirà le grandi individualità, gli eroi sociali, ridarà una fede,
ridarà un impulso nuovo alla vita e al progresso, del caos rifarà un ordine» °°. Ordine, appunto. Il valore del modello teorico offerto dalle ‘scienze della vita’ sta nella determinazione della dimensione della disciplina, della coesione, dell'ordine organico, vivente, comunitario: «con l’eroismo generoso e la passione non si creano gli stati: occorre disciplina, perseveranza, coesione e
disprezzo per gli irresponsabili» 21. I bolscevichi rappresentano esemplarmente l’«ordine e la disciplina che i lavoratori hanno instaurato solidalmente» — l'ordine e la disciplina concretizzatisi in quelle «istituzioni economiche e politiche», che hanno permesso alla rivoluzione comunista di resistere a tutti gli attacchi
sferrati dalle potenze borghesi. 2. Riepiloghiamo quanto finora si è cercato di dire. Il modello teorico della vita come ‘slancio’, ‘impulso’, ‘nuova crea-
zione’, consente a Gramsci di riscattare il significato e la funzione rivoluzionaria della volontà; il modello teorico della vita contraddittorio necessariamente [...] Lotta contro l’individualismo è contro un determinato
individualismo,
con
un determinato
contenuto
sociale, e precisa-
mente contro l’individualismo economico in un periodo in cui esso è diventato anacronistico e antistorico [...] Che si lotti per distruggere un conformismo autoritario, divenuto retrivo e ingombrante, e attraverso una fase di sviluppo di individualità e personalità critica si giunga all’uomo-collettivo è una concezione difficile da comprendere per le mentalità schematiche e astratte». Su questo punto sono importanti le osservazioni di B. DE GIOVANNI in AA.Vv., Urzanesimo, Rina-
scimento e Riforma in Gramsci, «Quaderni di Ecumene», III, 1987, pp. 34 sgg. 19 A. GRAMSCI, La settimana politica [IX], in ON, p. 252. 20 Ibid. 21 A. GRAMSCI, La settimana politica [IV], in ON, p. 148.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
come ‘organismo’ individua il terreno di organizzazione e di disciplinamento delle energie nuove, della nuova società, bloccandone possibili degenerazioni nell’arbitrarietà, nell’individualismo, nell’anarchia, nel libertarismo amorfo e senza vita. Nell'intreccio dell’uno e dell’altro — né semplice, né lineare, anzi
potenzialmente aporetico — sta la posizione teorica di Gramsci negli anni giovanili: la sportane:tà si disciplina, si struttura nel nuovo ordine sociale e morale; la disciplina, a sua volta, è inti-
mamente ravvivata e dinamicizzata dalla tensione rivoluzionaria di una volontà protesa alla costruzione di un nuovo «principio di vita», servendosi, se occorre, anche di quella violenza che è
necessaria «per espellere i briganti, per ridurli all’impotenza e costringerli alla legge comune del lavoro [...]». Dal nesso tra i due modelli teorici di vita scaturisce dunque una prospettiva, a quel momento, assai feconda: la spontaneità, la volontà bloccano la degenerazione della disciplina in burocratismo meccanico, servile; la disciplina, ordine bloccano la degenerazione della spontaneità in caos, puro disordine. Prima di accusare Gramsci
di organicismo e di armonicismo
antindividualistico — come
anche di recente si è fatto —, è al senso complessivo della sua im-
postazione che bisogna guardare, agli strumenti di cui a quella data disponeva, alla situazione in cui essa si sviluppa °°. Siamo, comunque, ben lontani dal concetto crociano di vita cui sopra si faceva riferimento, per segnalare elementi di un comune sfondo culturale. Fino alla guerra per Croce l’organismo vivente è forma organicamente compiuta e perfetta, ordine intrinseco e spontaneo, nel processo circolare dello Spirito. Bisognerà arrivare agli anni Venti per vedere affiorare in primo piano l’etico-politico, e alla Storia comze pensiero e come azione per osservarne teoreticamente fondato il primato ?. In questi testi di Gramsci l'organismo vivente è già sottoposto intimamente
a una
tensione,
a una dinamicità
intrinseca
che ne
trasforma caratteri e funzioni. E la politica che opera questa 2 Non posso quindi condividere le posizioni di F. SBARBERI, Ur socialismo armonico, Milano 1986, su cui si vedano le precise osservazioni di N. BADALONI,
Il problema dell’immanenza nella filosofia politica di Antonio Gramsci, Venezia 1988, pp. 8 sgg.
? Rinvio per questo al mio lavoro Filosofia e politica nel Novecento italiano, cit. e al cap. II di questa sezione. In linea generale, e anche su questi temi, è fondamentale il lavoro di SAsso, B. Croce. La ricerca della dialettica, cit.
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
307
mutazione: quell’atto della «volontà superiore all’arbitrio individuale, alla fazione, al disordine, all’indisciplina individuale» 24, da cui germina lo Stato che coincide, in ultima istanza, con la stessa società. Ma non è solo — e non tanto — a questa attivazio-
ne politica che occorre guardare, analizzando i testi dell’«Ordine Nuovo». Il modello teorico offerto dalle ‘scienze della vita’ risulta fondamentale, anzitutto, per intendere la genesi e i caratteri della visione gramsciana dei Consigli. Intesi come organismi viventi in senso pieno, essi modificano strutturalmente la concezione della economia e della società tradizionalmente intese. Leggiamo ancora qualche testo. La dittatura proletaria — scrive Gramsci — può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico dell’attività propria dei pro-
duttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione [...] Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti all’organizzazione dello Stato proletario, sono inerenti all’organizzazione del Consiglio. Nell’uno e nell’altro il concetto di cittadino decade, e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo
posto, e ognuno ha una funzione e un posto ??. EI
Dalla fabbrica moderna — entro cui si sperimenta organicamente la dimensione della comunità — germinano una nuova moralità, un nuovo sentimento di solidarietà, la consapevolezza
di una comune responsabilità. Si spezzano i confini dell’atomismo, dell’individualismo, della cittadinanza borghese; si recido-
no le radici della crisi e della decomposizione dell’organismo sociale; si riconnettono
unitariamente
vita, economia,
società,
spezzando le barriere entro cui si erano tradizionalmente confinate le organizzazioni proletarie: «il sindacato — spiega Gramsci — si basa sull’individuo, il Consiglio si basa sull'unità organica e concreta del mestiere che si attua nel disciplinamento del processo industriale» 2°. Il fondamento della cittadinanza borghese si dissolve: nell'organismo consiliare si unificano la parte e il tutto. Si stringono in solidale, intima unità. Costituiscono, ap24 A. GRAMSCI, I/ bordello bolscevico, in ON, p. 32.
25 A. GRAMSCI, Sindacati e Consigli, in ON, p. 238.
26 Ivi, p. 239.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
punto, una comunità: «la squadra (il mestiere) sente di essere
distinta nel corpo omogeneo della classe, ma nel momento stesso si sente ingranata nel sistema di disciplina e di ordine che rende possibile, con l’esatto e preciso suo funzionamento, lo svi-
luppo della produzione» 27. Si sente, cioè, parte di un microcosmo, che è l'organismo vivente della fabbrica, il primo momento di un processo organico di ricomposizione della classe, della nazione, della vita intera dell'umanità. A questa luce — ed è, evi-
dentemente, un punto teorico cruciale — i processi di divisione del lavoro, di cui, pure, Gramsci è fortemente consapevole, e
che vede pienamente e modernamente dispiegati nel sistema produttivo torinese, non si configurano più come elementi, e strumenti, di separazione, di isolamento esistenziale, di aliena-
zione. Riorganizzati e ripensati, cambiano forma e funzione. Si costituiscono come luogo di un effettivo processo di emancipazione, tanto più forte e penetrante,
quanto più intimamente
connesso alle forme comunitarie della produzione moderna. Radicandosi consapevolmente nella struttura produttiva l’unità prevale sulle differenze, la comunità prevale sulla divisione, sulla separazione. Sta in questa consapevolezza — e in siffatta adesione — la radice vivente, naturale, della rivoluzione. Essa si
sviluppa aderendo in modo organico, ai processi più intimi di sviluppo della società e della produzione. Per Gramsci, in effetti, la modernità coincide con processi
di ‘centralizzazione’. Essi sono attivi nella società e nella politica. Ma configurano una duplice situazione. Nello Stato borghese la ‘centralizzazione’ coincide con il predominio della burocrazia, della piccola borghesia, cioè con un principio di degenerazione e di decomposizione (sia detto per ora di passaggio: la critica della burocrazia è una struttura permanente della posizione di Gramsci, ed è in opposizione ad essa — lo vedremo — che anche nei Quaderni riaffiora, trasfigurato in chiave metaforica, il vocabolario delle ‘scienze della vita’). Nell’economia coincide, invece, con un processo positivo, imperniato sul su-
peramento della figura tradizionale del capitano di industria, della tradizionale divisione tra tecnici e operai, ed anche delle contrapposizioni tra operai ed operai. Nel mondo attuale si scontrano un ‘principio di morte’ e un ‘principio di vita’. Men27 Ibid.
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
309
tre la classe proprietaria si è allontanata dal lavoro, dalla produzione, dalla vita, ricadendo nella «bestialità primordiale e barbarica che nutre gli istinti più abbietti della crapula» 28; la classe operaia moderna ha acquisito una nuova psicologia (altro lemma ricorrentissimo in questi testi di Gramsci 2°), sta svilup-
pando forme nuove di vita, una nuova umanità. E ciò accade perché essa ha compiuto un cammino inverso a quello delle vecchie classi dominanti.
Si è «identificata con la fabbrica, si è
identificata con la produzione ‘moderna’ ordinata, precisa, disciplinata, secondo il ritmo delle grandi macchine, secondo il ritmo di una raffinata ed esatta divisione del lavoro» 5°, E, as-
sumendola a modello, ha superato vecchi comportamenti, psicologie basate sull’isolamento e sulla contrapposizione. Insomma: si è costituita come ‘principio della vita” opponendosi al ‘principio della morte’, della decomposizione. Dalla divisione è quindi germinata l’unità, la solidarietà, è nata la moderna comunità operaia: «la divisione del lavoro — osserva polemicamente Gramsci — ha creato l’unità psicologica della classe operaia, ha creato nel mondo proletario quel corpo di sentimenti, di istinti, di pensieri, di costumi, di abitudini, di affetti che si
riassumono nell’espressione: solidarietà di classe. Nella fabbrica ogni operaio è condotto a concepire se, stesso come insepa-
rabile dai suoi compagni di lavoro» ?!. Qui — dove germina la prima cellula della nuova società — coincidono organicamente disciplina e spontaneità, ordine e volontà. Nella vita della fab-
brica si risolve quella che presa a sé può sembrare un’insanabile aporia: quanto più l'operaio — scrive Gramsci — si specializza in un gesto pro-
fessionale, tanto più sente l’indispensabilità dei compagni, tanto più sente di essere la cellula di un corpo organizzato, di un corpo intimamente unificato e coeso; tanto più sente la necessità dell’ordine, del 28 A. GRAMSCI, La settimana politica [XVIII], L'operaio di fabbrica, in ON,
p. 433.
2° Su questo lemma centrale del vocabolario gramsciano, e sul suo rilievo, occorrerebbe svolgere una ricerca specifica. Limitandoci al testo che stiamo analizzando cfr, tra l’altro, ON, pp. 14, 121, 126, 156-157, 161, 177, 239, 324, 343, 363, 415, 427, 432, 433, 436, 521, 551... Sono riferimenti che senza difficoltà si
potrebbero moltiplicare, lungo tutta l’opera di Gramsci. 30 GRAMSCI, La settimana politica [XVIII], L’operato difabbrica, cit., p. 433.
3! Ibid.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
metodo,
della precisione, tanto più sente la necessità che tutto il
mondo sia come una sola e immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo stesso ordine che egli verifica essere vitale nella fabbrica dove lavora; tanto più sente la necessità che l’ordine, la precisione, il metodo che vivificano la fabbrica siano proiettati nel sistema
di rapporti che lega una fabbrica all’altra, una città a un’altra, una
nazione a un’altra nazione ’*.
È quasi ossessivo questo lessico biologico: cellula, corpo, cuore, gangli, nervi («la classe operaia domina oggi la produzione, è il padrone della società, perché può recidere, incrociando le braccia, gli ultimi nervi che la fanno vibrare ancora [...}» ?). E altrettanto martellante è questo lessico della disciplina, dell'ordine, della produttività organizzata e solidale. Si corrispondono, coerentemente alla luce di quanto si è detto. Nell’ordine e nell'unità della vita sprofondano le radici dell’ordine e dell’unità della fabbrica. Fra vita ed economia c’è intreccio, rapporto organico. Si configurano, l’una e l’altra, come organismi, strutture internamente disciplinate e, al tempo stesso, intimamente libere. Sta qui il fondamento obiettivo della
moderna moralità operaia. E qui sta il principio di responsabilità di un proletariato in grado di passare, come è storicamente e materialmente
possibile, dalla dimensione
della recessità
a
quella della /bertà. Aderendo all’unità della vita, l’uomo si fa libero, si trasforma in compagno. Dalla storia dei singoli 1rdividui, propria del mondo borghese, si passa alla storia del gerere, protagonista della nuova umanità. Nelle ‘scienze della vita’ risiede il paradigma della nuova società. 3. Su questi temi Gramsci insiste a più riprese, servendosi di un lessico consapevolmente — e pedagogicamente — imper-
niato su un numero limitato di parole-chiave fondamentali. Nel giugno del 1920, dopo la sconfitta della classe operaia torinese, risvolge il motivo con una più accentuata inclinazione filosofica sul piano del linguaggio, ma senza rinunciare all’asse fondamentale della sua argomentazione: al principio, cioè, della fabbrica come cellula originaria di un nuovo organismo di socialità 32 Ibid.
33 Ivi, p. 435.
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
311
e di solidarietà, destinato a raccogliere dentro di sé, progressivamente, l’intera umanità. «Nella fabbrica — osserva — la classe
operaia diventa un determinato ‘strumento di produzione’ in una determinata costituzione organica». Inizialmente, c'è un elemento di casualità in questo processo, concernente la singola, empirica, volontà dell’operaio. Ma dal punto di vista della destinazione di lavoro ogni casualità viene radicalmente meno. L’operaio è «un ingranaggio della macchina-divisione del lavoro, della classe operaia determinatasi in uno strumento di produzione» ?4. Sembra, a prima vista, un destino di alienazione. Al contrario, è proprio questa collocazione che cambia, alle radici, il suo ruolo economico e sociale, la sua funzione universale: se l'operaio acquista coscienza di questa sua «necessità determinata» e la pone a base di un apparecchio rappresentativo a tipo statale [cioè — osserva Gramsci — non volontario, contrattualista, per via di tessera, ma assoluto, organico, aderente ad una realtà che è necessario ri-
conoscere se si vuole avere assicurati il pane, il vestito, il tetto, la produzione industriale]; se l'operaio, se la classe operaia fa questo, essa fa una
cosa grandiosa, essa inizia una
storia nuova,
essa inizia l'era
degli stati operai che dovranno confluire alla formazione della società comunista, del mondo organizzato sulla base e sul tipo della grande officina meccanica, della Internazionale comunista, nella quale ogni popolo, ogni parte di umanità acquista figura‘in quanto esercita una
determinata produzione preminente e non più in quanto è organizza-
ta in forma di stato e ha determinate frontiere ”.
Costituendo i Consigli, la classe operaia si riappropria di sé, della prima, fondamentale, macchina da lavoro. E muta conse-
guentemente, alle radici, la fonte del potere economico e politico, in Italia e nel mondo. La fabbrica è la «forma in cui la classe operaia si costituisce in corpo organico determinato, come
cellula di un nuovo stato, lo stato operaio, come base di un nuovo sistema rappresentativo, il sistema dei Consigli» ?°. In una 3 A. GRAMSCI, I/ Consiglio difabbrica, in ON, p. 533. 5 Ibid. Sulla questione del contrattualismo cfr anche Il Partito e la Rivoluzione, in ON, p. 367: «[...] immaginare tutta la società umana come un colossale Partito socialista con le sue domande di ammissione e le sue dimissioni, non può
non sollecitare il pregiudizio contrattualista di molti spiriti sovversivi, educatisi più su G. G. Rousseau e sugli opuscoli anarchici, che sulle dottrine storiche ed economiche del marxismo».
36 Ivi, p. 536.
32
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
sorta di rispecchiamento di microcosmo e di macrocosmo, è da essa che prende avvio il processo di riorganizzazione e di riunificazione dell'umanità: come oggi nel Consiglio di una grande officina meccanica ogni squadra di lavorazione (di mestiere) si amalgama, dal punto di vista proletario, con le altre squadre di un reparto, ogni momento della produzione industriale si fonde, dal punto di vista proletario, con gli altri momenti e pone in rilievo il processo produttivo, così nel mondo il carbone inglese si fonde con il petrolio russo, il grano siberiano con lo zolfo di Sicilia, il riso vercellese col legrarze della Stiria [...] in un organismo unico, sottoposto a una amministrazione internazionale che
governa la ricchezza del globo in nome dell’intera umanità. In questo senso il Consiglio operaio di fabbrica è la prima cellula di un proces-
so storico che deve culminare nell’Internazionale comunista ?”
Sul piano nazionale come su quello mondiale l’organismo della vita è il modello dell’organismo della nuova società. Nell’uno e nell’altro la parte si integra, disciplinatamente, nel tutto, secondo un intrinseco principio di solidarietà. Si è già insistito più volte sulla frequenza di lemmi di matrice biologica nella pagina di Gramsci. Non sono deboli metafore. Tutt'altro, in questo caso. Incidono intrinsecamente nella visione della comunità umana da costruire, nella stessa conce-
zione della rivoluzione. Sviluppando la produzione, il proletariato sfronda «l’albero della vita dai moltissimi rami secchi» ?5 e riscopre il significato effettivo del moto rivoluzionario: «un atto organico, la espulsione di elementi estranei e tossici da un organismo in sviluppo». Questa è la sua intrinseca, originaria, ® Ibid. ?8 GRAMSCI, La settimana politica [XVIII], L'operaio in fabbrica, cit., p. 435. È un testo che conviene leggere per intero: «il proletariato aumenterà la produzione per il comunismo, per attuare la sua concezione del mondo, per rendere storia la sua ‘filosofia’, non per procurare nuovi ozi o nuovi sperperi ai detentori di carta moneta: aumenterà la produzione quando l’arma del suo potere di Stato sfronderà l'albero della vita dai moltissimi rami secchi; questa potatura di per sé stessa determinerà un aumento di produzione [...]». È sul rapporto tra contesto e il nesso storia/filosofia — destinato a essere ripreso, in modo sistematico, nei Quaderni — che occorre, ovviamente, concentrare l’attenzione, per individuare
costanti e mutamenti assai significativi. ?° A. GRAMSCI, La settimana politica [XIV], Azione positiva, in ON,p.346.
È da notare in queste pagine anche un interessante riferimento a Rathenau Ta co-
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
313
‘naturalità’. La società comunista è «una formazione ‘naturale’ aderente allo strumento di produzione e di scambio»; la rivoluzione è «l'atto di riconoscimento storico della ‘naturalezza’ di questa formazione» ‘4. Sono dunque ‘naturali’ i compiti dei comunisti, dei corzpagni. Essi risiedono nel riconoscimento della radice essenziale, vivente, dei processi. Se moderni sono quegli uomini che attingono nella «propria coscienza i principi della propria azione» ‘, la responsabilità fondamentale dei rivoluzionari sta nella loro capacità di organizzarsi, disciplinarsi, fondersi in organismi viventi via via più larghi e universali: dal reparto alla fabbrica, dalla fabbrica alla città, dalla città al mondo
intero 4. Questo è, appunto, il senso attuale della storia del mondo, di cui è protagonista principale l’Internazionale comunista, il principio che nessuna resistenza di tipo burocratico può
isterilire. E non per caso. Si sta, finalmente, compiendo il telos interno al destino del gerere in modi e tempi che sono straordinari: «esiste un’armonia prestabilita che unifica le volontà e gli atti, esiste un accordo spontaneo e miracoloso che germina dalla medesimezza delle concezioni di fine e di tattica, dall’adesione alla realtà essenziale della vita proletaria» 4. Al tempo del disordine, della decomposizione, della putrefazione sta impetuosamente succedendo il tempo della vita, della rigenerazione,
dell'ordine. Nel nuovo organismo coincidono, universalmente — oltre la fabbrica — spontanertà e disciplina, ordine e volontà. Se questo è il senso complessivo del ragionamento di Gramsci, un punto va però messo in evidenza. È sulla dimensione della disciplina, dell'ordine che si insiste soprattutto in queste munisti russi realizzano le tesi industriali di Rathenau, il Consiglio superiore di economia della Russia soviettista attua nel modo di proprietà comunista la composizione dei conflitti e delle contraddizioni suscitate nel corso precedente della storia»). 4° GRAMSCI, I/ Partito e la Rivoluzione, cit., p. 368.
* A. GRAMSCI, La settimana politica [X], I popolari, in ON, p. 274: «uomini — continua — che spezzano gli idoli, che decapitano Dio». E, visibilmente, una prima eco del verso carducciano analizzato a più riprese, e variamente, nei Quaderni: «accomunati nella stessa fé, / decapitaro, Emmanuel Kant, Iddio / Massimiliano Robespierre, il re». Cfr Quaderni del carcere, cit., pp. 1066, 1233, 14711473, 1860. 42 GRAMSCI, La settimana politica [XVIII], L'operato in fabbrica, cit., p. 433.
4 A. GRAMSCI, La settimana politica [1], L'internazionale di fatto, in ON, pool
314
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE. EGRAMSCI
pagine. Intendiamoci: il modello teorico della vita come ‘slancio’, ‘impulso’, ‘nuova creazione’ resta fondamentale dal punto di vista teorico-politico, e va adeguatamente segnalato. Era coessenziale alla determinazione dell’attualità e della possibilità concreta della rivoluzione. Altrettanto fondamentale è il significato della dialettica forma/vita, da cui discende la consistenza
del processo di costituzione di una forma nuova, capace di corrispondere ai bisogni e agli interessi dell’umanità, spezzando la «cappa di piombo» delle «forme istituzionali borghesi», prive, oramai, di «ogni sostanza storica, di ogni spirito animatore, di
ogni virtù di sviluppo» 4. Ma se la nuova forma coincide con la costituzione del nuovo Stato, è il tema dell’organizzazione, dell'ordine, della disciplina che balza in primo piano. «Lo Stato — scrive Gramsci nel maggio del ‘19, con linguaggio tipico — si disfà, corroso da questi microbi impuri che nascono dalla putredine e determinano nuova e più immonda putredine». Eppure — aggiunge — «la società non può vivere senza Stato». E lo
«Stato è la società stessa in quanto concreto atto di volontà superiore all’arbitrio individuale» 4. Nei testi giovanili è dunque il modello teorico della vita come organismo vivente che, infi-
ne, si afferma e predomina, sia sul piano concettuale che su quello linguistico. Questo è il risultato dell’analisi che siamo venuti facendo 4 4. Come si è già accennato, in queste pagine l’attenzione è
concentrata in primo luogo sugli scritti giovanili di Gramsci, nei quali il linguaggio della vita è assai diffuso, e non solo in chiave debolmente metaforica. Sono dunque esclusi dall’analisi i Quaderni del carcere. Ma, su questo sfondo, può essere opportuna qualche considerazione; anzitutto per segnare delle differenze, di ordine sia teorico che terminologico. * A. GRAMSCI, I risultati ottenuti, in ON, p. 498. Allo stesso identico modo si era già espresso nel febbraio-marzo 1920, L'unità proletaria, ivi, p. 440: «il centro di gravità di tutta la società si è spostato in un nuovo campo: le istituzioni sono rimaste mera esteriorità, pura forma, senza sostanza storica, senza spirito
animatore». > GRAMSCI, I/ bordello bolscevico, cit., p. 32.
° E tipica, ad esempio, la battuta contenuta nell’articolo dell'agosto del 1919, Operai e contadini, in ON, p. 160: «la rivoluzione comunista è essenzial-
mente un problema di organizzazione e di disciplina».
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
SH
In effetti il nesso sportanettà/disciplina al quale sopra si è riservata un'attenzione particolare è ripreso, e svolto, in molti
luoghi dei Quaderni. Ma nel quadro di radicali mutamenti di carattere politico e teorico. Scaturiscono, in modi complessi, da una pluralità di motivi: dalla crisi dell'esperienza consiliare; dall’avvento e dal consolidamento del fascismo; dalle forme assun-
te dal potere e dalla lotta politica nella Russia dei Soviet. Si connettono, inoltre, allo sviluppo dell’interpretazione del nesso tra economia e politica; alla individuazione dei caratteri dei processi di ‘standardizzazione’ delle masse, anche intellettuali; alla messa a fuoco della «tendenza al conformismo» che, nel
mondo contemporaneo — osserva Gramsci —, è «più profonda e più estesa che nel passato» 4. Questioni cruciali, andrebbero analizzate una per una, partitamente. Ma dal punto di vista prescelto in queste pagine è sufficiente sottolineare sommariamente due motivi. Nei Quaderni il vocabolario della vita non viene meno; anzi perdura. Ma si trasfigura, sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo. Dal terreno della fabbrica e dell'economia si disloca su un terreno più schiettamente politico. Correlativamente,
nel quadro di una
chiave più accentuatamente
scelta consapevole,
è utilizzato in
metaforica, con un netto sposta-
mento d’accento rispetto agli scritti dell'Ordine Nuovo». In sintesi: nei Quaderni c'è un ridimensionamento del lessico vitale. Al tempo stesso, pur ridimensionato — ed è questa la seconda osservazione —, esso continua a svolgere una notevole funzione politica e teorico-politica, anzitutto sul terreno delicatissimo e cruciale della critica della burocrazia (anche di partito), e dei processi acritici e inconsapevoli di ‘standardizzazione’ delle masse. E questo in relazione a quanto accade sia in Oriente che in Occidente. Facciamo qualche sondaggio di carattere testuale. Il partito politico moderno, scrive ad esempio Gramsci, è un «organismo collettivo» che conosce e giudica i sentimenti popolari «per ‘compartecipazione attiva e consapevole’, per ‘con-passionalità’, per esperienza dei particolari immediati,
per un sistema che si potrebbe dire di filologia vivente»* È significativa questa aggettivazione; ma non è, in Ta modo, eccezionale. Espressioni come «libro vivente», «organi4 GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., p. 862.
48 Ivi, p. 1430.
316
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE.E GRAMSCI
smo vivente», «unità vivente», nei Quaderni ricorrono a più ri-
prese. Discendono da un uso consapevole, programmatico, del vocabolario delle ‘scienze della vita’. Basta citare qualche variante delle seconde redazioni per confermare questa affermazione. La stessa espressione crisi organica, di cui sono noti il rilievo e la fortuna, suona crisi permzanente in prima redazione ‘° Ma non è difficile fare altri esempi, altrettanto sintomatici. Nel 1931-32, dopo aver sottolineato che «il moderno Principe, il mito-Principe non può essere una persona reale», ma solo un
organismo, Gramsci precisa che esso è «già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la forma moderna in cui si riassumono le volontà collettive parziali che tendono a diventare universali e totali»7°.Nel 1932-34 ribadisce il giudizio. Ma specifica che il partito politico è «la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a diventare universali e totali»?!. È un vocabolario noto («cellula», «germi»). Ma esso ora è ripensato dal punto di vista dei significati, e piegato in direzioni assai diverse da quelle messe a fuoco negli scritti giovanili. In questo caso, ad esempio, contribuisce, da un lato, ad esprimere il carattere storico-processuale della formazione del partito; dall’altro, a rivendicarne la fisionomia di strut-
tura democratica rispetto a degenerazioni di tipo burocratico, amministrativo, autoritario. C'è dunque uno spostamento importante. Ma, al di là dei casi specifici, ciò che anzitutto conta rilevare è il complessivo mutamento d’asse che si attua nei Quaderni, dal punto di vista teorico. La dimensione biologico-vitale, così presente negli scritti dell’«Ordine Nuovo», viene nettamente meno, mentre si afferma una prospettiva teorico-politica
imperniata nella concezione del marxismo come filosofia della praxis, e della praxîs come praxis vivente. Tutto ciò non è senza conseguenze sul piano del linguaggio. Tutt'altro: trasfigura, dalle fondamenta, tutto il vocabolario delle ‘scienze della vita’,
proiettandolo in direzioni decisamente metaforiche. Questa è la novità che sul piano del linguaggio apportano i Quaderni. ? Su questo concetto centrale cfr B. DE GIOVANNI, Crisi organica e stato in E
in Politica e storia in Gramsci, Atti del Cio
internazionale di studi
gramsciani (Firenze, 9-11 dicembre 1977), I, Relazioni, Roma 1977, pp. 221-258. °° GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., pp. 991-952. 2L.Ivipphlosg.
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
Sv
Della funzione delle metafore, e della loro incidenza nel linguaggio, Gramsci è, del resto, pienamente consapevole. Vi torna, anzi, a più riprese, sviluppando un discorso assai preciso: «Nessuna nuova situazione storica — osserva —, sia pur essa
dovuta al mutamento più radicale, trasforma completamente il linguaggio, almeno nel suo aspetto esterno, formale. Ma il contenuto del linguaggio dovrebbe essere mutato, anche se di tale mutazione è difficile avere coscienza esatta immediatamente» ??, E, appunto, in questo spazio che si situano funzione e significato delle metafore. In effetti, sottolinea Gramsci, «il linguaggio, intanto, è sempre metaforico. Se forse non si può dire esattamente che ogni discorso è metaforico per rispetto alla cosa od oggetto materiale e sensibile indicati [...] per non allargare troppo il concetto di metafora, si può però dire che il linguaggio attuale è metaforico per rispetto ai significati e al contenuto ideologico che le parole hanno avuto nei precedenti periodi di civiltà» ??. In altre parole: nel processo di trasformazione metaforica si afferma, e si svolge, il punto di vista della nuova ci-
viltà rispetto a quella del passato, in un intreccio che è impossibile districare. Appunto per questo non è lecito «togliere al linguaggio i suoi significati metaforici ed estensivi», a differenza di quanto pensano i pragmatisti, che discettano unilateralmente del linguaggio come causa d’errore. Significherebbe depotenziare il linguaggio. Il piano metaforico è obiettivamente ineludibile; esprime, al suo livello, il nuovo
che sale alla luce
della storia: «il linguaggio — scrive Gramsci — si trasforma col trasformarsi di tutta la civiltà, per l’affiorare di nuove classi alla coltura, per l'egemonia esercitata da una lingua nazionale sulle altre ecc., e precisamente assume metaforicamente le parole delle civiltà e culture precedenti» 74. Nella dinamica metaforica,
32 Ivi, p. 1407. 3 Ivi, p. 1427. Dal punto di vista della ricerca delle fonti di cui sopra si faceva cenno, è interessante rilevare il riferimento fatto da Gramsci subito dopo: «Un trattato di semantica, quello di Michel Bréal per esempio, può dare un catalogo storicamente e criticamente ricostruito delle mutazioni semantiche di determinati gruppi di parole». Precisamente si riferisce al lavoro di M. BRÉAL, Essai de sémantique (sciences des significations), Paris 1897 (ctr Quaderni del carcere, cit., p. 2760).
3 Ivi, p. 1428. Su questo tema, del tutto decisivo, scrive cose assai rilevanti BA-
DALONI, I/ problema dell’immanenza nella filosofia politica di Antonio Gramsci, cit.
318
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
insomma, la nuova civiltà manifesta coscienza di sé, rielaboran-
do in modo creativo il nesso tra passato e presente, tra innovazione e tradizione. Si è già notato: su questo tema Gramsci insiste più volte, riprendendo talvolta alla lettera motivi già svolti, a conferma della loro centralità: «Di solito — ribadisce, discor-
rendo di Bucharin — quando una nuova concezione del mondo succede a una precedente, il linguaggio precedente continua ad essere usato, ma appunto viene usato metaforicamente» ??, E precisa, a questa luce: «tutto il linguaggio è un continuo processo di metafore, e la storia della semantica è un aspetto della storia della cultura: il linguaggio è insieme una cosa vivente ed un museo di fossili della vita e delle civiltà passate» ?°. In conclusione: la metafora è una straordinaria energia espansiva della lingua, nel quadro di sviluppo delle civiltà. : Ma, appunto per questo, le questioni terminologiche hanno un valore tutt'altro che secondario o relativo. Naturalmente occorre anche saper distinguere tra «quistioni di terminologia» e «quistioni sostanziali»; è necessario,
cioè, non
confondere
i
piani ?”. Ma, al suo livello, il terreno terminologico è importante e va salvaguardato proprio dal punto di vista conoscitivo. Specialmente nei lavori a destinazione popolare, osserva Gramsci, «occorre definire con esattezza non solo i concetti fonda-
mentali, ma tutta la terminologia, per evitare le cause di errore occasionate dalle accezioni volgari e popolari delle parole scientifiche» 5. Ma questo è un principio che vale anche per le opere dotte: «la terminologia è convenzionale, ma ha la sua importanza nel determinare errori e deviazioni quando si dimentica che occorre sempre risalire alle fonti culturali per identificare il valore esatto dei concetti, poiché sotto lo stesso cappello possono stare teste diverse»??, Sintetizzando: l’analisi di carattere terminologico, come, a un livello più generale, l'individuazione del piano metaforico e della sua incidenza, è essenziale allo svolgi-
mento e alla diffusione di un discorso scientifico corretto. Senza analisi linguistica — nella complessità dell’accezione vista — si > Ivi, p. 1438. °6 Ibid. evi, DAIAGS,
38 Ivi, p. 1442. 2? dvi pista,
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
319
apre la strada a errori, falsificazioni, a una confusione grave sia sul terreno teorico che su quello politico. Si capisce, alla luce di questi testi, perché nei Quaderni sia possibile individuare una vera e propria teoria del linguaggio e, specificamente, dei linguaggi filosofici e scientifici. Non è questo, comunque,
che ora interessa.
Qui basta sottolineare,
in
modo sommario, la straordinaria consapevolezza linguistica e terminologica di Gramsci; e, in questo quadro, l'eccezionale valore espansivo attribuito alla metafora come strumento attraverso cui una civiltà si impadronisce del linguaggio del passato, rideterminando dal suo punto di vista l’intero campo dei significati. 5. È a questa stregua che nei Quaderni è riconsiderato il vocabolario delle ‘scienze della vita’, sistematicamente sottoposto a una trasformazione di tipo metaforico, in una sorta di ripen-
samento critico anche di carattere autobiografico. Sembra quasi che Gramsci, pagina dopo pagina, faccia i conti con se stesso, reinterpretando metaforicamente il suo stesso linguaggio giovanile. E rivelatrice, ad esempio, la precisione con cui volta per volta vengono specificati termini come, appunto, vita oppure organismo, a scanso, evidentemente, di equivoei o di ambiguità. Se
discorre di un «nuovo organismo storico», chiarisce subito che parla di un determinato «tipo di società» («Ogni nuovo organismo storico [tipo di società] crea una nuova superstruttura») 0 se discorre di «organismi collettivi» delimita il discorso ai od titi» («un altro elemento che nell’arte politica porta allo sconvolgimento dei vecchi schemi naturalistici è il sostituirsi, nella funzione direttiva, di organismi collettivi [i partiti] [...]») %; se discorre, infine, di «vita più intima» determina la valenza «eco-
nomico-produttiva» del termine usato («Con l’estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima [economico- produttiva] della massa stessa [...]») £. È un processo di correzione costante, sistematico, facilmente verifi. cabile confrontando le varie redazioni. Questo in linea generale. Ma dal nostro punto di vista è particolarmente interessante Sp
4078
61 Ivi, p. 1430. © Ibid.
320
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE.E GRAMSCI
constatare che siffatta trasformazione metaforica affiora in modo assai intenso proprio nella reinterpretazione del nesso disciplina/spontaneità, e nella concezione del partito e del suo funzionamento interno. È un punto sul quale merita fermarsi, determinando, in primo luogo, l'elemento teorico complessivo
dal quale prendere le mosse. Nel 1919-20, si è visto, la disciplina è situata nel quadro del modello teorico offerto dalle ‘scienze della vita’; nei Quaderni la situazione cambia in modo radicale. Essa viene radicata in una visione delle basi scientifiche della morale del materialismo storico e, in generale, del proces-
so di formazione del movimento storico imperniata, a sua volta, nelle due «proposizioni» della prefazione della Critica dell’economia politica: 1. L'umanità si pone sempre solo quei compiti che essa può risolvere; [...] il compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali
della sua risoluzione esistono già o almeno sono nel processo del loro divenire; 2. Una formazione sociale non perisce prima che non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi, più alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto; prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della vecchia società [...] ®
È solo su questo sfondo, osserva Gramsci, che può essere posto il problema della formazione dei «gruppi politici attivi», e della stessa funzione delle «grandi personalità nella storia». Ed è solo muovendo di qui che si può intendere quando, effettivamente, si diano le condizioni materiali in cui «la soluzione dei
compiti diviene ‘dovere’, la volontà diviene libera» 4. È nell’analisi dei rapporti materiali che deve dunque essere imperniata l'individuazione della fase di ‘catarsi’, del momento, cioè,
in cui si attua il passaggio dallo stadio economico allo stadio etico-politico, dalla fase della oggettività a quella della soggettività, da quella della necessità a quella della libertà ®. Questo, sommariamente, è il quadro teorico in cui si risitua nei Quaderni il nesso disciplina/spontanettà. 9 Ivi, p. 1422. Le due «proposizioni» sono citate da Gramsci in vari luoghi, a conferma della loro centralità. A Ivi, p. 850:
5 Ivi, p. 1244,
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
321
Ma di per sé esso non risolve il problema. Anzi lo complica, portando decisamente in primo piano il problema della responsabilità, individuale e collettiva. Se mal fondata la disci-
plina può decadere, burocratizzarsi, trasformarsi in nodo di contraddizioni, con effetti traumatici sia sul piano politico che su quello, specifico, della vita e del funzionamento interno del partito. Problema cruciale, è al centro di tutta la riflessione dei Quaderni. Non possiamo dunque seguirne tutti i passaggi. Ma a noi qui basta sottolineare un punto: è in relazione ad esso che riaffiora il vocabolario delle ‘scienze della vita’, rielaborato in
chiave metaforica alla luce della nuova prospettiva messa a fuoco nei Quaderni. Sintomaticamente, già nel 1930-32 Gramsci riformula nei termini di disciplina/libertà il nesso disciplina/spontanettà, allargando, al tempo stesso, l’analisi al concetto fondamentale di ‘responsabilità’. Osserva: «al concetto di libertà si dovrebbe accompagnare quello di responsabilità che genera la disciplina e non immediatamente la disciplina, che in questo caso si intende imposta dal di fuori, come limitazione coatta della libertà». E aggiunge: «Responsabilità contro arbitrio individuale: è sola libertà quella ‘responsabile’ cioè ‘universale’ in quanto si pone come aspetto individuale di una ‘libertà’ collettiva o di gruppo, come espressione individuale di una legge» °°. Ovviamente, non è casuale questo spostamento. Ciò che a Gramsci interessa, pagina dopo pagina, è respingere con drasti-
cità ogni interpretazione della disciplina «come passivo e supino accoglimento di ordini», come «meccanica esecuzione di una
consegna». E compito della disciplina limitare l’arbitrio e l’impulsività irresponsabile; non annullare la «personalità in senso organico» ‘. In sé la disciplina non può dunque essere assunta come un valore, un principio indiscutibile. Ciò che decide del suo configurarsi come valore o disvalore è l’«origine del potere che ordina la disciplina». Se questa è democratica, la disciplina «è un elemento necessario di ordine democratico, di libertà» ®.
Il problema del rapporto tra disciplina, libertà, responsabilità, sembra dunque avviato a soluzione. Eppure, a ben vedere, questo è vero solo in prima istanza. L'origine democratica della ‘vip
692:
“E Ivigp.. 1706. “avi pi 707.
322
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
disciplina non garantisce di per sé, permanentemente, il suo essere «ordine», «libertà». Può aprirsi una scissione tra governanti e governati, tra principio ed esecuzione. Nel partito politico moderno - nel quale, si è visto, pur si riassumono germi di volontà collettiva tendenti a diventare universali, totali — la disci-
plina può scadere in mera obbedienza, in meccanismo burocratico. E l'autorità può trasformarsi in «cadornismo» — cioè nella «persuasione che una cosa sarà fatta perché il dirigente ritiene giusto e razionale che sia fatta: se non viene fatta, ‘la colpa’ viene riversata su chi ‘avrebbe dovuto’ ecc.» 99. Giustamente è stato sottolineato di recente come qui quella di Gramsci sia anche «una polemica interna di partito» 7°. Di questo, infatti, si tratta. Ed è qui che si situa, nei Quaderni, anche la discussione intorno al centralismo: L'‘organicità’ — ribadisce Gramsci, con termine tipico, nel ’32-34 — non può essere che del centralismo democratico il quale è un ‘centralismo’ in movimento, per così dire, cioè una continua adeguazione
dell’organizzazione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando dall’alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella cornice solida dell’apparato di direzione che assicura la continuità e l’accumularsi regolare dell’esperienze; esso è ‘organico’ perché tiene conto del movimento, che è il modo organico di rivelarsi della realtà storica e non si irrigidisce meccanicamente nella burocrazia [...] ”?.
Si potrebbe continuare a citare; ma non è il caso. Siamo arrivati al punto che ci eravamo proposto di chiarire. Il nesso tra polemica antiburocratica e vocabolario delle ‘scienze della vita’ appare con nettezza in questi testi capitali. Sprofondano qui,
visibilmente, le radici dei lemmi usati per delineare quel «centralismo» in cui si annodano, positivamente, spontaneità e disci-
plina, colte l’una e l’altra nel movimento organico di manifestazione della vita e della storia. Rielaborato in chiave metaforica,
il linguaggio del ‘vivente’ continua a sprigionare energia nei Quaderni, incidendo direttamente nella concezione della disci-
59 Ivi, p. 1753. °° Cfr a questo proposito le precise osservazioni di V. GERRATANA, Cadornismo, in AA.VV., Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Roma 1987, pp. 73-74.
?"! GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., pp. 1634-1635.
GRAMSCI E IL LINGUAGGIO DELLA ‘VITA’
323
plina, spostando l’analisi al di là del problema dell’‘origine’. Qualunque ne sia la matrice, se staccata dal ‘profondo’ della vita delle masse, la disciplina diventa meccanismo burocratico,
si trasforma in ‘principio di morte’. Qui — nel distacco dalla vita — inizia, infatti, il processo di dissoluzione del partito moderno. Quando la burocrazia — che è «la forza consuetudinaria e con-
servatrice più pericolosa» — costituisce un «corpo solidale, che sta a sé e si sente indipendente dalla massa», allora «il partito finisce col diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene svuotato del suo contenuto sociale e rimane come campa-
to in aria» ‘?. L'‘autonomizzazione’ burocratica coincide con la fine del partito moderno. Di là dalla sua ‘origine’, la disciplina è positiva solo se si configura come modalità vivente di un organismo vivente. Non stupisce a questa luce che il vocabolario delle ‘scienze della vita’ riaffiori, direttamente, nella interpretazione gram-
sciana del partito. È anzi una conferma della tesi che si sta cercando qui di sviluppare. Nei Quaderni tra analisi dell'organismo collettivo e linguaggio del ‘vivente’ si stringe un nesso esplicito, nel quadro di una polemica serrata contro la riduzione della filosofia della praxis a una ‘sociologia’ marxista. Nel suo ragionamento Gramsci muove dalla consideraziane che, in politica, i vecchi schemi naturalistici sono stati sconvolti dalla sostituzione, nelle funzioni direttive, degli organismi collettivi ai tradi-
zionali capi carismatici. L'estensione dei partiti di massa e la
loro capacità di adesione organica alla «vita più intima» delle masse, ha avuto — osserva — effetti straordinari sul processo di «standardizzazione dei sentimenti», che da «meccanico» e «ca-
suale» è diventato «consapevole» e «critico». Ne è derivata una vera e propria rivoluzione, che incide in modo diretto nella politica, modificandone radicalmente caratteri e modalità: La conoscenza e il giudizio di importanza di tali sentimenti — osserva Gramsci — non avviene più da parte dei capi per intuizione sorretta dalla identificazione di leggi statistiche, cioè per via razionale e intellettuale, troppo spesso fallace — che il capo traduce in idee-forza, in parole-forza —, ma avviene da parte dell’organismo collettivo per ‘compartecipazione attiva e consapevole’, per ‘con-passionalità’, per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe ?2 Ivi, p. 1604.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
dire di filologia vivente. Così si forma un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo dirigente e tutto il complesso, ben articolato, si può muovere come un ‘uomo collettivo’ ’?.
È un testo che si è già citato, analizzando la trasformazione metaforica cui Gramsci sottopone il suo linguaggio giovanile, in una sorta — si è detto — di resa di conti anche autobiografica. Un elemento di carattere generale risulta dunque chiaro dall’esperimento tentato in queste pagine: il vocabolario delle ‘scienze della vita’, in modi e forme diverse, è una struttura permanente della posizione di Gramsci — si tratti della vita come ‘slancio vitale’ o come ‘organismo’, oppure della vita metaforicamente intesa come pietra di paragone di un effettivo concetto di disciplina e di una corretta concezione della vita interna di partito. Non è poca cosa, a mio giudizio, questo nesso strutturale, va-
riamente elaborato, tra linguaggio del ‘vivente’ e visione della politica (e della storia). Si radicano appunto qui — si è visto sopra — le decisive critiche di Gramsci alla burocrazia e, sviluppando questo tipo di ragionamento, anche al ‘funzionalismo’ ‘4. Ma, in conclusione, si può abbozzare una considerazione di or-
dine più generale. Qui sta un’originalità specifica del pensiero gramsciano nell’ambito della tradizione marxista, anche italiana,
che è necessario, ormai, riafferrare fino in fondo — sia sul piano teorico che su quello storiografico.
3 Ivi, p. 1430. ?# Per un’analisi della critica di Gramsci al «funzionalismo meccanicistico» di Bucharin, cfr BADALONI, I/ problema dell'immanenza nella filosofia politica di Antonio Gramsci, cit., pp. 17 sgg.
V COSMOPOLITISMO E STATO NAZIONALE NEPFOUADERNPDEFCARCERE
Alla base dell'indagine che Gramsci svolge sulla genesi e sui caratteri della ‘nazione italiana’ ci sono tre criteri analitici fondamentali, che si possono, in modo sommario, enunciare così:
a) il rapporto intrinseco tra nazionalità e territorialità («non si può parlare di nazionale senza territoriale») !; 4) il nesso organico tra nazione e popolo («in molte lingue, ‘nazionale’ e ‘popolare’ sono sinonimi o quasi») ?; c) l’ineludibile connessione tra dimensione nazionale e internazionale nella vita degli Stati («l’azione politica concreta, l’attività sola produttiva di progresso storico» consiste in un «lavorio continuo per sceve-
rare l'elemento ‘internazionale’ e ‘unitario* nella realtà nazionale e localistica»)?. Sull’importanza del nesso fra nazionalità e territorialità non è, credo, il caso d’insistere. Si tratta di un principio fondamentale dello Stato moderno: «prima premessa per lo sviluppo di una nazione è che essa abbia un saldo fondamento territoriale,
una ‘patria’. Ci sono anche popoli nomadi, territorialmente dispersi, ma l’esperienza insegna che hanno saputo conquistarsi e conservarsi maggiore consistenza e più ricco contenuto soltan-
to quelli che hanno avuto per lungo tempo una sede». Così, sintomaticamente, scrive Friedrich Meinecke nelle prime pagine di Cosmopolitismo e stato nazionale, un testo che affronta con ori! GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., p. 1936.
“Ivi, pz i10. } E ancora: «La personalità nazionale (come la personalità individuale) è una mera astrazione se considerata fuori dal nesso internazionale (o sociale). La personalità nazionale esprime un ‘distinto’ del complesso internazionale, pertanto è legata ai rapporti internazionali» (ivi, p. 1962).
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
ginalità e impegno un tema che, in modi propri, è al centro anche dei Quaderni*. Conta invece rilevare che è questa prospettiva che consente a Gramsci di confrontarsi con tutta la storia che si è svolta nella penisola, gettando sonde profondissime in zone assai distanti — e, a prima vista, insospettabili —: proiettandosi, ad. esempio, addirittura nei punti più vivi e cruciali della storia romana, con osservazioni di grande rilievo dal punto di vista storico-morfologico. In questo senso, Gramsci marca, dunque, una netta differenza rispetto a Benedetto Croce, secondo il quale di una nazione è possibile scrivere la storia solo quando essa si è costituita in forma di Stato: della quale impostazione è esempio tipico — e notissimo — la Storia d’Italia dal 1871 al 1914. Pur condividendo le polemiche crociane (e prima, in altra forma, di Labriola) contro le concezioni della storia
come ‘biografia nazionale’, imperniate sul presupposto «che ciò che si desidera sia sempre esistito» — che in altre parole «la nazione italiana sia sempre esistita da Roma antica ad oggi»? —, Gramsci svolge la sua analisi alla luce di una concezione della ‘nazione’ più larga e più complessa, ponendosi, con piena consapevolezza, di là dalla dimensione ‘statale’ strettamente intesa.
E da questa prospettiva, in effetti, che discende il suo forte interesse per la storia romana, che è parte organica dell’analisi che egli svolge della genesi e dei caratteri della nazione italiana, considerati, l'una e gli altri, in primo luogo alla luce del complesso sviluppo — nella nostra storia — del rapporto tra ‘nazionale’ e ‘internazionale’. Insisto su questo, a scanso d’equivoci
che hanno pur caratterizzato una lunga stagione della critica gramsciana: su questo sfondo di problemi, non è la crisi della 4 F. MEINECKE, Cosmzopolitismo e stato nazionale, traduzione di A. Oberdorfer, Perugia-Venezia 1930, pp. 2-3. ? Quaderni del carcere, cit., p. 2109. Gramsci polemizza con forza con «il pregiudizio retorico (d’origine letteraria) che la nazione italiana sia sempre esistita da Roma antica ad oggi» e contro «altri idoli e borie intellettuali che se furono ‘utili’ politicamente nel periodo della lotta nazionale, come motivo per entusiasmare e concentrare le forze, sono inette criticamente e, in ultima istanza, diventano un elemento di debolezza, perché non permettono di apprezzare giustamente lo sforzo compiuto dalle generazioni che realmente lottarono per costituire l’Italia moderna e perché inducono a una sorta di fatalismo e di aspettazione passiva di un avvenire che sarebbe predeterminato completamente dal passato». A proposito di Labriola cfr ivi, p. 1983 (dove si evoca anche il nome di Salvemini).
COSMOPOLITISMO E STATO NAZIONALE NEI QUADERNI DEL CARCERE
327
Repubblica romana e l'instaurazione del ‘Principato’ in quanto tale il problema storico e storiografico su cui Gramsci intende concentrarsi; gli interessa, piuttosto, individuare — in chiave sto-
rico-morfologica — quale sia stato, sul lunghissimo periodo, l’effetto delle scelte politiche operate da Cesare, oltre che dal punto di vista ‘universale’, anzitutto sul terreno specifico della storia italiana: l’uno e l’altra strettamente congiunti alla luce di una consapevolissima scelta di metodo sia politica sia storiografica. Cesare, dunque; e con lui Catilina, Cicerone e Augusto, cioè alcuni dei maggiori protagonisti della crisi della Repubblica romana, e tutti nel quadro di un’analisi che guarda, essenzialmente, alle strutture costitutive della nostra storia, prima e
dopo la costituzione dello Stato nazionale, cercando di mettere a fuoco i problemi di fondo con cui occorre, ancora oggi, con-
frontarsi. Sta qui l’originalità dell'approccio di Gramsci sia alla storia romana sia a quella italiana in senso proprio: un approccio di carattere squisitamente politico, che in questa luce va
quindi, in primo luogo, considerato. In altre parole: quelli in cui ci si imbatte, nella lettura dei Quaderni, sono grandi ‘miti’ simbolici — declinati sul piano storiografico — piuttosto che specifiche analisi storiche; né questo, occorre ribadire, riguarda soltanto la storia dell'antica Roma e il giudizio sulla funzione storico-mondiale di Giulio Cesare; concetne — e Gramsci è il primo ad esserne del tutto cosciente — l’intera orditura dei Quaderni (come risulta, con chiarezza, dai suoi vari ‘appunti di lavoro’). E sul piano filosofico-storico — non su quello della consistenza storiografica — che vanno dunque valutati — e apprezzati — i giudizi di Gramsci, come si vede assai bene proprio dalle sue riflessioni sulla fine della Repubblica romana. Nell’analisi dei Quaderni — ed è questo il punto centrale da sottolineare — la funzione storica di Giulio Cesare fa addirittura da contrappunto alla riflessione di Niccolò Machiavelli: con la sua politica Cesare ha rappresentato, nella storia italiana, il rovescio preciso della prospettiva delineata in quel grande ‘manifesto’ rivoluzionario che è il Principe del Segretario fiorentino. Attraverso le figure di Cesare e di Machiavelli Gramsci svela
dunque - rappresentandola in chiave simbolica — la tensione fra cosmopolitismo e Stato nazionale che per lui — in modi aperti, tuttora irrisolti — attraversa dalle origini fino al Novecento tutta la storia della penisola italiana. E da questo problema in ogni
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
senso fondamentale — intorno al quale si affannano alcuni dei maggiori esponenti della cultura filosofica e politica dei primi decenni
del Novecento
(il libro di Meinecke
prima citato è
tradotto in Italia nel 1930) — che nei Quaderni scaturiscono le pagine sul ‘creatore’ dell'Impero da un lato, sul Segretario fiorentino dall’altro: pagine che vanno, di conseguenza, analizzate in parallelo, per afferrare il nodo di questioni al quale insieme, unitariamente alludono (anche se la figura del Segretario — è appena il caso di ricordarlo — si estende ad una pluralità di temi,
che travalica il punto specifico ora in discussione). Ma questo è solo il primo grado dell’analisi di Gramsci: nella quale agisce anche un altro elemento — di prospettiva, questa volta — cui, pure, conviene far subito cenno. Machiavelli e
Cesare sono state figure antagonistiche di una tragica storia, distinta da eccezionali contributi alla civiltà universale, ma anche
da grandi fallimenti e sconfitte. Quello che è avvenuto nel passato, non è però detto che debba ripetersi nell’avvenire. Anzi. E questo per un motivo preciso: per il mutamento
che sta inve-
stendo in modi drammatici, nel Novecento, proprio il rapporto tra ‘nazionale’ e ‘internazionale’, tra Stato nazionale e cosmo-
politismo, ponendo in modi nuovi il significato — e il ruolo — di entrambi: «la prospettiva è internazionale e non può essere che tale» — scrive Gramsci nel Quaderzo 14. E così continua: Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve ‘nazionalizzarsi’, in un certo senso, e questo senso non è d’altronde molto
stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazione) possono essere varie °.
Si tratta insomma di un processo assai lungo, che concerne la storia del mondo, la storia universale, oltre che le singole sto-
rie nazionali. Ma esso, precisa Gramsci, tocca in modo particolare, in primo luogo, l’Italia e la storia italiana, e proprio per la ‘vocazione’ strutturalmente cosmopolitica da cui essa originariamente, e in modi contraddittori, è stata sempre contrasseiTv 66711729;
COSMOPOLITISMO E STATO NAZIONALE NEI QUADERNI DEL CARCERE
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gnata e distinta. Nella ‘nuova’ storia aperta dalla classe operaia — e dalla filosofia della praxîs — Cesare e Machiavelli sono, infine, lati di una contraddizione destinata a svolgersi in modi
nuovi rispetto al passato; per certi aspetti sono figure destinate ad incontrarsi, oltre la ‘scissione’, in un nuovo e più alto ‘punto dell’unione’ capace di dischiudere tutte le energie che l’Italia ha accumulato nella sua lunga vita senza saperle sviluppare: rovesciando, dunque, in chiave positiva quello che è stato un limite di fondo di tutta la sua storia. Questo è il succo dell’analisi di Gramsci, e questo è il me-
todo — di carattere morfologico e simbolico — che egli usa: da Cesare a Machiavelli fino al Novecento, dalla storia italiana alla storia mondiale, secondo uno stile di pensiero — e d’analisi —
estremamente
compatto.
È sul terreno filosofico-storico
del
rapporto fra storia nazionale e storia universale che occorre, in
conclusione, procedere analizzando i Quaderni: senza togliere alcunché, s'intende, agli impulsi di carattere strettamente sto-
riografico che scaturiscono dalle sue note; ma tenendo ben fermo che altrove si situa il centro archimedeo di tutta la sua riflessione. Ma vediamo più da vicino i testi dei Quaderni: «non si può parlare di nazionale senza il territoriale», scrive Gramsci discorrendo della storia romana nel periodo” che va dalla guerre puniche alla affermazione della politica di Cesare: «in nessuno di questi periodi — egli precisa — l’elemento territoriale ha importanza che non sia meramente giuridico-militare, cioè ‘statale’ in senso governativo, senza contenuto etico-passionale» (si noti peraltro il lessico, assai caratteristico) . E un punto che Gramsci affronta da vari punti di vista, ponendo comunque, in modo prioritario, la questione del ‘nazionale’, da un lato; del rapporto — nella storia romana prima, italiana poi — tra ‘nazionale’ e ‘internazionale’, dall’altro: alla luce in entrambi i casi di
un'analisi — si è già osservato — che intende mettere a fuoco, in modo sistematico, i caratteri di fondo — di lungo, lunghissimo periodo — della moderna storia italiana. Delineando all’inizio del 1934 l'opportunità di una doppia serie di ricerche (la prima sull’età del Risorgimento, la seconda sulla precedente storia che ha avuto luogo nella penisola italiana), ed estendendo enormeTTviy p, 1936;
330
PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
mente il campo d’indagine, Gramsci sottolinea, appunto, la necessità di concentrarsi sul «periodo di storia romana che segna il passaggio dalla Repubblica all’Impero, in quanto crea la cornice generale di alcune tendenze ideologiche della futura nazione italiana. Non pare sia compreso — egli continua — che proprio Cesare ed Augusto in realtà modificano radicalmente la posizione relativa di Roma e della penisola nell’equilibrio del mondo classico, togliendo all’Italia l'egemonia ‘territoriale’ e trasferendo la funzione egemonica a una classe ‘imperiale’ cioè supernazionale». E così prosegue: Se è vero che Cesare continua e conclude il movimento democratico dei Gracchi, di Mario, di Catilina, è anche vero che Cesare
vince in quanto il problema, che per i Gracchi, per Mario, per Catilina si poneva come problema da risolversi nella penisola, a Roma, per Cesare si pone nella cornice di tutto l'impero, di cui la penisola è una parte e Roma la capitale ‘burocratica’; e ciò anche solo fino a un certo punto. Questo nesso storico è della massima importanza per la storia della penisola e di Roma, poiché è l’inizio del processo di ‘snazionalizzazione” di Roma e della penisola e del suo diventare un ‘terreno cosmopolitico’. L’aristocrazia romana, che aveva, nei modi e con i mezzi adeguati ai tempi, unificato la penisola e creato una base di sviluppo nazionale, è soverchiata dalle forze imperiali e dai problemi che essa ha suscitato: il nodo storico-politico viene sciolto da Cesare con la spada e si inizia un’epoca nuova, in cui l'Oriente ha un peso talmente grande che finisce per soverchiare l'Occidente e portare a una frattura tra le due parti dell'Impero.
Per Gramsci non ci sono, dunque, dubbi: «bisogna risalire fino all'Impero romano» (oltre che alla «funzione dei comuni medioevali» e al «significato del cattolicismo»), per riuscire a comprendere perché «in Italia non si ebbe la monarchia assoluta al tempo di Machiavelli» ?; perché, cioè, in Italia non si sia costituito
lo Stato
‘moderno’,
aprendo
una
crisi destinata
a
tenere il paese fuori dei grandi flussi della storia europea e mondiale. Occorre, in conclusione, risalire alla svolta radicale operata da Cesare — radicale, in senso letterale, giacché ha spostato
in modi per certi aspetti irrevocabili l’asse fondamentale della storia italiana, disponendo, al contempo, su nuovi cardini l’in-
8 Ivi, pp. 1959-1960. ? Ivi, p. 1559.
COSMOPOLITISMO
E STATO NAZIONALE NEI QUADERNI DEL CARCERE
poi
tera storia universale. È un’affermazione del Quaderno 19; ma — a conferma della centralità e della ‘sistematicità’ di questa riflessione — già nel Quaderno 17 si era soffermato su quello che per lui è uno snodo capitale della storia del mondo sottolineando anche l’opportunità di un confronto fra Cesare e Catilina,
presentato, quest’ultimo, in modi peraltro parzialmente diversi da quelli visti nel testo sopra citato (nel quale era collocato sulla stessa linea della politica di Cesare). Catilina era più ‘italiano’ di Cesare e la sua rivoluzione forse avrebbe, con un’altra classe al potere, conservato all’Italia la
funzione egemonica del periodo repubblicano. Con Cesare la rivoluzione non è più soluzione di una lotta tra classi italiche, ma di tutto l'Impero, o almeno di classi con funzioni principal mente imperiali (militari, burocrati, banchieri, appaltatori...). Inoltre Cesare, con la conquista della Gallia, aveva squilibrato
il quadro dell'Impero: l'Occidente cominciò con Cesare a lottare'conl'OrienteO, È anche, quest’ultima, un’osservazione di notevole rilievo
sulla quale Gramsci insiste anche nelle pagine centrali dello stesso Quaderno, distinguendo con nettezza fra fenomeno nazionale e «romanesimo», precisando anzi — ed è una notazione che tornerà nella sua riflessione sull’Umanesimo italiano — che «in realtà c’era più ‘nazionalità’ nel mondo greco che in quello romano-italico», e che la letteratura latina era fiorita «dopo Cesare, con l'Impero, cioè proprio quando la funzione dell’Italia diventa cosmopolita, quando non più si pone il problema del
rapporto fra Roma e l’Italia, ma tra Roma-Italia e l’Impero» !!. Sono osservazioni analizzabili da una pluralità di punti di vista: si potrebbe, ad esempio, cercare anche di individuare, sul
piano storiografico, quali siano le fonti classiche e quelle più recenti delle tesi di Gramsci. E considerando la sua attenzione per la storia romana
(generalmente trascurata, in verità), si potreb-
be anche avviare una riflessione di tipo nuovo sul carattere profondamente machiavelliano — in senso proprio, non generico — del metodo gramsciano nei Quaderni, imperniato — secon-
do una tecnica che ricorda da vicino proprio i Discorsi — su una
!0 Ivi, p. 1924. Ul Ivi, p. 1935.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
comparazione sistematica fra storia antica e storia moderna .
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.
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6
.
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12
*.
Non è questa, comunque, la sede per un’analisi di questo tipo. Interessa, invece, sottolineare tre punti essenziali dell’analisi
gramsciana or ora vista: in primo luogo, a livello di storia romana, non sono mai esistiti una nazione italiana o un ‘contenu-
to etico-passionale’ di carattere nazionale; c’è stato solamente un territorio che non è riuscito mai a ‘nazionalizzarsi’. Insomma — ed è questo il secondo punto dell’analisi — per scelte politico-culturali assai precise, nella storia romana si riscontra cosmopolitismo, non Stato nazionale. Infine, tutto questo processo
12 Sull’incidenza del modello stilistico e concettuale machiavelliano, come anche sulla profonda influenza dei Ricordi di Guicciardini — che sono essenziali
nell’orditura dei Quaderni — non si è mai insistito a sufficienza, trascurando quelli che sono veri e propri ‘archetipi’ della riflessione in carcere di Gramsci. «Estrarre da questa rubrica una serie di note che siano del tipo Ricordi politici e civili del Guicciardini (tutte le proporzioni rispettate) — scrive ad esempio nel Quaderno 15 —. I Ricordi sono tali in quanto — osserva — riassumono non tanto avvenimenti in senso stretto (sebbene anche questi non manchino), quanto esperienze civili e morali (morali più nel senso etico-politico) strettamente connesse alla propria vita e ai suoi avvenimenti, considerate nel loro valore universale o nazionale» (Quaderni del carcere, cit., p. 1776). Ma ai Ricordi, Gramsci nei Quader-
ni si riferisce a più riprese: li cita ad esempio nel Quaderno 14 come modello per una raccolta di «molti spunti raccolti» in Passato e presente: «L'importante — scrive — è di dar loro la stessa essenzialità e pedagogica universalità e chiarezza, ciò che a dire il vero non è poco, anzi è il tutto, sia stilisticamente sia teoricamente,
cioè come ricerca di verità» (ivi, p. 1745). In Gramsci, l'interesse per i Ricordi s'intreccia, in modo organico, alla sua costante attenzione per la dimensione autobiografica, come appare in modo lampante dalla nota sulla Giustificazione dell'autobiografia che si legge nel Quaderno 14 (cfr ivi, pp. 1718, 1723), oltre che dalle Note autobiografiche del Quaderno 15, nelle quali è trasparente il riferimento alla sua vicenda umana e politica. Del resto, ben più di quanto si continui in genere a pensare la dimensione autobiografica costituisce un Leitmzotiv di tutti i Quaderni. Tanto più occorre dunque prendere sul serio i riferimenti che Gramsci fa al modello guicciardiniano dei Ricordi politici e civili, ponendo anche una ferma distinzione fra il tipo del «moralista francese» e il tipo del «moralista italiano»: «l'italiano — scrive Gramsci — studia come ‘dominare’, come essere più forte, più abile, più furbo, il francese come ‘dirigere’ e quindi come ‘comprendere’ per influenzare e ottenere un ‘consenso spontaneo e attivo’. I Ricordi politici e civili di Guicciardini - conclude — sono di questo tipo» (ivi, p. 1772). Si è accennato in modo un po’ esteso a questi temi — e al rapporto fra Ricordi e Quaderni — sia per mostrare l'ampiezza delle fonti di Gramsci (che ancora aspettano di essere individuate in tutta la loro complessità), sia per verificare l’incidenza dei modelli rinascimentali sullo stile e sul pensiero dei Quaderni (ai quali, almeno in parte, va fatto anche risalire l’interesse per la storia romana sottolineato in queste pagine).
COSMOPOLITISMO
E STATO NAZIONALE NEI QUADERNI DEL CARCERE
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si è, a sua volta, connesso a uno spostamento dell’asse dell’Impero dall’Occidente ad Oriente, con una ulteriore perdita di peso politico-sociale della penisola italiana nell’ambito della struttura imperiale !. Ho sottolineato in modo particolare questi punti perché — come ho già accennato — è solamente muovendo di qui che si possono effettivamente comprendere l’analisi, e le valutazioni, di Gramsci sui caratteri morfologici e sui
limiti del processo di ‘nazionalizzazione’ nel nostro paese — dal giudizio sulla «funzione internazionale dell’Italia come sede della Chiesa» !4 (la quale ha ripreso, e utilizzato, a propri fini la tradizione dell’antico cosmopolitismo, contribuendo potentemente alla ‘snazionalizzazione’ della penisola); al ruolo dei Comuni medievali, che non sono riusciti a oltrepassare un oriz-
zonte di carattere economico-corporativo, fallendo «la fase più alta di maturazione» del processo di costruzione dei moderni Stati nazionali, compiutosi, invece, in Spagna, in Francia, in Inghilterra; fino al giudizio sull’Umanesimo e sul Rinascimento,
del tutto incomprensibile al di fuori di questo orizzonte di riferimento. E qui vale la pena di fare qualche precisazione ulteriore. Per Gramsci, che nella sua analisi si rifà da un lato a moti-
vi propri di Labriola, dall’altro a posizioni tipiche di De Sanctis (e anche di Toffanin), il Rinascimente
italiano inizia ben
prima del Quattrocento. Anzi, quello che egli definisce il «Rinascimento spontaneo italiano» inizia «dopo il Mille e fiorisce artisticamente in Toscana», con modalità che possono essere pa-
ragonate — egli osserva — «alla fioritura della letteratura greca». Né questo riferimento, in effetti, sorprende se si tiene conto
della tesi di Gramsci secondo cui c’è stata «più ‘nazionalità’ nel mondo greco che in quello romano-italico» !. E con questo «Rinascimento spontaneo» — opposto al «politicismo» del QuattroCinquecento, strutturalmente omogeneo «romanesimo» — che, infatti, si avvia il processo di ‘nazionalizzazione’ della penisola italiana. Come è, esemplarmente, dimostrato, da un lato dal fio-
rire del volgare in letteratura; dall’altro, dallo svilupparsi, sul tronco del «Rinascimento spontaneo», di un «Umanesimo etico© IVIPo1930. silvi» pel 553;
15 Ivi, pp. 1936 e 1935.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
politico» che si sforza di individuare le «basi di uno ‘Stato ita-
liano’» e del quale fu «esponente più espressivo il Machiavelli». Un Umanesimo che, per Gramsci, si contrappone frontalmente al cosmopolitismo, e che perciò fu «ciceroniano»: «cioè ricercò le sue basi nel periodo che precedette l’Impero, la cosmopolis imperiale (e in tal senso — egli osserva — Cicerone può essere un buon punto di riferimento per il suo opporsi a Catilina prima, a Cesare poi, cioè all'emergere delle nuove forze antitaliche, di
classe cosmopolita)» !9. Opposizione al per lo Stato nazionale: furono, appunto, del «Rinascimento spontaneo italiano», politico-etico». Ma furono entrambi dall’«Umanesimo
cosmopolitismo, lotta questi gli obiettivi sia sia dell’«Umanesimo sconfitti e soffocati
e dal Rinascimento in senso culturale, dalla
rinascita del latino come lingua degli intellettuali, contro il volgare», dal «politicismo» affine al «romanesimo» che si impone fra le classi dirigenti italiane, dall’affermarsi e dal consolidarsi della Chiesa romana: in una parola, furono soffocati da forme antiche e nuove di cosmopolitismo che imbrigliano, e distruggono, gli sforzi, pur fatti, per costruire uno in Italia.
Stato nazionale
Si tratta di formule assai discutibili, dal punto di vista storiografico. Ma in questo caso ciò che conta, soprattutto, è individuare cosa si cela in espressioni come queste, in cui, peraltro, si manifesta un’opinione di carattere teorico assai precisa («Ri-
nascimento spontaneo», «Umanesimo politico-etico», «Rinascimento culturale»): conta cioè rilevare l’incidenza del nesso
cosmopolitismo-Stato nazionale nella veduta complessiva della storia italiana (nell’ambito sia della Chiesa sia dello Stato) che Gramsci elabora, interpretando in questa luce i maggiori protagonisti della vita italiana ed europea. Da Machiavelli, che si è sforzato di «educare il popolo», insegnando «la ‘coerenza’ nell’arte di governo e la coerenza impiegata a un certo fine: la creazione di uno Stato unitario italiano» !”; a Girolamo Savonarola
16 Ibid.
!7 Ivi, p. 1600. «Si può quindi supporre che il Machiavelli abbia in vista ‘chi non sa’, che egli intenda fare l’educazione politica di ‘chi non sa’, educazione politica non negativa, di odiatori di tiranni, come parrebbe intendere il Foscolo, ma
positiva, di chi deve riconoscere necessari determinati mezzi, anche se propri dei tiranni, perché vuole determinati fini».
COSMOPOLITISMO E STATO NAZIONALE NEI QUADERNI DEL CARCERE
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che, al di là delle forme, si rivela sorprendentemente moderno per la «sua lotta col potere ecclesiastico, lotta che in fondo tendeva a rendere Firenze indipendente dal sistema feudale chiesastico» 18; da Lutero e Calvino che sono stati in grado di suscitare «un vasto movimento popolare-nazionale»; fino ai «riformatori italiani» che furono infecondi di grandi successi storici per la loro incapacità di «andare al popolo» !?. Si capisce, naturalmente,
perché Gramsci insista in modo si-
stematico proprio sul Cinquecento. È questo il secolo della ‘crisi italiana’ (secondo una tradizione che da Cesare Balbo arriva a Francesco De Sanctis): «dopo il Cinquecento — egli scrive — si rende radicale quel distacco fra intellettuali e popolo che tanto significato ha avuto per la storia italiana moderna politica e culturale [...] l'italiano diventa sempre più lingua di una casta chiusa, senza
contatto
vivo con una parlata storica»; lo stesso
Papato si aliena le masse popolari. In una parola: si arresta il processo di ‘nazionalizzazione’ avviato dal «Rinascimento spontaneo italiano»: «l’Umanesimo — scrive Gramsci con grande efficacia — è stato un fenomeno in gran parte reazionario», ha rappresentato cioè «il distacco degli intellettuali dalle masse che andavano nazionalizzandosi e quindi un’interruzione della formazione politico-nazionale italiana, per ritornare alla posizione (in altra forma) del cosmopolitismo imperiale e medioevale» 2°. Il rapporto cosmopolitismo-Stato nazionale è dunque centrale nell’analisi e nella interpretazione della vita politica italiana; ma, come
si è accennato, esso opera in maniera altrettanto
incisiva nella interpretazione Chiesa nel nostro paese: «in esisteva ‘chiesa nazionale’, ma gli intellettuali erano collegati mente
come
del ruolo e della funzione della Italia — scrive Gramsci — non cosmopolitismo religioso, perché a tutta la cristianità immediata-
dirigenti anazionali».
E così precisa, evocando
anche in questo caso ‘formule’ desanctisiane: scienza e vita, tra religione e vita popolare, tra gione; i drammi individuali di Giordano Bruno pensiero europeo e non italiano» ?!. L'Europa,
18 Ivi, pp. 1831-1832. Ivi ppi 185958: aly sp 01825;
At pE ISO.
«Distacco filosofia e ecc. sono appunto,
tra relidel non
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
l’Italia: d’altra parte, «con la reazione ecclesiastica che culmina nella condanna di Galileo finisce in Italia il Rinascimento anche fra gli intellettuali» 2. Sia dal punto di vista dei ‘colti’ sia dal punto di vista del ‘popolo’ era, ormai, diventato impossibile un pensiero autonomo,
‘spontaneo’, originale; era, insomma,
tra-
montata la possibilità di una ‘scienza’ legata alla ‘vita’ (volendo utilizzare lemmi desanctisiani che Gramsci amava, rimessi in cir-
colazione da Luigi Russo nella seconda metà degli anni Venti con il suo importante libro sulla cultura napoletana del secondo Ottocento ?). Si intende anche perché, secondo Gramsci, in Italia non sia fiorito un personaggio come Jean Bodin: «il Bodin — scrive in una pagina assai bella — fonda la scienza politica in Francia in un terreno molto più avanzato e complesso di quello che l’Italia aveva offerto a Machiavelli. Per il Bodin non si tratta di fondare lo Stato unitario-territoriale (nazionale) cioè di ritornare all'epoca di Luigi XI, ma di equilibrare le forze sociali in lotta all’interno di questo stato già forte e radicato; non il momento della forza interessa il Bodin, ma quello del consenso. Col Bodin si tende a sviluppare la monarchia assoluta». In altre parole, con la sua opera l’Angevino dimostra, più di ogni ‘manifesto”, che in Francia si è definitivamente risolta, e a favore dello
Stato, la partita che in Italia era stata vinta dalle vecchie e nuove forme di cosmopolitismo. Mentre Machiavelli, che pur era stato il grande ‘innovatore’, è diventato un uomo del passato, legato a una fase primordiale del processo di costituzione dello Stato nazionale unitario. Quando Bodin scrive «i sei libri dello Stato», il Segretario fiorentino è, ormai, utilizzato dai ‘reazionari’, cioè
da coloro che vogliono «tenere il mondo in ‘culla’» 24: alla lezione del grande Machiavelli è subentrato il deteriore machiavellismo. Ma questo non significa — e Gramsci lo sottolinea a più riprese — che il Segretario fiorentino non abbia avuto eredi dalla parte dei rivoluzionari, a cominciare dalla Francia. Al contrario: i suoi eredi effettivi sono stati proprio i giacobini, per un 22 Ivi; pi 4919: ? L. Russo, 1928.
Francesco
De Sanctis e la cultura napoletana
Venezia
24 Quaderni del carcere, cit., p. 1574.
del suo tempo,
COSMOPOLITISMO E STATO NAZIONALE NEI QUADERNI DEL CARCERE
337
motivo preciso, del tutto evidente alla luce di quanto finora si è detto: nella storia europea, essi hanno rappresentato la forza politica più autenticamente ‘nazionale’ e, di conseguenza, la più ostile a qualunque forma di tradizionale — e retrivo — cosmopolitismo. Fra Machiavelli e i giacobini c'è, insomma, un nesso organico individuabile, oltre che sul piano delle opere,
dal punto di vista della stessa personalità del Segretario fiorentino (spunto critico che vale la pena di sottolineare per cogliere la complessa stratificazione dell’analisi storico-filosofica di Gramsci). Le opere del Machiavelli sono di carattere ‘individualistico’, espressioni di una personalità che vuole intervenire nella politica e nella storia del suo paese, e in tal senso sono di origine ‘democratica’. C'è la ‘passione’ del ‘giacobino’ nel Machiavelli e perciò egli doveva piacere ai giacobini e agli illuministi: è questo un elemento ‘nazionale’ in senso proprio e dovrebbe essere studiato preliminarmente in
ogni ricerca su Machiavelli >.
È un’analisi da cui discende, conseguentemente, una conclusione precisa, in cui si rispecchia, come in una sorta di spec-
chio rovesciato, il rapporto sopra individuato: tra cosmopolitismo da un lato e machiavellismo (in senso alto) e giacobinismo dall’altro c’è strutturale, intrinseca avversione: così, per questa parte, si chiude il cerchio della riflessioné di Gramsci sulla nazione — e sulla lunga crisi — italiana. Ma - a conferma della centralità che egli attribuisce al tema - sul processo di ‘nazionalizzazione’ in Italia Gramsci si ferma anche successivamente, a più riprese, individuando gli snodi salienti che ne hanno scandito la storia. A cominciare, in primo luogo, dal Settecento, quando il processo riprende a svolgersi prima più lentamente, poi in modo più impetuoso, anche per gli effetti prodotti in Italia dalla Rivoluzione francese: «uno degli eventi europei — osserva Gramsci — che maggiormente operano per approfondire un movimento già iniziato nelle ‘cose’, rafforzando le condizioni (oggettive e soggettive) del movimento stesso e funzionando come elemento di aggregazione e centralizzazione delle forze umane disperse in tutta la penisola e che
altrimenti avrebbero tardato di più a ‘incentrarsi’ e compren2 Ivi, pp. 1928-1929.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
dersi tra loro» 26. È sintomatico, però, che segnalando la ripresa del processo di ‘nazionalizzazione’, Gramsci abbia voluto in-
sistere con forza sul simultaneo disgregarsi della vecchia «tradizione letterario-retorica esaltante il passato romano, la gloria dei comuni e del Rinascimento, la funzione universale del papato italiano», cioè sulla crisi del vecchio cosmopolitismo italiano,
acuito — ed è l’altro aspetto dell’analisi che svolge — dal declino che nel Settecento investe la Chiesa Cattolica, la quale, egli
osserva, «come potenza europea» subisce allora un indebolimento di carattere addirittura catastrofico» 2”. In altre parole,
nell’analisi di Gramsci la ripresa del processo ‘nazionale’ in Italia avviato dal «Rinascimento spontaneo» dell’anno Mille è direttamente connessa al declino delle cause fondamentali della lunga ‘crisi italiana’, della quale il cosmopolitismo (sia politico sia religioso) della Chiesa romana è stato massimo artefice (secondo un modulo critico, occorre pur aggiungere, già avviato nei Discorsi di Machiavelli). Ma — e su questo Gramsci è chiarissimo — nel caso di strutture politiche, culturali e religiose come ‘queste, declino non vuol dire, in alcun modo, tramonto,
tracollo definitivo; tanto
meno significa successo e consolidamento immediati di posizioni ad esse alternative. Per conseguire un simile risultato sarebbe stata necessaria una iniziativa politica e culturale di carattere machiavellico e giacobino, cioè autenticamente nazionale. Proprio quello che nel Risorgimento italiano è mancato, e per responsabilità diretta del Partito d’azione: il quale, «imbevuto della tradizione
retorica della letteratura italiana», confonde
«l’unità culturale esistente nella penisola — limitata però a uno strato molto sottile della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano — con l’unità politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne infischiavano dato che ne conoscessero l’esistenza stessa»5. Insomma, vittima anch'esso del vecchio cosmopolitismo
italiano, il Partito d’azione non riesce a sviluppare una politica autenticamente nazionale, stabilendo un nuovo rapporto tra popolo e Stato, come avevano saputo fare in Francia i giacobini 26 Ivi, p. 1969.
21 Ivi, p..1963, 28 Ivi, p. 2014,
COSMOPOLITISMO E STATO NAZIONALE NEI QUADERNI DEL CARCERE
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con la loro politica verso le campagne e i contadini. Né le cose sono mutate con la Prima guerra mondiale, nonostante l’enfasi con cui da più parti si è insistito sul suo carattere rivoluzionario, proprio a voler indicare la realizzazione di un nesso di tipo nuovo fra Stato e popolo. Al contrario, per Gramsci, nel Novecento, il problema della ‘costituzione interiore’ dello Stato italiano resta del tutto aperto. Non solo: «se ‘Stato’ significa specialmente direzione consapevole delle grandi masse», tanto da richiedere «un ‘contatto’ sentimentale e ideologico con tali moltitudini, e in una certa misura simpatia e comprensione dei loro bisogni», è proprio la guerra a confermare che nella penisola non è mai esistito niente del genere. Come è reso del tutto visibile dalla mancanza nel nostro paese — per responsabilità sia dei laici sia dei cattolici - di una letteratura popolare, della quale invece il popolo dimostra di aver bisogno, rivolgendosi al ‘mercato straniero’. La qual cosa — tiene a puntualizzare Gramsci —
significa che «tutta la ‘classe colta’, con la sua attività intellettuale è staccata dal popolo-nazione, non perché il popolo-nazione non abbia dimostrato e non dimostri di interessarsi a questa attività in tutti i suoi gradi [...} ma perché l'elemento intellettuale indigeno è più straniero degli stranieri di fronte al popolo-nazione» °°. Si tratta, del resto, di un’antica costante della storia italiana, come Gramsci non si.stanca di precisare: «la questione, ribatte, non è nata oggi; essa si è posta fin dalla fondazione dello stato italiano, e la sua esistenza anteriore è un documento per spiegare il ritardo della formazione politico--nazionale unitaria della penisola». Sono testi noti, anzi notissimi, sui quali mi sono soffermato anzitutto per ribadire la funzione, nei Quaderni, della coppia teorica cosmopolitismo-Stato nazionale quale criterio analitico fondamentale della storia di tutta la penisola italiana. Vale semmai la pena di aggiungere che alla base di molte delle analisi di Gramsci — e, in particolare, dell’interpretazione di Machiavelli
e del Principe — sta Francesco De Sanctis, al quale Gramsci fa riferimento esplicito sia per la sua visione della crisi rinascimentale sia, in generale, per la concezione che egli propone del rapporto fra intellettuali e popolo nella nostra storia nazionale: quel De Sanctis il quale aveva sentito fortemente — sottolinea 29 Ivi, p. 2117.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
Gramsci - «il contrasto Riforma-Rinascimento, cioè appunto il contrasto fra vita e scienza che era nella tradizione nazionale italiana, come una debolezza della struttura nazionale-statale»,
cercando di reagire contro di esso ’°. Il primo compito che la filosofia della praxis ha dunque di fronte è, precisamente, quello di risolvere il problema della ‘costituzione interiore’ dello Stato italiano stabilendo un nuovo rapporto fra Riforma e Rinascimento, con la promozione di «una coerente, unitaria e di diffusione nazionale ‘concezione
della vita e dell’uomo’», di «una ‘religione laica’», di una nuova cultura, capace di generare un’etica, un modo
di vivere, una
condotta civile e individuale 7! (come Gramsci scrive — ed è sintomatico — discorrendo proprio di De Sanctis). Ma questo è solo il primo, fondamentale, problema che la filosofia della praxis — e il movimento da essa suscitato — sono chiamati ad affrontare e risolvere. Ce n’è un secondo, altrettanto importante — specie in Italia —, che Gramsci mette a fuoco
problematizzando in modi nuovi quello che è uno degli assi di fondo di tutta la sua riflessione critica. Nel Novecento — questo è il punto analitico da cui egli prende le mosse — è tutto il rapporto fra ‘nazionale’ e ‘internazionale’ che è in via di trasformazione per la pluralità di mutamenti che sta investendo sia l’uno che l’altro. «La personalità nazionale (come la personalità individuale) è una mera astrazione se considerata fuori dal nesso internazionale o sociale — scrive in un testo assai notevole —. La personalità nazionale esprime un ‘distinto’ del complesso internazionale, pertanto è legata ai rapporti internazionali» ’*. Si noti 30 Ivi, p. 2198. ?! Ivi, pp. 2185-2186. Si tratta, appunto, di una riflessione fatta da Gramsci analizzando la battuta desanctisiana secondo cui «manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede perché manca la cultura»: «Ma cosa significa ‘cultura’ in questo caso? Significa indubbiamente una coerente, unitaria e di diffusione nazionale ‘concezione della vita e dell’uomo’, una ‘religione laica’, una filosofia che sia diventata appunto ‘cultura’, cioè abbia generato un’etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale. Ciò domandava innanzi tutto l’unificazione della ‘classe colta’, e in tal senso lavorò il De Sanctis con la fondazione del Circolo filologico che avrebbe dovuto determinare “l’unione di tutti gli uomini colti ed intelligenti” di Napoli, ma specialmente un nuovo atteggiamento verso le classi popolari, un nuovo concetto di ciò che è ‘nazionale’, diverso da quello della destra storica, più ampio, meno esclusivista, meno ‘poliziesco’, per così dire».
?2 Ivi, p. 1962.
COSMOPOLITISMO E STATO NAZIONALE NEI QUADERNI DEL CARCERE
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il termine: distinto, a significare che si tratta di qualcosa di autonomo, di irriducibile, che però si colloca nell’alveo di una vita più ampia, di tipo universale. È un motivo, lo sappiamo, sul quale Gramsci insiste di continuo; ma è significativo che di qui egli ora prenda le mosse per una riconsiderazione del tradizionale cosmopolitismo italiano, delineando una nuova prospettiva storico-mondiale in cui esso può inserirsi, ma in chiave positiva, questa volta. Sta, appunto, qui la novità rispetto a quanto
fino ad ora abbiamo detto. «Il cosmopolitismo tradizionale italiano dovrebbe diventare — osserva Gramsci — un cosmopolitismo di tipo moderno, cioè tale da assicurare le condizioni migliori di sviluppo all’uomo-lavoro italiano, in qualsiasi parte del mondo egli si trovi». E ciò per un motivo preciso, di ordine sia culturale che materiale, strettamente connesso alla nostra storia
nazionale: «II popolo italiano è quel popolo che ‘nazionalmente’ è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo», osserva. D'altronde, «collaborare a ricostruire il mondo econo-
micamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente e appropriarsi il frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto come popolo italiano: si può dimostrare — conclude Gramsci, riprendendo un motivo a noi ben noto — che Cesare è all’ origine di questa tradizione» 2. In altri termini: il popolo italiano può riuscire a sviluppare un’autentica vocazione nazionale solo se tiene ferma, rinnovandola, fino a rovesciarne il senso, la sua strutturale vocazione cosmopolitica. Se
cioè riesce ad intrecciare in un nodo solo — per riprendere la metafore gramsciane — sia l’eredità di Cesare che quella di Machiavelli: non più contrapposti l’uno all’altro, ma uniti nel delineare in modi nuovi — e al passo dei nuovi tempi — il ruolo e la funzione dell’Italia. Senza alcun dubbio in questa posizione di Gramsci agisce una critica serrata contro il nazionalismo (ed il fascismo, natu-
ralmente): «il nazionalismo di marca francese è una escrescenza anacronistica nella storia italiana» ?4, scrive con grande chiarezza. Ma, certo, alla base di questa riarticolazione del giudizio sul cosmopolitismo, agiscono anche altri motivi: a cominciare dalla
33 Ivi, pp. 1988-1989. 34 Ibid.
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PARTE TERZA: INTERPRETAZIONI DI CROCE, GENTILE E GRAMSCI
persuasione che nel Novecento, fra guerre, lutti e sconfitte, sta
maturando un rapporto di tipo nuovo fra cosmopolitismo e Stato nazionale , nel quadro di una nuova ‘struttura del mondo”,
alla quale la filosofia della praxis — e il movimento che ne è promanato — stanno dando - e devono continuare a dare, con più
forza — il loro contributo. Nei Quaderni — e su questo vorrei essere chiaro — non c'è dunque alcun rovesciamento meccanico del primato del ‘nazionale’ a favore dell’‘internazionale’: sa bene, Gramsci, che se la prospettiva è internazionale, il proces-
so storico è assai lungo e tortuoso, proprio per il ruolo e l’incidenza delle singole, distinte, nazionalità. Guarda, perciò, reali-
sticamente a nuove forme di intreccio dell’uno e dell’altro, delle quali proprio l’Italia, per la sua storia specifica, può diventare un momento, un grado importante. «La ‘missione’ del popolo italiano — scrive usando un chiaro linguaggio allusivo — è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma — precisa subito — nella sua forma più moderna e avanzata» ??. Quello che » Ibid. Nel caso di Gramsci occorrerebbe sempre fare un confronto fra le varie redazioni dei suoi testi, cosa che non si è potuto fare in queste pagine. Vale però la pena di fare un’eccezione in questo caso, per individuare immediatamente persistenze e variazioni intorno a un tema che Gramsci riteneva, evidentemen-
te, centrale: «L'espansione italiana — scrive nel Quaderno 9 — è dell’uomo-lavoro, non dell’uomo-capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato. Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà. Perciò si può sostenere che la tradizione dialetticamente si continua nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale tradizionale. Il popolo italiano è quello che ‘nazionalmente’ è più interessato all’internazionalismo. Non solo l'operaio ma il contadino e specialmente il contadino meridionale. Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione della storia italiana e del popolo italiano, non per dominarlo e appropriarsi del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi. Il nazionalismo è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, di gente che ha la
testa volta all’indietro come i dannati di Dante. La missione di civiltà del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata» (ivi, p. 1190). Le varianti fra la prima e la seconda redazione andrebbero analizzate partitamente, nel quadro dello sviluppo complessivo del pensiero di Gramsci; se ne possono comunque già segnalare due direttamente connesse all’analisi che si è sviluppata in queste pagine: nel Quaderno 19 — cioè nella seconda redazione — sparisce il lemma internazionalismo sostituito dall'espressione cosmopolitismo moderno, di cui viene dunque operato il pieno recupero, individuandone il carattere fondamentale nella capacità di «assicurare le condizioni migliori di sviluppo all’uomo-lavoro italiano, in qualsiasi parte del
COSMOPOLITISMO E STATO NAZIONALE NEI QUADERNI DEL CARCERE
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è stato un limite organico della storia italiana può dunque diventare una risorsa, un elemento di forza, di autentica modernità, staccandosi dal vecchio involucro tradizionale. A ben vedere, in questa vocazione cosmopolitica stanno sia il tratto
più specifico del popolo e della nazione italiani, sia il contributo più alto che essi possono dare alla storia che il Novecento, fra lotte e contraddizioni, ha cominciato
a schiudere.
Infine, nel
XX secolo Giulio Cesare ha ancora qualcosa da dire: come per Machiavelli, anche per Gramsci la storia romana mantiene un imperituro valore esemplare, consentendo di guardare con occhi nuovi alla lunga esperienza della nazione italiana. Su questo sfondo di problemi, un punto fondamentale risulta chiarito dall’analisi di netta impronta filosofico-storica svolta da Gramsci nei Quaderni: ieri come oggi, è nella dialettica cosmopolitismo-Stato nazionale che sta il destino dell’Italia.
mondo egli si trovi»; al tempo stesso, nella seconda redazione, si precisa che all'origine della tradizione propria del popolo italiano, consistente nella capacità di «collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario», è, appunto, Giulio Cesare (il cui nome è del tutto assente nella prima redazione). In altre parole, nella seconda redazione, è in azione un giudizio più ampio e articolato sul cosmopolitismo, distinto infatti in ‘cosmopolitismo tradizionale’ e ‘cosmopolitismo di tipo moderno’.
Distinzione che, a sua volta, provoca, da un
lato, la sintomatica cancellazione del termine ‘internazionalismo’ (con quello che ciò significa, anche in rapporto al giudizio sulla Russia staliniana); dall’altro, il recupero della figura e dell’opera di Cesare, con un implicito — e ulteriore — approfondimento del giudizio sulla sua opera (rispetto ad esempio alle osservazioni fatte nel Quaderno 17, segnate dall’opposizione Cicerone/Catilina, Cesare).
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NOTA BIBLIOGRAFICA Il primo saggio della prima parte è uscito, in forma più breve, sulla «Rivista di storia della filosofia», LVI, 2001; il secondo sulla «Rivista di filosofia», XCII, 2001.
Il primo saggio della seconda parte è uscito in I/ Rinascimento nell'Ottocento in Italia e in Germania/Die Renaissance im 19. Jabrbundert in Italien und Deutschland, a cura di/hrsg. von A. Buck-C. Vasoli, Bologna-Berlin 1987; il secondo in Filosofia
e cultura. Per Eugenio Garin, a cura di M. Ciliberto e C. Vasoli, II, Roma 1991 (e in spagnolo in «dialectica», XVII, 1994); il
terzo in Cinquant'anni di storiografia filosofica in Italia. Omaggio a C. A. Viano, a cura di E. Donaggio e E. Pasini, Bologna 2000; il quarto in Antonio Corsano e la storiografia filosofica del Novecento, Atti del Convegno di studi (Lecce-Taurisano, 24-25
settembre 1999), a cura di G. Papuli, Galatina 1999; il quinto in «Studi storici», XX, 1979; il sesto è in corso di stampa negli
Atti del Convegno The Italian Renaissance in the Twentieth Century, organizzato a Firenze nel giugno del 1999 da Villa I Tatti-Harvard University Center for Italian Renaissance Studies; il settimo è l’introduzione alla seconda edizione del mio lavoro Il Rinascimento. Storia di un dibattito, Firenze 1987.
Il primo saggio della terza parte è uscito fra tradizione nazionale e filosofia europea, a to, Roma 1993 (e in francese in «Archives de 1993): il secondo in «il Centauro», IX, 1983;
in Croce e Gentile cura di M. CiliberPhilosophie», LVI, il terzo in «Rivista
di storia della filosofia», LI, 1996; il quarto in «Studi storici», XXVII, 1986; il quinto in Grarzsci e il Novecento, a cura di G. Vacca, I, Roma 1999; il sesto in Novecento italiano, a cura di S. Pons, Roma 2000.
Sono intervenuto sui testi solo per ragioni stilistiche, al fine di eliminare le ripetizioni più fastidiose. L'apparato delle note è stato aggiornato nei casi indispensabili. Esprimo la più viva gratitudine agli Editori che consentono la pubblicazione in questo volume dei saggi già usciti in altra sede.
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INDICE DEI NOMI
Acciani A., 246
Agostino Aurelio, santo, 203 Agrippa di Nettesheim Heinrich Cornelius, 192-193 Alberti Leon Battista, 41, 73, 144, 188, 198, 205
Battisti E., 189-190, Bec C., 124
195-199
Belinskij Vissarion Grigorevié, 12 Bellucci M., 290 Bembo Pietro, 196 Berardi Marco, detto re Marcone,
Alemanni Nicola, 203 Alessio F., 45 Alicata M., 15-16
Berdjaev N. A., 135 Bergami G., 298
Alighieri Dante, 49, 79-80, 265, 342
Bergmann E., 269, 276
Ambrosini L., 246 Amendola G., 236, 293 Amidei, famiglia, 83 Ansaldo G., 119, 254, 264 Antoni C., 10
Bettinelli Saverio, 79 Bianchi M. L., 193 Bianchi Bandinelli R., 39 Bilenchi R., 9, 56, 58 Blanc Louis, 135
107
Aquilecchia G., 67 Ardigò Roberto, 31
BERN, 066 177, 181-183
A
1946
Ariosto Ludovico, 196 Aristotele, 49, 177-178, 180
Bobbio N., 42, 45
Augusto Caio Giulio Cesare Otta-
Bodin Jean, 140, 192, 203, 336
Boccaccio Giovanni, 78, 125
viano, imperatore, 73, 327, 330
Baader Benedikt Franz Xaver von, 25
Bacone
Francesco,
138-139,
203,
220) Badalon fiNESIZM5 25226047058, 132958500524
Balbo
Cesare,
63, 65, 67-82,
101,
(2925955
Baldacci L., 246 Balzac Honoré de, 33 Banfi A., 4, 45-46, 69
Barbaro Francesco, 141 PArofiMa 75 RM2415235155 Mbo7 162, 164, 179; 183, 185-186, 205
Barone F,, 27-28, 59 Barth K., 280 Basile B., 190 Bassit:SXIV850;) 93. DIS50201
Boine G., 234-236 Bolzoni L., 144 Borgia Cesare, duca di Valentinois, detto il Valentino, 107
Borkenau F., 165 Borracchini C., 298 Botero Giovanni, 99
Bracciolini Poggio, 73, 141, 162 Bragina L., 124 Bréal Michel, 317 Brioschi F, 3
Brulard Henry v. Stendhal Brunelleschi Filippo, 195 Brunetière Ferdinand, 38 Bruni Leonardo, 133, 137, 164, 175, 188, 203, 208
Bruno Giordano, 12, 26, 29-30, 32, JM
E5204142< 159
MR,
192-193: L198}-200-203) 213215, 238 2594272350
358
INDICE DEI NOMI
Bruto Marco Giunio, 214 Bucharin N. I., 318, 324 Buck A., 128, 355 Buondelmonti, famiglia, 83 Burckhardt Jacob, 42, 53, 56, 134, EZIO 65 7, 169162, ZO 214 Burdach K., 129-130, 136, 144, 166, 203
Burke Edmund, 33
Butler Joseph, 33 Calderoni M., 31 Calogero G., 20-24, 35, 290 Calvino Giovanni, 114, 119, 192, 2381555 Campanella Tommaso, 26, 99, 131, [A331444
R51R2.002.0358205)
259 Campioni G., 27 Cantimori D., XIV, 5, 10, 14, 16, 20, I: VS VIE, 069, TORE 2] 7A L7E0 SO 348, 350
655 d60 ARIA RO
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Capone-Braga G., 49 Capponi Gino, 63, 65 Caprioglio S., 297 Carabellese P., 256 Caracciolo Galeazzo, marchese
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