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istituto italiano per gli studi filosofici saggi 3
Giulio Gisondi «PROFONDA MAGIA» Vincolo, natura e politica in Giordano Bruno
prefazione di Fabrizio Lomonaco
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press
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Indice
Prefazione9 Abbreviazioni13 Introduzione21 Ringraziamenti31 I.
δεσμος συνδεσμος, vinculum nexus.
appunti per una storia terminologica e concettuale
1. Il vinculum tra magia, ontologia e cosmologia 2. Δεσμός, σύνδεσμος. Prigioni dell’anima, catene dell’essere, legami del cosmo 3. Vinculum, nexus. Catene del debito, vincoli di perfezione, nodi d’amore 4. Tra teologia e filosofia naturale. Alle origini della nozione bruniana di vinculum e nexus 5. Problemi di metodo e di lessico nella formazione del giovane Bruno 6. «Spiritus intus alit». Su di un adagio virgiliano tra teologia e filosofia
33 33 40 46 57 61 71
II.
dalla philosophia occulta alla phisyca magica
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1. Il ricorso di Bruno alla magia prima del De magia 77 2. Fides e Credulitas: il «primum fundamentum universae unionis» 84 3. Magia, fides, contractio e imaginatio. Elementi teorici del Sigillus Sigillorum nel De magia89 4. Imaginatio attiva e passiva tra il Sigillus e il De magia. Agire ed essere agiti 94 5. Scala naturae e sapientia triceps 6. Spiritus seu anima: il presupposto formale della magia naturale 106 7. La fisica del De magia: il problema del vacuum, dell’aether e del motus continuus111 8. Motus naturalis e praeternaturalis: per una fisica dei vincula e delle attractiones 116 9. Dalle qualità occulte alla physica magica 122 10. Tra fisica e magia: il vinculum tra dissolubilità e indissolubilità dei mondi 125 III. vinculum nexus nella
relazione tra unità e molteplicità
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1. David de Dinant: la riscoperta di una filosofia in oblio 141 2. La ricezione scolastica di David de Dinant: da Alberto a Tommaso 147 3. Forme neoplatoniche della ricezione di David de Dinant: da Cusano a Ficino 152 4. Ontologia e magia tra il De la causa e il De vinculis157 5. Unità e legame tra il Sigillus e il De la causa: «unam simplicem radicem» 162 6. L’antiqua vera philosophia nel ciclo della vicissitudine 165 7. Essere e natura nella critica di Aristotele agli antiqui philosophi169 8. Fisica, metafisica e filosofia naturale. Essere e natura 171 9. La riscoperta delle filosofie presocratiche. Prima e oltre Aristotele 176 10. Eraclito e Parmenide nella nolana filosofia 180 11. «Deus et hyle et mens una sola substantia sunt» 184
IV.
«potentia et actus utriusque nexus». unità e vincolo di materia e forma
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.
Cosa mostra un certo arabo chiamato Avicebron 187 Necessità di due generi di sostanza: «l’uno che è forma, l’altro che è materia» 190 «In che modo al fine qualche logica intenzione viene ad esser posta principio di cose naturali» 194 La materia come potenza e la materia come soggetto. Il ricorso a Cusano 197 «Il primo et ottimo principio» come identità di potenza e atto 200 Filosofia naturale e vera teologia: «diversi modi di diffinire della divinità» 205 «Potentia et actus utriusque nexus». Vinculum e nexus di materia e forma 209 La materia come soggetto 213 La filosofia naturale nella considerazione dialettica della materia e della forma 216
V.
il vinculum amoris tra filosofia naturale e politica
187
225
1. Il De vinculis nel contesto degli scritti magici 225 2. Dalla filosofia naturale alla riflessione antropologica e politica 230 3. Il vinculum Cupidinis tra i Furori e il De vinculis: poesia, verità e caccia filosofica 234 4. Dalla critica del bello platonico alla relatività del sentimento d’amore 249 5. Appetitus e Cognitio: le ragioni universali del vincire 254 6. Gerarchia dei vincula e degli amori superiori e inferiori 261 7. Dall’indeterminatezza del desiderio alla determinazione antropologica 265 8. De vinciente in genere: coloro che vincolano 269 9. Reciprocità del vincolo: il modello della relazione tra materia e forma 274 10. De vincibilibus in genere: coloro che sono vincolabili 276 11. Il vincolo dell’immaginazione 284 12. Dal vinculum amoris al vinculum civile286
e religio. dal vinculum amoris al vinculum civile VI. lex
291
1. Ontologia e politica nello Spaccio291 2. Unità, pace e contrarietade 295 3. Immagini della Verità, della Sofia e della Legge tra la Cena e lo Spaccio 299 4. La religio come vinculum civile307 5. Religio civilis e machiavellismo 312 6. Re-ligare e re-legare: la falsa religio dei riformati 320 7. Dalla critica dei riformati a quella dei Conquistadores: sintomi della crisi europea dalla Cena allo Spaccio328 8. Ozio e fatica. Dalla critica dell’età dell’oro all’elogio del lavoro 337 9. Mano e intelletto. Unicità dell’uomo e manipolazione della natura 342 10 Rivoluzione sempiterna e metempsicosi delle anime 347 11 Dal vincolo della legge al vinculum amoris. Natura, magia e politica 349 12. Dal vinculum amoris al vinculum civile. Politica, immaginazione e sovranità 357 Conclusioni
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Indice dei nomi
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Prefazione
Questo studio di Giulio Gisondi nasce da una serie di ricerche coordinate e attentamente perseguite da borsista negli anni di post-dottorato presso l’Istituto italiano per gli studi storici e l’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli. Il costante e attento lavoro di interpretazione dei testi è stato alimentato anche da impegni didattici tenuti nell’Ateneo napoletano Federico II e in enti europei di ricerca, a Lione, a Lugano e a Parigi. Ne è venuta fuori una ragionata selezione di indagini intorno alla questione del vincolo in Bruno, introdotta nei tardi manoscritti “magici” (il De magia mathematica, il De magia naturali, le Theses de magia e il De vinculis in genere), ma poco frequentata dalla letteratura critica e, laddove considerata, priva delle relazioni all’ampio quadro di interessi filosofici e teologici, antropologici e politici costitutivi della cultura italiana ed europea tra Medioevo e Rinascimento. In tale direzione si è mossa, invece, la ricerca di Gisondi, tanto ambiziosa quanto sempre disposta alla cautela e alla sorvegliatissima impresa, meritoria per aver individuato proprio nel nexus un nuovo centro di rilettura e di comprensione della filosofia naturale del Nolano al fine di emanciparla da un’interpretazione magico-ermetica alla luce del dibattito
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prefazione
medievale (scolastico) e rinascimentale, sia cattolico sia riformato, in autori presenti a Bruno, da Paolo di Tarso a Tommaso, da Cusano a Calvino, da Ficino ad Agrippa, da Leone Ebreo a Pico della Mirandola. Si tratta in effetti di un variegato complesso di teorie e di linguaggi che interpretano il gran modello della metafisica aristotelica e che la potenza teorica di Bruno trasforma radicalmente, prospettando, innanzitutto, una nuova via d’accesso al sapere. Le ricercate connessioni innovative tra fisica e metafisica mettono in luce un modernissimo metodo che è tale perché deliberatamente rifiuta ogni conoscenza data. Questa sensibilità teorica e metodologica coincide con quel senso dell’ordo che il Nolano scopre fuori di sé, nell’in sé di cui ogni ente è parte. La coerenza dell’ordo del pensiero bruniano e della vita con l’ordo naturae è il motivo teorico che, a mio giudizio, sostiene i contributi più originali offerti dalla prime pagine del volume alla questione del passaggio dalla «filosofia occulta» alla «magia fisica». È, questo, il transito ideale-effettivo, il luogo di rielaborazione della giovanile educazione al teologico e al naturale (affidata all’agostinismo neoplatonico di Teofilo Vairano e alla “filologia” di Valla e di Erasmo, accomunati dall’idea del sapere come costante ricerca del senso dell’origine nella “pratica” della vita), per giungere alla ridefinizione della magia che è profonda, perché non è accertamento del prodigioso o dell’eccezionale né meno che mai trasformazione delle “apparenze”. La magia bruniana è al fondo della realtà naturale, è questa stessa realtà nell’unità di universale e particolare che è innanzitutto movimento, tensione continua e alimento dell’imaginatio, come attestano il Sigillus e il De magia, indagati da Gisondi nella cornice assai originale della cosmologia del Nolano, dall’analisi del De umbris alle opere latine di argomento fisico. Non quindi la magia e la natura, ma la magia che è natura, ansiosa di essere conosciuta lontano dai falsi e ingannevoli luoghi della credenza religiosa e della teologia tradizionale con i suoi dogmi (la Trinità) accanto a quella meno “conformistica”. Penso, in particolare, al rapporto di Bruno con la “via negativa” di Cusano, fatto di tesi condivise (antiaristotelismo) e, soprattutto, di trasposizioni sul piano della filosofia naturale come nel caso del De possest nel De la causa. In quest’ultimo testo, radicale e direi dirompente spiegazione del Verbo
prefazione
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divino generante infinite forme da infinita materia, si coglie l’intreccio di ontologia e cosmologia che è al centro delle riflessioni di Gisondi sul rapporto tra «unità e molteplicità» e sulle relazioni di «vincolo tra materia e forma». Sono, com’è noto, i grandi problemi della filosofia occidentale, dalle sue esperienze naturalistiche pre-aristoteliche alle fonti medievali (con pagine molto interessanti su David de Dinant e Avicebron) fino alle note tesi del neoplatonismo cristiano che contribuiscono alla ridefinizione dell’autonomo nesso bruniano tra fisica, metafisica e filosofia naturale. E tale connessione si riverbera in altre facce del prisma della vita e del sapere sulle quali le pagine di Gisondi non sono avare di analisi e di acute ricostruzioni, come attestano i due capitoli finali dedicati rispettivamente ai Furori e al De vinculis, alla Cena e allo Spaccio. Essi toccano i temi “vincolanti” della religione e della politica come spazi pubblici e disomogenei che vivono del legame sociale, specchio dell’intero, di quell’Uno riformulato in termini di naturalizzazione della teologia, di coappartenenza al mondo terreno. Per tutto ciò si comprende bene il tipo di nexus che il Nolano introduce e che segna di fatto il moderno: non una connessione di tipo logico né una relazione trinitaria tra Padre, Figlio e Spirito Santo ma un nodo d’amore, niente di sentimentale o di esteriore, ma anche in questo caso, verrebbe da dire, una «profonda magia» vincolante l’universonatura al primo principio e alla causa infinita. Salta il dogma trinitario perché è inaccettabile la mediazione di Cristo, generato e non creato, della stessa sostanza del Padre, così come è rifiutata l’incarnazione quale umanizzazione del divino, introduzione del tempo e della storia. Bruno non interpreta né può interpretare Dio come altro dalla natura che resta l’espressione dell’Uno complicato nella totalità infinita. Il suo Dio è l’essere che non crea ma genera la natura e l’umano, gli spazi di attrazione e repulsione, di forze in movimento, non isolate, tutte immanenti all’eterno ritmo della natura in una prospettiva propriamente ontologica. In essa è la compresenza di forme in perenne divenire e di uniformità che assolvono al bisogno bruniano di includere nella propria cosmologia anche la cultura, la politica e la storia. Fa bene Gisondi a presentare come problematico questo approdo del Nolano tra divenire e ontologia, perché il discorso sulla sua modernità si complica e, insie-
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prefazione
me, si definisce. Alle origini il moderno non ha astrattamente reciso le proprie radici antiche ma le ha rivissute e anche drammaticamente trasfigurate come possono documentare solo le ricerche dettagliate e documentate come quelle proposte in questo bel volume. Fabrizio Lomonaco
Abbreviazioni
Opere italiane dfi
G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, M. Ciliberto (a cura di), N. Tirinnanzi (note ai testi), M.P. Ellero (Bibliografia), F. Dell'Omodarme (Indice analitico), Milano 2000 Cabala Cabala del cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico Cena La cena de le ceneri Causa De la causa, principio et Uno Infinito De l’ infinito universo e mondi Furori De gli eroici furori Spaccio Spaccio de la bestia trionfante Candelaio Il Candelaio, G. Barberi Squarotti (a cura di), Torino 1964 Opere magiche Om
G. Bruno, Opere magiche, M. Ciliberto (diretta da), S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi (a cura di), Milano 2000 De magia math. De magia mathematica
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abbreviazioni
De magia De vinculis Lampas Theses
De magia naturali De vinculis in genere Lampas triginta statuarum Theses de magia
Opere mnemotecniche Omn I Cantus De umbris Omn II Explicatio Sigillus
G. Bruno, Opere mnemotecniche, M. Ciliberto (diretta da), M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi (a cura di), Milano 2004, vol. I Cantus Circeus De umbris idearum G. Bruno, Opere mnemotecniche, M. Ciliberto (diretta da), M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi (a cura di), Milano 2009, vol. II Explicatio triginta sigillorum Sigillus sigillorum
Opere latine Articuli adversus peripatheticos Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus Peripatheticos, Articuli adversus peripathetico, E. Canone (a cura di), trad. it. C. Monti, Pisa-Roma 2007 Ol
Camoeracensis Acrostimus De immenso De minimo De monade
Jordani Bruni Nolani Opera latine conscripta, publicis sumptibus recensebat F. Fiorentino [F. Tocco, H. Vitelli, V. Imbriani, C.M. Tallarigo], Neapoli-Florentiae, voll. I-III, t. 8, 1879-1891 Camoeracensis Acrostimus seu rationes articulorum adversus Peripatheticos, vol. I, t. 1 De immenso et innumerabilis, vol. I, t. 1-2 De minimo triplici et mensura, vol. I, t. 3 De monade, numero et figura, vol. I, t. 2
abbreviazioni
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Libri physicorum Libri physicorum aristotelis explanati, vol. I, t. 4 Summa Summa terminorum metaphysicorum Documenti Processo
V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno con documenti editi e inediti, Messina 1921 L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, D. Quaglioni (a cura di), Roma 1993
Anche il sacerdote che innalza l’ostia consacrata per il volgo è uno stregone, come la fattucchiera che fa suffumigi sotto il gufo impagliato. Interrogano ambedue il mistero, sono ambedue interpreti di un mondo soprannaturale che l’anima incolta e grossa del credente volgare (al quale sfugge il gioco delle forze umane razionali che regolano il destino del mondo e la storia degli uomini) crede gli sovrasti, schiacciandolo con la sua fatalità ineluttabile. L’indifferenza religiosa dei tempi normali, l’assenza della pratica del culto, non è indipendenza, non è liberazione dagli idoli. La religione è un bisogno dello spirito. Antonio Gramsci, Stregoneria, 4 marzo 1916
A mia madre e a mio padre
Introduzione
Nel suo Giordano Bruno and the hermetic tradition del 1964, la studiosa inglese Amelia Frances Yates collocava il filosofo all’interno della vasta ed eterogenea tradizione dell’ermetismo e del cabalismo magico rinascimentale1. Tuttavia, al di là di alcuni brevi riferimenti, Yates non fondava la sua lettura di Bruno mago ermetico e della magia bruniana su di un’analisi e un confronto sistematico dell’opera complessiva e degli ultimi manoscritti cosiddetti magici2 del Nolano, il De magia mathematica, il De magia naturali, le Theses de magia, il De rerum principiis et elementis, la Lampas triginta statuarum e il De vinculis in genere, composti tra il 1589 e il 1592 e rimasti incompiuti, ma esclusivamente sui riferimenti all’ermetismo presenti nelle opere mnemotecniche, nei dialoghi italiani e nei poemi francofortesi.
A.F. Yates, Giordano Bruno and the hermetic tradition, Chicago 1964, pp. IX-XI. Sulla storia, la datazione, la composizione e l’ordine di lettura di questi scritti, cfr. Nota ai testi, in Om, pp. XXXVIII-CXXII; cfr. Introduzione, in Ol, vol. III, pp. III-LXIV. 1
2
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giulio gisondi
La minore fortuna e attenzione agli scritti magici bruniani non costituiva un elemento isolato alla sola indagine della Yates, ma un tratto comune della più generale storiografia di quegli anni. In effetti, già nel 1962, nel saggio L’antropologia naturalistica del «De vinculis in genere» di Giordano Bruno3, poco presente nella recente storiografia, il giovane Fulvio Papi osservava come, dopo gli studi d’inizio secolo di Felice Tocco4, agli scritti magici e al breve e incompiuto trattato sui vincoli del Nolano non fosse stato più dedicato uno specifico esame. Egli sottolineava che, per quanto riguardava il quadro generale della storiografia bruniana, questi scritti non avevano avuto la fortunata sorte delle opere mnemotecniche e dei dialoghi. Gli studi condotti in quegli anni da Paolo Rossi, Cesare Vasoli, Antonio Corsano, Nicola Badaloni ed Eugenio Garin, a cui Papi faceva riferimento, possedevano il merito di aver spazzato via pregiudizi nei confronti della nolana filosofia, d’aver codificato un rigoroso metodo storiografico e aperto nuove prospettive di ricerca. Si era finalmente «in grado di spostare l’asse della complessiva valutazione storiografica»5 e si erano poste le basi affinché ciò potesse avvenire «superando quelle schematiche e puntigliose riduzioni del pensiero bruniano cui una lunga tradizione di prospettive trascendentalistiche, materialistiche e idealistiche, rigidamente selettive, avevano condotto»6. Da questa prospettiva storiografica ha avuto inizio una profonda riscoperta, italiana ed europea, della filosofia bruniana. Ciò ha prodotto il fiorire di numerosi studi e orientamenti, spesso anche molto distanti tra loro, ma che dagli anni Settanta del Novecento sino a oggi hanno approfondito aspetti problematici del pensiero del Nolano, la totalità delle sue opere, fino agli scritti magici. Nel solco di questa riscoperta è possibile collocare le ricerche sul tema della magia in Bruno, tra cui gli F. Papi, L’antropologia naturalistica del «De vinculis in genere» di Giordano Bruno, «Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di Milano», XV, 3 (1962), pp. 151-178. 4 F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, «Atti della Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli», XXV, Napoli 1891, pp. 221-267. 5 F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 152. 6 Ibidem. 3
introduzione
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studi di Simonetta Bassi7 e di Vittoria Perrone Compagni8, che hanno ricostruito ed evidenziato come il ricorso alla magia costituisca un elemento presente sin dagli inizi della produzione bruniana e non limitato alla sua ultima fase; o ancora i lavori di Michele Ciliberto9, Elisabetta Scapparone10 e Nicoletta Tirinnanzi11, che hanno approfondito il tema del vincolo, strettamente connesso alla magia, nel suo originarsi già al cuore della riflessione ontologica, religiosa ed etico-politica del Nolano. Queste tesi non sono lontane da quanto già osservava Papi laddove, definendo il De vinculis un’opera di «fisica pragmatica»12, considerava come in questo scritto «si stratifichino, dal particolare punto di vista dell’opera, molti problemi tipici e […] strutturali del pensiero bruniano e come, in ordine a questi risultati più complessivi, si designino temi nuovi che l’opera stessa si propone – più di quanto non fosse avvenuto con la produzione precedente – di mettere in luce»13. La presente ricerca muove in questa linea interpretativa, individuando nella nozione di vinculum il legame e la relazione tra la filosofia naturale e politica di Bruno. L’esigenza è quella di esaminare e 7 Cfr. S. Bassi, magia, mago, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, M. Ciliberto (direzione scientifica), Pisa 2014, vol. II, pp. 1136- 1141 e pp. 1144-1149. 8 V. Perrone Compagni, «magia», in Enciclopedia Bruniana & Campanelliana, Giornate di studi 2001-2004, E. Canone e G. Ernst (a cura di), Pisa-Roma 2006, vol. I, pp. 90-105. 9 Cfr. M. Ciliberto, Esistenza e verità: Giordano Bruno e il «vincolo» di Cupido, Introduzione, in G. Bruno, Eroici furori, S. Bassi (a cura di), Roma-Bari 1995, pp. VII-XLI. 10 E. Scapparone, «vinculum», in Enciclopedia Bruniana & Campanelliana, Giornate di Studio 2005-2008, E. Canone e G. Ernst (a cura di), Roma 2010, vol. II, pp. 182-194; Ead., «Tempus vinciendi». Filosofia dell’amore e civile conversazione nel De vinculis, in La filosofia di Giordano Bruno. problemi ermeneutici e storiografici, Convegno internazionale (Roma, 23-24 ottobre 1998), E. Canone (a cura di), Firenze 2003, pp. 343-365; Ead., Magia, politica e filosofia dell’amore nel De vinculis, in Autobiografia e filosofia. L’esperienza di Giordano Bruno, Atti del convegno (Trento, 18-20 maggio 2000), N. Pirillo (a cura di), Roma 2003, pp. 53-68. 11 E. Scapparone-N. Tirinnanzi, Giordano Bruno e la composizione del De vinculis, «Rinascimento», XXXVII (1997), pp. 155-231. 12 Cfr. F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 154. 13 Ivi, p. 152.
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ricostruire quale sia e in che modo si strutturi la relazione tra filosofia naturale, politica e antropologia, comprendere se l’analisi del politico possa essere sganciata dall’indagine sulla natura, o se prenda origine e si sviluppi proprio nel cuore della conoscenza del mondo naturale. Lo scopo di questo lavoro è quello di tracciare un percorso a ritroso nel pensiero e nelle opere di Bruno: dagli scritti magici, dove maggiore è la presenza del termine vinculum, ai lavori degli anni precedenti, il De umbris idearum, il Candelaio, il Sigillus sigillorum, passando per i dialoghi italiani, sino a giungere alle opere latine di argomento fisico pubblicate tra il 1586 e il 1591. Da questo confronto è possibile, da un lato, osservare la torsione a cui egli sottopone la riflessione magica, naturalizzandola e spogliandola della sua dimensione occulta, per farla rientrare nella struttura ontologica e cosmologica, fisica e metafisica, elaborata nei dialoghi; dall’altro, ripercorrere l’elaborazione del vinculum dagli scritti magici sino agli inizi della sua filosofia, per rintracciarne l’origine e il suo cammino. Da questo stesso confronto è, altresì, possibile constatare come la nozione di vincolo non giunga a Bruno dalla sola letteratura magica, ma sia mediata dai riferimenti al δεσμός/σύνδεσμος e al vinculum/nexus presenti nella filosofia presocratica e platonica e nel dibattito sul dogma trinitario. È a partire da questi contesti che egli ripensa, traspone e rilegittima il vincolo nell’orizzonte della filosofia naturale, come espressione di una nozione originariamente ontologica e cosmologica, non teologica. Ciò costituisce l’inveramento e il compimento dei motivi latenti e sommersi delle tradizioni filosofiche presocratiche di cui egli si serve costantemente, dall’eleatismo all’atomismo, nonché di fonti medievali non scolastiche come David de Dinant e Avicebron. Se il termine vinculum trova la sua piena definizione soltanto negli ultimi scritti magici, tuttavia il problema del legame e della relazione rappresenta un punto nodale della sua filosofia, rintracciabile sin dai primi lavori. È, perciò, necessario ripercorrere le differenti fonti e tradizioni alle quali Bruno attinge nell’elaborazione della sua riflessione naturalistica e politica, metterne a fuoco la presenza critica e problematica, la costante riformulazione, comprendere come egli combini e organizzi tra loro molteplici saperi, tradizioni e linguaggi, quali fonti siano prio
introduzione
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ritarie rispetto ad altre, se il loro utilizzo muti, e come, nelle opere in esame. Ciò consente di emancipare la riflessione bruniana sul vinculum da un’interpretazione esclusivamente magico-ermetica, chiarendo il suo rapporto con tale tradizione. Nella ricca e vasta bibliografia degli studi bruniani, risulta a oggi ancora assente uno studio sistematico sul vinculum, che ne ricostruisca origini e sviluppi, in un’analisi non limitata ai soli scritti magici, ma che possa inquadrarli nel contesto della più ampia produzione filosofica del Nolano. Sia nello spazio politico che in quello naturale è nel ricorso alla magia naturale, presente in tutta l’opera di Bruno, ma approfondita solo negli ultimi manoscritti, che il tema del vinculum e del vincire trova la sua piena elaborazione, pur essendo rintracciabile già all’origine della sua filosofia. La nozione di legame, vincolo o relazione è costitutiva della magia naturale: in quanto arte di legare tra loro elementi o individui differenti attraverso tecniche di attrazione, essa rappresenta il tentativo di riprodurre ed emulare il principio d’amore e d’unità che è la natura. La physis che egli descrive è un principio d’unità, un corpo unico e omogeneo infinito in cui materia e forma sono legate da un vincolo d’amore indissolubile, separabile dalla mente umana da un punto di vista logico, ma di cui tale separazione può cogliere soltanto una parte limitata. Nella redazione degli scritti magici e nella definizione di una magia per vincula egli riformula e ripensa la magia naturale nel solco della prospettiva ontologica e cosmologica, fisica e metafisica, dei dialoghi. Questa magia naturale non è più diretta sulle virtù occulte presenti nella physis. Il ricorso all’occulto non è in grado di fornire né una conoscenza né tantomeno una spiegazione adeguata dei vincoli naturali. È invece una physica magica a poter comprendere come dietro i fenomeni di attrazione spontanea presenti in natura siano rintracciabili sia cause fisiche, legate alla fuoriuscita di atomi da un corpo a contatto con un altro simile o contrario; sia al movimento d’influsso e d’efflusso degli atomi in ogni elemento naturale, provocato dalla philautia, dall’amore di sé, tensione del soggetto a conservarsi nella sua forma attuale o a espandersi verso ciò che lo accresce. Il tentativo del Nolano è quello di descrivere fenomeni tradizionalmente considerati occulti attraverso
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un linguaggio fisico che non faccia ricorso al miracolo, al prodigio o al sovrannaturale nella considerazione delle attrazioni, ma che possa inquadrarli nell’ordine naturale. La conoscenza dei fenomeni di attrazione a cui ogni corpo semplice e composto è sottoposto in natura costituisce un presupposto necessario nella riforma e nel ripensamento della magia, nella piena naturalizzazione e umanizzazione di essa intesa come arte di legare non più gli elementi naturali, ma l’essere umano. Se la magia è conoscenza tanto universale quanto particolare delle attrazioni naturali e della ragione da cui queste sono originate, capacità e tecnica del vincolare umano, allora essa si configura come coessenziale e necessaria alla teoria e all’azione politica nello spazio civile. Sin da una prima lettura degli scritti bruniani, il politico sembra configurarsi come uno spazio pubblico in cui il campo della religione, della legge e della scienza appaiono saldamente intrecciati e finalizzati all’esercizio del potere inteso come capacità di condurre a unità i differenti e molteplici soggetti che animano la polis. Lo spazio comunitario è già di per sé politico: esso è il luogo in cui ogni essere umano può farsi cittadino soltanto potenziando le facoltà di pensiero e azione, mano e intelletto, theoria e praxis. Proprio le differenze costitutive di ogni soggetto, come di ogni elemento e corpo naturali, non corrispondono a un impedimento nella costruzione di una comunità politica pacifica e ben organizzata: l’elemento conflittuale determinato dalla pluralità e dalla diversità degli individui è uno stimolo alla costante ricerca dell’equilibrio, alla costruzione dei vincoli civili necessari alla concordia e al progresso degli esseri umani. Al contrario una pace intesa come assoluta omogeneità e uniformità, che annulli le differenze, le contrarietà e le specificità di ognuno, si rivela una tirannia in cui sono sfaldati i vincoli necessari alla costruzione della repubblica degli uomini, una pace apparente in cui ogni individuo è isolato chiuso nella propria finitezza, nell’accrescimento esclusivamente materiale, instabile e impermanente di sé. L’istituzione di vincoli e rapporti d’attrazione corrisponde alla possibilità di operare nel mondo civile secondo il modello incarnato dalla natura. Come la physis, originario e indissolubile vinculum amoris tra materia e forma, conduce a unità ogni sua particolare manifestazione per mezzo di legami e attrazioni in un equilibrio sempre mutevole e
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senza annullare le specificità e le differenze, così l’azione politica si caratterizza come costruzione, istituzione, trasformazione e rinnovamento permanente dei vincoli e dei simboli costitutivi e necessari alla repubblica degli uomini. È questa una filosofia che non separa politica e natura. La descrizione dei vincoli civili non è data in una prospettiva che pone l’umanità al di fuori della natura, né tantomeno afferma alcun primato ontologico dell’essere umano su questa. La filosofia di Bruno è a tutti gli effetti un’antropologia naturalistica, un pensiero nel quale lo spazio del politico è sempre radicato nella natura e da essa non separabile. Ciò significa che il riconoscimento della relazione ontologica tra l’Uno e il molteplice, tra l’infinità dell’essere e le sue manifestazioni finite, conduce alla comprensione della natura come modello a cui il pensiero e l’azione devono ispirarsi e che non può essere ignorata. In quanto vinculum amoris, relazione e legame eterno tra l’unità dell’essere e la molteplicità delle sue manifestazioni sensibili, la natura è l’exemplum, il paradigma necessario a ogni prassi civile. Ma questo principio mimetico non significa che occorra semplicemente imitare o riprodurre la natura: in quanto infinita, essa è irriproducibile dall’essere umano. Si tratta, piuttosto, di riprodurre ciò che essa incarna, la sua capacità infinita di legare tra loro elementi e corpi differenti e contrari, senza sopprimerne le specificità. E in effetti, è questa la capacità continua e infinita di rinnovare immagini, simboli e legami che resistono ai cambiamenti temporali e naturali, nella quale l’umanità può scoprire la propria forma d’infinità, nella storia e nella natura. È questo il presupposto teorico della «profonda magia»14, che consiste nel «saper trarre il contrario dopo aver trovato il punto de l’unione»15, agendo sul molteplice per ricondurlo nuovamente all’unità. Da questa prospettiva di ricerca emerge come la riflessione di Bruno sul vinculum incarni la possibilità di pensare natura e cultura senza separazioni, ma l’una come originata a partire dall’altra. La dimensione antropologica e politico-civile, la storia e il mondo umano è parte integrante della storia naturale e non separabile da questa. Le nazioni, i popoli, gli 14 15
Causa, p. 295. Ibidem.
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Stati, le repubbliche, le diverse forme di civiltà rientrano all’interno della stessa alternanza della vita naturale, nel ritmo eterno della metamorfosi delle forme finite, del processo di generazione e rigenerazione degli elementi, di ciò che Bruno definisce la vicissitudine universale. Questa non delimitazione dello spazio politico, la sua apparente non separabilità da quello della physis costituisce uno dei nodi maggiormente problematici. Proprio il vinculum assume in questa prospettiva una funzione necessaria: esso si pone come categoria di passaggio o legame tra l’ambito della riflessione naturalistica e quella politica, tra natura e cultura. Quest’ultima non rappresenta un salto dalla prima, ma si realizza soltanto attraverso la conoscenza della physis e dal riconoscimento dell’eterno, universale e permanente vinculum amoris che essa incarna. Ripercorrere l’elaborazione della nozione di vinculum e il suo sviluppo permette, dunque, di mettere a fuoco un punto nodale della nolana filosofia, dal legame ontologico e cosmologico tra materia e forma, tra l’infinità di Dio e l’infinità dell’universo, al vincolo civile, strumento di azione sul piano politico. La riflessione naturalistica, politica e antropologica di Bruno sul vinculum e sul tema del vincire si rivela un momento originalissimo sia nel contesto delle filosofie del Rinascimento, sia in rapporto al sorgere della modernità. Egli apre all’esigenza delle scienze moderne d’indagare e comprendere i fenomeni naturali a partire da un principio d’omogeneità e uniformità del reale, attraverso un linguaggio che non faccia ricorso al dogma o al miracolo nella comprensione della realtà fisica, investigando la natura al di là del principio d’autorità e distinguendo l’ambito proprio della teologia da quello filosofico e scientifico. Ciò può avvenire proprio a partire dalla nuova prospettiva inaugurata dal Nolano, quella cioè del riconoscimento dell’unicità della sostanza nell’universo, nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente grande. Tuttavia, l’immagine bruniana della natura come legame indissolubile di forma e materia pone una distanza tra quanti in quegli stessi anni tentavano un’osservazione meccanicistica e materialista sia del mondo fisico che di quello storico, isolando l’aspetto quantificabile, calcolabile e misurabile del reale dalla sua controparte qualitativa. Se la natura è per Bruno continua processualità in cui materia e forma sono indissolubilmente legate poiché unum et idem, ciò vuol dire che l’idea della perfetta
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coincidenza e identità tra il linguaggio matematico e la physis non è che un’illusione: la natura non può essere ridotta a puro meccanicismo. La sola matematica in grado di misurare e comprendere la natura dovrebbe poter concepire nella realtà numerica sia il dato quantitativo che quello qualitativo, così da esprimere al proprio interno il vincolo indissolubile e originario di materia e forma. In altre parole, l’osservazione fisica della natura non può prescindere dal legame con la metafisica intesa come l’esigenza di una prospettiva d’ordine formale non limitata al solo dato quantitativo, vale a dire a una comprensione dell’immaterialità della realtà e della vita, della sua irriducibilità a pura meccanica dei corpi. Su questi passaggi è possibile registrare la distanza che intercorre tra la filosofia di Bruno e la modernità. Ma se può sembrare che la nolana filosofia sia lontana e opposta alla considerazione moderna, tanto del mondo fisico quanto di quello storico, della natura e dell’essere umano, ci si potrebbe chiedere se la riflessione naturale, politica e antropologica di Bruno, con la sua teorizzazione dell’infinito in senso ontologico e cosmologico, con la rivendicazione della libertà filosofica, scientifica e religiosa, non costituiscano una forma di modernità differente e altra da quella che definiamo abitualmente come tale. Se la nozione di modernità non equivale esclusivamente a una periodizzazione storiografica, ma anche a una categoria problematica che marca costantemente un giudizio di valore su ciò che la precede, una rilettura delle periodizzazioni storiografiche che sappia intenderle non alla stregua di realtà ontologiche, ma osservando la circolazione delle idee e dei saperi da un’epoca all’altra, seguendone continuità e discontinuità, evoluzioni e contaminazioni, consentirebbe di abbandonare una contrapposizione tra Antichi e Moderni compresa in termini di vincitori e vinti. Ciò permetterebbe di rimettere in discussione il mito di una nascita della modernità, di una sovrapposizione della nostra idea di moderno al reale corso degli eventi storici, risultando proficua a una più ampia comprensione, non soltanto storiografica, ma anche del nostro tempo. Parigi, febbraio 2020
Ringraziamenti
Questo lavoro è il frutto dell’approfondimento e dello sviluppo della mia tesi, discussa nel 2017 a Lecce, al termine di un Dottorato in co-tutela tra l’Università del Salento e l’Université de Paris Sorbonne, nonché delle ricerche successivamente condotte all’Università Federico II di Napoli, all’Istituto Italiano per gli Studi Storici e all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Desidero, perciò, ringraziare chi, a diverso titolo, ha supportato in questi anni il mio lavoro: Fabrizio Lomonaco, per aver letto il testo sin dalle prime fasi e per averlo voluto presentare, per aver sempre promosso i miei studi e le mie ricerche e per aver reso possibile la pubblicazione di questo volume; Maurizio Cambi, per le letture, i suggerimenti e il confronto durante la redazione della tesi; Marie-Dominique Couzinet, per avermi incoraggiato affinché i miei studi diventassero ricerche; Vincent Carraud e Franco A. Meschini per la disponibilità con cui hanno diretto la tesi; Giulia Belgioioso, Igor Agostini e Maria Cristina Fornari, insieme ai docenti e ai colleghi della scuola di dottorato in Forme e storie dei saperi filosofici e del Centro di studi cartesiani E. Lojacono dell’Università del Salento, per avermi consentito di proseguire le mie ricerche dopo gli
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studi universitari e per la libertà con la quale ho potuto lavorare tra Parigi e Lecce. La mia gratitudine va a Tristan Dagron, per la possibilità di continuo confronto, per avermi lasciato intravedere linguaggi e approcci senza i quali questo lavoro non sarebbe stato tale, per la curiosità e gli interessi che questo dialogo ha suscitato in me; ad Antonella Del Prete, per la presenza, il tempo, le continue letture, i preziosi suggerimenti e l’attenzione con cui ha seguito e supportato il mio lavoro; alla comunità scientifica dei docenti e dei colleghi dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Fiorinda Li Vigni e Geminello Preterossi, Marco Ivaldo e Wolfgang Kaltenbacher per la libertà di pensiero e di parola che ho potuto incontrare nelle aule di Palazzo Serra di Cassano, per avermi consentito di proseguire il mio lavoro, per aver accolto la pubblicazione di questo volume. Desidero, inoltre, ringraziare, Maria Cristina Pitassi e Daniela Solfaroli Camillocci per avermi accolto durante i soggiorni all’Institut d’Histoire de la Réformation dell’Université de Genève, consentendomi d’intravedere nuove prospettive e linee di ricerca. Tra le tante persone, i colleghi e gli amici con cui ho potuto condividere soddisfazioni e delusioni, gioie e frustrazioni, desidero ringraziare Hélène, Ilaria, Vito e Rosario, per avermi sempre accolto; Federico, per il suo vizio di dire sempre la verità. Questo libro sarebbe rimasto soltanto un proposito senza il sostegno di alcune persone a cui va la mia più profonda gratitudine: a mia madre, Valeria, e a mio padre, Antonio, per avermi fatto scoprire, sin da bambino, cosa fossero un archivio e una biblioteca, per il loro continuo sostegno in ogni mia scelta; a mio fratello, Marcello, a cui rubavo vestiti e idee, per avermi sostenuto nel cercarne di mie; a Nagore, per la sua concreta serenità e per il dono di Luka, nuova vita. A Cecilia, incontrata grazie a Bruno, per il sorriso e l’infinita tenerezza con cui illumina i miei giorni.
I. Δεσμóς, σύνδεσμος – vinculum, nexus. Appunti per una storia terminologica e concettuale
1. Il vinculum tra magia, ontologia e cosmologia Qual è il posto che la nozione di vinculum occupa nel pensiero di Bruno? È questo un elemento centrale della sua filosofia o esclusivo della riflessione sulla magia sviluppata nei suoi ultimi scritti? Seppur l’utilizzo del lemma vinculum sia raramente rilevabile nelle opere precedenti gli scritti magici, ciò tuttavia non corrisponde necessariamente all’assenza della nozione nel senso di legame e relazione, che appare, invece, largamente presente attraverso il ricorso a una serie di sinonimi, latini e volgari, quali nexus, connexio, unum-unitas, vinto, laccio, unione, legare. A una prima lettura, l’utilizzo del lemma vinculum potrebbe sembrare strettamente connesso alle fonti che Bruno raccoglie nel De magia mathematica, primo fra gli scritti magici. Questo si presenta come una raccolta di testi ricavati per la gran parte dal De occulta philosophia di Cornelio Agrippa von Nettesheim, dal De mineralibus e dal Liber secretorum dello Pseudo Alberto Magno, dalla Theologia Platonica e dal De vita di Marsilio Ficino, dalla Steganografia di Giovanni Tritemio. Il De magia mathematica assume una rilevanza particolare, sia per gli
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elementi raccolti, sia per il ruolo che riveste nella redazione dei testi successivi. Come rileva Simonetta Bassi, questo lavoro rappresenta una «personale antologia»1, una raccolta di citazioni, annotazioni, appunti schedati e classificati, temi e problemi che Bruno riprende e rielabora in una riflessione sulla magia che progressivamente si allontana, nei lavori successivi, dalle fonti raccolte. E, in effetti, il problema dei vincula con cui attrarre e legare è particolarmente presente in una di queste fonti, nel XXXIII capitolo del terzo libro del De occulta philosophia di Agrippa, dedicato ai vincoli degli scongiuri con cui, nella magia cerimoniale, è possibile dominare o allontanare gli spiriti maligni2. Tuttavia, la prospettiva demonologica nella quale Agrippa colloca il ricorso alle diverse specie di vincula, non corrisponde all’operazione compiuta da Bruno: se questa è presente nel De magia mathematica, radicalmente diverso è, invece, il contesto in cui la riflessione sul vinculum è tracciata dal De magia naturali sino al De vinculis passando per le Theses. Tra il De magia mathematica e il successivo De magia emergono differenze rilevanti. Il titolo di questo scritto fu attribuito dagli editori ottocenteschi ricavandolo dalle prime parole del testo3. Come rilevava Tocco, Bruno si riferisce a esso nel De vinculis con il titolo De naturali magia4 e nel De minimo5 con quello di De physica magica. In questo scritto, come nei successivi, il Nolano S. Bassi, Le parole della magia, in «Physis», vol. XXXVIII, 1-2 (2001), p. 100. C. Agrippa, De occulta philosophia libri tres, V. Perrone Compagni (a cura di), Leiden-New York-Köln 1992, lib. III, cap. 33, pp. 501-502: «Vincula autem, quibus alligantur spiritus obtestanturque vel exterminantur, triplicia sunt. Quaedam eorum enim sumuntur ex mundo elementali, ut puta quando adiuramus spiritum aliquem per res inferiores et naturales illi cognatas aut adversas, quatenus illum invocare vel exterminare volumus […]. Secundum vinculum sumitur ex mondo coelesti, quando videlicet adiuramus per coelum, per stellas, per horum motus, radios […]. Tertium vinculum ipsum est ex mundo intellectuali atque divino, quod religione perficitur, ut puta cun adiuramus per sacramenta, per miracula, per divina nomina, per sacra signacula et caetera religionis mysteria». 3 Cfr. F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, «Atti della Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli», XXV, Napoli 1891, p. 101. 4 Cfr. De vinculis, p. 492. 5 Cfr. De minimo, p. 210. 1 2
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esclude dal suo campo d’indagine la considerazione sull’esistenza dei demoni e sul loro intervento nell’azione del mago: pur collocando le realtà spirituali all’interno dell’ordine naturale, egli rifiuta quelle forme di magia fondate sull’invocazione di potenze demoniche, rielaborando una magia naturale saldamente ancorata alla dimensione fisica, alla teoria del moto e dei movimenti di attrazione tra gli atomi, gli elementi e i corpi, nella quale include anche quelle, comunemente considerate occulte, tra il ferro e il magnete, tra l’ambra e la paglia. I due capitoli De vinculis spirituum6 e De analogia spirituum7, dedicati alle capacità vincolanti degli spiriti dei demoni, alla loro classificazione e gerarchizzazione, in cui Bruno elenca circa venti specie di vincoli ripresi prevalentemente da Agrippa, appaiono nell’architettura e nella prospettiva generale del De magia particolarmente problematici. Già Tocco osservava come «questi due capitoli sono una stonatura nella Magia che dal Bruno stesso è chiamata naturale»8, segnalando che le battute iniziali del primo di essi, con cui l’autore si riferisce a precedenti passaggi del testo9, non rimandano a nessun luogo del De magia, quanto piuttosto a questioni presenti nel De magia mathematica10. L’ultima sezione dello scritto comprende cinque capitoli in cui egli espone altrettante specie di attrazioni che, però, non rientrano nelle tipologie dei vincula descritti in precedenza. Il primo di questi capitoli riprende il titolo del precedente De vinculis spirituum, ma riporta l’aggiunta «de eo quod est ex triplici ratione agentis, materiae et applicationis»11. Si tratta, dunque, di due sezioni che pur avendo in parte lo stesso titolo trattano di questioni differenti. Se la prima affronta il problema dei legami provenienti dall’azione degli spiriti dei demoni, in quest’ultima l’orizzonte teorico tracciato da Bruno muta radicalmente: come segnala Bassi, «dai vincoli degli spiriti dei demoni si passa, infatti, a trattare dei principi di azione e passione, cioè delle forme di applicazione della De magia, pp. 222-232. Ivi, 232-250. 8 F. Tocco, Le opere indite di Giordano Bruno, cit., p. 101. 9 De magia, p. 222. 10 De magia math., pp. 16, 18. 11 De magia, p. 250. 6 7
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magia puramente naturale»12. Da una considerazione del problema del vincire legato a potenze sovrannaturali, a una comprensione e possibilità di questo come inserito in un ordine fisico non più occulto: è questo il passaggio a cui assistiamo nelle pagine del De magia. In questo scritto Bruno traccia una prima presentazione dei vincoli che derivano dal gusto, dall’udito e dalla vista, fino a quelli legati alla fantasia e alla facoltà cogitativa13. Le cinque tipologie di vincoli esposte in chiusura costituiscono elementi elaborati in autonomia rispetto alle fonti utilizzate nel De magia mathematica. Nel De magia sono assenti, ad esempio, gli elenchi dei demoni e degli angeli o prìncipi esposti nello scritto precedente14, così come le cerimonie e i tempi per compierle, i caratteri e le lettere divine da utilizzare nelle invocazioni magiche15. Allo stesso modo, Bruno evita qui di condurre un esame approfondito della magia nera questione cui era dedicato, invece, ampio spazio nel De magia mathematica. Nella struttura di questo scritto i riferimenti alle forme deviate di magia scompaiono o assumono una rilevanza minore rispetto al precedente. Dall’esame comparato tra il De magia mathematica e il De magia naturali emerge il tentativo di neutralizzare alcuni dei principi costitutivi della magia occulta, come la possibilità di agire su elementi naturali in cui siano racchiuse particolari proprietà, o l’invocazione di intelligenze superiori attraverso il ricorso a preghiere, cerimonie e sacrifici, così che il mago possa farsi vaso e strumento della potenza invocata, sia essa angelica o demoniaca. Bruno cerca di ricondurre nell’ambito della filosofia naturale ciò che nelle sue fonti compariva legato all’occulto16. Nella riformulazione del materiale raccolto nel De magia mathematica, egli ripensa e adatta la riflessione sulla magia e il tema del vincire alla prospettiva ontologica, cosmologica ed etico-politica tracciata quasi dieci anni prima sia nelle opere latine, sia in quelle volgari: un S. Bassi, L’arte di Giordano Bruno. Memoria, Furore, magia, Firenze 2004, p. 107. Cfr. De magia, pp. 250-284 14 De magia math., pp. 12-20, pp. 26-48. 15 Ivi, p. 20. 16 Cfr. S. Bassi, Le parole della magia, cit., pp. 102-105. 12
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processo di acquisizione delle categorie concettuali ricavate dalle sue fonti, manipolate e riadattate a una struttura fisica e metafisica già esistente. È questa la probabile ragione delle modifiche e delle distanze riscontrabili tra il De magia mathematica e il De magia naturali. Dal confronto tra i primi due scritti magici e delle fonti raccolte nel primo di essi, la philosophia occulta di Agrippa sembra rivelarsi una fonte soltanto parziale. Oltre che in Agrippa, la nozione di vinculum è largamente presente anche nella Theologia Platonica di Ficino, laddove il termine denota il ruolo intermedio che l’anima razionale occupa all’interno della gerarchia degli esseri o scala naturae: «rationalis animae genus, inter gradus huiusmodi medium obtinens, vinculum naturae totius apparet, regit qualitates et corpora, angelo se iungit et deo, ostendemus id esse prorsus indissolubile, dum gradus naturae connectit»17. L’anima razionale è il medio, il legame che unisce le realtà inferiori e materiali a quelle superiori, immateriali, divine, operando come un laccio, un nodo indissolubile che garantisce la comunicazione tra i diversi gradi dell’essere e del cosmo. Allo stesso modo, essa è il vincolo tra l’eterno e il temporale, tra il finito e l’infinito: «inter quae sunt aeterna solum atque illa quae solum sunt temporalia esse animam quasi quoddam vinculum utrorumque»18. Legame indissolubile tra i diversi gradi dell’essere, l’anima razionale è «nodus et copula mundi»19, connessione e concatenazione dell’essere e del mondo, volto di tutte le cose. In quanto vinculum mundi, essa rappresenta la catena dell’essere, quel legame che stringendo e mettendo in comunicazione le realtà superiori a quelle inferiori garantisce l’indissolubilità dell’essere e del cosmo. Il vinculum assume qui un senso e una significazione differenti da quelli sinora osservati, la cui declinazione costituisce un fondamentale riferimento per la riflessione bruniana del Nolano. Seppur il nome di Ficino compaia
17 M. Ficini Theologia Platonica sive de immortalitate animarum, in Opera, Basilea 1576, vol. I, lib. I, cap. 1, p. 79. 18 Ivi, lib. III, cap. 2, p. 119. 19 Ivi, lib. III, cap. 2, p. 121.
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nelle opere bruniane solo in un caso20, questi rappresenta per il Nolano una celata ma costante fonte critica 21. Tuttavia, se nel Ficino della Theologia Platonica il vinculum mundi è incarnato dall’anima razionale, che nella scala verticale dell’essere unisce due realtà o due mondi differenti, quello materiale e finito a quello divino e infinito, per Bruno, invece, come vedremo, tale gerarchia ontologico-cosmologica è riformulata in un senso esclusivamente logico-gnoseologico. La nozione di vinculum possiede, inoltre, per il Nolano, un carattere non verticale ma orizzontale o omnidirezionale: il legame non è il termine medio tra i diversi gradi dell’essere, ma in quanto vinculum cupidinis, esso è totalmente immanente ad una natura in cui non sussistono più le precedenti gerarchie e le classiche separazioni ontologiche e cosmologiche tra mondo superiore o lunare e mondo inferiore o sublunare. Svanita la rappresentazione verticale dell’essere e di un cosmo geocentrico e finito, nell’universo descritto da Bruno la nozione del legame che stringe e unisce in un solo organismo la molteplicità e la contrarietà degli elementi presenti in natura muta radicalmente. Se in Ficino la rappresentazione verticale, scalare e gerarchica dell’essere, in cui l’anima razionale è medio e vincolo tra le realtà divine e quelle materiali, corrisponde all’immagine di un cosmo geocentrico e finito in cui l’uomo è centro e scopo della creazione, al contrario, Bruno rifiuta e decostruisce tale struttura sia in senso ontologico, sia cosmologico. Nell’universo infinito e acentrico della Cena22, del De la causa, principio et Uno23, del De l’ infinito universo e mondi24 e del De immenso et innumerabilis25, le nozioni di centro e periferia del cosmo De monade, p. 408. Cfr. A. Ingegno, Il primo Bruno e l’ influenza di Marsilio Ficino, «Rivista critica di storia della Filosofia», 2 (1968), pp. 149-170; cfr. R. Sturlese, Le fonti del Sigillus sigillorum del Bruno, ossia: il confronto con Ficino ad Oxford sull’anima umana, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXIII (1994), pp. 33-72. 22 Cena, p. 12, p. 76. 23 Causa, pp. 279-280. 24 Infinito, p. 354, p. 381. 25 De immenso, p. 30. 20 21
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sono relativizzate: ogni pianeta può essere centro in rapporto a uno e periferia in rapporto a un altro, a seconda del punto di osservazione dell’universo. Allo stesso modo, l’essere umano non è più il centro, lo scopo della creazione, l’anello intermedio, ma è posto al pari livello di tutti gli altri esseri naturali. Dal punto di vista dell’infinito svanisce la possibilità d’intravedere l’universo come una struttura gerarchica in cui la prospettiva umana è l’unica ammissibile. L’essere umano non è più il solo osservatore, ordinatore e costruttore dell’universo, ma è assorbito nell’immensità dell’universo infinito26, nella paura e nell’angoscia della perdita di senso che l’infinità porta con sé. Ciò scardina quell’unica visione del cosmo finita e rassicurante che la rappresentazione cristiana e aristotelico-tolemaica portavano con sé. Nella mutata rappresentazione ontologica e cosmologica bruniana, il vinculum non è più un legame verticale ma omnidirezionale, poiché la potenza erotica e unificante della natura fa sì che tutti gli elementi e i corpi si muovano associandosi per ricercare il simile e si allontanino per fuggire il contrario. Anche Ficino, come Agrippa, si rivela, nell’analisi del vinculum, una fonte critica soltanto parziale. Se si vuol ricostruire l’utilizzo e la centralità che questa nozione assume nella riflessione filosofica di Bruno, occorre procedere a ritroso nelle sue opere, rintracciando come e da dove si origini e attraverso quali fonti. Da un’approfondita e più ampia analisi emerge come quella di legame non rappresenti una nozione di carattere esclusivamente magico, ma particolarmente feconda nella tradizione filosofica e teologica antica, medievale e rinascimentale. Se è vero, come ha osservato Ilenia Russo27, che la riflessione bruniana sul vinculum maturi nel confronto con la letteratura magica ed ermetico-neoplatonica rinascimentale, occorre altresì osservare come essa sia centrale in molteplici ambiti disciplinari e in differenti fonti, alcune delle quali particolarmente presenti nella biblioteca ideale e materiale di Bruno. A tal fine, tenteremo di tracciare Infinito, p. 375. Cfr. I. Russo, vinculum, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, M. Ciliberto (direzione scientifica), Pisa 2014, vol. II, pp. 2054-2060. 26
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una ricostruzione di alcuni degli usi e delle significazioni della nozione di legame in tradizioni filosofiche e teologiche e in dirette e indirette fonti bruniane. 1. Δεσμός, σύνδεσμος. Prigioni dell’anima, catene dell’essere, legami del cosmo. La nozione di vincolo porta con sé una forma d’ambivalenza costitutiva. Il suo essere etimologicamente catena, carcere, prigione e, al tempo stesso, nodo, vincolo, legame, giuntura, è presente sia nel mondo greco, nei termini δεσμός e σύνδεσμος28, sia in quello latino, negli equivalenti vinculum e nexus29. Le significazioni della nozione che, a partire dal mondo greco, hanno trovato larga diffusione, prima in ambito romano, per essere poi inglobate nel contesto della patristica cristiana, e, infine, nuovamente trasposte e riformulate tra Medioevo e Rinascimento, sono molteplici e differenti. Tra queste, una prima significazione metafisico-teologica della nozione è quella che intravede nel corpo il δεσμ ωτήριον30, la catena, il carcere in cui l’essere umano è costretto a patire, incatenato a una dimensione mortale. L’idea del corpo-prigione è riscontrabile, come ha ricostruito Pierre Courcelle31, in una lunga tradizione interpretativa che trova le sue radici nell’Orfismo32 e un’ulteriore elaborazione in Platone33. Si tratta di un tema variamente declinato tanto tra i filosofi, quanto nella patrologia greca e latina, che ben si amalgama al tema della caduta e Cfr. H. Estienne, Thesaurus graecae linguae, Genève 1572, p. 961; cfr. W. Johann, Lexicon graecolatinum, Basilea 1537, pp. 469, 472; cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Paris 1968, t. 1, p. 269. 29 A. Calepinii Dictionarium, Genève 1553, p. 292. 30 Cfr. Platone, Cratilo, 400 c7; cfr. Id., Gorgia, 486 a9; cfr. Id., Leggi, X 909c 1. 31 Cfr. P. Courcelle, Connais-toi toi-même. De Socrate à Saint Bernard, «Études Augustiniennes», Paris 1975, pp. 295-324, 325-441. 32 Cfr. ivi, p. 346. 33 Cfr. F. Astius, Lexicon Platonicum sive vocum platonicarum, Lipasiae 1819-1838, vol. I, pp. 439-440, vol. III, p. 320. 28
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del peccato originale. Proprio in questo senso, ad esempio, Agostino34 interpreta il tema del nexus, dei vincula, delle catena e dei nodi che chiudono l’anima nella prigione corporea35, come la conseguenza di una punizione inflitta all’umanità: tutti i mali inerenti alla condizione umana provengono dalla condanna di Adamo. Il tema del corpo-prigione, della catena a cui l’anima è legata in modo permanente durante la vita terrena, è comune anche alla letteratura ermetica36. Nel Corpus Hermeticum, secondo un vocabolario proprio alla tradizione platonica37, l’essere umano è spinto a lacerare la tunica che lo riveste, il tessuto dell’ignoranza, la catena della corruzione, il corpo e i sensi, prigione e tormento interiore. È secondo questa significazione che nel trattato VII della versione latina, intitolato Quod summus malum est hominibus ignorare Deum, Ficino traduce il greco «τόν τής φθορᾶς δεσμόν» con il corrispettivo latino «corporis vinclis»38, mostrandosi fedele proprio a quella lunga tradizione cristiano-neoplatonica che aveva interpretato la corporeità come il limite materiale dell’anima, sua inscindibile catena mortale. Una seconda significazione della nozione, contenuta nel termine δεσμ ός, è rintracciabile nell’analisi del problema dell’essere come tramandato dai frammenti del Περί Φύσεως di Parmenide. L’Eleate ricorre all’immagine dei «πείρασι δεσμῶν»39, dei grandi o possenti legami che P. Courcelle, Connais-toi toi-même. De Socrate à Saint Bernard, cit., p. 313. Cfr. Sancti Aurelii Augustini Confessionum Libri Tredecim, in Patrologia latina (d’ora in avanti PL), J.-P- Migne (a cura di), Parisiis 1841, vol. XXXII, t. 1, lib. VI, cap. 12, p. 730; ivi, lib. VIII, cap. 5, p. 753; ivi, lib. III, cap. 1, p. 683; ivi, lib. III, cap. 8, p. 690; ivi, lib. IV, cap. 6, p. 698; ivi, lib. VII, cap. 7, p. 739; ivi, lib. VIII, cap. 6, p. 754; ivi, lib. VIII, cap. 9, p. 760; ivi, lib. IX, cap. 1, p. 763. 36 Cfr. P. Courcelle, Connais-toi toi-même, cit., pp. 349-350. 37 Cfr. Platone, Fedone, 67 d. 38 Cfr. M. Ficini, Mercurij Trismegisti Pymander, de potestate et sapientia Dei item Asclepius voluntate Dei, in Opera, cit., vol. II, cap. VII, p. 1845; cfr. Id., Mercurii Trismegisti Pimander sive de potestate et sapientia Dei, testo greco a fronte, M. Campanelli (a cura di), Torino 2011, p. 47. 39 Parmenide, Frammenti B 8.26-30 Diels-Kranz, in I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti della raccolta Hermann Diels e Wather Kranz, G. Reale (a cura di), Milano 2006, p. 490. 34 35
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mantengono l’essere immobile e immutabile, permanentemente identico a sé stesso, ingenerato, unigenito, senza principio né fine, essendo state scacciate da esso nascita e morte, in modo che mai possa mutare divenendo altro da ciò che è. L’essere è una sfera rinchiusa dalla Necessità inflessibile nei legami del limite, «ἐν δεσμοῖσιν ἔχει»40, affinché non sia senza compimento, né manchevole di nulla. Questa limitazione non è, però, l’effetto di un’immobilità imposta dall’esterno. Essa è, piuttosto, il risultato di un’autolimitazione necessaria all’affermazione dell’identità dell’essere. Immutabilità, identità, atemporalità, permanenza, sono gli attributi dell’immobilità in cui la necessità mantiene l’essere saldo, completo, compiuto e inalterabile, per mezzo dei grandi e possenti legami del limite. Essere immobile e immutabile che non è qui astratta ed esclusiva rappresentazione logica e metafisica, ma la stessa physis nel suo intimo, continuo e infinito dispiegarsi senza disperdersi: una natura al cui interno vi è movimento, ma che non si esaurisce in esso, né tantomeno ne è affetta. La nozione di legame e d’immobilità dell’essere che emerge dal poema parmenideo rimanda, come ha osservato fra gli altri Barbara Cassin41, sia per ragioni stilistico-formali, sia per motivi tematici e di contenuto, a un altro poema e a un’altra immobilità: quella di Ulisse, nel racconto dell’Odissea, che per sua volontà e su consiglio di Circe, ordina ai suoi compagni di legarlo all’albero della nave con un «δεσμῷ δήσατ»42, un nodo difficile o doloroso, affinché possa lui solo ascoltare il canto delle Sirene rimanendo piantato lì, saldo al suolo, e di legarlo con dei «δεσμοῖσι π ιέζειν»43, dei nodi ancor più numerosi e stretti, qualora comandi di essere slegato.
Ibidem, B 8.31-34 Diels-Kranz. B. Cassin, L’effet sophistique, Paris 1995, pp. 34-40; Id., Présentation, in Parménide, Sur la nature ou sur l’ étant. La langue de l’etre?, B. Cassin (a cura di), Paris 1998, pp. 48-60. 42 Cfr. Omero, Odissea, introduzione e commento di A. Heubeck, trad. it. G.A. Privitera, Milano 1983, vol. III, lib. XII, 160, p. 156. 43 Ibidem. 40 41
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Il linguaggio e l’esametro a cui Parmenide ricorre nel suo poema sono direttamente ripresi dai poemi omerici. Questi costituiscono il canone e il modello, il vocabolario e il lessico di riferimento di un nuovo linguaggio filosofico poeticamente espresso. Come notava Allan. H. Coxon44, nei circa centocinquanta versi pervenutici del Περί Φύσεως, soltanto un termine ogni tre non è omerico; di questi cinquantacinque, tutti, eccetto cinque, sono derivati o composti da termini presenti in Omero45. Non si tratta di semplici parallelismi o del solo recupero dello stile omerico, quanto piuttosto di una vera e propria riscrittura. Se Omero è colui che ellenizza, che insegna a parlare e ad agire in greco, Parmenide è colui che ne raccoglie l’eredità, il linguaggio, lo stile, il verso. Egli, osserva ancora Cassin, è questa stessa eredità, colui che ha preso il posto d’Omero, raccontando il suo poema come la nuova o l’ultima Odissea, per cantare non più le imprese di Ulisse, ma un nuovo e ultimo eroe, la natura o l’essere46. Anche dal punto di vista tematico e contenutistico, l’Odissea offre a Parmenide la sua materia. Ma l’Eleate riprende il poema omerico donandogli una nuova significazione, interpretandolo e utilizzandolo come un bacino di termini e concetti filosofici. Ecco, allora, che l’autolimitazione di Ulisse, la sua immobilità forzata, violenta, esterna e, al tempo stesso, interna, voluta e ordinata ai suoi compagni, offre la possibilità di pensare l’altra immobilità, quella della natura o dell’essere, come una sfera rinchiusa dalla necessità, Ἀνάγκη, nodo, nexus infallibile e potente in grado d’incatenare nei legami del limite. Attraverso il racconto omerico, riletto filosoficamente da Parmenide e trasposto nel poema dell’essere o della natura, il δεσμός, il legame, il vincolo, la catena, assume una significazione ontologica, particolarmente rilevante nella successiva tradizione platonica e cristiano-neoplatonica. L’accezione parmenidea del δεσμ ός, autolimitazione della sfera dell’essere o natura, sembra far da sfondo a una terza significazione A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Assen 1986, p. 7. B. Cassin, Présentation, in Parménide, Sur la nature ou sur l’ étant. La langue de l’etre?, cit., p. 48. 46 Ivi, p. 49. 44
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ontologica e cosmologica della nozione di vincolo, qual è quella riscontrabile nel Timeo di Platone. Esponendo nella prima parte del discorso di Timeo come il cosmo includa in sé la totalità dei quattro elementi fisici, Platone osserva che, affinché due cose si compongano bene e in maniera bella, è necessario che vi sia tra loro un «δεσμὸν ἐν μέσῳ», un legame nel mezzo che congiunga l’una con l’altra. Il più bello dei legami, «δεσμῶν δὲ κάλλιστος», è infatti quello che di sé stesso e delle cose legate, συνδούμενα, fa una cosa sola. Solo ciò compie la bontà, la bellezza, la proporzione47. È questa stessa ragione a determinare, qualche riga oltre, la scelta del Demiurgo di non voler dissolvere quanto è stato legato bene e in maniera bella, poiché sciogliere ciò che è buono, bello e proporzionato è da malvagi. Gli dei, i pianeti o corpi vitali, il cosmo intero, hanno vita poiché sono stati avvinti dal Demiurgo con dei vincoli vitali, «δεσμοῖς τε ἐμψύχοις σώματα δεθέντα ζῷα ἐγεννήθη»48. In quanto generati, essi non sono eterni, ma dissolubili; tuttavia, non saranno disciolti, poiché la volontà del Demiurgo è un legame maggiore e più forte di quello col quale sono stati generati49. Il δεσμός con cui il Demiurgo tiene legati a sé gli dèi, i pianeti e il cosmo, ne impedisce la dissoluzione, garantendone l’unità e l’eternità. Quest’unità cosmica, questo δεσμ όν indissolubile, si riflette in ogni grado della realtà molteplice. Su ordine e a imitazione dell’azione del Padre e Artefice, gli dèi, prendendo a prestito particelle dei quattro elementi e congiungendole tra loro, legano i singoli corpi alle anime immortali. Questi legami non sono però indissolubili, come quelli con cui sono stati avvinti gli dèi e i pianeti, ma invisibili per la loro piccolezza e dissolubili50. Allo stesso modo, quest’unità cosmica del molteplice si riflette nella costituzione dei corpi, le cui parti – sangue, vene, nervi, ossa e midollo – sono tutte legate tra loro. Se giovani i corpi conservano la loro costiPlatone, Timeo, 31b-34c. Ivi, 38e-39a. 49 Ivi, 41a-41c. 50 Ivi, 42e-43a. 47
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tuzione originaria e possiedono una connessione vigorosa tra i singoli elementi, mantenendosi vivi, saldi e resistenti agli elementi esterni, così non è in vecchiaia. Questa non è che il deperimento del corpo inteso come l’allentarsi, il venir meno e il disciogliersi dei suoi legami originari che, non resistendo al sopravvento di elementi esterni, si dividono e si sciolgono fino a provocare la morte, liberando le catene dell’anima51. Il δεσμός non è, in queste pagine del Timeo, semplicemente l’espressione di un legame particolare, singolo e individuale. Esso è, invece, la rappresentazione cosmica, proporzionata, armoniosa e unitaria di una realtà molteplice, strutturata in una serie inestricabile di numerosi e indefiniti δέσμοι, di vincoli, di catene e nodi intrecciati e connessi gli uni agli altri: dal legame indissolubile con cui il Demiurgo stringe a sé gli dèi e i pianeti, garantendo l’eternità del cosmo, ai legami temporanei con cui le anime sono contenute nei corpi, fino ai nodi e alle giunture che mantengono i corpi vivi. Il δεσμός è, in altre parole, l’espressione naturale dell’unità del molteplice, sinonimo di bontà, bellezza, proporzione e armonia, ragion per cui esso è indissolubile. Questa realtà, in cui ogni cosa è proporzionalmente legata al suo simile e contrario, intimamente concatenata, necessita, per essere appresa e compresa correttamente, di un metodo adeguato che sappia riflettere la continua dialettica dell’identificarsi e del trapassare dell’uno nel molteplice e viceversa, delle parti nel tutto. A coloro che riflettano con metodo sarà, allora, manifesto come un «δεσμὸς […] πεφυκὼς πάντων τούτων»52, un solo legame naturale sia insito in tutte le cose. Legame, unità, concatenazione presente in ogni manifestazione della realtà, in ogni figura e composizione numerica, in ogni struttura armonica: dal mondo naturale, con le rivoluzioni degli astri alla matematica, dalla musica alla grammatica. Nel Filebo Platone osserva, per bocca di Socrate, come la grammatica sia la scienza in grado di riconoscere il legame unico – «τοῦτον τὸν δεσμὸν αὖ λογισάμενος»53 – che lega tra loro le lettere dell’alfabeto. Nella prospettiva logico-linguistica e retorica, il Ivi, 81d-81e. Id., Epinomide, 991e-992a. 53 Id., Filebo, 18c-18d. 51
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δεσμ ός si riflette nel λέγειν, incarna cioè la congiunzione e la giuntura
tra le lettere e le parole, tra le parti della frase e del discorso, così come tra le immagini e i pensieri, configurandosi come ciò che ne garantisce l’ordine, l’armonia, la proporzione, la bellezza e l’efficacia. Conoscere corrisponde alla capacità di riconoscere il legame profondo insito in ogni cosa, in modo da saper e poter ricondurre l’uno ai molti e viceversa. Il δεσμ ός, il legame, agisce in queste significazioni platoniche in senso cosmologico, ontologico e gnoseologico. La generazione del cosmo e della φύσις, con tutte le sue manifestazioni, e la concatenazione dell’essere, coincidono fino a fondersi e a confondersi l’una nell’altra. Il vincolo è ciò che lega cielo e terra, sensibile e soprasensibile, mondo superiore e inferiore, umano e divino, finito e infinito, unità e molteplicità, l’anello di congiunzione che tiene unito il cosmo e, al tempo stesso, garantisce la comunicazione tra piani diversi dell’essere. 2. Vinculum, nexus. Catene del debito, vincoli di perfezione, nodi d’amore La nozione di legame nel mondo latino proviene da lontano. Nel diritto romano delle XII tavole, questa è originariamente associata al nexum, il vincolo di fede e di parola tra creditore e debitore: «cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupasit, ita ius esto»54. Si tratta di una delle più antiche forme di obbligazione non contrattuale, fondata sul rituale detto per aes et libram, con cui il creditore, tenendo nelle proprie mani una certa quantità di bronzo e pronunciando di fronte a cinque testimoni una damnatio, dichiarava l’entrata in vigore del nexum55. Il debitore era così vincolato a lavorare al servizio del creditore fino al rimborso del debito contratto.
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p. 23.
P.F. Girard, Textes de droit romain, vol. II., Les lois des Romaines, Napoli 1977,
Cfr. H. Lévy-Bruhl, L’act «per aes et libram», in Nouvelles études sur le très ancien droit romain, Paris 1947, p. 97. 55
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Nonostante gli effetti concreti e le conseguenze materiali che potevano verificarsi dalla mancata restituzione del debito, il nexus si fondava esclusivamente sul rito e sulla parola. Questo non rappresentava, infatti, una necessità contrattuale, ma astratta o metafisica. Proprio in questo senso Henry Lévy-Bruhl, George Gurvitch e Paul Huvelin hanno interpretato questa forma d’obbligazione come ciò che permette di considerare le forme arcaiche del diritto romano in una dimensione magica e rituale56. Vi è magia nel nexum nella misura in cui vi è un potere, non contrattuale, che eccede il soggetto stesso e a cui quest’ultimo non può sottrarsi. La damnatio pronunciata dal creditore corrispondeva all’esercizio o all’atto di una pratica di potere essenzialmente magica57. La magia legata al nexum si configurava come un mezzo tecnico in grado di garantire un diritto, in un tempo in cui la contrattazione non implicava ancora un’obbligazione, ma era limitata alla forma di un impegno fondato innanzitutto sulla parola e sul rito. La magia rappresentava, così, la condizione richiesta per l’istituzione di un vincolo di diritto. Soltanto nel VI secolo d. C. la nozione di legame sarà pienamente espressa secondo la nota definizione raccolta nel Corpus iuris civilis giustinianeo, «obligatio est iuris vinculum quo, necessitate, adstringimur alicuius solvendae rei, secundum nostrae civitatis»58. Questi problemi non sono estranei a un’analisi della formulazione bruniana di vinculum. I concetti e il lessico del diritto romano non sono elementi confinati a un remoto passato, ma costituiscono una viva e, a volte, inconscia eredità terminologica e concettuale, rielaborata non solo nella letteratura giuridica, ma nel patrimonio teologico, politico e filosofico medievale e rinascimentale. Se in una prospettiva contemporanea questi ambiti del sapere possono essere distinti, sia in base al 56 Cfr. Id., Nexum et mancipation, in Quelque problème du très ancien droit romain. Essais de solutions sociologiques, Paris 1994, p. 138; cfr. G. Gurvitch, La magie et le droit, F. Terré (a cura di), Paris 2004; cfr. P. Huvelin, Le tablettes magiques et le droit romain, in Études d’ histoire du droit commercial romain, H. Lévi-Bruhl (a cura di), Paris 1929. 57 P. Huvelin, La magie et le droit individuel, in «L’année sociologique», 1905, p. 35. 58 Cfr. Iustiniani Institutiones, I, 3, 13; cfr. J. Gaudemet, Naissance d’une notion juridique. Les débuts de l’«obligation» dans le droit de la Rome antique, in «Archive de philosophie du droit», XLIV (2000), pp. 19-32.
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linguaggio proprio a ciascuna disciplina, sia alle categorie concettuali utilizzate, questa separazione non sembra poter valere pienamente precedentemente all’età moderna. Il linguaggio teologico, politico, giuridico e filosofico e i rispettivi limiti tra questi ambiti, rappresentano, almeno sino alla fine del XVI secolo, dei confini labili e non pienamente definibili, sovrapposti l’uno all’altro. Queste discipline si alimentano di uno stesso patrimonio terminologico e concettuale. Un caso particolarmente rilevante d’acquisizione e trasposizione di lessici e concetti provenienti dalla terminologia giuridica romana è legato al loro uso teologico. L’operazione compiuta dai padri latini della Chiesa si caratterizza per il recupero del patrimonio linguistico della cultura romana classica, riformulato ai fini della creazione di un apparato terminologico e concettuale cristiano. E ciò vale anche per l’utilizzo del termine vinculum e della significazione che questa assume nella patristica latina e, successivamente, nella teologia scolastica. La presenza del lemma vinculum è attestata in diversi luoghi della Vulgata di Girolamo, in particolare, nelle Epistolae di Paolo di Tarso. In Colossesi 3, 14, ad esempio, l’amore e la carità sono definite come «vinculum perfectionis»59 o «σύνδεσμος τῆς τελειότητος»60. Secondo lo stesso modello, in Efesini 4, 2-3, l’Apostolo definisce la carità il vinculum pacis in cui la comunità cristiana deve raccogliersi al fine di rimanere unita in un solo corpo: «solliciti servare unitatem spiritus in vinculo paci»61, o «τῷ συνδέσμῳ τῆς εἰρήνης»62. Si tratta di due passaggi centrali e particolarmente problematici nell’esegesi delle Epistolae paoline, specie nei testi di commento di due autori ben noti a Bruno. La formula vinculum pacis ripesa da Ef. 4, 3 è, ad esempio, largamente utilizzata da Agostino per definire lo Spirito Santo come legame che unisce non solo il Padre al Figlio, ma l’intera comunità cristiana in Paolo, Lettera ai Colossesi, 3, 14, in Nuovo Testamento, P. Beretta (a cura di), testo greco di Nestle-Aland, trad. interlineare A. Bigarelli, testo latino della Vulgata Clementina, testo italiano della Nuovissima versione della Bibbia, Milano 2005, p. 1661. 60 Ivi, p. 1660. 61 Ivi, p. 1597. 62 Ivi, p. 1596. 59
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un solo e unico corpo63. L’importanza che Agostino attribuisce a tale espressione è testimoniata dalla frequenza con cui essa compare nel corpus: circa centotrenta occorrenze, di cui la maggior parte rintracciabili negli scritti di condanna di letture considerate erronee o non ortodosse del cristianesimo64. Come lo Spirito Santo unisce il Padre e il Figlio in una sola sostanza, allo stesso modo, esso è vincolo di pace, in quanto raccoglie tra loro tutti i cristiani in una sola e unica Chiesa65. In questa prospettiva appare chiara la ragione per cui Agostino utilizzi l’espressione vinculum pacis in particolare contro Donatisti e Pelagiani: questi ultimi sono, infatti, responsabili di aver rotto l’unità della Chiesa e il vincolo della pace su cui essa era stata fondata66. Lo Spirito Santo non è solo vincolo di pace, ma anche vinculum perfectionis67 ripreso da Col. 3, 14. In quanto carità e amore, la terza persona rappresenta sia il legame teologico che permette di pensare l’identità tra il Padre e il Figlio, sia il vinculum pacis e perfectionis spirituale e civile su cui costruire l’unità religiosa e temporale delle comunità cristiane, nel solco del messaggio e dell’opera dell’Apostolo Paolo. L’utilizzo delle espressioni vinculum pacis e vinculum perfectionis assume sin da subito, nella storia del cristianesimo, un valore non esclusivamente teologico, ma civile, laddove i due ambiti non sembrano essere distinti. Un’accezione particolarmente significativa e originale di vinculum è quella che compare nella conclusione del libro I del Periphyseon di Cfr. Sancti Aurelii Episcopi Enarratio in Psalmum LIV in PL, cit., vol. XXXVI, t. IV, pars 1, 1865, p. 638; Id., Contra Faustum Manichaeum, Libri XXXIII, in PL, cit., vol. XLII, t. VIII, 1865, lib. XII, cap. 6, p. 262. 64 Cfr. R.J. Rombs, Vinculum pacis: Ef 4, 3 en la pneumatología de Augustín, in «Augustinus. Revista trimestral publicada por los Augustinos recoletos», LVI (2011), 220-221, p. 176. 65 Cfr. Sancti Aurelii Augustinii Sermo LXXI, in PL, cit., vol. XXXVIII, t. 5, pars 1, 1845, cap. 12, pp. 453-456. 66 Cfr. Id., Epistula XLIII, in PL, cit., vol. XXXIII, t. 2, 1865, cap. 8, p. 171; ivi, Epistola XLIV, cap. 5, p. 179; ivi, Epistola LXI, p. 229. 67 Cfr. Id., In Ioannis Evangelium tractatus centum viginti quatuor, in PL, cit., vol. XXXV, t. 3, 1864, tr. CXVIII, p. 1949; cfr. Id., Contra Cresconium grammaticum Partis Donati, in PL, cit., vol. XLIII, t. 9, 1865, lib. II, cap. 14, pp. 476-477; Id., De gratia et libero arbitrio, vol. XLIV, t. 10, pars 1, 1845, lib. I, cap. 17, p. 902. 63
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Giovanni Scoto Eriugena, laddove fornisce una definizione dettagliata dei termini connexio e vinculum: Primum igitur hanc amoris definitionem accipe. Amor est connexio ac vinculum, quo omnium rerum universitas ineffabili amicitia insolubiique unitate copulatur. Potest et sic definiri: Amor est naturalis motus omnium rerum quae in motu sunt, finis quietaque statio, ultra quam nullus creaturae progreditur motus68.
L’amor è per Eriugena la connexio di tutte le realtà dell’universo, il vinculum che tiene legata ogni cosa in un rapporto di amicizia universale e in un’unità indissolubile. L’amore è il moto naturale di tutte le cose, il fine, la quiete al di là della quale non procede nessuna cosa. Amore è Dio, luogo di tutti i luoghi, coincidenza di tutte le cose. Attraverso i termini e i concetti di amor, connexio e vinculum, Eriugena recupera un patrimonio terminologico e concettuale più prossimo all’accezione greca e platonico-parmenidea del δεσμός, unità del molteplice, coincidenza di ogni manifestazione dell’essere, piuttosto che la formulazione paolina e agostiniana. L’accezione eriugeniana di vinculum, amor e connexio, costituisce un supporto all’elaborazione dell’idea di coincidentia che sarà propria a Nicolò Cusano e a Bruno. Seppur non sappiamo quanto il Nolano possa aver avuto accesso a una lettura diretta del Periphyseon, quest’ultimo è, però ampiamente presente nell’opera di Cusano, diretta e centrale fonte bruniana69. La formulazione eriugeniana del vinculum, legame amoroso della molteplicità dell’esistente, rappresenta un fondamentale presupposto, nella cultura teologica e filosofica latina, all’immagine di Dio e della natura intese come connessione e coincidenza di tutte le cose.
68 G. Scoto Eriugena, Periphyseon, N. Gorlani (a cura di), Milano 2013, lib. I, 518c-519b, pp. 386-387. 69 Cfr. P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante». Bruno e Cusano, Roma 2006; cfr. C.M. Riccati, “Processio” et “explicatio”. La doctrine de la création chez Jean Scot et Nicolas de Cues, Napoli 1983.
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Oltre all’accezione agostiniana della terza persona quale vinculum pacis o perfectionis, profondamente ancorata alla lettura e al messaggio paolino, o di quella eriugeniana di Dio e della natura come luogo e amoris vinculum di tutte le cose naturali, è negli scritti dell’Aquinate che occorre ricercare un approfondimento maggiore della questione. Se Tommaso riprende in diversi luoghi della Summa Theologiae la declinazione paolina e agostiniana dello Spirito Santo come legame di carità o d’amore, necessario a ogni cristiano e all’intera comunità, anche più della stessa fede70, questa non rappresenta, tuttavia, la sola accezione. Negli Scripta super libros Sententiarum, riprendendo quanto affermato da Dionigi Areopagita a proposito della forza unitiva dell’amore, nonché la nozione di carità come vinculum pacis presente in Ef. 4, 3, egli scrive: Contra, Dionysius (De div. nom. 4): «amorem sive divinum sive angelicum sive intellectualem sive animalem sive naturalem dicamus, unitivam quamdam et concretivam accipimus virtutem». Sed spiritus sanctus est amor patris et filii. Ergo est unio ipsorum. Hoc etiam videtur ex auctoritate apostoli, Eph. 4, 3: «solliciti servare unitatem spiritus in vinculo pacis»; et ita amor habet rationem vinculi et nexus71.
Lo Spirito Santo è il vinculum o il nexus, l’amore e la forza unitiva che lega il Padre e il Figlio in una stessa sostanza. Tuttavia, qualche riga oltre, Tommaso pone una distinzione nel modo di considerare la terza persona. Lo Spirito Santo è persona in quanto procede, ma al tempo stesso, si configura come amore o vincolo per il modo della processione dal Padre al Figlio: «Ad primum ergo dicendum, quod ex ipsa processione spiritus sanctus habet quod procedat ut persona; sed ex modo processionis habet quod sit vinculum vel unio amantis Sancti Thomae Aquinati Summa Theologiae, in Opera omnia iussu impensaque Leonis XIII P.M. edita, Romae 1888-1906: cfr. I-II, t. VII, 1892, q. 107, a. 1 co., p. 279; cfr. ivi, II-II, t. VIII, 1895, q. 4, a. 7, ad. 4, p. 52; cfr. ivi, II-II, t. VIII q. 39 a. 1 co., p. 306; cfr. ivi, III, t. XII, 1906, q. 73, a. 3, ad. 3, p. 141. 71 Id., Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, Libro I, Distinzioni 1-21, introduzione di I. Biffi, trad. it. P.R. Coggi, con testo integrale di Pietro Lombardo, Bologna 1999, vol. I, d. 10, q. 1, a. 3, p. 598. 70
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et amati72. Ogni amore è vincolo o unione tra l’amato e l’amante, allo stesso modo in cui il Padre e il Figlio si amano tra loro. E ancora, interrogandosi nel primo libro, sulla scorta di Ugo di San Vittore, se la terza persona sia amore o persona, osserva come «omnis amor quo aliqui se diligunt, est vinculum vel nexus uniens eos73. Ogni amore rappresenta un vincolo e un nodo. Poiché lo Spirito Santo procede dal Padre al Figlio in quanto amore, esso non è soltanto persona, ma legame indissolubile sia in senso teologico in rapporto alla trinità, sia in senso ontologico in rapporto all’ambito del creato. Tra i Libri super sentantiarum e la Summa theologiae il vocabolario dell’Aquinate muta leggermente: l’utilizzo di vinculum scompare dalle definizioni attribuite alla terza persona, per lasciare il posto al solo nexus, in alcuni casi associato a unio74. Egli recupera un termine e una nozione originariamente estranei al lessico teologico, per formalizzare la relazione d’amore tra Padre e Figlio per mezzo dello Spirito Santo. Ma se in questi passi Tommaso sembra ispirarsi a una tradizione esegetica già consolidata, avvalorando la sua tesi con riferimenti a Ugo di San Vittore, a Dionigi Areopagita, ad Agostino o a Paolo, egli propone, invece, una definizione della terza persona che si spinge oltre queste fonti. Nell’introdurre l’espressione nexus amoris egli rimanda in diversi casi al De trinitate del vescovo d’Ippona75. Tuttavia, come rilevato da Christine Osborne76, nel testo agostiniano quest’espressione è assente. Tommaso rielabora la formulazione agostiniana dell’amore copulans, trasposta nella definizione dello Spirito Santo come unio vel nexus, forza o virtù che lega e stringe la prima e la seconda persona della Trinità in un’unione reale. Tuttavia, proprio questa trasposizione e questa formulazione della terza persona come nodo d’amore tra Padre
Ibidem. Ivi, Libro I, Distinzioni 22-48, vol. II, d. 32, q. 1, a, 1, pp. 396-398. 74 Id., Summa theologiae I, in Opera omnia, cit., t. IV, q. 37, a. 1, ad. 3, p. 388. 75 Cfr. ivi, I-II, in Opera omnia, cit., t. VI, q. 26, a. 2, p. 189; cfr. ivi, q. 28, a. 1, p. 197 76 C. Osborne, The nexus amoris in Augustine’s Trinity, «Studia Patristica», vol. XX, Leuven 1989, pp. 309-312. 72 73
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e Figlio, pongono una distanza tra l’interpretazione tomista e quella agostiniana della Trinità. L’utilizzo di vinculum, nexus e connexio sia nella definizione del ruolo intermedio della terza persona nel dogma trinitario, sia nella formulazione eriugeniana di Dio quale unione e legame universale, rappresentano due elementi significativi tra XV e XVI. Cusano, ad esempio, rielabora in diversi luoghi delle sue opere, il tema e il lessico eriugeniano della divinitas come coincidentia di tutte le cose, amor, unitas, nexus e connexio. Nel diciassettesimo capitolo del libro II del De coniecturis, egli definisce Dio un’infinita unità, uguaglianza e connessione: attributi questi che, soltanto in un essere assolutamente semplice quale egli è, coincidono: «Divinitas autem est unitas infinita, aequalitas atque conexio, ita quidem quod in unitate sit aequalitas et conexio, in aequalitate unitas et conexio, in conexione unitas et aequalitas»77. La connexio rende possibile l’unire, il legare, la perfetta eguaglianza e coincidenza del molteplice nell’unità divina. Essa è la manifestazione dell’amore con cui Dio, legando il creato e le creature, permette a ogni cosa, ognuna secondo il proprio grado e le proprie possibilità, di partecipare all’unità e alla perfezione divine. Ogni cosa è connessa e legata all’altra, al suo simile, al suo contrario e opposto, così come all’infinità di Dio e al suo infinito amore. Connexio e amor sono essenzialmente legati, posti l’uno e l’altro in relazione all’unità di Dio. Cusano identifica questi due termini, poiché entrambi rappresentano l’atto con cui la forza divina crea il mondo e lo mantiene eternamente legato: Elicis ex te ipso equidem hanc amoris conexionem firmissimam esse, quae est in unitate. Nam amorem conexionem et unitatem dicere vides. Unit enim amor amantem cum amabili. Non est autem amor seu naturalis conexio, qua caput corpori tuo unitur, alius amor quam ille, qui ex unitate atque aequalitate procedit78.
N. Cusano, De coniecturis, in Opere filosofiche, teologiche e matematiche, E. Peroli (a cura di), Milano 2017, lib. II, cap. 17, rr. 173-174, p. 508. 78 Ivi, lib. II, cap. 17, rr. 181-182, pp. 516. 77
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Riformulando la nozione di legame recepita dalla tradizione cristiano-neoplatonica, Dio è per Cusano unità e semplicità assolute, infinito amore, connexio naturale e cosmica. Questa non è, però, l’unica accezione relativa alla nozione di legame. Nel De possest egli recupera e riformula in senso platonico il lessico tomista utilizzato nella definizione della Trinità come unitrinitarietà di Dio, «absoluti posse quam nominamus patrem», del Verbo, «quam quia est ipsius nomunamus filius patris» e dello Spirito Santo «utriusque nexum, quam spiritum vocamus, cum naturalis amor sit nexus spiritalis patris et filii»79. Dio è per Cusano coincidenza di posse ed esse, o meglio, di posse facere e posse fieri, aequalitas di potenza e atto, di poter essere e poter essere fatto, colui il quale è in atto tutto ciò che può essere in potenza, possest. Cum igitur haec sit se habeant, quod deus sit absoluta potentia et actus utriusque nexus et ideo sit actu omne possibile esse, patet ipsum complicite esso omnia. Omnia enim, que quocumque modo sunt aut esse possunt, in ipso principio complicantur, et quaecumque creata sunt aut creabuntur, explicantur ab ipso, in quo complicite sunt80.
Se Dio è in atto tutto ciò che può essere, così non è per il mondo creato. La creazione e le creature sono escluse dall’uguaglianza e coincidenza riservate alla relazione tra Padre e Figlio, permanendo sempre uno scarto ontologico tra l’ambito finito della creazione e quello infinito della generazione. In quanto unitrinitarietà delle persone divine, Dio è relazione di consustanzialità e di co-eternità, assoluta uguaglianza e coincidenza di esse. Il rapporto tra il Padre e il Figlio per mezzo dello Spirito Santo rappresenta per Cusano il legame tra l’assoluta potenza, l’essere infinito e il loro nexus. Questi tre termini, posse, esse e nexus sono in Dio una stessa e identica cosa. Soltanto nella relazione trinitaria tra Dio e Cristo per mezzo dello Spirito Santo vi è coincidenza assoluta di potenza e atto e del loro nesso. 79 80
Id., Trialogus de possest, in Opere, cit., rr. 48-49, p. 1408. Ivi, rr. 8-9, p. 1358.
δεσμος συνδεσμος
– vinculum nexus
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Nam sine potentia et actu atque utriusque nexu non est nec esse potest quicquam. Si enim aliquid horum deficeret, non esset. Quomodo enim esset si esse non possest? Et quomodo esset si actus non esset, cum esse sit actus ? Et si posset esse et non esset, quomodo esset ? Oportet igitur utriusque nexum esse. Et posse esse et actu esse et nexus non sunt alia et alia. Sunt in enim eiusdem essentiae, cum non faciant nisi unum et idem81.
Cusano riafferma il dogma della Trinità attraverso una considerazione che lega il linguaggio tomista all’unitrinitarietà di Dio, sul modello della relazione platonico-parmenidea tra l’unità dell’essere e la molteplicità delle sue manifestazioni. In altre parole, in quanto struttura interna del divino, la potenza, l’essere e il loro nesso, si explicano nell’intero universo riflettendosi sotto forma di connexio, aequalitas e unitias: Quoniam unitas aeterna est, aequalitas aeterna est, similiter et connexio aeterna. Sed plura aeterna esse non possunt. Si enim plura essent aeterna, tunc, quoniam omnem pluralitatem praecedit unitas, esset aliquid prius natura aeternitate; quod est impossibile. Praeterea, si plura essent aeterna, alterum alteri deesset ideoque nullum illorum perfectum esset; et ita esset aliquod aeternum, quod non esset aeternum, quia non esset perfectum. Quod cum non sit possibile, hinc plura aeterna esse non possunt. Sed quia unitas est, aequalitas aeterna est, similiter et connexio: hinc unitas, aequalitas et connexio sunt unum. Et haec est illa trina unitas, quam Pythagoras, omnium philosophorum primus Italiae et Graeciae decus, docuit adorandum82.
Il ricorso alla coppia terminologica e concettuale vinculum/nexus costituisce, infine, un tratto comune anche alla prospettiva riformata. Giovanni Calvino, ad esempio, ricorre alla relazione intrapersonale tra Padre e Figlio sia per descrivere il rapporto tra la comunità dei fedeli
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Ivi, rr. 47-48, p. 1406. Id., De docta ignorantia, in Opere, cit., lib. I, cap. 7, rr. 21-22, p. 28.
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e Dio per mezzo di Cristo, sia il legame tra i fedeli e Cristo attraverso lo Spirito Santo. Nel primo capitolo del libro III dell’Institutio christianae religionis, Calvino definisce lo Spirito Santo il «vinculum» che «nos sibi efficaciter devincit Christus»83. Come la terza persona, così il Cristo rappresenta il legame attraverso il quale la pietà di Dio consente ai fedeli di stringersi in un solo corpo. Nel capitolo secondo del libro III, recuperando l’immagine del Cristo vinculum pacis e perfectionis egli scrive: Ille est filius dilectus in quo residet et aequiescit amor patris (Matt. 3, 17 et 17, 5), et ad nos deinde ab eo se diffundit: sicut docct Paulus (Eph. 1, 6) […]. Proinde apostolus alibi pacem nostram ipsum vocat, alibi ceu vinculum proponit, quo paterna pietate Deus nobiscum devinciatur (Eph. 2, 4; Rom. 8, 3)84.
Se si è condotti a Dio dalla mediazione del Figlio, vinculum pacis, soltanto tramite lo Spirito Santo è possibile congiungersi a Cristo. Come Calvino rileva nel diciassettesimo capitolo del libro IV: «Dominus largitur, ut unum corpore, spiritu et anima secum fiamus. Vinculum ergo istius coniunctionis est spiritus Christi, cuius nexu copulamur; et quidam veluti canalis, per quem quidquid Christus ipse et est et habet, ad nos derivator»85. Anche nella trattazione calvinista dell’Institutio il vinculum svolge un ruolo necessario, non soltanto nella definizione dogmatica della relazione intrapersonale, ma anche sul piano antropologico del rapporto della comunità dei cristiani con le persone divine per mezzo dello Spirito. Il ricorso a vinculum e nexus nella definizione del rapporto intratrinitario e, al tempo stesso, della relazione tra Dio e la comunità dei fedeli per mezzo di Cristo e dello Spirito Santo, rappresenta un elemento co83 Ihoannis Calvini Institutio christianae religionis, in Opera quae supersunt omnia, ediderunt J.-W. Baum, E. Cunitz, E. Wilhelm, E. Reuss, Berlin 1864, vol. II, lib. III, cap. 1, p. 394. 84 Ivi, lib. III, cap. 2, p. 425. 85 Ivi, lib. IV, cap. 17, p. 1011.
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– vinculum nexus
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mune tanto alla prospettiva cattolica, quanto a quella riformata. Quella di legame, δεσμός e σύνδεσμος, vinculum e nexus, con le sue molteplici significazioni e usi, è una nozione originaria, centrale e necessaria in tutta la tradizione cristiana, pur nelle sue differenti forme. 3. Tra teologia e filosofia naturale. Alle origini della nozione bruniana di vinculum-nexus Dalla ricostruzione terminologica e concettuale svolta è possibile osservare come la nozione di legame, giunga a Bruno attraverso la mediazione della riflessione teologica sul ruolo intermedio della terza persona nel dogma trinitario, prim’ancora che per il tramite della letteratura magica. Dalla lettura delle opere di Cusano e indirettamente, di Eriugena, di Dionigi Areopagita e dei Padri della Chiesa, dallo studio diretto dei testi di Tommaso e di Agostino, egli riformula e traspone, sin dalle prime opere parigine, la nozione di legame dalla teologia alla filosofia naturale. Il legame non è più l’amore trinitario tra Padre e Figlio per mezzo dello Spirito Santo. Questo è, invece, il nexus, il vinculum amoris che lega e riconduce la molteplicità delle manifestazioni dell’essere all’unità della causa e principio primo. Il rifiuto del dogma della Trinità e dell’Incarnazione costituisce non soltanto uno dei più gravi capi d’accusa in sede processuale, ma il presupposto necessario nell’impalcatura teorica della sua filosofia, radicato sin dagli anni della formazione nel convento domenicano di San Domenico Maggiore a Napoli: Parlando christianamente et secondo la teologia che ogni fidel cristiano et chatolico deve creder, ho in effetto dubitato circa il nome di persona del Figliuolo et del Spirito Santo, non intendendo queste due persone distinte dal Padre se non nella maniera che ho detto de sopra parlando filosoficamente, et assegnando l’intelletto del Padre per il Figliuolo et l’amore per il Spirito Santo, senza conoscer questo nome persona, che appreesso sant’Augustino è dichiarato nome non antico, ma novo et di suo tempo; et questa opinione l’ho tenuta da disdotto anni della mia
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età sino adesso […]. Ho creduto et tenuto indebitamente tutto quello che ogni fidel cristiano deve tenere et credere della prima persona. Quanto alla seconda persona io dico che realmente ho tenuto essere in essentia una con la prima, et cusì la terza; perché, essendo indistinte in essentia, non possono patire inegualità, perché tutti li attributi che convengono al Padre convengono anche al Figliuolo et Spirito Santo; solo ho dubitato come questa seconda persona se sia incarnata, come ho detto de sopra, et habbi patito, ma non ho però mai ciò negato, né insegnato. Et se ho detto qualche cosa di questa seconda persona, ho detto per refferir l’opinione d’altri, come è de Ario et Sabellio et altri seguaci86.
Dalla riflessione teologica sull’ambigua natura di Cristo, finita e infinita, contraddizione non ammissibile ai suoi occhi, «perché tra la substantia infinita et divina, finita et humana, non è proporzione alcuna com’è tra l’anima et il corpo, o qual si voglian due altre cose le quali possono fare uno subsistente»87, Bruno riconosce, come la definiva Nicoletta Tirinnanzi, la «dissimmetria che sussiste tra essere assoluto ed essere comunicato»88, la sproporzione tra «conoscibile oggetto e conoscitiva potentia»89. Questa sproporzione, questo scarto tra finito e infinito, costituisce il punto nodale e originario della filosofia bruniana, costantemente in bilico tra Ombra e Luce, Uno e molteplice, complicato ed explicato. Il rifiuto della Trinità e dell’incarnazione sul piano teologico è strettamente legato al modo di concepire il problema dell’infinito e della relazione tra il principio e i principiati, tra Dio e la sua generazione. Se l’incarnazione di Cristo e la distinzione trinitaria delle persone divine non sono legittime sul piano teologico, lo divengono, invece, in una prospettiva ontologica e cosmologica in cui, all’immagine di Cristo generato e non creato, della stessa sostanza del Padre, vi è «lo universo, Cfr. Processo, p. 170. Ivi, p. 173. 88 Causa, p. 1051, nota 6. 89 Ivi, p. 1031, nota 10. 86 87
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che è il grande simulacro, la grande imagine e l’unigenita natura»90. È questa una radicale trasposizione delle categorie della tradizione teologica riformulate e applicate alla filosofia naturale: come osserva Antonella Del Prete, «ce phénomène n’a cependant pas le sens d’une théologisation du monde, mais d’une naturalisation du divin, qui perd tous les caractères personnels qui lui étaient traditionnellement attribués par la théologie chrétienne»91. Bruno fonda il rifiuto del dogma trinitario sull’impossibilità di una distinzione reale delle persone divine, vale a dire dell’assolutamente semplice e indivisibile. Tuttavia, se questa distinzione gli appare inconciliabile sul piano teologico, egli traspone la terminologia trinitaria su di un piano ontologico, riformulando la nozione di relazione come vinculum e nexus, «impiegato non più in divinis ma in naturalibus»92: se in Tommaso e in Cusano il legame pone la co-eternità e l’unione delle persone divine, per Bruno esso diviene il tramite che permette la relazione tra Dio e l’universo. In questa prospettiva egli opera, come suggerisce Pietro Secchi93, un passaggio dalla «fidel teologia» alla «vera teologia»94: non è più il Cristo ma l’unigenita natura, l’universo, a essere il vero figlio di Dio, simulacro e immagine della sua infinità95. Quello che nasce e si origina come un problema di carattere teologico si tramuta in Bruno, nel corso degli anni conventuali, nella presa di coscienza di una questione filosofica. Si tratta di una naturalizzazione della teologia e dell’immagine di Dio: una divinità nella quale non sussiste più separazione tra necessità e libertà, ma in cui la libera volontà è posta come assoluta necessità. Dio, causa e principio vitale, non può che manifestare infinitamente la sua potenza nell’eterno processo di geCausa, p. 248. A. Del Prete, La relation entre dieu et l’univers chez Giordano Bruno, in Giordano Bruno. Une philosophie des liens et de la relation, A. Del Prete e T. Berns (a cura di), Bruxelles 2016, p. 22. 92 P. Secchi, «Del mar più che del cielo amante», cit., p. 122. 93 Ivi, p. 126. 94 Cena, p. 13. 95 Cfr. S. Carannante, Unigenita natura. Dio e universo in Giordano Bruno, Roma 2018, pp. 49-89. 90 91
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nerazione e rigenerazione dell’universo, «essendo l’azzion sua necessaria, perché procede da tal volontà, quale per essere inmutabilissima, anzi la immutabilità istessa, è ancora la stessa necessità»96. Il superamento della distinzione e della separazione tra libera volontà e necessità in Dio apre a una nuova immagine sia del divino, sia dell’universo, non creato, ma generato dal Padre e di conseguenza infinito97. Se dalla riformulazione dell’immagine di Dio, Bruno ridefinisce la rappresentazione dell’universo, allo stesso modo, l’affermazione dell’infinità di questo porta con sé un ripensamento di Dio. La generazione divina dell’universo non è il risultato di una libera volontà, ma l’espressione di una necessità. E ciò appare possibile in quanto quella tra Dio e l’universo è una relazione necessaria98. Tra il Padre e il Figlio, tra Dio e l’universo vi è un rapporto di assoluta aequalitas, pur essendo questi due termini distinti. Il prodotto della generazione divina non è pertanto una degradazione dalla causa e principio primo: essendo consustanziale a Dio, l’universo conserva l’infinità del Padre, seppur un’infinità explicata che si dispiega nello spazio e nel tempo, e non complicata. È questa un’«ontologie de la relation»99, nel senso che Bruno istituisce tra due termini distinti, Dio e l’universo, un originario e indissolubile vincolo simmetrico, che porta a identificarli e a sovrapporli. Una relazione in cui non vi è alcun reale primato da parte di uno dei due termini sull’altro, ma in cui entrambi sono necessari e coeterni l’uno all’altro. Il primo e originario vinculum amoris rintracciabile negli scritti bruniani è proprio questa relazione tra il Padre e il Figlio, non nel senso espresso dalla teologia trinitaria, bensì dalla vera teologia o filosofia naturale, in cui l’universo è il prodotto della generazione, l’immagine della divinità immanente, ma conoscibile «difficilissimamente anco in vestigio»100. Una trascendenza immanente di Dio che, pur essendo intimamente Infinito, p. 336. Cfr. M.A. Granada, Il rifiuto della distinzione tra «potentia absoluta» e «potentia ordinata» di Dio e l’affermazione dell’universo infinito in Giordano Bruno, in «Rivista di storia della filosofia», XCIV, 3 (1994), pp. 495-532. 98 Cfr. Processo, p. 268. 99 A. Del Prete, La relation entre Dieu et l’univers chez Giordano Bruno, cit., p. 27. 100 Causa, p. 205. 96 97
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presente nella natura, non si disvela e non si esaurisce mai pienamente101. Alla radice di questa trasposizione della relazione trinitaria, vi è da parte di Bruno il tentativo di rilegittimare la filosofia naturale come originaria rispetto alla teologia cristiana, di liberare e restituire quelle categorie e quel lessico alla loro fonte più autentica. 4. Problemi di metodo e di lessico nella formazione del giovane Bruno La trasposizione bruniana del trinitarismo sul piano della filosofia naturale non costituisce un problema esclusivamente dogmatico e dottrinale, ma anche metodologico. Si tratta, cioè, del rifiuto di un principio di autorità che impone l’unicità del lessico, del metodo e del pensiero scolastico-tomista, sia in ambito teologico, sia filosofico. In una considerazione infinita dell’essere e della natura, ogni linguaggio e ogni pensiero possono rappresentare, cusanianamente, un tassello progressivo e congetturale nell’accesso a una verità infinita e inattingibile. Sin da giovane, tra le mura di San Domenico Maggiore, Bruno contrappone all’unicità del lessico e del metodo dominante, la possibilità di procedere attraverso una pluralità di linguaggi filosofici e teologici, da quello dei padri della chiesa, tra cui gli eretici Ario e Sabellio102, ad Agostino103 e Tommaso104. Quest’atteggiamento, molto distante dalla metodologia domenicana, si comprende ripercorrendo sia la biblioteca ideale del Nolano, sia le letture compiute, gli incontri e gli studi svolti prima dell’entrata in convento tra il 1562 e il 1565. Non occorre insistere sulla formazione conventuale avvenuta tra il 1565 e il 1576105, quanto, invece, soffermarci brevemente sul ruolo che nel suo percorso biografico e intellettuale A. Del Prete, La relation entre Dieu et l’univers chez Giordano Bruno, cit., p. 34. Cfr. Processo, p. 191. 103 Ibidem. 104 Ivi, p. 177. 105 Cfr. Documenti, pp. 67-193; cfr. Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la ‘peregrinatio’ europea: immagini, testi, documenti, E. Canone (a cura di), Cassino 1992, pp. 64-67. 101
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assumono le tradizioni filosofiche e teologiche con cui venne a contatto nei tre anni precedenti l’ingresso a San Domenico Maggiore: dall’insegnamento presso lo Studio Pubblico dell’aristotelico-averroista Giovan Vincenzo Colle detto il Sarnese, a quello privato del frate agostiniano Teofilo da Vairano106. Che questi incontri rappresentino un momento decisivo, è Bruno stesso a testimoniarlo: nelle sue conversazioni con Guillaume Cotin, bibliotecario dell’abbazia di Saint Victor di Parigi, egli contrappone ed equipara il metodo aristotelico-scolastico dei domenicani a quello tipico degli agostiniani, nonché di colui che considererà «le principal meystre qu’il aite u en philosophie»107. La figura di Teofilo da Vairano riveste un’importanza particolare: questi non è solo l’unico e vero maestro, ma anche il portavoce della nolana filosofia nei dialoghi italiani. In questa stessa conversazione con Cotin, egli aggiunge un secondo elemento metodologico e dottrinale rilevante, laddove sostiene che le «les subtilitez des scholastiques, des Sacres ments et mesmenent de l’Eucharistie»108 non si ritrovano né in Pietro, né in Paolo, contrapponendo il messaggio del cristianesimo delle origini alle interpretazioni di matrice scolastico-tomista. Il rifiuto delle subtilitates scolastiche a proposito del mistero eucaristico, a favore di una riscoperta del più autentico messaggio apostolico, sembra giungere a Bruno proprio attraverso l’insegnamento di Teofilo. Di quest’ultimo personaggio non conosciamo il nome al secolo. Molto probabilmente prese i voti e si formò nello stesso centro di Vairano, in provincia di Caserta, lasciandolo nel 1558, anno in cui secondo i Regesti dell’Ordine venne assegnato allo Studio agostiniano 106 Processo, p. 156; cfr. C. Carella, Nuovi documenti su Teofilo da Vairano, «Bruniana & Campanelliana», XVIII, 2 (2012), pp. 405-419; cfr. Ead., Et solevo sentir le lettioni publiche d’uno che si chiama il Sarnese, in «Nuovelles de la République des Lettres», 1-2 (2004), pp. 133-135; cfr. Ead., Tra i maestri di Giordano Bruno. Nota sull’agostiniano Teofilo da Vairano, «Bruniana & Campanelliana», I (1995), pp. 63-82. 107 L. Auvray, Giordano Bruno d’après le témoignage d’un contemporaine (Guillaume Cotin) 1585-1586, «Mémoires de la Société de l‘Histoire de Paris et de l‘Isle-deFrance», XXVII (1900), p. 10. 108 Ibidem.
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di Napoli, entrando a far parte della comunità degli Eremiti del convento di San Giovanni a Carbonara. Il convento degli agostiniani di Napoli a cui Teofilo fu affidato era, insieme a quello domenicano di San Domenico Maggiore, uno dei più importanti centri di studio e formazione filosofica e teologica in Italia. Fino al 1551 era stato retto dall’allora generale dell’Ordine, il cardinale e arcivescovo di Salerno Gerolamo Seripando109, tra le voci di spicco del Concilio di Trento e di una maggiore riforma della Chiesa. Allievo e segretario del precedente generale dell’Ordine, il cardinale neoplatonico Egidio da Viterbo, Seripando era stato amico e corrispondente di Juan de Valdés, pur restando lontano dalle idee dei riformati sul piano dottrinale. Impegnato in un’operazione di riconciliazione delle differenti posizioni all’interno della chiesa cattolica, convinto sostenitore della pacificazione con i riformati e della necessità di punire non l’eretico ma l’eresia, egli sostenne durante il concilio tridentino tesi tutt’altro che controriformistiche e in termini nient’affatto scolastici110. Seppur la posizione di conciliazione e di riforma espressa dal cardinale all’interno del Concilio risultò minoritaria, egli si adoperò, anche dopo la sua successione come generale degli agostiniani e reggente di San Giovanni a Carbonara, affinché tra le mura del convento vigessero gli stessi principi da lui sostenuti a Trento, e ancor prima dal suo maestro Egidio da Viterbo, pur nel rispetto dell’ortodossia cattolica. È in questo contesto culturale, filosofico e religioso, che studiò e si formò quel fra’ Teofilo da Vairano. Nel 1562, lo stesso anno dell’arrivo di Bruno a Napoli, Teofilo fu promosso lettore e maestro111, titolo che lo abilitava all’insegnamento della filosofia all’interno dell’Ordine che affiancava all’attività privata. Nel suo cursus studiorum Teofilo lesse e commentò Aristotele, per quel che atteneva la preparazione filosofica, Cfr. H. Jedin, Girolamo Seripando. La sua vita e il suo pensiero nel fermento spirituale del XVI secolo, G. Colombi e A.M. Vitale (a cura di), trad. it. A. Dente, Brescia 2016, voll. II. 110 Cfr. A. Marranzini, Il problema della giustificazione, in Gerolamo Seripando e la Chiesa del suo tempo, Atti del convegno (Salerno, 14-16 ottobre 1994), A. Cestaro (a cura di), Roma 1997, p. 228. 111 Cfr. Documenti, pp. 98-99. 109
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mentre si formò in materia teologica «iuxta sententiam Aegidii Romani vel sancti Thomae»112, secondo la ratio studiorum agostiniana. Il programma di studi agostiniano era stato riformato dal Concilio di Trento, che attribuiva all’Ordine la responsabilità di aver generato l’eresia luterana: come osserva Candida Carella, questa era «una ratio studiorum apparentemente simile a quella domenicana – lo stesso Egidio Romano, allievo di san Tommaso, verrà definitivamente sostituito dal Dottore Angelico, subito dopo l’edizione romana del 1570 delle opere dell’Aquinate – ma quanto mai diversa nell’impostazione filosofica e teologica»113. Proprio il metodo col quale Teofilo faceva lezione dovette colpire la mente e il carattere del giovane Filippo Bruno. Metodo fondato non sulla disputatio tipica dei Domenicani, ma, come sottolinea Ciliberto, «secondo il canone proprio dell’argumentare di Agostino, preferendo i “colloquii” come via privilegiata nella ricerca della verità»114: «non per modum disputationis, quae longe abesse a scientia salutis debet, sed per modum familiari et pii colloqui»115. Inoltre, l’approccio degli agostiniani ai problemi sia di carattere teologico, sia filosofico, si caratterizzava per la conoscenza del greco e dell’ebraico, finalizzate a un’esegesi biblica filologica, affiancata allo studio della matrice filosofica dell’agostinismo, il platonismo e il neoplatonismo cristiano116. Il giovanissimo Filippo Bruno ebbe modo di formarsi tramite il suo maestro all’interno di questo contesto filosofico e religioso, frequentando la biblioteca del convento che Seripando aveva costituito e arricchito negli anni con le maggiori opere della tradizione neoplatonica cristiana, Cfr. D. Gutierrez, Gli Agostiniani dal protestantesimo alla riforma cattolica (1518-1648), Institutum Historicum Ordinis Fratrum S. Augustini, Roma 1972, pp. 168-172. 113 C. Carella, Tra i maestri di Giordano Bruno. Nota sull’agostiniano Teofilo da Vairano, cit., p. 69. 114 M. Ciliberto, Giordano Bruno, Il teatro della vita, Milano 2007, p. 23. 115 D. Gutierrez, Gli Agostiniani dal protestantesimo alla riforma cattolica, cit., p. 170. 116 C. Carella, Tra i maestri di Giordano Bruno. Nota sull’agostiniano Teofilo da Vairano, cit., p. 69. 112
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degli scritti ermetici e di magia, facendo di essa uno dei più importanti luoghi di letture e di discussioni filosofiche e teologiche del Regno di Napoli, non riservato ai soli appartenenti all’Ordine, ma aperta e accessibile a ogni studioso. Se il centro degli studi della Scolastica a Napoli era sempre stato il convento di San Domenico Maggiore con la sua prestigiosa Libraria117, il convento e la biblioteca di San Giovanni a Carbonara118 furono nel XVI secolo uno dei più importanti centri di studio del neoplatonismo cristiano, una vera e propria scuola di studi platonici119: scuola che, come ha osservato Ingrid Rowland, «esercitò una forte influenza su Bruno agli esordi del suo periodo napoletano»120 e dove egli poté accostarsi alla filosofia platonica, prim’ancora che agli scritti di Aristotele e di Tommaso. L’approccio degli agostiniani alla ricerca della verità, sia essa teologica o filosofica, è particolarmente riconoscibile nelle pagine del De gratia Novi Testamenti121, opera di Teofilo da Vairano redatta tra il 1570 e il 1577, dedicata al cardinale Antonio Carafa, ma mai data alle stampe. Nella seconda parte del suo De gratia, Teofilo, convinto della validità del suo metodo, sceglie lo stile del dialogo, «a indicare il carattere colloquiale – e non controvertistico – con cui deve procedere la ricerca della verità»122. Egli descrive, sulla scia del progetto di riforma sostenuto da Seripando, una chiesa in grado di non separare, ma d’includere l’intera comunità dei cristiani attraverso il messaggio d’amore e di carità del Nuovo Testamento. Le argomentazioni del frate 117 Cfr. E. Canone, Contributo per una ricostruzione dell’antica ‘Libraria’ di S. Domenico Maggiore, in Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la ‘peregrinatio’ europea, cit., pp. 191-246. 118 Cfr. D. Gutiérrez, La biblioteca di San Giovanni a Carbonara di Napoli, «Analecta Augustiniana», vol. XXIX (1966), 59-212. 119 I. Rowland, Un fuoco sulla terra. Vita di Giordano Bruno, trad. it. G. Ernst, Roma 2011, p. 46. 120 Ibidem. 121 Il manoscritto del De gratia Novi Testamenti, mm. 266 x 205, cc 272, oggi Vat. Lat. 12056, proviene dal vecchio fondo Arm. X dell’Archivio Segreto Vaticano (Arm. X, 68), oggi riordinato in Miscellanea Armadi I-XV, consultabile attraverso i vecchi indici 218 e 210 e i nuovi indici 1029 I-II. 122 M. Ciliberto, Giordano Bruno, Il teatro della vita, cit., p. 23.
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e teologo agostiniano, esposte sotto forma di dialoghi tra l’autore stesso e personaggi come Pelagio e Donato, Tommaso ed Egidio Romano, fino ai contemporanei Erasmo, Lutero, Melantone e Calvino, divergevano radicalmente dall’ortodossia allora prevalente e sancita dal Concilio di Trento: soffermandosi sull’aggettivo greco καθολικός e mostrando come il prefisso καθα lo trasformasse nel superlativo di óλος, ovvero “tutto”, “intero”, egli propone un’immagine della chiesa come comunità universale123. Il maestro agostiniano osserva come i patriarchi ebrei non fossero meno partecipi della verità divina di quanto non lo fossero stati i santi cristiani, allo stesso modo in cui i primi cristiani non erano meno ebrei degli stessi ebrei124. Ripercorrendo il Nuovo e l’Antico testamento, gli scritti di Agostino e di Dionigi Areopagita, egli contesta le affermazioni degli scolastici sulla grazia divina, il battesimo degli infanti, il peccato originale e il libero arbitrio. Infine, un interesse particolarmente simbolico assume per Teofilo il fiume Giordano, simbolo del «passaggio dall’ignoranza alla conoscenza, così che il suo attraversamento da parte degli ebrei verso la terra promessa avrebbe avuto un significato più spirituale che fisico. Nella sua visione, la loro conseguente rinascita era esattamente comparabile al battesimo di Gesù e al battesimo di ogni fedele cristiano»125. Non sappiamo quanto questa visione della chiesa e del messaggio evangelico, della metodologia di approccio ai testi e alle differenti tradizioni di pensiero, siano stati centrali nelle lezioni di Teofilo al giovane Bruno. Tuttavia, questa forma mentis socratica e filologica, molto vicina alla tradizione umanistica nel modo d’affrontare problemi sia filosofici sia teologici, sarà centrale nell’opera di Bruno. Il giovane allievo dovette rimanere affascinato da questo personaggio, a tal punto da rivestirlo del titolo di «fidel relatore della nolana filosofia»126, elevandolo a ideale stesso di maestro, dedicato completamente e «indefesse»127 allo studio e Cfr. I. Rowland, Un fuoco sulla terra. Vita di Giordano Bruno, cit., p. 48. Ibidem. 125 Ivi, pp. 48-49. 126 Causa, p. 253. 127 C. Carella, Tra i maestri di Giordano Bruno. Nota sull’agostiniano Teofilo da Vairano, cit., p. 74. 123 124
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all’insegnamento della logica e della filosofia. Quando nel 1566 Teofilo abbandonò Napoli alla volta di Firenze, dove era stato nominato rettore dell’Università agostiniana, per poi assumere l’insegnamento di metafisica nel 1569 presso lo Studium Urbis di Roma, la Sapienza, il giovane Filippo Bruno faceva il suo ingresso a San Domenico Maggiore assumendo il nome di fra’ Giordano da Nola. Risultano ancor oggi poco chiare le ragioni della scelta di Bruno nel 1566 di vestire l’abito domenicano, allontanandosi non solo dal metodo e dallo spirito dell’insegnamento di Teofilo, ma ancor più da un approccio alla verità teologica e filosofica fondato su di una continua e instancabile ricerca esistenziale e intellettuale. Durante la fase romana del processo Francesco Graziano, compagno di carcere del Nolano a Venezia, riferiva agli inquisitori le ragioni confidategli da quest’ultimo sulla scelta che lo portò a farsi frate «con occasione che sentì disputare a san Domenico in Napoli, e così disse che quelli erano dii della terra, ma poi scoperse che tutti erano asini et ignoranti»128. Bruno rimase forse colpito proprio dalla capacità retorica e di persuasione di quei frati, dal loro modo di disputare che li faceva sembrare dii de la terra. Fortemente opposta alla formazione di tipo agostiniana, quella dei domenicani consisteva in una preparazione filosofica durante i primi tre anni in cui il novizio era detto studente materiale: questi comprendevano lo studio della dialettica, della filosofia naturale e della metafisica, prevalentemente svolto sui commenti di Tommaso ad Aristotele, a cui si aggiungeva a Napoli un quarto anno di retorica che succedeva all’anno di prova. L’ars dicendi assumeva un ruolo fondamentale nel programma di studi di un Ordine che faceva della predicazione, della difesa e della custodia dell’ortodossia la propria missione. Ai primi quattro anni di studio se ne aggiungevano altri due in teologia, per poi approdare al triennio accademico come studente formale. Il triennio in teologia si basava sullo studio della «Biblia, Historiis et Sententiis tam in textu quam in glossis»129, delle Sententiae di Pietro Lombardo con i relativi Processo, p. 251. Regula beati Augustini. Constitutiones Fratrum Ordinis Praedicatorum, Romae, MDLXVI, c. 119v. 128 129
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commenti di Tommaso d’Aquino e la sua Summa Theologiae130. Questo tipo di formazione accrebbe ampiamente la preparazione di Bruno: la sistematica organizzazione scolastica del sapere, unita alla dialettica platonica appresa grazie all’insegnamento di Teofilo, rappresentano nei suoi scritti due anime distinte ma, allo stesso tempo, convergenti. Seppur gli anni trascorsi a San Domenico Maggiore giovarono senza dubbio alla sua formazione, tuttavia la scelta dell’ordine non si rivelò la migliore, né per il suo carattere, poco incline all’obbedienza, né per un’irriducibile curiositas. Sin dall’entrata in convento, Bruno non riuscì a tenere a freno la forma mentis assunta tramite le lezioni di Teofilo e che lo porterà, ben presto, a subire alcuni procedimenti disciplinari. Il primo nel 1566, quando, ancora novizio, decise di buttar via dalla sua cella le immagini dei santi, e di tenere con sé «un crocifisso solo»131, toccando un punto delicato della dottrina post tridentina e mostrando vicinanza a posizioni riformate, come il problema dell’adorazione delle immagini dei santi, sul quale il Concilio si era espresso favorevolmente e in contrasto con la Riforma. E ancora, col dire «a un novitio che leggeva la Historia delle sette allegrezze della Madonna in versi, che cosa voleva far de quel libro, che lo gettasse via et leggesse più presto qualche altro libro, com’è la Vita de’ Santi padri»132, egli manifestava la vicinanza a quel metodo filologico di ricerca antidogmatica del vero. Seppur estraneo all’Umanesimo sotto tanti punti di vista, Bruno «è figlio della tradizione umanistica italiana»133, è figlio dell’atteggiamento e del metodo di ricerca umanistico, appreso da Erasmo, prima ancora da Lorenzo Valla e dalla lezione di Teofilo da Vairano. Proprio quel maestro, dal quale era stato spinto allo studio del neoplatonismo, della teologia negativa di Dionigi Areopagita, di Eriugena e Cusano, sarà per lui, come scrive Ciliberto, «una sorta di occhio presbite: gli consentirà
130 M. Miele, L’organizzazione degli studi dei domenicani di Napoli al tempo di Bruno, in Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la peregrinatio europea, cit., p. 47. 131 Processo, p. 157. 132 Ibidem. 133 M. Ciliberto, Giordano Bruno, Il teatro della vita, cit., p. 25.
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di vedere territori lontani di cui non aveva saputo cogliere subito tutta l’importanza»134. Quest’atteggiamento è particolarmente visibile nel secondo procedimento disciplinare che Bruno subì a San Domenico Maggiore nel 1576 e che gli costerà la fuga dal convento e da Napoli. Già sacerdote e dottore, ragionando con i suoi superiori sulla legittimità di procedere in teologia attraverso metodi e lessici non scolastici, alla maniera dei padri della chiesa, egli citava le eresie di Ario e di Sabellio sulla non consustanzialità del Figlio rispetto al Padre, richiamando in proposito anche l’opinione di Agostino, e lasciando esterrefatti quei padri: Io non saprei immaginarmi de che articuli mi processassero, se non è che, ragionando un giorno con Mont’Alcino, che era un frate del nostro ordine, lombardo, in presentia de alcuni altri padri, et dicendo egli che questi heretici erano ignoranti et che non avevano termini scholastici, diss’io che si bene non procedevano nelle loro dechiarationi scholasticamente, che dichiaravano però la loro intentione comodamente et come facevano li padri antichi della santa Chiesa, dando l’esempio della forma dell’heresia d’Ario, che gli scholastici dicono non intendeva la generazione del Figlio per atto di natura et non di volontà; il che medesmo si può dire con termini altro che scholastici, rifferiti da sant’Augustino, cioè che non è di medesma substantia il Figlioulo et il Padre, et che proceda come le creature dalla volontà sua. Onde saltorno quelli padri con dire che io diffendevo li heretici et che volevo fossero dotti135.
Anche in questo caso egli recupera la polemica del suo maestro e dello stesso Seripando contro la Scolastica, contrapponendo al metodo della disputa quello degli antichi padri, facendo sua sia la lezione appresa dagli agostiniani, sia da Erasmo e Valla. Attraverso la lettura delle opere di Tommaso, Bruno poté indirettamente avvicinarsi allo studio delle eresie di Ario e di Sabellio sul dogma dell’Incarnazione e della Trinità, ribal134 135
Ivi, p. 27. Processo, p. 191.
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tando positivamente i termini della critica tomista. Negli stessi articoli degli Scripta super libros Sententiarum dedicati alla definizione della terza persona come vinculum vel nexus nella relazione d’amore tra il Padre e il Figlio, compare a più riprese il riferimento all’eresia ariana136. Allo stesso modo, nel libro IV della Summa contra gentiles, l’Aquinate dedica una trattazione approfondita alle eresie di Ario e di Sabellio, includendo i rispettivi allievi e le dottrine elaborate da questi ultimi137. Si tratta di testi ben noti a Bruno, che egli doveva aver studiato e commentato durante gli undici anni trascorsi a San Domenico Maggiore. L’Aquinate non è, però, l’unica fonte in proposito. Tra le opere censite da Eugenio Canone presenti nella Libraria di San Domenico Maggiore durante gli anni trascorsi da Bruno in convento, compare l’edizione veneziana del 1567 delle Prediche sopra il simbolo degli Apostoli138 di Seripando. Si tratta di un ciclo di prediche pronunciate dal Cardinale tra il 1556 e il 1557 durante l’episcopato salernitano (1554-1563) e che, insieme a quelle sul Paternoster139 del 1559, costituiscono l’unica testimonianza scritta della sua predicazione. Con queste Seripando volle affrontare, in esplicita polemica con l’eresia ariana, il problema del dogma trinitario, dello Spirito Santo e della relazione tra il Padre e il Figlio. Oltre alle prediche incentrate sull’unità di Dio e sul modo d’intendere le tre persone, la sesta dal titolo Qual bisogna che sia la fede della divinità di Iesù Christo. Sopra le parole decretate contra Ario nel grande e santo concilio Niceno […] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, Libro I, Distinzioni 22-48, introduzione di I. Biffi, trad. it. P.R. Coggi, con testo integrale di Pietro Lombardo, Bologna 2000, vol. II, d. 24, q. 2, art. 1, pp. 288-290; ivi, d. 25, q. 2, art. 1, pp. 308-310; ivi, d. 31, q. 1, a, 1, p. 356-358; ivi, d. 31, q. 2, a. 1, p. 366. 137 Cfr. Sancti Thomae Aquinati Summa contra gentiles, in Opera omnia iussu impensaque Leonis XIII P. M. edita, Romae 1918-1930, t. XV, 1930, lib. IV, cap. 4-10, pp. 9-31, cap. 32, pp. 115-117, cap. 41, pp. 140-142. 138 G. Seripando, Prediche […] sopra il simbolo degli apostoli, dichiarato co simboli del concilio Niceno, et di santo Athanasio, in Vinezia, al segno della Salamandra, 1567, oggi conservato presso la Biblioteca Universitaria di Napoli (Z. b. 162); cfr. E. Canone, Contributo per una ricostruzione dell’antica ‘Libraria’ di San Domenico Maggiore, in Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la peregrinatio europea, cit., p. 240. 139 G. Seripando, Prediche sul paternoster, in R.M. Abbondanza, Girolamo Seripando tra Evangelismo e Riforma cattolica. Le prediche sul paternoster, Roma 1999. 136
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è direttamente dedicata alla confutazione dell’antitrinitarismo ariano. L’autore ripercorre la storia dello scontro avvenuto durante il concilio di Nicea tra il partito degli Ariani e i santi padri. La predicazione di Seripando a difesa del dogma trinitario contro l’eresia ariana s’inserisce all’interno di una fase di diffusione dei movimenti antitrinitari in Italia e in particolar modo tra Napoli e Salerno140. È questa una delle principali ragioni che spinsero il Cardinale a svolgere una predicazione a difesa dei principali dogmi della dottrina cattolica, contro la diffusione dei movimenti ereticali antitrinitari. Ed è propriamente in questo clima di lotta all’antitrinitarismo, sia sul piano dottrinale, sia su quello della predicazione, che Bruno ebbe modo di formarsi, di rileggere e riformulare positivamente non soltanto la critica ariana al dogma trinitario, ma quel lessico e quelle categorie. 5. «Spiritus intus alit». Su di un adagio virgiliano tra teologia e filosofia Nel primo volume dell’In memoriae subsidium, testo appartenente a una raccolta in sei volumi di manoscritti autografi di Seripando141, redatti tra il 1530 e il 1560, compare un dato di particolare interesse che ci fornisce un caso esemplare del metodo con cui Bruno legge, manipola e reinterpreta le sue fonti teologiche. Seppur questa raccolta di manoscritti del Cardinale agostiniano non fosse presente nella biblioteca di San Domenico Maggiore, ma in Cfr. M. Miele, Presenza protestante a Salerno durante l’episcopato di Geronimo Seripando, in Geronimo Seripando e la chiesa del suo tempo, cit., pp. 283-289. 141 Dell’In memoriae subsidium si conservano presso la Biblioteca Nazionale di Napoli i primi due volumi con la collocazione ‘Codici VIII AA 21-22’. Il primo codice di 150 x 220 mm, 4 fogli non numerati, 322 numerati, rilegato in pergamena, riporta sul frontespizio la dicitura «In memoriae dumtaxat subsidium / F. Hier[onimus] Seripandus […] Anno post netum servatorem 1530». Cfr. D. Ragazzoni, Bruno, Seripando e l’Arii error, Considerazioni sulle origini dell’antitrinitarismo bruniano negli anni di San Domenico Maggiore, in Favole metafore e storie. Seminario su Giordano Bruno, introduzione di M. Ciliberto, O. Catanorchi e D. Pirillo (a cura di), Pisa 2007, p. 344; cfr. G. Seripando, Discorsi, testo critico e trad. it. A. Marranzini, Roma 2001. 140
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quella di San Giovanni a Carbonara, in essa emerge, come ha ricostruito David Ragazzoni, «una consonanza significativa» con il Nolano «sul piano dottrinale, soprattutto sul modo in cui i testi classici e biblici vengono utilizzati all’interno di quell’umanesimo cristiano che costituisce la ‘cultura condivisa’ di Seripando e Bruno»142. Nel capitolo XLIII, dedicato alla trattazione dello Spiritus Sancti divinitas, compaiono sulla carta iniziale due versi annotati con la stessa calligrafia del resto del manoscritto e, dunque, della mano del Seripando, che recitano: Spiritus Domini ferebatur super aquas Camposque liquentes, spiritus intus alit143.
Questi due versi tratti, il primo, dalla Sapienza di Salomone e, il secondo, dal sesto libro dell’Eneide di Virgilio, sono legati insieme, a formare un unico verso in cui non vi è più distinzione tra la fonte biblica e quella virgiliana. È un verso che il Cardinale pone all’inizio dell’ultimo capitolo dedicato al dogma trinitario. Questi stessi due versi, composti nello stesso modo e legati l’uno all’altro, «quasi non avessero vita se spezzati»144, ricorrono in Bruno sia nelle pagine del De la causa, sia nelle testimonianze rese durante la fase veneta del processo. Nello stesso costituto del 2 giugno 1592 in cui riferiva agli inquisitori i suoi dubbi sulla Trinità e sull’Incarnazione, richiamando le eresie di Ario e di Sabellio, egli afferma: Così quanto al Spirito divino per una terza persona, non ho possuto capire secondo il modo che si deve credere; ma secondo il modo pittagorico, conforme a quel modo che mostra Salomone, ho inteso come anima dell’universo, overo assistente all’universo, iuxta illud dictum Sap[ientiae] Salomonis: “Spiritus Domini replevit orbem terrarum, et hoc quod continet omnia”, che tutto conforme pare alla dottrina pitagorica esplicata da Vergilio nel senso dell’Eneide: D. Ragazzoni, Bruno, Seripando e l’error Arii, cit., p. 379. Codice VIII AA 21-22 della Biblioteca Nazionale di Napoli, f. CCLXIIr. 144 D. Ragazzoni, Bruno, Seripando e l’error Arii, cit., p. 379. 142 143
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Principio coelum et terras composque liquentes Lucentemque globum lunae Titaniaque astra, spiritus intus alit totamque infusa per artus mens agitat molem… […] Da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia provenire la vita et l’anima a ciascuna cosa che have anima et vita, la qual però intendo essere immortale; come anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione et congregatione; la qual dottrina pare espressa nell’Ecclesiaste, dove dice “Nihil sub sole novem: quid est? Ipsum quod fuit” […]145
Nell’accostare le parole di Salomone e quelle di Virgilio, Bruno pone sullo stesso piano la fonte biblica e quella pagana, proponendo una tesi che possa accordarsi sia con l’interpretazione del testo sacro, sia con la filosofia pitagorica e platonica. I nomi del «Teologo»146 e del «Poeta»147 sono, infatti, accostati nell’interpretazione della terza persona o dello Spirito Santo come anima del mondo. Se Seripando accosta le due fonti nel tentativo di stabilire una lettura concordistica del testo sacro e della tradizione classica, ai fini di una riaffermazione del dogma trinitario e della terza persona, profondamente divergente è l’operazione di Bruno, seppur ne riprenda lo schema. Egli non interpreta la fonte virgiliana in senso teologico, riconoscendo lo spirito divino come già presente ancor prima della predicazione di Cristo, ma lo legge in termini naturali, naturalizzando, al tempo stesso, la fonte biblica parzialmente svuotata del suo contenuto teologico. Sia il Poeta che il Teologo hanno parlato di quello spiritus o anima del mondo insito nella natura, che non corrisponde alla terza persona del dogma trinitario, quanto piuttosto a Dio inteso come causa e principio primo infinito immanente alla natura. Processo, p. 169. Causa, pp. 219-220. 147 Ivi, p. 220. 145
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Osservando la centralità che l’adagio biblico-virgiliano e l’associazione tra Salomone e Pitagora occupano in Bruno, si comprende come, proprio dalla lettura dei testi di Seripando sull’Arii error e sullo Spirito Santo, egli poté elaborare una riflessione sulla nozione di spiritus e di persona nel dogma trinitario, seppur in una direzione radicalmente distante da quella del cardinale agostiniano. Il suo antitrinitarismo poggia, infatti, su di un rifiuto del termine persona, argomentato a partire dall’esitazione espressa da Agostino sull’utilizzo di questo stesso termine Io dico d’haver tenuto et creduto che vi sia un Dio distinto in Padre in Verbo et in Amore, che è il Spirito divino, et sono tutti questi tre un Dio in essentia; ma non ho potuto capir, et ho dubitato, che queste tre possono sortir nome di persone; poiché non mi pareva che questo nome di persona convenisse alla divinità, confortandomi a questo le parole di san Augustino, che dice: “Cum formidine proferimus hoc nomen personae, quando loquimur de divinis, et necessitate coacti utimur”; oltra che nel Testamento vecchio et novo non ho trovato né letto questa voce, né forma del parlar148.
Si tratta di una questione su cui Bruno insiste più volte durante i suoi interrogatori, anche durante la fase romana del processo: «Et per questo credo che sant’Agostino ancora temesse di proferir quel nome “persona” in questo caso, che hora non mi riccordo in che loco sant’Augustino lo dica»149. In effetti, nel libro VII del De trinitate, il vescovo d’Ippona ricorda come i Greci parlassero di una essenza, e tre sostanze, mentre i Latini di una essenza o sostanza e tre persone, essendo sinonimi i termini essenza e sostanza. Di fronte al problema della definizione, Agostino afferma l’ineffabilità e la trascendenza di Dio sul linguaggio umano: ogni tentativo di nominarlo possiede soltanto un valore relativo, non potendo di fatto giungere ad alcuna sua definizione. Tuttavia, seppur la Scrittura non parli di tre persone, per la necessità del linguaggio e 148 149
Processo, pp. 172-173; cfr. ivi, p. 173; cfr. ivi, p. 170, p. 191, p. 255. Cfr. ivi, p. 173.
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della disputa siamo costretti a utilizzare questa definizione, non essendo ciò in contraddizione. Facendo riferimento all’eresia di Ario, Agostino adduce alla povertà umana la necessità di parlare di tre realtà pur nell’unicità di una sola essenza, affinché non si intendano differenze nella summa aequalitas divina. I Greci e i Latini hanno cercato d’indicare con l’espressione una essenza l’unità divina, mentre, con l’immagine della Trinità tre sostanze o persone150. L’utilizzo del termine persona possiede, dunque, un valore di comodo, una denominazione estrinseca che non soddisfa né definisce pienamente il divino. Bruno recupera proprio quest’impossibilità agostiniana a esprimere e a definire il divino. Attraverso la teologia negativa egli ripensa l’ineffabilità di Dio e l’incapacità umana di definirlo e nominarlo, poiché ogni definizione e ogni nome sono una distinzione. Ma Dio è al di sopra di ogni distinzione, semplice, infinito, Uno. L’utilizzo del termine persona in riferimento alla divinità appare, dunque, inconciliabile, poiché equivarrebbe a porre una distinzione in Dio. L’esitazione o il dubbio espresso circa la definizione di persona nell’articolazione trinitaria di Dio, e con esso il riferimento all’autorità di Agostino, non rappresentano esclusivamente una strategia difensiva che egli adotta durante le fasi del processo; né tantomeno tale riferimento rientra nel tentativo di distinguere tra un parlare filosoficamente e uno secondo la teologia, in cui vengono riversati i dubbi circa la Trinità e l’Incarnazione. Il riferimento ad Agostino nella decostruzione filosofica delle categorie teologiche fa da contraltare al richiamo all’autorità di Tommaso, di cui Bruno si serve durante il processo per dare prova della propria ortodossia151. Tuttavia, dalle sue posizioni in merito alla Trinità e all’Incarnazione emerge un velato contrasto tra l’autorità di Agostino e quella di Tommaso152. Da un lato, l’anima platonico-agostiniana a cui egli era approdato grazie all’insegnamento di Teofilo e attraverso la lettura dei testi seripandiani; dall’altro, la dottrina dell’Aquinate, 150 Cfr. Sancti Aurelii Augustini De Trinitate, in PL, cit., vol. XLII, t. 8, 1865, lib. cap. VII. pp. 932-946. 151 Cfr. Processo, p. 259. 152 Cfr. D. Ragazzoni, Bruno, Seripando e l’Arii error, cit., p. 384.
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fondamento degli studi e della preparazione di un giovane teologo domenicano e della sua ortodossia. Il riferimento prima all’uno poi all’altro nel corso del processo non è, dunque, una semplice strategia difensiva, ma il segno della complessità e la molteplicità delle letture compiute e degli approcci alla verità a cui era stato formato nel corso degli anni napoletani. Il rifiuto della Trinità e dell’Incarnazione, sul piano del lume naturale, sembra suggerire l’origine del suo incontro con l’eresia ariana: «non dalla famiglia di Tommaso, ma da quella di Teofilo da Vairano e, ancor prima di lui, di Egidio da Viterbo e di Girolamo Seripando»153. Il ricorso all’eresia di Ario è innanzitutto rivolto contro la filosofia e la teologia scolastica: prima che quest’ultima divenisse il lessico, il metodo e il modello dominante con cui disputare, Ario e in parte Agostino avevano, cioè, criticamente messo in evidenza aspetti e problemi centrali del pensiero e della dottrina filosofica e teologica cristiana. Se si considera, dunque, il ruolo che la formazione giovanile di Bruno, con le letture compiute, gli incontri e gli studi svolti, svolge nella trasposizione del trinitarismo dal piano teologico a quello filosofico naturale, si comprendono, altresì, la centralità e la risonanza che questa riveste nella riflessione sulla nozione di vinculum e nexus. È a partire dalla considerazione di problemi di carattere teologico e filosofico prim’ancora che magico, che s’intravede nella nolana filosofia l’originarsi della riflessione su questa nozione, nei termini della relazione tra l’infinità della causa e principio primo e l’universo o l’unigenita natura. È per queste ragioni che, oltre all’esame del problema del vinculum e del vincire come elaborato negli scritti magici, abbiamo qui scelto di ripercorrere l’origine di questa nozione, la quale non nasce né tantomeno si esaurisce nella sola riflessione magica. Essa è, invece, profondamente radicata e non scindibile dalla prospettiva propriamente ontologica della filosofia di Bruno, in cui sia le questioni di carattere magico, sia quelle teologiche, sembrano essere incluse e completamente assorbite.
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Ivi, p. 385.
II. Dalla philosophia occulta alla physica magica
1. Il ricorso di Bruno alla magia prima del De magia Un esame delle opere pubblicate da Bruno tra il 1582 e il 1590 consente di osservare come il ricorso alla magia si strutturi sin dai suoi primi lavori. La riflessione elaborata tra il 1588 e il 1592 negli scritti magici non rappresenta un momento scisso dalla precedente produzione filosofica. Il ricorso alla magia è, invece, un elemento di lungo periodo che attraversa la gran parte della sua speculazione, facendo da sfondo sia a questioni gnoseologiche, ontologiche e cosmologiche, sia a problemi di carattere religioso ed etico-politico. Sin dal Candelaio, commedia filosofica pubblicata a Parigi nel 1582, la magia rappresenta un elemento centrale nella comprensione della realtà e della trama delle relazioni umane. Egli mette in scena due forme di magia: una prima, intesa come inganno capace di legare agendo sulla credulità popolare, incarnata dal mago Scaramuré1; una
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Cfr. Candelaio, pp. 48-51, pp. 71-73, pp. 137-140.
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seconda, intesa come capacità di operare «contra natura»2, incarnata dall’alchimista Bartolomeo. Se Scaramuré irride e castiga la credulità popolare attraverso i suoi inganni, violenta è, invece, la satira che colpisce Bartolomeo3. Convinto di poter trasformare i metalli vili in oro prezioso per effetto del Pulvis Christi, quest’ultimo è il sintomo più evidente della mistificazione del sapere magico. La satira del Candelaio si rivolge alla magia intesa come scienza occulta, divinatoria, esoterica, astrologica e alchemica, che pretende di operare sulla natura al di là delle leggi naturali4. Magia è, invece, ciò che ristabilisce l’ordine naturale che l’essere umano ha sovvertito rovesciando il rapporto tra l’essere e le sue parvenze. Nel Cantus Circeus, anch’esso pubblicato a Parigi nel 1582 insieme al De umbris idearum, Circe è colei che, per mezzo d’incantesimi, riconduce alla loro forma naturale uomini che sono tali solo in virtù delle loro sembianze, ma che in realtà celano anime bestiali5. La magia è possibilità d’intervento sulla natura, ciò che rende visibile la vera forma delle cose, che disvela e fa trasparire una realtà confusa, ingannevole e cangiante6. Il ricorso di Bruno alla magia si delinea e si complica ulteriormente nel Sigillus sigillorum pubblicato a Londra nel 1583. In questo trattato, dedicato all’esame delle diverse specie di contractiones animi, egli traccia una chiara distinzione tra due forme di magia: una prima, che opera per mezzo di una «regulatam fidem»7, nel tentativo di assecondare o migliorare l’azione della natura8; e una seconda che, servendosi della credulità popolare o di forme depravate di fede, trasforma la natura migliore in una realtà deteriore9. La definizione della magia procede di pari passo alla comprensione dell’unico «sensus»10 che accomuna tutti Cfr. ivi, p. 37. Ivi, pp. 38-41, pp. 71-73, pp. 117-120, pp. 132-134. 4 Ivi, p. 38. 5 Cantus, p. 602. 6 Ivi, pp. 618-622. 7 Sigillus, p. 264 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 262. 10 Ivi, p. 264. 2 3
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gli elementi e i corpi naturali, permettendo la reciprocità delle relazioni, delle attrazioni e dei legami. Quest’unico sensus che pervade la natura è un grande demone «qui amor est»11, il quale lega l’anima al corpo e congiunge tra loro tutti gli enti che compongono l’universo. L’amore è la forza che permette di riconoscere come la magia sia intimamente presente in ogni essere vivente. Esso è il motore di tutti gli elementi e i corpi. Questi, infatti, non sono mossi da una forza a loro esterna, ma si muovono in virtù di un principio intrinseco, per un impulso che li spinge a fuggire il male o il contrario per ricercare il bene o il simile12. Bruno inserisce l’amore, insieme alla magia, tra i quattro Rectores in virtù dei quali tutto è stato prodotto: esso rappresenta il sensus da cui discende l’«appetitus»13 insito in ogni cosa. Persino i grandi animali e dèi che sono i pianeti14, si muovono per un principio d’amore intrinseco intorno a ciò che garantisce loro la conservazione. Tutti i corpi, dai più semplici ai composti, partecipano dello stesso sensus o amore che è la stessa natura. Non è un caso se, nel paragrafo del Sigillus dedicato alla trattazione della magia, egli faccia costantemente riferimento all’amore come forza motrice: in quanto fondata e non scindibile dal principio per cui tutte le cose muovono verso ciò che è a loro più conveniente15, la magia è definibile soltanto in relazione all’amore e viceversa. Essa è, al tempo stesso, strettamente connessa alla natura, definibile in rapporto a questa e al principio d’amore e d’unità che incarna. Soltanto attraverso il riconoscimento di tale forza insita nell’universo, del rapporto di simpatia e antipatia che pervade tutti gli elementi, la magia potrà farsi «naturae cunctipotentis aemula et socia»16. Tra natura, magia e amore vi è, dunque, un rapporto d’interdipendenza reciproca. La natura agisce come principio d’amore che lega tra loro l’infinita molteplicità dei contrari che la compongono. Essa rapIbidem. Cfr. ivi, p. 266. 13 Ivi, p. 264. 14 Cfr. Ibidem. 15 Cfr. ivi, p. 266. 16 Ibidem. 11
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presenta il paradigma esemplare da cui trae origine la magia: quest’ultima stabilisce legami e relazioni tra tutti gli enti, ivi compreso l’essere umano, allo stesso modo in cui la natura stringe e lega tra loro i corpi e gli elementi che si muovono al suo interno. La natura, grande demone o amore, e la magia, si delineano in tutta la produzione bruniana come termini non separabili e in cui ognuno rimanda vicendevolmente all’altro. Nonostante il Sigillus non sia un’opera magica, tuttavia la prospettiva teorica, il linguaggio e le questioni esaminate costituiscono l’orizzonte in cui Bruno collocherà la riflessione sulla magia nei suoi ultimi scritti. Anche nei dialoghi italiani il ricorso alla magia è associato all’affermazione della natura come vincolo d’amore che riconduce a unità il molteplice. Nel De la causa, pubblicato a Londra nel 1584, il solo ricorso alla magia compare in associazione al riconoscimento dell’unità in cui tutti i contrari si ricongiungono17. La possibilità d’agire sulla molteplicità del reale per mezzo della magia è fondata sulla comprensione del processo per cui tutte le differenze procedono dall’Uno e a questo fanno ritorno. Soltanto attraverso la comprensione di quest’intima dinamica naturale, il filosofo, mago e sapiente sarà in grado d’agire per legare tra loro i contrari. L’ontologia dell’identità e della differenza tra l’Uno e il molteplice, elaborata nel De la causa, rappresenta la prospettiva filosofico-naturalistica in cui è collocato non soltanto il ricorso alla magia, ma in cui è elaborata, in linea di continuità, sia la riflessione cosmologica che quella etico-civile. Questa non separabilità della comprensione dell’unità della natura dalla considerazione della molteplicità e contrarietà degli enti, è particolarmente visibile nello Spaccio pubblicato a Londra nel 1584. Bruno dedica diverse pagine all’analisi della magia, laddove, ripercorrendo il mito dell’antichissima sapienza degli Egizi18, la descrive come un’arte in grado di porre gli esseri umani in comunicazione con gli dèi, ristabilendo la connessione tra l’uomo, la natura e Dio, interrottasi con l’avvento delle religioni giudaico-cristiane. Anche in questo caso è in 17 18
Cfr. Causa, p. 295. Spaccio, pp. 631-632.
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atto un rifiuto delle forme di idolatria per cui alcuni falsi sapienti «cercano la divinità, di cui non hanno raggione alcuna, ne gli escrementi di cose morte et inanimate»19. È questa l’evoluzione di un processo di demistificazione del sapere magico, di quello che Maurizio Cambi definisce il «recupero di una sapienza originaria»20, che dal Candelaio al Cantus, dal Sigillus al De la causa, dallo Spaccio sino al De monade21, occupa le pagine delle opere bruniane e che troverà uno specifico spazio d’approfondimento negli ultimi scritti magici. Il richiamo al mito di un’antichissima sapienza degli Egizi non assume nello Spaccio i caratteri di un elemento sostanziale o di recupero dell’ermetismo neoplatonico, quanto piuttosto, di un argomento funzionale al progetto di riforma etico-civile esposto. Quato richiamo fa da contraltare alla decadenza dei falsi maghi, sapienti e profeti che hanno operato una scissione tra l’uomo, la natura e la divinità, non riconoscendo come quest’ultima sia percepibile proprio attraverso la comprensione dell’unità e del legame d’amore che stringe tra loro la molteplicità dei contrari. La riflessione sulla magia è anche qui, come nelle opere precedenti, sempre legata a una concezione ontologica e cosmologica della natura, «del cosmo vivente» inteso come un «sacrum animal»22. Ogni atomo, particella e corpo che abita l’universo è connesso a ogni altro per mezzo dell’unico sensus, dell’amore iscritto in tutte le cose. Anche negli Eroici Furori, ultimo dei sei dialoghi italiani, pubblicato a Londra nel 1585, il riferimento alla magia è inserito all’interno della comprensione della relazione ontologica tra l’unità dell’essere e la molteplicità delle sue manifestazioni. A mutare rispetto ai dialoghi precedenti è, invece, l’impostazione gnoseologica: Bruno si spinge oltre
Ivi, p. 632. Cfr. M. Cambi, il De magia e il recupero della sapienza originaria. Scrittura e voce nelle strategie magiche di Giordano Bruno, «Archivio di storia della cultura», VI, (1993), pp. 9-33. 21 Cfr. De monade, p. 415. 22 M. Cambi, Esoterismo. Giornata di studi intorno al volume 25 degli Annali della Storia d’Italia Einaudi, in «Laboratorio dell’ISPF», VIII, 1-2 (2001), p. 21. 19
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i limiti posti nel De la causa23 che escludevano la possibilità di accesso alla causa e principio primo. Il furioso, filosofo, mago e sapiente, colui che vuol penetrare l’unità della natura, ricerca un oggetto mutevole e proteiforme che si sottrae a ogni tentativo di apprensione e definizione. Soltanto attraverso i «mastini et i veltri»24 dell’immaginazione e dell’intelletto, della cognizione e della volontà, dell’isolamento e del ripiegamento su sé stesso, egli potrà tendere le sue capacità e accedere alla visione di Diana, riflesso, nella natura, dell’unità dell’essere. La traccia da seguire è quella delineata nel Sigillus, la via che dall’amore all’unità del senso conduce sino al riconoscimento dell’Uno. Tuttavia, mentre nel Sigillus e nei dialoghi precedenti l’apprensione dell’unità procedeva secondo una rappresentazione scalare, nei Furori essa è rifratta, spezzata, moltiplicata come in uno specchio in cui ogni frammento lascia intravedere e scorgere la totalità 25. Un’apprensione questa, o una conquista, mai definitiva ma temporanea e instabile. I Furori si caratterizzano, più dei dialoghi precedenti, per un lessico che rimanda al tema dell’eros, particolarmente riscontrabile nel ricorso al tema dell’«esca edace»26: un’esca d’amore che colpisce gli occhi del furioso accecandolo e rendendolo amante e servo della verità, in un legame indissolubile con il proprio desiderio di conoscenza 27. L’esca, la «mors osculi»28, il «laccio»29 o il «nodo»30 che incatenano il furioso al desiderio di scorgere l’unità della natura sono un elemento portante del dialogo. Seppur risulti assente nel contesto teorico dei Furori la prospettiva civile che sarà propria del De vinculis31, questi si configurano come una Causa, pp. 205-207. Furori, p. 819. 25 Cfr. Processo, p. 301; cfr. S. Bassi, L’arte di Giordano Bruno. Memoria, Furore, magia, Firenze 2004, p. 80. 26 Furori, p. 941, p. 841. 27 Cfr. ivi, pp. 917-918. 28 Cfr. ivi, p. 895; cfr. De vinculis, p. 526-528. 29 Cfr. ivi, pp. 807-809, p. 826, p. 850, p. 870, p. 902, p. 941. 30 Cfr. ivi, p. 772, pp. 808-809, p. 846, p. 902, p. 941. 31 Cfr. S. Bassi, L’arte di Giordano Bruno, cit., p. 83. 23 24
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specifica trattazione dell’amore, quasi raccogliendo, approfondendo e riformulando le questioni poste nel Sigillus e nel De la causa. Molteplici sono i richiami ai Furori presenti nel De vinculis, oltre a quelli testuali32. Come il furioso non può fissare direttamente e con occhio fermo Diana nuda, ma osservarla per pochi istanti nascondendosi nella penombra della selva, così il vinciens deve agire fugacemente sul soggetto da vincolare, velando lo sguardo e dissimulando la propria intenzione33. Gli strumenti necessari al furioso nella sua infaticabile ricerca sono gli occhi e il cuore, la cognizione e il desiderio: gli stessi senza i quali non è possibile vincolare né, tantomeno, essere vincolati34. Ma la ragione più profonda dello strettissimo legame tra i Furori e il De vinculis sta nella centralità attribuita all’amore, radice di ogni vincolo. Come nel De magia e nelle Theses, così anche nell’ultimo degli scritti magici Bruno recupera e approfondisce quanto elaborato nei Furori e nelle precedenti opere, vale a dire la dipendenza di tutte le attrazioni dall’universale legame d’amore35. Il ricorso alla magia costituisce un elemento teorico costante della riflessione filosofico naturalistica e politico-civile del Nolano. Nelle opere pubblicate tra il 1582 e il 1585 appaiono condensate alcune delle principali questioni che saranno poi ripercorse qualche anno più tardi proprio negli scritti magici. Questi ultimi lavori non sono estranei alla precedente riflessione filosofica, ma incarnano, piuttosto, la necessità di approfondire lo studio della magia, nel tentativo di ripensarla e riformularla in una prospettiva naturalistica, radicandola nel contesto dell’ontologia, della fisica e della cosmologia proprie della nolana filosofia esposta nei dialoghi.
Cfr. De vinculis, p. 426; cfr. Furori, p. 795. Cfr. De vinculis, p. 446. 34 Cfr. ivi, p. 450. 35 Cfr. ivi, p. 492. 32 33
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2. Fides e credulitas. Il «primum fondamentum universae unionis» Una delle prime questioni che Bruno riformula nel passaggio dal De magia mathematica al De magia è quella relativa alla fides36, presupposto necessario all’istituzione di vincoli reciproci, «primum fundamentum universae unionis»37. La necessità della fides quale elemento indispensabile all’azione del mago rappresenta un motivo ricorrente, dal Picatrix latinus38, passando per il De vita39 di Ficino sino al De occulta philosophia di Agrippa40. La fides è una ferma intenzione e una forte applicazione che rinvigorisce quanto si ha in animo di compiere. Essa è indispensabile anche nella pratica medica, poiché soltanto la fiducia nel medico e nei suoi rimedi può garantire una guarigione, a volte anche più del farmaco stesso41. Tanto nella medicina quanto nella magia sono necessarie una fortissima fede nelle proprie possibilità e una capacità di suscitare consenso in coloro su cui si opera. Il rapporto di fede è duplice: verso sé stessi e la propria capacità di attrazione; verso coloro su cui si opera e sulla fiducia che si è in grado di accordare. In questa stessa riflessione Bruno fa rientrare anche la prassi religiosa, ovvero la profezia. Il vincolo di fede è, in magia, in medicina e in profezia, una condizione imprescindibile. La fede, come il timore, l’ira, l’invidia, la malinconia e sentimenti simili, agisce attraverso l’anima sui corpi e viceversa: affinché un’azione sia efficace essa deve essere rivolta verso animi ben disposti o che si lascino penetrare. Se un’anima Cfr. D. Giovannozzi, «fides», in Enciclopedia Bruniana & Campanelliana, Giornate di studi 2001-2004, E. Canone e G. Ernst (a cura di), Pisa-Roma 2006, vol. I, pp. 36-46; cfr. Id.,“Fides” e “credulitas” come termini chiave della scienza magica in Cornelio Agrippa e Giordano Bruno, in Letture bruniane I-II del Lessico Intellettuale Europeo 1996-1997, E. Canone (a cura di), Pisa-Roma 2002, pp. 95-118. 37 De magia math., p. 8. 38 Picatrix latinus, I, 5. 39 M. Ficini De vita libri tres, in Opera, Basilea 1576, vol. I, lib. III, cap. 20, p. 561. 40 C. Agrippa, De occulta philosophia libri tres, V. Perrone Compagni (a cura di), Leiden-New York-Köln 1992, lib. I, cap. 66, p. 228. 41 Ibidem. 36
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risultasse particolarmente dura, opponendo un ostacolo e una chiusura in modo da non lasciarsi avvincere dal vincolo di fede, allora non vi sarebbe alcun modo per legarla. Un «signum»42 di ciò è riscontrabile nell’impossibilità di operare «virtutes»43 da parte dell’«efficacissimo Dei filio in patriam suam […] propter incredulutatem illorum»44. Quest’episodio riportato dai tre vangeli sinottici (Mt. 13, 53-58; Mc. 6, 1-6; Lc. 4, 16-30) è ripreso da Bruno nel De magia mathematica45 attraverso il racconto di Matteo e di Marco, che insistono più di Luca sull’astensione di Gesù dal compiere miracoli tra i suoi concittadini. Come ha evidenziato Fabrizio Meroi46, Bruno intreccia le versioni dei due evangelisti seguendo una modalità d’incastro delle fonti frequente nei suoi testi. Intersecando il racconto di Matteo a quello di Marco, egli interpreta le virtutes compiute da Gesù, come possibili soltanto in una collettiva partecipazione di fede. L’utilizzo dei due vangeli rimarca «l’impotenza di Gesù di fronte alla ‘incredulità’»47. Nel passaggio dal De magia mathematica al De magia Bruno recupera il tema della necessità della fides relativamente ai prodigi compiuti da «eo qui per se potest omnia facere»48, il quale, però, «non poterat curare eos qui ei non credebant»49. Se nel De magia mathematica il riferimento al profeta è diretto, ora appare, invece, in forma indiretta. Egli preferisce narrare l’episodio rifacendosi all’autorità di non specificati teologi che hanno interpretato il racconto biblico ammettendo l’impotenza del figlio di Dio.
De magia math., p. 10 Matteo, 13, 53-58. 44 De magia math., p. 10. 45 Ibidem. 46 F. Meroi, Sull’ idea di «fides» in Giordano Bruno, in La magia nell’Europa moderna. Tra antica sapienza e filosofia naturale, F. Meroi ed E. Scapparone (a cura di), Atti del Convegno (Firenze 2-4 ottobre 2003), Firenze 2007, p. 449. 47 Ibidem. 48 De magia, p. 282. 49 Ibidem. 42 43
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Il recupero nel De magia del versetto marciano «non poterat ibi virtutem ullam facere»50, anziché del matteano «non fecit virtutes multas»51, si pone in linea con le correnti della patristica cristiana che avevano riconosciuto l’imprescindibilità della fides rispetto alla possibilità di Gesù di compiere prodigi, tra cui, primo fra tutti, Origene. Nel commentare questo passo, egli interpretava la testimonianza di Matteo attraverso quella di Marco, sottolineando sia l’impossibilità di trasporre il “non poté” in un “non volle”, sia la necessità della fede altrui per compiere prodigi anche da parte del figlio di Dio: Deinde videre licet illud: «Non fecit virtutes multas propter incredulitatem illorum.» Per illa autem docemur virtutes in credentibus factas fuisse, quandoquidem «omni qui habet, dabitur et abundabit;» in incredulis autem non modo non egisse virtutes, sed quemadmodum scripsit Marcus, nec potuisse agere. Animum enim advertere ad illus: «Et non poterat ibi virtutem ullam facere;» non enim dixit, «nolebat,» sed, «non poterat,» tanquam in virtutem agentem adveniret adjumentum ex illius fide in quem virtus agebat; impeditur autem ab incredulitate, quominus ageret. Nota autem quaerentibus: «Quare non potuimus ejicere illus?»: «Propter incredulitatem vestram;»52.
Sia per Origene, sia per Bruno la fides è condizione necessaria: se per il primo i prodigi sono possibili in un contesto di reciproca fiducia tra l’agente e il paziente, allo stesso modo, per il secondo l’azione può risultare efficace solo se rivolta a soggetti disposti a credere e ad accordare fiducia all’agente. Il consenso e la fede determinano l’efficacia dell’azione prodigiosa, come di quella magica, medica e profetica53. Tuttavia, se per Origene la fides è un sentimento attinente esclusivamente Marco, 6, 5-6. Matteo, 13, 58. 52 Origenes Commentaria in Evangelium secundum Matthaeum, in Opera omnia, Patrologia greca, opera et studio DD. Caroli et Caroli Vincentii Delarue, accurante et denuo recognoscente J.-P. Migne, Thurnolti 2002, t. XIII, p. 883. 53 F. Meroi, Sull’ idea di «fides» in Giordano Bruno, cit., p. 461. 50 51
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all’ambito della religione, per Bruno questa assume un significato più generale che investe tutti i possibili legami. Nell’utilizzo del racconto evangelico nel De magia non vi sono, a differenza del De magia mathematica, riferimenti ai miracula o alle virtutes compiute da Gesù. Nella conclusione del passo, egli insiste sulla derisione che colpisce il Nazzareno, disprezzato dai suoi concittadini sia come medico, sia come profeta. Quest’aggiunta è assente dal De magia mathematica e presente nel solo De magia. Attraverso il recupero del racconto evangelico di Luca, con la nota espressione «nemo propheta acceptus in patria sua»54, egli osserva come risulti più agevole vincolare dove si è meno conosciuti, potendo far leva su di una predisposizione alla fede, mentre questa sia difficilmente accordabile nella comunità d’origine. Nell’intreccio bruniano delle fonti bibliche è riscontrabile un tentativo di spoliazione della natura divina soprannaturale di Gesù, considerato come un mago guaritore che, senza il consenso e la fede di coloro su cui opera, «non poterat vincire»55. Quest’operazione di naturalizzazione del divino non investe il rifiuto dell’ambigua natura del Cristo, divina e umana, finita e infinita. La ragione del ricorso alle fonti bibliche nel De magia è, invece, legata all’esigenza di porre la fides a fondamento di ogni forma d’azione per vincula. L’azione guaritrice di Gesù rientra nello stesso orizzonte naturale in cui è collocata la prassi magica: il miracolo, le guarigioni, la profezia, come anche il governare una comunità, sono tutte prassi assorbite nella magia, poiché tutte fondate sulla capacità del soggetto agente d’istituire vincoli, relazioni e legami con il paziente per mezzo della fides. Il recupero del racconto evangelico di Gesù mago guaritore è collocato nel De magia nel paragrafo dedicato all’analisi del vincolo della fantasia. Magia, medicina e profezia operano allo stesso modo, aprendo, vincolando e incatenando i sensi grazie alla potenza della fides e della fantasia56. Bruno pone su di uno stesso piano fides e imaginatio, osserLuca, 4, 24. De magia, p. 282. 56 Ivi, p. 280. 54 55
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vando come l’immaginazione che l’agente è in grado di suscitare nel paziente sia strettamente connessa alla capacità di vincolare attraverso la fede. L’imaginatio è il «vinculum vinculorum»57, il legame più potente ed efficace. Ma occorre combinare questo legame con il vinculum fidei senza il quale non si dà alcuna possibilità di vincire: come Bruno osserva citando Ippocrate «“efficacissimum medicorum esse illum cui plurimum credunt”»58. Questa considerazione non attiene soltanto al medico, ma a tutti coloro che vincolano attraverso l’eloquio, la presenza e la loro fama, comune a ogni genere di magia che vincoli attraverso l’immaginazione. Chi vincola attraverso l’immaginazione difficilmente potrà attivare questo potere in assenza del vincolo di fede. Dall’imprescindibilità della fides, Bruno legge tutte le prassi fondate sull’istituzione di vincoli come interconnesse, non separabili e assorbite nella magia naturale. La fides è indispensabile al soggetto agente per esercitare un’attrazione e un’affezione sia sul corpo del paziente attraverso l’anima, sia sull’anima attraverso il corpo. Il vincire è duplice: da un lato, modifica la materia penetrando la forma, dall’altro, modifica la forma penetrando la materia. La potenza della fides è tale d’aprire e predisporre l’animo di coloro che s’intende legare come se «fenestras aperiat ad solem concipiendum»59. Essa rende l’animo del paziente disponibile a lasciarsi penetrare dalle «impressiones quae ligatoris ars requirit»60. Solo per mezzo di essa il mago, il medico, il profeta, come anche il politico, potranno vincolare attraverso «omnia quorum vires ex animo in corpus alterando transmigrant»61. La fides deve essere presente allo stesso modo nel soggetto agente, nel paziente e nelle circostanze dell’agire62. Questa condizione di operabilità, sia nella dimensione della magia naturale e della medicina, sia in quella civile, si traduce in un principio costante rintracciabile in Ivi, p. 282. Ibidem. 59 Ivi, p. 244. 60 Ivi, p. 282. 61 Ivi, pp. 284. 62 Ivi, p. 244. 57
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ogni specie di vincolo e in tre elementi fondamentali: «potentia activa in agente, potentia passiva in subiecto seu dispositio […] quae est circumstantias temporis, loci et reliquorum concurrentium»63. Queste tre condizioni necessarie all’operare magico sono ribadite nelle Theses e nel De vinculis, laddove Bruno esamina le possibilità del vincire a partire dai tre punti di vista prospettici dell’agente o vinciens, del paziente o vincibile, dei tempi e dei luoghi di applicazione del vincolo. 3. Magia, fides, contractio e imaginatio. Elementi teorici del Sigillus Sigillorum nel De magia La necessità della fides nella prassi magica, medica e profetica, costituisce un elemento presente sin dai primi scritti filosofici di Bruno. Nella seconda parte del Sigillus egli rintraccia proprio nella fides ciò che permette definire e distinguere la magia nelle sue diverse forme. Attraverso la fides è possibile distinguere una prima forma di magia, praticata per lo più da «reprobos magos»64, la quale «per credulitatem fidei vim vel per alias non laudabiles conctractionis species sensum mortificat […], ut natura melior in alicuius deterioris imaginem transformetur»65; e una seconda che «per regulatam fidem et alias laudandas contractiones species tantum abest ut sensus perturbatione quandoque utantur, ut eumdem claudicantem fulciat, errantem corrigat, imbecillem et obtusum roboret et acuat»66. Dalla distinzione tra credulitas e fides, egli traccia una prima distinzione tra una magia desperatorum e una sapientia magica. Questa distinzione procede in parallelo al riconoscimento delle molteplici forme di contractiones, o contrazioni dell’anima, e delle facoltà atte a compierle – il senso, l’immaginazione e la potenza cogitativa – descritte nella prima parte del Sigillus. Nella presentazione della quinta specie Ivi, pp. 250-252. Sigillus, p. 262. 65 Ibidem. 66 Ivi, p. 264. 63
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di contractio, ad esempio, egli osserva come per effetto dell’«affectum fidei»67 l’animo acquisti dominio sul corpo. E in effetti, eccellono i medici nei quali è riposta la fiducia di molti68, inversamente a come i maghi che non suscitino consenso «non devincient, non exolvent, non commovebunt, non inculcabunt spiritum»69. Medicina e magia, insieme alla profezia, appiono già nel Sigillus, prim’ancora che nel De magia, prassi comuni fondate sugli stessi principi e strumenti. La contractio è la più alta forma di concentrazione attraverso cui l’anima, raccogliendosi in sé stessa e ritenendo le proprie intellezioni, può arrivare a compiere prodigi. Essa consiste nella capacità di modificazione che l’anima esercita sul proprio corpo e sui corpi esterni, per mezzo dei poteri derivanti dall’immaginazione e dall’intelletto. Dal potenziamento di queste facoltà, ottenuto grazie all’isolamento, al silenzio, alla riflessione e alla concentrazione in sé stessi, il soggetto imparerà ad agire «in similibus per consimilia, in proportionalibus per comproportionalia, in diversis per analogicas rationes, in contrariis tandem per opposita pariter industrius»70. Questa forma di magia naturale è concepita a partire da tecniche di attrazione praticate sia su sé stessi che sugli altri, fondate sull’uso dei vincoli dell’immaginazione e sulla capacità di suscitare phantasmata, immagini fantastiche. Il soggetto agente deve, però, avere sempre presente i rischi del legare attraverso l’immaginazione: tra tutti, il pericolo più frequente e che determina la specie stessa di contractio è quello di non comprendere e dominare le immagini fantastiche, bensì di esserne compresi e dominati, non agendo, ma essendo agiti71. Si tratta di un pericolo costante non soltanto nella pratica della contractio, ma nel processo conoscitivo: se i nostri sensi e il nostro intelletto sono sempre illuminati dal perfetto dominio dell’unico senso e dell’unico intelletto universale, così non è per quanto riguarda le potenze intermedie legate all’immaginazione che Sigillus, p. 232. Ibidem. 69 Ivi, p. 234. 70 Sigillus, p. 252. 71 Ibidem. 67
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se, da un lato, sono da noi dominate, dall’altro, ci dominano72. Nella diversa capacità di agire sull’immaginazione, sui suoi vincoli e per mezzo di essi, Bruno delinea una distinzione gnoseologica e antropologica: la capacità di essere attivi e di agire sulle proprie o altrui immagini che dalla sensibilità e attraverso l’immaginazione impressionano la ragione, o l’essere passivi e agiti dall’immaginazione. È questa la distinzione tra quanti si rendono schiavi, dominati da passioni e immagini proprie o altrui, che incatenano l’animo e la mente, e quanti sono, invece, capaci di dominarle, legandosi a vincoli che liberano l’uomo conducendolo al compimento massimo delle proprie facoltà, a farsi razionale ed eroico. Nel Sigillus, l’analisi delle facoltà conoscitive e delle diverse specie di contractiones è sempre connessa all’ontologia della nolana filosofia, in una prospettiva che lega la riflessione sull’essere e sul suo riflettersi nel molteplice con le condizioni di una sua comprensione. Il processo conoscitivo procede secondo una sostanziale unità, specchio dell’indivisibile unità della mens o della causa e principio primo, che pur esplicandosi in una molteplicità di elementi fa eternamente ritorno alla sua unità originaria. Allo stesso modo, ponendo un’identità tra il modello ontologico e quello gnoseologico, tra essere e pensare, Bruno definisce il processo conoscitivo come unitario, organico e omogeneo, pur nella distinzione dei gradi e dei momenti che lo caratterizzano. Si tratta di un rifiuto della tradizionale gerarchia e distinzione delle facoltà conoscitive a favore dell’affermazione della loro unità. Queste non rappresentano facoltà differenti, quanto piuttosto, come osserva Scapparone, «funzioni dell’anima»73, in cui le loro distinzioni non sono reali o strutturali, ma operative, poiché partecipano a un comune atto e a uno stesso principio spirituale e intellettuale. Quasi facendosi erede e portavoce della lezione del Socrate del Fedone, Bruno invita a ricercare sempre «in omni multitudine unitatem, in omni diversitate identitatem»74. Questa ricerca dell’unità nella molIvi, pp. 210-212. E. Scapparone, ‘Raptus’ e ‘contractio’ tra Ficino e Bruno, in Letture bruniane I-II del Lessico Intellettuale Europeo 1996-1997, cit., p. 269. 74 Sigillus, p. 224. 72 73
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teplicità, dell’identità nella diversità, costituisce una questione nodale nell’intero percorso della sua filosofia: soltanto dopo aver riconosciuto l’unità originaria da cui tutto procede e a cui fa ritorno, riflessa in ogni aspetto del reale, sarà possibile conoscere e agire sull’apparente molteplicità e diversità, stabilendo connessioni e legami tra gli individui. Non è un caso che la necessità di una conoscenza unitaria dell’essere sia esposta come premessa alla presentazione delle quindici specie di contractiones descritte nell’opera. Questa pratica è, infatti, caratterizzata proprio dal «raccogliersi dell’anima in sé stessa nel tentativo di attingere […] l’unità, come se essa si riducesse ad un punto»75, quasi a imitazione dell’Uno. Nella presentazione delle contractiones Bruno riprende il libro XIII della Theologia platonica di Ficino. Egli esclude, però, la distinzione ficiniana tra gli affectus phantasiae76 – le passioni provenienti dall’attività fantastica come il desiderio, il piacere, la paura e il dolore – e gli affectus rationis – gli strumenti attraverso i quali la mente, raccogliendosi in sé stessa e giungendo a stati di coscienza più elevati, è in grado di liberarsi «a corporis vinclis»77. L’esclusione di questa distinzione è tesa a ribadire l’unicità del processo gnoseologico sia nell’ascenso verso la conoscenza intellettuale, sia nel descenso verso la sensibilità e le immagini fantastiche. Allo stesso modo, egli riformula anche i modelli e gli exempla delle specie di contractones. Per Ficino la contractio è la capacità dell’anima razionale di astrarsi dalle leggi fisiche, per innalzarsi fino al ricongiungimento con il divino. Gli esempi addotti sono quelli dei filosofi, Pitagora, Socrate, Zoroastro e Plotino, i quali vivendo a lungo in solitudine furono capaci di liberarsi dai nodi corporei per giungere a più alti livelli di contemplazione, dei poeti, rapiti da un «divino furore»78 e, infine, dei ‘sacerdoti’, tra i quali l’Apostolo Paolo, condotto al grado supremo della conoscenza divina grazie all’amore di Dio. La più alta E. Scapparone, Raptus’ e ‘contractio’ tra Ficino e Bruno, cit., p. 270. Cfr. M. Ficini Theologia Platonica sive de immortalitate animarum, in Opera, Basilea 1576, vol. I, lib. XIII, cap. 1, p. 284. 77 Ivi, lib. XIII, cap. 2, p. 286. 78 Ivi, lib. XIII, cap. 2, p. 287. 75 76
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espressione della contractio e il modello privilegiato di comunicazione con il divino a cui un’anima può tendere è, secondo Ficino, la profezia. Per mezzo di essa e degli affectus rationis l’anima può elevarsi a una conoscenza più elevata rispetto all’attività fantastica, così da giungere alla visione di un ordine superiore che oltrepassa quello naturale. Ma ciò è possibile soltanto a un’anima in grado di separarsi e interrompere il contatto con la realtà fisica e corporea, così da farsi vaso e strumento della divinità, in modo da accogliere la serie delle menti superiori puramente intellettuali. Questa forma di contractio è definita da Ficino vacatio animi, una contrazione dell’anima in sé stessa attraverso la quale il sapiente, sospendendo il contatto con le potenze corporee e materiali, può intraprendere il cammino di liberazione, purificazione e ascesa verso le realtà superiori79. Qualora un soggetto umano si disponga a farsi strumento del divino, l’anima razionale potrà compiere prodigi e miracoli attraverso il potenziamento della ratio e della virtus phantastica. Bruno riprende questi exempla nel Sigillus e, qualche anno più tardi nel De monade80. Tuttavia, nonostante le assonanze concettuali e lessicali, profondamente diversa è la prospettiva nella quale egli inscrive l’analisi delle quindici forme di contractiones. Egli introduce la prima di queste riprendendo l’esempio ficiniano dei filosofi, dei poeti, dei sacerdoti e dei profeti che si sono allontanati nel totale isolamento, per accedere a un più alto livello di coscienza. In virtù della contractio loci, della solitudine dell’eremo o dell’isolamento volontario dalla moltitudine, Pitagora, Zoroastro, Mosè, Gesù di Nazareth, Raimondo Lullo, Paracelso, sono diventati iniziatori di arti, scienze, virtù, buoni costumi, maestri, guide e pastori di popolo. Vi è qui, però, una radicale distanza rispetto alla fonte: se Ficino pone una gerarchia tra i diversi livelli di contractio, che procede dai filosofi sino a giungere ai profeti, espressione più alta del ricongiungimento al divino, per Bruno non sussiste alcuna differenza tra queste figure, né una loro possibile gerarchizzazione. Egli pone in una stessa prospettiva filosofi, poeti, medici, maghi, profeti e legislatori, accomunati tutti dall’originaria necessità d’isolarsi dalla 79 80
Ivi, lib. XIII, cap. 2, p. 292. De monade, p. 441.
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molteplicità per intensificare le proprie forze e acquisire una consapevolezza più profonda di sé, della natura e degli esseri umani. Prendendo spunto dall’esame della contractio, egli osserva come soltanto per mezzo della meditazione e dell’isolamento figure come Pitagora, Zoroastro, Mosè o Gesù abbiano potuto raggiungere più alti livelli di coscienza così d’«attingere alla fonte da cui scaturiscono i fondamenti della vita civile e alla possibilità di istituire nuovi ordini e nuove leggi»81. Già in queste pagine del Sigillus, dunque, sulla scorta della fonte ficiniana, Bruno traccia quella strettissima analogia, poi sviluppata nel De magia, tra le prassi magica, medica, profetica e politico-civile. Queste costituiscono una sapientia unica, seppur explicata in diverse forme: una conoscenza dell’unità da cui tutte le molteplicità e contrarietà hanno origine e a cui fanno ritorno, un sapere dell’essere e della natura in cui l’essere umano è assorbito e incluso. Soltanto imparando a riconoscere l’unità nel molteplice e l’identità nella diversità, sarà possibile agire sulla natura e, ancor più, sugli esseri umani. La prospettiva qui elaborata è la stessa degli scritti magici. Se nel De magia, medicina, profezia e politica sono ambiti interconnessi e assorbiti nella magia naturale, tutti fondati e accomunati dal vincolo della fides e tesi a istituire legami tra gli esseri umani, è in queste pagine del Sigillus che possiamo rintracciare le origini di questa riflessione. 4. Imaginatio attiva e passiva tra il Sigillus e il De magia. Agire ed essere agiti Nell’esame della contractio loci Bruno pone una distinzione tra due forme di ozio rappresentate, rispettivamente, da quanti si ritirano in solitudine alla ricerca della verità e della virtù, e quanti si sottraggono alla «negociosorum conversatione»82, tentando di fuggire l’«humanum laborem et curas»83. Pochi sono i virtuosi che si sono allontanati dalE. Scapparone, Raptus e contractio tra Ficino e Bruno, cit., p. 271. Sigillus, p. 228. 83 Ibidem. 81
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la vita comunitaria per cercare «bonitatem et veritatem»84, mentre la maggior parte, spinti da una forma perversa di ozio, hanno prodotto effetti nefasti per la pace. Già nel Sigillus sono riscontrabili i presupposti della critica che Bruno rivolge contro i riformati e che sarà ripresa, in particolare, nello Spaccio85. Egli li definisce come coloro «qui […] in humanae et civilis conversationis interitum docent homines pro malefactis non timere»86. Alla necessità delle opere sul piano civile, essi sostituiscono delle sordidissime fantasie, ricacciando il mondo nella barbarie che era stata superata grazie all’introduzione della legge. Bruno articola la critica ai riformati nel Sigillus attraverso il recupero di problemi ontologici e gnoseologici legati alla riflessione sulle forme di contractiones utilizzate nella praxis profetica. La dottrina riformata della gratia sola fide fa parte delle «depravatae contractionis species»87, inutile al consorzio umano. Ma queste «miseranda […] contractionis species»88 non sono caratteristiche esclusivamente della prassi religiosa tipica dei riformati89. Riprendendo la vacatio vana di Ficino, egli definisce immonde90 tutte le forme di contractiones praticate da quanti sono dominati da vane fantasie. Tra questi, descrive nell’undicesima contractio gli eccessivi malinconici che, «in grembium materiae crassioris immersi»91, si persuadono di dover ricorrere all’invocazione di un demone, utilizzando riti e cerimonie di «superstiziosa devozione»92. Le invocazioni posseggono una grande efficacia, tanto da turbare la fantasia di quanti si lasciano avvincere. Anche negli apocalittici e nei falsi profeti agisce un’immaginazione tormentata da una «pessime olentis melancoliae»93, che si differenzia Ibidem. Spaccio, p. 517. 86 Ivi, p. 228. 87 Ivi, p. 230. 88 Ivi, p. 240. 89 Cfr. E. Scapparone, Raptus e contractio tra Ficino e Bruno, cit., p. 273. 90 Sigillus, p. 242. 91 Ivi. 244. 92 Ivi, p. 245. 93 Ivi, p. 244. 84 85
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da quella dei malinconici per una «libidinis diversitate»94. Questi sono affetti da una modalità differente ma altrettanto dannosa di piacere, a cui accedono attraverso il turbamento delle loro fantasie, raggiungibile grazie a pratiche di autoflagellazione del corpo, di alterazione del rapporto fra corpo e anima, e di un vitto in contrasto con quanto la loro natura richiederebbe. Attraverso queste specie di contractiones, che sconvolgono e perturbano l’immaginazione e la ragione, Bruno spiega fenomeni come l’estasi o la comparsa delle stimmate. Queste forme di contractiones non sono dannose esclusivamente sul un piano individuale, ma ancor più pericolose per gli effetti che arrecano sul piano pubblico, comunitario e civile. La ragione del pericolo e del danno per cui questi «stulti»95 sono da detestare sta proprio nell’effetto che essi producono sulle menti degli «ignorantium et asinorum»96 ai quali appaiono come «prophetae atque revelatores pietatis»97. Questo genere di contractio è un esempio della magia fondata su di una credulitas non regolata, in grado di produrre effetti nefasti sia sui soggetti attivi, sia sui passivi, trasformando la natura migliore in una realtà deteriore. Un’ultima specie di contractio «pessima»98 è la quattordicesima, prodotta grazie a un vitto nocivo e opposto alla naturale costituzione del corpo. Dall’alterazione dell’alimentazione alcuni soggetti accumulano nel corpo un eccesso di un umore che li rende fanatici e folli, fino a corromperne e alterarne lo spirito e la ragione. I simplices dediti a questa contractio acquisiscono sapere non attraverso un processo conoscitivo, ma tramite la corruzione del corpo e della ragione, nonché dell’arte notoria, ovvero delle invocazioni di demoni. Chi pratica questa specie di contractio, una volta depurato il corpo, risanato e liberato dagli umori maligni, tornerà a essere «talis, qualis semper extiterat, asinus»99. Nella disamina di queste contractiones Bruno accomuna le visioni e le estasi mistiche di tipo religioso a quelle magiche. Le forme di Ibidem. Ibidem. 96 Ibidem. 97 Ibidem. 98 Ivi, p. 248. 99 Ivi, p. 250. 94 95
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misticismo apocalittico e profetico assumono le stesse caratteristiche delle tecniche magiche in grado di provocare l’illusione di una comunicazione con spiriti, angeli e divinità. La comunicazione con forze superiori è esclusivamente immaginaria, frutto di un ricercato eccesso di malinconia e di un turbamento della propria e dell’altrui immaginazione che giunge a corrompere la ragione. Si tratta di una critica che egli rivolge parallelamente sia alle false tecniche di magia e alle contractiones fondate sulla credulitas, sia alle pratiche mistiche tipiche dell’apocalittica cristiana. I pessimi malinconici si persuadono di congiungersi a una qualche divinità in virtù di uno spirito turbato, credendo di sollevarsi oltre la sfera corporea sino a giungere a una comunicazione col divino. I creduloni, i semplici, gli ignoranti e gli asini hanno così l’impressione di essere diventati a un tratto sapienti. Vi è qui una radicale presa di distanza dalla fonte. Se per Ficino l’essere umano può farsi vaso e strumento della divinità ed essere agito da una forza soprannaturale, Bruno rigetta questa possibilità e, con essa, l’idea di una sapientia acquisita o incarnata. L’esempio ficiniano per cui i Galilei, ispirati da Dio, furono trasformati da pescatori in sublimi teologi100, non costituisce nella prospettiva bruniana una reale e concreta forma di sapere. La conoscenza può essere solo il risultato di un lungo e interminabile processo che non avviene per ispirazione divina, ma per umana fatica. Allo stesso modo, se Ficino ritiene che gli esseri umani possano compiere miracoli accogliendo in sé la divinità e divenendo strumenti attraverso cui essa agisce e opera prodigi101, Bruno rifiuta questo tipo di argomentazione. I miracoli o prodigi non rientrano nella sfera del soprannaturale ma sono possibili in virtù di alcune specie di contractiones. È il caso, ad esempio, della tredicesima contractio, in cui egli descrive la levitazione di Tommaso d’Aquino che, grazie alle forze riunite nell’animo, «in unum spiritus animalis sensitivus atque motivus est collectus, ut corpus a terra in aerem vacuum tolleretur»102. Secondo il Nolano questo fenomeno non appartiene al dominio del M. Ficini Theologia Platonica, cit., lib. XIII, cap. 2, p. 287. Ivi, lib. XIII, cap. 5, p. 305. 102 Sigillus, p. 248. 100 101
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soprannaturale e soltanto gli ignoranti possono giudicarlo tale. Questo è prodotto «a naturali tamen animi potentia»103. Quest’ultima contractio, positiva e virtuosa, è il risultato di una malinconia temperata104, caratteristica di ingegni divini105 che si elevano al di sopra della materia per la forza della loro attività cogitante106. La contrapposizione tra queste due specie di contractiones, una positiva e virtuosa e una negativa e deteriore, stabilisce una differenza non soltanto tra due forme di magia e di fides, ma anche tra due modelli gnoseologici. Una corretta e regolata conoscenza è quella in cui l’essere umano agisce e controlla le proprie immagini sensibili, agendo sui propri fantasmi così da non confondere visioni, sogni e allucinazioni con rivelazioni e ispirazioni divine. La capacità di controllare il momento passivo della conoscenza e le potenze intermedie, caratterizza e determina il tipo di contractio. L’immaginazione è un elemento necessario al processo conoscitivo e, al tempo stesso, ciò che assicura alla ragione, nelle sue forme regolate, un equilibrio e una corrispondenza tra percezione e realtà. La distinzione tra le due tipologie di conoscenza segue ed è coessenziale a quella tra le due forme di magia e di fides. Pur se a uno stato originario, nel Sigillus sono già presenti molti degli elementi necessari alla prassi magica descritti nel De magia. La comunanza e le assonanze tra i due testi sono riconducibili principalmente alla relazione tra fides e magia, nonché alla potenza dell’immaginazione, strumento attraverso cui vincolare ed essere vincolati. Nel De magia Bruno riprende gli elementi abbozzati per la prima volta nel Sigillus, curvati nell’orizzonte di una specifica riflessione sulla magia e di una sua riforma. Non è un caso se nel secondo degli scritti magici egli inserisca una trattazione dei vincoli della fantasia e della potenza cogitativa, oltre a quelli della sensibilità, concludendo con l’attribuire un enorme potere proprio alle facoltà intermedie.
Ibidem. Ivi, p. 244. 105 Ibidem. 106 Ibidem. 103
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Nell’esame del «quartum vinculum quod est ex phantasiae»107, egli afferma che compito dell’attività fantastica è quello di accogliere, trattenere e dividere le immagini sensibili108. Ciò può avvenire in due modi: o attraverso la scelta libera del soggetto che immagina, alla maniera dei poeti, dei pittori, di coloro che compongono favole o, più generalmente di quanti con una certa ragione combinano immagini109; oppure «alio pacto extra arbitrium et electione»110, senza, cioè, che il soggetto ne sia consapevole, che possa avere un controllo, né possa organizzare le proprie immagini, vale a dire, essendone agito: il che può avvenire «vel per causam etiam eligentem et voluntariam, vel ab extrinsecus moventem»111. A sua volta, ciò può verificarsi o per l’azione di qualcuno in grado di perturbare l’altro, attraverso voci e immagini che turbano l’anima, oppure in maniera inconscia, immediata, per l’azione dell’immaginazione durante il sonno o la veglia. È a causa di quest’ultima specie di vincolo che alcuni esseri umani hanno l’impressione di udire voci, di vedere immagini che credono a loro esterne. Essi sono ingannati non solo nel senso e nell’immaginazione, ma nella stessa ragione, non avendo più alcun controllo sulle proprie facoltà intermedie, fino a essere agiti dai loro stessi phantasmata. L’immaginazione, «quae est sola porta omnium affectum internorum et est vinculum vinculorum»112, muove sia i soggetti passivi, turbati dalla propria fantasia sino alla ragione, sia i sapienti in grado di dominarla. Come nel Sigillus, anche nel De magia è centrale la distinzione tra le forme positive o virtuose di magia e di contractiones, e quelle deteriori e perniciose. Bruno condanna, ad esempio, il tentativo di congiungersi al divino, di farsi vaso e strumento di angeli o demoni attraverso un’immaginazione turbata. Ma allo stesso tempo, per questo genere di pratiche vale qui lo stesso rimedio già individuato nel testo londinese: De magia, p., 272 Ibidem. 109 Ivi p. 274. 110 Ibidem. 111 Ibidem. 112 Ivi, p. 282. 107
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una «rhetorica […] amica et medica quadam persuasione»113 può aiutare a espellere gli elementi nocivi allo spirito e al corpo. Sia nel Sigillus, sia nel De magia, dunque, fides e imaginatio costituiscono gli elementi attraverso cui distinguere tra forme virtuose di magia che spingono il soggetto ad agire su di sé e gli altri, e forme deteriori che spingono a essere agiti. Il mago, il medico, il profeta e il politico devono, perciò, porre grande attenzione all’opera dell’immaginazione. Questa è la porta principale che guida le azioni e le passioni umane, fondamento del vincolo della ragione, «quod est ex cogitativa»114. Attraverso il controllo della facoltà cogitativa, i fantasmi in grado di vincolare l’animo degli stolti sono disprezzati e non legano una mente disciplinata115, che si lascia avvincere, invece, dalla verità. 5. Scala naturae e sapientia triceps Bruno recupera nel De magia un tema già presente nel De magia mathematica, quello della scala naturae, la rappresentazione gerarchica e scalare dell’essere e del cosmo che da Dio, alle menti angeliche, all’anima razionale, procede sino al mondo animale, vegetale e minerale. Nelle prime battute del De magia mathematica, attraverso il recupero sia di Ficino116, sia di Agrippa117, egli inserisce la magia in questa struttura ontologica e cosmologica118. Questa costituisce l’orizzonte fisico e metafisico nel quale si fonda la teoria e la pratica della magia nel Rinascimento, intesa come la possibilità di canalizzare gli influssi superiori e immateriali sulle realtà inferiori e materiali per mezzo dell’azione mediatrice del mago. Il mago media e lega il mondo delle potenze superiori spirituali alle inferiori e corporali, allo stesso modo in cui, secondo Ficino, l’anima razionale funge da elemento intermedio De magia, p. 278. Ivi, p. 280. 115 Ibidem. 116 Cfr. M. Ficini Theologia Platonica, cit., lib. XVIII, cap. 5, p. 405. 117 Cfr. C. Agrippa, De occulta philosophia libri tres, cit., lib. I, cap. 1, p. 85. 118 De magia math., p. 4. 113 114
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nella gerarchia delle ipostasi, in quanto copula mundi, vincolo tra le realtà divine e quelle materiali. In questa rappresentazione scalare e gerarchica l’essere umano è centro, termine medio, anello di congiunzione tra il piano divino e quello terreno. A ciò corrisponde un cosmo geocentrico, chiuso e delimitato in nove cieli, in cui le realtà sovra lunari influenzano quelle sublunari. Il ricorso di Bruno alla scala naturae non è limitato ai soli scritti magici, ma è presente sin dal De umbris119. Tuttavia, la gerarchia scalare tanto del mondo fisico, quanto di quello metafisico, sembra possedere un valore logico e figurativo, piuttosto che ontologico. Essendo l’Uno totalmente estraneo alle possibilità umane d’intellegibilità, risulta allo stesso modo estraneo dall’orizzonte della conoscenza umana. È questa la ragione per la quale egli interpreta la rappresentazione ipostatica come un processo di figurazione che non corrisponde ad alcuna reale distinzione ontologica120. La scala, tanto dell’essere, quanto dell’universo, possiede un valore esclusivamente figurativo per l’essere umano, ma non riflette, non dice e non può dire nulla della causa e principio primo infinita e inconoscibile. Quella scalare è la necessaria, parziale e limitata via alla conoscenza. Seppur presente in tutto l’arco della sua produzione, dai primi scritti latini sino agli ultimi scritti magici, passando per le opere volgari, il ricorso alla scala naturae assume per Bruno una connotazione prettamente gnoseologica, per essere svuotata del senso ontologico che riveste nelle sue fonti. A differenza del De magia mathematica, nel De magia egli riferisce l’opinione di una scala naturae ai maghi in genere121. Ciò risponde a una duplice necessità: la prima è relativa alle possibilità conoscitive umane, all’incapacità di cogliere l’unità dell’essere infinito e di rappresentarlo a sé stesso, se non attraverso una divisione per gradi e separazioni gerarchiche; la seconda è, invece, legata alla ripresa del patrimonio della tradizione magico ermetica e neoplatonica, in cui la De umbris, pp. 52, 102, 104. Cfr. T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique. L’ idée de philosophie naturelle chez Giordano Bruno, Paris, 1999, p. 110. 121 De magia, pp. 168-170. 119
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magia è pensata all’interno della prospettiva ipostatica e scalare degli enti e del cosmo, in cui il mago funge da termine medio, mettendo in comunicazione i diversi piani dell’essere. Con la redazione degli scritti magici Bruno tenta di ricondurre la riflessione sulla magia nella prospettiva ontologica e cosmologica già tracciata nel Sigillus, nei dialoghi italiani e nei poemi di Francoforte, oltrepassando una rappresentazione antropocentrica, finita dell’essere e dell’universo, per aprirsi a una nuova immagine della natura e, con essa, dell’essere umano. Si tratta di un’operazione complessa e non del tutto lineare, ma la cui chiarificazione consente di comprendere la riforma della magia rispetto alle fonti utilizzate. La via tracciata nel De magia si pone come una ripresa critica e strumentale della letteratura raccolta nel De magia mathematica: un’operazione di naturalizzazione e de-occultamento della magia, già in atto alle origini della nolana filosofia, che appare visibile soltanto attraverso il confronto interno agli scritti magici, da questi alle opere precedenti. L’intera produzione bruniana è accompagnata da una considerazione sul misero stato in cui versa l’arte magica, presente non soltanto nel Candelaio, ma in modo particolare nello Spaccio, laddove egli condanna le forme di mistificazione e idolatria del culto rinascimentale dell’antico Egitto e dei suoi saperi magici122. Se letto nel solco di questo stessa prospettiva, il De magia sembra porsi come un tentativo di radicale riforma del sapere magico, nel senso del re-formare, del ricondurre all’origine più autentica: una riforma necessaria agli occhi di Bruno, poiché il senso di quella sapienza e il suo linguaggio sono stati smarriti. Ma la maggiore conseguenza di questa perdita è l’allontanamento dell’essere umano dal riconoscimento dell’infinità e unità della natura. Nelle pagine iniziali del De magia, dopo aver passato in rassegna nove tipologie di magia e altrettante significazioni del termine mago, Bruno esclude dal proprio campo d’indagine lo studio di quelle forme conosciute come prestigiatoria, notoria, teurgica, negromantica, divinatoria, cerimoniale. Egli rileva come i termini mago e magia abbiano spesso assunto un’accezione indegna, indicando un «maleficus utcunque 122
Cfr. Spaccio, p. 632.
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stultus»123 in grado di compiere azioni benefiche o malefiche attraverso il contatto o il patto con un demone. Quest’accezione non trova alcun riscontro presso i sapienti o i grammatici, ma piuttosto «a quibusdam usurpatur nomen magi bardocullis, qualis fuit ille qui fecit librum De malleo malleficarum»124. Quella utilizzata nel De Malleo Malleficarum è una significazione impropria del termine mago, usurpata «ab omnibus huius generis scriptoribus, ut legere licet apud postillas, catechismos ignorantium et somniantium praesbyterorum»125. Prima di procedere a una definizione del termine è necessario avere ben presente la grande varietà dei suoi significati, spesso differenti a seconda dei costumi, delle credenze e delle culture di popoli diversi126. Ma se utilizzato in senso assoluto, il termine mago assume, secondo Bruno, il suo significato più nobile, vale a dire quello utilizzato dai filosofi e tra i filosofi: «magus significat hominem sapientem cum virtute agendi»127. A questa definizione segue nel De magia la delimitazione del campo d’indagine in cui Bruno inserisce l’analisi della magia, distinguendola in divina, physica e mathematica128. La distinzione tra i tre ambiti teorici e pratici del sapere magico corrisponde a un motivo già accennato nell’apertura del De magia mathematica129. Si tratta di una nota tripartizione delle forme di magia, già presente in Agrippa, in naturalis, coelestis e cerimonialis130, corrispondenti ai tre mondi, elementalis, coelistis e intellectualis131. La seconda di queste forme di magia è detta matematica132, intermedia tra la dimensione naturale e quella divina o metafisica, necessaria alla comprensione dei tempi dell’operare magico e, dunque, neutra, in quanto sia benefica che maligna a seconda dei suoi De magia, p. 166. Ibidem. 125 Ibidem. 126 Ibidem. 127 Ibidem. 128 Ivi, pp. 166-168. 129 De magia math, p. 6. 130 Cfr, C. Agrippa, De occulta philosophia, cit., lib. I, cap. I, pp. 85-86. 131 Ibidem. 132 Ivi, lib. I, cap. 2, p. 86 123 124
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utilizzi. Vi è, però, una differenza rispetto al De magia mathematica e ad Agrippa: i tre mondi non sono ontologicamente separati o indipendenti, ma congiunti, si riflettono reciprocamente l’uno nell’altro, di modo che l’uno produce l’altro133. Seppur la distinzione dei tre mondi e delle tre tipologie di magia esposta da Agrippa compaia implicitamente nel De magia mathematica, nel passaggio al De magia Bruno riformula questa ripresa. I tre mondi discendono gli uni dagli altri e sono indissolubilmente interconnessi tra loro, non certo da un punto di vista ontologico, ma in una prospettiva puramente rappresentativa. In altre parole, questa distinzione non indica una separazione reale ma soltanto formale o ideale, vale a dire non assume un valore ontologico, ma esclusivamente logico e gnoseologico. Con il riconoscimento dei tre mondi, Bruno recupera, riformulandolo, un tema della tradizione ermetica. Si tratta, infatti, di una questione presente nel Corpus Hermeticum, laddove si distingue tra Dio, uomo e mondo134: in quanto Dio si comunica al mondo, o natura, la sua conoscenza da parte dell’essere umano è possibile soltanto attraverso la comprensione della natura intesa come unità135. La letteratura magico ermetica non costituisce, però, l’unica fonte in proposito: come ha osservato Leen Spruit, «nella sua teoria dei tre mondi Bruno aderisce ad una distinzione che risale alla dottrina scolastica degli universalia: ante rem, in re, post rem»136. E in effetti, leggiamo nelle Theses, «idea tripliciter sumitur: ante rem, in re, post rem»137. Questa questione è, inoltre, presente anche in opere precedenti gli scritti magici. Nel De umbris, Bruno pone una tripartizione della realtà secondo la stessa distinzione tra metafisica, fisica e logica, ponendo un’analogia tra queste
De magia, pp. 172-174. Cfr. Corpus Hermeticum, edizione e commento di A.D. Nocke e A.-J. Festugière, edizione dei testi ermetici copti e commento di I. Ramelli, testo greco, latino e copto a fronte, Milano 2005, tr. X, rr. 1-4, pp. 257-271. 135 Ivi, tr. V, rr. 2-3, p. 167. 136 L. Spruit, Magia: socia naturae. Questioni teoriche nelle opere magiche di Giordano Bruno, in «il Centauro», XVII/XVIII (1986), p. 153. 137 Theses, p. 338. 133
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tre modalità di lettura138. Anche qui, la separazione tra ante naturalia, naturalia e rationalia non indica tre realtà ontologicamente distinte, ma tre forme differenti e complementari di rappresentazione di una stessa e unica realtà, infinita e indivisibile, conoscibile per gradi e separazioni. La distinzione e l’analogia tra i mondi metafisico, fisico e matematico, tra il De magia mathematica e il De magia, risponde all’esigenza di recuperare e inserire la riflessione sulla magia all’interno della prospettiva ontologica e gnoseologica propria della nolana filosofia. Questo stesso problema è rintracciabile anche nel confronto e nell’uso bruniano di Cusano. Da quest’ultimo Bruno recupera l’dea della possibilità di una conoscenza umana, soltanto laddove vi sia diversità, distinzione e pluralità di termini, relazione tra elementi finiti. Come indicato nella intentio quarta139 del De umbris, nell’ombra vi è moltitudine, distinzione, proporzione e relazione tra i termini: nella dimensione dell’explicato, dove, come osserva Secchi, «il bene e il male, il vero ed il falso sono antitesi operanti»140, dove non vi è coincidentia oppositorum, dove ogni ente è sé stesso e nient’altro, lì è possibile conoscere per proporzione, analogia e congettura. Nell’infinito, nell’Uno, dove tutto è indistinto, complicato, assoluta unità e semplicità, non vi è possibilità di una conoscenza umana. La distinzione dei mondi archetypus, physicus e rationalis e il ricorso all’immagine gerarchica della scala naturae rispondono a una necessaria esigenza, quella di rappresentare una realtà unica e infinita. Come nel De umbris, così anche nel Sigillus Bruno approfondisce la teoria dei tre mondi, illustrando come debba intendersi il descenso dal mondo supremo, fonte delle idee, fino al terzo e viceversa141. Questa distinzione tripartita se, da un lato, rappresenta una tappa necessaria del processo gnoseologico, dall’altro, deve essere ricondotta all’unità dell’essere. La divisione e la separazione gerarchica per mondi, gradi e Cfr. De umbris, pp. 78-80. Ivi, pp. 46-48. 140 P. Secchi, Elementi di teologia nel De umbris idearum di Giordano Bruno, «Bruniana & Campanelliana», VIII, 2 (2002), p. 434. 141 Cfr. Sigillus, pp. 192-194. 138 139
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scale della realtà costituisce un momento indispensabile ma non ultimo della conoscenza. La distinzione è così orientata al riconoscimento dell’«unum […] proprium subiecto unam simplicem radicem et unum virtuale principium», dell’«una lux» che «illuminat omnia», dell’«una vita» che «vivificat omnia», di come «essentia, potentia, actio; esse, posse et agere; ens potens et agens est unum, ita ut omia sunt unum, ut bene novit Parmenides unum omne et ens»142. Dall’affermazione dell’infinità, unità e semplicità dell’essere, si può osservare come la tripartizione del reale non assuma valore ontologico, ma esclusivamente logico. Rispetto alle divisioni ipostatiche e scalari dell’essere, «Bruno relativizza il concetto neoplatonico di gerarchia»143. Se la divisione dell’essere e la scala naturae rappresentano un punto nodale della tradizione magica ermetico-neoplatonica, egli traspone questa ripresa in una prospettiva radicalmente diversa. Presente sin dall’origine della sua filosofia, la tripartizione della realtà nei mondi fisico, matematico e metafisico corrisponde nel De magia al recupero di un problema gnoseologico, rimodulato e adattato a una specifica riflessione sulla magia. 6. Spiritus seu anima: il presupposto formale della magia naturale Il ricorso alla tripartizione gnoseologica dell’essere, detta anche sapientia triceps, costituisce nel De magia uno strumento necessario a fondare la praxis magica. Attraverso la conoscenza delle ragioni metafisiche o universali, dei principi fisici o naturali, e dei tempi, il soggetto agente potrà riconoscere l’unità dell’essere e agire sulla contrarietà del reale tramite lacci e vincoli adeguati. Delle tre forme di magia, la metaphysica, la physica e la mathematica144, l’interesse di Bruno si concentra sulla seconda, anche detta Ivi, p. 224. L. Spruit, Magia socia naturae. Questioni teoriche nelle opere magiche di Giordano Bruno, cit., p. 154. 144 De magia, p. 169. 142 143
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naturale. Egli radica questo sapere teorico e pratico sullo studio della costitutiva antypathia e sympathia degli enti, non riconducendolo, però, alle qualità attive o passive degli elementi, quanto piuttosto all’unico spiritus o anima del mondo che abbraccia la totalità degli enti145. Lo spiritus seu anima è il fondamento della magia naturale146. Esso pervade ogni parte e ogni singolo elemento della natura: «omnia ad spiritum seu animam in rebus existentem referuntur» e, sottolinea Bruno «haec proprie vocatur magia naturalis»147. In quanto presente in ogni singola parte di un tutto infinito, lo spiritus lega e, come osserva Cambi, «rende possibile la partecipazione di ogni singolo elemento alla vita del tutto»148. Nell’elenco dei vincula esposto nel De magia, l’anima del mondo o spirito dell’universo rappresenta il vincolo che unisce ogni cosa a tutte le altre, così che da ogni cosa si dà accesso a tutto: «vinculum est anima mundi seu spiritus universi qui omnia copulat unitque omnibus; unde ab omnibus datur aditus ad omnia»149. L’onnipervasività dello spiritus congiunge tutti gli elementi e i corpi naturali, rendendo possibile la loro comunicazione e l’azione del mago. Il riconoscimento dell’unico spiritus quale presupposto di ogni operazione magica è un tema ricorrente della tradizione ermetico-neoplatonica150. Lo spiritus, forza pneumatica che permea il cosmo intero e lo vivifica151, costituisce il fondamento dei rapporti di attrazione e
Ivi, p. 162. Cfr. F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, «Atti della Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli», XXV (1892), Napoli 1891, p. 112; cfr. D. Giovannozzi, “Spiritus mundus quidam”. Il concetto di spiritus nel pensiero di Giordano Bruno, Roma, 2008; cfr. Ead., «spirito», in Enciclopedia Bruniana & Campanelliana, cit., vol. I, pp. 166-178. 147 De magia, p. 162. 148 M. Cambi, Il De magia e il recupero della sapienza originaria. Scrittura e voce nelle strategie magiche di Giordano Bruno, cit., p. 22. 149 De magia, p. 244. 150 Cfr. M. Ficini Commentarium in Convivium Platonis, testo, trad. fr. e note P. Laurens (a cura di), Paris 2002, d. VI, cap. 15, pp. 185-190; cfr. C. Agrippa, De occulta philosophia, cit., lib. I, cap. 1, p. 85. 151 Cfr. Corpus Hermeticum, cit., tr. VI, rr. 2-4, pp. 521-525. 145
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dei legami naturali sia per Ficino152 che per Agrippa153. Se negli scritti magici Bruno recupera la teoria dello spiritus o anima mundi dalle fonti citate, tuttavia, questa è presente sin dal Sigillus e dal De la causa, costituendo, come segnala Papi, un «tema fondamentale di tutta l’opera bruniana»154. Il recupero di questa teoria nella riflessione sulla magia si configura come una sua riformulazione e un suo adattamento al discorso ontologico già elaborato nel De la causa155. Se nel De magia egli descrive, quasi sovrapponendoli, lo spiritus e l’anima mundi presente «tota […] in toto et tota in qualibet parte»156, ciò avviene sulla scorta di quanto già pensato qualche anno prima a Londra, ovvero che «quest’anima può essere tutta in tutto e in qualsivoglia parte del tutto»157. L’esposizione della teoria dello spiritus nel De magia158 sembra essere articolata come una traduzione di passi tratti proprio dal dialogo II del De la causa, laddove Bruno afferma l’universalità di un’unica anima del mondo o spirito, che dall’interno della materia pervade e abbraccia l’infinità della natura159. Cfr. M. Ficini De vita coelitus comparanda, cit., lib. III, cap. 11, p. 544. Cfr. C. Agrippa, De Occulta philosophia, cit., lib. I, cap. 6, p. 96. 154 F. Papi, L’antropologia naturalistica del «De vinculis in genere» di Giordano Bruno, «Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di Milano», XV, 3 (1962), p. 156. 155 Causa, pp. 213-226. 156 De magia, p. 182. 157 Causa, p. 167. 158 De magia, p. 182: «Sicut enim anima nostra ex toto corpore totum opus vitae producit et universaliter, mox tamen quamvis tota est in toto et tota in qualibet parte, non tamen ideo totum facit ex toto et totum ex qualibet parte, sed facit videre in oculo, audire in aure, gustare in ore, quod si ubique esset oculos, undique videret, si ubique organa essent omnium sensuum, omnino undique sentiret; ita et anima mundi in toto mundo, ubicunque talem adepta est materiam, ibi tale producit subiectum et inde tales edit operationes. Quamvis ergo aequaliter sit ubique, non aequaliter ubique agit, quia non aequaliter disposita ubique illi materia administrantur». Cfr. Theses, p. 339. 159 Causa, pp. 225-226: «Dovete dunque saper brevemente che l’anima del mondo, e la divinità, non sono tutti presenti per tutto e per ogni parte, in modo con cui qualche cosa materiale possa esservi: perché questo è impossibile a qualsivogla corpo e qualsivoglia spirto; ma con un modo il quale è facile ad esplicarvelo altrimente se non con questo. Dovete avvertire, che se l’anima del mondo e forma universale se 152
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Dal confronto tra i due passi, è possibile osservare come il suo ricorso alla teoria dell’animazione universale nel De magia non sia legato al solo recupero delle fonti raccolte nel De magia mathematica. Al contrario, la ripresa della nozione di anima del mondo, formulata in una prospettiva ontologica, manifesta la continuità insita in un progetto di renovatio filosofica. Quest’operazione risponde, cioè, all’esigenza d’innestare una specifica riflessione sulla magia nel solco di una concezione della vita, di Dio, dell’universo, della natura, e con esse, dell’essere umano, maturata ed elaborata sin dagli inizi della nolana filosofia. Nel De magia è in atto una ripresa del concetto di anima del mondo, forma dell’universo, forza generatrice o «artefice interno che forma la materia e la figura da dentro»160, come già definita nel De la causa161. Come nel dialogo londinese, così anche negli scritti magici, la presenza dell’anima non è limitata all’umanità, ma si estende universalmente a tutti gli elementi e i corpi naturali. Le forme o anime individuali sono riflessi di quest’unità spirituale, di questa luce che irradia la sua azione su ogni essere e in ogni direzione162. Bruno afferma tutto «il mondo con gli suoi membri essere animato»163, non limitando la presenza dell’anima a «le parti principali»164 o a «quelle che son vere parti del mondo»165, ma intendendola come la causa vitale riflessa nei singoli composti e in ogni minima particella presente in natura. Il principio dell’animazione si estende anche nel De magia a tutti gli elementi e dicono essere per tutto, non s’intende corporalmente e dimensionalmente, per che tali non sono, e cossì non possono essere in parte alcuna: ma sono tutti per tutto spiritualmente; come per esempio (anco rozzo) potreste imaginarvi una voce, la quale è tutta in tutta una stanza et in ogni parte d quella: per che da per tutto se intenda tutta; come queste paroli ch’io dico sono intese tutte da tutti, anco se fussero mille presenti, e la mia voce si potesse giongere a tutto il mondo, sarebe tutta per tutto». Cfr. De immenso, p. 283. 160 Causa, p. 211. 161 Ivi, p. 224. 162 Cfr. F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, cit., p. 72; cfr. G. Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze 1991, p. 219. 163 Causa, p. 215. 164 Ivi, p. 216. 165 Ibidem.
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corpi naturali, siano essi viventi o inerti, riformulando implicitamente le stesse argomentazioni espresse nel De la causa, ora coniugate in una riflessione sulla magia che non può prescindere dalla prospettiva ontologica lì tracciata. Allo stesso modo, egli recupera qui gli argomenti e le questioni elaborate o solo accennate nei dialoghi italiani, condensandoli in una considerazione unitaria dello spiritus che anima l’intero universo. Prova dell’unico spiritus o anima, pervadente l’infinità dell’universo, è data dall’«appetitum conservandi»166, l’istinto all’autoconservazione insito in tutti i corpi e le particelle naturali. Riprendendo nel De magia esempi già formulati nel De l’ infinito167 e nella Cena168, egli rintraccia la presenza dell’appetitum anche negli elementi inerti o apparentemente inanimati, come le gocce d’acqua che cadano al suolo o le pagliuzze gettate sul fuoco, le quali tendono a stringersi tra loro per non disgregarsi, proprio per effetto dell’unico principio vitale che agisce sotto forma d’incessante desiderio di vita. Un unico spirito, un unico senso, un’unica facoltà «anco intellettiva»169 è presente in ogni composto, in ogni vivente sia esso mobile o inerte. In questa prospettiva, le percezioni e le passioni che affettano ogni composto, seppur infinitamente piccolo, producono effetti sulla totalità della natura170. Lo spiritus o anima mundi costituisce il vincolo indissolubile che lega e unisce tutti gli enti, stringendoli in una fitta rete di rapporti. In virtù di questa reciproca attrazione tra ogni corpo, elemento e particella naturale, il riconoscimento dell’animazione universale rappresenta una delle possibili vie attraverso le quali risalire dalla molteplicità e contrarietà del reale all’unità dell’essere, per poi nuovamente discendere lungo la scala e agire in essa. L’anima del mondo radicata in tutte le cose è la causa formale che pervade la totalità della natura: nel suo vincolo inscindibile con il principio materiale, essa rappresenta l’Uno a cui tutto fa ritorno. Riconoscere l’unità dell’essere a cui tutte le manifestazioni particolari De magia, p. 180. Infinito, p. 422. 168 Cena, pp. 80-82, pp. 112-113. 169 Ivi, p. 81. 170 De magia, p. 182. 166 167
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sono ricondotte equivale per il sapiente a poter operare magicamente: è questo il fondamento teorico dell’azione magica, intesa come la capacità di suscitare e assecondare legami naturali o prodotti ad arte sul modello della natura. L’esigenza bruniana di ridefinire lo spiritum seu animam nel De magia corrisponde al tentativo di ripensare i principi e i fondamenti dell’operare magico: questi non sono rintracciabili nelle proprietà occulte celate negli elementi, quanto piuttosto nella capacità di chi opera di comprendere l’unicità dell’anima universale, così da entrare in comunicazione con la totalità degli enti. Il riconoscimento dell’unico spiritus è necessario a chi voglia agire sui propri simili legando con vincoli adeguati ed efficaci171. 7. La fisica del De magia: il problema del vacuum, dell’aether e del motus continuus Mossi e vivificati da un’unica anima universale, tutti gli elementi e i corpi naturali esercitano tra loro antipatie e simpatie, si attirano come magneti o si respingono come l’acqua e l’olio. Nel paragrafo De respectu ad communionem seu consortium rerum del De magia, egli espone come l’anima o forma, regga, governi e trasformi la materia, determinando le modificazioni e i legami possibili tra la molteplicità dei corpi172. Chi sarà in grado di riconoscere la «continuationem indissolubilem»173 che vincola l’anima non solo ai corpi particolari, ma al grande corpo universale che è la materia, comprenderà quel «non mediocre principium, tum ad operandum, tum ad contemplandum verius circa rerum naturam»174. Il riconoscimento di questa continuità costituisce il fondamento della sapientia triceps che permette di comprendere la natura e di agire su di essa. In questo paragrafo Bruno afferma l’indissolubilità del legame che stringe la forma o anima mundi alla materia. Proprio in virtù di Ivi, pp. 242-244. De magia, p. 198. 173 Ibidem. 174 Ibidem. 171
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questo legame, non vi è nell’universo alcuno spazio che non sia corpo: «non datur vacuum, nempe spacium sine corpore; neque etenim corpus unum ab uno loco recedit, nisi succedente altero»175. L’anima non può abbandonare l’«universum vero corpus»176, né quest’ultimo può sciogliersi dal legame con essa. L’anima mundi e la materia sono coessenziali: all’atto della decomposizione corporea anche l’anima abbandona il composto, per formarne e animarne un altro, come la materia universale, alla dissoluzione di una forma finita, assume nuova forma per continuare a vivere eternamente. Questa considerazione è resa possibile dall’osservazione dei fenomeni naturali dalla prospettiva dell’Uno: nell’infinito, in cui ogni contrarietà è ricondotta alla sua unità originaria, vi è assoluta identità di materia e forma. Tutto lo spazio è materia, allo stesso modo in cui tutta la materia è forma o anima, la quale «indissolubilem habet nexum ad universalem materiam, quapropter cum ipsius natura sit ubique tota et continua, ubique materiam corpoream consistem agnoscit»177. Il vuoto non sussiste nel senso di uno spazio senza corpo, ma esclusivamente come uno spazio, anch’esso materiale, in cui si muovono e si alternano i corpi: «vacuum esse utpote spacium in quo diversa corpora sibi succedant et moveantur»178. Nell’affermazione della non sussistenza del vuoto, agisce implicitamente la decostruzione della fisica aristotelica già svolta da Bruno nei dialoghi italiani e nei poemi francofortesi. Molteplici sono i passaggi di queste opere in cui egli si sofferma sul problema del vuoto ricusando la fisica di Aristotele e recuperando le filosofie e le fisiche che erano state criticate e rigettate dallo Stagirita. Nel De l’ infinito, dopo aver passato in rassegna le differenti tradizioni filosofiche non aristoteliche e aver distinto mondo e universo, egli sostiene che il vacuo è uno spazio materiale in cui si avvicendano i corpi, i mondi o pianeti179. Ibidem. Ibidem. 177 Ibidem. 178 Ivi, p. 200. 179 Infinito, pp. 347-348: «Noi non diciamo vacuo alcuno, come quello che sia semplicemente nulla; ma secondo quella raggione con la quale ciò che non è corpo 175 176
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Nel ricorso al tema del vacuum nel De magia, Bruno riprende le argomentazioni esposte nel De l’infinito in favore dell’affermazione dell’universo infinito e della non sussistenza del vuoto, attraverso il ricorso alla dottrina atomista. Nel tentativo di affermare una materia unica, infinita e indivisibile, egli ricorre all’atomismo democriteo ed epicureo, riletto attraverso Lucrezio. Tuttavia, come osservano Barbara Amato180 e Marco Matteoli181, se la materia è composta di atomi sferici e di numero infinito, non si tratta di una semplice ripresa dell’atomismo classico, ma di una sua profonda riformulazione. Se per i fisici greci, gli atomi hanno parti, estensione, dimensioni e qualità particolari, così come delle relazioni qualitativamente casuali, per Bruno gli atomi, come tutti i minimi non possiedono estensione, dimensione182, parti183, né qualità. Dal ripensamento dello spazio come composto di un’unica materia incorporea fatta di atomi indivisibili, deriva il rifiuto dell’idea del vuoto. La ragione di questa ripresa nel De magia è ancora una volta rintracciabile nel tentativo d’innestare una specifica riflessione sulla magia in una considerazione infinita dell’essere, della vita e dell’universo. Allo stesso tempo, il recupero del lessico fisico e atomistico impiegato nel dialogo londinese, manifesta l’esigenza di ricollocare l’analisi della magia in una prospettiva fisica non più legata all’ambito dell’occulto e del sovrannaturale. che resista sensibilmente, tutto suole esser chiamato (se ha dimensione) vacuo […]. In questo modo diciamo esser un infinito, ciò è una eterea regione immensa, nella quale sono innumerabili et infiniti corpi come la terra, la luna et il sole; li quali da noi son chiamati mondi composti di pieno e di vacuo: perché questo spirito, questa aria, questo etere non solamente è circa questi corpi, ma ancora penetra dentro tutti, e viene insito in ogni cosa». 180 Cfr. B. Amato, «atomo», «Bruniana & Campanelliana», XVIII, 2 (2012), pp. 579-580; Ead., «materia», in Enciclopedia Bruniana & Campanelliana, Giornate di Studio 2005-2008, E. Canone e G. Ernst (a cura di), Roma 2010, vol. II, pp. 58-64. 181 Cfr. M. Matteoli, atomo, in Giordano Bruno. Parole concetti immagini, M. Ciliberto (direzione scientifica), Pisa 2014, vol. I, pp. 1922-193; cfr. Id., materia, minimo e misura: la genesi dell’atomismo geometrico in Giordano Bruno, «Rinascimento», L (2000), pp. 1-25. 182 Cfr. De minimo, pp. 141-142. 183 Ivi, p. 285.
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Dopo l’analisi del vacuum, Bruno introduce altri due problemi di carattere fisico, già oggetto dei dialoghi cosmologici: l’etere e il moto. Dalla non sussistenza del vuoto egli fa derivare un moto continuo delle parti di un corpo verso quelle di un altro corpo. Questo movimento avviene in un «continuum spacium»184 in cui il vacuum è mediazione tra pieno e pieno, quello spazio «in quo nullum corpus est sensibile»185. L’unico corpo totalmente «continuum»186 è il cosiddetto «corpus insensibile»187, lo «spiritus nempe aëreus seu aethereus»188 che, unito all’anima in virtù della somiglianza per cui si allontana gradualmente dalla «substantiae sensibilis compositorum»189, permea l’infinità dell’universo. L’espressione «spiritus aëreus seu aethereus» rimanda, ancora una volta, al lessico fisico già impiegato in precedenza: basti solo ricordare la definizione dell’aether che compare nel De immenso per osservare i rimandi e le riprese tra un’opera e l’altra: «aether vero idem est quod coelum, inane, spacium absolutum, qui insitus est corporibus, et qui omnia corpora circumplectitur infinitus»190. Definizione questa che ricalca il lessico e gli argomenti già esposti nel De l’ infinito, laddove, come poi nel De immenso e nel De magia, Bruno descrive lo spazio come una eterea regione […] immensa, nella qual si muove, vive e vegeta il tutto: questo è l’etere che contiene e penetra ogni cosa». Questo spazio se «si trova dentro la composizione (in quanto dico si fa parte del composto), è comunemente nomato “aria” […]», ma se «è puro e non si fa parte di composto, ma luogo e continente per cui quello si muove e discorre, si noma propriamente “etere”»191. Anche nel De magia l’etere è definito come una materia spirituale sottilissima che assicura la coesione di ogni cosa presente in natura e nell’universo. Nel suo essere spazio infinito che contiene i corpi, De magia, p. 200. Ibidem. 186 Ibidem. 187 Ibidem. 188 Ibidem. 189 Ibidem. 190 De immenso, p. 78 191 Infinito, p. 448. 184 185
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questa materia è spiritus. Nel suo penetrare i corpi, invece, mescolandosi all’aria, al fuoco e all’acqua, questa sostanza eterea e spirituale si addensa192. Rifacendosi esplicitamente all’opinione di Lucrezio, Bruno osserva qui come «hoc corpus spirituale est quod omnia operatur in ipsis sensibilibus»193, ragione per cui questa materia spirituale non differisce dall’anima secondo l’opinione di molti filosofi194. Lo spiritus, sostanza eterea, dà forma ai corpi infiniti, combinando disposizioni materiali sempre differenti. Egli ribadisce nuovamente come, nelle molteplici e varie singolarità dei composti, vi sia un’unica e permanente anima universale. Ogni cosa è animata, seppur secondo le differenze legate alle diverse disposizioni della materia: «omnia […] animata intelligere oportet, nempe in omnibus unius generis animam»195. È in virtù di queste differenze materiali che le forme finite e particolari, pur animate e vivificate da un’unica anima mundi, si determinano come diverse e contrarie le une dalle altre. Questo fenomeno fa sì che «alcune cose si accordino con altre»196, mentre altre, in virtù dei lori impulsi e impeti saranno portate a fuggire quanto è loro contrario. La ragione di queste differenze dipende dal modo d’essere della composizione materiale di ciascun elemento naturale. Nonostante l’istinto all’autoconservazione sia presente in tutti i corpi e negli elementi, essi tendono a esser strappati dal luogo della loro conservazione e consistenza197. Così, ad esempio, l’acqua è trascinata e avvinta dal fuoco, portata a trasformarsi prima in aria, poi in vapore, fino ad abbandonare qualunque resistenza identificandosi totalmente con l’elemento da cui è attratta. Allo stesso modo, secondo il processo inverso, un elemento sottilissimo e più prossimo allo spiritus come il fuoco è portato ad addensarsi fino alla specie dell’acqua. Diverso è, invece, il caso degli atomi, corpi indissolubili, indivisibili, discontinui e non tramutabili in un altro elemento: seppur assimilabili e combiCfr. De magia, pp. 200-202. Ivi, p. 200. 194 Ibidem. 195 Ivi, p. 202. 196 Ivi, p. 203. 197 Ivi, p. 202. 192 193
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nabili tra loro, questi non possono trasformarsi negli altri elementi e non subiscono alcuna mutazione. L’operazione condotta da Bruno in queste pagine del De magia costituisce il tentativo di sviluppare una riflessione fisica su questioni tradizionalmente considerate di carattere occulto. Quest’operazione manifesta, in altre parole, l’esigenza di rintracciare e applicare un metodo d’indagine e un lessico proprio alla fisica e alla filosofia naturale nell’esplicazione di fenomeni a cui pur le stesse fonti bruniane avevano sempre attribuito delle spiegazioni occulte. Si tratta di un passaggio cruciale, non solo nel contesto teorico del De magia, ma anche nell’impostazione dei successivi scritti magici. Ciò equivale alla naturalizzazione di una riflessione sulla magia, gradualmente spogliata delle sue apparenze occulte, per essere ricondotta nel solco di una fisica e di una filosofia naturale che mai pienamente si accordano con il contesto ontologico e cosmologico proprio alla letteratura magica. Se osservati in quest’orizzonte teorico non appaiono casuali i rimandi presenti nel De magia a un lessico, a questioni e problemi fisici già ampiamente analizzati ed elaborati nei dialoghi italiani e nei poemi francofortesi. Queste riprese si configurano, da un lato, come il tentativo di ripensare la magia in una visione infinita dell’essere, della vita e dell’universo; dall’altro, di osservare e tradurre in un linguaggio fisico rinnovato, lo studio della magia e con essa della natura. 8. Motus naturalis e praeternaturalis: per una fisica dei vincula e delle attractiones La trasposizione della riflessione sulla magia naturale nel solco della fisica elaborata nei dialoghi italiani è ancor più evidente nell’analisi del moto condotta da Bruno nel De magia. Si tratta di una questione centrale nella Cena e nel De l’ infinito, ma che ora si configura come strumento per la spiegazione dei moti di attrazione naturali tra i corpi, gli elementi e gli atomi. Il ricorso a una teoria fisica del moto è funzionale alla comprensione e al chiarimento del problema magico dell’attrazione e del vincire. L’approccio bruniano si pone nei termini di
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una traduzione del problema, dal linguaggio e dalla prospettiva magica e occulta delle sue fonti, al linguaggio e alla prospettiva propria alla sua filosofia naturale, o meglio, a quella che è possibile definire una fisica del vinculum. Nel paragrafo dedicato al De motu rerum duplici et attractione del De magia, il Nolano afferma che il moto di tutte le cose può essere «naturalis»198, che avviene per un principio intrinseco e conveniente alla natura della cosa, oppure «praeternaturalis»199, che avviene o in modo violento e non conveniente, o ordinato, vale a dire che non ripugna alla natura della cosa 200. Soffermandosi sul moto naturale, egli sostiene che non vi è in questo differenza tra moto e mutamento. Nella prima forma di movimento naturalis, distingue tra un moto circolare delle «rerum naturaliter constitutarum»201 e un moto retto di quelle cose naturali «non naturaliter constitutarum»202. In linea retta «contrarium fugit a contrario»203, come l’acqua fugge il fuoco sotto forma di fumo e vapore; sempre in linea retta «simile tendit ad simile et conveniens sibi»204, come la paglia si muove verso l’ambra o il ferro verso il magnete, «ut melius et satius con/quiescant vel commoveantur»205. Il moto rettilineo è la forma di movimento corrispondente ai corpi naturali non naturalmente costituiti: in linea retta, si allontanano da ciò che condiziona, trasforma e muta la loro esistenza, dal loro contrario, o si congiungono, si stringono, sono attratti e vincolati da ciò che è loro simile, conveniente e apporta «quiete comune oppure comune movimento»206. Pur se indotti all’autoconservazione dall’unico spiritus o anima mundi, questi corpi non sono mossi da un agente esterno, ma
Ivi, p. 206. Ibidem. 200 Ibidem. 201 Ibidem. 202 Ibidem. 203 Ibidem. 204 Ibidem. 205 Ibidem. 206 Ivi, p. 207. 198
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si muovono associandosi al simile e rifuggendo il contrario secondo un principio naturale di movimento intrinseco. Bruno individua anche una terza specie di moto, detto «sphericus»207, che avviene per l’influsso e l’efflusso delle particelle o atomi di un corpo verso un altro. Questo moto sferico non si verifica soltanto da un centro verso un altro, seguendo una sola linea retta, oppure attorno a un centro, ma attraverso infinite linee e direzioni «velut ad eodem centrum»208. Tutti i corpi emanano ed emettono parti dalla loro superficie o dal perimetro e, allo stesso tempo, ricevono e immettono in sé particelle provenienti da altri corpi. Questo movimento si configura come una relazione di attrazione permanente tra tutti i corpi naturali, un processo in cui essi crescono e si rafforzano «quando convenientiorum influxus superat effluxum»209, e si indeboliscono, invece, «quando extraneorum influxus et naturalium effluxus fit maior»210. Questo moto sferico di attrazione e repulsione determina la formazione, la crescita, la corruzione, l’alterazione e la dissoluzione di tutti i corpi naturali, dai più semplici ai composti. A conclusione del paragrafo, Bruno sottolinea che il moto sferico delle particelle non attiene esclusivamente alle «sensibiles qualitates seu virtutes»211, ma anche alle virtù e qualità più spirituali e meno sensibili che emanano e si trasmettono da un corpo all’altro. Esse agiscono non solo sul corpo e sul senso, ma anche sullo spirito che pervade ogni composto, fino a raggiungere le «profundiores animae facultas […], incutiendo certos affectus et passiones»212. Questo processo è particolarmente evidente «in fascinationibus»213, nei vincula che avvengono «per oculi iactus»214, sia in senso attivo, sia passivo. Anche queste passioni e affetti che impressionano e vincolano l’anima, prim’ancora che il corpo, Ivi, p. 208. Ibidem. 209 Ibidem. 210 Ibidem. 211 Ivi, p. 210. 212 Ibidem. 213 Ibidem. 214 Ibidem. 207
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rientrano, nel De magia, in una considerazione fisica delle attrazioni, anticipando la prospettiva che guida la riflessione del De vinculis. Nella distinzione dei moti naturalis – circolare, rettilineo e sferico – e praeternaturalis o extranaturale, riecheggiano implicitamente alcune delle tesi fisiche già esposte nella Cena e nel De l’ infinito. Molteplici sono i passaggi dei due dialoghi londinesi che ripercorrono le pagine del De magia, in cui Bruno espone il rapporto tra il movimento dei corpi naturali e il loro incessante impulso alla vita e all’autoconservazione. Nella Cena, ragionando sul moto dei pianeti intorno al sole egli osserva che la causa non è da ricercare in un moto «violento»215 e «fuor de la natura del mobile»216, poiché in questo caso il motore sarebbe «imperfetto […] et altri molti inconvenienti s’aggiongerebbeno»217. Al contrario, tutti i corpi naturali, siano essi semplici o composti, «con una ordinata e natural volontà, da intrinseco principio se muoveno alle cose e per gli spacii convenienti ad essi»218. Nel tentativo di decostruzione della fisica e della cosmologia aristotelica, egli nota come ogni elemento e corpo naturale «si muove al suo principio vitale, come al sole et altri astri; la calamita se muove al ferro, la paglia all’ambra, e finalmente ogni cosa va a trovar il simile, e fugge il contrario»219. Questo moto è comune a ogni cosa, dagli atomi agli elementi, dai corpi semplici ai composti, «tutto avviene dal sufficiente principio interiore per il quale naturalmente viene ad esagitarse, e non da principio esteriore come veggiamo sempre accadere a quelle cose che son mosse o contra o extra la propria natura»220. Quest’argomentazione costituisce una prima formulazione in termini fisici della relazione che sussiste tra il vinciens e il vincibile: il vincolo più forte e più potente risiede in quel principio o fonte di vita maggiormente conveniente a ogni elemento e corpo naturale. Come i pianeti ruotano intorno al sole, da questo attratti e fascinati in quanto loro Cena, p. 80. Ibidem. 217 Ibidem. 218 Ibidem. 219 Cena, p. 80. 220 Ibidem. 215
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sorgente di vita, ognuno secondo un certo grado e una certa distanza, così ogni corpo ricerca il simile e rifugge il contrario, nel tentativo di conservare la propria forma attuale e la propria esistenza 221. Nel De l’infinito Bruno approfondisce questi stessi argomenti esposti nella Cena. Egli descrive l’aggregazione, la crescita, la trasformazione e la disgregazione, come fenomeni comuni e omogenei a tutto l’universo, che si producono in tutti gli elementi e i corpi, a partire da quelli apparentemente inanimati fino alle piante, dagli animali più piccoli ai grandi animali che sono i mondi o pianeti222. Le particulae o atomi, di cui ogni cosa è composta sono soggette a rapporti d’attrazione reciproci che provocano le alterazioni. Questa dinamica di aggregazione e disgregazione attraverso il movimento degli atomi è ciò che permette alla natura di dispiegare, nello spazio e nel tempo, tutto ciò che essa può essere, garantendo il rinnovamento permanente della vita secondo la vicissitudine universale. Anche nel De l’ infinito i fenomeni di attrazione che si verificano nell’universo sono ricondotti a un principio di movimento che è interno ai corpi e mai esterno. La philautia, l’amore di sé, l’autoconservazione, è la ragione per la quale ogni cosa si muove e si trasforma, sia per permanere o conservarsi quanto più a lungo possibile nella sua forma attuale, sia per fuggire ciò che le è contrario e nocivo, sia per avvicinarsi a quanto le è simile e benefico. Tutti i corpi naturali, dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, si muovono o verso o attorno al loro vincolo naturale, vale a dire a quell’elemento, corpo o astro che permette 221 Ivi, pp. 81-82: «Ne gli animali quali noi conoscemo per animali, le loro parti sono in continua alterazione e moto, et hanno un certo flusso e reflusso, dentro accogliendo sempre qualche cosa dell’estrinseco, et mandando fuori sempre qualche cosa da l’intrinseco: onde s’allungano l’unghie; se nutriscono i peli, le lane et i capelli; se rinsaldano le pelle, s’induriscono i cuoii: cossì la terra riceve l’efflusso et influsso delle parti, per quali molti animali (a noi manifesti per tali) ne fan vedere espressamente la lor vita». 222 Infinito, pp. 359-360: «Non stimo che sia cosa assorda et inconveniente, anzi convenientissima e naturale, che sieno transmutazioni finite possibili ad accadere ad un soggetto; e però de particole de la terra vagar l’eterea regione et occorrere per l’inmenso spacio ora ad un corpo ora ad un altro. Non men veggiamo le medesime particole cangiarsi di luogo, di disposizione e di forma, essendono ancora appresso di noi».
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il loro accrescimento e la loro conservazione, nell’incessante tentativo di rifuggire il contrario e la dissoluzione. E anche qui, come nella Cena prima e nel De magia poi, le attrazioni e le alterazioni di tutti i corpi naturali dipendono dall’efflusso e dall’influsso degli atomi, secondo quelle stesse tre tipologie di moto rettilineo, circolare e sferico223. L’esigenza di Bruno in queste pagine della Cena, del De l’ infinito e del De magia, in merito al problema dei moti e alle attrazioni tra gli atomi, gli elementi e i corpi, è la stessa: osservare, comprendere e spiegare i fenomeni fisici e naturali attraverso un linguaggio che non faccia ricorso al dogma, al miracolo o all’occulto nello studio e nella comprensione della realtà fisica. Ciò può avvenire soltanto a partire dal riconoscimento di un universo infinito e omogeneo, composto di un’unica materia e da una forma universale, l’anima mundi, insita nella materia e da questa inscindibile. È questa, in altre parole, l’esigenza di rintracciare nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente grande gli stessi principi d’omogeneità e di uniformità. L’omogeneità formale e materiale dell’universo porta, altresì, con sé, la considerazione dell’uniformità dei moti, delle trasmutazioni e delle attrazioni. L’unicità della forma e della materia, causa e principio generatore della natura, non è soltanto la ragione dell’omogeneità fisica dell’universo, ma anche dei corpi, i quali, ognuno secondo la propria disposizione individuale, seguono gli stessi moti e lo stesso ritmo della vita universale, muovendosi tutti per la loro conservazione.
Ivi, p. 360: «Circa il sperma, giongendosi atomi ad atomi per la virtù dell’intelletto generale et anima (mediante la fabrica in cui come materia concorreno), se viene a formare e crescere il corpo : quando l’influsso de gli atomi è maggior che l’efflusso ; e poi il medesimo corpo è in certa consistenza quando l’efflusso è equale a l’influsso ; et al fine va in declinazione, essendo l’efflusso maggior che l’influsso (non dico l’efflusso et influsso assolutamente, ma l’efflusso del conveniente e natio, e l’influsso del peregrino e sconveniente ; il quale non può esser vinto dal debilitato principio per l’efflusso, il quale è pur continuo del vitale come del non vitale). Per venir dumque al punto, dico che per cotal vicissitudine non è inconveniente, ma raggionevolissimo dire che le parti et atomi abbiano corso e moto infinito per le infinite vicissitudini e transmutazioni, tanto di forme quanto di luoghi». 223
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La fisica del vinculum è, dunque, un principio d’uniformità riconoscibile nell’universo: ogni elemento e corpo, dal più semplice al più complesso, si muove, a partire dalla struttura atomica, verso ciò che lo accresce e lo conserva, rifuggendo ciò che lo indebolisce e lo distrugge. Questo principio è già chiaro sin dalla Cena e dal De l’ infinito, e costituisce la prospettiva fisica in cui Bruno riprende, riformula e colloca, nel De magia, il tema del vincire, ovvero la questione del legame e della relazione, intese come la permanente attrazione tra gli atomi, gli elementi e i corpi naturali. 9. Dalle qualità occulte alla physica magica Nel paragrafo del De magia immediatamente successivo all’analisi delle diverse forme di moto, intitolato Quomodo magnes trahat ferrum, corallium, sanguinem etc, Bruno si sofferma sui moti di attrazione tra alcuni particolari elementi naturali. Egli osserva, innanzitutto, come l’attrazione sia duplice: una avviene per «consensu»224, attraverso il moto sferico delle parti verso ciò che è a loro simile, «ut quando partes moventur ad suum totum, locata ad suum locum, similia rapiuntur a similibus, et convenientia a convenientibus»225; una seconda, invece, «sine consensu»226, ossia per la forza esercitata su di un corpo da un elemento a esso contrario e al quale non può sfuggire, «ut quando contrarium trahitur a contrario propter victoriam illius, quod non potest effugere»227. Nella dimostrazione di questi fenomeni, egli recupera gli stessi esempi già utilizzati nella Cena e nel De l’ infinito, ovvero le attrazioni tra il ferro e il magnete e tra l’ambra e la paglia. Queste attrazioni avvengono «ad effluxionem partium ab universis corporibus seu atomorum»228. De magia, p. 210. Ibidem. 226 Ibidem. 227 Ibidem. 228 Ivi, p. 212. 224 225
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Quando gli atomi di un determinato genere si approssimano ad atomi di specie simile o affine, questi accendono un «appetitus et appulsus»229 di un corpo verso l’altro, attraendolo. È questo il caso degli atomi del ferro attratti da quelli del magnete e di quelli della paglia attratti dall’ambra. Questa forma d’attrazione deriva dall’efflusso degli atomi da un corpo all’altro: se strofinati, infatti, sia il magnete che l’ambra attraggono e vincolano con maggior forza il ferro e la paglia, poiché il calore generato dallo strofinio provoca un maggior efflusso di atomi, una dilatazione dei pori e, di conseguenza, una più alta potenza attrattiva 230. Nell’illustrare questi esempi, Bruno osserva come la capacità e l’efficacia attrattiva del magnete e di altri simili elementi non siano riconducibili alla distinzione tra le qualità attive o passive di alcuni corpi, «secundum vulgatum genus actionis vel passionis»231, quanto all’efflusso e all’influsso degli atomi da un corpo all’altro232. L’attività e la passività non sono qualità o caratteristiche elementari, assolute e permanenti dei corpi, ma relative e instabili. Ogni corpo può essere attivo in un dato momento rispetto a un altro simile o contrario, e, al tempo stesso, passivo in un secondo momento della relazione con lo stesso o con un altro corpo. Non a caso, osserva Bruno, una volta attratti dal magnete e dall’ambra, sia il ferro che la paglia esercitano la stessa forza magnetica e attrattiva dei corpi da cui sono stati attratti e a cui si sono legati, vale a dire, divengono essi stessi attivi e non più soltanto passivi. Fenomeno, questo, che non si verificherebbe, se dipendesse esclusivamente da una qualità attiva o passiva elementare233. La relatività dell’attività e passività degli elementi e dei corpi, come della materia e della forma, costituisce un punto nodale della riflessione di Bruno sulla magia e della sua riforma. La causa di queste attrazioni non è più da ricercare esclusivamente nelle qualità e proprietà attive e passive, ma nei movimenti di efflusso e d’influsso degli atomi, sostanze Ibidem. Ivi, p. 214. 231 Ivi, pp. 214-216. 232 Ibidem. 233 Ivi, pp. 214-216. 229
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spirituali, che dal magnete pervadono il ferro, vincolandolo: «oportet igitur ad effluxum partium hoc referre, quae a magnete effluentes in ferrum influxere, spiritualis substantia»234. È da Origine, probabilmente, che egli recupera la spiegazione in termini fisici e non occulti di queste particolari forme d’attrazione. Nell’esame della fides come indispensabile all’azione prodigiosa di Cristo, Origene affermava che «forsitam quemadmodum in corporibus inest quibusdam ad quaedam naturalis attractio, quemadmodum lapidi magnesio ad ferrum, et ei quod naphta appellatur ad ignem»235, facendo rientrare questi fenomeni nella dimensione fisica all’interno della quale sono assorbiti anche i prodigi compiuti da Gesù. Bruno recupera questo stesso modello teorico: anche eventi di tipo apparentemente sovrannaturale come i miracoli o le forme di attrazione occulte, rientrano tra le attrazioni naturali e sono riconducibili a cause naturali. La scelta d’inserire nel De magia la trattazione, già svolta nei dialoghi e nei poemi, del problema fisico del vuoto, dei moti, del magnetismo e di forme apparentemente occulte di attrazione, è coerente con la necessità di proporre un de-occultamento della natura e della magia. Si tratta di mettere da parte un linguaggio che faccia ricorso alle qualità attive o passive degli elementi, all’eccezione, al prodigio, al miracolo e all’occulto, sia nella spiegazione dei fenomeni naturali, sia delle pratiche magiche. In questo processo di riforma del linguaggio della magia naturale, le spiegazioni di quanti hanno definito i moti di attrazione in termini occulti, come fenomeni che oltrepassano l’ordine e la dimensione fisica non sono che «chymeras et somnia»236. La ripresa degli argomenti esposti nella Cena, nel De l’ infinito e nel De immenso, rappresenta, dunque, la scelta di elaborare una riflessione sulla magia che sia intesa come una physica magica o una fisica del vinculum, vale a dire di quel principio d’attrazione comune agli atomi, agli elementi e a tutti i corpi, sin dalla loro struttura materico-formale. Allo stesso tempo, è possibile leggere il De magia come l’esigenza di Ivi, p. 216. Origenes Commentaria in Evangelium secundum Mattheum, cit., p. 883. 236 De magia, p. 216. 234 235
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calare la magia naturalis non più in un cosmo chiuso, gerarchico, geocentrico e geometricamente perfetto, in cui era stata sempre pensata, ma nell’universo infinito e acentrico in cui ogni cosa è unita all’altra da un permanente vincolo d’amore. Questo primo e originario vincolo universale è la natura stessa, incessante processo vitale che lega tra loro gli atomi, gli elementi e i corpi in un unico e immenso organismo in continua trasmutazione. Nella natura, legame universale e unità del molteplice, è già racchiusa tutta la dottrina della magia: «iam ad multiplex spiritum vinculum referendum convertamur, ubi omnis magiae doctrina continebitur»237. La natura è il modello da conoscere e interpretare per agire istituendo attrazioni, relazioni, legami e vincoli nella dimensione civile. Magia è la sapientia, l’arte e la tecnica attraverso la quale agire a somiglianza della natura, non operando prodigi sugli elementi, ma su realtà simili e proporzionate, ovvero sugli esseri umani. 10. Tra fisica e magia: la nozione di vinculum nel problema della dissolubilità o indissolubilità dei mondi L’analisi dei temi affrontati nel De magia consente di osservare come Bruno sviluppi il problema delle attrazioni e del vincire attraverso due prospettive complementari, una fisica e cosmologica, una ontologica e teologica. Il vinculum, nel senso della relazione che lega la molteplicità degli elementi e dei corpi naturali alla causa e principio primo, il legame tra Dio e l’universo, costituisce un nodo problematico originario della nolana filosofia. Ciò risulta particolarmente chiaro nella ripresa bruniana del problema platonico della dissolubilità o indissolubilità dei mondi, attraverso la quale è possibile osservare la rilevanza che la nozione di vinculum occupa nella sua riflessione filosofico-naturalistica prim’ancora della redazione degli scritti magici. Come abbiamo osservato, quello del δέσμος o dei δέσμοι che legano l’essere da un lato, gli dèi/pianeti al Demiurgo dall’altro, costituisce un tema centrale nella tradizione platonico-parmenidea, che trova ampia 237
Ivi, p. 242.
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diffusione nelle fonti dirette e indirette di Bruno, subendo spesso una trasposizione in senso teologico. Recuperando proprio quest’eredità, a partire dal Timeo platonico, Bruno definisce i pianeti dei mondi, dei grandi animali, delle divinità, numi, angeli, ministri e ambasciatori dell’infinita potenza di Dio238. Dall’infinità e dall’eternità di Dio, causa e principio primo, egli deduce l’infinità e l’eternità dell’universo: questo non è stato generato dal padre una sola volta nel tempo, ma lo è ab aeterno e per l’eternità. L’universo è immagine e simulacro della divinità, termine medio tra l’essere umano e Dio: la sua contemplazione assume, perciò, una connotazione a tratti religiosa, poiché soltanto per mezzo di essa si può entrare in contatto con la divinità. Dall’osservazione dei mondi, delle stelle, dei soli, dei pianeti, si può accedere alla comprensione dell’unità del molteplice. Tuttavia, se l’universo è infinito ed eterno come il padre, non è così per i mondi i quali, in quanto corpi generati, sono destinati come tutti i corpi naturali alla dissoluzione. Il tema della dissolubilità del mondo o dei mondi, e con essi del discioglimento dei vincula o δέσμοι che legano i corpi celesti al padre generatore, pena il loro annichilimento, è centrale nell’ontologia e nella cosmologia platonica e cristiano-neoplatonica, e ritorna a più riprese nella riflessione ontologica e cosmologica di Bruno. Si tratta, infatti, di una questione che attraversa tutta la sua produzione, dai dialoghi italiani al De immenso, passando per gli Articuli adversus Peripateticos pubblicati a Parigi nel 1586 e il Camoeracensis acrostimus pubblicato a Wittenberg nel 1588, presente finanche nelle pagine del processo. Come ha osservato Miguel Angel Granada, è Ficino a costituire il canale di mediazione attraverso il quale Bruno recupera e riformula la fonte platonica 239. Nella traduzione ficiniana del Timeo, il δεσμ ός con cui il Demiurgo lega gli astri/dei, diviene il «vinculum ad vite custodiam quam nexus illi»240. Cfr. Sigillus, p. 264; cfr. Cena, pp. 98-99. M.A. Granada, «Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete». Il problema della dissoluzione dei mondi in Giordano Bruno, in «Paradigmi», XVIII, 53 (2000), p. 263. 240 Platonis Timaeus, in Omnia divini Platonis Opera, translatione Marsilii Ficini, Basilea, 1546, 41a-b, p. 710. 238 239
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Bruno accoglie e fa suo il lessico ficiniano nel definire il legame originario dell’essere e del cosmo al padre generatore e ordinatore. Il riferimento al Timeo consente di comprendere come egli recepisca la nozione di δεσμός e σύνδεσμος, vinculum e nexus, dall’idea platonicoparmenidea delle catene dell’essere e dei legami del cosmo, in una prospettiva ontologica e cosmologica, prim’ancora che magica. Tuttavia, se nella fonte ficiniana con il termine mondo s’intendeva l’intero cosmo241, secondo il modello platonico, questo assume ora il significato di astro o pianeta all’interno di un universo infinito. Nella Cena, definendo le ragioni per le quali la terra si muove di moto locale, rinnovandosi secondo il ritmo della vicissitudine, il Nolano osserva come «questi corpi che sono dissolubili, attualmente talvolta si dissolverebbono: come avviene a noi particolari e minori animali. Ma ad costoro (come crede Platone nel Timeo, e crediamo ancor noi) è stato detto dal primo principio: “voi siete dissolubili, ma non vi dissolverete”»242. Nella Cena vi è, attraverso la mediazione di Ficino243, la ripresa dell’affermazione dell’indissolubilità del mondo tratta dal Timeo platonico, riformulato ora in una prospettiva infinita. Anche nelle opere successive Bruno pone il problema della dissolubilità in una considerazione finalistica e provvidenzialistica dell’universo: non vi è in natura «cosa senza provvidenza e senza causa finale»244, la quale non è altro che la permanenza e la continuità della vita dei mondi e dell’universo. Per questa ragione, i mondi, in quanto prossimi alla causa e principio primo, nonché «espressione visibile di questa divinità manifesta o explicata»245, non saranno disciolti dai loro legami e dissolti, nonostante siano dissolubili. La vicissitudine universale, con il movimento della terra e degli altri pianeti, garantisce incessante-
Cfr. M. Ficini In Plotinum commentarium, in Opera, Basilea 1576, vol. II, p. 1593; cfr. Id., In Timaeum Commentarium, in ivi, p. 1444. 242 Cena, p. 119. 243 Cfr. M. Ficini Theologia Platonica, cit., lib. III, cap. 1, p. 115. 244 Cena, p. 118. 245 M.A. Granada, «Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete». Il problema della dissoluzione dei mondi in Giordano Bruno, cit., p. 273. 241
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mente la vita e assicura la «rinovazione e rinascenza»246. I mondi non possono permanere «secondo la medesima disposizione»247 ma, come le «sustanze che non possono perpetuarsi secondo il medesimo volto si vanno tutta via cangiando di faccia»248, così anch’essi si rinnovano attraverso i loro molteplici moti. Questi moti non sono determinati dal caso, ma dalla necessità di garantire che tutto sia tutto e si faccia tutto, che la sostanza materiale possa tramutare infinitamente e assumere, nello spazio e nel tempo, l’infinità delle forme possibili, secondo il ritmo della vicissitudine. Mentre Dio, infinità complicata, è tutto in tutto intensivamente e istantaneamente, l’universo explicato può dirsi infinito solo nella successione del tempo e nello spazio, attraverso le trasformazioni a esso interne. Bruno può così argomentare l’eternità e l’infinità explicata dei mondi che si dispiega attraverso la trasmutazione permanente e vicissitudinaria 249. Il tema platonico della dissolubilità/indissolubilità dei mondi è centrale anche nel De la causa. Dopo aver sostenuto l’impossibilità di approdare alla conoscenza della causa prima, Bruno definisce «degnissimi di lode quelli che si forzano alla cognizione di questo principio e causa […], circa questi magnifici astri e lampeggianti corpi, che son tanti abitati mondi, e grandi animali, et eccellentissimi numi, che sembrano e sono innumerabili mondi non molto dissimili a questo che ne contiene»250. Tuttavia questi mondi non possiedono l’essere, «atteso che sono composti e dissolubili (benché non per questo siano degni d’esserno disciolti, come è stato ben detto nel Timeo)»251. Se l’essere generati costituisce la ragione della loro dissolubilità, questa è anche la ragione della loro diretta dipendenza e prossimità alla causa e principio primo252. Proprio in virtù di questa dipendenza, di questo intimo e potentissimo legame che vincola i mondi a Dio, la loro dissoluzione non Ibidem. Cena, p. 119. 248 Ibidem. 249 Ibidem. 250 Causa, p. 208. 251 Ibidem. 252 Cfr. M. Ficini In Timaeum commentarium, in Opera, cit., p. 1433, p. 1463. 246 247
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è conveniente in una prospettiva universale. Se i pianeti non saranno dissolti, ciò è «dovuto a questo speciale vincolo con la divinità»253. Poiché «mostrano e predicano […] la infinita eccellenza e maestà del primo principio e causa»254, la loro dissoluzione corrisponderebbe a una mancanza o a una diminuzione della potenza della divinità. Il permanere infinitamente ed eternamente, nonostante la loro dissolubilità, è espressione diretta dell’infinità di Dio. Anche nel De l’ infinito Bruno riprende nuovamente il problema della dissolubilità/indissolubilità dei mondi, sebbene rispetto agli scritti precedenti questo sia soltanto accennato o dato come già acquisito. L’affermazione dell’eternità dei mondi è collocata all’interno di un contesto teorico che recupera, oltre alla fonte platonica, la prospettiva atomistica. Se la permanenza della terra è garantita dalla presenza dell’anima mundi, per effetto della quale ogni cosa nell’universo tende alla propria conservazione, lo è anche grazie all’emissione e alla ricezione di atomi da un corpo a un altro, secondo il ritmo della vicissitudine, assicurando così la non dissoluzione dei mondi e dell’universo255. Il movimento d’efflusso e d’influsso degli atomi da un corpo a un altro influisce sulla loro stabilità e sulla permanenza di tutti gli elementi e i corpi naturali, dai più piccoli fino ai pianeti. Da questo fenomeno dipende la permanenza o la dissoluzione di ogni elemento e corpo naturale. Nel terzo dialogo del De l’ infinito Bruno ritorna nuovamente sulla stessa questione, recuperando sia la funzione dei mondi ambasciatori 253 M.A. Granada, «Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete». Il problema della dissoluzione dei mondi in Giordano Bruno, cit., p. 273. 254 Causa, p. 208. 255 Infinito, pp. 359-360: «Onde questa terra, se è eterna et perpetua, non è tale per la consistenza de sue medesime parti e di medesimi suoi individui, ma per la vicissitudine de altri che diffonde et altri che gli succedono in luogo di quelli; in modo che, di medesima anima et intelligenza, il corpo sempre si va a parte a parte cangiando e rinovando. Come appare anco ne gli animali, li quali non si continuano altrimente se non con nutrimenti che ricevono, et escrementi che sempre mandano; onde chi ben considera saprà che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo fanciulli, e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani: perché siamo in continua transmutazione, la qual porta seco che in noi continuamente influiscano nuovi atomi, e da noi se dipartano li già volte accolti».
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della infinita potenza divina, sia la prospettiva finalistico-teleologica immanente alla natura 256. Egli distingue due ragioni a fondamento della tesi dell’eternità dei mondi: da un lato, una capacità intrinseca ai pianeti, basata sulla regolazione naturale e interna a essi dell’efflusso e dell’influsso di atomi da altri corpi e verso questi; dall’altro, una possibilità a loro estrinseca e dalla quale non possono sciogliersi, legata alla volontà divina. Questa distinzione tra un principio intrinseco alla natura e uno divino estrinseco si configura particolarmente problematica e, al tempo stesso, feconda. In essa sono, infatti, racchiusi due differenti, ma complementari, modi di considerare e rappresentare la natura e l’universo. Se l’affermazione dell’eternità dei mondi poggia su di una visione teologico-teleologica della natura, in cui il vincolo esercitato dalla causa e principio divino fa sì che i corpi celesti permangano in eterno, allo stesso tempo, l’introduzione della possibilità di una loro intrinseca autoregolazione, grazie all’efflusso e all’influsso degli atomi, pone non pochi problemi d’interpretazione. Quest’ultima ipotesi si fonda, infatti, sul ricorso alle dottrine atomiste e, in un senso più generale, sulla considerazione della storicità della natura e dell’universo, vale a dire sulla possibilità per tutto ciò che è in essa di perire così come di generare qualcosa di assolutamente nuovo. Questa possibilità si scontra, tuttavia, proprio con quella rappresentazione di matrice platonica per la quale l’eternità dei mondi è garantita dall’intervento e dalla presenza immanente del divino nella natura e nell’universo. È questa, in altre parole, la manifestazione dell’ambivalenza bruniana tra una considerazione metafisico-platonica della natura e dell’universo, e una fisico-atomistica, le quali sembrano convivere, convergere e fondersi l’una nell’altra. Nel quarto dialogo dell’opera, egli riprende ancora il tema della dissolubilità/indissolubilità dei mondi. Anche in questo caso, tra le due cause, quella naturale intrinseca e quella divina estrinseca, non 256 Ivi, p. 398: «Onde non avendo parte che talmente effluisca dal gran corpo che non refluisca di nuovo in quello, aviene che sia eterno, benché sia dissolubile: quantumque la necessità di tale eternità certo sia dall’estrinseco mantenitore e providente, non da l’intrinseca e propria sufficienza, se non m’inganno».
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ve n’è una prevalente: sia il principio intrinseco che quello estrinseco sembrano contribuire ugualmente o paritariamente alla permanenza e non dissoluzione dei mondi257. Anche nei Furori, seppur la questione sia solo accennata, Bruno sembra attribuire al legame che unisce i mondi alla causa e principio divino la ragione della loro perpetuità: «perché l’atto della divina provvidenza sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore e lume le conserva nell’ordinario e medesimo essere»258. In quest’opera, egli afferma l’eternità dei mondi nell’universo come un effetto dell’azione del vincolo tra questi e la divinità, propendendo per la scelta della causa estrinseca sull’intrinseca. Ma è con la redazione del De immenso che egli giunge ad approfondire la questione, elaborando una soluzione – seppur non definitiva – al problema. Nel quinto capitolo del libro II, egli s’interroga sulla dissolubilità/indissolubilità dei mondi, riprendendo l’ipotesi di un efflusso di atomi al di fuori dei mondi, ragion per cui questi grandi animali invecchiano, si trasformano e muoiono come tutti i corpi naturali. Nella lunga Digressio intitolata «Digressio quaedam, quod si veluti dissolubiles, ex natura compositionis, sunt mundi, dissolvantur, partibus a toto corpore diffluentibus, non inconvenit universali agitatione atomos (seu quomodcunque appelles prima corpora) infinite vagari»259, egli espone il problema facendo ricorso alla dottrina atomista: i mondi e tutti i corpi celesti potrebbero permanere in eterno soltanto qualora non si verificasse l’effluxus e l’influxus di atomi da un corpo a un altro. 257 Ivi, p. 408: «Per quanto appartiene alli primi corpi indivisibili, de quali originalmente è composto il tutto, è da credere che per l’immenso spacio hanno certa vicissitudine, con cui altrove influiscano, et effluiscano altronde. E questi se pur per providenza divina secondo l’atto non costituiscano nuovi corpi e dissolvano gli antichi, al meno han tal facultà: per che veramente gli corpi mondani sono dissolubili; ma può essere che o da virtù intinseca o estrinseca sieno eternamente persistenti medesimi, per aver tale e tanto influsso, quale e quanto hanno efflusso di atomi; e cossì perseverino medesimi in numero, come noi, che nella sustanza corporale similmente giorno per giorno, ora per ora, momento per momento, ne rinuoviamo per l’attrazione e digestione che facciamo da tutte le parti del corpo. Di questo ne parleremo altre volte». 258 Furori, p. 837. 259 De immenso, pp. 272-274.
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In tal modo è posta una sostanziale equivalenza tra tutti i corpi naturali, dagli infinitamente piccoli agli infinitamente grandi. Ma se nella prima parte del passo egli sembrerebbe accettare la possibilità della non eternità dei corpi celesti, occorre osservare, come ha rilevato Granada, che «sia nel titolo del capitolo che nel testo la dissoluzione dei mondi è affermata in termini ipotetici o condizionali»260. Nella seconda parte, infatti, Bruno recupera la fonte platonica e il modello teleologico, opponendolo alla prospettiva atomista. Associando le parole del Timeo, «Vos quidem dissolubiles estis, nequaquam vero dissolvemini»261, alla citazione del passo biblico «Deus stetit in sinagoga Deorum»262, egli mette sullo stesso piano l’affermazione platonica dell’eternità dei mondi e l’autorità del testo sacro secondo la quale «divina monumenta mistras dei, flammas ignis appellant, stellas coeli, quibus similes sint Sancti apud nos, volucres coeli, terram viventium, aquas super coelos obtemperantes ordini altissimo»263. Egli riprende così, non soltanto la considerazione della divinità come immanente all’universo, ma anche la tesi dell’eternità dei mondi in quanto ministri e ambasciatori della potenza divina, confermata e avvalorata dal recupero della fonte biblica in accordo con quella platonica. Se i mondi si dissolveranno a causa della disgregazione e della separazione degli atomi di cui sono composti non sarà possibile saperlo. Bruno riconosce sia la dissolubilità dei mondi, sia l’incapacità di conoscere pienamente questo fenomeno, poiché si verificherebbe in tempi che trascendono la singola esistenza umana. Egli afferma l’impossibilità che i mondi possano perpetuarsi grazie a un principio intrinseco: i movimenti di effluxus e d’influxus degli atomi comportano la dissolubilità di tutti i corpi naturali, compresi i mondi. Ma al tempo stesso, in quanto opera di una potenza divina infinita e legati a essa da un saldissimo vincolo, questi seppur dissolubili non si dissolveranno. E 260 M.A. Granada, «Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete». Il problema della dissoluzione dei mondi in Giordano Bruno, cit., p. 281. 261 De immenso, p. 274. 262 Ibidem. 263 Ibidem.
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ciò può avvenire, per l’appunto, in virtù del principio estrinseco divino che tende a conservare eternamente i mondi assicurando la loro permanenza. Tuttavia, come rileva ancora Granada, «ciò è in contraddizione con la concezione bruniana dell’identità assoluta di volontà divina e legge naturale»264; ma d’altra parte, nonostante la vita dei mondi sia lunghissima, «Bruno sa che tra il tempo finito e l’eternità non c’è proporzione, per cui, a fronte dell’eternità dell’universo e di Dio, la nostra vita e quella dei mondi hanno la stessa durata, vale a dire nessuna»265. La ricognizione sin qui svolta attraverso il recupero del problema della dissolubilità/indissolubilità dei mondi ci consente di osservare come la nozione di vinculum, nel senso del legame e della relazione ontologica e cosmologica tra la divina potenza infinita e l’universo, costituisca nella filosofia naturale di Bruno un nodo problematico originario e antecedente la redazione degli scritti magici. Oltre che nelle opere già esaminate, ciò emerge in misura maggiore negli Articuli adversus Peripateticos, che raccolgono le tesi pronunciate da Bruno contro la Physica e il De coelo di Aristotele nel corso di una disputa pubblica svoltasi il 28 maggio 1586 al Collège de Cambrai a Parigi, poi nuovamente riprese nel Camoeracensis acrostimus266. Commentando il primo libro del De coelo aristotelico, egli sostiene che i mondi, sebbene siano corruttibili in quanto generati, sono talmente prossimi al primo efficiente da essere perciò legati a esso da «tenacissimis vinculis»267. Quest’espressione rimanda alla traduzione ficiniana di Timeo 41a-b, manifestando come il tema platonico-parmenideo dei δέσμοι che legano l’essere e il cosmo fosse presente in Bruno nella prospettiva ontologica e cosmologica. Allo stesso tempo, il ricorso a quest’espressione consente di rilevare la presenza della nozione di δέσμος, vinculum/nexus, nel senso che sarà proprio alla terza parte del De vinculis, vale a dire di vinculum Cupidinis, legame d’amore tra il principio e i principiati. L’utilizzo del 264 M.A. Granada, «Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete». Il problema della dissoluzione dei mondi in Giordano Bruno, cit., p. 284. 265 Ibidem. 266 Cfr. Camoeracensis acrostimus, p. 176. 267 Articuli adversus Peripateticos, p. 26.
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termine e della nozione di vinculum nell’ultimo dei trattati magici è strettamente connesso e non separabile dalla precedente riflessione ontologico-cosmologica sulla dissolubilità/indissolubilità dei mondi, sulla sussistenza e sulla perenne trasformazione degli elementi naturali, sulla philautia e sulla vicissitudine. Nell’articolo XV («Vincibilium materiae diversitatis») della seconda sezione del De vinculis, analizzando le attrazioni che legano i composti naturali, Bruno osserva come queste ultime siano assolutamente instabili rispetto a quei tenacissimi vincoli, nonché principi eterni e instancabili, che legano tra loro i grandi numi o pianeti. Questi non sono mai toccati dalla stanchezza ma, sempre costanti e in equilibrio, sono avvinti alla prima causa e principio primo in un’assoluta beatitudine, non venendo mai meno la loro attrazione e il loro amore: Si quae vero essent, in quibus principia numquam deficiunt, cuiusmodi fortasse sunt astra et magna mundi animalia seu numina, quibus defatigatio accidit, et in quibus effluxio et influxio substantiae aequalis est et eadem, felicissime ipsa sibi in seipsis sunt devincta 268.
Seppur soltanto accennata, la questione della permanenza dei mondi, come elaborata nelle opere precedenti, è ripresa da Bruno nel De vinculis in maniera implicita, affermando una differenza di grado tra i legami instabili e finiti dei corpi composti e quei vincoli, invece, permanenti o eterni che legano gli astri, i pianeti o mondi alla causa e principio primo. E così ancora, nell’articolo XIII della terza sezione dedicata al vinculum Cupidinis, riprendendo il discorso ontologico e cosmologico già elaborato anni prima sia nei dialoghi, sia nelle opere latine, egli osserva: Amor unus, vinculum unum facit omnia unum; diversa habet in diversis facies, ut idem aliter alia atque alia vinciat. Hinc Cupido idem dicitur superior et inferior, novissimus et antiquissimus, caecus
268
De vinculis, p. 472.
dalla philosophia occulta alla physica magica
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et perspicacissimus, qui facit omnia pro viribus vel seipsis consistere, ne a se recedant, ad speciei perenninatem269.
Sembrano qui riformulate quelle stesse parole con cui nel Sigillus egli descriveva un unico principio d’amore che lega la molteplicità degli elementi in un solo e immenso organismo. Tuttavia, questo universale vincolo di Cupido se lega e tiene insieme ogni cosa, allo stesso tempo, opera anche attraverso la disgregazione e la ricomposizione degli elementi e dei corpi naturali, affinché la materia infinita possa soddisfare l’insaziabile desiderio di abbracciare tutte le possibilità formali, secondo il ritmo della vicissitudine. Nonostante lo spirito di autoconservazione insito in tutti i composti naturali, la dissoluzione di questi e la trasformazione della materia è funzionale alla rigenerazione e alla conservazione dell’intero universo. Per questa ragione, ogni corpo, dal più semplice al più complesso, ivi compresi i mondi, gli astri e le stelle, sperimentano la concentrazione e la dispersione, l’impoverimento e la dissoluzione, secondo una condizione generale del vincolo d’amore osservabile in tutte le differenti specie di legame: Ad particularium vero vicissitudinem facit singula quodammodo a seipsis recedant – ubi in amatum transferri concupiscit amans omne –, per seipsa quoque dissolvantur, aperiantur, dehiscant – ubi totum amans concipere concupit amatum imbibire270.
Si tratta di un passo estremamente significativo, in cui Bruno riconnette il problema del vincire all’ossatura ontologica delineata nei dialoghi. Seppur il termine vinculum risulti assente da questi, la nozione di legame e relazione non è estranea all’impostazione fisico-metafisica fondata sul riconoscimento dell’unicità dell’essere in cui le forme particolari e finite sono explicationi di un soggetto unico. Egli vi delinea il problema del vincolo d’amore con cui l’Uno o Dio lega a sé il molteplice e garantisce la continuità della vita nell’universo, attraverso la 269 270
Ivi, pp. 512-514. Ivi, p. 512.
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trasformazione dell’unica materia infinita e la dissoluzione delle forme particolari secondo il ritmo della vicissitudine. L’assenza del termine vinculum nei dialoghi italiani non equivale all’assenza della nozione che, come vedremo, è espressa negli anni precedenti la stesura del De vinculis attraverso una terminologia differente. Da questa prospettiva, inoltre, è possibile osservare come il De vinculis non rappresenti un’analisi ristretta al solo ambito magico: al contrario, questo breve trattato si allontana e procede oltre quel materiale elaborato negli scritti magici precedenti, ricongiungendosi al discorso originario della nolana filosofia sulla relazione tra l’Uno e il molteplice, sul rapporto tra il principio materiale e quello formale.
III. Il vinculum nexus nella relazione tra unità e molteplicità
Tra gli articoli XII e XV della terza sezione del De vinculis, dedicata al vinculum Cupidinis, Bruno ripercorre pressocché testualmente alcune delle principali questioni relative alla distinzione tra potentia Dei absoluta e potentia Dei ordinata, alla relazione tra materia e forma e all’identità di Dio e materia, come erano state poste e discusse quasi dieci anni prima nel De la causa e nel De l’ infinito. I termini in cui le questioni sono presentate e le fonti citate dall’autore a sostegno delle sue tesi sono le stesse già richiamate nei due dialoghi italiani: Atque una potentia absoluta atque simpliciter (quicquid/sit de potentia in particulari et compositorum et accidentaria, quae sensus et mentes Peripatheticorum fascinavit cum asseclis quibusdam cucullatis), quemadmodum pluribus in his quae De infinito et universo diximus et in dialogis De principio et uno exactius, non stultum concludentes Davis de Dinantho et Avicebron in libros Fons vitae sententiam ab Arabibus citatam, qui aussi sunt materiam etiam Deum appellare1. 1
De vinculis, p. 520.
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Le ragioni di questa ripresa nella terza sezione del De vinculis sono rintracciabili nel tentativo di ripensare e innestare la specifica riflessione sulla magia e sulle molteplici forme di vincula nel solco della prospettiva ontologica già tracciata nei dialoghi italiani. Ma a colpire, ancor più dei rimandi alle questioni discusse principalmente nel De la causa, è l’esplicito richiamo alle due fonti citate, Avicebron, o Shelomon IbnGabirol2, e David de Dinant. Se, infatti, il recupero della prospettiva ontologica del dialogo londinese nell’ultimo dei trattati magici, sembra stabilire una strettissima correlazione tra due momenti della produzione filosofica di Bruno apparentemente distanti tra loro, ciò è rafforzato proprio dalla citazione dei due autori in questione. Non sono questi nomi nuovi nel vasto panorama di fonti, dirette e indirette, a cui egli ricorre, spesso in maniera strumentale, né tantomeno dei semplici riferimenti occasionali o estemporanei. Queste rappresentano, invece, due fonti centrali proprio nel De la causa. Una presenza apparentemente rara se si considerano le semplici occorrenze esplicite: il nome di David de Dinant3 compare nel dialogo londinese in soli due casi, mentre quello di Avicebron4 è citato all’incirca quattro volte. Tuttavia, le loro filosofie sembrano agire in profondità nell’opera di Bruno, andando a costituire un fecondo supporto nell’elaborazione di quel punto nodale della sua filosofia che è il tema della relazione, o meglio, del vincolo che lega materia e forma. Non è un caso se la citazione di entrambi cada puntuale laddove l’autore affronta ciò che «è stimato aver più raggione di principio et elemento che di causa»5, ovvero la materia nella sua relazione con la forma. Già nella Proemiale epistola, nell’Argomento del terzo dialogo, David de Dinant è evocato come colui «che non fu pazzo nel suo grado […] nel prendere la materia come cosa eccellentissima e divina»6. E così avviene anche nella conclusione del quarto dialogo dell’opera, in un Cfr. S. Munk, Mélanges de philosophie juive et arabe, Paris 1988. Causa, p. 168, p. 275. 4 Ivi, p. 168, p. 232, p. 242, p. 260, p. 275. 5 Ivi, p. 168. 6 Ibidem. 2 3
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contesto teorico in cui ogni forma sensibile e particolare è ricondotta nel grembo dell’infinita materia da cui è partorita. Allo stesso modo, anche i rimandi ad Avicebron sono legati a una rivalutazione del concetto di materia quale principio e forza attiva, di contro alla concezione aristotelica della stessa intesa come prope nihil. Nel terzo dialogo del De la causa, in un contesto di critica a posizioni rigidamente materialistiche, questi è inserito tra coloro i quali «quel che non è corpo dicono esser nulla, per conseguenza vogliono la materia sola essere la sustanza de le cose, et anco quella essere la natura divina, come disse un certo arabo chiamato Avicebron, come mostra in un libro intitolato Fonte di vita»7. Sovrapponendo le parole di David de Dinant a quelle di Ibn Gabirol, la materia è qui descritta quale «principio necessario, eterno e divino, come a quel moro Avicebron che la chiama “Dio che è in tutte le cose”»8. Le modalità con cui Bruno menziona queste due fonti, relativamente al problema della materia, sono simili. Riprendendo l’identificazione presente sia nel De la causa, sia nel De vinculis, di Dio e materia, egli cita indifferentemente l’uno e l’altro autore. Allo stesso modo, nel passaggio del terzo dialogo del De la causa, corrispondente all’Argomento introduttivo in cui era chiamato in causa David, il suo nome scompare dal corpo del testo per esser sostituito da quello di Avicebron nella definizione della materia quale principio necessario, eterno e divino. Ibn-Gabirol e David rappresentano negli scritti bruniani due fonti spesso sovrapponibili l’una all’altra. Come nel De la causa anche nel De vinculis il riferimento a essi è strettamente legato alla trattazione del problema della relazione tra materia e forma nella riflessione magica9. Anche qui David e Avicebron sono evocati tra coloro i quali «non stultam concludentes […] qui aussi materiam etiam Deum appellare». Laddove, nel De vinculis, Bruno tenta di innestare il problema della magia per vincula nel solco della sua filosofia naturale, riemergono non soltanto le principali questioni Ivi, p. 232. Ivi, p. 242. 9 Cfr. De vinculis, pp. 510-520. 7 8
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discusse nel De la causa, ma anche le stesse fonti utilizzate a supporto di un ripensamento della materia e del suo legame con la forma. Quello a David e ad Avicebron è un ricorso insolito, isolato e in controtendenza nel contesto delle filosofie del Rinascimento. Sono questi due autori che tra il XIII e il XVI secolo circolano nel dibattito filosofico e teologico per lo più indirettamente: attraverso le critiche e, in molti casi, le condanne presenti in autorità scolastiche, tra cui Alberto Magno e Tommaso, oltre ai riferimenti rintracciabili nei testi di Cusano e di Ficino. Tuttavia, se nel caso dell’utilizzo bruniano delle tesi del Fons vitae di Avicebron, disponiamo oggi di alcuni contributi, tra cui gli studi di Rita Sturlese10 e di Pasquale Terracciano11, diverso è il caso della ripresa della dottrina di David de Dinant. Oltre agli studi di Tristan Dagron12 e a quelli meno recenti di Tocco13, risulta ancora assente uno studio della ricezione in Bruno della filosofia di David. Questo lavoro di ricostruzione è funzionale a osservare come il recupero della sua fonte indiretta, insieme ad altre, sia da supporto all’elaborazione di un’ontologia non aristotelica dell’essere, della sostanza, della natura e della vita.
10 Cfr. R. Sturlese, «Averroè quantumque arabo et ignorante di lingua greca»: note sull’averroismo di Giordano Bruno, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXI (1992), pp. 248-275. 11 P. Terracciano, «Nemici et impazienti di poliarchia». Riflessioni sul rapporto tra Bruno e Shelomon Ibn Gabirol, in Favole metafore e storie. Seminario su Giordano Bruno, introduzione di M. Ciliberto, O. Catanorchi e D. Pirillo (a cura di), Pisa 2007, pp. 447-472. 12 T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique. L’ idée de philosophie naturelle chez Giordano Bruno, Paris, 1999, pp. 353-356; Id., David de Dinant. Sur le fragment «Hyle, Mens, Deus» des Quaternuli, «Revue de métaphysique et de morale», XL (2003/2004), pp. 419-436. 13 F. Tocco, Giordano Bruno. Conferenza tenuta nel circolo filologico di Firenze, Firenze 1886.
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1. David de Dinant: la riscoperta di una filosofia in oblio Nel 1210 Pierre Corbeil arcivescovo di Sens, Pierre de Nemours vescovo di Parigi e altri vescovi riuniti in concilio nella capitale del Regno di Francia, decretarono che le tesi contenute nei Quaternuli del filosofo e maestro di logica David de Dinant fossero bruciate e dichiarate eretiche, oltre a interdire la lettura dei Libri Naturales di Aristotele che proprio di questi erano stati oggetto di commento14. Cinque anni più tardi il cardinale e cancelliere dell’Università di Parigi, Robert de Courçon, condannò nuovamente la dottrina del filosofo di Dinant15. Soltanto nel corso del Novecento si è fatta chiarezza sulla figura e l’opera di quest’autore: prima nel 1925, con il lavoro di ricostruzione dell’opera perduta attraverso la collazione di tutti i passaggi, i riferimenti e le citazioni presenti nelle opere di Alberto, Tommaso e Cusano, svolto dal padre domenicano Gabriel Théry; in seguito, grazie all’identificazione di quattro ampi frammenti manoscritti dell’opera perduta di David operata da Alexander Birkenmajer16 nel 1933, e pubblicati nel 1963 da Marian Kurdzialek17. Come documentato, inoltre, da più recenti studi18, dall’inizio del XIII fino alla metà del XX secolo, G. Théry, Autour du decret du 1210: I David de Dinant. Etude de son panthéisme, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 1925, p. 7; cfr. P. Lucentini, Platonismo, Ermetismo, Eresia nel Medioevo, Louvain-La-Neuve 2007, pp. 19-22, pp. 372-388, pp. 435-440, pp. 463-465; cfr. L. Bianchi, Censure et liberté intellectuelle à l’Université de Paris (XIII ͤ -XIV ͤ siècles), Paris 1999, pp. 23-27, p. 55, pp. 92-101. 15 G. Théry, Autour du décret du 1210: I David de Dinant. Etude de son panthéisme, cit., p. 8. 16 A. Birkenmajer, Découverte des fragments manuscrits de David de Dinant, «Revue néoscolastique de Philosophie», XXXV (1933), pp. 220-229. 17 Davidis de Dinanto Quaternulorum Fragmenta, M. Kurdzialek (a cura di), «Studia Mediewistyczne», III (1963), pp. 3-94. 18 E. Maccagnolo, David of Dinant and the Beginnings of Aristotelicianism in Paris, in P. Dronke, A History of Twelfth Century Western Philosophy, Cambridge 1988, pp. 429-442; cfr. E. Casadei, David di Dinant, traduttore di Aristotele, «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», XLV (1998), pp. 381-406; cfr. Ead., Il corpus dei testi attribuibili a David di Dinant, «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», XLVIII (2001), pp. 87-124; Ead., I testi di David di Dinant. Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, Spoleto 2008; cfr. T. Dagron, 14
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le tesi del filosofo di Dinant circolarono essenzialmente sotto forma di commenti, brevi riferimenti o sintesi presenti nelle opere di Alberto19, Tommaso20, Cusano21 e Ficino22. È per queste ragioni che appare insolito il diretto richiamo di Bruno al filosofo di Dinant, poiché il suo nome risulta pressoché assente nel panorama teologico e filosofico Umanistico-Rinascimentale. Al tempo stesso, tale ripresa è spia, non soltanto di un già noto rapporto del Nolano con i testi di Ficino, di Cusano e dell’Aquinate, ma in particolar modo di una lettura delle opere di Alberto. Il maestro domenicano sembra rappresentare non soltanto per Tommaso, ma per lo stesso Bruno, il principale canale di trasmissione della filosofia di maître David. Il lavoro di recupero dei Quaternuli svolto nel Novecento e il confronto di questi con i commenti e i riferimenti presenti nei testi di Alberto consentono di tracciare un quadro parziale delle questioni affrontate da David. Dal confronto sistematico dei frammenti con i riferimenti presenti nel De homine, nella Metaphysica e nella Summa Theologiae di Alberto, non è possibile stabilire se questi abbia avuto un accesso diretto ai Quaternuli, ma ciò che emerge è la fedele corrispondenza tra i riferimenti albertiani all’opera di David e i frammenti individuati nel XX secolo. Nel De homine23, ad esempio, commentando David de Dinant. Sur le fragment «Hyle, Mens, Deus» des Quaternuli, cit., pp. 419-436; cfr. A. Rodolfi, «Il velo di Atena». La critica di Alberto Magno a David di Dinant, «I Castelli di Yale», V (2002), pp. 39-49. 19 Cfr. G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son panthéisme matérialiste, cit., pp. 13-15. 20 Ivi, p. 22. 21 Ivi, pp. 24-27. 22 Cfr. S. Gentile, In margine all’epistola “De divino furore” di Marsilio Ficino, in «Rinascimento», n.s., XXIII (1983), pp. 33-77. 23 Alberti Magni ordinis fratrum praedicatorum De homine, ediderunt H. Anzulewicz et J.R. Soder, Monasterii Westfalorum 2008 p. 66: «Sed hoc totum derisione plenum est, quia dicit David ibidem quod formae rerum nihil sunt nisi secundum sensum tantum et quod licet mundus secundum sensum habeat magnitudinem et motum, tamen secundum ratione neque magnitudinem habet neque motum, sed est quidam impartibile et immobile, et quod tempus et locus non sunt nisi secundum sensum, et quod motus etiam omnis, sive localis sive alius, non sit nisi secundum sensum».
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la tesi di una materia universale principio dei corpi, nonché dell’assoluta fenomenicità e contingenza delle determinazioni sensibili, il maestro domenicano ripercorre pressoché testualmente, fatta eccezione per i giudizi di derisione, il Frammento P dei Quaternuli in cui David esponeva la dottrina di una materia-hyle immobile e impercettibile quale principio del moto, dei corpi e degli elementi24. La stessa corrispondenza tra i frammenti dei Quaternuli e i riferimenti albertiani è rintracciabile anche per quanto riguarda la teoria della forma come principio e causa della differenza, nonché della derivazione di tutte le anime individuali da un’unica anima universale o mens25. L’idea di una materia unica, principio immobile del moto e dei corpi, di una forma o mens causa delle differenze, costituisce l’assunto metafisico della dottrina di David condannata da Alberto. Quest’apparente dualità logica dei due principi fisico-metafisici è risolta dal filosofo di Dinant con la definizione di Dio quale luogo dell’unione e dell’identità di materia e forma. Si tratta della considerazione di un Dio/Uno, vincolo o coincidentia di materia e forma, nonché del mondo come «nihil aliud quam deum sensibilem»26, sostenuto attraverso il richiamo a Platone e ai presocratici27. David de Dinant, Frammento P, in E. Casadei, I testi di David di Dinant: Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., pp. 297-298: «Nam quantitas, ut ait Aristoteles, primum est adveniens yle et sit corpus, corpori vero advenit naturalis motus, et sit elementum. Cum enim yle vi sui naturae sicut imperceptibile et immobile, sensus tamen recipit magnitudinem et motum in ea». 25 Ivi, Frammento W, p. 326: «Yle est omnia corpora per adventum formarum, et nois est omnes anime. Item quaecumque differunt formis differunt. Ergo si non formis differunt non differunt ergo idem sunt et ita volunt philosophorum Plato et alii quod mundus est deus prebens sibi visibile, et est yle corporum et mens animarum». Cfr. ivi, Frammento P, p. 298 «[…] mens et yle unum sunt aut diversa. Cum igitur sola passiva differant ad se invicem, videtur mentem et ylen nullo modo differe, cum neutrum eorum sit subiectum passioni». Cfr. Albertus Magnus, De homine, cit., p. 63: «Item, omnis differentia est a forma; ergo quod nullam habet formam, nullum habet differentiam; sed prima simplicia, quae sunt deus, nous et hyle, nullam habent formam; ergo nullam habent differentiam». 26 David de Dinant, Frammento W, in E. Casadei, I testi di David di Dinant: Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., p. 263. 27 Ivi, pp. 263-266: «Itam quecumque differunt formis differunt. Ergo si non formis differunt non differunt ergo idem sunt et ita volunt philosophorum Plato et alii 24
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La metafisica di maître David sembra svilupparsi a partire da un radicale monismo o da quello che Alberto definisce un «falsum suppositum»28, da cui prende corpo l’errore per cui tutte le cose sono Uno. Come riporta il Frammento P dei Quaternuli, soltanto l’unità è sinonimo di essere, poiché «manifestum est igitur unam solam substanciam esse»29: solo ciò che è unum è vere ens, mentre «id quod agit pluralitatem non est vere ens»30. Si tratta della relazione tra l’unicità della sostanza e la molteplicità delle sue manifestazioni, in cui quest’ultima non è verum esse, ma «ens secundum sensum et aestimationem»31. Il processo di risalita dalla molteplicità e dalle differenze conduce a riconoscere un «unum semplicissimum quod ulterius non resolvitur»32, ossia l’unità in Dio di materia e forma oltre la quale non è possibile procedere33. Necessità posta da David nel Frammento P è quella d’individuare una materia prima o yle e un’anima universale o mens origine di tutte le forme e materia di tutti i corpi: principi, questi, indivisibili,
quod mundus iste est deus prebens sibi visibile, et yle corporum et mens animarum. Unde Iupiter est quodcumque vides». Cfr. Albertus Magnus, De homine, cit., p. 63: «Et inducit ibidem Platonem et Xenophanem philosophos sibi super hoc consentientes, quia dicebant “mundum nihil aliud esse quam deum sensibilem”». 28 Ivi, p. 66. 29 David de Dinant, Frammento P, in E. Casadei, I testi di David di Dinant: Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., pp. 298-299. 30 Albertus Magnus, De homine, cit., p. 66. 31 Ibidem. 32 Id., Summa Theologiae, in Opera omnia, cura ac labore A. Borgnet, Parisiis 1895, vol. XXXII, pars II, tr. XII, q. 72, p. 43. 33 David de Dinant, Frammento P, in E. Casadei, I testi di David di Dinant: Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., pp. 298-299: «Dico autem quod quemadmodum se habet corpus ad ylen, ita se anima ad mentem. Si autem sint corpus et yle passiva, ita anima et mens passiva. Dico autem quod una sola est mens, multe vero anime, et una sola yle, et multa vero corpora. Cum enim sole passiones, hoc est accidentia sive proprietates, faciunt differentiam rerum ad se invicem, necesse est unum solum esse id quod nulli passioni subiectum est, cuismodi sunt mens et yle. Ea vero que passiva sunt necesse est esse multa, et quod proprietates, que in ipsis sunt, faciunt unius cuiusque differenciam ad alterum, cuiusmodi sunt corpora et anime. Manifestum est quod una sola est mens et una sola yle».
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oltre i quali non è possibile risalire, in quanto una sola è la sostanza non solo di tutti i corpi ma, con essi, anche di tutte le anime34. Il Frammento P dei Quaternuli racchiude, come in un unico e denso ragionamento, alcune delle maggiori questioni della filosofia di maître David. Dall’idea dell’unità in Dio di materia e forma si originano tutti i problemi metafisici con cui sia Alberto sia, successivamente, Tommaso si confrontano in modo sistematico, nel tentativo di decostruirne l’impianto ontologico. Si tratta 1) della dottrina della materia prima come principio dei corpi e del carattere fenomenico delle determinazioni sensibili; 2) della forma quale principio delle differenze e delle anime individuali come derivanti da un’unica mens; 3) della dottrina della conoscenza; 4) del tema del mondo come manifestazione sensibile dell’unità di materia e forma, le quali sono realmente unum et idem. Nella prospettiva di David, il mondo fenomenico non è altro che una manifestazione sensibile dell’unità di materia e forma, le quali pur apparendo distinte e separate sono in realtà unum et idem, secondo l’opinione di Platone e di Socrate, di Zenone e di molti più antichi filosofi35. Ibidem: «Manifestum est igitur unam solam substanciam esse non tantum omnium corporeum, sed etiam animarum omnium, et eam nichil esse quam ipsum deum. Substancia vero ex qua sunt omnia corpora dicitur yle, substancia vero ex qua sunt omnes anime dicitur racio sive mens. Manifestum est ergo deum esse racione omnium animarum et ylen omnium corporum». Nel commentare questa tesi di David, Alberto sembra riportare e seguire il testo dei Quaternuli pressoché alla lettera, cfr. Albertus Magnus, De homine, cit., p. 62: «Manifestum igitur est unam solam substantiam esse non tantum omnium corporum, sed et omnium animarum, et eam nihil aliud esse quam ipsum deum. Quia vero substantia ex qua sunt omnia corpora dicitur yle, substantia vero ex qua omnes animae, dicitur ratio sive mens, manifestum est deum esse rationem omnium animarum et hyle omnium corporum». 35 E. Casadei, I testi di David di Dinant: Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., Frammento P, pp. 298-299: «Ex hiis ergo colligi potest mentem et ylen idem esse. Huic autem assentire videtur Plato, ubi dicit mundum esse Deum sensibilem. Mens enim, de qua loquimur et quam unam dicimus esse eamque impassibilem, nichil aliud est quam Deus. Si ergo mundus est ipse Deus preter se ipsum perceptibile sensui, ut Plato et Zeno et Socrates et multi alii dixerunt, yle igitur mundi est ipse Deus, forma vero adveniens yle nil aliud quam id, quod facit Deus sensibile se ipsum». 34
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La relazione tra l’Uno o Dio, unità di materia e forma, e la molteplicità delle sue manifestazioni sensibili, insieme alla possibilità di conoscenza di questa relazione da parte dell’essere umano, sono rappresentate da David con l’immagine del vellum Palladis, ovvero attraverso la metafora del rapporto tra la sostanza e i suoi accidenti. Questo tema è argomentato attraverso il richiamo alle dottrine degli antiqui philosophi. La corrispondenza tra il pensiero di David e la tradizione presocratica è confermata dalle testimonianze di Alberto, il quale fa derivare l’immagine del vellum Palladis dalla tradizione pitagorica, passando per gli eleati Senofane, Parmenide e Melisso, fino a giungere agli atomisti Democrito e Leucippo. La riduzione della molteplicità a un’apparenza d’essere accidentale e contingente, opposta all’unità e all’immobilità della sostanza, sembra sempre porsi come un argomento predominante sia nei frammenti dei Quaternuli sia nei riferimenti albertiani. Tuttavia, le apparenze d’essere rappresentano delle manifestazioni finite e terminate di una sostanza unica e, pertanto, a esse è riconosciuta dignità ontologica. Da queste manifestazioni si può procedere per via negativa nel processo di resolutio o disvelamento del principio. È questa la ragione per la quale, sia nelle testimonianze trasmesse da Alberto, sia in alcuni dei frammenti di David, il mondo è definito «nihil aliud esse quam deum sensibilem» e «deum universum esse»36. Pallade è il simbolo della sostanza unica, infinita e permanente, mentre il peplo che le nasconde il volto rappresenta le sue manifestazioni particolari. Il velo lascia soltanto intravedere alcuni lineamenti del volto della dea, ma non lo disvela mai completamente, in un rapporto con la verità che è sempre di nascondimento e impermanenza. È questa la sola forma di accesso all’essere che si apre a chi tenti di scorgerlo, essendo immerso nella molteplicità e contrarietà delle differenze. La metafora del disvelamento del vellum Palladis è presente in alcuni passaggi dei Frammenti P e W e trasmessa in più d’una occasione da Alberto, in particolare nel primo libro della Metaphysica37 e nello Scriptum II super 36 Albertus Magnus, Summa Theologiae, in Opera omnia, cit., vol. XXXIII, pars II, tr. I, q. 4, p. 109. 37 Id., Metaphysica, in Opera omnia, cit., vol. VI, tr. IV, cap. VII, p. 72: «Circa idolum enim Palladis inscriptum fertur fuisse, quod Pallas est, quidquid est et
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libros Sententiarum38, laddove associa la dottrina di David alle tradizioni filosofiche presocratiche che erano state criticate e rifiutate da Aristotele. La molteplicità lascia intravedere il volto dell’unica sostanza che l’ha generata: «Pallas est quidquid fuit, et quidquid est, et quidquid erit»39. Espressione questa che richiama fortemente l’immagine bruniana dell’essere e della verità, immersi in un gioco permanente di memoria e oblio, nonché quel verso salomonico più volte ripreso da Bruno in diversi luoghi delle sue opere, secondo cui: «Quid est quod est? ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? ipsum quod est. Nihil sub sole novum»40. 2. La ricezione scolastica di David de Dinant: da Alberto a Tommaso Le questioni affrontate da David e mediate dall’autorità di Alberto rappresentano problemi e prospettive che giungono indirettamente sino a Bruno, costituendo motivi portanti della sua riflessione ontologica. Basti sfogliare le pagine della Proemiale epistola del De la causa per osservare come, negli Argomenti ai cinque dialoghi, le questioni esamiquidquid erat et quidquid erit et quidquid vides, cuius peplum nullus umquam sapientum revelare potuit. Et haec opinio placuit Alexandro Peripatetico, et aliquid eius, quantum scivit, David de Dinanto ascivit, sed perfecte et profunde non eam intellexit. Hoc autem quod hic inductum est de ea, sufficit ad hoc quod sciantur rationes Xenophanis, quae eum in hunc perduxerunt errorem, quod ad totum caelum respiciens ipsum dixit esse deum». 38 Id., Super II sententiarum, in Opera omnia, cit., vol. XXVII, lib. II, d. I, art. 5, p. 17: «Ergo videtur, quod opifex et materia reducantur in idem, et hoc concessit ille stulissimus, qui numquam aliquid vere et bene intellexit: et ideo dixit, quod materia prima et Deus et νοῦς sive mens essent idem, et nihil esset principium universi nisi aliud, cum tamen sit omnium indivinius et imperfectius. Et dixit hoc signatum in templum Palladis, in cujus superstitione erat scriputum: “Pallas est quidquid fuit, et quidquid est, et quidquid erit: cujus peplum nullus umquam hominum homini revelare potuit”. Et dixit Palladem esse materia primam, et peplum ejus esse formam, et multos revelasse peplum hoc usque ad formas Creatoris et creati, et efficientis et formae». 39 Id., Summa Theologiae, in Opera omnia, cit., pars II, tr. I, q. 4, m. 3, p. 109. 40 Causa, p. 221; Cfr. Libri physicorum, p. 341; cfr. N. Badaloni, La struttura del tempo in Giordano Bruno, Bruniana & Campanelliana, III, 1 (1997), pp. 11-45.
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nate e la prospettiva dialettica che guida l’intera opera, presentino non poche analogie con gli errori imputati da Alberto proprio a David41. La tripartizione della riflessione ontologica sviluppata da Bruno dal secondo al quinto dialogo del De la causa – dall’individuazione dei due principi naturali di materia e forma, sino alla definizione della loro sostanziale identità e consustanzialità, del loro vincolo inscindibile – ricalca la struttura tripartita e dialettica rintracciabile nel paragrafo Hyle, Mens, Deus del Frammento P42 dei Quaternuli e nei riferimenti presenti in Alberto e Tommaso. In questa tripartizione della sostanza e nella sua riduzione ad unum et idem è possibile riconoscere, come ha osservato Dagron, «le motif central du De la causa qui, en ce sens, peut être considéré comme une réécriture de l’œuvre perdue de David de Dinant»43. Commentando nella Summa Theologiae proprio questa tripartizione dell’essere in tre principi distinti e allo stesso tempo unitari, Alberto pone polemicamente la dottrina di David sullo stesso piano teorico dei filosofi presocratici, chiamando in causa il nome di Senofane di Colofone44. Sulla 41 Causa, p. 167: «Decimo, se viene ad fare intendere che essendo questo spirito persistente insieme con la materia la quale gli Babiloni e Persi chiamaro ombra, et essendo l’uno e l’atra indissolubili, è impossibile che in punto alcuno cosa veruna vegga la corrozione, o vegna a morte secondo la sustanza; benché secondo certi accidenti ogni cosa si cangie di volto, e si trasmute or sotto una or sotto un’altra composizione, per una o per un’altra disposizione, or questo or quell’altro essere lasciando e repigliando. Undecimo, che gli Aristotelici, Platonici et altri sofisti non hanno conosciuta la sustanza de le cose; e si mostra chiaro che ne le cose naturali quanto chiamano sustanza oltre la materia, tutto è purissimo accidente. E che da la cognizion de la vera forma s’inferisce la vera notizia di quel che sia vita, e di quel che sia morte […]. Ultimo, si mostra con certa similitudine accomodata al senso volgare, qualmente questa forma, quest’anima può essere tutta in tutto e qualsivoglia parte del tutto». 42 E. Casadei, I testi di David de Dinant: filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., p. 297. 43 Cfr. T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique, cit., p. 356. 44 Albertus Magnus, Summa Theologiae, in Opera Omnia, cit., vol. XXXIII, pars II, tr. XII, q. 72, m. 4, art. 2, p. 42: «De hac etiam opinione fuit Alexander philosophus, et Xenophanes, et David de Dinanto, qui nititur multis rationibus hunc errore probare in librum qui dicitur De Tomis, sive De Divisionibus : post quas probationes ponit talem conclusionem sic dicens: “Manifestum est igitur unam solam substantiam
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falsariga di Alberto, anche Tommaso fa derivare l’errore di David dagli antiqui philosophi che hanno definito Dio essenza di tutte le cose, come vollero Parmenide e Melisso45. Nelle opere dei due maestri domenicani, laddove si fa il nome del filosofo di Dinant e viene condannato il tentativo di riduzione della molteplicità degli enti all’unità dell’essere, compaiono, quasi fossero su di un identico piano teorico, i nomi di Senofane e degli allievi Parmenide e Melisso. Non a caso, David legge le tesi degli Eleati attraverso la critica che Aristotele aveva condotto nel primo libro della Fisica46 contro di essi, oltrepassandola. Ciò è indice di un atteggiamento di pensiero ambiguo, per cui se Aristotele è sì il «solus et verus veritatis ostensor»47, al tempo stesso e in non pochi casi, rappresenta più una fonte di confronto critico che non una vera e propria auctoritas. Un atteggiamento che per molti esiti dottrinali si pone in un senso radicalmente antiaristotelico. E non a torto si può definire esse, non tantum omnium corporum, sed etiam omnium animarum: et hanc nihil aliud esse quam ipsum Deum: quia substantia de qua omnia corpora, dicitur hyle: substantia vero de qua sunt omnes animae, dicitur ratio vel mens”. Manifestum est igitur Deum esse substantiam omnium corporum et omnium animarum. Patet igitur, quod Deus et hyle et mens una sola substantia sunt». 45 S. Tommaso d’Aquino, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, Libro II, Distinzioni 1-20, introduzione di I. Biffi, trad. it. P.R. Coggi, con testo integrale di Pietro Lombardo, Bologna 2001, vol. III, d. 17, q. 1, a. 1, 1 co., p. 793: «Respondeo dicendum, quod quorumdam antiquorum philosophorum error fuit, quod Deus esset de essentia omnium rerum: ponebant enim omnia esse unum simpliciter, et non differre, nisi forte secundum sensum vel aestimationem, ut Parmenides dixit: et illos etiam antiquos philosophos secuti sunt quidam moderni; ut David de Dinando. Divisit enim res in partes tres, in corpora, animas, et substantias aeternas separatas; et primum indivisibile, ex quo constituuntur corpora, dixit yle; primum autem indivisibile, ex quo constituuntur animae, dixit noym, vel mentem; primum autem indivisibile in substantiis aeternis dixit Deum; et haec tria esse unum et idem: ex quo iterum consequitur esse omnia per essentiam unum […]et inde ortus est error Parmenidis et Melissi, qui videntes ens praedicari de omnibus, locuti sunt de ente sicut de una quadam re, ostendentes ens esse unum et non multa, ut eorum rationes indicant in 1 Physicor recitatae». 46 Aristotele, Fisica, lib I, cap. 2, cl. 185a-186a, rr. 15-30; cfr. Id., De coelo, lib. III, cap. 1, cl. 298b, rr. 15-25. 47 Cfr. E. Casadei, I testi di David di Dinant: Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., p. XVII.
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David, come ha notato Elena Casadei, «uno studioso di Aristotele non aristotelico»48 o, per certi versi, un aristotelico antiaristotelico49. Confrontando i frammenti manoscritti dei Quaternuli con quanto riportato e commentato da Alberto, la filiazione dottrinale proposta da quest’ultimo tra le tesi di David, i vetustissimi Pythagoroci50, gli epicurei51, Senofane52 e Parmenide53, non sembra estranea all’orizzonte speculativo del filosofo di Dinant. L’operazione critica del maestro domenicano è tesa a liberare l’interpretazione di Aristotele da qualsiasi responsabilità o vicinanza filosofica a una dottrina condannata come eretica qual è quella di David. E così sembra essere anche nel caso delle critiche espresse da Tommaso nei confronti del filosofo di Dinant. I contributi dell’Aquinate alla ricostruzione del pensiero di David non apportano forti elementi di originalità, ma dipendono essenzialmente dai passi già citati e commentati da Alberto. Seppur lontano da un accesso diretto ai testi del filosofo di Dinant, anche il doctor Angelicus, come il suo maestro, non si esime dall’esprimere dure critiche, tese a ricostruire la filiazione dottrinale tra le tesi di David e il pensiero presocratico, anziché quello aristotelico, mostrando così la sostanziale estraneità di quella speculazione dalla vera dottrina dello Stagirita. Come rileva Théry, «David de Dinant par ses conclusions erronées avait compromis Aristote»54. È questa la vera ragione delle critiche rivolte dai due maestri domenicani alla dottrina di David. Allo stesso tempo, quest’operazione è rintracciabile anche laddove i due maestri Ivi, p. XV. Cfr. ivi, p. XVII. 50 Albertus Magnus, De homine, cit., p. 65. 51 Id., Summa theologiae, in Opera omnia, cit., pars II, tr. 1, q. 4, m. 3, p. 108, p. 110; cfr. G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son panthéisme matérialiste, cit., pp. 76-78. 52 Id., De homine, cit., p. 63; Id, Metaphysica, cit., p. 55. 53 Id., Summa theologiae, in Opera omnia, cit., pars II, tr. 1, q. 4, m. 3, p. 108; cfr. G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son panthéisme matérialiste, cit., pp. 76-78, pp. 86-93. 54 G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son panthéisme matérialiste, cit., p. 21. 48 49
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domenicani riconducono il materialismo di David alle tesi dei Pitagorici e degli Eleati criticate da Aristotele. Agli occhi di Alberto, David de Dinant è uno «stultissimum ridiculum»55, «ille stultissumus, qui numquam aliquid vere et bene intellexit»56, e la sua dottrina è un «error iste pessimus error est, et contra philosophiam, et contra Catholicam fidem»57. E così, per Tommaso, David è «qui stultissime posuit Deum esse materiam primam»58; e ancora, «in hoc autem insania David de Dinando confunditur, qui ausus est dicere Deum esse idem quod prima materia»59. La ragione di un così duro giudizio da parte di Alberto risiede nella necessità di condanna di chi aveva fornito un’interpretazione d’Aristotele contraria alla fede cattolica e che rendeva particolarmente complesso un utilizzo teologico dell’aristotelismo. Non va dimenticato che la condanna dei testi di David non concerneva esclusivamente la sua dottrina, ma anche i Libri Naturales di Aristotele che erano stati commentati proprio dal filosofo di Dinant. E questa è anche la ragione di una così dura critica da parte di Tommaso, il quale, come nota Théry, raramente si lascia sfuggire «un qualificatif aussi désobligeant et qui nous révèlerait chez lui quelque mouvaise humeur de philosophe»60. Per i due maestri domenicani, le tesi del filosofo di Dinant sono connotate da un materialismo che non si concilia né con l’ortodossia cattolica, né con la filosofia peripatetica. Letture e interpretazioni, queste, centrate esclusivamente sul problema della materia e della sua identità con Dio, ma che pongono in secondo piano la tesi della necessaria coessenzialità di hyle e mens. Il pensiero di David, come ricostruito attraverso i commenti di Alberto e di Tommaso Albertus Magnus, Super II Sententiarum, in Opera omnia, cit., lib. II, d. I, a. 5, p. 18. 56 Ivi, lib. II, d. I, a. 5, p. 17. 57 Id., Summa Theologiae, in Opera omnia, cit., pars II, tr. XII, q. 72, m. 4, a. 2, 44, p. 45. 58 Sancti Thomae Aquinati Summa Theologiae, in Opera omnia iussu impensaque Leonis XIII P.M. edita, Romae 1888-1906, I, t. IV, 1888, q. III, art. 8, p. 48. 59 Id., Summa contra gentiles, in Opera omnia, cit., t. XIII, lib. I, cap. 17, p. 47. 60 G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son panthéisme matérialiste, cit., p. 85. 55
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è, secondo Théry, fortemente marcato da due errori fondamentali legati all’interpretazione di Aristotele: nell’analisi del rapporto tra sostanza e accidenti, «son esprit unilatéral et semplificateur n’a point compris la théorie de l’analogie»61; inoltre, egli ha privato le forme «de leur existence véritable», intendendole come «apparences d’être»62. Riprendendo i due maestri domenicani contro l’eresia di David, la materia e le forme esistono, secondo Théry, «non point sans doute d’une façon identique, mais analogiquemente»63. In questa prospettiva, il filosofo di Dinant è un dialettico, un sofista e un materialista che non ha compreso la teoria dell’analogia e delle forme sostanziali, ma che ponendo l’essere nel cuore della materia ha considerato le forme dei puri accidenti. Tuttavia, come rileva ancora Dagron, «en parfait thomiste, Théry invoque finalement, contre David, deux doctrines qui ne se trouvent pas chez Aristote: celle de l’analogie et celle des formes substantielles»64. 3. Forme neoplatoniche della ricezione di David de Dinant: da Cusano a Ficino Attraverso le ricostruzioni dell’opera di David svolte da Alberto e Tommaso è possibile soltanto intravedere alcune delle questioni presenti nei Quaternuli e che, a partire dall’edizione del 1963 di Kurdzialek, è dato considerare più chiaramente. Si tratta della necessaria coappartenenza di mens e hyle, del rapporto tra un intelletto attivo e un intelletto passivo, nonché della relazione tra l’unicità dell’essere e la molteplicità dei suoi accidenti. Dall’esame diretto dei frammenti è possibile comprendere come la prospettiva materialista criticata da Alberto e Tommaso rappresenti un’analisi soltanto parziale e strumentale del suo pensiero. Ivi, p. 31. Ibidem. 63 Ibidem. 64 T. Dagron, David de Dinant. Sur le fragment Hyle, Mens, Deus, des Quaternuli, cit., p. 421. 61
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Occorre sempre distinguere tra il David dei Quaternuli e quello conosciuto tramite la tradizione scolastico-tomista. È quest’ultimo, il materialista, l’eretico che non ha compreso il rapporto tra la sostanza e i suoi accidenti, l’autore che Bruno ha modo di conoscere attraverso la lettura mediata dai riferimenti di Tommaso e Alberto. E proprio questa ragione chiarisce due aspetti del ricorso bruniano alla sua fonte indiretta: il primo è legato alla genericità dei riferimenti a David, che non approfondiscono mai il pensiero dell’autore citato; il secondo, invece, ha a che fare con un breve passaggio del De la causa in cui, ripercorrendo la questione della materia quale sostanza che non riceve le forme dall’esterno, né le appetisce, ma le «manda dal suo seno»65 e che, «se ben si contempla è uno essere divino nelle cose»66, egli si domanda se non fosse proprio questo ciò che «volea dire David de Dinanto, male inteso da alcuni che riportano la sua opinione»67. Questo dubbio è probabilmente il frutto di una lettura indiretta della dottrina di David attraverso fonti non scolastiche. Gli scritti di Cusano, ad esempio, rappresentano un canale di accesso alternativo e neutrale sia alle tesi di David, sia a una certa tradizione di pensiero neoplatonica. Nell’Apologia doctae ignorantiae il cardinale di Cusa associa il filosofo di Dinant a Dionigi Areopagita, Eriugena, Bertoldo di Mosburg, inserendolo in un contesto di autori di tradizione e cultura neoplatonica68. A differenza dell’atteggiamento espresso da Alberto e Tommaso, quello di Cusano si pone, «senza alcuna prevenzione nei confronti di David che annovera, con evidente manifestazione di stima, tra quegli autori di difficile comprensione le cui opere non debbono essere lasciate ai “viris parvi intellectus”»69. Si tratta di una conoscenza diretta dell’opera di David70, come rileva lo stesso Théry, il quale annoCausa, p. 274. Ibidem. 67 Ibidem. 68 Cfr. G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son panthéisme matérialiste, cit., p. 25. 69 E. Casadei, I testi di David de Dinant: filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, cit., p. 23. 70 Ibidem. 65
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vera Cusano tra quei pochi eruditi che nel XV secolo potevano ancora interessarsi all’opera del filosofo di Dinant71. Quello di Cusano è un approccio differente rispetto a quello di Alberto e di Tommaso: nel Tetralogus de non aliud il cardinale non sembra condizionato nel suo giudizio dalle critiche dei due maestri domenicani nei confronti di un pensatore considerato eretico, anzi lo include tra coloro che «minime errarunt»72 nel definire Dio hyle, nous et physis. L’accesso non mediato ai Quaternuli fa emergere questioni e interpretazioni che erano state o poste in secondo piano, oppure omesse a favore di una riabilitazione dell’aristotelismo in senso teologico. Dai riferimenti presenti negli scritti del cardinale di Cusa, Bruno ha accesso a un’interpretazione della filosofia di maître David ripulita dalle critiche e dai giudizi scolastici. Tramite Cusano egli può intravedere e riproporre una delle maggiori questioni della dottrina del filosofo di Dinant, vale a dire quella coincidentia o identità nell’Uno o Dio di hyle e mens, materia e forma, potenza e atto, o meglio, posse facere e posse fieri, potestà di fare e potestà d’esser fatto. Si tratta del riconoscimento della necessità che per essere bisogna innanzitutto poter essere: una potenza attiva che opera come causa efficiente e principio formale e una potenza passiva, intesa in un duplice senso; passivamente come sostrato, ovvero possibilità d’azione dell’agente, e attivamente come ciò che attualizza l’agente stesso. Bruno ricava quest’indissolubile reciprocità tra potestà di fare e potestà d’esser fatto, proprio dal posse facere e posse fieri del De possest cusaniano73 Cfr. G. Théry, Autour du décret de 1210: David de Dinant. Études sur son panthéisme matérialiste, cit., p. 24. 72 N. Cusano, Trialogus de non aliud, in Opere filosofiche, teologiche e matematiche, E. Peroli (a cura di), Milano 2017, XVII, rr. 81-82, p. 1536: «David igitur de Dynanto et philosophi illi quos secutus is est, minime errarunt, qui quidem deum, hylen et noyn et physin, et mundum visibilem deum visibilem nuncuparunt. David hylen corporum principium vocat, noyn seu mentem principium animarum, physin vero naturam principium motum et illa non vidit differre inter se ut in principio, quocirca sic dixit». 73 Cfr. P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante». Bruno e Cusano, Roma 2006, p. 106. 71
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e, prim’ancora, dalla lezione di maître David. Porre il principio materiale come realmente predicabile solo se in relazione alla forma e viceversa, equivale a stabilire i termini del rapporto tra identità e differenza, ad affermare, cioè, una verità che si costituisce solo attraverso la reciprocità di opposte e differenti prospettive. Sta in questo l’approccio dialettico del Nolano: considerare la relazione che lega la materia e la forma prima dal punto di vista dell’una, poi dell’altra, riflette come esse trapassino l’una nell’altra, divenendo entrambe polarità dell’unità e della molteplicità. Ciò è possibile per Bruno in quanto sia la forma che la materia sono, nella loro identità, espressione dell’Uno, della causa e principio primo, sostanza unica, infinita e permanente. Come la forma è Uno e tutto, al pari lo è la materia, e ciascuna delle due può essere espressione del tutto solo nel reciproco e complementare rinvio all’altra74. Un ulteriore canale di trasmissione delle tesi contenute nei Quaternuli è rappresentato anche da Ficino. Come ha ricostruito Sebastiano Gentile, è attraverso le pagine del De homine e della Summa theologiae di Alberto, che l’accademico fiorentino ha «attinto le sue nozioni su “Davide Dinanteo”, ricavandone verosimilmente non tanto l’immagine dell’eretico da condannare, quanto quella di un filosofo fortemente legato al pensiero greco antico»75. E in effetti, seguendo lo stesso approccio albertiano, Ficino inserisce nell’opuscolo Di Dio et anima il nome di David all’interno della tradizione filosofica presocratica e pagana che ha sostenuto la tesi dell’unità del tutto e dell’animazione universale, ponendolo di fianco a Orfeo, Virgilio, Lucano e altri autori antichi76. Se Cfr. Causa, p. 247. S. Gentile, In margine all’epistola “De divino furore” di Marsilio Ficino, cit., p. 33. 76 M. Ficino, Di Dio et anima, in Supplementum ficinianum, P. O. Kristeller (a cura di), Firenze 1973, vol. II, p. 138: «Sicché il mondo non è altro che uno animale massimo, circulare, eterno, nel cui gremio gli altri animali vivono, e questa anima del mondo chiama Iddio. Di questa sententia fu etiamdio Orfeo, poeta antiquissimo, el quale chiamava la predetta anima Giove. Col quale s’accorda Varrone philosophao Romano et David Dinanteo e Lucano poeta, Seneca stoico con molti altri Stoici philosophai. Ancora vogliono alcuni simile essere stata opinione di Pitagora, Anaxagora, Heraclito, Talete, et la medesima sententia canta Virgilio nella Eneida et etiamdio nella Giorgica con grande elegantia». 74
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in Alberto l’accostamento di David alla tradizione presocratica e pagana è funzionale a una sua generale condanna, in Ficino esso è teso, almeno inizialmente, a riformulare e a ribaltare il giudizio espresso dal maestro domenicano senza particolari censure. Come osserva ancora Gentile, «il Ficino degli anni 1457-1458 probabilmente non si trovava per nulla d’accordo sulla censura, direi quasi il dileggio con cui sia Alberto, che poi Tommaso, colpirono il pensatore eretico»77. Non a caso, il nome di David compare una seconda volta nel Di Dio et anima, «tra coloro che avrebbero sostenuto Dio essere sfera corporale, in contrapposizione a Ermete, che l’avrebbe definito invece sfera intellegibile – senza alcuna acrimonia, in un contesto peraltro schiettamente dossografico»78. Seguendo ancora la mediazione albertiana, Ficino associa anche nel Commentarium in Philebum Platonis il nome di David a quello di Democrito, Anassagora e Zenone, ovvero a quei filosofi criticati da Aristotele e dall’aristotelismo scolastico che avevano affrontato il problema del rapporto tra l’unità della sostanza e la molteplicità delle sue manifestazioni79. Egli accosta il nome e la dottrina di David non soltanto alla tradizione eleatica, atomistica e platonica, ma anche ad Avicebron, secondo un canone ricorrente anche nei testi di Alberto. Tuttavia, mentre per il maestro domenicano il porre i presocratici criticati da Aristotele sullo stesso piano dei contemporanei, David e Avicebron, equivale a un loro rigetto, poiché tutti contrari sia alla dottrina dello Stagirita, sia alla vera dottrina cattolica, per Ficino, invece, tale accostamento assume una significazione completamente rovesciata e S. Gentile, In margine all’epistola “De divino furore” di Marsilio Ficino, cit., p. 69. Ibidem. 79 M. Ficini Commentarium in Philebum Platonis, in Opera, Basilea 1576, vol. II, p. 1211: «Quod quidem corpus non est, ut Democritii dicunt, multas enim corpus habet partes […]. Neque mens, ut Anaxagoras, mentis enim actio est ut se ipsam intelligat; est igitur in mente quod intelligit intellectioque et quod intelligitur. Neque vita, ut Zenon, est enim vita motus essentiae, in ea igitur duo sunt saltem et esse scilicet et moveri. Neque essentia ipsa, ut Dinantes, nam uno quidem participant omnia, essentia vero non omnia; fluxus enim privationesque essentiam nullam habent, unum tamen esse non negantur. Neque ipsum esse, ut Alpharabius et Avicebron, est enim actus essentiae et essentiae cum praesenti momento participatio, ut in Parmenide dicit Plato». 77 78
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tutt’altro che negativa: «non ha toni polemici la menzione di Davide che figura nel Commentarium in Philebum»80. La scelta ficiniana d’inserire questi autori in una stessa prospettiva teorica equivale a riconoscere una continuità nella loro riflessione ontologica, quasi a indicare la loro coappartenenza a una stessa, grande ed eterogenea tradizione filosofica. Se l’approccio di Ficino a questi autori e il loro recupero sono legati alla lettura e all’eredità delle opere di Alberto, così non è relativamente al giudizio sulle loro dottrine. Diverso è, invece, il caso della Theologia platonica, laddove al termine del libro XV, forse più per ragioni di ortodossia, Ficino cita David come quel «barbarum quedam Dinantem […] qui dei portiones quasdam esse nostras animas voluerunt sive deum»81, conformandosi ai giudizi di derisione espressi da Alberto e da Tommaso. L’approccio e l’utilizzo ficiniano della fonte albertiana, con l’iniziale positiva rivalutazione della dottrina di David nel Commentarium in Philebum Paltonis e nell’opuscolo Di Dio et anima, costituisce un modello metodologico di ciò che Bruno compie tra il De la causa e il De vinculis, recuperando proprio attraverso i testi di Alberto, di Tommaso, di Cusano e dello stesso Ficino, le tesi del filosofo di Dinant e quelle di Avicebron. Se, infatti, uno degli elementi ricorrenti della critica albertiana a David consisteva nell’accostare quella filosofia ai presocratici criticati da Aristotele, Bruno recupera proprio quest’accostamento rovesciandolo in senso positivo. 4. Ontologia e magia tra il De la causa e il De vinculis Come per Ficino, così anche per Bruno, David de Dinant appartiene a quella eterogenea tradizione filosofica presocratica che ha interrogato il problema del rapporto tra l’unicità della sostanza e la molteplicità delle sue manifestazioni in senso non aristotelico. È a Pitagora, Senofane, Parmenide, Melisso, Eraclito, Anassagora, anziché alla filosofia peripatetica, che egli ricorre sistematicamente nell’affrontare questo problema 80 81
S. Gentile, In margine all’epistola “De divino furore” di Marsilio Ficino, cit., p. 69. M. Ficini, Theologia Platonica, in Opera, cit., vol. I, lib. XV, cap. 19, p. 367.
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non soltanto nel De la causa, ma in gran parte della sua produzione sia latina sia volgare. Le argomentazioni di maître David sull’unicità dell’essere e sull’eleatismo, criticate da Alberto e poi da Tommaso, sono sistematicamente riprese e riabilitate da Bruno nei termini opposti, rovesciando gli stessi aggettivi utilizzati dai due maestri domenicani. Non è un caso se l’aggettivo a cui egli ricorre nel richiamare David, riprendendo la tesi dell’unità in Dio di materia e forma, sia proprio quel pazzo o stultum utilizzato in opposizione ai giudizi formulati dai due maestri domenicani. Con il richiamo alla dottrina condannata dei Quaternuli Bruno vuol ridestare un lessico e una filosofia sepolta dall’autoritarismo e dall’aristotelismo scolastico-tomista. Non si tratta semplicemente di riprendere le tesi di una filosofia perduta, ma di far riemergere dalle ceneri del rogo dei testi di maître David – un rogo sia fisico che della memoria – lo spirito delle fonti che avevano alimentato il pensiero dell’identità nell’Uno/Dio di materia e forma, proponendo un’alternativa al modello teologico e filosofico egemone. Attraverso il ricorso alle tesi del filosofo di Dinant, come a quelle di Avicebron, Bruno rintraccia un precedente all’idea di una materia quale sostrato unico, sostanza infinita in atto, da cui le forme particolari, singolari e differenti traggono la loro origine. Queste ultime, ben lontano dall’essere assunte come forme sostanziali, sono explicationi di un soggetto unico. Le questioni affrontate nei quattro dialoghi del De la causa – fatta eccezione per il primo che si struttura come una replica agli attacchi ricevuti dopo la pubblicazione della Cena – riguardano l’esame delle cause e dei principi. Dopo aver posto nel dialogo II una premessa di tipo gnoseologico e una distinzione tra la causa prima e principio primo e le cause e principi prossimi, l’analisi volge sul concetto di forma, «la quale ha più raggion di causa che di principio»82. Passando in rassegna una molteplicità di tradizioni e lessici filosofici differenti, Bruno individua nell’anima del mondo quella causa «la quale si distingue»83 da
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un punto di vista puramente logico «in efficiente, formale e finale»84, ma che di fatto è da considerarsi come assolutamente unitaria. Nell’intelletto universale «prima e principal facultà dell’anima del mondo»85, egli riconosce la causa e principio formale86. Seguendo la metafora biologico-vitalistica87, l’anima del mondo è l’«artefice interno»88, causa e principio che agisce dal centro o dal seno della materia, comunicandosi a tutto ciò che essa vivifica. Dopo aver esaminato la questione a partire dal punto di vista della forma, quasi a sembrare questa l’unica causa, la prospettiva slitta gradualmente, laddove nel dialogo III il nodo problematico diviene il rapporto, il nexus o l’identità di materia e forma, potenza e atto. In questa sezione dell’opera il Nolano capovolge la questione, passando dalla considerazione della forma a quella della materia. Egli svolge qui una serie di considerazioni sottese ad accogliere l’istanza monista racchiusa nella nozione di materia ma evitando, al tempo stesso, d’assolutizzare una visione materialistica della realtà fisica. È questo il problema al centro della discussione tra i due personaggi principali del De la causa, Dicsono e Teofilo: il primo riconoscibile nell’inglese Alexander Dicson autore del De umbra rationis, trattato di mnemotecnica pubblicato a Londa nel 1584; il secondo invece portavoce della nolana filosofia nel dialogo. L’intuizione materialistica espressa da Dicsono, per cui la materia è un tutto, coglie a detta di Teofilo soltanto un lato della verità, ma pecca nell’assolutizzarla, nel concepire tutta la realtà esclusivamente come materia. Il primo comprende correttamente che le forme particolari vadano ricondotte nel cuore del sostrato materiale: rispetto a queste è corretto riconoscere nella materia il «sol principio substanziale»89, e intenderle come explicatione d’accidenti che «dal seno di quella esceno, Ibidem. Ivi, p. 210. 86 Cfr. ivi, p. 211. 87 Cfr. Ibidem. 88 Ibidem. 89 Causa, p. 241. 84 85
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et in quello si accogliono»90. Tuttavia, l’errore consiste non nell’avere inteso che la divinità sia immanente alla materia, ma nel non aver riconosciuto che lo è anche della forma e come questa sia assolutamente necessaria e complementare all’altra91. Questa suddivisione tra due principi distinti e complementari, l’anima del mondo di cui le anime individuali non sono che riflessi, e la materia di tutte le sostanze corporee e incorporee, recupera il modello del rapporto identità-differenza e la stessa coincidenza di hyle e mens attribuita da Alberto e da Tommaso a David de Dinant92. Il fine ultimo del processo dialettico elaborato da Bruno nel De la causa non è, però, di risalire dalla molteplicità degli elementi e delle differenze per arrestarsi all’unità, ma quello di dispiegare l’essere dialettico della sostanza. È questo il compito del percorso speculativo rintracciabile nuovamente nel De vinculis, tappa finale del processo che dal molteplice conduce all’unità e dall’unità ritorna nel dominio del molteplice, della differenza e della contrarietà. In questo senso, se il De la causa costituisce, come Bruno la definisce, una «isagogia»93 o una propedeutica nell’ascenso dal molteplice all’Uno, il De vinculis traccia il percorso inverso, vale a dire la discesa e il rifrangersi dell’unità, del legame originario di materia e forma o del vincolo d’amore universale, nella molteplicità e contrarietà, in un orizzonte in cui la dimensione antropologica, civile, politica e storica è assorbita in quella naturale. Nel De la causa è già tracciato, seppur in chiaroscuro, il rapporto tra ontologia e magia, intesa quest’ultima in un senso che è insieme naturale e civile:
Ibidem. Ivi, pp. 242-243: «Niente assolutamente opera in se medesimo, e sempre è qualche distinzion tra quello che è agente e quello che è fatto, o circa il quale è l’aczione et operazione: là onde è bene nel corpo della natura distinguere la materia da l’anima; et in questa distinguere quella raggione delle specie. Onde diciamo in questo corpo tre cose: prima l’intelletto universale indito nelle cose; secondo, l’anima vivificatrice del tutto; terzo il suggetto». 92 Cfr. Albertus Magnus, Summa Theologiae, in Opera Omnia, cit., vol. XXXIII, pars II, tr. XII, q. 72, m. 4, art. 2, p. 42. 93 Causa, p. 174. 90 91
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In conclusione chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrari et oppositi. Profonda magia è saper trar il contrario, dopo aver trovato il punto de l’unione. A questo tendeva il povero Aristotele ponendo la privazione (a cui è congionta certa disposizione) come progenitrice, parente e madre della forma: ma non vi poté aggiungere, non ha possuto arrivarvi; perché fermando il piè nel geno de l’opposizione, rimase inceppato di maniera, che non descendendo alla specie de la contrarietà, non giunse né fissò gli occhi al scopo: dal quale errò a tutta passata, dicendo i contrarii non posser attualmente convenire in soggetto medesimo94.
Vale la pena sottolinearlo: «chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrari et oppositi. Profonda magia è saper trar il contrario, dopo aver trovato il punto de l’unione». Non è un caso che Bruno ponga quest’affermazione a conclusione del De la casusa, al termine del lungo e faticoso processo conoscitivo che porta a riconoscere come ogni cosa sia riflesso, segno, simulacro e vestigio dell’unica infinita potentia absoluta, indivisibile e infigurata, come tutto ritorni a essa. Come a dire a quel filosofo, sapiente, mago o principe cui egli si rivolge: il lavoro non è ancora compiuto. Non è sufficiente astrarsi dal mondo civile per ritrovare l’unità, ma occorre far ritorno nella contrarietà del vivente con le sue differenze e contraddizioni, per agire su di esse. È questo l’orizzonte di operatività descritto nel De vinculis. La convinzione di una conoscenza che è realmente tale solo se orientata all’agire, in cui non vi è scissione tra theoria e praxis, perché l’una non si pone senza l’altra, accompagna tutta la riflessione bruniana, a tal punto che a un conoscere in cui «non si riporta qualche frutto di prattica, sarebbe stimata vana ogni operazione»95. Nell’affermazione conclusiva del De la causa è in gioco uno dei problemi principali della sua filosofia. Non è sufficiente al filosofo risalire dalla dimensione della contrarietà e della differenza, dalla finitezza degli elementi all’infinità 94 95
Ivi, p. 295. Ivi, p. 168.
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dell’Uno. Occorre «saper trarre il contrario dopo aver trovato il punto de l’unione», riconoscere cioè la relazione che sussiste tra identità e differenza, in modo da poter operare nella contrarietà per riportare queste ultime alla loro unità. Sta in ciò il compito, come lo definisce Papi, di quel «mago “politico” di tipo machiavellico»96 a cui Bruno pensa nel rintracciare il legame, il vinculum o il laccio che funge da principio d’unità universale. L’ontologia del De la causa costituisce l’ossatura teoretica della sua filosofia, il fondamento necessario a ogni indagine fisica e metafisica, come a ogni agire pratico, politico e civile. 5. Unità e legame tra il Sigillus e il De la causa: «unam simplicem radicem» Il riconoscimento del «punto de l’unione», del vincolo attraverso cui ricondurre la molteplicità delle manifestazioni dell’essere all’unità, incarna un’istanza filosofica espressa da Bruno già nel Sigillus prim’ancora del De la causa. Qui egli manifesta l’esigenza di riconoscere un sostrato unico, la radice e il principio vitale a cui ogni cosa è legata: «unum ergo proprium subiectum unam simplicem radicem et unum virtuale principium recognoscit»97. Come sul piano ontologico dell’essere, così su quello gnoseologico della conoscenza, «una lux illuminat omnia, una vita vivificat omnia»98, per gradi differenti a seconda degli elementi, dei corpi e delle loro complessioni e capacità. Bruno pensa al sapiente come chi è in grado di cogliere l’unità della vita, dell’essere e della conoscenza99.
96 F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Firenze 1968, p. 293. 97 Sigillus, p. 224. 98 Ibidem. 99 Ibidem: «Atque altius conscendentibus non solum conspicua erit una omnium vita, unum in omnibus lumen, una bonitas et quod omnes sensus sunt unus sensus, omnes notitae sunt una notitia, sed et quod omnia tandem, utpote notitia, sensus, lumen, vita, sunt una essentia, una virtus et una operatio».
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Ogni sensibilità, ogni intelletto, ogni idea e azione riflettono e si riflettono nell’unità. Dal punto di vista dell’Uno decade ogni distinzione tra essenza, potenza e atto, tra essere, potere e agire, tra ente, paziente e agente: «esssen/tia, potentia, actio; esse, posse et agere; ens, potens et agens est unum, ita ut omnia sint unum»100. Questi modi dell’essere sono una sola e identica cosa, «ut bene novit Parmenides unum omne et ens»101. Il principiare e l’essere principiato, il fare e l’esser fatto, l’illuminare e l’essere illuminato non sono ente, ma manifestazioni dell’ente102. La necessità di assorbire tutte le forma della realtà materiale e ideale nell’unità, e da qui trarle nuovamente fuori dall’Uno, non come alterità dell’essere, ma in quanto sue molteplici explicationi, rappresenta l’esigenza monista insita nella nolana filosofia, nonché il punto di arrivo del percorso del De la causa. Il desiderio di cogliere, nella molteplicità degli accidenti e delle manifestazioni particolari, l’identità e l’unicità dell’essere, costituisce una via necessaria per chiunque voglia procedere non soltanto nel cammino della conoscenza, ma in ogni agire pratico. Chi non compia questo percorso dai molti all’Uno, dai molteplici sensi e gradi della conoscenza all’unico senso e a una conoscenza unica «nihil intelligit, nihil facit […] nihil cognoscit et nihil operatur»103. Soltanto coloro che abbiano compreso i gradi dell’unità a cui ogni cosa partecipa, conformandosi a essa, sapranno conoscere e agire efficacemente su ogni forma della realtà. Questa prospettiva delineata nel Sigillus è la stessa rielaborata nel dialogo V del De la causa, vale a dire quella profonda magia intesa come capacità di estrarre e agire sui contrari, dopo aver riconosciuto come questi siano legati gli uni agli altri e procedano da un’essenziale e profonda unità. In altre parole, per Bruno non è sufficiente, né totalmente possibile, ricondurre il finito nell’alveo dell’infinito. Se, da un lato, egli traccia un’immagine della realtà fisica e metafisica per cui tutto è Uno, Ibidem. Ibidem. 102 Ibidem: «Principiare autem principiatum esse, facere fieri, illuminare illuminari, superius et inferius non ens sunt, sed entis, non sunt id quod unum, sed ea quae unius vel ex uno vel de uno». 103 Ivi, pp. 224-226. 100 101
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dall’altro, non lascia mai cadere il paradigma della differenza: senza contrarietà e differenza, la stessa conquista dell’unità non ha valore, né è realmente pensabile, se non come un astratto e indeterminato asserto teorico. Solo facendo convivere dialetticamente identità e differenza, infinità della causa e principio primo con la particolarità e contrarietà delle forme finite, egli può esprimere l’immagine di una natura infinita in atto. Quest’ultimo grado del percorso conoscitivo che dal molteplice conduce all’unità e da questa ritorna nella differenza, poggia sul riconoscimento dell’«eccellenza della materia, la quale così coincide con la forma, come la potenza coincide con l’atto»104. Egli pone qui le fondamenta teoriche all’affermazione dell’identità di materia e forma. La forma, causa e principio di distinzione e figurazione degli enti, potestà di fare, non è svincolabile dalla potestà d’esser fatto, dalla materia, sostrato infinito in cui, e non su cui, la forma agisce. La forma non è predicabile senza la materia, come l’atto non lo è senza la potenza, la quale non è principio di passività, ma forza plastica e infinita che si dispone alla generazione di forme sempre differenti. Materia e forma costituiscono due principi naturali, se non già la stessa unigenita natura, posti in relazione l’uno all’altro e mai realmente slegati o considerabili l’uno senza l’altro, se non da un punto di vista logico105. Come la forma è Uno e tutto, al pari lo è la materia, e ciascuna delle due è espressione del tutto solo nel complementare rinvio all’altra. Materia e forma sono constanti e consustanziali, non essendovi una precedenza dell’una sull’altra. È nel riconoscimento di questa interdipendenza ontologica di materia e forma, di potenza e atto o potestà di fare e potestà d’esser fatto che si colloca nel De vinculis il richiamo del De la causa, di David de Dinant e di Avicebron. Recuperando nel trattato l’affermazione dell’identità di materia e forma, Bruno le definisce, con un’espressione propria a Causa, p. 169. Ibidem: «Sesto, si conchiude un principio formale constante, come è conosciuto un constante principio materiale; e che con la diversità de disposizioni che sono nella materia, il principio formale si trasporta alla moltiforme figurazione de diverse specie et individui […]. Settimo, come sia necessario che la raggione distingue la materia da la forma, la potenza da l’atto». 104 105
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David, unum et idem, una cosa e la stessa cosa, sottolineando il vincolo che le lega e la loro consustanzialità: Et divinum ergo quoddam est materia, sicut et divinum quoddam existimatur esse forma, quae aut nihil est, aut materiae quiddam est. Extra et sine materia nihil, sicut posse facere et posse fieri tandem, unum et idem sunt, et individuo uno consistunt fundamento, quia simul datur et tollitur potens facere omnia cum potente fieri omnia106.
L’analisi nel De vinculis dei vincula civilia, dell’agire pratico e della dimensione politica s’inserisce in questa prospettiva filosofico naturalistica, vale a dire nell’ontologia del De la causa, nella rivalutazione della materia, principio divino al pari della forma, nella strutturazione dialettica del rapporto tra unità e molteplicità. 6. L’antiqua vera filosofia nel ciclo della vicissitudine Discutendo nella Cena l’ipotesi eliocentrica di Copernico, Bruno definisce l’astronomo polacco come chi «dovea precedere l’uscita di questo sole de l’antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva et invida ignoranza»107. Se l’eliocentrismo rappresenta l’aurora dell’antiqua vera filosofia, «perfezzione della scienza speculativa e cognizione di cose naturali», attribuita a «molti più antichi filosofi»108, per tanti secoli sepolta dall’aristotelismo, «non tanto forse per imbecillità de intelletto, quanto per forza d’invidia et ambizione»109, la nolana filosofia ne è la sua piena riscoperta e affermazione. L’antiqua vera filosofia è quella che ha individuato nella relazione tra l’Uno e il molteplice una sostanza unica, immutabile e permanente, De vinculis, pp. 518-520. Cena, p 25. 108 Causa, p. 242. 109 Ivi, p. 281. 106 107
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di cui le forme particolari sono volti e segni, che ha riconosciuto come il movimento non attenga alla natura ma alle cose della natura, non corrompa, l’unità della sostanza o dell’essere, ma solo le sue manifestazioni. Le verità espresse dai Pitagorici, dagli Eleati e dagli Atomisti sono «amputate radici che germogliano, son cose antique che rivegnono, son veritadi occolte che si scruopono», dopo secoli di tenebra, grazie al «nuovo lume che dopo lunga notte spunta all’orizzonte et emisfero della nostra cognizione, et a poco a poco s’avvicina al meridiano della nostra intelligenza»110. Questo nuovo lume che riallaccia le fila del legame con la verità degli antiqui philosophi, è il riconoscimento che «vero, uno et ente son la medesima cosa»111, «che il tutto secondo la sustanza è uno: come forse intese Parmenide, ignobilmente trattato da Aristotele»112. Recuperando quest’antica verità, Bruno vuol interrompere il discorso filosofico e teologico scolastico egemone, presentando la nolana filosofia come l’uscita da un’epoca di oblio. Se ciò può richiamare il mito di un’antica verità, di una prisca theologia, di una rivelazione originaria tramandatasi in forma di sapere religioso, magico e filosofico attraverso popoli, culture, lingue e tradizioni differenti, centrale in una fonte come Ficino, l’operazione compiuta da Bruno si colloca in un orizzonte radicalmente diverso ed esclusivamente naturalistico in cui «il substitue […] au thème des prisci teologi celui des prisci physici»113. La sapientia dei prisci theologi è una rivelazione originaria, tramandatasi nel tempo attraverso molteplici tradizioni teologiche e filosofiche, passando per una loro conciliazione con la religione cristiana. La verità che il Nolano descrive, invece, non è mai rivelazione, ma alternanza di memoria e oblio, occultamento e disvelamento, secondo il ritmo naturale della vicissitudine, come il velo di Pallade che lascia intravedere e insieme nasconde il volto della divina verità. La scoperta del vero non corrisponde mai, come osserva Luigi
Infinito, p. 423. Causa, p. 281. 112 Ivi, p. 252. 113 T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique, cit., p. 163. 110 111
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Ruggiu, all’imporsi «una volta per tutte della ragione sulle tenebre»114, ma è fatica e conquista incessante a cui, «chi vuol sapere massimi secreti di natura»115 deve rivolgersi in ogni ciclo naturale e storico. Ogni forma di sapere, ogni dottrina, ogni verità e conquista umana, sia sul piano della conoscenza, sia su quello pratico, non è acquisita una volta e per tutte nel corso della storia. Ma, immersa nel ritmo naturale in cui ogni forma di vita si alterna a un’altra e non permane mai in eterno, così anche la storia umana procede secondo cicli di memoria e di oblio, in cui a una forma di sapere se ne sovrappone un’altra che la scalza e ne prende il posto. La relazione tra verità e oblio è la stessa che intercorre tra l’essere e il suo explicarsi, tra l’alternarsi del giorno e della notte, come recita la dedica del Candelaio alla Signora Morgana: il tempo tutto toglie e tutto dà: ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può preservare eternamente uno, simile e medesimo». Con questa filosofia l’animo mi s’aggrandisse e me si magnifica l’intelletto. Però, qualunque sii il punto di questa sera ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la notte: tutto quel ch’è, o è cqua o llà, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi116.
Come l’essere, così anche la verità, con il suo nascondersi e disvelarsi, non è corrotta dalla mutazione poiché essa è il principio stesso della mutazione. Il ritmo del nascondimento e del disvelamento della verità è lo stesso che sussiste nella relazione tra l’Uno e i suoi molteplici volti. Come le forme hanno origine dall’Uno e a questo fanno ritorno, così anche le filosofie, le dottrine, le religioni, le culture, le civiltà e gli stati, rientrano nella dimensione naturale e vicissitudinaria. Lo stesso riconoscimento della verità, nel passaggio che dall’Uno conduce al 114 L. Ruggiu, La ripresa dell’antico in Giordano Bruno, in Giordano Bruno. Destino e verità, D. Goldoni e L. Ruggiu (a cura di), Venezia 2002, p. 189. 115 Causa, p. 295. 116 Candelaio, p. 22.
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molteplice e viceversa, è assorbito nella relazione tra oblio e memoria. La riscoperta dell’antico non è, però, l’idea che la verità possa risiedere esclusivamente in un perduto passato, ma che essa sia immersa, come ogni produzione naturale, in un ritmo di manifestazione e nascondimento, di memoria e oblio, di generazione e rigenerazione, e che occorra in ogni momento custodirla e farla risplendere117. L’orizzonte storico, civile e politico è completamente assorbito in quello naturale. Alla filosofia naturale non è perciò estranea la riflessione antropologica, connaturata e non svincolabile da quella ontologica e cosmologica. L’idea di vicissitudine, insieme al riconoscimento dell’unità e dell’immutabilità dell’essere, consente di leggere le vicende cosmiche, siano esse fisiche o storiche, come soggette allo stesso ritmo ciclico di generazione e rigenerazione, di memoria e oblio. La «ruota del tempo»118, con il suo movimento eterno, ingloba tanto l’ordine naturale quanto quello storico, sociale, politico e religioso119. La vicissitudine Cfr. Cena, pp. 33-34: «non è cosa nova, che non possa esser vecchia; e non è cosa vecchia, che non sii stata nova […] come è la vicissitudine de l’altre cose, così non meno de le opinioni et effetti diversi: però tanto è aver riguardo alle filosofie per le loro antiquità, quanto voler decidere se fu prima il giorno o la notte. Quello dumque al che doviamo fissar l’occhio de la considerazione, è si noi siamo nel giorno, e la luce de la verità è sopra il nostro orizzonte, overo in quello de gli adversari nostri antipodi; si siamo noi in tenebre, o ver essi; et in conclusione si noi che damo principio a rinovar l’antica filosofia, siamo ne la mattina per dar fine a la notte, o pur ne la sera per donar fine al giorno: e questo certamente non è difficile a determinarsi, anco giudicando a la grossa da frutti de l’una e altra specie di contemplazione». Cfr. Infinito, p. 376: «s’aprirà la porta de l’intelligenza de gli principii veri di cose naturali, et a gran passi potremo discorrere per il cammino della verità; la quale ascosa sotto il velame di tante sordide e bestiale immaginazioni, sino al presente è stata occolta, per l’ingiuria del tempo e vicissitudine de le cose, dopo che al giorno de gli antichi sapienti successe la caliginosa notte di temerari sofisti». 118 Furori, p. 765. 119 Cena, p. 120: «cossì tutte le cose nel suo geno hanno tutte vicissitudine di dominio e servitù, felicità et infelicità, de quel stato che si chiama vita e quello che si chiama morte, di luce e tenebre, di bene e male. E non è cosa alla quale naturalmente convenga esser eterna eccetto che alla sustanza che è la materia; a cui non meno conviene essere in continua mutazione. Della sustanza soprasustanziale non parlo al presente, ma ritorno a raggionar particularmente di questo grande individuo ch’è la 117
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esprime il costante mutamento ritmico degli opposti e dei contrari, che struttura, allo stesso modi, i processi naturali e quelli storici. Nella molteplicità nulla è estraneo a questa continua trasmutazione, nemmeno la materia la quale eternamente cangia le proprie forme. Includere le vicende umane nel ciclo della vicissitudine equivale a ricollocare l’essere umano tra tutti gli altri esseri naturali, negandogli ogni centralità, non più fine ultimo della creazione, ma prodotto della natura al pari degli altri, senza alcun privilegio o primato ontologico. 7. Essere e natura nella critica di Aristotele agli antiqui philosophi La critica condotta da Aristotele nei capitoli II e III della Fisica alla dottrina dell’essere di Parmenide procede dall’assunto che gli enti naturali, o tutti o alcuni, sono in movimento, identificando la natura come κίνησις e la fisica come studio del moto. Dall’indagine sulla physis è escluso l’essere, sia esso uno o immobile. Quest’impostazione ricorre, secondo Bruno, a un’argomentazione metafisica in ambito fisico, capovolgendo e separando le due prospettive, creando una frattura tra essere e natura ed escludendo che il primo sia uno e molteplice. Aristotele colloca l’essere parmenideo nel piano della molteplicità, annullando la portata metafisica della tesi eleatica. In questo modo scompare ogni distinzione tra la sostanza e i suoi accidenti, risultando impossibile sostenere l’unicità dell’essere eterno e immutabile, poiché questo è totalmente assorbito nella molteplicità. Nel libro I della Fisica, lo Stagirita sottolinea che «esaminare, intanto, se l’essere sia uno e immobile, non fa parte delle ricerche fisiche»120. nostra perpetua nutrice e madre, di cui dimandaste per qual caggione fusse il moto locale; e dico che la causa del moto locale, tanto del tutto intero, quanto di ciascuna delle parti, è il fine della vicissitudine: non solo per che tutto si ritrove in tutti luoghi, ma ancora perché con tal mezzo tutto abbia tutte disposizioni e forme; per ciò che degnissimamente il moto locale è stato stimato principio d’ogni altra mutazione e forma, e che tolto questo non può esser alcun altro». 120 Aristotele, Fisica, in Opere, trad. it., O. Longo e A. Russo, vol. III, Bari 1983, lib. I, cap. 2, cl. 184b-185a, rr. 25-5 p. 4.
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Queste considerazioni devono essere oggetto di un’altra scienza comune a tutte le cose. Se la tesi degli eleati sull’immobilità dell’essere non appartiene al dominio della fisica, tuttavia, non è del tutto estranea a una scienza della natura. Le loro dottrine attengono non al piano delle realtà in movimento, che sono oggetto della fisica, ma alle realtà immobili, la cui considerazione spetta a una scienza anteriore, la metafisica121. Oltre al problema metodologico legato alla definizione dell’ambito della metafisica e di quello della fisica, Aristotele rivolge a Parmenide e a Melisso una seconda e più profonda obiezione. Egli rifiuta la tesi monista degli eleati, separando l’essere della cosa a cui l’essere è attribuito122. L’essere non è soggetto ma attributo che si predica di soggetti individuali. Come il colore bianco non esiste come soggetto, ma come attributo che si predica di tutte le cose bianche, così l’essere è un attributo del soggetto e non qualcosa predicabile di per sé123. L’errore di Parmenide consisterebbe nel tentativo di scindere l’attributo, l’essere, dal soggetto a cui questo è attribuito. Anche laddove l’analisi aristotelica prende in esame l’essere non come attributo del soggetto, ma «in quanto tale», questa si scontra con l’impossibilità di porre un essere che sia distinto e separato da un soggetto di cui si predica l’esistenza124. Se Cfr. De Coelo, in ivi, lib. III, cap. 1, cl. 298b-299a, rr. 5-25, p. 322. Aristotele, Fisica, cit., lib. I, cap. 3, cl.185b-186a, rr. 5-10, p. 7: «Ragionando in tal modo, risulta impossibile che l’essere sia uno, e non è difficile demolire le loro argomentazioni. Entrambi, invero, sia Parmenide sia Melisso, fanno sillogismi eristici [si fondano, infatti, su premesse false e il loro procedimento è illogico». 123 Ivi, lib. I, cap. 3, cl. 186a-b, rr. 20-35, p. 8: «Anche contro Parmenide si procede con gli stessi criteri, benché ve ne siano di più appropriati. E la confutazione si fa sia perché egli erra nelle premesse, sia perché è incoerente nelle conclusioni: erra nelle premesse, perché stabilisce di parlare dell’uno in senso assoluto, mentre poi ne parla in molti sensi; è incoerente nelle conclusioni, perché, se pur si prendessero in esame solo le cose bianche, pur significando ‘bianco’ un solo essere, non di meno le cose bianche sarebbero molte e non una: ché né per continuità né per definizione il bianco sarà uno, perché diversa è l’essenza del bianco da quella dell’oggetto che l’accoglie, e non si potrà separare nulla tranne il bianco. Non si potrà, invero, operar separazione, sebbene, in quanto all’essere, ci sia differenza tra il bianco e l’oggetto cui esso inerisce. Ma ciò Parmenide non lo vedeva ancora». 124 Ivi, lib. I, cap. 3, cl. 186a-b, rr. 35-5, pp. 8-9: «È indispensabile, altresì, per gli Eleati porre non solo che l’uno indica l’essere in relazione al quale esso sia predicato, 121
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«l’essere in quanto tale» fosse sganciato da un soggetto, esso sarebbe predicato di qualcosa che non è. Per uscire da quest’empasse occorre, secondo Aristotele, rinunciare all’esigenza parmenidea dell’unità, comprendendo come l’essere possieda molteplici significazioni. 8. Fisica, metafisica e filosofia naturale. Essere e natura La soluzione elaborata da Bruno al problema dell’unicità dell’essere è radicalmente differente da quella aristotelica. La separazione tra l’ambito e il linguaggio della fisica da quelli della metafisica risulta inconciliabile sia nella prospettiva del De la causa, e negli altri dialoghi italiani, sia nelle opere di commento ad Aristotele, negli Articuli adversus Peripateticos, nel Camoeracensis Acrotismus, nei Libri physicorum Aristotelis explanati e nella Summa terminorum metaphysicorum. Nel definire in queste opere il procedere della fisica e quello della metafisica, egli non distingue due campi d’indagine separati, ma due linguaggi contraddistinti da differenti modi d’apprensione di un unico e medesimo oggetto, la natura125. Bruno intende restituire legittimità alla tesi monista degli eleati, considerando la metafisica non più scienza delle realtà sovrannaturali, ma indagine della natura considerata in quanto causa delle cose naturali, principio del movimento che non è soggetto a esso. Secondo una distinzione espressa nei Libri physicorum aristotelis explanati, la conoscenza fisica è un’apprensione in obliquo della natura, mentre quella metafisica è una forma di conoscenza che avviene in recto126. Questa distinzione non riconosce alcuna separazione tra i due ma anche porre l’essere in sé e l’uno in sé: infatti l’accidentale si predica in relazione ad un sostrato: di guisa che ciò cui l’essere capita per accidente, non è (esso, infatti, è altro dall’ente). Esso sarà, allora, qualcosa che non è affatto. Quindi, l’essere in quanto tale non sarà inerente ad altro, giacché esso non apparterrà affatto all’essenza di questa tal cosa, a meno che non si ammetta che l’essere stia a significare molte cose e che, quindi ciascuna cosa in particolare è pure un certo essere. Ma si è supposto che l’ente stia ad indicare una sola cosa». 125 Cfr. T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique, cit., p. 161. 126 Libri physicorum, pp. 274-275.
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ambiti d’indagine, ma soltanto una considerazione dello stesso oggetto da prospettive differenti. Dai generi alle specie, dai corpi semplici ai composti di natura soggetti al movimento e, quindi, alla generazione e corruzione, fino alla natura intesa come principio della vicissitudine: è questo il passaggio che si compie dalla considerazione fisica a quella metafisica. La natura è movimento e principio del moto, molteplicità e unità. L’analisi fisica della natura attiene alla considerazione non della causa e principio primo, dell’Uno immobile e infinito, dell’essere, ma dei suoi accidenti, degli aggregati e composti particolari e finiti. Tra quest’indagine e quella metafisica che ha, invece, come oggetto la coincidentia di atto e potenza, di materia e forma, l’essere, vi è distinzione formale, non reale. Si tratta, cioè, di due momenti apparentemente separati, ma che costituiscono, invece, due modalità d’apprensione complementari e necessarie l’una all’altra nella conoscenza della natura. Questa considerazione è tesa a scardinare l’idea della scienza dell’essere come di un sapere che procede da una rivelazione sovrannaturale, distinto da quello fisico acquisito, invece, per lume naturale attraverso la ragione. Quest’operazione sembrerebbe contraddire la premessa metodologica che apre le prime pagine del dialogo II del De la causa, laddove Bruno espone il campo proprio all’indagine fisica e quello che attiene alla rivelazione o teologia127. Egli rigetta la ricerca della causa e principio primo dal campo d’indagine del sapere naturale, limitandosi alle sole cause fisiche. Seguendo il testo, si comprende che l’esclusione delle cause sovrannaturali è fondata sulla distinzione tra un lume naturale, una conoscenza umana, razionale e speculativa, contrapposta a «quelle cose che son sopra la sfera della nostra intelligenza»128. Ma a ben vedere, quello che egli definisce è qui una filosofia naturale distinta dalla Causa, p. 206: «Dico però che non si richiede dal filosofo naturale, che ammeni tutte le cause e principii: ma le fisiche sole, e di queste le principali e proprie. Benché dumque, perché dependeno dal primo principio e causa, si dicano aver quella causa e quel principio, tutta volta non è sì necessaria relazione, che da la cognizione de l’uno s’inferisca la cognizione de l’altro: e però non si richiede che vengano ordinati in una medesima disciplin». 128 Ivi, p. 208. 127
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teologia fondata sulla rivelazione, contrapposta a una metafisica intesa come scienza di realtà immateriali separate dal campo fisico. A essere messa in discussione non è semplicemente la separazione tra fisica e metafisica, come svolta da Aristotele, ma la stessa definizione di filosofia prima come scienza di un oggetto astratto e conoscibile soltanto per mezzo di un intelletto purificato e libero dalla dimensione materiale e corporea. Una tale filosofia prima denota, nella prospettiva bruniana, una scienza delle realtà astratte assimilabile non alla metafisica, bensì alla logica. È quanto emerge da un rapido scambio di battute tra i due personaggi dell’Asino cillenico, appendice conclusiva della Cabala del cavallo Pegaseo: [Micco]: […] delle cose soprannaturali non si possono avere raggioni, eccetto in quanto riluceno nelle cose naturali; percioché non accade ad altro intelletto che al purgato e superiore di considerarle in sé. [Asino]: Non si trova appo voi metafisica? [Micco]: Non: e quello che gli altri vantano per metafisica non è altro che parte di logica129.
L’idea di un essere astratto dalle realtà naturali non può costituire l’oggetto di una scienza separata dalla dimensione fisica. Alla radice del rifiuto di questa considerazione della fisica e della metafisica vi è la riabilitazione della tesi parmenidea. Attraverso la ripresa di un monismo dinamico e dialettico, Bruno può ripensare l’essere come assorbito nella natura e, dunque, nella dimensione fisica, ma al tempo stesso non soggetto al movimento. Pur definendo la natura movimento e vita, Aristotele non ha compreso come questa sia immutabile, infinita e permanente. La tesi aristotelica di un essere che si dice o si predica in molti modi esclude la possibilità di riconoscere come questo sia necessariamente uno. Se non può esserci possibilità di conoscenza dell’unica sostanza, di un essere astratto e separato dalla natura, ciò significa che questo essere non può costituire l’oggetto di una scienza autonoma. La fisica 129
Cabala, p. 745.
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e la metafisica non sono, pertanto, due forme di sapere indipendenti l’una dall’altra: come osserva Dagron, «ces deux savoirs ont une meme objet, la nature, et constituent une seule et meme science: la “philosophie naturelle”»130. Quest’approccio scardina la gerarchizzazione scolastica dei saperi, con la distinzione tra fisica e filosofia prima, e tende a riallacciare la relazione, interrottasi con Aristotele e l’aristotelismo scolastico, tra l’essere e le sue manifestazioni, tra l’Uno e la molteplicità. Se nei dialoghi italiani non vi è separazione tra l’indagine fisica e quella metafisica, essendo quest’ultima completamente assorbita nella prima, una distinzione tra i due modi d’apprensione della natura emerge soltanto a partire dalle opere di commento ad Aristotele. La differenza tra una conoscenza della natura in obliquo e una in recto, rintracciabile nei Libri physicorum è strettamente legata al commento e all’opera di decostruzione dell’impianto della fisica peripatetica. Questi testi sono raccolte di lezioni sulla Fisica, sul De generatione et corruptione e sul De coelo, composti in latino e destinati a una diffusione maggiormente accademica rispetto ai dialoghi. L’uso di un lessico e di categorie aristoteliche è qui funzionale proprio a decostruire dall’interno quell’impostazione fisica e metafisica, nel tentativo di riabilitare la tesi monista eleatica. Nel rifiuto bruniano della separazione aristotelica e scolastica tra fisica e metafisica è rintracciabile un tema di origine averroista, mediato dal naturalismo aristotelico padovano in opposizione alla formulazione tomista del problema. Prim’ancora che nel modo d’intendere la relazione tra fisica e metafisica, questo rifiuto agisce sul piano gnoseologico. Se per Tommaso, ad esempio, la filosofia prima è separata dall’indagine sulla natura e tratta di un ens communis indipendente dalla dimensione materiale, la soluzione proposta da Averroè e ripresa da Pietro Pomponazzi, è differente: essi tendono a dimostrare l’esistenza dell’essere proprio attraverso l’indagine fisica. Per l’Aquinate, invece, le premesse, il metodo e i principi della filosofia prima sono indipendenti da ciò che è soggetto al movimento. La metafisica procede secondo modalità conoscitive distinte che non rientrano nel piano della dimostrazione fisica. 130
T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique, cit., pp. 145-146.
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Pomponazzi rifiuta l’idea tomista di una gerarchizzazione delle discipline, in cui la metafisica occuperebbe il vertice e i cui principi sarebbero indipendenti dall’ambito fisico. La ragione di questo rifiuto sta nell’impossibilità di un’apprensione intellettuale separata dalla sensibilità e dalla corporeità. È la lettura del De anima di Aristotele a legittimare questa linea interpretativa. Ogni forma di conoscenza si fonda sulla percezione dei phantasmata e, pertanto, non è possibile apprendere gli oggetti della metafisica se non in maniera imperfetta per segni e tracce. L’apprensione sensibile e immaginativa costituisce la base necessaria su cui poggiare ogni forma di scienza. L’intelletto umano che opera formando immagini a partire dalla percezione sensibile non può essere sganciato dalla dimensione materiale e corporea. La conoscenza intellettuale umana è discorsiva e razionale poiché sottoposta allo spazio e al tempo, a un procedere per composizione di elementi differenti e contrari: la conoscenza metafisica di realtà separate dalla dimensione spaziale e temporale richiamata da Tommaso non è, perciò, accessibile all’intelletto umano131. Nel suo rifiuto della metafisica come filosofia prima, separata e indipendente dalla fisica, Bruno recupera la prospettiva gnoseologica averroista e pomponazziana. E non è un caso, se si considera che, durante gli anni precedenti l’entrata in convento, egli ebbe accesso a un’interpretazione non scolastica di Aristotele, sia grazie all’insegnamento dell’aristotelico-averroista Giovan Vincenzo Colle da Sarno, studioso di logica e dialettica, allievo di Gerolamo Balduino, lettore presso lo Studio Pubblico di Napoli tra il 1560 e il 1565; sia attraverso la lettura delle opere di Aristotele nell’edizione Giunta, traduzione latina dell’intero corpus dello Stagirita nelle versioni medievali e umanistiche, accompagnata dai commenti di Averroè anche nelle versioni inedite ebraico-latine, curata dagli aristotelici naturalisti Jacopo Mantino, Bernardino Tomitano, Marco Antonio Zimara, più volte ristampata a Venezia tra il 1550 e il 1574, e ancora oggi conservata nel fondo della Cfr. P. Pomponazzi, Tractatus de immortalitate animae, in Tutti i trattati peripatetici, testo latino a fronte, F.P. Raimondi e J.M. García Verde (a cura di), trad. it. F.P. Raimondi, Milano 2013, pp. 932-1030. 131
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Libraria di San Domenico Maggiore della Biblioteca Universitaria di Napoli. Attraverso questi canali il giovane Bruno poté accedere a una prima conoscenza di Aristotele, avvalendosi dei commenti di Averroè132, più vicini a un’interpretazione naturalistica rispetto all’interpretazione tomista. Quando entrò in convento egli non era, dunque, sprovvisto di una preparazione filosofica, ma possedeva già sia i rudimenti della tradizione neoplatonica, sia del naturalismo aristotelico averroista. Se nel De la causa Bruno limita la sua indagine alle sole cause fisiche, questa distinzione è tesa solo apparentemente a isolare la prospettiva metafisica dalla filosofia naturale. In realtà, radicalizzando la posizione averroista e pomponazziana, egli riconduce la metafisica nell’ambito della filosofia naturale, ovvero alla considerazione della natura intesa come causa e principio immobile del movimento. Se dalla prospettiva fisica che muove dalla «cognizione di tutte cose dependenti non possiamo inferire altra notizia del primo principio e causa che per modo meno efficace di vestigio»133, ciò apre a una via metafisica di cui l’oggetto è sempre la natura, non più considerata come movimento ma causa e principio primo, immobile e permanente. Questo non è un rifiuto della metafisica, quanto piuttosto il riconoscimento che il suo oggetto non è qualcosa di distinto e separato dalla natura. La considerazione della physis come principio del movimento fonda la possibilità di una filosofia naturale che includa la metafisica distinguendola dalla teologia. 9. Prima e oltre Aristotele L’obbiettivo della critica bruniana non è esclusivamente Aristotele, quanto piuttosto l’aristotelismo scolastico e il suo utilizzo teologico. L’errore dello Stagirita, reiterato e accentuato da questa tradizione, consiste nell’aver frantumato la visione unitaria dell’essere e della natura 132 Cfr. E. Canone, Giordano Bruno lettore di Averroè, in Il dorso e il grembo dell’eterno. Percorsi della filosofia di Giordano Bruno, Supplementi di «Bruniana & Campanelliana», Studi 4, Pisa-Roma 2003, pp. 79-120. 133 Causa, p. 206.
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dell’antiqua e vera filosofia. L’elemento di rottura che essa introduce nella realtà è il principio logico e astratto della separazione: a partire da questo la ragione umana si allontana dall’immagine di una natura intesa come unità, vincolo universale che lega tra loro i molteplici volti dell’Uno. Aristotele è colui «il quale mai si stanca di dividere con la raggione quello che è indiviso secondo la natura e verità»134, ribaltando il rapporto tra logica e realtà e affermando una ragione separatrice che si contrappone alla stessa natura. Questa ragione aristotelica urta alla base il motivo ispiratore della nolana filosofia: il tendere all’Uno è riconoscere come in natura la molteplicità delle forme sia soggetta a una connexio rerum, una connessione che lega con un vincolo d’amore universale ogni explicatione della causa e principio primo principio complicato. Il risultato del processo di categorizzazione aristotelica della natura conduce, invece, all’oblio del legame attraverso cui ritrovare l’unità da cui hanno origine la contrarietà e la molteplicità. Pur utilizzando un lessico e concetti della tradizione aristotelica, Bruno tende a riformularli, riportando a unità ciò che ai suoi occhi Aristotele ha diviso: materia e forma, potenza e atto, Dio e natura. Le categorie e i termini che egli manipola possono essere distinti logicamente soltanto ponendosi nell’orizzonte del finito, del molteplice, della differenza e della contrarietà, non dell’Uno infinito e permanente, punto d’osservazione necessario nella conoscenza dell’essere e della natura. Egli recupera la dottrina eleatica alla luce di un Parmenide purgato dalle critiche aristoteliche e scolastiche, considerando l’essere non più in senso logico, ma nel suo concreto e naturale autoprodursi nei suoi molteplici volti. All’ontologia di un essere che si dice in molti modi, quale quello che Aristotele oppone all’eleatismo, Bruno recupera, invece, proprio l’idea di unità di un essere come espressione della totalità e dal quale ogni cosa ha origine. Nella sua unità, l’essere è ciò che tutto racchiude, infinta complicatio, mentre nel suo dispiegarsi, nel suo generare da sé stesso la molteplicità degli enti finiti e particolari, è continua explicatio.
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Ivi, p. 222.
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In questa rilettura dell’essere come relazione, fisica e insieme metafisica, di unità e molteplicità, il principio di determinazione aristotelico perde la sua centralità. Se per lo Stagirita l’essere è caratterizzato dal principio di non contraddizione, per Bruno, invece, la validità di quest’assunto logico è riconosciuta esclusivamente nell’ambito del finito, dove sussiste differenza e distinzione tra i termini, non nell’Uno, laddove potenza e atto, materia e forma sono una e medesima cosa. Soltanto limitando l’indagine sulla natura al piano degli accidenti la dimensione molteplice e finita appare come l’ultima determinazione del reale. Occorre scavalcare il limite della contrarietà percepibile dai sensi, per rintracciare con la ragione come tutto sia riconducibile a un’unità occultata dalle apparenze. Permanere nel molteplice, nel finito, equivale a essere estranei alla verità e alla comprensione della natura. È questo, agli occhi di Bruno, il limite della filosofia aristotelica: l’aver assolutizzato i volti finiti dell’essere, facendo di questi la prospettiva privilegiata e unica nello studio della natura. Alla base di quest’assolutizzazione del finito vi è, come già osservava Rodolfo Mondolfo, l’idea predominante presso i Greci dell’indeterminabilità e della ciclicità del tempo135. La rappresentazione ciclica dell’infinito temporale rende impossibile individuare, sia logicamente sia geometricamente, un principio iniziale e uno finale. In quanto caratterizzata dal ritorno eterno su sé stessa, la circonferenza non congiunge semplicemente il punto iniziale con quello finale, ma è la negazione stessa di essi: ogni punto può essere indistintamente fine e inizio. L’immagine ciclica del tempo eterno porta con sé un’accezione negativa dell’infinito: nella sua identità col tempo, «numero del movimento»136, l’infinito è ciò che è eternamente divisibile, ma di cui, allo stesso tempo, non si dà mai un’estensione attuale infinita. Per Aristotele è, dunque, possibile dividere eternamente il tempo in quanto non generato, ἀγένητον137. Al contempo, l’infinito è per lui «ciò che R. Mondolfo, L’ infinito nel pensiero dell’età classica, Firenze 1956, p. 60. Aristotele, Fisica, cit., lib. IV, cap. 11, cl. 219a-b, rr. 35-5, p. 103; lib. VIII, cap. 1, cl. 251b, rr. 10-15, pp. 195-196. 137 Ivi, lib. VIII, cap. 1, cl. 251b, rr. 15-20, p. 196. 135
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non è mai possibile percorrere»138, ἄπειρον, che non ha limite né luogo. L’infinito è imperfetto poiché sfugge a qualsiasi possibilità di conoscenza, a qualsiasi definizione. Al contrario, la totalità è perfetta, in quanto possiede un termine è intera: «ciò […] al di fuori di cui non c’è nulla, è perfetto ed intero, ciò di cui non manca nulla»139. La filosofia aristotelica rifiuta proprio l’dea d’infinità spaziale, materiale e temporale sostenuta da Bruno. Il passaggio dall’immagine di un cosmo come totalità chiusa e geometricamente perfetta, a quella di un universo infinito, segna una profonda rottura fisica, metafisica e teologica. L’ontologia e la cosmologia esposte nel De la causa, nel De l’ infinito e nel De immenso, pongono un principium plenitudinis140 che induce la materia a generare eternamente, dal suo interno, i composti. Questo principio di pienezza implica un’idea del tempo e del movimento come di un processo che non si ripete mai in maniera identica, ma che apre alla possibilità di pensare il movimento come perenne rivoluzione o vicissitudine: un processo inarrestabile e senza scopo, che non ritorna mai su sé stesso, ma in cui il movimento produce incessantemente forme finite sempre differenti. Questa rappresentazione dell’universo è inammissibile nella prospettiva aristotelico-scolastica: non è possibile pensare il cosmo se non come una sfera finita, gerarchica e immutabile, all’interno della quale si verifica un movimento identico, in un tempo eterno, in cui sussistono forme sostanziali eterne. In questo cosmo è ancora assente un’idea cardine della filosofia bruniana, quella cioè della storicità della natura, vale a dire la possibilità per l’universo e per ciò che ne è parte di perire ed estinguersi, così come di generare forme completamente nuove. Nel tentativo di ridestare un lessico e un pensiero sommerso, decostruendo e riformulando le categorie aristotelico-scolastiche, Bruno afferma l’infinità dell’essere e della natura come una verità nuova e, al tempo
Ivi, lib. III, cap. 5, cl. 204a, rr. 10-15, p. 61. Ivi, lib. III, cap. 6, cl. 207a, rr. 5-10, p. 68. 140 Cfr. F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, cit. pp. 21, 31-34, 169, 172. 138 139
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stesso, antichissima, delineando la prospettiva filosofica e scientifica nella quale opereranno le moderne fisiche seicentesche. 10. Eraclito e Parmenide nella nolana filosofia Il ricorso di Bruno a Parmenide e a Eraclito costituisce un riferimento centrale nell’elaborazione del problema ontologico e nella riscoperta dell’antiqua e vera filosofia. Nella lettura bruniana, le loro dottrine non sono inconciliabili, poiché se tutto è uno, allora, essere e divenire non possono essere in contrapposizione. La tesi eraclitea dell’unità del tutto comprende sia la mutabilità di tutte le cose, sia la permanenza della sostanza unica. Questa tesi, che può apparire contradditoria, è invece il riconoscimento della legge che riconduce a unità ogni contrarietà: […] ne l’ente summo, nel quale è indifferente l’atto dalla potenza, il quale può essere tutto assolutamente, et è tutto quello che può essere; è complicatamente uno, inmenso, infinito, che comprende tutto lo essere: et è esplicatamente in questi corpi sensibili, et in la distinta potenza et atto che veggiamo in essi. Però che volete che quello che è generato e genera (o sia equivoco o univoco agente come dicono quei che volgarmente filosofano) e quello di che si fa la generazione, sempre sono di medesima sustanza. Per il che non vi sonarà mal ne l’orecchio la sentenza di Eraclito, che dissero tutte le cose essere uno, il quale per la mutabilità ha in sé tutte le cose; e perché tutte le forme sono in esso, conseguentemente tutte le diffinizioni gli convengono: e per tanto le contraddittorie enunciazioni son vere. E quello che fa la moltitudine ne le cose, non è lo ente, non è la cosa; ma quel che appare, che si rappresenta al senso et è nella superficie della cosa141.
L’affermazione che il tutto è uno non contraddice il perenne divenire a cui sono soggette le forme particolari e finite. Dal punto di vista dell’Uno da cui ogni cosa ha origine e a cui fa ritorno, tutte «le 141
Causa, p. 285.
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contraddittorie enunciazioni son vere». Il principio di non contraddizione non vige nell’unità dell’essere infinito, ma soltanto nell’orizzonte finito della molteplicità, della contrarietà e della differenza. Bruno può, così, far convivere insieme, sovrapponendole come parte di una stessa verità, la tesi dell’unità e immutabilità dell’essere, con quella del perenne divenire o dell’eterna vicissitudine. Ciò vuol dire, sul piano gnoseologico, che si ha conoscenza della natura soltanto rintracciando la relazione che sussiste in ogni cosa e in ogni punto dell’universo con tutti gli altri, ritrovando il vincolo che lega ogni corpo ed elemento naturale in un unico organismo. Sin dal De umbris, il processo conoscitivo segue lo stesso percorso della natura: questa muove «a confusa pluralitate ad distinctam unitatem»142, attraverso il legame che unisce ogni cosa alla causa e principio primo. Procedere nella conoscenza dal molteplice all’Uno non vuol dire formare degli universali logici astratti che estraggono dalle infime specie distinte le specie medie e confuse e da queste le più confuse specie supreme. Conoscere significa, invece, ricondurre a un’unità armoniosa una molteplicità informata, indistinta e confusa. Tra i modi della conoscenza e la relazione dell’Uno con il molteplice, tra l’essere e le forme del pensare, sussiste una radicale, profonda e insuperabile identità. Allo stesso modo, Bruno non interpreta l’essere di Parmenide come ciò che, assolutamente semplice e astratto al modo di Aristotele, è privo di ogni differenza, ma tutte le include e le assorbe al suo interno. Egli ripensa le differenze, i contrari e la molteplicità, recuperando la distinzione parmenidea tra l’essere e le sue apparenze, o per dirlo nel linguaggio della nolana filosofia, tra luce e ombra. Le ombre sono parvenze, manifestazioni e volti particolari dell’essere, dell’unica sostanza o della causa e principio primo nell’universo explicato: Dite che quel tutto che si vede di differenza ne gli corpi quanto alle formazioni, complessioni, figure, colori et altre proprietadi e communitadi, non è altro che un diverso volto di medesma sustanza; volto labile, mobile, corrottibile, di uno immobile, perseverante et eterno 142
De umbris, p. 100.
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essere; in cui son tutte forme, figure e membri: ma indistinti e come agglomerati, non altrimente che nel seme, nel quale non è distinto il braccio da la mano, il busto dal capo, il nervo dal osso: la qual distinzione e sglomeramento, non viene a produrre altra e nuova sustanza; ma viene a ponere in atto e compimento certe qualitadi, differenze, accidenti et ordini circa quella sustanza143.
Bruno recupera, anche sul piano gnoseologico, i termini parmenidei del rapporto tra senso, immaginazione e intelletto: tra percezione sensibile, immaginazione e conoscenza intellettiva non vi è separazione né contrapposizione, ma esse sono complementari e indicano diversi livelli di conoscenza che s’implicano reciprocamente. Già nel Sigillus egli osservava che la distinzione tra le facoltà conoscitive è soltanto apparente, poiché come vi è unità in natura così è anche nella conoscenza. L’universale connexio che lega tra loro i corpi e gli elementi naturali, permettendo l’intellegibilità della natura, si riflette nelle facoltà e nel processo conoscitivo144. La continuità tra senso, immaginazione e intelletto non corrisponde, però, a un’indistinzione delle facoltà conoscitive, quanto, piuttosto, alla necessità di non porre una loro separazione reale che contradirebbe il principio dell’unità. È quanto egli osserva nel De l’ infinito, differenziando le facoltà per il loro ruolo e per l’oggetto specifico. L’infinito, ad esempio, «non può essere oggetto del senso»145. È, invece all’intelletto che spetta «giudicare e rendere raggione de le cose absenti e divise per distanza di tempo et intervallo di luoghi»146. Soltanto l’intelletto può ascendere e trascendere la molteplicità delle manifestazioni sensibili, cogliere l’unità della sostanza unica e infinita. La critica aristotelica al parmenidismo interpreta la molteplicità come niente, assenza di essere: l’immutabilità dell’essere esclude il divenire, il movimento, rendendo inammissibile la convivenza di una sostanza permanente, incorruttibile e, al tempo stesso, il mutamento Causa, p. 283. Sigillus, pp. 217-219. 145 Infinito, p. 325. 146 Ibidem. 143
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dei suoi accidenti. L’interpretazione bruniana tende, invece, a ridefinire l’essere parmenideo come unità infinita, immobile, permanente e immutabile, all’interno della quale il divenire non affetta la sostanza, ma soltanto i suoi accidenti. In altre parole, la nascita e la morte, la generazione e la dissoluzione non toccano l’essere ma il livello fenomenico delle sue manifestazioni sensibili. Dal riconoscimento dell’immutabilità dell’essere e della sostanza da cui ogni cosa prende vita, la paura della morte svanisce, in quanto semplice corruzione degli accidenti. È questo il ritmo della vicissitudine universale, dell’eterno mutare, che non corrompe la sostanza infinita e permanente, ma i suoi volti. Questo processo dialettico tra l’Uno e le sue manifestazioni risponde all’esigenza bruniana di conciliare l’eterno divenire di ogni cosa con l’immutabilità del tutto, ridestando e conciliando tra loro la verità di Eraclito e quella di Parmenide. Bruno applica implicitamente questa stessa interpretazione e conciliazione delle dottrine eleatica ed eraclitea a ogni livello della realtà, anche nella considerazione fisica dell’infinitamente piccolo. L’incessante movimento degli atomi, la variazione della loro disposizione e della forma non incidono sulla loro sostanza, permanendo immutabili e perenni. Il loro movimento produce forme e composti materiali sempre differenti, ne determina l’aggregazione, l’accrescimento, la corruzione e la dissoluzione, ma non produce alcun effetto sul loro essere, permanendo indivisibili e indissolubili. Allo stesso modo, anche sul piano cosmologico dell’infinitamente grande, egli ricorre agli antiqui filosofi e a una considerazione dell’universo che scaturisce proprio dal riconoscimento dell’inesauribilità e dell’infinità, potenziale e attuale, spaziale e temporale, dell’essere. Nella Cena, richiamando i nomi di Parmenide ed Eraclito, insieme a quelli di Pitagora, Democrito ed Epicuro, egli fa di questi un solido supporto all’idea dell’infinità dell’universo e della pluralità dei mondi: Or questa distinzion di corpi ne la etera reggione l’ha conosciuta Eraclito, Democrito, Epicuro, Pitagora, Parmenide, Melisso, come ne fan manifesto que’ stracci che n’abbiamo: onde si vede, che conobbero un spacio inifinito, capacità infinita di mondi innumerabili simili a questo, i quali cossì compiscono i lor circoli come la terra il
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suo, e però anticamente si chiamavano ethera, ciò è corridori corrieri, ambasciadori, nuncii della magnificenza de l’unico Altissimo, che con musicale armonia contemprano l’ordine della costituzion della natura, vivo specchio dell’infinita deità147.
Ancora più che il richiamo a un principio di autorità non scolastiche e non aristoteliche, è nell’eraclitea e parmenidea considerazione della vita, della natura e dell’essere che risiede la ragione profonda della riscoperta delle filosofie presocratiche, contro e oltre Aristotele e l’aristotelismo scolastico. 11. «Deus et hyle et mens una sola substantia sunt» Ne l’uno infinito, immobile, che è la sustanza, se vi trova la moltitudine, il numero, che per essere modo e moltiformità de lo ente, la quale viene a denominar cosa per cosa, non fa per questo che lo ente sia più che uno: ma moltimodo e moltiforme figurato. Però profondamente considerando con gli filosofi naturali, lasciando i logici ne le lor fantasie, troviamo che tutto che fa differenza e numero, è puro accidente, è pura figura, è pura complessione: ogni produzione di qualsivoglia sorte che la sia è una alterazione; rimanendo la sustanza sempre medesima, perché non è che una, uno ente divino, immortale148.
In questo passo del V e ultimo dialogo del De la causa Bruno porta a compimento il processo dialettico che dalla molteplicità e contrarietà degli accidenti, dai multiformi volti dell’essere, giunge a riconoscere l’unità della sostanza, infinita, immobile e permanente. Questa verità è esposta, ancora una volta, come la riscoperta dell’antiqua e vera filosofia intesa da Pitagora, il quale «non teme la morte ma aspetta la mutazione»149, a «tutti filosofi chiamati volgarmente fisici, che niente Cena, p. 112. Causa, p. 281. 149 Ibidem. 147
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dicono generarsi secondo sustanza né corrompersi»150, e presente finanche negli scritti biblici, con «Salomone, che dice non esser cosa nova sotto il sole: ma quel che è, fu già prima»151. Sia nei dialoghi italiani, sia nelle opere latine, egli espone la relazione tra la sostanza infinita e i suoi accidenti attraverso il richiamo ai presocratici e agli eleati, ovvero all’idea che «il tutto et ogni parte di quello viene ad esser uno secondo la sustanza. Onde non essere inconvenientemente detto da Parmenide, uno, infinito, immobile (sia che si vuole della sua intenzione, la quale è incerta, riferita da non assai fidel relatore) […]»152. Il richiamo di Bruno all’eleatismo costituisce un tratto costante della sua produzione. Questo, insieme al recupero della tesi sull’immutabilità della sostanza infinita e permanente, si pone su di un piano comune al recupero della dottrina di David de Dinant e di Avicebron. La riscoperta delle filosofie che avevano subito la critica di Aristotele e che erano state associate da Alberto e da Tommaso alle dottrine di David e di Avicebron, assume la funzione di ridestare la filosofia presocratica dopo l’aristotelismo scolastico. Il richiamo al filosofo di Dinant e ai presocratici esprime la volontà di recuperare l’idea di un sostrato unico della realtà fisica e metafisica, principio tanto delle realtà materiali quanto di quelle intellegibili, fondamento indivisibile d’unità e sostanza comune di tutti gli enti. Si è visto come la distinzione sostenuta da David de Dinant – distinctio che rimane tale solo sul piano logico, non su quello ontologico – tra una materia di cui sono composti i corpi, un’anima universale e una sostanza eterna o Dio, corrisponda alla stessa suddivisione con cui Bruno struttura il problema della relazione tra materia e forma nel De la causa. Queste sono causa e principio unitari, inscindibili in natura e considerabili separatamente solo in una figurazione logica, non nell’intima e concreta vitalità della natura. Attraverso David, Bruno ripensa l’inconsistenza sul piano fisico di ogni definizione logica che scinde le forme particolari dal loro legame con la materia, assolutizzandole. Ibidem. Ibidem. 152 Ivi, p. 283; cfr. Camoeracensis Acrostimus, p. 97. 150 151
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Il ricorso a queste fonti risponde all’esigenza di ricondurre ogni separazione ontologica tra il principio e i principiati, all’unità dell’essere in cui non vi è distinzione tra materia e forma, tra forma materiale e materia formale. È il principio ispiratore della filosofia di maitre David, come di Avicebron e degli antiqui philosophi ad agire al fondo dell’ontologia della nolana filosofia. Se la necessità di Bruno del ricorso alla sua fonte indiretta risiede nel tentativo di ripensare un’alternativa filosofica all’impianto metafisico e teologico aristotelico-scolastico, essa andava elaborata attraverso la decostruzione del concetto di sostanza che da quella tradizione traeva origine. L’affermazione dell’identità in Dio di mens e hyle, materia e forma, proposta dal filosofo di Dinant è un elemento necessario e funzionale per Bruno, nel De la causa e nel De vinculis, a tracciare una via filosofica in cui la molteplicità delle differenze e dei contrari possa essere assorbita, ma non esaurita, nell’unità della sostanza infinita e permanente. Il riconoscimento della relazione tra l’essere e le sue manifestazioni costituisce, dunque, il presupposto indispensabile a ogni forma di sapere naturale e, insieme, politico.
IV. «Potentia et actus utriusque nexus». Unità e vincolo di materia e forma
1. Cosa mostra un certo arabo chiamato Avicebron Nel XIX secolo lo studioso tedesco Salomon Munk identificò l’Avicebron degli autori cristiani, con il poeta e filosofo ebreo della Spagna dell’XI secolo noto come Shelomon Ibn Gabirol1. Al lavoro di Munk si deve il riconoscimento dell’autore del Fons vitae, per secoli conosciuto come quel «certo arabo chiamato Avicebron»2. L’opera fu tradotta dall’arabo in latino nel XII secolo da Giovanni Ispano e Domenico Gundislao con il titolo Fons vitae, ma soltanto nel XIII secolo le dottrine gabiroliane divennero argomento di confronto e di discussione spesso polemica tra i domenicani Alberto e Tommaso e i francescani Bonaventura da Bagnoregio e Duns Scoto. Se questi ultimi condividono l’attribuzione avicebroniana della materialità a tutte le sostanze sia sensibili sia spirituali, i due maestri domenicani, invece, considerano proprio questo punto particolarmente problematico. 1 2
S. Munk, Mélanges de philosophie juive et arabe, Paris 1988. Causa, p. 252.
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Nella Physica3 e nel De causis et processu universitatis a prima causa4, dove Alberto dedica tre paragrafi ad Avicebron, egli si sofferma approfonditamente sulla confutazione della dottrina ilemorfica universale, ponendo una distinzione tra la materia intesa come potenza e la materia intesa come soggetto delle differenze. Al tempo stesso, egli individua e definisce due tipi di forme, quelle trascendenti, anteriori alla distinzione tra sostanze corporee e incorporee, e quelle accidentali che determinano i composti. L’elemento maggiormente problematico nella prospettiva di Alberto è il passaggio compiuto da Avicebron nella considerazione della materia dal piano logico a quello ontologico: per il maestro domenicano la materia può essere definita un’unità sostanziale dal punto di vista logico, intesa come soggetto comune delle sostanze, ma non soggetto in grado di determinare delle differenze reali. Soltanto la forma sostanziale può definire e contraddistinguere una sostanza. Tommaso riprende e sviluppa gli argomenti del maestro. Nel Tractatus de substantiis separatis, seu de Angelis5, egli critica Avicebron per non aver separato la predicazione logica dei generi e delle differenze dalla composizione reale di ciò che compare in natura. Come ha osservato Pasquale Terracciano, «a giudizio di Tommaso, Avicebron fraintende genere logico e materia fisica: estende cioè la riduzione ad unità della materia corporale e di quella spirituale che può essere effettuata sul piano logico ad una reale unità nelle sostanze»6. L’errore consisterebbe, dunque, nel non aver distinto l’indagine naturale dalla predicazione logica, ma nell’aver elaborato una filosofia in cui natura e logica coincidono. Errore questo che i due maestri domenicani rimproveravano già a David de Dinant e che Bruno rivaluta, nell’elaborare una filosofia 3 Albertus Magnus Physica, in Opera Omnia, cura ac labore Augusti Borgnet, Parisiis 1890, vol. III, lib. I, tr. III, pp. 68-72. 4 Id., De causis et processu universitatis libri II, in Opera omnia, cit., Parisiis 1891, vol. X, lib. I, tr. I, pp. 372-374; tr. III, p. 405; tr. IV, pp. 413-418, p. 430. 5 S. Thomae Aquinatis De substatiis separatis, in Opuscula philosophica, ed. P. Raymundi e M. Spiazzi (a cura di), Roma 1954, cap. VI, p. 28. 6 P. Terracciano, «Nemici et impazienti di poliarchia». Riflessioni sul rapporto tra Bruno e Shelomon Ibn Gabirol, in Favole metafore e storie. Seminario su Giordano Bruno, introduzione di M. Ciliberto, O. Catanorchi e D. Pirillo (a cura di), Pisa 2007, p. 452.
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che sia in grado di cogliere la natura nel suo concreto prodursi, laddove la predicazione logica per generi e differenze funge più da elemento di separazione e ostacolo nella conoscenza. Il richiamo di Bruno al Fons vitae costituisce un motivo che, come nel caso di David de Dinant, ricorre ogni qual volta egli esamina il rapporto tra materia e forma. Il Nolano legge Avicebron attraverso le critiche scolastiche, rovesciandole costantemente e recuperando il tentativo di ricollocare il linguaggio logico in ciò che è «indiviso secondo natura e verità»7. Come nel caso di David, allo stesso modo, sia Alberto sia Tommaso associano la posizione di Avicebron a quella degli antiqui philosophi che concepivano la materia sostanza di tutte le cose, ritenendo che tutto fosse corpo. Ma per i due maestri domenicani la sua dottrina è ancor più erronea, poiché concepisce questa materia prima come sostanza non corporea e, dunque, subiectum tanto delle sostanze corporee quanto di quelle ideali. Le critiche scolastiche al Fons vitae sono presenti e rovesciate nel De la causa sin dalla Proemiale Epistola, laddove Bruno annuncia non soltanto una questione fisica e metafisica, ma ancor più una premessa metodologica, ovvero come «con diverse vie di filosofare possano prendersi diverse raggioni di materia, benché veramente sia una prima et absoluta»8. La possibilità di considerare la materia secondo vie di filosofare differenti costituisce una metodologia costante dell’approccio di Bruno, legata alla consapevolezza della legittimità di una pluralità di lessici filosofici e teologici, del rifiuto di stabilire il primato o l’esclusività di un unico linguaggio sugli altri. Quest’approccio metodologico è un riflesso dell’ontologia e della gnoseologia della nolana filosofia. Nel dialogo II del De la causa, riprendendo quanto già sviluppato nel De umbris, il Nolano sostiene che la conoscenza della causa e del principio primo è preclusa all’uomo «anco in vestigio», ma che è possibile soltanto sedere all’ombra della luce9. Come osservava Nicola Badaloni, queste
Causa, p. 222. Ivi, p. 168. 9 Cfr. De umbris, p. 42. 7 8
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parole definiscono il «discorso sul metodo»10 bruniano, vale a dire il riconoscimento che la condizione umana «non è tale da poter dimorare nello stesso campo della verità», poiché «se la verità è luce, l’uomo non può far altro che risiedere nell’ombra»11. Se l’essere umano è escluso dall’accesso alla luce, alla verità assoluta, potendo risiedere esclusivamente nel campo umbratile dell’opinione, del verisimile, di una verità soggetta al tempo e allo spazio, ciò vuol dire che non può esserci un lessico, un metodo e una filosofia esclusivi e validi eternamente. In virtù di questa ragione, Bruno legittima la convivenza e la validità di una pluralità di lessici, metodi e vie del filosofare, nel tentativo di cogliere una verità che non è mai possesso ma incessante fatica, espressione dell’infinita dinamicità delle metamorfosi del reale. All’immagine di una natura intesa come monismo dialettico ed eterna vicissitudine, egli fa corrispondere una pluralità di linguaggi atti a esplicarla. È in questa consapevolezza che risiede il recupero e la legittimazione del lessico e della filosofia di Avicebron. 2. Necessità di due generi di sostanza, l’uno che è forma, l’altro che è materia Bruno chiama in causa Avicebron, per la prima volta, nel dialogo III del De la causa, laddove stabilisce l’interdipendenza ontologica tra la causa formale e il principio materiale: come «Democrito […] e gli Epicurei, i quali quel che non è corpo dicono esser nulla, per conseguenza vogliono la materia sola esser la sustanza de le cose, et anco quella essere la natura divina»12, così anche «un certo arabo chiamato Avicebron»13 sostenne la stessa tesi materialistica, «come mostra in un N. Badaloni, Il De umbris idearum come discorso del metodo, «Paradigmi», LIII (2000), pp. 161-195. 11 P. Secchi, Elementi di teologia nel De umbris idearum di Giordano Bruno, «Bruniana & Campanelliana», VIII, 2 (2002), p. 432. 12 Causa, p. 235. 13 Ibidem. 10
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libro intitolato Fonte di vita»14. Se i principi dell’atomismo democriteoepicureo e della dottrina avicebroniana, insieme con quelli dei Cirenaici, dei Cinici e degli Stoici, per i quali «le forme non essere altro che certe accidentali disposizioni de la materia»15, apparivano a Bruno, almeno inizialmente, «fondamenti più corrispondenti alla natura che quei di Aristotele»16, egli osserva come «dopo aver più maturamente considerato, avendo risguardo a più cose, troviamo che è necessario conoscere nella natura doi geni di sustanza»17, la materia e la forma, l’atto e la potenza, un soggetto attivo e uno passivo: «perché è necessario che sia un atto sustanzialissimo, nel quale è la potenza attiva di tutto; et ancora una potenza et un soggetto, nel quale non sia minor potenza passiva di tutto: in quello è potestà di fare, in questo è potestà di esser fatto»18. Quest’affermazione sembrerebbe smentire il recupero della sua fonte. Tuttavia da una lettura diretta del Fons vitae emerge, come nota Terracciano, «un Avicebron meno monolitico e si riscontra la stessa ‘ambiguità’ bruniana sulla possibilità che la materia si figuri da sola, o che lo faccia con l’intervento della forma»19. Basterebbe segnalare già la sola necessità dichiarata dal filosofo ebreo di una materia universale e di una forma universale, per comprendere come l’Ibn Gabirol storico sia molto più vicino alle posizioni espresse dal Nolano, di quanto egli stesso non sia consapevole. Ciò evidenzia quanto il suo Avicebron sia debitore della mediazione, delle critiche e del giudizio di materialismo formulati da Alberto e Tommaso. Alla richiesta di Dicsono, su cui sembra pesare una suggestione averroista20, vale a dire se sia possibile intendere la materia come formata o figurata da sé stessa, considerando tutto «l’universo corpo esser materia»21, Bruno replica attraverso le parole di Teofilo ponendo, in primo luogo, Ibidem. Ivi, p. 233. 16 Ibidem. 17 Ibidem. 18 Ibidem. 19 P. Terracciano, «Nemici et impazienti di poliarchia», cit., p. 454, nota 12. 20 Cfr. Causa, p. 1060, nota 30. 21 Ivi p. 233. 14 15
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un principio metodologico per il quale «nessuno vi può impedire che vi serviate del nome di materia, secondo il vostro modo, come ad molte sette ha medesmamente raggione di molte significazioni»22: principio, questo, valido non solo nel caso della materia, ma per ogni definizione logica di ciò che appartiene alla natura e che la definizione logica può contenere ed esprimere solo limitatamente e relativamente. In secondo luogo, egli traccia una distinzione fondamentale tra una considerazione meccanicistica o materialistica della natura, quale può essere quella di un medico «che sta sulla prattica»23, di un chimico o di un meccanico che «divide l’universo corpo in mercurio, sale e solfro»24, e quella di un filosofo, il cui fine ultimo «non è de venir solo a quella distinzion de principii, che fisicamente si fa per la separazione […], ma anco a quella distinzione de principii, alla quale non arriva efficiente alcuno materiale, perché l’anima inseparabile dal solfro, dal mercurio e dal sale, è principio formale»25. La critica bruniana al meccanicismo e il distacco dal materialismo non costituiscono, però, una presa di distanza dal tema della materia 26. Il suo scopo è piuttosto quello d’indagare la natura da filosofo, non da medico o da meccanico, i quali individuano nella materia l’unico principio sostanziale, ma riconoscendo la necessaria consustanzialità del principio materiale e della causa formale. La sola materia, come concepita dalla tradizione democriteo-epicurea e da Avicebron, non può costituire una chiave interpretativa sufficiente per cogliere l’intima vitalità della natura. Nel tentativo di definire cosa sia la materia presa singolarmente, Teofilo traccia una distinzione tra una materia naturale e una artificiale: se la seconda è come il legno che «da sé non ha nessuna forma artificiale, ma tutte può avere per operazione del legnaiolo»27, la prima, invece, «da per sé et in sua natura, non ha forma alcuna ma tutte le può avere Ibidem. Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 234. 26 Cfr. ivi, p. 1061, nota 41. 27 Ivi, p. 235. 22 23
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per operazione dell’agente attivo principio di natura»28. Il principio materiale non è corporeo, ma forza o possibilità plastica che ha in sé la capacità di trasmutazione. A differenza dell’arte che «non può operare se non sulla superficie delle cose formate»29, la natura «opra dal centro (per dir cossì) del suo soggetto o materia; che è al tutto informe»30. L’analogia artigianale risulta inadeguata a esprimere il processo di autofigurazione della materia, comprensibile, invece, attraverso l’immagine della produzione spontanea per la quale «quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da questo terra, da questa pietra o altra cosa, e cossì oltre per venire a tutte forme naturali»31. L’immagine dell’autoproduzione della vita coglie ed esprime pienamente, e più efficacemente della metafora artigianale, i processi spontanei di trasmutazione degli elementi e il ciclo della vicissitudine universale: «bisogna […] che sia una medesima cosa che da sé non è pietra, non terra, non cadavero, non uomo, non embrione, non sangue o altro: ma che dopo che era sangue, si fa embrione ricevendo l’essere embrione; dopo che era embrione, riceva l’essere uomo, facendosi omo»32. Nel ricorso alla vicissitudine, al permanere di una sostanza unica, pur nella mutazione delle sue forme particolari, Bruno chiarisce l’idea di una materia non corporea che opera come principio di permanenza e, al tempo stesso, di trasmutazione. La perdita d’essere equivale alla perdita della sola forma accidentale, esteriore e fisica, ma la forma universale o anima del mondo e la materia agiscono come causa e principio consustanziali, di modo che «nessuna cosa si annihila e perde l’essere, eccetto che la forma accidentale esteriore e materiale: però tanto la materia quanto la forma sustanziale di che si voglia cosa naturale, che è l’anima, sono indissolubili et adnihilabili»33. Ibidem. Ibidem. 30 Ibidem. 31 Ivi, p. 236. 32 Ibidem. 33 Ivi, p. 239. 28 29
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3. «In che modo al fine qualche logica intenzione viene ad esser posta principio di cose naturali» Dopo aver chiarito cosa sia la materia presa singolarmente, Bruno traccia una rielaborazione del concetto di forma sostanziale, negando l’attribuzione di sostanzialità a «tutte le forme sustanziali de Peripatetici et altri simili, che consisteno […] in certa complessione et ordine di accidenti: e tutto quello che sapranno nominar fuor de la lor materia prima, non è altro che accidente, complessione, abito di qualità, principio di definizione, quiddità»34. Il problema da cui il Nolano prende le mosse è legato alla moltiplicazione del numero delle sostanze operata da «alcuni cucullati suttili metafisici»35, vale a dire gli scotisti, i quali hanno trattato gli accidenti come forme sostanziali, considerando le forme particolari al pari della sostanza: Là onde […] volendo più tosto iscusare che accusare la insufficenza del suo nume Aristotele, hanno trovata la umanità, la bovinità, lo olività, per forme sustanziali specifiche: questa umanità, come socreità, questa bovinità, questa cavallinità, essere la sustanza numerale; il che tutto han fatto per donarne una forma sustanziale, la quale merite nome di sustanza, come la materia ha nome et essere di susbstanza. Ma però non han profittato già mai nulla; perché se gli dimandate per ordine: «In che consiste l’essere sustanziale di Socrate?», risponderanno: «nella socreità»; se oltre dimandate: «Che intendete per socreità?», risponderanno: «La propria forma sustanziale e la propria materia di Socrate»36.
L’operazione scotista corrisponde alla sostanzializzazione di un principio d’individuazione, la quidditas di un elemento finito. Per Bruno, invece, la molteplicità delle denominazioni e definizioni logiche, tanto della forma quanto della materia, non denota differenze reali, ma solo possibili rappresentazioni di una sostanza unica e indivisibile. Le forme Ibidem. Ibidem. 36 Ibidem. 34 35
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finite e accidentali non sono forme sostanziali. Ogni composto finito è un accidente, generazione o explicatione dell’indissolubile legame di materia e forma. Le particolarità e le singolarità umane, vegetali o animali sono ombre e riflessi della sostanza unica, destinate a essere partorite da questa e a questa ritornare. Le forme sostanziali aristoteliche sono, perciò, pure definizioni logiche che non corrispondono a una comprensione fisica della natura. La forma particolare, principio di definizione, non designa alcuna sostanza ma esclusivamente un accidente. Bruno distingue tra quello che è indivisibile, incorruttibile, permanente, e le forme particolari, divisibili e finite, disposizioni accidentali della materia e apparenti diversità della sostanza. Tuttavia, ciò non equivale all’abbandono dell’idea di forma sostanziale, ma al suo rifiuto in senso logico aristotelico. La sostanzialità non appartiene alle forme particolari e finite, ma alla forma universale o anima del mondo, logicamente ma non naturalmente distinta dalla materia prima37. La critica bruniana è rivolta a quell’aristotelismo che ha scisso la predicazione logica della realtà dalla natura, che ha capovolto il rapporto tra queste, di modo che «al fine qualche logica intenzione viene ad esser posta principio di cose naturali»38. La caratterizzazione della sostanza come soggetto di tutte le determinazioni logiche attribuite a un ente particolare e finito non appartiene all’ambito fisico. La quidditas può sì essere assunta come sostanza in senso logico, ma esclusivamente in quanto sostrato dei predicati che la definiscono: come Bruno osserva, essa può assurgere a «forma sustanziale sì, ma non naturale, ma logica»39, poiché dal punto di vista fisico essa denota esclusivamente delle disposizioni accidentali della materia, una particolare e singolarissima complessione fisica. L’applicazione della forma sostanziale aristotelica e scotista conduce, dunque, a un rovesciamento tra il piano logico e quello fisico, per cui quest’ultimo viene a essere determinato dal primo e non viceversa. TutIvi, pp. 239-240. Ivi, p. 240. 39 Ibidem. 37
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tavia, se Aristotele si è limitato a separare questi due piani, gli scotisti si sono spinti a conferire alla quidditas un vero e proprio statuto ontologico, affidandole il titolo di forma sostanziale e rovesciando il piano dell’essere e quello della predicazione logica. Bruno rintraccia l’errore aristotelico e scotista nell’incapacità di risalire ai principi costanti, eterni e permanenti della natura, la materia prima e l’anima del mondo: questo consiste nel definire e donare a un ente particolare, astratto e logico uno statuto d’universalità fisica e metafisica. Egli riconduce l’ecceità a un soggetto puramente logico o grammaticale di una realtà accidentale. La forma particolare può essere compresa come sostanziale soltanto in un modo improprio. La quidditas è logica, non ontologica: essa non costituisce un principio reale ma il semplice supporto dei differenti attributi di un individuo determinato e particolare. Persino Aristotele dovette ammettere che «l’ultime differenze sono innominabili et ignote»40, non trovando un corrispettivo fisico del concetto logico di forma sostanziale. In queste pagine Bruno richiama nuovamente Avicebron attraverso le parole di Dicsono: riprendendo la critica della dottrina aristotelica delle forme sostanziali e associandola alla tesi degli antiqui philosophi, questi si chiede se non sia legittimo considerare la materia sola «principio necessario eterno e divino, come a quel moro Avicebron che la chiama “Dio che è in tutte le cose”»41. A questa considerazione della materia Teofilo replica osservando come non sia necessariamente erronea ma soltanto troppo affrettata la tesi di Ibn Gabirol, il quale tenne la forma «a vile in comparazione della materia»42, non avendo compreso «quello che conosciamo noi»43: l’interdipendenza ontologica tra il principio materiale e la causa formale o anima del mondo, vera forma sostanziale. Tuttavia, Teofilo non rifiuta completamente la richiesta di Dicsono, ovvero «se per la grande unione, che ha questa anima del mondo e forma universale con la materia», possa essere legittimo «quell’altro modo e Ibidem. Ivi, p. 242. 42 Ibidem. 43 Ibidem. 40 41
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maniera di filosofare, di quei che non separano l’atto della raggion della materia, e la intendono cosa divina: e non pura et informe talmente, che lei medesma non si forma e vesta»44. Questa tesi, che è poi quella di Avicebron e di «molti più antichi filosofi»45, non è erronea, ma soltanto una delle possibili vie nella conoscenza della natura, «perché è cosa da ambizioso, e cervello presuntuoso, vano et invidioso, voler persuadere ad altri, che non sia che una sola via di investigare»46. Come sono leciti diversi tipi di medicina a seconda del male da curare, così è legittimo ricorrere a differenti modi di filosofare nella cognizione della natura: tra queste «quella è la meglior che più comoda et altamente effettua la perfezzion de l’intelletto umano, et è più corrispondente alla verità della natura»47. L’esigenza di riconoscere legittimità a una pluralità di lessici e approcci filosofici è qui funzionale ad accreditare sia la tesi di Avicebron sia quella degli antiqui philosophi. Bruno può così sostenere come anche le filosofie che non si sono spinte oltre la definizione di materia e forma, non siano da rigettare, ma costituiscano validi strumenti nella conoscenza della natura. 4. La materia come potenza e la materia come soggetto. Il ricorso a Cusano Nonostante la sua legittimità, la tesi di Avicebon lascia ancora intatto il problema della distinzione tra la materia e la forma, su cosa possa fondarsi e come queste possano essere considerate nella loro unità. La questione è centrale nell’architettura del discorso ontologico De la causa e della nolana filosofia. La differenza tra materia e forma poggia aristotelicamente sulla distinzione tra la potenza e l’atto, l’efficiente e il ricevente, l’agente e il Ibidem. Ivi, p. 243. 46 Ibidem. 47 Ivi, p. 244. 44 45
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paziente, opposti e, in apparenza, irriducibili. Com’è possibile, allora, ritrovare quella «grande unione che ha quest’anima del mondo e forma universale con la materia»48? Bruno sottopone il concetto di materia a una fondamentale distinzione: essa può essere considerata in due modi, «prima come una potenza, secondo come un soggetto»49. La materia in quanto potenza non è il semplice ricettacolo delle forme, ma soggetto attivo nel portare a compimento l’atto. La potenza passiva non è sinonimo d’«imbecillità»50, di una debolezza o passività assoluta, ma è immagine dell’infinità informata della materia: […] la potenza comunemente si distingue in attiva per la quale il soggetto di quella può operare, et in passiva per la quale o può essere, o può ricevere, o può avere, o può essere soggetto di qualche efficiente in qualche maniera. De la potenza non raggionando al presente, dico che la potenza che significa in modo passivo (benché non sempre sia passivo) si può considerare [o relativamente] o vero assolutamente; e cossì non è cosa di cui si può dir l’essere, della quale non si dica il posser essere. E questa sì fattamente risponde alla potenza attiva, che l’una non è senza l’altra in modo alcuno: onde se sempre è stata la potestà di fare, di produrre, di creare, sempre è stata la potenza di esser fatto, produto e creato; perché l’una potenza implica l’altra: voglio dir con esser posta, lei pone necessariamente l’altra. La qual potenza, perché non dice imbecillità in quello di cui si dice, ma più tosto confirma la virtù et efficacia, anzi al fine si trova che è tutt’uno et a fatto la medesma cosa con la potenza attiva, non è filosofo né teologo che dubiti di attribuirla al primo principio sopra naturale51.
Il lessico e le categorie utilizzate in questo passo del dialogo III del De la causa sono ripresi pressoché testualmente dal De possest e dal De docta ignorantia di Cusano. Bruno segue e ricalca fedelmente l’opera Ivi, p. 242. Ivi, p. 246. 50 Ivi, 247. 51 Ibidem. 48 49
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cusaniana e l’idea che atto, potenza e il loro nexus, costituiscano un legame trinitario indissolubile e originario52. La tesi secondo la quale la potenza passiva «è tutt’uno et a fatto la medesma cosa con la potenza attiva» e non vi è «filosofo né teologo che dubiti di attribuirla al primo principio sopra naturale», esprime sia una sintesi del trinitarismo cusaniano, sia la sua trasposizione filosofico naturalistica. Partendo dalla distinzione e dall’implicazione reciproca di potenza e atto, Bruno ne afferma la loro consustanzialità, identità e unità, rappresentazione di quel principio sovrannaturale che non è più il Dio trinitario della teologia espresso da Cusano con il termine posse-est, ma l’unità divina e naturale della nolana filosofia. Il ricorso bruniano a un primo principio sopra naturale nel delineare la relazione tra materia e forma può lasciare incerti. Ma ciò non deve stupire, se si considera che tutta l’argomentazione è una riformulazione del lessico e delle categorie teologiche elaborate da Cusano, finalizzate all’affermazione della coincidenza di potenza e atto, non nell’immagine del Dio cristiano, ma nel cuore della natura. Il discorso non si allontana semplicemente dal dominio della filosofia naturale per attingere a quello teologico. Con il ricorso alla prova teologica e a un principio sovrannaturale, Bruno intende, come rileva Secchi, «‘naturalizzare’ il linguaggio teologico, proponendo al contempo il risultato di tale slittamento come la “vera o nova teologia”»53. Non è questa un’incursione momentanea nel campo teologico, né una semplice tendenza «a riferire alla natura molte delle caratteristiche
Cfr. N. Cusano, Trialogus de possest, in Opere filosofiche, teologiche e matematiche, E. Peroli (a cura di), Milano 2017, rr. 6-7, p. 1356: «Nec potest iam dicta possibilitas prior esse actualitate quemadmodum dicimus aliquam potentiam praecedere actum. Non quomodo prodisset in actum nisi per actualitatem? Posse enim fieri si se ipsum ad actum produceret, esset actu antequam actu esset. Possibilitas ergo absoluta, de qua loquimur, per quam ea quae actu sunt actu esse possunt, non praecedit actualitatem neque etiam sequitur. Quomodo enim actualitas esse posset possibilitate non existente? Coeterna ergo sunt absoluta potentia et actus utriusque nexus. Nec plura sunt aeterna, sed sic sunt aeterna quod ipsa aeternitatis». 53 P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante». Bruno e Cusano, Roma 2006, p. 103. 52
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attribuite al Dio cristiano»54. Si tratta, invece, di un’operazione di spoliazione e liberazione dell’elemento teologico da quelle categorie, recuperandole e restituendole al loro originario dominio filosofico naturale. L’operazione che Bruno compie attraverso la riformulazione della fonte cusaniana e la trasposizione del trinitarismo e dell’idea di coincidentia e unità del molteplice, sottesa alla nozione di legame, è l’inveramento della formulazione platonico-parmenidea del δεσμ όςσύνδεσμ ος, del vinculum-nexus, come legame dell’essere. Restituire legittimità al lessico e alle categorie della filosofia naturale, liberando questi termini e questi concetti dall’appropriazione e dall’uso che la teologia ne aveva fatto, per ricondurli alla loro più antica e autentica origine filosofica, inverando i motivi latenti di quelle filosofie: è questo il percorso compiuto in queste pagine del De la causa. 5. «Il primo et ottimo principio» come identità di potenza e atto La ripresa del concetto cusaniano di coincidentia oppositorum è per Bruno funzionale a definire come la coincidenza in natura dell’atto e della potenza non sia inverosimile, ma attestata dall’autorità di più antichi teologi e filosofi. Non è illegittimo, trasponendo le categorie teologiche nel campo della filosofia naturale, sostenere che in natura «l’atto e la potenza son la medesima cosa»55: Per che la possibilità assoluta per la quale le cose che sono in atto, possono essere, non è prima che la attualità, né tampoco poi che quella: oltre il posser essere è con lo essere in atto, e non precede quello; per che se quel che può essere facesse se stesso, sarebbe prima che fusse fatto. Or contempla il primo et ottimo principio, il quale è tutto quel che può essere; e lui medesimo non sarebe tutto, se non potesse essere tutto: in lui dumque l’atto e la potenza son la medesima cosa. Non è cossì nelle altre cose, le quali quantumque sono quello che possono essere, 54 55
Ibidem. Causa, p. 247.
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potrebono però non esser forse; e certamente altro, o altrimente che quel che sono: perché nessuna altra cosa è tutto quel che può essere56.
Attraverso il ricorso alla coincidentia oppositorum cusaniana, il Nolano supera le aporie lasciate aperte dalla tesi avicebroniana. Dopo aver precisato il rapporto che intercorre tra la potenza e l’atto, egli distingue il modo della coincidentia sul piano della loro unità e identità, in cui questa è assoluta, e sul piano della molteplicità, in cui è relativa. Se nella complicatione della causa e principio primo atto e potenza sono una medesima cosa, così non è per nell’ambito dell’explicato, delle manifestazioni finite della sostanza: Non è cossì nelle altre cose, le quali quantumque sono quello che possono essere, potrebono però non esser forse; e certamente altro o altrimente che quel che sono: perché nessuna altra cosa è tutto quel che può essere. Lo uomo è quel che può essere, ma non è tutto quel che può essere. La pietra non è tutto quello che può essere, per che non è calci, non è vase, non è polve, non è erba. Quello che è tutto quel che può essere è uno, il quale nell’esser suo comprende ogni essere. Lui è tutto quel che è, e può essere qualsivogli’altra cosa che è e può essere. Ogni altra cosa non cossì: però la potenza non è equale all’atto, perché non è atto assoluto ma limitato; oltre che la potenza sempre è limitata ad uno atto, perché mai ha più che uno essere specificato e particolare; e se pur guarda ad ogni forma et atto, questo è per mezzo di certe disposizioni, e con certa successione di uno essere dopo l’altro57.
La differenza qui posta è tra l’infinità assoluta dell’Uno e quella dell’universo. Seguendo passo dopo passo l’argomentazione cusaniana, Bruno la traspone e la riformula in una prospettiva non più creazionista, ma generativa. Mentre per Cusano la coincidenza di potenza e atto, come rileva Dagron, «ne prend son sens que dans un schéma création-
56 57
Ibidem. Ibidem.
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niste, qui rapporte les réalités finies au premier principe surnaturel»58, per il Nolano, invece, essa assume validità non più dal punto di vista teologico, ma filosofico naturale. La teologia cusaniana fonda la coincidenza di potenza e atto sull’impossibilità di un salto nell’orizzonte del creato: solo nell’articolazione interna a Dio, nella sua natura trinitaria, vi è coincidenza assoluta, identità e uguaglianza: «Omnia autem quae post ipsum sunt cum distinctione potentiae et actus, ita ut solus deus id sit quod esse potest, nequamquam autem quaecumque creatura, cum potentia et actus non sint idem nisi in principio»59. Per comprendere l’evoluzione della riflessione ontologica interna al De la causa occorre ripercorrere la torsione a cui Bruno sottopone il De possest di Cusano. Il termine possest esprime al suo interno una struttura non binaria ma trinitaria60, la cui coincicdentia incarna il tentativo di fondare, attraverso le categorie di posse, esse e nexus, potenza, atto e del loro legame, la dottrina della consustanzialità delle tre persone divine. Il possest rappresenta la congiunzione del Padre e del Figlio per mezzo del nexus, o Spirito Santo, del nodo che unisce i due estremi della Trinità. Ciò è possibile poiché il Figlio è unigenito, tra lui e il Padre non vi è un rapporto di creazione ma di generazione. Nella creazione, invece, non vi è identità né uguaglianza tra il creatore e la creatura, ma un’incolmabile distanza. Si tratta della distinzione tra l’azione ad intra con la quale Dio genera il Verbo e l’azione ad extra con la quale crea il mondo: il rapporto di uguaglianza è possibile esclusivamente tra Dio e il Verbo, poiché solo tra loro vi è assoluta Aequalitas61, mentre non può esservi coincidenza tra la creatura e il creatore, tra la misura e il misurato. Questa formulazione trinitaria conduce a una spaccatura tra il creatore e la creatura, tra l’infinità assoluta di Dio e la finitezza degli enti creati. La concezione cosmologica che ne deriva mostra, da un 58 T. Dagron, Unité de l’ être et dialectique. L’ idée de philosophie naturelle chez Giordano Bruno, Vrin, Paris, 1999, p. 330. 59 N. Cusano, Trialogus de possest, in Opere, cit., rr. 7-8, p. 1356. 60 Cfr. P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante», cit., pp. 112-113. 61 Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, in Opere, cit., lib. I, cap. 8, rr. 22-23, p. 30.
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lato, come l’indeterminabilità e l’assenza di precisione siano «inscritte nel codice genetico della contractio»62, dall’altro, che l’universo creato possa essere considerato esclusivamente privative infinitum, indefinito, allontanamento dei principiati dal principio. Stabilendo una priorità dell’esigenza teologica su quella ontologica, per Cusano la creatura è imperfetta, privazione, ciò di cui non è possibile predicare né la precisione né l’uguaglianza. Bruno abbandona il percorso cusaniano sul terreno della teologia, per trasporlo sul piano della filosofia naturale, rimproverando al cardinale di essere rimasto «imbibito»63 nella contraddizione trinitaria. Egli cala la coincidentia oppositorum, il nexus, il legame, l’unità e l’identità dell’atto e della potenza, nel cuore della natura, riformulando e naturalizzando, con Cusano e oltre Cusano, la tesi del De possest. Nella prospettiva della nolana filosofia, non possono convivere in uno stesso soggetto, qual è il Cristo, una natura divina infinita e una umana finita. Tra la sfera del finito e quella dell’infinito non vi è proporzione, ma uno scarto incolmabile. Se ciò appare teologicamente inammissibile nella descrizione del divino, così non è sul piano della riflessione naturalistica. Nella sua trasposizione e rilegittimazione filosofica, la Trinità, intesa come il vincolo tra l’infinità della causa e principio primo e l’unigenita natura, assume una sua legittimità teoretica e ontologica. L’applicazione della coincidentia oppositorum in naturalibus e non più in divinis porta con sé la rivalutazione del creato, o meglio del generato. Prodotto della generazione divina non è più il Cristo, il Figlio e il Verbo della teologia cristiano-cattolica, ma la natura, consustanzialmente legata all’Uno o Dio. Bruno recupera dal De possest di Cusano l’intuizione che per essere bisogna innanzitutto poter essere. Una potenza attiva che opera come causa efficiente e formale, e una potenza passiva, intesa in un duplice senso: passivamente come sostrato, possibilità d’azione dell’agente, e attivamente come ciò che attua l’agente stesso. È il riconoscimento di questa relazione necessaria e indissolubile, questo legame tra potestà 62 63
P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante», cit., p. 175. Infinito, p. 382.
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di fare e potestà d’esser fatto che egli ricava dalla distinzione tra posse facere e posse fieri del De possest. Ma egli può seguire la via tracciata da Cusano soltanto sul terreno filosofico, non teologico, recuperando la soluzione filosofica, vale a dire l’interdipendenza ontologica, il nexus di potenza e atto. La considerazione della natura come unigenita comporta un continuo e inarrestabile processo di generazione, non esterno, ma interno alla natura stessa: un principium plenitudinis per il quale l’Uno complicato partorisce o explica eternamente, da materia infinita, forme finite sempre differenti: Ogni potenza dumque et atto che nel principio è come complicato, unito et uno, nelle altre cose è esplicato, disperso moltiplicato. Lo universo che è il grande simulacro, la grande imagine e l’unigenita natura, è ancor esso tutto quel che può esser per le medesime specie e membri principali e continenza di tutta la materia; alla quale non si aggionge e dalla quale non si manca, di tutta et unica forma: ma non già è tutto quel che può essere per le medesime differenze, modi, proprietà et individui; però non è altro che un’ombra del primo atto e prima potenza, e per tanto in esso la potenza e l’atto non è assolutamente la medesima cosa, per che nessuna parte sua è tutto quel che può essere. Oltre che in quel modo specifico che abbiamo detto, l’universo è tutto quel che può essere, secondo un modo esplicato, disperso, distinto: il principio suo è unitamente et indifferentemente; perché tutto è tutto il medesmo semplicissimamente, senza differenza e distinzione64.
Mentre l’Uno o Dio è in atto tutto ciò che può essere, in modo contratto, complicato, gli enti individui, gli accidenti, in quanto explicati, sono ciò che sono ma non sono in atto tutto ciò che possono essere. È qui implicita l’identità dell’Uno con la materia, considerata nella sua unità col principio formale. Materia e forma, nella loro unità e complicatione, sono la causa e principio primo infinita, la coincidentia assoluta 64
Causa, p. 248.
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di potenza e atto, mentre nella loro explicatione, nel loro dispiegarsi assumono una forma finita e una coincidenza relativa. 6. Filosofia naturale e vera teologia: «diversi modi di diffinire della divinità» La riformulazione che Bruno attua del lessico e delle categorie teologiche cusaniane affonda le radici nella necessità di ripensare e affermare una rinnovata immagine di Dio e della natura. La trasposizione naturalistica della coincidentia oppositorum e dell’identità trinitaria di potenza, atto e del loro nexus, non è, nella sua prospettiva, contraria alla religione, ma pur non avendo «quel medesimo senso e modo di diffinire della divinità»65 che hanno i teologi, «non è però contrario né alieno da quello, ma più chiaro forse e più esplicato»66. Questa distinzione tra due modalità di definire la divinità, uno proprio alla teologia, l’altro alla filosofia, apre al riconoscimento di essa nell’immanenza della causa e principio primo e, al tempo stesso, dell’inconoscibilità di «tanto altissima luce e sì profondissimo abisso»67. La divinità non è ontologicamente differente dall’universo, prodotto della sua generazione, ma consustanziale a esso e infinitamente presente sotto forma di principio vitale eternamente generante, garante dei mondi e della loro permanenza. Questa conoscenza, sapienza e comprensione della divinità, ontologicamente immanente alla natura e gnoseologicamente trascendente, non è, però, patrimonio della teologia, ma della filosofia naturale, «conforme alla vera teologia e degna d’esser faurita dalle vere religioni»68: E quanto appartiene al nostro proposito è impossibile […] che si trove teologo che mi possa imputar impietà, per quel che dico et intendo Ivi, p. 252. Ibidem. 67 Ivi, p. 251. 68 Cena, p. 13. 65
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della coincidenza della potenza et atto, prendendo assolutamente l’uno e l’altro termino. Onde vorrei inferire che […] in questo simulacro di quell’atto e di quella potenza, per essere in atto specifico tutto quel tanto che è in specifica potenza, pertanto che l’universo secondo tal modo è tutto quel che può essere […], viene ad avere una potenza la quale non è absoluta dall’atto; una anima non absoluta dal animato, non dico il composto, ma il semplice: onde cossì del universo sia un primo principio che medesmo se intenda, non più distintamente materiale e formale; che possa inferirsi dalla similitudine del predetto, potenza absoluta et atto69.
In questo passo del De la causa Bruno accenna a una questione già presente nella Cena, e sviluppata in modo sistematico nel De l’ infinito e nel De immenso: quella che Granada ha riconosciuto come la decostruzione della distinzione teologica tra potentia Dei ordinata e potentia Dei absoluta70. La potenza infinita di Dio considerata in sé stessa è absoluta. Tuttavia, Dio può scegliere liberamente di agire non in modo absoluto, ma secondo potentia ordinata, ponendo un limite alla sua stessa azione. La potentia absoluta può essere anche definita extraordinaria, capacità di agire al di là dell’ordine naturale: la creazione e il miracolo, sono, in questo senso, atti divini extraordinari. Dio è libero di creare come di non creare. Con ciò è garantita l’infinità della sua potenza e, allo stesso tempo, l’affermazione di un cosmo finito, sia per scelta divina, sia per l’incapacità della materia passiva di accogliere l’infinito in atto. Bruno rifiuta questa distinzione, denunciandone tutta la sua contraddittorietà sino a considerarla blasfema: «blasphemia vero est facere Deum alium a Deo»71. Seppur sottotraccia, il suo rifiuto agisce già in queste righe del De la causa, costituendo anche nelle opere successive un elemento teorico necessario alla trasposizione della coincidenza di Causa, p. 252. Cfr. M. A. Granada, Il rifiuto della distinzione tra «potentia absoluta» e «potentia ordinata» di Dio e l’affermazione dell’universo infinito in Giordano Bruno, in «Rivista di storia della filosofia», a. XCIV, n. s., 3 (1994), p. 502. 71 Cfr. De immenso, p. 320. 69 70
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atto e potenza dalla Trinità teologica all’unità della natura, nonché nella definizione di un’idea di Dio radicalmente differente da quella cristiana. Nel De l’ infinito, ad esempio, definendo l’infinità di Dio e quella dell’universo e in che modo atto e potenza coincidano nell’uno e nell’altro, egli recupera le categorie cusaniane di complicatio ed explicatio riformulate nel De la causa, esplicitando, altresì, il rifiuto della distinzione tra potentia Dei absoluta e potentia Dei ordinata72. Da questo rifiuto egli può pensare, non più nella formulazione teologico trinitaria ma nell’unità complicata di materia e forma, la coincidenza assoluta di potenza, atto e del loro nexus, e la coincidenza relativa nella loro explicatione. Inoltre, mentre in questa distinzione teologica della potenza vi è separazione tra libertà e necessità in Dio, egli propone un’immagine della divinità in cui non sussiste più alcuna separazione degli attributi, ma in cui la libera volontà divina coincide con la necessità, vale a dire con la vicissitudine universale. Dio non può non generare eternamente e manifestare infinitamente la sua potenza. Ammettere una potentia ordinata vorrebbe dire limitarne la sua potenza. È questo un Dio svuotato di ogni carattere antropomorfo, inteso come principio vitale e generatore infinito, continuamente partoriente nuova vita sotto infinite forme sempre differenti. La decostruzione e il rifiuto della distinzione tra potentia Dei absoluta e potentia Dei ordinata porta all’immagine di una divinità dai tratti non più umani ma naturali, una vicissitudine necessaria ed eterna. Un Dio, questo, che non guarda più all’essere umano nei termini del Infinito, pp. 334-335: «Come vuoi tu che Dio, e quanto alla potenza, e quanto a l’operazione, e quanto a l’effetto, (che in lui son medesima cosa), sia determinato, e come termino della convessitudine di una sfera: più tosto che (come dir si può) termino interminato di cosa interminata? Termino dico senza termine: per esser differente la infinità dell’uno da l’infinità dell’altro; perché lui è tutto l’infinito complicatamente e totalmente: ma l’universo è tutto in tutto (se pur in modo alcuno si può dir totalità dove non è parte né fine) explicatamente, e totalmente; per il che l’uno ha raggion di termine, l’altro ha raggion di terminato, non per differenza di finito et infinito, ma perché l’uno è infinito e l’altro è finiente secondo la raggione del totale e totalmente essere in tutto quello che, benché sia tutto infinito, non è però totalmente infinito: perché questo ripugna alla infinità dimensionale». 72
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peccato e della salvezza, ma come a un ente naturale al pari di tutti gli altri. Allo stesso tempo, la definizione di Dio come di un principio vitale e generatore infinito, vincolo indissolubile di materia e forma, porta con sé l’affermazione dell’infinità dell’universo e della pluralità dei mondi, tesi cosmologica centrale del De l’ infinito, che Bruno ribadisce persino di fronte agli inquisitori veneti, proprio in virtù di questa ridefinizione del divino73. Con l’affermazione dell’infinità dell’universo e dell’innumerabilità dei mondi, egli scardina da una prospettiva filosofico-teologica, prim’ancora che fisica, la gerarchia del cosmo cristiano e aristotelico-tolemaico. Dal punto di vista dell’infinito svanisce la possibilità d’intravedere nell’universo una costruzione ordinata, una struttura gerarchica, in cui lo sguardo umano è l’unico ammissibile. L’essere umano non è più l’unico osservatore, ordinatore e costruttore del cosmo, il suo centro, ma egli annega nell’immensità e nella perdita di senso che l’infinito porta con sé. Ciò comporta non soltanto lo scardinamento della cosmologia aristotelico-tolemaica, ma ancor più il superamento dell’escatologia cristiana. La Terra non è più l’unico luogo in cui possano manifestarsi il bene e il male, la nascita e la morte, la presenza di Dio come redenzione per mezzo dell’incarnazione del Verbo. La scoperta e l’affermazione dell’infinito fanno sì che tutto l’universo sia assolutamente omogeneo, che ogni mondo o pianeta sia composto degli stessi atomi ed elementi, che ognuno di essi sia scandito dal ritmo della vicissitudine. Nell’universo infinito non esiste centro assoluto, non vi sono corpi perfetti o imperfetti, ma tutto è soggetto a eterna mutazione e continuo movimento. Lo spazio è troppo vasto perché si possa affermare un solo e unico centro, che sia la Terra o il Sole, così come un solo e unico Verbo. Onnicentricità dell’universo, pluralità dei mondi, molteplicità e relatività dei punti di osservazione, distruzione di ogni forma d’escatologia: sono queste le conseguenze a cui Bruno giunge con la decostruzione dell’immagine del Dio della teologia cristiana e il rifiuto della distinzione tra potentia Dei absoluta e potentia Dei ordinata, della Trinità e dell’Incarnazione. 73
Cfr. Processo, pp. 167-168.
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7. «Potentia et actus utrusque nexus». Vinculum e nexus di materia e forma Ricavato dal lessico teologico tomista e cusaniano, il termine nexus è impiegato, insieme a connexio74, sin dal De umbris, a indicare l’ordine del reale, la concatenazione tra le realtà superiori e le inferiori, le materiali e le spirituali, il tramite che rende possibile la comunicazione tra diversi livelli dell’essere e il legame necessario di «materiam formatam formamque materialem»75, attraverso cui la natura può operare. Senza questo legame non si darebbe alcuna operazione da parte della natura: «Hic est nexus ille, quo abacto, nullum prorsus opus est, quod natura valeat effingere»76. Che il nexus tra potenza e atto, materia e forma, abbia in Bruno una provenienza teologica e sia trasposto dal legame trinitario in divinibus nella filosofia naturale ce lo testimonia un passo della Summa terminorum metaphysicorum. Tra gli articoli XV e XVII, dedicati alla distinzione tra Relatio, Actio e Passio, egli riformula e fonde insieme, naturalizzandole, sia la definizione tomista della Trinità come «amor […] vinculum vel nexus»77 tra Padre e Figlio, sia la formulazione cusaniana della stessa come coincidenza e coeternità di «potentia et actus utriusque nexus»78: Actio illius, ut consequitur essentiam atque potentiam est infinita et subiectum requirit infinitum, quam quidem esse necesse est, ut omnes tum theologi, tum principes philosophantes intelligunt; sed illius actum quidam collocant in ipsa divinitate, ut infinitum patrem infinitum generare filium asserant, nempe infinitam mentem infinitum intellectum, et ex hac relatione patris et filii cognoscentis et cogniti, Cfr. De umbris, p. 50, pp. 52-54, pp. 56-60. Ivi, p. 142. 76 Ibidem. 77 S. Tommaso d’Aquino, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, Libro I, Distinzioni 1-21, introduzione di I. Biffi, trad. it. P.R. Coggi, con testo integrale di Pietro Lombardo, Bologna 1999, vol. I, d. 10, q. 1, a. 3, p. 598. 78 N. Cusano, Trialogus de possest, in Opere, cit., rr. 6-7, p. 1356. 74
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vicissitudinalique quadam seu vicissim commeante relatione, complicentia illa cognoscentis et cogniti propter compertam infinitam pulchritudinem, quam pater in filio, filius in patre unicam contemplatur, sequatur infinitus ille amor utriusque nexus, ita ut non sint tria numina substantialiter distincta, sed unus Deus se ipso se ipsum cognoscens et amans79.
Se il lessico e le categorie di Padre, Figlio e del loro nexus, sono quelle della teologia, non lo è più la trinità qui definita. Il Nolano comprende le tre persone divine nei termini dell’unità della causa e principio primo come potenza, atto e amore o legame, mens, hyle, Deus corrispondenti a mente, intelletto e amore, le quali possiedono un rapporto diretto con il mondo sensibile e una specifica funzione: tutte le cose «hanno prima l’essere per raggione della mente, doppoi l’ordinato essere et distinto per raggione dell’intelletto, terzo la concordia et simitria per raggione dell’amore»80. Nella Lampas, scritto temporalmente vicino alle lezioni raccolte nella Summa e contemporaneo alla redazione del De vinculis, egli deifisce la trinità in questo stesso senso, assegnando al Padre la mente o pienezza, al Figlio l’intelletto primo e la luce, allo spirito dell’universo l’amore: «mens super omnia sedet, intellectus omnia videt et distribuit, amor omnia fabricat et disponit»81. Questi termini non indicano tre sostanze o persone distinte, ma definiscono la connessione tra la dimensione naturale divina infinta o complicata e quella sensibile finita explicata. Il Padre e il Figlio, la mente infinita e l’intelletto primo esprimono la relazione, il vincolo d’amore tra Dio e l’universo generato82. In questa trasposizione e naturalizzazione della trinità, della relazione tra Dio Padre e l’universo Figlio unigenito, il nexus assume una funzione necessaria in quanto amore che lega l’uno all’altro: «Ipse est nexus rerum Summa, pp. 79-80. Processo, p. 168. 81 Lampas, p. 1045. 82 Cfr. E. Fantechi, La posizione sulla Trinità e la riflessione metafisica di Bruno, in Favole, metafore, storie, cit., p. 396, p. 406. 79
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omnium, unde daemon magnus et geminus Cupido appellatur»83. Se l’intelletto primo, l’universo, dona alle cose la loro forma specifica e particolare, il nexus, essendo amore, dona loro «connexionem, unionem et ordinem»84, facendo dei «contraria unum, diversa unitum, omnia universum»85. Lo spirito o amore è un «ignis ardens, quia Cupidini attribuitur nexus seu laqueus quo connectat»86. La fusione e la trasposizione filosofica del lessico teologico trinitario sono già espresse nel De la causa attraverso la naturalizzazione della coincidenza cusaniana di atto, potenza e del loro nexus. Se per Cusano, il nexus o amor pone la co-eternità e l’unione delle persone divine, per Bruno questo è, invece, il principio che garantisce la «partecipazione»87 e la «colligazione»88 tra tutte le cose, permettendo di leggere la natura in termini unitari come legata da un «principio di subsistenza»89. Il nexus è il ligamen, il vinculum che garantisce l’unione e la consustanzialità di materia e forma. Tuttavia, se nel De la causa, egli cela il richiamo al nexus e alla terminologia teologica trinitaria, non può celare il riferimento al lessico della coincidentia della materia nella forma e viceversa. Il nexus non è soltanto il primo e originario legame naturale tra materia e forma, ma ciò che permette, altresì, il movimento e la mutazione intese come perenne desiderio di perfezionamento, amor. Questo principio erotico-spirituale è la legge iscritta nella natura che tiene uniti gli opposti, il motore che genera infinitamente vita, immanente alla natura nella sua unità e a ogni singolo composto. Nexus e amor non sono i termini di una legge sovrana che domina l’universo dall’esterno, ma esprimono «l’onnipervasività dell’amore come legge di natura»90. Pertanto, l’amore non è limitato alle tre persone divine, non è soltanto in tre luoghi, non è il Dio uni-trino di Cusano, ma forza immanente all’uLampas, p. 1060. Ibidem. 85 Ibidem. 86 Ibidem. 87 Causa p. 261. 88 Ibidem. 89 Ibidem. 90 P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante», cit., p. 143. 83
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niverso o l’universo stesso. Non esistono in natura vuoti d’amore, poiché ogni composto è amore. Il Dio uni-trino è così trasposto nell’Uno-Dio tutto, infinito nella sua complicatione. Ogni corpo explicato porta con sé i semi di questa unità, stabilendo l’omogeneità materiale e formale di tutto l’universo. L’Uno è seme e germe di ogni possibile esistenza. In esso ogni accidente perde la propria individualità e finitezza per essere assorbito nella complicatione dell’infinita unità. La differenza tra l’Uno e l’universo, tra l’infinito e gli accidenti che lo popolano, risiede nella ricerca da parte di questi ultimi non di «altro essere, ma altro modo di essere»91. L’universo è un’infinità explicata in cui l’atto e la potenza non coincidono come nella loro complcatione. Al tempo stesso, però, essendo generato e non creato, esso possiede una capacità infinita di metamorfosi, per cui ogni composto o aggregato, mai si annichila ma eternamente ritorna alla sua causa e principio primo per assumere nuova forma. È questa la distinzione tra l’infinità dell’Uno e quella dell’universo, affermata nella conclusione del dialogo III del De la causa: Uno è quello che è tutto e può esser tutto assolutamente. Nelle cose naturali non veggiamo cosa alcuna, che sia altro che quel che è in atto, secondo il quale è quel che può essere per aver una specie di attualità: tuttavia né in questo unico esser specifico giammai è tutto quel che può essere qualsivoglia particulare. Ecco il sole: non è tutto quel che può essere il sole, non è per tutto dove può essere il sole, per che quando è a oriente a la terra, non gli è a occidente, né meridiano, né di altro aspetto. Or se vogliamo mostrar il modo con il quale Dio è sole, diremo (perché è tutto quel che può essere) che è insieme oriente, occidente, meridiano, merinozziale, e di qualsivoglia di tutti i punti de la convessitudine della terra: onde se questo sole (o per sua revoluzione, o per qualla de la terra) vogliamo intendere che si muova e muta loco, perché non è attualmente in un punto secondo potenza di essere in tutti gli altri, e però have attitudine ad esservi: se
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Ivi, p. 280.
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dumque è tutto quel che può essere, e possiede tutto quello che è atto a possedere, sarà insieme per tutti et in tutto […]92.
A fondamento di questa considerazione Bruno applica la distinzione, ancora una volta cusaniana, tra complicato ed explicato, la quale permette di pensare a una materialità del divino non corporea, ma absoluta potentia. Pur permanendo uno scarto tra il principio e i principiati, tra finito e infinito, il ricorso alla complicatio lascia intravedere come all’atto divino debba necessariamente corrispondere una materia-potenzialità assoluta. È la trasposizione del nexus teologico trinitario tra il Padre e il Figlio nel legame naturale tra materia e forma a fondare la possibilità di pensare, oltre platonismo e aristotelismo, una materia incorporea comune tanto al mondo sensibile quanto a quello intellegibile93. 8. La materia come soggetto Nell’apertura del dialogo IV del De la causa, Bruno passa in rassegna gli appellativi con cui nella tradizione filosofica, sia platonica, sia aristotelica, è stata definita la materia. Per bocca di Polihimnio, espressione, della pedanteria accademica, egli traccia un paragone tra la materia e la donna: «la donna non è altro che materia. Se non sapete che cosa è donna, per non saper che cosa è materia, studiate alquanto gli Peripatetici che con insegnarvi cosa è materia, te insegnano cosa è donna»94. Questo motivo compare già nel Candelaio, dove il pedante Manfurio ossserva come la donna non sia altro che «una muliercula, quod est per ethimologiam mollis Hercules, opposita iuxta se posita: sexso molle, fragile ed incostante, al contrario di Ercole»95. Ma se nella commedia, l’accostamento della donna alla materia è accennato in senso escluCausa, pp. 249-250. Cfr. ivi, p. 251. 94 Ivi, 259. 95 Candelaio, p. 45 92 93
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sivamente passivo e negativo, nel dialogo londinese, egli lo riprende rovesciandolo in senso attivo e positivo. Dalla considerazione femminea e peccatrice della materia egli giunge a ripensare un’immagine della stessa come materna, divina e generatrice infinita di vita, ribaltando le affermazioni di Polihimnio. Al pedante che individua nella materia la «caggion d’ogni male, passione, difetto, ruina, corrozione»96, poiché se questa si «contentasse della forma presente, nulla alterazione o passione arebbe sopra di noi, non moriremmo, saremmo incorruttibili et eterni»97, Gervasio, suo polemico interlocutore, replica ricorrendo all’insaziabile desiderio della materia d’assumere un’infinità di forme sempre differenti, garantendo il ritmo universale della vicissitudine e della vita98. Nella premessa del De vinculis Bruno riprende il tema del desiderio insito nella materia di trasmutare in forme sempre differenti. Il processo di metamorfosi della materia da una forma all’altra, secondo il ciclo della vicissitudine, costituisce il riconoscimento del naturale ritmo della vita. Questo è il fondamento ontologico in cui è pensabile la magia per vincoli: «eandem licet subiectam materiam in varias formas atque figuras transmigrantem, ut continue ad vinciendum aliis atque aliis et nodorum utendum sit speciebus»99. L’instancabilità della materia, nel suo vincolo con la forma o anima mundi, nel partorire nuove forme di vita, pone il principio non creazionistico della generazione spontanea. Nella prospettiva dell’infinito non vi è nascita né morte, ma un movimento generativo in cui la causa e principio primo explica forme infinite da materia infinita, riempiendo di vita la totalità dell’universo. Questo Causa, p. 259. Ibidem. 98 Ivi, 260: «E se la si fosse contentata di quella forma che avea cinquanta anni addietro, che direste? Sareste tu Polihimnio? Se si fusse fermata sotto quella di quaranta anni passati, sareste sì adultero, (dico) sì adulto, sì perfetto e sì dotto? Come dumque ti piace che le altre forme abbiano ceduto a questa, cossì è in volontà de la natura che ordina l’universo, che tutte le forme cedano a tutte. Lascio che è maggior dignità di questa nostra sustanza, di farsi ogni cosa ricevendo tutte le forme, che ritenendone una sola, et essere parziale. Cossì al suo possibile ha la similitudine di chi è tutto in tutto». 99 De vinculis, p. 415. 96 97
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«desiderio di identificazione corporea»100, fa sì che l’anima mundi formi infiniti corpi e la materia di cui essi sono composti muti senza mai dissolversi. Si tratta di un principio di generazione e conservazione della materia, la quale cambia la propria forma per continuare a vivere: è questa la legge, posta in termini animistici e fisiologici, non quantitativi, che sta alla base del movimento e del mutamento dei corpi, così come dei pianeti all’interno dell’universo. La perfezione della materia sta nel suo appetire infinitamente forme nuove, per poi rigettarle101. Anche gli esseri umani, al pari di tutti i composti, nascono spontaneamente e, allo stesso modo, scompaiono. La vicissitudine non tocca, però, solo l’ambito fisico e biologico ma coinvolge tutto l’esistente, abbracciando anche la dimensione storica e civile, con i suoi istituti e le sue produzioni, inglobandola nell’alternanza a cui sono soggette tutte le forme naturali. Da quest’unicità del ritmo universale della vita Bruno osserva come anche la considerazione dell’umanità non sia aliena da un tale esame, ma rientri in questo ciclo e soltanto a partire da questo riconoscimento sia possibile stabilire vincoli nella dimensione civile: «nihil tandem esse videtur quod a civili speculatione sub forma huiusce consyderationis (quatenus vel vinciunt vel vinciuntur vel vincula quaedam sunt vel horum circumstantiae) possit esse alienum»102. Chi desidera agire sugli esseri umani, istituendo vincoli tra loro, necessita di una conoscenza della natura e dei suoi tempi, delle mutazioni e dei movimenti, della materia e della forma, di come queste si trasfigurino pur restando sempre legate. Per operare nella dimensione civile occorre riconoscere il primo vincolo d’amore che è la natura e agire secondo i tempi, i modi e gli strumenti che questa suggerisce. La riflessione sui vincula, sul vinculum e sulle possibilità del vincire non è separabile dal riconoscimento ontologico espresso nel De la causa dell’unicità dell’essere e della sostanza, dell’indissolubile vincolo d’amore tra materia e forma. 100
p. 12. 101 102
F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Firenze 1968, Causa, pp. 275. De vinculis, p. 417.
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9. La filosofia naturale nella considerazione dialettica della materia e della forma Nell’esame del De la causa può lasciare interdetti la preminenza accordata da Bruno ora alla materia, ora alla forma. Se nel dialogo II, egli definisce la forma l’«artefice interno, perché forma la materia, e la figura da dentro»103, nel dialogo IV è la materia che «non viene ad ricevere le dimensioni come di fuora, ma a mandarle a cacciarle come dal seno»104, secondo un progressivo slittamento per cui dalla considerazione della causa formale il punto di osservazione si sposta gradualmente verso il principio materiale, inteso come soggetto e non più pura passività. Allo stesso tempo, se nel dialogo II la causa delle differenze è dovuta a una diversa composizione materiale, nel IV è la forma a costituire la causa delle molteplicità e delle particolarità. In altre parole, si tratta di comprendere se sia la forma ad agire sulla materia originando le differenze e le molteplicità, o se lo sia la materia. Questa duplice considerazione della materia e della forma è possibile a partire dalla comprensione del punto del l’unione, dell’unità del molteplice. Il riconoscimento del vincolo di materia e forma permette di comprendere come ogni composto sia riconducibile all’unica e infinta materia, sostrato di tutte le sostanze corporee e incorporee, allo stesso modo in cui le forme o anime individuali sono riflessi dell’unica e infinita anima del mondo. Materia e forma agiscono allo stesso modo poiché sono la stessa cosa: all’atto della decomposizione corporea anche l’anima è slegata dai composti, tornando alla sua universalità, come la materia, alla dissoluzione di una forma finita, assume nuova forma. Tra l’anima del mondo e la materia vi è identità ontologica, sia nella loro explicatione sia nella loro complicatione. Considerate dalla prospettiva dell’Uno materia e forma sono unum et idem105. Da questo riconoscimento, Bruno può considerare la natura ora dal punto di vista della causa formale, ora da quello del principio materiale, Causa, p. 211. Ivi, p. 267. 105 Cfr. De vinculis, p. 518. 103
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ora dell’Uno. Questo non è il segno di una contraddizione, ma di un modo di procedere graduale e dialettico che consente d’indagare la natura da prospettive differenti, analizzandola sia ontologicamente, nel suo concreto prodursi e trasformarsi, sia gnoseologicamente, definendo le possibilità umane di conoscenza dell’unità nella molteplicità106. Nell’analisi della materia come soggetto, forza attiva e generatrice, Bruno recupera nuovamente il riferimento al Fons vitae di Avicebron. Ma se nel dialogo III del De la causa questo richiamo è espressione di posizioni materialistiche, ora, invece, si assiste a una riformulazione della tesi monista per cui tutto è Uno e una ridefinizione della materia come soggetto universale tanto delle realtà sensibili quanto delle intellegibili, anteriore a ogni differenza e distinzione. Se sia gli aristotelici che i platonici, «divideno la sustanza per le differenze di corporale et incorporale»107, occorre, invece, osservare come «queste differenze si reducono alla potenza di medesimo geno»108, distinguendo le forme secondo due specie: alcune «trascendenti, cioè superiori al geno»109 e altre «di certo geno distinte da altro geno»110: «quelle che son de la prima maniera, non distengueno la materia e non fanno altra et altra potenza di quella, ma come termini universalissimi che comprendono tanto le corporali, quanto le incorporali sustanze, significano quella universalissima, comunissima et una de l’una e l’altre»111. Come è possibile ridurre la materia sensibile e quella intellegibile all’unità di un solo e identico genere, così occorre pensare i generi dell’essere come riconducibili a una sostanza «universalissima» e «comunissima», anteriore a qualsiasi distinzione logica tra sostanza e accidente. La causa formale non individualizza la materia, ma è, insieme a essa, una ragione generale e universale. Le differenze non rappresentano qualcosa di ontologicamente diverso dalla sostanza unica, moltiplicazioni reali dell’Uno, ma sono volti, tracce e segni dell’essere, estensioni dell’unica, Cfr. P. Terracciano, «Nemici et impazienti di Poliarchia», cit., p. 470. Causa, p. 260. 108 Ibidem. 109 Ibidem. 110 Ibidem. 111 Ibidem. 106 107
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identica e grande voce «la quale è tutta in tutta una stanza et in ogni parte di quella, per che da per tutto se intende tutta»112. Bruno riconduce ogni separazione ontologica tra il principio e i principiati, ogni gerarchizzazione, partecipazione ed emanazione all’unità dell’essere, in cui non sussiste alcuna distinzione tra materia e forma, tra forma materiale e materia formale. Queste ultime sono categorie concettuali necessarie all’intelletto umano, il quale procedendo razionalmente e discorsivamente non può conoscere nulla dell’unica sostanza, se non per vestigia e simulacri. La difficoltà umana risiede nell’incapacità di rappresentazione di una sostanza che oltrepassa la struttura e l’ordine del pensiero, delle possibilità figurative del sapere. Le forme particolari non sono qualcosa di ontologicamente differente dalla sostanza unica, ma solo molteplici volti di quella, di un essere che trascende l’ordine razionale umano. È su questo terreno che egli recupera la tesi avicebroniana di una materia unica a cui, solo in un secondo momento, «si aggionge la differenza e forma distintiva»113: «che cosa ne impedisce» disse Avicebron, «che sì come prima che riconosciamo la materia de le forme accidentali, che è il composto, riconosciamo la materia della forma sostanziale, che è parte di quello; cossì prima che conosciamo la materia che è contratta ad esser sotto le forme corporali, vegnamo a conoscere una potenza la quale sia distinguibile per la forma di natura corporea e de incorporea, dissolubile e non dissolubile?». Ancora, se tutto quel che è (cominciando da l’ente summo e supremo) have un certo ordine, e fa una dependenza, una scala, nella quale si monta da le cose semplicissime et assolutissime per mezzi proporzionali e copulativi, e partecipativi de la natura de l’uno e l’altro estremo, e secondo la raggione proprio neutri; non è ordine dove non è certa partecipazione, non è partecipazione dove non si trova certa colligazione, non è colligazione senza qualche partecipazione: è dumque necessario che de tutte cose che sono sussistenti, sia uno principio di subsistenza. Giongi a questo che la ragione medesima non 112 113
Ivi, p. 226. Ivi, p. 261.
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può fare che avanti qualsivoglia cosa distinguibile non presuppona una cosa indistinta (parlo di quelle cose che sono, perché “ente” e “non ente” non intendo aver distinzione reale, ma vocale e nominale solamente)114.
Il ricorso ad Avicebron è funzionale a chiarire il problema del rapporto tra la materia e le forme non soltanto fisiche, ma anche ideali. Sulla scorta del Fons vitae, Bruno legittima la tesi monista: ogni ordine, ogni dipendenza, ogni gerarchia, partecipazione e connessione necessita di una stessa sostanza che sia anteriore alle distinzioni logiche e formali. Le differenze particolari, le forme o i composti accidentali non designano ipostasi o emanazioni reali e separate della sostanza, ma vanno comprese in relazione a quella ragione universale che è l’Uno. La molteplicità delle definizioni e denominazioni designa una divisione logica non ontologica della sostanza. Tutte le differenze sono riconducibili a un unico «principio di subsistenza»115, pur restando distinte sul piano della conoscenza. Ma se ciò avviene all’interno di una rappresentazione gerarchica e scalare, tuttavia questa è tale sono in senso logico e gnoseologico, legata alle modalità umane di figurazione del reale: «Montando noi alla perfetta cognizione, andiamo complicando la moltitudine: come descendendosi alla produzzione de le cose, si va esplicando l’unità. Il descenso è da uno ente ad infiniti individui e specie innumerabili: lo ascenso è da questi a quello»116. L’ascenso dalla moltitudine all’Uno e il descenso dall’Uno ai molti costituiscono una rappresentazione logica necessaria nel processo di conoscenza e autofigurazione del mondo, pur non designando e non definendo alcuna distinzione reale di una sostanza unica, infinita e permanente. Se nel dialogo II la forma era considerata una «specie perfetta»117, ora è, invece, la materia di Avicebron ad assumere il ruolo di ragione universale. Attraverso il ricorso a Ibn Gabirol, come a David Ivi, pp. 260-261. Ivi, p. 261. 116 Causa, pp. 287-288. 117 Ivi, p. 167, p. 223. 114 115
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de Dinant, Bruno ricolloca su di un diverso piano il problema della relazione tra materia e forma, riportandole a un solo e unico genere, a un legame o a un’unità universale anteriore a qualsiasi distinzione logica, fisica e metafisica tra sostanza e accidente. Nel riprendere e nel riformulare nel De la causa le sue fonti, egli ripercorre le pagine della Physica118 in cui Alberto Magno tracciava una distinzione tra due specie di forme, la prima anteriore al genere, la seconda superiore. Il Nolano segue questa distinzione albertiana, ma rigettando la dottrina delle forme sostanziali e la gerarchia stabilita dal maestro domenicano tra la realtà fisica e quella astratta: se per quest’ultimo la definizione logica assume una priorità sulla dimensione fisica, Bruno capovolge questa prospettiva. Il recupero di Avicebron è ugualmente teso a decostruire il rifiuto stabilito da Tommaso d’Aquino della tesi monista secondo la quale le differenze e le contrarietà sono riconducibili al senso e all’immaginazione. Nello Scriptum II super libros Sententiarum119, l’Aquinate associa la dottrina avicebroniana al vecchio errore degli Eleati e a David de Dinant. Nell’apertura del dialogo IV del De la causa, richiamandosi ad Avicebron e a David, Bruno oltrepassa proprio la via tomista, ponendo una teoria delle forme particolari in cui l’unità sostanziale dell’essere non implica l’accidentalità dei particolari. La sua considerazione della materia come trascendentale, anteriore ai composti e alla distinzione tra sostanza e accidenti, fa sì che le forme particolari possano essere considerate accidentali solo dal punto di vista logico, non fisico. Egli rifiuta e supera, così, la sovrapposizione, albertiana e tomista, del piano della realtà astratta su quella fisica, restituendo priorità alla natura sulla logica: «siccome ogni sensibile presuppone il soggetto della sensibilità, cossì ogni intellegibile il soggetto della intelligibilità: bisogna dumque che sia una cosa che risponde alla raggione comune de l’uno e de l’altro soggetto»120. 118 Albertus Magnus Physica, in Opera Omnia, cura ac labore Augusti Borgnet, Parisiis 1890, vol. III, tr. III, cap. 9, p. 63-66. 119 S. Tommaso d’Aquino, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, Libro II, cit., vol. III, d. 17, q. 1, a. 1, p. 793. 120 Causa, p. 261.
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Non vi è, dunque, reale distinzione tra sostanze corporee e incorporee, sensibili e intellegibili, tra sostanza e accidenti, ma tutti sono composti della stessa materia di cui è composto l’intero universo, plasmati dalla stessa anima del mondo e forma universale. Questa tesi non contraddice né la teologia né le sacre scritture, ma è conforme, secondo Bruno, anche alle Scritture: «e li teologi, benché alcuni di quelli siano nodriti nella aristotelica dottrina, non mi denno esser molesti in questo, se accettano esser più debitori alla lor scrittura, che alla filosofia e natural ragione»121. Attingendo al testo biblico e in particolare all’Apocalisse di Giovanni122 come a un patrimonio di concetti e problemi filosofici prim’ancora che teologici, egli vi rintraccia dei riferimenti che possano avvalorare la tesi di una materia comune alle realtà sensibili e a quelle intellegibili, l’idea dell’assoluta omogeneità tra la materia spirituale o intellettuale e quella corporea o sensibile. Bruno ribadisce questa stessa tesi anche attraverso il richiamo a Plotino, per il quale «se nel mondo intellegibile è moltitudine e pluralità di specie, è necessario che vi sia qualche cosa comune»123, sostenendo, così, la sussistenza di un’unica materia anche nel campo delle realtà intellettuali e ideali. Tuttavia, se negli oggetti intellegibili quella materia «era in concetto uniforme; e prima che in concetto formato, era in quello informe»124, non è così per quanto riguarda gli oggetti sensibili, nei quali non vi è coincidenza assoluta di potenza e atto, di materia e forma, ma relativa. Nell’intellegibile la materia contiene complicatamente l’infinità informata di tutte le possibili forme, «ha una volta, sempre et insieme tutto quel che può avere, et è tutto quel che può essere»125; mentre explicandosi nel sensibile assume particolarità e Ivi, p. 262. Cfr. Ibidem: «“Non mi adorare” disse un de loro angeli al patrarca Iacob, “perché son tuo fratello”; or se costui che parla (come essi intendono) è una sostanza intellettuale, et affirma col suo dire che quell’uomo e lui convegnano nella realtà d’un soggetto stante qualsivoglia differenza formale, resta che gli filosofi abbiano un oraculo di questi teologi per testimonio». Cfr. Apocalisse, 19, 10. 123 Causa, p. 262. 124 Ivi, p. 263. 125 Ivi. p. 265. 121
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finitezza «in più volte, in tempi diversi e certe successioni»126. Essa non è tutto nello stesso tempo e nello stesso spazio, ma si fa tutto secondo l’alternarsi del processo di generazione e rigenerazione, di aggregazione e disgregazione, secondo il ritmo della vicissitudine. Ancora una volta è il binomio cusaniano complicato-explicato a chiarire il rapporto che lega materia e forma nella loro complicatione, dove non vi è né spazialità né temporalità, e nella dimensione dell’explicato finito e molteplice, in cui ogni forma particolare è soggetta al tempo e allo spazio. La differenza tra l’intellegibile e il sensibile dipende «dalla contrazzione a l’essere corporea e non essere corporea»127 della materia, dal suo definirsi assumendo una forma finita e particolare, pur essendo, nel suo permanere, sostanza universale. Nell’essere complicatamente legata alla forma universale, la materia è «attualmente tutto quel che può essere, ha tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni»128, e al tempo stesso, non ne assume alcuna, «perché quello che è tante cose diverse, bisogna che non sia cosa alcuna di quelle particolari»129. Seppur logicamente distinta in sensibile e intellegibile, corporea e incorporea, la materia è una, infinita e permanente. La sola differenza riscontrabile è legata al suo stato: se complicata, informe, intellegibile e incorporea, ingloba l’infinità delle forme particolari, mentre se explicata, sensibile e corporea, assume una forma finita finché non la rigetta per partorirne un’altra130. Bruno ribalta e oltrepassa, in queste pagine, la prospettiva inizialmente tracciata nel dialogo II del De la causa, lasciando intravedere come la materia operi da soggetto al pari della forma. Alla domanda di Dicsono se la materia sia atto, se questa nelle cose incorporee coinIbidem. Ivi, p. 265. 128 Ibidem. 129 Ibidem. 130 Ivi, p. 268: «cossì dumque mai è informe quella materia, come né anco questa, benché differentemente quella e questa: quella ne l’istante de l’eternità, questa ne gl’istanti del tempo; quella insieme, questa successivamente; quella esplicatamente, questa complicatamente; quella con molti, questa come uno; quella per ciascuno e cosa per cosa, questa come tutto et ogni cosa». 126 127
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cida con l’atto, Teofilo risponde notando che essa non differisce in «niente nell’absoluta potenza et atto absoluto»131, ma nella sua «simplicità, indivisibilità et unità»132 è «assolutamente tutto»133 insieme e al pari della forma, «che se avesse certe proprietà, certa differenza, non sarebbe absoluto, non sarebbe tutto»134. La materia «absoluta da le dimensioni»135, include nel suo grembo l’infinità delle possibili forme. Essa non è esclusivamente il sostrato su cui agisce la forma, ma madre partoriente le forme particolari, i composti e gli aggregati che abitano l’universo. Richiamandosi ad Averroè e a Plotino, Bruno propone questa tesi come la ripresa di un motivo ricorrente nella storia del pensiero filosofico, anche aristotelico: […] è consueto modo di parlare di Peripatetici ancora, che dicono tutti l’atto dimensionale e tutte forme uscire e venir fuori dalla potenza de la materia. Questo intende in parte Averroè, il quale quantumque arabo et ignorante di lingua greca, nella dottrina peripatetica però intese più che qualsivoglia greco ch’abbiamo letto: et arebbe più inteso, se non fusse stato così additto al suo nume Aristotele. Dice lui che la materia ne l’essenzia sua comprende le dimensioni interminate: volendo accennare che quelle pervengono a terminarsi, ora con questa figura e dimensioni, ora con quella e quell’altra, quelle e quell’altre, secondo il cangiare di forme naturali. Per il qual manda come da sé, e non le riceve come di fuora. Questo in parte intese ancor Plotino prencipe nella setta di Platone. Costui facendo differenzia tra la materia di cose superiori e inferiori, dice che quella è insieme tutto; et essendo che possiede tutto, non ha in che mutarsi: ma questa con certa vicissitudine per le parti, si fa tutto; et a tempi e tempi, si fa cosa e cosa, però sempre sotto diversità, alterazione e moto136.
Ivi, p. 266. Ibidem. 133 Ibidem. 134 Ibidem. 135 Ivi, 267. 136 Ivi, pp. 267-268. 131
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Il superamento della considerazione della materia come «propre nihil […] potenza pura, nuda, senza virtù, senza atto e perfezzione»137 è qui, per Bruno, una verità in accordo non soltanto con il suo modo di filosofare, ma anche con le tradizioni sin qui evocate. L’idea di una materia che è informe «come la pregnante è senza la sua prole, la quale la manda e la riscuote da sé»138, «che non riceve cosa alcuna»139, che non appetisce le forme, ma «che le manda dal suo seno»140, perché tutte «le ha in sé»141, rappresenta l’accordo e l’inveramento di quelle dottrine e vie filosofiche che, dai presocratici a Platone, da Plotino fino all’aristotelismo averroista e a David de Dinant, avevano affermato l’unità dell’essere e della sostanza. Nel recupero di queste filosofie, superando il modello filosofico e teologico imposto dall’aristotelismo scolastico e tomista, Bruno riformula l’idea del legame di materia e forma, dell’unità della natura e del suo primato rispetto alla categorizzazione logica del molteplice. Ascendere non al «summo et ottimo principio, escluso dalla nostra conoscenza»142, ma all’«atto di tutto e potenza di tutto»143, al riconoscimento dell’unità: questo è «il scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali»144, lasciando da parte la via teologica e fideistica che «ascende sopra la natura, la quale a chi non crede, è impossibile e nulla»145. Questa considerazione della materia, del suo vincolo con la forma e dell’unità della natura, costituisce la prospettiva ontologica imprescindibile dalla quale egli osserva, descrive e definisce, nel De vinculis, le dinamiche e gli strumenti naturali di attrazione e quelli artificiali attraverso i quali vincire.
Ivi, p. 268. Ibidem. 139 Ivi, p. 274 140 Ibidem. 141 Ibidem. 142 Ivi, p. 269. 143 Ibidem. 144 Ibidem. 145 Ibidem. 137
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V. Il vinculum amoris tra filosofia naturale e filosofia politica
1. Il De vinculis nel contesto degli scritti magici Se negli scritti magici sono riscontrabili una naturalizzazione e un de-occultamento della magia, è soltanto con il De vinculis che ciò si compie pienamente. Questo scritto si configura come una lettura della prassi magica che, pur originandosi nel solco dell’analisi filosofico naturalistica dei testi precedenti, si curva verso una riflessione antropologica e politico-civile. Questo breve e incompiuto trattato è suddiviso in tre sezioni: la prima dedicata all’analisi dei meccanismi adottati dal vinciens, colui che vincola; la seconda in cui sono esaminate le condizioni del vincibile, colui su cui si esercita un vincolo; la terza, dedicata al principio su cui è fondata la possibilità di vincire, il vinculum Cupidinis o vinculum amoris. Nella prima parte, Bruno descrive il vinciens come un «animarum venator»1, un mago, cacciatore di anime, che lega attraverso molteplici nodi, come la vista, l’udito, la mente e l’immaginazione. Qualora questi 1
De vinculis, p. 450.
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fosse capace «per omnes illum intrare portas»2, allora vincolerebbe con la massima potenza ed efficacia. Il vinciens è, come lo definisce Papi, un «prudente ed esperto manipolatore di contenuti spirituali»3, in grado di attrarre i suoi simili grazie a un’universale e unitaria conoscenza della natura, ma che al tempo stesso sa riconoscere come le strutture generali vadano ricondotte ai singoli, specifici e determinati casi. Mago è colui che trasforma e manipola ciò che è naturale, senza la necessità di ricorrere a cerimonie, rituali o invocazioni di potenze superiori, ma attraverso pratiche e strumenti esclusivamente umani. Un mago che vincola in virtù di una «rerum […] universalem rationem»4, per mezzo di una conoscenza dei temperamenti e della specificità degli individui su cui agisce, dei tempi, delle circostanze, dei luoghi e degli strumenti con cui legare. Questa forma di magia non è differente da quella naturale che opera attraverso la conoscenza dei principi generali e della struttura degli elementi, per riconoscere come i corpi si attirino e si respingano, così da poter agire su di essi per modificarli e stabilire rapporti di dipendenza. La differenza tra la magia naturale e la tecnica elaborata nel De vinculis è, piuttosto, riscontrabile nel suo dominio di applicazione: se la prima possiede uno statuto più generale e ha come oggetto specifico la natura in ogni sua parte, la seconda costituisce una sua applicazione particolare nell’ambito umano. A differenza della magia naturale in cui interviene un rapporto tra essere umano, mago e natura, come nel caso della medicina, il tipo di relazione analizzata nel De vinculis è quello tra l’essere umano e il suo simile. Mentre chi pratica la magia naturale esercita un rapporto di manipolazione sui composti naturali, il vinciens esercita, invece, un rapporto di supremazia sull’essere umano, attraverso una profonda conoscenza delle passioni, agendo e modificando inclinazioni e comportamenti. Questa forma di magia Ibidem. F. Papi, L’antropologia naturalistica del «De vinculis in genere» di Giordano Bruno, «Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di Milano», XV, 3 (1962), p. 156. 4 De vinculis, p. 414. 2 3
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può essere definita naturale-antropologica, «dove con naturale si mette in luce la tecnica operativa che non è né divina né matematica […] e dove con antropologico vogliamo sottolineare il tipo di risultato o di conseguenza che la sua azione comporta»5. Seppur il tema del vinculum sia già presente negli scritti magici precedenti, soltanto nel De vinculis ne emerge tutta la complessità, sia sul piano della filosofia naturale sia rispetto alla riflessione civile, senza che questi due livelli d’analisi siano mai disgiunti l’uno dall’altro. In effetti, già Tocco6 rilevava come nel De magia, laddove Bruno prende in considerazione le strutture fondamentali dei vincoli, derivanti dai sensi, dall’immaginazione e dalla facoltà cogitativa, egli faccia riferimento alla necessità di una teoria generale che investa quest’ordine di problemi e che tratti «de vinculis in genere»7. Dichiarando l’impossibilità di esaminare i vincoli nel contesto del De magia, egli manifesta la necessità di una riflessione analitica, separata e programmatica del vinculum. La possibilità di vincire è, come enunciato nell’ultima delle Theses, da ricercare nel principio che determina le alterazioni e le attrazioni tra gli elementi e i corpi naturali, vale a dire nella dicotomia amore/ odio, o meglio, nell’amore, data la possibilità di ricondurre il secondo al primo8. Questo tema assume una funzione centrale e necessaria, tanto che al vinculum Cupidinis è dedicata la terza parte del De vinculis. Come Bruno segnala nell’apertura di questa sezione, richiamando il precedente De magia, il riconoscimento della natura quale vinculum amoris e principio a cui tutte le particolarità e contrarietà sono ricondotte fonda la possibilità di una magia per vincoli. Se tale questione faceva da sfondo al De magia e alle Theses, costituendo il fondamento teorico fisico e metafisico che permette di pensare la magia, soltanto nel De vinculis essa può essere declinata in modo sistematico in una Ibidem. Cfr. F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, «Atti della Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli», XXV (1892), Napoli 1891, pp. 259-260. 7 G. De magia, p. 284. 8 Cfr. Theses, p. 398: «Omnes affectus et vincula voluntatis reducuntur ad duo, ipsaque referunt, nempe ad irascibilem et concupiscibilem, seu odium et amorem; odium tandem ad amorem reducitur; itaque vinculum unum voluntatis est amor». 5 6
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riflessione di carattere antropologico, che si riconnette con quanto elaborato nelle opere precedenti. Focalizzando l’analisi del vinculum e del vincire nell’ambito civile, l’approfondimento della magia diviene uno studio delle dinamiche di attrazione, alterazione, assoggettamento e dominio dell’essere umano, dei meccanismi attraverso cui penetrare, fascinare e manipolare. Si tratta di una riflessione sulle dinamiche di potere e di condizionamento elaborata nel solco della filosofia naturale, ma che, al tempo stesso, tocca questioni presenti soltanto di sfuggita sia nelle fonti di Bruno, sia nei suoi scritti precedenti. Se quest’analisi non è scindibile dal contesto della magia naturale, tuttavia essa apre a questioni e problemi di carattere psicologico e antropologico, facendo del trattato un testo non facilmente classificabile né definibile. Il De vinculis è senz’altro il completamento degli scritti magici, ma, allo stesso tempo, anche il loro superamento. Pensare a questo come a uno scritto di magia non esaurisce e non chiarisce né la prospettiva elaborata, né il suo oggetto. Non è un caso che il termine magia non venga mai impiegato nel trattato, se non nella citazione del precedente De magia naturali. Il De vinculis è uno scritto magico nella misura in cui riprende e ricostruisce, nella dimensione più propria all’essere umano, una teoria, una prassi e un metodo tipici della magia naturale. Le categorie e il linguaggio attraverso i quali leggere e interpretare la dimensione antropologica sono già radicate nella filosofia naturale. Dall’osservazione della natura e di tutti gli elementi e i corpi che la compongono, è possibile giungere alla comprensione del vinculum amoris che lega tutto il vivente in un unico e infinito organismo. L’essere umano è immerso nella natura e parte integrante di essa, senza alcun primato ontologico, ma al pari di tutti gli enti. Pertanto, la riflessione sui vincula umani è sempre preceduta dall’analisi dei legami osservabili nei fenomeni di attrazione naturali9. Lo studio delle dinamiche di potere e di assoggettamento umane non può prescindere dall’indagine naturale. Il riconoscimento del vinculum Cupidinis, in virtù del quale il vinciens può operare tra gli esseri umani e agire su di essi, funge da exemplum. 9
Cfr. De vinculis, pp. 414-416.
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Questa relazione tra il vinculum amoris, universale e naturale, e quello civile, particolare e temporale, chiarisce come la nozione di vincolo permetta di stabilire una connessione tra filosofia naturale e politica. In altre parole, questa nozione funge da categoria concettuale valida sia nell’analisi dei fenomeni di attrazione vigenti tra gli elementi e i corpi naturali, sia nell’esame delle dinamiche di potere e dominio umane osservabili nella sfera pubblica e privata. Nel confronto con i precedenti scritti magici, l’oggetto in esame e la prospettiva d’indagine proprie al De vinculis si spostano dalla natura all’essere umano, pur permanendo sempre, da un punto di vista metodologico, nell’ambito della filosofia naturale. Nonostante resti un lavoro incompiuto, tra gli scritti magici il De vinculis è quello in cui la prospettiva adottata sembra saldarsi maggiormente alla produzione prettamente filosofica di Bruno. Non si tratta, cioè, di un corpo estraneo al resto della nolana filosofia, ma del risultato di un processo di riformulazione della magia che, dal De magia mathematica, attraverso il De magia e le Theses, giunge a riconnettere la riflessione naturalistica e politico-civile del De vinculis nel cuore dell’ontologia bruniana. In effetti, dal confronto sistematico tra gli scritti magici emerge una costante riscrittura del materiale raccolto, tesa a naturalizzare gli elementi occulti e sovrannaturali che caratterizzavano la letteratura magica. È un’operazione di de-occultamento della teoria e delle pratiche magiche, gradualmente innestate, insieme alle fonti utilizzate, nell’orizzonte della filosofia naturale elaborata dal Nolano nelle precedenti opere latine e volgari. Dal De magia mathematica al De magia, dalle Theses al De vinculis, la dimensione occulta e sovrannaturale scompare gradualmente per lasciare spazio allo studio e all’analisi psicologico-antropologica delle dinamiche di relazione, manipolazione e domino riscontrabili tra gli uomini.
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2. Dalla filosofia naturale alla riflessione antropologica e politica Bruno apre la terza sezione del De vinculis esponendo il principio per cui tutte le forme di attrazione, i legami, le relazioni e i vincoli si riferiscono e sono possibili in virtù del vincolo d’amore da cui queste dipendono e in cui consistono: « Diximus in his quae de naturali magia quemadmodum vincula omnia tum ad amoris vinculum referantur, tum ad amoris vinculo pendeant, tum in amoris vinculo consistant»10. L’amore è il fondamento di tutti gli affetti: chi non ama sarà meno vulnerabile o del tutto indifferente alle trenta specie di attrazione in grado di legare l’anima e il corpo. L’amore è la passione e la forza dominante su ogni altro sentimento, non riconducibile ad altro principio. La priorità attribuita al vinculum Cupidinis non possiede un semplice valore strumentale, ma corrisponde alla rappresentazione ontologica e cosmologica elaborata nelle opere precedenti. La necessità dell’amore in ogni ambito del reale costituisce una tesi espressa non soltanto nel De magia e nelle Theses, ma ancor prima dal Sigillus alla Cena, dal De la causa ai Furori. Nella conclusione del passo egli sottolinea come la considerazione del vinculum Cupidinis «vita a civili institutio non idcirco longius recedere existimanda, quia amplior est mirifice quam ad civile institutum»11. Marcando la non estraneità della considerazione del vincolo d’amore dall’analisi del mondo civile, Bruno rielabora quanto già implicitamente espresso in quelle opere: la continuità e la non separazione tra la dimensione naturalistica e quella antropologica, ovvero il riconoscimento dell’appartenenza dell’ambito politico, religioso, della storia dei popoli e delle nazioni al ritmo della vicissitudine universale. L’aggregazione, l’accrescimento, la trasformazione e la dissoluzione non sono fenomeni propri ai soli elementi e corpi naturali, semplici o composti, ma anche a quelli sociali, con le loro culture, leggi, religioni, ordinamenti, lingue e istituti: in quanto immersi nel ciclo della vita naturale, anche questi sono temporanei e dissolubili,
10 11
Ivi, p. 492. Ibidem.
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osservabili e interpretabili attraverso le stesse categorie con le quali analizzare il mondo fisico. Questa considerazione del mondo civile come immerso in quello naturale poggia su due elementi teorici. Il primo è rintracciabile nella rappresentazione propria a Nicolò Machiavelli della ciclicità della natura e della storia, riformulazione dell’idea polibiana dell’ἀνακύκλωσις. L’ordine naturale assorbe quello storico, l’eternità del cosmo si ripercuote non solo sul mondo animale ma anche sulla vita dei regni e delle repubbliche comprendendo esistenze e vicende umane12. Nei capitoli XVII e XVIII del libro I dei Discorsi, Machiavelli ricorre a un lessico e a categorie fisiche e mediche nell’analisi del problema politico della corruzione del popolo e dello Stato e la possibilità di curarli. Egli si esprime attraverso l’utilizzo delle nozioni di caso, necessità, materia, corruzione, cura e guarigione13. Come ogni elemento, organismo e corpo naturale nasce, cresce, si corrompe e muore, alla stessa sorte sono sottoposti tutti i corpi sociali, i popoli, gli organismi politici e gli Stati. Come i primi, così anche questi ultimi possono ammalarsi e guarire, attraverso farmaci quali le buone leggi, le religioni, la virtù dei governanti e dei cittadini, i buoni costumi, le opere. Questa considerazione del mondo civile non è materialistica o meccanicistica. Machiavelli esclude una simile possibilità di lettura della dimensione storica e antropologica. L’alternarsi delle differenti forme di governo, la nascita, la crescita e la morte degli stati, non seguono dinamiche predeterminate. Seppur la storia rientri nel ritmo naturale di generazione e corruzione, all’interno di quest’eterno movimento permangono, a garanzia della libertà umana, la causalità e la contingenza. Se nel libro I dei Discorsi egli rileva la ciclicità con la quale i governi, le repubbliche e gli Stati si susseguono nella storia, al tempo stesso, osserva anche come sorsero «queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini»14. 12 Cfr. N. Machiavelli, Istorie Fiorentine, in Opere, C. Vivanti (a cura di), Torino 2005, vol. III, lib. V, cap. 1, p. 519; cfr. Id., Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere, cit., 1999, vol. I, lib. I, cap. 2, p. 205. 13 Id., Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. I, capp. 16-17, pp. 240-245. 14 Ivi, p. 204.
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Bruno recupera proprio questa concezione machiavelliana della storia civile come inclusa nel ritmo della vita naturale. Il secondo elemento teorico che gli consente di leggere la dimensione antropologica attraverso il lessico e le categorie del mondo naturale, è relativo alla nozione di vinculum amoris. Nella prospettiva fisica, metafisica e civile sia degli scritti magici, sia dei dialoghi italiani, l’amore costituisce non soltanto un sentimento fra tanti altri attraverso cui stabilire legami sul piano politico, fascinando, attraendo e avvincendo uno o più soggetti su cui si vuol operare o produrre un effetto emotivo e psicologico. L’amore è piuttosto la ragione strutturale dell’universo, il legame originario tra la materia e la forma, il principio per cui tutti gli elementi e i corpi naturali si attraggono, si legano fra loro e vivono secondo il ritmo della vicissitudine universale. L’istituzione di particolari relazioni d’amore nella molteplicità e contrarietà del mondo finito equivale per Bruno a operare nella dimensione civile secondo il modello costituito dalla natura, principio d’amore e d’unità. Nella prospettiva machiavelliana l’amore è uno dei possibili sentimenti attraverso cui legare in politica: «un vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto»15, preferendo a esso il timore, in quanto chi teme «è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai»16. Per Bruno, invece, il vincolo d’amore particolare e temporaneo rispecchia quello universale, ragione naturale, fisica e metafisica insita in ogni cosa. Istituire vincoli d’amore corrisponde ad agire nel mondo civile sulla base di un paradigma naturale. È questa la ragione per la quale egli privilegia l’amore e non il timore o la paura come sentimento da applicare in politica. L’amore è il collante tra la dimensione antropologica e quella naturale, il legame che consente di radicare la prospettiva umana e civile nella riflessione naturalistica. Un buon principe è colui che, servendosi del vincolo d’amore, istituisce un legame tanto più saldo quanto maggiore è l’affetto che lo lega ai suoi sudditi, poiché «qualsivoglia sorte d’amore quanto ha maggior imperio e più certo dominio, tanto 15 16
Id., Il Principe, in Opere, cit., vol. I, 1997, cap. XVII, pp. 165-167. Ibidem.
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fa sentir più stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario, de gli ordinarii prencipi e tiranni, che usano strettezza e forza, dove veggono aver minore imperio»17. Amore è la più potente delle armi di cui un principe possa servirsi, non soltanto in quanto lega con più efficacia, ma perché costituisce la ragione intima e strutturale di tutto il vivente. Il riconoscimento dell’amore come ragione universale non equivale, tuttavia, al semplice rispecchiamento dell’ordine naturale in quello antropologico. Nella coincidentia oppositorum non vi è separazione né contrarietà: tutto è indistinto e racchiuso nell’unità della causa e principio primo. In esso non sussiste alcuna possibilità di operazione né di conoscenza da parte dell’essere umano. Laddove vi è, invece, molteplicità, contrarietà, distinzione e, dunque, causalità e contingenza, vi è libertà e possibilità di azione. Una volta compresa questa struttura unitaria del reale, occorre far ritorno nel molteplice e agire in esso, riproducendo l’unità naturale in quella civile, attraverso l’istituzione di vincoli come le leggi, le religioni, e garantire in essa la libertà, la concordia e le differenze individuali. Bisogna, in altre parole, ripensare positivamente il finito come l’unico spazio possibile all’agire umano sulla contrarietà del vivente. La considerazione unitaria e non separabile della dimensione naturale e di quella civile costituisce, nell’analisi del De vinculis, una delle maggiori difficoltà. Bruno espone l’esame dei vincoli civili celandoli nella conclusione dell’esame dei legami naturali. Non è un caso se le ultime righe dei principali articoli del trattato siano dedicate e si aprano a una riflessione politica e civile. Questo modo di analizzare i vincoli naturali e civili è espressione della prospettiva antropologico-naturalistica, per la quale le dinamiche umane di attrazione non possono essere isolate e scisse dal mondo fisico di cui l’umanità è parte. Il vinculum incarna non soltanto la relazione tra la materia e la forma, ma il legame tra la filosofia naturale e la politica, ciò che consente di rintracciare le categorie del politico come già radicate nell’indagine sulla natura. La riflessione sull’amore, strumento di fascinazione psicologica sul piano 17
Furori, p. 850.
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dell’agire politico, rappresenta un naturale prosieguo e una diretta conseguenza di quella ontologica sul naturale e universale vinculum amoris. 3. Il vinculum Cupidinis tra i Furori e il De vinculis: poesia, verità e caccia filosofica Nel Sigillus, nella Cena e nel De la causa, la relazione d’amore caratterizza il processo d’animazione universale. In virtù dell’amore l’anima del mondo agisce sugli elementi e i corpi naturali, spingendoli alla conservazione, a fuggire il contrario e a ricercare il simile. L’amore è una forza di conservazione ed espansione, di generazione e rigenerazione, individuale e universale. Essa affetta sia il singolo sia l’intero universo, riconducendo la vita di un individuo, di un elemento e di un corpo particolare, al ritmo della vita universale. Come rileva Papi, l’amore è un atto che contemporaneamente costituisce «un’affermazione di sé come singolo e assolutamente relativo, ma nella tensione del rapporto stesso, assolutamente essenziale, è un ritorno del singolo al ritmo del tutto»18: amore di sé, struttura intima a ogni essere vivente e, insieme, amore universale che assorbe ogni cosa nell’eterna vicissitudine: «ratio prima, qua unumquodque vincibile est, partim est ex eo quod in eo esse, quod est sibi praesens, appetit servari, partim quod secundum ipsum et in ipso maxime perfici. Hoc est philautia in genere»19. La ragione per cui ogni cosa può essere vincolata risiede nella philautia, nell’amore di sé, nel desiderio di conservarsi per sempre nella condizione presente. Questo desiderio si scontra, però, con l’azione della natura come amore universale, la quale attraverso la vicissitudine fa sì che ogni cosa si trasformi incessantemente, perdendo la propria forma particolare per soddisfare il desiderio perenne della materia e della vita universale di abbracciare la totalità delle forme possibili20. Cfr. F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., pp. 158-159. De vinculis, pp. 468-470. 20 Ivi, pp. 512-514: «Itaque est vinculum, quo res volunt esse ubi sunt et non amittere quae habet. Interea quoque volunt esse ubique et habere quae absunt: unde 18 19
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Bruno recupera la prospettiva già tracciata nel De la causa e nei Furori, ponendo un parallelismo tra l’eros che spinge il furioso all’incessante ricerca della verità e l’amore in virtù del quale la materia assume continuamente nuove forme per poi rigettarle. La constatazione nel De vinculis che l’appetito e l’intelletto non si appagano nel raggiungimento di un bene particolare e finito, ma aspirano al buono, al bene e al vero universali, richiama proprio i versi dei Furori in cui il Nolano afferma che la vera felicità consiste «per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo et alla bevanda, e non con esser satolli e senza desio de quelli»21. Si tratta di un motivo di matrice aristotelico-averroista più volte richiamato nel dialogo, secondo il quale la somma felicità umana consiste nella perfezione per le scienze speculative22, nella contemplazione che avvicina al vero, al bene e al bello universali. La felicità risiede non nel possesso definitivo di un oggetto intellegibile, ma in una ricerca infinita e infaticabile, nell’amore e nel desiderio insaziabile per la verità. Se il tema del rapporto tra amore e desiderio nel processo conoscitivo appartiene all’aristotelismo averroista, questo sembra giungere a Bruno anche attraverso altre fonti, tra cui i Dialoghi d’amore di Giuda Abarbanel, o Leone Ebreo, pubblicati a Roma nel 1535. Rimodulando la lettura del neoplatonismo ficiniano attraverso la tradizione filosofica arabo-giudaica, averroista e maimonidea, il medico e filosofo ebreo s’interrogava sul rapporto tra amore e desiderio, sulla dottrina della beatitudine umana e sul ricongiungimento dell’essere umano al primo
ex complacentia quadam circa possessa, desiderio et appetitu circa distantia et possessibilia, et amore circa omnia, quia particulari et finito bono atque vero non expletur particularis appetitus et intellectus, qui ad universorum bonum et universum verum respiciunt obiecta. Hinc est ut ab eodem vinculo finita potentia in quadam definita materia simul et stringi et dispergi, de[s]trahai atque dissipari se experiatur. Hanc conditionem vinculi secundum genus in vinculis secundum specierum singulas observato». 21 Furori, p. 933. 22 Ivi, p. 814.
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intelletto23, secondo una prospettiva che sarà ripresa e rimodulata da Bruno nei Furori. La felicità umana consiste, secondo Leone Ebreo, nell’amore e nel desiderio insaziabile per la sapienza, nel ricongiungimento con l’intelletto divino, non nel possesso della verità, ma nell’atto del conoscere: «la felicità non consiste in abito di cognizione, ma nell’atto di quello: ché il sapiente quando dorme non è felice, ma quando fruisce e gode de l’intelligenza è felice. Adunque, se così è, in uno solo atto d’intendere di necessità consiste la beatitudine»24. La beatitudine e il ricongiungimento con l’intelletto divino non avvengono per possesso, poiché l’oggetto della conoscenza, in quanto infinito, sfugge alle possibilità conoscitive umane. Secondo un modello fortemente radicato anche nei Furori, Leone Ebreo sostiene che «per essere infinito [Dio] e in tutta perfezione, non si può conoscere da la mente umana; la quale è, in ogni cosa, finita e terminata»25: scopo della mente umana è di «conoscere secondo la possibilità del conoscitore, ma non secondo l’immensa eccellenzia del conosciuto»26. La beatitudine, la felicità «non consiste in quello atto conoscitivo di Dio il quale conduce l’amore, né consiste ne l’amore che a tal cognizione succede; ma sol consiste ne l’atto copulativo de l’anima e unita cognizione divina, che è la somma perfezione del nostro intelletto creato»27. La teorizzazione della relazione tra amore, desiderio e conoscenza elaborata da Leone Ebreo nei suoi Dialoghi non è estranea alla prospettiva tracciata da Bruno nei Furori, laddove osserva come «non possiamo desiderar né ottener maggior perfezzione che quella in cui L. Ebreo, Dialoghi d’amore, S. Caramella (a cura di), Bari 1929, pp. 24-25: «l’insaziabile e ardente amore de la sapienza e virtù de le cose oneste è quello che fa divino il nostro intelletto umano, e [che] il nostro fragil corpo, vaso di corruzione, converte in strumento d’angelica spiritualità. […] E da quel mezzo si verifica che, quanto più ecessivamente si desidera ama e segue, tanto più veramente è virtù. Perché già tal desiderio non è più delettazione né utilità; ma depende da la moderazione di quelle, ch’è virtù intellettiva e veramente è cosa onesta». 24 Ivi, p. 39. 25 Ivi, pp. 32-33. 26 Ibidem. 27 Ivi, p. 46. 23
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siamo quando il nostro intelletto mediante qualche nobil specie intelligibile s’unisce o alle sustanze separate, come dicono costoro [i peripatetici], o a la divina mente, come è modo di dir de Platonici»28. La ricerca della verità universale, quest’unione dell’intelletto umano con la mente divina, è un processo senza sosta, poiché l’oggetto della conoscenza è infinito e ineffabile. Alla domanda di Cicada, uno dei due interlocutori del dialogo, «che perfezzione o satisfazzione può trovar l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta?»29, Tansillo, poeta nolano e portavoce della filosofia bruniana nell’opera, replica: «Non sarà mai perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa essere capito, ma per quanto l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro stato gli sia presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizzonte de la sua vista»30. La beatitudine e il ricongiungimento con il divino equivalgono a un’incessante e sofferta ricerca, poiché questa non può mai essere completamente appagata. L’oggetto di questa ricerca, l’unità della natura e il vincolo d’amore, rappresenta un elemento in continua trasmutazione mai pienamente percepibile e afferrabile dall’intelletto umano31. La via che consente di scorgere quest’unità naturale è la ricerca intesa come incessante trasmutazione dell’amante nell’amato, nell’oggetto della sua conoscenza e del suo desiderio, un infaticabile processo di ex-sistenza, di uscita dalla propria forma in un processo di autotrasformazione del sé.
Furori, p. 814. Ibidem. 30 Furori, pp. 814-815. Cfr. L. Ebreo, Dialoghi d’amore, cit., p. 33: «l’occhio comprende le cose secondo la sua forza oculare, sua grandezza e sua natura; ma non secondo la condizione de le cose viste in se medesime. E di questa sorte comprende il nostro piccolo intelletto l’infinito di Dio: secondo la capacità e forza intellegibile umana, ma non secondo il pelago senza fondo de la divina essenzia e immensa sapienza». 31 Ivi, p. 824: «Atteso che non è cosa naturale né conveniente che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi finito: percioché non sarebbe infinito; ma è conveniente e naturale che l’infinito per essere infinito sia infinitamente perseguitato (in quel modo di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisico […])». 28 29
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L’oggetto della ricerca del furioso, osserva Bassi, «sfugge a ogni tentativo di apprensione definitiva»32, si sottrae a ogni definizione logica, almeno sin quando il furioso non lo scorga e si tramuti in esso. Come Atteone, che solo per un istante sorprende Diana nuda e, trasformato nell’oggetto della sua caccia, diviene preda de «gli cani, pensieri de cose divine»33, così il furioso coglie l’infinita verità soltanto facendosi preda della sua stessa ricerca. Come Atteone, così il furioso «vede l’Anfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la monade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo»34. Il ricorso di Bruno al mito e alla poesia manifesta l’impossibilità di esprimere una verità che ciclicamente si cela e si disvela attraverso un linguaggio che sia esclusivamente logico e razionale. Soltanto ricorrendo alle immagini suscitate dal linguaggio mitico e poetico, che vincolano la potenza cogitativa, è possibile tradurre in parole una realtà impermamente che sfugge a ogni assoluta definizione. L’unico strumento attraverso cui cogliere ed esprimere un’immagine fugace e istantanea dell’infinità e unità della natura, di una verità continuamente celata sotto forme diverse, è la poesia filosofica o filosofia poetica. Nell’Explicatio triginta sigillorum, pubblicata a Parigi, 1583, Bruno identifica l’attività filosofica con quella poetica e pittorica: «philosophi sunt quodammodo pictores atque poetae, poetae pictores et philosophi, pictores philosophi et poetae, mutuoque veri poetae, veri pictores et veri philosophi se diligunt et admirantur»35. La filosofia è incapace «d’esplicar gl’intricati sentimenti»36, di afferrare l’infinita dinamicità delle metamorfosi del reale, se non tramutandosi in linguaggio poetico e pittorico. L’identificazione della filosofia S. Bassi, L’arte di Giordano Bruno. Memoria, Furore, magia, Firenze 2004, p. 80. Furori, pp. 921. 34 Ivi, p. 922. 35 Explicatio, p. 133. 36 Cena, p. 28. 32
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con la poesia e la pittura rappresenta un salto oltre le regole imposte dalla Poetica di Aristotele quale fondamento dell’arte. Questa rottura non è dettata esclusivamente da ragioni stilistiche e formali. La critica di Bruno a questi canoni estetici mina l’aristotelismo alle sue fondamenta ontologiche: a essere rigettati sono l’immagine di una natura immutabilmente identica a sé stessa e l’idea della negatività dell’infinito come indefinito. Nella prospettiva aristotelica, la mimesis, necessaria regola stilistica, costituisce una forma di rispecchiamento dell’essere nel linguaggio dell’arte. La poesia riflette le stesse caratteristiche della natura che esprime, secondo un principio d’imitazione e di riproduzione. Questa forma di linguaggio assume i caratteri della descrizione e della definizione. Al contrario, alla nuova immagine bruniana della natura come infinita, perenne metamorfosi e vicissitudine, corrisponde una pluralità di lingue e stili poetici atti a sprofondare e a esplicare l’eterna generazione e mutazione. La critica presente nella prima parte dei Furori alle regole imposte dal modello, allora dominante, della poesia petrarchesca è tesa a suscitare non una semplice polemica stilistica, ma un ripensamento della pluralità e varietà delle forme linguistiche attraverso cui esprimere filosoficamente e poeticamente l’infinità della natura e una realtà molteplice. Bruno rovescia il rapporto tra mimesis e poiesis, tra le regole della poesia e la poesia come creazione assoluta, come ciò che crea la regola. Soltanto attraverso questa seconda forma di poesia l’essere umano genera nuovi mondi linguistici e significanti, coglie e accede a una dimensione d’infinità: [Cicada] Sì che come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che servono a coloro che son più atti ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da colui che non era poeta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia in serviggio di qualch’uno che volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma scimia de la musa altrui. [Tansillo] Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però
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tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti […] dico che sono e possono essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti et invenzioni umane37.
Come osservava Sturlese, «l’arte è creatrice di vita e di piccoli mondi che racchiudono un infinito»38, proprio come la natura incarna una generazione senza fine. La satira contro i perfetti conoscitori delle regole, più atti a imitar che a far della poesia, si inscrive in una riconsiderazione della natura, della vita e, al tempo stesso, del linguaggio e della funzione della filosofia. Nell’infinita varietà degli stili, delle lingue e delle immagini poetiche si aprono al filosofo inesauribili fonti di associazione e rammemorazione fantastica. La metafora, ad esempio, principale strumento di sovrapposizione poetica, non è un semplice trasferimento dalla specie al genere o viceversa, ma continua creazione di nuove immagini della mente, di senso, significanti e significazioni, incessante opera di associazione e dissociazione. In questo senso, la natura e l’universo sono direttamente associati alla capacità di essere compresi metaforicamente: ogni cosa presente in natura e nell’universo, in quanto può configurarsi come strumento metaforico, rimanda incessantemente a qualcos’altro. Nell’attimo in cui un particolare diviene parte di un’associazione metaforica esso dischiude nuove possibilità di senso, mondi inesauribili di significazione, trascendendo sé stesso, spogliandosi della sua natura d’accidente, per essere incluso in una dimensione universale e infinita che varca quella finita e particolare. Se con il De umbris Bruno aveva sviluppato e definito i caratteri generali e le tecniche della sua ars memoriae, è con i Furori che questi strumenti rammemorativi si rivelano necessari al discorso filosofico e poetico sull’infinito. La mnemotecnica non è uno strumento atto a conservare nozioni, ma a produrre continuamente nuove immagini, termini e concetti. Attraverso la logica, la lingua poetica e l’arte della Furori, pp. 783-784. R. Sturlese, Arte della natura e arte della memoria in Giordano Bruno, in «Rinascimento», XL (2000), p. 127. 37
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memoria, l’essere umano scopre la possibilità di svincolarsi dalle regole del mondo fisico, dall’eterno ciclo della vicissitudine. È per via di quest’inesauribile forma di conoscenza che il furioso sperimenta come il suo accedere a una dimensione di verità sia una forma d’unione e partecipazione all’infinità della natura. Nel De vinculis Bruno ripensa il vinculum amoris recuperando il tema dell’eros come elaborato nei Furori. Seppur questi non siano un’opera magica, il lessico impiegato richiama le dottrine legate al patrimonio della letteratura rinascimentale magica ed erotica. Sia nella prima, sia nella seconda parte del dialogo, l’oggetto della ricerca del furioso è paragonato a un’esca o a un giogo dal quale egli è incapace di sottrarsi: «debbo tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo la divina providenza?»39. Il cuore del furioso è «come in esca ben disposta»40, attratto e legato da un fuoco d’amore. La visione dell’unità della natura assume la forma di una saetta, un laccio, un fuoco dal quale se altri fuggono il furioso è, invece, attratto41. L’eroico furore è questo laccio infuocato, un nodo d’amore doloroso, un vincolo che lega il cuore e la mente del furioso alla visione della divina bellezza, alla ricerca e alla conoscenza della verità. Seppur doloroso, poiché rende schiavo chi ne è legato, questo laccio è un bene nella prospettiva dell’eternità, desiderio del divino, legame tra l’essere umano e la verità. Gli amori eroici mirano non al soddisfacimento di
Furori, p. 757. Ivi, p. 841. 41 Ivi, p. 808: «Dove dimostra l’amor suo non esser come de la farfalla, del cervio e del liocorno, che fuggirebono s’avesser giudizio del fuoco, della saetta e de gli lacci, e che non han senso d’altro che del piacere: ma vien guidato da un sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra libertade. Perché questo male non è absolutamente male: ma per certo rispetto al bene secondo l’opinione, e falso […]. Perché questo male absolutamente ne l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa saetta è l’impression del raggio de la beltade della superna luce, questi lacci son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla prima verità: e le specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene». 39
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un piacere fisico, ma al congiungimento con la divinità, all’accesso al bene, al bello e al vero universali42. La verità e la divina bellezza sono, come osserva Bassi, i due principali «centri di attrazione che creano legami magici, attraverso l’adescamento messo in moto dall’amore e dal desiderio»43. La ricerca dell’unità e della bellezza della natura costituisce la via che estranea e isola il furioso dalla molteplicità. Bruno descrive il tentativo di ricongiungimento al divino attraverso il vincolo d’amore come una morte dell’anima, «che da Cabalisti è chiamata “morte di bacio” figurata nella Cantica di Salomone dove l’amica dice: che mi bacie col bacio de sua bocca»44. Secondo un tema largamente presente in Ficino45, in Leone Ebreo46, in Giovanni Pico della Mirandola47. L’apprensione dell’unità naturale e divina da parte del furioso si compie attraverso l’esperienza della contrarietà, lo scontrarsi con essa e l’oltrepassarla: tappe di un cammino necessario, nel quale il vizio per un particolare aspetto della realtà diviene virtù eroica, nell’attimo in cui il furioso supera la contrarietà e scorge l’unità che lega gli opposti. Questo processo trasforma il soggetto, lo rende «morto vivente o vivo morente; là onde dice: “in viva morte morta vita vivo”»48. 42 Ivi, p. 917: «Or l’esca de la mente bisogna dire che sia quella che sempre è bramata, cercata, abbracciata, e volentieri più ch’ogni altra cosa gustata, per cui s’empie, s’appaga, ha prò e dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo, et in ogni etade et in qualsivoglia stato che si truove l’uomo, sempre aspira, e per cui suol spreggiar qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del corpo, et aver in odio questa vita». 43 S. Bassi, L’arte di Giordano Bruno, cit., p. 82. 44 Furori, p. 823. 45 Cfr. M. Ficini Commentarium in Convivium Platonis, testo, trad. fr. e note P. Laurens (a cura di), Paris 2002, d. II, cap. 8, p. 43. 46 Cfr. L. Ebreo, Dialoghi d’amore, cit., p. 178. 47 Cfr. G. Pico della Mirandola, Commento sopra a una canzona de amore composta da Girolamo Benivieni, in Opere, E. Garin (a cura di), Torino 2004, vol. I, pp. 557-558. 48 Furori, p. 800: «Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso: privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la considerazione de l’alto intelligibile e la compresa imbecillità de la potenza; è altissimo per l’aspira-
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Bruno traccia qui un parallelismo tra la morte mistica e il raptus divino del Cantico dei cantici, tra la ricerca della verità da parte del furioso e quella dei profeti. Tuttavia, tra il furore mistico e quello filosofico vi è una radicale differenza: Poneno, e sono più specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mostrano che cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato; altri consisteno in certa divina abstrazione per dovegnono alcuni megliori in fatto che uomini ordinari. E questi sono de due specie perché: altri per esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati et ignoranti, nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purgata, s’intrude il senso e spirito divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de propria raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che se quei non parlano per proprio studio et esperienza come è manifesto, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e con questi la moltitudine degli uomini in tali degnamente ha maggior admirazione e fede49.
La distinzione tra le due specie di furori, uno mistico-profetico, l’altro filosofico, recupera quella tra le due forme di magia e di contractiones descritte nel Sigillus, una che opera attraverso una regulatas fides e una seconda che agisce per mezzo della credulitas. Come nel Sigillus così anche qui Bruno distingue tra il furore di quanti si fanno vaso e strumento di una divinità o di un demone, essendo vuoti, ignoranti e privi di ragione; e quanti, invece, incarnano una lodevole specie di furore intellettuale, nei quali nessuno spirito o demone potrebbe
zione dell’eroico desio che trapassa di gan lunga gli suoi termini, et è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger numero a numero […]». 49 Ivi, p. 805.
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introdursi, essendo questi già ricolmi della loro ragione, liberi e non schiavi della propria o altrui immaginazione50. Questa distinzione non è esclusivamente gnoseologica, ma assume una connotazione morale ed etico-civile. I Furori rappresentano la proposta di una riforma interiore, una trasformazione dell’essere umano da vaso, strumento e soggetto della vicissitudine degli eventi e delle metamorfosi, ad artefice della propria esistenza e del proprio destino. Se «la luce divina è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive»51, ciò significa che questa è sempre percepibile da ogni individuo e che ognuno può mettersi sulle sue tracce e parteciparne. Il rifiuto di questa luce non è che un pigro soggiornare in una dimensione d’asinità, di ferina e bestiale schiavitù. Il compito di ogni individuo è, invece, quello di potenziare e accrescere le facoltà che lo rendono libero e capace di autodeterminarsi. La distinzione tra queste due forme di furore è il riconoscimento della differenza antropologica, già tracciata nel Sigillus, tra quanti si rendono schiavi di fantasie e pensieri che legano il soggetto a una costante e passiva ignoranza; e quanti agiscono attivamente, in virtù del proprio intelletto o lume naturale, tentando di conoscere, apprendere ed elevarsi dal loro stato ordinario. Se i primi sono umiliati, aggiogati e vincolati a uno stato di bestiale asinità, i secondi rappresentano il compimento delle virtù umane, fonte di progresso per l’intera specie. I primi sono vincolati e agiti dalla loro stessa immaginazione e attraverso questa istituiscono legami che incatenano a uno stato di dipendenza e schiavitù intellettuale. I secondi sono, invece, in grado di dominare e agire sulla propria e altrui immaginazione, istituendo vincoli che fortificano e uniscono la repubblica degli uomini: Ibidem: «per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato uno spirito lucido e intellettuale, da uno interno stimolo e fervor naturale suscitato da l’amor della divinitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendono il lume razionale con cui veggono più ordinariamente: e questi non vegnono al fine a parlar et oprar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici et efficienti». 51 Ivi, p. 762. 50
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Gli primi hanno più dignità, potestà et efficacia in sé: perché hanno la divinità. Gli secondi son essi più degni, più potenti et efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si considera e vede in effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade52.
La ricerca del furioso non è estasi mistica, ma conoscenza che non ha termine né possesso di una verità permanente, che conduce a farsi divino attraverso la fatica, il lavoro, lo studio e non per il rapimento di un dio o di un demone. L’eroico furore non è un invasamento53, ma inappagabile desiderio di conoscenza, di affinamento e perfezionamento delle capacità e delle possibilità umane di apprensione. L’eroico furore non è, dunque, frutto di una nobiltà di nascita o un’illuminazione improvvisa e provvisoria, ma un interminabile processo di avvicinamento e immedesimazione con la verità, il bene e il bello universali54. Al di là della ripresa del tema dell’eros e del lessico impiegato, nel De vinculis muta, rispetto ai Furori, lo scopo dell’opera. Il problema dell’ultimo degli scritti magici non è più il legame d’amore con la verità, ma l’individuazione delle dinamiche di attrazione, di costruzione, accrescimento e salvaguardia del potere esercitato dall’essere umano sui suoi simili. Tuttavia, anche in questo caso, come nell’ultimo dei dialoghi italiani, la possibilità di attrarre e di legare è ricondotta al vinculum amoris da cui scaturisce ogni specie di relazione. L’originarietà dell’aIvi, p. 806. Cfr. C. Agrippa, De occulta philosophia libri tres, V. Perrone Compagni (a cura di), Leiden-New York-Köln 1992, lib. I, cap. 50, pp. 212-216, lib. III, cap. 45-50, pp. 545-556. 54 Furori, pp. 806-807: «Questi furori de quali noi raggionamo, e che veggiamo messi in execuzione in queste sentenze, non sono oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e del buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et assomigliarsi in quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale del buono e del bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere». 52
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more, struttura intima della natura e presupposto dell’ars vinciendi, si riflette nelle concordanze testuali e concettuali tra i due scritti, come ad esempio i primi otto versi del sonetto che apre il dialogo II della prima parte dei Furori, riproposto nell’articolo IX («Ut idem eodem contrariis alligat») della terza sezione del De vinculis: Io che porto d’amor l’alto vessillo, gelate ho speme, e gli desir cocenti: a un tempo tremo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli occhi ho Teti, et Vulcan al core55. Altr’amo, odio me stesso: ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi altr’al ciel, s’io mi ripogno al basso; sempr’altri fugge, s’io non cesso; s’io chiamo non risponde: e quant’io cerco più, più mi s’asconde56.
Chi è preda del vincolo d’amore vive sensazioni opposte, una contrarietà che spinge a voler gridare e tacere, a provare gioia e tristezza, pur essendo legato da uno stesso e unico sentimento d’amore. E la causa risiede nella constatazione che non vi è «delettazione alcuna senza qualch’amaro; anzi […] se non fusse l’amaro nelle cose, non sarebe alcuna delettazione»57. La ripresa nel De vinculis dei primi otto versi di questo sonetto è funzionale a chiarire come gli effetti provenienti da una stessa specie di sentimento e legame possano essere tra loro contrari e opposti. Cfr. De vinculis, pp. 426-429. Furori, p. 795. 57 Ivi, p. 795. 55
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Il vinculum Cupidinis è il paradigma attraverso cui comprendere l’ambivalenza, la contrarietà, la discordanza e opposizione degli effetti di una stessa specie di sentimento e di vincolo. In virtù della natura dell’amore, ogni amante prova piacere e, insieme, perenne e inappagato desiderio: «l’amore eroico è un tormento, perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del futuro e de l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto e timore»58. La ripresa di questo tema nel De vinculis consente di osservare come la riflessione sull’eros e sul vinculum amoris nell’ultimo dei trattati magici s’inserisca in modo organico nella prospettiva metafisica e gnoseologica dei Furori. I rimandi tra uno scritto e l’altro non sono soltanto testuali ma anche strutturali. Come Atteone non può fissare Diana nuda, ovvero la luce della verità, ma scorgerne il suo riflesso, immerso nella penombra della selva, così il vinciens può legare soltanto attraverso «subtilia […] vincula»59, per mezzo di legami ineffabili e impercettibili alla sensibilità del vinciente. Quella di Atteone e quella del vinciens sono due specie di caccia simili: la prima, è un’interminabile ricerca della verità e del divino nella natura; la seconda, un adescamento di anime sul piano civile. Per raggiungere il suo scopo, il vinciens deve dissimulare la volontà di attrarre, agire attraverso legami sottilissimi e anticipare la mutazione, sapendo che a un dato stato emotivo ne corrisponde generalmente un altro ben preciso60, non ignorando le particolari composizioni che rendono ogni soggetto diverso da un altro. Gli strumenti con cui vincolare sono gli stessi di cui è preda il furioso: l’appetitus e la cognitio61. Ivi, p. 796. De vinculis, pp. 446. 60 Ivi, p. 448. 61 Ivi, p. 450: «Vinciens non unit sibi animam nisi raptam, non rapit nisi vinctam; non vincit nisi illi se copulaverit, non copulatur nisi eam pervenit; non pervenit nisi per motum, non movetur nisi per appulsum; non appellit nisi postquam inclinaverit vel declinaverit ad illam, non inclinat nisi desideravit et appetierit; non appetit nisi cognoverit, non cognovit nisi oculis et auribus, vel interni sensus obtutibus, obiectum specie vel simulachro praesens adfuerit. Pervenire igitur facit vincula per cognitionem in genere, necit vincula per affectum in genere. Cognitionem dico in genere, quia nescitur interdum quo sensu rapiatur; affectum dico in genere, quia nec iste facile interdum definitur». 58 59
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Desiderio e conoscenza sono le cause del moto psichico e fisico di attrazione, i due strumenti necessari tanto al vinciens quanto al vincibile. Come Bruno osserva nell’articolo XXVIII della prima sezione del De vinculis dedicato alle astuzie del vinciens, se nella relazione d’amore e di conoscenza il primo è portato a immedesimarsi nel soggetto da vincolare, allo stesso modo, il secondo non sarà mai vincolato se non è mosso da appetitus e cognitio. Se desiderio e conoscenza sono spenti o solo parzialmente presenti, risulterà difficile avvincere62. Queste due condizioni necessarie ad attrarre sono le stesse che Bruno individua nei Furori come indispensabili alla ricerca della verità. Il vincolo d’amore per la verità trasforma il furioso nell’oggetto della sua ricerca, facendo della relazione tra l’amante e l’amato un movimento che porta il primo a identificarsi nel secondo. Il vincolo è un principio di trasformazione reciproca dei due termini della relazione. La dipendenza del De vinculis dai Furori è nuovamente riscontrabile dall’analisi dell’articolo XX («Fulcra schalae vinculorum») della terza sezione del trattato magico, in cui Bruno recupera, secondo un modello platonico e ficiniano63, questioni già affrontate nel dialogo: dalla rappresentazione scalare della natura, attraverso la quale accedere al riconoscimento dell’unico e universale vincolo d’amore, alla metamorfosi dell’amante nell’amato; dalla morte dell’amante che, morto a sé stesso, vive della vita di colui che ama, alla comprensione della catena degli affetti e dei turbamenti che muovono l’essere umano, migrando senza sosta da una specie di vincolo all’altra64. Il furioso e il vinciens cercano entrambi di ricondurre a unità una realtà molteplice rifratta in infinite particolarità. Quest’operazione non è mai definitiva, ma continua, instabile e sempre incompiuta. Come il furioso è in cerca di un oggetto mai pienamente conoscibile, così la preda del vinciens è Ivi, p. 448: «Sicut in specie non vincit Venus neque arcem expugnat facile, inania sunt vasa, turbatus spiritus, urens anxia: sed produnt arcem intumescentia vasa, tranquillus animus, mens quieta, corpus otiosum, quorum custodum et vigilum vicibus observatis, repente audendum, irruendum, viribus omnibus agendum, non cessandum. Haud aliter in aliis vinciendi actibus observandum». 63 Cfr. M. Ficini In convivium, cit., d. V, cap. 2, pp. 86-92. 64 De vinculis, pp. 526-528. 62
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sempre sfuggente, proprio «quam Thetis ad Pelei concubitus evitandos respicere»65. Entrambi sperimentano la contrarietà, nell’incessante tentativo di osservare sia la mutazione della materia in forme sempre differenti, sia dell’essere umano da una specie di vincolo all’altro. Se nei Furori Bruno esprime la necessità d’individuare uno spazio di libertà all’azione umana, pur nell’ontologia e nella cosmologia tracciata nelle opere precedenti, è a questa che egli risponde con il De vinculis, riaffermando la duplice prospettiva sul vinculum amoris, principio naturale e fondamento dell’agire politico. L’ultimo scritto magico rappresenta il processo di descenso dall’Uno al molteplice, dalla coincidenza delle differenze, dei contrari e degli opposti, attraverso il ritrovamento del punto de l’unione, all’azione su di essi e all’istituzione di vincoli civili. 4. Dalla critica del bello platonico alla relatività del sentimento d’amore Nell’articolo XVII («Vincientis sedes») della sezione De vinciente, dedicata ai mezzi attraverso i quali vincolare, riprendendo inizialmente un canone platonico, Bruno osserva come tra i più efficaci strumenti attraverso cui vincolare vi sia il bello, traduzione sensibile dell’amore66. La considerazione per cui l’anima a contatto con un oggetto bello è legata a esso in ogni circostanza, senza alcuna possibilità che ciò non avvenga, si ricongiunge alla teoria platonica dell’ἀνάμνησις o recordatio67, secondo la quale essa conosce l’idea della bellezza prima di essere incatenata al corpo. Questa considerazione del bello si accompagna a quella dell’amore come sentimento che sorge dal contatto dell’anima con un oggetto che richiama l’idea astratta della bellezza e la modifica. Ivi, p. 446. Ivi, p. 436: «Putant nonnulli, parum distinguentes, ut Platonici, illud quod vincit esse rei speciem, quae a re/ad animam proficiscintur, a re subiecta tamen non recedit, sicut ignis qui comunicans suam speciem non attenuantur, sicut imago quae in subiecto primo, inde in speculo, in intermedio et in oculis»; cfr. pp. 428-432. 67 Cfr. Platone, Fedro, 247c-e; cfr. Id, Fedone, 72b-77b; cfr. Id, Menone, 81c-86c. 65
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Bruno svolge qui una critica tesa a capovolgere i termini della questione. La relazione d’amore non rispecchia il compimento sensibile dell’idea del bello, ma matura come un legame dell’esperienza. Se il bello, il buono e il vero assoluti, la causa e principio primo, vincolano più di ogni altra cosa68, tuttavia, come recita l’articolo XII («Non est unus qui omne vinciat particularis») della sezione De vinciente, «nullum particulare sit absolute pulchrum, bonum, verum etc., non solum supra genus, sed neque in genere neque in specie aliqua»69. Se nessun oggetto sensibile e particolare può esser definito bello, buono e vero in assoluto, ciò vuol dire che «nihil est quod simpliciter vincire per eosdem gradus possit»70, ovvero nulla può vincolare in ogni circostanza, in ogni tempo e in ogni luogo. Nonostante quest’impossibilità, ogni cosa desidera, essere bella in assoluto, almeno secondo la condizione particolare che attiene alla propria specie, così come ogni essere umano aspira alla propria conservazione e all’affermazione di sé stesso sotto ogni aspetto71. L’idea del bello non è esprimibile in un particolare oggetto o corpo sensibile, poiché differisce in ogni specie. Una bellezza ideale potrebbe essere rintracciata soltanto nella totalità e nell’eternità72. Se la bellezza assoluta, rappresentata dall’universale vinculum Cupidis, vincola sopra ogni cosa, al contrario, la bellezza esperibile nel mondo sensibile non solo non può essere definita tale in senso assoluto, ma non può neppure vincolare assolutamente, sia che consista in una certa qual simmetria73, sia in qualcosa d’incorporeo che si riflette o s’incarna in un corpo particolare74.
Ivi, pp. 428-430: «Id quod absolute pulchrum et bonum et magnum et verum absolute vincit affectum, intellectum et omne. Item nihil perdit, omnia continet, omnia desiderat, desideratur et persequitur a pluribus, quod diverso vinculorum genere viget». 69 De vinculis, p. 430. 70 Ibidem. 71 Ibidem: «Omnia enim appetunt esse absolute et ex omni parte pulchra, iuxta propriae speciei atque generis conditionem saltem». 72 Ibidem. 73 Ivi, p. 432. 74 Ibidem. 68
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Questa riflessione è già espressa nei Furori75: Bruno vi ripropone la definizione ficiniana76 del bello come riflesso in un corpo sensibile della bellezza spirituale, la quale rende armonioso e trasforma il corpo stesso. Ma se egli sembra seguire la sua fonte, ne capovolge in realtà i termini della questione, anticipando ciò che trova piena elaborazione nel De vinculis 77. «La beltà […] del corpo ha forza d’accendere»78, di risvegliare l’anima, «ma non già di legare e far che l’amante non possa fuggire»79, a meno che «la grazia che si richiede nel spirto non soccorre, come la onestà, la gratitudine, la cortesia, l’accortezza»80. La bellezza corporea con la sua inconsistenza e precarietà non è il vincolo che lega sopra ogni cosa, né il riflesso di un’idea metafisica del bello benché, come Bruno stesso osserva, «dissi bello quel fuoco che m’accese, perché ancor non fu nobil laccio che m’annodava»81. Recuperando i Furori, nel De vinculis egli fa scaturire il bello non da una definizione intellettuale, ma dalla concretezza delle relazioni e dei rapporti vitali, nei quali volta per volta questo si determina e può essere definito. Allo stesso modo, l’amore non proviene da un «fulgor»82, un «radius et actus»83, che colpisce il soggetto in maniera unilaterale, risvegliando nell’anima l’idea assopita del bello. L’amore è, invece, generato proprio dalla condizione particolare del soggetto in rapporto a un oggetto84, ovvero, come sottolinea Papi, «nasce sempre da una Furori, p. 809. Cfr. M. Ficini In convivium, cit., d. V, cap. 3, pp. 92-97. 77 Cfr. De vinculis, p. 498. 78 Furori, p. 809. 79 Ibidem. 80 Ibidem. 81 Ibidem. 82 Ivi, p. 497. 83 Ibidem. 84 De vinculis, pp. 436-438: «Indefinita ergo et incircumscriptibilis omnino est ratio pulchritudinis et a simili ratio iocundi atque boni. Proinde non tota vinculi ratio in re subiecta perspicienda est, sed etiam, secundum alteram non minus praecipuam partem, in eo quod vincitur nihilo enim mutata cibi qualitate atque substantia, nunc post refectionem reiicitur, qui paulo ante avide sumebatur. Cupidinis vincula, quae ante coitum intensa erat, modico seminis iactu sunt remissa, et ignes temperati, 75 76
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relazionalità»85. L’amore si costituisce nella concretezza dell’esperienza della relazione tra un vinciens e un vincibile, nel tentativo che il primo attua per rendere concreto ed esperibile il legame. In questa relazione, il vincibile assume una necessaria funzione di elemento stimolante. Il vincolo che s’istaura tra il soggetto del vincolare e l’oggetto del vincolo non può mai essere compreso secondo regole astratte e staticamente definite, ma si configura di volta in volta differente e mutevole, a seconda dei sentimenti appetitivi che risultano predominanti. Ogni vincolo, ogni relazione tra amante e amato, tra vinciens e vincibile assume caratteristiche singolari e irripetibili, in quanto esperienza non astratta, ma concreta, che si determina in un’azione, in un movimento. È nel moto, nella mutazione da uno stato all’altro che si realizza il legame d’amore, delineandosi come relazione assolutamente particolare. Ciò testimonia della relatività di ogni esperienza e relazione d’amore, della molteplicità e pluralità delle manifestazioni del vinculum amoris, pur nell’universalità del sentimento che pervade tutta la natura. Proprio la relatività di ogni particolare e singolare attrazione, caratterizzata dallo stato in cui si trova il soggetto, da quello dell’oggetto e, infine, dalle condizioni in cui si determina il legame, manifesta l’assoluta vitalità dell’amore. Allo stesso tempo e dal punto di vista opposto, la relatività di ogni vincolo che si attua tra due soggetti contrari, finiti e differenti porta con sé la relativizzazione del bello. La bellezza non è un’idea definibile secondo termini e canoni astratti, ma un sentimento o una passione, un segno tangibile dell’universalità del vinculum amoris che unisce tutti gli esseri umani, pur nell’insopprimibile irripetibilità e precarietà di ogni relazione singolare e particolare. Ogni individuo, come ogni corpo ed elemento naturale è spinto all’attrazione, ad associarsi, a vincolare e a lasciarsi vincolare, a fuggire il contrario e a ricercare il simile per philautia, l’amore naturale, universale e singolare, che lega ogni cosa. Ma al tempo stesso, ogni legame, relazioobiecto pulchro nihilominus eodem permanente. Non tota igitur vinculi ratio ad illud est referenda». 85 F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 162.
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ne e vincolo particolari costituiscono un momento unico e irripetibile che si perde nella continua mutazione. È questa la ragione per la quale ognuno è attratto da un oggetto differente che, pur identico, può non attrarre più l’attimo dopo. Se un oggetto identico avvince Socrate e Platone, questo non vincolerà alla stessa maniera l’uno e l’altro, così come ciò che turba e lega le masse non vincola i pochi86. Essere vincolati dal vinculum amoris costituisce «la ragione fondamentale dell’esistere»87. Come Bruno osserva nell’autografo del De vinculis, soltanto la fame, il tempo e la morte possono deviare e ostacolare l’amore, forza originaria insita in tutta la natura e attraverso cui si esprime il processo di generazione e rigenerazione universale: «Crates Tebanus dixit: remedium amoris fames, si haec non sufficit tempus, si hoc non sufficit laquens»88. L’amore, come definito nell’articolo XXIV («Vincibilium definitio») della sezione De vincibilibus, è determinato, poiché soltanto caso per caso è possibile individuare la ragione specifica che lo muove o che suscita una particolare relazione, la quale non è mai frutto della fortuna. Allo stesso tempo, l’amore è «“occultum” et “determinatum”, illud, quod “indefinitum” appellavit, quia non apertum»89. La concezione platonica del bello e dell’amore non coglie la pluralità delle condizioni in cui questi si manifestano. Il platonismo si limita a definire una struttura ideale delle relazioni, ignorando l’esperienza concreta del fenomeno. Nel commento al Simposio, Ficino90, descrive il bello nei termini di una certa proporzione e armonia che, attraverso i sensi, colpisce l’anima legandola in un vincolo d’amore. Questa definizione non riconoscere la pluralità, la particolarità e la concretezza dei legami d’amore: questi non rispondono a un modello o a uno schema ideale, bensì all’irriducibile irregolarità e varietà che caratterizza ogni Ivi, p. 433: «Diversa igitur individua a diversis vinciuntur obiectis; etsi quippe idem sit quod vinciat. Socratem atque Platonem, aliter tamen hunc vinciet atque illum; alia multitudinem, alia paucos movent, alia mares et viriles, alia feminas et muliebres». 87 F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 163. 88 De vinculis, p. 549. 89 Ivi, p. 482. 90 Cfr. M. Ficini In convivium, cit., d. V, cap. 3, pp. 92-97. 86
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relazione, alle condizioni di esistenza in cui si determinano. Bruno colloca, invece, l’esperienza amorosa nella concretezza, particolarità e pluralità del suo manifestarsi, destrutturando il modello platonico e aprendo a una nuova comprensione del fenomeno. Egli rimodula una concezione del bello derivante da un modello ideale in un senso vitalistico che relativizza l’ideale stesso di bellezza, collocandola nella concretezza dell’esperienza e dell’esistenza. Allo stesso tempo, la considerazione dell’amore come forza, sentimento e vincolo universale, ragione fisico-metafisica che pervade e trascende la dimensione del molteplice, rappresenta il fondamento stesso della relatività del suo manifestarsi nelle relazioni particolari. 5. Appetitus e cognitio: le ragioni universali del vincire Come Bruno osserva nell’articolo XXV («Vincibilium sensus») della seconda sezione del De vinculis, non è la ragione a incidere sulla capacità di vincolare in maniera efficace, quanto piuttosto la fortuna. Nell’esperienza del vincolo d’amore, dell’odio e degli altri sentimenti, la ragione non costituisce una conoscenza primaria, ma è preceduta da forme di sapere più immediate, spontanee e inconsce91. L’esperienza del sentimento d’amore è una cognitio practica. Essa risiede nel riconoscimento, da parte del vinciens, dell’utilità dell’oggetto vincibile, ovvero della necessità della relazione nel processo di conservazione ed espansione vitale, di partecipazione alla totalità della natura. Tuttavia, questa non è una consapevole operazione gnoseologica, ma un conoscere 91 De vinculis, p. 482: «Achei non ad ratione, seu cognitionis speciem, sed ad fortunam referebant, quod aliquid amore vel odio vel aliis affectibus vinciretur, unde in eadem ara amorem atque fortunam colebant. Cui iudicio adstipulantur Platonici quidam, ideo dicentes animalia muta non semper amore vinciri, quia ratione carent et prudentia. Sed isti nimis crasse sentiunt de natura cognitionibus et intellectus, qui cum spiritu universi implet omnia, et ex omnibus pro suppositi ratione enitescit. Nobis vero tum amor tum omnis affectus valde practica est cognitio, quin etiam discursus, ratiocinatio et argumentatio – qua potissimum homines vinciuntur – neuquaquam inter primarias cognitionis species numerantur».
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immediato che avviene tramite l’oggetto della relazione. L’analisi della cognitio practica non è estranea a chi voglia vincolare nell’ambito civile. L’articolo XXV si conclude, non a caso, con l’avvertimento rivolto a quanti facciano dell’ars vinciendi uno strumento di potere, suggerendo come non sia la ragione a permettere di vincolare efficacemente, ma una conoscenza appropriata alla specie e al genere su cui si agisce: «credat ergo vincire volens rationem neque plures neque precipuas ad ligandum partes obtinere, bene autem cognitio secundus genus»92. La considerazione sulla cognitio practica consente, inoltre, a Bruno di rifiutare e ridefinire il concetto platonico di ratio. Questa non è caratteristica dell’anima umana, ma dell’anima del mondo che vivifica ogni elemento e corpo naturali agendo come ragione del movimento. A partire da questa ridefinizione, egli stabilisce una relazione tra l’anima del mondo e l’amore, sentimento universale che si particolarizza e si concretizza in un soggetto sotto forma di cognitio e appetitus, conoscenza e desiderio appropriati al genere, presupposti indispensabili senza i quali non è possibile vincire efficacemente, né in ambito civile, né magico93. Chi non conosce e non desidera, chi non nutre alcun appetito non potrà essere vincolato né vincolare. Come la materia spinta dall’amore universale desidera e appetisce infinitamente nuove forme, perché tutto ciò che può essere lo vorrebbe in atto, così gli elementi e i corpi naturali, composti di quella stessa materia e mossi dalla stessa anima o forma universale, tendono verso tutte le cose e desiderano legarsi a ogni cosa e farsi ogni cosa per colmare la loro mancanza d’essere finiti. In questa dinamica, l’amore costituisce la realizzazione sensibile ed esperibile del sentimento attraverso il quale l’anima del mondo spinge gli elementi e i corpi naturali al movimento, garantendo la vicissitudine e la trasformazione permanente di ogni cosa in ogni altra, l’attualizzarsi dell’infinita potenza della materia nel Ibidem. Ivi, p. 483: «Duas vincibilitatis sunt causa, et eadem sunt de essentia vincibilis, quatenus vincibile est : cognitio secundum genus, et appetitus secundum genus. Da quod nullo modo appetat, dabis quod nullo modo spiritualiter vinciatur. Adde quod sine cognitione et affectu neque est quod aliquis vinciat civiliter neqe magice». 92 93
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tempo e nello spazio. L’amore è, dunque, espressione dell’anima del mondo che muove ogni cosa alla mutazione. Il vnciens e il vincibile, l’agente e il paziente, legati dal vincolo d’amore, sono portati a conoscere e a desiderare, a mutare e a trasformarsi, secondo il ritmo della vicissitudine. Nella relazione d’amore, amante e amato s’inseriscono nella processualità dell’essere, nel giogo di una ragione fisico-metafisica permanente e indifferente a ogni particolarità o accidente che passa, nel divenire, attraverso l’amore come principio trascendente la molteplicità. L’amore è la ragione sensibile che spinge ogni cosa all’exsistere, all’uscir fuori da sé per essere assorbita nell’infinità della vita. Bruno distingue due specie d’amore: un Cupido «superior et inferior, novissimus et antiquissimus, caecus et perspicacissimus qui facit omnia pro viribus vel in se ipsis consistere ne a se recedant ad specei perennitatem»94, ossia un vinculum amoris universale che lega la natura tutta e i vincula particolari. Ogni relazione d’amore determinata, spaziale e temporanea è parte della più generale vicenda naturale. Sulla base di questo rapporto tra superiore e inferiore, finito e infinito, unità e molteplicità, egli passa dall’analisi dell’amore come determinazione relativa e singolare, alla considerazione di esso quale principio universale, inscindibile dalla sua filosofia naturale. Tutto l’universo è organizzato in modo che «continuo quodam quasi fluxu ab omnibus progressio fieri possit ad omnia»95, ovvero che il vinculum amoris universale leghi in maniera coordinata tutte le cose come in un continuo fluire, garantendo l’unità, la concatenazione dell’essere e la vicissitudine. Come egli mostra nell’articolo XIII («Vinculi principalis effectus») della terza sezione, la sua riflessione sul vinculum amoris si radica e, al tempo stesso, si riflette nella sua ontologia: «Amor unum, vinculum unum facit omnia unum, diversas habet in diversis facies, ut idem aliter alia atque alia vinciat»96. Il vinculum amoris è la forza in virtù della Cfr. ivi, p. 512. Ivi, p. 508. 96 Ivi, p. 510; cfr. Ivi, pp. 510-514: «Ad particularium vero vicissitudinem facit, ut singula quodammodo a se ipsis recedant, ubi in amatum transferri concupiscit amans omne; per se ipsa quoque dissolvantur, aperiantur, dehiscant, ubi totum amans concipere concupit amatum et imbibire. Itaque est vinculum, quo res volunt esse ubi 94 95
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quale ogni cosa conosce e desidera conservarsi nella sua forma attuale e, al tempo stesso, tende a uscir da questa per partecipare all’infinità della vita universale. Bruno intreccia la prospettiva dell’Uno, infinito e permanente a quella del singolo composto temporale e terminato. Nel passaggio dall’articolo XIII al XIV («Vinculi qualitas») della terza sezione del De vinculis, egli descrive il vincolo come neutro, «neque pulchrum est neque bonum»97. Il vincolo è ciò «quo pulchrum atque bonum persequuntur omnia atque singula»98, il mezzo attraverso cui tutte le cose, ognuna secondo la propria modalità, partecipano alla vita universale e ricercano il bello e il buono per sé, la loro conservazione ed espansione. Di conseguenza, ogni cosa che desidera per sé il bello e il buono, non è in sé né bella né buona, ma manchevole di entrambe. In questa considerazione rientra anche la riflessione ontologica. La materia, se desidera, appetisce e tende al bello e al buono, dimostrando di essere manchevole e imperfetta, non è, però, turpe o cattiva, come vogliono i peripatetici. Se la materia fosse il male essa non potrebbe volgersi al bene, perché ciò equivarrebbe volere il suo contrario99.
sunt et non amittere quae habent. Interea quoque volunt esse ubique et habere quae absunt: unde ex complacentia quadam circa possessa, desiderio et appetitu circa distantia et possessibilia, et amore circa omnia, quia particulari et finito bono atque vero non expletur particularis appetitus et intellectus, qui ad universum bonum et universum verum respiciunt obiecta. Hinc est ut ab eodem vinculo finita potentia et in quadam definita materia simul et stringi et dispergi, de[s]trahi atque dissipari se experiatur. Hanc conditionem vinculi secudum genus in vinculis secundum specierum singulas observato». 97 Ivi, p. 514. 98 Ibidem. 99 Ivi, pp. 514-516: «Inde male concludit in proposito materiae Peripathetocorum aliquis materiam turpe[m] esse atque malum, quia appetendo bonum et pulchrum eodem carere se constatur. Circumspectius dixit Aristoteles «sicut turpe», «sicut malum», non autem simpliciter huiusmodi. In rei autem veritate neque turpe, neque pulchrum, neque malum est neque bonum, quod ad bonitatem, malitiam, turpitudinem et pulchritudinem tendit et aeque fertur ut materia. Si materia esset malum, contra eius naturam esset appetere bonum, itidem natura turpe. Item, si esset secundum similitudinem, / similiter se haberet atque contrarium, quod alterum contrarium non appetit, sed excludit et abhorret».
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Nel passaggio dalla «divina vis […] in rebus omnibus; amor, pater, fons et Amphitrites […] vinculorum»100, alla materia partoriente le forme dal suo interno, Bruno recupera la considerazione, già affermata nel De la causa101, della materia generante le forme dal suo interno, ponendo un rapporto inscindibile tra l’amore inteso come principio divino intimo della natura e la vicissitudine universale. Il vinculum amoris spinge la materia a partorire infinitamente dal suo interno le forme, nel desiderio eterno di colmare una mancanza costitutiva. E proprio quest’eterno desiderio di attualizzare la sua stessa infinità la rende perfettissima. Ogni cosa che desidera la pienezza e la perfezione partecipa dell’infinità e della perfezione della causa e principio primo102. Il desiderio di pienezza e perfezione della materia pone l’identità ontologica di essa con la totalità degli elementi e dei corpi naturali, con il loro perenne ex-sistere. Come la materia, così ogni cosa, incluso l’essere umano, è mossa dal desiderio di perfezionamento e di pienezza che avviene attraverso le relazioni che istituisce, legando e legandosi ai suoi simili per espandere la propria presenza nel ciclo della vita universale. L’unità dell’anima del mondo e della materia universale fa sì che ogni cosa viva, ami, si trasformi e si degeneri secondo le stesse dinamiche di attrazione e repulsione e lo stesso ritmo vitale. L’appetitus e la cognitio sono pertanto due condizioni dell’amore presenti in ogni cosa, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande. Dal riconoscimento di quest’analogia ontologica, Bruno ricava un suggerimento sul piano morale ed etico-civile, osservando come nel vinculum amoris si celi la struttura e il fondamento del reale, sia in senso naturale che politico. Nella conclusione dell’articolo XIV, formulando un’avvertenza per chi opera tra e sugli esseri umani, egli rileva: Ivi, p. 510. Cfr. Causa, pp. 266-268. 102 Ivi, p. 516: «Profundis vero philosophantes intelligunt quod nos alibi declaravimus, ut materia ipsa inchoationem habet omnium formarum in sinu suo – ita ut ex eo omnia promat et emittat –, non puram illam externo. Extra quippe materiae gremium nulla forma est, sed in eo tum omnes latent, et ex eo tum omnes educuntur». 100 101
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Civiliter ergo et secundum omnes rationes de vinculo consideranti perspicuum esse debet ut in omni materia seu materiae parte, in omni individuo seu particulari, tum omnia sublateant et subcontineantur semina, tum consequenter omnium vinculorum applicationes solerti quodam artificio compleri posse. Et docuimus in uno de trenta sigillis ut generalis ista transformatio fiat et applicatio103.
È questa un’avvertenza particolarmente significativa, posta a conclusione di un’analisi ontologica che testimonia, ancora una volta, come la riflessione politica e civile sia elaborata a partire dalla filosofia espressa sin dal Sigillus. Tra la rappresentazione metafisica, fisica, politica e antropologica, sussiste un’unità non scindibile. La correlazione tra la considerazione della materia e quella di tutti gli elementi e i corpi naturali come attratti da un vicolo d’amore universale consente lo slittamento verso l’ambito civile. Se la materia è pervasa da una tensione d’amore che la spinge a partorire e ad assumere incessantemente nuove forme, in cerca della pienezza e della perfezione, questa tensione è presente in tutti i composti materiali e, dunque, in ogni essere umano. Nel successivo articolo XV («Vinculi generalitas seu universo»), Bruno descrive l’amore come neutrale, intermedio tra bene e male, intimo sia alla materia che desidera continuamente nuove forme, sia agli elementi e ai corpi naturali, i quali desiderano ciò che è bello e buono per loro. Il vinculum amoris è comune sia al principio attivo che a quello passivo, sia all’agente che al paziente. Tutte le cose attive e passive desiderano legarsi al loro simile, concorde e conveniente, essere condotte a pienezza e perfezione, secondo una ragione insita nella natura che è ordine, congiunzione, unione e perfezione104. L’amore è un processo di perfezionamento che investe tanto la materia quanto i suoi accidenti, manifestandosi attraverso l’appetitus e la cognitio, condizioni che caratterizzano tutto l’universo. L’amore non è imperfezione, ma tensione al superamento della condizione finita, segno di perfezione, poiché quando una cosa finita desidera per amore la perfezione, essa 103 104
Ibidem. Ibidem.
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partecipa dell’assoluto e, quanto più grande è il suo appetito, tanto più è spinta verso la divinità105. Il vinculum amoris costituisce il legame più potente, l’espressione della struttura ontologica che si manifesta come sentimento originario e irriducibile in ogni cosa, spingendola a uscire da sé per unirsi all’altro da sé, eternamente insoddisfatta della condizione finita e imperfetta. Lo scopo di quest’eterna tensione d’amore è la generazione e la rigenerazione della natura e della vita nell’universo. Ogni elemento, ogni corpo, seppur infinitamente piccolo, racchiude in sé, come un seme, la totalità. L’immagine del seme esprime efficacemente la relazione tra l’universale e il particolare, tra l’Uno e il molteplice, che si attua nella generazione naturale. Eterno desiderio della materia di formare nuova vita, la generazione è, nella molteplicità e contrarietà del finito, un «reiterare l’essere»106. Con il suo eterno e inappagabile desiderio della forma, della pienezza e della perfezione, la materia racchiude in sé l’infinità del vivente, reso omogeneo non solo nella sua componente organica, ma anche nell’incessante tensione a uscir fuori di sé per ricongiungersi a un’origine mai pienamente accessibile. Come il furioso non si appaga nell’aver conosciuto, ma in un conoscere senza fine, così, perfettissimo, pur nella sua finitezza e imperfezione, è chi desidera farsi tutte le cose, come la materia che non si volge a una sola forma, ma tutte le partorisce e le assume:
Ivi, p. 518: «Non propterea igitur amor imperfectionem significat, ubi in materia et in Chaos ante rerum perfectionem contemplatur: totum quippe quod in Chaos et bruta illa quam excogitaverunt materia dicitur esse amor, totum dicitur simul esse perfectio. Quantum vero dicitur non esse, imperfectio et deordinatio, intelligitur non esse amor. Stat ergo ut amor ubique perfectum, et vinculum hoc ubique perfectionem contestetur. Ubi quippe imperfectum amat perfici., hoc quod amat perfici, habet quidem per imperfectionem, sed non ab imperfectione, sed certe a perfectionis partecipatione quadam et lumine divinitatis et eminentioris cuiusdam naturae obiecto, tanto magis vivaciter, quanto vehementius appetit. Altius quippe summi amore boni flagrat quod perfectius est quam quod imperfectum» 106 F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 167. 105
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Perfectissumum ergo est illud quod fieri vult omnia, et quod non ad particularem formam fertur et particularem perfectionem, sed ad universam formam et ad universam perfectionem. Eiusmodi est materia per universum, extra quam nulla est forma, in cuius potentia, appetitu et sipositiones omnes sunt formae, et quae in partibus suis vicissitudine quadam omnes recipit formas, quarum simul vel duas recipere non posset. Et divinum ergo quoddam est materia, sicut et divinum quoddam existimatur esse forma, quae aut nihil est, aut materiae quiddam est107.
Bruno recupera qui la prospettiva del quarto dialogo del De la causa, laddove definisce la realtà ontologica a partire dal punto di vista della materia. Egli riconduce l’amore nel seno della materia, garantendone la dinamicità e l’animazione. Non è un caso che proprio in questo articolo XV richiami esplicitamente sia il De la causa e il De l’ infinito, sia i nomi di David de Dinant e di Avicebron. La molteplicità è assorbita nella causa e principio primo, nell’unità dell’essere. Tutte le particolari specie di vincoli, legami e relazioni sono ricondotte al primo e originario vinculum amoris naturale e universale, «il vincolo fondamentale, quello della materia con la forma»108. 6. Gerarchia dei vincula e degli amori superiori e inferiori Dalla prospettiva dell’Uno infinito ogni esperienza particolare, temporalmente e spazialmente determinata, svanisce, poiché puro accidente assorbito nell’unità dell’essere. Soltanto ribaltando la prospettiva è possibile osservare come la molteplicità e la contrarietà siano l’unico spazio di libertà per l’agire umano. Occorre ripensare positivamente la dimensione finita, sottraendola al giogo della necessità. La scala naturae a cui Bruno fa riferimento sia nei dialoghi, sia negli scritti magici e nel De vinculis, è la rappresentazione del percorso 107 108
De vinculis, p. 518. F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 167.
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che l’intelletto umano compie per ascendere dal molteplice all’unità dell’essere e discendere nuovamente per agire sulla contrarietà. Sia l’esperienza del vinculum amoris universale, sia dei vincula particolari si colloca à metà di questo percorso gnoseologico. Poiché compresi nel più generale vincolo tra la materia e la forma, i vincoli particolari sono tutti relativi. Ma se ognuno di questi rientra nel ritmo vicissitudinario di generazione e rigenerazione, vi sono, tuttavia, vincoli che, nonostante il loro essere temporanei, si caratterizzano in modo differente. Qualora l’amore conduca un soggetto a desiderare oggetti non instabili e finiti, ma permanenti e infiniti, questi vincula si sottraggono alla necessità. La loro esperienza e conoscenza non avviene sul piano sensibile ma su quello intellettuale, portando il soggetto a determinarsi al di fuori dell’eterna vicissitudine. Dal riconoscimento di questa differenza tra i vincula relativi e instabili e quelli che, invece, oltrepassano la dimensione fisica e finita, Bruno traccia nel De vinculis una distinzione tra tre tipologie di legami, nonché tra tre specie di esseri umani avvinti da oggetti diversi: Contemplativi a sensibilium specierum aspectu divinis vinciuntur, voluptuosi per visum ad tangendi concupiscientiam descendunt, ethici in conversandi oblectationem trahuntur. Primi heroici habentur, secudni naturales, tertii rationales. Primi altiores, secundi inferiores, tertii medii. Primi dicuntur aethere digni, secundi vita, tertii sensu. Primi ascendunt ad Deum, secundi haerent corporibus, tertii ab altero extremorum recedunt, alteri appropinquant109.
Nella pluralità delle relazioni che caratterizzano l’esistenza umana, mentre i voluttuosi sono spinti da un appetito terreno verso oggetti di natura finita, soltanto gli eroici o i razionali sono in grado d’istituire vincula non relativi, temporali e instabili. Questi ultimi sono mossi dall’amore a stabilire un legame di natura intellettuale con il vero, il bello e il bene universali, vale a dire con la ragione universale di tutti i vincoli particolari. Questa distinzione di carattere antropologico 109
De vinculis, pp. 464-466.
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costituisce la prospettiva teorico-pratica nella quale Bruno ripensa il vincire nella dimensione civile. Nell’articolo IV («Vincibilium comparatio») della seconda sezione del trattato, egli osserva che «homines plus vinciantur quam bestiae, et homines bestiales atque stupidi ad heroica vincula minime sint apti, quam hi qui clariorem animam sunt adepti»110. Con l’accezione di «heroica vincula», egli intende le relazioni a cui sono spinti quanti hanno raggiunto chiarezza e profondità conoscitiva, stabilendo vincoli con un oggetto di natura intellettuale. Gli eroici sono gli esseri umani più adatti alla contemplazione e attratti da una maggior forza d’immaginazione, caratterizzati da una complessione di natura particolarmente malinconica. Nell’articolo XVII («Vincibilium temperamente») della seconda sezione del trattato, descrivendo le differenze tra i temperamenti umani e le specie di vincula da cui ognuno di questi è attratto, egli delinea una fisiologia umana, in relazione al vincolo specifico relativo a ciascun temperamento111. A differenza dei temperamenti collerici, sanguigni o flemmatici, attratti da elementi corporei instabili, i malinconici sono in grado, grazie alla loro immaginazione, d’istituire un vincolo d’amore con un oggetto intellettuale che oltrepassa la necessità fisica. Quest’amore e vincolo intellettuale è il furore eroico, il punto massimo della conoscenza umana della vicissitudine, il riconoscimento dell’unità dell’essere o del punto de l’unione. A differenza dei legami accidentali e particolari, questo vincolo si sottrae alla relatività e all’instabilità della condizione umana: in quanto permanente e immutabile esso trae origine da una tensione verso la totalità, in relazione alla totalità112. Vi è, dunque, una chiara distinzione tra due tipologie di vincoli e di amore, una particolare, relativa e volgare, una seconda universale, intellettuale. Ivi, p. 458. Ivi, pp. 474-476. 112 Cfr. Furori, p. 852: «la differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né discrezion de oggetti, da l’amor intellettivo il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si volta, da cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne l’affetto, s’infiamma, s’illustra ed è mantenuto nell’unità, identità e stato». 110 111
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Se nei Furori l’oggetto specifico è costituito esclusivamente dal vincolo d’amore intellettuale, non da quello sensuale, nel De vinculis quest’ultimo è posto in relazione al primo. Queste due tipologie d’amore e di legami sono sì distinguibili, ma traggono origine dalla stessa radice, vale a dire dall’onnipervasività del vinculum amoris universale quale causa e principio primo infinito. Se l’amore sensibile è il mezzo attraverso cui l’anima del mondo, nella relatività dei vincoli particolari, vivifica e dà forma a ogni elemento nell’eterno divenire, l’amore eroico è, invece, il vincolo che unisce in modo permanente l’individuo all’oggetto intellettuale del suo amore. Soltanto in virtù dell’amore eroico l’essere umano è guidato alla liberazione dalla molteplicità e dalla contrarietà, dall’instabilità dei legami particolari, per ascendere a un più alto livello del desiderio verso il riconoscimento dell’unità dell’essere. Colpito e divenuto preda del vincolo intellettuale per la verità, il furioso accede e vive in una condizione nuova, differente da quella di tutti gli altri elementi e corpi naturali, quella eroica o divina113. Il cammino del furioso è caratterizzato dal ritrovarsi incatenato a un’esperienza d’amore intellettuale in cui non vi è, né mai può esservi, alcun appagamento sensibile: esperienza inizialmente gnoseologica ma che, condotta al suo estremo, diviene la ragione di un rinnovamento esistenziale del soggetto. Non si tratta di un’ascesi mistica o di una possessione divina, ma di un’ascesa intellettuale verso l’Uno, verso il vinculum amoris che trasforma l’esistenza umana e il cui riconoscimento dona a questa nuova forma e coscienza. L’amore intellettuale, l’appetitus e la cognitio, muovono sia il vinciens sia il furioso verso un incessante perfezionamento oltre la natura, nel tentativo di comprenderla. Se ogni vincolo spinge il soggetto a uscir fuori di sé per immedesimarsi nell’oggetto del proprio desiderio, così anche nel caso dell’amore intellettuale si è preda della metamorfosi. Ma 113 Ivi, p. 806: «Doviene un Dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto: e d’altro non ha pensieri che de cose divine, e mostrasi insensibile ed impassibile in quelle cose che comunemente massime sentono, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor de la divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de vita».
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questa metamorfosi è di un genere differente da quella prodotta dalle altre specie di legame: essa è una modificazione qualitativa del soggetto, il quale attraverso il desiderio infinito di conoscere e agire è spinto a comprendere e a sottrarsi per un istante al moto incessante dell’universo e ad accedere a una dimensione di quiete. La metamorfosi di Atteone da cacciatore a preda non è causata dal divenire di ogni elemento e corpo naturale, ma costituisce il fine di un percorso di liberazione, di una mutata condizione esistenziale accessibile soltanto a pochi. Come osservava Garin, «contemplare è affermare l’indifferenza fondamentale dell’essere e, nell’ascenso all’unità, conquistare la pace, abbandonare doglia o timore, piacere o speranza»114. Il vincolo d’amore intellettuale muove al riconoscimento dell’Uno, donando nuova forma e nuovo senso all’esistenza del soggetto che ne è legato. In virtù di esso l’essere umano si riconosce in hilaritate tristis e in tristitia hilaris, conoscendo e dominando con la propria coscienza il processo naturale per cui l’animo passa incessantemente da un opposto all’altro. È questo il vincolo a cui solo gli eroici, refrattari e distanti alle fascinazioni del mondo sensibile, possono giungere. Questo è lo strumento più efficace per sciogliere ogni altra specie di vincolo e per padroneggiarla, per liberarsi dai fantasmi che rendono schiavi di ogni conscia e inconscia passione, per diventare soggetti agenti e non più agiti. 7. Dall’ indeterminatezza del desiderio alla determinazione antropologica Dal riconoscimento delle due specie d’amore, sensuale e intellettuale, Bruno traccia, sin dai Furori, una distinzione antropologica, poi nuovamente riproposta nel De vinculis e svuotata di ogni valore ontologico115, tra quanti sono attratti da oggetti sensibili e particolari, e quanti, E. Garin, L'umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Bari 1952, p. 263. 115 Cfr. De vinculis, p. 464. 114
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invece, sono vincolati da oggetti intellettuali e permanenti. Questa distinzione è tesa a definire non la superiorità dei temperamenti eroici e contemplativi, quanto piuttosto la pluralità dei caratteri umani116. Non vi sono uomini eroici o bestiali per nascita o per elezione: ogni individuo è indistintamente illuminato dall’unica luce della causa e principio primo che «influisce sopra tutti gl’individui dell’umana specie, e dicesi intelletto agente et attuante»117. Un unico intelletto illumina ogni cosa e ogni soggetto vi partecipa secondo disposizioni e capacità differenti118. Non vi è un’unica via, una modalità esclusiva di partecipazione all’intelletto universale ma molteplici, come molteplici sono i modi di apprensione della verità. Al fondo di questa pluralità ontologica e gnoseologica vi è la considerazione del carattere unitario e, al tempo stesso, molteplice della verità, che pur configurandosi come unica si esplica e può essere colta per gradi, vie, ragioni e lessici differenti. Ciò rappresenta il rifiuto di una ragione e di una filosofia che sia unica ed esclusiva nella conoscenza e nella partecipazione all’intelletto universale. Questa pluralità di vie d’accesso alla verità è determinata dalle differenti disposizioni dei soggetti, i quali, ognuno secondo le proprie possibilità, tentano di penetrare l’intelletto universale e permanente. E proprio la modalità di partecipazione a questa mens universale provoca la varietà che caratterizza e distingue gli esseri umani in bruti, razionali ed eroici119. Il vincolo generato dal desiderio di conoscenza e di partecipazione all’intelletto universale suscita nel soggetto una metamorfosi verso uno stato di coscienza superiore, verso il furore eroico che caratterizza 116 Furori, p. 912: «Bisogna che siene arteggiani, meccanici, agricoltori, servidori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pedanti ed altri simili: poiché altrimenti non potrebomo essere filosofi, contemplativi, cultori degli animi, padroni, capitani, nobili, illustri, ricchi ed altri che siano eroici simili agli dei». 117 Ivi, p. 851. 118 Ivi, pp. 851-852: «Questo intelletto unico specifico umano che ha influenza in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra specie che quella unica, la qual sempre se rinova per la conversion che fa al sole che è la prima et universale intelligenza: ma l’intelletto umano individuale e numeroso viene come gli occhi a voltarsi ad innumerabili e diversissimi oggetti, onde secondo infiniti gradi che son tutte le forme naturali viene informato». 119 Cfr. M. Ficini In convivium, cit., d. VI, cap. 8, p. 151.
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i pochi esseri umani che hanno affinato ed elevato le loro capacità e possibilità conoscitive. Soltanto quanti sono in grado d’indirizzare il loro intelletto particolare e instabile alla contemplazione dell’intelletto universale e permanente, stabilendo un vincolo intellettuale e non puramente sensibile, essi possono accedere a gradi più alti di coscienza e di esistenza120. Il ricongiungimento all’intelletto universale attraverso il vincolo d’amore non è il frutto di un’elezione o di una nobiltà di nascita, ma di una dignità di conquista, un percorso esistenziale e gnoseologico faticoso e senza fine. Se l’essere umano contiene in sé tutte le potenzialità, soltanto attraverso il lavoro e la fatica può ascendere al gradino più alto della «ruota delle metamorfosi»121, verso la condizione eroica o, per la via inversa, discendere verso quella bestiale122. Sta alla volontà e al desiderio del singolo scegliere a cosa legarsi e in quale punto della ruota situarsi, se verso l’alto o il basso. Eroico è, allora, chi grazie al proprio desiderio di conoscere si solleva dal gradino più basso delle metamorfosi sino a farsi eroico123. L’indeterminatezza del desiderio delinea sia la varietà dei temperamenti, sia le differenze tra i soggetti. La distinzione tra esseri umani eroici, razionali o contemplativi e bestiali, è ancora una volta rintracciabile tra quanti si rendono schiavi della propria e altrui immaginazione, dei vincoli della fantasia che offuscano la ragione, e coloro che potenziando le proprie capacità conoscitive giungono a legarsi al vincolo Furori, p. 852: «Là onde accade che sia furioso, vago et incerto questo intelletto particulare; come quello universale è quieto, stabile e certo, cossì secondo l’appetito come secondo l’apprensione. O pur quindi (come da per te stesso puoi facilmente desciferare) vien significata la natura dell’apprensione et appetito vario, vago, incostante et incerto del senso, e del concetto et appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza». 121 Ivi, p. 818. 122 Ibidem: «Or questa conversione e vicissitudine è figurata nella ruota delle metamorfosi, dove siede l’uomo nella parte eminente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e una mezza bestia descende dalla sinistra, et un mezzo bestia e mezzo uomo ascende da la destra». 123 Ibidem: «Il furioso eroico inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l’ali de l’intelletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la forma de suggetto più basso. E però disse: “Da suggetto più vil dovegno un Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore”». 120
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d’amore per la verità, liberandosi dai lacci del senso per congiungersi all’intelletto universale. Quest’autodeterminazione dei caratteri e delle facoltà di ogni individuo spinge, sul piano civile, al diversificarsi dei destini umani e alla strutturazione gerarchica sociale. Le contrarietà e le differenze sono necessarie alla costruzione di una comunità ben organizzata. Bruno pensa alla repubblica degli uomini come garanzia e salvaguardia delle specificità dei soggetti. Come negli organismi naturali vi sono parti superiori e parti inferiori che contribuiscono in egual misura alla sopravvivenza e all’accrescimento di un corpo unico, allo stesso modo, le diversità di complessione, di stato, di occupazione e di ruolo di ogni individuo all’interno di un corpo sociale, sono necessarie al mantenimento della concordia e del benessere della comunità: Però a che doviamo forzarci di corrompere il stato della natura il quale ha distinto l’universo in cose maggiori e minori, superiori ed inferiori, illustri ed oscure, degne ed indegne, non solo fuor di noi, ma ed ancora dentro di noi, nella nostra sustanza medesima, sin a quella parte di sustanza che s’afferma inmateriale; come delle intelligenze altre son suggette, altre preminenti, altre serveno ed ubediscono, altre comandano e governano? Però io crederei che questo non deve esser messo per essempio, a fin che, li sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili uguali a gli nobili, non vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose, che al fine succeda certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe deserte ed inculte republiche124.
La perversione dell’ordine delle cose è il rovesciamento della gerarchia per cui gli esseri umani ferini e asinini sono spinti a prendere il posto dei razionali ed eroici, affermando una bestiale egualità in cui le specificità dei soggetti sono annullate. Questa uguaglianza costituisce una forma di tirannia finalizzata a sopprimere il conflitto e a garantire una pace solo apparente, che conduce ogni individuo verso una schiavitù permanente, verso l’annullamento delle sue facoltà, del suo autodeterminarsi e diffe124
Furori, p. 912.
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renziarsi. Il conflitto costituisce, invece, nella prospettiva bruniana, un elemento insopprimibile e fecondo nella costruzione di una comunità. La pace non è un’indistinta omogeneità, un annullamento delle differenze costitutive di ogni individuo, ma l’equilibrio, il compromesso tra molteplici e contrari desideri, vincoli, caratteri e temperamenti umani. 8. De vinciente in genere: coloro che vincolano Nel De magia Bruno associa la figura del mago alla constatazione che ai soggetti più sapienti e potenti nella gerarchia umana spetti il governo dei più ignoranti125. Si tratta della stessa distinzione antropologica che percorre le pagine dei Furori e del De vinculis, tra quanti occupano la parte superiore della ruota delle metamorfosi e quanti si collocano nella parte inferiore. La varietà antropologica, la molteplicità e la contrarietà degli esseri umani, la differente complessione materiale e formale, l’indeterminatezza del desiderio, fanno sì che un’unica tipologia di vincolo non possa legare tutti gli individui. Il vinciens deve riconoscere la diversità dei soggetti su cui vuol agire e adattare su ognuno di essi una specie appropriata di legame. Le prime due sezioni del De vinculis, dedicate alla considerazione delle tecniche attraverso cui vincolare e delle realtà suscettibili di vincolo, sono una raccolta di osservazioni e indicazioni di carattere generale rivolte a quanti vogliano attrarre, avendo sempre presente il fondamento naturale dei sentimenti umani. Se nella terza e ultima sezione del trattato Bruno considera il vinculum amoris come la radice e il fondamento ontologico, nelle parti iniziali la sua riflessione è, invece, fortemente radicata al piano antropologico. Tuttavia, quest’analisi rivolta alla dimensione pratica non è separata da quella naturale. Il piano teorico della contemplazione filosofica non è mai scisso da quello della praxis. Questi due livelli del reale sono tra loro coessenziali: tra il riconoscimento dell’unità dell’essere e la coscienza operativa, relativa al particolare e contingente momento naturale, vi 125
Cfr. De magia, p. 228.
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è una profonda continuità. In virtù di tale continuità, il vinciens deve possedere una ragione tanto universale quanto specifica di tutte le cose, poiché se ogni caso particolare rientra in una dinamica naturale e in una struttura generale, nel suo essere quel caso determinato e non un altro, esso presenta sue proprie caratteristiche distintive e irripetibili. Per queste ragioni, chi opera attraverso l’ars vinciendi deve conoscere proprietà e caratteristiche di tutto ciò che esiste o, più limitatamente, dei soggetti sui quali agisce126. Il continuo oscillare tra l’unità dell’essere e la molteplicità delle sue manifestazioni ha come principale conseguenza il riconoscimento della relatività e instabilità dei vincoli particolari. Non vi è un unico oggetto che leghi in modo assoluto un composto vario e contrario come l’essere umano. Chi è attratto da un fanciullo non lo è da un giovane, allo stesso modo in cui chi è affascinato da una giovane ragazza non lo sarà più nel momento in cui questa sarà donna127. Come non vi è nulla di assolutamente bello che vincoli in quanto piacevole permanentemente, così non vi è nulla di assolutamente buono o utile che attragga in modo incondizionato. Se per alcuni animali le cose buone si trovano sulla terra, per altri queste sono nelle acque, o sui monti, o ancora in pianura128. Ogni realtà naturale è costituita di qualità contrarie e differenti, le quali fanno sì che un soggetto particolare non possa essere vincolato stabilmente da una sola specie di vincolo129. Questa relatività è da rintracciare proprio nella concretezza e varietà dei vincoli. Ogni essere umano è avvinto da più specie di vincoli, a seconda dei tempi, delle circostanze e della condizione. È più semplice, ad esempio, legare chi aspira a un cambiamento del proprio stato, anziché chi è appagato della propria condizione. La varietà dei vincoli comporta la 126 De vinculis, p. 428: «vincire ergo novit, qui universi rationem habet, vel saltem rei particularis vinciendae naturam, dispositionem, inclinationem, habitum, usum, finem». 127 Cfr. ivi, p. 424. 128 Ivi, p. 428. 129 Ivi, pp. 424-426: «non ergo ad unum principium referendum est et simplex, quod aliquid compositum et in sua natura varium, atque etiam ex contrariis consistens, vinciatur».
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possibilità di vincire sia consciamente sia inconsciamente attraverso molteplici strumenti e con finalità differenti. Tuttavia, soltanto chi si dimostri più abile e fortunato «secundum species atque modos»130, ossia conoscendo le caratteristiche specifiche dell’oggetto vincibile, «ille vinciet plures dominabitur et per plures de omnibus in sua specie triumphabit»131. La relatività del vincolo non dipende soltanto dalla natura composta e incostante del vincibile, ma ancor più dal fatto che anche un elemento costante, semplice e delle stesse quantità e qualità, vincolerà diversamente in tempi, occasioni e circostanze differenti132. Tra le varie tipologie di vincoli esaminate, Bruno ne individua una che nasce dall’indirizzare la disposizione umorale del prossimo. Gli adulatori descritti nell’articolo XX («Vincientis conditio»), agiscono sul soggetto da avvincere esaltandone le virtù e oscurandone i vizi, celando la loro tecnica e il loro scopo. Poiché l’essere amato e onorato rallegra ogni individuo, gli adulatori legano quanti non scorgono l’operazione che si cela dietro i loro modi. Nella conclusione di quest’articolo e del XXI («Ut vinciens vincitur»), egli introduce un elemento che caratterizza la maggior parte delle specie di vincoli ottenute non naturalmente, ma suscitate ad arte nel paziente su cui si opera: la gloria e il potere che si prova nel legare a sé qualcuno, tanto più forte quanto migliore e più elevato è l’oggetto avvinto, sentimento ambivalente e ambiguo. La sensazione di gloria che il vinciens prova nel vincolare può ribaltare la sua posizione, creando una ragione di legame con l’oggetto già vincolato e trasformando il vinciens in oggetto e preda del suo stesso vincolo133. Questa dinamica è comune a tutte le specie di attrazione. Ogni legame è una traduzione dell’amore in ambiti e contesti differenti. A chi voglia vincolare sarà necessaria l’esperienza e la conoscenza del sentimento d’amore particolare e universale, del modo in cui essa si Ivi, p. 432. Ibidem. 132 Ivi, pp. 432-434: «ut diversa sunt tempora, diversae occasiones et diversi subeunt affectus, neque una eademque mensura, ita neque est aliquid unum atque simplex et eiusdem quantitais et qualitatis, quod omnibus placere aeque possit, aeque omnes explere». 133 Ivi, p. 440. 130 131
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realizza tra due soggetti. Il sentimento e la relazione d’amore costituisce un paradigma dell’ars vinciendi. E come in ogni relazione d’amore, così anche nell’istituzione di un vincolo, elemento necessario e imprescindibile nell’azione del vinciens è il fascino. Questo deve sorgere da una condizione soggettiva, da una tensione del soggetto verso l’oggetto da avvincere che scaturisce soltanto in due condizioni corrispondenti alle due specie di vinciens descritte nell’articolo XXII («Vinciens distinctio»): una per cui si aspira a diventare degni, belli e buoni; una seconda per cui si desidera impadronirsi del buono, del bello e del degno134. Se la prima proviene da un senso di mancanza, la seconda deriva da ciò che stimiamo sopra ogni altra cosa. Definire secondo caratteri fissi la rete dei molteplici e differenti legami è uno sforzo vano: «occulta etiam maxima ex parte etiam sapientibus vinculorum est ratio»135. Il ricorso all’analogia, alla somiglianza, all’omogeneità di genere, nella comprensione delle dinamiche d’attrazione, possiede un valore relativo. La pluralità, l’instabilità e la causalità dei vincoli materiali e immaginari che attraggono l’essere umano non consente di stabilire una loro spiegazione assoluta. L’impossibilità di una definizione costante delle relazioni umane pone uno scarto tra la considerazione fisica dell’universo e quella civile. Se da un punto di vista fisico i fenomeni di attrazione si verificano secondo dinamiche ripetibili e classificabili, le relazioni umane sfuggono, invece, a una descrizione che possieda il carattere di necessità delle prime. L’essere umano è sì interno alla physis, ma le sue caratteristiche superano in parte l’ambito naturale e si aprono a uno spazio contingente di libertà. L’ars vinciendi non è scienza esatta, ma tecnica fondata sia su di un sapere universale, sia su di un vissuto e una conoscenza concreta e particolare dell’essere umano. Il vincire dipende dalla capacità dell’ingegno di affinare e attuare una tecnica che possa indirizzare ciò che mostra già una determinata propensione. Questa tecnica consiste nel far tendere gli individui verso quello a cui naturalmente inclinano, come lo scoraggiare un soggetto 134 135
Ivi, p. 442. De vinculis, p. 442.
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non aggressivo dall’occuparsi di cose militari, o chi è empio di dedicarsi al culto degli dèi, o ancora all’egoista di rinunciare ai suoi vantaggi136. Le armi del vinciens sono molteplici, sia naturali, sia artificiali. Se ogni vincolo ha origine da condizioni naturali, tuttavia, soltanto per mezzo di una conoscenza appropriata al genere, della tecnica e dell’artificio, è possibile indirizzare le propensioni già esistenti nel soggetto e trasformarlo. Occorre poi non trascurare mai il caso o la fortuna e le circostanze in cui si agisce che incidono sulla riuscita o meno del laccio. Il sapere, l’ars o la tecnica del vincolo fa sì che un essere umano, pur nella spontaneità del suo vivere e autodeterminarsi, rientri in un sistema di fini eteronomo. Affinché ciò avvenga è necessario che vi sia un varco, un traditore all’interno del soggetto da vincolare, un espediente che funga da esca137. Il vinciens deve conoscere e dirigere le inclinazioni dei pazienti su cui opera, aver presente i tempi e le circostanze nelle quali lanciare una determinata specie di legame. Nessun oggetto particolare vincola in modo assoluto e incondizionato, ma per ognuno vi è sempre un tempo, un luogo e una circostanza specifica. Come Venere non lega quando il desiderio è assente, «ubi inania sunt vasa, turbatus spiritus, urens anxia»138, così per ogni tipologia di vincolo occorre conoscere, osservare e agire nei tempi e nelle circostanze opportune e su soggetti ben disposti. Queste caratteristiche sono comuni a tutte le specie di vincula e non occorre adottare una tecnica differente per operare altri tipi di legame, ma tenere conto degli stessi principi. Seppur l’ars vinciendi non sia riconducibile a principi validi assolutamente in ogni tempo e su ogni soggetto, tuttavia, è possibile intuire e prevedere le trasformazioni degli stati dell’animo umano. Come una certa forma in un determinato momento assume una nuova forma non lontana da quella precedente, pur nell’infinità delle trasformazioni della materia, così, a ogni stato d’animo ne segue un successivo ben deterIvi, p. 445. Ivi, p. 448: «Non ligat vincibile vinciens, sicut neque munitissimam arcem expugnat dux facile, nisi domestico aliquo proditore, vel alio quocumque pacto consentiente, vel succumbente, vel utcunque tractabili ministro, fiat aditus». 138 Ibidem. 136 137
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minato: all’indignazione segue l’ira, a questa la tristezza e così via. Chi voglia vincolare non è completamente disorientato nella molteplicità dei sentimenti su cui intervenire. Anche quest’alternanza di affetti e passioni umane rientra nella vicissitudine che domina il ritmo della vita universale139. Il vinciens deve, dunque, osservare, conoscere e prevedere questo naturale ritmo vicissitudinario degli stati dell’animo umano. Egli potrà così intervenire al momento opportuno, cogliere l’occasione favorevole e avvincere con la massima rapidità140. Gran parte dell’abilità di chi vincola risiede nell’intuire la mutazione naturale degli stati nel conoscere e prevenire la forma che si cela e si prepara nell’eterna metamorfosi: «rescpicere […] mutationis ordinem et potentiam subsequentis formae praecedente»141. Con questo sapere, arte e tecnica, il vinciens potrà intuire da quale stato d’animo il paziente sarà colpito, in modo da predisporre i lacci più adatti a legarlo. 9. Reciprocità del vincolo: il modello della relazione tra materia e forma Affinché un vincolo risulti efficace il vinciens deve agire non in modo disinteressato, ma stimolando il desiderio del vincibile. Bruno definisce «schala»142 la reciprocità e la proporzionalità143 della relazione tra agente e paziente, la cui condizione necessaria è la conoscenza, nel secondo, dell’essere oggetto di desiderio da parte del primo: Vinciens non unit sibi animam nisi raptam, non rapit nisi victam; non vincit nisi illi se copulaverit, non copulatur nisi ad eam pervenit; non pervenit nisi per motum, non movetur nisi per appulsum; non appellit Cfr. ivi, pp. 446-448. Ivi, p. 448: «ideo provide et praematuro consilio vinciendi tempus praecognoscendum est, velocissime praesens praesenti utendum, ut vincire potens quamprimum vinciat et stringat». 141 Ivi, pp. 446-448. 142 Ivi, p. 450. 143 Cfr. M. Ficini In convivium, cit., d. II, cap. 8, pp. 42-48. 139 140
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nisi postquam inclinaverit vel declinaverit ad illam, non inclinat nisi desideravit et appetierit; non appetit nisi cognoverit, non cognovit nisi oculis et auribus, vel interni sensus obtutibus, obiectum specie vel simulachro praesens adfuerit144.
Il vinciens è attratto e vincolato dall’oggetto del suo stesso vincire. La reciprocità ridefinisce questa relazione che, seppur è sempre definita nei termini di un’azione di un soggetto attivo verso uno passivo, riconosce come il vinciens debba essere attratto dal vincibile per vincolarlo. La relazione non è semplicemente l’azione di un soggetto agente su di un paziente, ma di un agente che, al tempo stesso, è anche passivo e un di un soggetto paziente attivo. Si tratta cioè di una relazione che ripercorre e si adatta al modello ontologico con cui Bruno definisce nel De la causa il vincolo di materia e forma non più nei termini di potenza e atto, ma di potestà di fare e potestà d’esser fatto, riconoscendo come anche il ricevere e l’assumere una forma sia un’azione propria a un soggetto attivo come la materia e non puramente passivo. Come la materia e la forma nella loro unione sono un possest, un vincolo che congiunge l’atto e la potenza, non essendovi più differenza tra il fare e il ricevere, così lo sono il vinciens e il vincibile nella relazione che si dà attraverso il vincolo. Bruno ripensa e modella la relazione antropologica sulla struttura ontologica del De la causa. In questa considerazione della relazione e della reciprocità emerge il problema della costituzione dell’identità del soggetto. Identità e soggettività non costituiscono un possesso originario, un’acquisizione di nascita, ma si esprimono e si realizzano nella e attraverso la relazione, tramite i vincula che uniscono e pongono a confronto l’essere umano con l’alterità, con il suo simile e contrario. Questo processo avviene nello spazio familiare, comunitario e politico della differenza e della contrarietà. La soggettività e l’identità prendono forma non nel re-legarsi del singolo in una chiusura e in un rifiuto dell’alterità, ma nel re-ligare, nel reciproco vincolare ed essere vincolati: a seconda dei vincoli a cui si lega e da cui è avvinto, l’essere umano si costituisce 144
De vinculis, p. 450.
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come soggetto attivo o passivo, dando forma alla propria identità. Il processo d’identificazione e di formazione della soggettività avviene nella relazione e nel confronto con l’alterità e con la collettività, allo stesso modo in cui l’autocoscienza umana può originarsi come una riflessione del soggetto nell’altro da sé. Se questo processo avviene nella relazione, ciò vuol dire che la dimensione individuale e soggettiva non può essere separata né da quella comunitaria, politica e civile, né da quella naturale: in quanto vinculum amoris la natura è forza erotica che spinge ogni cosa all’attrazione reciproca per mezzo della philautia, tensione permanente all’affermazione del soggetto nella relazione con il suo simile e contrario. Tanto la dimensione individuale quanto quella collettiva si riconnettono e sono assorbite in quella naturale. Seppur per impressioni, dal De vinculis emergono le tracce di questa considerazione del problema della soggettività e dell’identità. 10. De vincibilibus in genere: coloro che sono vincolabili Il vinciens può legare il vincibile attraverso i vincoli della sensibilità, dell’immaginazione e della ragione. Chi vincola deve essere in grado di entrare attraverso ognuna di queste porte, con le armi più adatte a ciascun paziente. Se riuscirà a penetrare tutte e tre queste porte, allora egli vincolerà con la massima efficacia. Questo processo avviene in quattro fasi: «primum invectione, secundo copulatione, tertio ligatione, quarto fiet attractio»145. Nel vincire occorre aver presente come ogni vincibile sia mosso da legami differenti. Alcuni esseri umani sono attratti da ragioni naturali, altri dal ragionamento e da nodi intellettuali, altri ancora dall’abitudine. Da questa varietà deriva la molteplicità delle tecniche di attrazione. Un individuo in diverse fasi della sua esistenza non sarà legato dallo stesso vincolo. Quello che si desidera da giovani non lega quando si è vecchi, come ciò che si vorrebbe per sé nella 145
Ivi, p. 452.
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prosperità non coincide con quello di cui ci si accontenterebbe nella sventura. Il soggetto vincibile è sempre variabile e mutevole, anche in relazione a sé stesso. Bruno insiste particolarmente sull’incostanza dei vincoli. Ogni essere umano varia con il variare dell’età e del tempo in rapporto a una specie di vincolo che un tempo lo legava e ora non più. Allo stesso modo, muta il carattere con il mutare dei tempi e delle circostanze e, dunque, anche l’inclinazione a essere attratti da determinati vincoli146. Nessun individuo può essere vincolato in modo permanente, a meno che il vinciens non agisca conoscendo la natura del vincibile e dei continui stimoli a cui è sottoposto, adattando i suoi lacci al variare dei tempi e del soggetto. Se gli esseri umani sono legati da un numero e da una varietà maggiore di vincoli rispetto agli animali, non bisogna, però, mai dimenticare una regola generale: limitare con opportune strategie i desideri e i canali di attrazione del vincibile, in modo da suscitare un rapporto di sudditanza nei confronti di un solo e unico oggetto vincolante. Ogni soggetto può essere vincolato da un solo oggetto a seconda della distanza che lo separa da altri stimoli che occupano la sua mente. È, allora, necessario che il vinciens agisca in modo da concentrare l’attenzione del vincibile su di un oggetto o un sentimento che sia dominante su tutti gli altri, in modo da distoglierlo da ogni altra attività e renderlo sordo a ogni altro stimolo147. Questa dinamica non è estranea all’ambito civile. Suscitando, nel vincibile, attenzione e desiderio verso un oggetto o un sentimento determinato e allontanandolo dai possibili altri, un retore può, ad esempio, sciogliere
146 Ivi, p. 462: «Pro aetatis atque temporis varietate varie unum idemque fit vincibile, et varia sunt ad unum idemque vinculum non uno modo dispisita, neque ex eodem pariter composita redduntur. Hinc adverte ut qui iunior extiterit et facilis, vir est constantior et prudentior, senex suspiciosior magis et morosus, decrepitus contemnit et fastidit». 147 Ivi, pp. 462-464: «Quoniam magis uni obiecto vincitur animus, quo magis ab aliis abstrahitur et relaxtur, ideo vincibile ad unum definire volenti operare precium est, ut eum in negotiis aliisque que rebus torpentem, vel magis ab earum sollicitudine abductum reddat».
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dal vincolo d’amore e legare all’odio, al disprezzo, all’indignazione o ad altre passioni148. Nell’articolo XI («Vincibilis motus») di questa seconda sezione, anticipando le argomentazioni ontologiche esposte nella terza parte, Bruno accenna alle ragioni fisiche e metafisiche grazie alle quali comprendere i fenomeni di attrazione. L’anima e lo spiritus, sostanze semplici, costanti ed eterne, nell’unirsi ai corpi e ai loro moti si determinano e si individualizzano, abbracciando la vicissitudine e la metamorfosi. A causa di questa particolarizzazione e perdita di semplicità l’anima e lo spiritus, unite al corpo, avvertono il desiderio di ritornare alla loro condizione originaria. Da questa mancanza deriva l’appetitus, da questo un appulsus che le spinge al movimento, verso l’appagamento e la liberazione, il recupero della loro pienezza. Questa perduta pienezza è ciò che essi ricercano attraverso l’esperienza corporea e il congiungimento a vincoli di specie diverse149. L’eterno migrare dell’anima e dello spiritus, individualizzati nei singoli corpi, è la ragione della non eternità dei vincoli nelle cose composte e variabili, della costante instabilità, del continuo mutare. Da ciò deriva, come ha osservato Valerio Marchetti, che «nessun legame tra desiderante e desiderato è eterno»150. Le esistenze particolari si alternano secondo vicissitudini di prigionia e libertà, di vincoli e liberazioni, di passaggi attraverso specie diverse di legami: «inde nullum vinculum est aeternum, sed vicissitudines sunt carceris et libertatis, vinculi et solutionis a vinculo, vel potius demigratio ab una ad aliam vinculi speciem»151. Ivi, p. 464: «hinc rhetor per risum, per invidiam et alios affectus solvit ab amore, vincit odio vel contemptui vel indignationi». 149 De vinculis, p. 466: «In rebus compositis et variabilis, et omnino in omnibus quae novitatem naturae et dispositionis subeunt, cuiusmodi est anima et spiritus, qui vices varias per corpora et corporum motiones assumunt, quamvis utraque substantia in sua simplicitate constantissima sit et aeterna, ex privatione habet appetitum, ex appetitu appulsum, ex appulsu motum, ex motu solutionem». 150 V. Marchetti, De vinculis. Prova di “traduzione”, in Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, A. Propsperi, M. Donattini, G.P. Brizzi (a cura di), Roma 2001, p. 257. 151 De vinculis, p. 466. 148
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Ogni vicenda umana si caratterizza come un processo vicissitudinario che va dall’imprigionamento alla liberazione dai vincoli: una servitù volontaria e spesso inconscia, alla quale l’essere umano si lega senza alcuna costrizione, in una migrazione incessante da un vincolo all’altro. Questa mutazione e migrazione tra forme di legami differenti precede, accompagna e segue la generazione e rigenerazione di ogni cosa. Come la natura vincola attraverso il moto e la varietà, così l’essere umano, la cui arte imita ed emula la natura, moltiplica i vincoli, li diversifica, li organizza e li dispone in una progressione o continuità152. La stabilità è una condizione estranea alla natura degli elementi e dei corpi. La logica della mancanza e del desiderio, a cui ogni individuo è sottoposto e a cui non può sottrarsi, spinge a oltrepassare anche i limiti dell’interdetto, di ciò che non è alla portata dell’essere umano, l’infinito. Il desiderio di liberarsi dai vincoli è una necessità insita in natura, allo stesso modo in cui, un istante prima, si era spinti a incatenarsi a essi153. Nell’articolo XII («Vincibilis indefinitio»), Bruno rapporta la costituzione del corpo del vincibile ai legami attraverso cui agire su di esso: maggiore è il numero degli elementi che lo compongono, tanto più sarà libero da vincoli fissi e determinati. Ciò deriva dalla molteplicità degli stimoli a cui questi è soggetto, dalla varietà degli oggetti dai cui è attratto, dall’indeterminatezza del suo desiderio non riducibile «ad unum tempus tum individuum tum sexum»154. Questa caratteristica distingue l’anima di un essere umano eroico o razionale da quella di un bruto che, povero d’intelligenza e sentimenti, è legato da vincoli fissi e determinati.
152 Ibidem: «Idque ut naturale est, et aeternam rerum conditionem antecedit, concomitatur atque consequitur, ita natura varietate et motu vincit, et ars naturae aemulatrix vincula multiplicat, variat, diversificat, ordinat et successiva quadam serie componit». 153 Ibidem: «Status quoque usque adeo a rebus abhorret, ut interdum etiam in vetitum nitamur magis, et eius desiderio amplius afficiamur. A vinculis enim solvi ita naturale est appetere, sicut et paulo ante ipsis alligari ultronea et spontanea quadam inclinationem potuimus». 154 Ivi, p. 468.
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Ogni soggetto suscettibile di vincolo è mosso dalla philautia, l’amore di sé. Questo sentimento o istinto agisce in ogni cosa come una resistenza, un desiderio di conservarsi nello stato presente e, al tempo stesso, come volontà di perfezionamento e accrescimento di sé. Nell’articolo XIII («Vincibilitatis fundamentum») della seconda sezione, Bruno la definisce come uno dei fondamenti della vincolabilità: chi fosse in grado di estinguere la philautia nel vincibile, potrebbe vincolarlo e liberarlo in ogni modo155. Se, invece, quest’amore di sé permane nel soggetto, egli si lascerà avvincere dai vincoli che gli sono più naturali. Il vinciens deve allora saper estinguere, suscitare, eccitare e controllare la philautia del vincibile su cui agisce, così da ridurne il potere di autocontrollo e indirizzarne il desiderio, allontanandolo dall’inclinazione naturale per modificarlo e manipolarlo attraverso la tecnica e l’artificio, per i propri scopi156. L’amore di sé si esplica in tutte le tipologie di legame come una resistenza all’attrazione da parte del vincibile sul vinciens. Il processo di trasformazione e manipolazione del desiderio altrui si fonda sulla conoscenza della forma del paziente, dei suoi equilibri, delle sue tensioni corporee ed emotive. Questa non è soltanto una conoscenza generale della natura e dei suoi composti, ma particolare e specifica, un’esperienza teorica e pratica che tiene conto dell’inclinazione naturale del soggetto, della sua disposizione e condizione, dell’utilità e del fine specifico della realtà da vincolare157. È, dunque, una conoscenza fondata su di un intuito o istinto operativo, sull’esperienza concreta del vivente e dell’essere umano: è, come la definisce Papi, «una capacità “politica” di intendere l’opportunità e di saperla volgere a profitto per poter legare a sé l’oggetto»158. La capacità politica operativa non è mai slegata dalla conoscenza filosofica, ma coessenziale a essa. La conoscenza filosofica è rappresentazione generale e unitaria della molteplicità naturale, strumento altrettanto necessario all’azione politica quanto la conoscenza Ivi, pp. 468-470: «si quis philautiam posset in subiecto extinguere, maximopere potens ad quomodolibet vinciendum et exolvendum reddetur. Philautia item accensa, facilius naturalium sibi vinculorum generibus astringuntur omnia». 156 Cfr. ivi, pp. 468-470. 157 Cfr. ivi, p. 428. 158 F. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 175. 155
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e l’esperienza del particolare e singolare. Il vinciens è espressione di questa sintesi tra conoscenza filosofica e capacità politica, tra azione e contemplazione. L’ars vinciendi deve sempre considerare l’amicizia e l’inimicizia degli esseri viventi, le loro somiglianze e diversità, la simpatia e l’antipatia e le circostanze in cui queste si esprimono. Questa considerazione è necessaria al vinciens per acquisire sia una conoscenza generale dei soggetti su cui opera, sia uno schema della varietà delle situazioni. Ogni realtà suscettibile di vincolo è un composto materiale e formale, semplice o misto159. Dal tipo di composizione deriva che alcune realtà sono vincolate in maniera pura, altre in maniera impura, così come esistono vincoli puri e impuri, piaceri e dolori puri e impuri. L’amore descritto da Epicuro rappresenta, ad esempio, secondo Bruno, il modello di un piacere impuro, poiché si accompagna al dolore provocato dal desiderio da parte dell’amante del corpo dell’amato160. Se esistessero delle realtà costanti nel loro desiderio, eternamente avvinte dagli stessi vincoli, come avviene per i pianeti e gli astri, allora il loro piacere sarebbe costante e puro161. Al di là dei mondi, instancabili e legati da tenacissimi vincoli, tutte le altre realtà sono vincolate attraverso nodi instabili e incostanti. Quest’instabilità, caratteristica dei composti, non è un elemento estraneo alla riflessione civile. L’analisi della consistenza, durata, instabilità, purezza e impurezza dei vincoli, è strettamente connaturata all’esercizio del potere politico. Chi desideri civiliter vincire non può trascurare l’instabilità dei vincula, la varietà dei caratteri e dei temperamenti umani, le differenze e le particolarità di ogni individuo, eroico, razionale o bestiale, e che determinano l’efficacia del vincolo che s’intende stabilire: «Qui ergo civiliter vincire concupiat, diversitatem compositionum seu complexionum rimetur oportet, et aliter de heroicis, aliter de ordinariis, aliter de magis brutis ingeniis consulat, definiat atque statuat»162. Cfr. De vinculis, p. 470. Ivi, p. 470. 161 Ivi, pp. 470-472. 162 Ivi, p. 472. 159
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Ciascun momento della vita umana è soggetto a vincoli di specie diversa. I bambini, ad esempio, sono meno sottoposti ai vincoli degli affetti naturali: il loro corpo è talmente impegnato nel processo di crescita, che tutte le energie sono finalizzate a questo scopo. A partire dall’adolescenza gli uomini e le donne cominciano a essere potenzialmente soggetti ai vincoli degli affetti. E la ragione di ciò risiede nel cambiamento corporeo, nella crescita sessuale e nello sviluppo del seme: la forza del liquido seminale costituisce una potenza interna che pone l’individuo in uno stato di permanente eccitazione e stimolazione, rendendolo maggiormente soggetto ai vincoli esterni. Una volta giunti al pieno della maturità sessuale gli esseri umani possiedono una potenza di seme tale da renderli predisposti a essere vincolati163. Bruno riconduce la possibilità di essere soggetti ai vincoli sia allo sviluppo corporeo, al seme e alla potenza fecondatrice, sia alla scoperta dell’eros, fondamento di tutte le specie di attrazioni. Nei giovani e negli adolescenti si manifesta una carica erotica più potente e licenziosa rispetto agli adulti e agli anziani, sia perché la scoperta di questo nuovo piacere li rende più ardentes, sia per la struttura più stretta dei condotti seminali che provoca un piacere e un rilassamento maggiore. Tuttavia, la maggiore presenza del seme e della potenza erotica nei giovani e negli adolescenti non costituisce soltanto uno dei fondamenti dell’essere vincolabili, ma dello stesso vincolare attivamente, seppur spesso in maniera inconsapevole data la non coscienza di quest’arte. Negli anziani è, invece, minore la possibilità di essere vincolati, poiché minore è la loro capacità erotica e la loro energia. Se essi sono meno disponibili ai vincoli, l’esperienza e la conoscenza del mondo delle passioni costituiscono un utile bagaglio per vincire. Tra l’incostanza e la fatica degli anziani e la potenza e la capacità erotica dei giovani, vi sono gli esseri umani di mezza età, i quali si lasciano vincolare adeguatamente, stabilmente e strettamente164. Anche in questo caso, la passione e la relazione amorosa costituisce il paradigma attraverso cui comprendere i fenomeni di attrazione e fascinazione: «proportionaliter se habet 163 164
Cfr. ivi, pp. 472-474. Ivi, p. 476.
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omnino in aliis affectibus, qui cum Venere analogiam, oppositionem et consequentiam quandam agnoscunt»165. Vi sono poi vincoli che derivano dalla reciproca piacevolezza, come i motti di spirito, le battute, l’ironia: soggetti che non vincolerebbero a causa del loro cattivo aspetto riescono a legare quanti sono vulnerabili a queste specie di nodi. E ancora, la fantasia sessuale è una sorta d’incantesimo, come la fama e l’apparenza di un uomo coraggioso, forte, eloquente e accorto vincolano più della realtà, allo stesso modo in cui una donna brutta può attirare attraverso la fama della sua virtù o della piacevolezza166. In ogni specie di vincolo sono presenti i semi necessari a tutte le altre: chi è vulnerabile a un certo tipo di legame può essere attratto da quello opposto, poiché anche chi vincola è sottoposto a mutazione. Data l’instabilità delle relazioni, per legare efficacemente e in maniera duratura un soggetto, ogni vincolo deve essere alimentato costantemente. Chi avvince attraverso la fama del proprio sapere sarà disprezzato o diverrà indifferente se quella stima verrà a mancare o si trasformerà. Quanti sono affascinati dalla bellezza della gioventù, col passare del tempo sono sciolti da quelle catene se questi vincoli non sono fortificati da quelli dell’ingegno. Allo stesso modo, chi è vincolato da una certa opinione se ne sentirà infastidito fino a disprezzarla una volta che questa sia stata superata167. Le radici della vincolabilità risiedono nella conoscenza e nel desiderio168. Conoscenza e desiderio sono indispensabili tanto al vincibile per essere avvinto, quanto al vinciens per legare efficacemente. Nell’articolo XXVII («Vincibilis substantia») della seconda sezione, Bruno osserva come senza questi due elementi non vi sia alcuna possibilità di legare. E questo presupposto è necessario in ogni forma d’agire pratico, in special modo civile e magico:
Ivi, p. 474. Ivi, p. 478. 167 Ivi, p. 450. 168 Ivi, p. 452, p. 484. 165
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Duae vincibilitatis sunt causae, et eadem sunt de essentia vincibilis, quatenus vincibile est: cognitio secundum genus, et appetitus secundum genus. Da quod nullo modo appetat, dabis quod nullo modo spiritualiter vinciatur. Adde quod sine cognitione et affectu neque est quod aliquis vinciat civiliter neque magice169.
Il vincolo perfetto è quello che lega un soggetto in ogni sua facoltà e in tutte le sue parti; e per questo occorre conoscerne qualità, temperamento e attitudine, colpirlo e dominarne ogni sua facoltà sensibile, fantastica e cogitativa, così da costruire un legame perfetto170. Tuttavia, come Bruno rileva nell’articolo XXIX («Vincibilium reciprocatio»)171, non è possibile vincire se il vinciens non subisce reciprocamente il legame. I lacci non annodano e non penetrano il paziente se il soggetto attivo non è a sua volta legato: non vi è, cioè, attrazione senza concatenazione. Dal punto di vista della reciprocità della relazione vi è una differenza tra chi vincola un soggetto aperto a molteplici forme di legame e chi agisce su di uno legato esclusivamente al volto del proprio seduttore. Se nel primo caso il vinciens si lega reciprocamente al vincibile attraverso legami accidentali, nel secondo egli è indotto dalla potenza della relazione a corrispondere al sentimento che egli stesso ha generato. Chi vincola possiede, però, un vantaggio rispetto al proprio paziente: in quanto artefice del vincolo, egli non lo subisce con la stessa intensità. Dato che il vinciens può esercitare un dominio sul vincibile senza mai sottoporsi al legame con la stessa intensità, se non per sua volontà, vi è sempre uno squilibrio a vantaggio del primo, ragione per la quale egli domina l’altro nonostante la reciprocità del vincolo. 11. Il vincolo dell’ immaginazione Il vincolo non si manifesta esclusivamente nella sua materialità, ma anche in modo immaginario e ideologico. Non vincola solo il bene ma Ivi, p. 484. Ivi, p. 486. 171 Ibidem. 169 170
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l’«opinio boni»172, non il bello, ma l’opinione che qualcosa sia bello, non la verità, ma l’opinione che qualcosa sia vero. La fantasia e l’opinione vincolano molti più soggetti rispetto alla ragione e alla verità, poiché colpiscono con maggiore efficacia e più potente intensità i cuori prim’ancora che le menti173. Nell’articolo XXX («Vincibilis veritas»), ultimo della sezione De vincibilibus, Bruno osserva come l’attrazione, la soggezione e il dominio dell’altro si realizzino più efficacemente attraverso vincoli apparenti. Per legare un soggetto non occorrono lacci che abbiano un fondamento nella verità, ma sono sufficienti vincoli generati dall’apparenza e dall’opinione: «potest enim imaginatio sine veritate vere vincire, et per imaginationem vincibile vere obligare»174. L’immaginazione possiede la capacità di legare senza che il contenuto dell’immagine sia vero. Attraverso questa facoltà, il vinciens può suscitare nel vincibile dei vincula apparentia, che possiedono il potere di piegarne la volontà. La costruzione del vincolo non necessita della verità perché possa essere efficace, poiché l’opinione e l’apparenza vincolano più intensamente della verità. Vincolare la mente e il cuore di uno o più soggetti attraverso fantasmi prodotti dall’immaginazione, slegati dal rapporto con la verità, rappresenta l’apice del dominio, della manipolazione e assoggettamento dell’essere umano. La diffusione di un’opinione e di una fantasia, non necessariamente corrispondenti alla loro concreta e fattuale esistenza, può configurarsi come una perturbante e drammatica realtà per chi ne subisce il vincolo, più di quanto non accada con la verità. È il caso dell’inferno, esempio analizzato da Bruno in quest’ articolo: seppur non esista come luogo in cui espiare terribili pene dopo la morte, un soggetto può viverlo come una condanna nella sua esistenza terrena per mezzo della propria e dell’altrui immaginazione. E ciò lo rende reale e concreto alla coscienza di quanti sono schiavi di quest’immagine: «etsi enim nullus sit infernus, opinio et imaginatio inferni sine veritatis fundamento vere et verum facit infernum»175. Ibidem. Ibidem. 174 Ivi, p. 488. 175 Ibidem. 172 173
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Questo fenomeno è la trasformazione di un’opinione e di un’immagine dal suo essere semplice fantasma al suo divenire realtà condivisa dalla comunità dei credenti. La species phantastica possiede una sua realtà che è data dalla potenza con la quale il phantasma modifica i comportamenti di quanti ne sono vincolati. L’immaginario è reale nella misura in cui provoca una reazione in coloro che condividono una determinata immagine, opinione o rappresentazione176. Questa constatazione non sembra molto distante né dall’analisi politica né da quanto già osservava Machiavelli nel capitolo XVIII del Principe, a proposito delle qualità che il sovrano deve mostrare di possedere. Per accrescere e governare il consenso dei propri sudditi non occorre possedere effettivamente qualità come la pietà, la fedeltà, l’umanità, l’integrità o la religiosità, ma suscitare l’impressione di esserlo. La ragione di quest’osservazione risiede per Machiavelli, come per Bruno, nel riconoscimento del potere maggiore dell’opinione e dell’apparenza sulla moltitudine, anziché della verità che avvince i pochi177. 12. Dal vinculum amoris al vinculum civilis L’incompiutezza, la struttura e la forma del De vinculis non consentono di elaborare una valutazione sistematica del trattato. Tuttavia, dall’analisi delle questioni, l’unitarietà e la sistematicità non appaiono un’esigenza reale di Bruno. L’estrema contingenza e instabilità connaturata all’ars vinciendi caratterizza non solo la prospettiva antropologiconaturalistica dello scritto, ma si configura come un elemento di cui il vinciens non può non tener conto: egli deve possedere una capacità di 176 Ibidem: «habet enim sua species phantastica veritatem, unde sequitur quod et vere agat, et vere atque potentissime per eam vincibile obstringatur, et cum aeternitate opinionis et fidei et aeternus sit inferni cruciatus». 177 N. Machiavelli, Il Principe, in Opere, cit., vol. I, cap. XVIII, pp. 165-166: «E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti, che abbino la maestà dello stato che li difenda
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osservazione e adattamento al contingente, poiché questa è la dimensione propria all’agire per vincula. L’analisi delle molteplici specie di vincoli, della variabilità delle condizioni in cui possono essere istituiti, la loro instabilità, conduce allo studio della capacità e della sensibilità operativa istintiva e immediata che il vinciens deve possedere. La descrizione generale delle possibilità di attrarre e vincolare non è mai slegata dalle ragioni metafisiche che sottendono alla struttura di ogni composto e che manifestano le cause per cui questo tende a ricercare continuamente un nuovo equilibrio, secondo il tipo di complessione che lo caratterizza. La comprensione generale della natura consente di riconoscere l’unità sostanziale dell’essere e la molteplicità dei volti con cui si manifesta nel mondo sensibile. Per vincolare occorre che il vinciens compia quella che Papi definisce una «sintesi operativa»178, vale a dire «un atto di accortezza pratica che nasce da una conoscenza universale e nel contempo determinata, unite entrambe all’accortezza nel saper inspirare – in quell’equilibrio – il potenziamento del sentimento più idoneo a facilitare il vincolo»179. Questa sintesi tra sapere universale e particolare, teorico e pratico, diviene pienamente visibile nella terza sezione del De vinculis, dove non mancano importanti riferimenti all’ambito politico e civile. Con una formula frequente, Bruno osserva nell’articolo III («Vinculi indefinitio») di questa sezione, che in alcune circostanze non è difficile vincolare, quanto piuttosto identificare la specie di vincolo: questa considerazione vale sia per l’ambito naturale, sia per quello civile: «ita suo modo in civilibus vinculis considerabis»180. Nei successivi articoli IV («Vinculi compositio») e V («Vinculorum numerus»), il riferimento all’ambito civile si pone in diretta continuità con quello naturale. Nel primo di questi, soffermandosi sulla distinzione tra il vinculum Cupidinis inferiore che avvince l’essere umano alle entità composte e quello superiore, Bruno osserva che nel mondo civile occorre distinguere il bello, il bene e il vero universali, da quelli particolari e individuali legati alla convenienza, consuetudine e ocF. Papi, L’antropologia naturalistica, cit., p. 177. Ivi, pp. 177-178. 180 De vinculis, p. 498. 178
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casione, ovvero tra l’interesse comune e il collettivo, tra l’universale e il particolare. Il vinciens non deve gettare vincoli a caso, ma agire nella polis avendo sempre presente questa distinzione181. E ancora, nella prima parte dell’articolo V, il riconoscimento del principio per cui «sic variis varia, quinetiam contrariis non solum contraria, sed etiam diversa vinciuntur»182, è funzionale alla successiva e immediata constatazione sul piano civile delle differenze tra i popoli. Da questo principio deriva, ad esempio, che italiani e tedeschi esprimano gusti differenti in materia di oratoria, di costumi, di comportamenti e non manifestino la stessa attenzione per l’abbigliamento e l’aspetto fisico. Questa differenza si ritrova anche all’interno di uno stesso popolo, come un italiano che, allontanandosi dalla consuetudine, si comporti come un tedesco e, viceversa, un tedesco che agisca come un italiano183. Qui risiede la maggiore difficoltà per chi vincoli civiliter, poiché questi deve essere particolarmente accorto, prudente e abile, soprattutto se indirizza il vincolo su di un individuo specifico e non sulla moltitudine: come un cacciatore colpirà più uccelli sparando nel mucchio anziché mirando a una sola preda, così è più semplice avvincere i molti, anziché un singolo. Nell’articolo VIII («Vinculorum modus»), il riferimento all’ambito civile è nuovamente ripreso a proposito dei modi degli oratori e dei cortigiani, i quali vincolano efficacemente se sono in grado di dissimulare i propri artifici: il troppo lezioso, raffinato e ostentato nei modi e nel parlare è indice di pedanteria o eccessiva ricercatezza sino a diventare oggetto di disprezzo. Si tratta di un precetto pratico che si riconnette a quel principio generale, indicato già nell’articolo XXVII della prima sezione del trattato, per cui ogni fascinazione deve essere celata e non percepibile al vincibile. Questo principio, specifica Bruno, vale soprattutto per l’ambito civile, laddove il vinciens non deve mai ostentare la propria arte, ma dissimularla facendola apparire naturale, come l’oratore lega maggiormente se il suo discorso appare semplice e naturale. L’arte Ivi, pp. 498-500. Ivi, p. 500. 183 Ivi, pp. 500-502. 181
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non è scissa dalla natura, come l’artificio dalla semplicità: «ars a natura non absolvitur, cultus a simplicitate non recedit»184. Negli articoli X («Vinculorum distributio») e XI («Vinculorum gradus»), il Nolano distingue tra atti perfetti a cui sono vincolate realtà perfette, atti nobili a cui si legano realtà nobili, atti imperfetti e difettosi ai quali sono vincolate realtà imperfette e difettose. Attraverso questa distinzione, egli riafferma il principio della reciprocità o proporzionalità del vincolo, presupposto necessario anche dei vincula civilia: «in civilibus vinculis proportionale omnino facile est iudicium»185. La reciprocità è una condizione necessaria e insopprimibile del vincire: non si può vincolare se non vi è un movimento del vinciens verso il vincibile. Questa reciprocità strutturale e costitutiva alla natura di ogni cosa muove il desiderio e fa tendere ogni soggetto verso l’altro. Nella rete delle relazioni tra tutti gli elementi e i corpi naturali vi sono cose che si congiungono ad altre senza nessuna mediazione, come avviene per gli individui di una stessa specie, legati da vincoli semplici e intrinseci; altre cose che, essendo subordinate reciprocamente, devono attraversare tutte le mediazioni e le trasformazioni affinché possano stabilirsi dei vincoli. Allo stesso modo, la varietà e le differenze dei composti e delle specie comporta la varietà dei tempi, dei luoghi e dei mezzi attraverso cui vincire. Questa considerazione è comune a ogni tipologia e a ogni realtà suscettibile di vincolo, innanzitutto a quella civile, politica e religiosa186. Dall’analisi del De vinculis emerge un motivo dominante in gran parte della produzione bruniana e relativo alla considerazione dei diversi stati in cui si trovano gli esseri umani gli uni rispetto agli altri. Dalla prospettiva umana e finita in cui ogni cosa è terminata e posta in relazione all’altra, la scala naturae non è più ontologica, ma antropologica. L’indeterminatezza del desiderio, il lavoro, la fatica intellettuale e materiale, la varietà di oggetti, sentimenti, passioni e soggetti a cui ci si lega, costituiscono i fattori che determinano la posizione di ognuno nella Ivi, p. 506. Ivi, p. 508. 186 Ivi, p. 510. 184 185
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gerarchia civile. La molteplicità, la contrarietà e la differenza rendono possibile il vincire. Questo sorge proprio dalla varietà dei sentimenti, dei desideri, delle passioni e delle tensioni che muovono l’essere umano, dalla capacità di agire su questi interpretandoli opportunamente. Se il vinculum amoris è la ragione metafisica a cui tutte le cose sono legate e destinate, il vincolo eroico o intellettuale e quello razionale o civile, costituiscono la tensione che conduce alle forme più elevate dell’umanità. Queste due specie di vincoli uniscono mano e intelletto, pensiero e azione, alla ragione universale, al riconoscimento dell’unità dell’essere e delle sue molteplici manifestazioni.
VI. Lex e religio. Dal vinculum amoris al vinculum civile
1. Ontologia e politica nello Spaccio Il passaggio dalla considerazione naturalistica del vinculum a quella politica è in atto, prima del De vinculis, già nello Spaccio. Bruno vi analizza il problema del legame civile nella crisi dell’Europa del secondo Cinquecento, scissa dalle guerre politiche e religiose tra cattolici e riformati. Articolata in tre dialoghi di argomento morale, l’opera è il racconto di una grande allegoria celeste e terrena in cui Giove, di concerto con le altre divinità, colloca nel firmamento le virtù necessarie alla concordia dell’umanità, scacciando i vizi che hanno condotto al sovvertimento e alla rovina del mondo. Egli recupera qui l’immagine del cosmo geocentrico dell’astrologia per formulare una rappresentazione mitologica e allegorica funzionale alla sua proposta di riforma morale ed etico-civile. Dal riconoscimento dell’infinità dell’universo e della pluralità dei mondi da un punto di vista cosmologico, scaturisce un’apparente assenza di senso sul piano etico, religioso e politico, legata al caos e alla perdita di centralità che l’infinito porta con sé. Lo Spaccio è un tentativo di rivalutare la
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dimensione finita e le sue possibilità di senso sul piano civile, laddove la scoperta dell’infinito e l’assenza del centro hanno spazzato via ogni assoluto ordine antropocentrico: come rileva Dagron, «le paris de Bruno consiste à penser positivement le fini dans l’infini contre toute figure de la vanité»1. Dopo la distruzione dell’ordine fisico, metafisico e morale del cosmo cristiano e aristotelico-tolemaico, il problema diviene ora quello di riannodare le fila dei legami tra l’uomo, la natura e Dio. L’intento dell’opera è cioè quello di proporre una riforma del sapere naturale e civile, che sia in grado di rimettere l’essere umano in comunicazione con la natura e Dio. Soltanto riconoscendo l’unità dell’apparente contrarietà e molteplicità, sarà possibile agire sulla base del modello naturale, provvedendo a ristabilire attraverso vincoli appropriati la «communione degli uomini»2 e «la civile conversazione»3. Tuttavia, l’immagine di un passaggio dalla dimensione naturale a quella civile chiarisce solo parzialmente la dinamica di questo rapporto. Dalla considerazione della continuità tra riflessione naturale e politica è possibile comprendere i frequenti rimandi, anche nello Spaccio, all’ontologia del De la causa. Non è un caso, ad esempio, se introducendo gli argomenti dei tre dialoghi dell’opera nell’Epistola esplicatoria, Bruno faccia riferimento all’infinità, unità e indissolubilità della sostanza, alla molteplicità degli accidenti che da essa scaturiscono, nonché alla vicissitudine a cui ogni cosa è sottoposta, persino Giove che, pur essendo il padre degli dèi, è anch’egli soggetto alla mutazione: Abbiamo dumque un Giove non preso per troppo legittimo e buon vicario, o luogotenente del primo principio e causa universale: ma ben tolto qual cosa variabile, suggetta al fato della mutazione. Però conoscendo egli che in tutto uno infinito ente e sustanza sono le nature particolari infinite et innumerabili (de quali egli è un individuo) che 1 T. Dagron, Giordano Bruno et la théorie des liens, «Les études philosophique», 4 (1994), p. 469. Cfr. F. Raimondi, La repubblica dell'assoluta giustizia. La politica di Giordano Bruno in Inghilterra, Pisa 2003, pp. 171-353. 2 Spaccio, p. 539. 3 Ibidem.
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come in sustanza, essenza e natura sono uno: cossì per raggion del numero che subintrano, incorreno innumerabili vicissitudini e specie di moto e mutazione. Ciascuna dumque di esse, e particularmente Giove, si trova ad esser tale individuo, sotto tal composizione, con tali accidenti e circostanze, posto in numero per differenze che nascono da le contrarietadi, le quali tutte si riducono ad una originale e prima, che è primo principio de tutte l’altre, che sono efficienti prossimi d’ogni cangiamento e vicissitudine: per cui come da quel che prima non era Giove, appresso fu Giove, al fine sarà altro da Giove4.
Anche la divinità Giove è un composto di materia e forma sottoposto alla mutazione, che ha compreso come ogni cosa sia una manifestazione finita dell’unica e inesauribile sostanza infinita. Dalla concretezza del particolare, Bruno espone il principio della contrarietà, della mutazione e vicissitudine a cui ogni cosa è soggetta, sino a risalire all’unità. Percorrendo questo stesso modello argomentativo e associando ancora Giove a quel particolare individuo che ha compreso l’intima struttura del vivente, egli prosegue: Conosce che dell’eterna sustanza corporea (la quale non è denihilabile né adnihilabile, ma rarefabile, inspessabile, forabile, ordinabile, figurabile) la composizione si dissolve, si cangia la complessione, si muta la forma, si alterna l’essere, si varia la forma: rimanendo sempre quel che sono in sustanza gli elementi; e quell’istesso che fu sempre perseverando l’uno principio materiale, che è vera sustanza de le cose, eterna, ingenerabile, incorrottibile. Conosce bene che dell’eterna sustanza incorporea niente si cangia, si forma o si difforma; ma sempre rimane pur quella, che non può essere5.
Vale la pena seguire questo excursus in cui il Nolano richiama le questioni ontologiche affrontate dal Sigillus alla Cena, dal De la causa al De l’ infinito e ripercorse nel De vinculis, per osservare come in queste 4 5
Ivi, p. 465. Ivi, pp. 465-466.
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pagine iniziali dello Spaccio si assista a un graduale slittamento dalla considerazione dell’infinità della causa e principio primo, del vincolo di materia e forma in cui tutte le differenze e contrarietà coincidono, alla dimensione finita, temporale e mutevole in cui è incluso l’uomo Giove: seppur sottoposto al ciclo della metamorfosi e alla trasformazione in altro da sé, questi non è più un puro e semplice accidente, ma un ente in grado di elevarsi al di sopra della sua accidentalità, per accedere a quella libertà preclusa a Dio stesso, divenendo artefice del proprio destino. Se di passaggio possiamo parlare, bisogna intenderlo non nel senso di un salto dalla filosofia naturale, in cui fisica e metafisica coincidono, all’antropologia e alla politica, come se queste ultime seguissero dinamiche sganciate dalla prima. Occorre ripensare la relazione tra natura e cultura nei termini di una profonda e radicale continuità. Nel processo vicissitudinario di generazione e rigenerazione è possibile rintracciare i principi, le leggi e i vincoli necessari alla «republica del mondo»6, così d’agire nel mondo civile per costruire quella «patria tranquillitade, commoditate e pace»7 tra gli esseri umani. L’ordine degli eventi mondani segue gli stessi principi naturali: l’eterna mutazione e la vicissitudine universale, in virtù delle quali sussistono la contrarietà e il cambiamento, sono necessari non solo al benessere del singolo ma dell’umanità: Talché se ne li corpi, materia et ente non fusse la mutazione, varietade e vicissitudine, nulla sarrebe conveniente, nulla di buono, niente di dilettevole […]. Ogni delettazione non veggiamo consistere in altro che in certo transito, camino e moto. Atteso che fastidioso e triste è il stato de la fame; dispiacevole e grave è il stato della sazietà: ma quello che ne deletta è il moto da l’uno a l’altro. Il stato del venereo ardore ne tormenta, il stato dell’isfogata libidine ne contrista: ma quel che ne appaga è il transito da l’uno stato a l’altro. In nullo esser presente si trova piacere, se il passato non n’è venuto in fastidio. La fatica non 6 7
Ivi, p. 653. Ivi, p. 587.
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piace se non in principio dopo il riposo: e se non in principio, dopo la fatica, nel riposo non è delettazione8.
Come la mancanza e il bisogno di pienezza muove la materia, spingendola ad assumere tutte le possibili forme in un incessante processo di perfezionamento, così la mutazione e la vicissitudine muovono ogni essere umano a esperire la contrarietà, sollecitandolo verso lo stesso bisogno di pienezza e perfezione. Secondo uno schema che sarà poi ripreso negli articoli XIII e XV della terza sezione del De vinculis9, le dinamiche di unione e disgiunzione di materia e forma costituiscono le strutture vitali e relazionali proprie a ogni singolo elemento e corpo naturale, a ogni essere umano. Ciò pone un’insopprimibile corrispondenza tra il piano delle cause e dei principi ontologici, e il piano mondano, civile e umano, poiché ogni cosa è costituita di un’unica materia e forma universali. La riflessione etica, politica e religiosa è così già inclusa nel solco della filosofia naturale della nolana filosofia. 2. Unità, pace e contrarietade Nello Spaccio Bruno ripensa positivamente la molteplicità e la contrarietà del finito. Scopo dell’opera è quello di analizzare le possibilità di pensiero e azione dell’essere umano, i limiti, i vizi, le virtù e i principi in grado di elevarlo dalla condizione bestiale verso quella razionale ed eroica, sino a ritrovare gli strumenti che ne facciano emergere la sua specifica forma di libertà, pur nella vicissitudine e nella mutazione. Se queste rappresentano una legge eterna e inarrestabile a cui ogni cosa è sottoposta, il Nolano vuol ritrovare ciò che permette di oltrepassare o indirizzare la necessità, non esclusivamente rispetto all’esistenza del singolo, ma al progresso comunitario a cui ogni individuo, pur nella finitezza della sua esistenza, può contribuire per via di contemplazione e di azione. 8 9
Ivi, p. 481. Cfr. De vinculis, pp. 510-520.
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L’esperienza del singolo è sempre inserita all’interno della dinamica di conservazione e trasformazione, nella contrarietà che lo spinge a legarsi all’altro in cerca di un miglioramento. Soltanto sfruttando le possibilità aperte dalla mutazione e dalla vicissitudine, l’individuo può elevarsi dal suo essere pura manifestazione accidentale, per riscoprire la sua propria forma di libertà e infinità, non come la causa e principio primo, ma in modo relativo, pensando e agendo nella collettività e nel tempo al di sopra delle leggi naturali che lo trascinano alla dissoluzione: spingersi oltre l’essere mortale nonostante la mortalità, per lasciare una traccia che oltrepassi la finitezza della sua esistenza individuale. La considerazione positiva della molteplicità, della contrarietà, della vicissitudine e della mutazione risponde all’esigenza di rintracciare e garantire uno spazio di libertà al pensiero e all’azione dell’essere umano: «tanto che la mutazione da uno estremo a l’altro per gli suoi participii, il moto da un contrario a l’altro per gli suoi mezzi viene a sodisfare: et in fine veggiamo tanta familiarità di un contrario con l’altro, che uno più conviene con l’altro, che il simile con il simile»10. Come dal punto di vista gnoseologico vi è conoscenza soltanto laddove vi è differenza e distinzione, non nell’unità della coincidentia oppositorum, allo stesso modo, l’essere umano può agire soltanto dove vi è molteplicità e contrarietà, dove ogni cosa è distinta dal suo contrario, non nell’orizzonte dell’infinito, dell’assolutamente uniforme e omogeneo11. Se la contrarietà e la mutazione conducono ogni elemento e corpo naturale alla dissoluzione, esse costituiscono l’unico spazio di conoscenza e operatività umana. È questa, in altre parole, una considerazione della condizione finita intesa non più come esilio e prigione a cui l’essere umano è destinato, ma apertura e possibilità di costruzione e manipolazione del mondo. Come Bruno osserva nel prosieguo del dialogo I, la contrarietade, frutto della mutazione, costituisce un Ivi, p. 482. Ibidem: «Il principio, il mezzo et il fine; il nascimento, l’aumento e la perfezzione di quanto veggiamo, è da contrarii, per contrarii, ne’contrarii: e dove è la contrarietà, è la azzione e reazzione, è il moto, è la diversità, è la moltitudine, è l’ordine, son gli gradi, è la successione, è la vicissitudine». 10 11
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presupposto necessario per l’istituzione della giustizia, della concordia e di una comunità ben ordinata: Cossì mi par vedere, che per la giustizia non ha l’atto se non dove è l’errore, la concordia non s’effettua se non dove è la contrarietade; il sferico non posa nel sferico perché si toccano in punto, ma il concavo si quieta nel convesso; e moralmente il superbo non può convenire col superbo, il povero col povero, l’avaro con l’avaro: ma si compiace l’uno nell’umile, l’altro nel ricco, questo col splendido. Però se fisica, matematica e moralmente si considera: vedesi che non ha trovato poco quel filosofo che è dovenuto alla raggione della coincidenza de contrarii; e non è imbecille prattico quel mago che la sa cercare dove ella consiste. Tutto dumque che avete profferito è verissimo12.
L’esplicito riferimento al modo di considerare della fisica, della matematica e della morale, a Cusano, con il rimando alla magia come arte che sa cercare la coincidenza dei contrari, corrisponde all’esigenza di mantenere aperte le due prospettive di rappresentazione dell’essere, della natura e della realtà: quella relativa al riconoscimento dell’infinità complicata della causa e principio primo, dell’Uno, e quella relativa alla finitezza, instabilità, contrarietà e temporalità dell’explicato. Il rapido accenno alla coincidentia oppositorum, a una profonda magia capace di ritrovare il punto de l’unione, suggerisce come il piano della riflessione etico-politica non sia mai separabile da quella naturale. Nella costruzione della repubblica degli uomini, la contrarietade assume una funzione necessaria. Comprendere e agire in virtù di essa significa operare nella polis salvaguardando le differenze tra gli individui, preservandole in quanto ricchezza e accrescimento della libertà, dell’unione e della concordia di una comunità, anziché limite o minaccia. Ciò equivale a pensare, favorire e costruire una pace intesa non nel senso di una «Parzialitade indegna»13, di un’omogeneità e uniformità in cui le differenze sono annullate. Una tale forma di pace non è che 12 13
Ibidem. Ivi, p. 475.
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appiattimento di una realtà multiforme a un’unica forma totalizzante, a scapito delle innumerevoli altre: una tirannia che rende i membri di una comunità sterilmente uguali, sopprimendo le specificità e le differenze, in nome di una volontà particolare dominante. Per Bruno la pace è una condizione precaria e instabile, frutto dell’equilibrio tra forze opposte soggette alla mutazione. L’elemento conflittuale interno al corpo civile trae origine proprio dalla contrarietà e dalle differenze. Il conflitto non è necessariamente il segno di un malessere, ma la tensione che spinge i membri di una stessa comunità e i suoi governanti alla continua ricerca di un equilibrio che possa adattarsi alle sue trasformazioni e alle forze che in essa agiscono, garantendone e custodendone la diversità. Soltanto la radicalizzazione di un contrario sull’altro può generare la lite, la contesa e la guerra. Un principe deve governare sapendo continuamente vincolare tra loro forze e soggetti contrari e opposti, così da operare su di essi mantenendo salda la concordia. Questo modo d’agire nella polis attraverso legami, vinciendo elementi contrari e differenti in una struttura coordinata e pacifica, risponde al principio dell’operare sul modello dell’ordine naturale delle cose: come rileva Bassi, «sovvertire l’ordine naturale significa […] perturbare l’opera stessa di Dio»14. Nella natura molteplice e in permanente rivoluzione, la pace si origina dalla familiarità e dalla vicinanza che un contrario ha con l’altro, sulla base di una relazione tra questi che deve essere sempre ricercata, osservata, costruita e istituita attraverso legami differenti, nonostante il rischio costante che un elemento prevalga e domini il suo contrario. La pace non è la cristallizzazione di un’unica forma del reale, ma di una relazione instabile, mutevole e multiforme, che contiene la complessità di una realtà in continua trasformazione. Scopo di chi governa è, allora, quello di favorire e garantire la contrarietà e la diversità interne al corpo civile, non di sopprimerle in nome
S. Bassi, Immagini della pace nei dialoghi italiani, in Favole, metafore e storie, Seminario su Giordano Bruno, introduzione di M. Ciliberto, O. Catanorchi e D. Pirillo (a cura di), Pisa 2007, p. 474. 14
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di una pace in cui prevalga un desiderio soggettivo limitato da passioni e ambizioni particolari. 3. Immagini della Verità, della Sofia e della Legge tra la Cena e lo Spaccio La pace e la concordia civile rappresentano due questioni che Bruno affronta sin dalla Cena, seppur con alcune differenze rispetto allo Spaccio. Nel primo dei dialoghi italiani, egli lega la pace al mantenimento dell’ordine naturale, sottolineando come il campo «delle dimostrationi e speculazioni circa le cose naturali»15 sia distinto da quello della morale e della legge16. Questa distinzione tra verità e legge è funzionale nella Cena a rivendicare la possibilità d’indagare la natura senza intaccare la dimensione religiosa, ma liberandone l’osservazione e lo studio dal testo biblico. In questo contesto i campi della verità, della pace e della legge possono sì intrecciarsi, ma rimanendo distinti l’uno dall’altro. Nello Spaccio la salvaguardia della pace dipende, invece, proprio dal riconoscimento della verità e dal mantenimento della legge. Alla Verità, collocata da Giove nella «sedia più eminente»17 del firmamento, deve succedere la Sofia, «sua indissociabile compagna»18 e legata alla Legge19. Quest’ultima è unita alla Verità per mezzo della Sofia e deve Cena, p. 91. Ibidem: «Or quanto a questo credetemi che se gli dèi si fussero degnati d’insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di proporci la prattica di cose morali, io più tosto mi accostarei alla fede de le loro revelazioni, che muovermi punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti. Ma […] nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le demonstrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia: ma in grazia de la nostra mente et affetto, per le leggi si ordina la prattica circa le azzioni morali.» 17 Spaccio, p. 514. 18 Ivi, 515. 19 Ivi, p. 516: «perché non è vera né buona legge quella che non ha per madre la Sofia, e per padre l’intelletto razionale; e però là questa figlia non deve star lungi da la sua madre: et a fin che da basso contempleno gli uomini come le cose denno essere ordinate appresso loro, si provveda qua in questa maniera cossì». 15
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rispecchiarla nei suoi ordinamenti. Nella prima parte del dialogo II, Bruno ritorna più volte sulla descrizione delle virtù e del rapporto che intercorre tra loro, radicando la trattazione di problemi etico-politici nella sua prospettiva ontologica: Dumque la verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose; è sopra tutto, con tutto, dopo tutto: ha raggione di principio, mezzo e fine. Essa è avanti le cose per modo di causa e principio, mentre per essa le cose hanno dependenza; è nelle cose et è sustanza di quelle istessa, mentre per essa hanno la sussistenza; è dopo tutte le cose, mentre per lei senza falsità si comprendeno. È ideale, naturale e nozionale; è metafisica, fisica e logica. Sopra tutte le cose dumque è la verità: e ciò che è sopra tutte le cose, benché sia conceputo secondo altra raggione, et altrimente nominato, quello pure in sustanza bisogna che sia l’istessa verità. Per questa causa dumque raggionevolmente Giove ha voluto che nella più eminente parte del cielo sia vista la veritade. Ma certo questa che sensibilmente vedi e che puoi con l’altezza del tuo intelletto capire, non è la somma e prima: ma certa figura, certa imagine e certo splendor di quella 20.
La Verità è il riconoscimento che l’essere infinito, semplice e permanente, si comunica in molteplici, contrari e differenti volti nell’universo sensibile. Essa è l’apice a cui l’intelletto umano deve tendere, pur potendo coglierne solo l’immagine sensibile. Alla Verità si affianca la provvidenza, che «ha doi nomi: provvidenza e prudenza; e si chiama “provvidenza” in quanto influisce e si trova nelli principii superiori; e si chiama “prudenza” in quanto è effettuata in noi»21. Nell’unità essa è compagna della Verità, identificata nella libertà e nella necessità. Nel suo farsi terrena, invece, assume i caratteri della Prudenza, che consiste «in certo discorso temporale»22, vale a dire in una logica adattata alla dimensione sensibile, a metà strada tra una Ivi, p. 534. Ivi, p. 535. 22 Ibidem. 20 21
conoscenza dell’universale e del particolare che «ha per damigella la dialettica, e per guida la sapienza acquisita, nomata volgarmente metafisica, la quale considera gli universali de tutte le cose che cascano in cognizione umana»23. La prudenza è cautela e custodia della verità sensibile, scudo donato ai mortali per proteggersi dalle avversità in cui la ragione umana può incorrere, fortificandola e donandole la possibilità di adattarsi al mutamento senza essere sconvolta dagli accadimenti: «per cui a gli bene affetti niente accade come subitano et improviso, di nulla dubitano, ma tutto si guardano: ricordandosi il passato, ordinando il presente e prevedendo il futuro»24. Anche la Sofia possiede una forma superiore, celeste e ultramondana, identificata con la Provvidenza e la Verità, e una mondana, consecutiva e inferiore che «non è verità istessa, ma è verace e partecipe della verità; non è il sole, ma la luna, la terra et astro che per altro luce»25. A differenza della Sofia celeste, indivisibile, infigurabile e non comprensibile da un intelletto finito, quella terrena non è tale per essenza, ma per partecipazione alla sua omologa. Come l’occhio che riceve la luce da un lume esterno non vede di per sé, ma in virtù di altro da sé, così la sapienza mondana «non è l’uno, non è l’ente, il vero; ma de l’uno, de l’ente, del vero; a l’uno, a l’ente, al vero; per l’uno, per l’ente, per il vero; nell’uno, nell’ente, nel vero; da l’uno, da l’ente, dal vero»26. Proprio in virtù della sua partecipazione alle realtà superiori, la Sofia terrena è vincolo che permette la comunicazione tra il piano metafisico dell’essere, dell’Uno, della verità, e quello finito, fisico, instabile e mutevole della contrarietà. Se la sapienza e verità unica e semplicissima non è visibile alla ragione umana, alla Sofia terrena è possibile, invece, avvicinarsi e partecipare attraverso molteplici e differenti porte, a cui «per vari gradi e scale diverse […] tutti aspirano, tentano, studiano e si forzano salendo pervenire»27. Ibidem. Ivi, p. 536. 25 Ibidem. 26 Ibidem. 27 Ivi, p. 537. 23 24
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«Alla Sofia succede la legge sua figlia»28, che opera grazie ad essa. La Legge è il principio in virtù del quale «gli prencipi regnano, e li regni e republiche si mantegnono»29. Completando il passaggio dal piano della verità celeste, a quello finito e mutevole della contrarietà, Bruno pensa la legge come strumento di concordia adattabile ai differenti contesti e corpi civili. Con i «suoi otto ministri […] taglione, carcere, percosse, esilio, ignominia, servitù, povertade e morte»30, la Legge è il vincolo civile più appropriato al mantenimento dell’ordine e della concordia di uno Stato. Anch’essa come la Verità e la Sofia possiede un volto celeste, affinché i governanti, i principi e i sovrani le si sottopongano al pari di tutti i membri di una comunità. Se ogni individuo è sottoposto ai vincoli della legge, «gli più potenti»31 son da lei «più potentemente compresi e vinti»32: in modo che «gli potenti sieno sustenuti da gl’impotenti, gli deboli non sieno oppressi da gli più forti, sieno deposti i tiranni, ordinati e confirmati gli giusti governatori e regi, sieno faurite le republiche»33; una legge che sappia premiare la virtù intesa come il bene che il singolo apporta all’intera comunità e, viceversa, che punisca non il peccato particolare compiuto dal singolo verso sé stesso, ma quello arrecato a danno della pace e del bene pubblico. La Legge è la virtù a cui Giove «ha donata […] la potenza di legare»34. Ma affinché essa possa effettivamente legare, non deve né incoraggiare o promuovere le iniquità e le ingiustizie, né proporre e ordinare qualcosa d’impossibile a compiersi: ciò risulterebbe dannoso per il bene pubblico, poiché una siffatta legge dissolverebbe i suoi vincoli, generando oppressione e discordia. Bruno pensa il principio per cui una legge deve poter essere compiuta, in opposizione alla prospettiva riformata, sia luterana sia calvinista. Per i riformati la legge mosaica è stata concessa agli esseri umani affinché prendessero coscienza del loro Ivi, p. 538. Ibidem. 30 Ibidem. 31 Ibidem. 32 Ibidem. 33 Ibidem. 34 Ibidem. 28 29
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limite, della loro condizione di miseria e abbandono senza una salda fede in Dio. Il riconoscimento umano dell’impossibilità di adempiere alla legge e alla volontà divina corrisponde all’accettazione di una fede assoluta e incondizionata. Nel De libertate christiana, Lutero descrive i comandamenti biblici come ciò che pone l’essere umano di fronte all’incapacità di compiere la volontà divina35. Questa stessa prospettiva è presente, seppur lievemente mutata, nel settimo capitolo del libro II dell’Institutio di Calvino36, dove egli descrive la legge mosaica come ciò che rende l’essere umano consapevole della propria miseria e lo spinge ad affidarsi a Cristo per trovare la forza di adempiere ai Comandamenti. Entrambe queste formulazioni del ruolo della legge sembrano trovare il loro fondamento teologico nella teorizzazione elaborata da Melantone nei Loci communes rerum theologicarum37. Bruno rifiuta questa concezione della legge, non soltanto perché si tratta di una legge impossibile a compiersi, ma perché ingiusta: Giove ha comandato, imposto et ordinato al giudizio: che veda se gli è vero che costoro iudicano gli popoli al dispreggio et al meno a poca cura di legislatori e leggi, con donargli ad intendere che quelli proponeno cose impossibili e che comandano come per burla, cioè per far conoscere a gli uomini che gli dèi sanno comandare quello che loro non possono mettere in esecuzione38.
Una legge e, con essa, una religione che mirino a promuovere non il progresso di ogni individuo per la comunità, ma l’abbandono a un oggetto esterno di venerazione e la conseguente rinuncia di sé, delle 35 M. Lutero, Tractatus de libertate christiana, in Werke, J.K.F. Knaake (a cura di), Weimar 1897, vol. VII, pp. 52-53. 36 Ihoannis Calvini Institutio christianae religionis, in Opera quae supersunt omnia, ediderunt J.-W. Baum, E. Cunitz, E. Wilhelm, E. Reuss, Berlin 1864, vol. II, lib. II, cap. 7, pp. 252-266. 37 P. Melanchton Loci communes rerum theologicarum seu hypotyposes theologicae, testo latino-tedesco, H.G. Pöhlmann (a cura di), Gütersloh 1997, pp. 110-118. 38 Spaccio, pp. 544-545.
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umane capacità di pensiero e azione, rappresentano ordinamenti non corrispondenti alla naturale e universale philautia. Al contrario, massimo è il potere della legge di legare se essa aspira a una giustizia regolata dalla possibilità, poiché «quantumque molte cose sono possibili che non son giuste, niente però è giusto che non sia possibile»39. La positività e l’efficacia della legge sono misurate sulla base della «commodità»40 che essa apporta, del modo in cui vincola ogni membro di una comunità verso il miglioramento individuale e collettivo, indirizzando gli animi e riformando gli ingegni, poiché soltanto così «si producono frutti utili e necessari alla conversazione umana»41. Alla Legge si affianca il Giudizio, simboleggiato dalla corona e dalla spada, dal potere di governo e dall’esercizio della legge: «questa con cui premie quelli che oprano bene astenendosi dal male; quella con cui castighe color che son pronti a gli delitti, e son disutili et infruttifere piante»42. Il Giudizio è coessenziale alla Legge, posto a sua cura, poiché «questo deve eseguire, e quella dettare; in quella ha da consistere tutta la teoria, in questo tutta la pratica»43. Suo compito è di suscitare «l’appetito de la gloria ne gli petti umani, per che questo è quel solo et efficacissimo sprone che suole incitar gli uomini e riscaldarli a quelli gesti eroici che aumentano, mantengono e fortificano le repubbliche»44. L’esercizio della Legge attraverso il Giudizio non è mai separato dalla madre Sofia, ma intimamente legato a questa. La Legge costituisce una forma di sapienza rivolta alla pratica del legame o, come recita il De vinculis, una «Manus ergo vinciens metaphorico nomine appellatur, quae multiplici ad vinciendum preparatione deflectur et inclinat»45. Se la verità e la legge appartengono, nella Cena, a due ambiti distinti, nello Spaccio esse non sono separabili l’una dall’altra. Nel primo dei dialoghi italiani, la legge possiede un linguaggio rivolto alla moltepliIbidem. Ibidem. 41 Ivi, p. 540. 42 Ibidem. 43 Ivi, p. 520. 44 Ivi, pp. 540-541. 45 Cfr. De vinculis, p. 418. 39
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cità degli individui che non si adatta al lessico della conoscenza della verità. Se un legislatore «usasse termini che le capisse lui solo et altri pochissimi, e venesse a far considerazione e caso de materie indifferenti dal fine a cui sono ordinate le leggi, certo parrebbe che lui non drizza la sua dottrina al generale et alla moltitudine per la quale sono ordinate quelle»46. Le leggi sono rivolte ai popoli e devono, perciò, essere espresse da un linguaggio comune e semplice, differente da quello della verità, per essere comprese dai molti che non sono in grado di agire virtuosamente per la comunità se non sottoposti al vincolo della legge. Bruno recupera questa distinzione anche nel De l’ infinito, laddove ragionando della potentia absoluta e ordinata di Dio, osserva come alcune verità di natura, non ammesse dai teologi, sarebbero incomprensibili o male interpretate dalla maggior parte degli esseri umani, provocando effetti nefasti sul piano civile47. Le verità di natura non sono in contrasto con la religione e le leggi, ma risulterebbero assurde a quanti vivono sotto il giogo dell’altrui immaginazione. Legge, religione e verità non possiedono lo stesso scopo e non sono rivolte agli stessi soggetti, ma si comunicano attraverso linguaggi e modi differenti. Nel De l’ infinito, come nella Cena, l’intento di Bruno è quello di garantire i meriti e le virtù che rischierebbero di essere disprezzati dalla moltitudine. Il riconoscimento della coincidenza in Dio di libertà e necessità, se comunicato ai «rozzi popoli et ignoranti»48, si risolverebbe sul piano civile in una dissoluzione del libero arbitrio e di un’idea di salvezza legata ai «meriti di giusticia»49. Nella distinzione tra il linguaggio e lo scopo della filosofia, e quello della religione e della legge, egli riconosce, tuttavia, come non si sia trovato «giamai filosofo, dotto et uomo da bene»50 che, dalla considerazione dell’identità in Dio di libertà e necessità, ne abbia dedotto «la necessità delli effetti umani»51» e del libero arbitrio. Anticipando la critica dello Spaccio contro le religioni Cena, p. 92. Cfr. Infinito, p. 337. 48 Ibidem. 49 Ibidem. 50 Ibidem. 51 Ibidem. 46 47
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riformate e la dottrina della gratia sola fide, egli osserva che dall’identità di necessità e libertà in Dio non è possibile inferire l’assenza del libero arbitrio. Seppur sottoposto alla vicissitudine, nella contingenza della sua esistenza l’essere umano è sempre libero di elevarsi dal gradino più basso della scala verso quello più alto, dove splende la luce e il sole della verità52. Se l’essere umano al pari di tutti gli elementi e corpi naturali non è che accidente, manifestazione finita, mutevole e temporale dell’essere, egli può trasformare positivamente questa sua condizione. Ma ciò può avvenire soltanto operando nella repubblica del mondo, attraverso buone leggi e religioni, seguendo la philautia iscritta nella natura, scoprendo la propria di libertà. Nello Spaccio le leggi e le religioni costituiscono due strumenti attraverso i quali indirizzare, favorire, promuovere e premiare la virtù civile, le azioni compiute da un singolo per il bene pubblico. Ma a tal fine è necessario che in tutti i membri di una comunità, nei governanti e nei principi, vi sia una grande forza di volontà. Non è un caso se nella seconda parte del dialogo III, Bruno ponga proprio la Fortezza al fianco della Verità, della Legge e del Giudizio. Questa è necessaria per governare con giudizio e prudenza secondo legge e verità53. Alla distinzione della Cena tra l’ambito della verità e quello della legge e della religione, fa da contraltare nello Spaccio la dipendenza che le unisce. Questa relazione corrisponde a una diversa modalità di rappresentazione del rapporto tra le facoltà umane: come l’intelletto e la volontà non sono opposti e differenti ma coessenziali l’uno all’altra nel raggiungimento di un unico scopo, così, Verità e Legge sono legate in ragione di una stessa finalità. Se la Legge è figlia della Sofia, ciò non significa soltanto che non è separata dalla madre, ma che, affinché sia anche una buona legge, deve poggiare sulla conoscenza della Verità, sull’uso dell’intelletto e di una volontà forte. Per questa ragione Giove 52 Ivi, p. 357-358: «come me tra gli altri Platone et Aristotele, con ponere la necessità et immutabilità in Dio, non poneno meno la libertà morale e facultà della nostra elezzione: perché sanno bene e possono capire come siano compossibili quella necessità e questa libertà». 53 Cfr. Spaccio, p. 574.
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l’ha posta nel firmamento, in modo che «da basso contempleno gli uomini come le cose denno essere ordinate appreso di loro»54. La comprensione e l’istituzione della legge costituisce un momento necessario non solo sul piano della concordia, ma anche nel processo di conoscenza della natura e della verità. Se ontologicamente l’essere umano è identico a ogni altro essere naturale, egli ha però avuto in dono dagli dèi le mani e l’intelletto, vale a dire la capacità di conoscere e ripensare la natura per manipolarla attraverso l’azione, sino a che questa non diventi il suo proprio mondo55. I saperi, le leggi e le religioni, gli istituti e gli ordinamenti, tutte le produzioni umane devono essere indirizzate al progresso della specie. Se l’essere umano non può porsi al di fuori della vicissitudine, egli può intervenire su di essa attraverso l’uso dell’intelletto e della mano, della contemplazione e dell’azione. Con il miglioramento della propria condizione individuale e collettiva, esplicando sul piano civile il naturale vincolo d’amore inscritto in ogni cosa, approssimandosi alla luce della verità, l’essere umano rende omaggio a sé stesso, alla natura e a Dio. La ragione della mutata relazione tra verità e legge dalla Cena allo Spaccio è, dunque, rintracciabile nello slittamento della prospettiva con cui Bruno passa dalla considerazione dell’unità e infinità della natura a quella della molteplicità e contrarietà del mondo civile. Rispetto alla Cena sono qui mutati non soltanto il punto di osservazione e il fine della ricerca, ma anche l’oggetto: seppur nello Spaccio egli tratti sempre della natura, questa è indagata non più nella sua unità, ma volgendosi alla molteplicità delle sue produzioni, all’essere umano e allo spazio etico-politico. 4. La religio come vinculum civile Come la legge, così anche la religione è uno strumento con cui vincire sul piano civile a supporto dell’esercizio di governo nella contrarie54 55
Ivi, p. 516. Cfr. ivi, p. 601.
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tade della polis. Nella prima parte del dialogo II, Saulino, interlocutore della Sofia, discutendo delle buone e delle cattive leggi e riferendosi alla dottrina riformata della gratia sola fidei, chiede in che modo vadano considerate quelle religioni che stimano «per minimo e vile […] l’azzione et atto di buone operazioni»56. Lo scopo della religione risiede nel suo carattere e nella sua funzione pratica. Gli obblighi, i vincoli, i sacramenti e i divieti religiosi costituiscono strumenti normativi funzionali all’ordine e alla vita di una comunità, di una repubblica, una monarchia e uno Stato. Il complesso di credenze, sentimenti, cerimonie e riti che legano uno e più individui a ciò che si ritiene sacro, può configurarsi in un duplice senso: da un lato, come un efficacissimo strumento di potere, di attrazione e manipolazione del soggetto sul piano politico; dall’altro, come mezzo di salvaguardia della pace. La considerazione e l’analisi della religione assumono un carattere politico, laddove, svuotata del suo contenuto mistico, è giudicata sulla base dei frutti che apporta sul piano della concordia e del progresso civile. Se la legge possiede la potenza di legare fra loro gli esseri umani, la religione è ugualmente necessaria a questo scopo. Come osserva Nuccio Ordine, la sua funzione è già inscritta nella radice etimologica, la quale non corrisponde al re-legare gli individui in comunità settarie, nell’isolamento, nella chiusura e nella difesa dalla minaccia costituita dal diverso e dall’infedele. Bruno pensa, invece, la religione come un re-ligare che, attraverso i comandamenti, i vincoli di fede e dell’immaginazione, muove ogni individuo a compiere azioni virtuose per l’intera comunità e ad abbandonare le cerimonie che non apportano alcun frutto alle repubbliche57. Il vincolo che la religione istituisce non è verticale, verso Dio, ma orizzontale tra gli esseri umani. Egli recupera l’idea e l’esigenza umanistica di una religio civilis, definizione che seppur assente dai testi bruniani, ben chiarisce il ruolo che la religione riveste nello spazio politico. Essa incarna la necessità di un sentimento di fede verso lo stato, di un amor di patria che preIvi, p. 540. Cfr. N. Ordine, Contro il Vangelo Armato. Giordano Bruno, Ronsard e la religione, Milano 2007, p. 54. 56 57
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cede ogni separazione confessionale e che, al tempo stesso, diviene strumento di legge e di governo, manifestazione dell’ethos pubblico, delle immagini, dei costumi e dei riti che gli appartenenti a una stessa comunità condividono. Come recita la prima parte del dialogo II dello Spaccio, gli dèi hanno creato la legge e la religione non per accrescere la loro gloria attraverso vane cerimonie, ma per comunicarla agli esseri uomini, affinché essi migliorassero la loro condizione, gratificando sé stessi, la natura e la divinità: perché gli dèi «non minacciano castigo e promettono premio per male o bene che risulta in essi: ma per quello che viene ad essere commesso nelli popoli e civile conversazioni, alle quali hanno soccorso con le loro divine non bastandogli le umane leggi e statuti»58. Scopo della religione non è, dunque, quello di glorificare gli dèi per mezzo di parole, pensieri, preghiere, sterili invocazioni o inutili sacrifici, ma attraverso quelle azioni che apportano effetti benefici alla collettività. L’ira e il piacere degli dèi non è suscitato da ciò che gli esseri umani fanno in favore o contro di loro, ma per le azioni che ogni individuo compie nei confronti dei suoi simili. La religione è un istituto umano, i cui benefici non sono rivolti verso l’alto ma agli individui che la praticano, per nessun’«altro buon fine et utilitade che de gli uomini medesimi»59. Il fine della religione, come anche della legge consiste nella salvaguardia e nella conservazione dei popoli e degli stati. Agire in modo da garantire e favorire la pace per mezzo della legge e della religione, senza sopprimere le differenze dei singoli, ma operando per il bene pubblico, mantenendo saldo l’equilibrio dei contrari: è questo per Bruno il modo più autentico di onorare e rendere gloria a Dio e alla natura, poiché è in ciò che si cela la possibilità per l’essere umano di rendersi infinito. In questa considerazione della religione civile, il peccato e la virtù, il castigo e il premio, il merito e il demerito non corrispondono al negativo o al positivo che il singolo compie verso sé stesso, quanto piuttosto al danno o al bene apportato all’intera comunità: 58 59
Spaccio, p. 541. Ivi, p. 542.
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Li dèi massime vogliono essere amati e temuti, per fine di faurire il consorzio umano et avertire massimamente que’ vizii che apportano noia a quello: e però li peccati interiori solamente denno esser giudicati peccati, per quel che metteno o metter possono in effetto esteriore; e le giustizie interiori mai sono giustizie senza la prattica esterna, come le piante in vano sono piante senza frutti o in presenza o in aspettazione. E vuole che de gli errori in comparazione massimi sieno quelli che sono in pregiudicio della republica; minori quelli che sono in pregiudicio d’un altro particolare interessato; minimo sia quello ch’accade tra doi d’accordo; nullo è quello che non procede a mal essempio o male effetto, e che da gl’impeti accidentali accadeno nella complessione dell’individuo. E questi son que’ medesimi errori per gli quali gli eminenti Dei si sentono massime, minore, minima, e nullamente offesi; e per di questi l’opre contrarie si stimano massime, minore, minima, et alcunamente serviti60.
Il timore e l’amore che gli dèi attendono dagli esseri umani muove questi ad agire al servizio della comunità. Le divinità s’interessano e giudicano i peccati solo se producono effetti esteriori, misurabili sulla base del danno arrecato all’intera comunità, così come le azioni giuste e virtuose, se non rivolte al bene pubblico, sono piante prive di frutti tenute nella minima considerazione. La prospettiva dalla quale valutare le azioni umane è sempre quella dei frutti pubblici e collettivi. Ai fini della concordia e della salvaguardia dei regni e delle repubbliche è necessario saper riconoscere le azioni, i costumi, le abitudini, i caratteri, le leggi e le religioni che apportano un bene alla collettività e quanto, invece, o non influisce o risulta nocivo. Bruno osserva come siano da approvare la penitenza, il credere e lo stimare, ma che non possano essere mai poste sullo stesso piano dell’innocenza, del fare e dell’operare, così come il «confessare e dire al rispetto del correggere et astinere»61. Ogni azione e attitudine umana, ogni istituto e ordinamento civile è valutato dal punto di vista dell’interesse e del bene pubblico: 60 61
Ibidem. Ivi, p. 543.
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Non distingua gli costumi e religioni tanto per la distinzione di toghe e differenze di vesti, quanto per buoni e megliori abiti di virtudi e discipline […]. Non dica maggior errore il superbo appetito di gloria, onde resulta sovente bene alla republica, che la sordida cupidiggia di danari. Non faccia tanto trionfo d’uno per che abbia sanato un vile e disutil zoppo, che poco o nulla vale più sano che infermo, quanto d’un altro ch’ha liberata la patria e riformato un animo perturbato. Non stime tanto o più gesto eroico l’aver in qualche modo e qualche maniera possuto estinguer il fuoco d’una fornace ardente senz’acqua, che l’aver estinte le sedizioni d’un popolo acceso senza sangue 62.
Bruno contrappone i soggetti che vivono attivamente all’interno del corpo civile, apportando benefici collettivi con le loro azioni, a quanti, invece, permangono in uno stato di passività, inattività o di sterile astinenza. Allo stesso modo, gli ordinamenti, le leggi e le religioni sono giudicati sulla base della tensione con cui spingono ogni essere umano a farsi membro attivo della comunità, razionale ed eroico, anziché promuovere una condizione bestiale. Sia le differenze tra le religioni e le leggi, sia le distinzioni antropologiche dipendono dall’osservazione di ciò che muove ogni soggetto a pensare e ad agire attivamente sulla propria e altrui immaginazione, e su quanto, invece, lo rende schiavo incapace di liberarsi da lacci che opprimono, aggiogano l’intelletto e la volontà: Non permette che si addrizzeno statue a poltroni nemici del stato de le republiche e che in pregiudicio di costumi e vita umana ne porgono paroli e sogni, ma a color che fanno tempii a Dei, aumentano il culto et zelo di tale legge e religione per quale vegna accesa la magnanimità et ardore di quella gloria che séguita dal servizio della sua patria et utilità del geno umano: onde appaiono instituite universitadi per le discipline di costumi, lettere et armi. E guarde di promettere amore, onore e premio di vita eterna et immortalitade 62
Ibidem.
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a quei che approvano gli pedanti e parabolani: ma a quelli che per adoprarsi nella perfezzione del proprio et altrui intelletto, nel servizio della communitade, nell’osservanza espressa circa gli atti della magnanimità, giustizia e misericordia, piaceno a gli Dei63.
5. Religio civilis e machiavellismo Nello Spaccio Bruno recupera il modello di religio civilis rappresentato dalla religione dei Romani, a cui già Machiavelli dedicava il libro II dei Discorsi. Il segretario fiorentino rilevava come la religione costituisse per il popolo romano un elemento indispensabile al mantenimento della legge e dell’ordine politico, efficace strumento volto alla salvaguardia della repubblica: Pensando dunque donde possa nascere che in quegli tempi antichi i popoli fossero più amatori della libertà che in questi, credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti: la quale credo sia la diversità della educazione nostra dall’antica. Poiché avendoci la nostra religione mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l’onore del mondo […]. La religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria; come erano capitani di eserciti e principi di repubbliche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il bene nella umiltà, abniegazione, e nel dispregio delle cose umane: quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi64
A questa religio, che beatificava e premiava quanti rendevano grande la repubblica e la patria, fa da contraltare la predisposizione naturale della religione cristiana e il tipo di educazione che da essa deriva, la quale non Spaccio, p. 544. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere, C. Vivanti (a cura di), Torino 1999, vol. II, lib. II, cap. 2, p. 282. 63
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è atta a formare cittadini e uomini di Stato che possano far grandi le repubbliche, ma buoni servi e umili fedeli del Signore. La religione cristiana appare dannosa al bene della repubblica, poiché spinge al disinteresse per la vita politica e, allo stesso tempo, non premia le azioni eroiche volte al bene comune e alla virtù, ma l’essere umili e il disprezzare le vicende terrene. Da ciò deriva un indebolimento e un invilimento degli uomini, i quali non sono più in grado di contrastare adeguatamente i tiranni che infestano e sopprimono le repubbliche65. La causa della crisi civile che Machiavelli denuncia non è da rintracciare nella religione cristiana in quanto tale, ma in una sua errata interpretazione, poiché se volta all’azione e non all’ozio, essa si rivelerebbe utilissima ed efficacissima nell’esaltare la difesa della patria e nel promuovere la virtù pubblica66. Bruno recupera la prospettiva in cui Machiavelli ripensa l’uso civile della religione. Il rimarcare e l’elogiare l’azione e l’attività di ogni membro di una repubblica come virtù pubblica, di contro all’umiltà con cui un’errata interpretazione del cristianesimo ha assopito gli individui, inducendoli a subire le tirannie e il sovvertimento delle repubbliche, sono questioni centrali anche dello Spaccio. È questa la ragione per cui, nella prima parte del dialogo II, Giove elogia il popolo romano, considerandolo un modello da seguire: perché con gli suoi magnifici gesti più che l’altre nazioni si seppero conformare et assomigliare ad essi, perdonando a’ summessi, debellando gli superbi, rimettendo l’ingiurie, non obliando gli benefici, 65 Ibidem: «questo modo di vivere adunque pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l’università degli uomini per andare in Paradiso pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle». 66 Ibidem: «E benché paia che si sia effeminato il mondo e disarmato il Cielo, nasce più sanza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l’ozio e non secondo la virtù. Perché se considerassono come la ci permette la esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi l’amiamo ed onoriamo, e prepariamoci a essere tali che noi la possiamo difendere. Fanno adunque queste educazioni e sì false interpretazioni, che nel mondo non si vede tante repubbliche quante si vedeva anticamente; né per consequente si vede ne’ popoli tanto amore alla libertà quanto allora».
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soccorrendo a’ bisognosi, defendendo gli afflitti, revelando gli oppressi, affrenando gli violenti; promovendo gli meritevoli, abbassando gli delinquenti: mettendo questi in terrore et ultimo esterminio con gli flagelli e secure, e quelli in onore e gloria con statue e colossi. Onde consequentemente apparve quel popolo più affrenato e ritenuto da vizii d’incivilitade e barbaria, e più esquisito e pronto a generose imprese. Ch’altro che si sia veduto giamai. E mentre tale fu tale lor legge e religione, tali furono gli lor costumi e gesti, tale è stato lor onore e lor felicitade67.
L’elogio della religio dei Romani, pur configurandosi profondamente autonomo, non può non rimandare al Principe e ai Discorsi di Machiavelli68. Nella Londra elisabettiana le opere del segretario fiorentino rappresentano un riferimento centrale, costante e indispensabile alla teoria e alla pratica politica, specie per personaggi frequentati da Bruno69. Non è un caso che lo Spaccio sia stampato a Londra dal tipografo John Charlewood, nello stesso anno in cui John Wolf pubblica nella capitale inglese i Discorsi e il Principe 70. La diffusione delle opere del segretario fiorentino in Inghilterra non è limitata a queste sole due opere: tra il 1587 e il 1588 Wolf diede alle stampe le Istorie Fiorentine, l’Arte de la guerra e l’Asino d’oro. Seppur non sia mai stata accertata l’identità del prefatore dell’edizione inglese dei Discorsi, tra i collaboratori del tipografo che parteciparono attivamente alla pubblicazione compaiono non pochi esuli italiani, i Spaccio, p. 544. Cfr. N. Ordine, Contro il vangelo armato, cit., pp. 57-62; cfr. M. Viroli, Machiavelli’s God, Princeton-Oxford 2010, pp. 241-244; cfr. M. Ciliberto, Nicolò Machiavelli. Ragione e pazzia, Roma 2019, pp. 275-298. 69 Cfr. S. Ricci, Bruno e Machiavelli nelle crisi delle guerre di religione, in Machiavelli e la cultura politica del Meridione d’Italia, Atti del Convegno (Napoli 27-28 novembre 1997), G. Borrelli (a cura di), Napoli 2001, p. 28. 70 Cfr. D. Pirillo, Magia e machiavellismo. Giordano Bruno tra ‘praxis’ magica e vita civile, La magia nell’Europa moderna. Tra antica sapienza e filosofia naturale, F. Meroi ed E. Scapparone (a cura di), Atti del Convegno (Firenze 2-4 ottobre 2003), Firenze 2007, p. 518; cfr. S. Bassi, Editoria e filosofia. Giordano Bruno e i tipografi londinesi, «Rinascimento» XXXVII (1997), pp. 437-458. 67
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quali furono il maggior canale di diffusione della cultura umanistica italiana presso le corti europee: tra questi, Petruccio Ubaldini di Firenze, storico e miniatore, Iacopo Castelvetro di Modena, umanista e letterato, Alberico Gentili, giurista e professore di diritto civile a Oxford. Quest’ultimo fu un importante punto di riferimento per Bruno durante i suoi spostamenti prima in Inghilterra tra 1583 e il 1585, poi in Germania tra il 1586 e il 158871, favorendolo sia a Oxford, nell’ottenimento di un insegnamento soppresso dopo tre lezioni per un’accusa di plagio, sia a Wittenberg presso l’Ateneo di quella città72. Entrambi, Gentili e Bruno, insieme a Castelvetro, trovarono accoglienza nel circolo politico e intellettuale facente capo a Sir Philip Sidney, poeta, personaggio di spicco della corte elisabettiana e dedicatario proprio dello Spaccio. Proprio a Gentili, Diego Pirillo ha attribuito un’ipotetica paternità della prefazione ai Discorsi73 in cui, se da un lato emerge il tentativo di spogliare la figura di Machiavelli dalla leggenda di ateo adulatore dei tiranni, dall’altro si delinea una lettura della filosofia e della storia come necessarie al diritto, sempre più libero dalla teologia nella determinazione dei principi dell’ordine politico. Il passaggio è quello da un sistema di diritto di tipo ecclesiastico-teologico a uno giuridico-statale, in cui la religione diviene strumento della legge e non viceversa. Queste posizioni sono molto vicine a quanto Gentili argomentava nel suo De legationibus 74, pubblicato a Londra nel 1585, in cui indicava nei Discorsi di Machiavelli un modello di perfetta compenetrazione tra il sapere storico e quello filosofico, nonché nel Principe una denuncia
71 Cfr. D. Panizza, Alberico Gentili, giurista ideologo dell’Inghilterra elisabettiana, Padova 1981; cfr. Id., Machiavelli e Gentili, in «Il pensiero politico», II (1969), pp. 476-483; cfr. F. Mignini, Temi teologico-politici nell’ incontra tra Alberico Gentili e Giordano Bruno, La mente di Giordano Bruno, F. Meroi (a cura di), introduzione di M. Ciliberto, Firenze 2004, pp. 103-123. 72 Cfr. Processo, pp. 162, 290. 73 Cfr. D. Pirillo, Magia e machiavellismo, cit., pp. 520-523. 74 Cfr. A. Gentili, De legationibus libri tres, ristampa anastatica dell’edizione del 1584, introduzione di E. Nys, Buffalo-New York 1995.
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della tirannide contro i popoli. Anche il De iure belli75, pubblicato nel 1598, porta inscritto un principio machiavelliano: il diritto di condurre guerra deve essere slegato dal ricorso a ragioni teologiche, ma posto nell’alveo delle prerogative e dei poteri del sovrano e delle repubbliche. Come il diritto diplomatico, così anche quello di guerra è una disciplina autonoma, regolata da principi di ragione e non di fede. Attraverso la mediazione di Gentili, di Sidney e del machiavellismo diffuso negli ambienti politici e culturali della corte londinese, Bruno poté affacciarsi al problema dell’uso politico e normativo della religione, mutando la prospettiva inizialmente delineata nella Cena. Ma non solo Londra fu decisiva per l’elaborazione della sua riflessione politica e religiosa. Già durante il primo soggiorno parigino tra il 1581 e il 1583, egli strinse amicizie con studiosi, uomini di lettere e profondi conoscitori delle opere di Machiavelli, tra cui Iacopo Corbinelli, esule fiorentino e importante figura della corte di Enrico III di Valois. Membro dell’Académie du Palais, lecteur royal, studioso e postillatore dei Discorsi del segretario fiorentino, questi ebbe un rapporto privilegiato con il sovrano, suo lettore e precettore. Come testimonia una pagina della Storia delle guerre civili in Francia di Enrico Caterino Davila, relativa all’anno 1579, «il Re […] si riduceva ogni giorno dopo pranzo con Braccio del Bene e con Giacomo Corbinelli, fiorentini, uomini di molte lettere greche e latine, da’ quali si faceva leggere Polibio, Cornelio Tacito e molto più spesso i Discorsi e il Principe del Machiavelli»76. Corbinelli fu uno dei maggiori canali di diffusione di una lettura non ideologica di Machiavelli alla corte di Francia e all’interno dell’Accadémie du Palais. Egli legge e commenta i Discorsi, testo di cui si serviva quotidianamente nel riflettere sulle vicende politiche che viveva in prima persona al fianco del sovrano. Ne è un esempio la copia dell’edizione giuntina, oggi conservata presso la Biblioteca Nazionale 75 Id., De iure belli libri tres, riproduzione anastatica dell’edizione Oxford-Londra, 1933, traduzione dell’edizione del 1612 di J.C. Rolf, introduzione di C. Phillipson, Buffalo-New York 1995. 76 E. C. Davila, Storia delle guerre civili di Francia, M. D’Addio e L. Gambino (a cura di), Roma 1990, t. I, p. 149.
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di Parigi, che Corbinelli dovette portare con sé nell’esilio da Firenze e che contiene le sue annotazioni77. L’opera del segretario fiorentino assume la funzione di un breviario laico, un manuale di teoria e prassi politica da consultare quotidianamente non come ricettacolo di precetti pratici, quanto piuttosto, fonte di un modo di considerare le categorie del politico radicato nella lezione dell’umanesimo civile e nella lettura storico-filologica dei classici. Un tratto, questo, che affonda le proprie radici nell’idea che il mantenimento e la salvaguardia della repubblica vengano prima della difesa della religione. Proprio grazie alla mediazione di Corbinelli, Bruno entrò in contatto con Enrico III, ricevendo da questi la nomina a lettore straordinario del Collège de Cambrai78, dopo avergli dedicato nel 1582 il De umbis. Egli trovò in Corbinelli non soltanto un sostegno in una Parigi ancora sconosciuta, ma un amico sincero, fino a diventarne «piacevol compagnetto ed epicuro per la vita»79. Ma le sue frequentazioni parigine non si limitarono alla corte reale. In quegli stessi anni egli ebbe rapporti con i membri del partito dei politiques, dei quali condivideva la tesi che il bene dello Stato dovesse essere anteposto alle differenze religiose. La necessità machiavelliana di anteporre la ragione di Stato al problema confessionale, nonché l’idea che la religione dovesse essere un instrumentum regni sottoposto al potere politico e legislativo, è presente anche nei Mémoires di Michel de Castelnau, ambasciatore francese a Londra che accolse Bruno durante la permanenza inglese e a cui sono dedicati i primi tre dialoghi italiani. Negli anni delle guerre di religione, politici, giuristi e filosofi vedono nell’opera di Machiavelli un valido strumento teorico attraverso cui ripensare il rapporto fra Stato e Chiesa, fra potere temporale e potere religioso. Quella del segretario fiorentino incarna una filosofia politica capace d’ispirare l’azione dei sovrani e delle repubbliche, mettendo fine 77 Cfr. Discorsi di Niccolò Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio, per Bernardo Giunta, nell’anno 1531 (Bibliothèque Nationale de France, RES-E*-247). 78 Cfr. Processo, pp. 161-162. 79 Da una lettera di Corbinelli a Giovan Vincenzo Pinelli del 6 giugno 1586, in A.F Yates, Giordano Bruno e la cultura del Rinascimento, Roma-Bari 1988, p. 124.
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alle guerre e fondando una nuova e moderna forma di Stato, in cui la religione non sia più motivo di guerra, ma di legame civile. La fortuna o la sfortuna delle opere del segretario fiorentino segue l’instabile e travagliato contesto politico delle guerre di religione: se Machiavelli fu la fonte e l’ispirazione interna agli ambienti politici e culturali frequentati da Bruno tra Parigi e Londra, questi rappresentò anche l’immagine di un pensiero politico anticristiano. L’inserimento di Machiavelli nell’indice universale del 1559 voluto da Paolo IV e nell’Indice tridentino, pubblicato a conclusione del Concilio nel 156480, in cui compariva tra gli autori di cui si condannavano non solo gli scritti ma anche il nome, segnò l’inizio della clandestinità. I libri di Machiavelli sopravvissuti ai roghi continuarono a circolare e a essere venduti sottobanco, custoditi e letti di nascosto, citati sempre più raramente e in forma indiretta. Dalla penna di quanti lo avevano citato senza timori prima della messa all’indice il suo nome scomparve. La censura delle autorità ecclesiastiche non si limitò all’esclusivo esercizio dell’oblio del nome e delle opere, ma ancor più verso la diffusione del pensiero. Una violenta offensiva condotta sia da parte cattolica, sia riformata colpì il machiavellismo inteso come un generale indirizzo di pensiero sempre più ramificato. Al propagarsi nell’Europa cristiana di questo germe, strumento di analisi e azione politica nella definizione della sovranità e dell’indipendenza degli stati dalla religione, fa da contraltare la polemica antimachiavellica, elemento di propaganda utilizzato a conservazione del potere d’influenza esercitato dalle chiese sugli Stati. In Italia, Svizzera, Francia e Inghilterra, Machiavelli assume sia da parte cattolica, sia riformata, il volto di un autore da condannare come eretico, un empio e un ateo, portavoce di una politica spregiudicata e tirannica. In Francia egli incarnava, come ha osservato Giuliano Procacci, «una sorta di segnacolo in vessillo, una personificazione dei vizi più diversi, un simbolo, un nome. Gli ugonotti accusavano di ‘machiavellismo’ i Cfr. Index des livres interdits, VIII: Index de Rome 1557, 1559, 1564. Les premiers index romans et l’ index du Concile de Trente, J.M. de Bujanda, R. d’Avignon, E. Stanek (a cura di), Genève 1990, pp. 717-801, 54-56. 80
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gesuiti, i ligeurs e i ‘papisti’, questi a loro volta ritorcevano l’accusa sui calvinisti, salvo ad associarsi entrambi nel denunciare il ‘machiavellismo’ e l’‘ateismo’ del politiques»81. Allo stesso modo nella Ginevra attraversata da Bruno nel 1579, l’anti machiavellismo è un sentimento forte e condiviso nella maggior parte degli ambienti politici e religiosi della città, specie dopo la pubblicazione nel 1576 del Discour contre Machiavel 82 dell’ugonotto Innocent Gentillet, manifesto dell’anti machiavellismo e fortunata operazione editoriale, più volte ristampato in francese, in latino, in inglese, in olandese, in tedesco, e di cui si contano circa ventiquattro edizioni tra il 1576 e il 165583. Ginevra rappresentò in quegli anni la «cittadella della resistenza e della controffensiva»84 ai tentativi di diffusione in Svizzera delle opere di Machiavelli da parte dagli esuli italiani. L’opposizione delle autorità ginevrine e la propaganda del Gentillet furono particolarmente dure, ma non a tal punto da impedire a un esule e teologo italiano, Niccolò Balbani, ministro della Chiesa Italiana tra il 1561 e il 1587, di rifiutare il binomio machiavellismo ateismo in cui Gentillet includeva l’intera nazione italiana. Proprio di Balbani, nella sua breve e travagliata permanenza nella città di Calvino, Bruno ebbe modo di ascoltare e apprezzare in più occasioni le prediche e le lezioni sulle Epistolae di San Paolo e sui Vangeli85. Come ha sottolineato Saverio Ricci, le strade percorse dal Nolano in Europa tra il 1579 e il 1586 e quelle della diffusione di Machiavelli s’incrociano continuamente e sempre in merito al problema dell’uso politico della religione e del rapporto fra Stato e Chiesa86. Il contesto G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995, p. 138. 82 Cfr. I. Gentillet, Discours contre Machiavel. A new edition of the original text with selected variant readings, A. D’Andrea e P.D. Stewart (a cura di), Firenze 1974. 83 Cfr. P.D. Stewart, Innocent Gentillet e la sua polemica antimachiavellica, Firenze 1969, pp. 37-38. 84 G. Procacci, Machiavelli e la cultura europea dell’età moderna, cit., p. 132. 85 Cfr. Documenti, pp. 213, 283, 289, 631, 700. 86 S. Ricci, Bruno e Machiavelli nelle crisi delle guerre di religione, cit., p. 24; cfr. Id., Giordano Bruno nell'Europa del Cinquecento, Roma 2000, 271-364. 81
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politico e culturale, gli ambienti e i personaggi frequentati da Bruno nella sua peregrinatio, sono fondamentali per comprendere da dove si origini la ripresa e la riformulazione nello Spaccio del tema tipicamente machiavelliano della religione quale necessario vincolo civile. Il recupero della religio dei Romani, ai quali è riconosciuto il merito di aver legato e sottoposto la fede, i culti e le cerimonie, all’amor di patria, alla vita politica e giuridica della repubblica, s’inserisce in questa prospettiva. 6. Re-ligare e re-legare: la falsa religio dei riformati La distinzione che Bruno pone tra una buona e una cattiva religio non è lontana dalla critica machiavelliana alle errate interpretazioni del cristianesimo. Come il segretario fiorentino, così anch’egli distingue una religione che favorisce l’impegno civile e intellettuale, e una seconda che vincola l’essere umano in uno stato di passività e umiliazione delle proprie capacità. Se il modello di buona religio è rappresentato da quella dei Romani, la cattiva e oziosa religione è identificata nel ciclo della rivelazione giudaico-cristiana e, in particolare, nell’interpretazione del messaggio biblico che da Paolo giunge sino alla predicazione di Lutero e Calvino, seguaci di una forma di credulitas che sovverte l’ordine naturale. Nella Cabala, il messaggio dell’apostolo di Tarso costituisce la matrice nefasta da cui ha avuto origine la perniciosa dottrina riformata che spinge ad abbondonare le buone opere e, dunque, il piano civile. Come ha osservato Meroi87, Bruno prende a prestito la struttura e il modello delle prediche di Seripando, riproponendo in forma ironica, l’invito che nel cardinale agostiniano era tutt’altro che ironico a farsi umili. Questo è, ai suoi occhi, l’invito a farsi asini, stolti, ignoranti, a rinunciare alla curiositas che anima l’essere umano e che lo spinge alla ricerca, al desiderio di conoscenza, un invito alla rinuncia di ogni
Cfr. F. Meroi, Cabala parva. La filosofia di Giordano Bruno fra tradizione cristiana e pensiero moderno, Roma 2006, pp. 75-119. 87
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aspirazione intellettuale e pratica. È questo, in altre parole, un invito a farsi bestie da soma. Nel commento all’Epistola ai Romani di Paolo, Calvino intrepreta il religare in un senso intimo e individuale, come una relazione soggettiva tra l’essere umano e Dio che si realizza per mezzo del messaggio di Cristo88. Le opere e i frutti apportati dal singolo alla comunità non garantiscono la salvezza. L’autentica vita cristiana si realizza nella fedele accettazione dell’inconoscibile giustizia divina, nella giustificazione e nella predestinazione: questi principi sottopongono il credente a un destino a lui ignoto, incapace d’agire sul piano civile per liberarsi dalle catene della propria condizione. Anche nell’Institutio Calvino osserva che se la conoscenza di Dio è naturalmente radicata nell’essere umano sin dal grembo materno, tuttavia, il male fa sì che questa si affievolisca progressivamente89. L’unica possibilità per ricongiungersi a Dio è contenuta nelle Scritture, nel riconoscimento della miseria della condizione umana e in una fede totale90. Se ogni essere umano può ritrovare Dio solo riconoscendo la propria natura corrotta, rendendosi umile e disprezzando le glorie terrene, la conquista della fede non trae mai origine da uno sforzo umano ma dall’elezione divina. Non vi è libertà umana se non in Dio e per sua grazia, allo stesso modo in cui le azioni compiute da quanti non sono nella grazia divina sono condannate91. Ogni individuo può essere libero, avere fede e avvicinarsi a Dio «ex sola Dei voluntate […], non ullo suo merito»92. Queste considerazioni non divergono da quanto osservava già Lutero nel De libertate christiana, affermando l’esclusività della grazia e della fede per la conquista della salvezza e l’inutilità delle opere e del
Cfr. Iohannis Calvini Commentarium in Pauli Epistolam ad Romanos, in Opera quae supersunt omnia, ediderunt G. Baum, E. Cunitz, E. Reuss, Berlin 1892, vol. XLIX, cap. 10, p. 195. 89 Cfr. Id., Institutio christiane religionis, in Opera, cit., lib. I, cap. 4, p. 38. 90 Cfr. ivi, lib. II, cap. 2, pp. 193-194. 91 Ivi, lib. II, cap. 3, pp. 209-210. 92 Ivi, lib. II, cap. 3, pp. 223-224. 88
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merito93. Le opere non apportano un beneficio nell’accesso alla grazia di Dio: se questa non può essere meritata, poiché solo l’imperscrutabile volontà divina determina quanti si salveranno e quanti saranno dannati, ciò vuol dire che le azioni umane non possiedono valore ai fini della salvezza. Soltanto la fede può giustificare l’essere umano: «Atque haec est Christiana illa libertas, fides nostra, quae fecit, non ut ociosi simus aut male vivamus, sed ne cuiquam opus sit lege aut operibus ad iustitiam et salutem»94. La fede è, dunque, l’unico strumento su cui fondare la religione, non le opere: non vi è azione o virtù che apporti merito e premio al cospetto di Dio, ma solo una vita vissuta nella fede della volontà e della giustizia divina. All’esteriorità cattolica delle opere, Lutero contrappone l’interiorità della fede nella relazione tra il singolo e Dio. L’essere pii e fedeli si traduce così nell’accettazione e nella giustificazione degli eventi come manifestazione della volontà divina. Come Lutero osserva nel De servo arbitrio, la volontà umana non può che essere sottoposta a una potenza superiore e va nella direzione impostale da Dio o da Satana: «si insederit Deus, vult et vadit, quo Deus si insederit Satan, vult et vadit, quo vult Satan, nec est in eius arbitrio, ad utrum sessorem currere aut eum quaerere, sed ipsi sessores certant ob ipsum obtinendum et possidendum»95. Su questa stessa traccia interpretativa Lutero rifiuta anche la relazione tra legge e giustizia. Le opere compiute in nome della legge umana non possiedono valore ai fini della salvezza, poiché la giustizia di Dio è antecedente e la trascende. Se la volontà umana non è libera né capace di uscire autonomamente dal peccato e volgersi al bene, allo stesso modo, anche la ragione non è in grado di comprendere l’opera di Dio senza un suo intervento.
M. Lutero, Tractatus de libertate christiana, in Werke, cit., p. 61: «Ita Christianus, non per fidem suam consecratus bona facit opera, sed non per haec magis sacer aut Christianus efficitur, hoc enim solius fidei est, immo nisi ante crederet et Christianus esset, nihil prorsus valerent omnia sua opera, essentque vene impia damnabilia peccata». 94 Ivi, p. 53. 95 Id., De servo arbitrio, in Werke, cit., 1908, vol. XVIII, p. 635. 93
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Nel De libero arbitrio Erasmo aveva affermato la necessità civile del riconoscimento della libera volontà umana, delle opere, del merito e del peccato. In quest’opera, rivolta a Lutero, l’umanista olandese osserva come la religione debba essere uno strumento teso a correggere il male e a migliorare le condizioni di vita individuali e collettive96. Questa stessa considerazione costituisce il fondamento teorico sul quale poggia la riflessione politica e religiosa dello Spaccio di Bruno. Seguendo la traccia erasmiana e machiavelliana, egli mette in luce i pericoli e gli effetti della dottrina luterana e calvinista del servo arbitrio, della gratia e iustitia sola fide. Queste dottrine comportano una svalutazione delle leggi e degli ordinamenti civili, uno svuotamento della ragione umana che limita l’uscita da una condizione bestiale, secondo una critica presente anche nelle testimonianze dirette come i diari di Cotin e i costituti del processo veneto97. Nella terza parte del dialogo I, Giove decreta che la sedia della corona Boreale rimanga vuota in cielo, in attesa di un qualche «eroico precipe» che «con la mazza et il fuoco riporterà la tanto bramata quiete alla misera et infelice Europa: fiaccando gli tanti capi di questo peggio che Lerneo mostro, che con moltiforme eresia sparge il fatal veleno»98. Il Lerneo mostro che sparge veleno in un’Europa insanguinata dalle guerre di religione è proprio la Riforma nelle sue molteplici forme, la quale promulgando la dottrina della gratia sola fide umilia l’essere umano e la possibilità di ridestarsi. Così Momo, consigliere di Giove, propone al padre degli dèi la strada da seguire per porre fine alla crisi politica, religiosa e culturale: Basterà che done fine a quella poltronesca setta di pedanti, che senza ben fare secondo la legge divina e naturale, si stimano e vogliono essere stimati religiosi e grati a’ Dei, e dicono che il far bene è bene, il far Erasmo da Rotterdam, Contributo alla discussione sul libero arbitrio, in Scritti religiosi e morali, C. Asso e A. Prosperi (a cura di), Milano 2010, p. 374. 97 L. Auvray, Giordano Bruno d’après le témoignage d’un contemporaine (Guillaume Cotin) 1585-1586, «Mémoires de la Société de l‘Histoire de Paris et de l‘Isle-deFrance», XXVII (1900), p. 11; cfr. Processo, pp. 177-179. 98 Spaccio, pp. 516-517. 96
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male è male: ma non per ben che si faccia, o mal che non si faccia, si viene ad essere degno e grato a’ dèi; ma per sperare e credere secondo il catechismo loro99.
I riformati non sono soltanto espressione di una «poltronesca setta di pedanti», ma sovvertitori di un ordine naturale che si rispecchia nelle leggi umane, «ladroni et occupatori di beni ereditarii»100 che hanno usurpato quanto era stato costruito da altri, «tempii, capelle, xeni, ospitali, collegi et universitadi»101, ergendosi a censori proprio dei saperi e delle scienze necessarie al progresso degli esseri umani e delle repubbliche. Alle affermazioni di Momo si aggiungono quelle di Mercurio, secondo il quale anche lo stesso cielo abitato dagli dèi e dalle virtù rischia di essere infettato dalle perniciose dottrine diffuse sulla terra. Per il messaggero degli dèi la negazione delle opere quale riconoscimento pubblico della virtù e castigo del male arrecato alla comunità costituisce la madre di tutte le forfanterie: se le divinità proponessero un patto simile agli umani, arrecherebbero alla convivenza civile un danno peggiore della stessa morte. Bruno pone qui un principio di tolleranza, di libertà e pluralità di fede: ogni individuo è libero di credere nella propria religione, nei costumi e nelle leggi della comunità a cui appartiene, ma ciò non cambia il ritmo naturale e il destino a cui ogni cosa è sottoposta. I riformati sono liberi di ritenere che le opere non siano necessarie, «perché tanto il destino di quelli, quanto il destino loro che credono il contrario è prefisso, e non si cangia perché il lor credere o non credere si cangie, e sia d’una et un’altra maniera»102. In virtù di questa universale indifferenza naturale e della tolleranza, del rispetto delle religioni, delle leggi e dei costumi altrui, i riformati non possono «essere molesti a color che non gli credono»103. Anzi, proprio in quanto essi cercano di estirpare Ivi, p. 517. Ibidem. 101 Ibidem. 102 Ivi, p. 518. 103 Ibidem. 99
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la differenza e la contrarietade, devono essere perseguitati, «perché son peggiori che li bruchi e le locuste sterili, e quelle arpie le quali non opravano nulla di buono»104. La negazione delle opere rappresenta la dissoluzione dei vincoli civili necessari al convitto umano, alla concordia e al progresso. La promessa di un castigo o di un premio eterno dopo la morte possiede una funzione regolatrice e stimolatrice delle capacità umane sul piano etico e politico105. Nella prima parte del dialogo II dello Spaccio, Bruno riprende proprio l’elogio della religione dei Romani contrapponendolo alla dottrina della gratia sola fide, comune tanto al luteranesimo quanto al calvinismo. A differenza del primo dialogo dell’opera, dove egli poneva il problema in un senso teorico e teologico, nel secondo egli muove la sua analisi a partire dagli effetti nefasti che la Riforma ha prodotto sul piano civile. Alla richiesta di Saulino su come vadano giudicati «questi gramatici che in tempi nostri grassano per l’Europa»106, riferendosi all’interpretazione letterale della Bibbia sostenuta da Lutero, la Sofia risponde: Giove ha comandato, imposto et ordinato al giudizio: che veda se gli è vero che costoro iudicano gli popoli al dispreggio et al meno a poca cura di legislatori e leggi, con donargli ad intendere che quelli proponeno cose impossibili e che comandano come per burla, cioè per far conoscere a gli uomini che gli dèi sanno comandare quello che loro non possono mettere in esecuzione. Veda se mentre dicono che vogliono riformare le difformate leggi e religioni, vegnono per certo
Ibidem. Ibidem: «Tutti quei ch’hanno giudicio naturale» disse Apolline, «giudicano le leggi buone perché hanno per scopo la prattica; e quelle in comparazione son megliori, che donano meglior occasione a meglior prattica: perché de tutte leggi altre son state donate da noi, altre finte da gli uomini massime per il comodo de l’umana vita; e per ciò che alcuni non veggono il frutto de lor meriti in quella vita, però gli vien promesso e posto avanti gli occhi de l’altra vita il bene e male, premio e castigo, secondo le lor opre». 106 Ivi, p. 544. 104 105
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a guastar tutto quel tanto che ci è di buono, e confirmar et inalzar a gli astri tutto quello che vi può essere o fingere di perverso e vano107.
Il criterio di giudizio di una religione, come di una legge, è sempre legato ai frutti che apporta sul piano civile. I riformati non hanno fatto che «togliere le conversazioni, dissipar le concordie, dissolver l’unioni, far ribellar gli figli da padri, gli servi da padroni, gli sudditi da superiori, mettere in scisma tra popoli e popoli, gente e gente, compagni e compagni, fratelli e fratelli; e ponere in disquarto le famiglie, cittadi, republiche»108. Essi hanno interrotto il principio su cui si fondava l’efficacia della legge, quello della possibilità di una sua esecuzione e, allo stesso tempo, del riconoscimento della virtù pubblica, del merito e del premio, allontanando l’essere umano dal rapporto e dalla comunicazione con un Dio imperscrutabile o addirittura assente. Volendo riformare leggi e religioni, i riformati hanno introdotto il germe della violenza e della discordia in nome della pace. La religione riformata è nociva poiché apporta pessimi frutti sul piano civile, anzi, non ne produce affatto, in quanto predica la dottrina della grazia e della salvezza per via di fede, disprezzando l’utilità delle opere e inducendo a una vita oziosa, bestiale e asinina. I riformati hanno sovvertito i necessari vincoli civili con cui legare le comunità, venendo meno al compito della religione, quello di re-ligare gli esseri umani tra loro, spargendo il seme della discordia, della separazione e della guerra tra i popoli, all’interno delle repubbliche, dei regni e delle famiglie. Essi hanno utilizzato la fede come strumento attraverso cui re-legare le proprie comunità, chiudendole alla diversità e alla contrarietà, imponendo un’assoluta omogeneità sul piano civile: come osserva Dagron, «le mépris des valeurs mondaines de la théologie réformée de la grâce conduit à la dissolution de toutes formes sociales, c’est-à-dire à celle, en général de la loi à laquelle “Jupiter a donné la puissance de lier”»109. Apparentemente mossi dallo scopo di riformare la legge e la religione, Spaccio, pp. 544-545. Ivi, p. 545. 109 T. Dagron, Giordano Bruno et la théorie des liens, cit., p. 468. 107
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essi ne hanno dissolto la funzione e, agendo «peggio di tutti altri che pasce la terra»110, «stroppiano gli sani et uccideno gli vivi, non tanto con il fuoco e con il ferro, quanto con la perniciosa lingua»111, proponendo una forma di pace a cui «vogliono et ambiscono che tutto il mondo concorde e consenta alla lor maligna e presuntuosissima ignoranza, et approve la lor malvaggia coscienza; mentre essi non vogliono concordare né consentire a legge, giustizia e dottrina alcuna»112. In altre parole, i riformati agiscono come il veleno della discordia in un’Europa che ha perso la propria forma, per ritrovarsi in una fase d’instabilità in cui dominano non più gli ordinamenti civili, ma i rapporti di forza e la guerra civile. Bruno valuta la Riforma senza porre alcuna distinzione tra le sue molteplici forme, ma le condanna tutte come espressione di una stessa dottrina. L’unica distinzione è relativa alla «discordia e dissonanza»113 interne alle molteplici anime della Riforma, «perciò che tra diece mila di simil pedanti non si trova uno che non abbia un suo catechismo formato, se non publicato: al meno per publicare quello che non approva nessuna altra instituzione che la propria, trovando in tutte l’altre che dannare, riprovare e dubitare»114. Nonostante le apparenti differenze, queste confessioni non divergono nei loro dogmi, la dottrina della iustitia e della gratia sola fide, la predestinazione, la concezione di Dio, della natura umana e del peccato e, infine, come per i cattolici, della Trinità e dell’Incarnazione. Se nelle opere bruniane traspare, sul piano della filosofia naturale, una decostruzione dei dogmi tanto del cattolicesimo quanto, in senso più generale, del cristianesimo, ciò rappresenta soltanto una parte della sua riflessione filosofica e teologica. Al di là della discussione di carattere dogmatico, vi è un secondo livello di analisi che mira a considerare gli effetti e i frutti che una determinata forma di religione apporta sul Spaccio, p. 545. Ibidem. 112 Ibidem. 113 Ibidem. 114 Ibidem. 110
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piano civile. Come ha osservato Sara Miglietti, l’obbiettivo dello Spaccio è molto chiaro: «rinnovare la società contemporanea attraverso una rieducazione a quegli ideali civili che il ciclo cristiano ha fortemente contribuito ad offuscare. […]. Si tratta […] di porre un’alternativa radicale a ciò che la religione, e soprattutto quella riformata offre all’umanità cinquecentesca»115. A differenza del cattolicesimo, la critica di Bruno alla Riforma è di carattere teologico-politico: seppur questa critica sia, infatti, rivolta ai fondamenti dogmatici del cristianesimo, tuttavia il cattolicesimo rappresenta un efficace strumento di coesione civile, di solidarietà e carità sul piano sociale. Se gli esseri umani eroici e razionali sono in grado di autodeterminarsi e riconoscere una legge morale che non sia in conflitto né con la natura né con l’ethos pubblico, ciò non può dirsi della moltitudine. La religione cattolica è un’arma potentissima a cui gli esseri umani sono sottoposti e per la quale, attraverso il vincolo dell’immaginazione esercitato dalla paura del castigo eterno o della speranza del premio, essi vivono rispettando anche gli ordinamenti e le leggi civili. Lo Spaccio mira all’aspetto esteriore e normativo di una religione, alla sua forza di porsi come vinculum civile. La forma cattolica del cristianesimo è l’unica, secondo Bruno, che nel contesto politico e religioso dell’Europa del secondo Cinquecento possa apportare frutti sul piano della vita civile, ma solo se sottratta all’autorità del Papa di Roma e sottoposta al potere sovrano, politico e giuridico, se utilizzata come legame orizzontale e comunitario posto al servizio degli Stati. 7. Dalla critica dei riformati a quella dei conquistadores. Sintomi della crisi europea dalla Cena allo Spaccio Nello Spaccio Bruno definisce i riformati colpevoli di aver diffuso avarizia, insolenza, ipocrisia e ignoranza, di essere «rubbator[i] et usurpator[i] de l’altrui»116, peggio di quelle arpie «le quali non opravano S. Miglietti, Bruno e la riforma protestante. Un confronto tra lo Spaccio e testi di Calvino, Lutero e Melantone, in Favole, metafore e storie, cit., pp. 172-173. 116 Spaccio, p. 548. 115
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nulla di buono: ma solamente que’ beni che non posseano vorare, strapazzare et insporcavano con gli piedi, e faceano impedimento a quei che s’esercitavano»117. Questo linguaggio si sovrappone a quello con cui, nella prima parte del dialogo III, egli descrive i conquistadores del Nuovo Mondo come coloro che hanno «varcati gli mari, per violar quelle leggi della natura, confondendo que’ popoli che la benigna madre distinse, e per propagare i vizii d’una generazione in un’altra»118. La conquista delle Americhe da parte degli europei costituisce il sovvertimento delle leggi della natura, la quale aveva separato ciò che l’uomo ha unito pervertendo i popoli invasi e usurpando la loro libertà, esportando e propagando non la virtù ma i vizi. Egli recupera questo tema dalle pagine della Cena. Il linguaggio utilizzato nello Spaccio per descrivere i riformati richiama quello con cui nel primo dei dialoghi italiani rappresenta i conquistadores: Gli Tifi han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii geni de le reggioni, di confondere quel che la provida natura distinse, per il commerzio radoppiar i difetti e gionger vizii a vizii de l’una e de l’altra generazione, con violenza propagar nove follie e piantar l’inaudite pazzie ovo sono, conchiudendosi al fin più saggio quel che è più forte; mostrar novi studi, instrumenti, et arte de tirannizar e sassinar l’un l’altro: per mercé de quai gesti, tempo verrà ch’avendono quelli a sue male spese imparato, per forza de la vicissitudine de le cose, sapranno e potranno renderci simili e peggior frutti de sì perniciose invenzioni119.
Il lessico impiegato nella critica ai riformati ricalca e si sovrappone a quello adoperato nella condanna della violenza dei conquistadores: sia la Riforma sia la conquista delle Americhe sono due sintomi della stessa crisi, non soltanto religiosa, ma morale, etica politica, giuridica, culturale e scientifica, che ha spezzato i legami costitutivi della civiltà e Ivi, p. 518. Ivi, pp. 597-598. 119 Cena, pp. 26-27. 117
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dei popoli. La scoperta del Nuovo Mondo e l’impresa con cui Colombo ha abbattuto frontiere naturali e intellettuali, mettendo in discussione il cosmo aristotelico-tolemaico e l’antropocentrismo, rappresentano paradossalmente una conquista barbara e sacrilega. Come i riformati, così anche i conquistadores hanno agito perturbando la pace dei popoli, usurpando ricchezze altrui, introducendo armi e strumenti di tirannia, violentando la natura, l’ordine e la legge d’amore che essa incarna, presentandosi nelle vesti di salvatori, convertitori e civilizzatori. Se questi sono descritti alla pari dei riformati è perché non rappresentano fenomeni differenti, ma parte della stessa crisi che ha interrotto la relazione tra l’essere umano, la natura e Dio. Riformati e conquistadores sono falsi profeti intenti a distruggere forme di legami sociali e di civiltà, a esportare violenza celata dietro un’apparente e falsa idea di modernità e progresso. Essi hanno spezzato il vincolo originario che legava i popoli indigeni alla natura, per introdurre «le lien colonial»120, la legge del più forte: non un vincolo su cui fondare e costruire pacifiche repubbliche, ma una scia di assassinii, mali, vizi e strumenti di morte che un giorno ricadranno sugli stessi colonizzatori europei. All’affermazione della discordia, della violenza e dell’ipocrisia, della schiavitù arrecata da questi Tifi che hanno invaso popoli pacifici pervertendo la natura, Bruno contrappone nella Cena la sua filosofia121. Come l’uscita dal buio della caverna platonica o le guarigioni del Cristo, l’apertura della nolana filosofia verso l’infinito conduce alla liberazione dall’ignoranza, dalle chimere e dal carcere con cui la rappresentazione cosmologica, teologica e antropologica, cristiana e aristotelica, incatenava l’essere umano in un mondo chiuso, immutabile, geometricamente perfetto di cui egli era l’unico e il solo centro. La liberazione dell’essere umano dal carcere in cui egli stesso si è ridotto consiste nel riscoprire un’immagine nuova e antichissima della natura, la quale è stata chiusa, limitata e degradata alla finitezza e a un’eterna mancanza. L’infinito non trascende la natura, ma è immanente a ogni singolo elemento e corpo, come a ogni esistenza umana, agendo sotto forma 120 121
T. Dagron, Giordano Bruno et la théorie des liens, cit., p. 469. Cena, p. 28.
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di tensione continua verso la conquista della divinità presente in ogni cosa. La natura divina non è mancanza o miseria: il riconoscimento dell’infinità della natura e dell’universo comporta una riforma morale, religiosa, etica e politica, del vincolo più autentico tra l’essere umano e la natura, nonché all’interno della stessa comunità umana. I dialoghi italiani di Bruno, dalla Cena ai Furori, costituiscono un progetto di ripensamento della natura e dell’umano, una riflessione sulla crisi e sulle possibili vie d’uscita. A differenza dei conquistadores che hanno violato i confini che la natura aveva posto, la scoperta dell’infinito rappresenta la rottura di frontiere e confini artificiali: se scopo di Bruno è quello di liberare l’umanità dalle sue barriere, attraverso un percorso filosofico, ciò non vuol dire proiettarla in un’infinità in cui non sussiste alcun riferimento, alcun appiglio o legame per l’esistenza umana. Al contrario, ciò significa ritessere e riannodare i vincoli che sono stati spezzati tra l’umanità e la natura. Alla pluralità dei mondi nell’universo corrisponde una molteplicità di forme sociali e civili differenti che occorre saper ripensare e fondare per ricostituire la repubblica degli uomini oramai disgregata. Il riconoscimento della divinità presente in ogni cosa e l’azione tesa a costruire nuove forme di legami tra gli esseri umani è profondamente distante dalla diffusione dei vizi, dei veleni tirannici e mortali che la conquista e delle Americhe ha portato. La scoperta dell’infinito e la prassi civile che da questa scaturisce spingono a pensare e a operare per ritrovare un senso comunitario, che non sia fondato sulla legge del più forte, su di un puro meccanicismo o sull’assoluta trascendenza di Dio e della grazia, bensì sulla conoscenza della natura, sul modello d’unità del molteplice e contrario che questa incarna ed esprime. L’alterità non rappresenta una trascendenza, qualcosa di radicalmente diverso rispetto a ciò che appartiene al proprio mondo, ma è, invece, immanente all’universale comunità umana, a una molteplicità nell’unità. Come non vi è eterogeneità nell’universo, allo stesso modo, non ve n’è tra le molteplici e differenti forme sociali e civili: la presenza della divinità in ogni individuo, come in ogni composto naturale, nonché l’unicità della materia e dell’anima mundi che compongono e formano tutta la natura, permettono di pensare l’unità di tutto il genere umano
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oltre le differenze e le contrarietà che sussistono tra i diversi popoli. Proprio l’anima del mondo se, da un lato, rappresenta la causa per cui il singolo individuo aspira e tende alla pienezza e alla realizzazione di sé, dall’altro, funge da elemento di coesione universale per cui ognuno è posto in relazione alla totalità della natura e del vivente. La scoperta dell’infinito, in cui ciascun punto e nessuno è centro, equivale al rifiuto della prospettiva espansionistica ed eurocentrica dei conquistadores del Nuovo Mondo. All’anima mundi che agisce come legame si contrappone il desiderio dell’oro che spinge alla conquista di nuove terre e alla violenza verso popoli pacifici: questo è uno dei maggiori elementi di disgregazione universale in grado di dissolvere i vincoli civili e le forme sociali costitutive e necessarie all’umanità intera. Seppur il tema della scoperta, della conquista, dell’avvelenamento e sovvertimento della pace degli indigeni d’America da parte degli europei non sia un problema centrale né nella Cena, né nello Spaccio, esso manifesta, però, un sintomo significativo della crisi europea. In entrambi i dialoghi, tale crisi è contrapposta alla nolana filosofia intesa come un programma di riforma civile in un’Europa in cui il vinculum non sia pensato nei termini di una conversione forzata e violenta dell’altro, tesa a produrre esseri umani schiavi di un potere tirannico, bensì un legame che apporti frutti alle comunità. Il tema dell’infinito cosmologico della Cena non è separato da quello del vincolo civile dello Spaccio e del De vinculis. I vizi rintracciabili sia negli atteggiamenti dei riformati, sia nelle azioni dei conquistadores, come l’oziosità, l’ipocrisia, l’ignoranza e l’usurpazione, la credulità, il tradimento, la malizia, la menzogna la tirannia, sono richiamati sin dall’Epistola dedicatoria dello Spaccio122. Quello a cui tende tutta la riflessione dell’opera è il ripensamento e il ritorno ai valori costitutivi dell’umanità e delle diverse forme di civiltà nell’età eroica, vale a dire nell’epoca in cui le società erano fondate sulla fatica, sul rispetto della legge naturale e sul prevalere di un’esteriorità positiva dei costumi, dei riti e delle abitudini: non pura apparenza dietro cui celare vizi e menzogne, ma un supporto necessario al rispetto della legge e al progresso. 122
Spaccio, p. 461.
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Proprio i valori e i costumi fondativi e benefici per ogni comunità umana sono stati rovesciati: la grandezza equivale al possedere, la verità alla malizia, la legge alla forza, la giustizia alla tirannia e così ogni azione compiuta nell’interesse pubblico e collettivo è considerata vana. Questa crisi è talmente profonda d’aver sovvertito l’ordine del linguaggio umano: i termini hanno perduto il loro significato originario per essere traditi, allontanandosi dalla realtà di cui si facevano parola. Proprio in opposizione a questa tendenza, occorre riportare le parole al loro senso e significato più autentico, evitando una vana e sterile complessità, per affermare un linguaggio semplice capace di explicare la natura. Il sovvertimento del linguaggio è un altro sintomo della malattia che ha contagiato l’Europa del Cinquecento, ribaltando il rapporto tra vizi e virtù123. Come è stato stravolto il rapporto tra giustizia e opere, tra legge e religione, tra verità e menzogna, tra sostanza e accidente, così è stato spezzato il legame tra linguaggio e natura, tra parola e realtà, tra significante e significato. È la crisi stessa della filosofia, intesa come libera e autonoma ricerca, ad aver fatto sì che i pedanti e i grammatici potessero sovvertire la relazione tra logica e realtà. La riflessione dello Spaccio è volta a far comprendere «che non conviene l’essere […] schiavi de certe e determinate voci e parole: ma per grazia de dèi ne è lecito e siamo in libertà di far quelle servire a noi prendendole et accomodandole a nostro comodo e piacere»124. Questa filosofia è tesa a valorizzare le capacità e le possibilità umane, intellettuali e pratiche, a uscir fuori dalla caverna e dalla schiavitù in cui l’essere umano si è autorecluso, rinunciando a farsi razionale ed eroico, rovesciando il rapporto tra ozio e fatica. Nella seconda parte del dialogo II dello Spaccio Bruno introduce la personificazione della Ricchezza. Questa è una forza capace di portare a compimento le virtù fondamentali125. Ma la pretesa della Ricchezza di porsi al pari di una divinità, capace di dare perfezione a ciò che tocca, è ambivalente. Se essa conduce all’atto virtù divine Ivi, pp. 461-462. Ivi, p. 462. 125 Ivi, p. 549. 123 124
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come la Legge, la Verità, il Giudizio o la Sofia, allo stesso tempo, è «quella per cui zoppica il Giudicio, la Legge sta in silenzio, la Sofia è calpestata, la Prudenza è incarcerata e la Verità è depressa»126. Per questa ragione Giove e Momo decidono di cacciarla dal firmamento che orienta le azioni umane. La Ricchezza non è né vera, né falsa, indifferente a ciò che tocca, capace di trasformare sia in meglio, sia in peggio quello che le si lega127. Il ruolo e l’azione della Ricchezza si contrappongono a quello dell’anima mundi. Se quest’ultima agisce come vincolo formale tra tutte le componenti del mondo fisico, al contrario la Ricchezza produce legami materiali e accidentali. Ben lontana dall’operare sul piano qualitativo, essa non mette fine ai fastidi e alle miserie, ma cela e trasforma l’infelicità sotto altre forme. In quanto forza cieca e accidentale, è incapace di produrre frutti ed effetti benefici sul piano della convivenza civile. La Ricchezza non è una virtù essenziale, ma uno strumento accidentale, pura quantità informe, incapace di legare e di produrre effetti civili duraturi. Per queste ragioni è scacciata dal cielo e destinata a errare sulla terra, non da sola, ma eternamente associata al suo opposto, la Povertà. Ricchezza e Povertà sono inseparabilmente legate: la prima non allontana e non libera dalla seconda se non in modo apparente e temporaneo. Bruno immagina e definisce così il rapporto tra queste due forze come una circolazione indefinita e continua di elementi mai qualitativi, ma esclusivamente quantitativi e materiali: a ogni ricchezza e guadagno corrispondono perdita e povertà. La vera ricchezza si situa nel rimando a una condizione d’equilibrio spirituale e intellettuale qualitativo e non quantitativo. La ricchezza materiale non è mai assoluta, ma, compagna inseparabile della povertà, essa non è in grado di condurre l’essere umano e favorirlo nell’ascesa verso uno stato eroico, verso il pieno compimento delle sue capacità intellettuali e pratiche. Di riflesso, la vera povertà non equivale al possedere poco: «perché non colui che ha poco, ma quello
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Ibidem. Ivi, p. 550.
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che molto desidera è veramente povero»128. Il desiderio del possesso materiale di quanto c’è di esterno all’essere umano rimanda a una ricchezza situata nella dimensione delle apparenze, non dell’essere, nella precarietà e instabilità del finito, non nella sostanza unica e permanente. Questa forma di ricchezza non agisce da stimolo alla realizzazione del singolo per il bene pubblico, ma costituisce una profonda Avarizia. Proprio l’Avarizia rappresenta il cattivo frutto generato dal legame eterno tra l’incessante ricerca della ricchezza e la fuga dalla povertà: «è ella figlia e compagna della Povertà nemicissima de la sua madre, e che quanto può la fugge; inamorata et invaghita de la Ricchezza alla quale quantumque sia giunta, sempre sente il rigor de la madre che la tormenta»129. L’Avarizia è il prodotto dell’unione dell’eterna alternanza tra Ricchezza e Povertà, per cui se la prima fugge la seconda, l’una non può, sussistere senza l’altra. L’Avarizia spinge ogni individuo che aspira al possesso di ricchezze materiali a non sentirsi realmente ricco e appagato, ma inseguito dalla paura costante della povertà. Al contrario del Simposio platonico in cui l’unione di Poros e Poenia genera Amore, Bruno ripensa il legame tra Ricchezza e Povertà come un principio di dissoluzione dei vincoli civili indispensabili al progresso e alla realizzazione umana. Se l’essere umano è accecato e spinto alla ricerca di una ricchezza materiale a lui esterna, non sarà mai in grado di riconoscere nelle sue forze e capacità l’autentica via verso la piena realizzazione di sé, della vera ricchezza a lui connaturata, del suo scopo. L’alternanza tra Ricchezza e Povertà che genera Avarizia si manifesta nell’essere umano come rigetto e odio di sé, in nome di un desiderio e di un amore verso ciò che è a lui esterno: «perché l’avarizia non è dove sono ricchezze, se non vi è anco la Povertà»130. Questa rappresentazione del rapporto tra Ricchezza, Povertà e Avarizia rientra nella critica dei riformati e dei conquistadores. Nel desiderio di ricchezze esterne, della conquista e del guadagno, si cela sia l’opera Ivi, p. 558. Ivi, p. 560. 130 Ibidem. 128 129
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dei conquistatori che hanno pervertito la pace e la legge naturale per avarizia, usurpando beni e ricchezze di altri popoli, anziché elevarsi e progredire grazie alle proprie virtù; sia la teologia riformata che predica l’abbandono delle opere e della realizzazione dell’individuo sul piano civile, in nome della trascendenza di Dio e della vanità del mondo: se il rigetto delle capacità umane e l’amore per una divinità imperscrutabile corrispondono sul piano spirituale a una salvezza intesa come dono che proviene dall’esterno e non per merito, allo stesso modo, sul piano materiale ciò equivale al desiderio illimitato di possesso e di conquista di una ricchezza esterna e instabile. Il modello dell’avarizia quale fondamento sia della prassi dei conquistadores, sia dei riformati, scaturisce da una considerazione della ricchezza come posta al di fuori del soggetto e della natura. Intrecciando ancora una volta riflessione politica e naturale, per Bruno riformati e conquistadores hanno considerato la natura come essenziale privazione e mancanza, non riconoscendo il suo essere infinità immanente a ogni sua generazione. All’avarizia, all’odio e al rigetto delle capacità umane, si contrappone la philautia, amore di sé, conservazione del proprio stato presente e continuo perfezionamento. Come Bruno la definisce nel De vinculis, la philauthia è il riconoscimento da parte del singolo di essere parte di un unico e infinito organismo, amore di sé e dell’altro da sé. Ogni essere umano è legato all’altro dalla comune appartenenza all’unico corpo spirituale e materiale che è la natura, alla legge d’amore immanente che questa incarna. All’infinità del mondo fisico e materiale corrisponde quella di ogni singolo individuo che, seppur contratta in una forma particolare, conserva la tensione a farsi divino e infinito come la sua causa e principio primo. Se, dunque, il modello dell’avarizia, dell’odio e del rigetto di sé dissolve il vincolo costitutivo che lega l’essere umano all’altro da sé e alla natura, al contrario la philautia, amore di sé, si esprime e si realizza nell’istituzione di un vincolo che rende il singolo partecipe dell’unità dell’essere. La philautia, principio universale connaturato e pervadente tutto l’orizzonte naturale, si contrappone in maniera radicale all’affermazione portante della dottrina riformata, secondo la quale la vera salvezza umana risiede nell’«odium sui, (id est penitentia
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vera intus)»131, principio affermato da Lutero nella quarta delle tesi contro le indulgenze. L’odio di sé, la mortificazione volontaria, la rinuncia alle proprie capacità, alla curiosità intellettuale, all’affermazione della libertà individuale, nel tentativo di possedere una ricchezza esterna spirituale e materiale irraggiungibile, corrispondono alla rottura del naturale vinculum amoris che agisce in ogni cosa sotto forma di philautia. È questa una delle principali ragioni per la quale quella riformata rappresenta, nella prospettiva bruniana, una forma depravata di religiosità, poiché accentua ed estremizza il motivo della rinuncia a sé, della passività, dell’abbandono, dell’odium sui, radicato nel cristianesimo. La natura, divinità immanente, è, invece, causa e principio d’amore e d’unità, immobile, permanente, omogenea, infinita, inscritta in ogni cosa. La philauthia, intesa come legge d’amore sottesa a ogni elemento, si manifesta nel primo e originario vincolo, quello tra la materia e la forma di cui tutte le cose sono composte e formate. Ogni forma d’agire politico e religioso deve riprodurre e proiettare questo legame d’amore naturale sul piano della convivenza umana. Una prassi civile, quale quella dei riformati e dei conquistadores, che disattende questa legge d’amore, cercando eternamente fuori di sé una ricchezza materiale e spirituale, non fa che spezzare il legame originario che univa l’essere umano all’altro da sé, alla natura e a Dio, imponendo un modello di convivenza insostenibile, in cui dominano la paura, la forza, la violenza e l’avarizia. 8. Ozio e Fatica. Dalla critica dell’età dell’oro all’elogio del lavoro Nella prima parte del dialogo III dello Spaccio, l’Ozio interviene nel concilio divino per mostrare i suoi meriti e per reclamare un posto nel cielo delle virtù, esaltando il tempo di una mitica età dell’oro132. L’esaltazione dell’Ozio comporta parallelamente il disprezzo delle M. Lutero, Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum, in Werke, cit., 1883, vol. I, p. 233. 132 Spaccio, p. 596. 131
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apparenti virtù che possiedono la «potestà di evertere le leggi de la natura»133, come la Sollecitudine e la Fatica, che hanno perturbato la pace e condotto i popoli a un’età di lotta, di sudori e sacrifici: l’onore e la gloria, il desiderio, la curiosità e l’ambizione hanno sovvertito un ordine naturale eterno, fondato sull’immobilità e l’immutabilità del mondo, sulla stasi e l’inoperosità umana. Nella ricerca di un posto nel firmamento, l’Ozio non esita a rivendicare gli elementi costitutivi dell’età dell’oro, la tranquillità, il benessere, la pace e l’inutilità del lavoro, contrapposti e alla Fatica e all’Industria, fonti delle differenze, contrarietà, aspirazioni e desideri che perturbano l’equilibrio aureo. Seppur gli esseri umani rimpiangano l’età dell’oro, tuttavia essi si prodigano e si affaticano nel seguire la Fatica che ha diviso il genere umano: Industria e Studio hanno separato la terra, generato guerre, seminato corruzione tra gli esseri umani alterando irreversibilmente il loro rapporto con la natura. La critica che l’Ozio rivolge alla Fatica è il riconoscimento paradossale dell’operosità come causa dei mali, delle ingiustizie, delle sofferenze e delle divisioni: la Fatica è la ragione per cui gli esseri umani «a suo malgrado crapulano, quelli altri si muoiono di fame»134; essa è colei «ch’ha varcato i mari, per violare quelle leggi della natura, confondendo que’ popoli che la benigna madre distinse»135. Anche la conquista delle Americhe contro i pacifici popoli che le abitavano è opera della Fatica e della Sollecitudine: queste «per certo inganno e consuetudine»136 sono state «nomate e credute»137 virtù, «benché gli effetti e frutti sieno condannati da ogni senso et ogni natural raggione»138. La Fatica è la causa per la quale sono sorte le «leggi usurpative e proprietarie del mio e tuo»139 – introducendo la proprietà privata laddove tutto apparteneva a tutti – «del più giusto, che fu più forte possessore; e di quel più degno, che è stato più sollecito e più Ibidem. Ibidem. 135 Ibidem. 136 Ibidem. 137 Ibidem. 138 Ivi, pp. 597-598. 139 Ivi, p. 598. 133
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industrioso occupatore di que’ doni e membri de la terra, che la natura e per conseguenza Dio indifferentemente donano a tutti»140. Fatica è usurpazione, separazione e divisione di quanto Dio ha donato alla totalità degli esseri umani, ma che illegittimamente è stato depredato dai più forti, dai più solleciti e industriosi. Lavoro, studio, industria, curiosità non hanno apportato alcun beneficio all’umanità, ma sono stati elementi dannosi e perturbativi di un ordine divino. L’età dell’oro corrisponde, non a caso, al paradiso terrestre della tradizione cristiana: Adamo ed Eva rappresentano un’umanità che vive in armonia con la natura, ignorando cosa siano il sudore e il sacrificio, il conflitto e la morte. Il lavoro, abbandono della condizione di quiete per una vita di dolore e di sofferenza, è la punizione inflitta a essi da Dio per aver osato mangiare il frutto della conoscenza e aver intrapreso il cammino della civiltà. La cacciata dal paradiso terrestre segna così il destino dell’umanità non più nella quiete e nella beatitudine aurea, ma in quest’«ombra di piacere che in questo nostro essere possiamo prenderci, avendo posta legge al coito, al cibo, al dormire, onde non solamente meno delettar ne possiamo, ma per il più sovente dolere e tormentarci»141. Dietro le parole dell’Ozio si cela, in realtà, una pericolosa rappresentazione dell’umanità e del mondo. L’intreccio tra il mito dell’età dell’oro e la critica del lavoro e della fatica come punizioni divine contribuisce a offuscare le vere ragioni della crisi. Lo Spaccio si pone come un tentativo di smascherare e portare alla luce gli inganni e le false virtù con cui gli esseri umani hanno disciolto i vincoli che li legavano tra loro e alla natura. Tutta l’orazione dell’Ozio è una grande impostura in cui si nasconde un’errata concezione della virtù e del valore: l’immobilità, la stasi e l’inoperosità rappresentano il rigetto delle capacità umane che hanno reso possibile la nascita della civiltà. Attraverso il lavoro, la fatica, lo studio, le arti e l’industria, l’essere umano è in grado di elevare e trasformare sé stesso e la propria condizione finita, istituendo legami benefici volti alla pace e al progresso della comunità umana. 140 141
Ibidem. Ivi, 599.
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All’Ozio che cerca invano di esaltare sé stesso e vituperare la Fatica come corruttrice della virtù, della quiete e tranquillità dell’età aurea, Giove replica osservando come in quella condizione gli esseri umani siano simili agli animali: se questi non conoscevano il vizio, allo stesso modo, ignoravano la virtù. L’assenza del male e del vizio non corrisponde implicitamente alla presenza e alla pratica del bene e della virtù. La nascita della civiltà impone l’uscita dalla condizione beata e bestiale senza tempo, in cui gli esseri umani vivono in una statica uguaglianza, per accedere a uno stato in cui la fatica e il lavoro generano la differenza e la contrarietà basate sul riconoscimento del merito e della virtù. Il mito dell’età aurea che scaturisce da elementi letterari e teologici produce effetti dannosi: il sogno e il rimando nostalgico a un’epoca fantastica di quiete e prosperità, non apporta alcun beneficio né spinta verso il progresso del singolo individuo e della collettività dallo stato bestiale a quello razionale ed eroico142. La Fatica non è una punizione divina, ma l’unica virtù sulla quale gli esseri umani possono fondare la realizzazione di sé. Le difficoltà e le necessità, assenti nella mitica età dell’oro, alle quali sono sottoposte la fatica e la resistenza umana, costituiscono la fonte del progresso dei saperi, delle arti, delle tecniche e degli ingegni su cui sono state costruite le civiltà. Non nell’eterna immobilità e inoperosità esaltata dall’Ozio, ma nel lavoro l’essere umano riconosce l’espressione più alta e specifica del suo esistere: nell’azione, nelle opere, nell’attività faticosa e continua, nei meriti e nei benefici che da queste derivano, scaturisce per ogni individuo la vera gioia. La critica dell’Ozio corrisponde simmetricamente all’elogio della Fatica. Proprio i valori civili legati all’operosità umana e condannati sia dall’Ozio che dalla teologia riformata, sono necessari 142 Ivi, pp. 601-602: «Ne l’età dumque de l’oro per l’Ocio gli uomini non erano più virtuosi che sin al presente le bestie son virtuose, e forse erano più stupidi che molte di queste. – Or essendo tra questi per l’emulazione d’atti divini, et adattazione di spirituosi affetti, nate le difficultade, risorte le necessitadi, sono acuiti gl’ingegni, inventate le industrie, scoperte le arti; e sempre di giorno in giorno per mezzo de l’egestade, dalla profundità de l’intelletto umano si eccitano nove maravigliose invenzioni. Onde sempre più e più per le sollecite et urgenti occupazioni allontanandosi dall’esser bestiale, più altamente s’approssimano a l’esser divino».
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alla fondazione e al progresso della repubblica degli uomini. È grazie alla Sollecitudine «la quale ha et è avuta compagna da la Fatica»143 che «Perseo fu Perseo, et Ercole fu Ercole, et ogni forte e faticoso è faticoso e forte»144. Sollecitudine e Fatica devono accompagnare e dominare la contemplazione e l’azione umana, poiché soltanto esse sono in grado di sostenere e favorire la realizzazione delle opere che glorificano l’umanità, la natura e Dio. L’essere umano potrà superare ogni difficoltà e compiere ogni impresa che sopravviva alla morte attraverso «la gloria de l’opre»145, solo se la Fatica non avverta il peso del suo esser fatica: «perché cossì la fatica non deve esser fatica a sé, come a se medesimo nessun grave è grave»146. Questa non sarà, invece, «degna fatica»147, se non saprà vincere sé stessa, poiché «la somma perfezzione è non sentir fatica e dolore, quando si comporta fatica e dolore»148. Fatica rappresenta la tensione a cui ogni azione e contemplazione umana devono aspirare nel tentativo incessante di montare al «polo sublime della Verità»149. Affinché ciò sia possibile Giove esorta la Fatica a non dividersi, ma a mantenere sempre uniti tra loro gli atti della mente e quelli del corpo: «perché se ti smembrerai, parte occupandoti a l’opre de la mente e parte a l’oprazioni del corpo, verrai ad esser defettuosa a l’una e l’altra parte; e se più ti addonarai a l’uno, meno prevalerai ne l’altro verso: se tutta inclinarai a cose materiali, nulla vegni ad essere in cose intellettuali, e per l’incontro»150. La non divisibilità della Fatica è il riconoscimento della non separabilità della riflessione intellettuale dall’azione, del vincolo che lega mente e corpo, mani e intelletto. Soltanto dopo aver ristabilito il posto di ogni virtù nel cielo divino, Bruno riconosce il valore positivo dell’Ozio. Se in equilibrio con Ivi, p. 583. Ibidem. 145 Ivi, p. 589. 146 Ivi, p. 585. 147 Ibidem. 148 Ibidem. 149 Ibidem. 150 Ivi, p. 596. 143
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il suo contrario, questo darà una possibilità per riflettere e pensare, contribuendo a far riposare la Fatica e permetterle di servire meglio alla «republica e defension de la patria»151. Soltanto nell’equilibrio dei contrari e opposti vi è concordia tra vizi e virtù ed è possibile riconoscere e definire cosa sia l’uno e cosa l’altro152. 9. Mano e intelletto. Unicità dell’uomo e manipolazione della natura L’elogio della Fatica corrisponde a una riconsiderazione dell’immagine dell’asino, sino a quel momento utilizzata come simbolo del dogmatismo, della pedanteria, dell’arroganza, dell’avarizia e dell’ozio. Come ha rilevato Ordine153, l’asinità è il simbolo ambiguo della condizione umana: dai riferimenti alla mitologia greca, ebraica ed egizia, presenti in particolare nella Cabala, l’asino può essere considerato tanto bestiale quanto divino. Oltre all’asinità negativa vi è un’asinità positiva, contraddistinta dalla fatica, l’umiltà e la tolleranza. È la stessa condizione umana a configurarsi come asinina, poiché umbratile, finita, mutevole, imperfetta, di chi non può conoscere il vero ma soltanto il verisimile. Tuttavia, proprio attraverso la fatica che contraddistingue l’immagine dell’asino e che sorregge ogni individuo, l’essere umano può elevarsi dalla condizione bestiale a quella razionale ed eroica. Il processo di civilizzazione è un lungo e faticoso cammino che si esprime e si realizza nell’umanità attraverso l’azione e la contemplazione, grazie all’utilizzo di due necessari strumenti: la mano e l’intelletto. Nell’elogio della fatica come virtù che deve accompagnare e sostenere ogni riflessione e azione, si radica il riconoscimento dell’essere umano non solo come pensante, ma manipolatore della natura:
Ivi, p. 588. Ivi, p. 603. 153 Cfr. N. Ordine, La Cabala dell’asino: asinità e conoscenza in Giordano Bruno, Milano 2017, pp. 39-54. 151
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gli dèi avevano donato a l’uomo l’intelletto e le mani, e l’avevano fatto simile a loro donandogli la facultà sopra gli altri animali; la qual consiste non solo in non poter operar secondo la natura et ordinario, ma et oltre, fuor le leggi di quella: acciò (formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno, con quella libertade, senza la quale non arebbe detta similitudine) venesse ad serbarsi dio de la terra154.
Il compito di ogni essere umano sta nel farsi «dio della terra», nel ripensare e manipolare la natura Ma ciò può avvenire agendo nel rispetto della natura e delle sue leggi e, al tempo stesso, al di fuori di essa, ossia trasformandola e donandole un ordine che possa garantire la sopravvivenza e il miglioramento degli esseri umani, l’evoluzione della civiltà. Tuttavia, il processo di civilizzazione non può avvenire nella separazione dell’azione dell’intelletto da quella delle mani, attraverso una scissione tra theoria e praxis. Soltanto dal legame che unisce l’agire al pensare può scaturire un reale progresso: «e per questo ha determinato la providenza che vegna [l’uomo] occupato ne l’azzione per le mani, e contemplazione per l’intelletto; de maniera che non contemple senza azzione, e non opre senza contemplazione»155. L’azione civile può apportare frutti se retta dal pensiero, così come l’attività contemplativa risulta benefica se rivolta al compimento di opere per la comunità. Come oziosa e vana è quella riflessione che si perde nella pura e sterile contemplazione astratta, così «le azzioni senza premeditazione e considerazione non son buone»156. L’unità di mano e intelletto è ciò che Bruno definisce ingegno, sintesi di pensiero e azione. Questo è il legame tra pensiero logico e fantastico, vale a dire di una forma di contemplazione razionale che trae origine dalle immagini corporee che la sensibilità produce nel contatto con la natura. La capacità ingegnosa non corrisponde all’isolamento del soggetto in un vano razionalismo che allontana dal reale, né all’essere Ivi, p. 601. Ibidem. 156 Ivi, p. 610. 154 155
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agiti dall’immaginazione. L’ingegno è, invece, sintesi tra l’intelletto e l’immaginazione: capacità sintetica e poietica, creazione significante. La sua attività non comprende la sola produzione d’immagini, simboli o analogie astratte, ma s’identifica con il costante bisogno umano di stabilire associazioni, connessioni, giunture, vincoli tra ciò che il soggetto percepisce attraverso i sensi e ciò che dà senso alla sua esistenza. L’attività ingegnosa costituisce l’umanizzazione della natura, la trasformazione dell’ambiente abitato nel proprio mondo, conoscibile, sperimentabile e manipolabile. L’essere umano può donar nuove leggi alla natura, un nuovo ordine, umanizzandola e manipolandola. L’explicatione dell’ingegno pone le basi per la significazione del mondo, per il sorgere di una ragione dispiegata e tecnica. La natura umana è caratterizzata non dalla presenza dell’intelletto, comune a tutta la natura, ma dall’ingegno, elemento di distinzione tra l’essere umano e l’animale, capacità sintetica in grado di dare all’infinità delle sensazioni e delle immagini percepite una forma universale. Compito proprio dell’ingegno umano è il comprendere, significare e umanizzare il mondo e l’universo. Il perdersi in considerazioni puramente razionali o, viceversa, nelle sole immagini corporee, perdendo la necessaria funzione dell’ingegno e il suo contatto con la realtà, comporta il rischio di caduta in una profonda età di barbarie. Se nello Spaccio la nascita dell’ingegno sembra rappresentare un dono concesso agli uomini dagli dèi, esso scaturisce, invece, da ragioni fisico-fisiologiche, vale a dire dalla particolare complessione per cui l’intelletto, comune a tutte le cose, è congiunto allo strumento esclusivamente umano della mano, determinando un essere unico e singolarissimo nella natura. Nella Cabala, Bruno descrive la sintesi di mano e intelletto e la costituzione dell’ingegno come originatesi da cause esclusivamente organiche: Quella dell’uomo [l’anima] è medesima in essenza specifica e generica con quella de le mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si triove animata o abbia anima: come non è corpo che non abbia o più o meno vivace e perfettamente communicazion di spirito in se stesso. Or cotal spirito secondo il fato o provvidenza, ordine o
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fortuna, viene a giongersi or ad una specie di corpo, or ad un’altra: e secondo la raggione della diversità di complessioni e membri, viene ad avere diversi gradi e perfezzioni d’ingegno et operazioni157.
Se l’anima è comune a tutti gli esseri naturali senza alcuna distinzione, presente e immanente a tutta la terra come corpo vivente, ciò significa che le differenze e le specificità sono da ricondurre alla particolare complessione materiale e corporea in cui quest’anima universale viene a congiungersi di volta in volta. È questa la ragione dell’esistenza di molteplici e differenti specie, come delle particolarità interne a una stessa specie. L’unicità dell’essere umano non è fondata su di un primato ontologico, ma in virtù della particolare complessione corporea che lo differenzia e lo rende unico rispetto agli altri esseri naturali, capace di farsi dio della terra attraverso l’uso e il potenziamento dell’ingegno, la mano e l’intelletto, il pensiero e l’azione: «là onde quel spirito o anima che era nell’aragna e vi avea quell’industria e quelli artigli e membra in tal numero, quantità e forma; medesimo gionto alla prolificazione umana, acquista altra intelligenza, altri strumenti, attitudine et atti»158. La struttura del corpo costituisce la ragione delle differenti possibilità di conoscenza e d’azione sulla natura. Se l’anima di un cane non è diversa da quella di un essere umano, tuttavia in quanto quadrupede e non bipede, il primo non potrà agire nel mondo e trasformarlo attraverso l’uso delle mani come il secondo. Allo stesso modo, Bruno prosegue nella Cabala osservando come l’ingegno dell’essere umano sarebbe completamente diverso e lo porterebbe ad agire altrimenti se venisse a trovarsi in un’altra complessione corporea qual è quella di un serpente159. La forma del corpo e gli organi determinano gli strumenti e le attitudini di ogni essere naturale160. La forma e complessione umana è la ragione per la quale ogni individuo può operare non solo nell’ambito Cabala, p. 717. Ibidem. 159 Ivi, p. 718. 160 Cfr. E. Canone, Il concetto di «ingenium» in Bruno, in «Bruniana & Campanelliana», IV, 2 (1998), p. 25. 157
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delle leggi della natura e dell’ordinario, ma al di fuori di quella. L’unione di mano e intelletto è il principio per cui l’umanità può andar al di là della natura, dando vita a ciò che non è naturalmente spontaneo ma che si configura come un prodotto particolare della sua azione intellettuale e trasformatrice del mondo. Il Nolano riconosce nell’uso della mano l’unicità dell’essere umano. Soltanto dalla riflessione intellettuale e dalla manipolazione del mondo possono nascere «la conversazion de gli uomini», «istituirsi e durar le fameglie et unioni di costoro» presupposto della civiltà, «le instituzioni de dottrine, le invenzioni de discipline, le congregazioni de cittadini, le strutture de gli edifici, et altre cose assai che significano la grandezza et eccellenza umana»161. Anche la sessualità umana è differente dal resto della natura, proprio in virtù della civilizzazione che deriva dal lavoro. L’elogio della mano rappresenta l’invito alla conoscenza, all’azione e alla trasformazione del mondo, contro l’elogio dell’ascolto passivo, dell’obbedienza, della servitù volontaria a cui induce il cristianesimo. La mano e il suo esercizio attraverso il lavoro si contrappone all’udito, strumento passivo a cui spingono le cattive religioni. L’unione della mano e dell’intelletto costituisce il passaggio dalla necessità e dal determinismo naturale alla libertà umana, in cui ogni individuo con la sua capacità di significare, inventare, costruire e donare senso al proprio mondo può spezzare e indirizzare la necessità. Se per Bruno l’ingegno rende l’essere umano unico, tuttavia, il pieno compimento di questa facoltà non è orientato in senso escatologico. L’idea di un processo di umanizzazione e civilizzazione della natura attraverso l’ingegno risulta estraneo a qualunque visione escatologica e teleologica: come osserva Eugenio Canone, «svicolare l’idea di sviluppo della civiltà da una visione teologica, che postula una caduta originaria e un riscatto futuro, non significa per Bruno aderire a una concezione ottimistica di progresso, teleologicamente intesa»162. Come il mondo fisico, così anche quello storico è dominato dalla vicissitudine per la quale tutto ciò che si manifesta nell’universo è sottoposto «a spinte co161 162
Cabala, pp. 718-719. Cfr. E. Canone, Il concetto di «ingenium» in Bruno, cit., p. 21.
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struttive così come a forze disgregatrici che ne condizionano il corso»163. L’essere umano può tanto innalzarsi verso la parte alta della scala, verso la dimensione razionale ed eroica, quanto discendere allo stato bestiale, sprofondando nell’ozio, nella schiavitù intellettuale e morale. L’ingegno indica un’indole presente in ogni essere umano, ma che si realizza ed è spinta al suo compimento solo attraverso un’attitudine che faccia dell’individuo non un soggetto agito ma agente. 10. Rivoluzione sempiterna e metempsicosi delle anime Se non vi è alcuna escatologia o teleologia dell’esistenza umana, tuttavia, le anime particolari, riflessi e frammenti dell’unica anima mundi, alla dissoluzione del corpo non fanno ritorno all’Uno, ma permangono nel ciclo della vicissitudine, assumendo nuova forma corporea. Questa sarà vile e bassa per le anime bestiali, nobile e alta per le anime eroiche e razionali. Affermando un primato del principio spirituale su quello materiale, Bruno ricorre nello Spaccio, nella Cabala e nei Furori, alla dottrina della metempsicosi, rintracciando un principio in virtù del quale ogni essere umano possa essere punito o premiato per le azioni e i benefici apportati alla comunità: L’anima, coscienza, motore e mens, agisce nell’essere umano con una funzione direttiva, assumendo una priorità rispetto alla sua parte corporea. Solo grazie alla sua guida può avvenire il potenziamento e il perfezionamento di tutte le facoltà e capacità umane, elevando il soggetto al di fuori del suo essere puro accidente. L’anima rende l’essere umano realmente tale, innalzandolo dalla condizione bestiale e ferina verso quella eroica e razionale. «Se è vero – come ha osservato Ciliberto – che, in radice, sostanza spirituale e sostanza corporea coincidono, perché la materia è essa stessa vita, tra l’una e l’altra è tuttavia individuabile […] uno scarto, una differenza di grado»164. Al termine dell’esistenza corporea ogni anima è giudicata dall’«alta 163 164
Ibidem. M. Ciliberto, Giordano Bruno. Il teatro della vita, Milano 2007, p. 278.
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giustizia che sopra siede alle cose tutte»165 ai suoi meriti e costretta a vagare eternamente e senza memoria per ogni corpo o stanza, se in una vita precedente non si sia elevata dalla propria condizione. Le anime di quanti sono ascesi al di là del limite corporeo e temporale, apportando progresso alla comunità umana, saranno premiate con un corpo nobile e serberanno memoria delle loro vite passate. Ciascuna anima particolare vive in molteplici corpi, ascendendo o discendendo la ruota infinita delle metamorfosi secondo il giudizio della fatal giustizia o vicissitudine: «per il fato della mutazione, eterno verrà incorrendo altre et altre peggiori e megliori specie di vita e di fortuna: secondo che s’è maneggiato megliore o peggiormente nella prossima precedente condizione e sorte»166. In ogni individuo, nelle sue espressioni, nei gesti, nelle movenze, negli atteggiamenti, si celano le tracce di cosa è stato nella vita precedente o che sarà nella prossima. Il ricorso alla dottrina pitagorica e platonica della metempsicosi è funzionale a determinare vizi e virtù di ogni essere umano, premi e punizioni sancite dalla mutazione che guida il destino delle anime nel suo ciclo eterno. La ragione del ricorso a questa teoria è rintracciabile nel tentativo di salvaguardare il libero arbitrio e il riconoscimento del lavoro come principi costitutivi della dimensione civile. La priorità della causa formale sul principio materiale rappresenta uno slittamento del punto di osservazione sulla natura e sull’essere umano, non più focalizzato sulla considerazione della materia o sul vincolo di questa con la forma, quanto piuttosto sull’opportunità di considerare come la priorità assegnata all’anima faccia emergere la libertà e l’autonomia umana nell’orizzonte della necessità naturale, esaltandone le possibilità di pensiero e di azione. Dal riconoscimento dell’anima come coscienza e guida del soggetto, Bruno argomenta la possibilità che l’essere umano sia premiato o punito sulla base delle sue azioni, del bene o del male che egli ha arrecato alla repubblica umana. Il
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Spaccio, p. 468. Ibidem.
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ricorso alla «rivoluzione»167 o «vicissitudine sempiterna»168 che le anime compiono, serbando o meno memoria delle vite precedenti, corrisponde all’affermazione di una ragione o di un principio naturale che giudica se esse abbiano portato a compimento ed elevato al massimo grado le facoltà e le capacità umane o se, invece, si siano legate agli aspetti più bassi e bestiali della vita corporea. La dottrina della metempsicosi permette, cioè, di rintracciare un ordine, un equilibrio e una legge naturale in grado di premiare coloro che hanno glorificato la natura e Dio, innalzando sé stessi e la collettività attraverso il loro l’ingegno. 11. Dal vincolo della legge al vinculum amoris. Natura, magia e politica Nella seconda parte del dialogo III dello Spaccio Bruno recupera nuovamente il rapporto tra magia e filosofia. Anticipando la prospettiva del De vinculis, la magia non è qui esclusivamente socia ed emula della natura, ma sapere e arte rivolta all’azione sui contrari nello spazio della vita politica. La magia è inseparabile dal riconoscimento della coincidentia oppositorum e agisce sulla molteplicità e sulla dispersione dei contrari, cercando di ricomporre l’unità del vivente, legando aspetti del reale che appaiono distanti e in conflitto tra loro. La crisi descritta nello Spaccio è originata proprio dall’oblio del sapere e dell’arte magica, che ha causato il sovvertimento della legge e dell’ordine naturale fondato sulla philautia e sul vinculum amoris. Gli esseri umani si sono allontanati dalla conoscenza della natura, modello esemplare a cui ispirarsi nell’azione politica e religiosa, facendo prevalere un agire fondato sull’odium sui, sull’avarizia e sull’ozio, vizi che hanno perturbato e spezzato ogni benefico vincolo. A questa rappresentazione della natura, Bruno contrappone non solo quella dei Romani, ma anche dei Greci e degli Egizi, i quali consideravano animali e piante «vivi effetti di natura, la qual natura non è altro 167 168
Furori, p. 770. Ibidem.
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che dio ne le cose»169, avendo questi compreso come «natura est deus in rebus»170. Ogni elemento accoglie in sé l’essere absoluto che si comunica a tutta la natura e a ogni cosa secondo diversa capacità e misura: onde Iddio tutto (benché non totalmente, ma in altre più o meno eccellentemente) è in tutte le cose»171. Così, in quanto la divinità è presente e si comunica a tutta la natura, attraverso la conoscenza di essa, «per la vita rilucente nelle cose naturali»172, è possibile «montare a quella vita che soprasiede»173 il mondo fisico.
Per mezzo di questa conoscenza della natura e del suo legame con il divino, delle dottrine e dei riti magici, quegli antichi popoli fondarono durature civiltà, in cui la legge, la religione, l’azione politica e le scienze costituivano strumenti attraverso cui apportare progresso all’intera comunità: Vedo come que’ sapienti con questi mezzi erano potenti a farsi familiari, affabili e domestici gli dèi che per voci che mandavano da le statue gli donavano consegli, dottrine, divinazioni et instituzioni sopraumane: onde con magici e divini riti per la medesima scala di natura salevano a l’alto della divinità per la quale la divinità descende sino alle cose minime per la comunicazione di se stessa174.
Quella degli antichi non è soltanto una forma di conoscenza della natura, ma una rappresentazione di questa e del divino in cui l’essere umano è immerso. La prassi di quei popoli si orientava nella realizzazione dell’universale vinculum amoris sul piano dell’azione politica, religiosa e giuridica, nella costruzione di una pace che garantisse la contrarietà e le differenze interne alla comunità. Questo vincolo è stato sciolto, alIvi, p. 631 Ibidem. 171 Ibidem. 172 Ibidem. 173 Ibidem. 174 Ivi, p. 632. 169 170
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lontanando l’essere umano dal contatto con la verità e con il divino, dal riconoscimento dell’infinità della natura e della vita e, allo stesso tempo, sovvertendo l’ordine, la legge e la concordia naturale per cui ogni contrario era ricondotto all’unità originaria. La rottura del vinculum amoris costituisce la ragione per la quale ogni tentativo di riprodurre la magia cerimoniale degli Egizi, risulta vana e sterile idolatria, imitazione di un linguaggio e di una relazione con la natura e il divino oramai dissolta: Ma quel che mi pare da deplorare, è che veggio alcuni insensati e stolti idolatri li quali, non più che l’ombra s’avvicina alla nobiltà del corpo, imitano l’eccellenza del culto de l’Egitto; e che cercano la divinità, di cui non hanno raggione alcuna, ne gli escrementi di cose morte e inanimate: che con tutto ciò si beffano non solamente di quei divini et oculati cultori, ma anco di noi come di color che siamo riputati bestie; e quel che è peggio, con questo trionfano vedendo gli lor pazzi riti in tanta riputazione, e quelli de gli altri a fatto svaniti e cassi175.
L’imitazione di culti, cerimonie e riti con cui gli Egizi rappresentavano la divinità e comunicavano con essa, costituisce un tentativo di vincolare gli esseri umani attraverso una falsa credulitas. Per mezzo di vane pratiche questi maghi idolatri sono tenuti nella massima reputazione, mentre si è completamente perduto il senso originario di quella magia. La magia degli Egizi possiede un senso e una significazione che non sono separabili dal contesto in cui è stata pensata e prodotta, nella rappresentazione del cosmo e del divino da cui traeva origine e in cui assumeva valore per quel popolo, in quella cultura e in quella religione della natura. Riprodurne i riti e le cerimonie è un’operazione che non dice e non può dire nulla della natura e del divino, ma che può soltanto alimentare una forma d’inganno. I riti e le cerimonie possiedono, all’interno della comunità in cui sono praticate, un altissimo potere vincolante che, tuttavia, si dissolve nel momento in cui queste stesse pratiche sono trasposte e ripetute in diversi contesti:
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Ibidem.
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Quelli dumque per impetrar certi beneficii e doni da gli dèi, con raggione di profonda magia passavano per mezzo di certe cose naturali, nelle quali in cotal modo era latitante la divinitade, e per le quali essa potea e volea a tali effetti comunicarsi. Là onde que’ cerimoni non erano vane fantasie, ma vive voci che toccavano le proprie orecchie de gli Dei; li quali, come da lor vogliamo essere intesi non per voci d’idioma che lor sappiamo fengere, ma per voci di naturali effetti, talmente per atti di cerimoni circa quelle volsero studiare di essere intesi da noi: altrimente cossì fussemo stati sordi a gli voti, come un Tartaro al sermone greco che giamai udio. Conoscevano que’ savii Dio essere nelle cose, e la divinità, latente nella natura, oprandosi e scintillando diversamente in diversi suggetti, e per diverse forme fisiche con certi ordini venir a far partecipi di sé, dico de l’essere, della vita et intelletto176.
Il riferimento all’antica sapienza egizia è funzionale a rimarcare l’oblio della natura e del divino, spazzata via «perché il fato ha ordinata la vicissitudine delle tenebre e della luce»177. Questo rimando, come quello ai Romani e ai Greci, non equivale a un tentativo di trasporre quelle tradizioni filosofiche, religiose, politiche e magiche nel contesto a lui contemporaneo. Questi riferimenti sono, invece, critici e strumentali, tesi a far emergere ancor più la crisi e la dissoluzione dei legami civili e naturali, nel confronto con culture e civiltà che hanno saputo vincolare gli esseri umani tra loro, alla natura e a Dio. Anche la riformulazione a cui Bruno sottopone in queste pagine il Lamento di Ermete178 del Corpus Hermeticum non è un tentativo di porsi nella scia di quanti hanno affermato l’esistenza di una prisca theologia. Inserendo nella sua personale traduzione importanti varianti e introducendo precisi riferimenti al tema della giustizia, Bruno trasforma, come ha osservava Tirinnanzi, «l’antica profezia in un documento della crisi che ha travolto l’Europa nel momento in cui Lutero e i suoi seguaci, […], hanno reciso il nesso Ivi, pp. 632-633. Ibidem. 178 Ivi, pp. 637-638. 176
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tra giustizia divina e naturale»179. L’utilizzo della tradizione ermetica assume un valore strumentale e funzionale a far emergere la portata della crisi e dell’oblio sia della conoscenza della natura e delle sue verità, sia del mondo civile e delle leggi che lo governano. Nell’eterno passaggio vicissitudinario dalla luce alle tenebre, la riscoperta dell’infinità e divinità della natura rappresenta il tentativo di disvelare e far risplendere l’antica verità in un’epoca oscura, di riformare la giustizia umana, divina e naturale fondata sul riconoscimento dell’universale vinculum amoris, perturbato e sovvertito dall’ozio, l’avarizia e l’odio. In opposizione alla religio dei riformati, egli riprende il modello della religio civilis greca, romana ed egizia. Queste civiltà avevano riconosciuto come la divinità non fosse trascendente alla natura, ma insita e immanente in ogni cosa. Essi non adoravano Dio come una forza o un’immagine esterna alla natura, ma riconoscevano la sua presenza negli esseri umani, negli animali e nelle piante in cui si manifestava con più vigore la virtù: questi erano adorati, rispettati e tutelati come esseri in cui la divinità si era comunicata più che in altri elementi: Gli nomi (anco presso gli Greci) sono apposticci alla divinità […]. Non adoravano Giove come lui fosse la divinità, ma adoravano la divinità come fusse in Giove: perché vedendo un uomo in cui era eccellente la maestà, la giustizia, la magnaimità, intendevano in lui esser dio magnanimo, giusto e benigno; et ordinavano e mettevano in consuetudine che tal dio, o pur la divinità, in quanto che in tal maniera si comunicava, fusse nomata Giove; come sotto il nome di Mercurio Egizzio sapientissimo, fusse nominata la divina sapienza, interpretazione e manifestazione. Di maniera che di questo e quell’uomo non viene celebrato altro che il nome e representazion della divinità, che con la natività di quelli era venuta a comunicarsi a gli uomini, e con la morte loro s’intendeva aver compìto il corso de l’opra sua, o ritornata dal cielo180.
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Ivi, p. 1278, in nota 336. Ivi, pp. 633-634.
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Molteplici sono i nomi con cui è definita e sotto cui si cela la divinità presente in natura. In ogni tempo, luogo e civiltà, il divino assume forme diverse che, di volta in volta, sono adorate dagli uomini, non perché siano esse stesse divine, ma come ciò in cui la virtù è maggiormente presente. La trasmigrazione della divinità da una forma all’altra segue il ritmo della metempsicosi: questa è funzionale a mostrare come la stessa divinità si comunichi incessantemente assumendo forme sempre diverse, ora umane, ora animali. L’attribuzione bruniana della divinità sotto forma di virtù rappresenta il tentativo di rintracciare una religio che riconosca e premi quanti con la loro opera hanno apportato frutti all’umanità, rendendo grazie alla natura e a Dio. Questa considerazione della divinità come comunicata secondo misura e capacità differenti in ogni cosa corrisponde all’affermazione della natura e del vinculum amoris come di un’idea politica, ovvero dell’immagine ideale della polis quale continua dialettica ed equilibrio tra la molteplicità dei contrari e opposti e l’unità dell’organismo civile. Il problema della pace si radica all’interno di questa riflessione sulla necessità tanto del riconoscimento della verità, quanto di una legge che sia buona religio, manifestazione pratica del vinculum amoris che, sul piano dell’essere, lega la contrarietà in un unico organismo. La presenza di Dio in ogni elemento naturale fa sì che ogni cosa sia legata all’altra dalla comune appartenenza a una relazione eterna. Allo stesso tempo, ciò permette di pensare concretamente la religio in una dimensione in cui la divinità non trascende e abbandona il mondo civile, ma è immanente a essa, vincolo orizzontale che stringe in un solo corpo tutte le sue membra. È questo il passaggio osservabile nello Spaccio e che Bruno porta a compimento con il De vinculis, quello cioè da una considerazione della comunità politica come istituita sul vincolo della legge e della religione, al riconoscimento del vinculum amoris quale loro fondamento. In altre parole, lex e religio sono manifestazioni e realizzazioni concrete sul piano civile del legame d’amore immanente alla natura. Una legge e una religione che apportino frutti al progresso della comunità devono porsi come traduzione politica di quell’unità a cui la natura riconduce la molteplicità e la contrarietà delle sue manifestazioni.
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Vedi dumque come una semplice divinità che si trova in tutte le cose, una feconda natura madre conservatrice de l’universo, secondo che diversamente si comunica, riluce in diversi soggetti, e prende nomi diversi; vedi come a quell’una diversamente bisogna ascendere per la partecipazione de diversi doni: altrimente in vano si tenta comprendere l’acqua con le reti, e pescar i pesci con la pala181.
Il riconoscimento della divinità e infinità della natura corrisponde alla riscoperta dell’antiqua vera filosofia, offuscata e nascosta dalle tenebre con cui la vicissitudine ha ricoperto il mondo. Questa riscoperta non è il ritorno dell’identico: le condizioni in cui la verità si disvela sono profondamente mutate e se gli Egizi utilizzavano la magia cerimoniale per comunicare con la divinità attraverso la natura e legare gli esseri umani, quella stessa forma di magia non può più produrre alcun effetto benefico sul piano civile. Ogni rappresentazione della natura e del divino, nonché la forma di magia corrispondente, non è trasferibile in epoche e civiltà in cui quell’immagine del mondo non possiede il senso e il significato originari. Bruno afferma nuovamente l’insensata idolatria dei falsi maghi che hanno deriso il «magico e divino culto degli Egizii»182 , imitandolo vanamente e beffandosi di quegli stolti che vi prestano ascolto. La magia cerimoniale attraverso la quale gli Egizi «contemplavano la divinità […] e sapeano per mezzo delle specie che sono nel grembo della natura ricevere que’ benefici che desideravano da quella»183 è oramai perduta e, con essa, è smarrita la capacità di riconoscere la divinità immanente alla natura, di comunicare con essa. Ma se questa conoscenza e sapienza magica appaiono lontane e dimenticate, la nolana filosofia rappresenta la riscoperta sotto nuova luce della necessità di ristabilire tra gli esseri umani l’universale vinculum amoris immanente alla natura.
Spaccio, p. 634. Ivi, p. 635. 183 Ibidem. 181
182
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Se l’imitazione della magia divinatoria e cerimoniale degli Egizi è espressione di un falso sapere, tuttavia essa non è l’unica magia possibile. Il progetto di redazione degli scritti magici sino al De vinculis è finalizzato a teorizzare e a definire una magia intesa come ars vinciendi che non sia scissa dalla nolana filosofia dei dialoghi. La magia è arte del vincolo, capacità di stabilire connessioni e legami sul piano politico e civile attraverso la religione, la legge, la virtù, il merito, il castigo, la fede, l’immaginazione, il discorso, il senso. Il vinciens che agisce sugli esseri umani deve essere in grado di condurre all’unità la molteplicità dei soggetti contrari e differenti che animano il corpo sociale senza dissolvere la contrarietà. È questa l’immagine di un sapiente che, avendo riconosciuta la legge d’amore insita nella natura, opera sul modello di essa in una realtà complessa e in continua trasformazione, garantendo l’equilibrio dei contrari e dell’unità civile, attraverso l’istituzione di vincoli che possano legare efficacemente soggetti differenti e opposti. Soltanto a quel principe, sapiente e mago che sarà in grado di debellare le false virtù e i veleni della discordia, legando efficacemente coloro su cui governa per riaffermare l’unità, la pace e l’equilibrio dei contrari, verrà assegnata «la sedia della corona Boreale fatta di safiro, arricchita di tanti lucidi diamanti»184, rimasta affissa in cielo in attesa di «qualche eroico principe che non ne sia indegno»185. Il tema della corona celeste ritorna più volte nello Spaccio. Questa non è una corona finita e temporale, ma «ideale e comunicabile in infinito»186, dalla quale «possono essere suscitate infinite corone, come da una lampada accesa senza sua diminuzione, e senza scemarsi punto di virtude et efficacia, se ne accendono infinite altre»187. La corona boreale rappresenta la capacità e la virtù del buon governo, sintesi della corona particolare e della spada, ovvero del potere e del suo esercizio per mezzo della legge: «il giudicio universale, per cui nel mondo ogniuno vegna premiato e
Spaccio, p. 516. Ibidem. 186 Ivi, p. 519. 187 Ivi, pp. 519-520. 184 185
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castigato secondo la misura de gli meriti e delitti»188. Se il Giudizio si realizza attraverso la Legge, questa a sua volta si esercita per il Giudizio. Questi sono gli strumenti di cui può disporre un principe per legare e favorire il consorzio umano. In questa prospettiva la magia dello Spaccio costituisce uno strumento funzionale al principe per la costruzione della pace e l’unità del corpo sociale, per l’istituzione del vincolo della legge. È questo il naturalismo politico nel quale Bruno elabora la sua particolare forma di magia per vincula, in una rappresentazione della dimensione fisica e civile che sembra preparare e, al tempo stesso, opporsi all’idea di modernità che di lì a poco s’imporrà. La sua filosofia naturale non è una rappresentazione primitiva o arcaica della natura e, insieme, della storia umana, quanto piuttosto la convinzione profonda dell’irriducibilità del mondo naturale e storico al suo dato puramente materiale e quantitativamente misurabile. Magia è la capacità di osservare la realtà e il vivente senza scinderlo nel suo dato quantitativo e qualitativo, ma sapendo cogliere come anima e materia siano intimamente ed essenzialmente unum et idem, legame d’amore infinito, unità nella molteplicità. È qui che si comprende, allora, come e perché la riflessione naturalistica sulla forma sostanziale o sulle attrazioni naturali sia co-essenziale e indissociabile da quella politica e religiosa sulla rottura dei necessari vincula civilia, sulla crisi e sulle contraddizioni di un nuovo mondo. È questo il riconoscimento che a una nuova filosofia della natura debba corrispondere una nuova antropologia, una visione dell’universo infinito in cui l’essere umano non è più centro né scopo, ma parte di un vinculum amoris universale, infinito e permanente. 12. Dal vinculum amoris al vinculum civile. Politica, immaginazione e sovranità Nella terza e ultima parte del III e ultimo dialogo dello Spaccio, Bruno affronta esplicitamente una questione che, fino a quel momento, aveva sempre accompagnato sottotraccia la sua riflessione naturale e 188
Ivi, p. 520.
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politica, quella dell’incarnazione di Cristo. Come osserva Gilberto Sacerdoti, «se l’intera opera ha di mira la religione cristiana, la terza parte del dialogo non è solo quella in cui la dissoluzione è più radicale, ma anche quella in cui il velo di cautela che la ricopre è più succinto»189. E non è un caso che la critica al cristianesimo sia posta proprio dopo e in opposizione all’elogio della religione e della sapienza degli Egizi, a modello di una corretta comunicazione tra l’essere umano, la natura e Dio. Il cristianesimo ha rovesciato i valori necessari alla civiltà fondata sulla «natura, e non sul suo violentamento»190, «ha sovvertito l’ordine naturale dei valori»191, sostituendo la credulitas alla ragione, attraverso la predicazione dell’Incarnazione di Cristo. La conciliazione in Cristo di finito e infinito, umano e divino, è l’espressione di questo sovvertimento, della rottura del vincolo d’amore tra l’essere umano, la natura e Dio. Con questa falsa immagine il cristianesimo ha illuso il volgo, provocando divisioni e guerre, più di quanto abbia fatto il paganesimo. La conseguenza di questo sovvertimento è, come ha mostrato Ciliberto, che «i nessi fra Dio e mondo, uomo e natura si sono totalmente spezzati»192. L’uscita da questa crisi sta nel «ricostruire il linguaggio umano, divino e naturale […]. Al fondo la renovatio mundi coincide con il ristabilimento della comunicazione tra Dio, uomo, natura»193. Non si tratta d’imitare sterilmente la sapienza, la magia, il linguaggio, i culti e i riti perduti degli antichi Egizi, dei Greci o dei Romani: ciò costituirebbe una vana forma d’idolatria e d’inganno. Occorre, invece, rinnovare i nessi e i vincoli, adatti alle circostanze, ai luoghi, agli strumenti e ai soggetti del proprio tempo, che possano legare efficacemente gli esseri umani e le comunità, ristabilendo una forma di concordia civile. In questa considerazione sta, in nuce, il presupposto metodologico dell’ars vinciendi espresso nel De vinculis, quello cioè G. Sacerdoti, Sacrificio e sovranità. Teologia e politica nell’Europa di Shakespeare e Bruno, Torino 2002, p. 145. 190 Ibidem. 191 Ivi, p. 143. 192 M. Ciliberto, Nascita dello Spaccio: Bruno e Lutero, in G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, Milano 1985, p. 35. 193 Ibidem. 189
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della necessità di rinnovamento continuo dei legami civili, della loro instabilità e temporalità, e, dunque, della necessità di una conoscenza universale e particolare dei tempi, dei luoghi, degli strumenti e dei soggetti su cui si opera. Ma prima di poter agire occorre ristabilire l’ordine naturale delle cose, svelando le imposture e gli inganni con cui il cristianesimo ha sovvertito il mondo. Ricorrendo alle immagini mitologiche e cosmologiche di Orione, dell’Eridano e della Lepre e associandole a Cristo, Bruno mette in scena un’allegoria tesa a far emergere le contraddizioni e i paradossi a cui il cattolicesimo e la riforma hanno condotto il mondo: Appresso dimandò Nettuno “che farrete, o dèi, del mio favorito, del mio bel mignone, di quell’Orione dico, che fa per spavento […] orinare il cielo?” “Qua” rispose Momo, “lasciate proponere a me, o dèi […]. Questo, perché sa far meraviglie, e […] può camminar sopra l’onde del mare senza infossarsi, senza bagnarsi gli piedi; e con questo conseguentemente potrà far molte altre belle gentilezze mandiamolo tra gli uomini; e facciamo che gli done ad intendere tutto quello che ne pare e piace, facendogli credere che il bianco è nero, che l’intelletto umano, dove li par meglio vedere, è una cecità; e ciò secondo la raggione eccellente, buono et ottimo: è vile, scelerato et estremamente malo; che la natura è una puttana bagassa, che la legge naturale è una ribalderia; che la natura e divinità non possono concorrere in uno medesimo buono fine, e che la giustizia de l’una non è subordinata alla giustizia de l’altra, ma son cose contrarie come le tenebre e la luce […]. Persuaderà con questo che la filosofia, ogni contemplazione, et ogni magia che possa fargli simili a noi, non sono altro che pazzie; che ogni atto eroico non è altro che vigliaccaria: e che la ignoranza è la più bella scienza del mondo, perché s’acquista senza fatica, e non rende l’animo affetto di melancolia194.
194
Ivi, pp. 650-651.
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Gli insegnamenti del Cristo-Orione seguono qui, in modo letterale, il De servo arbitrio di Lutero195, in una contrapposizione tra la vana sapienza mondana dei filosofi e la vera sapienza soprannaturale cristiana, tra conoscenza della natura e conoscenza di Dio. In opposizione a questi insegnamenti, Giove decreta che Orione «vada via a basso», comandando «che perda tutta la virtù di far bagattelle, imposture, destrezze et altre meraviglie che non servono a nulla», affinché non «venga a distruggere quel tanto di eccellenza e dignità che si trova nella repubblica del mondo»196. La cacciata del Cristo-Orione corrisponde al rifiuto dell’Incarnazione e alla rottura di questo perverso vincolo dell’immaginazione che la religione cristiana, nelle sue diverse forme, esercita. Mantenere saldo questo vincolo significa concedere il potere di esercitare un dominio sugli esseri umani, di metterne in pericolo la convivenza e l’esistenza degli Stati, dei regni e delle repubbliche. Se è pazzo «un re il quale a un suo capitano e generoso duca dona tanta potestà et autorità, per quanta quello se gli possa far superiore»197, tanto più sarebbe «insensato e degno di correttore e tutore, se ponesse o lasciasse nella medesima autorità un uomo abietto, vile et ignorante, per cui vegna ad essere invillito, strapazzato e messo sotto sopra il mondo: essendo per costui posta la ignoranza in conseutudine di scienza, la nobiltà in dispreggio e la villania in riputazione»198. Estrema pazzia è per un sovrano concedere ad altri autorità e potestà superiori a sé, ancor più se si tratti di qualcuno in grado di agire e sovvertire le coscienze dei molti: «“potestà”, “autorità”, “superiorità: il linguaggio»199, osserva Sacerdoti, «è quello tecnico della sovranità – che significa propriamente superioritas. Così, se il discorso non manca d’interesse per il regno del cielo, l’interesse raddoppia ove lo si applichi ai regni della terra»200.
M. Ciliberto, Nascita dello Spaccio: Bruno e Lutero, cit., p. 37. Spaccio, p. 653. 197 Ibidem. 198 Ibidem. 199 G. Sacerdoti, Sacrificio e sovranità. Teologia e politica nell’Europa di Shakespeare e Bruno, p. 149 200 Ibidem. 195
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Orione non è soltanto l’immagine di Cristo che parla per bocca di Lutero, ma del potere della religione di vincolare tramite l’immaginazione, di turbare e sovvertire le coscienze dei molti facendo credere e diventare reale ciò che non è: una vera e propria forma di magia per vincula ex phantasia. Bruno riconosce la necessità politica di sottoporre la capacità della religione di legare attraverso l’immaginazione all’autorità e al potere temporale del sovrano, secondo il modello della chiesa d’Inghilterra attuato da Elisabetta I, ovvero l’esclusione del Papa e l’assunzione del potere supremo sulla Chiesa. Se la religione rientra tra le «cose necessarie alla repubblica del mondo»201, ciò è legato al suo carattere pratico, alla sua capacità politica di legare attraverso immagini e favole la moltitudine degli esseri umani, di produrre effetti funzionali alla vita terrena, ancor più che alla salvezza eterna, al suo essere un atto di governo e uno strumento civile. Seppur si tratti di favole e bagattelle, le immagini prodotte dalla religione cristiana costituiscono efficaci strumenti atti a legare e vincolare una comunità. A quelle forze religiose che minacciano «la patria pace et autoritade» Bruno non esita a legittimare per bocca di Minerva il ricorso alla «Industria, l’Esercizio bellico et Arte militare», affinché «si annulleno gli culti, religioni, sacrifici e leggi inumane, porcine, salvatiche e bestiali»202. Nella considerazione civile della religione e del suo rapporto con l’immaginazione, con l’autorità e il potere sovrano, Bruno introduce una seconda immagine, anch’essa come Orione presa a prestito dalla mitologia, quella del fiume Eridano con la quale allude all’ubiquità di Cristo che, come il fiume, risiede in cielo e in terra, nonché al miracolo, mistero e sacrificio eucaristico: Venemo, disse Giove, al fiume Eridano; il quale non so come trattarlo; e che è in terra e che è in cielo, mentre le altre cose, de le quali siamo in proposito, facendosi in cielo, lasciâro la terra. Ma questo e che è qua, e che è là; e che è dentro, e che è fuori; e che è alto, e che è basso; e che ha del celeste, e che ha del terrestre; e che è là, ne l’Italia, e che 201 202
Spaccio, p. 653. Ibidem
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è qua, nella region australe; or non mi par cosa a cui bisogna donare, ma a cui convegna che sia tolto qualche luogo203.
Con il ricorso alla rappresentazione atomistica della natura nel De l’ infinito, il Nolano aveva decostruito non soltanto la dottrina fisica ilemorfica aristotelica della quantità continua, ma anche la possibilità d’affermare razionalmente il miracolo o mistero e sacrificio eucaristico com’era stato decretato dal Concilio di Trento nella Sessio XIII del 22 ottobre 1551, e che proprio da quella dottrina aristotelica traeva fondamento204. Il principio eucaristico, secondo il quale il corpo di Cristo è contenuto in atto in tutte la parti del pane e del vino, distingue la forma sostanziale, principio di determinazione, dalla materia, principio passivo e determinabile. Attraverso il ricorso a questa distinzione aristotelica era possibile sostenere, per via di ragione e non solo di fede, che il corpo di Cristo fosse contenuto effettivamente in tutte le parti della materia del pane e del vino come loro forma sostanziale al momento della celebrazione eucaristica. Questa spiegazione, che chiama in causa una forma sostanziale esteriore alla materia, che la determina, la divide e la trasforma, risulta inconciliabile con la rappresentazione atomistica bruniana della realtà fisica, così come con la sua esigenza di comprendere la natura attraverso un principio d’omogeneità e di uniformità della materia e della forma universali. Nella prospettiva atomista, l’affermazione per via di ragione del mistero e sacrificio eucaristico è fisicamente inammissibile. Ivi, p. 654. H. Denzinger, Enchiridion symbolorumr, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Wurzburg, 1854, pp. 190-191: «Per consecrationem panis et vini conversionem fieri totius substantiae panis in substantiam corporis Christi Domini nostri, et totius substantiae vini in substantiam sanguinis ejus. quae conversio convenienter et proprie a sancta catholica Ecclesia transsubstantiatio est appellata». Cfr. Sancti Thomae Aquinati Summa Theologiae, in Opera omnia iussu impensaque Leonis XIII P.M. edita, Romae 1888-1906, III, 1906, t. XII, q. 75, art. 4, p. 168: «Nam tota substantia panis convertitur in totam substantiam corporis Christi, et tota substantia vini in totam substantiam sanguinis Christi. Unde haec conversio non est formalis, sed substantialis. Nec continetur inter species motus naturalis, sed proprio nomine potest dici transubstantiatio». 203
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Dall’infinitamente piccolo e dalla teoria del movimento è possibile decostruire non soltanto la cosmologia e la fisica aristoteliche e affermare l’infinità dell’universo, ma anche scardinare un dogma fondamentale della teologia cattolica come quello della transustanziazione. Quella di Bruno è una considerazione fisica, matematico-geometrica e metafisica della natura che ricorre alle nozioni di atomo, di punto e di monade. Si tratta di un tentativo di pensare e comprendere la realtà non più come il continuum aristotelico infinitamente divisibile in potenza, quanto piuttosto in termini d’indivisibili infiniti e infinitamente piccoli. Nello Spaccio egli definisce il mistero dell’eucarestia una bagattella: l’onnipresenza del Figlio che siede in cielo alla destra del Padre e simultaneamente s’incarna durante e attraverso la celebrazione del sacrificio eucaristico, è il più potente dei vincoli dell’immaginazione con cui la religione cristiana lega le coscienze dei credenti. E in effetti, se il mistero eucaristico è una bagattella, resta, tuttavia, una sacrosanta bagattella, in quanto rito, simbolo e vincolo potentissimo, capace di legare in senso sociale e politico, prim’ancora che religioso. L’Eridano resterà, dunque, in cielo, come in ogni luogo, ma solo in immagine, non nella sua sostanza, a indicare il nutrimento spirituale ma non reale del corpo e del sangue di Cristo: «Anzi», disse Momo, «o Padre, mi par cosa degna (poi che ha questa proprietade l’Eridano fiume di posser medesimo essere suppositale e personalmente in più parti) che lo facciamo essere ovumque sarà imaginato, nominato, chiamato e riverito: il che tutto si può far con pochissima spesa, senza interesse alcuno, e forse non senza buon guadagno. Ma sia di tal sorte, che chi mangerà de suoi pesci imaginati, nominati, chiamati e riveriti, sia come (verbigrazia) non mangiasse; chi similmente beverà de le sue acqui, sia pur come colui che non ha da bere; chi parimente l’arà dentro del cervello, sia pur come colui che l’ha vacante e vodo […]; «Bene» disse Giove, «qua non pregiudizio alcuno, atteso che per costui non avverrà che gli altri rimangano senza cibo, senza da bere, senza che gli reste qualche cosa in cervello, e senza compagni: per essere quel loro mangiare, bere, averlo in cervello, e tenere compagnia, in immaginazione, in nome, in voto, in riverenza
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[…]. Sia dunque l’Eridano in cielo, ma non altrimente che per credito et imaginazione: là onde non impedisca che in quel medesimo luogo veramente vi possa essere qualch’altra cosa 205.
Per Bruno la presenza del corpo e del sangue di Cristo nel pane e nel vino è puramente immaginaria e simbolica, senza alcun significato di reale manducatio e potatio della divinità. A differenza di Orione, l’Eridano potrà restare in cielo, ma solo in immagine, svuotato di ogni contenuto e presenza reale, proprio come il Cristo continuerà a essere presente nel mistero e sacrificio eucaristico come immagine, segno e simbolo. Come già osservava Alfonso Ingegno206, Bruno recepisce in queste pagine la critica che Calvino aveva svolto, nel capitolo XVII del libro IV dell’Institutio207, alla dottrina della transustanziazione cattolica e della consustanziazione luterana, tacciando di stupidità quest’interpretazione del culto eucaristico. Per il riformatore ginevrino la consacrazione con la quale i sacerdoti e i pastori trasformano il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo è una «magica incantatio»208. Come un tempo i maghi Egizi, essi affascinano e vincolano la comunità dei fedeli. Il pane e il vino, nutrimento della carne, sono i segni del corpo e del sangue di Cristo, nutrimento spirituale dell’anima. La condivisione del pane e del vino durante la celebrazione eucaristica sono i segni attraverso cui non si reitera ogni volta il sacrificio, ma in cui si compie la memoria di esso. Attraverso quest’atto della memoria, questo sacrificio simbolico, non è più il Cristo a discendere tra i partecipanti al rito, ma sono essi a innalzarsi a lui per mezzo del vincolo dello Spirito Santo. Il rito eucaristico pensato e attuato da Calvino è un legame mistico e spirituale, ma che assume una profonda valenza civile. La comunione è un atto di partecipazione e fedeltà non solo a Dio, ma di appartenenza a una stessa communitas, dalla quale gli Ivi, pp. 654-655 Cfr. A. Ingegno, Regia pazzia. Bruno lettore di Calvino, Urbino 1987. 207 Ihoannis Calvini Institutio christianae religionis, in Opera, cit., lib. IV, cap. 17, pp. 1013-1015. 208 Ivi, lib. IV, cap. 17, p. 1013. 205
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esclusi sono ex-communicati, fuori dall’unità della comunità. La presenza simbolica del corpo e del sangue di Cristo nel pane e nel vino rappresentano quel vincolo dell’immaginazione in grado di legare la comunità in un unico corpo civile. Nelle pagine dello Spaccio, Bruno recupera la controversia relativa alle differenti concezioni dell’Eucarestia, facendo suoi non pochi elementi della critica calvinista al cattolicesimo e al luteranesimo. Il rito della Santa Cena, legame comunitario e sacrificio simbolico della divinità, è un elemento civilmente e politicamente necessario, se compiuto non più dalla mano di un pontefice ma da quella di un sovrano209: immagine, questa, della sottomissione del potere spirituale ecclesiastico all’autorità e alla potestà temporale del sovrano. Se la celebrazione del rito eucaristico e il sacrificio simbolico di Cristo sono una favola e un inganno, questi costituiscono un atto utile, efficace e necessario a religare la comunità in un solo corpo civile sotto l’autorità e il potere politico del sovrano. Se l’Eridano rimarrà in cielo non altrimenti che in immaginazione, così sarà anche per la Lepre, simbolo tradizionale del Redentore, qui ripresa da Bruno. Questa sarà cacciata e catturata solo quando avrà perso ogni sembianza materiale, esistendo solo in immagine. Per chi la insegue senza mai afferrarla, per chi la mangia senza mai saziarsi, essa smetterà di possedere una realtà materiale, per diventare nient’altro che un vincolo dell’immaginazione: «tutto il mondo ne potrà mangiare e bevere senza che la sia mangiata e bevuta, senza che dente la tocche, mano che la palpe, occhio che la vegga, e forse ancora luogo che la capisca»210. Come l’Eridano, così anche la Lepre è un vincolo dell’immaginazione, un significante vuoto il cui scopo è la concordia e l’unità civile. È questa una religio rivolta non a chi ha riconosciuto la legge inscritta nella natura, ma alla moltitudine di quanti son soggetti alla credulitas e vulnerabili agli strumenti che la ragione e l’immaginazione politica e filosofica sono in grado di suscitare e di celare. La religione Cfr. M.A. Granada, Calvino y Bruno: misa católica y sacrificio de Cristo, in El umbral de la modernidad, Barcellona 2000, pp. 275-281. 210 Spaccio, pp. 655-656. 209
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è, come la definisce Sacerdoti, «la maschera e lo strumento con cui la ragione e la filosofia possono stabilire un altrimenti impossibile contatto con la moltitudine, e la moltitudine, a sua volta, potrà credere in ciò che filosofia e ragione conoscono e stabiliscono senza bisogno di alcuna fede»211. Se con il ricorso alla Lepre, Bruno allude al vincolo dell’immaginazione in cui consiste la religione, così anche la venazione o caccia e il sacrificio assumono i tratti di un’immagine simbolica e metaforica: quella dell’esercizio dell’autorità e del potere sovrano che si compie nella prerogativa di esercitare il sacrificio simbolico della divinità. Rivolgendosi a Giove, il quale secondo una scelta d’immagini non casuale, è colui che ha tanto potere da «fare di terra cielo, di pietre pane e di pane qualch’altra cosa», Momo chiede «che l’arte di cacciatori, idest la Venazione, come è una maestrale insania, una regia pazzia ed uno imperial furore, vegna ad essere una virtú, una religione, una santità; e che grande sia onore a uno per esser carnefice, ammazzando, scorticando, squartando e sbudellando una bestia salvaggia»212. In un gioco allegorico e associativo d’immagini che pone in una stessa considerazione vile e abietta «l’esser beccaio», «l’esser boia» e «l’esser cacciatore»213, di uomini e di animali domestici, Giove decreta, invece, che «l’esser boia di bestie selvatiche sia onore, riputazione e gloria»214. Se ammazzar bestie domestiche ed esseri umani è cosa abietta e vile, cacciare e compiere il sacrificio, come fa il boia nell’amministrare la giustizia pubblica, diviene una virtù, un rituale religioso. Come i sacerdoti di Diana, dopo aver cacciato un cervo, s’inginocchiano a terra e, armati di spada, gli tagliano la testa, gli cavano il cuore, e procedono poi, in punta di coltello in un cerimoniale che compiono rigorosamente soli, «che non admette compagno a quest’affare, ma lascia gli altri con certa riverenza e finta meraviglia star in circa a remirare», così deve agire anche chi vuol esser pienamente sovrano. G. Sacerdoti, Sacrificio e sovranità, cit., p. 192. Spaccio, p. 656. 213 Ivi, p. 657. 214 Ibidem. 211
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L’immagine del sacrificio simbolico della divinità, per quanto puro vincolo della fantasia, è metaforicamente l’espressione più alta dell’esercizio della sovranità. Se fino a quel momento la prerogativa di compiere questo sacrificio era sempre stata di «quel sommo sacerdote a cui solo era lecito di portare il Semammeforasso, e ponere il piè entro in Santasantoro»215, vale a dire il pontefice, questo potere è ora nelle mani di una Diana terrena che ha saputo conquistarlo e diventare così pienamente sovrana. La Venazione, la caccia del Cristo sotto forma di cervo, da regia pazzia e imperial furore, viene ora a configurarsi nelle parole di Bruno come una virtù, una religione, una santità: una caccia che diviene atto eroico, non quando è praticata da un sommo pontefice, bensì quando sia un principe a perseguitare e a cacciare quel cervo. «Cossì dumque» conchiuse Giove «io voglio che la venazione sia una virtù […] Sia dico virtù tanto eroica, che quando un prencipe perseguita una dama, una lepre, un cervio o altra fiera, faccia conto che le legioni nemiche gli corrano avanti; quando arà preso qualche cosa, sia a punto in quel pensiero come avesse alle mani cattivo quel principe o tiranno di cui più teme: onde non senza raggione vegna a far que’ bei cerimoni, rendere quelle calde grazie al cielo, e porgere al cielo quelle belle e sacrosante bagattelle»216.
Queste ultime pagine dello Spaccio racchiudono e riflettono prospettive e temi costanti e costitutivi della filosofia di Bruno. Intrecciando filosofia naturale e politica, ontologia e antropologia e anticipando la riflessione del De vinculis, egli ripensa, nel contesto delle guerre di religione e della crisi europea, i possibili usi della religione come vincolo dell’immaginazione, strumento di governo e di concordia civile, anziché arma di guerra. Dal rifiuto dell’ambigua natura di Cristo, finita e infinita, sul piano delle verità, al suo utilizzo come significante vuoto capace di vincolare a fini politici, se sottoposto alla potestà e all’autorità del sovrano e non più del papa di Roma o dei tanti papi riformati. Que215 216
Ivi, p. 658. Ivi, pp. 658-659.
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sta caccia, questo sacrificio della divinità, quest’atto eroico necessario che il sovrano deve arrogarsi e compiere per la salvaguardia e il bene dello stato non è il mistero eucaristico in quanto tale, ma il vincolo dell’immaginazione che esso esercita sulla moltitudine, sulle coscienze dei credenti, dei sudditi e dei cittadini. È questo, in altre parole, il riconoscimento che la sovranità risiede nella capacità, insieme naturale e politica, di legare e governare attraverso l’immaginazione che si è in grado di suscitare e consolidare nel cuore e nella mente del vincibile.
Conclusioni
A conclusione di questo percorso a ritroso nella nolana filosofia, possiamo evidenziarne brevemente alcune tappe, soffermandoci sui risultati emersi. Sulla base della ricostruzione svolta e dell’analisi sia delle opere bruniane, sia degli studi critici, possiamo affermare che la nozione bruniana di vinculum/nexus, ‘legame’ e ‘relazione’ si configura come categoria di passaggio dalla riflessione naturalistica a quella politico-antropologica, già prima della redazione degli scritti magici. 1) Il vincolo prende origine, nella vicenda intellettuale e biografica del Nolano, nel rifiuto del dogma trinitario e della considerazione della terza persona quale vinculum o nexus tra il Padre e il Figlio. In questo rifiuto svolge un ruolo essenziale la non conciliabilità di finito e infinito in Cristo, nonché il carattere ontologicamente differente dell’universo rispetto al creatore. In questo senso, il problema si configura inizialmente nel De la causa come relazione originaria tra l’infinità di Dio e l’infinità dell’universo, Unigenita natura. Una prima elaborazione del problema del legame è, dunque, da collocarsi nel rifiuto e nella trasposizione del discorso sulla Trinità dal piano teologico a quello naturale.
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Ciò non corrisponde semplicemente ad un trasferimento delle categorie teologiche e trinitarie sul piano della filosofia naturale, ma è anzi la rilegittimazione di un’idea ontologica e naturalistica, quale quella di legame, δεσμ ός/σύνδεσμ ος, vinculum/nexus, restituita al suo dominio originario, alla filosofia dell’essere platonica e prim’ancora parmenidea. La riflessione bruniana sul vincolo come elemento immanente alla natura, se non natura stessa, costituisce, in tal senso, l’inveramento dei motivi latenti della tradizione filosofica platonico-parmenidea, celati, da un lato, dalla concezione aristotelica dell’essere, dall’altro, dall’appropriazione e dalla trasposizione operata dalla teologia cristiana di quelle categorie e di quel linguaggio. 2) L’operazione di naturalizzazione e de-occultamento della magia condotta da Bruno dal De magia naturali sino al De vinculis, è finalizzata a ricollocare la sua personale e originalissima riflessione sulla magia nel cuore dell’ontologia e della cosmologia infinita elaborate anni prima nel Sigillus sigillorum e nei dialoghi italiani. Il tentativo di costituzione di una physica magica, di una considerazione naturalistica delle attrazioni e dei vincoli naturali tra i corpi, gli elementi e gli atomi, muove propriamente in questa direzione. Il De magia e le Theses sono finalizzati ad elaborare un’analisi naturalistica dei legami e dei fenomeni di attrazione che si verificano spontaneamente in natura, non in ragione di virtù occulte presenti negli elementi, ma del movimento di efflusso e d’influsso degli atomi di ciascun elemento e corpo. Allo stesso modo, anche i prodigi, i miracoli e le azioni magiche sono ripensati dal Nolano come possibili non grazie all’intervento di una potenza superiore sovrannaturale, ma in una dimensione radicalmente naturale, come espressione della fides, di un’immaginazione e di un intelletto potentissimi. 3) La relazione tra Dio e l’universo è resa possibile dall’immanenza della causa e principio primo, dalla sua presenza in ogni corpo naturale, vale a dire dal vincolo originario tra la materia e la forma. Questi due principi naturali sono separabili soltanto da un punto di vista logico, non ontologico, costituendo in realtà un’unità indissolubile. La materia infinita e l’anima del mondo compongono e formano ogni elemento dell’universo e, di conseguenza, ogni cosa
conclusioni
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vive seguendo il ritmo eterno di generazione e rigenerazione scandito dalla vicissitudine universale. Quest’antica e sommersa verità rappresenta l’eredità di quegli antiqui philosophi che hanno affermato l’identità in Dio di materia e forma, di potestà di fare e potestà di esser fatto. Il ricorso di Bruno nel De la causa a David de Dinant, ad Avicebron, alle dottrine degli eleati Parmenide, Melisso e Senofane, a Pitagora, Eraclito, Anassagora e Democrito, rappresenta la riscoperta dell’unità dell’essere, pur nella molteplicità delle sue manifestazioni particolari. Allo stesso modo, il richiamo esplicito nella terza sezione del De vinculis a questi autori, al De la causa e al De l’ infinito, corrisponde proprio al tentativo di ricollocare la riflessione sui vincula nel solco dell’ontologia e della cosmologia della nolana filosofia. 4) La critica ad Aristotele e alle diverse tradizioni peripatetiche, alla nozione di forma sostanziale affermata dagli scotisti, è funzionale a chiarire come tali filosofie non abbiano fatto altro che separare ciò che secondo la natura è unico e indiviso: la separazione tra la materia e la forma è necessaria non in quanto distinzione ontologica, ma esclusivamente logico-formale. L’errore che l’aristotelismo scolastico compie è quello di sovrapporre la realtà logica alla natura. Lo stesso richiamo a Cusano e alla dottrina della coincidentia oppositorum nel III dialogo del De la causa è teso ad affermare l’identità e la consustanzialità di materia e forma, non nella trascendenza del Dio cristiano, ma nell’immanenza dell’Unigenita natura, per ricondurre all’unità il molteplice. 5) Dalla prospettiva metafisica e filosofico-naturalistica siamo giunti ad osservare in che modo si delinei il passaggio bruniano alla considerazione della dimensione politica e antropologica. Per mezzo del primo e originario vinculum amoris, che lega materia e forma e di cui è composto tutto l’universo, ogni cosa si ritrova immersa in una fitta rete di relazioni e attrazioni reciproche, legandosi e slegandosi al proprio simile secondo il ritmo della vicissitudine. Il desiderio e l’appetito, la philautia o amore di sé sono in questa rappresentazione dell’universo le ragioni metafisiche che spingono ogni cosa a ricercare ciò che le attrae e apporta loro beneficio. In questa catena di vincoli e di legami ogni essere umano può farsi bestiale o eroico a seconda dei vincoli con cui si lega, degli oggetti, delle passioni e del suo desiderio.
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L’indeterminatezza del desiderio è la ragione per cui alcuni ascendono al grado più alto della gerarchia umana, mentre altri si rendono asinini e bestiali lasciandosi vincolare da immagini e fantasmi altrui, ritrovandosi nel grado più basso della scala. Allo stesso tempo, proprio grazie a quest’indeterminatezza costitutiva della natura umana, ogni individuo può ascendere dal proprio stato, dalla necessità dominante in natura, per scoprirsi libero di autodeterminarsi e di trasformare la propria condizione. In questa considerazione dei vincula, mago è colui che avendo appreso una teoria generale quanto particolare dell’universo e dei suoi composti, avendo riconosciuto l’universale vinculum amoris, vale a dire il modo in cui l’unità dell’essere si esplica nella dimensione finita della contrarietà e della differenza, può agire sui propri simili attraverso nodi adeguati. 6) La possibilità e la contingenza che dominano il piano della contrarietà e della differenza costituiscono la condizione propria di ogni essere umano. Non il piano dell’infinito, della coincidentia oppositorum in cui ogni cosa è indistinta e assorbita nell’altra, ma il piano del finito è il luogo in cui l’uomo, grazie alla propria particolare composizione formale e materiale, grazie all’uso dell’ingegno, sintesi di mano e intelletto, può elevarsi al di sopra della natura per farsi veramente dio de la terra. Ma questo progressivo elevarsi da una condizione bestiale e ferina verso la costituzione della civiltà e delle repubbliche non avviene rovesciando o allontanandosi dall’equilibrio e dall’ordine naturale. Scopo dell’essere umano nella costruzione della polis è quello di emulare l’equilibrio e l’unione dei contrari operato dalla natura, all’interno della dimensione finita in cui dominano la contrarietà e la differenza. Ciò è possibile attraverso l’istituzione di vincoli civili che possano garantire la pace tra gli individui, preservando e non eliminando le differenze e le specificità di ognuno. La verità, la legge e la religione rappresentano in questo senso, come Bruno scrive nello Spaccio, i legami e i vincoli posti al servizio della communitade. Attraverso questi strumenti una comunità può premiare quanti apportano benefici pubblici e punire coloro che arrecano danno alla convivenza pacifica e al genere umano. L’arte politica è in questo senso capacità di unire, legare e tenere insieme i contrari, in un equilibrio sempre precario ed instabile e mai
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permanente. Tra natura e cultura, tra il mondo fisico e quello civile non vi è alcuna scissione, ma quest’ultimo è già immerso ed incluso nel primo. La conoscenza del mondo naturale corrisponde così all’acquisizione di un sapere pratico attraverso cui agire nel mondo civile. Si tratta in altre parole di riconoscere e riprodurre quell’originario e universale vinculum amoris nell’istituzione e nel governo delle comunità. Il riconoscimento del punto de l’unione, della relazione ontologica tra l’Uno e il molteplice, tra l’infinità dell’essere e le sue manifestazioni finite, come definita nel De la causa, rappresenta un momento necessario e imprescindibile per agire nella sfera politica dei rapporti umani istituendo legami e vincoli temporali. Nella prospettiva di ricerca sin qui delineata emerge come la riflessione di Bruno sul vincolo incarni la possibilità di pensare natura e cultura, la physis e la polis senza scissioni o separazioni, ma l’una come originata a partire dall’altra, in un rinvio continuo tra riflessione filosofico-naturalistica e politico-antropologica.
Indice dei nomi*
Abbondanza, A., 70 Adamo, 41, 339 Agostino d’Ippona (santo), 41, 48-49, 52, 57, 61, 64, 66, 69, 74-76 Agrippa Von Nettesheim Heinrich Cornelius, 10, 33-35, 37, 39, 84, 100, 103-104, 107-108, 245, Aland, K., 48 Alberto Magno, 6, 33, 140-151, 160, 185, 187-189, 191, 220 Alessandro d’Afrodisia, 147 Amato, B., 113 Anassagora, 156-157, 371 Anzulewicz, H., 142
Ario, 58, 61, 69-70, 72, 75-76, Aristotele, 6, 63, 65, 67, 112, 133, 141, 143, 147, 149-152, 156-157, 161, 166, 169-171, 173-178, 181, 184-185, 191, 194, 196, 223, 239, 257, 306, 371 Astius, F., 40 Atteone, 238, 247, 265 Auvray, L., 62, 323 Avarizia, 335 Averroè, 140, 174-176, 223 Avicebron (Ibn-Gabirol), 7, 11, 24, 137-140, 156-158, 164, 185-192, 196-197, 217-220, 261, 371
* A causa della frequenza con cui compare nel testo, il nome di Giordano Bruno non è stato indicizzato.
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Badaloni, N., 22, 147, 189, 190 Balbani Niccolò, 319 Balduino Gerolamo, 175 Barberi Squarotti, G., 13 Bartolomeo, 78 Bassi, S., 13, 23, 34-36, 82, 238, 242, 298, 314 Baum, J.-W., 56, 303, 321 Benivieni Girolamo, 242 Beretta, P., 48 Berns, T., 59 Bertoldo di Moosburg, 153 Bianchi, L., 141 Biffi, I., 51, 70, 149, 209 Bigarelli, A., 48 Biondi, A., 278 Birkenmajer, A., 141 Bonaventura da Bagnoreggio, 187 Borgnet, A., 144, 188, 220 Borrelli, G., 314 Braccio Del Bene, 316 Brizzi, G.P., 278 Bujanda de, J.M., 318 Calepino Ambrogio, 40 Calvino Giovanni, 10, 55-56, 66, 303, 319-321, 328, 364-365 Cambi, M., 81, 107 Canone, E., 14, 23, 61, 65, 70, 84, 113, 176, 345-346 Carafa Antonio, 65 Caramella, S., 236 Carannante, S., 59 Carella, C., 62, 64, 66 Caroli, D.D., 86 Casadei, E., 141, 143-145, 148-149, 153
indice dei nomi
Cassin, B., 42-43 Castelvetro Iacopo, 315 Catanorchi, O., 71, 140, 188, 298 Cestaro, A., 63 Charlewood John, 314 Cicada, 237, 239 Ciliberto, M., 13-14, 23, 39, 64-65, 68, 71, 113, 140, 188, 298, 314315, 347, 358, 360 Coggi, P.R., 51, 70, 149, 209 Colombi, G. 63 Colombo Cristoforo, 330 Copernico Niccolò, 165 Corbeil Pierre, 141 Corbinelli Iacopo, 316-317 Corsano, A., 22 Cotin Guillaume, 62, 323 Courcelle, P., 40-41 Coxon, A.H., 43 Cunitz, E., 56, 303, 321 Cupido, 23, 134-135, 211, 256 Cusano Nicolò, 6-7, 10, 50, 53-55, 57, 59, 68, 105, 140-142, 152-154, 157, 197-199, 201-204, 209, 211, 297, 371 D’Addio, M., 316 D’Andrea, A., 319 D’Avignon, R., 318 Dagron, T., 101, 140-141, 148, 152, 166, 171, 174, 201-202, 292, 326, 330 David de Dinant, 6, 11, 24, 138-158, 160, 164-165, 185-186, 188-189, 219-220, 224, 261, 371 Davila Enrico Caterino, 316 Del Prete, A., 59-61 Delarue, C.V., 86
indice dei nomi
Dell’Omodarme, F., 13 Democrito, 146, 156, 183, 190, 371 Dente, A., 63 Denzinger, H., 362 Diana, 82-83, 238, 247, 366-367 Dicson Alexander, 159 Dicsono, 159, 191, 196, 222 Diels, H., 41-42 Dionigi Aeropagita (pseudo), 51-52, 57, 66, 68, 153 Domenico Gundislao, 187 Donato, 66 Donattini, M., 278 Dronke, P., 141 Duns Scoto, 187 Egidio da Viterbo, 63, 76 Egidio Romano, 64, 66 Elisabetta I Tudor, 361 Ellero, M.P., 13 Enrico III di Valois, 316-317 Epicuro, 183, 281, 317 Eraclito, 6, 157, 180, 183, 371 Erasmo da Rotterdam, 10, 66, 6869, 323 Ercole, 213, 341 Eridano, 361 Ermete Trismegisto, 156, 352 Ernst, G., 23, 65, 84, 113 Estienne Henri, 40 Eva, 339 Fantechi, E., 210 Fatica, 8, 337-342 Festugière, A.-J., 104 Ficino Marsilio, 6, 10, 33, 37-39, 41, 84, 91-95, 97, 100, 107-108, 126-
377
128, 140, 142, 152, 155-157, 166, 242, 248, 251, 253, 266, 274 Fiorentino, F., 14 Firpo, L., 15 Fortezza, 306 Galilei Galileo, 97 Gambino, L., 316 García Verde, J.M, 175 Garin, E., 22, 242, 265 Gaudemet, J., 47 Gentile, G., 109 Gentile, S., 142, 155, 156-157 Gentili Alberico, 315-316 Gentillet Innocent, 319 Gesù di Nazareth (Cristo), 11, 54, 56, 58-59, 66, 73, 85-88, 93-94, 124, 203, 303, 321, 330, 358-365, 367, 369 Giovan Vincenzo Colle da Sarno, 175 Giovanni Ispano, 187 Giovanni Scoto Eriugena, 50, 57, 68, 153 Giovanni Tritemio, 33 Giovannozzi, D., 84, 107 Giove, 155, 291-294, 299-300, 302303, 306, 313, 323, 325, 334, 340-341, 353, 360-361, 363, 366-367 Girard, P.F., 46 Girolamo (santo), 48 Giudizio, 303-304, 306, 325, 334, 357 Giunta Bernardo, 317 Giustiniano, 47 Goldoni, D., 167 Gorlani, N., 50 Gramsci, A., 17
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Granada, M.A., 60, 126-127, 129, 132-133, 206, 365 Graziano Francesco, 67 Gurvitch, G., 47 Gutierrez, D., 64-65 Heubeck, A., 42 Huvelin, P., 47 Imbriani, V., 14 Industria, 338, 361 Ingegno, A., 38, 364 Jedin, H., 63 Juan de Valdés, 63 Kranz, W., 41-42 Kristeller, P.O., 155 Kurdzialek, M., 141, 152 Legge, 8, 299, 302, 304-306, 333334, 357 Leone Ebreo (Giuda Abarbanel), 10, 235-236, 242 Leone XIII (papa), 70, 151, 362 Lepre, 359, 365-366 Leucippo, 146 Lévy-Bruhl, H., 46-47 Lomonaco, F., 3, 12 Luca (Evangelista), 85, 87 Lucano, 155 Lucentini, P., 141 Lutero Martin, 66, 303, 320-323, 325, 328, 337, 352, 358, 360-361 Maccagnolo, E., 141 Machiavelli Niccolò, 231, 286, 312319
indice dei nomi
Mantino Jacopo, 175 Marchetti, V., 278 Marco (Evangelista), 85-86 Marranzini, A., 63, 71 Matteo (Evangelista), 85-86 Matteoli, M., 14, 113 Melantone Filippo, 66, 303, 328 Melisso, 146, 149, 157, 170, 183, 371 Mercurio, 324, 353 Meroi, F., 85-86, 314-315, 320 Michel de Castelnau, 317 Miele, M., 68, 71 Miglietti, S., 328 Migne, J.-P., 41, 86 Mignini, F., 315 Momo, 323-324, 334, 359, 363, 366 Mondolfo, R., 178 Monti, C., 14 Munk, S., 138, 187 Nestle, E., 48 Nock, A.D, 104 Nys, E., 315 Omero, 42-43, 239 Ordine, N., 308, 314, 342 Orfeo, 155 Origene, 86, 124 Orione, 359, 360-361, 364 Osborne, C., 52 Ozio, 8, 337-341 Pagnoni-Sturlese, R., 14, 38, 140, 240 Pallade, 146-147, 166 Panizza, D., 315 Paolo di Tarso (santo, apostolo), 10, 48-49, 52, 62, 92, 319-321
indice dei nomi
Paolo IV (papa), 318 Papi, F., 22-23, 108, 162, 179, 215, 226, 234, 251-253, 260-261, 280, 287 Parmenide, 6, 41-43, 146, 149, 156157, 166, 169-170, 177, 180-181, 183, 185, 371 Pelagio, 66 Peleo, 249 Peroli. E., 53, 154, 199 Perrone Compagni, V., 23, 34, 84, 245 Perseo, 341 Petruccio Ubaldini, 315 Phillipson, C., 316 Pico della Mirandola Giovanni, 10, 242 Pierre de Nemours, 141 Pierre de Ronsard, 308 Pietro (santo, apostolo), 62 Pietro Lombardo, 51, 67, 70, 149, 209, 220 Pinelli Giovan Vincenzo, 317 Pirillo, D., 71, 140, 188, 298, 314-315 Pirillo, N., 23 Pitagora, 74, 92-94, 155, 157, 183184, 371 Platone, 40-41, 44-45, 127, 143-145, 223-224, 249, 253 Plotino, 92, 221, 223-224 Pöhlmann, H.G., 303 Polibio, 319 Polihimnio, 213, 214 Pomponazzi Pietro, 174-175 Povertà, 334-335 Privitera. G. A., 42 Procacci, G., 318-319 Prosperi, A., 323
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Provvidenza, 301 Prudenza, 300, 334 Quaglioni, D., 15 Ragazzoni, D., 71-72, 75 Raimondi, F., 292 Raimondi, F.P., 175 Ramelli, I., 104 Raymundi, P., 188 Reuss, E., 56, 303, 321 Riccati, C.M., 50 Ricchezza, 333-335 Ricci, S., 314, 319 Robert de Courçon, 141 Rodolfi, A., 142 Rolf, J.C., 316 Rombs, R. J., 49 Rossi, P., 22 Rowland, I., 65-66 Ruggiu, L., 167 Russo, I., 39 Sabellio, 58, 61, 69-70, 72 Sacerdoti, G., 358, 360, 366 Salomone, 72-74, 185, 242 Saulino, 308, 325 Scapparone, E., 13, 23, 85, 91-92, 94-95, 314 Scaramuré, 77-78 Secchi, P., 50, 59, 105, 154, 190, 199, 202-203, 211 Seneca, 155 Senofane, 146-149, 150, 157, 371 Seripando Girolamo, 63-65, 69-7076, 320 Sidney Philip, 315-316
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Socrate, 40-41, 45, 91-92, 145, 194, 253 Soder, J.R., 142 Sofia, 8, 299, 301-302, 304, 306, 308, 325, 334 Sollecitudine, 338, 341 Spampanato, V., 15 Spiazzi, M., 188 Spruit, L., 104, 106 Stanek, E., 318 Stewart, P.D., 319 Tacito, 316 Tallarigo, C.M., 14 Tansillo, 237, 239 Teofilo da Vairano, 10, 62-68, 75-76 Teofilo, 159, 191-192, 196, 223 Terracciano, P., 140, 188, 191, 217 Terré, F., 47 Teti, 246, 249 Théry, G., 141-142, 150-154 Tirinnanzi, N., 13-14, 23, 58, 352 Tocco, F., 14, 22, 34-35, 107, 109, 140, 227 Tomitano Bernardino, 175 Tommaso d’Aquino (santo), 6, 10, 5152, 57, 59, 61, 64-70, 75-76, 97, 140-142, 145, 147-154, 156-158, 160, 174-175, 185, 187-189, 191, 209, 220, 362
indice dei nomi
Ugo di San Vittore, 52 Ulisse, 42-43 Valla Lorenzo, 10, 68-69 Varrone, 155 Vasoli, C., 22 Venazione, 366-367 Venere, 273, 283 Verità, 8, 299-302, 306, 334, 341 Virgilio, 72-73, 155 Vitale, A.M., 63 Vitelli, G., 14 Vivanti, C., 231, 312 Wilhelm, E., 56, 303 Wolf John, 314 Yates, A. F., 21-22, 317 Zenone, 145, 156 Zimara Marco Antonio, 175 Zoroastro, 92-94
Finito di stampare nel mese di luglio 2020 presso Universal Book s.r.l. Rende (CS)