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Italian Pages 574 [223] Year 2021
Philippe Descola Oltre natura e cultura
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I L'ILLUSIONE DELLA NATURA
Quanto a cercare di dimostrare che la natura esiste, questo è ridicolo; è manifesto, in effetti, che ci sono molti esseri naturali. Aristate, Fisica.
Vi que ndo hd Natureza, Que Natureza ndo existe, Que hd montes, va/es, planicies, Que hd drvores, flores, ervas, Que hd rios e pedras, Mas que ndo hd um todo a que isso pertença, Que um conjunto real e verdadeiro É uma doença das nossas ideias. A Natureza é partes sem um todo !sto é talvez o tal mistério de que Jalam. Fernando Pessoa, Poemas de Alberto Caeiro
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ASPETTI DI CONTINUITÀ
È nel tratto a valle del Kapawi, un fangoso corso d'acqua dell'alca Amazzonia, che ho ini ziato a interrogarmi sull'evidenza della natura. Eppure niente di particolare distingueva il luogo incorno alla casa di Chumpi da altri insediamenti che avevo già visitato in questa regione dell'equatore limitrofa al Perù. Secondo l'usanza degli Achuar, la dimora coperta da foglie di palma era costruita al centro di un terreno disboscato dove dominavano le piante di manioca che costeggiavano le acque turbinose del corso d'acqua. Qualche passo olcre l'orco e già ci si imbatteva nella foresta, una buia muraglia di alberi d'alco fusco che circonda il confine di luce fioca dei banani. Il Kapawi era l'unica via di fuga da questo spazio circolare senza orizzonte, una via tortuosa e interminabile poiché mi ci era voluta un'intera giornata di piroga per arrivarvi dall'insediamento simile, il più vici no al mio padrone di casa. Tra i due insediamenti, decine di migliaia di ettari di alberi, di muschi e felci, decine di milioni di mosche, di formiche e di zanzare, di branchi di pecari, di gruppi di scimmie, di are e di tucani, forse uno o due giaguari. In breve, una proliferazione disumana di forme e di esseri lasciaci in completa indipendenza alle loro proprie leggi di coabitazione... Verso metà pomeriggio, mentre svuotava gli scarti di cucina nelle boscaglie a stra piombo sul fiume, la donna di Chumpi, era stata morsa da un serpente. Precipitandosi verso di noi, gli occhi dilataci dal dolore e dall'angoscia, urlava: «Il ferro di lancia, il ferro di lancia, sono morta, sono morta!». La famiglia in allerta aveva subito facto coro: «Il ferro di lancia, il ferro di lancia, l'ha uccisa, l'ha uccisa!». Avevo iniettato un siero a Mecekash e riposava nella piccola capanna di confinamento che si erige in simili cir costanze. Tali incidenti non sono rari in questa regione, soprattutto al momento del caglio degli alberi, e gli Achuar si rassegnano con una cerca fatalità ad un esito spesso mortale. Ma che un ferro di lancia si avventuri così vicino ad una casa era, così sem brava, inusuale.
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Oltre natura e cultura
Chumpi sembrava colpito quanto la sua sposa; seduto sul suo sgabello di legno inci so, il viso furioso e sconvolto, mormorava un monologo nel quale finii per intrometter mi. No, il morso a Metekash non era frutto del caso, ma una vendetta inviata da Jurijri, una di quelle "madri della selvaggina" che vegliano sulle sorti degli animali della fore�ta. Venuto in possesso di un fucile in seguito a un baratto, Chumpi, il padrone di casa, dopo un lungo periodo in cui era stato costretto a cacciare con la sola cerbottana, ieri aveva fatto un gran massacro di scimmie lanose. Forse sbalordito dalla potenza della sua arma, aveva sparato sul branco senza criterio, uccidendo tre o quattro animali e ferendo ne qualcun altro. Non aveva riportato che tre scimmie, lasciandone una agonizzante nel punto di diramazione di un ramo principale. Alcuni dei fuggiaschi, colpiti dai piombini, soffrivano ora invano; forse erano perfino morti prima di aver potuto consultare lo scia mano della loro specie. Dal momento che aveva ucciso, quasi per capriccio, più animali di quanti erano necessari per l'approvvigionamento della sua famiglia, e dato che non si era preoccupato delle sorti di quelli che aveva ferito, Chumpi aveva mancato ali' etica della caccia e aveva rotto la convenzione implicita che lega gli Achuar agli spiriti protet tori della selvaggina. Le rappresaglie non avevano affatto tardato. Tentando in modo maldestro di dissipare il senso di colpa che opprimeva il· mio ospite, gli feci notare che l'aquila arpia o il giaguaro non si turbano nell'uccidere le scim mie, che la caccia è necessaria alla vita e che, nella foresta, ognuno finisce per serè'ire da nutrimento agli altri. Evidentemente, non avevo capito nulla: Le scimmie lanose, i tucani, le scimmie urlatrici, tutti quelli che uccidiamo per mangi,are, sono delle persone come noi. Anche il giaguaro è una persona, ma è un cacciatore solitario, non rispetta niente. Noi, le "persone complete", dobbiamo rispettare quelle che uccidiamo all'interno della foresta perché per noi sono come dei parenéi acquisiti. Vivono tra !pro con la propria parentela, non fanno le cose per caso, parlano fra loro, ascoltano quello che dicia mo, si sposano come stabilito. Anche noi , con le faide , uccidiamo i parenti acquisiti, ma che comunque sono sempre dei parenti. Lo stesso accade con le scimmie lanose: le uccidi�o per mangiare, ma sono sempre dei parenti. ***
Le intime convinzioni che un antropologo si crea rispetto alla natura della vita sociale e della condizione umana spesso risultano da un'esperienza etnografica molto particola reggiata, acquisita vivendo con qualche migliaia di individui che hanno saputo instillare in lui dubbi così profondi su ciò che prima considerava scontato che, in seguito, tutta la sua energia si impegna per presentarli in una ricerca sistematica. È questo ciò che è accaduto nel mio caso quando, nel corso del tempo e di numerose conversazioni con gli Achuar, si delinearono poco a poco le modalità del loro apparentamento con gli esseri naturali 1 • Gli indiani che vivono lungo la frontiera tra l'Ecuador e il Perù non si distinguono molto dalle altre tribù del gruppo jivaro, ai quali sono legati per lingua e 1
Per maggiori dettagli, Descola, Ph., 1986.
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1. Aspetti di continuità
cultura, quando affermano che la maggior parte delle piante e degli animali possiedono un'anima (wakan) simile a quella degli umani, una facoltà che li dispone fra le "persone" (aents), fatto che assicura una coscienza riflessiva e un'intenzionalità che li rende capaci di provare emozioni e permette loro di scambiare messaggi sia con i loro pari sia con membri di altre specie, fra cui gli uomini. Questa comunicazione extra-linguistica è resa possibile dalla capacità riconosciuta ai wakan di veicolare, senza mediazioni sonore, i pensieri e i desideri verso l'anima di un destinatario, modificando così, a volte all'insa puta dello stesso destinatario, il suo stato d'animo e il suo comportamento. Gli uomini dispongono a tale scopo di una vasta gamma di incantesimi magici, gli anent, grazie ai quali possono agire a distanza sui loro simili, ma anche sulle piante e sugli animali, così come sugli spiriti e su alcuni artefatti. Larmonia coniugale, una buona intesa con i propri parenti e i vicini, il buon esito nella caccia, la fabbricazione di un bel vasellame o di un curaro efficace, un orto con colture variegate ed opulente, tutto questo dipende dalle relazioni di connivenza che gli Achuar saranno riuscici a stabilire con una grande varietà di interlocutori umani e non umani suscitando in essi disposizioni favorevoli per mezzo degli anent. Secondo il modo di vedere degli indiani, l'abilità tecnica è indissociabile dalla capaci tà di creare un terreno intersoggetivo sul quale fioriscono i rapporti regolati da individuo a individuo: tra i cacciatori, gli animali e gli spiriti maestri della selvaggina, e tra le don ne, le piante dell'orto e il personaggio mitologico che ha generato le specie coltivate e che continua ancora oggi ad assicurare la loro vitalità. Lontano dal ridursi a banali luoghi che forniscono solo cibo, la foresta e i terreni con le coltivazioni costituiscono i teatri di una sociabilità sottile dove giorno dopo giorno si ammansiscono gli esseri che, in verità, soltanto la diversità nell'aspetto e l'assenza del linguaggio distinguono dagli umani. Le forme di questa sociabilità differiscono tuttavia a seconda che si abbia a che fare con piante o con animali. Padrone degli orti ai quali consacrano gran parte del loro tempo, le donne si rivolgono alle piante coltivate come a dei bam�ini che è opportuno accom pagnare con mano ferma verso la maturità. Questa relazione di maternità prende come modello esplicito la tutela che Nunkui, lo spirito degli orti, esercita sulle piante che un tempo creò. Gli uomini considerano la selvaggina come un cognato, relazione instabile e difficile che esige rispetto reciproco e circospezione. I parenti acquisiti costituiscono infatti la base delle coalizioni politiche, ma sono anche i più diretti avversari nelle guerre di vendetta. Lopposizione tra consanguinei e affini, le due categorie mutualmente esclu sive che governano la classificazione sociale degli Achuar e indirizzano i loro rapporti con gli altri, si ritrova così nei comportamenti prescritti con i non-umani. Parenti di sangue per le donne, parenti acquisiti per gli uomini, gli esseri della natura diventano dei veri e propri interlocutori sociali. Ma si può parlare di esseri della natura per comodità di espressione? C'è un posto per la natura in una cosmologia che conferisce agli animali e alle piante la maggior parte degli attributi di umanità? Possiamo parlare di appropriazione e di trasformazione delle risorse naturali quando le attività di sussistenza sono declinate in una molteplicità di ac coppiamenti individuali con elementi umanizzati della biosfera? Possiamo infine parlare
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di uno spazio selvaggio a proposito di questa foresta toccata a malapena dagli Achuar che essi descrivono come un immenso orto coltivato con cura da uno spirito? A mille leghe dal "dio feroce e taciturno" di Verlaine, la natura qui non è un'organizzazione trascen dente o un oggetto da socializzare, ma è il soggetto di un rapporto sociale. Estendendo il mondo della famiglia, la natura è propriamente domestica fin dentro i suoi rifugi più inaccessibili. Gli Achuar stabiliscono alcune distinzioni tra le entità che popolano il mondo. La gerarchia degli oggetti animati ed inanimati che ne deriva non è fondata su gradi di perfezione dell'essere, su differenze di aspetto o su una raccolta progressiva di proprietà intrinseche. La gerarchia si regge sulla differenza dei modi di comunicazione e rende possibile la percezione dei requisiti sensibili distribuiti in modo disuguale. Dato che la categoria delle "persone" include gli spiriti, le piante e gli animali, tutti dotati di un'ani ma, tale cosmologia non discrimina tra umani e non-umani, introduce solamente una scala d'ordine secondo livelli di scambi di informazioni considerati possibili. Gli Achuar, come è giusto che sia, occupano la sommità della piramide: si vedono e si parlano con lo stesso linguaggio. Il dialogo è possibile anche con i membri delle altre tribù jivaro che li circondano e i cui dialetti sono più o meno intelligibili, senza che si possano tuttavia escludere dei malintesi fortuiti o deliberati. Con i bianchi ispanofoni, con le popolazioni vicine di lingua quechua, così pure con l'etnologo, ci si vede e ci si parla simultaneamen te, purché esista un linguaggio comune, ma la padronanza di quel linguaggio è spesso imperfetta per l'interlocutore dato che non è la sua lingua madre. Si introduce così la possibilità di una discordanza semantica che renderà incerta la somiglianza delle facoltà che accertano l'esistenza di due esseri su uno stesso piano del reale. Le distinzioni si ac centuano nella misura in cui ci si allontana dal dominio delle "persone complete", penke aents, definite innanzitutto dall'attitudine linguistica. Gli esseri umani quindi possono vedere le piante e gli animali che, a loro volta, se possiedono un'anima, possono percepi re gli umani. Gli Achuar parlano alle piante e agli animali grazie agli incantesimi, anent, ma non ottengono immediatamente una risposta, che invece è rivelata solo al momento dei sogni. Lo stesso accade per gli spiriti e per alcuni eroi della mitologia: attenti a ciò che si dice loro, ma generalmente invisibili nella loro forma originaria, non possono essere compresi in tutta la loro pienezza se non nel corso dei sogni e delle trance indotte dagli allucinogeni. Le "persone" che possono comunicare, inoltre, sono gerarchizzate in funzione del grado di perfezione delle norme sociali che reggono le comunità nelle quali sono inse rite. Alcuni non-umani sono molto vicini agli Achuar perché si ritiene che rispettino le stesse regole matrimoniali degli Achuar: è il caso delle Tsunki, gli spiriti del fiume, di molte specie di selvaggina (le scimmie lanose, i tucani...) e di piante coltivabili (la manioca, le arachidi...). Ci sono degli esseri, al contrario, che si compiacciono della pro miscuità sessuale e così tradiscono regolarmente il principio di esogamia: questo è il caso della scimmia urlatrice o del cane. Il più basso livello di integrazione sociale è occupato dai solitari: gli spiriti lwianch, incarnazioni dell'anima dei morti che vagano solitari nella foresta, o ancora i grandi predatori come il giaguaro o l'anaconda. Eppure, nonostante
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1. Aspetti di continuità
sembri che siano lontani dalle leggi di educazione comune, tutti gli esseri solitari sono i familiari degli sciamani, che li usano per disseminare la sfortuna o per combattere i loro nemici. Stabilitisi ai margini della vita comune, questi esseri nocivi non sono affatto selvaggi dato che i padroni che essi servono non sono al di fuori della società. Questo significa che gli Achuar non riconoscono alcuna entità naturale nell'ambien te che abitano? Non è esatto. Il grande continuum sociale che abbraccia umani e non umani non è interamente inclusivo e qualche elemento dell'ambiente non comunica con nessuno per mancanza di un'anima propria. La maggior parte degli insetti e dei pesci, le erbe, i muschi e le felci, i sassi e i corsi d'acqua risiedono ali' esterno della sfera sociale così come ali'esterno delle regole dell'intersoggettività; nella loro esistenza meccanica e generica forse corrisponderebbero a ciò che noi chiamiamo "naturà'. È perciò legittimo continuare ad indicare una parte di mondo che per gli Achuar è incomparabilmente più ristretta in confronto a quella che noi intendiamo con essa? Nel pensiero moderno, inoltre, la natura non ha senso se non in opposizione alle opere umane che nel linguag gio della filosofia e delle scienze sociali abbiamo scelto di chiamare "cultura", "società'' o "storia", o meglio ancora, con una terminologia più specializzata, "spazio antropizzato", "mediazione tecnicà' o "ecumene". Una cosmologia dove la maggior parte delle piante e degli animali sono inclusi in una comunità di persone, condividendo tutto o parti delle facoltà, dei comportamenti e dei codici morali ordinariamente attribuiti agli uomini, non risponde in alcun modo ai criteri di una tale opposizione. Può essere che gli Achuar costituiscano un caso eccezionale2 , una delle anomalie che l'etnografia a volte scopre in qualche angolo remoto del pianeta? Può essere che sia pro prio la mia interpretazione della loro cultura che è scorretta? Per mancanza di perspicacia o desiderio di originalità, non avrei saputo o voluto rivelare la distribuzione specifica che avrebbe occupato la dicotomia tra società e cultura. A qualche centinaia di chilometri più a nord, nondimeno, nella foresta amazzonica della Colombia orientale, gli indiani Makuna presentano una versione ancora più radicale di una visione del mondo decisa mente non dualistica3• Come gli Achuar, i Makuna categorizzano gli umani, le piante e gli animali come "persone" (masa) i cui principali attributi - la mortalità, la vita sociale e cerimoniale, l'intenzionalità, la conoscenza - sono identici in tutto e per tutto. Le distinzioni interne alla comunità del vivente si fondano su caratteristiche specifiche che l'origine mitica, i re gimi alimentari e le modalità di riproduzione conferiscono ad ogni classe di essere, non si fondano sulla maggiore o minore vicinanza di queste classi al paradigma di adempimento che indicherebbero i Makuna. I..:interazione tra animali e umani è ugualmente concepita sotto forma di un rapporto di affinità, benché leggermente differente dal modello achuar, poiché il cacciatore tratta la sua selvaggina come un potenziale coniuge e non come un cognato. Le categorizzazioni ontologiche sono tuttavia molto più plastiche che per gli Un esempio questo considerato abbastanza tipico, essendo già servito come illustrazione etnografica ad autori che rifiutavano l'universalità dell'opposizione tra natura e società (Berque, A., 1995 e 1990; e Latour, B., 1991). 3 Arhem, K., 1996, 1990. 2
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Oltre natura e cultura
Achuar, in ragione della possibilità di metamorfosi continua riconosciuta a tutti: gli uma ni possono diventare animali, gli animali possono convertirsi in umani e l'animale di una specie può trasformarsi in un animale di un'altra specie. Lattività tassonomica sul reale è quindi sempre relativa e contestuale: lo scambio permanente del['aspetto non permette quindi di attribuire identità immutabili ai componenti viventi dell'ambiente. Per i Makuna la sociabilità imputata ai non-umani è anche più ricca e complessa di quella che gli Achuar riconoscono loro. Proprio come per gli Indiani, gli animali vivono in comunità, nelle "lunghe capanne" che la tradizione situa nel cuore di alcune rapide o all'interno di colline ben localizzate. Essi coltivano orti di manioca, si spostano in piroga e si dedicano, sotto la guida dei loro capi, a dei rituali elaborati come quelli dei Makuna. La forma esteriore degli animali non è che un travestimento. Quando tornano nelle loro case, si spogliano del loro aspetto, rivestono l'abbigliamento di piume e ornamenti cerimoniali, visibilmente ritornano ad essere le "persone" che non avevano smesso di essere quando ondeggiavano nei fiumi e rovistavano nella foresta. Il sapere dei Makuna sulla doppia vita degli animali è contenuta negli insegnamenti degli sciamani, mediatori cosmici ai quali la società delega la gestione dei rapporti tra le diverse comunità del vi vente. Ma è un sapere i cui presupposti sono condivisi da tutti e che, nonostante siano in parte esoterici, struttura molto la concezione che i profani si fanno del loro ambiente e il modo con cui interagiscono con esso. Cosmologie analoghe a quelle degli Achuar e dei Makuna sono state descritte in gran numero nelle regioni boschive delle terre basse dell'America del Sud4 . Nonostante le differenze che si manifestano nella loro distribuzione interna, tutte queste cosmolo gie hanno come caratteristica comune quella di non operare delle marcate distinzioni ontologiche fra gli umani da una parte e un buon numero di specie animali e vegetali dall'altra. La maggior parte delle entità che popolano il mondo sono legate le une alle altre in un vasto continuum animato da principi unitari e governato da uno stesso re gime di sociabilità. I rapporti tra umani e non-umani appaiono infatti come rapporti fra comunità, in parte definiti dai vincoli utilitari della sussistenza, ma che possono acquisire una forma specifica in ogni tribù e servire così a differenziarle. Lo dimostra bene l'esempio degli Yukuna, un gruppo di lingua arawak che è adiacente ai Makuna in Amazzonia colombiana 5 . Proprio come i loro vicini dell'insieme linguistico tucano, gli Yukuna hanno sviluppato delle associazioni preferenziali con alcune specie animali e con alcune varietà di piante coltivate che servono loro come alimento privilegiato, poiché la loro origine mitica e, per gli animali, le loro case comuni si trovano entro i confini del territorio tribale. È agli sciamani locali che spetta il compito di supervisionare la rigenerazione rituale di queste specie, che sono invece escluse presso le tribù tucane che circondano gli Yukuna. Così, ad ogni gruppo tribale spetta la responsabilità di vegliare sulle popolazioni specifiche di piante e di animali delle quali si nutrono. Questa è una 4 Brown, M.F.,1986; Chaumeil, J.-P., 1983; Grenand, P., 1980; Jara, F., Van der Hammen, M. C., 1992, Viveiros de Castro, E., 1992; Weiss, G., 1975. Per concetti simili fra gli amerindiani della costa paci fica della Colombia, vedere Isacsson, S.-E., 1993. 5 Van der Hammen, M.C., 1992, p. 334.
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I. Aspetti di continuità
divisione dei compiti che contribuisce a definire l'identità locale e il sistema di relazioni interetniche in funzione del rapporto con insiemi specifici di non-umani. Se la sociabilità degli uomini e quella degli animali e delle piante è intimamente connessa in Amazzonia, è perché le rispettive forme di organizzazione collettiva sono scaturite da un modello piuttosto flessibile, che permette di descrivere le interazioni tra i non-umani servendosi di categorie definite che strutturano i rapporti tra gli umani e che rappresentano alcuni rapporti tra gli umani mediante relazioni simbiotiche tra le specie. In quest'ultimo caso, più raro, la relazione non è designata o qualificata in modo esplici to e le sue caratteristiche sono conosciute da tutti per il fatto che c'è un sapere botanico e zoologico condiviso. Presso i Secoya, per esempio, si pensa che gli Indiani morti per cepiscano i viventi sotto forma di due personificazioni contrastanti: vedono gli uomini come degli uccelli oropendole e le donne come dei pappagalli amazzonici6. Organiz zando la costruzione sociale e simbolica delle identità sessuali, la dicotomia si appoggia su caratteristiche etnologiche e morfologiche proprie delle due specie, la cui funzione classificatoria diviene in tal modo garantita, poiché sono le differenze dell'aspetto e del comportamento tra i non-umani che sottolineano una differenza anatomica e psicologi ca fra gli umani. Al contrario, gli Yagua dell'Amazzonia peruviana hanno elaborato un sistema di categorizzazione delle piante e degli animali fondato sulle relazioni tra le spe cie a seconda che queste siano definite con diversi gradi di consanguineità, per amicizia o per ostilità7 • Cuso di categorie sociali per definire i rapporti di prossimità, di simbiosi o di competizione tra le specie naturali è qui molto interessante poiché è largamente ap plicato al regno vegetale. Ad esempio si può notare come i grandi alberi mantengano una relazione di ostilità: si sfidano a duelli fratricidi per vedere colui che cederà per primo; è una relazione di ostilità anche quella che prevale tra la manioca amara e la manioca dolce, poichè la prima cerca di contaminare la seconda con la sua tossicità. Le palme, in compenso, mantengono dei rapporti più pacifici, una parentela di terzo grado sia di zio che di cugino, a seconda del livello di somiglianza delle specie. Gli Yagua - come gli Jivaro Aguaruna8 - interpretano anche la somiglianza morfologica tra le piante selvati che e le piante coltivate come indice di una relazione fra fratelli, senza pretendere, a chi la possiede, che questa similitudine sia l'indice di un antenato comune alle due specie. La diversità degli indici di classificazione, impiegata dagli Arnerindiani per presentare le relazioni tra gli organismi, indica sufficientemente la plasticità dei limiti all'interno della tassonomia del vivente. Infatti le caratteristiche attribuite alle entità che popolano il cosmo non dipendono tanto da una definizione preliminare della loro essenza quanto da posizioni relative che occupano le une rispetto alle altre in funzione delle esigenze del loro metabolismo, e soprattutto del loro regime alimentare. [identità degli umani, viventi e morti, delle piante, degli animali e degli spiriti è completamente relazionale e quindi, secondo i punti di vista adottati, soggetta a mutazioni o a metamorfosi. In molti casi, infatti, si dice che un individuo di una specie percepisce i membri di altre specie 6 7 8
Belaunde, LE., 1994. Chaumeil, B., Chaumeil, J.-P., 1992. Berlin, B., 1977.
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Oltre natura e cultura in funzione di criteri suoi propri, di modo che un cacciatore, in condizioni normali, non si accorgerà che la sua preda animale vede se stessa come un umano, né che vede il cacciatore come un giaguaro. Allo stesso modo, il giaguaro vede il sangue che lecca come la birra di manioca; l'uccello cassico crede di cacciare la scimmia ragno che per l'uomo non è che una cavalletta e il serpente pensa di predare i tapiri che in realtà sono degli umani9 • È grazie allo scambio permanente dell'aspetto provocato da questi spostamenti di prospettiva che gli animali si considerano esattamente dotati degli stessi attributi culturali degli umani: le loro creste sono per loro delle corone di piume, la loro pelliccia un vestito, il loro becco una lancia o i loro artigli dei coltelli. La giostra percettiva delle cosmologie amazzoniche genera un'ontologia, a volte chiamata con il nome di "prospet tivismo"10, che nega agli umani la possibilità di avere una prospettiva che sappia vedere le cose da lontano affermando che molteplici esperienze del mondo possano coesistere senza contraddirsi. Contrariamente al dualismo moderno, che ostenta una molteplicità di differenze culturali sulla base di una natura immutabile, il pensiero amerindiano vede un cosmo unico animato da uno stesso sistema culturale che si diversifica, non per delle nature eterogenee, ma per i modi diversi di vedersi l'un l'altro. Il punto di riferimento comune alle entità che abitano il mondo non è quindi l'uomo in quanto specie, ma l'umanità in quanto condizione. Lincapacità ad oggettivare la natura, come sembra accada per numerosi popoli dell'Amazwnia, potrebbe essere una conseguenza delle proprietà del loro ambiente? Gli ecologi definiscono infatti la foresta tropicale come un ecosistema "generalizzato", caratte rizzato da una grande diversità di specie animali e vegetali combinate ad un'esigua quan tità di individui e ad una grande dispersione sul territorio di ogni specie. Così, su circa cinquantamila specie di piante vascolari che sono presenti in Amazzonia, non più di una ventina si presentano spontaneamente in popolamenti raggruppati e si tratta spesso di un raggruppamento causato involontariamente dall'azione umana11. Immersi in una mostruo sa pluralità di forme di vita raramente riunite in insiemi omogenei, gli indiani della foresta avrebbero potuto rinunciare ad abbracciare come un'unità il conglomerato irregolare che sollecita permanentemente le loro facoltà sensibili. Cedendo inevitabilmente al miraggio del diverso, non avranno saputo, dunque, dissociarsi dalla natura, non essendo stati capaci di discernere la sua unità profonda dietro la molteplicità delle sue manifestazioni singolari. È a un'interpretazione di questo tipo che invita l'osservazione un po' enigmatica di Claude Lévi-Strauss: la foresta tropicale è il solo ambiente che permette di attribuire 9 Per altri esempi simili, Rivière, P., 1994. 10 Lima, T.S., 1996; Viveiros de Castrao, E., 1996. 11 Lavori recenti di ecologia storica hanno stabilito che l'orticoltura itinerante sui terreni debbiati e la silvicoltura, praticata durante più millenni dalle popolazioni autoctone dell'Amazzonia, comportano trasformazioni profonde nella composizione fìoristica della foresta, contribuendo soprattutto a favorire la concentrazione di alcune specie non addomesticate o domestiche che sono tornate allo stato selvatico; le più comuni sono alcune specie di palme ( Orbignya phalerata, Bactris gasipaes, Mauritiaflex11osa, Maximiliana sp. Astrocaryum sp.) e alberi da frutta commestibile (Bertholletia excelsa, Platonia insignis, lheobroma sp., diverse specie di Inga). Sembra anche che il boschetto dei bambou (del genera Guadua) e le "foreste di liane" siano spesso di origine antropica. Vedere Balée, W., 1989, 1993.
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caratteristiche idiosincratiche ad ogni membro di una specie 12 • La differenziazione di ogni individuo in un tipo specifico - che Lévi-Strauss chiama "mono-individuale" - è certamente propria dell'Homo sapiens, poiché è la sua capacità di sviluppare la propria personalità che permette di avere la vita sociale. Tuttavia, l'estrema abbondanza delle specie animali e vegetali offre comunque un supporto a questo processo di singolarizza zione. All'interno di un luogo così diversificato come la foresta amazzonica, forse è inevi tabile che la percezione delle relazioni tra gli individui, apparentemente tutti differenti, primeggi sulla costruzione di macro-categorie stabili e mutualmente esclusive. È un'interpretazione fondata sulle specificità del luogo anche quella di Gerardo Reichel Dolmatoff quando difende l'idea che la cosmologia degli indiani Desana dell'Amazzonia colombiana costituisce una sorta di modello descrittivo dei processi di adattamento ecolo gico formulato analogamente all'analisi sistemica moderna 13 • Secondo Richel-Dolmatoff, i Desana concepiscono il mondo come un sistema omeostatico dentro al quale la quantità di energia dispensata, l'output, è direttamente legata alla quantità di energia ricevuta, l'in put. :Capprovvigionamento di energia della biosfera proviene da due sorgenti principali: la prima è l'energia sessuale degli individui, repressa regolarmente da proibizioni ad hoc, che restituisce direttamente energia al capitale energetico globale irrigando tutte le componen ti biotiche del sistema; la seconda è lo stato di sanità e di benessere degli umani che risulta da una consumazione alimentare strettamente controllata, da cui deriva l'energia necessa ria per gli elementi abiotici del cosmo (è questo che permette, per esempio, il movimento dei corpi celesti). Ogni individuo sarebbe quindi cosciente di non essere che un elemento di una rete complessa di interazioni che si dispiegano non solamente nella sfera sociale, ma anche nella totalità di un universo tendente alla stabilità, ovvero le cui risorse e limiti sono finiti. Questo dà a tutti delle responsabilità di ordine etico, soprattutto quella di non perturbare l'equilibrio generale di questo sistema fragile e di non usare mai l'energia senza restituirla rapidamente grazie a diversi tipi di operazioni rituali. È comunque lo sciamano che gioca il ruolo principale nella ricerca di un'omeostasi perfetta. Innanzi tutto interviene costantemente nelle attività di sussistenza per assicu rarsi che queste non mettano in pericolo la riproduzione dei non-umani. Poi lo sciama no controllerà personalmente la quantità e il grado di concentrazione di veleno vegetale preparato con la tecnica "pesca per avvelenamento" in una parte del fiume oppure deter minerà il numero di individui che possono essere uccisi quando una mandria di pecari è localizzata. Meglio ancora, i rituali che accompagnano le attività di sussistenza sarebbero delle occasioni offerte allo sciamano per «fare l'inventario delle riserve, valutare i costi e i benefici, e operare una ridistribuzione delle risorse»; in queste circostanze, «il bilancio dello sciamano presenta l'insieme delle entrate e delle uscite di energia nel sistema» 14 • Ci possiamo interrogare sulla validità di tale trasposizione che fa dello sciamano il sag gio gestore di un ecosistema e fa dell'insieme delle credenze religiose e dei rituali una forma 12 Lévi-Strauss, Cl., 1962, p. 284. u Reichel-Dolmatoff, G., 1976. " Ibid., p. 316, mia traduzione; salvo esplicita segnalazione, tutte le citazioni in lingua straniera fatte nel resto sono state tradotte da me. Se non segnato in nota la traduzione è del traduttore, n.d.t.
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Oltre natura e cultura
di trattato di ecologia pratica. Infatti, l'applicazione cosciente dello sciamano di una sorta di calcolo di ottimizzazione delle risorse rare, se corrispondesse ad alcuni modelli neo darwiniani impiegati nell'ecologia umana, sarebbe difficile da conciliare con il fatto che i Desana, come i Makuna dei quali sono i vicini, dotano del resto gli animali e le piante della maggior parte degli attributi che riconoscono a sé stessi: di conseguenza non è chiaro come questi partner sociali degli umani possano improvvisamente perdere, in alcune circostanze, il loro statuto di persona per essere trattati niente di più che come semplici unità contabili da suddividere nel bilancio energetico. Non c'è dubbio che gli indiani dell'Amazzonia abbiano un'ottima conoscenza empirica delle interrelazioni complesse tra organismi nel loro ambiente e che impieghino questa conoscenza nelle loro strategie di sussistenza. Non c'è nemmeno dubbio che si servano delle relazioni sociali, soprattutto di parentela, per definire tutta una gamma di interrelazioni tra organismi non umani. Sembra in compenso improbabile che queste caratteristiche possano derivare dall'adattamento a un ecosistema particolare, il quale, per le sue proprietà intrinseche, avrebbe in qualche modo fornito il modello analogistico che permette di pensare l'organizzazione del mondo. Lesistenza di cosmologie molto simili elaborate da popoli che vivono all'interno di uno spazio completamente differente, a più di 6000 km a nord dell'Amazzonia, è la principale prova contro raie interpretazione. A differenza degli Indiani della foresta tropicale sudamericana, gli Indiani della regione subartica del Canada sfruttano infatti un ecosistema notevolmente uniforme. Dalla penisola del Labrador fino all'Alaska, la grande foresta boreale presenta un mantello continuo di conifere dove predomina la silhouette tipica della spinetta nera, interrotta ad intervalli da qualche bosco di ontani, di salici, di betulle o di pioppi balsamici. Gli animali variano a malapena: alci e caribù tra gli erbivori; castori, porcospini e topi muschiati tra i roditori; lupi, orsi bruni, linci e ghiottoni tra i carnivori, tutti questi formano il grosso gruppo dei mammiferi. A questi si aggiunge una ventina di specie comuni di uccelli e una decina di pesci; questi ultimi fan no una pallida figura comparati alle 3000 specie che sono ospitate nei fiumi dell'Amaz zonia. Spesso migratori, questi animali possono non essere avvistati in alcuni luoghi per diversi anni e, quando infine appaiono caribù, oche o storioni, sono in quantità così notevoli che sembra che tutti gli individui della specie si siano riuniti per un momen to. Insomma, le caratteristiche della foresta boreale sono esattamente opposte a quelle della foresta amazzonica: poche specie coesistono nello stesso ecosistema "specializzato" ed ogni specie è rappresentata da un gran numero di individui. E quindi, nonostante l'omogeneità apparente del loro spazio ecologico - nonostante anche la loro impotenza verso le carestie che sono generate regolarmente dal clima estremamente rigoroso -, i popoli sub-artici non sembrano considerare il loro ambiente come uno spazio della real tà decisamente lontano dai principi e dai valori che reggono la vita sociale. Nel Grande Nord come in America del Sud, la natura non si oppone alla cultura, ma la prolunga e la arricchisce all'interno di un cosmo dove tutto si ordina su misura dell'umanità 1 ;_ 15 Le informazioni etnografiche relative alla concettualizzazione e al trattamento dei non-umani, so prattutto gli animali, sono particolarmente ricche per i gruppi che parlano le lingue algonquin - i Cree del Labrador e del sud est della baia di Hudson e Ojibwa settentrionale-, ma coincidono essenzialmente i dati
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Molte caratteristiche del paesaggio, prima di tutto, sono dotate di una personalità propria . Identificate con uno spirito che le anima di una presenza discreta, i fiumi, i laghi e le montagne, il tuono e i venti pr eval enti, l'embacle e l' al ba sono alt rettante ipo stasi ritenute sensibili alla libertà di par ola e alle a zion i degli uomini . M a è soprattutto nella concezione del mondo animale che gli indiani della foresta boreale canadese ma nifestano una grande convergenza . M algr ado la differenza di linguaggio e di a ffi l ia zion i etniche, uno stesso complesso di credenze e di riti governa ovunque la relazion e del cacciatore con la selvaggina . Come in Am a zzon ia, la maggior part e degli animali son o pensati come persone dotate di un'anima e questo conferisce loro attributi esatta mente identic i a qu elli degli umani, come la coscienza riflessiva, l'inten zionalità, la vita a ffetti va o il rispetto dei precetti etici . I gruppi Cree sono particolarm ente esplic iti in questo ca mpo. Secon do loro, la socia bilità degli a nimali è assimila bile a quella degli u omini e si ali menta delle stesse risorse: la soli dari e tà, l' amicizia e il ris pe tto degli anzian i, in questo caso gli spiriti invisibil i che presiedono alle migrazioni della selvaggina gest iscono la sua dispersione territoriale e si occupa no della sua rigenerazione . Se gli animali s i differen ziano dagli uomini, è qu indi solamente per l'aspetto esterio re, una semplice illusione dei sens i dat o che i rivestimenti corporali che vest ono solitamente non s o no che dei trave s ti menti desti nati ad ingannare g li Indiani . Qu ando visitano q uesti ultimi nei sogni, gli animali si rivelano come so no in realtà, c io è sotto la loro fo r ma umana, lo stesso a ccade quando il loro spirito si esprime pubblicamente durante un r ituale detto della "tenda tre molante" 1 6 e parlano nella lingua indigena . Ri s petto ai miti molto co muni che mettono in scena l'unione tra un a nimale e un u omo O una donna, essi non fanno che confer mare l'uniformità della natu ra deg li uni e degli altri: ta le union e s a r ebbe impo ssibile, si dice, se un sentimento dolce non avesse sigillato gli occhi del pa rtn er umano, permettendogli di vedere, sotto gli orpelli animali, la vera figura di un ama nte desider abile . Avremmo torto nel vedere in questa umanizzazione degli a nimali un semplice gioco della mente, un tipo di linguaggio metaforico la cui pertinenza non va molto oltre le circo stanze proprie della realizzazione di riti o della narra zione dei miti . Ugu almente, quando parliamo in termini molto prosa ici dell'inseguimento, dell'uccis ione e della consumazione della selvaggina, gli Indiani esprimono senza ambiguità l'idea che la cac cia sia un'intera zione sociale con entità perfettamente coscienti delle convenzio ni che la regolano 17 . Qui, più eterogenei di cui si dispone p er le tr ibù dell'i nsieme at hakapaskan c he si di spi e ga dal nord ov est della baia di Hudson fi no al versante pacifi co delle M onta gne Rocci ose e a ll'Al a s ka . Per gli Alg onquins, v edere Brightm an, R. 1993; Désveaux, E., 1988; Fe it,H., 1973;Leacko ck, E., 1954; Lips, J., 1947; Sp eck, F.G ., 1935; Tanner, A., 1979; per gli Ath apaskan, vedere Nelson, R.K., 1983; Osg ood, C ., 1936. 16 li ritual e della "tenda tremo lante" (shaking lodge, in inglese) è c om une a tutta l' area algonquina subarti ca. Un uomo di esperienza, sp esso uno sciamano, si racch iude al buio socco una ce ccoia creata per la circostanza dove invoca con i suoi canti gli spiriti animali; venendo a visitarlo, questi ultimi fanno tremolare il fra gile edi ficio. Durante tutta la durata della cerimonia, gli sp iriti parlano tra di loro, con il celebrante e con il pubblico seduto cucco incorno alla tenda, sia in una lingua sconosciuta, sia in u n in c omprens ib ile lingua ggio se nza senso di cui il medium si fa interprete (vedere Désveaux, E., 1995, e Brighcm a n, R., 1993, PP· 170-176). 17 Vedere Scotc, C., 1989; T rig hcman, R., anner, A., 1979, pp. 130 e 13 6; Spec k, F.G., 1935, p. 72, e B 1993, p. 3.
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Oltre natura e cultura come nella maggior parte delle società dove la caccia gioca un ruolo importante, è mo strando rispetto agli animali che ci si assicura la loro complicità: bisogna evitare gli spre chi, uccidere opportunamente e senza sofferenze inutili, trattare con dignità le ossa e la spoglia, non cedere alla millanteria né evocare troppo chiaramente le sorti riservate alle prede. Così, le espressioni che designano la caccia fanno raramente riferimento al suo fine ultimo, l'uccisione; come gli Achuar dell'Amazzonia che parlano in termini vaghi di "partire per la foresta", di "portare a passeggiare i cani" o ancora di "soffiare agli uccelli" (per la caccia con la cerbottana), allo stesso modo gli indiani Montagnais dicono di "andare a prendere", per la caccia con il fucile, o "andare a vedere", per verificare le trap pole 18 . Come in Amazzonia, inoltre, è comune che il giovane cacciatore che uccide per la prima volta un animale di una certa specie gli riconosca un trattamento rituale. Presso gli Achuar, per esempio, il giovane si rifiuta di mangiare la selvaggina che ha riportato, poiché la relazione ancora fragile stabilita con la nuova specie si romperebbe comple tamente se venisse meno a tale ritegno; in questo caso i simili dell'animale scappereb bero ogni volta che il giovane si avvicinasse. È lo stesso principio che presso gli Ojibwa dell'Ontario sembra stabilire il comportamento del cacciatore novizio: consumerà sicu ramente la sua preda in compagnia degli uomini del suo gruppo, ma durante un pasto cerimoniale che si conclude con una sorta di rituale funerario dato ai resti dell'animale 19 • Oltre a queste considerazioni, comunque, i rapporti con gli animali possono esprimersi in registri più specifici come per esempio la seduzione che rappresenta la selvaggina con l'immagine di un amante, o la coercizione magica che annienta la volontà della preda e la spinge ad avvicinarsi al cacciatore. Ma la più comune di queste relazioni, quella che sottoli nea al meglio la parità tra gli uomini e gli animali, è il legame di amicizia che un cacciatore intreccia nel tempo con un singolo membro di una specie. Lamico silvestre è percepito come un animale da compagnia e serve da intermediario con i suoi simili affinché si espon gano senza lamentarsi in modo da essere sotto tiro; un piccolo tradimento, forse, ma senza conseguenze per i membri della specie, la vittima del cacciatore si rincarna poco dopo in un animale della stessa specie se la sua spoglia riceve il trattamento rituale prescritto. Quindi, quali che siano le strategie impiegate per incoraggiare un animale ad esporsi al cacciatore, è sempre per effetto di un sentimento di generosità che la preda si consegna a colui che la mangerà. La selvaggina è mossa dalla compassione che prova per le sofferenze degli umani, esseri esposti alla scarsità e che dipendono da lei per la loro sopravvivenza. Lontano dal ridursi ad un'episodica manipolazione tecnica di uno spazio naturale autonomo, la caccia è qui un dialogo continuo durante il quale, come scrive Tim lngold, «le persone umane e gli animali si costituiscono reciprocamente con le loro identità e le loro finalità particolari» 20 • Ancora più al Nord, in quei luoghi quasi abbandonati dalla vita che solo i popoli di lingua eskimo hanno saputo abitare, sembra prevalere una percezione identica dei rapporti ali'ambiente21 • Uomini, animali e anime sono coincidenti, e se i primi possono Comunicazione personale di Daniel Clémenr. Désveaux, E., 1995, p. 438. 20 lngold, T., 1996, p. 131. 21 Blaisel, X., 1993; Fienup-Riordan, A. 1990; Saladin d'Anglure, B., 1990 e 1088. 18 19
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nutrirsi dei secondi grazie alla benevolenza delle ultime, è perche la selvaggina si offre a quelli che la desiderano veramente, proprio come accade presso i Cree. I riti della caccia e della nascita inuit testimoniano che le anime e i corpi, tanto rari e preziosi, circolano senza tregua fra i differenti componenti della biosfera definibili grazie alle loro posizioni relative e non grazie ad un'essenza stabilita per tutta l'eternità: come è necessaria della selvaggina per creare degli umani- come alimenti, certo, ma anche perché l'anima delle foche arpionate rinasca nei bambini-, così sono necessari degli umani per creare alcuni animali - i resti dei defunti sono abbandonati ai predatori, la placenta è offerta alle foche e a volte l'anima dei morti ritorna verso lo spirito che regola la selvaggina marina. Come confida lo sciamano Ivaluardjuk a Rasmussen, «il più grande pericolo dell'esistenza viene dal fatto che il cibo degli uomini è completamente fatto di anime» 22 • Se gli animali sono persone, infatti, mangiare è una forma di cannibalismo che solo lo scambio permanente delle sostanze e dei principi spirituali tra i principali attori del mondo permette, in una certa misura, di attenuare. Questo genere di dilemma non è proprio solo degli abitanti del Grande Nord, ma molte delle culture amerindiane si raffrontano allo stesso proble ma: come impossessarsi della vita di un altro che è dotato dei miei stessi attributi senza che tale atto distruttivo comprometta i legami di connivenza che ho saputo stabilire con la comunità dei suoi simili? Difficile questione alla quale la nostra tradizione umanista non ha saputo approcciarsi in questi termini e sulla quale tornerò nel corso di questo lavoro. Dalle foreste lussureggianti dell'Amazzonia alle lande ghiacciate dell'Artico canadese, alcuni popoli percepiscono la loro presenza nell'ambiente in un modo molto differente dal nostro. Non si pensano come collettivi sociali che gestiscono le loro relazioni in un ecosistema, ma come semplici componenti di un insieme più vasto nel quale nessuna discriminazione effettiva è stabilita tra umani e non-umani. Sicuramente esistono delle differenze tra tutte queste disposizioni cosmologiche: così, a causa dello scarso numero di specie viventi nelle latitudini più settentrionali, la rete delle interrelazioni tra le entità che abitano la biosfera non è così ricca e complessa per gli Amerindiani del Nord come quella degli Amerindiani del Sud. Ma le strutture di queste reti sono analoghe in tutto, così come le priorità imputate ai loro elementi, fatto che sembrerebbe escludere che l'ecologia simbolica degli indiani dell'Amazzonia possa provenire da un adattamento locale ad un ambiente più diversificato. Si tratterebbe quindi di una particolarità americana? I..:etnologia e l'archeologia rive lano giorno dopo giorno che l'America indiana una volta formava una totalità culturale originale la cui unità è ancora percettibile anche a seguito delle frammentazioni indotte dalla storia coloniale. Lo testimoniano molto chiaramente i miti, le cui variazioni pog giano su un substrato semantico omogeneo, delle quali è facile immaginare che pro vengano da una visione del mondo comune, forgiata nel corso di movimenti millenari di idee e di popolazioni. Di questa storia precolombiana, molto più lunga di quanto si immaginasse una volta, sappiamo davvero poche cose. Di conseguenza l'etnografia mo22
Rasmussen, K., 929, p. 56.
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Oltre natura e cultura evo al quale sa derna non può rivelarci altro se non cronache sconclusionate del «Medio 23 rebbe mancata la propria Roma», per riprendere la formula di Lévi-Strauss , un piccolo residuo di un antico scenario condiviso i cui elementi furono combinati qua e là in modi molto diversi. Potrebbe essere vero che un certo modo di rappresentare le relazioni tra umani e non-umani risulti da questo antichissimo sincretismo che affiora fino ai nostri giorni all'interno di uno schema panamericano? Seducente che possa sembrare, l'ipotesi di un'originalità americana non passa l'esa me. Infatti basca attraversare la stretto di Bering, andando in senso contrario rispetto alle migrazioni che portarono gli antenati delle attuali popolazioni amerindiane dalla Siberia orientale fino all'Alaska, per accorgersi che i popoli di cacciatori della Taiga for mano le loro relazioni con l'ambiente in modo molto simile24 • Presso i Tungusi come presso i Samoiedi, gli Xant e i Mansi, si ritiene che tutta la foresta sia animata da uno spirito, generalmente raffigurato come un grande cervo, ma suscettibile a manifestarsi sotto una molteplicità di incarnazioni; esso risiede soprattutto negli alberi e in alcune rocce. D'altronde, gli alberi possono anche avere un'anima propria o costituire il dop pione vegetale di un umano, fatto che spiega l'impossibilità di tagliare le giovani piante. Chiamato "Ricca-Foresta" in lingua buriaca, lo spirito del bosco possiede due personifi cazioni: uno positivo che dà la selvaggina agli uomini e allontana le loro malattie; l'altro, spesso presentato come il figlio o il cognato del primo, diffonde invece sfortuna e morte, e si occupa di cacciare l'anima degli umani per divorarla. L'ambivalenza della "Ricca Foresca" - che caratterizza anche le figure del "Maestro della selvaggina" nell'America indigena - impone agli uomini di aumentare le precauzioni nei loro rapporti con gli animali selvaggi sui quali questa figura sdoppiata esercita la sua tutela. Gli animali stessi possiedono un'anima, nel suo principio identica a quella degli umani, vale a dire un principio autonomo dal sostegno materiale, che permette allo spirito della selvaggina di vagabondare, soprattutto dopo la sua morte, e di assicurarsi presso i suoi simili che sarà vendicato, se necessario. L'organizzazione sociale degli ani mali è in effetti simile a quella degli uomini: la solidarietà tra i membri di una specie è assimilata ai doveri di assistenza tra membri di uno stesso clan, tanto che i rapporti tra le specie sono descritti come relazioni tra tribù. Tra gli animali da pelliccia, alcuni indi vidui esercitano un controllo sui loro compagni di cui essi sono i "maestri"; più grandi e più belli, incarnano al meglio i tratti caratteristici della specie che rappresentano e sono quindi gli interlocutori privilegiaci dei cacciatori che li pregano di concedere alcuni dei loro congeneri. Presente anche nell'America indigena 25, questa figura di prototipo con tribuisce a differenziare la gerarchia di ogni comunità animale, come se fosse necessario che esistesse tra gli spiriti maestri e la moltitudine della selvaggina un intermediario con una posizione identica a quella del cacciatore con il quale le negoziazioni possano svolgersi alla pari. Lévi-Strauss, Cl., 1964, p. 16. Per la Siberia, ho utilizzato la notevole sintesi di R. Hamayon, 1990; vedere anche Lot-Falck,É., 1953; Paulson,I., Hultkrancz, A., e Jettmar, K., 1965; Zilenin, D., 1952. 25 Brightman, R., 1993, p. 91 per l'area subartica, e Descola, Ph., 1986, pp. 321-322 per l'Amazzonia. 23
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Infatti le relazioni delle popolazioni siberiane con il mondo animale sono diversifica te secondo le parti interessate. La caccia ai grandi cervidi - soprattutto le renne selvati che e le alci - implica un rapporto d'alleanza con lo Spirito della foresta presentato come un donatore di donne. Accoppiandosi nei suoi sogni con le figlie di questo, il cacciatore ottiene quest'alleanza e guadagna il diritto a ricevere i benefici di suo suocero. Per sim bolico che possa sembrare, questo legame di parentela non è affatto considerato irreale: a causa della facoltà attribuita all'anima di poter viaggiare durante il sonno, l'unione con le figlie dello Spirito della foresta prende quasi l'aspetto di una relazione fra persona e persona. E dato che non bisogna provocare la gelosia delle ragazze della "Ricca-Foresta", gli uomini si asterrebbero da ogni rapporto sessuale con le loro spose umane prima di andare a caccia. Per mantenere la generosità del suocero o degli spiriti donatori di sel vaggina, alla loro invisibile presenza, la sera si raccontano lunghe imprese eroiche di cui sono tanto appassionati, mentre le spirali di tabacco fumato dagli uomini va a solleticare piacevolmente le loro impalpabili narici. Con gli altri animali come i cervi, i rapporti di alleanza sono infatti inefficaci e deve essere preso ogni tipo di precauzione per non inimicarseli per sempre. Si può iniziare con uno stratagemma: ad esempio attribuire ad alta voce la responsabilità della morte di un animale, che si è appena ucciso, ad un membro di un'altra tribù o, meglio ancora, mantenere l'incognito durante la caccia portando una maschera. Come in America, la moderazione nel prelievo, la dissimulazione delle intenzioni, la censura sul nome dell'animale o l'uso di eufemismi per designare la sua messa a morte sono regole inevi tabili, se non si vuole incorrere nella vendetta della preda o dei suoi rappresentanti. Per ragioni analoghe, il trattamento adeguato della spoglia riveste altrettanta importanza nel Subartico canadese: la vita continua fino a quando le ossa esistono, in modo che dispo nendo lo scheletro intatto dell'animale nella foresta su piccole cataste, il suo cranio e, a volte, i suoi organi genitali, si assicura che la sua anima ritorni al deposito collettivo della sua specie e così si darà ad un altro individuo la possibilità di nascere. Poiché lo sviluppo corporale non è che pura apparenza, cioè un abito transitorio che si ricostituisce a par tire dal!' armatura ossea, il cacciatore non distrugge la preda, ma si contenta di prelevare la sua carne per consumarla. Del resto, prima di essere deposto nella foresta, il cranio del!'animale sarà portato a casa e sistemato nel posto d'onore. Alla presenza dei parenti e dei vicini invitati in tale circostanza, si organizza una festa in onore della sua anima, scandita da ringraziamenti cerimoniali e da inviti a ritornare presso i suoi simili in modo da incitarli a rendere visita a loro volta agli umani. Tuttavia, affinché lo scambio sia veramente alla pari, bisogna rendere all'animale ciò che gli è stato sottratto, in questo caso la carne. Questo si può fare in due modi. Come accade presso gli Inuit, i defunti prima di tutto sono esposti su una piattaforma lontana dalle case affinché i loro resti siano mangiati dai predatori, oppure si possono nutrire gli animali anche in modo più diretto raccogliendo i piccoli delle specie selvagge e prov vedendo ai loro bisogni. Presso i popoli mongoli questi animali domestici si chiamano ongon, nome che si dà anche alle statuette raffiguranti generalmente degli animali e che si dice servano da intermediari presso lo Spirito della foresta per favorire la caccia.
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Oltre natura e cultura Custodite a casa, queste figure devono essere trattate con riguardo, allietate con discorsi piacevoli e soprattutto nutrite in modo regolare. Si spalmano quindi di grasso e sangue e si dispongono dei pezzi di carne nella cavità che rappresenta la bocca o in tasche create apposta. Nutrendo i vari tipi di ongon, i cacciatori si conciliano i favori e allo stesso tem po pagano il loro debito verso gli animali cacciati. Rispetto a questi ultimi, giorno dopo giorno possono assicurarsi che, grazie ai loro delegati domestici, gli umani ripaghino gli obblighi con puntualità. Quindi in Siberia come in America, molte popolazioni sembrano ribellarsi all'idea di una separazione netta tra il loro ambiente fisico e il loro ambiente sociale, questi due domini, che di solito noi distinguiamo, non sono per loro che sfaccettature, a malapena in contrasto, di un continuum di interazioni tra le persone, cioè umani e non umani. Grande affare, diremo! LAmerica e l'Asia orientale non fanno parte dello stesso filone culturale? Le popolazioni che attraversarono lo stretto di Bering nel Pleistocene non si portarono tutto un bagaglio di idee e di tecniche, forse fecondato e arricchito da ulteriori ondate migratorie? Non è sorprendente trovarne da allora in poi tracce qua e là, dalla Siberia alla Terra del Fuoco. Non è nuova la tesi di una diffusione dall'Asia centrale di alcune caratteristiche mate riali e ideologiche delle culture amerindiane. Ed è anche parzialmente fondata. Dall'ini zio del XX secolo i lavori della spedizione di Jesup avevano stabilito l'esistenza di una vera civiltà del Pacifico Nord, di cui le testimonianze archeologiche attestano l'unità, che è risultata da molti millenni di movimenti di popolazione e di scambi intensi all'interno di una vasta regione sulla Beringia e che si estende dalla costa sud del mare di Okhotsk fino all'isola di Vancouver26 • Niente impedisce quindi che le istituzioni sociali e le cre denze forgiate nel crogiolo del Pacifico Nord si siano disseminate molto a sud dell'attua le Canada, soprattutto nella caratteristica che più si associa alla Siberia orientale, cioè lo sciamanesimo. Ricordiamoci che il termine çaman proviene dal tunguso e che le prime descrizioni delle trance sciamaniche furono segnalate dal XVII secolo dai russi che avevano viag giato nella Siberia orientale27 • Impadronendosi del termine nei primi decenni del XX secolo, l'etnologia ha avuto la tendenza ad unificare sotto una stessa categoria descrittiva un insieme di tratti individuati originariamente in Siberia, ma ritenuti presenti nelle "religioni primitive" di altre regioni del mondo, in particolare in America: lo sciamano sarebbe un mediatore tra gli umani e gli spiriti, con i quali entrerebbe in comunicazione quando lui voglia grazie ad un viaggio dell'anima - trance o sogno - che gli permette rebbe di sollecitare la loro partecipazione in modo da prevenire o alleviare la sfortuna degli uomini. Alcuni autori hanno voluto vedere nello sciamanesimo una vera e propria concezione del mondo, un sistema singolare d'interpretazione degli avvenimenti fon dato sull'alleanza tra gli uomini e le divinità28 , o ancora l'espressione di una simbologia
26 Leroi-Gourhan, A., 1946. 27 Perrin, M.,1995, pp. 9-12. 28 lbid., pp. 5-9.
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I. Aspetti di continuità
dello scambio con la natura, caratteristica dei popoli cacciatori29 • Se si adotta una tale prospettiva, molte delle similitudini sconcertanti nel modo in cui gli Amerindiani e i Si beriani concepiscono la loro relazione con l'ambiente potrebbero spiegarsi grazie ad una base sciamanica comune. L'attribuzione di anime alle piante e agli animali, le relazioni elettive con gli spiriti mediatori, gli scambi di cibo e di identità con i non-umani, tutto questo sarebbe, in definitiva, manifestazione di un sistema più generale di interpretazio ne e di risarcimento della sventura centrato intorno all'individuo che si ritiene possieda poteri particolari. Nato in Asia settentrionale, questo sistema si sarebbe in seguito dif fuso nelle due Americhe con gli immigrati arrivati dalla Siberia che danno così nascita a cosmologie in apparenza molti simili. Questa ipotesi diffusionista, sostenuta soprattutto da Mircea Eliade, implica più pre supposti, del resto in parte contraddittori30 • Fare dello sciamanesimo una forma di reli gione arcaica definita da qualche tratto tipico- presenza di individui che padroneggiano le tecniche di estasi e che comunicano con potenze soprannaturali che trasmettono loro dei poteri - suppone che si accordi alla persona e agli atti dello sciamano un ruolo smi surato nella definizione del modo in cui una società si sforza di dare senso al mondo. È come se si decretasse l'unità del bramanesimo, della religione greca e del cristianesimo con il pretesto che vi si trovi la figura centrale di un prete, strumento di una mediazione liturgica con il divino che mostra un sacrificio reale o simbolico. Ora, nell'America in diana almeno, la parte tenuta dagli sciamani nella gestione dei rapporti con le differenti entità che popolano il cosmo può essere del tutto trascurabile. Nell'area subartica come in molte società amazzoniche, le relazioni tra umani e non-umani sono prima di tutto relazioni fra persona e persona, intrattenute e consolidate durante l'esistenza di ognuno. I legami di connivenza individuali sfuggono spesso al controllo degli specialisti dei riti, i quali, anche se esistono, si limitano per lo più alla sola cura dei dolori corporali. È dunque avventuroso affermare che una concezione del mondo dominante possa essere il prodotto di un sistema religioso centrato su un'istituzione, lo sciamanesimo, i cui effetti sono a volte ristretti ad un settore limitato della vita sociale. La tesi diffusionista implica anche, al contrario, che la configurazione cosmologica, ordinariamente associata allo sciamanesimo, si dovrebbe attenuare e sparire nel momento in cui si allontana dalla zona geografica dove si sarebbe originata. A meno di considerare che qualunque forma di mediazione elettiva con entità soprannaturali dipenda dallo sciamanesimo, posizione assurda che farebbe di questo il substrato antico di tutte le religioni allo stesso tempo che un concetto perfettamente vuoto poiché, abbracciando troppi fenomeni differenti, non ne determinerebbe alcuno in modo significativo. Per premunirci contro le seduzioni di un diffusionismo ragionevole - cioè che non si estende alla totalità del pianeta-, bisogna allontanarci dall'ipotetico nucleo originario di ipotetiche civiltà sciamaniche. Superiamo quindi la Mongolia, la Cina e l'Indocina Hamayon, R., 1982. Eliade, M., 1968 (I 951), p. 226. Alfred Métraux avanza una spiegazione identica per rendere conto di alcuni tratti specifici dello sciamanesimo Auracano, all'estremo sud dell'America del Sud (Mérraux, A., 1967, pp. 234-235). 29
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per trasferirci a più di sei mila chilometri a sud della Siberia orientale, nella foresta tropicale umida della penisola malese. Là vive un insieme di gruppi etnici di lingua mon-khmer, chiamati collettivamente Orang Asli ("popoli aborigeni") dai Malesi. Ot tenendo il loro sostentamento dalla caccia con la cerbottana, dalla raccolta e dalla col tivazione itinerante con metodo "taglia e brucia" di piante addomesticate in origine in America tropicale, come la manioca o la patata dolce, non possono non evocare allo specialista dell'Amazzonia indigena molti tratti familiari: le stesse tecniche di uso esten sivo delle risorse, la stessa dispersione nell'ambiente, la stessa fluidità dell'organizzazione sociale. Ma è soprattutto nelle rappresentazioni delle relazioni che mantengono con le piante e gli animali che gli Orang Asli presentano le loro somiglianze più impressionanti con i popoli esaminati fino ad ora. Prenderò come esempio una piccola etnia dell'in terno della provincia di Pahang, Chewong, di cui l'ecologia simbolica è ben conosciuta grazie al lavoro di Signe Howell3 1 • La società chewong non si limita ai duecentosessanta individui che la compongono, si estende ben al di là delle frontiere oncologiche dell'umanità per inglobare una miriade si spiriti, di piante, di animali e di oggetti che si ritiene possiedano gli stessi attributi dei Chewong e che sono collettivamente designati da loro come "la nostra gente" (bi he). A dispetto della diversità delle apparenze, tutte le entità di questo cosmo forestale sono mescolate in una comunità intima ed egualitaria che si oppone globalmente al mondo esteriore, minaccioso ed incomprensibile, dove vive la "gente differente" (bi masigrz), Ma lesi, Cinesi, Occidentali o le altre popolazioni aborigene. In queste relazioni sature di vita sociale, gli esseri che condividono lo stesso ambiente si percepiscono come complemen tari e interdipendenti; la responsabilità etica di assicurare il buon andamento delle cose è collettivamente assunta ed è funzione degli atti di ognuno. Infatti la fedeltà ad un codice morale caratterizza il comportamento di tutti coloro che possiedono una coscienza rifles siva (ruwai), umani e non umani insieme. Se alcune piante e alcuni animali sono "gente" (beri) per i Chewong, è perché godono delle stesse capacità cognitive e morali di questi, ma anche i loro corpi, in alcune circostanze, possono sembrare identici a quelli degli uma ni. Il ruwai costituisce la vera essenza della persona e il suo principio di individuazione, il corpo non è che un abito di cui potersi sbarazzare temporaneamente, soprattutto al mo mento dei sogni. Quando il ruwai vaga, tuttavia, lo fa sottoforma di un'incorporazione fisica, altrimenti non potrebbe essere visto e riconosciuto dagli altri ruwai. Ora, se in un caso il ruwai degli umani si incarna sotto forma di un modello ridotto di corpo reale, una specie di omuncolo, il ruwai delle piante e degli animali si incarna invece in un corpo umano non in un "abito" della sua specie. Inoltre, anche se il ruwai di un umano non può abitare il corpo di un altro umano, ha la possibilità di assumere l'aspetto di una pianta o di un animale. Non solo le distinzioni tra natura, sopranatura e umanità non hanno alcun senso per i Chewong, ma la possibilità stessa di ritagliare il reale in categorie stabili divie ne illusoria, poiché non si è mai sicuri dell'identità della persona, umana o non umana, che si nasconde sotto !"'abito" di quella o quell'altra specie. 31 Howell, S., 1996, 1989 (1984).
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È quindi un attributo degli esseri che perdura, quali che siano le loro personificazioni, e che li distingue a loro insaputa in gruppi omogenei. Si ritiene che ogni classe di persone dotate di un ruwai percepisca il mondo a modo suo, secondo caratteristiche peculiari del proprio apparato visivo. Succede molto spesso, per esempio, che un Chewong nella foresta cada nella trappola messa da uno spirito per catturare un cinghiale, ma poiché i suoi occhi sono "caldi", a differenza di quelli degli spiriti che sono "freddi", non si renderà conto di ciò che gli è successo, salvo che ne sentirà sul corpo le conseguenze dolorose. Gli umani pertanto non sono svantaggiati poiché l'illusione è a doppio senso. Così una tipologia di spiriti, che si ritiene si alimenti di una specie di canna indica, la percepisce come una patata dolce; quando dei Chewong tagliano le canne indiche, questi spiriti non vedono che degli istrici che dissotterrano patate dolci. Allo stesso modo, il cane che mangia degli escrementi sotto le case è persuaso di divorare banane, mentre gli elefanti si vedono l'un l'altro come umani. Considerato come un attributo del ruwai di ogni specie, il modo di percezione che gli è specifico non cambia secondo metamorfosi individuali, così che un Chewong che indossa un "abito" di una tigre continuerà a vedere il mondo come un umano. Il parallelo con il relativismo percettivo degli Amerindiani è qui mani festo: l'identità degli esseri e la struttura del mondo sono fluidi e contingenti, ribelli ad ogni classificazione che vorrebbe irrigidire il reale sulla sola virtù degli aspetti. Dualistici, i Chewong lo sono forse, ma in un modo molto differente dal nostro: piuttosto che di scriminare al loro interno fra gli umani e coloro che non lo sono, tracciano un confine tra il vicino e il lontano, tra le comunità di persone di aspetto eterogeneo, ma che con dividono lo stesso stile di vita e lo stesso territorio, e la periferia misteriosa dove regnano altre lingue e altre leggi. Di tipo concentrico, il loro dualismo attenua le discontinuità nel proprio nucleo originario per meglio poter escludere oltre i suoi confini; il nostro è dia metrale e distingue nell'assoluto per meglio includere. La facilità con la quale i Chewong si accontentano di un mondo nel quale natura e società non sono compartimentali, non ha niente di eccezionale in Asia del Sud-Est. Nella stessa Malesia, le fonti etnografiche ci dipingono dei quadri paragonabili di altri popoli aborigeni, i Negritos Batek del centro della penisola32, o i Ma'Betisék delle mangrovie del Selangor33 . Per questi ultimi, ci dice Wazir-Jahan Karim, «fondamentalmente è male sfruttare le piante e gli animali come risorse alimentari, poiché ciò equivale ad usare gli umani come nutrimento» 34 . È lo stesso più ad est, in Indonesia orientale, presso i Nuaulu dell'isola di Seram. Studiando il modo secondo il quale classificano la fauna, Roy Ellen conclude che è impossibile isolare una tassonomia animale nuaulu concepita come un dominio distinto, ovvero indipendente da un ordine cosmico più inglobante, analogo all'antica "catena degli esseri" 35•
Endicott, K.M., 1979. ·13 Karim, W-J., 1981a e 19816. 34 Karim, W.-J ., 1981b, p. l; o ancora «i Ma'Betisék non dispongono di alcun termine generale per de scrivere la natura. Gli oggetti animati non umani (piante e animali) e gli oggetti inanimati che fanno parte dell'ambiente (il vento, il cielo, il tuono, la pioggia, l'acqua ecc.) non sono categorizzati collettivamente come oggetti naturali» (ibid., p. 7). 35 Ellen, R.F., 1993, pp. 94-95. ·12
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Oltre natura e cultura
L'isola di Seram è separata dalla Nuova Guinea da uno stretto di appena duecento chilometri e non è sorprendente trovare in Malesia una medesima assenza di frontiere tra umani e non-umani. Roy Wagner definisce bene questa continuità quando scri ve: «i popoli dell'interno della Papua collocano l'umanità all'interno di un mondo di entità antropomorfiche, differenziate ma fondamentalmente analoghe» 36• Ciò è parti colarmente chiaro presso le società del Grand Plateau, un'isola biogeografia nota per la ricchezza e la diversità della sua fauna e della sua flora. Nella cosmologia dei Kalu li, per esempio, regna lo stesso genere di relativismo percettivo dell'Amazzonia o dei Chewong: molteplici mondi coesistono in un solo ambiente, popolati da classi di esseri distinti che percepiscono i loro congeneri come degli umani, ma vedono gli abitanti degli altri mondi come degli animali o degli spiriti. Quindi gli uomini cacciano i cin ghiali dove si incarnano gli spiriti, mentre gli spiriti cacciano i cinghiali dove risiedono i doppioni degli umani37 • Così, e per riprendere una formula dei Bedamuni, vicini dei Kaluli, «quando vediamo degli animali, potremmo pensare che si tratti solamente di animali, ma sappiamo che in realtà sono come gli umani» 38• La situazione non è molto dissimile ali'est, nelle isole Salomone. Secondo gli 'Are'are, la moneta di conchiglia, le piante coltivate, i maiali, i pesci, gli uomini e le donne sono formati da combinazioni più o meno complete di vettori di identità che, circolando tra tutte queste entità, le collegano le une alle altre in un gran continuum cosmico39 • In queste stesse isole, le persone della laguna di Marovo «non pensano che i componenti organici e inorganici del loro ambiente costituiscano un regno distinto dalla natura o dall'ambiente separato dalla cultura o dalla società umana» 40 • Ma è più al sud, in Nuova Caledonia, molto distante dall'area dove abbiamo iniziato questa ricerca, che è stato espresso con maggior acume ciò che comporta un mondo dove gli umani vivono in completo avvolgimento con il loro ambiente circostante. Dobbia mo questa conoscenza ad un gran libro precursore, Do kamo, nel quale Maurice Leen hardt, già cinquanta anni fa, attirava la nostra attenzione su una concezione originale delle persone, immersa nell'abbondanza di un mondo «dove animali, uomini e piante si scambiano fra loro, senza limiti, e senza differenziazioni» 41 • Senza differenziazioni, poiché i Kanak stabiliscono un'identità di struttura e di sostanza tra il corpo umano e le piante: i tessuti, i processi stessi della crescita e della fisiologia sono da ogni punto di vista analoghi, sebbene i modi di esistenza siano percepiti come differenti. Non si tratta quin di qui di una corrispondenza metaforica, per di più abbastanza classica42, tra sviluppo dell'umano e quello del vegetale, ma anzi di una continuità materiale tra due ordini del vivente che attesta il ritorno degli antenati in alcuni alberi, dopo la loro morte. Questo 36 Wagner, R., 1977, p. 404. 37 Schieffelin, E.L., 1987. 38 Van Beek, A.G., 1987, p. 174. 39 Coppet, D. de, 1995. 40 Hvinding, E., 1996, p. 170. 41 Leenhardt, M., I 947, p. 222. 42 Vedere l'analisi che dà Maurice Bloch (I 992) per una società del Madagascar.
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corpo legnoso, ci dice Leenhardt, non potrebbe essere il supporto di una singolarità, il nucleo di un io individuale: incastonato in un ambiente con il quale quasi si confonde, permette all'uomo di riconoscersi attraverso la sua esperienza del mondo e« ... senza che pensi a distinguere se stesso da questo mondo» 43 • Il corpo si anima grazie al kamo, un attributo che indica la vita, ma che non implica né contorno definito né natura essenziale. Un animale o un vegetale sono detti kamo se le circostanze lasciano pensare che abbiano qualche cosa in comune con l'uomo. Come in Amazzonia, l'umano supera tutte le rappresentazioni fisiche dell'uomo e la pienezza dell'umanità, espressa dal termine do kamo ("vero umano"), si mostra infatti in ogni sorta di unità di vita distinta dall'uomo come specie. È per questo che Leenhardt propone di tradurre do kamo con "individuo", un principio di esistenza rivestito di aspetti diversi, in opposizione alla nozione occidentale di "persona" che suppone una coscienza di sé parti colareggiata e un corpo nettamente circoscritto nello spazio. Il kamo si definisce non per una chiusura, ma per le relazioni che lo costituiscono, in modo che eliminandole - per gli umani la rete di legami di parentela, di solidarietà e di alleanza - l'ego svanisce, per il fatto che lui stesso non può esistere nell'intelligenza riflessiva della sua singolarità. La desocializzazione indotta dal processo coloniale genera quindi sollevamenti drammati ci, che l'educazione dispensata dai missionari mira a correggere. È per questo in effetti che nasce una coscienza dell'individualità, inscritta in un corpo autonomo. Il vecchio Beosoou lascia pochi dubbi a proposito di questo nella sua risposta a Leenhardt che si informava sugli effetti prodotti dalla scolarizzazione: Insomma non è forse la nozione di spirito che abbiamo portato nel vostro pensiero? E lui contestava: Lo spirito? Bah! Non ci avete portato lo spirito. Noi conoscevamo già l'esistenza dello spirito. Quello che ci avete portato è la nozione di corpo. 44 America, Asia, Oceania: un continente etnografico manca ancora all'appello. CAfri ca, in effetti, sembra che si distingua dai casi esaminati fino ad ora rispetto al confine fra la natura e la società che qui sembra più affermato, trascritto in classificazioni spaziali, in cosmologie e in concezioni della persona che differenziano abbastanza nettamente umani e non umani. In effetti, l'opposizione tracciata tra villaggio e savana - il bush della letteratura anglo-sassone - torna come un ritornello in tutte le monografie africaniste: il primo è il luogo dell'ordine sociale, costruito dal lavoro, mantenuto dal rituale, garanti to nella sua perennità dalla gerarchia segmentaria e dalla presenza degli antenati, mentre la seconda è una periferia pericolosa, popolata da specie predatrici e da geni malefici, spazio anomico associato alla morte e risorsa ambigua di potenza maschile. Allo stesso modo in Africa gli animali selvaggi sono raramente dotati di un'anima individuale, di una intenzionalità o di caratteristiche umane, e quando sono messi in scena i racconti, non sono degli alter ego degli uomini, come nei miti amerindiani, ma piuttosto come delle metafore, degli archetipi di qualità morali disapprovate o celebrate, di semplici
Leenhardt, M., 1947, p. 31. 14 lbid., p. 212.
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Oltre natura e cultura
attori nelle parabole ironiche o edificanti che evocano perfettamente le fiabe europee. Infine, a differenza di ciò che accade per le altre aree culturali, le interazioni tra umani e le specie naturali sono poco affrontate dagli africani - salvo ciò che riguarda i popoli pigmei -, le piante e gli animali figurano soprattutto nel!'analisi dei divieti alimentari, del totemismo e del sacrificio, ovvero in qualità di icone che esprimono delle categorie e delle pratiche sociali, non come dei soggetti completamente inclusi nella vita del mon do. Del resto, queste specificità africane si sono perpetuate in America in seguito alla de portazione degli schiavi. È questo ciò che mostrano bene le rappresentazioni contrastate della foresta umida del Chocò colombiano dagli Indiani Emberà e dalle popolazioni nere sfuggite allo schiavismo che vi vivono dal XVII secolo, in contatto costante con gli Indiani: per i primi, la foresta è un prolungamento familiare della casa dove si conduco no scambi rituali di energia con gli animali e gli spiriti che li governano, i secondi non vi vedono che un luogo selvaggio, oscuro, pericoloso, del quale si evita finché è possibile la frequentazione, un'antitesi assoluta dello spazio abitato45 • Esamineremo nella terza parte di questo libro le ragioni che potrebbero spiegare que sta apparente singolarità dell'Africa e la sconcertante vicinanza di questa all'Europa nel modo in cui le discontinuità tra umani e non-umani qui sono percepite e organizzate. Del resto, non è impossibile che un tale particolarismo sia anche in parte il prodotto di queste abitudini intellettuali caratteristiche di tutte le specializzazioni nelle aree cultura li, le quali incitano gli etnografi a riconoscere della società che studiano delle espressioni di alcune realtà rese familiari dalla tradizione competente sulla regione della quale si occupano e a trascurare dei fenomeni che rientrano male nelle cornici interpretative che tale tradizione ha elaborato. Ma i canoni di analisi si sviluppano con i cambiamenti di paradigma che conoscono periodicamente gli studi regionali, così nuove ricerche sul campo mettono in luce nuovi aspetti trascurati delle culture che pure si credevano ben conosciuti. Per non prendere che due brevi esempi, etnografie recenti citano in Mali e in Sierra Leone dei concetti di non-umani più vicini a ciò che si conosce in America o in Oceania che l'immagine per molto tempo presentata dall'etnologia africanista. Così, i Kuranko della Sierra Leone attribuiscono ad alcuni individui un'attitudine a trasformar si in animali predatori - elefanti, leopardi, coccodrilli o serpenti - in modo da nuocere ai loro nemici, attaccando il loro bestiame o calpestando i loro raccolti. Interrogandosi sull'ontologia sub-giacente a una tale credenza, Miche! Jackson fa notare che questa si appoggia su una concezione della persona come un attributo fluttuante nato da intera zioni con altri piuttosto che un'essenza individualizzata, radicata nella coscienza di sé e nell'unità corporale. La nozione di persona, morgoye, non definisce quindi un'identità singolare e stabile, ma procede dal grado di raggiungimento delle relazioni sociali in trattenute in questo o in quel momento con un gruppo eletto di entità, in modo che la qualità di "persona", funzione di una posizione e non di una sostanza, possa essere imputata secondo le circostanze a degli umani, a delle piante, a dei geni della savana, a degli antenati, a delle piante e anche a delle pietre46 • Questa interferenza dei confini 45 Losonczy, A. M., 1997. 46 Jackson, M., 1990.
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1. Aspetti di continuità
oncologici è notevole anche presso i Dogon di Tireli che conferiscono alle piante silve stri delle proprietà antropomorfiche: i guaritori dialogano con gli alberi per acquisire la capacità e alcuni alberi, soprattutto il bombace, si pensa che si sposti durante la notte per chiacchierare, cosa che si pensa anche per le pietre che stanno vicino al cimitero47• Copposizione tra la savana e il villaggio, anche se molto netta in questi due casi, può così autorizzare una moltitudine di mediazioni e di passaggi che rendono improbabile la distribuzione degli occupanti rispettivi dell'uno e dell'altro spazio nei regimi di essenze distinguibili in natura. ***
Interrompiamo un momento questo viaggio etnografico che ci ha già fatto oltrepas sare molti mari. La sua proposta era di stabilire che un modo di sperimentare la con tinuità tra umani e non-umani che avevo avuto il privilegio di osservare in un angolo dell'Amazzonia era in realtà molto diffuso e che difficilmente poteva provenire da un fondo ideologico comune che si sarebbe diffuso via via fino ad irrigare buona parte del pianeta... Probabilmente è così, ma si potrebbe obiettare che molti popoli dei quali parliamo, in verità possiedono dei tratti strutturali identici, suscettibili di spiegare le similitudini delle loro visioni del mondo. Vivono o vivevano della caccia, della pesca e della rac colta, a cui si aggiunge, per molti di loro, la raccolta di radici tropicali a riproduzione vegetativa. Disseminati in piccole comunità con una debole forza demografica, e senza capacità di accumulare dei surplus notevoli, dipendono quindi per la loro sussistenza da un'interazione costante e individualizzata con piante e animali. Nella maggior parte dei casi, in effetti, la selvaggina si presenta al cacciatore sotto forma di un soggetto isolato o di un piccolo gruppo di animali con i quali deve rivaleggiare in astuzia e in destrezza. Quanto all'orticoltura della talea, essa differisce dalla coltura dei cereali perché presup pone un trattamento personalizzato per ogni pianta, per questo motivo è investita di una singolarità manifesta48 • Non ci sarebbe quindi niente di sorprendente nel fatto che si sono potute dotare di attributi antropomorfi queste piante e questi animali distinti giorno dopo giorno grazie ad una relazione familiare. Inoltre, le società esaminate fino ad ora ignorano la scrittura, il centralismo politico e la vita urbana. Per mancanza di istituzioni specializzate nell'accumulazione, oggetti vazione e trasmissione del sapere, esse sarebbero state incapaci di portare a buon fine lo sforzo riflessivo e critico grazie al quale la tradizione colta di alcuni popoli ha potuto iso lare la natura come un campo di ricerca e produrre su di essa delle conoscenze positive. Insomma, per il fatto che è difficile sfuggire alle comodità dell'evoluzionismo quando 47 Van Beek, WE.A., e Banga, P.M., 1992. 48 È ciò che aveva ben visto André-Georges Haudricourt nell'articolo (1962) dove contrastava !"'azio ne direcca positiva" esercitata sui viventi dal coltivatore di cereali e il pastore dell'Europa meridionale con !'«azione indirecca negativa» dei coltivatori di tuberi oceanici, che prodigano di sogni personali ogni pianta. Per un commentario di questa opposizione vedi capitolo IV.
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Oltre natura e cultura non si accettano le spiegazioni della diffusione, non saremmo padroni di ammettere che la mancanza di un'opposizione netta tra umani e non-umani è una caratteristica di un cerco stadio della storia universale da cui sarebbero liberate le grandi civiltà? Rispondere a fondo a questa domanda supererebbe molco il proposito del presente capitolo. Mi contenterò quindi di richiamare brevemente due esempi per mettere in dubbio l'idea che la naturalizzazione del mondo procede senza difficolcà da un progresso del sapere reso possibile dalla scrittura e dalla complessità incrementata dei dispositivi di integrazione sociale. Il primo esempio ci trasporta nell'antica India, in questo universo pieno di riti che i bramani hanno per compito di mantenere con il lavoro del sacrificio. Questo lavoro, per riprendere il titolo di un'opera di Charles Malamoud, consiste nel «cuocere il mon do» senza tregua né sosta, poiché è con la cucina sacrificale che gli dei sono confermaci nel loro status divino, che la formazione degli alimenti propri a ogni classe di esseri è garantica49• Eppure il fuoco del sacrificio ben alimentato dal bramano non ha come funzione quella di cambiare stato al mondo che sarebbe crudo e naturale nella sua forma originale, non imprime un'impronta della cultura su una materialità informe: esso non fa che temprare un cosmo già trasformato dalla cottura del sole. È vero che cerci spazi sembrano fuori portata di questo lavoro paziente. La differenza tra il villaggio e la fore sta in effetti è molco marcata nell'India brahmanica: prima di tutto sono le istituzioni che fanno esistere il villaggio (grama), in particolare il sacrificio, quindi anche i mezzi per realizzarlo, gli animali domestici, i campi colcivaci e i doveri che la gestione di un territorio impone, mentre la "foresta" (aranya) è l'esteriorità del villaggio, un interstizio era i luoghi abitati, caratterizzato meno da un tipo di vegetazione che dall'esclusione del sacrificio, simbolo per eccellenza della civiltà. Ora, Malamoud mostra bene che questo contrasto non corrisponde in alcun modo ad un'opposizione era la natura e la sociecà 50 • Prima di tutto perché il sacrificio integra gli animali selvaggi in qualità di quasi-vittime poiché, a differenza degli animali domestici, saranno rilasciaci senza essere messi a morte. In questo modo si afferma l'attitudine del villaggio a inglobare la foresta nel suo spazio rituale e a riunire ciò che poteva sembrare separato... In secondo luogo è la foresta stessa, sotto cerci aspetti, un inglobamento del villaggio. Ciò che caratterizza e distingue l'uomo nel pensiero vedico è che sia insieme sacrificante e sacrificato, officiante e sola vittima autentica, gli alcri animali sono solo suoi sostituti. Da questo punto di vista l'uomo è il primo degli animali abitanti propri del villaggio ad essere immolato. È quindi incluso allo stesso modo era gli animali della foresta, ed è in ragione della loro somiglianza con lui che certe specie, come la scimmia o l'elefante, sono classificate come animali selvaggi. Nelle tassonomie come nella pratica, la caratteri stica dell'uomo è essere abitante della foresta quanto essere abitante del villaggio, questa doppia natura si esprime nella dottrina degli scadi della vita che raccomanda all'uomo delle alce caste, che ha raggiunto la maturità, di spogliarsi dei propri beni e di terminare 49 Malamoud, Ch., 1989. 50 lbid., cap. IV.
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1. Aspetti di continuità
la propria vita nella solitudine ascetica della foresta, abbracciando lo stato di "rinuncia tario". Alcuni testi mostrano che la rinuncia non è una mortificazione del corpo nelle prove inviate da una natura inospitale, ma anzi un modo di fondersi con l'ambiente, di nutrirsi e di rivivere con esso, di seguire il suo ritmo e di mirare ali' assoluto obbedendo al suo principio di esistenza51 • Questi insegnamenti sopravvivono nell'India contem poranea; secondo Jean-Claude Galey, «luogo dell'umanità che è qui autonoma, ma so prattutto è un processo infinito di trasformazioni che le considera senza confonderle, come tanti anelli di una catena continua, l'insieme delle differenti categorie del vivente inscritte del cosmo» 52• Insomma, come presso i popoli senza scrittura dell'America o dell'Oceania, la natura sembra non abbia acquisito in questa civiltà raffinata lo status di un dominio indipendente. È una costatazione analoga quella che porta il sottile studio di Augustin Berque al sentimento della natura in Giappone53• Il termine stesso con il quale il concetto di natura è tradotto, shizen, non esprime che uno dei sensi della parola "natura" in Occi dente, il più vicino alla nozione originale di physis, vale a dire il principio che un essere sia ciò che è per se stesso, che si sviluppa conformemente alla "sua natura". Ma shizen non ricopre in alcun modo l'idea di una sfera di fenomeni indipendenti dall'azione umana, poiché non c'è spazio nel pensiero giapponese per un'oggettivazione riflessiva della natura, un ritirarsi indietro da parte dell'uomo rispetto a ciò che lo circonda54 . Come in Nuova Caledonia, l'ambiente è percepito come fondamentalmente indistinto da sé, come un'atmosfera dove fiorisce l'identità collettiva. Berque vede nella sintassi del giapponese un segno di questa tendenza a cancellare l'individuazione della persona, soprattutto nell'annullamento relativo del soggetto grammaticale a vantaggio di un luo go di riferimento dove immergere il verbo e i soggetti individuali. Lambiente deve qui essere preso proprio alla lettera: è ciò che collega e costituisce gli umani come espressioni multiple di un insieme che li supera... Un tale olismo permette di chiarire il paradosso del giardino giapponese. In tutto apparente artificio, ciononostante questo importante luogo giapponese non ha lo scopo di testimoniare un addomesticamento ossessivo della natura, ma anzi di offrire al pia cere della contemplazione una rappresentazione epurata del cosmo55• Grazie ad esso, le montagne e le acque, dimore sacre degli spiriti e mete di escursioni meditative, sono riportate in miniature nei luoghi plasmati per l'uomo, ma senza perdere il loro carattere né costituire intrusioni. Ridurre il paesaggio alle dimensioni di un appezzamento di terreno recintato non significa catturare una natura estranea per oggettivarla attraverso il lavoro mimetico, ma è voler ritrovare nella frequentazione di uno spazio familiare l'associazione intima con un universo di sentieri poco accessibili. Lestetica paesaggistica giapponese non esprime una disgiunzione tra l'ambiente e l'individuo, ma dimostra che 51 Ibid., p. 114. 52 Galey, J .-CL, 1993, p. 49. 5J Berque, A., 1986. 54 Ibid., p. 176. 55 Berque, A., 1995.
Oltre natura e cultura la sola natura portatrice di senso è quella, ridotta dagli uomini o animata dalle divinità, dove sono facilmente visibili i segni delle convenzioni che la plasmano; lontano dall'es sere un dominio di bruca materialità, essa è il risultato culturale di una lunga educazione della sensibilità.
*** È il momento di porre termine ad un inventario che potrebbe diventare fastidioso. Non aveva come obiettivo di dimostrare o di spiegare, ma solamente di far prendere co scienza che il modo con il quale l'Occidente moderno rappresenta la natura è la cosa del mondo meno condivisa. In numerose regioni del pianeta, umani e non-umani non sono percepiti come si sviluppassero in mondi incomunicabili e secondo principi separati; l'ambiente non è oggettivato come una sfera autonoma; le piante e gli animali, i fiumi e le rocce, le meteore e le scagioni non esistono in una stessa nicchia oncologica definita dalla sua mancanza di umanità. E questo peraltro sembra vero quali che siano le carat teristiche ecologiche locali, i regimi politici, i sistemi economici, le risorse accessibili e le tecniche messe in opera per sfruttarle. Al di là della loro indifferenza alle distinzioni che la natura genera, le culture che abbiamo esaminato rapidamente presentano alcuni punti comune nel loro modo di rendere conto del rapporto degli umani con il loro ambiente circostante? Con ogni probabilità, ma non sempre connessi. La caratteristica più diffusa consiste nel trattare alcuni elementi dell'ambiente come delle persone, dotate di qualità cognitive, morali e sociali analoghe a quelle degli umani, che rendono così possibili la comunicazione e l'interazione tra classi di esseri a prima vista molto differenti. Gli ostacoli pratici che una cale concezione comporta sono in parte rimossi da una distinzione tracciata era un principio di identità individuale, stabile e suscettibile di manifestarsi con dei modi e sotto delle personificazioni molto diversi e un rivestimento corporale transitorio, fre quentemente assimilato ad un abito che si indossa o che si coglie secondo le circostanze. La capacità di trasformarsi tuttavia è circoscritta all'interno di cerci limiti, soprattutto perché il supporto materiale dove si incarnano le diverse specie di persone determina spesso delle coscrizioni percettive che fanno capire loro il mondo secondo criteri propri alla loro specie. Infine, queste costruzioni cosmologiche nel profondo definiscono le entità singolari con le relazioni che le istituiscono piuttosto che attraverso il riferimento a sostanze o a essenze reificate, che rinforzano così la porosità delle frontiere tra le classi degli esseri, come tra l'interno e l'esterno degli organismi. Tutto questo, l'ammetto, non attenuerebbe le grandi differenze che esistono tra le culture prese qui come esempio. Ma tutto ciò è sufficiente per far toccare con mano una differenza ben più grande ancora, quella che separa l'Occidente moderno da tutti questi popoli del presence e del passato che non hanno giudicato necessario procedere a una naturalizzazione del mondo. Resta da esaminare ciò che comporta una cale differenza a cui il presente libro è dedicato, non per perpetuarla e arricchirla, ma per tentare piuttosto di oltrepassarla con cognizione di causa.
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IL SELVAGGIO E IL DOMESTICO
Henri Michaux non aveva ancora trent'anni quando si accinse a visitare il paese di un ami co ecuadoregno incontrato a Parigi. Preso dalla voglia di avventura, e malgrado la sua salu te fragile, nel 1928 decide di tornare in Francia dopo aver percorso i fiumi dell'Amazzonia: un mese di piroga esposto alla pioggia e alle zanzare lungo il Rio Napo fino a Maraiion, poi il relativo conforto di un piccolo battello brasiliano per discendere il Rio delle Amazzoni in tre settimane fino alla sua foce. È là, a Belém de Parà che si ambienta la seguente scena: Una giovane donna, che era a bordo con ·noi, veniva da Manaos e entrando in città con noi quella mattina, quando passò nel Grand Pare, del resto ben sistemato, tirò un sospiro di sollievo. - ah! finalmente la natura! dice. Lei veniva dalla foresta 1 • In effetti. Per questa cittadina dell'Amazzonia, la foresta non era il riflesso della natu ra, ma un caos inquietante dove lei non passeggiava molto, ribelle ad ogni addomestica mento e inadatta a suscitare piacere estetico. Con i suoi filari di palme e le sue aiuole di erba tagliata dove si alternano manghi, gloriette e cespugli di bambù, la piazza principale di Belém dà la garanzia di un'alternativa: ci sono sicuramente delle piante tropicali, ma . sono controllate dal lavoro degli uomini, vittoria della cultura sulla selvatichezza fore stale. Questo gusto per i paesaggi molto curati si ritrova del resto nelle oleografie che troneggiano in tutti i saloni, hotel e ristoranti dei piccoli villaggi dell'Amazzonia: sui muri chiazzati dall'umidità non ci sono altro che alpeggi disseminati di chalet fioriti, case con tetti di paglia nascoste nel bocage o austere file di tassi nei giardini alla francese, probabilmente simboli di esotismo, che fungono da contrasti indispensabili ali'eccessiva vicinanza di una vegetazione sfrenata. 1
Michaux, H., 1968 (1929), p. 169.
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Oltre natura e cultura
Come la compagna di viaggio di Michaux, non operiamo anche noi nel nostro ambiente ogni sorta di distinzioni elementari a seconda che portino o meno i segni dell'azione umana? Giardino e foresta, campo e landa, restanque2 e gineprai, oasi e de serto, villaggio e savana, sono tante coppie affermate che corrispondono ali'opposizione fatta dai geografi tra ecumene ed eremo, tra i luoghi che gli uomini frequentano quoti dianamente e quelli dove si avventurano più raramente3 . Quindi non si potrebbe dire che l'assenza in numerose società di un concetto simile alla moderna idea di natura non è che una questione di semantica visto che, sempre e ovunque, avremmo saputo distinguere tra il domestico e il selvaggio, tra gli spazi for temente socializzati e altri che si sviluppano indipendentemente dall'azione umana? A condizione di considerare come culturali le parti dell'ambiente modificate dall'uomo e come naturali quelle che non lo sono, la dualità natura e cultura potrebbe salvarsi dal peccato di etnocentrismo, ovvero stabilirsi su basi più ferme dal momento che sono fon date su un'esperienza del mondo in teoria accessibile a tutti. Probabilmente, per molti popoli la natura non esiste come dominio ontologico autonomo, ma è il selvaggio che occupa tale dominio e, proprio come per noi, saprebbero fare una differenza, topografica almeno, fra ciò che dipende dall'umanità e ciò che ne è escluso.
Spazi nomadi Niente è più relativo del senso comune, soprattutto quando riguarda la percezione e l'uso degli spazi abitati. Prima di tutto non è certo che l'opposizione fra selvaggio e domestico abbia potuto avere un senso nel periodo che precede la transizione neolitica, ovvero durante la maggior parte della storia dell'umanità. E se l'accesso alla mentalità dei nostri antenati del paleolitico è difficile, possiamo considerare per lo meno il modo con cui i cacciatori-raccoglitori contemporanei vivono il loro inserimento nell'ambien te. Ricavando la loro sussistenza da piante e da animali di cui non controllano né la riproduzione né il numero dei nati, tendono a spostarsi secondo la fluttuazione delle risorse a volte abbondanti, ma spesso distribuite in modo disuguale secondo i luoghi e le stagioni. È così che gli Eschimesi Netsilik, che praticano il nomadismo su varie centinaia di chilometri a nord-ovest della baia di Hudson, suddividono il loro anno su almeno cinque o sei tappe: la caccia alla foca sul mare ghiacciato a fine inverno e a pri mavera, la pesca per sbarramento nei fiumi dell'interno in estate, la caccia al caribù nella tundra all'inizio dell'autunno e la pesca alla trota sui fiumi da poco gelati in ottobre4 . Grandi migrazioni quindi, che ad intervalli regolari richiedono di familiarizzare con 2 Il restanque in francese, dal provenzale restanco, è una tecnica usata in agricoltura in Bassa Provenza. È una costruzione di piccoli muri a secco perpendicolari al flusso del corso d'acqua stagionale che permette l'accumulo di sedimenti a ridosso di ciascun muro, determinando così la creazione di una superficie di coltivazione (n.d t.}. 3 Una parte di questo capitolo è ripresa dal mio articolo Le sauvage et le domestique, (Communication, ° n 76, ottobre 2004). Per la distinzione tra ecumene ed eremo vedere Berque, A., 1986, pp. 66 e segg. 4 Balikci, A., 1968.
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2. Il selvaggio e il domestico
posti nuovi o di riconoscere le usanze e i vecchi punti di riferimento che, grazie alla fre quentazione di un luogo dove ci si era stabilici una volta, si erano fissaci nella memoria. All'altro estremo climatico, nell'ambiente arido del Kalahari, il margine di manovra dei San!Kung del Botswana è più stretto perché, per scegliere il loro territorio, dipendono dall'accesso all'acqua. La mobilità collettiva degli Eschimesi Necsilik è interdetta e ogni gruppo tende a fissarsi vicino ad un punto d'acqua permanente; comunque gli individui circolano tra gli accampamenti senza sosta e quindi passano gran parte della loro vita a spostarsi su territori che non avevano visitato prima e dei quali devono conoscere i meandri più nascosci 5 • È questo il caso dei Pigmei Bambuti della foresta dell'Icuri: se ogni gruppo stabilisce i propri campi che sono uno dopo l'altro all'interno di uno stesso territorio con confini riconosciuti da tutti, la composizione e l'appartenenza ai gruppi e alle squadre di caccia variano senza sosta nel corso dell'anno6. Nella foresta equatoriale o nel Gran Nord, nei deserti dell'Africa australe o nel centro dell'Australia, in tutte queste zone dette "marginali" che per lungo tempo nessuno ha sognato di contendere ai popoli di cacciatori, a predominare è uno stesso tipo di rapporto con il luogo. Loccupazione dello spazio non si irradia a partire da un punto fisso, ma si dispiega come una rete di itinerari segnata con cappe più o meno puntuali e più o meno ricorrenti. Cerco, come Mauss aveva sottolineato all'inizio del XX secolo a proposito degli Eschimesi, la maggior parte delle popolazioni dei cacciatori-raccoglitori suddivide il proprio ciclo annuale in due fasi: un periodo di dispersione in piccole squadre mobili e un periodo molto breve di concentrazione in un luogo che offre l'occasione di avere una vita sociale più incensa e che permette lo svolgimento di grandi rituali collettivi7 . Sarebbe quindi poco realistico considerare questo raggruppamento temporaneo come il territorio del villaggio, cioè come il centro regolarmente riattivato da un'azione esercitata sul territorio: i dintorni sono probabilmente familiari e sono ritrovati ogni volta con piacere, ma la loro fre quentazione non ne fa, anche così, uno spazio addomesticato che contrasterebbe con l'anomia selvaggia dei luoghi visitati il resto dell'anno. Socializzato in ogni luogo in quanto percorso senza sosta, l'ambiente dei cacciatori raccoglitori itineranti presenta ovunque le tracce degli avvenimenti che lì si sono svolti e che fino al presente fanno ritornare alla memoria antiche continuità, tracce individuali, innanzitutto, che formano l'esistenza di ognuno mettendo insieme una moltitudine di ricordi: i resti a volte appena visibili di un campo abbandonato; una comba8 , un albe ro singolare o un meandro che ricorda il luogo dell'inseguimento o della posta ad un animale; il ritrovarsi in un luogo dove si è stati iniziati, dove ci si è sposaci, dove si è partorito; il posto dove si è perduto un genitore e che, spesso, dovrà essere evitato. Ma questi segni non esistono come testimoni costanti di un contrassegno dello spazio; al massimo sono contrassegni fugaci di traiettorie biografiche, leggibili solamente da colui 5 Lee, R.B., 1979, pp. 51-67 e 354-359. Turnbull, C., 1965. 7 Mauss, M., 1904-1905. Adesso sappiamo che questa alternanza è molto diffusa presso i popoli di cacciatori-raccoglitori quale che sia la loro latitudine. (Lee, R.B., e de Voire, I., 1968). 8 La comba è una valle allungata e stretta circondata da una catena di monti (n.d.t.). 6
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Oltre natura e cultura che le ha deposte e dalla cerchia di coloro che condividono con lui la memoria intima di un passato vicino. È vero che alcuni tratti salienti dell'ambiente a volte sono dotati di un'identità autonoma che li rende portatori di un significato identico per tutti. È il caso dell'Australia centrale dove popoli come i Warlpiri vedono nelle linee di rilievo e negli accidenti del terreno - colline, ammassi di rocce, saline o ruscelli - la traccia lasciata dalle attività e le peregrinazioni degli esseri ancestrali che si tramutano in componenti del paesaggio9• Tuttavia questi siti non sono dei templi pietrificati o dei ceneri di civiltà, ma l'impronta dei percorsi che attuarono, nell'epoca del "Dreamtime", le creature degli esseri e delle cose. Non hanno un significato che ricollega gli uni agli altri negli itinerari che gli Aborigeni riproducono senza fine, sovrapponendo le iscrizioni effimere del loro passaggio a quelle, più tangibili, dei loro antenati. È lo stesso per la funzione degli ometti di pietra 10 che gli Inuit edificano nell'Antartico canadese. Segnalando un luogo una volta abitato, a volte una tomba, o destinando delle zone all'appostamento per la caccia al ca ribù, questi cumuli di pietre sono edificati in modo da evocare da lontano la sagoma di un uomo in piedi; la loro funzione non è di addomesticare il paesaggio, ma di ricordare i percorsi antichi e di servire come riferimento per gli spostamenti attuali. Dire dei popoli che vivono di caccia e di raccolta, che percepiscono il loro ambiente come "selvaggio" - in rapporto ad un addomesticamento che definiremmo molto a fatica - deriva anche dal negare che abbiano la coscienza di modificare l'ecologia loca le nel corso del tempo attraverso le loro tecniche di sussistenza. Da qualche anno per esempio, gli Aborigeni contestano al governo australiano l'uso del termine "wi!derness" per qualificare i territori che occupano, fatto che permette molto spesso di crearvi delle riserve naturali contro il loro volere. Con le sue connotazioni di terra nullius, di natura originale e preservata, di ecosistema da proteggere contro i degradi di origine antropica, la nozione di "wi!derness" ricusa certamente la visione di ambiente che gli Aborigeni hanno forgiato e i rapporti multipli che hanno tessuto con quello, ma soprattutto essa ignora le sottili trasformazioni che loro hanno fatto subire ali'ambiente. Come diceva un leader dei Jawoyn dei Territori del Nord, quando una parte delle loro terre fu convertita in riserva naturale: «il Parco Nazionale Nitmiluk non è uno spazio selvaggio [ ...], è un prodotto dell'attività umana. È una terra forgiata da noi nel corso di decine di millenni - attraverso le nostre cerimonie e i nostri legami di parentela, gli incendi boschivi e la caccia» 11 • È chiaro che per gli Aborigeni, come per altri popoli che vivono di predazione, l'opposizione tra selvaggio e domestico non ha molto senso, non solo perché le specie addomesticate mancano, ma soprattutto perché la totalità dell'ambiente percorso è abi tato come una dimora spaziosa e familiare, organizzata lungo le generazioni con una discrezione tale che le modificazioni apportate dagli occupanti che vi si sono succeduti sono diventate quasi impercettibili.
9 Glowczewski, B., 1991; per concezioni simili presso i Pinrupi vedere Myers, F. R., 1986. 10 Lometco è una semplice costruzione artificiale che consiste nell'impilare, uno sopra l'altro, sassi di dimensioni differenti secondo uno schema piramidale dal più grande al più piccolo (n.d.t.). 11 Citato da Marcia Langcon, 1998, p. 34.
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2. Il selvaggio e il domestico
L'addomesticamento non implica comunque un cambiamento radicale di prospetti va, purché la dimensione dello spostamento persista: è questo che dimostra la conoscen za dello spazio dei pastori itineranti che presentano sotto questo aspetto più affinità con i cacciatori-raccoglitori che con molti allevatori sedentari. È vero che altri esempi di ef fettivo nomadismo sono diventati rari tanto è forte, dopo uno o due secoli, l'espansione dei sedentari a scapito degli allevatori. Questo tuttavia non è il caso dei Peuls Wodaabe che si spostano tutto l'anno nel Sahel nigeriano con le loro greggi 12• L'ampiezza dei loro spostamenti è ovviamente variabile: minore nella stagione secca quando tornano vicino ai pozzi e ai mercati dei paesi hausa, facendo pascolare il loro bestiame sui terreni incolti degli agricoltori; maggiore durante la stagione delle piogge, che li vede intraprendere una grande migrazione verso i ricchi pascoli permanenti dell'Azawak o del Tadess. Senza residenza fissa, qualsiasi sia la stagione si accontentano di un recinto non coperto for mato da un'aia semicircolare di arbusti spinosi, rifugio effimero che si distingue appena sull'orizzonte dagli scarsi cespugli della steppa 13• Questo modello di transumanza annua le è la norma in molte regioni del mondo. Così la tribù Basseri del sud dell'Iran in pri mavera si sposta in gruppo verso il nord per piantare le sue tende in estate sugli alpeggi del Kuh-i-Bul; tornerà in autunno per svernare sulle colline desertiche al sud della città di Lar, ogni tragitto dura fra in due e i tre mesi 14 • Se il sito dell'accampamento cambia quasi ogni giorno al momento della migrazione, le tende sono meno mobili durante l'estate e l'inverno, soprattutto se ci sono controversie fra famiglie che provocano delle scissioni. Circa quindicimila persone e più di centinaia di migliaia di animali - mon toni e capre, soprattutto - sono interessate da queste migrazioni lungo una striscia di territorio di cinquecento chilometri di lunghezza e su una sessantina di chilometri di larghezza. Chiamato il-rah, la strada della transumanza è considerata dai Basseri come di loro proprietà ed è riconosciuta dalle popolazioni locali e dalle autorità grazie ad un insieme di diritti concessi ai nomadi: diritto di passaggio sulle strade e sulle terre non coltivate, diritto di pascolo fuori dai campi e diritto di prendere l'acqua ovunque, salvo che nei pozzi privati. Questa forma di occupazione dello spazio è stata interpretata da società diverse, sia nomadi che sedentarie, come un esempio di condivisione di uno stesso territorio 1 5• Ma si può anche intendere il sistema di il-rah come è in Australia, cioè come un'appropria zione di alcuni itinerari all'interno di un ambiente sul quale non si cerca di esercitare un'influenza: la vita del gruppo e la memoria della sua identità si applicherebbero non tanto ad uno studio concepito come un tutto quanto ai singoli segni di riferimento che, anno dopo anno, scandiscono i loro tragitti. Condiviso da molti pastori nomadi dell'Africa saheliana e nilotica, del Medio-Oriente e dell'Asia centrale, tale attitudine parrebbe escludere tutte le opposizioni tra un nucleo antropizzato e un ambiente che si perpetua al di fuori dell'intervento umano. La distinzione nel trattamento e nella 12 Dupire, M., 1962. 13 lbid., p. 63, n. I. 14 Barth, F., 196 I. 15 Godelier, M., 1984, pp. 118-119.
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Oltre natura e cultura classificazione degli animali a seconda che siano o no dipendenti dagli uomini, non si accompagna quindi necessariamente ad una distinzione fra selvaggio e domestico nella percezione e nell'uso dei luoghi. Forse si potrebbe pensare che una tale dicotomia avrebbe potuto imporsi ai nomadi dall'esterno. Che possiedano o no degli animali da allevamento, che ricavino il princi pale sostentamento dalla caccia o piuttosto dalla raccolta, molti dei popoli itineranti si trovano in effetti a risolvere il problema della necessità di venire a patti con le comunità sedentarie i cui territori e villaggi presentano una differenza manifesta con il loro speci fico modo di occupazione dello spazio. Gli insediamenti sedentari possono essere tappe del percorso da negoziare o borghi per il mercato per i pastori, possono formare delle aree periferiche di risorsa, come presso i Pigmei che scambiano le loro prede con pro dotti coltivati dei loro vicini agricoltori, o divenire punti occasionali di raccolta, come furono le prime missioni presso gli Yamana e gli Ona della Terra del Fuoco, o le imprese di tratta per i popoli dell'Artico e del Subartico canadese 16 • Eppure, che si trovino sul confine delle zone di spostamento o inserite al loro interno, per i nomadi questi luoghi non costituirebbero modelli di vita domestica poiché i valori e le regole che vi regnano sono loro estranei. E se in tali casi si volesse ad ogni costo conservare l'opposizione tra selvaggio e domestico, bisognerebbe allora, paradosso assurdo, invertire il significato dei termini: lo spazio "selvaggio", la foresta, la tundra, le steppe, tutti questi territori tanto familiari quanto gli angoli della casa natale, in realtà apparterrebbero al lato del dome stico, in opposizione a quei confini stabili, ma poco piacevoli, dove i nomadi non sono sempre ben ricevuti.
Il giardino e la foresta Superiamo il margine delle terre coltivate per vedere se l'opposizione tra i due termi ni "selvaggio" e "domestico" ritorna plausibile per coloro che a causa dei lavori nei campi sono costretti ad una sedentarietà relativa. È il caso degli Achuar, già ricordati in aper tura del precedente capitolo. Contrariamente ai popoli nomadi o transumanti, questi orticoltori dell'alta Amazzonia infatti restano abbastanza a lungo nello stesso posto, dieci o quindici anni in media. Non è l'impoverimento dei suoli che li costringe ad istallarsi in un nuovo luogo, ma è il diminuire della selvaggina nei dintorni e la necessità di rico struire le case dalla durata limitata. Come è evidente, gli Achuar possiedono una lunga esperienza di piante coltivate. Lo testimonia la diversità delle specie che prosperano nei loro orti, un centinaio nei migliori assortimenti, e il grande numero di varietà stabili all'interno delle specie principali: una ventina di cloni per le patate dolci, altrettanti per la manioca e la banana 17• Lo testimonia anche il posto importante che le piante coltivate occupano nella mitologia e nel rituale, come la finezza del sapere agronomico di cui danno prova le donne, padrone incontrastate della vita degli orti. 16 Vedere Bridges, L., 1988 (I 949) per la Terra del Fuoco, e Leacok, E., 1954 per il Canada. 17 Descola, Ph., 1986, pp.198-209: gli Aguarina, vicini a sud degli Achuar che condividono la stessa cultura materiale fanno ancora meglio con circa 200 varietà di manioca, vedi Boster, J ., 1980.
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2. Il selvaggio e il domestico L'archeologia conferma la remota antichità della coltura delle piante nella regione, dato che è in un lago pedemontano vicino ali'attuale territorio degli Achuar che furono trovate le prime tracce di mais nel bacino amazzonico, più di cinquemila anni fa 18• Nulla si sa se si tratta di un centro autonomo di addomesticamento; in compenso vari tuberi tropicali largamente utilizzati fino ad oggi sono originari delle basse terre dell'America del Sud i cui primi occupanti possiedono qualche millennio di pratica nella gestione de gli spazi coltivati 19• Tutto questo sembra indicare che gli Achuar contemporanei sono gli ereditieri di una lunga sperimentazione sulle piante il cui aspetto e le cui caratteristiche genetiche sono state modificate ad un punto tale che gli antenati silvestri non sono più identificabili. Questi esperti giardinieri organizzano inolcre il loro spazio di vita secondo una suddivisione concentrica che a colpo d'occhio evoca l'opposizione familiare tra do mestico e selvatico. Poiché il territorio è molto dispersivo, ogni casa troneggia solitaria al centro di un vasto terreno disboscato, coltivato e diserbato con una cura meticolosa, che circoscrive la massa confusa della foresta, dominio della caccia e della raccolca. Centro organizzato contro periferia silvestre, orticoltura intensiva contro predazione estensiva, approvvigionamento stabile e abbondante nell'ambiente domestico contro risorse ale atorie nella foresta, rutti ingredienti della dicotomia classica che sembra ben presente. Ora, tale prospettiva si rivela molto illusoria non appena si prova ad esaminare nel dettaglio i discorsi e le pratiche degli Achuar. Orbene, questi ulrimi colrivano nei loro orci specie addomesticare, la cui riproduzione cioè dipende dagli umani, e specie selvag ge trapiantate, soprattutto alberi da frutta e palme. Ciononostante, la loro tassonomia botanica non le distingue, essendo tutte le piante presenti in un territorio lavorato (ad eccezione delle erbe infestanti) classificate tutte nella categoria aramu ("ciò che è messo in terra"). Questo termine qualifica le piante manipolare dall'uomo e si applica bene sia alle specie addomesticate sia a quelle che sono semplicemente introdotte; rispetto a queste ulrime, possono essere dette "silvestri" (ikiamia "della foresta"), ma solamente quando si incontrano nel loro biotipo di origine. L'epiteto aramu non denota quindi le "piante domestiche"; rinvia alla relazione particolare che si tesse negli orci tra gli umani e le piante, quale che sia l'origine di queste ultime. L'epiteto ikimia non è neanche un equivalente di "selvaggio", prima di tutto perché una pianta può perdere questo predi cato secondo il contesto in cui viene trovata, ma anche e soprattutto perché in verità le piante "della foresta" sono ugualmente colcivate. Esse lo sono da uno spirito chiamato Shakaim che gli Achuar rappresentano come il giardiniere attirato dalla foresta e di cui sollecitano la benevolenza e il consiglio prima di lavorare un nuovo terreno. Mescolare in uno studiato disordine gli alberi e le palme, i cespugli di manioca e le piante rampicanti, la vegetazione terrazzata del!'orto, comunque richiamano in miniatura la struttura trofi ca della foresta20• Questa disposizione classica nei terreni di policoltura della cintura in18
Piperno, D.R., 1990. Si stima che la patata dolce, la manioca e l'igname americani sarebbero stati addomesticati all'incirca 5000 anni fa e la ta ro Xantoshoma lo sarebbe stato probabilmente molto prima (Roosevelt, A. C., 1991, p. 113). 1 Cli ord ° ff G reerrz è probabilmente uno dei primi ad aver sottolineato questa analogia quando scrive a p roposito dei terreni di policoltura del!' a rcipelago indonesiano che essi sono «una foresta tropicale in miniatura» (Greerrz, C., 1963, p. 24). 19
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tertropicale permette di ostacolare per un po' l'effetto distruttivo delle piogge torrenziali e la forte esposizione alla luce dei suoli dalla fertilità carente. I..:efficacia di cale protezione è stata probabilmente sovrastimata; tuttavia gli Achuar hanno piena consapevolezza di sostituire le loro piantagioni a quelle di Shakaim ogni volta che creano un orto21 • La coppia terminologica aramu e ikimia non ricopre quindi in alcun modo l'opposizione tra domestico e selvatico, ma ricopre il contrasto tra le piante coltivate dagli uomini e quelle coltivate dagli spiriti. Gli Achuar operano una distinzione analoga nel regno degli animali. Le loro case sono allietate da tutto un insieme di animali addomesticaci, uccelli che hanno lasciato il nido o cuccioli di selvaggina che i cacciatori raccolgono quando uccidono la loro madre. Affidati alle cure delle donne, imbeccati o nutriti al seno quando sono ancora incapaci di alimentarsi da soli, questi animali domestici si adattano presto al loro nuovo regime di vita e ci sono poche specie, anche fra i felini, che siano veramente restie alla coabitazione con gli umani. È raro che si leghino gli animali da compagnia, e più raro ancora che siano maltrattati. Ad ogni modo non sono mai mangiati, anche quando soccombono per morte naturale. Di questi si dice che sono tanku, un epiteto che si potrebbe tradurre con "addomesticaci" o "abituati agli umani". Il termine può ugualmente essere impie gato come sostantivo, corrispondendo quindi molto bene all'inglese pet-, di un giovane pecari che vaga vicino ad una casa, si dirà così: «è il tanku di Untel». Se tanku evoca la domesticità, cioè la socializzazione nella casa, non corrisponde all'idea che noi abbiamo comunemente di addomesticamento; gli Achuar non cercano affatto di far riprodurre i loro animali domestici in modo da stabilire delle discendenze stabili. Il termine designa una situazione transitoria, tanto meno in opposizione ad un eventuale stato "selvaggio", dato che gli animali sono comunque addomesticati nel loro ambiente di origine, ma dagli spiriti. Gli Achuar infatti dicono che gli animali della foresta sono i tanku degli spiriti che vegliano sul loro benessere e che li proteggono dai cacciatori che eccedo no nelle prede. Ciò che differenzia gli animali selvaggi dagli animali di cui gli Indiani conquistano la compagnia, non è quindi assolutamente l'opposto tra la selvatichezza e l'addomesticamento, ma è il fatto che gli uni siano allevati dagli spiriti, mentre gli altri lo sono, provvisoriamente, dagli uomini. Distinguere i luoghi a seconda che siano o no trasformati dal lavoro dell'uomo, non è più tanto fondato. Certo, io stesso sono stato colpito, nei primi tempi della mia per manenza presso gli Achuar, dal contrasto tra la fresca accoglienza delle case e la lussu reggiante inospitalità della foresta così vicina, che per lungo tempo ho avuto difficoltà a percorrere da solo. Ma così, non facevo altro che trasporvi uno sguardo plasmato dal mio atavismo cittadino che l'osservazione delle pratiche mi ha insegnato presto a modificare. Infatti gli Achuar distinguono il loro spazio secondo una serie di piccole discontinuità concentriche appena percettibili, invece che attraverso un'opposizione diretta era la casa e il proprio orto da una parte e la foresta dall'altra.
Per un apprezzamento critico dell'efficacia ecologia e agronomica della policoltura del terreno, vedere il numero speciale di Human Ecology (1983, voi. XI, n° I) dedicato a questa questione. 21
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2. Il selvaggio e il domestico
L'area di terra battuta immediatamente adiacente all'abitazione costituisce un pro lungamento naturale della casa dove si svolgono molte delle attività domestiche; si tratta quindi già di un luogo di transizione con l'orto, giacché è là che sono piantati, in ce spugli isolati, il peperoncino, la bixa orellana e la genipa, la maggior parte delle piante medicinali e le piante per il veleno. L'orto propriamente detto, territorio incontestato delle donne, è in parte esso stesso contaminato dalle attività che si svolgono al suo ester no: è il terreno di caccia preferito dai ragazzi che vi fanno la posta agli uccelli per colpirli con piccole cerbottane; gli uomini vi dispongono trappole per grossi roditori dalla carne delicata - paca, agoutis o acouchis - i quali vengono di notte a dissotterrare i tuberi. In un raggio di una o due ore di cammino oltre il confine del terreno coltivato, la foresta è assimilabile ad un gran frutteto che donne e bambini visitano in ogni stagione per ef fettuare raccolte, prendere larve di palma o pescare con la tecnica di avvelenamento nei ruscelli e nei piccoli laghi. È un luogo conosciuto intimamente, dove periodicamente ci si reca presso ogni albero e palma che dà frutti nella stagione. Al di là di questo inizia la vera zona di caccia dove le donne e i bambini non si recano se non accompagnati dagli uomini. Ma avremmo torto nel vedere in questo ultimo cerchio l'equivalente di un'esteriorità selvaggia. Infatti il cacciatore conosce ogni angolo di questo territorio che percorre quasi quotidianamente e al quale è legato da una moltitudine di ricordi. Gli animali che vi incontra non sono per lui animali selvatici, ma anzi degli esseri quasi umani che deve sedurre e coccolare per sottrarli all'influenza degli spiriti che li proteggo no. È così anche nei grandi orti coltivati da Shakaim dove gli Achuar stabiliscono i loro luoghi di caccia, semplici rifugi, a volte circondati da qualche piantagione, dove vanno ad intervalli regolari per passare qualche giorno in famiglia. Sono sempre stato colpito dall'atmosfera gioiosa e spensierata che regnava negli accampamenti, più evocatrice di una villeggiatura in campagna che di un bivacco in una foresta ostile. A chi si stupisce di una tale comparazione, bisognerebbe rispondere che gli Indiani si stancano, quanto noi, di un ambiente divenuto troppo familiare e che amano ritrovare all'interno del bosco un breve distacco dal proprio ambiente come noi lo cerchiamo in campagna. È chiaro che la foresta profonda è socializzata canto quanto la casa e i suoi contorni coltivati: né nella frequentazione, né nei suoi principi di esistenza, essa ha, agli occhi degli Achuar, la minima parvenza di natura selvaggia. Considerare la foresta alla maniera di un orto non ha niente di straordinario, se si pensa che alcuni popoli dell'Amazzonia sono ben coscienti che le loro pratiche cultu rali esercitano un'influenza diretta sulla distribuzione e sulla riproduzione delle piante selvatiche. Questo fenomeno lungamente misconosciuto di antropizzazione indiretta dell'ecosistema forestale è stato molto ben descritto negli studi che William Balée ha consacrato ali' ecologia storica dei Ka'apor del Brasile22• Grazie ad un lavoro minuzioso di identificazione e di analisi quantitativa, ha potuto stabilire che rispetto alle aree ab bandonate da più di quaranta anni esse sono due volte più ricche in specie selvatiche utili rispetto alle aree vicine di foresta vergine dalle quali quasi non si distinguono a 22 Balée, W, 1989 e 1994, soprattutto
il capitolo VI
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dell'ultimo testo.
Oltre natura e cultura prima vista. Proprio come gli Achuar, i Ka'apor infatti piantano nei loro orti numerose piante non addomesticate che in seguito prosperano nei terreni incolti a scapito delle specie coltivate che spariscono rapidamente per mancanza di cure. I terreni in attività o abbandonati da poco attirano anche gli animali predatori che, qui defecando, disse minano le sementi delle piante selvatiche di cui si alimentano. I Ka'apor dicono che gli agoutis siano in gran parte responsabili della dispersione negli orti del copale e di molti tipi di palme, mentre la scimmia cappuccino vi porta il cacao selvatico e diverse specie di inga. Col passare delle generazioni e del ciclo di rinnovamento dei terreni, una parte non trascurabile della foresta si converte in un frutteto del quale i Ka'apor riconoscono l'ar tificialità, senza che questo effetto sia stato ricercato. Gli Indiani misurano anche molto bene l'incidenza degli antichi maggesi sulla caccia, essendo le zone a forte concentrazio ne di piante selvatiche commestibili le più frequentate dagli animali, cosa che nel lungo periodo influisce sulla demografia e la distribuzione della selvaggina. Portata avanti da più millenni in gran parte dell'Amazzonia, questa forgiatura dell'ecosistema forestale ha probabilmente contribuito non poco a rendere legittima l'idea che la giungla sia uno spazio domestico tanto quanto lo sono gli orti. È vero che coltivare la foresta, anche ac cidentalmente, significa lasciare la propria traccia sul!'ambiente, ma non trasformarlo in modo che l'eredità degli uomini nell'organizzazione del paesaggio sia immediatamente leggibile. Territorio periodicamente trasferito, orticoltura itinerante, scarsa densità di popolazione, tutto contribuisce nell'Amazzonia contemporanea al fatto che i segni più manifesti dell'occupazione di un luogo non perdurino affatto23• Una situazione molto differente prevale presso alcune popolazioni di orticoltori delle alte terre della Nuova Guinea. Nella regione dei monti Hagen, per esempio, la fertilità dei suoli ha permesso uno sfruttamento intensivo dei maggesi e una forte concentrazione del territorio: presso i Melpa, la densità di popolazione per chilometro quadrato può raggiungere i cento venti abitanti, mentre è inferiore ai due abitanti per dieci chilometri quadrati presso gli Achuar24• I fondo valle e i fianchi delle montagne sono tappezzati da un mosaico conti nuo di orti recintati disposti a scacchiera, solo i versanti ripidi conservano una magra co pertura forestale. Quanto alle frazioni di quattro o cinque case, queste sono più o meno in vista le une rispetto alle altre25• Lì c'è un'area di coltivazione appropriata e lavorata nei suoi più piccoli angoli, dove si sovrappongono territori dei clan dai limiti molto marcati, una disposizione quasi da bocage, che non può mancare di offrire un contrasto tangibile con i boschi cedui residuali drappeggiati sui pendii delle montagne. Gli abitanti dello stato Hagen sembrano indifferenti a questa lettura del paesaggio, come dimostra un articolo di Marylin Strathern dal titolo inequivocabile: «Né natura, 23 Bisogna convenire che questo non è successo ovunque e sempre nelle basse terre dell'America del Sud. Nelle savana di Llanos de Mojos in Bolivia, nella foresta dell'alca Amazzonia equatoriale o sull'isola di Marajò alla foce del Rio delle Amazzoni, di importanti vestigia degli argini, dei camminamenti incavaci, dei campi sopraelevaci, dei monticelli residenziali o dei canali che accescano che le popolazioni di orticoltori hanno proceduto ad una adeguazione dello spazio che non ha equivalenti fra gli Amerindiani attuali: Denevan, W M., 1966; Roosevelt, A. C., 1991; Roscain, S., 1997; Salazar, E., 1997. 24 Scrachern, A., 1971, p. 231. 25 Ibid., pp. 8-9.
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2. Il selvaggio e il domestico
né culcura» 26• Certamente nella regione si utilizza una coppia terminologica che potreb be ricordare l'opposizione tra domestico e selvaggio: mbo qualifica le piante coltivate, mentre romi si riferisce a tutto ciò che è all'esterno dell'area di intervento degli umani, in particolare il mondo degli spiriti. Ma questa distinzione semantica non ricopre più un dualismo netto come la differenza tra aramu e ikimia presso gli Achuar. Al contrario di ciò che accade in Amazzonia, alcuni spiriti romi prodigano cure e protezione alle piante e agli animali selvatici dei quali lasciano l'uso agli uomini ad alcune condizioni. La flora e la fauna "selvagge" sono quindi proprio addomesticate come i maiali, le patate dolci o gli ignami da cui le popolazioni del monte Hagen prendono l'essenziale per la loro sussistenza. Tutto sommato, se il termine mbo si riferisce alla coltura delle piante è perché questo denota uno dei suoi aspetti, l'atto del piantare. Associato all'immagine concreta del piantare, del far attecchire, addirittura di essere autoctono, la parola non evoca affatto la trasformazione o la riproduzione deliberata del vivente sotto il controllo dell'uomo. Il contrasto tra mbo e romi non ha più una dimensione spaziale. La maggior parte dei territori clanici includono delle aree di foresta di cui ci si appropria socialmente secondo regole di uso riconosciuto da tutti. È qui, in particolare, che vagabondano i ma iali domestici in cerca di cibo, sotto l'occhio benevolo di alcuni spiriti che vegliano sulla loro sicurezza. Insomma, nonostante la forte influenza che esercitano sul loro territorio, gli abitanti del monte Hagen non si vedono circondati da un "ambiente naturale"; il loro modo di pensare lo spazio non suggerisce per niente l'idea che i luoghi abitati siano stati conquistati su un dominio selvaggio27 • Possiamo probabilmente ammettere che l'inten sificazione delle tecniche di sussistenza contribuisca a cristallizzare la sensazione di con trasto tra un centro di attività durevolmente trasformato e una periferia poco frequen tata. Ma prendere coscienza di una discontinuità tra le porzioni dello spazio investite in modo diverso dalla pratica sociale, non implica in alcun modo che alcuni spazi siano percepiti come "selvaggi". È questo che mostra bene Peter D wyer quando si accinge a comparare gli usi e le rappresentazioni dell'ambiente nelle tre tribù di orticultori delle terre alce della Nuova Guinea, scelti in funzione del grado di antropizzazione del loro ecosistema e della maggiore o minore parte che le tribù concedono alle risorse selvatiche nella loro alimentazione28 • I Kubo sono un vero popolo di cacciatori, con una densità di popolazione inferiore ad un abitante per chilometro quadrato, per i quali l'opposizione tra il centro abitato e l'esterno è ancor meno significativa dato che le persone dormono più in piccoli rifugi nella foresta che all'interno dei confini del villaggio. Gli spiriti, so prattutto l'anima dei morti incarnati negli animali, coesistono ovunque con gli umani. Ad un centinaio di chilometri da lì, gli Etolo lasciano una traccia più importante sul loro ambiente: gli orti sono più grandi, lavorano frutteti di pandano e sistemano trappole permanenti; rispetto alla loro densità demografica, in alcuni luoghi, questa è quindici volte superiore a quella dei Kubo. La loro geografia spirituale è ancor meglio connotata: 26 Strathern, M., 1980. 27 lbid.' p. 193. 28 Dwyer, P. D., 1996.
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Oltre natura e cultura l'anima dei defunti si insedia dapprima negli uccelli, poi nei pesci che migrano verso i confini del territorio. I Siana, infine, hanno modificato il loro habitat in un modo molto profondo e duraturo. Fortemente sedentari, praticano un'orticoltura intensiva e l'alleva mento dei maiali, frequentano molto poco le parti residue della foresta che permangono sulle montagne. I loro spiriti sono meno immanenti e più realistici di quelli dei Kubo e degli Etolo; adottano delle apparenze sui generis, sono relegati in luoghi inaccessibili e non comunicano con gli umani se non tramite uccelli messaggeri od oggetti rituali. Se si accetta di considerare questi tre esempi come tante tappe di un processo di intensifi cazione dell'uso delle risorse coltivate, non c'è dubbio che una crescente trasformazione dell'ambiente forestale intorno ai centri abitati sia andata di pari passo con l'emergere di un'area periferica sempre più estranea al rapporto di socializzazione ordinaria tra gli umani, come tra gli umani e i non-umani. Dwyer dimostra quindi che niente, né nel vocabolario né negli atteggiamenti, permette di desumere che questi spazi sempre più marginali siano considerati come "selvaggi", nemmeno dai Siana la cui densità demogra fica, del resto, è meno della metà delle popolazioni del monte Hagen29•
Il campo e la risaia Probabilmente le popolazioni delle alte terre della Nuova Guinea costituiscono l'esempio meno probante di un addomesticamento completo dell'ambiente. Anche se intensiva, l'orticoltura per disboscamento in effetti richiede stagioni più o meno lunghe di maggese durante i quali la vegetazione selvatica colonizza per un certo periodo gli orti, intrusione periodica che nasconde il confine che separa le specie antropizzate dal loro margine forestale. Affinché si disegni una polarità manifesta fra selvaggio e domestico, occorre probabilmente una vasta e densa rete di campi permanenti dove niente possa ricordare il disordine delle zone incolte. È il caso delle piane alluvionali e degli altopiani di limoni dell'Asia orientale e del subcontinente indiano che, ben prima del!'era cri stiana, furono interessati dall'agricoltura cerealicola. Durante i millenni, dalla pianura indo-gangetica fino ai confini del fiume Giallo, milioni di contadini hanno dissodato, irrigato, drenato, trasformato i corsi d'acqua e arricchito i suoli, modificando profonda mente l'aspetto delle regioni che avevano preso in possesso. Di fatto, le lingue delle grandi civiltà orientali marcano in modo molto netto la differenza tra i luoghi sui quali gli uomini esercitano un controllo e quelli che sfuggono alla loro influenza. Così, il cinese mandarino distingue tra ye, la zona che si estende al di là della periferia coltivata degli agglomerati urbani, e jiii ting, lo spazio domestico. Per la sua etimologia, il primo termine evoca la nozione di soglia, di limite, di interfaccia e denota tanto il carattere selvaggio dei luoghi quanto quello delle piante o degli animali; jiii ting rinvia in modo più diretto alla domesticità del nucleo familiare e non è usato per riferirsi alle piante e agli animali domestici30 • Ugualmente il giapponese stabilisce Ibid., pp. 177-178. 30 Sono in debito con Anne Henry per queste informazioni.
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2. Il selvaggio e il domestico
un'opposizione tra sato, "il luogo abitato", e yama, "la montagna", quest'ultimo non è percepito tanto come un'elevazione di rilievo che contrasta con la pianura quanto come l'archetipo dello spazio inabitato, comparabile in questo al senso originale della parola deserto in italiano31• Anche in sanscrito, lo spazio rurale con i suoi abitanti sembra chia ramente separato dalla sua periferia non trasformata dall'uomo. Il termine jdngala desi gna le terre inabitate e in hindi classico diventerà sinonimo di "luogo selvaggio", mentre a�avi, "la foresta", non rinvia tanto ad una formazione vegetale quanto ai luoghi occupati dalle tribù barbare, l'antinomia cioè della civilizzazione. A questo si oppone janapada, la campagna coltivata, il territorio dove si trovano gli esseri grdmya, "del villaggio", tra cui gli animali domestici32 • Eppure, se si considerano i modi con cui tutti gli spazi se manticamente segnalati sono percepiti e utilizzati, dobbiamo ammettere che è difficile individuare in Cina, in India o in Giappone una dicotomia del selvaggio e del domestico analoga a quella che ha forgiato l'Occidente. Che in Asia venga fatta una differenza tra i luoghi abitati e quelli che non lo sono, non ha molto di sorprendente; ma che questa differenza ricopra un'opposizione netta tra due tipi di ambiente, due categorie di esseri e due sistemi di valori mutualmente esclusivi, ecco che questo sembra dubbio. La geografia soggettiva dell'antica Cina sembra dominata da un contrasto maggiore tra la città e la montagna: con il suo schema a scacchiera simbolicamente associato ai punti cardinali, la città è allo stesso tempo sia il cosmo, sia il centro di appropriazione del terreno agricolo, sia il centro del potere politico; la montagna, invece, terra di ascesi e di esilio, sembra avere per finalità principale quella di offrire alla rappresentazione pittorica il suo motivo di predilezione3 3• Ma questa opposizione è meno marcata di quanto sembri. Nella tradizione taoista, la montagna è la residenza degli Immortali, esseri impercettibili che si fondono con il rilievo e danno una dimensione sensibile al sacro: la frequentazione della montagna, soprattutto da parte dei letterati, proviene da una ricerca dell'immortalità di cui la raccolta di piante medicinali che assicurano la lon gevità costituisce l'aspetto più prosaico. Inoltre, come Augustin Berque ha ipotizzato, l'estetizzazione della montagna nella pittura paesaggistica cinese può essere vista come una sorta di conquista spirituale che si spiega in parallelo con la conquista delle pianure per l'agricoltura34 . Lontano dal costituire uno spazio anomico e privato della civiltà, la montagna, dominio delle divinità ed espressione della loro essenza, offre al mondo cit tadino e ai villaggi un complemento necessario. La città non è più dissociata dall'entroterra, anche il più lontano. Infatti la sua ubica zione e la disposizione delle sue case sono regolate nei più piccoli dettagli da una sorta di fisiologia dello spazio, il fengshui, reso non perfettamente in italiano con il termine "ge omanzia". Il taoismo insegna che un soffio cosmico, il qi, irradia tutta la Cina a partire 31 Berque, A., 1986, pp. 69-70. ·" Zimmermann, Fr., I 982, pp. 23-69. 33 Nella tradizione pittorica e letteraria cinese, "paesaggio" si dice shanshui, che è una combinazione di montagna (shan) e delle acque (shui); cfr. Berque, A., 1995, p. 82. Per questo approfondimento sulla Cina ho attinto molto da questo testo e da due testi classici: Granet, M., 1968 (I 929) e 1968 (I 934). 34 Berque, A., 1995, p. 84.
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Oltre natura e cultura
dalla catena montuosa del Kunlun, circola lungo linee di forza comparabili alle vene che irrigano il corpo umano. Da qui l'importanza di determinare con la divinazione i luoghi più favorevoli agli insediamenti umani e i modi per modificarli, affinché si armonizzino al meglio con la rete di energia che si dispiega in tutto l'impero di Mezzo. Se è ben si tuata, ben costruita e ben governata, la città cinese è in sintonia con il mondo, il quale, per riprendere una formula di Marce! Granet, «non è in ordine se non quando è chiuso come una dimora» 35 • In uno spazio così densamente regolato dalle convenzioni sociali, il selvaggio non sembra avere molta influenza. E se il pensiero cinese ha piena coscienza che esistono forze oscure che oppongono alla civilizzazione una resistenza enigmatica presso i barbari, è alla periferia del suo dominio che questa le ha respinte. In Giappone la montagna è anche lo spazio per eccellenza che si presenta in contrasto ai territori della piana. Coni lisci dei vulcani, monti coperti da foreste, creste dentellate sono visibili ovunque dalle valli e dai bacini, impongono il loro sfondo di verticalità ali'orizzontalità dei campi e delle dighe. Ma la distinzione tra yama, la montagna, e sato, il luogo abitato, non segnala tanto una esclusione reciproca quanto un'alternanza stagio nale e una complementarietà spirituale36 • Gli dei in effetti si spostano regolarmente da una zona all'altra: scendendo dalle montagne in primavera per diventare divinità delle risaie, compiono il tragitto inverso in autunno per riguadagnare il "tempio del fondo", molto spesso un accidente topografico, dove si situa il loro nucleo originario e la loro vera casa. La divinità locale (kami) procede quindi dalla montagna e ogni anno adempie un viaggio sull'arca sacra che la fa alternare tra il santuario dei campi e il santuario dei monti, specie di culto domestico itinerante dove si confonde il limite fra l'interiorità e l'esteriorità della proprietà rurale. Dal XII secolo la dimensione sacra dei luoghi isolati di montagna aveva fatto di questi il luogo di elezione delle comunità monastiche buddiste, a tale punto che l'ideogramma che significa "montagna" serviva ugualmente a designare i monasteri37 • E se è vero che nello stesso periodo in Occidente i frati dell'ordine di San Benedetto da molto tempo fuggivano il mondo per stabilirsi in luoghi isolati, era tanto per dissodare la foresta ed esorcizzare la sua selvatichezza con la fatica che per elevarsi ancor più verso Dio con la preghiera38 • Niente di tutto questo in Giappone dove la vita monastica non entra nella montagna per trasformarla, ma per mettere qui alla prova, grazie al cammino e alla contemplazione dei luoghi, la fusione con la dimensione sen sibile del paesaggio che è una delle garanzie della salvezza.Né spazio da conquistare né centro di inquietante alterità, la montagna giapponese non è quindi veramente percepita come "selvaggià', sebbene, in modo paradossale, lo possa diventare quando la sua ve getazione è da ogni punto di vista addomesticata. In molte delle regioni dell'arcipelago
J5 Granet, M., 1968 (1934), p. 285. 36 Berque, A., 19686, pp. 73-74. 37 lbid., p. 89. 38 Come scrive Jacques Le Goff: «la religione nata in Oriente all'ombra delle palme, arriva in Occidente a scapito degli alberi, rifugio di geni pagani che monaci, santi, missionari abbattono spietatamente». (Le Goff, J., 1982, p. 106).
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2. Il selvaggio e il domestico infatti, le foreste dei versanti originari sono state rimpiazzate dopo la seconda guerra mondiale da piantagioni artificiali di conifere autoctone, principalmente cipressi giap ponesi e cedri sugi. Ora, mentre l'antica foresta a foglie lucide o caduche rappresenta per gli abitanti dei villaggi di altitudine un luogo dove l'armonia e la bellezza si alimentano con la presenza delle divinità - e allo stesso tempo un giacimento di risorse utili alla vita domestica -, le piantagioni di conifere che gli sono succedute non evocano altro che disordine, tristezza e anomia39 • Mal mantenute, invadendo i campi e le radure, avendo perduto una buona parte del loro valore commerciale, gli "alberi neri" stretti in allinea menti monotoni ormai scappano al controllo sociale e tecnico di coloro che li avevano piantati. La montagna, yama, la foresta, yama, il luogo inabitato, yama, i tre termini si sovrappongono. Ma benché integralmente addomesticata, la foresta artificiale di monta gna è diventata un deserto morale ed economico, molto più "selvaggio", insomma, che la foresta naturale della quale ha preso il posto. La condizione dell'India antica è più complessa, per ragioni terminologiche che Francis Zimmermann ha luminosamente sbrogliato40 • Nei testi sanscriti,jdngala, da cui deriva la parola "jungle" in anglo-indiano, possiede due significati principali. Prima di tutto, l'abbiamo visto, è un luogo disabitato o lasciato da molto tempo incolto. Ma, primo paradosso, jdngafa designa anche le terre secche, ovvero l'esatto opposto di ciò che "jungle" ci evoca dopo Kipling. La giungla, nel suo antico significato, non è quindi l'esuberante foresta monsonica, ma sono le steppe semi-aride spinose, le savane scarsa mente alberate o i boschi caducifogli. In questo si oppone alle terre paludose, anitpa, caratterizzate da formazioni vegetali igrofile: foresta pluviale, mangrovie, zone palustri. Il contrasto trajdngafa e anitpa designa una forte polarità nella cosmologia, nelle scienze mediche e nelle tassonomie delle piante e degli animali: le terre secche sono valorizzate perché salubri, fertili e popolate dagli Ariani, mentre le terre paludose appaiono come dei confini malsani, zone di rifugio per le tribù non ariane. Ciascuno di questi paesaggi costituisce una comunità ecologica a parte, definita da specie animali e vegetali emble matiche e da una fisiologia cosmica che gli è propria. Da qui il secondo paradosso. Come può una zona disabitata, ed in apparenza "selvaggia", essere allo stesso tempo il nucleo per eccellenza delle virtù associate alla civiltà agricola? Molto semplicemente perché la giungla è una potenzialità tanto quanto un'unità geografica. È nelle terre aride che la colonizzazione si è sviluppata grazie all'irrigazione, è all'interno di queste regioni incolte ma fertili che i contadini ariani hanno trasformato i loro territori, lasciando alle tribù dei confini l'uso delle terre paludose, impenetrabili e impregnate di acqua. Il contrasto trajdngafa e anitpa prende quindi la forma di una dialettica a tre termini di cui uno resta implicito. Nell'opposizione tra terre paludose, dominio dei barbari, e terre aride riven dicate dagli Ariani, si innesta un'inclusione che fa della giungla uno spazio inoccupato ma disponibile, un luogo sprovvisto di uomini, ma portatore di valori e di promesse di civiltà. Un tale sdoppiamento impedisce di considerare la giungla come uno spazio 39 Knight, J ., 1996 . 40 Zimmermann, FR., 198 , cap. l; per un'interpretazione diversa vedere Dove, M.R., 1992. 2
Olcre natura e culcura selvaggio da socializzare, dato che essa è virtualmente abitata, poiché avvolge, come fa un progetto o un orizzonte, i fermenti culturali che troverebbero in essa le condizioni propizie per la loro manifestazione. Quanto alle terre paludose, esse non sono più sel vagge, sono solamente sprovviste di attrattiva e buone giusto ad ospitare nella loro fitta penombra qualche umanità periferica. Accumulare un esempio dopo l'altro non è certo mai riuscito a portare alla convin zione, ma almeno permette di far nascere dubbi su alcune certezze radicate. Ora dunque sembra chiaro che, in molte regioni del pianeta, la percezione contrastata degli esseri e dei luoghi secondo la loro più o meno grande vicinanza al mondo degli umani non coincida con l'insieme dei significati e dei valori che si sono progressivamente fissati in Occidente ai poli del selvaggio e del domestico. A differenza delle multiple forme di discontinuità graduale o di inclusione di cui si trova traccia altrove nelle società agricole, queste due nozioni sono mutualmente esclusive e nessuna di queste raggiunge il suo senso se non rapportata ali'altra in un'opposizione complementare.
Ager et silva Selvaggio è, lo si sa, ciò che proviene dalla silva, la grande foresta europea che la colonizzazione romana ha a poco a poco rosicchiato: lo è lo spazio incolto da dissodare, lo sono gli animali e le piante che vi si trovano, le popolazioni rozze che la abitano, gli individui che vi cercano rifugio lontano dalla legge della città e, di conseguenza, i tem peramenti scontrosi rimasti ribelli alla disciplina della vita sociale. Ciononostante anche se questi differenti attributi del selvaggio derivano sicuramente dalle caratteristiche attribuite ad un ambiente molto particolare, non formano un'unità coerente se non perché si oppongono parola per parola alle qualità positive affermate nella vita domestica. Queste si dispiegano dentro la domus, non più un'unità geografi ca come la giungla, ma un ambiente di vita, uno spazio agricolo all'inizio, dove, sotto l'autorità del padre di famiglia e la protezione delle divinità della casa, donne, bambini, schiavi, animali e piante trovano le condizioni propizie per la realizzazione della loro propria natura. Lavori nei campi, educazione, addestramento, divisione dei compiti e delle responsabilità, tutto concorre a disporre umani e non umani in uno stesso registro di subordinazione gerarchizzata del quale le relazioni all'interno della famiglia allargata offrono il modello meglio compiuto. Con la terminologia che li esprime, i Romani ci hanno lasciato in eredità i valori associati a questa coppia antitetica di cui la fortuna è andata via via crescendo. Infatti la scoperta di altre foreste, in altre latitudini, arricchirà la dicotomia iniziale senza alterare i suoi campi di significato. I Tupinamba del Brasile o gli Indiani della Nuova Francia si sostituirono ai Germani o ai Bretoni descritti da Tacito, mentre il domestico, cambiando di grado, sboccerà nel civilizzato41• Si dirà forse che questo scivolamento di senso e di epoca apre la possibilità ad una revisione che Mon41
È questa antinomia più tardiva del selvaggio che ha preso in considerazione l'inglese (opposizione tra
wild e civilized'J o lo spagnolo (salvaje e civilizado).
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2. Il selvaggio e il domestico
taigne o Rousseau sapranno sfruttare: il selvaggio può ormai essere buono e il civilizzato cattivo, il primo incarna delle virtù di semplicità antica che la corruzione dei costumi ha fatto perdere al secondo. Dimentichiamo che tale artificio retorico non è affatto nuovo - Tacito stesso vi ha ceduto - e che non mette per niente in causa il gioco di determina zioni reciproche che rende il selvaggio e il domestico costitutivi l'uno del!'altro. Probabilmente perché non tengono conto di questa impossibilità di pensare uno dei termini di opposizione senza pensare all'altro, alcuni autori tendono a fare del selvaggio una dimensione universale della psiche, un tipo di archetipo che gli uomini avrebbero progressivamente rimosso o incanalato in modo che avanzasse il loro dominio sui non umani. È così lo schema proposto da Max Oeschlaeger, un filosofo dell'ambiente, nella sua voluminosa storia dell'idea della natura selvaggia (wilderness): mentre i cacciatori raccoglitori del paleolitico avrebbero vissuto in armonia con un ambiente selvaggio or nato di tutte le qualità, ma ipostatizzato in un dominio autonomo e adorato nell'ambi to di una religione "totemica", i coltivatori del neolitico mediterraneo avrebbero rotto questa bella intesa ed intrapreso ad asservire la selvatichezza, riducendo così gli spazi dominati dall'uomo ad uno status subalterno, fino alla loro ribalta grazie alla filosofia e alla pittura americana del XIX secolo42• Forse; eppure si capisce male come la nozione stessa di selvatichezza avrebbe potuto esistere in un mondo preagricolo dove essa non era contrapposta a niente e, per quale motivo, se essa incarnava dei valori positivi, si sarebbe manifestata la necessità di eliminare ciò a cui essa si riferiva. Ian Hodder evita questo genere di aporia quando suggerisce che la costruzione sim bolica del selvaggio è iniziata in Europa dal paleolitico superiore come un sostegno necessario all'emergenza di un ordine culturale. Per questo pioniere della nuova arche ologia interpretativa anglosassone, l'addomesticamento del selvaggio comincia con il miglioramento degli utensili litici caratteristici del Solucreano, testimonianza di un "de siderio" di cultura che si esprime in un perfezionamento delle tecniche cinegetiche. Una protezione più efficace contro i predatori e una sussistenza meno aleatoria avrebbero quindi permesso di superare la paura istintiva nei confronti di un ambiente inospitale e avrebbero permesso di fare della caccia il luogo simbolico del controllo del selvaggio allo stesso tempo che una fonte di prestigio per coloro che vi eccellevano. Lorigine dell'agri coltura in Europa e nel Vicino-Oriente si spiegherebbe semplicemente con l'estensione di questa volontà di controllo sulle piante e gli animali, poco a poco sottratti al loro am biente e integrati nella sfera domestica43 • Niente permette di affermare che le cose siano andate proprio così o se Hodder, portato dalla sua immaginazione, abbia interpretato le antiche vestigia secondo categorie mentali la cui esistenza non è attestata se non molto più tardi. La questione non risiede tanto nel sapere per quale ragione un tale movimento si sarebbe prodotto in una certa regione del mondo e non altrove. Infatti le disposizioni psicologiche invocate da Hodder, come origine della propensione a esercitare un do minio sempre più grande sui non-umani, sono di una cale generalità che non si capisce
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Oelschlaeger, M., 1991. 43 Per esempio vedere Hodder, I., 1990.
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come mai questo processo non avrebbe potuto essere completato dappertutto. Ora, l'ad domesticamento delle piante e degli animali non è una fatalità storica che soltanto degli ostacoli tecnici avrebbero qua e là ritardato; molti popoli del mondo non sembrano aver sentito molto la necessità di tale rivoluzione. Bisogna ricordare che civilizzazioni raffina te - le culture della costa ovest del Canada o del sud della Florida, per esempio - si sono sviluppate privilegiando il prelevamento di risorse selvatiche? Bisogna ripetere che molti cacciatori-raccoglitori contemporanei manifestano una sicura indifferenza, in realtà una franca ripugnanza, verso l'agricoltura e l'allevamento che vedono praticati alla periferia delle loro proprietà? Addomesticare non è per loro una costrizione, ma una scelta dive nuta tangibile e che, nondimeno, continuano a respingere. In modo più sottile, Bertrand Hell avanza l'ipotesi che un'immagine collettiva del selvaggio sarebbe presente ovunque in Eurasia, se ne trova traccia nelle credenze, nei riti e nelle leggende che riguardano la caccia e il trattamento della grossa selvaggina44 • Un motivo centrale struttura questa configurazione simbolica, il tema del "sangue nero", sangue denso del cervo in calore e del cinghiale solitario, insieme pericoloso e desiderabi le, portatore di potenza riproduttiva e origine di inselvatichimento. Infatti questo fluido scorre anche nelle vene dei cacciatori quando sono scaldati in autunno dalla Jagdfieber, "la febbre della caccia"; questa ha preso possesso dei boscaioli, bracconieri ed emarginati che fuggono la socialità del villaggio, appena distinti dai portatori di rabbia e dai lupi mannari. È vero che nell'area germanica dove Hell prende la maggior parte dei suoi esempi, il mondo del selvaggio sembra aver acquisito una certa autonomia e allo stesso tempo un potere di fascino ambiguo, come se gli fosse stato concesso uno spazio affinché sopravvivesse, origine di vita e realizzazione virile piuttosto che contrasto negativo con i territori coltivati45• Quindi, anche se non è il rigoroso opposto delle attività di coltiva zione, il dominio di Wild è altrettanto chiaramente socializzato. Viene identificata con la grande foresta, non la silva improduttiva che frena la colonizzazione, ma la foresta, la gigantesca riserva di caccia che, dal IX secolo, la dinastia carolingia si è occupata di costituire con degli editti che limitano il pascolo e il dissodamento46 • La selvatichezza non può più essere coltivata, quindi, poiché legata ad un'antichissima pratica di pianifi cazione e gestione dei territori di caccia, attuazione di un'élite che vede nell'appostarsi e nel pedinamento della grossa selvaggina una scuola di coraggio e formazione del carat tere. Proprio perché Hell descrive con cura il contesto storico all'interno del quale si è sviluppato l'immaginario del selvaggio nel mondo germanico, diventa difficile seguirlo quando si sforza di trovare delle manifestazioni analoghe nelle altre regioni del pianeta,
44 Hell, B., 1994. 45 In tedesco, del resto, e a differenza di altre lingue europee, la parola wild, "selvaggio", non ha antonimi diretti; si oppone a seconda del contesto ad una pluralità di termini: zahm, "addomesticato", "docile", nei casi di bambini o di animali, gebildet o gesittet, "coltivato", "civilizzato", per ciò che è degli uomini, senza contare i numerosi derivati da Kultur, nel suo senso letterale - come Kulturboden, "spazio o suolo coltivato", - o nel suo senso figurato, come kultiviert, "civiltà", o Kulturvolk, "popolo civilizzato", ecc. 46 Hell, B., 1994, pp. 22-23.
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2. Il selvaggio e il domestico come se ovunque e sempre gli uomini avessero avuto coscienza che forze oscure e ambi valenti dovessero essere addolcite dagli artifici della civilizzazione47 •
Il pastore e il cacciatore Stiamo attenti all'etnocentrismo: la "rivoluzione neolitica" del Vicino Oriente non è uno scenario universale le cui condizioni di manifestazione e gli effetti materiali e ideali sarebbero asportabili tali e quali al resto del mondo. Nelle altre culle dell'agricoltura, l'addomesticamento e la gestione delle piante coltivate sembrano essersi sviluppati in contesti tecnici e mentali che, lo abbiamo visto, non hanno favorito molto l'emergere di una distinzione mutualmente esclusiva tra un dominio antropizzato e un settore resi duale inutile all'uomo o votato a cadere alla fine sotto la sua dominazione. Sicuramente sarebbe assurdo pretendere che la differenza tra ecumene ed eremo fosse stata percepita ed espressa solo in Occidente. Sembra invece probabile che i valori e i significati legati all'opposizione fra selvaggio e domestico siano propri di una traiettoria storica particola re e che dipendano in parte da una caratteristica del processo di neolitizzazione che si è messo in movimento nella "mezzaluna fertile" poco più di diecimila anni fa. In una re gione che va dal Mediterraneo orientale all'Iran, infatti, l'addomesticamento delle piante e degli animali si è prodotto in modo più o meno congiunto in appena più di un millen nio48 . La coltura del grano, dell'orzo e della segale è accompagnata dall'allevamento della capra, del bue, del montone e del maiale, che istituiscono così un sistema complesso e interdipendente di gestione dei non-umani in un ambiente modificato per permettere la loro coesistenza. Ora una tale situazione è in contrasto con ciò che è successo negli altri continenti dove i grandi mammiferi furono per lo più addomesticati molto dopo le piante o molto prima nel caso dell'Est Africa, ammesso che siano stati addomesticati, poiché in gran parte delle Americhe e in Oceania, l'agricoltura si è sviluppata escludendo l'allevamento o integrandolo in modo tardivo con il contributo di animali già addome sticati altrove. Con il neolitico europeo si istituisce un contrasto maggiore che oppone chiaramente gli spazi coltivati a quelli che non lo sono, ma anche e soprattutto gli animali domestici agli animali selvatici, il mondo della stalla e dei terreni di pascolo al regno del cacciatore e della selvaggina. Può darsi che un tale contrasto sia stato ricercato e mantenuto efficace al fine di gestire i luoghi dove potessero diffondersi delle qualità - astuzia, resistenza fisica, piacere della conquista - che, salvo la guerra, non trovavano più sfogo all'interno del molto controllato del terreno agricolo. Infatti non è impossibile che i popoli del ne olitico europei si siano astenuti dall'addomesticare qualche specie, soprattutto i cervidi, in modo da preservarli come selvaggina di qualità. l:addomesticamento di alcuni ani mali sarebbe quindi stato simmetrico ad una sorta di "cinegetizzazione" di qualche altro lbid., pp. 349-353. Per l'addomesricamenco degli animali vedere Digard, J. P., 1990, pp. 105-125; per la neolirizzazione nel Vicino-Oriente vedere Cauvin, J., 1994, pp. 55-86. 47 48
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animale, il mantenimento di questi nel loro ambiente naturale non essendo risultato da ostacoli tecnici, ma anzi dalla volontà di istituire una proprietà riservata alla caccia, che si distaccava dalla proprietà coltivata49 • Che l'antinomia del selvaggio e del domestico si nutrisse, nel mondo mediterraneo, di un contrasto tra la caccia e l'allevamento, è ciò che l'esempio della Grecia antica mo stra in modo molto netto. I Greci, si sa, non mangiavano altro che la carne che veniva dal sacrificio, preferenzialmente un bue da tiro, o ottenuta con la caccia. Nell'economia simbolica dell'alimentazione e degli status, le due attività sono insieme complementari ed opposte. La cucina del sacrificio avvicina gli umani agli dei e allo stesso tempo li differenzia, dato che i primi ricevono la carne cotta dell'animale, mentre i secondi non hanno diritto che alle ossa e al fumo dei roghi. Al contrario, come scrive Pierre Vidal Naquet, «la caccia[ ...] definisce i rapporti dell'uomo con la natura selvaggia» 50 • Qui ci si comporta come gli animali predatori, eppure vi si differisce per il dominio dell'arte della cinegetica, una techne che si ricollega ali' arte della guerra e, più in generale, ali'arte poli tica. Uomini, animali e dei, è un sistema a tre poli nel quale l'animale domestico (zoon) è disposto vicino agli umani, poco al di sotto degli schiavi e dei barbari in ragione della sua attitudine a vivere in collettività - pensiamo alla definizione di zoon politikon di Ari stotele - e nettamente distaccato dagli animali selvatici (theria) 51• La vittima sacrificale rappresenta un punto di intersezione tra l'umano e il divino, ed è d'altronde assoluta mente necessario ottenere da essa un segno di assenso prima della messa a morte, come se l'animale acconsentisse al ruolo che gli si è fatto sostenere nella vita civica e liturgica della città. Tale precauzione è inutile nella caccia dove la vittoria si ottiene rivaleggiando con la selvaggina: gli adolescenti qui fanno prova di astuzia e agilità, gli uomini maturi armati dello spiedo52 qui testano la loro forza e abilità. Aggiungiamo che agricoltura, al levamento e sacrificio sono strettamente legati poiché il consumo del!'animale immolato si deve accompagnare con prodotti coltivati, orzo tostato e vino53 • I.:habitat degli animali selvatici costituisce così una cintura di non-civilizzazione indispensabile alla civilizzazio ne affinché essa fiorisca, un teatro dove si possono mettere alla prova gli atteggiamenti virili che sono agli antipodi delle virtù di conciliazione richieste dal trattamento degli animali domestici e dalla vita politica.
Pesaggio romano, foresta Ercinia, natura romantica Riguardo a ciò, il mondo latino offre un esempio opposto. Anche se fondato da una coppia di gemelli inselvatichiti, Roma si libera poco a poco dal modello di caccia eroica per non vedere più nella ricerca della preda che un mezzo per proteggere le coltivazioni. Fin dalla fine della Repubblica, Varrone stigmatizza l'inutilità della caccia e il suo scarso 49 È l'ipotesi che sviluppa Vigne, J.-D., 1993. 50 Vidal-Naquec, P., 1972, p. 138. 51 Vidal-Naquet, P., 1975. 52 Spiedo come arma da punta (n.d.t.). 53 Vidal-Naquec, P., 1972, p. 139.
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rendimento rispetto all'allevamento (Rerum rusticarum), un punto di vista che riprende Columella un secolo più tardi nel suo trattato sull'agronomia (De re rustica). Il metodo della grande caccia con i cani, portato dall'Asia Minore da Scipione Emiliano, non ar riva a imporsi su un'aristocrazia più preoccupata del rendimento delle proprie proprietà che delle prodezze cinegetiche: gli animali selvatici sono prima di tutto nocivi la cui eliminazione spetta agli intendenti e ai professionisti delle trappole54. Infatti è la grande villa romana, la villa, che si impone ormai sull'organizzazione del paesaggio rurale nelle regioni di pianura. Compatta nella sua vasta superficie quadrangolare, consacrata alla coltura dei cereali e alle piantagioni di vigneti e olivi, essa opera una separazione netta tra le terre bonificate e sfruttate (l'ager) e la zona periferica dedicata alla libera pastu razione del bestiame (il saltus). Quanto alla grande foresta, l'ingens silva, essa ha perso tutta l'attrattiva che un tempo aveva potuto esercitare sui cacciatori: non è più che un ostacolo ali'estensione dell'attività agricola. La gestione razionale delle risorse si estende d'altronde fino alla selvaggina le cui popolazioni sono scelte e controllate, almeno nelle grandi proprietà rurali, grazie a punti di foraggiamento verso i quali i cervidi selvatici sono guidati durante l'inverno da loro simili addomesticati a tal scopo55 • I Romani dell'Impero hanno certamente un punto di vista ambivalente nei confronti della foresta. In una penisola quasi disboscata, essa evoca lo scenario dei miti di fonda zione, il ricordo dell'antica Rhea Silvia, e la capacità nutritiva e sacra che le è connessa si perpetua come un eco attenuato nei boschi consacrati ad Artemide e ad Apollo o nel santuario silvestre che circonda il lago Nemi di cui lo strano rituale fornisce a Frazer l'inizio del suo Il ramo d'oro. Ma questi boschetti residuali di cui gli alberi forniscono oracoli non sono più che modelli ridotti di foresta primitiva, sconfitta con l'attività agri cola. Come sottolinea bene Simon Schama nel suo commento alla Germanie di Tacito, la vera foresta rappresenta l'esterno rispetto a Roma, il confine dove termina la giurisdi zione dello Stato, il ricordo dell'impenetrabile confusione vegetale dove gli Etruschi si erano ritirati per scappare alle conseguenze della loro disfatta e, concretamente, questa gigantesca distesa rimboschita che si estende ad est della Gallia latinizzata dove gli ultimi selvaggi dell'Europa resistevano ancora alle legioni56• Questa "terra informe" non piace ai Romani: non è piacevole né da guardare, né da abitare. Quale bellezza potrebbe ben presentare agli occhi delle persone che apprezzano la natura quando essa è trasformata dall'azione civilizzatrice e che preferiscono decisamente il fascino bucolico di una cam pagna dove si legge l'impronta del lavoro e della legge sul disordine folto e umido della foresta Ercinia? È questo paesaggio romano e i valori che gli sono associati, introdotti dalla colonizzazione nelle vicinanze delle città fino alle rive del Reno e in Bretagna, che vanno a disegnare la figura di una polarità tra il selvaggio e il domestico da cui noi ancora oggi dipendiamo. Né proprietà delle cose né espressione di una natura umana atemporale, questa opposizione possiede una propria storia, condizionata da un sistema
14 Hell, B., 1994, p. 22. ss Secondo Columella, citato da Bodson, L., p. 124. 56 Schama, S., 1999, pp. 95-102.
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non ci autorizza in alcun modo di trasformazione dello spazio e uno stile alimentare che a renderla comune ad altri continenti. Anche in Occidente, del resto, la linea di confine tra il selvaggio e il domestico non è mai stata così chiaramente marcata come ha potuto essere la campagna del Latium. Durante il primo periodo dell'Alto Medioevo, la fusione progressiva delle civilizzazio ni romane e germaniche generò un uso molto più intensivo del bosco e delle pianure incolte e un'attenuazione del contrasto tra aree coltivate e non coltivate. Nel paesaggio germanico tradizionale, lo spazio non agricolo è in parte annesso al villaggio. Intorno alle piccole frazioni molto sparse che circondano le radure arabili si estende un vasto perimetro di foresta sottoposto allo sfruttamento collettivo: qui si pratica la caccia e la raccolta, qui si prende la legna da ardere, per la costruzione e per gli utensili, qui si portano i maiali a mangiare le ghiande. Tra la casa e la foresta profonda, la transizione è quindi molto graduale; come scrive Georges Duby, «questa compenetrazione del campo e dello spazio campestre, forestale e del pascolo, è probabilmente il tratto che distingue più nettamente il sistema agrario "barbaro" dal sistema romano, il quale dissocia l'ager dal saltus» 57 • Ora l'organizzazione romana dello spazio si deteriora nei secoli VII e VIII con il cambiamento delle abitudini alimentari e la crescente insicurezza che regna nelle regioni della pianura impossibili da difendere. Il lardo e il grasso si sostituiscono all'olio, la selvaggina rimpiazza la carne perfino nelle case ricche, i prodotti del saltus e della si/va si impongono man mano che la situazione delle grandi proprietà agricole peggiora. È da questa ibridazione tra il dualismo romano e l'organizzazione concentrica di tipo ger manico che nasce il paesaggio dell'Occidente medievale dove, malgrado le apparenze, la frontiera tra ecumene ed eremo non è più così tracciata come era qualche secolo prima. Forse bisognerà comunque attendere il XIX secolo affinché questa frontiera acquisi sca un vigore nuovo contemporaneamente alla dimensione estetica e morale che colora fino ad oggi la nostra valutazione dei luoghi. È il momento, si sa, in cui il romanti cismo inventa la natura selvaggia e ne divulga il gusto; è il momento in cui i saggisti della filosofia della wilderness, Ralph Waldo Emerson, Henry David Thoreau o John Muir, incitano i loro compatrioti a ricercare nella frequentazione delle montagne e delle foreste americane un'esistenza più libera e più autentica di quella della quale l'Europa aveva lungamente dato il modello; è il momento, anche, in cui il primo parco naturale è creato, a Yellowstone, come una grandiosa messa in scena dell'opera divina. La natura da delicata e bella, diventa selvaggia e sublime. Il genio della Creazione non si esprime più nei paesaggi aureolari di luce romana di cui Corot perpetua la tradizione, ma anzi in precipizi dove gorgogliano torrenti, massicci sovraumani da dove crollano caos di rocce, alte e scure fustaie che districano Cari Blechen, Caspar David Friedrich o Cari Gustav Carus in Germania, Thomas Moran o Albert Bierstadt negli Stati Uniti58 • Dopo secoli di
57 Duby, G., 1973, p. 33. 58 Negli Stati Uniti la transizione verso una nuova sensibilità paesaggistica è più tardiva che in Germania; nel 1832, Washington lrving continua a descrivere i paesaggi del Far West richiamando Salvator Rosa e Claude Lorrain (in A Tour on the Prairies, citato da Roger, A., 1997, p. 43, n. 2).
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2. Il selvaggio e il domestico indifferenza o terrore, i viaggiatori scoprono la severa bellezza delle Alpi, i poeti cantano il delizioso orrore dei ghiacciai e dei baratri, soccombendo a questa «esaltazione alpina degli scrittori delle montagne» che lo stesso Chateaubriand troverà eccessiva59 • La storia è ben definita da questa sensibilità nuova che, in piena industrializzazione, scopre un antidoto al disincanto del mondo in una natura selvaggia redentrice e già minacciata. Un tale sentimento ha conquistato una forte evidenza e i suoi effetti sono ovunque pre senti intorno a noi: nella predilezione che incontrano la protezione dei siti naturali e la conservazione delle specie in estinzione, nella popolarità dell'escursionismo e il gusto dei paesaggi esotici, nell'interesse che suscitano l'ocean racing o le spedizioni nell'Antartico. Ma la forza dell'ovvietà forse ci impedisce di valutare che l'opposizione del selvaggio e del domestico non è attestata in tutti i luoghi e in ogni momento e che essa deve il suo attuale potere di opinione alle circostanze di un'evoluzione delle tecniche e dei modi di pensare che altri popoli non hanno affatto condiviso. *** La compagna di viaggio di Michaux forse non aveva letto La Nouvelle Héloise né am mirato i paesaggi tormentati di Turner. L'idea di salvaguardare la foresta di cui i suoi con cittadini saccheggiavano le risorse non l'aveva mai sfiorata. Lei era preromantica e aveva orrore della vegetazione sfrenata, degli animali inquietanti e degli insetti in moltitudini. Forse si era anche meravigliata del gusto perverso di cui testimonia il giovane poeta eu ropeo in questo caos di piante da cui lei cercava di distanziarsi. Sul piccolo battello che discendeva il Rio delle Amazzoni, trasportava così una visione molto particolare del suo ambiente, un bagaglio di pregiudizi e di sentimenti che gli Indiani di quell'area avrebbe ro trovato molto enigmatici se per spirito di avventura avesse avuto la capacità o la voglia di renderli partecipi. La conquista degli spazi vergini era per lei una realtà tangibile e un obiettivo desiderabile, allo stesso tempo che un eco attenuato e confuso di un contrasto più profondo tra la natura e la civilizzazione. Tutto ciò, lo si indovina, non avrebbe avuto alcun senso per gli Indiani che vedono nella foresta ben altre cose che un luogo selvaggio da addomesticare o un motivo di dilezione estetica. È vero che la questione della natura non è molto presente per loro. È là un feticcio che ci è proprio, molto efficace del resto, come tutti gli oggetti della credenza che gli uomini si danno per agire sul mondo.
59 Al momento della spedizione al Saint Gothard: «D'altronde, mi sono dato un bel da fare per giungere all'esaltazione alpina degli scrittori di montagna, ci ho solo speso fatica» (Mémoires d'outre-tombe, tomo II, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», p. 591).
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LA GRANDE DIVISIONE
� autonomia del paesaggio Per arbitraria che possa sembrare raie genealogia, non posso fare a meno di associare l'emergere della concezione moderna di natura a un piccolo disegno intravisto qualche anno fa nella fredda luce di una galleria del Louvre. Un'esposizione l'aveva riesumato per breve tempo dal cabinet dei Dessins dove è poi ritornato, attribuendogli una notorietà passeggera poiché figurava anche in copertina del caralogo 1 • Il disegno mostra un'au stera gola rocciosa che apre sullo sfondo di un'ampia valle dove, tra boschetti e fattorie dall'aspetto sontuoso, serpeggia un fiume dai larghi meandri. Nell'angolo inferiore sini stro un personaggio visto di schiena è seduto, minuscolo nel mezzo dei blocchi di calcare. Portando mantello e piuma sul cappello, è occupato a schizzare dal vero la vista che gli si presenta. Si tratta di Roelandt Savery, un artista di origine fiamminga che, verso il 1606, si è rappresentato mentre dipingeva all'aria aperta un paesaggio del sud-ovest della Boe mia. Ufficialmente recensito come "pittura di paesaggio" alla corte di Praga dove succes sivamente fu al servizio dell'imperatore Rodolfo II e di suo fratello Marhias, Savery aveva come missione quella di percorrere le Alpi e la Boemia per dipingerne i luoghi rilevanti dal punto di vista della natura2. Infatti, l'aspetto delle formazioni rocciose, la precisione dei diversi piani del rilievo, la posizione dei campi, dei sentieri e delle case, tutto fa pensa re che questo disegno riproduca una vista prospettica reale, benché forse un po' di scorcio, in modo da accentuare il carattere vertiginoso della montagna. Il Paysage montagneux avec un dessinateur di Savery, nella storia della pittura occiden tale, non è cerro la prima rappresentazione di un paesaggio. Gli storici dell'arte fanno
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Legrand, C., Méjanés, J.-F. e Starcky, E., 1990. lbid., pp. 60 e 93-94.
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risalire l'origine di questo genere alla prima metà del XV secolo con l'invenzione, grazie agli artisti fiamminghi, della "finestra interna" dove si ritaglia una vista dell'entroterra3• Generalmente il motivo principale della tela resta una scena sacra situata all'interno di un edificio, ma la finestra o la galleria sullo sfondo isolano un paesaggio profano, lo circoscrivono alle dimensioni di un piccolo quadro e gli danno un'unità e un'autonomia che lo sottrae ai significati religiosi incarnati dai personaggi del primo piano. Mentre la pittura del Medioevo trattava gli elementi presi dall'ambiente come tante icone disperse in uno spazio discontinuo, asservendole alle finalità simboliche ed edificanti dell'imma gine sacra, il vedutismo interno organizza questi elementi in una totalità omogenea che acquista una dignità quasi uguale ali'episodio della storia cristiana descritto dall'artista. Basterà allora ingrandire la finestra alle dimensioni della tela perché il quadro nel quadro divenga il soggetto stesso della rappresentazione pittorica e, cancellando il riferimento religioso, fiorisca un vero e proprio paesaggio. Di.irer è probabilmente il primo a portare questo processo a termine, verso il 1490, nei suoi acquerelli e tempere della giovinezza4 . Contrariamente al suo contemporaneo Pati nir, i cui celebri paesaggi ancora includono delle scene sacre, come pretesto per rappre sentare con virtuosità il contesto naturale della loro azione, Oi.irer dipinge degli ambienti reali dove i soggetti umani sono scomparsi. Ma gli acquerelli di Di.irer erano un esercizio di stile personale; ignorati dai suoi contemporanei, essi non ebbero influenza immediata sul modo di percepire e rappresentare il paesaggio. Oi.irer è anche il primo pittore nel mondo germanico a padroneggiare i fondamenti matematici della prospettiva lineare che Alberti aveva codificato una cinquantina di anni prima. Infatti l'emergere del paesaggio come genere autonomo dipende dalla sua composizione secondo le nuove regole della Perspectiva artificialis: la disposizione degli oggetti e il campo nel quale si dispongono sono ormai comandati dalla vista dall'alto dello spettatore, come attraverso un piano tra sparente, dentro uno spazio esteriore ed insieme infinito, continuo e omogeneo. In un celebre saggio, Panofsky ha mostrato come l'invenzione della prospettiva li neare nella prima metà del XV secolo induceva un rapporto nuovo tra il soggetto e il mondo, tra il punto di vista di colui che osserva e uno spazio reso sistematico, dove gli oggetti e gli intervalli che li separano non sono che delle variazioni proporzionali di un continuum senza incrinature5• Le tecniche di scorcio impiegate nell'arte antica mirano a restituire la dimensione soggettiva della percezione delle forme attraverso una defor mazione metodica degli oggetti rappresentati, ma lo spazio dove questi si inscrivono resta discontinuo e come residuale. Invece la prospettiva moderna mira a restituire una coesione del mondo perfettamente unificato in uno spazio razionale, matematicamen te costruito per scappare alle costrizioni psicofisiologiche della percezione. Ora, questa nuova "forma simbolica" di comprensione del mondo presenta un paradosso che Pa·' Gombrich, E., 1983, pp. 15-43. Alain Roger (1997, pp. 73-76) segnala che uno dei primi esempi di "finestra interna" sarebbe La Madone à l'écran doiser di Roberr Campin, derro "le Mairre de Flemalle", verso il 1420-1425 (Londra, Narion Galley). 4 Roger, A., 1997, pp. 76-79. 5 Panosfky, E., 1975.
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nofsky ha messo bene in luce6. Lo spazio infinito e omogeneo della prospettiva lineare è nondimeno costruito e imperniato su un punto di vista arbitrario, quello della direzione dello sguardo dell'osservatore. È quindi un'impressione soggettiva che serve da punto di partenza per la razionalizzazione di un mondo dell'esperienza nel quale lo spazio fenomenico della percezione è trasposto in uno spazio matematico. Tale "oggettivazio ne del soggetto" produce un doppio effetto: crea una distanza tra l'uomo e il mondo restituendo all'uomo la condizione di acquisizione di autonomia nelle cose, sistema tizza e stabilisce l'universo esteriore proprio conferendo al soggetto il dominio assoluto sull'organizzazione di questa esteriorità nuovamente conquistata7• La prospettiva lineare istituisce così, nel campo della rappresentazione, la possibilità di questo confronto tra l'individuo e la natura che diventerà caratteristica dell'ideologia moderna e della quale la pittura del paesaggio diventerà l'espressione artistica. In effetti, si tratta proprio di un confronto, di una nuova posizione dello sguardo. Infatti la proiezione allontana le cose ma non porta con sé alcuna promessa della loro vera rivelazione; come scrive Merleau Ponty, «piuttosto essa rimanda al nostro punto di vista: quanto alle cose, esse fuggono ad una distanza che nessun pensiero attraversa» 8 • Savery accoglie l'eredità di questa rivoluzione cominciata molte generazioni prima di lui, ma il suo disegno è innovativo per due cose. La tematica come la tecnica testimo niano l'influenza di Pieter Bruegel, celebre fin dalla seconda metà del XVI secolo per i suoi paesaggi montagnosi. Se si escludono gli acquerelli di Diirer, che non hanno avuto posteriorità immediata, e qualche sorprendente acquaforte di Altdorfer, le viste alpestri di Bruegel l'Anziano sono fra tutte le prime rappresentazioni pittoriche che cancellano l'uomo dal paesaggio o lo rappresentano solamente attraverso le sue opere. Ma mentre i paesaggi di Bruegel erano spesso delle composizioni immaginarie liberamente interpre tate a partire da schizzi fatti dal vero, il disegno di Savery è, sembra, una rappresentazio ne molto fedele di un luogo reale. Più importante, forse, Savery sembra aver spinto fino alla sua conclusione logica il paradosso della prospettiva formulata da Panofsky. Là dove Bruegel, eliminando gli umani dal paesaggio, rende semplicemente manifesta l'esterio rità del soggetto che dà senso e coerenza ad una natura oggettiva, Savery reintroduce questo soggetto nella rappresentazione pittorica rappresentando l'atto stesso con il quale lui oggettiva uno spazio distinto da quello dove si trova, che è esso stesso distinto dallo spazio offerto alla vista dello spettatore. Infatti la vista prospettica presentata a quest'ul timo non è la stessa di quella che il disegnatore, spostata verso la sinistra del disegno ma situata sull'asse stesso della gola, sta tracciando sulla carta. Abbiamo quindi in questo paesaggio un'oggettivazione sdoppiata del reale, una rappresentazione in qualche modo riflessiva dell'operazione con la quale la natura e il mondo sono prodotti come degli oggetti autonomi grazie allo sguardo che l'uomo porta su essi. Forse qui bisognerà anche parlare di una tripla articolazione, se si adotta la distinzio ne proposta da Alain Roger tra "artialisation" in situ e "artialisation" in visu: la prima delbid, pp. 160-182. 7 lbid, p. 159. 8 Merleau-Poncy, M., 1964, p. 50.
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finisce la gestione di una parte di natura con scopi ricreativi ed estetici, l'arte dei giardini al primo posto, mentre la seconda qualifica la rappresentazione paesaggistica nella pittu ra9. Certo, la campagna che il disegno di Savery rende visibile non è un parco all'inglese, e forse la sua eleganza quasi arcadica deve tanto ali'abilità dell'artista quanto al volere degli abitanti. Eppure scommettiamo che essi sapevano ciò che facevano disponendo qui un boschetto di giovani olmi, là un melo nel mezzo di un prato, là ancora un albero dall'ombra fresca nel cortile di una casa. Non è quindi impossibile che il Landschafts mahfer dell'imperatore abbia voluto riunire nei due piani della sua vista prospettica sia la rappresentazione di una formazione rocciosa caratteristica dei massicci siluriani della Boemia sia la rappresentazione di un'organizzazione dell'habitat rurale anch'esso tipico di questa regione; natura selvaggia e campagna addomesticata si sposano già con l'azione del disegnare per produrre un genius foci. Anche quando non sia proprio così, il disegno è sufficientemente originale nella sua composizione perché soddisfi la fantasia di vederci una notevole comparsa degli inizi della produzione moderna della natura. In circa centocinquanta anni, da Patinir e Oiirer a Ruysdael e Claude Lorrain, la pit tura paesaggistica raggiunge la piena padronanza dello spazio: a una scenografia dove la successione dei piani evoca ancora lo scenario del teatro si sostituisce un'impressione di profondità omogenea che cancella l'artificio della costruzione prospettica, contribuendo così a confrontare il ritratto del soggetto con la natura che dipinge. Questo modo di rappresentare l'ambiente umano nella sua esteriorità è certo indissociabile dal processo di matematizzazione dello spazio operata durante lo stesso periodo dalla geometria, la fisica e l'ottica, dal decentramento cosmologico di Copernico alla res extensa di Cartesio. Come scrive Panofsky, «la geometria di proiezione del XII secolo [ ...] è un prodotto di atelier d'artista» IO. Linvenzione di dispositivi inediti di sottomissione del reale alla vista - la prospettiva lineare, certo, ma anche il microscopio (1590) e il telescopio (1605) - ha permesso di instaurare un nuovo rapporto con il mondo circoscrivendo alcuni dei suoi elementi all'interno di una cornice percettiva strettamente delimitata che da allora in poi rende loro un risalto e un'unità prima sconosciuti. Il privilegio accordato alla vista a scapito di altre facoltà sensibili approda ad una autonomizzazione della conoscenza che la fisica cartesiana saprà sfruttare e che allo stesso modo favorisce l'espansione dei confini dell'universo conosciuto grazie alla scoperta e alla cartografia dei nuovi continenti. Or mai muta, inodore e impalpabile, la natura è svuotata di ogni vita. Dimenticata la buona madre, scomparsa la matrigna, rimane solo l'automa ventriloquo del quale l'uomo può diventare "padrone e possessore". Infatti la dimensione tecnica dell'oggettivazione del reale ovviamente è essenziale nella rivoluzione meccanicistica del XVII secolo che rappresenta il mondo con l'immagine di una macchina i cui ingranaggi possono essere smontati dagli scienziati, e non più come una totalità composita di umani e di non-umani dotata di un significato intrinseco grazie alla creazione divina. Robert Lenoble assegna una data a questa rottura: la pubblicazione
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Roger,A., 1997,pp. 16-20. Panofsky, E., 1975.
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3. La grande divisione di Galileo nel 1632 dei Dialoghi sopra i massimi sistemi del mondo, dove la fisica moderna emerge, nell'arsenale di Venezia, da una discussione di ingegneri delle arti meccaniche, !ontanissima dalla disputatio dei filosofi sulla natura dell'essere e dell'essenza delle cose 11 • La costruzione della natura è proprio iniziata! Costruzione sociale e ideologica, con ogni probabilità, ma anche costruzione pratica, grazie all'abilità degli orologiai, dei vetrai o dei pulitori di lenti, di tutti questi artigiani che rendono possibile la sperimentazione in la boratorio e, grazie a quest'ultima, il lavoro costante di scomposizione e di ricomposizione dei fenomeni con i quali sono prodotti gli oggetti della scienza nuova la cui autonomia viene acquistata al prezzo di un'amnesia del processo che ha portato alla loro oggettiva zione. Liberati grazie alla ragione dall'oscura confusione dell'esperienza di altri, resa tra scendente grazie alla frattura dei legami che li connettevano ai disordini della soggettività e alle illusioni della continuità, ecco che appaiono gli oggetti "fatticci" della modernità, per riprendere il felice neologismo di Bruno Latour 12 • Il dualismo dell'individuo e del mondo diviene da allora in poi irreversibile, chiave di volta di una cosmologia dove si ritrovano a confronto le cose sottomesse alle leggi e al pensiero che le organizza in insiemi significanti, il corpo diventato meccanismo e l'anima che lo disciplina secondo l'intento divino, la natura spogliata dei suoi prodigi offerta al re bambino che, dimostrando le sue energie, se ne emancipa e la domina per i suoi fini. Per eccezionale che sembri nella storia dei popoli questo colpo di stato con il quale la modernità nascente libera finalmente l'uomo dall'insieme degli oggetti animati e ina nimati, un tale momento non è, dopo tutto, che una tappa. Il processo è iniziato molto prima e il suo punto culminante non sarà raggiunto che un secolo e mezzo più tardi, quando la natura e la cultura, solidamente trincerate nei loro domini di oggetti e nei loro programmi metodologici rispettivi, delimiteranno lo spazio dove potrà svilupparsi l'antropologia moderna. Gli storici delle scienze e della filosofia hanno consacrato suf ficienti opere che si occupano di questa particolarità dell'Occidente perché non sia più necessario qui presentare più che un quadro riassuntivo di questa lunga produzione che vede istituirsi in modo reciproco un mondo delle cose dotato di una fattualità intrinseca e un mondo degli umani disciplinato dall'arbitrio dei sensi. Se mi presto malgrado tutto a questo breve compito, è per meglio sottolineare che, contrariamente all'impressione che lasciano eccellenti opere sulla storia dell'idea della natura 13 , quest'ultima non svela la sua essenza grazie agli sforzi accumulati da una schiera di grandi menti e di artigiani ingegnosi, ma essa è poco a poco costruita come un dispositivo ontologico di un genere particolare che fornisce una base alla cosmologia dei Moderni. Esaminati dal punto di vista di un ipotetico storico delle scienze jivaro o cinese, Aristotele, Cartesio o Newton
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Lenoble, R., 1969, p. 312. Latour, B., 1996. 13 Ci sono tre considerevoli autori, sia per la vastità della loro erudizione che per la finezza dei loro giudi zi: il libro già citato di padre Lenoble, Moscovici, S., 1977 e Glacken, C.J., 1967. Anche se affermano senza mezzi termini la storicità dell'idea di natura, queste opere pure non abbandonano il pregiudizio che vede la natura come oggettivata poco a poco a partire da un dato universale di cui l'esteriorità sarebbe evidente per tutti gli umani. Segue la stessa ottica Collingwood, R.G., 1945. 12
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non sembrerebbero tanto rivelatori dell'oggettività distintiva dei non-umani e delle leggi che amministrano loro quanto gli architetti di una cosmologia naturalista completa mente esotica allo sguardo delle scelte operate dal resto dell'umanità per distribuire le entità nel mondo e stabilirvi discontinuità e gerarchie.
l?autonomia della physis Tutto inizia in Grecia, come sempre. Ma gli inizi sono laboriosi. Nell'Odissea incon triamo già un uso del termine che servirà poi a designare la natura, physis, ma impiegato per riferirsi alle proprietà di una pianta, ovvero nel senso ristretto di ciò che permette lo sviluppo di un vegetale e che caratterizza la sua "natura" particolare 14 • È questo signifi cato che Aristotele definirà in seguito in una prospettiva rivolta all'insieme del vivente: ogni essere si definisce con la sua natura, concepita sia come principio, che come causa che come sostanza 1 5 . Ma Omero è indifferente a questo principio di individuazione proprio di alcune entità del mondo; a fortiori non considera mai che le cose dotate di una "natura" particolare possano formare un insieme ontologico particolare, la Natura, indipendente sia dalle opere umane che dalle leggi dell'Olimpo 16 • Esiodo non si distin gue molto da Omero rispetto a questo. I suoi poemi descrivono l'origine delle divinità e degli eroi, le loro genealogie e le circostanze delle loro metamorfosi, e se evoca delle caratteristiche del mondo fisico è, come per gli Amerindiani, per meglio riportare gli at tributi dei personaggi della mitologia. È vero che ne Le opere e i giorni Esiodo menziona brevemente una differenza che distingue gli uomini da alcune specie animali prese come un insieme: secondo lui, mentre i pesci, le belve e gli uccelli si divorano, gli uomini han no ricevuto da Zeus la giustizia e non si mangiano affatto fra di loro. Si è quindi lontani gui da una distinzione, anche embrionale tra natura e cultura, gli animali citati operano piuttosto come contrasto a confronto con gli uomini, invitati a non comportarsi come predatori. È anche un modo di ricordare la parte degli dei nella genesi della morale civi ca: la caratteristica dell'uomo, la dikè, è piuttosto un effetto della benevolenza divina che di una natura originale interamente distinta da quelle della altre specie viventi 1 7•
14 È Ulisse che parla: «l'assassino di Argus mi dà una pianta che strappa da terra e della quale mi insegna la physis [ ... ] gli dei la chiamano moly» (Odissea, X, 302); questa pianta permette a Ulisse di vincere gli incantesimi di Circe. 15 Fisica, II, 1926. 16
È così che lo esprime Geoffrey Lloyd (1996, p. 59): «non c'è in Omero il concetto o la categoria di insieme che distingue il dominio della natura come tale - in opposizione o a "cultura", o al soprannaturale» corsivi dell'autore. 17 Le opere e i giorni, 275. Marce! Detienne interpreta questo passaggio come il segno di un'opposizione, nel pensiero greco, tra gli uomini e gli animali, questi ultimi sono condannati a mangiarsi reciprocamente, al contrario dei primi (Lionysos mis à mort, Paris, Gallimard, 1977, pp. I 40-141). Ora, tutti gli animali non sono interessati da questa pratica allelopatica, Esiodo menziona solamente i pesci, le belve e gli uccelli. Inoltre, la mutuale devozione sembra interna ad ogni categoria precitata e non si diffonde all'interno del regno animale. Sembra quindi difficile seguire Detienne su questo e vedere nell'allelopatia il criterio di una distinzione globale fatta dai Greci tra gli umani e l'insieme degli animali. Ringrazio Eduardo Viveiros de Castro di aver attirato la mia attenzione su questo passaggio di Esiodo e sul commentario di Detienne.
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Quando i primi filosofi si arrischiano a proporre delle spiegazioni naturalistiche del fulmine, dell'arcobaleno o dei terremoti, lo fanno come reazione alle interpretazioni reli giose sanzionate dalla tradizione, quella di Omero e di Esiodo soprattutto, che vedevano nella maggior parte dei fenomeni insoliti o spaventosi interventi diretti di una divinità capricciosa o irata. Si tratta per i filosofi, come per i medici ippocratici, di proporre delle cause fisiche alle meteore, ai fenomeni ciclici o alle malattie, di cause proprie ad ogni tipo di fenomeno, che cioè dipenda dalla loro "natura" specifica e non dal capriccio di Apollo, di Poseidone o di Efesto. Si mette così progressivamente in atto l'idea che il cosmo sia spiegabile, che sia organizzato secondo leggi da scoprire, che in esso l'arbitrio divino non abbia più il suo posto e nemmeno le superstizioni dei tempi antichi. Si tratta qui, sicuramente, di convinzioni di una élite, formulare con prudenza e avendo l'accor tezza di evitare le gravi conseguenze di un'accusa di abuso. Ma per Ippocrate e i suoi discepoli, per i filosofi ionici e per i sofisti, il dominio della natura comincia a disegnarsi come un progetto e come una speranza: riunendo i fenomeni fisici e gli organismi vi venti, contrassegnata dal regolare e dal prevedibile, questa nuova condizione degli esseri si allontana dai residui dell'intenzione divina, dalle creazioni del caso e dalle produzioni umane, effetti dell'artificio. Spetterà ad Aristotele, si sa, sistematizzare questo oggetto di ricerca emergente, trac ciare i limiti, definire le proprietà, porre i principi di funzionamento. Nel suo pensiero l'oggettivazione della natura trae ispirazione dall'organizzazione politica e dalle leggi che la regolano, sebbene formuli questa proiezione all'inverso: è la Cicé che si ritiene si conformi alle norme della physis e riproduca da vicino la gerarchia naturale. Non è indifferente il fatto che una rivoluzione cale abbia avuto come teatro l'Atene turbolenta e confusa che, dopo lo splendore del secolo di Pericle, vede la sua potenza ridursi e il suo ruolo contestato, costretta dalle avversità ad esaminare le condizioni di esercizio di una sovranità che le sta sfuggendo. La riflessione sulla legge come obbligo liberamente con cesso e mezzo del vivere insieme, libera dall'urgenza delle decisioni immediate, permette di svincolare i tratti più astratti che forniscono un prototipo alle leggi della natura 18 • Physis e nomos diventano indissociabili; la molteplicità delle cose si articola in un insieme sottomesso a leggi conoscibili, così come la collettività dei cittadini si ordina secondo re gole di azione pubblica liberate dagli intenti particolari. Due domini di legalità paralleli, ma di cui l'uno è dotato di una dinamica e di una finalità proprie, la Natura non conosce la versatilità degli uomini. Certo, la natura di Aristotele non è così inglobante quanto quella dei Moderni. Essa si limita al mondo sublunare, quello dei fenomeni e degli esseri familiari. Al di là si estendono i cieli incorruttibili dove si spostano gli astri divini, dal comportamento forse regolare e prevedibile, ma la cui perfezione è tale che essa li esenta dalle determinazioni naturali. In compenso, nel regno della Terra, le cose della natura sono adesso dotate di un'alcericà innegabile: «Fra gli esseri, infatti, alcuni sono per natura (phusei), gli alcri per 18 Vedere l'interessante parallelo che traccia Lenoble (1969, p. 60) tra la moltiplicazione delle garanzie statutarie accordate agli immigrati ateniesi, che fissa la loro alterità in un quadro giuridico particolare, e la
nuova percezione dell'esteriorità di un mondo fisico retto da delle leggi.
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Oltre natura e cultura altre cause; per natura, gli animali e le loro parti, le piante e i loro corpi semplici [ ...]. Di queste cose, in effetti, e delle altre dello stesso tipo, si dice che sono per natura» 19 • Esaminando il regime ontologico particolare di queste entità esistenti per natura, Ari stotele dà un fondamento teorico ad uno dei significati correnti della parola "natura": è il principio che produce lo sviluppo di un essere che contiene esso stesso l'origine del suo movimento e della sua immobilità, principio che lo porta a realizzarsi in un certo modo. Ma la sua fisica si completa con una sistematica naturale, con un inventario di differenti forme di vita e di rapporti di struttura che essi intrattengono all'interno di una totalità organizzata. Aristotele qui si occupa della Natura come somma degli esseri che presentano un ordine e che sono sottomessi a delle leggi, un senso nuovo che avrà con lui un durevole seguito. La sua impresa consiste nello specificare ogni classe di esseri a partire dalle variazioni nei tratti che essa possiede in comune con altre classi di esseri all'interno della stessa forma di vita, ogni forma di vita che è a sua volta caratterizzata dal genere di organo specializzato che le serve a realizzare una funzione vitale - locomozio ne, riproduzione, alimentazione o respirazione. Una specie potrà quindi essere definita precisamente dal grado di sviluppo degli organi essenziali propri della forma di vita nella quale risiede. Così le ali degli uccelli, le zampe dei quadrupedi, le pinne dei pesci sono sì organi che servono ad una stessa funzione per differenti forme di vita, ma la dimensione dei becchi e delle ali, organi di alimentazione e di locomozione tipici degli uccelli, for nirà a sua volta un criterio per distinguere le specie secondo i loro modi di vita. Questa classificazione degli organismi per composizione e divisione si appoggia sulla "naturà' specifica di ogni essere in modo da costruire un sistema della Natura nel quale le specie sono scollegate dai loro habitat specifici e spogliate dei significati simbolici che erano ad esse attribuiti, per non esistere più che come complessi di organi e di funzioni inserite in un quadro di coordinate che copre l'insieme del mondo conosciuto20• Un passo in avanti decisivo è stato così compiuto. Decontestualizzando le entità della natura, orga nizzandole in una tassonomia esaustiva di tipo causale, Aristotele fa sorgere un dominio di un oggetto originale che presterà all'Occidente molti tratti della sua strana singolarità.
L'autonomia della Creazione Nel pensiero greco, soprattutto in Aristotele, gli umani fanno ancora parte della na tura. Il loro destino non è dissociato da un cosmo eterno e, poiché possono accedere alla conoscenza delle leggi che lo regolano, essi sono in grado di collocarvisi. Affinché la na tura dei Moderni accedesse ali'esistenza, c'era bisogno quindi di una seconda operazione di purificazione, occorreva che gli umani divenissero estranei e superiori alla natura. È al cristianesimo che si deve questo secondo sconvolgimento, con la sua doppia idea di una trascendenza dell'uomo e di un universo nato dal nulla per volontà divina. La Creazione porta la testimonianza dell'esistenza di Dio, della sua bontà e della sua perfezione, ma 19 Fisica, II, 1926. Sui principi della sistematica aristotelica, vedere Atran, S., 1985.
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le sue opere non devono essere confuse con Lui né le bellezze della natura apprezzate per esse stesse: esse vengono da Dio, ma Dio non vi è presente. Anche l'uomo è creato e prende il suo significato da questo avvenimento principale. Non ha quindi il suo posto nella natura come elemento tra gli altri, non è "per natura" come le piante e gli anima li, è divenuto trascendente al mondo fisico; la sua essenza e il suo divenire dipendono ormai dalla grazia divina, che è al di là della natura. Da questa origine soprannaturale, l'uomo trae il diritto e la missione di amministrare la Terra, poiché Dio lo ha formato l'ultimo giorno della genesi perché egli eserciti il suo controllo sulla Creazione, perché la organizzi e la modifichi secondo i suoi bisogni. Come Adamo che, ricevendo il potere di dare i nomi agli animali, fu autorizzato ad introdurre il suo ordine nella natura, così i suoi discendenti, moltiplicandosi sulla faccia della terra, realizzano l'intenzione divina di portare in ogni luogo il dominio della Creazione. Ciononostante la natura è conse gnata agli uomini in affido temporaneo. Infatti il mondo ha ormai un'origine e una fine, strano concetto che il cristianesimo eredita dalla tradizione ebraica e che rompe con le concezioni dell'Antichità pagana, ma anche con la maggior parte delle cosmologie che l'etnografia e la storia hanno inventariato. La Creazione è una scena provvisoria per uno spettacolo che continuerà dopo che gli scenari saranno spariti, quando la natura non esisterà più e quando resteranno solamente i protagonisti principali: Dio e le anime, ovvero gli uomini sotto un'altra personificazione. Ossessionato dall'idea della Creazione e delle sue conseguenze, il Medioevo mantiene così alcuni insegnamenti dell'Antichità. Abbondano così le sintesi sull'unità della natura che combinano l'esegesi biblica agli elementi della fisica greca, soprattutto a partire dal XII secolo, quando le opere di Aristotele sono riscoperte. Lesteriorità del mondo ac quisisce un carattere manifesto attraverso una metafora che percorre tutto il Medioevo: la natura, in tutta la sua diversità e armonia, è come un libro dove si può decifrare la testimonianza della creazione divina. Il libro della natura è sicuramente inferiore alle Sante Scritture poiché Dio, essere trascendente, non è rivelato dalle sue opere se non imperfettamente. Il mondo è quindi da leggere come un'illustrazione, un commentario, un complemento al verbo divino. Molti autori medievali pure danno grande considera zione a questa sorgente di edificazione poiché è il solo espediente per tutti quelli che, per mancanza di istruzione, non hanno accesso diretto al testo sacro; «anche il più ignorante legge nel mondo», dirà Sant'Agostino21 • Teniamo presente che questo ottimismo bucoli co è ancora in auge per alcuni missionari che sembra non dubitino che le tribù, che ten tano di evangelizzare, sono capaci di riconoscere nel loro ambiente la natura armoniosa celebrata da San Basilio o San Francesco. Forse bisogna anche scorgere qui una delle prime formulazioni dell'idea, cara all'Occidente, che la natura è un'evidenza universale di cui ogni popolo, per selvaggio che sia, saprebbe percepire l'unità. Il tema del libro della natura alimenta gli sviluppi della teologia naturale di cui gli eco sono ancora percettibili in una certa visione cristiana dell'etica ecologica22 • Questa Agostino, Enarrationes in Psalmos, 45. "Per delle buone sintesi dei modelli connessionisti, vedere Bechtel, W., e Abrahamsen, A., 1991; Ar nould, J., 1997. 21
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Oltre natura e cultura teologia, che esamina gli effetti dell'intenzione divina nella Creazione, non è che un au silio per la teologia rivelata, ma è anche un complemento prezioso per l'interpretazione della natura e la conoscenza di Dio di cui San Tommaso d'Aquino ha beneficiato. La sua teologia naturale si appoggia a Aristotele per mostrare gli effetti rispettivi delle cause fi nali - l'intelletto di Dio - e delle cause efficienti - l'agente naturale - nell'organizzazione del mondo. Riprendendo anche l'idea aristotelica che la natura non fa niente per caso, ne condivide completamente il finalismo: tutto è testimonianza del fatto che le forme e i processi degli oggetti naturali sono i più adatti alle loro funzioni. Allo stesso modo tutto indica che i discendenti di Adamo sono destinati a occupare il primo posto sulla Terra e a governare la gerarchia delle creature inferiori, poiché «è in accordo con l'ordi ne della natura che l'uomo domini gli animali» 23. La lettera della Genesi giustifica con ogni probabilità tale dominazione, ma anche l'idea di una comune misura tra Dio e gli uomini. Essendo l'intelligenza di Dio ali' origine della creazione degli esseri viventi, con veniva che alcuni fra di essi potessero partecipare a questa facoltà in modo che fosse loro possibile apprendere, nella perfezione dell'universo, la bontà del disegno divino. Dotato con questo scopo della ragione e del sapere, l'uomo è così prescelto nella Creazione, una supremazia che deriva dall'intenzione divina e che richiede, di conseguenza, umiltà e responsabilità. Nel De Genesi ad litteram, Sant'Agostino aveva già sottolineato che, solo nella Creazione, l'uomo forma un genere unico in opposizione alla pluralità delle specie animali. È sull'autorità di questa esegesi, del resto, che si appoggeranno i teologi del XVI secolo per affermare la monogenesi della razza umana24 • Il Medioevo non ci deluderà: trascendenza divina, singolarità dell'uomo, esteriorità del mondo, tutti i pezzi del dispo sitivo sono ormai riuniti affinché l'età classica inventi la natura come noi la conosciamo.
I.? autonomia della Natura L'emergere della cosmologia moderna risulta da un processo complesso dove sono inestricabilmente mescolati l'evoluzione della sensibilità estetica e delle tecniche pitto riche, l'espansione dei confini del mondo, il progresso delle arti meccaniche e il domi nio accresciuto che esso autorizzava in alcuni ambienti, il passaggio da una conoscenza fondata sull'interpretazione delle similitudini a una scienza universale dell'ordine e della misura, tutti fattori che hanno reso possibile la costituzione di una fisica matematica, ma anche di una storia naturale e di una grammatica generale. I cambiamenti della geometria, dell'ottica, della tassonomia, della teoria del segno emergono da una riorga nizzazione dei rapporti dell'uomo nel mondo e degli strumenti di analisi che lo hanno reso possibile più che dall'accumulo di idee brillanti e dal perfezionamento delle abilità; insomma, come dice Merleau-Ponty, «non sono le idee scientifiche che hanno provo cato il cambiamento dell'idea di Natura. È il cambiamento dell'idea di Natura che ha permesso queste scoperte» 25 • La rivoluzione scientifica del XVII secolo ha legittimato Tommaso D'Aquino, Summa theologiae, I parte, Questione 96, articolo 1. Vedere Duvernay-Bolens, J ., 1995, p. 98. 25 Merleau-Ponty, M., 1994, p. 25. 23 24
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3. La grande divisione l'idea di una natura meccanica dove il comportamento di ogni elemento è spiegabile attraverso delle leggi, all'interno di una totalità considerata come la somma della parti e delle interazioni di questi elementi. Per far questo non c'era bisogno di invalidare le teorie scientifiche concorrenti, ma di eliminare il finalismo aristotelico e della scolastica medievale, relegarlo al dominio della teologia e mettere l'accento, come fece Cartesio, sulla sola causa efficiente; certo, questa è ancora rapportata a Dio, ma un Dio puramente motore, contemporaneamente fonte originale di un movimento conosciuto in termini geometrici e garante della sua conservazione costante. [intervento divino diviene più astratto, investe meno nel funzionamento degli ingranaggi della macchina del mondo, confinato ai misteri della fede o alla spiegazione del principio di inerzia. Tuttavia, a fianco di Bacone, di un Cartesio o di uno Spinoza che rifiutano l'illusione di una natura intenzionale, una corrente più discreta resta attaccata a convinzioni finaliste, all'idea di una natura organizzata secondo un piano di insieme la cui comprensione permetterebbe di rendersi meglio conto dell'azione degli elementi che la compongono. Keplero, Boyle o Leibniz furono degli avvocati notevoli della concezione della natura come totalità e unità equilibrate, di cui conosciamo il seguito in Buffon, Alexandre von Humboldt e Darwin. Questa filiazione, a sua volta, con ogni probabilità non ha contribuito poco agli orientamenti teleologici di una certa biologia contemporanea, marcata da una visione quasi provvidenziale del!'adattamento degli organismi o del!'omeostasi degli ecosistemi. Nel XVII secolo, quindi, per gli adepti del meccanicismo come per i sostenitori di un mondo organicista, una certa separazione tra la natura e l'uomo ha guadagnato il diritto di esistere. Spinoza è proprio l'unico quando rifiuta tale divisione, invita a considerare il comportamento umano come un fenomeno regolato dal determinismo universale e denuncia i pregiudizi di coloro che considerano il disegno della natura in analogia con la coscienza di sé. Infatti questi ultimi, i più numerosi, tuttavia non mettono in dubbio che gli effetti naturali agiscano secondo l'intenzione divina per uno scopo, che l'uomo, «vice-re della Creazione», sia proprio separato dalla realtà che si sforza di conoscere, e che Dio «l'abbia investito di potere, di autorità, del diritto, dell'impero, dell'incarico e della cura [ ...] di preservare la faccia della Terra nella sua bellezza, sua utilità e fecon dità», secondo la formula colorita del giurista inglese Matthew Hale26 • La natura come dominio ontologico autonomo, come campo di ricerca e di sperimentazione scientifica, come oggetto da sfruttare e da migliorare, questa natura qui accede ad un'esistenza che ben pochi si sognano di rimettere in dubbio. Se l'idea della natura acquisisce tale importanza nell'età classica, non è perché il potente fremito della vita del mondo appare improvvisamente davanti a occhi che non si sarebbero dati tregua per svelare il mistero e per delinearne i confini. Questa nozione è indissociabile da un'altra, la natura umana, che essa ha in qualche modo generato per scissiparità quando, per meglio circoscrivere il luogo dove si comprendono i meccanismi e le regolarità della natura, una piccola parte del!'essere fu distaccata per servire da punto
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Spinoza, Ethica, I parte, appendice della proposizione XXXVI; Matthew Hale, The primitive Origina tion ofMankind, Londra, 1967, p. 370, citato da Glaken, C.J., I 967, p. 481.
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di inizio. Ora, come ha dimostrato Miche! Foucault, questi due concetti, se accoppiati, funzionano per assicurare il legame reciproco delle due dimensioni della rappresentazio ne in questa epoca: l'immaginazione, come potere attribuito allo spirito di ricostituire l'ordine a partire dalle impressioni soggettive, e la somiglianza, la proprietà che hanno le cose di offrire al pensiero tutto un campo di similitudini a malapena abbozzate sullo sfondo del quale la conoscenza può imporre il suo lavoro di modellamento27 • In ragione della grande generalità del loro significato, Natura e natura umana permettono di sin tetizzare con economia la nuova possibilità di aggiustamento tra l'abbondanza costante ripresa dalla molteplicità analogica degli esseri e la meccanica dell'induzione, con il suo corteo di immagini e di reminescenze. [intelligibilità e il controllo dei non-umani sono quindi rinviati al soggetto conoscente e al soggetto agente, ali' esperto nel suo studio e all'ingegnere che prosciuga i polder, al fisico che manipola la sua pompa a vuoto e al garde-marteau28 nelle foreste di Colbert, non alla collettività degli umani come un tutto organizzato, ancora meno alle collettività singole e differenziate dagli stili di vita, dalla lingua e dalla religione. La Natura forse è qui, e la natura umana di fronte ad essa, ma ancora non c'è la società come concetto e campo di analisi. È diventato quasi una banalità, dopo Les Mots et !es Choses, dire che la nascita del concetto di uomo e delle scienze che ne esplorano le positività sono degli avvenimenti tardivi nella cultura europea, e probabilmente inediti nella storia dell'umanità; che que sti avvenimenti furono fatti scattare, negli ultimi anni del XVIII secolo, da un grande sconvolgimento dell' ep isteme occidentale che vede nascere uno spazio di vicinato tra si stemi organizzati comparabili fra loro in ragione della loro contiguità nella catena di suc cessione storica, al posto di uno schema generale di rappresentazione dove si ordinavano simultaneamente reti di identità e di differenze; che le scienze sociali, di conseguenza, non ereditano affatto da un dominio vuoto più o meno omologo a quello che occupava prima la natura umana, uno spazio incolto ma ben segnato che esse non avrebbero do vuto che seminare con conoscenze scientifiche e far fruttare grazie a strumenti più effica ci. In conclusione, secondo la formula enfatica di Foucault, «nessuna filosofia, nessuna scelta politica o morale, nessuna scienza empirica quale che sia, nessuna osservazione del corpo umano, nessuna analisi della sensazione, dell'immaginazione e delle passioni ha mai, nei secoli XVII e XVIII, incontrato qualche cosa come l'uomo, poiché l'uomo non esisteva» 29• Il risultato dei rilievi stratigrafici intrapresi da Foucault nel sottosuolo delle scienze umane è ora troppo conosciuto perché sia necessario commentarlo ulteriormen te. Ricordiamo solamente questo per il nostro ragionamento: se è solamente nel XIX secolo che il concetto di società comincia a prendere corpo come totalità organizzata, e se è solamente in questa epoca, quindi, che tale concetto è suscettibile di essere opponi bile alla natura, allora la genesi rispettiva dell'una e del!'altra nozione, la loro progressiva maturazione in un campo operativo dove possano elaborarsi le divisioni del reale, che
27 Foucaulr, M., 1966, p. 85. 28 Il garde-marteau era l'adderro a contrassegnare gli alberi da abbattere con il martello forestale (n.d.t.). 29 lbid., p. 355.
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3. La grande divisione le loro discontinuità accoppiate rendono possibili, tutto questo risulta da un processo così lungo e così singolare di decantazione e di rotture multiple che non si capisce come avrebbe potuto essere condiviso da altre culture oltre alla nostra. Inoltre una breve osservazione su Rousseau. Conosciamo il ruolo che Lévi-Strausss gli assegna nell'anticipazione del!'etnologia moderna: l'autore del Discorso sull'origine della disuguaglianza avrebbe previsto il metodo della scienza che doveva ancora nascere grazie alla sua prescrizione di osservare le differenze tra gli uomini per meglio scoprire le loro caratteristiche comuni; avrebbe anche basato il suo programma ponendo concreta mente il problema dei rapporti tra la natura e la cultura, non sotto forma di una separa zione irreversibile, ma in una ricerca nostalgica e spesso disperata di ciò che, nell'uomo, autorizza e promuove un'identificazione con tutte le forme di vita, siano esse le più umili3°. A dispetto delle critiche che ha subito, la difesa militante di Rousseau fatta dal fondatore dell'antropologia strutturale, non dovrebbe quindi essere intesa come un ten tativo di ricercare nel pensiero degli illuministi le premesse di un dualismo della natura e della società che l'antropologia del XX secolo avrebbe recuperato da sé. Tanto più che in Rousseau l'insieme dei cittadini non costituisce in alcun modo una società nel senso convenzionale della sociologia moderna, ovvero una totalità superiore ed esterna agli individui, una persona morale i cui bisogni e scopi sono eterogenei rispetto a quelli dei membri che la compongono, un'entità autonoma animata da un interesse collettivo spe cificamente sociale che sarebbe più ed altre cose rispetto alla somma delle volontà indi viduali. Durkheim, del resto, non si è sbagliato quando ha comparato la concezione che aveva dell'utilità collettiva, determinata in funzione dell'essere sociale considerato nella sua unità organica, con l'interesse comune come quello che esprime Rousseau, quale «interesse dell'individuo medio» che dà corpo ad una volontà generale grazie alla somma di ciò che è utile a ognuno31 • Tra la società trascendente di Durkheim e l'aggregazione dei singoli mutualmente obbligati da una convenzione di cui il Contratto sociale traccia le condizioni di legittimazione, c'è più di una differenza di grado o una sfumatura. La prima è un'entità ontologica di un genere nuovo della quale è fuorviante cercare la pre messa o il primo segno in Rousseau, anche se la teoria del legame sociale offre una fonte feconda di analogie a coloro che, come Lévi-Strauss, hanno saputo riconoscere, dietro la potenza del sentimento e l'apologia della virtù, una riflessione originale sui modi di accordarsi agli altri.
L'autonomia della Cultura Eppure il nostro schizzo genealogico del dualismo non si completa con l'avvento del concetto di società; infatti l'etnologia contemporanea deve la sua ragione d'essere ad 30
Lévi-Srrauss, Cl., «Jean-Jacques Rousseau, fondareur des sciences de l'homme», pubblicato in Lévi Srrauss, Cl., 1973, pp. 45-56. 31 Durkheim, É., «Le "Contrar social" de Rousseau», Reveu de métaphysique et de morale, marzo-aprile 1918, pp. 138-139, citato da Roberr Derarhé, Jean-Jacques Rousseau et la science polirique de son remps, Parigi, Vrin, 1974, p. 239.»
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un concetto la cui stabilizzazione è ancora più recente, questo concetto di cultura con il quale essa definisce la propria area di studio e dove si esprime in modo conciso tutto ciò che, nell'uomo e nelle sue creazioni, si distacca dalla natura e ne trae il senso. Era forse inevitabile che dei termini così vaghi come "naturà' e "culturà', così compiacenti a piegarsi agli impieghi successivi che si è voluto loro assegnare, così propizi a raccoglie re quella o quell'altra regione in un significante aperto di questo caos di tendenze, di processi e di forze la cui diversità del mondo offre lo spettacolo, era forse inevitabile che questi termini finissero per trovare nella loro opposizione reciproca la determinazione della loro positività allo stesso tempo che un effetto di evidenza decuplicato dalla loro congiunzione. Ora, se l'idea di cultura è sicuramente più tardiva di quella di natura, la sua nascita non fu molto meno contingente, né fu più semplice il movimento con il quale si è ristretto il campo dei suoi significati. Ogni etnologo è a conoscenza del celebre inventario critico nel quale Alfred Kroeber e Clyde Kluckhohn hanno recensito la maggior parte delle definizioni di cultura32• Delle 164 accezioni che hanno enumerato, per il mio scopo non ne prendo in considerazione che le due principali. La prima, che hanno qualificato come "umanista", considera la cul tura come il carattere distintivo della condizione umana; la sua formulazione canonica, data da Edward B. Tylor nel 1871, è tradizionalmente accettata come l'atto di nascita del campo dell'antropologia moderna: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, i costumi e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società» 33 • La cultura qui non è distinta dalla civiltà in quanto attitudine alla creazione collettiva sottomessa ad un movimento progressivo di perfezionamento; è la prospettiva che adottano gli antropologi evoluzionisti degli ultimi decenni del XIX secolo. Essa ammette come possibile e necessaria la comparazione di società ordinate in funzione del grado di adempimento delle istituzioni culturali, espressioni più o meno elaborate di una tendenza universale dell'umanità a dominare i vincoli naturali e gli istinti. Il concetto propriamente antropologico di cultura apparirebbe più tardivamente. Lidea che ogni popolo costituisca una configurazione unica e coerente di tratti materiali ed intellettuali sanciti dalla tradizione, tipica di un certo modo di vita, radicata nelle categorie specifiche di una lingua e responsabile della specificità dei comportamenti individuali e collettivi dei suoi membri, questa idea emerge poco a poco, intorno al XX secolo, nei lavori etno grafici di Franz Boas34 • Ripresa e elaborata in modo più sistematico dai suoi discepoli, la
32 Kroeber, A., Kluckhohn, C., 1952. 13 Tylor, E.B., 1871, voi. I, p. I. ·14 Stocking, G.W.Jr., 1968, pp. 195-233. Pur riconoscendo il ruolo giocato da Boas nell'ergere del concerto di cultura all'interno dell'antropologia nord-americana, Adam Kuper (I 999, pp. 47-72) considera che la stabilizzazione del concerto nel suo uso contemporaneo e l'elaborazione di un vero programma di ricerca culruralisra non giungono che molto più tardi, grazie all'opera di Talcott Parsons e all'influenza che egli ha esercitato su Clifford Geertz e David Schneider. Se è vero che Boas è restato molto discreto sulle implicazioni teoriche della nozione di cultura della quale ha introdotto l'uso negli Stari Uniti, l'importanza del suo apporto in questo dominio mi sembra esser stato sottostimato da Kuper.
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3. La grande divisione prospettiva boasiana va a formare la matrice dell'antropologia nordamericana e a definire per lungo tempo il suo orientamento "culruralista". In questa seconda definizione, "cul tura" si declina al plurale, come una moltitudine di realizzazioni specifiche, e non più al singolare, come l'attributo per eccellenza dell'umanità; la gradazione delle popolazioni secondo la loro vicinanza all'Occidente moderno è soppiantata da un quadro sincronico dove tutte le culture si equivalgono; l'universalismo ottimista dei teorici dell'evoluzione lascia il posto ad un relativismo di metodo centrato sull'approfondimento monografico e sulla rivelazione della ricchezza del particolare; l'accento teleologico si sposta dalla fede in un progresso continuo degli stili di vita al presupposto che ogni cultura tende alla sua conservazione e perpetuazione del suo Volksgeist. Prima di accedere ad uno statuto più o meno specializzato in etnologia, ognuna delle concezioni di cultura si è cristallizzata in contesti nazionali specifici e secondo processi di differenziazione i cui echi sono ancora percettibili nelle inflessioni teoriche delle diffe renti tradizioni accademiche. La cultura nel senso universale non si distingue, l'abbiamo visto, dalla civiltà; i due termini continuano ad essere impiegati indifferentemente in antropologia fino agli inizi del XX secolo, anche in Boas. La parola "civilizzazione" è essa stessa molto recente; appare per la prima volta nel 1757 con Mirabeau, una decina di anni più tardi in Inghilterra, con Ferguson, con un senso simile35 • È la condizione della società civilizzata, risultata da un progresso costante nella virtù e nell'adempimento civi co, in contrasto con l'eccessiva cortesia nei modi, la buona creanza del comportamento, qualità superficiali e statiche. Ora, come ha ben mostrato Norbert Elias, "civiltà" acqui sisce un senso completamente differente in Germania, molto più vicino infatti a quello cui si oppone inizialmente, vale a dire le buone maniere come espressioni della qualità sociale, il saper apparire e la capacità oratoria, insomma l'attitudine della nobiltà di corte che scimmiotta il gusto francese. Il contrario della civiltà dell'apparenza così concepita, è la cultura36 • Il termine richiama il carattere proprio di alcuni prodotti dell'attività umana come dimostrazione del genio di un popolo, rivelando il suo valore specifico e permet tendo di ricavarvi un motivo di fierezza. In Germania, l'antinomia tra cultura e civiltà prende all'inizio una dimensione sociale; è l'argomento polemico di una intellighenzia borghese, isolata da ogni reale responsabilità economica e politica da un'aristocrazia cortigiana, imbevuta dei propri privilegi ma reputata incapace di uno slancio creativo. Dopo la Rivoluzione Francese, l'antagonismo fra i valori che queste due nozioni incar nano inizia a prendere un carattere nazionale: gli ideali della sviluppata classe media divengono emblematici della cultura tedesca, in contrasto con l'idea di civiltà che una Francia espansionista e sicura di sé stessa esporta in tutta Europa. Il seguito è fin troppo conosciuto perché lo ripeta. Sappiamo quale fu in Germania la reazione agli illuministi; come Herder, Fichte, Alexandre e Guillaume von Humboldt, girando le spalle alla ricerca delle verità universali, pongono l'accento sull'incommen surabilità dei particolarismi collettivi, degli stili di vita e delle forme del pensiero, delle 35 Benveniste, É., 1966, pp. 336-345. 36 Elias, N., 1973, pp. 11-5 I.
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realizzazioni concrete di quella o quell'altra comunità; fino a tal punto un popolo senza unità politica ha potuto essere ossessionato dagli interrogativi su ciò che fondava il pro prio carattere; così la volontà di raccogliere, di delimitare e di consolidare i tratti specifici di una nazione ancora nella fase embrionale ha contribuito a fare dell'idea di cultura uno dei valori centrali del XIX secolo tedesco. Sappiamo anche ciò che Boas, emigrato a New York all'età di ventinove anni, deve ai suoi anni di Bildung nel crogiolo dell'università tedesca, proprio come i suoi più importanti discepoli, la prima generazione dell'an tropologia americana, che ricevettero tutti una formazione tedesca: Sapir era nato in Pomerania, Lowie a Vienna e Kroeber nell'élite Deutschamerikanish di Manhattan37• Le radici del culturalismo americano quindi si estendono molto profondamente verso lo storicismo tedesco, nel Volksgeist di Herder, nel Nationalcharakter di Guillaume von Humboldt, nel Volkergedanken di Bastian. Compromessa dal fallimento dell'evoluzionismo, la nozione di cultura al singolare non sparisce dall'etnologia del XX secolo; neanche negli Stati Uniti, dove Kroeber, al lontanandosi da Boas, si accinge molto presto a definire il carattere specifico della cul tura, questa entità "superorganica" di un genere particolare, ipostasi al corso maestoso che trascende le esistenze individuali e definisce i loro orientamenti38• Ma è soprattutto nell'antropologia francese e inglese che la cultura continua ad esistere come attributo distintivo dell'umanità nel suo complesso, benché in un modo quasi clandestino in ra gione dell'autorità della scuola durkheimiana e della preminenza che essa dà alla nozione di società per ricoprire questa stessa funzione. Si tratta piuttosto di una convinzione re sistente che rompe con il particolarismo dei boasiani: è possibile e auspicabile, si pensa, scoprire nella condizione umana regolarità o invarianti - per non dire universali - che possono giustificare l'unicità della cultura dietro la molteplicità delle sue manifestazio ni singolari. Si trovano espressioni di questa tendenza nella poco convincente "teoria scientifica della cultura" di Malinowski, nell'insistenza di Radcliffe-Brown a definire l'antropologia come una disciplina nomotetica, e anche nel progetto esposto da Lévi Scrauss di una scienza dell'ordine degli ordini. Quest'ultimo illustra bene, del resto, come le due nozioni di cultura sono divenute le due facce della stessa medaglia: dalla sua formazione filosofica, dal suo attaccamento al razionalismo degli illuministi deriva que sta concezione della Cultura come una realtà sui generis che si distingue da una Natura che è condizione originaria dell'umanità e contemporaneamente dominio ontologico autonomo che offre al pensiero simbolico un'inesauribile fonte di analogie; ma del suo periodo trascorso negli Stati Uniti, della sua conoscenza con Boas, conserva l'insegna mento del relativismo: l'idea che niente permette di gerarchizzare le culture secondo una scala morale o una serie diacronica. Non c'è dubbio che la nozione di cultura al singolare prenda dalla sua opposizione alla natura larga parte della sua fecondità. Le culture al plurale, invece, non hanno senso se non in rapporto le une alle altre; e se l'ambiente dove si sono sviluppate costituisce
37 Per l'influenza della traduzione tedesca in Boas e nei suoi discepoli, vedere Scocking, G. W Jr., 1996. 38 Alfred Kroeber, 7he Superorganic (1917), ripubblicato in Kroeber, A., 1952.
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sicuramente una dimensione importante della singolarità che si attribuisce loro, il loro modo di adattarsi alla natura non è, in una prospettiva culturalista, che una possibilità fra le alcre per giungere alla loro comprensione, una via non più legittima né più espres siva di una visione del mondo come lo sono la lingua, il sistema rituale, la tecnologia o le buone maniere a tavola. Presa a sé, l'idea olistica di culcura non chiama dunque la natura come sua automatica controparte. È quindi essa, nella sua genesi tedesca e nel suo svi luppo nordamericano, che va a solidificare il dualismo contemporaneo, non attraverso una disseminazione del suo uso specializzato in antropologia, ma in ragione del lavoro di depurazione epistemologica che fu necessario affinché l'idea di culcura, come totalità irriducibile, potesse conquistare la sua autonomia in confronto alle realcà naturali. La creazione di questa idea è in effetti indissociabile dagli intensi dibattiti che, nella Germania della fine del XIX secolo, mirano a precisare i metodi e gli oggetti rispettivi delle scienze naturali e delle scienze dello spirito. Combattendo tanto contro la filosofia idealistica della storia quanto contro il naturalismo positivista, storici, linguisti e filosofi si sforzano allora di consolidare la pretesa delle scienze umane di diventare delle scienze rigorose, degne di un rispetto uguale a quello che impongono la fisica, la chimica o la fisiologia animale. In una ventina di anni appena, molti testi fondamentali appaiono su questa questione: i Principien der Sprachgeschichte (1880) nel quale lo storico del le lingue Hermann Paul traccia una distinzione tra le "scienze produttrici di leggi" e le "scienze storiche", poiché queste ultime si occupano dell'individualità dei fenomeni come prodotto della contingenza storica; la famosa Introduzione alle scienze dello spirito (1883) dove Wilhelm Dilthey oppone le scienze della natura ai Geisteswissenschaften che si realizzano grazie alla "comprensione", ovvero grazie ali'attitudine del ricercatore a rivivere con l'empatia la situazione concreta di un personaggio storico; l'articolo "Ge schichte und Nacurwissenschaft" (1894) di Wilhem Windelband che, sviluppando una distinzione proposta qualche anno prima da Otto Liebmann, stabilisce un contrasto tra il metodo nomotetico delle scienze della natura e il metodo ideografico delle scienze storiche. Forse bisogna includere anche Boas in questo dibattito epistemologico, con il suo piccolo saggio del 1887, "Tue Study of Geography", nel quale oppone il metodo del fisico - la sua formazione iniziale ad Heidelberg -, che studia i fenomeni che possiedo no un'unità oggettiva, e quello del cosmografo - Alexandre von Humboldt è qui il suo modello -, che si impegna a comprendere i fenomeni la cui connessione è stabilita in modo soggettivo39 • È tuttavia a Heinrich Rickert, soprattutto in Kulturwissenschaft und Naturwissen schaft (1899), che si deve l'impresa più riuscita di classificazione delle scienze, quella che delimita con il maggior rigore logico i loro metodi e i loro oggetti rispettivi; è quella che, ad ogni modo, ha esercitato un'influenza più importante, non solamente sui contempo ranei di Rickert, sul suo amico Max Weber soprattutto, ma anche sulle grandi figure del la filosofia tedesca del XX secolo, da Heiddeger ad Habermas40 • Dipende prima di tutto
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Boas, F., 1887. Rickerc, H., 1997.
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da Rickert l'aver sostituito l'espressione "scienze della cultura" a quella, più diffusa in quegli anni, di "scienze dello spirito". La novità non è solamente terminologica. La de nominazione "scienze dello spirito" poteva cedere alla confusione e, come in Dilthey, far capire che gli umanisti si occupano della sola vita psichica, della dimensione spirituale dei fenomeni, come se ci fosse una realtà intrinseca che ci è data indipendentemente dal le cose di cui si occupano le scienze della natura. Ora, da buon kantiano, Rickert ritiene che viviamo e percepiamo la realtà come un continuum disparato la cui segmentazione in domini separati non emerge se non in funzione del modo di conoscenza che noi gli applichiamo e delle caratteristiche con le quali operiamo la selezione: il mondo diventa natura quando noi lo consideriamo sotto l'aspetto dell'universale, diventa storia quando lo esaminiamo sotto gli aspetti del particolare e dell'individuale. Piuttosto che distingue re tra un approccio nomotetico e un approccio idiografico, conviene quindi considerare l'attività scientifica come un solo ed unico percorso, che riguarda un oggetto anch'esso unico, ma attraverso due metodi differenti: la generalizzazione, tipica delle scienze della natura, e l'individualizzazione di cui le scienze della cultura hanno conquistato la prero gativa. È per questo che, lontano dall'essere una via di accesso privilegiato alle creazioni umane, la psicologia brandita dagli storici appartiene di diritto alle scienze della natura quando essa ha per oggetto lo scoprire le leggi universali delle funzioni mentali. Con quale criterio, allora, riconoscere ciò che, nell'abbondanza indifferenziata del mondo, è suscettibile di condurre a generalizzazioni o, invece, ad una riduzione al particolare? Le scienze della cultura, risponde Rickert, si interessano a ciò che riceve un significato per l'umanità nel suo complesso o, almeno, a ciò che vale per tutti i membri di una co munità. Detto altrimenti, dal punto di vista del loro trattamento scientifico, è nel loro rapporto con il valore che i processi culturali si differenziano dai processi naturali. Distinguendo tra gli oggetti privati di senso la cui esistenza è determinata dalle leggi generali, e tra gli oggetti che noi comprendiamo nello loro singolarità in virtù del valore contingente che gli si attribuisce, Rickert pregiudica i fondamenti del dualismo oncolo gico: quasi ogni realtà può essere compresa sotto uno o l'altro dei suoi aspetti, secondo che sia presa nella sua fattualità bruta e ostinata, oppure dal punto di vista dei desideri e usi di cui l'hanno investita coloro che l'hanno prodotta o l'hanno conservata intenzio nalmente. Ma tale chiarimento si limita ad una separazione epistemologica implacabile tra due campi di ricerca e due modi di conoscenza ormai perfettamente eterogenei, una separazione con ogni probabilità più ermetica di quella che deriva dalla semplice sus sunzione delle entità del mondo in due registri di esistenza indipendenti. Tra l'umano e il non-umano non esiste più la discontinuità radicale della trascendenza né le rotture introdotte dalla meccanizzazione del mondo; si differenziano solo ai nostri occhi e se condo il modo con il quale noi scegliamo di oggettivarli poiché «l'opposizione tra natura e cultura, per quanto si tratti di una distinzione tra i due gruppi di oggetti reali, è pro prio il fondamento della divisione delle scienze particolari» 41 • Insomma, l'opposizione non è nelle cose; essa è costruita in modo che sia possibile distinguerle, un dispositivo 41 Ibid.,
p. 46 della traduzione francese.
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3. La grande divisione che diventa sempre più efficace man mano che le scienze umane, abbandonando la ri flessione sulle origini in favore delle ricerche empiriche, iniziano a dare prova della loro legittimità accumulando conoscenze positive. Poco importa qui che Rickert, come molti dei suoi contemporanei, abbia avuto la tendenza a inserire lo studio delle Naturwo/ker nelle scienze naturali, la giurisdizione generale che egli stabilisce va a disegnare lo spazio nel quale l'antropologia del XX secolo potrà mostrarsi: lo studio delle realtà culturali opposto allo studio delle realtà naturali.
L'autonomia del dualismo È l'antropologia, effettivamente, che raccoglierà i frutti della lunga maturazione che abbiamo appena descritto e ne sarà molto imbarazzata. Vediamo un po' ciò che ne ha fatto. Per feroci che possano sembrare a coloro che li osservano da lontano, le controver sie con le quali si alimenta questa disciplina poggiano comunque su un ampio consenso rispetto al suo obiettivo. Come una controversia privata ha bisogno di un terreno comu ne che delimiti la natura e le forme di espressione del disaccordo, così i dibattiti antro pologici presuppongono uno sfondo di abitudini del pensiero e di riferimenti condivisi sulla base dei quali le opposizioni possono manifestarsi. Questa risorsa comune deve la sua origine alla definizione stessa che l'antropologia dà al suo oggetto, cioè la Cultura, o le culture, intese come sistema di mediazione con la Natura che l'umanità ha saputo in ventare, un attributo distintivo del!'Homo Sapiens dove intervengono l'abilità tecnica, il linguaggio, l'attività simbolica e la capacità di organizzarsi in collettività in parte liberate dalle continuità biologiche. Quali che siano le divergenze teoriche che attraversano la disciplina, esiste proprio un consenso sul fatto che il campo percorso dall'antropologia è quello dove si incrociano e si determinano mutualmente i vincoli universali del vivente e le regole contingenti dell'organizzazione sociale, la necessità dove gli uomini si trovano di esistere come organismi in ambienti che non hanno plasmato se non in parte e la capacità, che è loro offerta, di dare alle loro interazioni con altre entità del mondo una miriade di significati particolari. Tutti gli oggetti concreti della ricerca etnologica sono situati in questa zona di accoppiamento tra le istituzioni collettive e i dati biologici e psicologici che conferiscono al sociale la sua sostanza, ma non la sua forma. Lautono mia che l'antropologia rivendica all'interno del mondo accademico è così fondata sulla credenza che tutte le società costituiscano dei compromessi tra la Natura e la Cultura dei quali conviene esaminare le espressioni singolari e scoprire, se possibile, le regole di generazione o di distribuzione. Insomma, la dualità del mondo è diventata la sfida originaria e originale alla quale questa scienza ha cercato di rispondere, dando prova di ingegnosità con lo scopo di ridurre lo scarto tra i due ordini di realtà che aveva trovato alle sue origini. I tropismi indotti dalla definizione dell'oggetto non potevano da allora in poi che ripercuotersi nel modo con il quale è compreso. Se concordiamo sul fatto che l'esperienza umana è condizionata dalla coesistenza di due campi di fenomeni accessibili da conoscenze distinte, risulta inevitabile prendere in considerazione il loro interfac ciarsi partendo da un aspetto o dall'altro: sia le determinazioni che l'uso, il controllo o
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Oltre natura e cultura universali i cui e az1·one della natura inducono, essendo queste determinazioni la trasrorm sociali tecniche da specifici; sia sistemi da e ambienti, da ti effetti sono individualizza le particolarità dei trattamenti simbolici di una natura omogenea all'interno dei suoi confini e della sua modalità di funzionamento, particolarità ricorrenti per il fatto che i meccanismi mobilitati sono universali e l'oggetto al quale essi sono applicati è unico. È per questo che il monismo naturalista e il relativismo culturalista continuano a prosperare negli scontri che li legittimano mutualmente: essi formano i due poli di un continuum epistemologico lungo il quale devono disporsi tutti coloro che si impegnano per rendere conto dei rapporti tra le società e i loro ambienti circostanti. Poiché sono irrigidite dalla polemica, le posizioni estreme rendono visibili sotto una forma purificata le contraddizioni dove si è rinchiusa l'antropologia a causa della sua adesione al postulato che il mondo possa essere distribuito tra due tipi di realtà della quale si cerca di mostrare l'interdipendenza. Ad essere compresa nelle sue formulazioni più eccessive, l'alternativa raggiunge così un valore pedagogico: o la cultura è plasmata dalla natura, che questa sia fatta di geni, di istinti, di reti neuronali o di costrizioni geografiche, oppure la natura non prende forma e modello se non come un serbatoio potenziale di segni e di simboli a cui la cultura attinge. Formulata in tutta la sua durezza, tale opposizione ricorda alcuni tratti della vecchia distinzione scolastica tra natura naturans e natura naturata alla quale Spinoza diede una seconda vita. Per quest'ultimo, lo si sa, la natura naturans è la causa assoluta, costituita da un'infinità di attributi infiniti, identificata con Dio come origine di ogni determinazione; mentre la natura naturata ricopre l'insieme dei processi, degli oggetti e dei modi di apprenderli che derivano dall'esistenza della natura naturans42 • Come i contemporanei di Spinoza si accorsero subito, un tale Dio non ha niente di cristiano: sostanza causale impersonale, insieme definizione e aggregazione della totalità dei possibili, la natura naturans è proprio l'ipostasi di una Natura logicamente prima - Deus sive natura - nella quale i materialisti del secolo successivo troveranno un comodo sostituto al primo motore divino. In compenso, forse si potrebbe pensare che la natura naturata di Spinoza ha poco a che fare con l'idea moderna di un'autonomia della cultura come modellamento del singolo, a seconda dei linguaggi e degli usi dei popoli, di orga nismi e di oggetti che non accedono ali'esistenza se non attraverso dei codici attraverso i quali sono oggettivati. Senza voler spingere la trasposizione né ricadere nell'anacronismo, bisogna comunque sottolineare che, per Spinoza, la natura naturata è prima di tutto costituita da modi - di essere, di pensare, di agire, di relazione tra le cose -, alcuni di essi certamente universali, ma sproporzionati rispetto alla causa che li ha provocati. Possono perciò essere studiati a sé, senza tener conto di ciò che li determina. Contro l'impiego analogistico della coppia "natura naturans" e "natura naturata", potremmo anche obiettare che i termini di una tale distinzione sono mutualmente esclu sivi, che non ammettono stati intermediari. Ora, tra il "determinismo crasso" e l"'im maginarismo aereo", per riprendere delle espressioni di Augustin Berque43, molti autori
42 Etica, I, XXIX, scolie. 43
Berque, A., 1986, pp. 135 e 14 I.
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3. La grande divisione _ antropologi, sociologi, geografi, filosofi - hanno tentato di trovare una via di mezzo, una soluzione dialettica che permette di sfuggire ali'opposizione dei due dogmatismi. A metà strada fra i positivisti militanti e gli avvocati di un'ermeneutica intransigente, essi si applicano per mettere insieme l'ideale e il materiale, il concreto e l'astratto, le determinazioni fisiche e la produzione di senso. Ma tali sforzi di mediazione sono con dannati a restare vani sia che si basino sulle premesse di una cosmologia dualistica, sia che presumano l'esistenza di una natura universale che codifica, o alla quale si adattano, le molteplici culture. Lungo l'asse che conduce da una cultura totalmente naturale a una natura totalmente culturale, non sapremmo trovare un punto di equilibrio, solamente dei compromessi che si avvicinano a uno piuttosto che all'altro polo. Del resto, il proble ma è così antico quanto l'antropologia stessa; lo espresse molto bene Marshall Sahlins, è come un prigioniero costretto da più di un secolo a percorrere in su e in giù la sua cella, confinato tra il muro degli obblighi dello spirito e quello delle determinazioni pratiche44 • Sono pronto ad ammettere che questo genere di prigione ha i suoi vantaggi. Il dualismo non è un male di per sé ed è un segno di ingenuità stigmatizzarlo per ragioni puramente morali, come i filosofi ecocentrici del!'ambiente, o di fargli assumere la responsabilità di tutti i mali dell'era moderna, dall'espansione coloniale alla distruzione delle risorse non rinnovabili, passando per la reificazione delle identità sessuali o delle distinzioni di classe. Dobbiamo almeno al dualismo, con la scommessa che la natura è sottomessa a leggi proprie, una formidabile stimolazione per sviluppare le scienze. Gli dobbiamo inoltre, con la credenza che l'umanità si civilizzi poco a poco controllando sempre più la natura e disciplinando sempre meglio i suoi istinti, alcuni vantaggi, soprattutto politici, che l'aspirazione al progresso ha potuto generare. L'antropologia è figlia di questo movi mento, del pensiero scientifico e della fiducia nel!'evoluzione, e non vi è ragione di ver gognarsi delle circostanze della sua nascita né di condannarla a sparire per espiare i suoi peccati di gioventù. Ma il suo ruolo si adatta male a questa eredità; bisogna comprendere come dei popoli che non condividono la nostra cosmologia hanno potuto inventare da soli delle realtà distinte dalla nostra, testimoniando con questo una creatività che non può essere giudicata in base alle nostre realizzazioni. Ora, è ciò che l'antropologia non può fare dal momento che dà per scontato come dato universale dell'esperienza la nostra realtà, i nostri modi di stabilire delle discontinuità nel mondo e di scoprirvi dei rapporti costanti, i nostri modi di distribuire entità e fenomeni, processi e modi di agire, nelle categorie che sarebbero predeterminate dalla disposizione e dalla struttura delle cose. Certo, non comprendiamo le altre culture come completamente analoghe alla no stra - questo sarebbe ben poco verosimile. Le vediamo attraverso il prisma di una parte solamente della nostra cosmologia, come tante espressioni singolari della Cultura tanto quanto essa contrasta con una Natura unica e universale, culture molto diverse, quindi, ma che rispondono tutte a un canone che noi capiamo attraverso questa doppia astrazio ne. Poiché profondamente radicato nelle nostre abitudini, questo etnocentrismo è molto difficile da estirpare: agli occhi della maggior parte degli antropologi, come fa notare 44 Sahlins, M., 1976, p. 55.
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Oltre natura e cultura giustamente Roy Wagner, le culture periferiche dell'Occidente moderno «non offrono contrasti, o esempi contrari, alla nostra cultura, come sistema totale di concettualizza zione; suggeriscono piuttosto delle comparazioni rispetto ad "altri modi" di trattare la nostra realtà» 45 • Fare del dualismo moderno il modello di riferimento di tutti i sistemi del mondo ci costringe così ad una sorta di cannibalismo benvolente, un'incorporazione ripetuta dell'oggettivazione dei non-moderni attraverso essi stessi nell'oggettivazione di noi stessi attraverso noi stessi. Lungamente ritenuti radicalmente altri, e sfruttati di con seguenza come l'antitesi della morale civica o modelli di virtù scomparse, i selvaggi sono ormai considerati come vicini quasi trasparenti, non più quei "filosofi nudi" che lodava Montaigne, ma degli abbozzi di cittadini, dei protonaturalisti, dei quasi-storici, degli economisti in fieri, insomma, dei precursori indecisi di un modo di comprendere le cose e gli uomini che noi avremmo saputo svelare e codificare meglio di chiunque altro. È questo un modo di rendere loro omaggio, sicuramente, ma è anche il miglior modo, disponendoli nella nostra lotta comune, di far svanire il loro contributo all'intelligibilità della condizione umana. Se un tale etnocentrismo non rende nei nostri termini illegittimo lo studio dei sistemi di parentela o dei sistemi tecnici, diventa un ostacolo formidabile alla giu sta comprensione delle ontologie e delle cosmologie le cui premesse differiscono dalle nostre. Infatti, a causa del suo dualismo costitutivo, l'antropologia non poteva non trattare questa parte dell'oggettivazione del reale che i non-moderni non avrebbero sa puto completare come una prefigurazione maldestra o un eco più o meno verosimile di quella che noi moderni abbiamo portato a termine, una miscela variegata di inferenze indotte, di logica mutilata e di proiezioni dimostrative, che portano la testimonianza dell'infanzia della ragione e delle sorgenti contemporanee della superstizione; insom ma, un residuo di conoscenze positive che per noi non assume né forma né senso se non sotto la massa solida dalla quale si era distaccato. È questo scarto del sapere sulla natura che delizia l'antropologia religiosa dopo Frazer, e niente è più sintomatico della posizione derivata dai fenomeni di cui essa si occupa che l'epiteto "soprannaturali" con il quale li qualifichiamo ancora. Anche perché se lo si difende, è difficile scappare all'illusione che, per molti popoli, la soprannatura è quella parte della natura che non hanno saputo spiegare, che l'intuizione di una causalità soprannaturale anticipa l'idea di una causalità naturale con la quale questa intuizione potrà essere riformata, che nell'interpretare un arcobaleno, un'alluvione o una malattia come il risultato di una forza invisibile dotata di intenzionalità, il "pensiero magico" scommette su un deter minismo universale che sa identificare con i suoi effetti senza discernervi le vere cause. Ora, è il contrario che sembrava più plausibile, come aveva ben visto Durkheim: «Per ché si possa dire che alcuni fatti sono soprannaturali, bisogna già avere la sensazione che esista un ordine naturale delle cose, cioè che i fenomeni dell'universo sono legati fra di loro secondo rapporti necessari, chiamati leggi. Una volta che questo principio è ac quisito, tutto ciò che contravviene a queste leggi doveva necessariamente sembrare come 45Wagner, R., 1981 (1975), p. 142, corsivo dell'autore.
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3. La grande divisione al di fuori della natura e, di conseguenza, della ragione» 46 • Come sottolinea Durkheim, questa decantazione è tardiva nella storia dell'umanità perché deriva dallo sviluppo delle scienze positive intrapreso dai Moderni. Lontano dall'essere il segno di un determinismo incompiuto, il soprannaturale è piuttosto un'invenzione del naturalismo che getta sulla sua genesi mitica uno sguardo compiacente, una sorta di recipiente immaginario dove possiamo riversare l'eccesso dei significaci trasportato dagli spiriti che si ritiene siano accenti alle regolarità del mondo fisico, ma ancora incapaci di farsene un'idea esatta per mancanza di supporto delle scienze esatte. La tendenza a selezionare conoscenze legittime e residui simbolici con il setaccio na turalista si distingue meglio nella mania tassonomica che consiste nell'isolare dei campi di ricerca specializzati che battezziamo con il nome di una scienza riconosciuta precedu ta da "emo-". Ai due antenati che furono l'emobotanica e l'emozoologia sono così ve nuti ad aggiungersi l'emomedicina, l'ecnopsichiacria, l'etnoecologia, emofarmacologia, l'ecnoastronomia, l'etnoentomologia e molti altri ancora. Questa procedura permette di reificare alcuni lembi dei saperi indigeni rendendoli compatibili con la divisione mo derna delle scienze, poiché le frontiere del dominio sono stabilite a priori in funzione delle classi di entità e di fenomeni che le discipline corrispondenti hanno poco a poco ritagliata come loro propri oggetti nella trama del mondo. Avendo ognuna di queste et noscienze conquistato la sua autonomia istituzionale, con le sue riviste, i suoi congressi, le sue cattedre e le sue controversie, diventa sempre più difficile sfuggire all'illusione che l'oggettivazione del reale si organizzi ovunque secondo una stessa pendenza naturale il cui scorrimento sarebbe ostacolato qua e là da grandi blocchi di pensiero magico, commoventi testimonianze di una presa di coscienza ancora imperfette delle regolarità del mondo fisico e dell'ambizione di esercitare su di esso un controllo più sicuro. La distribuzione del lavoro antropologico da questo momento in poi diventa ineluttabile: agli specialisti delle etnoscienze l'aggiornamento delle classificazioni e dei saperi "popo lari", varianti approssimative dei discorsi accademici che ne costituiscono i prototipi; agli specialisti della "culcurà' lo studio del simbolismo, delle credenze e dei rituali, questa schiuma preziosa che dà ad ogni popolo uno stile inimitabile. Eppure, i legami molceplici e aggrovigliaci che ogni individuo tesse in ogni momento con il suo ambiente non autorizzano molto una distinzione così netta tra sapere pratico e rappresentazione simbolica, almeno se si dà un po' di credito al senso che i membri di una collettività collegano ai loro atti. Quando un cacciatore achuar si trova nella possi bilità di sparare e quando canta diretto alla selvaggina un anent, una supplica destinata a sedurre l'animale e a far tacere la sua sfiducia attraverso delle promesse capziose, pre cipita improvvisamente dal razionale all'irrazionale, dalla conoscenza strumentalizzata alla chimera? Cambia completamente registro dopo il lungo periodo di avvicinamento dove ha saputo mettere ali'opera a pieno la sua esperienza ecologica, la sua profonda co noscenza dell'ambiente, la sua esperienza nel seguire le pisce, tutte quelle qualità che gli
46Durkheim, É., 1960 (1912), p. 36, corsivo dell'autore. Vedere anche il capitolo che Clément Rosset dedica al rapporto tra natura e religione in filosofia (Rosset, Cl., 1973).
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Oltre natura e cultura hanno permesso di rilevare quasi di istinto una moltitudine di indizi lungo un percorso che Jo ha condotto alla sua preda? Insomma, il canto magico deve essere considera to come una rappresentazione illusoria inserita senza necessità in una catena operativa piena di competenze pratiche, di conoscenze efficaci e di automatismi confermati? Per niente. Infatti se considero un animale come una persona dotata di facoltà analoghe alle mie, come un essere intenzionale attento ai discorsi che posso avere con lui47 , allora diventa possibile rivolgersi a lui con le illusioni della civiltà tanto quanto darsi i mezzi tecnici per ucciderlo. Luna e l'altra attitudine partecipa insieme al tessuto di relazioni che stabilisco con l'animale e ognuna gioca un ruolo nella configurazione dei miei com portamenti verso di lui. Si ritornerebbe in tal modo ad una concezione intellettualista che spiegherebbe la magia della caccia attraverso la credenza di coloro che sono ricorsi ad una teoria del mondo nella quale questo genere di azione sarebbe investita da una efficacia operati va? In nessun modo. Nessun Achuar pretenderà che sia l'anent da solo a permettere di stanare una preda e ad ucciderla a colpo sicuro; l'anent è solamente uno degli elementi che attualizzano lo statuto ontologico di cale o tal'altro animale, insieme ad una gran quantità di altri criteri anch'essi pertinenti, relativi ai suoi stili di vita, al suo territorio, a ciò che si sa delle circostanze che l'hanno reso accessibile in un dato momento, alla biografia del cacciatore e ai suoi incontri passati con altri membri della stessa specie. [incantesimo magico non è operativo perché sarebbe performativo, perché compirebbe o renderebbe possibile agli occhi di colui che lo canta il risultato che esso suggerisce. Esso è operativo in ciò che contribuisce a caratterizzare, e quindi a rendere effettivo, la relazione che si stabilisce in un momento dato tra un certo uomo e un certo animale: richiama i legami esistenti tra il cacciatore e i membri della specie, qualifica questi legami nel linguaggio della parentela, sottolinea la connivenza tra le parti presenti, insomma, seleziona fra gli attributi dell'uno e dell'altro quelli che daranno nel loro faccia a faccia una più grande realtà esistenziale. [anent della caccia non è quindi isolabile come una scoria simbolica che si aggiunge ad un processo tecnico; non mira principalmente ad ottenere un risultato utile; non è né un additivo né un palliativo; permette di rendere presente e di mettere in scena un sistema di rapporti, esistenti prima allo stato virtuale, in modo da dare un senso ad una interazione congiunturale tra l'uomo e l'animale attra verso un richiamo senza ambiguità delle loro posizioni rispettive. In Amazzonia come da noi, un organismo non è istituito come un'entità significativa nell'ambiente attraverso le sole apparecchiature materiali e cognitive che permettono la sua identificazione, la sua messa a morte e la sua consumazione, ma da tutto un insieme di proprietà che gli sono attribuite e che esigono in cambio dei modi di condotta e di mediazione adeguati alla natura che gli si attribuisce. I vegetariani sono così differenti dai cacciatori achuar quando si rifiutano di mangiare dei vitelli e non degli spinaci, o le organizzazioni in-
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In francese il pronome "lui" si riferisce sia all'italiano "lui" che "esso". In questo caso, siccome l'autore si riferisce ad un animale, dovremmo tradurre con esso. Dal momento che gli Achuar considerano l'animale come persona, abbiamo scelto di tradurre "lui" con "lui" (n.d.t.).
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3. La grande divisione
cernazionali quando interdicono la cattura dei delfini e non delle aringhe? Questi modi contrastanti di trattare l'una o l'altra specie non ripropongono anche il tipo di relazione che crediamo di stringere con quella o quell'alcra parte del vivente? Piuttosto che vedere qui una superstizione palese e lì una superstizione clandestina, articolate in modo più o meno razionale in un sistema di conoscenza positiva, non è preferibile affrontare la dimensione "simbolica" delle nostre azioni nel mondo come un mezzo fra gli altri di ritagliare nella trama delle cose alcuni percorsi dei quali vedremo presto che sono meno incostanti di quanto sembri?
rautonomia dei mondi Che dire di più al termine di questa breve presentazione? È ancora plausibile an noverare tra gli universali una opposizione tra la natura e la culcura la cui antichità non risale canto più in là di un secolo? Dobbiamo continuare a ricercare ai quattro angoli del pianeta il modo con il quale i popoli più diversi hanno potuto esprimere cale opposizione al costo di un'amnesia delle condizioni del tutto singolari nelle quali noi stessi l'abbiamo tardivamente costruita? È così scioccante ammettere che i Jivaros, i Samoiedi o i Papuani possano non avere affatto coscienza che gli umani si distinguono dai non-umani per i regimi di analisi che sono loro applicaci, se i nostri stessi bisavoli lo ignoravano? Bisogna, insomma, conservare una suddivisione del mondo così storica mente determinata per rendersi conto delle cosmologie delle quali molte civilizzazioni ci offrono ancora la vivente testimonianza o che, depositate negli scaffali delle nostre biblioteche, non aspettano altro che la nostra curiosità per rivivere? Come si sarà capi to, non la penso così. Forse al lettore viene in mente un'obiezione: la mia critica del dualismo sarebbe ingenua o sofistica, resterebbe sulla superficie del lieve tessuto delle parole e confonde rebbe l'assenza dei concetti con l'inesistenza delle realcà che esse designano. Dal facto che l'opposizione tra la natura e la cultura non ha acquisito la sua forma definitiva e la sua efficacia operativa, se non all'inizio del XX secolo, non ne consegue necessaria mente che in pratica siamo stati incapaci, alcrove e prima, di discriminare era i due ordini di realcà che annoveriamo sotto queste due parole. Avrei ceduto, insomma, ad una variante ingenua della perversione nominalista. L'ambizione di questo libro è di dimostrare che non è così, che il rifiuto del dualismo non porta né al relativismo as soluto né ad un ritorno dei modi di pensare che il contesto presente ha reso superaci, che è possibile riflettere sulla diversità degli usi del mondo senza cedere al fascino del singolare né ali'anatema contro le scienze positive. Quindi mi atterrò, per il momento, ad una breve professione di fede. Sicuramente è difficile immaginare che sia potuto sfuggire a chicchessia che i non umani di solito non usano il linguaggio, che è impossibile avere con essi dei rapporti sessuali fecondi, che molci fra loro sono incapaci di spostarsi da soli, di crescere o di riprodursi. Forse bisogna anche credere alla psicologia dello sviluppo quando ci dice che tutti i bambini, quale che sia il luogo dove sono allevati, tendono a stabilire molco pre-
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Oltre natura e cultura
sto delle distinzioni tra entità che essi percepiscono come dotate di un'intenzionalità e altre entità che ne sono sprovviste48 • Insomma, è probabile che un osservatore idealmente sottratto ad ogni influenza culturale possa accumulare numerosi segni che suggeriscono che esiste tra lui e ciò che si è deciso di chiamare gli oggetti naturali tutta una gamma di differenze nell'aspetto, nel comportamento o nel modo di stare nel mondo. Ma gli indizi a favore di una continuità graduale sono davvero tanti e del resto sono stati tenuti presenti da una manciata di spiriti ribelli che, da Montaigne a Haeckel passando per Condillac o La Mettrie, non hanno smesso di opporsi al dogma dominante49 • Perché far passare il confine attraverso il linguaggio o la poiesis piuttosto che attraverso l'indipendenza del movimento? Attraverso l'indipendenza del movimento piuttosto che attraverso la vita? Attraverso la vita piuttosto che attraverso la solidità materiale, la vicinanza spaziale o gli effetti acustici? Come scrive Whitehead, in un altro contesto è vero, «i confini della natura sono sempre a brandelli» 50 • Il percorso etnografico e storico compiuto fino ad oggi attesta abbastanza che la coscienza di alcune discontinuità tra umani e non-umani non è sufficiente di per sé a generare una cosmologia dualistica. La molteplicità di forme di esistenza di cui noi siamo i testimoni può offrire un terreno più fertile alle distribuzioni ontologiche rispetto a questo piccolo quantum attraverso il quale noi ci distinguiamo da ciò che Merleau-Poncy chiama «i corpi associati» 51• Il mondo si presenta a noi come una profusione continua e bisogna seguire un realismo di essenze molto miope per vederlo preritagliato in domini discreti che il cervello avrebbe per vocazione, ovunque e sempre, di identificare nello stesso modo. Si potrebbe anche obiettarmi che la grande divisione è un'illusione dato che nella pratica i Moderni non si sono mai conformati alla distinzione radicale che fonda la loro rappresentazione del mondo. Questa è l'ipotesi originale che ha proposto Latour: dopo la rivoluzione meccanicistica del XVII secolo, l'attività scientifica e tecnica non avrebbe cessato di creare delle mescolanze di natura e di cultura all'interno di reti dall'architettu ra sempre più complessa dove gli oggetti e gli uomini, gli effetti materiali e le convenzio ni sociali sarebbero in grado di "traduzione" reciproca; una tale proliferazione di realtà miste non sarebbe essa stessa stata possibile se non dal lavoro di "purificazione" critica svolto in parallelo al fine di garantire la separazione degli umani e dei non-umani in due regioni ontologiche del tutto impermeabili 52• Insomma, i Moderni non fanno ciò che dicono e non dicono ciò che fanno. Lunica cosa che li distinguerebbe dai pre-moderni sarebbe la presenza di una "costituzione" dualistica destinata a rendere più rapida ed efficace la produzione di ibridi occultando le condizioni sotto le quali essa si compie. Quanto ai pre-moderni, avrebbero fatto dirigere i propri sforzi sulla concettualizzazione degli ibridi, impedendo così la moltiplicazione di questi ultimi. Largomento è, nell'in sieme, molto convincente. Ma non mette affatto in causa l'assoluta singolarità della coKeil, F.C. 1989. 49 Per maggiori dettagli vedere cap. XI. 50 Whitehead, A.N. 1955 (I 920), p. 50. 51 Merleau-Ponry, M. 1964, p. 13. 52 Latour, B., 1991. 53 lbid. p. 22.
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3. La grande divisione smologia moderna, ciò che, del resto, Latour non esita ad ammettere 53 • Che il dualismo sia una maschera per una pratica che lo contraddice non elimina tuttavia la sua fun zione direttrice nell'organizzazione delle scienze né cancella il fatto che l'etnologia trae un'ispirazione costante da un'opposizione che la maggior parte dei popoli che descrive e interpreta non ha. Ora, è l'incidenza di questo prisma che deforma l'etnologia che mi interessa principalmente, poiché è qui che il suo effetto di illusione è più dannoso. Un sociologo delle scienze può ben incorrere nella critica di Latour se crede che gli umani e i non-umani esistano in domini separati, nonostante tutto è fedele a una delle dimensioni del suo oggetto; un etnologo che pensasse che i Makuna o i Chewong credono una tale cosa tradirebbe il pensiero di coloro che studia. So bene che l'idea di una grande divisione ha una cattiva considerazione, e non è così da adesso. Dopo che l'etnologia si è staccata dai grandi schemi evoluzionistici del XIX secolo sotto l'influenza congiunta del funzionalismo britannico e del culturalismo nord-americano, essa non ha smesso di vedere la magia, i miti e i rituali dei non-moderni come prefigurazioni o tentativi del pensiero scientifico, prove, legittime e plausibili per le circostanze, per spiegare i fenomeni naturali e per garantirsene il dominio, espressio ni bizzarre nella forma, ma ragionevoli nella sostanza, dell'universalità degli obblighi fisiologici e cognitivi dell'umanità. Lintenzione era rispettabile: si trattava di dissipare il velo dei pregiudizi che circondava i "primitivi" mostrando che il buon senso, le qualità dell'osservazione, l'attitudine a desumere dalle proprietà, l'ingegnosità o lo spirito di iniziativa sono un patrimonio equamente condiviso. Ad oggi è proprio difficile evocare una qualsiasi differenza tra Noi e gli Altri senza vedersi accusati di arroganza imperiali stica, di razzismo latente o di passatismo impenitente, ricomparsa di un pensiero nefasto e retrogrado da inviare al più presto nel dimenticatoio della storia per raggiungere gli spettri di Gustave Le Bon e di Lucien Lévy-Bruhl. Riconosco che è potuto essere utile, ad un certo momento, affermare che popoli a lungo considerati come "selvaggi" tuttavia non sono sotto l'influenza della Natura dato che, proprio come noi, avrebbero saputo concettualizzare la loro alterità. Largomento era efficace contro coloro che dubitavano dell'unità della condizione umana e dell'uguale dignità delle sue manifestazioni cultura li. Ma ora avrebbe più senso tentare di collocare il nostro esotismo come un caso parti colare all'interno di una grammatica generale delle cosmologie piuttosto che continuare a dare alla nostra visione del mondo un valore di metro di misura per giudicare il modo in cui migliaia di civiltà hanno potuto formarsi, quasi potesse essere questa un oscuro presentimento.
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II STRUTTURE DEL�ESPERIENZA
Quiconque veut vraimem devenir philosophe devra «une fois dans sa vie» se replier sur soi-meme et, au-dedans de soi, temer de renverser toutes !es sciences admises jusqu'ici et temer de !es reconstruire. Edmund Husserl, Médiations cartésiennes.
4 GLI SCHEMI DELLA PRATICA
Riconoscere la contingenza del dualismo della natura e della cultura e gli inconvenienti che induce nella comprensione delle cosmologie non moderne tuttavia non deve portare a trascurare la ricerca di strutture di inquadramento capaci di spiegare la coerenza e la regolarità dei diversi modi con cui gli umani vivono e percepiscono il loro essere nel mondo. Per utile che possa essere una fisiologia delle interazioni, essa non è niente senza una morfologia delle pratiche, un'analisi della prasseologia delle forme dell'esperienza. Per parafrasare una celebre formula di Kant, le strutture senza contenuto sono vuote, esperienze senza forma, private di significato'. Ora, in ragione di quei movimenti da bi lanciere a cui l'antropologia è abituata, da un po' di tempo lo studio degli elementi della struttura è stato colpito da un singolare discredito, assimilata come è ad un oggettivismo congelato dove si scioglierebbe senza remissione tutto ciò che dà ricchezza e dinamismo agli scambi sociali. Contro il gioco di strutture ritenute fuori dal tempo e ipostatizzate in essenze, che funzionerebbero come repertori di azioni eseguite da automi senza iniziative né affetti, si invoca la creatività dell'attività intenzionale (agency) propria degli attori sociali, il ruolo della contingenza storica e della resistenza alle egemonie nell'invenzione e del métissage fra le forme culturali, l'evidenza potente e spontanea della pratica e l'in nocenza perduta per sempre di ogni strategia interpretativa.
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«Delle esperienze senza contenuto sono vuote, delle intuizioni senza concetti, cieche», Kant, E., 1968 (178 I), «Teoria trascendentale degli elementi, Introduzione alla seconda parte», p. 77 della traduzione francese.
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Oltre natura e cultura Come non vedere, ciònonoscante, che le pratiche e i comportamenti osservabili all'interno di una collettività esibiscono una regolarità, una permanenza, un grado di automatismo, che la maggior parte del tempo gli stessi individui interessati fanno fatica ad attribuire a sistemi di regole stabilici? Come ignorare che, almeno nelle società senza scrittura, così rare che tutti gli etnologi conoscono per nome, solo qualche personalità eccezionale è stata in grado di proporre delle sintesi parziali dei fondamenti della loro cultura, sintesi spesso prodotte al fine di rispondere alle aspettative di un ricercatore e che il loro carattere generalmente esoterico non permette di prendere come regole fon damentali conosciute da tutti? Come queste linee di condotta, queste reazioni e scelte abitudinarie, queste attitudini condivise nei confronti del mondo e dell'altro, così distin tive che servono da segnale intuitivo per misurare gli scarti differenziali tra i popoli vici ni, ma interiorizzate in modo così profondo che non affiorano quasi mai in una esplicita riflessione, come queste disposizioni tacite potrebbero essere l'oggetto di un dibattito pubblico, come potrebbero essere sottomesse coscientemente a delle riforme, costituirsi secondo circostanze attraverso adattamenti richiesti? Affermare che esse lo possono, per concessione agli incantesimi di una spontaneità della praxis finalmente liberata dalla sua alienazione, significa perpetuare la vecchia confusione tra i repertori di norme istil late con l'educazione, da una parte, e i modelli cognitivi e corporali che governano l'espressione dell'ethos, dall'altra; significa operare un amalgama era i modelli di azione oggettivati sotto forma di proibizioni o di prescrizioni revocabili in ogni momento e gli schemi della pratica che, per essere efficaci, devono restare rannicchiaci nell'oscurità delle abitudini e delle assuefazioni.
Struttura e relazione Uno dei vantaggi maggiori di cui siamo debitori tanto all'antropologia strutturale quanto ai lavori pionieristici di Gregory Bateson, un vantaggio percettibile anche per coloro che ostentano di ignorarne l'origine, è il dare per scontato che noi consideria mo la vita sociale dal punto di vista delle relazioni che ne formano la trama, una scelta che presuppone di concedere alle relazioni una stabilità e una regolarità strutturali più grandi che a quelle azioni contingenti degli elementi collegati. Quale che sia il dominio organizzato attraverso queste relazioni - la parentela, gli scambi economici, l'attività rituale o l'organizzazione del cosmo -, il ventaglio di queste relazioni è, per necessità logica, molto più limitato che le entità infinitamente diverse fra le quali esse operano il collegamento, aprendo così la possibilità di una sistematica ragionata della diversità dei rapporti tra gli esistenti, il cui obiettivo consisterebbe, in un primo momento, nel redi gere una tipologia di relazioni possibili con il mondo e con l'altro, umano e non umano, e in un secondo momento nell'esaminare le loro compatibilità e incompatibilità. Lo studio degli elementi della struttura così intesi incontra tuttavia molte difficoltà, del resto in gran parte interdipendenti. La questione della scala, prima di tutto: o le strutture isolate sono di una tale generalità che non permettono di rendere conto della specificità di configurazioni culturali singolari, oppure sono così particolareggiate nel
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4. Gli schemi della pratica loro contesto storico che si rivelano inaudite ad ogni impresa comparativa. Anche se la nozione di pattern di cultura dovuta a Ruth Benedict è proprio in disuso, essa illustra bene la prima situazione2• Ricavati da un'analisi induttiva che considerava tre società solamente, questi patterns alla fine si riducono alla classica opposizione nietzschiana tra popoli apollinei e popoli dionisiaci, due forme dell'esperienza collettiva che non sono indicative di strutture, cioè combinazioni di tratti relazionali organizzati in modelli su scettibili di essere messi in rapporto da leggi di trasformazione, dato che provengono da raggruppamenti compositi di sistemi di valore, di principi etici e di condotte norma lizzate, ipostatizzate inoltre in culture autonome e trascendenti delle quali ogni indivi duo offrirebbe un riverbero alla sua scala. La nozione di habitus rappresenta la seconda situazione: se essa permette di aggirare gli scogli abituali del!'approccio strutturale, e soprattutto la reificazione della struttura concepita come un soggetto autonomo dotato di efficacia sociale, essa rende nondimeno molto disagevole la generalizzazione. Come li definisce Bourdieu, gli habitus sono sì strutture isolate attraverso l'analisi, ma strutture di un genere particolare, dei sistemi di disposizioni durevoli immanenti alle pratiche, provenienti dall'apprendimento imitativo e dall'interiorizzazione delle condotte e delle tecniche corporali del contesto. Queste strutture strutturanti, predisposte a generare e a perpetuare le strutture strutturate, sono quindi costitutive dello stile distintivo delle azioni in un ambiente sociale dato senza comunque essere presenti per questo alla co scienza degli attori sotto forma di una regola di un gioco o di un inventario di prescri zioni. Poiché è un sistema di strutture cognitive e motivazionali così familiari che noi non proviamo affatto il bisogno di esaminarle, l'habitus è inoltre molto più stabile delle teorie locali per mezzo delle quali è razionalizzato e convertito in norme di comporta mento individuale e collettivo3• !',habitus è ciò nondimeno individualizzato dalla storia, contemporaneamente «prodotto da un'acquisizione storica [e] ciò che permette l'appro priazione del vantaggio storico», naturalizzato in qualche modo dai contesti dove opera, tanto quelli che sono all'interno del campo nel quale esso si mostra, quanto quelli all'in terno dei quali lo studioso che li evidenzia è lui stesso inserico4 . In questo senso, quindi, e contrariamente alle forme universalizzanti dell'esperienza o della relazione del tipo patterns di cultura, l'habitus è estremamente diverso, poiché ognuna delle sue espressioni riflette una delle modalità della moltitudine delle competenze culturali di cui gli umani hanno dovuto dare prova in un momento o in un altro della loro storia, per esistere insieme in ambienti fisici e sociali molto diversi. Per ragionevole che sia, questa partico larizzazione del!'habitus rende tuttavia difficile la comparazione delle modalità della sua manifestazione concreta e la coglie come un insieme strutturato di diverse combinazioni nelle quali esso interviene.
' Benedice, R., 1934. 3 Un punto che sembrano dimenticare alcuni antropologi quando, in nome del primato della pratica, imputano agli schemi generatori di questo una flessibilità ed una contingenza che caratterizzano piuttosto le elaborazioni ad hoc che i loro informatori danno di questi schemi 4 Bourdieu, P., 1997, p. 179.
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Oltre natura e cultura Ora, mi sembra che sia possibile e necessario risalire più a monte, verso un nucleo di schemi elementari della pratica di cui le differenti configurazioni permetterebbero di riferire della gamma dei rapporti agli esistenti, una sorta di matrice originaria da dove gli habitus prenderebbero la loro origine e di cui conserverebbero una traccia percettibile in ognuna delle loro iscrizioni storiche. Nel suo principio, una tale ipotesi non è molto lontana dall'idea avanzata da Lévi-Strauss quando scrive: Ogni bambino porta nascendo, e sotto forma di strutture mentali abbozzate, l'integralità dei mezzi di cui l'umanità dispone dall'eternità per definire le sue relazioni con il Mondo e con l'Altro. Ma queste strutture sono esclusive. Ognuna di esse non può integrare che alcuni elementi, fra tutti quelli che sono offerti. Ogni tipo di organizzazione sociale rap presenta quindi una scelta, che il gruppo impone e perpetua 5 . A condizione quindi di specificare che questi «mezzi di cui l'umanità dispone dal!' eternità » non si riducono a strutture mentali innate, ma che consistono soprattutto in un piccolo numero di schemi pratici interiorizzati, che sintetizzano le proprietà og gettive di ogni relazione possibile con gli umani e i non-umani. Questo riporta a una seconda difficoltà che incontra lo studio degli elementi della struttura, vale a dire l'assegnazione del loro statuto ontologico: le configurazioni strutturali rintracciate attraverso l'analisi di una realtà sociale qualsiasi sono espressioni epurate dalle relazioni concrete che costituiscono la trama di questa realtà, o piuttosto devono essere concepite come modelli operativi costruiti dal!'osservatore in una relativa libertà nei con fronti di modelli espliciti formulati da coloro che egli osserva e, se questo è il caso, come valutare la pertinenza di queste strutture e rendere conto del fatto che esse spiegherebbero il carattere sistematico delle norme, delle pratiche e dei comportamenti senza essere però appresi in modo cosciente? Sappiamo che la prima posizione, detta "realistà', fu illustra ta molco chiaramente da Alfred R. Radcliffe-Brown: «la struttura sociale designa la rete complessa di relazioni sociali che esistono realmente e che uniscono gli esseri umani indi viduali in un dato ambiente naturale» 6. È anche la posizione che molci etnografi e socio logi contemporanei adottano spontaneamente quando descrivono i tratti strutturali delle società o dei gruppi che studiano: non proprietà soggiacenti capaci di combinarsi in figure più ampie - all'interno di un'ampia area culcurale o in un tipo di fenomeno, per esempio -, ma una formalizzazione induttiva di relazioni osservabili tra persone, spesso ispirata da modelli grazie ai quali la collettività osservata comprende e traduce la regolarità dei com portamenti al suo interno. Alla scala descrittiva nella quale essa è così impiegata, l'adesione al postulato realista del resto non è illegittimo, se si prende coscienza del fatto che i risulcati ai quali essa giunge, l'interpretazione ad hoc di una società specifica, non possono essere impiegati come materiali bruti nell'elaborazione di una morfologia strutturale7•
5 Lévi-Strauss, Cl., 1967 (1949), p. 108. Radcliffe-Brown, A.R., 1968 (1952), p. 315. 7 A questo proposiro vedere l'eccellente analisi fatta da Dan Sperber della distinzione della conoscenza interpretativa e conoscenza teorica in antropologia (1982, cap. I). 6
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4. Gli schemi della pratica
Certo, è a Lévi-Strauss che si deve la definizione alternativa della nozione di struttu ra. Accecato dal suo empirismo, Radcliffe-Brown avrebbe confuso le relazioni sociali e la struttura sociale, le prime essendo quelle che offrono i materiali di osservazione impie gati dall'etnologo e dal sociologo per elaborare modelli astratti che rendono la seconda manifesta; insomma, «il principio fondamentale è che la nozione di struttura sociale non si rapporta alla realtà empirica, ma ai modelli costruiti in base a essa» 8• Per essere veramente strutturali, questi modelli devono ancora soddisfare altre condizioni: presen tare un carattere di sistema tale che la modificazione di uno dei loro elementi azionerà un cambiamento prevedibile di tutti gli altri; all'interno di una famiglia di modelli, si organizzano inoltre secondo una variazione ordinata che definisce i limiti di un gruppo di trasformazione. Il modello strutturale così inteso presenta alcune caratteristiche del modello deduttivo di spiegazione causale che Newton ha impiegato per rendere conto della realtà fisica e da cui Kant ha tratto le conseguenze filosofiche nella sua teoria della causalità sintetica. Lévi-Strauss stesso invita a questa analogia quando distingue i modelli meccanici, strumenti privilegiati di analisi strutturale, dai modelli statistici impiegati dai sociologi e dagli storici. Un modello meccanico ha per caratteristica quella di formulare relazioni tra gli elementi costitutivi che possiedono la stessa scala dei fenomeni nel siste ma reale; nei modelli statistici, invece, il comportamento degli elementi individuali non è prevedibile dalla conoscenza della loro combinazione. Con questi due tipi di modello, si ritroverebbe quindi nelle scienze sociali la differenza fra il punto di vista meccanico e quello termodinamico9• Eppure, i modelli strutturali lévi-straussiani possiedono una caratteristica che li al lontana molto dal modello deduttivo di spiegazione causale: essi sono incoscienti, o almeno sono i modelli incoscienti che presentano il rendimento più elevato per l'analisi strutturale 10 • Come tali, esistono come strutture superficialmente nascoste nella psiche, spesso mascherate alla coscienza collettiva degli attori sociali da modelli vernacolari le cui funzioni normative condannano ad una semplificazione impoverente. Quando I'os servatore costruisce un modello strutturale corrispondente a fenomeni il cui carattere di sistema non è stato percepito dalla società che lo studia, non si accontenta quindi di sup porre che la morfologia del suo dispositivo formale rappresenti le proprietà soggiacenti della società della quale cerca di riferire, suppone inoltre che queste proprietà abbiano un'esistenza empirica, certamente dissimulata da coloro che ne fanno un uso quotidia no, ma che un'analisi abilmente svolta saprà riportare alla superficie. Quale è allora la natura di questo inconscio strutturale collettivo? È presente in ogni spirito sotto forma di imperativi cognitivi che restano taciti sebbene culturalmente determinati, o meglio è distribuito nelle proprietà delle istituzioni che lo rendono manifesto all'osservatore? Come è interiorizzato da ogni individuo e con quali mezzi agisce in modo che eventual mente possa determinare comportamenti ricorrenti traducibili in modelli vernacolari?
8 Lévi-Strauss, Cl., 1958, p. 305. 9 lbid., p. 312 IO Ibid., pp. 308-310.
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Oltre natura e cultura A questo tipo di domande, Lévi-Strauss non dà risposte molto precise. Infatti, l'in coscio strutturale non ha contenuto, ma una funzione di orientamento, o "simbolica", che è quella di imporre leggi molto generali alla forma che prendono i fenomeni sociali o i sistemi di idee oggettivate quali i miti o le classificazioni popolari. Così le tre strut ture elementari dello scambio matrimoniale - bilaterale, matrilaterale e patrilaterale sarebbero sempre presenti allo spirito umano in modo incosciente, in modo che l'una o l'altra tra esse non potrebbe essere attualizzata dal pensiero se non in un'opposizione contrastiva con le altre due 11• Si tratterebbe quindi di categorie sintetiche generative di cui lo studio delle istituzioni sociali permetterebbe di ritrovare traccia molto presto nel funzionamento dello spirito e che giustificherebbero il fatto di considerare l'analisi sociologica come una semplice tappa in una ricerca di natura prima di tutto psicologica. Per feconda che possa essere, l'ipotesi dell'esistenza di invarianti strutturali inconsce fondate su opposizioni contrastive non permette di chiarire ciò che succede nella tap pa intermedia. Come possono strutture molto generali indicizzate su caratteristiche del funzionamento dello spirito generare modelli di norme coscienti e, soprattutto, fornire un quadro organizzativo alle pratiche quando queste, caso più frequente, non sembrano governate da un repertorio di regole esplicite? Quest'ultimo punto è tanto cruciale che Lévi-Strauss stesso si è impegnato soprattutto a rendere conto di domini molto forma lizzati della vita sociale, quali la parentela, le classificazioni totemiche o l'organizzazione spaziale, domini codificati senza troppe ambiguità da molte società, descritti con un lin guaggio quasi standardizzato dagli etnografi, e di cui non è vano congetturare, infatti, che essi possano essere retti da un piccolo nucleo di principi direttamente collegabili alle proprietà del pensiero. È molto diverso quando ci si confronta con popoli poco inclini alla riflessività e che non offrono che modelli molto sommari della loro vita sociale, o quando si affronta il campo più informe degli usi e delle abitudini quotidiane, dei gesti tecnici, dei modi di agire stereotipati, di tutti quegli automatismi distintivi propri di un ambito culturale, ma di cui le determinazioni mentali sono molto meno facili da stabilire. Infatti, Lévi-Strauss non si è molto occupato delle mediazioni cognitive e pratiche che permetterebbero di passare da una combinazione psichica molto epurata alla note vole diversità degli usi istituiti, poiché non è qui il livello di analisi che gli sembra più produttivo 12• Il punto di vista che egli rivendica è quello dell'astronomo, vincolato dalla lontananza degli oggetti che studia per non identificarne che le caratteristiche essenziali, non quello del fisiologo che tenterebbe di comprendere i meccanismi grazie ai quali le regolarità strutturali così isolate prendono una forma concreta per gli individui di cale
11 Lévi-Strauss, Cl., 1967 (1949), p. 533. 12 Dimostra la sua polemica con David Maybury-Lewis sui sistemi dualisti: a quest'ultimo, che gli rim provera di proporre dei modelli diagrammatici della struttura spaziale e sociale dei Bororo e dei Winnebago che sono molco lontani dal modo con cui le popolazioni interessate codificano loro stesse l'organizzazione dualista del loro territorio e le loro divisioni interne, Lévi-Strauss risponde che la proposta dell'analisi strut turale non è quella di comprendere le relazioni sociali come si manifestano empiricamente, ma di compren derle costruendo dei modelli
ad hoc la cui manipolazione rivela le proprietà non direttamente osservabili di
queste stesse relazioni (Lévi-Strauss, Cl. 1973, cap. VI).
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4. Gli schemi della pratica o tal'altra società. Ora, lontano dall'essere contraddittori, i due punti di vista sono al contrario complementari, dato che il secondo è indispensabile per validare le ipotesi del primo e per garantire che i modelli che ne risultano si incontrino proprio ad un livello tacito nel modo in cui le persone organizzano la loro esperienza. Lévi-Scrauss non lo negherebbe forse, ma la necessità di questa seconda fase si esprime meno in lui attra verso analisi circostanziate che attraverso una convinzione molto generale che esiste una dimensione dell'attività umana dove una ricerca di questa natura è legittima. È almeno ciò che porca a credere un passaggio famoso de Il Pensiero Selvaggio: Il marxismo - se non proprio Marx - ha ragionato troppo spesso come se le pratiche dipendessero immediatamente dalla praxis. Senza mettere in causa l'incontestabile pri mato delle infrastrutture, noi crediamo che tra praxis e pratiche si inserisca sempre un mediatore che è lo schema concettuale per opera del quale una materia e una forma, prive entrambe di esistenza indipendente, si adempiono come strutture, ossia come esseri al tempo stesso empirici e intelligibili13. Se si mette tra parentesi una distinzione anche sostanziale era infrastruttura e sovra struttura, è un progetto antropologico di una radicale novità quello di cui Lévi-Strauss traccia qui le grandi linee, ma un progetto che non è stato portato a termine, impegnato com'era dall'urgenza di consolidare la validità metodologica della conoscenza delle realtà umane attraverso strutture intelligibili, a scapito di una migliore comprensione delle condizioni della loro esistenza concreta. In cosa consiste questo "schema concettuale" che sarebbe la chiave dell'articolazione tra l'intelligibile e l'empirico? Lévi-Strauss impiega questa nozione in un senso filosofi co abbastanza ampio, evidentemente derivato dalla teoria kantiana dello schematismo trascendentale inteso come metodo per pensare la relazione tra il concetto e l'oggetto concreto al quale si applica. Possiamo immaginare che mediante questo termine Lévi Strauss si riferisca alle proprietà mediatrici, sintetiche e dinamiche dello schematismo trascendentale, senza però ammettere la definizione restrittiva che propone Kant. La sua concezione è probabilmente più vicina a quella di Piaget, essa stessa ispirata a Kant, per il quale lo schema è una rappresentazione interna di una classe di situazioni che permet tono all'organismo di agire in modo coerente e coordinato ogni volta che si confronta con situazioni analoghe. Quindi, se Lévi-Strauss ha esaminato le traduzioni in forme istituzionali supposte da alcuni degli schemi strutturanti, è stato poco chiaro sulla loro identità e sul loro modo di funzionamento, salvo precisare che essi non coincidono con il sistema generale delle nostre idee che solo un pazzo, così dice, potrebbe considerare di inventariare in modo esauscivo 1 4 . Non dovremmo prendere alla leggera cale avver timento, è per questo che la mia ambizione è più limitata. Questo libro poggia infatti sulla scommessa che è possibile esporre schemi elementari della pratica e redigere una 13 Lévi-Srrauss, Cl., 1962, p. 173. Traduzione italiana da C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, il Saggia tore, 2010, Milano. 14 Ibid.
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cartografia sommaria della loro distribuzione e delle loro sistemazioni. Ora, un'impresa di questa natura non è giustificabile se non alla condizione di specificare i meccanismi con i quali si ritiene che delle strutture organizzino gli usi e gli stili di vita, senza però abbandonare l'ipotesi che la diversità delle relazioni con il mondo e con l'altro si presti ad un'analisi in termini di combinazioni finite.
I saperi delle cose comuni Comprendere come dei modelli di relazione e di comportamento possano orientare le pratiche senza affiorare alla coscienza è adesso divenuto un compito meno difficile, in ragione di ciò che abbiamo acquisito riguardo all'intelligibilità dei processi di inferenza e di derivazione analogica che governano la costruzione degli schemi mentali. Questi van taggi derivano essi stessi da un cambiamento di prospettiva nello studio della cognizione umana che ha condotto ad interessarsi alle dimensioni non linguistiche del!'acquisizio ne, del!'attuazione e della trasmissione del sapere, in contrasto con una fase anteriore dove la conoscenza era essenzialmente trattata come un sistema di proposizioni esplicite organizzato secondo la logica sequenziale propria dei linguaggi naturali o dei programmi del computer. Ora, un tale modello offriva una rappresentazione poco soddisfacente del processo mentale che permette di riconoscere alcuni oggetti e di includerli all'istante in una classe tassonomica. Avviene quindi uno spostamento nello studio dei concetti classificatori verso una posizione ispirata alla psicologia della Gestaft, secondo la quale questi concetti devono essere compresi come configurazioni globali di tratti caratteristi ci, non come liste scomponibili di attributi da cui avremmo imparato prima di tutto le definizioni necessarie e sufficienti. In seguito ai lavori di Eleonor Rosch, è ora ammesso che un buon numero di concetti classificatori siano formati in riferimento a "prototipi" che condensano in una rete di rappresentazioni associate insiemi di casi particolari che presentano un"'aria di famiglia" 15• Così, il concetto di una casa non è costruito a partire da una lista di tratti specifici - un tetto, dei muri, delle porte e finestre, ecc. - di cui bisognerà verificare la presenza per assicurarsi che l'oggetto con il quale abbiamo a che fare sia proprio una casa. Saremmo allora molto in difficoltà ad identificare in quanto casa un edificio sprovvisto di muri o un rudere il cui tetto fosse scomparso 16• Se non esitiamo a chiamare casa un igloo, una dimora troglodita o una yurta, è perché all'istante valutiamo la loro conformità con un insieme vago e inespresso di attributi di cui nessuno è essenziale al giudizio classificatorio, ma che sono tutti legati da una rappresentazione schematica di ciò al quale una casa tipica deve conformarsi. Lontano dall'essere scomponibile in serie di definizioni del tipo di quelle che fornisce un dizionario, i concetti classificatori si fondano quindi su frammenti del sapere tacito che poggia sulle proprietà che la nostra conoscenza teorica e pratica del mondo ci porta ad imputare agli oggetti ai quali questi concetti si riferiscono, guidati in questo dalla 15 Rosch, E., I 973 e I 978. 16 Un esempio preso da Maurice Bloch (1998, p. 5).
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4. Gli schemi della pratica
nostra esperienza di alcune espressioni concrete di quegli oggetti che ci sembrano come i migliori esemplari della classe alla quale appartengono. Limportanza degli aspetti non linguistici della cognizione è stata ugualmente rilevata dagli studi sempre più numerosi sull'apprendimento delle attività pratiche, sia che que ste derivino da un know-how specializzato o da un adempimento meccanico di compiti quotidiani 17• Operazioni anche banali come la guida dell'automobile o la preparazione di un pasto non mobilitano tanto delle conoscenze esplicite organizzabili in proposizioni quanto una combinazione di attitudini motrici acquisite e di esperienze diverse sintetizzate in una competenza; esse provengono dal "sapere come" più che dal "sapere che" 18• L'in segnamento del comportamento si fa certamente anche con la parola, infatti si può imparare a cucinare sui libri di ricette o seguendo le istruzioni sugli imballaggi degli ali menti. Ma in questi domini, come in tutti quelli che fanno intervenire un sapere pratico, un compito non può essere eseguito velocemente e bene se non quando le conoscenze trasmesse tramite il linguaggio, orale o scritto, sono acquisite come un riflesso, e non sotto forma riflessiva, come una concatenazione di automatismi, e non come una lista di operazioni da effettuare. Quale che sia il ruolo giocato dalla mediazione linguistica nella sua messa in campo, questo genere di competenza esige infatti una soppressione del linguaggio per divenire efficace, cioè affinché colui che la possiede giunga a realizzare rapidamente e con sicurezza un compito di cui alcuni parametri differiscono da quelli incontrati prima in situazioni paragonabili. Tale flessibilità sembra indicare che non si diventa abili in un'attività pratica ricordandosi dei casi particolari già incontrati, o di sequenze di istruzioni che possono rapportarsi a questi casi, ma sviluppando uno schema cognitivo specializzato, capace di adattarsi ad una famiglia di compiti assimilabili, e di cui l'attivazione involontaria dipende da un certo tipo di situazione. Alcuni di questi schemi pratici impiegano più tempo a stabilirsi di altri in ragione della quantità di informazioni diverse che devono organizzare. La caccia ne offre un buon esempio. Gli Achuar dicono che non si diventa un buon cacciatore se non una volta arrivati all'età adulta, cioè dopo i trent'anni, un'affermazione questa confermata da un'analisi quantitativa: sono proprio gli uomini di più di quarant'anni che riportano la maggior parte di selvaggina 19• Questo avviene anche se qualsiasi adolescente possiede già una conoscenza naturalistica e una destrezza tecnica degna di ammirazione. È capace, per esempio, di identificare molte centinaia di uccelli, di imitare il loro canto e di descri vere le loro abitudini e il loro territorio; sa riconoscere una pista da minuscoli segnali, come per esempio una farfalla che vola ai piedi di un albero, attirata dall'urina ancora fresca di una scimmia passata da lì prima; egli può, come ne ho fatto esperienza ripetu tamente, conficcare un dardo della cerbottana in una papaia disposta a cento passi. Ora, avrà bisogno di aspettare ancora venti anni per essere sicuro di riportare della selvaggina
17
Vedere per esempio Gibson, K. R., e lngold, T., 1993; Lave, J., e Wenger, E., 1991. Varela, F., Rosch, E., e Thompson, E., 1993, p. 208. 19 Descola, Ph., 1986, pp. 301-306. 18
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ad ogni battuta di caccia. Cosa apprende esattamente in questo lasso di tempo che possa fare la differenza? Egli completa forse il suo sapere etologico e la sua conoscenza delle in terdipendenze ecosistemiche, ma l'essenziale di ciò che acquisisce consiste probabilmen te in un'attitudine sempre meglio padroneggiata a interconnettere una gran quantità di informazioni eterogenee che si strutturano in modo cale che permettono una risposta efficace e immediata ad ogni tipo di situazione incontrata. Tali automatismi incorporati sono indispensabili alla caccia dove la rapidità di reazione è la chiave del successo; sono anche trasportabili nella guerra che richiede ad un Achuar la stessa sicurezza nel decifrare le tracce e la stessa rapidità di giudizio. Sulla natura di questa competenza di cui solo l'effetto è misurabile, un non-cacciatore è ridotto a congetture, poiché quasi niente di tutto questo può essere espresso in modo adeguato dal linguaggio. Eppure, dopo il periodo in cui Kant scriveva dello schematismo dell'intelletto che è «un'arte celata nel profondo dell'anima umana il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai dalla natura» 20 qualche progresso è stato registrato nella comprensione delle condizioni materiali richieste per l'esercizio di una cognizione non proposiziona le. Le neuroscienze ci hanno da prima insegnato che il cervello non funziona in modo compartimentato così come lo pensava l'antica teoria delle facoltà21, e che ogni processo percettivo e cognitivo suppone l'attivazione in parallelo di reti neuronali distribuite nel sistema nervoso, reti la cui stabilizzazione e differenziazione avvengono poco a poco durante i primi anni di oncogenesi in correlazione stretta con gli stimoli ricevuti dall'am biente circoscance22• Dopo qualche anno, inoltre, i modelli connessionisti sviluppati nell'intelligenza artificiale hanno iniziato a dar prova della loro efficacia, soprattutto nel le loro applicazioni sperimentali nella robotica. Contrariamente ai modelli classici che disciplinano l'elaborazione dei linguaggi informatici standard, i modelli connessionisti non funzionano a partire da liste di istruzioni che permettono di realizzare con il cal colo predicativo una serie di operazioni specificate dai dati iniziali immagazzinati nella memoria; essi sono costituiti da un insieme di reti elettroniche le cui interconnessioni si stabiliscono selettivamente in funzione della natura e dell'intensità degli stimoli ricevuti. Ciò significa che possono riconoscere delle regolarità nel loro ambiente e rimodellare di conseguenza la loro organizzazione interna, non creando delle regole esplicite adattate alla regolarità riconosciuta, ma modificandone le soglie di connessione tra i processi in modo che la struttura del dispositivo di conoscenza rifletta la struttura presente nell' in puf!.3. Come tali, sono compatibili con l'effetto prototipico esistente nella formazione dei concetti classificatori (a differenza dei modelli sequenziali) e permettono anche delle ingerenze plausibili quanto alla ricostruzione di strutture o di forme date in modo in2° Kant, E., 1968 (1971), p. 153. Traduzione italiana Kant R., Critica della ragion pura, La Scuola , Brescia, 1985. 21 L'antica teoria delle facoltà: la frenologia et simili (n.d.t.). 22 Sul ruolo dell'epigenesi nella stabilizzazione delle reti neuronali, vedere Changeux, J.-P., 1983,; per una teoria evoluzionista della filogenesi vedere Edelman, G. M., 1987. 23 Per delle buone sintesi dei modelli connessionisti, vedere Bechtel, W, e Abrahamsen, A., 1991; Quinlan, P.T., 1991.
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4. Gli schemi della pratica
completo come input, sul modo di riconoscimento delle figure nella psicologia della Ge stalt24 . Infine, anche se i modelli connessionisti si avvicinano all'ideale della tabula rasa - una critica che viene loro indirizzata dai sostenitori della conoscenza modu lare per i quali una gran parte del sapere è innata -, non escludono per principio che sia dato all'inizio dell'ontogenesi un piccolo nucleo di meccanismi specializzati proveniente dall'evoluzione filogenetica25 • Insomma, i modelli connessionisti imita no il funzionamento delle reti neuronali, sono capaci di apprendimento, reagiscono rapidamente ad alcune situazioni complesse, sembrano obbedire a regole formali senza che alcuna obbligazione sia stata introdotta nel modello, danno anche l'illu sione di un grado minimo di intenzionalità, tutte proprietà che li rendono simili alla cognizione umana quando essa non è messa a confronto con la risoluzione di problemi proposizionali, e soprattutto in quelle situazioni così familiari ali' etnologo dove sembra che le persone regolino le loro azioni come se fossero dettate da impe rativi culturali che comunque non riescono a enunciare.
Schematismi La stimolazione euristica fornita dai modelli connessionisti così come la mol tiplicazione degli studi che si basano sulla formazione dei concetti classificatori e l'apprendimento del saper-fare hanno portato psicologi e antropologi a inte ressarsi in modo più sistematico al ruolo delle strutture astratte che organizzano le conoscenze e l'azione pratica senza mobilitare immagini mentali o un sapere esplicativo, strutture oggi raggruppate sotto il nome generico di "schemi" 26• Tuttavia mettendo insieme sotto questo termine una tale diversità di meccani smi di trattamento dell'informazione, di formazione dell'esperienza e di rappre sentazioni di compiti ripetuti, è necessario fare un piccolo chiarimento. Si dovrebbero prima di tutto distinguere gli schemi cognitivi ritenuti univer sali da quelli che provengono da una competenza culturale acquisita o dai casi della storia individuale. L'esistenza dei primi è ancora in discussione, sia perché il legame che essi presuppongono tra i dati biologici e la loro interpretazione concettuale o simbolica rimane spesso speculativa, sia perché sono stati desunti a partire da sperimentazioni svolte quasi esclusivamente nelle società industriali 24
Bechtel, W, e Abrahamsen, A., 1991, pp. 54-55. Strauss, C., Quinn, N., 1997, pp. 79-82. 26 Per la psicologia vedere Mandler, J.M., 1984; Schank, R., e Abelson, R., 1977; per l'antropologia Strauss, C., e Quinn, N., 1997; D'Andrade, R., 1995; Shore, B., 1996; Roy D'Andrade dà una buona de finizione generale dello schema: «dire che qualcosa è uno schema [schema in inglese) è un modo abbreviato per dire che una struttura distinta e fortemente interconnessa di elementi interpretativi può essere attivata da degli input minimi. Uno schema è un'interpretazione frequente, ben organizzata, memorabile, che può essere fatta a partire da segni minimi, che contiene uno o più casi di esemplarità prototipica, che resiste al cambiamento ecc. Anche se sarebbe più esatto parlare di interpretazioni che possiedono tale o talaltro grado di schematicità, la convenzione vuole che li si chiamino schemi di interpretazioni altamente schematici persiste di farro nella letteratura sulla cognizione (1995, p. 142, corsivo dell'autore)». 25
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Oltre natura e cultura occidentali. Questo è il caso, per esempio, di ciò che gli psicologi dello sviluppo hanno chiamato in modo approssimativo con le "teorie naives"27 e che sarebbe forse meglio chiamare degli "schemi attributivi". Si tratta di nuclei di aspettative che concernono il comportamento di oggetti del mondo, reperibili molto presto nel!'ontogenesi, e che guidano i bambini nelle inferenze che fanno riguardo alle proprie tà di questi oggetti. Questi tre schemi riguardano tre domini: le aspettative concernenti l'azione umana- l'imputazione di stati interni, soprattutto l'intenzionalità e gli affetti-, le aspettative concernenti il modo di essere degli oggetti fisici- la gravità, la permanenza delle forme o la continuità delle traiettorie -, infine, in un'età maggiore, le attese con cernenti la natura intrinseca degli organismi non umani - l'animazione, la crescita, la riproducibilità. Quasi tutti gli psicologi contemporanei concordano sul fatto che questi schemi attributivi sono universali, ma divergono quanto agli stadi e alle modalità della loro apparizione, e quindi quanto al loro grado di innatismo28 • Se l'esistenza di queste "teorie ingenue" dovesse essere verificata, avremmo qui un sapere intuitivo, non propo sizionale, che permette di interpretare il comportamento degli oggetti salienti al fine di agire su di essi, e con essi, in modo efficace. Senza sottovalutare il ruolo giocato da eventuali schemi universali nella formazione di giudizi ontologici, bisogna tuttavia convenire che sono soprattutto gli schemi acquisiti che detengono l'attenzione di coloro che si interessano alla diversità degli usi del mondo dal momento che è in parte per effetto di questi meccanismi che i comportamenti umani differiscono. Essi variano prima di tutto da individuo a individuo in ragione dell'influen za di schemi idiosincratici, come quelli che rendono possibile il compimento ripetuto di un'azione - un itinerario preso regolarmente, per esempio- o che strutturano questi molteplici protocolli che ognuno di noi si forgia nel tempo per ordinare delle sequenze di compiti quotidiani. Non è nemmeno vietato pensare che l'inconscio freudiano si ap-
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Teoria modulare nella psicologia dello sviluppo americana (n.d.t.).
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Così Susan Carey assume una posizione neo-epigenetica postulando che
le proprietà attribuite in
modo implicito agli organismi non umani sono poco a poco costruite da differenziazione con le proprietà attribuite alle persone, mentre Franck Keil suppone che immediatamente siano dati dei "modi di appren dimento" (modes of construal) dell'ambiente - meccanici, intenzionali, teleologici, funzionali ecc. - i quali sono all'origine della formazione delle "teorie ingenue" (Carey, S., 1985; Carey, S., e Spelke, E., 1994; Keil,
F.C., 1994 e 1989). Notiamo che l'eventuale esistenza di categorie oncologiche del tipo "persona", "artefat to" o "oggetto naturale", che esse siano innate o acquisite nei primi anni dello sviluppo, tuttavia non implica se la loro universalità debba confermarsi, una universalità della separazione oncologica tra cultura e natura o umani e non-umani. Le proprietà che queste categorie schematizzano sono infatti attività in situazioni, spesso di tipo sperimentale, e coesistono molto bene con delle credenze controintuitive concernenti il com portamento attribuito ad alcuni membri di queste categorie. Così, la possibile universalità di uno schema attributivo che permette di distinguere intuitivamente gli umani dagli animali non impedisce affatto i Dorzé dell'Etiopia, per prendere un esempio da Dan Sperber, di affermare in completa buona fede che il leopardo rispetta alla lettera i periodi di digiuno prescritti dal calendario copto, o che degli umani di trasformano la notte in iena-licantropo. (Sperber, D., 1974, pp. 141-142). La iena-licantropo (hyène-garou) è l'uomo che si trasforma in iena e torna uomo (n.d.t.).
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4. Gli schemi della pratica
pelli a questo genere di procedura ad un livello indubbiamente più profondo, in quanto, prodotto di una storia singolare, suscita, canalizza e organizza in modo non intenzionale strutture di affetto e di relazioni con l'altro la cui oggettivazione verbale sempre insod disfacente richiede, come sappiamo, un laborioso parto. Tuttavia, gli schemi collettivi interessano più da vicino gli etnologi poiché costituiscono uno dei principali mezzi per costruire dei significati culturali condivisi. Possiamo definirli come disposizioni psichi che, sensorio-motrici e emozionali, interiorizzate grazie ali'esperienza acquisita all'interno dell'ambito sociale dato, e che permettono l'esercizio di almeno tre tipi di competenza: prima di tutto, strutturare in modo selettivo il flusso della percezione dando una premi nenza significativa ad alcuni tratti e processi osservabili nell'ambiente; poi, organizzare tanto l'attività pratica quanto l'espressione del pensiero e delle emozioni secondo scenari relativamente standardizzati; infine, fornire un quadro per interpretazioni tipiche di com portamenti o avvenimenti, interpretazioni ammissibili e comunicabili all'interno della comunità dove le abitudini di vita che esse esprimono sono accettate come normali. Questi schemi collettivi possono essere sia non riflessivi, sia spiegabili, ovvero su scettibili di essere formulati in modo più o meno sintetico come modelli vernacolari da coloro che li mettono in pratica. Infatti, un modello culturale non è sempre riducibile a concatenazioni di regole proposizionali semplici di tipo «se x appartiene alla classe di parenti e y a quell'altra, allora possono (o non possono) sposarsi». Molti fra essi non si trasmettono come un insieme di precetti ma sono poco a poco interiorizzati senza essere particolarmente inculcati, cosa che non impedisce che siano oggettivabili con un certo grado di schematicità quando le circostanze lo esigono. È soprattutto il caso degli usi dello spazio, un dominio della vita collettiva che ogni società codifica tanto o poco senza che comunque questo codice si presenti all'esperienza individuale come un repertorio di norme da applicare coscientemente. Una buona illustrazione di questo genere di schema non proposizionale, è offerto, in moire regioni del mondo, dall'organizzazione della casa: il suo orientamento, la sua struttura, gli stadi della sua costruzione e soprattutto le modalità del suo uso formano un modello istituito del quale l'apprendimento si crea attraverso la familiarizzazione progressiva con delle procedure, non attraverso una serie di proposizioni trasmesse esplicitamente. Ma questo non significa che un osservatore non possa sempre ottenere informazioni precise sul modo con cui la casa è edificata e abitata, che attestano così che i suoi informatori sono capaci di formulare con chiarezza le grandi linee del modello schematico che guida la loro pratica 29• Al contrario, gli schemi non riflessivi non affiorano alla coscienza e dobbiamo quindi desumere la loro esistenza e il modo con il quale organizzano il sapere e l'esperienza a partire dai loro soli effetti. Il celebre saggio di Mauss sulle tecniche del corpo e gli studi portati da Bourdieu e i suoi discepoli sui differenti modi di habitus hanno adesso reso questo genere di schema così familiare che è inutile attardarsi dandone degli esempi30 •
29 Vedere la celebre analisi che P. Bourdieu dedica alla casa kabyle ( 1972) o, in tucc' altro contesto cultu rale, la mia analisi della casa achuar (Descola, Ph., 1986, cap. IV) . .io Bourdieu, P., 1979; Mauss, M., 1935.
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Oltre natura e cultura Notiamo comunque che gli schemi non riflessivi sono più o meno ribelli all'oggettivazio ne. Infatti, il loro grado di coesione e di presenza alla coscienza è contemporaneamente funzione sia di domini che essi stessi strutturano- soprattutto dalla possibilità di delegare a oggetti, a luoghi o a sequenze di azioni una parte degli automatismi che essi mettono in movimento - sia di motivazioni, dello stato emozionale e della capacità di introspezione e di analisi degli individui che li impiegano. La distinzione tra modello oggettivabile e schema non riflessivo deve quindi essere sfumata poiché essa dipende dal contesto. Così, la prospettiva artificiale è sia un modello culturale accademico sia una "forma simbolica" che governa la nostra percezione. Essa è oggetto di trattati, è insegnata nelle scuole, la sua storia è conosciuta. Quindi, non mobilitiamo molto questo tipo di sapere esplicito quando guardiamo un tavolo, poiché lo abbiamo interiorizzato come uno schema visuale in modo così profondo che le rappresentazioni che non vi si conformano ci sembrano in tuitivamente sia bizzarre o maldestre, sia identificabili con stili raffigurativi che ignorano le regole della prospettiva o che se ne sono voluti liberare. Gli schemi non riflessivi si ma nifestano inoltre in modi molto differenti. Alcuni sono altamente tematici e si adattano ad una grande varietà di situazioni, mentre altri non sono attivati se non in circostanze molto particolari. Chiameremo i primi schemi integratori e i secondi schemi specializzati. Sull'esistenza degli schemi specializzati- dei quali la composizione prospettica o i diffe renti tipi di habitus costituiscono degli esempi tra gli altri-, esiste un ampio consenso: for mano la trama della nostra esistenza quotidiana poiché organizzano la maggior parte delle nostre azioni, dalle tecniche del corpo o gli scenari di espressioni delle emozioni fino all'uso degli stereotipi culturali e la formazione dei giudizi classificatori. Gli schemi integratori sono dispositivi più complessi, ma la cui comprensione è cruciale per l'antropologia poiché tutto lascia pensare che è la loro funzione mediatrice che, in gran parte, contribuisce a dare a ciascuno di noi il sentimento di avere in comune con altri individui una stessa cultura e una stessa cosmologia. Possiamo definirli come strutture cognitive generatrici di inferenze, dotate di un alto grado di astrazione, distribuite con regolarità all'interno di collettività dalla dimensione variabile, e che assicurano la compatibilità tra famiglie di schemi specia lizzati consentendo di generarne di nuovi per induzione. Tali schemi non sono interioriz zati mediante un inculcare sistematico, non esistono nel cielo delle idee pronte ad essere captate dalla coscienza; si costruiscono poco a poco, e con caratteristiche identiche, per il fatto che insiemi di individui attraversano esperienze comparabili, un processo facilitato dalla condivisione di una lingua comune e dalla relativa uniformità dei metodi di socializ zazione dei bambini all'interno di un gruppo sociale dato31 • Infatti il fascino che molti et31 Nelle loro proprietà essenziali, gli schemi integratori presentano molce somiglianze con ciò che Bradd Shore chiama dei "foundational schemas" (1996, pp. 53-54). Tuttavia essi non se ne distinguono che su due punti, menzionati qui velocemente e che saranno spiegaci più avanti. In primo luogo i faundationaf schemas caratterizzano sopraccucco dei modi di organizzazione dello spazio, o di ripartizione nello spazio, almeno se lo si giudica con gli eseìnpi dati da Chore - la distribuzione modulare propria delle istituzioni nord-americane, il contrasto tra il centro e la periferia a Samoa o gli itinerari del Dreamtime per gli Aborigeni australiani-, a diffe renza degli schemi integratori che strutturano piuttosto dei sistemi di relazione. Peraltro, Shore sembra prenda per acquisito che ogni cui cura è definita da dei faundational schemas specifici, mentre gli schemi integratori sembra che risulcino cucci da uno stesso repertorio generale all'interno del quale variano solo le combinazioni.
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4. Gli schemi della pratica nologi provano per lo studio di popolazioni lontane e relativamente isolate non testimonia affatto una nostalgia dell'autenticità o l'ossessione per una impossibile purezza culturale, ma più semplicemente testimonia che gli schemi che integrano le pratiche collettive, o almeno i loro effetti superficiali, si lasciano meglio comprendere là dove, essendo i contatti con l'esteriorità meno intensi e gli effetti più scarsi, il registro delle interpretazioni aperte a ognuno si vede limitato dall'omogeneità dell'apprendimento e delle condizioni di vita. Come individuare, altrimenti se non con delle intuizioni vaghe, questi schemi inte gratori che imprimono il loro segno sui comportamenti e le pratiche di una collettività in modo tale che questa si offra ali'osservatore come immediatamente distintiva? Senza anticipare troppo i prossimi capitoli che approfondiranno questa questione, è possibile fin d'ora suggerire una risposta: devono essere presi come dominanti gli schemi che sono attivati nel maggior numero di situazioni, sia nel trattamento degli umani che in quello dei non-umani, e che subordinano gli altri schemi alla loro logica spogliandoli di gran parte del loro obiettivo primario. Forse è tale meccanismo che André-Georges Haudricourt aveva in mente quando distingueva queste due forme di "trattamento del la natura e dell'altro" che sono l'azione indiretta negativa e l'azione diretta positiva32• Rappresentata dalla coltura dell'igname in Melanesia o dalla risicoltura irrigata in Asia, l'azione indiretta negativa è volta a favorire le condizioni di crescita dell'essere addome sticato modificandone al meglio il suo ambiente e non esercitando su di lui un controllo diretto: ogni pianta diventa oggetto di un'attenzione individualizzata affinché sviluppi al meglio le sue possibilità. Callevamento della pecora nell'area mediterranea implica al contrario un'azione diretta positiva poiché esige un contatto permanente con l'animale, che dipende per la sua alimentazione e la sua protezione dall'intervento dell'uomo: il pastore accompagna dovunque il suo gregge che conduce con il bastone e i cani, è lui che sceglie i pascoli e prevede i punti d'acqua, è ancora lui che porta gli agnellini e difende le pecore dai predatori. Questa differenza di comportamento non è dovuta solamente ad un'opposizione tra le piante addomesticate e gli animali domestici. Infatti il trattamento dei cereali in Europa richiede lo stesso tipo di azione diretta positiva che l'allevamento delle pecore; consiste in una serie di operazioni coercitive che si applicano collettiva mente alle piante, in contrasto con !"'amicizia rispettosa" di cui ogni igname è oggetto: agli inizi dell'agricoltura, almeno, i semi diffusi a spaglio erano interrati dal calpestio del gregge, il quale serviva anche a trebbiare i semi dopo una raccolta grossolana per estirpazione o taglio. Al contrario, non tutte le forme di allevamento sono caratterizzate da un'azione diretta positiva: nelle campagne indocinesi, i bufali indiani in genere sono guardati dai bambini incapaci di proteggerli dagli attacchi della tigre; così è il gregge che fa cerchio intorno al suo piccolo "guardiano" per impedire alla tigre di catturarlo. Secondo Haudricourt, l'opposizione tra l'azione indiretta negativa e l'azione diret ta positiva è ugualmente percepibile nei comportamenti verso gli umani. Nel Vicino Oriente e in Europa vige una mentalità predominante ben dimostrata da questa vecchia costante della filosofia politica che fa del buon pastore l'ideale sovrano: nella Bibbia o 32 Haudricourc, A.-G., 1962.
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Oltre natura e cultura in Aristotele, il capo comanda i suoi soggetti incesi come un corpo collettivo, li guida e interviene direttamente nel loro destino, proprio come il Dio unico con il popolo dei fedeli. In Oceania e in Estremo Oriente, invece, è un'attitudine non interventista che prevale nel trattamento degli umani. Notevole nei precetti del buon governo veicolati dai classici cinesi confuciani (dove le metafore vegetali sono frequentemente usate per rappresentare gli uomini), questa disposizione alla conciliazione e alla ricerca del consen so è presente anche nel modus operandi delle chiefdom melanesiane: il capo non ordina, ma si sforza di tradurre nelle sue azioni la volontà generale della comunità che egli ha appreso parlando con ognuno dei suoi membri. Probabilmente l'opposizione non è in tutto e per tutto convincente, in particolare per quanto riguarda il trattamento degli umani, tanto sono ampie le aree che questa abbrac cia e numerosi i controesempi che vengono in mente, soprattutto per l'Asia e l'Oceania. Ma non è questo il problema. Infatti se questo articolo di una brevità lapidaria sveglia in seguito alla sua pubblicazione un tale interesse, è perché ha attirato l'attenzione sull'even tualità che schemi identici molto generali possano attivare il comportamento degli umani nelle loro relazioni con entità a lungo concepite nell'ambito di sfere oncologiche comple tamente differenti. È così possibile esaminare, su degli organismi, l'azione strutturata da principi simili interni a grandi aree unificate da pratiche tecniche e sociali, senza dover porre la domanda precedente a proposito di una discriminazione di quegli organismi a seconda che essi siano umani o meno. Haudricourt fa molta attenzione, infatti, a parlare di «corrispondenza tra il trattamento della natura e il trattamento dell'altro», fatto che non pregiudica per niente l'origine dalla quale questi schemi di azione si alimentano. Non si tratta quindi qui né di una proiezione dei rapporti tra umani sui rapporti con i non-umani, né di un'estensione agli umani dei comportamenti verso i non-umani, ma anzi di una omologia dei principi direttivi che si applicano alle relazioni con due gruppi di esistenti difficili da dissociare dal punto di vista dei comportamenti che essi suscitano.
Differenziazione, stabilizzazione, analogie Mettere in evidenza gli schemi della pratica propri ad un aggregato di umani non è quindi cosa facile. Non disponiamo per far questo di quei corpus costituiti che l'antro pologia strutturale aveva usato nelle sue analisi, come le nomenclature di parentela, re gole di alleanze e di residenza, miti o classificazioni totemiche formulate in dichiarazioni consensuali, e la cui raccolta quasi standardizzata dagli osservatori forniva un campione utile per la comparazione. Il modo in cui un gruppo umano schematizza la sua esperien za non si presta a descrizioni così semplici; esso è sicuramente rilevabile nelle etnografie, ma bisogna poterlo rilevare a partire da indici eterogenei e identificare i suoi principi operativi senza lasciarsi accecare da codificazioni apparenti. Distinguiamo questa schematizzazione negli usi più che nei precetti che li giustifi cano, nei comportamenti verso i parenti, per esempio, come le regole di parentela, nei dispositivi rituali e nei casi di situazioni interazionali che mettono in atto, come nella letteratura dei miti o delle formule rituali, nelle tecniche del corpo, nelle forme di ap-
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4. Gli schemi della pratica
prendimento o di uso dello spazio, come nelle teorie dell'ontogenesi, nei tabù o nella geografia dei siti sacri. Consolidaci durante gli anni di formazione, gli schemi della pratica permettono di adattarsi a situazioni inedite che saranno percepite come casi particolari di situazioni già conosciute. Come tutte le abitudini precocemente acquisite, gli schemi sono quindi più rinforzati dall'esperienza che riformati da questa. Una cale persistenza nell'individuo potrebbe spiegarsi in parte con il ruolo che giocano gli affetti nel processo di schema tizzazione: lo studio di meccanismi neurochimici della memoria sembra indicare che un'emozione intensa suscitata da un avvenimento contribuisca a rinforzare le connes sioni neuronali che il suo apprendimento attiva, stabilizzando così le associazioni di concetti e di percetti che esso induce33 • Si comprende quindi che l'integrazione dell'espe rienza in schemi duraturi avviene soprattutto in occasione di circostanze che focalizzano l'attenzione, poiché queste risalcano sulla routine quotidiana lasciando il loro segno sui sentimenti e anche sui corpi. Gli antropologi non se ne sarebbero sorpresi sapendo con quale efficacia i riti, soprattutto di iniziazione, permettono di trasmettere e di riprodurre norme di comportamento e modelli di relazione che giocano sull'inaspettato, il parados sale e la mobilitazione delle passioni. I riti costituiscono quindi indici preziosi del modo in cui una collettività concepisce e organizza la sua relazione con il mondo e con l'alcro, non solamente perché rivelano sotto una forma condensata gli schemi di interazione e principi di strutturazione della praxis più diffusi nella vita comune, ma anche perché essi forniscono l'inizio di una ga ranzia del fatto che le interpretazioni che l'analista disegna incontrano anche l'esperienza vissuta da coloro che vi trovano un quadro favorevole all'interiorizzazione dei modelli di azione. Del resto, come la psicanalisi e il romanzo ci hanno insegnato, il ruolo degli affetti nella stabilizzazione degli schemi non è manifesto solamente nei contesti rituali: ogni avvenimento, importante per le emozioni che suscita, contribuisce con forza ali'ap prendimento e al rafforzamento dei modelli di relazione e di interazione. Una questione di importanza minore, che spesso fu posta allo strutturalismo. Come assicurarsi che "l'azione diretta positiva" o "l'azione indiretta negativa" - ma anche la reciprocità, la gerarchia, o ogni altro schema che si ritiene integri le pratiche - sia più e alcre cose che una categoria ad hoc costruita dall'osservatore per le necessità della descri zione e dell'analisi? Infatti può darsi che modi di comportamento o di interazione che rappresentano un'aria di famiglia, a livello di un individuo o di una collettività, siano prodotti per imitazione gli uni degli altri in una catena di analogie, come voleva Gabriel Tarde, piuttosto che derivaci da uno schema preesistente di cui la realcà oncologica è difficile da stabilire. Benché la questione in fondo sia forse indecidibile, la convinzione resistente che fa preferire la seconda scelta dell'alternativa non è proprio sprovvista di fondamenti sperimentali. Alcuni lavori di psicologia cognitiva poggianti sul ragiona mento analogistico mostrano infatti che il riconoscimento di similitudini tra oggetti o avvenimenti singoli diventa molto più facile quando esso procede per induzione a parti33
Vedere per esempio Squire, L.R., 1987, pp. 39-55.
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Oltre natura e cultura re da uno schema già presente - o meglio costruito al momento grazie ali'eliminazione delle differenze - anziché quando esso si sviluppa da una serie di comparazioni analitiche fatte parola per parola. Linduzione schematica è rapida ed economica poiché funziona come un indicatore dei casi particolari che costituiscono tanti esempi diversi di un pro totipo, in contrapposizione con la ricerca di analogie frammentarie che sollecita di più l'attenzione e la memoria34 • Tra il ragionamento analogistico in situazione sperimentale e l'induzione a partire da schemi condivisi, c'è certamente una grande distanza che se para la cognizione individuale dalle "rappresentazioni collettive". Ma come negare che le seconde non possano esistere, essere trasmesse e usate nella pratica se non nascendo e disseminandosi nei corpi, nelle esperienze e nei cervelli ancora individualizzati? Senza mettere in dubbio che una collettività è più della somma delle sue componenti, bisogna proprio vedere in queste sue componenti, con le loro facoltà sensibili e le loro proprietà mentali, la sostanza dinamica della sua creatività e della sua permanenza. Una buona parte del lavoro della creazione delle norme e dei significati comuni ai membri di una collettività del resto passa attraverso procedure di derivazione analogica dal particolare al generale e dal generale al particolare. Se si è disposti ad ammettere che esista una differenza tra i modelli pubblicamente stabiliti di comportamento e di interazione, gli schemi impliciti che orientano le pratiche che questi modelli codificano, e l'incognita infinita delle idiosincrasie e dei singoli avvenimenti, allora la coerenza minima che ognuno percepisce nel suo modo di agire e in quelli delle persone che conosce proviene dalla nostra capacità di trasporre liberamente da uno di questi domini ali'altro le regole, le tendenze e le situazioni. Il movimento è possibile nei due sensi a seconda che la nostra esperienza del mondo si organizzi in accordo con paradigmi esistenti o a seconda che questi siano influenzati da avvenimenti imprevisti che esigono la loro riformulazione35 • Nel primo tipo di induzione, per esempio, si può trasporre un avvenimento concreto nel modello di rife rimento che ne permette l'interpretazione: è il classico caso di un giudizio di conformità in rapporto ad una norma ammessa; possiamo ancora trasporre uno schema in un modello esplicito, o rendere il primo manifesto attraverso il secondo, operazione che definisce per fettamente il lavoro che costituisce l'umanità e che gli antropologi si sono tradizionalmente dati come missione di descrivere e di delucidare; possiamo infine trasporre direttamente uno schema in una situazione inedita al fine di renderla significante o tollerabile; caso più raro poiché questa funzione di assimilazione della novità è in generale delegata ai modelli intermediari: vi si ricorre quando si hanno dei grandi sconvolgimenti collettivi, traumi della conquista coloniale o dell'emigrazione lontana, quando i parametri di riferimento ordinari diventano impotenti nel trattare circostanze e esperienze fin troppo eccezionali e schemi più profondi devono essere mobilitati per farvi fronte. 34 Gick, M.L., e Holyoak, K.J ., 1983. Per una discussione di questo lavoro e dei contributi della psico logia cognitiva alla teoria dello schematismo vedere Shore, B., 1996, pp. 353-356. 35 È ciò che ha osservaro B. Shore che impiega dei concerei presi in prestito a Piaget per designare queste due fasi: "l'assimilazione" è l'organizzazione di una nuova esperienza in relazione ad uno schema preesisten te, mentre "l'accomodamento" è la trasformazione o la creazione di uno schema in seguito ad una nuova esperienza (ibid, pp. 367-368).
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4. Gli schemi della pratica Il secondo tipo di induzione, cioè la produzione di uno schema destinato ad adattare circostanze inabituali, è quello che contribuisce innanzi tutto al movimento ordinato della storia. Si produce sia quando un modello istituito è elaborato o alterato al fine di prendere in considerazione un avvenimento senza precedenti, caso più banale di cui l'attività legislativa fornisce un buon esempio, sia quando una situazione inusuale dà vita a una schematizzazione originale attraverso la quale modelli specializzati, ovvero "parti di cultura", sono integrate e ricombinate in una configurazione inedita, un bricolage ben conosciuto dagli antropologi sotto il nome di "sincretismo" o di "acculturazione" e di cui si alimentano, per esempio, i movimenti profetici o millenaristi. È molto rara invece la produzione di schemi nuovi per trasposizione diretta di esperienze singolari dato che queste sono in generale filtrate da modelli la cui inadeguatezza eventuale ad una circostanza fuori dal comune risulterà nella loro ristrutturazione secondo la procedura che abbiamo appena richiamato piuttosto che nella sussunzione immediata dell'avveni mento sotto uno schema. Se si accetta quanto detto, la natura del rapporto tra il modello vernacolare e il modello strutturale diviene meno enigmatica. Possiamo pensare infatti che questa ana lisi strutturale riveli, quando è ben sviluppata, una via di accesso per comprendere la schematizzazione dell'esperienza operata dai membri di una collettività e il modo con il quale si costruisce una armatura di sistemi di codificazione espliciti ai quali i suoi membri aderiscono. La garanzia che il dispositivo formale costruito dal teorico riveli alcune caratteristiche sottogiacenti del sistema sociale che cerca di capire, verrebbe così dal fatto che queste non esprimono tanto proprietà universali dello spirito umano, se non ad un livello molto astratto, quanto le strutture e le procedure di oggettivazione tacite attraverso le quali gli attori del sistema organizzano essi stessi le loro relazioni con il mondo e con gli altri. Tra il modello o l'azione e la struttura, lo schema è un interfaccia a volte concreto, poiché incorporato negli individui e messo in opera nelle prat.iche; par ticolareggiato, poiché riflette quella o quell'altra proprietà oggettiva delle relazioni con gli esistenti; e dotato di un forte coefficiente di astrazione, poiché lo si deduce dai suoi soli effetti senza che sia però l'emanazione di misteriose entelechie di tipo incosciente collettivo o funzione simbolica. La schematizzazione dell'esperienza non è quindi pertanto consegnata ali'arbitrio delle invenzioni fortuite e delle circostanze aleatorie. Queste vi giocano probabilmente un ruolo nell'emergere degli schemi specializzati di tipo habitus, la cui grande varietà è imputabile alla diversità dei contesti storici nei quali essi operano. Ma, in aggiunta a queste molteplici competenze particolareggiate immanenti alle pratiche, gli umani han no anche fatto ricorso a schemi integrativi più generali, e in numero ben più limitato, al fine di strutturare le relazioni che intrattengono con il mondo. La loro incidenza si fa sentire in una serie molto più ristretta di opzioni atte a distribuire le somiglianze e le differenze tra gli esistenti, e a stabilire tra gli insiemi definiti da queste ripartizioni, e allo stesso loro interno, i rapporti distintivi di un'importante stabilità. Il seguito di questo libro sarà dedicato a spiegare questa proposta, fondata sull'ipotesi che tutti gli schemi di cui l'umanità dispone per specificare i suoi rapporti a lei stessa e al mondo esistano
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sotto forma di predisposizioni, in parte innate, in parte provenienti da proprietà stesse della vita comune, ovvero dei differenti modi pratici di assicurare integrazione del sé e dell'altro in un ambiente dato. Ma queste strutture non sono tutte compatibili tra loro e ogni sistema culturale, ogni tipo di organizzazione sociale è il prodotto di una selezione e di una combinazione che, per essere interrelate, si sono spesso ripetute nella storia con risultati simili. Non c'è scelta per un'antropologia coerente che quella di comprendere la logica del lavoro di composizione, l'ascolto dei motivi e delle armonie che si distaccano dal grande mormorio del mondo, l'attenzione risvegliata verso gli ordini emergenti la cui regolarità traspare sotto la proliferazione degli usi.
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5 RAPPORTO A SÉ, RAPPORTO ALeALTRO
Modi di identificazione e modi di relazione Lipotesi che serve da filo conduttore alle analisi che seguono è che gli schemi integra tori delle pratiche, delle quali abbiamo esaminato i meccanismi generali nel capitolo precedente, possono essere ricondotti a due modalità fondamentali di strutturazione del!'esperienza individuale e collettiva, che chiamerò l'identificazione e la relazione. I..:identificazione va aldilà del senso freudiano di un legame emozionale con un oggetto o di un giudizio classificatorio che permette di riconoscerne il carattere distintivo. Si tratta dello schema più generale attraverso il quale stabilisco differenze e somiglianze tra me e gli esistenti desumendo analogie e contrasti tra l'aspetto, il comportamento e le proprie tà che mi attribuisco e che attribuisco loro. Marcel Mauss lo aveva formulato in un altro modo, scrivendo che «l'uomo si identifica alle cose e identifica le cose a sé avendo nello stesso tempo il senso delle differenze e delle rassomiglianze che egli stesso stabilisce»'. Questo meccanismo di identificazione tra il sé e il non-sé mi sembra antecedente ed esterno sul piano logico rispetto ali' esistenza di una relazione determinata con un altro qualsiasi, ovvero specificabile nel suo contenuto attraverso modalità di interazione, dove l'altro in questione qui non è uno dei termini della coppia, ma un oggetto che esiste per me in un'alterità generale e in attesa di una identificazione: un aliud, quindi, e non un alter. La distinzione è certamente analitica e non fenomenica dato che l'identificazione impone subito un correlato razionale ali'oggetto al quale forniamo un'identità: essendo classificato in tale o tal'altra categoria ontologica, mi offrirà l'occasione di intrattenere con lui quella o quel!'altra relazione. È importante tuttavia conservare questa distinzione 1
Mauss, M., 1974, p. 140. Vedere anche Durkheim: «se il primitivo confonde le cose che noi distin guiamo, inversamente, ne distingue altre che noi avviciniamo», 1960 (1912), p. 341.
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nella misura in cui ognuna delle formule ontologiche, cosmologiche e sociologiche che l'identificazione rende possibile, è essa stessa sia capace di offrire un supporto a molte tipologie di relazioni, le quali non sono quindi automaticamente derivate dalla sola posizione che occupa l'oggetto identificato o dalle proprietà che gli si conferiscono. Considerare un animale come una persona piuttosto che come una cosa, per esempio, non autorizza affatto a pregiudicare il rapporto che sarà stretto con lui e che può deri vare tanto dalla predazione quanto dalla competizione o dalla protezione. La relazione aggiunge così una determinazione aggiuntiva ai termini primari che l'identificazione ri taglia, ragione per la quale, e in contrasto con la posizione strutturalista o interazionista, sembra necessario considerare separatamente questi due modi di integrazione dell'altro che riscoprono del resto la distinzione originale operata dalla logica tra i giudizi di ine renza e i giudizi di relazione. Di fatto, la volontà di trattare su un piano di parità l'iden tificazione, che riguarda soprattutto i termini, e la relazione, che riguarda soprattutto i legami stabiliti tra essi, è un modo per correggere gli eccessi degli approcci antropologici anteriori che, dando preminenza ad una dimensione a scapito dell'altra - le relazioni de rivano dai termini o i termini derivano dalle relazioni -, incontravano qualche difficoltà nel destreggiarsi fra lo studio delle distribuzioni ontologiche e quello dei rapporti sociali. La relazione non è quindi intesa qui in un senso logico o matematico, ovvero come una operazione intellettuale che permette il collegamento interno tra due contenuti del pensiero, ma come rapporti esterni tra gli esseri e le cose identificabili in compor tamenti tipici e in grado di ricevere una traduzione parziale in norme sociali concrete. Che questi rapporti di natura antropologica sotto certi aspetti corrispondano a relazioni puramente formali, come la coesistenza, la successione, l'identità, la corrispondenza o la riproduzione, questo non deve affatto sorprendere, dato che il numero di relazioni identificate dalla filosofia della conoscenza dopo Aristotele è singolarmente limitato e dato che è quindi molto probabile che l'insieme di modi istituiti di intrecciare i legami tra gli esistenti possa essere ridotto in ultima istanza ad un corpus di relazioni logiche. Tuttavia, nella misura in cui l'ambizione ostentata da questo libro è comprendere me glio i modi di comportamento collettivi, le relazioni che ci riguardano sono quelle che è possibile liberare dalle pratiche osservabili, non quelle che potrebbero essere dedotte da regole formali che governano le proposizioni logiche. Sottolineare che le relazioni in questione concernono dei rapporti in qualche modo esterni tra gli elementi, permet te inoltre di prevenire un eventuale malinteso rispetto alle posizioni rispettivamente dell'identificazione e della relazione. Sebbene l'identificazione definisca dei termini e i loro predicati, naturalmente è anche una relazione poiché è fondata su giudizi di ine renza e di attribuzione; ma è una relazione che diviene intrinseca ali'oggetto identificato una volta che abbiamo ignorato il processo che lo ha istituito come cale. Al contrario, le relazioni di cui ci occuperemo sono di tipo estrinseco in quanto si riferiscono alle connessioni che questo oggetto intrattiene con qualcosa di diverso da esso, le quali sono certamente contenute in potenza nella sua identità, ma senza che si possa mai sapere quale in particolare sarà effettivamente attualizzata. Del resto è questo il motivo che mi ha portato ad attribuire una precedenza logica ai modi di identificazione sui modi di
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5. Rapporto a sé, rapporto all'altro relazione dato che i primi, precisando le proprietà ontologiche dei termini, orientano in parte la natura delle relazioni capaci di unirle, ma non determinano comunque il tipo di relazione che diventerà dominante. Esamineremo quindi prima di tutto le modalità ontologiche di identificazione (III parte) e le loro espressioni nella vita sociale (IV parte), prima di passare ai modi di relazione e ai rapporti che essi intrattengono con i modi di identificazione (ultima parte). Anche a livello di generalità come le propongo qui, l'identificazione e la relazione sono lontane dall'esaurire tutte le forme possibili di strutturazione dell'esperienza del mondo e dell'altro. Per essere più completi, bisognerebbe probabilmente aggiungere almeno altri cinque modi che giocano un ruolo nella schematizzazione delle pratiche: la temporalità, ovvero l'oggettivazione di alcune proprietà della durata secondo differenti sistemi di calcolo, di analogie spaziali, di cicli, di sequenze cumulative o procedure di memorizzazione e di dimenticanza volontaria; la spazializzazione, ossia i meccanismi di organizzazione e di suddivisione dello spazio, basati sugli usi, sui sistemi di coordinate e di orientamento, sul valore accordato a quello o quell'altro segno dei luoghi, sulle forme di percorrenza e di occupazione dei territori e sulle mappe mentali che li organizzano o sugli appigli offerti dall'ambiente che servano alla vista e agli altri sensi per la percezione del paesaggio; i diversi regimi della raffigurazione, intesa come l'atto grazie al quale esseri e cose sono rappresentati in due o tre dimensioni grazie ad un supporto materiale; la mediazione, cioè il tipo di relazione la cui messa in essere esige l'interposizione di un dispositivo convenzionale che funziona come un sostituto, una forma, un segno o un simbolo, come è il sacrificio, la moneta o la scrittura; infine la categorizzazione, nel senso dei principi che regolano le classificazioni esplicite delle entità e delle proprietà del mon do in ogni sorta di tassonomie. Non affronterò questi modi nella presente opera, sia per mantenerla in una dimen sione ragionevole, sia perché le analisi che seguono dimostrano che le differenti forme combinate di identificazione e di relazione bastano a rendere conto dei principi di base della maggior parte delle ontologie e delle cosmologie conosciute. Preghiamo quindi il lettore di accettare l'ipotesi provvisoria - poco più che una convinzione in questa fase - che la temporalità, la spazializzazione, la raffigurazione, la mediazione e la categorizza zione dipendono nella loro espressione e nella loro presenza da diverse figure dell'iden tificazione e della relazione, essendo ognuna di queste realizzazioni concrete che questi modi secondari sono in grado di generare - la temporalità ciclica, la temporalità cumu lativa o la temporalità egocentrica, per esempio - probabilmente derivabile dall'uno o dall'altro degli insiemi autorizzati dal gioco dei due modi fondamentali. Ognuna delle configurazioni che risultano dalla combinazione tra un tipo di iden tificazione e un tipo di relazione rivela la struttura generale di uno schema particolare di integrazione delle pratiche, cioè di una delle forme che può assumere questo dispo sitivo generatore di inferenze di cui il funzionamento è stato richiamato nel capitolo precedente e che permette ai membri di una collettività di rendere compatibili tra di esse classi di schemi specializzati, fornendo la possibilità di generarne di nuovi che pos siedono con i primi un'aria di famiglia. I.:identificazione e la relazione possono quindi
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essere viste come il deposito degli strumenti della vita sociale da cui si accingono le parei elementari grazie alle quali gruppi umani di dimensione e natura variabili sperimentano giorno per giorno la schematizzazione della loro esperienza, senza essere tuttavia sempre pienamente coscienti né dell'impresa nella quale sono impegnaci né del tipo di ogget to che essa produce. Questi schemi possono tuttavia essere in parte oggettivaci, e ciò avviene in due modi: attraverso modelli vernacolari, necessariamente imperfetti, dato che l'azione sociale efficace si poggia sulla cancellazione dei meccanismi cognitivi che la strutturano; attraverso modelli accademici, come quelli che saranno proposti qui, la cui imperfezione altrettanto ovvia ha a che fare piuttosto con il fatto che sono incapaci di ri portare la ricchezza infinita delle varianti locali. Ma è questo il rischio di ogni ambizione generalizzatrice, che è vincolata a sacrificare la gustosa imprevedibilità e le proliferazioni inventive del quotidiano a vantaggio di una intelligibilità più alta del!'elasticità del com portamento umano.
Valtro è un "io" Già in uso ben prima della categorizzazione degli esseri e delle cose rivelata dalle tas sonomie, l'identificazione è la capacità di apprendere e di ripartire alcune delle continu ità e delle discontinuità che sono offerte alla nostra attività dall'osservazione e dall'espe rienza del nostro ambiente. Questo meccanismo elementare di discriminazione ontolo gica non rinvia a giudizi empirici quanto alla natura degli oggetti che si presentano in ogni momento alla nostra percezione. Bisogna piuttosto vedere in esso ciò che Husserl chiamava un'esperienza antepredicativa che modula la coscienza generale che posso ave re dell'esistenza di un altro, coscienza che è formata a partire dalle sole risorse che mi appartengono, dal momento che faccio astrazione del mondo e di tutto ciò che significa per me, cioè il mio corpo e la mia intenzionalità. È quindi un'esperienza del pensiero, se vogliamo, e condotta da un soggetto astratto di cui è indifferente sapere se sia mai esistito, ma che produce degli effetti del tutto concreti, poiché permette di comprendere come sia possibile specificare degli oggetti indeterminati imputando loro o negando loro una "interiorità'' e una "fisicità" analoghe a quelle che noi stessi ci attribuiamo. Vedremo che questa distinzione tra il piano dell'interiorità e il piano della fisicità non è la semplice proiezione etnocentrica dell'opposizione occidentale tra lo spirito e il corpo e che tale distinzione poggia sulla costatazione che tutte le civiltà sulle quali l'etnografia e la storia ci danno informazioni l'hanno oggettivata a modo loro. Una definizione sommaria dei campi dei fenomeni, che i due piani ritagliano, basterà a questa fase della nostra ricerca. Con il termine vago di "interiorità", bisogna intendere una gamma di proprietà ri conosciute da tutti gli umani e che in parte ricoprono ciò che di solito chiamiamo lo spirito, l'anima o la coscienza - intenzionalità, soggettività, riflessività, affetti, attitu dine a dare significati o a sognare. Possiamo anche includervi i principi immateriali che si suppone causino l'animazione, quali il respiro o l'energia vitale, e anche nozioni ancora più astratte come l'idea che si condivida con altri una stessa essenza, uno stesso principio di azione o una stessa origine, talvolta oggettivati in un nome o in un epiteto
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5. Rapporto a sé, rapporto all'altro
che ci sono comuni. Si tratta, insomma, di quella credenza universale che esistano delle caratteristiche interne all'essere o che prendono da lì la sua origine, scoperte in normali circostanze attraverso i soli effetti, e che sono ritenute responsabili della sua identità, della sua perpetuazione e di alcuni suoi comportamenti tipici. Al contrario, la fisicità riguarda la forma esteriore, la sostanza, i processi fisiologici, percettivi e sensorio-motori, come il temperamento o il modo di agire nel mondo in quanto manifesterebbero l'in fluenza esercitata sui modi di agire o gli habitus attraverso gli umori corporali, dei regimi alimentari, dei tratti anatomici o un modo di riproduzione particolare. La fisicità non è quindi la semplice materialità dei corpi organici o abiotici, è l'insieme delle espressioni visibili e tangibili che prendono le disposizioni proprie di un'entità qualsiasi, quando queste sono ritenute derivare dalle caratteristiche morfologiche e fisiologiche intrinseche a questa entità. Avanzare l'ipotesi che l'identificazione sia fondata sull'attribuzione agli esistenti di proprietà ontologiche concepite per analogia con quelle che gli umani riconoscono a se stessi, implica che un tale meccanismo possa trovare in ognuno di noi la sua origine esperienziale, l'assicurazione della sua evidenza e la garanzia della sua continuità. In altre parole, questo suppone di ammettere che ogni umano si percepisce come un'unità mista di interiorità e di fisicità, stato necessario per riconoscere o negare all'altro caratteristiche distintive derivate dalle proprie. Ora, l'idea che gli individui si comprendano sempre e ovunque come delle singolarità autonome è stata sottoposta a dure critiche e ancora di più lo è stata l'universalità di una percezione di questa singolarità sotto forma di una combinazione di intenzionalità e di esperienza fisica. Sappiamo che è comune rimettere in discussione la generalità dell'unità vissuta dalla coscienza di sé portando come esem pio i numerosi casi in cui delle popolazioni non considerano che il corpo possa costituire un limite assoluto della persona, essendo quest'ultima frammentata in molteplici unità costitutive di cui una parte è distribuita in, o determinata da, elementi umani o non umani del suo contesto2 • Per comuni che siano, tali concezioni tuttavia non permettono di invalidare la distinzione fondamentale che Mauss aveva già proposto tra il sentimento universale di sé, ovvero il senso che ogni essere umano ha «della sua individualità spiri tuale e insieme corporale», e le teorie molto diverse che si sono elaborate qua e là sulla persona, con delle componenti e un'estensione nello spazio in effetti molto variabili3 • Come aveva intravisto Mauss, e come Émilie Benveniste, in seguito a Peirce, ha affermato, l'universalità della percezione di sé come un'entità discreta e autonoma si verifica in primo luogo a partire da indici linguistici, cioè dalla presenza in tutte le lin gue di forme o di affissi pronominali del tipo "io" e "tu", i quali non possono rinviare a nient'altro che alla persona che enuncia un discorso che contiene l'istanza linguistica 2
Vedere per esempio gli studi di due opere recenti: Lambek, M. e Strathern, A., 1998; Godelier, M., e Panoff, M., 1998; noteremo quindi che gli editori di quest'ultima opera riconoscono senza mezzi termini nella loro introduzione che «la questione è di sapere perché l'umanità [ ... ] sembra che sia stata portata a rappresentare l'essere umano come composta da due parti, una parte deperibile e una parte che continua ad esistere e ad agire ben oltre la morte» (p. XIV). 1 Mauss, M., 1950, p. 355.
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Oltre natura e cultura
"io" e, simmetricamente, all'interlocutore al quale l'enunciato "tu" è rivolto4 • Questo me semiotico non implica che il parlante si concepisca come un soggetto indipendente contenuto completamente nei confini del suo corpo, come l'immagine tradizionalmente proposta dall'individualismo occidentale. Infatti non c'è dubbio che molte società fac ciano dipendere l'idiosincrasia, le azioni e il divenire della persona da elementi esteriori al suo rivestimento fisico, così come da relazioni di ogni tipo all'interno delle quali essa è inserita. Notoriamente questo è il caso della Malesia, ragione per la quale Marylin Strathern ha proposto che in questa regione del mondo si qualifichi la persona non come una individualità, ma come una "dividualità", ovvero un essere definito in primo luogo per la sua posizione e le sue relazioni in una rete 5 • Senza contestare l'esistenza in Malesia di una teoria della persona "dividuale", bisogna ricordarsi sempre, con Maurice Leenhardt prima e con Edward LiPuma più recentemente, che questa vi coesiste con - e in alcuni casi è soppiantata da - una concezione più egocentrata del soggetto riguardo la quale nulla permette di affermare che sarebbe il prodotto esclusivo della colonizzazione europea6 • Comunque, quale che sia la diversità delle soluzioni adottate per ripartire fuori da un corpo umano singolare alcuni dei principi che lo costituiscono come persona, non si corrono affatto rischi ad accettare come un fatto di ordine universale la forma di indi viduazione che la coscienza indessicale di sé rende manifesta e che rinforza la differenza intersoggettiva impiegata nell'uso del "tu". Luniversalità dell'individuazione riflessiva costituisce una condizione necessaria ma non sufficiente per sentirsi suddivisi fra il piano dell'interiorità e il piano della fisicità. Infatti una tale distinzione non saprebbe essere sicura nella coscienza ordinaria di sé, la quale mescola in modo inestricabile il senso di un'unità interna che dà espressività e coerenza alle attività mentali, agli affetti e ai percetti, con l'esperienza continua di un corpo che occupa una posizione nello spazio, origine di sensazioni proprie, organo di una mediazione con l'ambiente e strumento di conoscenza. Ognuno sa che "si pensa" anche con il corpo, tanto nell'ampio registro delle abilità interiorizzate che in quello più misterioso delle intuizioni condensate in un gesto, come il "parlare con le mani" che i diagrammi fisico-matematici rendono manifesto e di cui i filosofi delle scienze hanno provato a circoscrivere la natura7 • Cartesio stesso, a dispetto del suo dualismo di princi pio e del privilegio che attribuisce al cogito nella coscienza di sé, ammette senza difficoltà che il sentimento della nostra individualità, ciò che fa di noi "un vero uomo", poggia prima di tutto su un'unione intima dell'anima pensante e del corpo sensibile8•
4 Benveniste, É., 1966, cap. XX e XXI. 5 Strathern, M., 1988, pp. 268-270. 6 Leenhardt, M., 1947; LiPuma, E., 1998. 7 In particolare il rimpianto Gilles Chatelet (I 993). 8 «[... ] come non basta che [l'anima] sia situata nel corpo umano, quasi pilota nella nave, se non forse per muovere le membra, ma è necessario che sia congiunta e unita a esso più strettamente per avere, anche, sentimenti e appetiti simili ai nostri, e costituire, così, un vero uomo» (Discours de la méthode, V parte, in CEuvres pilosophiques, c. I, éd. F. Alequié, Paris, Garnier, pp. 631-632). Traduzione italiana Opere filosofiche, Roma-Bari, Laterza, 1967.
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5. Rapporto a sé, rapporto all'altro Inoltre non è nell'esperienza comune che può essere provata un'interruzione tra un sé m im ateriale e un sé fisico, ma negli stati più rari di dissociazione dove lo spirito e il cor po - per usare la nostra terminologia comune - sembrano divenire indipendenti l'uno dall'altro. È il caso, così effimero ma quotidiano, di quei momenti dove la "vita interio re" consolida la sua attività, nella meditazione, nell'introspezione, nella fantasticheria, nel monologo mentale, come la preghiera, tutte occasioni che suscitano una messa fra parentesi deliberata o fortuita delle costrizioni corporali. È anche il caso, in modo più chiaro, della memoria e del sogno. Anche se è spesso fatto scattare involontariamente da una sensazione fisica, il ricordo permette di smaterializzarsi, di scappare in parte dalle determinazioni temporali e spaziali dell'attimo presente per meglio farsi portare dallo spirito in una circostanza passata dove ci diventa impossibile provare la sofferenza, il piacere o anche la cinestesia che pure sappiamo associati al momento ricordato. Quanto al sogno, ci offre una testimonianza ancora più vigorosa dello sdoppiamento, poiché la vivacità delle immagini a cui facciamo riferimento sembra male accordarsi con lo stato di inerzia corporale che ne è la condizione. Meno comuni, infine, sono quelle situazioni di dissociazione estrema indotte dalle allucinazioni, le insensibilità temporanee come l'estasi o la catalessi, cioè quelle esperienze della percezione extracorporale associate alla presa di psicotropi o ai casi di pre-morte, quando il sé sembra distaccarsi dal suo rivesti mento carnale e sembra contemplarlo a distanza. Eppure qui non c'è niente di eccezio nale: l'uso rituale di sostanze allucinogene o le trance provocate dall'alcool, il digiuno o la musica offrono a ognuno, in molte parti del mondo, delle ripetute prove di un divario tanto più saliente tra l'interiorità e la fisicità quanto più è ricercato per la sensazione che procura. Poco importa, del resto, la frequenza di tali fenomeni, poiché il mio proposito qui non è di determinare un'origine incontestabile della concezione di una dualità della persona, come aveva provato a fare Tylor quando fece dipendere dal sogno l'origine della nozione di anima e dagli spiriti quella della credenza, base di una religione animista inte sa come proiezione su oggetti inerti di un principio di animazione dotato di autonomia9• Ben lontana da questa genesi azzardata, la mia intenzione era solo di sottolineare che la coscienza di una separazione tra un sé interno e un sé fisico non è senza fondamenti nella vita ordinaria, fatto che sembra anche confermare i recenti lavori in psicologia dello svi luppo che vedono in questa intuizione dualistica una caratteristica innata degli umani 10. Un'altra indicazione dell'universalità della divisione del fisico e del morale è il fatto che ne troviamo tracce linguistiche in tutte le culture la cui descrizione ci è accessibile. Sembra proprio, infatti, che tutte le lingue operino una distinzione tra il piano dell'in teriorità e il piano della fisicità all'interno di una certa classe di organismi, quali che siano comunque l'estensione data a questa classe e il modo con cui questi piani sono resi - generalmente da "anima" e "corpo" - nella lingua degli osservatori occidentali. Certo, i termini che traduciamo con "anima" sono spesso numerosi in una stessa lingua, e richie dono quindi copiosi commenti, mentre quello che fa riferimento al corpo generalmente
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Tylor, E. B., I 871, capp. XI-XVIII. Bloom, P., 2004.
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Oltre natura e cultura è unico. Ma non si trova da nessuna parte una concezione della persona comune vivente che sia fondata sulla sola interiorità - diciamo un'anima senza un corpo - o sulla sola fìsicità- un corpo senza anima. E bisogna aspettare le teorie materialiste della coscienza degli ultimi decenni del XX secolo, quelle di un Antonio Damasio o di un Daniel Den nett, per esempio, affinché quest'ultimo caso sia considerabile, non senza suscitare, del resto, una viva resistenza rispetto a ciò che, per molti dei nostri contemporanei, sembra costituire tanto un'offesa al senso comune che un attacco alla singolarità della natura umana11. Infatti, bisogna precisarlo, è proprio il senso comune quello che è in questione con la dualità della persona, ovvero l'intuizione empirica recuperabile dappertutto nelle sue espressioni istituite, e non, cerco, i meccanismi complessi della coscienza di sé che la neurobiologia si sforza di comprendere. Presumendo l'universalità di una distinzione convenzionale tra l'interiorità e la fìsici tà, non ignoro che l'interiorità è spesso presentata come molteplice né che la si supponga connessa con la fìsicità da numerose determinazioni reciproche. Anche in Occidente, del resto, terra di elezione delle forme più compiute di dualismo, si ammette comunemente la coesistenza di almeno tre principi di interiorità - l'anima, lo spirito e la coscienza-, ai quali si aggiunge dopo un secolo la triade freudiana dell'io, super-io e Es, cioè, più recentemente, l'epidemia stravagante di personalità multiple nella psichiatria nord-ame ricana 12 . L'immaginazione in questo dominio non conosce limiti e alcuni popoli hanno fatto proliferare gli elementi interni della persona attribuendo una funzione completa ad ogni parte del corpo o una funzione differente a ogni sesso, sommando loro o togliendo loro durante il ciclo di vita, individualizzando all'infìnito le loro funzioni per renderle re sponsabili di tutta la gamma di situazioni nelle quali un individuo è in grado di trovarsi. In Messico, per esempio, gli Indiani Tzeltal di Cancuc attribuiscono a una stessa persona fìno a diciassette "anime" distinte, mentre i Dogon, più modesti, si contentano di otto 13 • Tuttavia, quale che sia il numero dei componenti immateriali della persona, che essi siano innati o acquisiti, che essi siano trasmessi dal padre, dalla madre, per caso o da un'entità benevola o ostile, che siano temporanei, duraturi o eterni, immutabili o sotto messi al cambiamento, tutti questi principi generatori di vita, di conoscenza, di passione o di destino hanno una forma indeterminata, sono fatti di una sostanza indefìnibile e di solito risiedono nel profondo dei corpi. Cerco, spesso si dice che queste "anime" hanno la loro sede in un organo o in un fluido - il cuore, il fegato, il midollo o il sangue - o che hanno parei legate con un elemento indissociabile al corpo vivente, come il respiro, il viso o l'ombra; si dice che conoscano la crescita e la senescenza o la fame e il desiderio sessuale, proprio come l'organismo al quale esse sono associate, e che qualcosa della loro essenza può essere trasmessa o abbandonata attraverso la sostanza che serve loro da sub strato o da veicolo. Ma, pur intimamente legati che siano alle componenti non fìsiche della persona, gli organi o gli umori nei quali i componenti si incorporano non sono che oggettivazioni imperfette di queste, inadatte a rappresentare con la loro sola materialità Damasio, A. R., 1999 Dieterlen, G., 1973. Su quest'ultimo tema, vedi Hcking, I., 1995. 13 Pitarch, P., 1996; Dieterlen, G., 1973. 11
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5. Rapporto a sé, rapporto all'altro
la coralità dei predicati che si attribuisce agli elementi dell'identità interiore: il fegato non si sposta nello spazio quando l'anima, che lo abita, viaggia durante i sogni, non più del cuore o dei polmoni di un defunto quando liberano una parte dell'individuo che è desti nata a sopravvivere alla morte. Dobbiamo piuttosto considerare queste sostanze corporali che ospitano le anime come delle ipostasi, strumenti atti a dare un'espressione concreta ad agenti, ad essenze e a cause la cui esistenza è abitualmente derivata dai soli effetti che si imputano loro. Dovunque presente sotto modalità diverse, la dualità dell'interiorità e della fisicità non è quindi la semplice proiezione etnocentrica di un'opposizione che sarebbe propria all'Occidente tra il corpo, da una parte, l'anima o lo spirito, dall'altra. Bisogna al con trario intendere questa opposizione che è stata forgiata in Europa, e le teorie filosofiche e teologiche che essa ha suscitato, come una variante locale di un sistema più generale di contrasti elementari dei quali i capitoli che seguono esamineranno i meccanismi e le sistemazioni. Molto probabilmente ci potremmo stupire di vedere così un dualismo della persona un po' screditato acquisire ora un'universalità negata prima al dualismo della natura e della cultura. Eppure le argomentazioni empiriche non mancano, lo ab biamo detto, per giustificare un tale privilegio, soprattutto il fatto che la coscienza di una distinzione tra l'interiorità e la fisicità dell'io sembra essere un'attitudine innata di cui tutti i lessici portano la testimonianza, mentre gli equivalenti terminologici della coppia natura e cultura sono difficili da trovare fuori dalle lingue europee e non sembrano avere le basi cognitive dimostrabili sperimentalmente. Ma bisogna soprattutto rispondere qui che, contrariamente ad un'opinione in voga, le opposizioni binarie non sono delle inven zioni dell'Occidente o delle finzioni dell'antropologia strutturale, esse sono largamente utilizzate da tutte le popolazioni in moire circostanze, ed è quindi meno la loro forma che deve essere chiamata in causa che l'universalità eventuale dei contenuti che esse ritagliano. Le formule autorizzate dalla combinazione dell'interiorità e della fisicità sono molto ridotte: di fronte a un altro qualsiasi, umano o non umano, posso supporre sia che pos sieda degli elementi di fisicità e di interiorità identici ai miei, sia che la sua interiorità e la sua fisicità siano distinte dalle mie, sia ancora che abbiamo delle interiorità simili e delle fisicità eterogenee, sia infine che le nostre interiorità siano differenti e le nostre fisi cità analoghe. Chiamerò "totemismo" la prima combinazione, "analogismo" la seconda, "animismo" la terza e "naturalismo" l'ultima (figura I). Questi principi di identificazione definiscono quattro grandi tipi di ontologia, cioè di sistemi di proprietà degli esistenti, i quali servono come punto di ancoraggio a forme contrastate di cosmologie, di modelli del legame sociale e di teorie dell'identità e dell'alterità. Fig. 1 - Le quattro ontologie Somiglianza delle interiorità Differenza delle fisicità
Somiglianza delle interiorità animismo
totemismo
naturalismo
anawgismo
Differenza delle interiorità Somiglianza delle fisicità
Somiglianza delle fisicità Differenza delle interiorità
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Differenza delle fisicità
Oltre natura e cultura Prima di precisare le proprietà di ognuna delle combinazioni, conviene soffermarsi un momento sui termini attraverso i quali li designo. Tanto per la mancanza di passione per i neologismi, che per conformarmi ad una pratica molto antica quanto l'antropo logia stessa, ho scelto di impiegare delle nozioni ben consolidate conferendo loro una significazione nuova. Ma questo rispettabile uso può prestarsi a malintesi, specialmente perché le definizioni di animismo e di totemismo qui proposte differiscono sensibilmen te da quelle che avevo proposto negli studi precedenti. Ricordiamoci che gli antropologi hanno preso l'abitudine di parlare del totemismo ogni volta che un insieme di unità sociali- metà, clan, sezioni matrimoniali o gruppi di culto- si trova associato ad una serie di oggetti naturali, poiché spesso il nome di ciascu na di queste unità deriva da un animale o da una pianta eponima. Ne Il Totemismo oggi, Lévi-Strauss ha sviluppato l'idea che il totemismo più che un'istituzione propria alle società chiamate "primitive", sia l'espressione di una logica classificatoria universale che utilizza le differenze osservabili tra le specie animali e vegetali al fine di concettualizzare le discontinuità tra i gruppi sociali. Le piante e gli animali esibiscono spontaneamente delle qualità sensibili contrastate- di forma, di colore, di habitat, di comportamento - e le differenze di specie che li rendono manifesti sono quindi particolarmente propizie a significare le distinzioni interne necessarie alla perpetuazione delle organizzazioni seg mentarie. Mentre alcune concezioni precedenti del totemismo mettevano piuttosto l'ac cento sul!'associazione intima tra i termini- cioè l'esistenza di un legame mistico tra un gruppo di persone e una specie naturale-, Lévi-Strauss vi vede al contrario un'omologia tra due serie di relazioni, quelle che differenziano un insieme di specie e quelle che diffe renziano un insieme di unità sociali, dove la prima offre un modello sempre disponibile per organizzare la seconda. La natura fornisce così una guida e un supporto, un "metodo di pensiero", dice Lévi-Strauss, che permette ai membri di alcune culture di concettua lizzare la loro struttura sociale e di offrirne una rappresentazione iconica semplice, dello stesso ordine di quella impiegata dall'araldica europea 14 • Lintenzione di Lévi-Strauss era di dissipare ciò che lui chiama !"'illusione totemica" al fine di riportarla ad una caratteristica universale dello spirito umano. Capiamo così che quasi non ha dato importanza nella sua analisi a quelle relazioni diadiche tra umano e non-umano che sono state a volte qualificate con "totemismo individuale" 15• Ora, la mia esperienza etnografica presso gli Achuar, mi aveva reso sensibile al fatto che, come loro, molte società amazzoniche dotano le piante e gli animali di un principio spirituale proprio e stimano che sia possibile intrattenere con queste entità dei rapporti da persona a persona- di amicizia, di ostilità, di seduzione, di alleanza o di scambio di servizi- che differiscono profondamente dalla relazione denotativa e astratta tra gruppi totemici e le entità naturali che servono loro da eponimi. In queste società, molto comuni in America 14 Lévi-Strauss, Cl., 1962. i; Per Lévi-Strauss questo genere di relazioni non ha niente a che vedere con il totemismo, anche se si può trovare a volte combinato con esso, anche se si può trovarlo a volte combinato con esso, come è il caso degli Ojibwa con la giustapposizione del "sistema manido" (gli spiriti animali individuali) e del "sistema totem" (gli animali eponimi), ibid, pp. 25-33.
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5. Rapporto a sé, rapporto all'altro del Sud, ma anche in America del Nord, in Siberia e nel sud-est dell'Asia, piante e ani mali si vedono conferire degli attributi antropomorfici - l'intenzionalità, la soggettività, gli affetti, perfino la parola in alcune circostanze - tanto quanto delle caratteristiche pro priamente sociali: la gerarchia delle posizioni, dei comportamenti fondati sul rispetto di regole di parentela o di codici etici, l'attività rituale ecc. In un tale tipo di identificazione, gli oggetti naturali non costituiscono quindi un sistema di segni che autorizzano traspo sizioni categoriali, ma piuttosto un insieme di soggetti con i quali gli uomini tessono giorno dopo giorno rapporti sociali. Recuperando un termine caduto nell'oblio, avevo proposto di chiamare "animismo" questa forma di oggettivazione degli esseri della natura e avevo suggerito di vedere in essa un simmetrico opposto delle classificazioni totemiche nel senso di Lévi-Strauss: al contrario di queste, i sistemi animisti non utilizzerebbero le piante e gli animali per con cettualizzare l'ordine sociale, ma si servirebbero al contrario di categorie elementari della pratica sociale al fine di pensare il rapporto degli uomini con gli esseri naturali 16• Lipotesi veniva da materiali etnografici achuar: mentre le donne trattano le piante dell'orto come dei bambini, gli uomini si comportano verso gli animali cacciati e verso i loro maestri secondo le norme richieste nei rapporti con i parenti affini. Affinità e consanguineità, le due categorie che reggono la classificazione sociale degli Achuar e che orientano le loro relazioni all'altro, si ritrovano così nei comportamenti fissati verso i non-umani. Questa corrispondenza tra il trattamento sociale degli umani e quello delle piante e degli animali si è rivelato molto comune, in Amazzonia come altrove, e ne ho già dato alcuni esempi nel primo capitolo di questo libro: la solidarietà, l'amicizia e il rispetto degli an ziani presso i Cree, l'alleanza del matrimonio con la selvaggina tra i popoli siberiani o la commensalità presso i Chewong. In ogni caso, le norme di comportamento più comuni o più valorizzate nella vita sociale sono così impiegate per caratterizzare i rapporti degli umani con delle piante e degli animali concepiti come persone. Questa definizione dell'animismo come una simmetrica opposizione al totemismo soffriva comunque di un grave difetto poiché riconduceva a ciò a cui essa pretendeva di sfuggire, importando in modo furtivo nella caratterizzazione di cosmologie non duali stiche la distinzione analitica tra natura e società propria alla spiegazione lévistraussiana delle classificazioni totemiche 17 • Bisogna proprio ammettere inoltre che il rotemismo lévistraussiano è incommensurabile con l'animismo: mentre il secondo è proprio un modo di identificazione che oggettiva una certa relazione tra gli umani e gli elementi non umani del loro ambiente, il primo è un meccanismo di categorizzazione che ope ra correlazioni puramente logiche tra classi di umani e classi di non-umani 18 • Insom ma, malgrado la mia ambizione di sfuggire ad un'interpretazione troppo classificatoria dei fenomeni che, evidentemente, si prestavano male ad una tale lettura, ero ricaduto 16
Descola, Ph, 1992 e 1996. È questa l'obiezione del cucco pertinente che Viveiros de Castro ha apportato contro la mia prima teoria del!' animismo, anche se mi ha fatto il favore di indirizzare la sua critica ad un autore che aveva preso la responsabilità accettando questa teoria in una formulazione troppo frettolosa (1996, pp. 120-123). 18 !bid., p. 121. 17
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Oltre natura e cultura
nell'impasse dicotomica per eccessiva fedeltà alla teoria lévistraussiana del totemismo. È per questo che la mia prima definizione dell'animismo e quella che Lévi-Strauss dà delle classificazioni totemiche non potevano servire come punto di partenza per caratterizzare i modi di identificazione, anche se vedremo che queste definizioni conservano la loro validità in una fase ulteriore, come principi di legittimazione delle frontiere tra collettivi di umani e di non-umani. Avevo soprattutto preso una cattiva strada cercando di definire i modi di identifica zione, altrimenti detti delle matrici ontologiche, a partire da processi relazionali mate rializzati in istituzioni. I..:errore è scusabile se pensiamo che, dopo Durkheim, è sempre così che si è proceduto: il privilegio accordato al sociologico, necessario a suo tempo per aprire alle scienze dell'uomo un dominio di positività che gli sia proprio, rendeva inevitabile che le credenze religiose, le teorie della persona, le cosmologie, il simbolismo del tempo e dello spazio o le concezioni dell'efficacia magica fossero spiegabili in ultima istanza con l'esistenza di forme sociali singolari proiettate sul mondo e che modellano le pratiche attraverso le quali questo mondo è oggettivato e reso significante 19 • Facendo derivare il sociale dallo psichico, Lévi-Strauss è certamente scappato a questa tendenza. Ma, nello stato di incertezza dove ci troviamo ancora rispetto alle leggi dello spirito umano, questa derivazione non poteva essere che induttiva: salvo l'analisi dei miti, è lo studio delle istituzioni che è partito per risalire "verso l'intelletto", e non l'inverso. Ora un sistema di relazioni non è mai indipendente dai termini che unisce se si intendono con "termini" delle entità dotate ab initio di proprietà specifiche che le rendono adatte o inadatte a stringere fra esse dei legami, e non degli individui intercambiabili o delle unità sociali costituite. Bisogna quindi liberarsi dal pregiudizio sociocentrico e scommettere che le realtà sociologiche - i sistemi relazionali stabilizzati - siano analiticamente subor dinati alle realtà ontologiche - i sistemi di proprietà imputati agli esistenti. È a questo prezzo che l'animismo e il totemismo possono rinascere in un'accezione nuova: ridefiniti come l'una o l'altra delle quattro combinazioni permesse dal gioco di somiglianze e di differenze tra me e l'altro sui piani dell'interiorità e della fisicità, essi diventano così, in congiunzione con il naturalismo e l'analogismo, le parti elementari di una sorta di sintassi della composizione del mondo da dove provengono i diversi regimi istituzionali dell'esistenza umana.
19 Con la sua ontologia della differenza, Gabriel Tarde costituisce sotto questo aspetto una importante eccezione, ma la sua influenza fu messa a freno in modo così efficace dai durkheimiani che l'effetto che ha esercitato sulla sociologia francese del XX secolo può essere ritenuta marginale: Tarde, G., 1999 (1893).
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III LE DISPOSIZIONI DELI!ESSERE
Exister e' est différer. Gabriel Tarde, Monadologie et sociologie.
6 !!ANIMISMO RESTAURATO
Se spogliamo la definizione di animismo delle sue correlazioni sociologiche, resta una caratteristica sulla quale tutto il mondo può essere d'accordo e che rende manifesta l'etimologia del termine, ragione per la quale ho scelto di conservarlo malgrado gli usi contestabili che un tempo si sono potuti fare: è l'imputazione da parte degli umani ai non umani di un'interiorità identica alla loro. Questa disposizione umanizza le piante, e soprattutto gli animali, dato che l'anima di cui essi sono dotati permette loro non solo di comportarsi secondo le norme sociali e i percetti etici degli umani, ma anche di stabilire con questi ultimi relazioni di comunicazione. La similitudine delle interiorità autorizza quindi un'estensione dello stato di "cultura" ai non-umani con tutti gli attributi che essa implica, dall'intersoggettività al dominio delle tecniche, passando per i comporta menti ritualizzati e la deferenza alle convenzioni. Tuttavia, questa umanizzazione non è completa poiché, nei sistemi animistici, questa sorta di umani travestiti, quali sono le piante e gli animali, si distingue perfettamente dagli uomini per il proprio rivestimento di piume, di peli, di squame o di corteccia, detto in altri termini per la loro fisicità. Come Viveiros de Castro fa notare a proposito dell'Amazzonia, non è attraverso la loro anima che gli umani e i non-umani si differenziano, ma proprio per il loro corpo 1 • Del resto Durkheim lo aveva già sottolineato quando segnalava con la sua chiaroveggenza abituale che «la nozione di persona è il prodotto di due tipi di fattori. Uno è essen zialmente impersonale: è il principio spirituale che serve come base alla comunità. È questo, infatti, che costituisce la sostanza delle anime individuali. [ ...] Ma da un altro lato, affinché ci siano personalità distinte, è necessario che un altro fattore intervenga a frammentare questo principio e a differenziarlo; in altri termini, bisogna che ci sia un
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Viveiros de Castro, E., 1996, p. 129.
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Oltre natura e cultura fattore di individuazione. È il corpo che gioca questo ruolo,/. Poco importa che, fedele alla sua dottrina, Durkheim abbia confinato questo ruolo differenziatore del corpo alle sole comunità umane dal momento che, facendolo, evidenziava il principio generale per cui l'individuazione degli esistenti - e, aggiungerei, i loro raggruppamenti in collettivi_ non può realizzarsi se non attraverso un gioco di identità e di contrasto che si regge sugli attributi rispettivi dell'anima e del corpo.
Forme e comportamenti In cosa consiste esattamente questa differenza di fisicità di cui i sistemi animistici fan no uso per introdurre una discontinuità in un universo popolato da persone dall'aspetto così disparato, ma peraltro tanto umano nelle loro motivazioni, nei loro sentimenti e nei loro comportamenti? La differenza risiede nella forma e nello stile di vita che essa induce molto più che nella sostanza. Infatti, l'idea di una continuità materiale che unisce tutti gli organismi è comune alla maggior parte delle ontologie animistiche. Come fa presente Alexandre Surrallés, quando si riferisce a come sono concepite le entità del mondo degli Indiani Candoshi dell'Amazzonia peruviana, queste sono fatte da un «substrato poten ziale e universale permanente. Ciò comporta che ci sia una considerevole continuità tra tutta la materia, in conseguenza della quale i limiti categoriali tra gli esseri sono con siderevolmente indeboliti»3 • Marie Mauzé fa un'osservazione simile sugli Indiani della costa nord-ovest del Canada quando scrive: «si considera che gli animali siano fatti da una sostanza interna che, per il fatto che questa è essenzialmente umana, è stata trasfor mata in una forma animale per mezzo della pelle»4• Presso i Kasua del Grande Altipiano della Papua Nuova Guinea, ci dice Florence Brunois, il corpo degli umani, degli alberi e degli animali è percorso dalle stesse sostanze: bebeta (il sangue), ma (l'umore vaginale) e soprattutto l'onnipresente ibi (il "grasso addominale", ma anche l'humus o il lattice), sorgente della materialità dei corpi organici e abiotici 5 . Forse è anche nel senso di questa continuità sostanziale degli organismi che bisogna capire la risposta dell'informatore canaco di Leenhardt alla quale ho fatto riferimento nel primo capitolo: «voi non ci avete dato lo spirito [ ...] ciò che ci avete dato è il corpo». Possiamo ovviamente pensare che il vecchio Boesoou facesse qui riferimento all'assoluta novità del corpo cristiano - Leenhardt stesso era un missionario-, questo principio carnale colpito dalla macchia del peccato originale, cacciato dallo spirito e dal destino di immortalità vivificante6. Ma potremmo anche vedere in questa osservazione enigmatica la confessione della scoperta di un corpo propriamente umano di cui la materia e le strutture interne sarebbero sui ge neris. Tale concezione non poteva che offrire un contrasto con la concezione precristiana 1Durkheim, É., 1960 (1912), p. 386. 3 Surrallés, A., 1998, p. 240. 'Mauzé, M., 1998, p. 240 5 Brunois, F., 200 I. pp. 115, 199. 6 Leenhardt, M., 1947, p. 222. Questa è l'interpretazione che propone Jean-Pierre Vernant (presentazio ne del "Corps des dieux", Le temps de la réflecion, VII, 1986, pp. 10-11).
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6. Lanimismo restaurato del corpo umano nella Nuova-Caledonia, fondata sull'identità di struttura e di sostanza ua questo e le piante, un principio rivelato sia dalla terminologia anatomica che dalle teorie fisiologiche e escatologiche. Ora, Leenhardt lo sottolinea, l'identità dell'umano e del vegetale riguarda la sola materia e non la forma poiché i due tipi di organismi hanno «un modo di esistenza differente» e non saprebbero quindi svilupparsi, comportarsi, alimentarsi o riprodursi allo stesso modo7• Che la forma sia il criterio cruciale di differenziazione nelle ontologie animistiche, l'etnologia non lo mette in dubbio. Così, commentando la diversità delle "forme-perso ne" umane e non umane presso gli Jivaro, Anne Christine Taylor scrive: «la speciazione venuta da tempi mitici implica l'emergenza di forme fisiche particolari, e l'uomo ne possiede una come tutte le specie», poiché «ciò che distingue le specie, in definitiva, sono gli abiti»8• Presso i Makuna dell'Amazzonia colombiana, secondo Kaj Àrhem, gli umani, gli animali e le piante possiedono una «forma fenomenologica», che li distingue gli uni dagli altri e una «essenza spirituale», che è loro comune9• A proposito degli Arakmbut dell'Amazzonia peruviana, Andrew Gray precisa: «le proprietà fisiche del corpo separano una persona da tutte le altre»; non è quindi l'anima che costituisce l'aspetto unico ed essenziale di una persona, poiché «è il corpo che gli dà una forma distinta»10 • Nel suo articolo precursore sull'ontologia ojibwa, lrving Hallowell dice più o meno la stessa cosa, ma a contrario; interrogandosi su ciò che costituisce la caratteristica distintiva della persona presso questi Indiani del Canada, constata che non è l'aspetto antropomorfo perché esistono persone "diversamente umane" che non somigliano a uomini11 • È quindi proprio la forma corporale che differenzia le persone umane e non umane, l'anima che esse tutte possiedono non può svolgere questa funzione. Per i Chewong della Malesia, scrive Signe Howell: «è la coscienza che fa il "personaggio" quale che sia peraltro la sua forma esteriore (la sua "cape" secondo l'espressione chewong), quella di un gib bone, di un umano, di un cinghiale, di una rana, di un frutto di gambuta, di una foglia di bambù, dell'essere del tuono o di qualsiasi altra cosa». I Chewong comprenderanno quindi il mondo come composto «da entità dotate o no di coscienza e raggruppate in base alle specie, ognuna con la sua forma particolare» 12 • Il problema della discontinuità dei corpi è il tema ossessivo declinato a volontà dai miti amerindiani, queste storie insolite di un'epoca dove umani e non-umani non erano differenziati, un'epoca dove, per prendere degli esempi jivaro, era normale che Succiaca7
Leenhardt, M., 1974, p. 31. Taylor,A. C., 1998, pp. 323-324. 9 Arhem, K., 1996, p. 188. 10 Gray,A., 1997, p. 120. 11 Hallowell, A. I., 1981 {1960), p. 368. È vero che dice in modo esplicito che «l'apparenza esteriore è solamente un attributo accidentale dell'essere» (p. 373). Tuttavia, Hallowell sottolinea anche attraverso molti esempi la permanenza degli usi, soprattutto alimentari, legati alla forma della specie; gli "uccelli del tuono", per esempio, che sono anche i "maestri" di falchi raganelle, che si alimentano come loro, ma sotto la loro personificazione umana, di rane e di serpenti che presentano ad un visitatore ojibwa come un castoro bollito (p. 371). 12 Howell, S., 1996, p. 131. 8
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pre cucinasse, che Grillo suonasse il violino, che Colibrì dissodasse gli orti o che Rondo ne cacciasse con la cerbottana. A quell'epoca, infatti, gli animali e le piante dominavano le arti della civiltà, comunicavano tra loro senza ostacoli e si conformavano ai grandi principi dell'etichetta sociale. Per poco che si possa dire, il loro aspetto era umano, e solo qualche segno - il loro nome, dei comportamenti strani - testimoniava di ciò in cui si sarebbero trasformati. Infatti, ogni mito riferisce le circostanze che hanno portato a un cambiamento di forma, ali'attualizzazione dentro un corpo non umano di un animale o di una pianta che esisteva prima in stato potenziale. La mitologia jivaro sottolinea anche esplicitamente questo cambiamento di stato fisico segnalando il completamento della metamorfosi con l'apparizione di un tratto anatomico o con l'emissione di un messaggio sonoro caratteristico della specie. I miti amerindiani non evocano quindi il passaggio ir reversibile dalla natura alla cultura, ma piuttosto l'emergere di discontinuità "naturali" a partire da un continuum "culturale" originario all'interno del quale umani e non-umani non erano nettamente distinti. Questo grande movimento di speciazione non porta comunque alla costituzione di un ordine naturale identico a quello che ci è familiare dato che, se le piante e gli animali hanno ormai delle fisicità differenti da quella degli umani - e quindi degli stili di vita che corrispondono all'attrezzatura biologica propria di ogni specie -, essi hanno anche per la maggior parte conservato fino ad oggi le facoltà interiori di cui godevano prima della loro speciazione: soggettività, coscienza riflessiva, intenzionalità, capacità di comunicare in un linguaggio universale, ecc. Sono quindi persone, rivestite da un corpo animale o vegetale di cui esse a volte si spogliano per avere una vita collettiva analoga a quella degli umani: i Makuna, per esempio, dicono che i tapiri si pettinano con il roucou per danzare e che i pecari suonano la tromba durante i loro rituali, mentre i Wari' pensano che il pecari faccia la birra di mais e che il giaguaro riporti la sua preda a casa affinché la sua sposa la cucini 13• Per lungo tempo abbiamo ritenuto questo genere di affermazioni come testimonian ze di un pensiero ribelle alla logica, incapace di distinguere il reale dal sogno e dai miti, o come semplici figure retoriche, metafore o giochi di parole. Ma i Makuna, i Wari', e molte altre popolazioni amerindiane che pensano questo genere di cose, non sono più miopi o creduli di noi. Sanno bene che il giaguaro divora la sua preda completamente cruda e che il pecari devasta le piantagioni di mais piuttosto che coltivarle. Sono il gia guaro e il pecari, dicono, che percepiscono se stessi come adempienti dei gesti identici a quelli degli umani, che si immaginano in buona fede come condividenti con questi ultimi lo stesso sistema tecnico, la stessa esistenza sociale, le stesse credenze e aspirazioni. Insomma, nei miti come nell'esistenza quotidiana, gli Amerindiani non vedono ciò che noi chiamiamo la cultura come l'appannaggio degli umani poiché molti sono gli ani mali, o anche le piante, che hanno fama di credere di possederla e vivere secondo le sue norme. Diventa allora difficile imputare a queste popolazioni la coscienza o il presenti mento di una distinzione tra la natura e la cultura omologa a quella che conosciamo, ma che tutto nel loro modo di pensare sembra smentire. 13 Per i Makuna, Arhem, K., 1990, pp. 108-115; per i Wari', Vilaça, A., 1992, pp. 55-63.
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Un ultimo esempio, preso in Nuova Guinea, permetterà di precisare il ruolo del cor po come differenziatore oncologico. Presso gli Orokaiva, secondo André Iceanu, il mito del "Maiale alla ganda" serve come racconto didattico per sottolineare la differenza tra i cinghiali e gli umani. È una storia classica di unione interspecifica, qui tra una giovane donna e un maiale che per sedurla aveva preso l'aspetto di un uomo magnificamente or nato. Dopo aver scoperto la vera natura del suo sposo, e le sue intenzioni cannibaliche, la giovane donna ritorna al suo villaggio di origine dove i suoi parenti, avendo saputo che suo marito sarebbe venuto a riprenderla, si preparano al suo ritorno con le armi in mano. I..:arrivo dell'uomo-maiale è descritto così: Dato che veniva da molto lontano, fece il cammino sotto forma di un maiale, ma all'en trata del villaggio si trasformò di nuovo in uomo, si colse prima di tutto la sua pelle, e dato che era un uomo, la ritagliò o mo' di pagne di corteccia sottile. Intorno al suo collo si mise un ornamento ganda che compose con i denti del maiale. Attaccò il suo grugno a una manica e ne fece una mazza; i suoi peli si trasformarono in ornamenti di piume che legò sulla sua testa. Costruì il suo scudo con le proprie coste ancora ricoperte della loro pelle 14. Detto altrimenti, la forma-maiale è qui un rivestimento - la pelle - e un insieme di attributi removibili - i denti, il grugno, le setole, le coste ricoperte dalla loro pelle -, i quali, una volta tolti, rivelano una persona antropomorfa e servono inoltre ad adornarsi proprio come è appropriato che gli uomini si adornino affinché, senza equivoco, prenda no l'aspetto umano. Per gli Orokaiva, come in altre regioni della Nuova Guinea o delle Americhe, la forma-uomo non è quindi l'aspetto anatomico umano nella sua semplice nudità, ma il corpo decorato, arricchito, sovradeterminato da ornamenti che, per essere presi in prestito al mondo vegetale e animale, non hanno altra funzione se non quella di rendere più tangibili le discontinuità esterne là dove le continuità interne talvolta con ducono a confusioni pericolose. Infatti la finalità di questo lavoro sulla forma dei corpi non è tanto quella di allontanare l'umano dall'animale imponendo sulla "natura" l'im pronta della "cultura", perché sono proprio questi ornamenti animali che servono allo scopo. Il portare piume, denti, pelli, maschere con becchi, zanne o ciuffi di peli permette infatti di differenziare, grazie agli attributi stessi che segnalano la discontinuità delle specie, non l'uomo dall'animale, ma specie umane di diverso tipo troppo somiglianti per la loro fisicità originale: sfoggiando degli ornamenti caratteristici, i membri delle tribù vicine possono così esibire differenze di aspetto analoghe a quelle che distinguono tra loro le persone non umane. La prevalenza di differenze di forma sulle differenze di sostanza non è molto sorpren dente se si considera che le oncologie animistiche prendono in prestito verosimilmente una parte del loro schema operativo dal modello della catena alimentare. In Amazzonia, nell'area artica e circumpolare o nelle foreste dell'Asia del Sud-Est, si ritrova infatti que14 Ireanu, A., 1998, p. 119.
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sta idea che la vitalità, l'energia, la fecondità circolano costantemente tra gli organismi grazie alla cattura, allo scambio e al consumo di carne. Questo movimento permanente di riciclaggio dei tessuti e dei fluidi, analogo a quello che caratterizza l'interdipendenza alimentare nel processo sinecologico, permette quindi di comprendere perché tutti que sti esseri che si ingeriscono l'un l'altro non saprebbero distinguersi molto attraverso la materia di cui sono fatti. Nei sistemi animistici, del resto, le proibizioni e le prescrizioni alimentari hanno come scopo non tanto quello di prevenire o di favorire la mescolanza di sostanze ritenute eterogenee - come è il caso nella medicina cinese o galenica - quan to di impedire o di rendere possibile il trasferimento dalla specie proibita o consumata di tratti anatomici particolari o di certe caratteristiche di comportamento presunte de rivare da questi tratti. In compenso, il posto che ogni essere occupa nella catena alimen tare è precisamente determinato dalla sua attrezzatura organica, dato che è questo che condiziona contemporaneamente l'ambiente di vita disponibile - terrestre, acquatico o aereo - e, attraverso gli organi di locomozione e di acquisizione di nutrimento, il tipo di risorsa che potrà qui essere presa. La forma dei corpi è quindi più che la semplice conformazione fisica, è l'insieme dell'attrezzatura biologica che permette a una specie di occupare un certo territorio e di svilupparvi il modo di esistenza distintivo per il quale viene identificata principalmente. È così, per esempio, che Ingold definisce le persone umane e non umane nelle società circumpolari: «vi riconosciamo sempre una divisione fondamentale in due elementi: un elemento interiore, vitale, che è l'origine della coscienza di sé, della memoria, dell'inten zionalità e del sentimento, e una copertura corporale esteriore che fornisce l'attrezzatura e conferisce il potere necessario al fine di avere una forma di vita peculiare» 15. Questa descrizione potrebbe essere generalizzata all'insieme di società dove prevale un modo di identificazione animistica. Sulla base di un'interiorità identica, ogni classe di esseri pos siede la sua fisicità, contemporaneamente condizione e risultato di un regime alimentare e di un modo di riproduzione specifico, che induce così un etogramma, cioè un modo di comportamento specializzato le cui caratteristiche dettagliate non possono scappare alle facoltà di osservazione che devono implementare i popoli per estrarre la loro sussistenza da un ambiente poco antropizzato. I Makuna hanno teorizzato questo concetto in modo originale. Abbiamo già visto che questi Indiani dell'Amazzonia colombiana qualificano come masa ("gente") un gran numero di piante e animali dotati di un'anima identica alla loro, ma che comunque fun gono da pasto quotidiano. Prima di consumare ogni cibo vegetale o animale, gli uomini quindi cantano mentalmente un incantesimo destinato a decontaminarlo, cioè a spo gliarlo dei suoi principi nocivi. Chiamate "armi", questi principi sono considerati come i poteri che ogni specie ha ricevuto in comune al momento della genesi mitica, poteri che determinano le sue abitudini alimentari e le sue pratiche riproduttive come i modi di proteggersi nel suo territorio. Ogni insieme di armi - descritte come schegge, piume, veleno, saliva, sangue o sperma - oggettiva così un fascio di proprietà biologiche e di di15 lngold, T., 1998, p. 194.
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6. Lanimismo restaurato sposizioni ecologiche ritenute intrinseche all'identità di una specie 16 • La forma corporale è quindi indissociabile dal comportamento che questa induce e, in molti miti e aneddoti che raccontano il soggiorno di un umano presso un popolo dall'aspetto e dai modi completa mente umani, è sempre un dettaglio insolito nelle usanze dei suoi ospiti che fa improvvi samente prendere coscienza al visitatore della natura animale di coloro che lo accolgono: un piatto di carogna servito con buona creanza rivela delle persone-avvoltoio, una nascita 17 ovipara rivela delle persone-serpenti, un appetito cannibale delle persone-giaguaro •
Le personificazioni della metamorfosi Se gli animali possono spogliarsi a piacere del rivestimento corporale proprio della loro specie e esibire la dimensione umana della loro interiorità, senza perdere comun que gli attributi del loro comportamento, è perché le forme sono fisse per ogni classe di entità, ma variabili per le entità stesse 18 • Un tratto classico di molte delle ontologie animistiche è infatti la capacità di metamorfosi riconosciuta agli esseri provvisti di un'in teriorità identica: un umano può incorporarsi in un animale o una pianta, un animale adottare la forma di un altro animale, una pianta o un animale togliere il suo abito per mettere a nudo la sua anima oggettivata in un corpo di uomo. È vero che, in molti casi, tali trasformazioni sono attestate solamente nei miti di cui sappiamo che costituiscono per eccellenza delle storie di metamorfosi. Ma, almeno nelle Americhe, i personaggi dei miti non sono rilegati se non raramente nel passato indefinito dove si dice che hanno acquisito le loro proprietà distintive, poiché gli effetti delle loro azioni benevole o ostili si fanno sentire fino ad oggi. Nunkui, la creatrice delle piante coltivate degli Jivaro con tinua ad esercitare la sua tutela sugli orti di oggi e le donne cercano attivamente la sua assistenza. Fra gli Ojibwa, «è comunemente ammesso che tutti i citiso 'kanak [personaggi della mitologia] possano assumere differenti forme»; ora, questi esseri amano venire ad ascoltare i miti che si raccontano su di loro o, come gli "uccelli del tuono", a comunicare agli uomini dei messaggi 19 • L'evidenza della presenza continua di queste entità impro priamente chiamate mitiche è visibile soprattutto nei sogni, dove in generale appaiono sotto personificazione umana. Sempre a proposito degli Ojibwa, Hallowell riporta il sogno di uno dei suoi informatori che, ancora adolescente, incontra nella sua forma umana il "maestro" delle aquile reali, il quale, essendosi trasformato sotto i suoi occhi in un uccello della stessa specie, lo invita a seguirlo; il ragazzo prende allora lui stesso l'aspetto di un'aquila reale e si alza in volo dietro il suo maestro20 • 16 Arhem, K., 1996, p. 194. 17 Vedere l'insieme di miti machiguenga pubblicati da Fr.-M. Renard-Casevitz (1991). 18 Contrariamente a ciò che dice lngold, che sembra seguire su questo punto Hallowell (vedi sopra nota 1 I): «la generazione di una forma animata in una qualche parte [del cosmo] implica a sua dissoluzione in un'altra[ ...]. Per questa ragione nessuna forma è mai permanente» (Ingold, T., 1998, p. 184). Questo avvie ne per gli individui, sicuramente non per le specie. 19 Hallowell, A. I., 1981 (1960), pp. 377,365,372. 20 lbid., p. 380.
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Molto spesso, infatti, è a personaggi umani e non umani del cucco "ordinari", cioè senza antecedenti mitici, che viene attribuita questa capacità di metamorfosi, testimo niando così il normale carattere dell'intercambiabilità delle forme presso cucci coloro che possiedono una stessa soggettività. Tuttavia, la plasticità non è totale e alcune mo dalità di incorporazione sono meno frequenti di alcre. Il passaggio dall'animale all'uma no e dall'umano all'animale è una costante delle oncologie animistiche: il primo svela l'interiorità, mentre il secondo è un attributo del potere che viene assegnato ad alcuni individui - sciamani, stregoni, specialisti dei riti - di trascendere secondo la discon tinuità delle forme per prendere come veicolo il corpo di specie animali con le quali intrattengono delle relazioni privilegiace2 1• La metamorfosi di un umano in pianta o di una pianta in umano non è così canto comune, e meno ancora lo è quella di un animale di una specie in un animale di un'alcra specie22• Quanto alla possibilità per l'anima di un umano vivente di vestire il corpo di un altro umano, non sembra affatto attestata in nessuna delle ontologie animistiche, che confermano così la costatazione già classica di un'incompatibilità di principio era la possessione e ciò che chiamiamo per comodità lo "sciamanesimo" 23• La conclusione che possiamo tirare da questo registro di metamorfosi concepibili e inconcepibili, è che la base comune dell'interiorità prende la sua origine nel repertorio delle disposizioni osservabili presso gli umani, mentre la discontinuità delle fisicità prende come modello la straordinaria diversità dei corpi animali: sul palcoscenico del mondo, i primi portano lo spartito, i secondi la varietà delle esecuzioni strumentali. Qual è la funzione di questa molteplicità di strumenti corporali nel concerto della vita, se non quella, evidentemente, di prendere atto di qualche differenza irriducibile tra gli umani, gli animali e le piante? È quella di permettere a delle interiorità analoghe di sfuggire a un eccesso di continuità introducendo le differenze indispensabili tra i termini perché possano entrare in relazione. La discontinuità delle forme, e dei modi di vita che sono loro associaci, ritaglia infatti delle collettività discinte, ognuna dotata di caratte ristiche che definiscono l'attrezzatura anatomica dei suoi membri, il loro habitat, e gli usi che l'uno e l'altro autorizzano. Presso i Chewong, per esempio, «cucci i "personaggi" agiscono in modo culcurale e sociale, e comportandoci conformemente alle premesse morali della propria specie, non si viene in alcun modo stigmatizzaci per i propri atti»; in Siberia, le relazioni tra le specie animali sono viste come delle relazioni tra tribù; nell'area circumpolare, «gli animali come gli umani si ritiene che formino la loro propria 21 Per il passaggio dall'animale all'umano, vedere l'esempio dei Makuna (Àrhem, K., 1996, p. I 88), delle società circumpolari (Ingod, T., 1998, 9, 185), degli Ojibeìwa (Hallowell, M-Fr., p. 142) e degli Chewong (Howell, S., 1996, p. 135); per il passaggio dall'umano all'animale, vedere i Chewong (Howell, S., 1996, p. 135), le società circumpolari (Ingold, T., 1998, p. 185), gli Ojibwa (Hallowell, A. I., 1981 (I 969), p, 374), i Tsimashiuan (Guédon, M.Fr., 1994, p. 142), i Makuna (Àrhem, K., 1996, p. 188). 22 Il passaggio dall'umano alla pianta è menzionato presso i Chewong, come anche l'apparizione della pianta sotto forma umana (Howell, S, 1996, p. 135); incontriamo anche questo ultimo caso presso gli Achuar e presso i Yagua dell'Amazzonia peruviana (Chaumeil, J.-P., 1983, pp. 74-79); la metamorfosi di una specie animale in un'altra è ammessa per i Makuna (Àrhem, K., 1996, p. 188). 23 Sui contrasti tra sciamanesimo e possessione vedere lo studio ormai classico di Luc de Heusch (1971, pp. 226-244).
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comunità, e i membri di ognuno di esse possono visitare le altre comunità»; per i Cree del Canada, «gli animali cacciati vivono in gruppi sociali simili a quelli degli indiani»; i Sioux Oglala «parlano invariabilmente di ogni categoria animale come rappresentante dei popoli "come noi"»; secondo i Makuna, infine, «le comunità animali sono orga nizzate secondo gli stessi principi delle società umane, ( ...] ogni specie o comunità di animali ha la sua propria "cultura", il suo sapere, le sue usanze e i suoi beni materiali con i quali si assicura la sussistenza in quanto classe di esseri distinta»24• Esiste quindi per ogni specie un corpo base, che è anche un corpo sociale e un corpo di regole, e se il cam biamento di forma è sempre possibile, tale operazione non colpisce l'identità intrinseca degli individui; insomma, ciò che dice Howell della metamorfosi presso i Chewong può probabilmente essere generalizzata all'insieme delle società animistiche: «possiamo farlo solo per brevi periodi ed è un affare rischioso»25• A che serve, allora, incarnarsi in un altro corpo? Oltre ad essere esposti a non poter recuperare la forma originale - sorte a volte riservata agli sciamani troppo temerari, come a molti umani nei miti -, questo genere di processo, preso alla lettera, richiede che si sospendano dei requisiti di senso comune. Tuttavia, avremmo un bel dire della metamorfosi che è "simbolica", che è metaforica o figurata, un buon numero di persone qui o là pretendono ancora oggi che essa sia un fatto "di natura" analogo alla crescita delle piante o al movimento dei corpi celesti. Il fatto è che essa offre una soluzione co moda, la sola a dire il vero, al problema dell'interazione su uno stesso piano tra persone umane e non umane dotate all'inizio di fisicità distinte. Infatti gli Achuar, i Makuna o i Chewong non passano la loro vita a trasformarsi in anaconda, in tapiro o in tigre, né questi a rivelare agli umani la loro interiorità travestita. Per la maggior parte del tempo, ognuno si alimenta di altri con l'attrezzatura che gli è propria, le relazioni tra le differenti classi di esseri si svolgono sotto le specie della fisicità, cioè secondo gli usi dettati dai loro etogrammi rispettivi. Ma così come si ritiene che le interiorità dei predatori e delle prede siano identiche, bisogna proprio che esistano delle situazioni dove questa comunità di destini ontologici possa esprimersi in modo netto in uno o in un altro tipo di comu nicazione tra membri di collettività separate dai loro corpi. Non che i momenti dove predominano i rapporti tra i corpi siano perfettamente separabili dai momenti in cui le anime si parlano. Cesempio già evocato del cacciatore achuar mostra che tale distinzio ne non ha molto senso: l'uomo è simultaneamente impegnato in un inseguimento che mobilizza il suo sapere incorporato e preoccupato di mantenere con gli incantesimi, che rivolge alla selvaggina, il filo sottile che lega le loro interiorità. Tuttavia, perché la meta morfosi propriamente detta abbia effetto, e perché sia in grado di dimostrare con una vera esperienza intersoggettiva le proprietà imputate agli esseri che popolano il mondo, bisogna fare un passo in più e oltrepassare la barriera delle forme. Ora, questo non è possibile se non in due circostanze: quando le piante, gli animali o gli spiriti che sono
24 Howell, S., 1996,p.133; Hamayon, R.,1990,p. 296; lngold, T., 1998,p. 185; Tanner, A., 1979, p. 136;Brown,J.E.,1997,p. 13;Àrhem,K., 1996,p.190. '5Howell, S., 1996, p.134.
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Oltre natura e cultura le loro ipostasi, visitano gli umani sotto il loro stesso aspetto - più spesso nei sogni - e quando degli umani, degli sciamani in generale, vanno a far visita a queste stesse entità. Nell'uno e nell'altro caso, il visitatore si pone di fronte ai suoi ospiti sullo stesso piano di uguaglianza necessario a stabilire una comunicazione che adotti le sembianze di coloro ai quali si rivolge - i non-umani esibiscono la loro interiorità sotto forma della fisicità umana, gli umani abbandonano la loro fisicità per rivestire quella di un non-umano o per muoversi senza ostacoli nel mondo delle forme interiori -, mezzo del visitatore per far vedere che si colloca dal punto di vista di coloro che incontrerà. La metamorfosi non è quindi uno svelamento o un travestimento, ma lo stadio cul minante di una relazione dove ognuno, modificando la posizione di osservazione che la sua fisicità originale gli impone, si impegna a far coincidere la propria prospettiva con quella con la quale pensa che l'altro lo consideri. Con questo trasferimento di angolo di osservazione, dove si cerca di mettersi "nella pelle" del!'altro sposando l'intenzionalità che gli si attribuisce, l'umano non vede più l'animale come lo vede di solito, ma come lui si vede in umano, e lo sciamano è percepito non come si vede di solito, ma come si augura di essere visto, come animale. Più che di una metamorfosi, insomma, si tratta di un'anamorfosi.
Animismo e prospettivismo Questo carosello di punti di vista non può mancare di ricordare ciò che Viveiros de Castro chiama il "prospettivismo", concetto con il quale designa la qualità posizionale delle cosmologie amerindiane e di cui ha sviluppato la natura e le implicazioni rispetto alla definizione di animismo che avevo io stesso dato in un primo tempo26• L'autore par te dalla costatazione che, per molte popolazioni autoctone delle Americhe: Gli umani, in condizioni normali, vedono gli umani come umani, gli animali come animali e gli spiriti (se li vedono) come spiriti; gli animali (predatori) e gli spiriti vedono gli umani come animali (prede), mentre gli animali (fa selvaggina) vedono gli umani come spiriti o come animali (predatori). Invece gli animali e gli spiriti si vedono come umani; si percepiscono come (o diven tano) antropomorfi quando sono ne/Le loro case del villaggio, e vivono i loro usi e caratteristiche come un tipo di cultura.. .27
Il tema dell'eterogeneità delle prospettive può chiarire il problema dell'animismo fornendo una chiave per meglio comprendere la natura esatta della differenza tra gli umani e i non-umani tutti dotati di un'essenza umana? Per tentare di rispondere a questa questione, Viveiros de Castro considera prima di tutto quegli etnonimi amerindiani che abbiamo l'abitudine di tradurre con "gli esseri umani", "la gente" o "le persone" e che di solito sono interpretati come segni di una propensione etnocentrica a preservare il
26Viveiros de Castro, E., 1996. 27 Ibid., p. 117.
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nome generico dell'umanità alla sola tribù che si ritiene in diritto di portarlo. Ora, se si considerano questi termini dal punto di vista della pragmatica e non della sintassi, cioè come dei pronomi e non come dei sostantivi, «essi indicano una posizione del soggetto; sono un marcatore di enunciazione e non un nome» 28• Lontano dall'essere un indice di esclusione ontologica, cali etnonimi si contentano di caratterizzare il punto di vista del locutore - "la gente" essendo qui sinonimo di "noi" - in modo che dicendo che i non umani sono persone dotate di un'anima gli Amerindiani conferiscono loro in realcà una posizione di enunciatori definendoli come soggetti: «è soggetto chi possiede un'anima e possiede un'anima chi è capace di un punto di vista» 29 • Il "prospettivismo" è quindi l'espressione dell'idea che ogni essere che occupa un punto di vista di riferimento, e si crova così messo in condizione di soggetto, si percepisce sotto la specie dell'umanità e la forma corporale e gli usi degli umani costituiscono attributi pronominali dello stesso tipo delle autodesignazioni ecnonimiche. Ma il prospettivismo non è comunque un relativismo nel quale ogni specie di soggetto si forgerebbe una rappresentazione diffe rente di un mondo materiale peraltro identico, poiché la vita dei non-umani è ordinata dagli stessi valori di quella degli umani: proprio come questi ultimi, cacciano, pescano o fanno la guerra. Secondo Viveiros de Castro, sono le cose stesse che essi percepiscono ad essere diverse: se gli animali vedono gli umani come degli animali predatori o il sangue come della birra di manioca, è perché il punto di vista dove sono situaci è dipendente dai loro corpi e perché i loro corpi si distinguono dal nostro per le disposizioni intrinseche che essi manifestano. Laccento messo dalle ontologie animistiche sulla discontinuità delle forme deve quindi essere considerato come il segno di un'eterogeneità degli habitus incarnati nel corpo come fuoco per la prospettiva: «è soggetto che si trova attivato o "agentato" 30 dal punto di visca» 31 • Mi è impossibile commentare qui come meritino que ste proposte alla sottigliezza delle quali il mio riassunto non rende molca giustizia e che si inseriscono inolcre in una teoria più generale delle cosmologie amerindiane ancora in cantiere. Mi accontenterò di discuterne le implicazioni per ciò che riguarda il rapporto tra l'animismo e il prospettivismo. Non si può sfuggire prima alla tentazione di riportare un piccolo paradosso: questa interpretazione del prospettivismo che Viveiros de Castro presenta come un'alternativa alla tesi sociocentrica della "proiezione" (delle categorie sociali sul mondo naturale) richiama una penetrante osservazione di Durkheim, il più illustre avvocato della suddetta tesi. In questo sviluppo sul ruolo del corpo come prin cipio di individuazione al quale ho già facto riferimento, Durkheim osserva infatti che una tale funzione contrastiva gli è assegnata poiché, «siccome i corpi sono diversi gli uni dagli altri, siccome occupano dei punti differenti del tempo e dello spazio, ognuno di essi costituisce un luogo speciale dove le rappresentazioni collettive vengono a rifrangersi 28 29
Ibid., p. 125. Ibid., p. 126.
30 Nel testo originale in spagnolo Viveiros de Castro utilizza il termine "agentado". In francese Descola lo ha tradotto con "agenré". Per la traduzione in italiano è stato scelto di seguire la linea di traduzione di Descola e tradurre con "agentato" (n.d.t.) . .li lbid.
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e a colorarsi differentemente». Proprio come Viveiros de Castro, Durkheim si ispira a Leibniz: «[per lui] il contenuto di tutte le monadi è identico. Tutte, infatti, sono delle co scienze che esprimono un solo e stesso oggetto, il mondo [ ...]. Solo che, ognuna lo espri me dal suo punto di vista e a suo modo. Sappiamo come questa differenza di prospettiva venga dal fatto che le monadi sono diversamente situate le une in rapporto alle altre»32 • Questo antecedente inatteso non toglie sicuramente niente all'originalità della soluzione che Viveiros de Castro avanza, cioè che la forma e la cultura umane, attribuite agli animali dagli Amerindiani, sono delle specie di deittici cosmologici immanenti al punto di vista. [argomento è quindi generalizzabile all'insieme delle ontologie animistiche? Nell'animismo "standard", gli umani dicono che i non-umani si percepiscono come degli umani perché, a dispetto delle loro forme differenti, hanno gli uni e gli altri delle interiorità (delle anime, delle soggettività, delle intenzionalità, delle posizioni di enun ciazione) somiglianti. In questo il prospettivismo aggiunge una clausola: gli umani dico no che i non-umani non vedono gli umani come degli umani, ma come dei non-umani (animali predatori o spiriti). Si tratta, insomma, di una possibilità logica in un gioco a due posizioni; se gli umani si vedono con una forma umana e vedono i non-umani con una forma non umana, allora dei non-umani che si vedono con una forma umana do vrebbero vedere gli umani con una forma non umana. Ma questa inversione incrociata dei punti di vista, che caratterizza in sé il prospettivismo, è lontana dall'essere attestata in tutti i sistemi animistici. Vi si trova qualche bell'esempio nelle Americhe, soprattutto nei miti, e altri, molto più rari, in Asia33 • Si potrebbe certamente dire che le fonti siano lacunose su questo punto; è tuttavia poco probabile se si considera che quando dei casi di prospettivismo sono segnalati in una società, lo sono, anche in modo allusivo, da quasi tutti gli etnografi che vi hanno fatto ricerca, indicazione certa che questo tratto è abbastanza evidente per non sottrarsi troppo facilmente all'attenzione degli osservatori, soprattutto nelle Americhe dove è diventato raro che un gruppo amerindiano non sia stato studiato almeno da una persona. La situazione più comune, tipica della maggioranza delle ontologie animistiche, è piuttosto quella in cui gli umani si accontentano di dire che dei non-umani si percepi scono come degli umani. Ma come i non-umani considerano gli umani se il prospetti vismo non si mette in gioco, cioè se essi non li percepiscono come dei non-umani? Su questo punto specifico le etnografie sono poco eloquenti; eppure tutto porta a credere che è perché la risposta sembra di una tale evidenza che, a differenza del prospettivismo, nessuno si preoccupa di farne cenno: i non-umani non possono percepire gli umani se non sotto la loro forma umana34 • Questo non è molto sorprendente se ci ricordiamo che 32 Durkheim, E., 1960 (I 912), pp. 386-387, corsivo dell'autore. 33 Vedere il breve inventario dato da V iveiros de Castro (1996, n. 3 e 4). 34 Del resto le fonti non sono completamente inesistenti su questa questione, anche se il più delle volte non la richiamano che in modo indiretto. Infatti si può desumere che gli animali vedano gli umani come tali a partire dal fatto, attestato in molti esempi, che gli animali, o i loro rappresentanti, intrecciano con gli umani, o accettato da parte loro, un classico scambio da umano ad umano, adottando, in generale, per farlo, una forma umana che è come un segno di riconoscimento. Così, presso gli Yagua dell'Amazzonia peruvia-
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riteniamo che gli umani e i non-umani intrattengono dei rapporti da persona a persona marcati da regimi di socialità e da sistemi di comportamenti molto precisi - l'amicizia, la seduzione, la maternità, l'affinità o l'autorità dei più anziani- di cui, a meno di liberarsi da un inganno cosciente, gli umani che adottano questi regimi di socialità e sistemi di com portamento di fronte ai non-umani non possono non aspettarsi che i non-umani li richia mino a una condotta reciproca. Se mi comporto nei confronti di una scimmia che penso si comporti come un umano, secondo gli usi convenuti nel trattamento dei cognati, bisogna proprio, salvo di crogiolarmi in un'illusione comprovata, che mi aspetti da lei che faccia lo stesso, cioè che mi consideri con il "codice umano" e non con il "codice giaguaro" o con il "codice anacondà'. Infatti un umano può stringere un rapporto sociale prescritto con un non-umano che si vede come un umano, mentre il non-umano non saprebbe ricambiare se non gli attribuisce la stessa umanità di cui si ritiene dotato, e questo si incarni al meglio nella corporeità umana con la quale lo percepisce. Certo, il non-umano potrebbe vedere l'umano sotto una forma non umana, e calcolare tuttavia che lui stesso si percepisce come umano, ma questo supporrebbe, per conversione riflessiva, che avrebbe lui stesso una co scienza di non essere umano a dispetto della forma umana che si imputa, cosa che sembra poco plausibile e non è molto confermata, a mia conoscenza, dall'etnografia. Quindi si pone una nuova questione: se la situazione più ricorrente nel regime ani mistico è che dei non-umani vedono gli umani come degli umani, come possono quindi distinguersi dagli umani dato che si vedono come umani? La sola risposta verosimile dal punto di vista dell'etnografia è che i non-umani si distinguono dagli umani (e fra loro) per le abitudini comportamentali determinate dalle attrezzature biologiche proprie di ogni specie, abitudini che sussistono nel loro corpo anche quando lo percepiscono come umano. La discontinuità delle forme, lo abbiamo visto, è un modo di dare significati alle discontinuità nei modi di vivere, non quanto ai caratteri generali dell'esistenza so ciale, comune agli umani e ai non-umani, ma dal punto di vista dei modi di sussistenza, dei tipi di habitat e di disposizioni specifiche che la loro conformazione fisica suscita e esprime allo stesso tempo. Ora, se i membri di ogni classe di esseri si percepiscono come umani, non percepiscono tuttavia le altre classi come provviste di un'umanità esattamente identica alla loro, dato che gli usi propri ad ogni classe differiscono osten tatamente. Con ogni probabilità, il tapiro che si ritiene si veda come un umano, non vede gli umani sotto una forma proprio somigliante a quella (dicono gli Indiani) che egli imputa a sé stesso. In un mondo perfetto - per i tapiri, si intende, non per gli In diani-, i tapiri e gli Indiani vivrebbero in perfetta armonia, condividendo forse lo stesso na, il racconto di un cacciatore che va a rendere visita alla maestra degli animali dell' aguajal (una palma acquatica) per negoziare con essa della selvaggina (Chaumeil, J.-P., I 983, pp. 182-183); o il cenno farro da G. Reichel-Dolmaroff agli animali che visitano i cacciatori desana (Amazzonia colombiana) nei loro sogni sorra l'aspetto di giovani donne vivaci per sedurle (Reichel-Dolmaroff, G., 1971, p. 225); o ancora l'aned doto raccontato da un Achuar sulla sua amicizia con una lontra dalla forma umana, una delle incarnazioni dello spirito delle acque Tsunki (Descola, Ph., I 993, p. 164); o infine, presso i Cree, l'abitudine che hanno i cacciatori di spiegare le ragioni del loro gesto verso l'orso che si accingono a uccidere, discorsi che l'orso, dicono, possa comprendere (Tanner, A., 1979, p. 146). È difficile pensare che queste interazioni sarebbero ritenute possibili se gli animali vedessero gli umani semplicemente come animali predatori o selvaggina.
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Oltre natura e cultura
villaggio e scambiando le donne e i beni. Ma gli Indiani hanno la spiacevole abitudine di cacciare i tapiri e questi, malgrado la loro comune umanità, non hanno potuto fare a meno di accorgersene. Dal punto di vista dei tapiri inoltre, gli Indiani abitano in villaggi diversi dai loro, e i loro capi e i loro sciamani non sono gli stessi, e il loro nutrimento è diverso visto che mangiano proprio i tapiri. La soluzione prospettivista consisterebbe qui nel dire che i tapiri esposti agli attacchi degli Indiani li vedono come dei giaguari 0 degli spiriti cannibali, fatto che le società amerindiane in effetti affermano, e che sono quindi incapaci, per il fatto che occupano la posizione della preda, di percepire alcune caratteristiche degli umani - il loro aspetto fisico, i loro villaggi, le loro istituzioni - che rendono questi ultimi identici all'immagine che si formano di loro stessi. Nella solu zione animistica ordinaria, invece, i tapiri percepiscono bene che gli umani possiedono alcuni attributi sociali e antropomorfi omologhi a grandi linee a quelli che attribuiscono a se stessi, ma costatano anche che si distinguono da essi per altri criteri, come quelli che un Amerindiano usa per identificare, grazie alle usanze e a un'ornamentazione del corpo diverse dalle sue, dei membri di una tribù vicina e spesso nemica. Detto altrimenti, se le persone non umane percepiscono il loro proprio corpo sotto le specie della morfologia umana, sono ugualmente sensibili al fatto che questi corpi differiscono in gran parte per le disposizioni rispettive che vi sono ospitate (lo schivare o l'attaccare, gli stili di vita diurni o notturni, la solitudine o la socievolezza...), come differiscono anche per il modo con cui si presentano in azione ali'altro (attraverso i gioielli, la decorazione, la gestualità, i tipi di armi e di strumenti impiegati, le lingue parlate). Infatti la fisicità, base della di scontinuità delle specie, è più che anatomia nuda; essa la specifica con i molteplici modi di usare i corpi, di farli vedere e prolungarne le funzioni, tutti elementi che aggiungono una certa forma di agire nel mondo alla forma ricevuta arrivandoci. Come dice lo stesso Viveiros de Castro, il prospettivismo è un «corollario etno epistemologico dell'animismo» 35 • Postulando la simmetria inversa dei punti di vista, il prospettivismo sfrutta infatti in modo ingegnoso la possibilità aperta dalla differenza di fisicità sulla quale l'animismo si fonda. Ma è un trapianto che molti popoli dell'arcipe lago animistico non hanno tentato, non per mancanza di immaginazione o di attitudi ne alla conversione riflessiva, ma forse perché essa introduce un livello di complessità supplementare in un'ontologia posizionale dove è già difficile, in tutte le situazioni che coinvolge la vita quotidiana, attribuire identità stabili agli esistenti che ci circondano. Siamo qui molto lontani dal mondo rassicurante dell'essere e dell'esistente, delle qualità primarie e delle qualità secondarie, delle forme perenni e della conoscenza come svela mento, osservazione piuttosto accolta, in definitiva, da tutti coloro che sono stanchi di un mondo troppo uniforme.
35 Viveiros de Castro, E., 1996, p. 122.
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7 SUL TOTEMISMO COME ONTOLOGIA
Definire l'animismo come una combinazione fra somiglianza di interiorità e differen za di fisicità spinge a riprendere la questione del totemismo; non il totemismo come metodo classificatorio di cui Il Totemismo oggi aveva proposto una spiegazione tanto seducente quanto magistrale, ma il totemismo sotto i suoi aspetti propriamente onto logici che Lévi-Strauss fu portato a scartare per meglio aprire la strada ad un approccio intellettualistico del fenomeno che rendeva caduche le speculazioni precedenti sull'indi stinzione dell'uomo e della natura nel pensiero dei primitivi. Partendo dal principio che il totemismo è una mistificazione, Lévi-Strauss infatti sostiene che l'unità artificiale di questa nozione derivi da una confusione nella mente degli antropologi tra due problemi: Innanzi tutto, ciò che pone l'indentifìcazione frequente degli esseri umani con le piante o con gli animali e che fa riferimento a opinioni molto generali sui rapporti dell'uomo e della natura; queste interessano l'arte e la magia, quanto la società e la religione. Il secondo problema è quello della denominazione dei gruppi fondati sulla parentela che può essere fatta usando vocaboli animali e vegetali, ma anche in altri modi. Il termine totemismo ricopre solamente i casi in cui coincidono i due ordini 1 • Ora, di questi due elementi di definizione del totemismo, è soprattutto il secondo che richiama l'attenzione di Lévi-Strauss, poiché è questo che lo porta alla soluzione classificatoria già intuita da Franz Boas quaranta anni prima: l'omologia degli scarti differenziali tra una serie naturale, le specie eponime e una serie culturale, i segmenti sociali. Rispetto al primo elemento, l'identificazione di umani con i non-umani, esso non sussiste più nella soluzione adottata se non come una sorta di meccanismo di auto persuasione che rinforza l'efficacia operativa delle classificazioni totemiche nelle società 1
Lévi-Strauss, Cl., 1962, p. I 5.
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Oltre natura e cultura
dove «una tendenza molto generale a postulare dei rapporti intimi tra l'uomo e gli esseri o oggetti naturali è utilizzata per qualificare concretamente classi di genitori o supposti tali» 2• Eppure considerati da soli, e non nella loro semplice funzione di coadiuvanti della categorizzazione degli umani, questi "rapporti intimi" tra l'uomo e gli esseri naturali pre sentano, in alcune configurazioni totemiche, caratteristiche del tutto originali. Del resto Lévi-Strauss stesso è stato sensibile a questo aspetto visto che consacra estesi sviluppi ne Il Pensiero Selvaggio, a società a clan totemici nelle quali postula una profonda affinità fisica e psichica tra gli umani e i loro totem. Citando il caso degli insulari dello stretto di Torres, dei Menomini dei Grandi Laghi e, più al nord, dei Cheppewa, sottolinea che, in questo genere di casi, ogni gruppo totemico sarà preso da solo e «tenderà a formare un sistema, non più con gli altri gruppi sociali, ma con alcune proprietà differenziali conce pite come ereditarie» 3; ne risulta una diversità intrinseca, e propriamente ontologica, dei segmenti totemici che li avvicina alle caste. In tali sistemi, e in contrasto con l'interpreta zione proposta ne Il Totemismo oggi, 1'omologia non poggia più sui rapporti differenziali tra due serie di termini (il clan 1 si differenzia dal clan 2 come l'aquila si differenzia dall'orso), essa poggia sui termini stessi (il clan 1 è come 1'aquila, il clan 2 come l'orso); al posto di «due immagini, l'una sociale, l'altra naturale [...] si avrà un'immagine socio naturale unica, ma frazionata» 4 • Insomma, tanto il totemismo si situa su tutto un altro piano rispetto all'animismo quando è preso nella sua versione classificatoria (l'omologia dei rapporti), tanto la sua dimensione "fusionale" (I'omologia dei termini) può offrire una pista interessante per trattarlo con legittimità come un modo di identificazione5 • Non è sorprendente che proprio in Australia, continente che suscita dalla fine del XIX secolo le congetture più esagerate quanto alla natura del totemismo, si esprimano con più nitidezza le proprietà singolari da esso manifestate. Grazie ad eccellenti e precoci descrizioni etnografiche, l'Australia diviene infatti con i lavori di Durkheim, di Frazer, di Rivers, o anche di Freud, l'illustrazione per eccellenza di un sistema di organizzazione sociale e di un modo di relazione con la natura caratterizzato, secondo i primi osser vatori, dal fatto che ogni individuo «fa parte di un gruppo di persone che portano il nome di, e sono specialmente associate a, un oggetto naturale» 6• Da questo momento, inoltre, gli specialisti dell'Australia furono colpiti sia dalla diversità delle forme del tote mismo presenti sul continente sia dall'impressione di unità che si sprigionava peraltro dai principi generali di segmentazione e di affiliazione sociali propri degli Aborigeni come delle loro concezioni della persona e dell'ambiente. Questa apparente contraddizione fu attribuita ad un'evoluzione endogena di lunghissima durata- quasi settantamila anni-, 2 Ibid.
3 lbid., p. 154. 'Ibid., p. 154-155, corsivo dell'autore.
5 La lettura qualche anno fa di un articolo penetrante di Luc Racine ( 1989) aveva già iniziato a com promettere le mie certezze rispetto all'universalità della spiegazione lévi-straussiana del totemismo, ma non sufficientemente per portarmi a oltrepassare la mia pigrizia dogmatica e intraprendere un aggiorna miento necessario. Riletto dieci anni dopo la sua pubblicazione, questo testo mi ha finalmente portato a rivedere il mio giudizio e le considerazioni che seguono e che devono molto al suo effetto stimolante. 6Spencer, WB., e Gillen, F.J., 19ì899, p. 12.
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7. Sul totemismo come ontologia
essendosi i primi occupanti dell'Australia dispersi per vie diverse in territori immen si, senza grandi contatti gli uni con gli altri salvo le vicinanze regionali, in modo che ogni gruppo sarebbe stato condotto a sviluppare le sue proprie istituzioni prendendo a modello i gruppi vicini, o in contrasto con essi, come tante variazioni su un modello iniziale che si supponeva comune a tutti. Che questa diversificazione dell'organizzazione sociale e dei riti sia stata il prodotto di una combinazione di diffusione per migrazioni e di evoluzioni localizzate, o che sia risultata da un adattamento ecologico e demografico dei modi sociali di occupazione dello spazio ad ambienti molto differenti, come è stato esaminato, ci importa molto poco7• Infatti, quale che sia l'origine di queste variazioni, le caratteristiche strutturali comuni che esibiscono sono così manifeste che si può, sulla scia degli etnologi specialisti dell'Australia, trattare quest'area culturale come un insieme notevolmente omogeneo sotto alcuni aspetti.
Il Sogno Il tratto sicuramente più originale del totemismo australiano è il suo radicamento in un sistema cosmologico e eziologico singolare che abbiamo preso l'abitudine di chia mare "Dreamtime" o "Dreaming" in inglese, e "Sogno" 8 in italiano9 • Individuato sotto il nome di alchera e descritto per la prima volta da Baldwin Spencer e Franck Gillen presso gli Aranda del deserto centrale, il Sogno evoca in prima approssimazione tutto ciò che si riferisce ai tempi della formazione del mondo così come è riportata nei racconti rituali che accompagnano le cerimonie totemiche. Vi si riferisce che degli esseri originari un tempo sorsero dalle profondità della terra in luoghi precisamente identificati, alcuni di essi si lanciavano in peregrinazioni cosparse di peripezie i cui percorsi e soste sono sempre leggibili nella materialità dell'ambiente sotto forma di rocce, di punti d'acqua, di boschi o giacimenti di ocra. Questi esseri scomparvero così improvvisamente come erano apparsi, sia nel luogo stesso da dove erano emersi, sia dopo il loro viaggio, dopo aver lasciato dietro di loro, ognuno per conto suo, una parte degli esistenti attuali in tutta la loro pluralità: gli uomini, le piante e gli animali con le loro affiliazioni totemiche rispettive e i nomi che le designano, i riti e gli oggetti cultuali, degli elementi organici o inorganici del paesaggio. Contemporaneamente ostetrici e prototipi della realtà sociale e fisica, questi esseri del Sogno sono molto spesso presentati come degli ibridi di umani e non-umani già divisi in gruppi totemici al momento del loro arrivo. Sono umani per il loro comportamento, il loro dominio del linguaggio, l'intenzionalità che mostrano nelle 7 1..'ipotesi dell'evoluzione per diversificazione a partire da un nucleo comune è avanzata da Spencer e Gillen dal 1899 (ibid.); per una versione recente di questa ipotesi fondata su dei criteri linguistici, vede re Brandenstein, C.G. van, 1982, cap. X. L'ipotesi della variazione del numero di classi come risultanti da un adattamento alle risorse di acqua è stato sviluppato da Yengoyan, A.A., 1968. 8 "Reve" nel cesto (n.d.t.). 9 La letteratura sul Sogno è immensa, la maggior parte degli specialisti dell'Australia hanno traccato questo tema; per una buona sintesi in francese, si potrà far riferimento a Glowczewki, B., 1991, cap. II; per il Sogno presso gli Aranda, vedere Moisseerr, M., 1995, cap. I.
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loro azioni, i codici sociali che rispettano e istituiscono, ma hanno l'aspetto o portano il nome di piante o di animali e sono all'origine dei depositi degli spiriti, collocati nei siti dove sparirono, che si inseriscono in seguito negli individui della specie o dell'oggetto che rappresentano e negli umani che hanno questa specie o questo oggetto come totem. Il Sogno è ben altra cosa che un modo aborigeno di designare questi tempi mitici ai quali molti popoli sono abituati a rimandare la genesi favolosa degli esseri e delle cose. Infatti nel momento di questa "aurora del mondo", per utilizzare la formula di Radcliffe-Brown, si è avviato un movimento di generazione continua i cui effetti si fan no sentire fino ad oggi 10 • La potenzialità lasciata dagli esseri del Sogno nei siti e negli itinerari si concretizza senza sosta attraverso le incorporazioni successive dei loro spiriti, nelle entità di diverso tipo e grazie ai riti, ai processi di nomina e ai percorsi reiterati con i quali gli Aborigeni rendono tangibile e perenne la presenza nascosta di queste entità che, modellando gli esseri e le cose, darebbero senso e ordine al mondo. Il Sogno non è quindi né un passato rievocato né un presente retroattivo, ma un'espressione dell'eter nità accertata nello spazio, un quadro invisibile del cosmo che garantisce la perennità delle sue suddivisioni ontologiche. Quanto agli esseri del Sogno, non possono essere assimilati ad eroi mitici classici poiché la loro spinta ordinatrice, in parte solidificata in tale o tal'altro tratto del paesaggio, ha tuttavia proseguito senza interruzione dopo che avevano abbandonato la superficie della Terra. Non sono più degli antenati stricto sensu; ogni esistente, umano o non umano, è legato all'entità che lo determina da un rapporto diretto di duplicazione, di presentificazione o di formazione, non da una filiazione che si svolge a cascata di generazione in generazione. L'organizzazione totemica, cioè l'asso ciazione tra entità e fenomeni non umani e gruppi di persone umane, proviene così in Australia da un processo insieme originario e costantemente perseguito da determinazio ni di essenze e di forme di vita già differenziate in classi e in tipologie, all'interno delle quali le componenti sociali e fisiche sono inestricabilmente mescolate. Non solo, come scrivono Spencer e Gillen a proposito degli Aranda, «l'identità di un umano è spesso immersa in quella dell'animale o della pianta da cui si ritiene che provenga» 11 , ma questa identità mista combina lei stessa tratti di comportamento, dispositivi e oggetti rituali, tassonomie contemporaneamente sociologiche e biologiche, nomi e racconti, luoghi e percorsi, tutti elementi che facciamo fatica a distribuire da una parte o dall'altra di una linea immaginaria che separa la natura dalla cultura.
Inventario australiano Il quadro cosmologico del Sogno è valido a grandi linee per tutta l'Australia abo rigena, con qualche variazione strettamente concernente la libertà più o meno grande di procedere con un'interpretazione totemica dei sogni che autorizzi delle innovazioni rituali, il grado di personalizzazione degli esseri del Sogno o l'estensione nello spazio 10 11
Radcliff-Brown, A.R., 1968 (I 952), p. 246. Spencer, WB., e Gillen, F.J., 1899, p. 119.
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7. Sul totemismo come oncologia
dei loro itinerari. Al contrario, i rapporti che intrattengono gli individui con i loro totem sono di grande diversità, proprio come lo sono i modi di affiliazione totemica e la parte che occupano nel!'organizzazione sociale, nella definizione degli status e nel gioco delle alleanze matrimoniali. È ad Adolphus P. Elkin che dobbiamo, negli anni trenta, il primo inventario ragionato delle diverse varianti del totemismo australiano, un'impresa condotta seguendo l'ispirazione funzionalistica dell'epoca, cioè orientata al modo con cui le divisioni totemiche giocano un ruolo integrante nei diversi siste mi sociali censiti nel continente 12 • Prima di affrontare la tipologia di Elkin, tuttavia, un breve richiamo etnografico alla natura di questi sistemi e alla loro distribuzione è indispensabile. Se esistevano in alcune regioni della costa nord e del quartiere sud-est delle tribù organizzate in gruppi locali esogamici che non conoscevano nessuna divisione interna, la grande maggioranza delle società australiane era tuttavia caratterizzata da una segmen tazione più o meno complessa in classi. Le forme più semplici sono rappresentate dalle società per metà esogamiche nelle quali ogni individuo appartiene a una o ali'altra delle due classi nominate e deve prendere il suo congiunto nella classe opposta. Le incontria mo in regioni diverse a seconda che le metà siano a filiazione patrilineare o matrilineare: le società a metà patrilinea erano presenti soprattutto nel nord del continente, dalla terra di Dampier fino alla penisola di Capo York, mentre le società a metà matrilinea occupa vano soprattutto la zona meridionale. Oltre a queste società a metà esogamiche, esistono anche gruppi a metà endogamici e generazionali, rappresentati ad oggi dalle tribù aluri dja della regione meridionale, per i quali un uomo o una donna non possono sposarsi se non nella propria metà e non in quella che raggruppava insieme le generazioni superiori (suo padre e sua madre) e inferiori (i suoi figli). Le società dette "a quattro sezioni" pos sono essere considerate come estensioni logiche dell'organizzazione in metà esogamiche sulla quale viene ad innestarsi un criterio di residenza, cioè due metà matrilineari - è il caso più comune - chiamate A e B i cui membri sono distribuiti in due gruppi locali chiamati 1 e 2, la donna e i bambini che abitano con il loro marito e padre dal momento che la residenza in Australia è sempre patrilocale. In questo caso, un uomo della metà A del gruppo locale 1 (A 1 ) ha l'obbligo di sposare una donna della metà B del gruppo locale 2 (B2 ), i loro figli saranno affiliati a B 1 , poiché appartengono alla metà della loro madre (B) e al gruppo locale del padre (l); i bambini B 1 , dovranno anche loro sposarsi nella metà opposta e in un gruppo locale diverso dal loro (A/ Spesso chiamati Kariera, dal nome di una tribù costiera dell'Ovest, questi sistemi a quattro sezioni erano soprat tutto presenti nella regione dei deserti del Nord-Ovest, nel Nord-Est e in una gran parte del Sud-Est. I sistemi a otto sezioni seguono lo stesso principio, ma con quattro gruppi locali invece di due. In una società a metà matrilinea, come gli Aranda, un uomo della metà A e del gruppo locale 1 che sposa una donna della metà B e del gruppo locale 3 avrà dei figli classificati in B 1 , un A2 che sposa una B4 genererà dei B 2 , un A 3 che sposa una B2 genererà dei B3, un A4 che sposa una Bl genererà dei B4 e, se lo scambio è a metà, un 12 Elkin, A.P., 1933.
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uomo B 1 che sposa una A4 avrà dei figli A 1 , un B 2 che sposa una A3 genererà dei A2 , un B 4 che sposa una A2 genererà dei A4 e un B3 che sposa una A 1 genererà degli A3 • Questi sistemi a otto sotto-sezioni sono comuni tra le tribù del Centro e si ritrovano verso il Nord fino alla Terra di Arnhem e la penisola di Capo York. Notiamo infine che anche se i nomi che designano le sezioni o le sotto-sezioni possono differire secondo le lingue e i dialetti, il sistema generale di classificazioni resta simile, cosa che permette di integrare nella classe che vi corrisponde degli individui nati in altre tribù. Impadronendosi con una curiosità golosa dei fatti australiani, l'antropologia nascen te aveva supposto che esistesse un legame diretto tra questi sistemi a classi e l'istituzione totemica come operatore di esogamia, l'obbligo di sposarsi fuori dal proprio totem co stituiva un imperativo pratico per meglio integrare attraverso il matrimonio dei grup pi locali sparsi. Ora, l'inventario di Elkin frazionava il totemismo australiano in una moltitudine di tipologie apparentemente eterogenee e mostrava senza ambiguità che alcune di queste tipologie non giocavano alcun ruolo nel funzionamento dell'alleanza matrimoniale. Elkin sembrava così frantumare la speranza di mettere in evidenza una relazione sistematica tra le classificazioni totemiche e le forme di organizzazione sociale a livello del continente, cosa che Lévi-Strauss gli rimproverò con una vivacità tanto più pungente per il fatto che era proprio l'obiettivo che lui stesso avrebbe voluto 13 • Avendo io tutt'altra ambizione, non è questa conseguenza della tipologia di Elkin che mi sembra debba richiamare l'attenzione, ma piuttosto alcune caratteristiche che se ne liberano quanto alle specificità ontologiche del totemismo australiano. La prima forma di totemismo che Elkin passa in rassegna è il totemismo detto "indi viduale". Esso definisce, nelle tribù del Sud-Est, una relazione particolare tra uno strego ne e una specie animale, generalmente dei rettili. I membri della specie agiscono come degli ausiliari dello stregone portando il male o la guarigione a distanza e spiando per suo conto. Fra i Kurnai, si dice che lo stregone porta in sé lo spirito della specie che as siste, che può essere anche esternalizzato e materializzato in un animale addomesticato. Presso i Yualayi, uno stregone può affidare un animale della sua specie totemica, un alter ego dice Elkin, a un malato affinché la sua forza lo guarisca; gli stessi pretendono che una ferita inflitta a un animale totemico faccia soffrire lo stregone associato a questa specie. Una serie di differenze saltano agli occhi quando si compara questo totemismo indivi duale del Sud-Est australiano con i legami particolari stretti tra uomini e alcuni animali nei sistemi animisti. Le relazioni tra uno sciamano amazzonico o siberiano e i suoi spi riti animali ausiliari, o tra un uomo normale e il suo animale guardiano o domestico in America del Nord, riguardano sempre degli individui e non delle specie, anche se l'animale può occasionalmente servire come tramite presso i suoi simili. In Australia, al contrario, il rapporto si stabilisce con la specie come insieme indissociabile, non essendo l'animale addomesticato che lo stregone esibisce altro che una espressione singolarizzata delle caratteristiche proprie alla specie in generale. Inoltre, le persone umane e animali sono chiaramente distinte dai sistemi animistici, fatto che permette proprio che si tessa
13 Lévi-Strauss, Cl., 1962, pp. 64-68.
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7. Sul totemismo come ontologia
tra esse tutta una gamma di relazioni diadiche da individuo a individuo, mentre la per sona dello stregone australiano sembra completamente fusa con la specie animale che ha preso come totem: l'essenza dello spazio è divenuta la sua essenza e lui stesso prova sulla sua pelle tutto ciò che colpisce un membro qualsiasi della collettività animale con cui condivide ormai il destino. Non si tratta quindi qui di un'alleanza o di un contratto di assistenza passato tra lo stregone e la sua specie totemica, ma anzi di un'ibridazione ri cercata e accettata la cui finalità è certamente sociale - il trattamento e la disseminazione della sventura fra gli uomini -, ma la cui realizzazione concreta esige di acquisire delle proprietà condivise con una specie animale. Ugualmente diffuso tra le tribù del Sud-Est, il totemismo "sessuale" consiste nel ripartire i sessi in due classi totemiche mutualmente esclusive e simbolizzate ognuna da una specie, più spesso un animale: pipistrello per gli uomini e gufo per le donne presso i Kamilaroi o gli Wotjobaluk, pipistrelli e picchio presso gli Worimi, ecc. I dati sono poco espliciti quanto alla natura esatta del rapporto tra il gruppo sessuale e la specie eponima; presso i Wotjobaluk, si dice che «la vita di un pipistrello è una vita di uomo», implicando così un'affinità nelle loro forme di esistenza, mentre presso i Kurnai l'accento è piuttosto messo sulla filiazione condivisa: «ogni discendente di Yeerung [un regolo] è un fratello, ogni discendente di Djeetgun [una capinera] è una sorella» 14 • Ritroveremo quindi qui l'idea generale che esiste tra gli umani e i non umani una comunità di proprietà condi vise, e sufficientemente stabili per essere trasmesse attraverso le generazioni, ma questa idea è espressa in modo molto più vago che nel caso del totemismo individuale. Sebbene sia raggruppato da Elkin con il totemismo sessuale, il totemismo "conce zionale" degli Aranda e degli Aluridja sembra ben differente dal primo quanto al suo principio. Il totem di ogni bambino non è funzione del sesso o dell'affiliazione, infatti, ma del luogo dove la madre ha saputo di essere incinta, sia che vi ci sia trovata veramen te, sia che lo abbia visitato in sogno. Si tratta sicuramente di un luogo totemico, cioè di un posto dove un essere del Sogno ha depositato delle anime-figlie della sua specie totemica, si ritiene che una di queste sia penetrata nell'utero della madre per formarvi il nuovo nato. Un bambino aranda non avrà quindi necessariamente lo stesso totem del padre, di sua madre o dei suoi fratelli e sorelle, le sotto-sezioni che funzionano come delle classi matrimoniali non avranno qui nessun rapporto con le affiliazioni totemiche. Torneremo più nel dettaglio sul totemismo concezionale aranda, ma possiamo fin d'ora trarne insegnamento. Se il totemismo sessuale permette delle categorizzazioni collettive per omologie di differenze (del tipo: gli uomini stanno alle donne come il regolo sta alla capinera), tanto il totemismo concezionale che il totemismo individuale chiaramente provengono da un altro registro: l'una e l'altra hanno a che vedere principalmente con una definizione ontologica della persona umana concepita come condividente con una specie totemica delle caratteristiche intrinseche. È veramente diverso dai totemismi collettivi che Elkin esamina in seguito? A prima vista, e come nel totemismo sessuale, i totem di metà, di sezioni e di sotto-sezioni sem14
Elkin, A.P., 1933, pp. 115 e 116.
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Olcre natura e culcura brano avere per funzione di surdeterminare attraverso emblemi distintivi delle classi di individui che sembrano soprattutto qui organizzate da e per il matrimonio. Tuttavia, le giustificazioni date in alcuni casi per l'affiliazione totemica permettono di intravedere la presenza di altri principi. Iniziamo dal totemismo di metà. Nella sua variante matrili neare, esso simbolizza la divisione di una vita comune fondata sull'eredità di una stessa carne e di uno stesso sangue attraverso le madri, sostanza identitaria la cui origine, come vedremo più avanti, rinvia agli animali eponimi delle metà, generalmente due specie di uccelli. Il totemismo a metà patrilinea si riferisce piuttosto a due specie di canguri e si vede combinato con culti totemici locali la cui responsabilità si trasmette più spesso per linea paterna. L'esogamia di metà non è quindi tanto severa e automatica come l'orga nizzazione dualistica potrebbe far credere e, secondo Elkin, il totemismo è qui prima di tutto un modo per distribuire tutti gli esistenti all'interno di due grandi classi i cui membri, umani, animali, piante, oggetti o totem, presentano delle affinità con le due specie che servono da totem principali. Il totemismo di sezione presenta, da questo punto di vista, le stesse caratteristiche del totemismo di metà: opera una quadripartizione delle entità del cosmo «sulla base di una parentela ritenuta esistente fra gli umani e le specie naturali» 15 • Stesso principio ancora, per il totemismo dei gruppi a otto sotto-sezioni, ma con due varianti e un'eccezione: sia i totem di sotto-sezione sono direttamente associati a luoghi di anime-figlie totemiche e si trovano così investiti di una funzione generativa che rinforza la comunità di attributi tra i membri umani della sotto-sezione e dei loro totem localizzati; sia essi sono più specificamente categoriali e coesistenti eventualmente con un totemismo di luoghi di anime-figlie e un totemismo di culto completamente distinti; sia infine, come presso gli Aranda, le affiliazioni totemiche non hanno alcun legame con le sotto-sezioni, e quindi con il matrimonio. Si vede che i tipi di totem presenti nei diversi sistemi a classi sono di natura molto diversa: la maggior parte ha una dimensione classificatoria garantita, di tipo cosmologico e ontologico piuttosto che strettamente sociologico, l'idea generale è che essa esige delle proprietà condivise, benché definite in modo vago, tra gli umani, i non-umani e i totem che li inglobano. Ma i totem possono essere o no associati a classi matrimoniali, trasmettersi per filiazione o essere collegati a siti cerimoniali e a depositi locali di anime-figlie lasciate dagli esseri del Sogno. Questa diversità è ancora più manifesta nell'ultimo grande tipo di totemismo consi derato da Elkin, il totemismo "cianico". I clan australiani sono sia patrilineari che ma trilineari, ma alcuni sono anche "nativi" per il fatto che raggruppano tutti gli individui concepiti o nati in uno stesso luogo totemico. Il totemismo dei clan matrilineari si basa sul principio che tutte le persone legate tra esse per linea materna ascendente condi vidono una stessa sostanza corporale (carne e sangue) derivata in definitiva dall'entità totemica dove il clan proviene, questa comunità fisica che induce un'esogamia severa e l'interdizione di consumarne la specie totemica dato che la sua sostanza non potrebbe essere assorbita dall'individuo. Questa indissociabilità materiale di alcuni umani e di 15
Jbid., p. I 19.
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7. Sul totemismo come ontologia
alcuni non-umani è confermata, nelle tribù del nord-ovest di Victoria, dalla credenza che uccidere un membro della specie totemica di una persona causi a questa una ferita reale, come era nel caso del totemismo individuale. Qui, il totem «è più che un nome o un emblema; c'è qualcosa della vita degli uomini nella vita della specie totemica, e vice versa» 16 • Infine, come il totemismo di metà, il totem principale e la specie che lo incarna costituiscono il vertice di una gerarchia di totem di specie secondarie, in modo che la combinazione, all'interno di una stessa società, di tutti i totem, sotto-totem e specie affiliate assuma l'aspetto di un sistema esaustivo di categorizzazione del cosmo. In contrapposizione al totemismo cianico matrilineare, il totemismo cianico patrili neare ammette una coincidenza perfetta tra un clan e un gruppo locale esogamico il cui legame con il totem è costituito da e in un territorio che essi abitano congiuntamente: si ritiene infatti che gli spiriti o le essenze di ogni gruppo di membri del gruppo locale pro vengano, generazione dopo generazione, da luoghi dei quali sono i guardiani e che furo no il teatro di prodezze degli esseri del Sogno che appartenevano al loro stesso totem. Se, nel caso del clan matrilineare, il rapporto tra i membri del clan e il loro totem è di tipo substanziale, esso proviene, per il clan patrilineare, da un'intima solidarietà tra gli umani e gli esseri totemici, nutrita e fortificata da una genesi spirituale e una geografia sacra identiche, insomma, uno stesso radicamento identitario nel quale si può, giustamente, chiamare un genius foci. Il totemismo cianico "nativo", infine, non è nient'altro che un modo di associare in un gruppo sui generis degli individui che hanno in comune la stessa classe totemica di anime-figlie poiché sono incorporate nelle loro madri, al concepimen to (per gli Aranda) o alla nascita (nell'ovest dell'Australia meridionale), sugli stessi siti totemici formati dagli esseri del Sogno. Questo genere di clan totemico non ha niente a che vedere con il matrimonio - non è esogamico - e deve piuttosto essere visto come un collettivo cultuale, depositario di racconti eziologici, di conoscenze segrete e di riti che concernono l'essere del Sogno da cui i suoi membri provengono. Questi ultimi hanno il compito di mobilitare i loro saperi e prerogative esoteriche nelle cerimonie la cui finalità è di celebrare il loro totem e di assicurare il benessere e la fecondità della specie totemica proveniente dal loro stesso sito e di cui condividono l'essenza e il destino. Proprio come nel totemismo cianico patrilineare, il totemismo cultuale - e il totemismo "di sogno" che ne è una variante individuale - si basa quindi su un'identificazione spirituale degli umani, dei totem e delle specie che sono loro affiliate, ognuna di esse esistendo in quan to espressione singolarizzata di uno stesso prototipo immateriale incarnato in un corpo. Suddividendo il totemismo australiano in una decina di forme distinte, Elkin ren deva caduca l'idea che potesse costituire nel continente un dispositivo regolatore unico associato ad un certo tipo di istituzione o di regola di matrimonio. In un alto numero di tribù, del resto, molte forme possono accumularsi e riempire delle funzioni differenti. Così, nel nord-ovest dell'Australia meridionale, un individuo può essere collegato da diversi legami a cinque classi eterogenee di totem: possiede, o è posseduto da, uno o dei totem di metà, ma anche di sesso, di clan matrilineare, di un sito cultuale ereditato da 16 Ibid., p.121.
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Oltre natura e cultura suo padre e, in secondo luogo, da un altro sito cultuale ereditato per linea matrilineare dal fratello della madre che comunque lui stesso non potrà trasmettere ai suoi figli. È legittimo quindi desumere da questa decostruzione minuziosa che il totemismo austra liano non esiste, almeno sotto le specie di un insieme sistematico, e che si tratta piuttosto di una finzione antropologica che mescola in un gran pot-pourri dogmatico tassonomie sociali e naturali, concezioni della persona, riti, miti e credenze che non hanno tra esse alcun legame logico? Bisogna andare un po' velocemente e far prevalere differenze osten tate su alcune somiglianze che l'inventario di Elkin lascia trasparire. È vero che Elkin stesso, nonostante convinto dell'unità religiosa soggiacente al to temismo australiano, non porta che dei magri sollievi per delucidarne i principi. Il suo contributo più decisivo consiste nel sottolineare che tutte le forme censite da lui si basa no sulla credenza nell' «identità [oneness] della vita che è condivisa dall'uomo e le specie naturali», aggiungendo che ostentare un nome totemico non proviene dalla sola neces sità per un gruppo di avere un emblema distintivo, «poiché il nome rappresenta una co munità di natura tra il gruppo e il suo totem» 17 • Oltre all'affermazione instancabilmente ripetuta che gli umani hanno in comune con le loro specie totemiche una stessa "forma di vita", Elkin resta tuttavia ben laconico quando si tratta di definire in cosa consiste esattamente questa comunità. Tutt'al più può constatare a partire dal suo inventario la prevalenza di due grandi varietà di ibridazione tra umani e non-umani, totem inclusi. Luna fa appello alla condivisione di una stessa sostanza (la carne, il sangue, la pelle)e riguarda soprattutto i totemismi matrilineari, di metà e clanici, e il totemismo di sotto sezioni quando è legato a siti cultuali localizzati; l'altra poggia sull'identità di essenza o di principio di individuazione generata dall'incorporazione regolare negli umani e nei non-umani delle anime-figlie di un sito totemico, ed è più manifesto nel totemismo concezionale, nel totemismo cultuale e nel totemismo clanico patrilineare. Solo il tote mismo individuale proprio degli stregoni sembra combinare senza dubbio i due modi di ibridazione. Il risultato è magro, ma sufficiente per continuare la ricerca su un'eventuale unità ontologica del totemismo australiano. Infatti Elkin era, a suo tempo, uno dei più importanti conoscitori dell'Australia aborigena e non possiamo trascurare il suo consi glio quando scrive - probabilmente contro Durkheim - che le divisioni e suddivisioni dei totem non sono solamente un metodo di classificazione della natura «ma un'espres sione dell'idea che l'uomo e la natura formano un tutto organico [a corporate whole] - un tutto contemporaneamente vivente e sociale», ammissione che il ministro della Chiesa Anglicana non ha probabilmente preso alla leggera 18•
Semantica di tassonomie Per meglio comprendere cosa sono le ibridazioni totemiche presunte, bisogna tor nare al presente con ciò che dicono gli Aborigeni e quindi, in primo luogo, al livello 17
18
lbid., p. 129. Ibid.
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7. Sul totemismo come ontologia
semantico. Questo è quello che il linguista Cari Georg von Brandenstein ha intrapreso in un libro rivolto allo studio comparativo e all'interpretazione dei nomi di totem e di divisione totemiche in tutta l'Australia 19 • Il suo primo compito consiste nell'esaminare il significato dei diversi termini attraverso i quali gli Aborigeni designano il concetto che noi chiamiamo "totem", parola che, bisogna ricordarlo, fu ripresa dalla lingua degli Oji bwa dei Grandi Laghi dell'America settentrionale prima di essere generalizzato nella ter minologia antropologica nella seconda metà del XIX secolo. Ora, Brandenstein mostra senza equivoco che questi termini generici fanno riferimento nella maggior parte dei casi ad elementi del corpo umano e animale o a sostanze fisiologiche, alcune esplicitamente concepite dagli Aborigeni come vettori di identità condivisa. I termini più ricorrenti appartengono al vocabolario anatomico e possono essere tradotti da "carne" o "carne commestibile"20, "pelle", "testa", "fronte" o "viso", "occhi", "fianchi", "fegato" (è la sede del temperamento) o "colore" (in particolare della pelle); in seguito arrivano dei termini polisemici che designano insieme gli umori o le predisposizioni del corpo e le qualità che sono loro associate, come ngurlu, nome dei totem matrilineari nelle nove tribù del nord dell'Australia centrale, che significa "interno" e "temperamento", o il suo probabile affine ngarlgi, impiegato dagli Yanyula del golfo di Carpentaria per designare i totem e qualificare "ciò che viene da qualche parte", cioè il sudore dell'ascella, il comportamento, il colore, l'essudato, l'odore, il profumo, la pelle, il gusto, la melodia, la voce e l'essen za identitaria21• Invece, i termini che denotano la relazione o la divisione sono molto più rari; fra questi troviamo "metà", "sezione", "amico" e "stesso nome". Insomma, con poche eccezioni vicino all'idea di segmentazione o di parentela che prevale, ciò che noi chiamiamo totem, ovvero contemporaneamente l'entità e la classe che simbolizza, si vede designata nelle lingue aborigene da termini che fanno riferimento a predicati fisici molto concreti, spesso ipostatizzati in qualità morali. La ragione di queste scelte semantiche sembra più chiara alla luce dell'analisi che Brandenstein porta in seguito, non più dei termini generici che denotano il concetto di totem, ma dei termini particolari attraverso i quali sono designati quello o quell'altro totem, essenzialmente quelli associati ai differenti sistemi a classi. Contrariamente ad au tori che, come Peter Worsley, affermano che l'assegnazione di un totem (e di una specie naturale) ad un gruppo sociale è completamente arbitraria22, Brandenstein sostiene che l'insieme del sistema totemico australiano è dominato da una stessa logica immanente la cui espressione più completa, nella società a sottosezioni, si basa su otto combinazioni di tre coppie di proprietà primarie, ogni combinazione caratterizza il (o i) totem di ogni sottosezione, come gli esistenti umani e non umani che gli sono affiliati. Il suo metodo è progressivo e per questo parte dalla considerazione delle società a metà, in Kimberley 19 Brandenstein, C. G. von, 1982. 20 Nella lingua francese esiste la distinzione fra i due termini "chair" e "viande", dove il primo ter mine designa la carne, intesa come la parre non ossea del corpo umano o animale, mentre il secondo termine la carne commestibile (n.d.t.). 21 lbid., pp. 6-7 e 170-172. 21
Worsley, P., 1967.
Oltre natura e cultura
e nel Sud-Ovest, dove le specie totemiche sono generalmente una coppia di uccelli o di serpenti. Presso i Wunambal e i Ngarrinjin di Kimberley, per esempio, lo schema clas sificatorio dualistica è retto da due principi opposti incarnati uno in kuranguli, la gru Grus rubicunda, e l'altro in banar, l'otarda Eupodotis australis. Ora, ognuno di questi to tem sottintende un insieme di una ventina di attributi morali, fisici e comportamentali opposti parola per parola e che qualifica le entità umane e non umane raggruppate in ciascuna delle metà, attributi esplicitamente ricondotti dai membri di queste tribù e che Brandenstein riassume con l'opposizione di due qualità principali, "veloce" e "lento", le quali rinviano ad una serie di coppie di tipo "profondo di spirito" e "semplice", "attivo" e "passivo" o "slanciato" e "corpulento". La tappa successiva consiste nell'esaminare i nomi e le caratteristiche conferite ai totem delle società a quattro sezioni. Il sistema qui è semplicemente raddoppiato: alla contrapposizione di metà fra "veloce" e "lento" si aggiunge una nuova contrapposizione che Brandenstein qualifica con l'opposizione tra "a sangue caldo" e "a sangue freddo". Così presso i Kariera, la metà "veloce" era composta da una parte della sezione chiamata karimarra, che possiamo tradurre con "che agisce attivamente", con totem una specie di canguri e l'attributo "a sangue caldo", dall'alcra parte della sezione pannaga, che significa "deciso", con totem una specie di goanna (rettili) e l'attributo "a sangue freddo" ; quanto alla metà "lenta" essa era composta, da una parte dalla sezione pal-tjarri, che significa "flessibile", "malleabile", con totem un'altra specie di canguri e l'attributo "a sangue cal do", dall'altra parte della sezione purungu, che significa "massiccio", con totem un'alcra specie di goanna e l'attributo "a sangue freddo". Coloro "che agiscono attivamente", cioè i canguri karimarra veloci e a sangue caldo, sposano quindi i "Flessibili", cioè i canguri pal-tjarri a sangue caldo, mentre gli "Estesi", cioè i goanna pannaga veloci e a sangue freddo, sposano i "Massicci", cioè i goanna purungu lenci e a sangue freddo. Le qualità" a sangue caldo" e "a sangue freddo" sintetizzano un insieme di attributi fisici intrinseci ai membri delle sezioni e ai loro totem, quali il colore più o meno scuro del sangue, ma anche le disposizioni antitetiche che questi attributi che si presumono indurre, come il vigore o la debolezza, l'aggressività o la passività, la determinazione o l'indifferenza. Questi contrasti sono perfettamente riconosciuti dagli Aborigeni, come attesta il modo con cui i Kabi di Queensland descrivono le regole del matrimonio fra sezioni: «la classe più chiara della fratria a sangue chiaro sposa la classe più chiara della fratria a sangue scuro, e la classe più scura della fratria a sangue chiaro sposa la classe più scura della fratria a sangue scuro» 23 • Infine, dalla considerazione dei nomi totemici di una trentina di gruppi a sotto sezioni e di qualità imputate ai membri di ognuna fra di esse, Brandenstein tira la con clusione che questi sistemi a otto classi fanno intervenire una terza coppia di attributi che ricade sotto il contrasto tra "rotondo" e "piatto". Proprio come i precedenti, questa coppia di attributi fa riferimento a delle caratteristiche fisiche quanto morali: "grande" e 23 Mathew,
J.,
Two Representative Tribes of Queensland,
Brandenstein, C.G. van, 1982, p. 14.
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Londra e Laipzig, 1910, p. 160, citato da
7. Sul totemismo come ontologia "piccolo", "davanti" e "di lato", "principale" e "secondario", "capelli ricci" e "capelli lisci", "viso largo" e "viso stretto", carattere "collerico" e carattere " flemmatico" ecc. I totem e i membri di ogni sotto-sezione sono quindi identificati da una combinazione specifica di tre proprietà che definiscono un comportamento (veloce o lento), un tipo di umore (sangue caldo o sangue freddo) e una dimensione o un volume (rotondo o piatto). Così, un "rotondo-veloce-a sangue caldo" dovrà sposare una "rotonda-lenta-a sangue caldo", un "rotondo-veloce-a sangue freddo" sposerà una "rotonda-lenta-a sangue freddo", un "piatto-veloce-a sangue caldo" sposerà una "piatta-lenta-a sangue caldo" e un "piatto veloce-a sangue freddo" sposerà una "piatta-lenta-a sangue freddo". Tale sistema a prima vista sembra molto restrittivo dato che un uomo di una sottosezione di cui si ritiene che i membri abbiamo una costituzione tarchiata, i capelli ondulati, il viso largo e una piccola statura, dovrà scegliere la sua sposa nella sottosezione prescritta dalle regole di matrimonio i cui membri si ritiene che abbiamo una figura slanciata, i capelli lisci, il viso stretto e una grande statura, i loro figli erediteranno alcuni attributi da loro padre e dalla madre la cui combinazione, differente da quella di ognuno dei loro genitori, si suppone corrisponderà agli attributi dei membri della sottosezione dove saranno essi stessi clas sificati. Infatti gli Aborigeni non sono turbati eccessivamente quando le caratteristiche fisiche di un individuo non corrispondono alla norma della sua sottosezione; succede tuttavia, presso i Murinbata della terra di Arnhem, per esempio, che dei bambini siano classificati nella sottosezione che più corrisponde alla loro conformazione quando questa si allontana troppo dalla norma riconosciuta nella sottosezione idonea24• I membri umani di una classe totemica condividono quindi un insieme di proprie tà sostanziali e immateriali che gli sono proprie. Come questo patrimonio comune è connesso alla specie naturale che funziona da totem principale? Nel caso delle piante, e soprattutto degli animali - questi ultimi costituiscono quasi i tre quarti dei nomi di totem recensiti - si dice che il totem incarni in modo esemplare gli attributi specifici di comportamenti, di umore e di aspetto riconosciuto agli umani che rappresenta. Ma c'è di più: in numerosi casi, secondo Brandenstein, «l'animale è nominato secondo la qua lità che è la sua caratteristica principale e non dalla qualità secondo l'animale,/ 5• Così il nome di sezione "padjarri", comune con diverse varianti in Australia occidentale e che significa "malleabile" e "dolce", serve anche a nominare il canguro delle colline che è ge neralmente il totem di questa sezione. Allo stesso modo, presso i Nungar del Sud-Ovest, le metà chiamata maarnetj, che possiamo tradurre con "ricevitore", e waardar, che si gnifica "la sentinella", i due termini servono anche a designare i loro totem rispettivi, cacatua bianca Cacatua tenuirostris e il corvo Corvus coronoides. Detto altrimenti, i nomi di classi totemiche sono termini che denotano proprietà che designano anche l'animale eponimo, e non l'inverso, cioè nomi di taxon zoologici da dove sarebbero desunti attri buti tipici di classe. Diventa allora difficile mantenere per l'Australia l'interpretazione delle classificazioni totemiche proposte in Il Totemismo oggi, cioè l'idea che i totem sa24 Brandenstein, C. G. von, 1982, p. 82. 15 lbid., p. 54.
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Oltre natura e cultura rebbero stati presi nel regno della natura perché le differenze ostentate tra le specie per quanto riguarda l'aspetto e il comportamento fornirebbero un modello suggestivo per concettualizzare la segmentazione dei gruppi umani. Infatti, la prima differenza qui è tra aggregati di attributi comuni a umani e non-umani all'interno di classi designate da termini astratti, non tra specie animali e vegetali suscettibili di fornire naturalmente attraverso le loro discontinuità ostentate una dimensione analogica che serve ad ordinare le discontinuità sociali. Possiamo dubitare che questo "ordine del mondo aborigeno", così come Branden stein denomina il suo modello generale di proprietà totemiche australiane, sia anche perfettamente sistematico e coerente a livello di tutto un continente. Così com'è ci la scia, ciò nondimeno, degli insegnamenti preziosi sulla natura del totemismo in Austra lia. Precisa, grazie a corroborazioni semantiche raffinate, il modus operandi di questa ibri dazione totemica sulla quale Elkin attirava l'attenzione: nei sistemi a classi, l'identità di un gruppo totemico è fondata sulla divisione fra tutti i suoi membri umani e non umani di un insieme specifico di attributi fisici e morali che costituivano una sorta di prototipo ontologico di cui la specie totemica era l'espressione emblematica, non l'archetipo con creto da dove le qualità sarebbero derivate. Questo permette di rimuovere, a proposito dell'Australia, due difficoltà che presentava la teoria classificatoria lévi-straussiana. La prima difficoltà nasce dal fatto che alcuni nomi di totem non designano del le piante o degli animali, ma degli elementi umani (ragazzo, seno, clitoride, cadavere, tosse, prepuzio), degli artefatti (ancora, boomerang, rombo, piroga) o delle meteore o dei fenomeni naturali (nuvola, chicco di grandine, lampo, fiume, marea). Il loro nome non è certamente molto elevato dato che rappresentano appena più del quindici per cento dei nomi nella lista dei 524 totem recensiti da Brandenstein. Benché minoritari, tuttavia devono essere considerati con un'interpretazione generale del totemismo; ora, non è questo che non permette l'ipotesi della trasposizione omologica delle disconti nuità naturali verso le discontinuità sociali dato che, a differenza delle specie animali o vegetali, i referenti di questi totem non si offrono ali'esperienza sensibile come dei siste mi spontanei di discontinuità. Se si ammette, invece, che questi nomi di totem "fuori specie" non sono nient'altro che dei titoli più o meno iconici che denotano una classe di proprietà con la quale essi non intrattengono che un rapporto metonimico, allora la difficoltà sparisce. Quanto alla predominanza degli animali fra i totem, essa risponde probabilmente, come aveva ipotizzato Lévi-Strauss, a ragioni di economia cognitiva, ma differenti da quelle che aveva avanzato: i contrasti di comportamento e di aspetto che gli animali presentano essendo più salienti e più facilmente osservabili, era logico, benché non indispensabile, preferirli ad altre entità alfine di incarnare con una migliore verosi miglianza gruppi di attributi di cui non sono l'origine referenziale. Linterpretazione intellettualistica del totemismo fa inoltre fatica a rendere conto del le sovrapposizioni gerarchizzate di totem e di specie secondarie sussume sotto i totem principali. Questo si nota particolarmente nei sistemi a metà. Per tornare all'esempio della cacatua bianca e del corvo che ricoprono le metà dei Noongar, è al massimo pos sibile ammettere - se si ignora il significato del loro nome - che questi uccelli presen-
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7. Sul totemismo come ontologia cerebbero, per il fatto della loro etologia e della loro morfologia rispettive, un contrasto maggiore il cui pensiero indigeno si sarebbe inserito al fine di simbolizzare la divisione dualistica della società 26 • Ma è veramente indispensabile andare a cercare fra le specie animali uno schema dualistico elementare che qualsiasi altra opposizione - tra il giorno e la notte, il cielo e la terra o il levante e il ponente - avrebbe potuto motivare altrettanto bene? In particolare, perché sarebbe necessario raddoppiare il contrasto, come fanno i Noongar, da una serie di opposizioni minori tra l'aquila e il corvo, la cacatua bianca e la cacatua nera, il pellicano e la coppia airone e l'aquila di mare, il serpente tigre e il serpente bruno, la zanzara e la mosca, la balena e la foca, il canguro maschio e il canguro femmina o il dingo maschio e il dingo femmina? Da un punto di vista strettamente tassonomico, c'è una ridondanza inutile che va a confondere il contrasto iniziale tra la cacatua bianca e il corvo, e rende meno pertinente la sua funzione princeps di matrice di cotomica. È più verosimile supporre che ognuna delle specie secondarie - o ciascuno dei due sessi quando si tratta di una stessa specie - esprime in modo ridotto alcuni attributi della metà che il totem principale meglio illustra. Infatti, per quanto riguarda i membri umani di metà, questi attributi sono molto chiaramente definiti dai Noongar. Le perso ne della metà del "ricevitore" hanno la pelle color cioccolato chiaro, alcuni sono grandi e molto aitanti, altri piccoli e più gracili, ma tutti hanno il viso e gli arti arrotondaci e i capelli ondulati e sono dotati di un temperamento impulsivo e appassionato rimanendo aperto e piacevole; quanto alle persone della metà della "sentinella", queste hanno un colore di pelle più scuro e più spento, sono molto pelosi, la loro stazza è massiccia e tarchiata con piccole mani e piccoli piedi, hanno la reputazione di essere accigliati, ven dicativi e dissimulatori. Tali qualità non derivano dall'osservazione della cacatua bianca o del corvo; esse esprimono, nel!'ordine delle caratteristiche fisiche e morali riconosciute agli umani, dei repertori di proprietà contrastate più astratte che queste due specie em blematiche si dice condividano e incarnino molto meglio che le specie secondarie che esse inglobano. Per impiegare, deviandolo, il linguaggio degli studi contemporanei sulle classificazioni etnobiologiche, diremo che i nostri due uccelli sono dei prototipi, ovvero i "migliori esemplari" delle loro classi rispettive, per ragioni che non sono esclusivamente morfologiche - come sostiene Brent Berlin, per esempio -, ma che contengono anche riferimenti a proprietà che i loro stili di vita, il loro territorio o il loro regime alimentare consentono. I tipi di ibridazione che l'analisi linguistica di Brandenstein mette in luce confer mano così le intuizioni di Elkin e sembrano ben rivelare l'esistenza in Australia di un modo di identificazione fondato sulla continuità interspecifica di fisicità e di interiorità. Lidentità di numerosi componenti della fisicità è garantita quando diciamo che umani e non-umani di diversi tipi condividono insiemi di proprietà tanto materiali quanto com portamentali e che sono mossi nelle loro azioni da umori identici. Infatti, ricordiamolo, il temperamento o il carattere provengono direttamente dalla fisicità così come l'ho definita, si presume che testimonino l'influenza esercitata sui modi di agire da sostanze 26 Brandensrein, C.G. von, 1977.
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Olcre natura e culcura corporali o da disposizioni anatomiche particolari. È anche questo corpus di attributi comuni che definisce principalmente il collettivo totemico, un corpus sintetizzato in un nome di qualità che identifica contemporaneamente la classe e la specie emblematica - e non più "eponima" - che ne esprime l'unità organica. Quanto alla continuità di interiorità, essa non dà adito a dubbi là dove le classi sono associate a luoghi del Sogno, depositi di anime-figlie che si incorporano nei membri umani e non umani del gruppo totemico. È il caso del totemismo di metà patrilineari (in Australia centrale, nel nord di Kimberley e nell'est della terra di Arnhem) e del tote mismo delle sottosezioni quando queste sono ricollegate a centri cultuali (nel Kimberley orientale e fra le tribù Mangarrayi e Yangman). Canima deve qui essere intesa come un principio produttore di identità e di individuazione provenuto dall'insieme di essenze totemiche, che conferiscono ad ognuno di quelli in cui alloggia una sorta di garanzia di conformità al paradigma ontologico eterno che un essere del Sogno un tempo ha istituito. Tuttavia, questa idea di conformità dei membri del gruppo totemico a un tipo ideale è anche presente altrove fra le righe, anche quando non esistono connessioni esplicite tra i totem di classe e i luoghi di anime-figlie. Essa si esprime soprattutto nelle metamorfosi dell'apparentamento, dell'affinità particolare, della filiazione comune an corata ad un'origine identica, e prende un carattere pubblico nell'abitudine di sussumere tutti i membri umani e non umani di un gruppo totemico sotto un nome generico. Sostanzialmente, è la classe stessa, con i suoi attributi fisici e morali, che costituisce qui il vettore e il sintomo dell'interiorità condivisa; infatti, l'appartenenza totemica illustra il fatto che ciascuno dei membri della classe, umano e non umano, possieda le stesse caratteristiche intrinseche che definiscono la sua identità di specie. Lessenza che li de finisce tutti è quindi in parte funzione delle sostanze che hanno in comune, ciò che il vocabolario rivela a volte senza mezzi termini: ricordiamo che il termine ngarlgi, con il quale gli Yanyula designano i totem, connota caratteristiche sia materiali e morali, ma anche "l'essenza identitaria"27• Queste considerazioni invitano a trattare con prudenza l'ipotesi a volte avanzata di un'opposizione netta tra un totemismo patrilineare, che sarebbe fondato sulla sola con divisione di un'identità spirituale che proviene dai luoghi totemici localizzati nel territo rio del padre, e un totemismo matrilineare che sarebbe fondato sulla sola condivisione di un'identità substanziale ereditata dalla madre. Anche alcuni totemismi di classe con giungono, come abbiamo visto, la trasmissione di due tipi di attributi, l'ibridazione to temica sembra si spieghi dappertutto sui due piani simultanei di interiorità e di fisicità, benché secondo modalità variabili. Dato che non è possibile fornirne la dimostrazione per quanto riguarda l'insieme delle società aborigene - ci ricorderemo che esistevano quasi cinquecento lingue al momento della conquista europea -, mi contenterò di una breve illustrazione con due casi etnografici diversi di sistemi a sotto-sezioni, l'uno ca ratterizzato da un totemismo patrilineare di semi-metà, l'altro da un totemismo di tipo "concezionale". 27
Kirton, J. F., e Timothy, N ., I 977.
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7. Sul totemismo come ontologia
Varietà di ibridi Il totemismo dei Mangarrayi e degli Yangman del sud della terra di Arnhem che Francésca Merlan ha studiato presenta la caratteristica di non essere associato alle otto sottosezioni che reggono l'alleanza matrimoniale, ma a quattro semi-metà che raggrup pano ognuna una coppia di sottosezioni designate da un termine che combina i nomi di due sottosezioni interessate28 • Queste semi-metà non hanno quindi niente a che vedere con il matrimonio e costituiscono una forma di segmentazione totemica che ritaglia gruppi più inclusivi dove sono riuniti i membri di due generazioni legate per filiazione patrilineare. Conosciuti con il nome generico di marragwa, i numerosissimi totem di ciascuna semi-metà comprendono piante, animali, fenomeni naturali, figure mitiche e entità astratte; e se gli informatori ai quali si domanda il nome dei loro totem citano sempre per primo un piccolo numero di piante e di animali, non esiste tuttavia, come nelle società a metà, un sistema formalmente gerarchizzato dove dominino totem princi pali che controllano sotto-totem. La griglia quadripartita di totem può essere vista come una classificazione inclusiva di elementi del cosmo, benché non ordinata da un albero tassonomico: tutte le specie di pesce-gatto sono ben affiliate alla stessa semi-metà, per esempio, ma non è così per alcre forme di vita altrettanto tipiche come i serpenti, i pesci o le lucertole, le cui differenti specie sono distribuite tra tutte le semi-metà. Insomma, il principio lévi-scraussiano della concettualizzazione di discontinuità sociali attraverso discontinuità naturali resta qui inoperante ed è quindi verso l'ontogenesi mitica che bisogna ritornare per comprendere le ragioni dei raggruppamenti totemici. Presso i Mangarrayi e gli Yangman, gli esseri del Sogno sono ibridi di umani e ani mali conosciuti con il nome generico di warrwiyan e ripartiti tra le semi-metà. Ognuno di essi porta nel suo luogo persone della sua semi-metà che vi abitano sotto forma di alberi, di rocce o di alcre parti del paesaggio anch'esse chiamate warrwiyan, ma dotate anche di nomi particolari che formano il patrimonio onomastico dei membri umani della semi-metà. Sebbene la loro generazione sia riferita nei miti, gli warrwiyan non confinano le loro attività generative ad un passato trascorso; così un'informatrice di Merlan ha raccontato come la sua anima-figlia sia stata trasportata da una località ad un'alcra dal wirrilmayin, una specie di goanna e uno dei warrwiyan della sua semi-metà. Quali rapporti gli esseri del Sogno warrwiyan intrattengono con i totem di semi-metà marragwa? Gli esseri del Sogno possono essere considerati come realizzazioni singolari di un potenziale creativo perenne, mentre i totem esprimono il legame diretto e conti nuo tra gli umani e le entità del cosmo istituite dagli esseri del Sogno. Ora, come scrive Merlan, è perché gli umani, i totem e tutti gli altri esistenti «furono inseriti nell'ordine sociale-e-naturale dagli esseri del Sogno che esiste fra tutti loro una relazione perenne di origine e di sostanza comuni, regolata da un sistema di categorizzazione (le semi-metà) che gli preesiste e secondo il quale gli esseri del Sogno erano già diffrenziati tra di essi» 29•
28
Merlan, F., 1980. 29 Ibid., pp. 88-89, corsivo mio.
Oltre natura e cultura I racconti mitici non si riferiscono quindi ad uno stato iniziale indifferenziato, ma ad un mondo già diviso in essenze sostanziali che si concretizzano in classi di identità singolari per mezzo degli esseri del Sogno. Misuriamo il contrasto con le mitologie animiste, quelle dell'Amazzonia per esempio. In entrambi i casi, gli esseri dei quali si raccontano le avventure sono proprio misti di umani e di non-umani che vivono in un regime integralmente già culturale e sociale; ma mentre i miti amerindiani descrivono gli avvenimenti slegati che darebbero luogo all'in staurazione di discontinuità tra le specie a partire da un continuum originario - piante e animali si dissociano dagli umani per forma e comportamento mantenendo un'inte riorità comune a tutti -, la mitologia australiana evoca un processo di partenogenesi che si srotola all'interno stesso di classi di ibridi già costituite, processo al termine del quale ognuna di queste classi di esistenti fu popolata da un maggior numero di specie, tra cui varietà di umani, che restavano comunque conformi alle particolarità essenziali e materiali del tipo ontologico proprio alla suddivisione alla quale esse erano addivenute. Torniamo ad oggi con le tribù aranda del deserto centrale. Abbiamo visto che i loro gruppi totemici sono costituiti da tutti gli individui ricollegati ad un luogo di un essere del Sogno per il fatto che vi furono concepiti, cosa che rende il totemismo aranda più in dipendente ancora dalle classi matrimoniali che presso i Mangarrayi e gli Yangman, dato che i membri di una sottosezione possono far valere molte affiliazioni totemiche distinte. Queste dipendono dalle peregrinazioni casuali delle madri e del loro soggiorno in tale o tal'altro serbatoio di anime di un essere del Sogno, una di queste anime si introduce nella donna per divenirvi il principio esistenziale e categoriale del bambino che nascerà. Ciò nonostante è vero che la residenza è abbastanza stabile: le persone di una stessa località frequentano in generale lo stesso luogo totemico dove si svolgono delle cerimonie pe riodiche, in modo che ci siano buone possibilità perché, essendovisi le loro madri recate regolarmente, i bambini della stessa sottosezione abbiano così il nome del totem. Ma in questo non vi è niente di sistematico, in ragione soprattutto dei viaggi che portano a visitare dei luoghi totemici differenti, e un gruppo di coresidenti può benissimo essere composto da individui che si identificano con dei totem distinti. Come è concepita questa identificazione? Spencer e Gillen insistono sul fatto che ciò che chiamano la "reincarnazione" di un essere del Sogno in un umano termina in un'identità completa tra lui e lo spazio totemico del luogo: «Ogni uomo considera il suo totem [ ... ] come fosse la stessa cosa di se stesso» 30 • A prima vista, si tratta quindi di un'identificazione allo stesso tempo con un principio generatore, con una classe di en tità totemiche e con un animale o una pianta che simbolizzano tale classe. È questo che illustra un aneddoto che mette in scena un uomo del totem canguro che, contemplando una foto di se stesso, dichiarava riferendosi all'immagine: «Esso è esattamente identico a me; proprio come è un canguro» 31 • Tuttavia, questa identità perfetta poneva un pro blema a Spencer e Gillen dato che condividevano comunque la concezione frazeriana 30Spencer, W.B., e Gillen, F.J., 1899, p. 202. 31 Ibid.
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del totemismo, innanzitutto inteso come relazione speciale di protezione e di rispetto reciproco tra gli umani e le specie totemiche dai quali si ritenga discendano. Ora, non c'è alcun rispetto reciproco o protezione presso gli Aranda dato che lì non è interdetta l'uccisione del proprio totem, anche se è raccomandato di mangiarne con parsimonia. Inoltre, i racconti mitici e le favole fanno capire che un tempo si usava alimentarsi soprattutto del proprio totem. I.:animale o la pianta totemica non sono quindi trattati come dei simili ai quali è inconveniente fare un torto, senza contare che i gruppi totemi ci hanno soprattutto come prerogative cerimoniali di procedere a riti, detti intichiuma, durante i quali moltiplicano il numero degli individui della loro specie totemica in modo che gli altri gruppi totemici possano prelevarli per il proprio consumo. Come si può mettere in relazione di identificazione profonda un umano e un non-umano e allo stesso tempo ammettere che il primo sia attore o complice della distruzione del secondo? La risposta a questa domanda appare solo accennata negli scudi di Spencer e Gillen sugli Aranda. Notiamo innanzi tutto che le anime-figlie lasciate nei luoghi dagli esseri del Sogno sono in linea di principio differenziate: alcune si concretizzano negli umani, altre nella specie animale o vegetale che l'essere del Sogno ha potuto prendere ad un cer to punto come personificazione. Gli esseri del Sogno non sono quindi piante o animali che si trasformano in umani, o umani che si metamorfizzano in piante o in animali, ma delle origini ibride e originali, delle ipostasi concrete di proprietà fisiche e morali che da allora in poi possono trasmettere questi attributi a entità rese uniche dalla loro forma, ma di cui ognuna si ritiene rappresentante legittimo del prototipo dal quale proviene. Un esemplare qualsiasi della mia specie totemica non è per me un'individualità con la quale intratterrei un rapporto da persona a persona - come è il caso di un'ontologia animista; costituisce un'espressione vivente e congiunturale di alcune qualità materiali e essenziali che condivido con esso, qualità che non sarebbero colpite anche se lo uccidessi per mangiarlo, visto che rimandano ad una matrice immutabile della quale siamo en trambi l'emanazione. Lontano dal comprendersi reciprocamente come soggetti coinvolti in un commercio sociale, umani e non-umani non sono che materializzazioni uniche di classi di proprietà che trascendono le loro esistenze specifiche. Tutto ciò è confermato da Marika Moisseeff nel suo studio sintetico dei materiali aranda. Sottolineando ''l'ibridità costituzionale" degli esseri del Sogno, ricorda che que sta di fatto è intrinseca ad ogni esistente, almeno se diamo credito ai miti di ontogene si32. Alcuni miti di origine, diversi dai racconti che narrano delle peregrinazioni degli esseri del Sogno, evocano infatti un periodo antecedente dove la Terra era senza vita salvo masse semi-embrionali prodotte dalla trasformazione incompiuta in esseri umani di varie piante e animali amalgamati insieme a centinaia. Chiamati inapatua (''esse ri incompleti"), tali conglomerati non potevano né muoversi, né vedere, né respirare. Sorsero allora altri esseri detti numbakulla ("venuti dal nulla"), completamente diversi dagli esseri del Sogno, che furono ali'origine della volta celeste, del sole, delle stelle e dei corsi d'acqua. Due fra questi iniziarono così a segmentare gli inapatua con dei coltelli 32 Moisseeff, M., 1995, p. 30.
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Oltre natura e cultura di pietra, ad estrarvi delle bozze di forme umane ed iniziarono a modellarli. Come scri ve Moisseeff, «una volta individuato nell'ammasso comune, l'essere umano è associato ali'elemento non umano, vegetale o animale, dal quale è stato originariamente scisso. Questo elemento [...] sarà il suo totem» 33• Poiché gli umani sono stati ritagliati da un materiale composito, la loro singolarità morfologica si accompagna ad un'inevitabile ibridità sostanziale che ricorda la loro associazione totemica alla pianta o all'animale dal quale sono stati dissociati; ed è per questo che la loro identificazione con non-umani specifici si declina in un doppio registro, quello della materia comune dalla quale pro vengono e quello del!' essenza degli esseri del Sogno, anch'essi ibridi, che si è incorporata in essi.
Ritorno ai totem algonchini La formula ontologica del totemismo così come l'ho appena illustrata è un caso esemplare in Australia, anche se non è presente ovunque con la stessa chiarezza. Da nessun'altra parte, infatti, si trova un insieme di popolazioni tanto vasto che ha svilup pato in modo tanto sistematico, esplicito e omogeneo l'idea che esista una continuità morale e fisica tra gruppi di umani e gruppi di non-umani. Ora, incontriamo sugli altri continenti - e nella stessa Europa in forma attenuata - istituzioni che possiamo ugual mente qualificare come totemistiche nel senso tradizionale del termine, nella misura in cui si usano nomi di specie o di fenomeni naturali per indicare segmenti sociali chia ramente delimitati. Nella maggior parte di questi casi, l'interpretazione lévi-straussiana per omologia delle distanze differenziali può applicarsi legittimamente, senza che sia per questo necessario far intervenire una distinzione sostantiva tra la natura e la cultura: le discontinuità tra le specie costituiscono proprio un fenomeno facilmente osservabile e quindi un'origine sempre disponibile dove procurarsi una collezione di etichette che permettono di individuare dei gruppi umani distintivi. Contrariamente all'Australia, questo dispositivo classificatorio possiede molto spesso un aspetto puramente denotati vo e non implica in alcun modo che tra umani e le loro specie eponime siano riconosciu te continuità materiali o spirituali. Il mio uso del termine "totemismo" per caratterizzare l'ontologia specifica di cui l'Australia è modello può quindi prestarsi ad ambiguità, dato che aggiunge un nuovo senso a quello che era comunemente ammesso dopo le analisi di Lévi-Strauss in Il Totemismo oggi. È per cercare di ovviare a questa difficoltà e per meglio sottolineare così le specificità del totemismo australiano, che gli specialisti di questo continente hanno avuto la tendenza dopo qualche anno a sostituire la parola "Sogno" alla parola "totem", conseguenza inevitabile è che riducevano così l'ambito del concetto, ormai confinato ad un'area etnografica specifica, sebbene vasta. Tali trucchi semantici non mi sembrano auspicabili perché, se la formula australiana del totemismo è di sicuro notevole per la sua coerenza e il suo grado di elaborazione, non
j3
Ibid., pp. 43-44.
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7. Sul totemismo come ontologia
ha niente di unico. Bisogna piuttosto considerarla come l'espressione sotto una forma particolarmente purificata di uno schema o�tologico più generale del quale possiamo tro vare altrove realizzazioni singole o residue. E il caso, per esempio, di alcune società a clan totemici del sud-est degli Stati Uniti che Lévi-Strauss considera come ibridi tra sistemi totemici e sistemi a caste, presso le quali le suddivisioni interne erano accentuate attraver so un repertorio differenziale di tratti fisici, morali e funzionali che si presume derivino da quelli delle specie eponime34 . Così i Chickasaw attribuivano a ogni clan esogamico, ovvero a ogni frazione, delle nette particolarità nel comportamento, abitudini alimentari, usanze, temperamento, modi di sussistenza, attitudini fisiche: delle persone del puma, si dice che abbiano un'avversione per l'acqua, che vivano sulle montagne e che si alimentino soprattutto di selvaggina; delle persone del gatto selvatico, che dormano durante il giorno e caccino la notte grazie alla loro vista acuta; delle persone della volpe rossa, che vivano di rapine nel cuore della foresta e siano innamorati dell'indipendenza; delle persone dell'or setto lavatore, che si nutrano di pesci e di frutti selvatici, ecc35• Certo, non si tratta, come in Australia, di un'identificazione di ogni membro umano e non umano di una classe totemica nelle proprietà di un prototipo ideale di cui la specie eponima non sarebbe che una materializzazione più saliente rispetto ad altre. In modo più classico, gli animali e i loro stili di vita costituiscono qui dei paradigmi concreti per gli umani, i quali si ritiene discendano dalla specie da cui prendono il loro nome cianico. Lispirazione generale del modo di identificazione totemica è tuttavia nondimeno conservata dato che ogni gruppo di umani condivide con un gruppo di non-umani un insieme di disposizioni fisiche e psichiche che lo distinguono dagli altri in quanto classe ontologica. Ricordiamo anche che i modi di identificazione sono modi di schematizzare l'espe rienza che prevalgono in alcune situazioni storiche, non sintesi empiriche di istituzioni e di credenze. Ciascuna di queste matrici generative che struttura la pratica e la percezione del mondo predomina certamente in un periodo e in un luogo, ma non esclusivamente; l'animismo, il totemismo, l'analogismo o il naturalismo possono infatti accontentarsi della presenza discreta di altre modalità in forma di bozza poiché ognuno fra di essi è la realizzazione possibile di una combinazione elementare di cui gli elementi sono uni versalmente presenti. Ciascuno è quindi in grado di apportare sfumature e modifiche ali'espressione dello schema localmente dominante, generando così numerose variazioni idiosincratiche che di solito chiamiamo differenze culturali. Questo è proprio ciò che succede con il totemismo così come lo ho definito a partire dalle testimonianze australiane. Non darò che un esempio che ci porterà alla patria di origine del totemismo, cioè l'area settentrionale dell'America del Nord. È infatti nelle memorie di John Long, un negoziante di pellicce che operava alla fine del XVIII secolo fra gli Indiani Ojibwa del nord dei Grandi Laghi, che i termini totam e totamism appaiono per la prima volta36• Ora, come parecchi autori hanno sottolineato, questa nascita sembra
31o Lévi-Srrauss, Cl., 1962, pp. 156-159. 35 Swanton, J. R., 1928. 36 Long, J., 1904 (1791).
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Oltre natura e cultura messa subito in confusione dato che Long menziona il termine totam nel contesto di un aneddoto dove uno dei suoi compagni ojibwa impiega questa parola riferendosi a un orso e sembra che indichi l'orso come il suo spirito guardiano personale, non l'animale epo nimo del suo clan. Bisogna precisare che gli uomini ojibwa, come la maggior parte degli Algochini settentrionali, avevano l'usanza di stabilire una relazione individuale con entità benevolenti e protettrici, chiamate da Hallowell pawagdnak, le quali si manifestavano so prattutto nei sogni, ma che si potevano anche incontrare da svegli sotto forma animale37 • Peraltro, e a differenza da altre tribù di lingua algonchina che vivono più al nord, gli Oji bwa dei Grandi Laghi erano organizzati in clan patrilineari nominati con nomi di animali (orsi, gru, strolaga, alce, ecc.); l'appartenenza a queste suddivisioni sociali era denotata da costruzioni possessive formate a partire dalla radice -dodem che esprime una relazione di parentela o di coresidenza: per esempio, ododeman, "mio cugino di primo grado (di en trambi i sessi)", o makwa nindodem, "l'orso è il mio clan". Fu quindi ammesso che Long avesse commesso un errore chiamando totam - termine riservato ad affiliazioni sociali collettive - ciò che era in realtà uno spirito animale individuale di tipo pawagdnak. Per evitare questa confusione, gli antropologi presero in seguito l'abitudine dalla seconda metà del XIX secolo di distinguere tra il totemismo propriamente detto, cioè i differenti tipi di associazione tra i gruppi sociali e le loro specie eponime, e il totemismo chiamato "individuale", cioè la relazione di una persona con un'entità che abbia una forma animale o vegetale; le due forme potevano a volte coesistere come è il caso degli Ojibwa. La domanda era rimasta tale e quale fino a che Raymod Fogelson e Robert Bright man si impegnarono a risolvere i dubbi sulla realtà della confusione imputata a Long38• Precisiamo dapprima che quest'ultimo era un buon conoscitore degli Ojibwa, che aveva passato molte stagioni invernali con delle bande e che parlava correntemente una for ma semplificata di ojibwa in uso nella tratta delle pellicce. Inoltre, Long non ignorava affatto l'esistenza del totemismo collettivo: all'inizio del suo libro, per esempio, evoca il fatto che ognuna delle cinque "nazioni" della lega degli Irochesi era divisa in tre tribù o famiglie che portavano rispettivamente il nome di Tartaruga, Orso e Lupo; sembra quindi dubbio che non abbia potuto rendersi conto che gli Ojibwa, che conosceva bene, possedessero anche dei clan chiamati come degli animali39• Infine, Long non era il solo ad aver commesso questo sedicente errore. Mezzo secolo prima di lui, un missionario gesuita celebre per le sue descrizioni etnografiche, padre Smet, menziona un uso iden tico della parola "totem" ( che scrive "dodeme") presso i Potawatomi, tribù di lingua algonchina vicina degli Ojibwa, nel sud: il termine fa riferimento a un animale che si presenta in sogno ad un giovane per divenire il suo spirito guardiano, associazione di natura intima dato che implica l'adozione del nome dell'animale come nome personale e l'impegno ad indossare permanentemente un emblema distintivo - una zampa, una piuma o una coda - che evocano l'animale per metonimia40 • 37 Hallowell, A.I., 1981 (1960), p. 369. 38 Fogelson, R.D., e Brighrman, R. A., 2002. 39 Long. J., 1904 (1791), p. 1O. 4°Ciraro da Fogelson, R.D., e Brighcman, R.A., p. 5.
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7. Sul totemismo come ontologia
Questi due eventi indipendenti dalla parola "totem"in situazioni ritenute differenti q da uelle del suo uso ordinario, e dalla penna di osservatori che niente permette di squalificare, incitano a esaminare più nel dettaglio la semantica del termine nelle lin gue algonchine. Nel protoalgonchino, /*o.te.I è una radice verbale che si può tradurre con "abitare insieme come un collettivo" e da dove possono essere derivati dei nomi, generalmente impiegati nella forma possessiva, /*oto.t.e.ma/, "il coresidente di qualcu no". Considerando una trentina di usi di questa radice nelle lingue nord-algonchine e i diversi dialetti ojibwa, Fogelson e Brightman concludono che i termini e le espressioni dove essa figura, fanno sempre riferimento a un legame sociale, generalmente localizzato e spesso caratterizzato da una parentela. In ojibwa, per esempio, /-do.de.ml designa sia il clan patrilineare che il suo animale eponimo, e /odo.de.man/ esprime la parentela tra un individuo e suo cugino di primo grado di uno dei due sessi, e il suo uso può abbracciare tutti i membri della parentela di Ego; presso i Woods Cree, /nito.ti.ml significa "mio parente" o "mio amico"; presso i Penobscot, /-tottem/ può essere tradotto con "amico", proprio come /-tuttem/ in micmac; presso i Fox, infine, William Jones dà a loto.te.ma/ il senso di "suo fratello (maggiore)", "il suo animale eponimo del clan" e "il suo donatore di potere soprannaturale"41• Come si vede, in quest'ultimo caso il termine è impiegato indifferentemente per significare un rapporto di parentela, un'associazione totemica e un legame con lo spirito animale individuale; questo non deve sorprendere dato che tutte le varianti considerate nelle altre lingue algonchine denotano una relazione personale che sia di parentela, di coresidenza o di amicizia. Torniamo ora a Long. La parola totam che ha definito con un lungo commento pro viene da una confidenza che gli fa uno dei suoi compagni amerindiani e che Long riporta integralmente in ojibwa: l'uomo dice che il suo spirito guardiano, un orso che chiama nin, O totam, è furioso con lui perché ha ucciso un suo simile, e teme perciò di non essere più capace di cacciare. Lespressione nin, O totam è probabilmente una trascrizione appros simativa di /nindo.de.m/, cioè "mio parente", "mio amico", impiegato qui nel suo senso generico di una relazione di conoscenza e di intimità tra persone che frequentano gli stessi luoghi, cosa che corrisponde abbastanza bene al tipo di legami esistenti fra un uomo e il suo animale protettore individuale. Detto in altro modo, Long ha certamente commesso la pecca di decontestualizzare il termine totam sostantivatizzandolo , ma non si è sbagliato nel riportare l'uso di questo termine polisemico in un contesto apparentemente insolito; al contrario bisogna pensare che gli Ojibwa, o i Potawatomi descritti da padre Smet, non erano così rigorosi come lo furono in seguito gli antropologi quando si trattò di distingue re tra ciò che questi ultimi chiamano il totemismo sociologico e il totemismo individuale. Come dimostra l'esempio di Fox, non è del tutto incongruo impiegare la stessa parola, alternativamente e secondo le situazioni pragmatiche di enunciazione, per fare riferimento a un simile cianico, all'animale eponimo del suo clan e al suo spirito animale individuale. Tale polivalenza semantica può essere considerata come un'indicazione del fatto che il complesso totemico e il complesso degli spiriti guardiani non fossero dissociati così 41 Jones, W., "Algonquian (Fox)" in Handbook of American lndian Languages, citato
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ibid.,
p. 7.
Oltre natura e cultura come pretendevamo? A prima vista, i due registri del rapporto all'animale sono quindi molto differenziati. Come ho già avuto occasione di dimostrare in più momenti, gli Ojibwa, e più in generale gli Algonchini del Nord, provengono indubbiamente da un modo di identificazione animista per il fatto che attribuiscono a dei non-umani, con cepiti come persone, un'interiorità della loro stessa natura. Quanto ai gruppi totemici, essi non testimoniano la continuità fisica e spirituale tra uomini e specie eponime come prevale in Australia o in alcune tribù del sud-est degli Stati Uniti; sembra semmai che i gruppi totemici obbediscano al meccanismo messo in luce da Lévi-Strauss della relazio ne metamorfica, non quella motivata sul piano interno, tra due serie di discontinuità; del resto, questo genere di segmentazione è lontano dal!'essere generalizzato, essendo i gruppi ojibwa più settentrionali sprovvisti di clan totemici. Tuttavia, i due sistemi rispondono a logiche distinte - una propriamente ontologica, l'altra di tipo classificatorio-, tuttavia per niente eterogenee. Infatti se lo spirito guardiano prende proprio l'aspetto di un animale individuato, è anche un emissario della specie e come suo rappresentante presso l'uomo al quale presta la sua assistenza, soprattutto faci litandone la caccia dei suoi simili: la relazione tipicamente animista di persona umana a persona animale si raddoppia così in un rapporto privilegiato tra persona umana e specie animale che prende un'evidente colorazione totemica, soprattutto quando questo rapporto è prefigurato dal fatto che un uomo riceve alla sua nascita il nome di una specie animale di cui diverrà il "gemello onomastico" (nijotokanuk), come è il caso presso gli Ojibwa di Big Trout Lake, che non hanno, del resto, clan totemici42 • Allo stesso modo, l'associazione totemica puramente denotativa tra un clan e una specie animale può subire l'inflessione di una relazione animista quando un uomo acquisisce come spirito guardiano individuale un animale eponimo del suo clan: questo diventa allora per lui più e altra cosa che lo riferiscono ad un nome collettivo; la specie fornisce il termine di un'identificazione intima a una classe di non-umani ormai personalizzati. Detto questo, è vero che questi fenomeni di identifica zione con una specie restano individuali e non prendono la forma australiana classica di una comunità di attributi materiali e spirituali condivisi da insiemi di umani e di non-umani. Tuttavia lo sbocco di una continuità realmente collettiva tra umani e animali esiste davvero presso gli Algonchini settentrionali, ma in una società sprovvista di gruppi di filiazione. I Penobscot del Maine possiedono infatti ciò che Frank Speck ha chiamato totem di selvaggina; sui ventidue gruppi locali di cui erano composti alla fine del XIX secolo, tredici erano chiamati con una specie animale ritenuta più popolosa nel territorio di caccia invernale della banda che aveva adottato il suo nome: castoro, lontra, anguilla, granchio, astice, storione, lupo, scoiattolo, ghiottone, gatto selvatico, pesce persico gial lo, orsetto lavatore e lepre43 • L'identificazione tra il gruppo locale e la sua specie eponima si basa sul fatto che i membri della banda cacciano e pescano innanzi tutto l'animale del quale portano il nome, sia per il proprio consumo, sia per il commercio, e che quindi ne dipendono strettamente per la loro sussistenza e, a volte, per la loro sopravvivenza.
42 Désveaux, E., 1988, p. 282. 43Speck, F. G., 1917.
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7. Sul totemismo come ontologia
Tale specializzazione collettiva non risulta forse solamente dalle costrizioni tecniche dell'adattamento alla distribuzione differenziale, del resto del tutto relativa, delle specie secondo gli habitat. Speck stabilisce infatti un parallelo tra i Penobscot e i Cree Mistassini nei loro rapporti con la selvaggina, facendo notare che i "totem" di banda nel primo caso e gli spiriti guardiani nel secondo erano sempre gli animali cacciati preferenzialmente. Ora, i Cree consideravano le specie animali come i proprietari legittimi dei percorsi di caccia di cui esse concedevano agli umani l'usufrutto e non è impossibile che sia stato lo stesso per i Penobscot; in quel caso la specie eponima avrebbe non solamente prestato il suo nome alla banda, ma anche l'uso del proprio territorio, cioè la facoltà di andare ad attingere, giorno dopo giorno, il materiale per l'esistenza degli umani. Le denominazio ni totemiche non erano fondate qui su una corrispondenza arbitraria tra discontinuità naturali e discontinuità sociali, ma su una relazione sostanziale di dipendenza consentita da gruppi umani di fronte a gruppi non umani che hanno impresso il segno della loro identità sui luoghi. Tale situazione ricorda alcuni aspetti del totemismo australiano e mostra abbastanza che il totemismo, nel senso che gli ho dato, può essere rappresentato in un modo minore o appena abbozzato in ontologie animiste, anche quando, per man canza di gruppi segmentati per filiazione, non esistono delle reali istituzioni totemiche.
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8 LE CERTEZZE DEL NATURALISMO
Se ammettiamo che l'identificazione sia una modalità fondamentale della schematizza zione dell'esperienza, allora bisogna supporre anche che le forme che essa riveste si orga nizzino secondo rapporti sistematici che permettono di chiarire contemporaneamente sia le proprietà delle parti costitutive sia quelle della totalità che risulta dalla loro com binazione. Nella misura in cui l'animismo e il totemismo differiscono l'uno dall'altro senza contrapporsi termine a termine, le due altre formule ontologiche che completano lo schema di identificazione devono quindi possedere caratteristiche strutturali che le rendono compatibili con le prime due, in modo che la coerenza dell'insieme sia assi curata da semplici regole di trasformazione. Da questo punto di vista, la controparte dell'animismo non è il totemismo, come in altre occasioni avevo ipotizzato, bensì il naturalismo. Infatti questo schema inverte la formula dell'animismo, da una parte arti colando una discontinuità di interiorità e una continuità di fisicità, dall'altra inverten done il senso della loro inclusione gerarchica, poiché le leggi universali della materia e della vita servono al naturalismo come paradigma per concettualizzare il luogo e il ruolo assegnati alla diversità delle espressioni culturali dell'umanità. Avendo individuato nei lavori precedenti il naturalismo come la semplice credenza nell'evidenza della natura, non avevo fatto altro che seguire una definizione positiva che risale ai Greci, secondo la quale alcune cose devono la loro esistenza e il loro sviluppo ad un principio estraneo tanto al caso quanto agli effetti della volontà umana, principio che la nostra tradizione filosofica ha successivamente qualificato con i termini di physis e di natura, e nelle lingue europee con le parole derivate da queste 1 • Questa definizione si riduce ad una costatazione che resta così prigioniera di una genealogia concettuale in terna alla cosmologia occidentale, perdendo così il beneficio dell'uso di tratti contrastivi
1
Descola, Ph., 1996, p. 88.
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Oltre natura e cultura ancorati più ad una comparazione sistematica che l'animismo poteva fornire che ad una situazione storica. Inoltre, commentando la mia distinzione rimasta incompleta tra na turalismo e animismo, Viveiros de Castro ha avuto ragione nel sottolineare che l'oppo sizione fondamentale tra questi due modi di identificazione si basava essenzialmente su un'inversione simmetrica: l'animismo è, secondo lui, "multinaturalista" poiché fondato sull'eterogeneità corporale di classi di esistenti anche se dotate di uno spirito e di una cultura identiche, mentre il naturalismo è "multiculturalista" poiché basa sul postulato dell'unicità della natura il riconoscimento della diversità delle manifestazioni individuali e collettive della soggettività2• Potremmo discutere sull'impiego del termine "multinatu ralismo" in tale contesto, poiché le nature molteplici dell'animismo non possiedono gli stessi attributi della natura unica del naturalismo: le prime richiamano piuttosto l'antico senso aristotelico di un principio di individuazione degli esseri, umani compresi, mentre la seconda, nel suo aspetto singolare, fa direttamente riferimento a questo dominio on tologico muto e impersonale i cui contorni furono tracciati definitivamente con la rivo luzione meccanicistica. Comunque anche se è preferibile formulare questa opposizione in termini più neutri, essa non è per questo meno rilevante. Che l'ontologia moderna sia naturalistica e che il naturalismo sia definibile come una continuità della fisicità delle entità del mondo e una discontinuità delle loro interiorità, questo a dire il vero sembra già così ben stabilito dalla storia delle scienze e della filosofia che non è necessario addurre ulteriori giustificazioni circostanziate, tanto più che la ge nesi di questa grande divisione è già stata trattata nel terzo capitolo. Riassumiamo quindi brevemente. Ciò che differenzia gli umani dai non-umani per noi , è certo la coscienza riflessiva, la soggettività, il potere di dare significato, la padronanza dei simboli e del linguaggio con il quale queste facoltà si esprimono, ma anche il fatto che si ritiene che i gruppi umani si distinguano gli uni dagli altri per il loro modo particolare di fare uso di queste attitudini in virtù di una sorta di disposizione interna che abbiamo a lungo chia mato "spirito del popolo" e che ora preferiamo chiamare "cultura". Infatti non c'è bisogno di professare un relativismo intransigente per ammettere secondo il senso comune che in materia di costumi e di stili di vita gli usi variano secondo le convenzioni arbitrarie e i regimi di significato con i quali gli umani amano individualizzarsi collettivamente a dispetto della loro identità di specie. In seguito a Cartesio, invece, e soprattutto dopo Darwin, non esitiamo a riconoscere che la componente fisica della nostra umanità ci situa in un continuum materiale all'interno del quale non appariamo come singolarità molto più significative di un qualsiasi altro essere organizzato. Certo, non condividiamo più con gli animali una struttura di molle e soffietti come gli automi di Vaucanson3, poiché 'Viveiros de Castro, E., 1996, p. 116. 'Jacques de Vaucanson (Grenoble, 1709 - Parigi, 1782) è staro un inventore e meccanico francese. Inventore del primo telaio automatico. Tra i suoi congegni mise a punto elementi meccanici che sono tut tora utilizzati per le macchine utensili. Vaucanson è inoltre famoso per aver costruito alcuni automi, tra i quali un piccolo flautista completamente automatizzato dorato di labbra mobili, una lingua meccanica che fungeva da valvola per il flusso dell'aria e dita mobili le cui punte in pelle aprivano e chiudevano i registri del flauto (n.d.t.).
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8. Le certezze del naturalismo sappiamo ormai che è la struttura molecolare e il metabolismo ereditati dalla nostra filogenia che senza dubbio ci ricollegano agli organismi più umili, e ricollegano le leggi della termodinamica e della chimica agli oggetti non viventi. Come scoprirono Bouvard e Pécuchet con una piccola umiliazione, bisogna abituarsi all'idea che i nostri corpi contengono «del fosforo come i fiammiferi, dell'albumina come i bianchi dell'uovo, del gas idrogeno come i lampioni». Quanto alla coscienza, termine del quale Cartesio rende popolare l'uso nella lingua francese, essa continua a prosperare come segno emblematico dell'umanità, anche se la filosofia oggi preferisce sostituirlo con il concetto di una "teoria dello spirito". A differenza degli altri modi di identificazione, è quindi qui superfluo entrare in det taglio sulle ripartizioni ontologiche che il naturalismo opera tanto queste sono familiari al lettore tipo che mi immagino per questo libro, se non comunque apprese in modo riflessivo. Per ciò che riguarda i principi generali della nostra cosmologia condivisa, non è tanto una mancanza di informazione che eventualmente bisogna colmare, così come mi sono concentrato a fare per l'animismo e il totemismo, ma è piuttosto una conoscen za sovrabbondante che è opportuno depurare per ritrovare le linee direttrici. Infatti il naturalismo si è costituito in un clima di discussioni critiche e di prove empiriche che gli danno la caratteristica originale di nascondere senza sosta punti di vista eterodossi che rimettono in questione le distinzioni che egli traccia fra la singolarità dell'interiorità umana e l'universalità delle determinazioni materiali attribuite agli esistenti. Se il corpo dottrinale della nostra ontologia non reclama l'esame approfondito che i modi di iden tificazione più esotici richiedono - almeno nel contesto degli obiettivi che ho fissato in quest'opera - , è invece indispensabile valutare la sua pretesa di egemonia verso formu lazioni alternative nate dallo stesso crogiolo storico, e che sembrano spogliarlo della sua robusta semplicità ricusando il sistema di opposizioni sul quale si appoggia.
Una umanità irriducibile? Prima di tutto, si deve constatare che nel corso degli ultimi secoli molti spiriti ribelli si sono battuti contro il privilegio ontologico accordato all'umanità, mettendo in causa prima di tutto la frontiera da sempre instabile con la quale tentiamo di distinguerci dagli animali. Fra questi critici dell'attribuzione all'uomo di una singolarità assoluta in funzione delle sue facoltà interne, Montaigne è senza dubbio il più celebre e il più elo quente nella sua requisitoria contro la nostra presunzione verso le altre creature. Come ha fatto notare Bayle, !"'Apologia di Raymon Sebonde" è in parte quella delle bestie dato che Montaigne vi contesta che l'uso della ragione sia l'appannaggio dell'uomo, argomentando sulla base delle sue osservazioni e sulla testimonianza degli Anziani che, né per il loro comportamento, né per le loro abilità tecniche, né per la loro attitudine ad apprendere, e neanche per i loro "discorsi" - inteso qui come facoltà di ragionare -, gli animali non si differenziano da noi. Proprio come noi, si sanno liberare dalla servitù dell'istinto, inoltre «non c'è ragione di ritenere che le bestie facciano per inclinazione naturale e forzata le stesse cose che noi facciamo per nostra scelta e per arte. Da effetti
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simili dobbiamo indurre facoltà simili, e riconoscere di conseguenza che quello stesso ra ziocinio, quello stesso ordine che noi seguiamo nell'agire è anche quello degli animali» 4 . Contrariamente a filosofi come Cartesio, Locke o Leibniz che, dopo Montaigne e spesso contro di lui, affermano che le frasi pronunciate dagli uccelli parlanti non costituiscono affatto un indice della loro umanità, dato che questi animali non saprebbero collegare le sensazioni che ricevono dagli oggetti esterni ai segnali che emettono, l'autore dei Saggi è convinto che la facilità con la quale i merli, i corvi o i pappagalli riproducono il linguaggio umano testimonia «che hanno un discorso all'interno, che li rende così disci plinabili e volenterosi di apprendere» 5• Proprio come gli etnologi contemporanei, infine, è colpito dalla capacità di risolvere i problemi che gli animali manifestano nelle loro operazioni tecniche: «perché il ragno ispessisce la sua tela in un punto e l'allarga in un altro? Perché si serve ora di questo tipo di nodo, ora di quello, se non ha facoltà di scelta, di pensiero e capacità di concludere?» 6 • Non ha molto senso quindi perpetuare l'idea di una supremazia intellettuale e morale degli umani sugli animali poiché gli uni e gli altri sono sottomessi a limiti naturali identici, e i secondi del resto vi si adattano piuttosto bene perché organizzano il loro piccolo mondo con meno insensatezza e pregiudizi che i primi. Insomma, la saggezza ci obbliga a costatare che «non siamo né al di sopra, né al di sotto del resto [ ... ]. C'è qualche differenza, ci sono degli ordini e dei gradi; ma tutto sotto la facciata di una stessa natura,/. Conveniamo quindi che Montaigne è un caso eccezionale sotto più aspetti e che i suoi giudizi sulle bestie, ancora prima che Cartesio li contestasse, non erano molto con divisi dall'opinione comune della sua epoca. Nello stesso decennio nel quale appaiono i Saggi, un autore adesso dimenticato pubblica una difesa e una illustrazione dell'antropo logia biblica che fu molte volte ristampata nel corso della sua vita, fatto che lascia pensa re che abbia esercitato un'influenza significativa. Nella sua Continuazione dell'Accademia francese, nella quale si tratta dell'uomo... , Pierre de la Primaudaye prende in contropiede le argomentazioni di Montaigne riaffermando la condizione dell'uomo nella Creazione come definito dall'opposizione di maceria e spirico8 • Del resto, l'avversario di questo antico consigliere di Enrico III non è canto Montaigne quanto i buoni spiriti "ateisti" della Corte che si appoggiano a Epicuro e calpestano i misteri della fede brandendo il martello della ragione. Benché l'argomentazione di la Primaudaye quanto a preminenza dell'uomo si appoggi essenzialmente sull'esegesi biblica, essa offre una buona sintesi
4 Montaigne M., 1950 (I 580), libro II, cap. XII, pp. 506-507; l'osservazione di Bayle, formulata del suo Dictionnaire historique et littéraire, è segnalata da Gossiaux, P.-P., 1995, p. 191. Nella traduzione italiana: M. de Monraigne, Classici della letteratura europea, Bompiani, Milano, 2012. 5 Montaigne M., 1950 (1580), ibid., p. 511. 6 Ibid., p. 501. 7 Ibid., p. 506. 8
Pierre de la Primaudaye, Suite de l'Académie française en laquelle il est traité de l'homme ..., terza edizione, dall'autore, Parigi, presso G. Chaudière, 1588, opera esumata da Pol-P. Gossiaux che ne ha pub blicato degli estratti (1995, pp. 112-117); è a questa fonte che mi sono appoggiato per le mie referenze.
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8. Le certezze del naturalismo dell'ortodossia ammessa in materia all'alba dell'età classica. La giustificazione attraverso la Genesi non potrebbe essere più attuale: se l'uomo, e solo lui, è capace di intelligenza e ragione, è perché Dio lo ha creato per ultimo a sua immagine in un'opera che non aveva ancora una sua analoga e affinché le sue facoltà gli permettano di conoscere e glorificare il suo creatore, uno statuto di eccezione che costituisce «la vera differenza che c'è tra lui e gli altri animali, che non sono che bestie brute»9 • La Primaudaye tuttavia aggiunge all'autorità delle Scritture un abbozzo di ontologia il cui dettaglio è più interessante per il nostro proposito. Vi separa le creature spirituali, come gli angeli, dalle creature corporali, prendendo cura di precisare per queste ultime che sono tutte, umani compresi, legati da una continuità fisica, poiché «la composizione del corpo dell'uomo è di quattro elementi, e di tutte le qualità di quelli, come di tutti gli altri corpi di tutte le creature che sono sotto il cielo»10• È nel fatto di possedere o meno la vita, e soprattutto nella natura delle loro anime rispettive, che risiede la vera differenza tra le creature corporali. Fra gli esseri viventi, bisogna infatti distinguere quat tro tipi di anime corrispondenti a regimi di esistenza caratterizzati da una complessità crescente: l'anima "vegetativà' delle piante; l'anima "sensitiva" degli animali inferiori come le spugne o le ostriche; l'anima "cognitiva" che conferisce a quelli che ne sono dotati «una certa virtù e vigore, come di pensiero e conoscenza, di memoria per saper conservare la loro vita, e sapersi comportare e dominare secondo la loro natura. Questo è proprio delle bestie brute»; un'anima "ragionevole", infine, propria dei soli uomini, la quale «ha tutto ciò che hanno le precedenti specie: e se ha anche questo di vantaggio e di eccellente, che partecipa della ragione e dell'intelligenza»11 • I..:influenza di Aristotele è certa, anche se la sottigliezza dialettica del De anima si è persa nella tipologia sommaria dove sopravvive solo l'affermazione che tra gli umani e gli altri esistenti il continuum materiale si raddoppia anche una discontinuità delle facoltà interne. Si vede quindi da questo che Cartesio, malgrado il suo rifiuto della scolastica, non costruisce sul niente quando qualche decennio più tardi afferma una separazione assoluta tra la materia e lo spirito, tra la rex estensa e l'intelletto, tra ciò che viene dalla meccanica e ciò che proviene dalla riflessione applicata a sé stessa. Non c'è dubbio che a partire da Montaigne una corrente diffusa e minoritaria che possiamo qualificare come gradualista non abbia cessato di contestare la concezione confermata dai Moderni sul luogo singolare assegnato all'uomo nella Natura in ragio ne delle sue predisposizioni interne. Ma non dobbiamo sopravvalutare l'importanza di queste voci dissonanti, né l'ampiezza della loro opposizione al!'ontologia naturalistica dominante. Il caso di Condillac è sotto questo aspetto esemplare, lui di cui si è continua to a ripetere che aveva abolito la separazione tra sensazione animale e capacità dell'uo mo, postulando tra i due una differenza di grado, non di natura. Infatti il Trattato sugli animali (1755) prende il pretesto da una confutazione del meccanismo di Buffon per
Ibid., p. 114. fbid. 11 Ibid., p. 117. 9
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Oltre natura e cultura sviluppare una teoria sensista del pensiero animale ispirata a Locke, di cui Condillac fu in Francia uno dei più zelanti discepoli: nella misura in cui «le bestie confrontano, giu
dicano, hanno idee e memoria», non è possibile assimilarle ad automi 12• In cosa risiede allora la differenza tra gli animali e gli uomini dato che hanno gli stessi bisogni, le stesse abitudini, le stesse conoscenze elementari e dato che è la sola esperienza che istruisce gli uni come gli altri? Il punto di rottura si produce con il linguaggio che permette agli umani di elevarsi fino al pensiero riflessivo, mentre le bestie sono incapaci di astrazione, incapaci di interrogarsi su loro stesse. Luomo, al contrario, può confrontarsi con tutto ciò che lo circonda, «entra in se stesso, ne esce»; grazie a linguaggio, introspezione, deduzioni, le generalizzazioni gli sono accessibili, le sue conoscenze si moltiplicano e, sorpassando l'animale nell'uso e nello sviluppo delle capacità anche comuni, finisce per distaccarsene 13• Pur essendo indubbiamente gradualista, e prefigurando sotto alcuni aspetti le teorie evoluzioniste della cognizione, la psicologia di Condillac riconosce l'esistenza di una soglia irreversibile nel progresso delle facoltà interne che gli umani solamente hanno oltrepassato. Inoltre, se le disposizioni di sentire e pensare sono comparabili, le anime dove queste disposizioni prendono la loro origine non lo sono: quella degli umani è im mortale, e mortale è quella degli animali. È questo più che un tributo pagato dall'abate alla teologia; ci si deve vedere una convinzione profonda del fatto che lo sviluppo impari dei comportamenti trova la sua origine in una differenza ontologica fondamentale: «le facoltà che abbiamo in comune [...] dimostrano che se potessimo penetrare nella natu ra di queste due sostanze [l'anima degli umani e quella degli animali], vedremmo che esse si differenziano infinitamente. La nostra anima non è quindi della stessa natura di quella delle bestie,> 14 . Decisamente non è facile, anche per uno spirito originale, liberarsi dall'ascendente che esercitano gli schemi di percezione e di pensiero propri a un modo di identificazione dominante. Lambivalenza di Condillac è sintomatica di un paradosso costitutivo del natura lismo moderno, il quale non ha smesso di vedere nell'animale a volte il più piccolo comun denominatore di una figura universale dell'umanità, a volte il contro-esempio perfetto che permette di caratterizzare la specificità di questo. Di fronte ali'evidenza congiunta di similitudini fisiche tra gli animali e gli uomini e di differenze nelle loro disposizioni e nei loro comportamenti, le vie aperte alla speculazione comparativa per un'ontologia naturalistica sono singolarmente limitate: o sottolineare la connessione degli umani agli animali con l'intermediario dei loro attributi biologici- aggiungendo, se necessario, una dose più o meno grande di facoltà interne comuni affinché la tran sizione sia più graduale-, o relegare questa continuità fisica in secondo piano e porre l'accento per prima cosa sull'eccezionalità degli attributi interiori con i quali l'uomo si distinguerebbe dagli altri esistenti. È il secondo comportamento che ha a lungo pre-
Condillac, 1947 (1755), p. 347. 13 lbid., p. 365 14 lbid.' p. 371. 12
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8. Le certezze del naturalismo valso in Occidente, e che resta ancora largamente dominante, fin da quando si tratta di definire l'essenza dell'umanità. Infatti, come nota giustamente lngold 15, i filosofi si sono raramente domandati: «cos'è che fa dell'uomo un animale di un genere particolare?», preferendo a questa la domanda tipica del naturalismo: «qual è la differenza generica tra gli umani e gli animali?». Nella prima domanda, l'umanità è una forma particolare di animalità definita con l'appartenenza ad una specie Homo sapiens, nella seconda è uno stato esclusivo, un principio autoreferenziale, una condizione morale. Tale pregiudizio non ha risparmiato i più grandi naturalisti. Nel suo Systema naturae (1735), Linneo pone così il genere Homo in una filiazione tassonomica generale fondata su tratti anato mici contrastivi, ma separa tuttavia l'uomo da tutte le altre specie con la formula Nosce te ipsum: è con il pensiero riflessivo, e conoscendo le risorse della tua anima, che afferrerai l'essenza distintiva della tua umanità 16• Da qui il problema che pone una comprensione esatta di questo vecchio ossimoro dell'Occidente: la natura umana. Esseri reputati separati, prendendo dall'animale per il loro corpo e i loro appetiti, e dalla divinità o dai principi trascendenti per la loro con dizione morale, possono avere una natura che gli sia propria? Bisogna vedere in essa, come Condillac e gli etologi contemporanei, il punto finale di un repertorio di facoltà e di comportamenti ugualmente presenti e più agevolmente osservabili, presso gli animali non umani, una vera natura di specie, quindi, che andrebbe a garantire la singolarità del nostro genoma? Oppure dobbiamo considerarla, come gli antropologi, una predi sposizione a superare la nostra animalità, non più tanto grazie al possesso di un'anima o di uno spirito quanto alla nostra attitudine a produrre variazioni culturali sottratte alle determinazioni genetiche? Sottolineando le continuità interspecifiche nella fisicità, il primo approccio si trova in difficoltà a rendere conto delle discontinuità intraspecifiche nell'espressione pubblica dell'interiorità (le culture); vedendo prima di tutto nell'anthro pos ciò che gli animali non sarebbero, cioè un inventore di differenze, il secondo approc cio dimentica che è anche Homo, un organismo biologico singolare. Possiamo allora im maginare lo stupore di uno Jivaro, di un Cree o di un Chewong davanti a questa strana figura ambigua dell'umanità. Come non vedere, potrebbero dire, che il nostro corpo e il nostro comportamento sono così tanto differenti da quelli degli altri organismi, anche se sono fatti di sostanze identiche? E su cosa vi basate per dire che gli animali non han no un intimo identico al nostro, anche se voi non li vedete parlare? Perché la coscienza riflessiva, l'intenzionalità, il senso morale e la civiltà sarebbero limitate alla specie umana quando tanti indizi ci mostrano che non è questo il caso? Un Aborigeno australiano sarebbe molto perplesso, ma per altre ragioni. Perché attribuire tanta importanza alla
15 lngold, T., 1994, p. 19. Esistono certamente delle brillanti eccezioni, come la filosofia di Joelle Proust (1997) che si interessa alle condizioni minimali alle quali una struttura deve rispondere per costituire uno spirito, indipendentemente dalla natura del suo supporto fisico. 16Citato da Ingold, T., 1994, p. 27. Questo comportamento verso la vita prosegue: mi hanno detto che degli studenti del primo anno di biologia, ai quali hanno domandato di disegnare un albero tassonomico che includesse l'Homo Sapiens, hanno collegato questa unità tassonomica da una linea tratteggiata!
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Oltre natura e cultura letteralità delle cose? Forse basterebbe. Perché fermarsi su differenze superficiali di forme e di capacità tra gli esistenti quando è più semplice pensare, un po' alla maniera di que sto filosofo greco di cui vi fate grandi, che il mondo è da sempre diviso in un insieme di prototipi fisici e spirituali generatori di qualità specifiche, nuclei sempre fertili da cui provengono questi grandi aggregati umani e non-umani che voi qualificate come ibridi perché le vostre classificazioni ontologiche sono diverse dalle nostre?
Culture e lingue animali? È anche vero che l'ontologia naturalista si è sviluppata con i progressi scientifici e che, a differenza dell'opinione comune e di alcuni saggisti poco informati, gli accademici sono ormai meno pronti ad affermare una discontinuità netta di interiorità tra gli umani e i non-umani. È per esempio il caso di alcuni etologi, come per esempio Donald Grif fin, che non esitano ad attribuire un pensiero cosciente e soggettivo agli animali sulla base dell'osservazione del loro comportamento, cosa che testimonia una vera pianifica zione dell'azione ritenuta possibile in virtù di una rappresentazione interna degli scopi voluti 17• Griffìn mette in risalto anche che, a dispetto di una adattabilità ineguagliabile, il linguaggio umano non differisce dai sistemi di comunicazione impiegati dalle grandi scimmie o da alcuni uccelli, e che si è padronissimi di chiamare "linguaggio" questi di spositivi di scambio di messaggi. Griffìn non è quindi lontano da Condillac quando, su basi in apparenza più solide che gli sono fornite dalla biologia evoluzionistica e l'etologia cognitiva, si fa difensore di una continuità delle facoltà mentali tra l'uomo e l'animale, rifiutando come pregiudizio antropocentrico estraneo all'incedere scientifico l'idea di una differenza di natura tra l'uno e l'altro 18 • Queste visioni sono comunque lontane dall'avere l'unanimità nella comunità di etologi, ci tornerò. Notiamo per il momento che esse hanno almeno il merito di attirare l'attenzione sui conflitti di interpretazio ne dell'ontologia moderna quando è confrontata a possibili smentite dell'esperienza, e soprattutto sul primo di questi conflitti, quello che oppone il monismo naturalista al dualismo culturalista. Infatti postulando delle semplici differenze di grado tra le facoltà cognitive dell'animale e quelle dell'uomo, i continuisti contemporanei prendono sempre come termine comparativo del processo evolutivo la figura dell'umanità che gli psicologi conoscono meglio, cioè l'adulto occidentale. E se adesso nessuno scienziato oserebbe più pretendere che i popoli un tempo detti "primitivi" rappresentino uno stadio intermedio tra le grandi scimmie e noi, non possiamo non essere confusi dall'interesse che gli psico logi evoluzionisti hanno - è di gran lunga vero - per le funzioni mentali dei cacciatori raccoglitori attuali, implicitamente assimilati ai nostri antenati del pleistocene e quindi, bisogna credere, più vicini ai primati non umani che ad un professore di Stanford 19•
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Griflìn, D.P., 1991. Griflìn, D.P., 1976. 19 Per esempio, Cosmides, L., e Toboy, J., 1994; o anche i lavori che affermano la optiman faraging the ory, come Kaplan, H., e Hill, K., 1985. 18
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8. Le certezze del naturalismo Considerate nella lunghissima durata dell'evoluzione, in effetti le differenze cogni tive tra gli umani e gli animali non sono altro che differenze di grado. E c'è qui una posizione del tutto legittima a condizione di non cedere a questa forma perniciosa di etnocentrismo che consiste nel prolungare la scala di gradi in Homo sapiens sapiens cer cando nel Kalahari, nella foresta canadese o in Amazzonia degli esempi etnografici che illustrino uno stadio biocomportamentale dell'adattamento cognitivo che la "culcura" non avrebbe ancora troppo contaminato. Insomma, per parlare francamente, là dove le idee sarebbero semplici e poco numerose, e le norme rudimentali, diventerebbe più faci le comprendere come i comportamenti e le scelte siano dettate dalla selezione naturale. Ora, denunciando con ragione tali pregiudizi, ricordando che i cacciatori-raccoglitori contemporanei hanno conosciuto molte decine di millenni di trasformazioni storiche e che non dovrebbero essere trattati come dei testimoni fossili dei primi stadi dell'ominiz zazione, gli etnologi non possono evitare di rivolgersi ali'altro dogma del naturalismo, costitutivo del loro campo disciplinare, quello dell'assoluta singolarità dell'umanità, sola specie capace di differenziarsi all'interno di se stessa grazie alla culcura. In alcre parole, mentre l'antropocentrismo degli etnologi li porta a trascurare la continuità di fisicità tra gli umani e il resto degli organismi, il riconoscimento di questo fatto da parte dei gra dualisti moderni li rende incapaci di capire la discontinuità delle interiorità se non come una variabile esterna battezzata "cultura", il cui impatto sulle capacità cognitive sarebbe più agevole da valutare tra gli umani meno moderni. Forse diremo che questo genere di dibattito sarà superato, che non sussiste più se non allo stato di scaramucce confidenziali tra le retroguardie del monismo naturalista e del dualismo culcuralista. È incontestabile, infatti, che il consenso naturalista dove pro speravano questi scontri sembra oggi piuttosto scosso da alcuni sviluppi delle scienze, dell'etica e del diritto. È probabilmente in primo luogo sotto l'influenza dell'etologia, soprattutto quella delle grandi scimmie, che l'ontologia moderna ha iniziato a vacilla re, quando fu messo in discussione uno dei suoi principi più comunemente accettati, l'assoluta singolarità degli umani in quanto specie atta a produrre differenza culturale. Gli etnologi non sembrano aver preso ancora piena coscienza di questa rivoluzione, eppure è ad essi che si rivolgevano Willian McGrew e Caroline Tutin nel 1978 quando pubblicarono in Man, la prestigiosa rivista britannica di antropologia sociale, un articolo iconoclasta dove definivano gli scimpanzé come degli animali culturali e difendevano il loro studio etnografico comparativo. La loro tesi era che questi animali così vicini a noi sul piano genetico soddisfano anche la maggior parte dei criteri con i quali caratteriz ziamo la culcura: l'osservazione mostra che comportamenti individuali nuovi appaiono nelle popolazioni allo stato selvaggio, che si diffondono all'interno di un gruppo e si impiantano in modo duraturo, e che differiscono da altri comportamenti presenti in altre popolazioni diverse20 • Questa variabilità comportamentale riguarda essenzialmente le tecniche che Mc Grew consegnerà qualche anno dopo ad un inventario minuzioso nel suo classico Chim-
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McGrew, W.C., e Tucin, C., 1978.
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Oltre natura e cultura panzee Materiai Culture dove recensisce quasi una ventina di casi di utilizzo di utensili: dal fabbricare delle sonde per catturare delle formiche alla rottura di una noce con per cussore e incudine, passando per l'impiego di mazze o lanci di armi 21• Ma è nel 1999 che una tappa decisiva è oltrepassata in questo aggiornamento quando otto etologi di fama, fra cui McGrew, pubblicano una sintesi sulle culture degli scimpanzé nella rivista Nature2 2 • Tappa decisiva perché un articolo in Nature equivale, si sa, a una sanzione di ortodossia per i risultati scientifici. Ora, questi risultati non sono scarsi: sulla base di nu merose osservazioni indipendenti portate avanti su un lungo periodo su popolazioni di scimpanzé allontanate le une dalle altre, gli autori dimostrano inequivocabilmente che gruppi distinti elaborano e trasmettono famiglie di tecniche ben differenziate. Questo genere di variazioni che non possono, sembra, essere spiegate attraverso un'evoluzione adattativa dei comportamenti ai vincoli ecologici, gli autori sono così portati ad attribu ire agli scimpanzé culture distintive, cioè una libertà di inventare risposte sui generis alle necessità della sussistenza e della vita comune. Per clamorosa che sia questa irruzione di una specie animale nel dominio riservato alla cultura, non è senza precedenti. Esempi di innovazione tecnologica e di diffusione di comportamenti nuovi presso gli animali sono conosciuti da lungo tempo. Alcuni han no anche superato la barriera delle pubblicazioni accademiche per tornare nel folklore, come è il caso delle cince britanniche che, in alcune località, hanno iniziato ad aprire le bottiglie del latte depositate dai milkman davanti alle porte di casa, o quello dei macachi dell'isoletta di Koshima che lavano le patate dolci prima di mangiarle imitando una fem mina ricca di immaginazione, un fenomeno ben presto classificato dai primatologi giap ponesi fra le categorie di "protocultura", di "preculturà' o di "cultura infraumanà'23• Ma l'articolo di Nature va oltre sia per la vasta gamma di tratti di comportamento distintivo di cui riferisce sia perché stabilisce senza dubbio la variabilità delle tecniche impiegate dalle differenti popolazioni di scimpanzé al fine di effettuare la stessa operazione. Si può quindi pretendere che una barriera del naturalismo sia saltata una volta am messo che l'uomo non è più la sola specie animale capace di inventare e di trasmettere delle pratiche sottratte alle determinazioni istintive o ambientali? Nulla è meno cer to, infatti l'istintività degli umani nell'ontologia naturalista si basa prima di tutto sulla capacità che è riconosciuta loro di produrre singolarità culturale mobilitando facoltà interne che sono loro proprie. Per smussare il naturalismo, bisognerebbe quindi po ter mostrare che gli scimpanzé fanno appello a risorse psichiche identiche alle nostre quando si impegnano in attività culturali. Ora, su questo punto, gli specialisti degli scimpanzé selvatici sono poco eloquenti. L'etologia comportamentale mette in evidenza le variazioni osservate nei sistemi tecnici degli animali selvatici e descrive minuziosa mente le procedure con le quali si diffondono da soggetto a soggetto, ma resta sul vago rispetto alle condizioni mentali e neurofisiologiche necessarie per farlo, salvo il richiamo
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McGrew, WC., 1992. Whicen, A., Goodal, J., McGrew, WC., eta/., 1999. 2 -' Icani, J., e Nishimura, A., 1973.
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8. Le certezze del naturalismo di un'attitudine generale all'imitazione che potrebbe derivare, per le grandi scimmie, dal controllo dell'attenzione altrui24 • Al contrario, psicologi sperimentalisti dedicati a comparare l'apprendimento sociale fra i cuccioli di uomo e i cuccioli di scimpanzé in cattività rifiutano l'idea stessa che questi animali siano capaci di imitare; affermano che i bambini che apprendono l'uso di un utensile hanno una rappresentazione dell'obiettivo da perseguire grazie al loro istruttore, mentre gli scimpanzé si accontentano di regolare il loro comportamento uno sull'altro per aggiustamenti successivi nel corso di casi ripetuti che sono creati dalla simulazione25• Il dibattito è quindi intenso tra gli etologi sul campo, pronti ad attribuire agli animali che osservano proprietà mentali capaci di rendere conto delle loro azioni, e gli etologi di laboratorio che pretendono di non trovar traccia di queste ipotetiche proprietà presso gli animali che essi studiano. Forse in fondo la questione rimane aperta, poiché non si tratta veramente degli stessi animali, anche se appartengono alla stessa specie. Dimostrare che il comportamento degli scimpanzé selvatici sia interessato dalle variazioni culturali per il fatto che alcune delle loro facoltà cognitive sarebbero identiche alle nostre, richiede in fatti che si facciano loro svolgere compiti in laboratorio che permettano la comparazione sistematica con gli umani. Ora, gli etologi comportamentisti fanno giustamente notare che il contesto del laboratorio è così particolare, in ragione dell'interazione degli ani mali in cattività con gli scienziati, che i risultati così ottenuti non possono essere molto generalizzati agli scimpanzé selvatici. Insomma, costatare l'esistenza negli scimpanzé di tradizioni dette "culturali" non sembra minacciare a breve termine la convinzione basila re dell'ontologia naturalistica secondo la quale gli umani sono la sola specie a possedere un'attrezzatura psichica capace di generare differenze culturali. La questione quindi non è risolta poiché anche altre branche dell'etologia mostrano similitudini inquietanti tra le facoltà degli umani e quelle degli animali, e ciò avviene in un dominio che riguarda da vicino il dogma della discriminazione attraverso l'in teriorità, poiché si tratta di quel sistema di comunicazione degli stati interni che noi chiamiamo il linguaggio e di cui le proprietà convenzionali, intenzionali e referenziali furono lungamente considerate nell'ontologia naturalistica come il miglior segno distin tivo dell'umanità. Ora, numerosi lavori sulla semantica della comunicazione animale sembrano portare alla conclusione che si debba spogliare l'uomo di questo prezioso appannaggio. Su questo tema essendo la letteratura tanto vasta quanto piena di con troversie, mi limiterò alle esperienze che sono l'oggetto di un consenso approssimativo, escludendo le considerazioni sui segnali non sonori, come la famosa "danza dell'ape" o i sistemi di tracce lasciate dagli animali per localizzare i propri simili26• Dopo gli studi pionieristici di Peter Marler sui dialetti dei fringuelli, non c'è più dubbio, del resto, che i canti di alcuni uccelli non sono stereotipati per tutta la specie, ma manifestano grandi variazioni individuali e regionali. La stessa cosa è stata stabilita per quanto riguarda i
2/4 Byrne, R.W., e Whiten, A., 1998; Byrne, R.W., e Whicen, A., 1988. 25Tomasello, M., e Cali, J., 1997. 26 Per un'ambiziosa sintesi sulla questione, vedere Hauser, M., 1996.
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Oltre natura e cultura segnali sonori di molte specie di mammiferi terrestri e marini. Sappiamo così, nel caso degli uccelli e di alcuni primati, che questa attitudine a conformarsi al repertorio di vocalizzazione specifico di un dialetto proviene da un apprendimento che, nel caso degli uccelli canori, si fa in riferimento ad un adulto, generalmente il padre. Inoltre, adesso sembra accertato che l'espressione sonora di alcuni uccelli si adatti alle circostanze come la presenza o meno di un ascoltatore della stessa specie - e differisca secondo i messaggi da trasmettere - gridi di allarme diversi in funzione del tipo di predatore loca lizzato, per esempio. Questa dimensione referenziale è ugualmente segnalata per quanto riguarda i gridi delle scimmie vervet del Kenya27• È quindi possibile che un'intenziona lità sia coinvolta nei segnali sonori emessi da alcune specie verso un referente esterno - come la presenza di nutrimento o di un predatore - dato che tali segnali variano la loro frequenza di produzione a seconda che un simile possa o meno ascoltarlo. Questo è ciò che sembrano confermare i casi di inganni palesi nei richiami che segnalano del cibo presso i polli domestici e i macachi rhesus, dato che questi ultimi puniscono l'imbroglio ne quando la sua opera è scoperta28 • Anche se i segnali sonori degli animali non raggiungono la complessità e la ricchezza semantica e sintattica del linguaggio umano, è comunque diventato difficile continuare a pretendere che costituiscano delle semplici espressioni istintive: variazioni arbitrarie e innovazioni all'interno di una specie, apprendimento per imitazione, corrispondenza stabile tra un segno vocale e un significato, possibile intenzionalità del messaggio e an ticipazione degli effetti della sua recezione, ecco qui una serie di tratti che sostengono la causa di accordare ai sistemi di comunicazione di alcune specie animali almeno lo statuto di un linguaggio elementare. A quali risorse interiori si ritiene che gli animali facciano appello per attivare questa attitudine ad una produzione simbolica limitata? Sono dotati di uno spirito che li ren derebbe capaci di controllare il loro comportamento e di intervenire sul loro ambiente con rappresentazioni che potrebbero trasmettere ai loro simili? Siamo pronti ad am mettere che alcuni fra loro avrebbero un'interiorità comparabile alla nostra, fatto che aprirebbe una grande breccia nella cittadella del naturalismo? In realtà, e a differenza di Griffin, la maggior parte degli etologi cognitivi storcono il naso ad attribuire agli ani mali un vero pensiero cosciente, preferendo vedere nel linguaggio animale il prodotto di una predisposizione genetica codificata nel cervello, che Marler chiama !'"istinto di apprendere", e le cui caratteristiche variano in funzione del genoma delle specie. Presso gli uccelli cantori, dove questi fenomeni sono stati meglio studiati, l'attitudine a rico noscere i segnali sonori dei congeneri e la capacità di apprendere un canto sarebbero innate, e molto diverse a seconda delle specie, le caratteristiche fonologiche e sintattiche selezionate da un soggetto per formare il suo repertorio vocale risiederebbero, del resto omogenee, all'interno di una specie29 • Il linguaggio animale deriverebbe così da una
27
Cheney, D.L., e Seyfarrh, R. M., 1980; Marler, P., e Evans, C.S., 1996. 28 Gyger, M., e Marler, P., 1988; Hauser, M., e Mrler, P., 1993. 29 Marler, P., 1984 e 1991.
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8. Le certezze del naturalismo determinazione neurofisiologica poco a poco specificata dall'esperienza, senza che sia necessario per spiegarla fare intervenire la mediazione di rappresentazioni complesse, ovvero di attitudini proposizionali grazie alle quali l'animale oggettiverebbe i suoi propri stati interni - le sue emozioni, le sue credenze e i suoi fini - e interpreterebbe quelle degli altri organismi presenti nel suo ambiente. Insomma, il riconoscimento che alcune specie animali possiedono la capacità di produrre variazione individuale e collettiva attraverso un sistema convenzionale e referenziale di scambio di informazioni sonore non risulta affatto dall'attribuzione ai non-umani di una interiorità identica a quella degli umani, ma si appoggia al contrario su una riduzione delle loro facoltà linguistiche a una fisicità fondamentale, quella del genoma, che l'epigenesi andrebbe a modulare in limiti ristretti. Il naturalismo è salvo: concedendo agli uccelli o alle scimmie il privilegio di singolariz zarsi con il linguaggio, in realtà è l'universale della natura che ritroviamo.
Un uomo senza spirito? Torniamo adesso agli umani e all'interiorità distintiva di cui sono tradizionalmente accreditati nell'ontologia dei Moderni. Oltre che nell'opinione comune, si accetta anco ra tale principio? Gli umani vivono sempre, come ai tempi di Cartesio, sotto il regime di separazione tra uno spirito più o meno immateriale e un mondo fisico e corporale ogget tivo, le cui proprietà cioè sarebbero specificate prima di ogni operazione di conoscenza? La risposta generale è sì, anche fra gli accademici. Esistono comunque delle eccezioni che conviene esaminare per valutare il loro possibile contributo ad una disgregazione del modo di identificazione naturalistico. Una corrente delle scienze cognitive vivamente opposta al dualismo rifiuta infatti l'idea che possiamo agire nel mondo e dargli significati multipli per il solo fatto che ciascuno di noi avrebbe il privilegio di disporre alla sua na scita di una sorta di posto centrale di controllo dei comportamenti e di trattamento delle informazioni percettive assimilabile a una macchina di Turing. Uno dei tentativi più originali per superare questo co.nfronto tra un interno computazionale e un esterno già strutturato è la teoria della cognizione come azione incorporata sviluppata da Francisco Varela, Evan Thompson e Eleanor Rosch30 • Appoggiandosi sulle intuizioni filosofiche di Merleau-Ponty, gli autori difendono la tesi che la cognizione è funzione dell'esperienza di un soggetto dotato di un corpo che deve guidare le sue azioni in situazioni sempre diverse in quanto modificate dalle sue proprie attività. Il punto di riferimento del sog getto non è più un dispositivo autonomo che tratta le informazioni prese da un mondo indipendente di percetti, ma l'insieme dei suoi meccanismi sensorio-motori, modulati permanentemente dagli avvenimenti che si verificano in un ambiente dal quale non è separato e che gli forniscono l'occasione di questa o quest'altra interazione. Illustrazioni sperimentali a sostegno, gli autori affermano che, lontano dall'essere riducibili ad un'in teriorità rappresentazionale che forma gli stimoli ricevuti passivamente, «le strutture
30Varela, F., Rosch, E., lhompson, E., 1993.
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Oltre natura e cultura cognitive si liberano dalle tipologie ricorsive dei motivi sensorio-motori che permettono all'azione di essere guidata dalla percezione» 31 • Lo spirito, se possiamo ancora parlare di spirito in questo caso, diventa un sistema di proprietà emergenti che risultano dalla retroazione continua tra un organismo e un ambiente circostante; esso ha perso ogni interiorità intrinseca per non essere che un attributo o un epifenomeno della fisicità. La teoria ecologica della visione del neurofisiologo James Gibson è ancora più radica le dato che sfocia su un'eliminazione totale dello spirito come sede supposta di funzioni mentali superiori32• Nella sua forma classica, il principio dell' afferdance sviluppato da Gibson è ben conosciuto: l'ambiente degli animali, umani compresi, possiede proprietà non riducibili al mondo fisico o all'esperienza fenomenale dato che esse sono funzio ne delle possibilità, o afferdances, che un osservatore vi percepisce per intraprendere un'azione in accordo con le sue capacità sensorio-motrici. Per un uomo o una pecora, per esempio, il ciglio di una scogliera si presta ad una locomozione parallela da una parte, a una caduta nel vuoto dall'altra, mentre per un avvoltoio questo luogo inviterà forse al decollo. Il fatto che si possano qui condurre queste differenti azioni non è una proprietà intrinseca delle scogliere, suscettibile di essere studiata da un geomorfologo; gli attributi particolari di questi elementi del rilievo non diventano tali che per gli organi smi che sono capaci di farne un uso. Gibson sostiene inoltre che esistono delle invariabili sufficienti nella topologia della luce circostante per permettere di specificare le proprietà dell'ambiente, da cui le afferdances, senza la mediazione di rappresentazioni interne. La percezione è quindi immediata e consiste nel rilevare queste variazioni ottiche, pro prio come le afferdances che le rendono manifeste, e ciò indipendentemente dall'azione dell'animale dato che le afferdances sono sempre là, pronte ad essere percepite. Tale ride finizione della percezione implica a sua volta una ridefinizione delle operazioni dello spi rito, nella misura in cui l'estrazione e l'astrazione delle invarianti ottiche da parte di un organismo derivano contemporaneamente dalla percezione e dalla conoscenza, quest'ul tima non essendo altro che un'estensione della prima. Non è più necessario quindi invo care un intelletto per rendere conto di processi come il ricordo, la deduzione, il giudizio o l'anticipazione; come scrive Gibson: «sono convinto che nessuno fra loro potrà mai essere compreso come un'operazione dello spirito» 33• Addio interiorità misteriosa! Abo lite le distinzioni severe tra animali umani e non umani! Scomparso l'accoppiamento strutturale tra un dispositivo sensorio-motore e un ambiente circostante! Restano solo regolarità ottiche in attesa di una realizzazione attraverso un recettore idoneo. Con la sua teoria ecologica della percezione, Gibson offre un'alternativa potente e co erente a quella forma di realismo cognitivo che costituisce da molti secoli il regime epi stemologico quasi indiscusso del naturalismo moderno. Invece di postulare un soggetto autonomo dotato di uno spirito capace di trattare le informazioni sensoriali estratte da un mondo oggettivo attraverso rappresentazioni che combinano disposizioni innate
)I fbid., p. 239 32 Gibson, J. J., 1979. 33 Ibid., p. 255.
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8. Le certezze del naturalismo e competenze culturalmente acquisite, invita a vedere nella conoscenza un'educazione dell'attenzione condotta da un organismo impegnato nella realizzazione quotidiana dei compiti di cui la buona realizzazione richiede solamente un'attitudine continuamente arricchita a rilevare gli aspetti salienti del suo ambiente e adattarvisi sempre meglio. Capiamo quindi il fascino che questo programma ha potuto esercitare su autori come lngold o Berque, messi a confronto, nelle società che studiavano, con i modi di relazio ne all'ambiente le cui formulazioni locali concordano male con il dualismo classico del mondo e dello spirito, del soggetto e dell'oggetto o dell'intellezione e della sensazione34• Sebbene Gibson sia lui stesso rimasto evasivo quanto alle implicazioni sociali e cultu rali della sua teoria ecologica della percezione, ciò permette in effetti di esaminare un modo molto diverso di comprendere la socialità umana; non più come una formazione dell'esperienza resa possibile dal filtraggio dei dati sensibili attraverso un sistema condi viso di rappresentazioni collettive, ma come uno stato preliminare ad ogni oggettivazio ne culturale, fondato sull'impegno pratico del corpo atto a rilevare le ajfordances stesse e che, così, entrerebbe in risonanza con l'ambiente stesso. Le teorie della conoscenza che postulano un collegamento diretto del corpo sull'am biente, sembrano così demolire tutto l'edificio del naturalismo: lo spirito non è più un requisito dell'azione e del pensiero umano, le culture non si presentano più come dei blocchi sostanziali e ben differenziati di rappresentazioni e di comportamenti normativi in attesa di inculcamento individuale, gli animali possono essere elevati alla dignità di soggetti perché sono, proprio come noi, degli organismi le cui facoltà sensorio-motrici offrono loro la possibilità di una significativa presa sul mondo; insomma, l'interiorità distintiva sparisce completamente a vantaggio di un'armoniosa continuità delle fisicità. Ma questa cancellazione della discriminazione ontologica fatta dal criterio dello spirito ha portato ad una nuova esclusione, poiché non riguarda che una categoria di esistenti, quelli che hanno la fortuna di disporre di un corpo capace di percepire e di spostarsi. Quanto ai non-umani inanimati, questi restano dei puri oggetti, anche se, come i com puter, possono eseguire delle operazioni mentali derivate dalle nostre. Facendo del pen siero il prodotto di un'interazione tra la percezione e l'azione poco a poco sedimentata in un corpo coinvolto in un Umwelt specifico, gli ancimentalisti negano infatti ai computer ogni affinità oncologica con gli umani (e gli animali); non per il fatto che sarebbero sprovvisti di intenzionalità o di coscienza di sé, questione classica sviluppata dalla filoso fia dello spirito, ma perché sono come cervelli puri e perché è dentro al corpo, e non in un processore neuronale o elettronico, che risiede questa memoria dell'esperienza di sé nella quale consiste la soggettività. Anche i robot, capaci di modulare le proprie azioni in seguito a una formazione autonoma, non avranno mai il loro favore, poiché il loro meccanismo è ispirato da modelli connessionisti dello spirito; ora, come scrive Ingold, il connessionismo «è sempre radicato nell'oncologia cartesiana che è la base di ogni proget to delle scienze cognitive - un'oncologia che dissocia senza dubbio l'attività dello spirito
34 Ingold, T., 2000, pp. 166-168: Serque, A., 1990, pp. 101-103.
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Oltre natura e cultura da quella del corpo nel mondo» 35 • Eliminata come fattore di esclusione ontologica all'in terno degli organismi complessi, l'interiorità risorge così come un attributo predefinito di una classe di esistenti: il simulacro dello spirito di cui i computer sono dotati non li renderà mai comparabili agli umani poiché gli umani, appunto, non hanno lo spirito, almeno sotto forma di un dispositivo di computazione indipendente da un corpo. È quindi l'interiorità finta attribuita ad alcuni non-umani che li fa precipitare in un'alterità radicale, è in nome di questa interiorità che non ci possiamo più separare dagli animali, dato che né essi né noi ne siamo dotati, e dato che nuove distinzioni ontologiche sono prodotte. Sotto le apparenze iconoclaste, la nuova fenomenologia della percezione rende così visibili nei vuoti i tratti caratteristici dell'ontologia naturalistica che pretende squalifica re. Dietro una continuità apparente di fisicità (tra umani e animali) che non interrompe più la discriminazione con uno spirito ormai abolito, si nasconde infatti una discontinu ità nuova e contraddittoria di interiorità, tra le macchine che ne sono dotate perché l'ar tificio umano le ha volute così e gli animali umani e non umani che se ne esimono per il fatto della loro vitalità intrinseca. Una comparazione con il modo di identificazione animista è, sotto questo aspetto, molto istruttivo. Quando un Achuar o un Cree dicono che un artefatto o un elemento inorganico del!' ambiente hanno un'"animà', intendono che queste entità hanno un'intenzionalità propria della stessa natura di quella degli uma ni e che non è quindi funzione del tipo di substrato molecolare nel quale è localizzata, né del genere di processo al termine del quale arriva ad esistere. Le differenze di forma e di comportamento sono riconosciute, ma esse non costituiscono criteri sufficienti per escludere una cerbottana o una montagna dal beneficio di interiorità condivisa. Al con trario, quando si dice che un animale assomiglia a noi perché pensa con il suo corpo, mentre un computer non ci assomiglia, anche se parla e gioca a scacchi, dato che la sua parodia di interiorità non è percorsa dalla vita, è al contrario la distinzione tra una fisi cità oggettivata - una macchina - e una fisicità soggettivante - un corpo - che torna in primo piano; cioè, come dicono gli anticognitivisiti, una topografia appena rimpastata della molto dualistica distribuzione degli esistenti tra soggetti e oggetti. Ali'esatto opposto delle teorie della cognizione incorporata o ecologica, una corrente nutrita di sviluppi recenti delle neuroscienze si è così impegnata a rimettere in questione lo schema naturalistico di un'autonomia dell'interiorità umana dissolvendo questa nelle proprietà interne della fisicità. I substrati materiali sono diversi quindi in entrambi i casi: il pensiero non è più il risultato di un accoppiamento tra un apparecchio sensorio-motore e un ambiente, ma il prodotto dell'attività del cervello, un organo associato da tempo alle funzioni mentali superiori. Dopo i primi passi della frenologia, non è certo nuova l'idea che gli stati mentali possano essere riducibili ai meccanismi dell'attività cerebrale e, più generalmente, del sistema nervoso centrale; i progressi della neurobiologia e l'attenzione che gli psicologi e i filosofi hanno raggiunto da qualche anno permettono comunque di considerare questa ipotesi con più lucidità e cautela rispetto all'epoca di Gall o di Broca. 35 Ingold, T., 2000, p. 165.
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8. Le certezze del naturalismo La maggior parte, infatti, dei biologi si pronunciano dubbiosi rispetto alla possibilità di un riduzionismo assoluto che permetterebbe di fondere in una teoria universale la spie gazione del comportamento e di tutte le entità fisiche, umani compresi. La via di mezzo, tradizionalmente qualificata fisicista, si accontenta di postulare che tutti gli elementi del reale, fra cui gli stati mentali, provengano da processi o stati materiali che è possibile studiare in modo sperimentale; in modo che, per citare Jean-Pierre Changeux, «l'iden tificazione di avvenimenti mentali ad avvenimenti fisici non si presenta in alcun caso come una presa di posizione ideologica, ma semplicemente come l'ipotesi di lavoro più ragionevole e soprattutto più fruttuosa» 36 • Di fatto, se si ammette la proposta che non ci può essere efficacia causale tra avvenimenti qualsiasi senza che esista tra essi una relazione fisica, allora questo avvenimento mentale, che è la formazione di una rappresentazione, non si saprebbe produrre senza il ricorso ad un dispositivo materiale idoneo, in questo caso il cervello. La separazione tra attività mentale e attività neurale diventa obsoleta: se fenomeni mentali intervengono causalmente nel comportamento dell'individuo che ne è la sede, fatto che difficilmente possiamo ricusare, questi devono possedere una dimen sione fisica descrivibile in termini molecolari e fisico-chimici. Vediamo che nonostante l'abisso che sembra separarli da Gibson i fì.sicalisti non danno credito più di quanto faccia lui all'esistenza di una interiorità immateriale da cui deriverebbero le rappresentazioni mentali. Come dice ancora Changeux: «ormai, a che pro parlare di Spirito?» 37• Anche quando sono monisti, i filosofi sono comunque più prudenti su questo punto dei neurofisiologi, sebbene divisi tra convinzioni opposte. Donald Davidson, le cui analisi hanno incontrato una grande eco presso gli adepti di una teoria materialistica dello spirito, sostiene quindi che la realtà fisica e la realtà mentale possiedono delle proprietà eterogenee: la prima può essere oggettivata da una teoria causalmente chiusa, mentre la seconda non lo può fare, poiché la spiegazione della formazione degli stati mentali dipende dall'attribuzio ne di caratteristiche preliminari al soggetto osservato come ad esempio il fatto che ritenga veri gli enunciati che produce e che lo sono effettivamente, una necessità metodologica che Davidson chiama il "principio di carità''. Dato che c'è sempre interpretazione dei contenu ti del pensiero dell'altro a partire da questo principio di razionalità e di coerenza, nessun dato indipendente dalle norme interpretative sarà in grado di fornire un punto fermo alla teoria, poiché queste norme diventano costitutive dei dati da interpretare. È per questo che Davidson sostiene la tesi del fisicismo occasionale secondo la quale un avvenimento men tale è proprio identico ad un avvenimento fisico, come lo vede Changeux, ma solamente in funzione delle circostanze, e senza che si possa essere mai sicuri che questa coincidenza si riproduca in una serie di casi ripetuti che autorizzerebbero la formulazione di una legge. Si dice allora che c'è la "sopravvenienza'' (supervenience) di un avvenimento mentale su un avvenimento cerebrale per il fatto che il primo è determinato dal secondo, benché le sue proprietà restino irriducibili a quelle dell'avvenimento fisico sul quale sopravviene38•
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Changeux, J. P., 1983, p. 363. lbid., p. 364. 38 Davidson, D., I 980, in particolare pp. 207-227. 37
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Sebbene sia presa in prestito da Aristotele, questa nozione di sopravvenienza sembra troppo contraddittoria per poter fondare un'interpretazione filosofica soddisfacente del la determinazione di un pensiero grazie al cervello. Come ha sottolineato Vincent De scombes, l'elemento sopravvenence si aggiunge a una cosa che non saprebbe completare e oscilla così era due status, «quello di un aumento e quello di un superfluo» 39• Tutt'al più possiamo interpretarlo in modo minimale, come Quine, quale sopravvenienza di differenze mentali sulle differenze fisiche, traduzione complicata dell'idea che ad ogni differenza mentale corrisponde una differenza fisica. Ma se una differenza fisica può es sere misurata, una differenza mentale non può sempre esserlo, poiché uno stato mentale e uno stato fisico sono di natura differente perché non si susseguono gli uni agli altri allo stesso modo. Limaging cerebrale permette sicuramente di correlare la produzione di alcuni enunciati o la soluzione di alcuni problemi con un'attivazione di alcune parti del cervello, ma questo è impossibile per molti stati mentali ordinari che non sono divisibili in unità discrete di tempo e che i filosofi dello spirito chiamano qualia. Stamattina mi sento felice perché è bel tempo e perché ho ricevuto una buona notizia (almeno è così che interpreto il mio stato): quando inizia questo stato, quando finisce? è continuo, è discontinuo? quando è presence nella mia coscienza, quando non lo è? Ecco qui un avvenimento mentale che speriamo sia frequente, che potrà influire casualmente sul comportamento, e al quale sarà quindi molto difficile far corrispondere un avvenimento neuronale, anche se occasionalmente e secondo il principio di sopravvenienza. Insom ma, anche accordando il beneficio del dubbio alle spiegazioni fisiciste, la strada sembra ancora lunga prima che queste siano in grado di riportare tutte le proprietà dell'interio rità umana a meccanismi neurali. Tuttavia, non è questa la questione. Il mio proposito non è affatto quello di giudi care le teorie contemporanee della cognizione su un piano empirico, filosofico o episte mologico, ma piuttosto quello di esaminare in cosa queste teorie potrebbero scalzare i fondamenti dell'ontologia naturalistica moderna. Ora, lo abbiamo visto, il fisicismo è ben lontano dal raggiungere quest'obiettivo. Nella strategia che adotta per cancellare l'interiorità distintiva degli umani - e di questi soli, del resto, poiché la maggior parte dei filosofi materialisti dello spirito, come Davidson, non sono pronti a concedere il pen siero agli animali40 -, il fisicismo rende quindi manifesto un tratto tipico dell'oncologia naturalistica. Esso parte infatti dal principio che la specificità degli umani consiste nel facto che si differenziano fra loro, da individuo a individuo e da gruppo a gruppo, grazie ad una facoltà immateriale interna ad ogni soggetto, sebbene modulata in parte da va lori e rappresentazioni proprie a ciascuna cultura. Il solo modo per contestare l'esistenza individuale e collettiva di questa interiorità lungamente sottratta all'osservazione diretta consiste quindi nel desingolarizzare lo spirito ripiegandolo sulle proprietà materiali uni versali del cervello, ovvero nello sciogliere l'interiorità nella proposta complementare del naturalismo secondo la quale le differenze di fisicità sono di grado, non di natura. Da ciò
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Descombes, V., 1995, p. 314. A differenza di Joelle Proust, che critica Davidson su questo punto: 1997, pp. 72-79.
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8. Le certezze del naturalismo il ruolo sempre più preponderante assegnato in questo compito, in psicologia come nelle neuroscienze, alle tecniche di imaging cerebrale funzionale che permettono di cartogra fare il cervello in attività. Per quanto sia riducibile ad operazioni cerebrali, l'interiorità umana perde così molto del suo mistero e della sua densità dato che è ormai possibile, rendendola infine parzialmente visibile, di toglierle il maggiore attributo che giustificava la sua ipotetica esistenza. Resta il fatto che la tomografia per emissione di positoni o ima ging per risonanza magnetica funzionale non permettono sempre di vedere in vivo questi residui testardi di interiorità che sono la coscienza di sé, l'individuazione dei significati o l'effetto di una rappresentazione culturale su un giudizio proposizionale. In altre parole lo spirito ha ancora molto tempo davanti a sé prima di svelare per intero la sua natura fisica allo sguardo inquisitore dell'ideografia.
Diritti della natura? È in tutt'altri domini, quelli della filosofia morale e del diritto, che l'ontologia natu ralistica incorre forse nei rischi di sgretolamento più seri. La discontinuità degli umani di fronte agli altri esistenti proviene infatti nell'ideologia moderna da una concezione della loro interiorità come doppiamente soggettiva: la coscienza di sé fa la soggettività, la soggettività permette l'autonomia morale, l'autonomia morale fonda la responsabili tà e la libertà che sono gli attributi del soggetto in quanto individuo portatore di diritti e di doveri verso la comunità di suoi uguali. Tradizionalmente definiti come sprovvisti di queste proprietà, le piante e gli animali sono quindi esclusi dalla vita civica; non è possibile stringere con loro delle relazioni politiche o economiche, mancando loro lo statuto di soggetto41 • Ora, questa subordinazione dei non-umani ai decreti di un'uma nità superiore è sempre più contestata dalle teorie della morale e del diritto che lavo rano per l'avvento di un'etica dell'ambiente sbarazzata dei pregiudizi dell'umanesimo kantiano. È principalmente negli Stati Uniti, in Australia, in Germania e nei paesi scandinavi che è sorta, dopo il 1970, una riflessione sui rapporti dell'uomo con il suo ambiente naturale. La Francia e le nazioni latine essenzialmente sono restate lontane da questo movimento che trattano con un misto fra l'ironia e il sospetto, vedendovi nel migliore dei casi un insulto alla ragione e al progresso tecnico, nel peggiore un tentativo reazio nario di scalzare l'universalità delle idee degli Illuministi e dei diritti imprescrittibili attribuiti alla persona umana42• Non proveremo qui a districare le ragioni complesse che hanno favorito in alcuni paesi l'emergere di un approccio propriamente morale dei doveri dell'uomo verso la collettività del vivente e dei diritti che questo potrebbe
ii Questo non era il caso nel Medioevo e nel Rinascimento dove i processi agli animali erano comuni, indicazione che la qualità di persona morale e giuridica poteva essere loro riconosciuta in alcuni casi; per casi curiosi vedere Agnel, É., 1858. 4' Ferry, L., 1992 ne è un buon esempio; ma delle eccezioni rimarcabili esistono, come per esempio Berque, A., 1996 o, in una prospettiva molto differente, Latour, B., 1999.
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Oltre natura e cultura possedere in modo intrinseco. Il protestantesimo e i suoi valori combinati di responsabi lità individuale e di etica comunitaria qui hanno probabilmente un ruolo, come quella funzione molto particolare assolta nella formazione delle coscienze nazionali, negli Stati Uniti e in Germania, dalle identificazioni, del resto contrastate, con la natura selvaggia, origini possibili di una disposizione meglio affermata a vedere in una vita semplice in contatto con un ambiente senza affettazioni il miglior antidoto contro gli artifici di una società immemore delle virtù della Gemeinschaft. Contentiamoci qui della semplice con statazione che le etiche dell'ambiente prosperano soprattutto nelle terre di conquista del puritanesimo anglosassone e nelle regioni settentrionali dell'Europa dove nel XIX secolo nacquero diverse varianti di questa Naturphilosophie alla quale il paese di Cartesio e di Cornee è restato ostinatamente impermeabile. Del resto i filosofi dell'ambiente attingono la loro ispirazione da origini molto diver se. È diventato abituale distinguere al loro interno tra etiche estensionistiche, che pro pongono di estendere ad una gamma più o meno ampia di non-umani il beneficio della considerazione morale prima attribuita ai soli umani, e etiche olistiche, dove l'accento è posto sulla responsabilità degli umani nella preservazione dell'equilibrio delle comunità ecosistemiche considerate come un imperativo in sé, ovvero indipendentemente dallo statuto e dal divenire delle entità che compongono queste comunicà43• Le etiche escensionisciche sono piuttosto antropocentriche, ma non lo sono tutte allo stesso livello. Così Peter Singer ingloba nel dominio di applicazione della morale pratica una grande quantità di non-umani per il facto che sono capaci di provare piacere e pena e che hanno perciò, proprio come gli umani, interessi propri di cui bisogna tener conto44• I diritti derivaci da questa situazione dovrebbero essere comparabili ad alcuni di quelli che proteggono gli umani - soprattutto il rispetto della vita e la condanna dei cattivi trattamenti -, anche se l'origine di questi diritti non è funzione di un attribu to specificamente umano esteso agli animali. Letica di Singer si appoggia infatti sulla dottrina utilitaristica di Bencham: se si ammette che tutti gli esseri sensibili hanno un interesse a proteggersi dalla sofferenza e a perpetuarsi nel loro essere, il riconoscimento di questo interesse presso i soli umani diventa "specismo" (speciecism), un'attitudine ana loga al razzismo poiché stabilisce delle discriminazioni non fondate tra classi di esistenti aventi le stesse proprietà. Comunque, Singer evolve nel tempo verso una posizione più nettamente antropocentrica quando arriva ad affermare che la vita di alcuni esseri sen sibili possiede un valore intrinseco più grande per il facto che essi sono dotaci di facoltà evidentemente derivate da quelle che il naturalismo imputa agli umani, come la co scienza di sé, la capacità di pensare e di proiettarsi nel futuro o l'attitudine a comunicare informazioni complesse. Questo non riguarda che un piccolo numero di animali, fra cui gli scimpanzé, investici così di uno statuto di persona in ragione della vicinanza che presentano con gli umani dal punto di vista della loro interiorità; il corollario logico, e vivamente contestato, di questa posizione è che gli umani sprovvisti di queste stesse
43Vedere per esempio Larrère, C., 1997 che offre una breve ed eccellente sintesi della questione. 44 Singer, P., I 979.
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8. Le certezze del naturalismo facoltà a seguito di lesioni o malformazioni cerebrali gravi non sarebbero pienamente persone e non potrebbero quindi godere di un diritto automatico alla vita45 • Anche se si presenta come una critica radicale della tesi antropocentrica che riserva vantaggi giuridici dello statuto di persona alla sola specie umana, deve essere constatato che l'etica di Singer non rimette in discussione in modo fondamentale i principi di base dell'ontologia naturalistica. Essa ne sfrutta anche tutte le possibilità dato che l'argomento "patocentrico" dell'estensione del diritto alla vita negli esseri sensibili si basa sull'evidenza di una similitudine nella dimensione fisica degli esistenti, almeno fino ad organismi do tati di un sistema nervoso centrale, mentre l'estensione della qualità di persona ad alcuni animali si fonda solamente sul fatto che condividono con gli umani "normali" un'interio rità della stessa natura. Certamente le frontiere ontologiche si sono un po' spostate, gene rando dei dibattiti appassionati e cruciali su ciò che giustifica il diritto ali'esistenza presso gli umani e i non-umani, ma questo movimento è stato fatto nelle direzioni prevedibili che le linee di forza del naturalismo avevano tracciato: continuità dei corpi, da una parte, discontinuità delle facoltà mentali, dall'altra. Finché gli animali estromessi dalla cerchia ristretta di persone restano confinati in una posizione subalterna, la qualità di soggetto autonomo non viene loro riconosciuto; oggetti di una preoccupazione morale da parte degli umani, non sono portatori di diritti che potrebbero far valere. Quanto alle piante e agli elementi abiotici dell'ambiente, restano condannati, per mancanza di sensibilità, alla sorte meccanica e impersonale che il naturalismo riservava prima a tutti i non-umani. Di ispirazione più nettamente antropocentrica di quella di Singer, l'etica della con dizione animale sviluppata da Tom Regan si distacca quindi con più forza dalle con venzioni ontologiche del naturalismo. Regan parte infatti da una posizione veramente individualistica: le origini della morale e del diritto non risiedono che negli individui, ovvero negli esseri che possiedono un valore inerente per il fatto che sono proprio dei "soggetti-di-vita" (subjects-ofa-life) e non dei semplici oggetti della considerazione mo rale degli umani, sempre intaccati da una commiserazione condiscendente. Ora, per ve dersi riconoscere questa condizione di agente morale, bisogna poter godere, se non della ragione necessaria a comprendere la legge e la libertà per regolare su questa la propria condotta - come esigono le teorie moderne del diritto naturale - , almeno di un insieme di capacità che testimoniano un'autonomia di azione e una forma di intenzionalità: la coscienza di sé, l'attitudine ad agire in funzione di finalità che ci si dà, la possibilità di formare delle rappresentazioni46• Più generoso della maggior parte degli etologi, Regan imputa questi attributi a un piccolo numero di mammiferi, in particolare i primati, che diventerebbero così dei soggetti giuridici completamente e non più dei beneficiari di diritti protettivi concessi dagli umani compassionevoli. Sicuramente, e proprio come Singer, è in virtù delle proprietà interne che possedereb bero in comune con gli umani che gli animali cambiano così di categoria. Ma il nuovo statuto che acquisirebbero in virtù dei loro soli meriti apre una breccia più importante
45 Singer, P., 1989. 46 Regan, T., 1983.
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nel modo di identificazione naturalistico, dato che la qualità di soggetto è loro, infine, riconosciuta, come gli umani, come un tratto distintivo intrinseco. Detto ciò, questa confusione nelle frontiere ontologiche è ancora lontana dal rendere la variante estensiva del naturalismo proposta da Regan in tutto e per tutto comparabile alle distribuzioni di proprietà che opera l'animismo. Innanzi tutto, perché un'interiorità simile a quella degli umani non è imputata a qualsiasi animale, se non in ragione a indici che suggeriscono in modo verosimile che di fatto la possiedono, e non, come è il caso dell'animismo, per il fatto che una petizione di principio secondo la quale, la soggettività non essendo sempre agevolmente rivelabile attraverso i suoi effetti empirici, non esiste un motivo dirimente per privarne le piante o gli artefatti. Poi, perché l'interiorità attribuita da Regan alle gran di scimmie non ne fa comunque dei soggetti collettivi, essendo per lui i soli individui origine di diritti, a differenza della propensione animista a vedere in ogni sorta di classi di esistenti le comunità sui generis organizzate secondo principi analoghi a quelli che go vernano gli umani. Infine, perché la fisicità non gioca qui un ruolo disgiuntivo, avendo la sola interiorità questa funzione, in contrasto con le distinzioni che l'animismo stabilisce era collettivi di soggetti in funzione delle loro attrezzature anatomiche e dei comporta menti che esse inducono. Probabilmente anche l'estensionismo di Regan sembrerebbe assurdo agli occhi di un Makuna o di un Montagnais. Il primo richiede che si proteggano alcuni animali per ciò che sono, ovvero dei soggetti, riconoscendo loro il fatto che hanno bisogno di essere rappresentati per far valere i loro diritti; i secondi ammettono da tempo che la maggioranza degli animali sono dei soggetti, ma è per la stessa ragione di questa autonomia costitutiva che diventa assurdo sconfinare su di essa per volerli difendere ad ogni costo. Si vede che i malintesi era le associazioni di protezione della fauna selvatica e i cacciatori autoctoni dell'Amazzonia o del Subartico non sono pronti ad essere dissipati. Al contrario, le etiche olistiche sembrano più vicine all'animismo poiché mettono l'accento non sugli individui o sulle specie dotate di proprietà particolari, ma sulla ne cessità di preservare il bene comune sconvolgendo in modo sconsiderato le relazioni di interdipendenza che uniscono tutte le componenti organiche e abiotiche di un ambien te. È importante solo il legame delle parei al tutto, ogni elemento del tutto non ha va lore né significato se non per la posizione che occupa nell'economia degli scambi vitali. Tuttavia, a causa della loro più grande capacità perturbatrice, gli umani sono investiti di una responsabilità morale decisiva nel mantenimento degli equilibri ecologici, un ruolo che non possono assolvere se non a condizione di poter comprendere la loro situazione all'interno della catena alimentare. Ora, cale intelligenza delle interazioni non può essere raggiunta che attraverso un'osservazione della natura improntata di umiltà, e cercando di identificarsi con l'oscura teleonomia che anima ognuno degli attori della grande co munità terrestre. È questo il percorso che indica Aldo Leopold, grande figura ispiratrice di tutta la filo sofia olistica dell'ambiente nel suo giustamente celebre Almanacco di un mondo semplice pubblicato nel 1949, dopo la sua morte47• Ingegnere forestale laureato a Yale, ecologo
47
Leopold, A., 2000 (1949).
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8. Le certezze del naturalismo esperto nella gestione delle risorse naturali, Leopold cacciava fin dall'adolescenza senza che questo suscitasse in lui un turbamento della coscienza. Così è da esperto cacciatore, e non da filosofo o moralista, che capisce le complessità dell'ambiente e tenta di restituirne la sua concezione. Si esprime in maniera allusiva, anzi allegorica, basandosi su remine scenze che evocano quaranta anni di esperienze intime e diverse con la natura americana che apporta quindi una lezione fondamentale: saper cacciare è saper trovare la propria selvaggina, e saperla trovare è saper adottare il punto di vista dell'animale che si cerca, è percepire le cose a modo suo, è mettersi al suo posto; insomma, è lasciare una situazione dall'alto per afferrare dall'interno questo groviglio di destini e di desideri che tessono la trama del mondo in movimento. Tale attitudine ricorda il modo in cui le popolazioni di cacciatori amerindiani considerano le metamorfosi scandendo le relazioni tra umani e non-umani, come scambi di prospettive durante le quali ciascuno, modificando la posi zione di osservazione che il suo corpo gli impone, si sforza di entrare nella pelle dell'altro al fine di sposare il suo punto di vista. Non bisogna tuttavia portare troppo lontano questa analogia che solo le esigenze tecniche e cognitive proprie alla caccia solitaria in parte sostengono. Infatti la land ethic di Leopold non rimette affatto in causa le ripartizioni ontologiche del naturalismo che al contrario riporta senza batter ciglio. Certo, affinché gli umani si formino un'idea adeguata del loro posto e della loro responsabilità nelle interazioni sinecologiche, può essere utile che si rappresentino senza arroganza le finalità e gli orientamenti di vita degli altri componenti di questo superorganismo che contribuiscono ad animare. Da qui la necessità pedagogica suggerita da Leopold di "pensare come una montagna" - alfi.ne di valutare meglio l'equilibrio da rispettare sui suoi fianchi tra i lupi, i cervi e la vegetazione - o ancora di rappresentarsi l'odissea di un atomo muto nel ciclo delle sue incorporazio ni successive in una sorta di intenzionalità incipiente48 • Ma si tratta qui di salutari espe rienze del pensiero, necessarie per dare sostanza e urgenza vissuta ad un sapere ecologico astratto, e non di una professione di fede animista. Anche se la licenza poetica delle sue formulazioni può a volce incoraggiare interpretazioni ambigue, Leopold non imputa ai non-umani un'interiorità analoga a quella degli umani, la coscienza di un divenire che a loro attribuisce occasionalmente non è che una metafora della teleonomia generale della natura che verrebbe a riverberarsi in ciascuno di essi. Soprattutto, non attribuisce agli animali e alle piante alcuna capacità di poter avere un'esistenza di specie segnata dalle convenzioni culturali, essendo queste per lui indiscutibile appannaggio degli umani. Le opold aderisce infatti senza discussione alla versione ordinaria dello schema naturalistico e al suo dualismo costitutivo: «La natura vergine è il materiale bruto nel quale l'uomo ha a fatica portato questo artificio che chiama civilizzazione. [ ...] La natura è estremamente diversa, e gli artifici che ne sono risultati sono anch'essi molco diversi. [ ...] La diversità delle culture del mondo riflette una diversità corrispondente delle nature che gli hanno dato la luce» 49 • Come si vede, niente di molco nuovo.
48 Ibid., pp. 168-173 per "pensare come una montagna" e pp. 138-143 per l'odissea di un atomo. 4" lbid., pp. 238-239.
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Probabilmente non bisogna esigere da un ingegnere forestale della prima metà del XX secolo, nonostante le sue riflessioni possano essere perspicaci e originali, che si distacchi completamente dai quadri mentali all'interno dei quali si era formato. È vero che i suc cessori di Leopold hanno saputo liberarsi sia dalle ingannevoli simmetrie del dualismo che dal finalismo diffuso al quale il loro mentore aveva a volte ceduto; ma questo accadde per tornare alle certezze più robuste delle scienze della natura e far derivare da leggi di interdipendenza ecologica un modello dell'azione morale. Il più interessante fra di loro, John Baird Callicott, difende una visione della solidarietà ecosistemica che Durkheim non avrebbe disconosciuto50 • Sebbene rifiuti l'idea che la comunità biotica possa essere vista come una società, le proprietà che le attribuisce richiamano fortemente le condizioni di esercizio della solidarietà organica, soprattutto il fatto che l'unità del tutto esiste indi pendentemente dagli individui che la compongono e che l'appartenenza a questo tutto implica degli obblighi contrattuali verso i suoi membri in ragione del sistema di funzioni che essi adempiono. I..:ecosistema diventa trascendente ai suoi elementi e questi, umani e non-umani - è qui la grande differenza con Durkheim -, si spogliano di ogni sostanza ontologica per diventare semplici ingranaggi nella rete di relazioni in costante riorganiz zazione. La natura e la cultura perdono la loro ragione di essere in tale cosmologia, che non è più biocentrica o antropocentrica bensì ecocentrica, cioè asservita ai meccanismi regolatori degli scambi di energie nell'ambiente. Detto questo, serve un'istanza di valu tazione affinché questa totalità si comporti in modo morale conservando la sua integrità sistemica, o almeno la capacità di rigenerarsi, a eventuale scapito dell'uno o dell'altro dei suoi componenti. Servono quindi degli agenti abili, capaci di conferire un valore a ciò che non ne possiede uno proprio, ed è senza troppa sorpresa che li vediamo reclutati tra i soli umani, e preferibilmente tra quelli che si occupano di scienze della natura. Come non provare un déjà-vu 51 ? Soggetti umani dotati di un'interiorità razionale e di una coscienza morale, che riconoscono il principio essenziale della continuità fisica e dell'interdipen denza materiale delle entità del mondo, si danno la missione di preservare questa conti nuità e questa interdipendenza, spesso contro i loro simili, e ciò nell'interesse superiore di tutti che sono i soli capaci di discernere e di rappresentare. Questa potrebbe essere una buona definizione dell'ontologia naturalistica nelle sue conseguenze pratiche positive. Non bisognerebbe sbagliarsi sul senso di questa analisi critica. Alcuni, ed è il mio caso, possono vedere in un'etica ecocentrica come quella di Callicott un fondamento filosofico solido per impegnarsi in una coesistenza meno conflittuale tra umani e non umani e tentare così di bloccare gli effetti devastanti della nostra noncuranza e voracità su un ambiente globale di cui siamo principalmente responsabili, dato che i nostri modi di agire su di esso sono sproporzionati a confronto di quelli degli altri attori della comu nità terrestre. Ma questo non è il proposito di questo libro. Esaminando le conseguenze ontologiche delle differenti etiche dell'ambiente, ho come ambizione solamente quella di misurare le differenze possibili che presentano in rapporto alle norme abituali del naturalismo per valutare la loro capacità di sovvertirle. Ora, bisogna constatare che, so Callicocr, J. B., 1989. si Corsivo del traduttore.
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8. Le certezze del naturalismo spostamenti categoriali operati dall'etologia o dalle scienze cognitive, per i quali siamo debitori ai filosofi dell'ambiente, non hanno ancora veramente messo in pericolo la struttura tipica del naturalismo. Almeno, le variazioni osservate non sono quelle che permetterebbero di intravedere la struttura emergente di un modo di identificazione del tutto nuovo, o almeno comparabile ad altri già conosciuti. Eppure, l'esistenza stessa di queste variazioni e l'accentuazione della loro ampiezza negli ultimi decenni offrono già un indice di quanto lo schema naturalistico non sia più ovvio - ragione per la quale un libro come questo diventa possibile - e di quanto una fase di ricomposizione ontologica sia forse già iniziata, della quale però nessuno sa predire il risultato. Essa è provata dagli sviluppi recenti del diritto, un dominio dove il cambiamen to dei principi che reggono i nostri statuti, le nostre pratiche e le nostre relazioni con il mondo è probabilmente leggibile in modo più fedele che nei trattati di filosofia o di etica. A mille miglia dai dibattiti che contrappongono i partigiani della liberazione animale ai difensori dell'antropocentrismo kantiano, il giuristaJean-Pierre Marguénaud ha recente mente dimostrato che, nel diritto francese almeno, gli animali domestici, addomesticati o tenuti in cattività, possiedono già dei diritti intrinseci allo stesso titolo delle persone morali, dato che la legge riconosce loro un interesse proprio, ovvero distinto da quello del loro eventuale padrone, e la legge fornisce loro una possibilità tecnica di espressione per difenderlo52• A fianco di crimini e delitti contro le persone, contro i beni e contro lo Stato, il nuovo codice penale ha infatti creato una quarta categoria di infrazioni, contro gli animali domestici, che attesta così che, anche se non ancora definiti completamente come persone, già non sono più considerati come dei beni, cioè come delle cose. Questo statuto intermediario probabilmente evolverà in diritto penale verso una personificazione più marcata, dato che niente si oppone al fatto che gli animali non selvatici siano inve stiti della personalità giuridica, come ogni persona morale a cui si riconosce un interesse proprio e le possibilità di difenderne l'esercizio. Quanto agli organi suscettibili di rap presentare sulla scena giuridica l'interesse distinto di quello che il nostro autore chiama la "persona animale", anche contro gli interessi di un padrone, ne esistono già a bizzeffe sotto forma di associazioni di protezione animale. Senza che i profani ne abbiano preso coscienza e aspettando che una giurisprudenza si metta in campo, i cani, i gatti, le vacche - folli o no -, le cocorite o gli scimpanzé dei nostri zoo sarebbero quindi adesso, proprio come noi, in grado di far valere i loro diritti alla vita e al benessere, e questo, non più in virtù delle ragioni umanistiche che giustificano l'antica legge Grammont, cioè lo scandalo pubblico che poteva suscitare il loro maltrattamento, ma anzi perché sono diventati, se non del tutto dei soggetti di diritto, almeno delle quasi-persone le cui prerogative sono evidentemente derivate da quelle che ci sono riconosciute. Concedere agli animali tenuti alle dipendenze degli umani una personalità giuridica non rimette certo in questione l'ontologia naturalistica, dato che sussiste la discontinuità delle facoltà morali; ma tale estensione di statuto del soggetto a qualche non-umano mostra almeno che la discrimi nazione di cui prima erano oggetto non aveva niente di "naturale".
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Marguénaud, J.-P., 1998.
Oltre natura e cultura Infatti apparire come "naturale" è l'astuzia suprema del naturalismo ed è la motiva zione per la quale lo qualifico con tale termine; sia perché le suddivisioni che opera delle entità del mondo si presentano come evidenze spontanee agli occhi di coloro che se ne servono come principio di schematizzazione dell'esperienza, tratto che condivide con gli altri modi di identificazione, sia soprattutto perché il carattere incontestabile di queste evidenze proviene dal fatto che li si dichiara fondati sulla natura, argomento infallibile quando si tratta di squalificare le altre ontologie. È per questo che la formula naturalista è proprio un'inversione completa della formula animistica: mentre la seconda fa prevalere l'universalità della condizione di soggetto morale e le relazioni tra umani e non-umani che autorizza, sull'eterogeneità fisica delle classi esistenti, la prima subordina la società umana e le sue contingenze culturali all'universalità delle leggi della natura. Darwin ha proposto la versione canonica di questo inglobare la cultura attraverso la natura in L'Origine dell'uomo (1871), quando ha voluto estendere alle società umane la teoria della discendenza attraver so la selezione naturale supponendo che questa non si era basata solamente sulle variazioni organiche, ma anche su istinti sociali, soprattutto sul dovere di assistere che chiamiamo altruismo5 3• Certamente abbiamo dato delle interpretazioni divergenti di questa inclusione delle proprietà culturali dell'umanità nella storia della natura. Restrittiva e riduzionistica nel caso della sociobiologia o del darwinismo sociale alla Spencer, l'esegesi si fa più liberale e sottile con Patrick Torr che scopre in Darwin un "effetto reversibile dell'evoluzione", ov vero un funzionamento specifico della selezione naturale quando si applica all'uomo, che favorisce una forma di vita sociale «il cui andamento progressivo verso ciò che chiamiamo "civiltà" tende a escludere sempre più, attraverso il gioco legato alla morale e alle istituzioni, i comportamenti eliminatori» 54• Ma qui poco importano queste variazioni, dato che l'idea generale che la cultura non si comprende se non in riferimento alla natura è propagata ben oltre la sua formulazione darwiniana, per convertirsi in un principio di base dell'ontologia naturalistica i cui effetti antropologici sono già stati brevemente esaminati nel terzo capi tolo. E se l'idea contraria di una "costruzione culturale della naturà' incontra adesso un certo favore, è al prezzo dell'ignoranza disinvolta del paradosso regressivo che tale nozione implica: per costruire la natura nella cultura, c'è bisogno di una natura preculturale suscet tibile di piegarsi a questa costruzione, c'è bisogno di un dato bruto che possa essere preso in considerazione indipendentemente dai significati o dalle leggi che lo convertono in una realtà sociale, c'è bisogno di una precondizione destinata a ricomparire con ostinazione ogni volta che si pensa, invertendo i valori dello schema dualistico, di ridurla ad una rap presentazione convenzionale55 • Infatti se la natura diventasse integralmente culturale, non avrebbe più ragione di esistere, né la cultura attraverso la quale questo processo si presume si compia, poichè la scomparsa dell'oggetto da mediatizzare suppone l'inutilità di un agen te mediatore. Che essa sia naturante o naturata, la natura riafferma così a contrario la sua dominanza e la cultura la sua subordinazione. 53Darwin, C., 1981 (1871). 54Torc, P., 1992, p. 26. 55 Ognuno a suo modo, Larour, B., 1999, p. 77 e lngold, T., 2000, pp. 40-42, hanno ben messo in luce questo paradosso regressivo.
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LE VERTIGINI DELL'ANALOGIA
Il naturalismo e l'animismo sono schemi gerarchici che inglobano a polarità invertite: in uno l'universale della fisicità ricollega al suo regime le contingenze dell'interiorità, nell' al tro la generalizzazione dell'interiorità si impone come mezzo per attenuare l'effetto delle differenze di fìsicità. Il totemismo si presenta al contrario come uno schema simmetrico caratterizzato da una doppia continuità, di interiorità e di fisicità, di cui il complemento logico non può essere che un altro schema simmetrico, ma dove si afferma l'equivalenza di una doppia serie di differenze. Ho chiamato questo "analogismo". Intendo con ciò un modo di identifìcazione che fraziona l'insieme degli esistenti in una molteplicità di essenze, di forme e di sostanze separate attraverso deboli differenze, a volte ordinate in una scala graduata, in modo che sia possibile ricomporre il sistema di contrasti iniziali in una densa rete di analogie che ricollegano le proprietà intrinseche delle entità distinte. Questo modo di distribuire le differenze e le corrispondenze leggibili nel mondo è molto comune. Esso si esprime, per esempio, nelle correlazioni tra microcosmo e macrocosmo che stabiliscono la geomanzia e la divinazione cinese, nell'idea, corrente in Africa, che i disordini sociali siano capaci di portare a catastrofì climatiche, o nella teoria medica delle segnature che fonda l'eziologia e la terapia delle malattie sulle somiglianze che sostanze o oggetti naturali presentano con sintomi o parti del corpo umano. Ciò che colpisce subito di questi sistemi, è l'inventiva che si dispiega per perseguire a fìni pratici tutte le similitudini e le risonanze offerte all'inferenza dall'osservazione: la ricerca della fortuna o delle cause della sventura si poggia sull'ipotesi che le qualità, i movimenti o le modifìcazioni di struttura di alcuni esistenti esercitano un'influenza sul destino degli umani o sono essi stessi influenzati dal comportamento di questi ultimi. I..:ossessione dell'analogia diviene un tratto dominante, affermato con un vigore tanto più maniaco che i suoi effetti nella vita quotidiana si ritengono molto cruciali; ed è questo il motivo per cui l'epiteto di "analogià' mi è sembrato il più idoneo per designare questo schema.
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Oltre natura e cultura
Tuttavia l'analogia non è qui che un risultato o una conseguenza, essa non diventa possibile e pensabile se non quando i termini che mette in rapporto sono originariamen te distinti, se non quando il potere di rivelare delle similitudini tra le cose e di cancellare così in parte il loro isolamento si applica a delle singolarità. Congiungendo con un'ope razione del pensiero ciò che prima era separato, la somiglianza sospende la differenza per un momento, ma è per crearne una nuova, nel rapporto degli oggetti con loro stessi, dato che diventano estranei alla loro identità originaria dal momento che si mescolano gli uni con gli altri nello specchio della corrispondenza e dell'imitazione. Insomma, l'analogismo è un sogno ermeneutico di completezza che proviene da una costatazione di insoddisfazione: prendendo atto della segmentazione generale dei componenti del mondo su una scala di piccole differenze, nutre la speranza di tessere questi elementi debolmente eterogenei in una trama di affinità e di attrazioni significanti aventi tutte l'aspetto della continuità. Ma è proprio la differenza infinitamente moltiplicata che è lo stato ordinario del mondo, e la somiglianza il mezzo sperato di renderlo intellegibile e assimilabile.
La catena dell'essere Un primo schizzo di ciò che potrebbe essere un'ontologia analogistica ci è offerta da quella concezione dello schema e della struttura del mondo, quasi egemonico in Eu ropa durante il Medioevo e il Rinascimento, che di solito è conosciuto con il nome di "grande catena del!' essere". Rintracciando la genesi di questa configurazione singolare, Arthur Lovejoy ne vede l'origine in Platone, in ciò che chiama il "principio di pienezza": questo deriva da una tensione tra la molteplicità infinita delle Idee eterne che formano gli archetipi immutabili di cui ogni esistente materiale o immateriale non ne è che una copia ridotta, e l'unità federatrice conferita a una di queste Idee in particolare, quella del Bene, che fonda l'esistenza del mondo e irriga con la sua perfezione tutte le entità che contiene'. Grazie a questa essenza dinamica, nessuna potenzialità di essere, insignificante che sia, può restare senza essere realizzata; sebbene il cosmo sia anche migliore, ovvero avvicinandosi all'ideale del Bello, del Bene e del Vero, contiene una maggiore quantità e una maggiore diversità di cose distinte. A questo cosmo saturato a priori di tutti gli esseri concepibili, Aristotele aggiunge le gerarchie rigorose della sua storia naturale: i generi sono fissi e le specie indivisibili, anche le creature viventi sono ripartite secondo il loro grado di perfezione, ognuna a suo posto, lungo una scala naturae che riconosce anche le differenze in funzione del tipo di anima di cui ogni organismo è dotato. È a Plotino e ai filosofi neoplatonici che dobbiamo la formulazione risultata da questo schema ontolo gico e cosmologico della catena del!'essere che reggerà la Weltanschauung dell'Occidente fino all'inizio del XVII secolo; essa è composta «da un numero [ ... ] immenso di legami che si dispiegano in ordine gerarchico dai tipi più umili degli esistenti, appena staccatisi
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Lovejoy, A., 1961 (1936).
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9. Le vertigini dell'analogia dalla non-esistenza, passando per tutte le gradazioni possibili, fino ali' ens perfectissimum [ ...], ognuno di questi tipi di esistenti si distingue da quello che è immediatamente superiore e immediatamente inferiore con il più piccolo grado possibile di differenza» 2 • La teoria della catena dell'essere presenta un problema intellettuale singolare, pro babilmente tipico dell'analogismo, che è l'articolazione del continuo e del discontinuo. Vista in tutta la portata del suo sviluppo, la scala delle entità del mondo sembra con tinua, ogni elemento trova il suo posto nella serie dato che possiede un grado di perfe zione appena più grande di quello dell'elemento al quale succede e appena inferiore di quello dell'elemento che lo precede. Con questa contiguità che non ammette né vuoti né rotture, è stabilita una solidarietà generale che percorre la catena dall'alto al basso e dal basso all'alto. Ma la differenza tra ogni maglia ontologica, certamente infima in rappor to ai suoi vicini immediati, si rivela tanto più grande appena si compara quest'ultima a maglie più lontane; introduce così tra essi una differenza costitutiva che indubbiamente proviene dal discontinuo. Nel tempo, e in funzione delle inclinazioni personali o dei pesi delle ortodossie, l'accento fu messo a volte sulla differenza di natura che dà ad ogni cosa un'identità singolare, a volte sulla connessione che le lega tutte in una prossimità così intima che diventa impossibile determinare con precisione le frontiere che le separano. Così il tema della molteplicità sembra dominare nella filosofia neo-platonica e nella teologia del Medioevo. Presso Plotino, per esempio, l'anima del mondo generativo che attualizza attraverso l'effusione la catena degli esseri, ha come proprietà essenziale quella di creare l'alterità; infatti"se l'universo è coerente con sé stesso, sebbene le sue parti siano spes so in conflitto, è perché esso è conforme alla ragione e perché l'unità di questo viene dagli opposti che essa racchiude. La ragione rende gli esseri differenti e addirittura il più diffe rente possibile; «spingendo la differenza al limite estremo, li farà quindi necessariamente contrari; essa sarà una ragione perfetta, se li fa non solamente differenti ma contrari» 3• Disapprovando in Plotino l'argomento di una immanenza ali'ordine di colui che ne è l'au tore- poco compatibile con gli attributi del Dio cristiano-, Sant'Agostino riprende la tesi della diversità delle cose ordinare: se le cose non fossero uguali non esisterebbero (non essent omnia, si essent tequafia), e solo è perfetto l'insieme che esse formano allo sguardo del progetto divino4. Questa esigenza di differenza tra le entità del mondo è cruciale per la teologia medievale, poiché permette di rendere conto dell'esistenza delle cose malva gie. Se tutto proviene da un'intenzione creatrice perfetta, benevolente e assolutamente trascendente alla Sua opera, come spiegare l'imperfezione, il male e la sofferenza di cui questo mondo offre molte testimonianze? Il leone che divora l'agnello è stato voluto da Dio? Sì, risponde San Tommaso, poiché, nella sua infinita saggezza, la razionalità divina ha voluto che ogni specie agisse secondo la sua natura e che il commercio di tutte si equilibrasse al punto che nessuna fra di esse diventasse predominante: «La diversità e l'ineguaglianza nelle creature non sono il prodotto del caso [ ...], ma della volontà di Dio
2 lbid., p. 59. 3 Plotino, Ennéades, t. II, II, 16, p. 45 (nella traduzione di É. Bréhier, Parigi, Les Belles Leccres, 1925). 4 Vedere per esempio Le Confessioni, libro V II, cap. XII.
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Oltre natura e cultura stesso, che vuole dare a ogni creatura la perfezione che gli è possibile avere» 5 . Ci vuole di tutto per fare il mondo; serve quindi la differenza tra gli esistenti affinché essi si mostrino nella pienezza ordinata di tutte le diversità possibili.. Nelle concezioni più tardive della catena degli esseri, nel XVII e nel XVIII secolo, è l'idea di continuità che sembra al contrario avere la meglio, prima in Leibniz, ma anche in Spinoza. Certo, il Dio di Leibniz, più ancora che quello dei filosofi medievali, riem pie il mondo del maggior numero di cose che Lui può: «Tra l'infinità di combinazioni e di serie possibili, quella che esiste è quella attraverso la quale il massimo di essenza o di possibilità è portato ad esistere»6• Eppure le molteplici monadi sono interconnesse in modo molto più intimo che nelle gradazioni di una catena lineare; esse si organizzano a reticolo nel quale ogni nodo, «specchio vivente continuo dell'universo», esprime e sintetizza l'insieme di rapporti esistenti tra tutti i punti del dispositivo. Inoltre, in questa cosmologia dove ogni posizione è un punto di incontro di una moltitudine di influen ze, la forza del principio di continuità è tale che tutti i tipi di esseri naturali «sono così strettamente legati gli uni agli altri che è impossibile per i sensi o per l'immaginazione determinare precisamente il punto al quale uno di essi termina e inizia l'altro,/. Sebbene con meno vigore e originalità visionaria, questa preponderanza dell'unità armoniosa è presente anche in Locke, Bolingbroke, Buffon o Kant, testimonianza di un robusto ottimismo riguardo alla qualità generale dello schema del mondo, e indice anche di una nuova ontologia nella quale il confronto instaurato recentemente tra la natura umana e la natura esterna all'uomo si placa nel riconoscimento di una continuità materiale tra gli esistenti. E infatti, a partire dall'inizio del XVII secolo, la scala di esseri perde poco a poco la sua dimensione analogistica per non essere ben presto impiegata se non come una metafora familiare al servizio del!'ontologia naturalistica, una comoda formulazione del principio della continuità di fisicità probabilmente necessaria al soggetto conoscente affinché possa riaffermare senza dubbi e rimorsi l'assoluta singolarità del suo spirito. Infatti è forse durante il Rinascimento che l'analogismo ha brillato in Europa dei suoi più vivi fuochi, prima di cancellarsi in un'esistenza sotterranea da dove la sua funzione di riduttore di incertezze affiora occasionalmente, e con grande sorpresa dei positivisti, sotto le antiche mentite spoglie dell'astrologia, della numerologia, delle medicine alter native e di tutte quelle tecniche di decifrazione e di uso delle similitudini che ricordano al naturalismo il suo fragile statuto e la sua breve storia. Come scrive Foucault, «fino alla fine del XVI secolo, la somiglianza ha giocato un ruolo generatore nel sapere della cultu ra occidentale»8 • Conosciamo abbastanza le pagine consacrate ai modelli di deciframen to della "prosa del mondo" in Les Mots et les Choses per non soffermarsi qui sulle forme di questa somiglianza. Notiamo comunque fin da ora alcune delle loro caratteristiche
; Summa contra genti/es, libro II, cap. XLV,§ 9. De rerum originatione radicali (1967), in Leibniz, G.-W., 1966, p. 85. 7 In una corrispondenza fra Leibniz citata da Lovejoy, A., 1961 (1936), p. 145, secondo l'edizione di Buchenau e Cassirer, Leibniz: Hauptschriften zur Grzmdlegung der Philosopgie, II, 1903, pp. 556-557. 8 Foucault, M., 1966, p. 32. 6
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9. Le vertigini dell'analogia
che possiamo pensare siano ali'opera in ogni sistema analogistico, almeno allo stato di bozza o di tendenza. La somiglianza diventa infatti il solo modo di introdurre l'ordine nel mondo inaffer rabile dell'analogismo, mondo a priori caotico e gonfio dato che contiene un'infinità di cose differenti, ognuna situata in un luogo singolare, ognuna al cuore di una rete idiosin cratica. Ridurre questa vertigine atomistica esige il riconoscimento dei legami di simili tudine che autorizzano un'evoluzione significante su tragitti che possono essere ripetuti. Tali legami possono essere metaforici, se stabiliscono una similitudine tra i termini, o metonimici, quando riguardano una similitudine tra le relazioni. Tra i primi figura la connessione nello spazio, attraverso la quale è unito per vicinanza immediata ciò che si trova collocato in una relazione di prossimità, di "vicinanza"; figura anche l'imitazione che assimila l'una all'altra cose sparse in modo che sembrino che si rispondano a spec chio, benché molto spesso in scale differenti. I legami metonimici sono prima di tutto l'analogia propriamente detta, che tratta le similitudini non tra le cose stesse, ma tra le relazioni che esse intrattengono, dispositivo flessibile e polivalente di produzione di somiglianze atto a giocare sia sulla simmetria che sulle differenti forme di inversione, di inglobamento o di sdoppiamento. A questo può essere aggiunta l'attrazione o la sim patia, un'azione a distanza anch'essa metonimica, almeno se si ammette che confonde in una relazione sui generis i rapporti prima disgiunti che ogni cosa intratteneva con i suoi vicini. Inoltre, questo gioco di somiglianze invisibili deve essere riconducibile a segni tangibili, in modo che la teoria delle segnature, lungi dal confinarsi alla preistoria della medicina occidentale, non potrà che manifestare dovunque la sua divertente im maginazione nel modo di identificazione analogistico; soprattutto grazie a repertori che indicano i segni che appaiono sulla superficie delle cose e che permettono così una ri duzione della molteplicità degli aspetti a proprietà occulte, spesso organizzabili secondo le polarità dell'identico e del differente. Accade lo stesso, infine, per l'enfasi eccezionale messa sui rapporti tra macrocosmo e microcosmo, certo particolarmente notevole nel Rinascimento sotto la sua modalità neo-platonica, ma di cui possiamo presumere che presenti una finalità identica in tutti i sistemi analogistici e per le stesse ragioni identifi cate da Foucault a proposito dell' épistémé del XVI secolo. [ossessione di corrispondenze tra l'uomo e il cosmo permette infatti di fissare in una creatura privilegiata sia un nucleo più denso limitante che la proliferazione dei segni a sua dimensione che la loro capacità illimitata di riverberazione in un mondo chiuso, garanzia che una conoscenza ordinata e una pratica riparatrice sono possibili, che un punto di vista esiste al fine di orientarsi nel percorso instancabile delle similitudini. Nella Cina antica, scrive Marce! Granet, «la società, l'uomo, il mondo sono l'oggetto di un sapere globale [che] si costituisce con il solo uso dell'analogia» 9 • Ed è difficile, in9
Granet, M., 1968 (1934), p. 297. La lettura di questo classico mostra bene che, contrariamente a ciò che sostenevano Durkheim e Mauss, le azioni "simpatiche" o le influenze astrali caratteristiche della divina zione cinese non testimoniano affatto «l'assenza più o meno completa di concetti definiti» (Durkheim, E., e Mauss, M., 1903, p. 15), ma anzi al contrario una volontà ostinata di esaurire tutte le discontinuità del reale al fine di costituirlo meglio in uno stretto tessuto di analogie.
Oltre natura e cultura
fatti, non vedere nel modo in cui questa civiltà ha riportato la sua esperienza delle cose una bella illustrazione del modo di identificazione analogistico, portato ad un altissimo grado di sottigliezza e di raffinatezza attraverso molti millenni di speculazioni letterarie. Non ci attarderemo quindi molto su questo caso esemplare, anche se meriterebbe svi luppo perché giustizia gli venga resa per la sua complessità e per la sua unità di insieme che ne emerge. Notiamo solamente che la filosofia cinese rende manifesto al più alto grado ciò che sembra essere un tratto centrale di tutta l'ontologia analogistica, ovvero la difficoltà a distinguere in pratica, nelle componenti degli esistenti, tra ciò che proviene dall'interiorità e ciò che proviene dalla fisicità. È questo ciò che esprime questo aforisma preso da un trattato quasi contemporaneo ad Aristotele, il Hi ts'eu, «i wou (esseri) sono fatti di tsing e di k'i» 10 • Con wou, bisogna intendere ognuno dei tipi di cose animate e inanimate, un insieme comunemente chiamato le "Diecimila Essenze"(wan wou), ma di cui il numero esatto, calcolato circa sui 64 esagrammi che servono alla divinazione, sarebbe infatti di 11 520, che corrisponde ad altrettante situazioni, stati e emblemi singolari. Ogni wou è costituito da emanazioni che provengono dal Cielo dove regna il Soffio (k'i) e dalla Terra che produce le essenze madri (tsing), in modo che tutta la "na tura" (sing) sia il risultato di una combinazione e di un dosaggio più o meno armoniosi ed equilibrati tra gli elementi eterogenei che vengono dall'Acqua, dal Fuoco, dal Legno, dal Metallo, dalla Terra. Insomma, il modo di essere, la personalità, il temperamento, l'idiosincrasia, il sing di un esistente non sono il fatto di un'opposizione dinamica tra lo spirito e la materia, ma esprimono le distinzioni stabilite tra gli stati degli elementi e le proporzioni delle loro mescolanze rispettive. Questa moltiplicazione smisurata di parti elementari del mondo che si ripercuotono all'interno di ognuna delle sue parti - tra cui gli umani, frammentati in numerosi costituenti a loro volta sdoppiati in blocchi succes sivi - sembra essere una proprietà distintiva dell'ontologia analogistica e l'indice più si curo che permette di identificarlo. Lintenzionalità e la corporeità vi affiorano raramente come delle entità autonome, distribuite come sono nelle catene di accoppiamento che sposano il materiale e l'immateriale ad ogni livello di scala del microcosmo e del macro cosmo. Anche la mia definizione dell'analogismo come una combinazione di differenza di interiorità e di differenza di fisicità non è da prendere proprio alla lettera, tanto i con torni di questi due insiemi sembrano non definiti: bisogna piuttosto vederci un modo approssimativo di qualificare questa abbondanza di singolarità più o meno concesse che sbriciola l'evidenza del fisico e del morale per meglio assicurare la loro congiunzione.
Un'ontologia messicana Evitando la Cina e la formidabile erudizione che la sua trattazione esige, è verso il piano centrale del Messico che la nostra indagine sull'analogismo ci porta. Una cono scenza etnografica più sicura di questa regione delle Americhe probabilmente giustifica
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Citato in Granec, M., 1968 (I 934), p. 330 da cui prendo spunto anche per i commenti del Hi ts'eu.
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9. Le vertigini dell'analogia la mia scelta, che risponde anche a ragioni meno contingenti. Prendendo la civiltà han come illustrazione principale dell'ontologia analogistica, o meglio l'India della quale si pensa abbia proprietà simili, corriamo il rischio di riportare questo modo di identifica zione ad un paradigma "orientale", coestensivo ad un vasto e ipotetico dominio delle "alte culture" asiatiche che ne fornirebbe l'unità non ben costruita (anche se il ricordo della nostra antica "catena dell'essere" soffrirebbe nello smentire tale particolarismo geo grafico). Tornare verso la Meso-America - anche l'America andina avrebbe potuto essere trattata -, dopo aver attinto numerosi esempi di animismo dalle basse terre dell'Ame rica del Sud e della zona settentrionale dell'America del Nord, permette a contrario di sottolineare che gli schemi ontologici si suddividono su tutta la superficie della terra a seconda dell'inclinazione delle popolazioni per quello o quell'altro modo di organizzare la loro pratica del mondo e dell'altro, non perché questi schemi sarebbero l'emanazione di grandi filoni culturali o il prodotto di diffusioni di idee pericolosamente ricostruite. Alcuni motivi ideologici sono certo presenti nella gran parte dell'America indigena, ma si aggiungono come delle sfumature o degli arricchimenti a modi di identificazione più elementari la cui struttura contrastata è in gran parte sdoppiata da un eventuale substra to comune. Il Messico della Conquista presenta inoltre un raro caso di sistema analogi scico la cui conoscenza ci è stata trasmessa essenzialmente dagli osservatori già immersi essi stessi in una mentalità di tipo analogistica, quella dell'Europa del XVI secolo, agli occhi dei quali, e che che se ne dica, gli Aztechi dovevano sembrare meno misteriosi di quanto lo siano per gli accademici di oggi. Lontologia analogista è del resto così comune in tutte le latitudini che sembra preferibile prendere in esame i dettagli di una delle sue attualizzazioni, mezzo per evidenziare i rapporti costanti utili alla comparazione, piutto sto che costruire un tipo astratto a partire da fatti diversi. Sebbene siano stati ripartiti in una moltitudine di città-stato, signorie e principati più o meno dipendenti sul piano politico dall'immensa città di Messico-Tenochtidan, i popoli nahua che occupavano il piano centrale del Messico al momento della Conqui sta presentavano una notevole omogeneità nelle loro concezioni di un universo dove macrocosmo e microcosmo erano strettamente integrati. Di questi due domini dell'esi stente, uno è rimasto relativamente incompreso; infatti se la cosmologia azteca è stata oggetto di molte pubblicazioni, è solo di recente che le teorie nahua del corpo e della persona hanno ricevuto l'attenzione sistematica che meritavano grazie allo studio che Alfredo L6pez Austin gli ha dedicato 11 • Fondato su analisi filologiche delle origini in lingua nahualt, sull'uso razionale dell'etnografia spagnola del XVI secolo, soprattutto l'ammirabile Histoire générale des choses de la Nouvelle-Espagne del fratello francesca no Bernardino de Sahagun, e sull'etnologia dei Nahua contemporanei, l'opera di L6pez Austin costituisce una somma senza precedenti sull'ontologia degli antichi Messicani di cui sarà fatto grande uso qui. I Nahua riconoscono l'esistenza di quattro componenti principali della persona uma na - tonacayo, tona/li, teyolia e ihiyotl - che bisogna esaminare nel dettaglio perché, a 11 Lopez Ausrin, A., 1988; l'edizione originale è stara pubblicata in Messico nel 1980.
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Oltre natura e cultura eccezione della prima, non sono molto riconducibili ad una semplice traduzione. Tona cayo, "tutta la nostra carne", era il termine comunemente in uso per designare il corpo come una realtà sostanziale che forma una totalità discreta; si usava tanto in riferimento a umani quanto alle piante, al mais prima di tutto. L6pez Austin definisce le altre tre componenti come "ceneri animistici", cioè nuclei localizzati nell'organismo che ordina la vita, il movimento, l'individuazione e le funzioni psichiche, presso gli umani come presso i non-umani. Celemento più particolareggiato di un esistente sembra essere il suo tona/li. Per gli umani situato nella testa diffonde la sua influenza in tutto il corpo (attraverso il sangue secondo i Nahua contemporanei). Emanazione impalpabile si materializza a volte nel respiro, adotta un contorno invisibile identico a quello del corpo dove è localizzato nel momento in cui si assenta, ma senza un rivestimento protettore non può durare a lun go, va a cercare rifugio, se è un tona/li umano, negli animali o nelle piante. Tona/li può essere tradotto con "irradiazione" e significa ugualmente, secondo i contesti, «il destino di una persona secondo il suo giorno di nascita» e «qualche cosa che appartiene a qual cuno in parcicolare» 12 • Si tratta di una forza o di un'essenza manifesta nel mondo sotto forma di calore e luce, sebbene singolarizzata da ciascun individuo in funzione del segno corrispondente al giorno in cui è nato e del nome, tenuto segreto, che gli sarà destinato di conseguenza. Il tona/li non è presence alla nascita e deve essere incorporato attraverso una cerimonia, un bagno rituale, che completa il neonato e definisce il quadro dei suoi futuri adempimenti. Questo marcare l'identità che ha tutta l'apparenza di una semplice predestinazione astrologica funziona tuttavia come un principio di animazione e una facoltà mentale: dà vigore, determinazione e capacità di crescita, regola la temperatura del corpo e rende possibile la coscienza di sé. Il tonalli può lasciare il corpo temporaneamente - quando si è ubriachi, malati, mentre si sogna o si ha il coito - o abbandonarlo per sempre, sintomo di una morte imminente poiché non si può vivere senza il proprio tonalli più che per un breve lasso di tempo. Le origini nahua menzionano soprattutto il tona/li riferendosi agli umani, ma non è affatto loro appannaggio: gli dei, le piante, gli animali e anche gli oggetti inanimati ne hanno uno. Gli equivalenti contemporanei del tonalli nei gruppi indigeni non nahua del Messico possiedono caratteristiche analoghe. Così, l'anima fitti degli Otomi della Sierra Madre proprio come la sombra (I'ombra) di numerose comunità mesoamericane possono staccarsi dal corpo, situazione pericolosa poiché si espongono al rischio di essere catturate da uno stregone 13 • Per i Tzotzil di lingua maya, tutte le cose possiedono un ch'ulel che è il "duplicato intangibile della sua forma e delle sue qualità''; presso gli umani, questo principio di individuazione si assenta al momento del coito, del sogno e dell'ubriachezza, e può allora entrare in comunicazione con il ch'ulel di altri esistenti; soprattutto, e nella misura in cui il ch'ulel, come il tonalli, è diffuso nella 12 Jbid., p. 204.
13 Per gli Oromi, vedere Galinier, J., 1997, p. 229; per la sombra, vedere Aguirre Belcran, G., 1963, pp. 109-11 o.
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totalità dell'organismo, gli elementi del corpo che se ne separano (ritagli delle unghie, capelli) continuano ad intrattenere con esso un legame intrinseco,pur essendo essi stessi infusi da un ch'ulel che è loro proprio 1 4• Notiamo infine che ogni individuo ha un tona/li specifico. Accadeva che due persone avevano ricevuto un tona/li e un destino simile se erano nate lo stesso giorno, sotto l'influenza dello stesso pianeta; questo legame acci dentale poteva sfociare in un'affinità amicale e ritualizzata. Invece tonalli identici erano incompatibili nel matrimonio - si divoravano fra di essi - e si dovevano consultare degli specialisti prima di un'unione per assicurarsi che i tona/li dei futuri congiunti fossero ben differenti. Il teyolia è localizzato nel cuore, senza essere tuttavia confuso con esso. Come dice uno degli informatori nahua di frate Alonso de Molina: «Quando qualcuno muore, qualche cosa che assomiglia a una persona [...] esce dalla sua bocca e va laggiù [con gli dei]. Questo cuore che se ne va è ciò che rende viventi e, una volta partito, resta solo il cadavere. Il cuore non se ne va,unica parte che custodisce qualcuno in vita qui» 1 1 . Scom ponibile in /yolia/ ("ciò che anima") e /-te/ (suffisso possessivo),il teyolia è,infatti,la par te della persona che si congiunge al mondo dei morti,e questo concetto fu molto presto assimilato ali'dnima, l'anima cristiana, tanto dagli Spagnoli che dai Nahua ispanizzati. A differenza del tona/li, il teyolia non lascia mai il corpo durante la vita; risiede nell'em brione per volontà, sembra, delle divinità protettrici del calpulli, il gruppo di filiazione localizzato al quale il neonato sarà collegato. È la componente delle persona umana che, con la sua permanenza e le sue proprietà, sembra corrispondere al meglio ad un'idea di interiorità: essa è l'origine della sensibilità, della memoria, degli "stati d'animo" e della formazione delle idee - "pensare" si dice « rendere qualche cosa vivente all'interno» 16 • Ma il teyolia comanda ugualmente gli affetti che,in quanto esprimono un temperamen to durevole, si traducono in un comportamento specifico identificato al tipo di "cuore" ricevuto con la vita; secondo il genere di teyolia con il quale un individuo è gratificato, si dice avere un cuore "bianco","duro","dolce","amaro"," triste","crudo" o freddo. Per esempio, il cuore "amaro" predispone allo sforzo, alla tristezza, ai rimorsi e immunizza contro gli attacchi della stregoneria. Come ciò che succede con il tona/li, ogni umano si vede quindi dotato di un teyolia molto particolareggiato in ragione del gran numero di varietà con le quali questa componente si presenta. Detto questo, nemmeno con il tona/li il possesso di un teyolia è privilegio dei soli umani: gli animali,le piante e anche le montagne,le città e i laghi ne sono provvisti,e adesso i Maya delle alte terre e i Totona chi lo attribuiscono anche a croci e a case. Con ciò si conferma che il cuore umano non è che l'ipostasi,cioè la metafora,del teyolia, non l'incarnazione sostanziale di una facoltà. Nel corpo umano, l'ihiyotl è legato al fegato e alla bile, ma, anche qui, l'organo è solamente un mezzo per situare una funzione,dato che entità inorganiche hanno anche un ihiyotl. Del resto,ihiyotl significa "soffio" ed era impiegato comunemente per indica-
14 Guireras Holmes, C., 1965, p. 249 e pp. 240-242: Holland, W., 1963, p. 99. 15 Frare Alonso de Molina, Vocabulario (I parre), fai. I I 9r, ciraro da Lopez Ausrin, A., I 988, p. I 99. '6L6pezAusrin, A., 1988, p. 201.
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Oltre natura e cultura re il viso. Lo si descrive come un gas luminoso molto denso che emana un umano, un animale o un oggetto e che agisce come un attrattore e un nucleo di influenza sul suo ambiente circostante. Presente fin dallo stadio embrionale e rimanente dopo la morte come un'esalazione pericolosa, l' ihiyotl genera e canalizza gli affetti diretti verso un og getto qualsiasi - desiderio, collera, appetito, voglia di nuocere - e deve senza sosta essere rivitalizzato grazie all'aria respirata e al cibo ingerito. L' ihiyotl degli umani combina il registro delle emozioni produttrici di azione e quelle delle virtù civiche che gli sono associate; come "viso", è specifico ad ogni individuo, i Nahua dicono che la fisionomia riflette le qualità idiosincratiche riconosciute dalla collettività ed emblematiche di quello o quell'altro statuto nella gerarchia sociale: la gloria, la reputazione, l'umanità, lo splen dore, l'esperienza, la dignità. Se si vogliono ad ogni costo ripartire i componenti nahua degli esistenti nelle cate gorie dell'interiorità e della fisicità, è probabile che la soluzione più rispettosa dei fatti consisterebbe nel disporre il tonai/i e il teyolia nella rubrica dell'immateriale, mentre il corpo tonacayo, I' ihiyotl e l'assegnazione a un luogo singolare definirebbero l'aspetto materiale di un individuo. Sebbene riferiti a degli organi negli esseri viventi, il tonalli e il teyolia sono insostanziali: il primo è una irradiazione che non può sussistere a lungo senza la protezione di un rivestimento, il secondo un principio di animazione che ci ricorda l'anima cristiana; l'uno e l'altro rendono possibili o esprimono le funzioni pro prie dell'interiorità: la coscienza di sé, la sensibilità, il pensiero, l'essenza individuale, l'energia vitale. Invece, il tonacayo è proprio sostanziale, il suo nome deriva dalla "carne" (nacatl), intesa qui come la materia che costituisce alcuni organismi di cui gli umani si nutrono. l' ihiyotl si lascia classificare meno facilmente. Nella sua forma ordinaria, non è certo materiale come una parte anatomica, ma è molto più concreto che il tonalli e il teyolia: è un'esalazione vaporosa analoga a un'aurea, riconoscibile dall'odore spiacevole che emette vicino alla nascita o al decesso; i Chorti del Guatemala, un gruppo della famiglia linguistica maya, confermano il fetore nocivo dell'hijillo (versione ispanizzata dell' ihiyotl) e assicurano che a volte si può distinguere il suo contorno tanto è denso 17• L'ihiyotl contribuisce inoltre a modellare in modo caratteristico la fisicità degli individui rendendone visibile la fisionomia e la capacità dei tratti dominanti del temperamento. Quanto all'iscrizione topografica come attributo ontologico, questa si deve al fatto che ogni individuo esistente deve occupare un luogo appropriato alla sua identità, nello spazio fisico come sociale, una disposizione ben illustrata dal significato del termine "sventurà' (aompayotl), definito come «la condizione di qualche cosa che non è al suo posto» 18 • Noteremo che la determinazione fisica delle entità del mondo in funzione della localizzazione che è loro assegnata si ritrova anche nell'antica Cina, dove lo spazio non era considerato come una semplice estensione risultante dalla giustapposizione di parti omogenee, ma come un insieme di siti concreti che servono alla classificazione degli
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Cherles Wisdom, Los Chordz de Guatemala, Guatemala, Editoria! del Ministerio de Educaci6n Pu blica, 1944, p. 375, ciraro da L6pez Austin, A., 1988, p. 233. 18 L6pez Austin, A., 1988, p. 347.
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9. Le vertigini dell'analogia esseri e delle cose in vista dell'azione 19 • Di fatto, questo uso della posizione nello spazio come un modo addizionale per particolareggiare ogni esistente sembra essere comune alla maggior parte dei sistemi analogisrici. Tuttavia, la distribuzione delle componenti della persona secondo che siano mate riali o immateriali non è ciò che importa qui. Il tratto dominante dell'ontologia nahua, come di rutti i sistemi analogistici, è infatti di riunire in ogni esistente una pluralità di insistenze di cui si ritiene che la buona coordinazione sia necessaria alla stabilizzazione della sua identità individuale, all'esercizio delle sue facoltà e disposizioni, allo sviluppo di un modo di essere conforme alla sua "natura". La grande diversità dei tipi di tonacayo, di tona/li di teyolia e di ihiyotl e le varianti quasi infinite che le combinazioni tra questi tipi rendono possibili hanno così come risultato quello di fare di ogni entità del mon do, umana o non umana, un esemplare quasi unico. Questa differenziazione ossessiva si esprimeva presso gli antichi Nahua con un'attenzione costante verso le differenze tra gli umani secondo la loro età, il loro sesso, il colore della pelle e il loro odore, i gradi di vigore e di calore, di conformità ai canoni della normalità fisica, di vulnerabilità al peri colo e agli attacchi degli stregoni o di divinità malevoli, segni di caratteristiche proprie ai costituenti di ognuno e della materia con cui erano assemblati. La scala di differenze era allo stesso modo marcata per i restanti esistenti, resa manifesta dalla loro distribuzione graduale lungo un continuum che andava dal caldo al freddo dove, oltre agli umani, prendevano posto le piante, gli animali, i minerali, i corpi celesti, il cibo, le malattie, le divinità e molte altre cose ancora; insomma, un sistema di classificazione universale, ancora vigoroso in Mesoamerica e sul quale torneremo più avanti. A prima vista, l'analogia nahua sembra molto vicina ali'animismo: animali, piante, pietre e montagne dotati di "centri animistici" analoghi a quelli degli umani; esistenti di ogni tipo le cui interiorità comunicano tra esse al momento dei sogni; alberi di cui si im plora il perdono prima di abbatterli e ai quali si rende omaggio dopo averli tagliari20; un mondo raie, mormorante di vira cosciente e saturato di oggetti intenzionali, si distingue davvero da quello degli Indiani dell'Amazzonia o del Canada? Notiamo prima di tutto che gli antichi Nahua o i Tzotzil contemporanei attribuiscono interiorità con più gene rosità che gli Jivaro o i Cree, tutte le entità visibili e invisibili del loro ambiente godono di almeno una delle componenti che assicurano agli umani la soggettività, la memoria, la forza vitale o la volontà. Ognuno degli esistenti è inoltre differente da tutti gli altri in ragione della pluralità delle sue costituenti e della diversità dei loro modi di combinazio ne, cosa che spicca sull'unirà delle facoltà interne che le ontologie animistiche riconosco no agli umani e ad alcuni non-umani. In un regime analogistico, gli uomini e gli animali non condividono una stessa cultura, una stessa etica, le stesse istituzioni; coabitano, a prezzo di molte precauzioni, con le piante, le divinità, le case, le grotte, i laghi e tutta una folla di vicini variegati, all'interno di un universo chiuso dove ciascuno, ancorato in un luogo, insegue gli obiettivi che il destino gli ha fissato secondo le disposizioni che ha
19 Granet, M., 1968 (1934), pp. 77-99. 20 L6pez Austin, A., 1988, p. 374.
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Oltre natura e cultura ricevuto in condivisione, attorcigliato, che gli piaccia o no, a cucci gli altri da una matassa di corrispondenze sulle quali non ha influenza. Al contrario della libertà di azione che l'animismo concede agli esistenti provvisti di interiorità somiglianti, i mondi analogiscici sono sopraffacci dal peso del Jatum. Tutte le entità sono facce da una molteplicità di componenti in equilibrio instabile, il nomadismo di ognuna di queste diventa quindi più agevole. Trasmigrazione di anime, reincarnazione, metempsicosi e soprattutto possessione segnalano quindi senza equivoco le oncologie analogisciche. Infatti, l'intromissione in un esistente di un'interiorità che viene dall'esterno e la dominazione temporanea o definitiva di quella sull'interiorità autoctona - definizione a minima della possessione - sembrano sconosciute nei siste mi animistici. Si dice certamente a volte che alcuni sciamani amerindiani o siberiani sono penetraci con il loro "spirito ausiliare", ma si tratta in questo caso di un modo di esprimere la comunicazione volontaria stabilita dal guaritore con degli alter ego invitaci a prestare il loro contributo e di cui domina le azioni, non di una alienazione completa dell'individuo attraverso una forza che gli fa cambiare identità. I Nahua rivelano molti esempi di questa cancellazione della personalità che carat terizza la possessione. Gli effetti si rivelano spesso disastrosi: così alcuni eccessi di follia furiosa sarebbero imputati alla possessione del demone attraverso le divinità minori della pioggia - riceveva quindi la qualificazione di aacqui, «colui che ha subito un'intrusione» -, mentre il teyolia dei cihualpipiltin, delle donne morte di parco che accompagnano il sole nel suo corso, «si rendeva manifesto» nelle sue vittime provocandone delle paralisi21 • Ma la possessione poteva essere anche ricercata per le sue conseguenze benefiche. Al momento della consumazione della pulque, l'alcool di agave, uno delle quattrocento divinità-coniglio (centznototochtin) che risiedevano nel beveraggio si introduceva nel corpo del bevitore; se lui aveva l'età richiesta per bere pulque (cinquantadue anni), se ne prendeva con moderazione e per un motivo rituale valido, allora la divinità donava forza e bellezza; in caso contrario, si offendeva e spingeva il trasgressore ad una condotta indegna. Questa possessione era molto individualizzata poiché la stessa divinità-coniglio si impadroniva ogni volta dello stesso beveraggio e trasmetteva alla sua intossicazione i caratteri della sua personalità: gaiezza, melanconia o aggressivicà 22 • Non si faceva altri menti con l'indigestione di sostanze psicotrope come il peyoce o i funghi allucinogeni, tutte abitate dagli dei che prendevano possesso attraverso questo strumento del corpo degli umani per risiedervi un momento. La differenza è notevole con le pratiche ana logisciche nell'Amazzonia animistica: prendere sostanze allucinogene come l'ayahuasca (Banisteriopsis sp.) non ha affatto come funzione quella di importare un'interiorità eso gena che verrebbe a stabilire la propria influenza su quella già presence; al contrario essa serve a liberare l'interiorità dalla sua morsa fisica, disaccoppiando la sua acutezza e la sua chiaroveggenza, e permettendole eventualmente di liberarsi dal corpo per interagire senza coscrizioni con i suoi simili. 21 Ibid., p. 354-355. 22 lbid., p. 356.
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9. Le vertigini dell'analogia Il vagabondaggio delle componenti della persona nei corpi estranei di cui gli anzia ni Nahua ci danno testimonianza invita a prendere in esame per un momento questo fenomeno tipicamente mesoamericano conosciuto sotto il nome di "nagualismo". Fatti molto diversi sono stati confusi con questo termine, è così da molto tempo - tutti i pa dri fondatori dell'antropologia lo utilizzano abbondantemente-, per questo motivo un chiarimento preliminare è doveroso. Con la parola nagual (o nahua� si designa tradizio nalmente il tutto o una parte delle seguenti cose: un doppio animale il cui ciclo di vita è parallelo a quello di un umano dato che nasce e muore nel suo stesso momento e che tutto ciò che viola l'integrità dell'uno affetta l'altro allo stesso tempo; il segno zodiacale sotto il quale nasce un bambino (e il giorno della sua nascita), il quale determina il suo carattere e i suoi attributi; si ritiene che stregoni possano trasformarsi in un animale o in una sfera di fuoco, generalmente con l'intenzione di nuocere; l'animale nel quale lo stregone si è incorporato; una componente della persona umana. Riprendendo a parlare di "nagualismo", George Poster ha stabilito che l'attitudine a incarnarsi in un animale riconosciuta agli stregoni nagual del Messico e del Guatemala era completamente in dipendente dalla credenza in un luogo esclusivo che si stabilirebbe dal momento della nascita fra un umano e un animale, credenza che sembra del resto assente presso i Nahua della piana centrale2\ Quindi è preferibile riservare il nome nagual (e "nagualismo") allo stregone capace di trasformarsi in animale e di chiamare tona l'alter ego animale di un umano, essendo il termine di uso corrente in molte regioni del Meso-America. Quali sono esattamente i meccanismi mobilitati in questi processi di incorporazione e di accoppiamento ontologici che sembrano cancellare le frontiere tra gli umani e gli animali? Il tona (o il wayjel presso i Tzotzil) è un animale selvaggio che nasce lo stesso giorno e sotto lo stesso segno di un umano e con cui quest'ultimo condivide le caratteri stiche di temperamento: se si tratta di un giaguaro (per i Tzotzil), la persona sarà testar da, volitiva, violenta e scontrosa; se si tratta di un colibrì, sarà al contrario paziente, dolce e comprensiva24• La connessione con un vegetale è più rara e ambigua: presso i Teenek della Huasteca, per esempio, i giovani alberi sono scelti dai guaritori come "padrini" dei bambini e ricevono la missione di proteggerli, generalmente all'insaputa dei beneficiari, senza che ci sia per ciò, sembra, coincidenza tra le date di nascita o corrispondenza tra le caratteristiche imputate all'albero e quelle imputate al bambino25• Sebbene abbiano dei destini paralleli, non esiste nessuna relazione deliberata tra un umano e il suo tona, tanto che si ignora generalmente l'identità di quest'ultimo e il rischio di causargli un danno - e in tal modo di portare un danno a sé stessi- è sempre presente; come scrive Jacques Galiner a proposito degli Otomi, «ogni individuo sa che cacciando nella savana può abbattere inavvertitamente il suo compagno [animale] e quindi affrettare la propria morte» 26 • Tuttavia, il tona non è veramente un doppio anonimo nel senso di una sorta di
23 Foster, G. M., 1944. 24 Guiteras Holmes, C., I 965, p. 243. 25 Ariel de Vidas, A., 2002, pp. 253-259. 26 Galinier, J., I 997, p. 240.
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Oltre natura e cultura sosia morale e biografico che divinità o antenati capricciosi assegnerebbero ad un umano per rendere la sua esistenza più imprevedibile. Infatti la comunità di destino che li unisce indipendentemente dalle loro volontà rispettive riposa sul fatto che, dal momento della nascita, una frazione di un umano - una parte del suo tonafli secondo L6pez Austin va a risiedere nel suo alter ego animale per dimorarvi fino al trapasso27 • Né proiezione di una personalità su una cera vergine, né materializzazione di attributi raddoppiati, il tona è quindi sia differente dal suo gemello umano sia simile a lui, dato che fornisce un ricettacolo di un frammento di interiorità delocalizzata che scappa al controllo cosciente - questo è inteso - proprio continuando ad influenzare l'individuo da dove proviene. Quanto al nagual, non si limita alla figura dello stregone capace di trasformarsi in animale che ne costituisce l'immagine più frequente. Presso gli anziani Nahua come in gran parte della Meso-America contemporanea, sono anche le divinità, i morti e gli animali che possono adottare una forma animale - in quest'ultimo caso, quella di un animale di un'altra specie -, non modificando il loro aspetto, ma introducendosi temporaneamente nel corpo di un'altra entità. Non si tratta quindi di una metamor fosi; bisogna piuttosto vedervi, secondo L6pez Austin, «una sorta di possessione che gli umani, le divinità, i morti e gli animali realizzano inviando una delle componenti animistiche, l' ihiyotl o nahuafli, a ripararsi in diverse entità, animali principalmente, o mettendosi esse stesse direttamente all'interno del corpo delle loro vittime» 28 • In questo senso, il nagual (o nahualli) è contemporaneamente un essere che può separarsi dal suo ihiyot! e dargli un altro essere come rivestimento, l'ihiyocl stesso, e l'essere che riceve in lui l' ihiyot! di un altro. Si comprende meglio quindi perché "tonalismo" e "nagualismo" furono spesso con fusi, anche nelle formulazioni autoctone. Nei due casi si tratta di un'esportazione di una componente di un esistente in un altro esistente, le loro sorti diventano così tanto legate che tutto ciò che riguarda l'uno avrà sull'altro delle conseguenze. Ma anche delle differenze esistono: quanto all'elemento esportato, tonai/i o ihiyot!; quanto al legame stabilito, involontario e permanente o transitorio e intenzionale; quanto al recettore, animale singolo o entità qualsiasi; quanto alle qualità richieste per delocalizzare una parte di se stesso dal momento che tutti gli umani esternalizzano a loro insaputa una parte del loro tonai/i in un animale, mentre solo gli esperti possono coscientemente trasportare il loro ihiyot! in altri. Tuttavia, le differenze tra questi due modi di este riorizzazione contano poco rispetto al contrasto maggiore che presentano insieme in rapporto al meccanismo della metamorfosi che opera nelle oncologie animistiche. Se il "nagualismo" è l'introduzione in un'entità indipendente di un elemento estraneo che proviene piuttosto dalla fisicità (I' ihiyotl), e il "tonalismo" l'introduzione di un elemento di interiorità (il tonai/i), allora c'è proprio una coesistenza duratura o passeggera in uno stesso esistente di principi oncologici di provenienze diverse, fatto che va ad amplificare l'effetto di demoltiplicazione già generato in una situazione normale dal grande numero
27 28
L6pez Austin, A., 1988, p. 374. lbid., p. 37.
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9. Le vertigini dell'analogia di combinazioni tra molteplici varietà di componenti degli individui. Nella metamorfo si, invece, le interiorità degli umani e dei non-umani, identiche nella loro disposizione, restano costanti, unitarie e autonome, solo i rivestimenti corporali si modificano dal punto di vista a partire dal quale esse sono comprese. Alloggiare una parte di se stessi in un animale che estraniamo, come il nagual messicano, non è indossare una livrea animale, o percepita come tale, come fa lo sciamano amazzonico: il primo scompone e disperde come vuole gli elementi della sua persona, il secondo resta conforme all'identità stabile della sua interiorità. Un mondo di singolarità composto da materiali diversi in circolazione perma nente, minacciato di anomia giorno dopo giorno dalla sbalorditiva pluralità dei suoi abitanti, esige potenti dispositivi di corrispondenza , di strutturazione e di classifi cazione per diventare rappresentabile, o semplicemente vivibile, per coloro che lo occupano. Ed è qui che il ricorso all'analogia interviene come una procedura com pensatoria di integrazione che permette di creare in tutti i sensi trecce di solidarietà e di legami di continuità. I piani del cosmo, le parti e le componenti visibili e invisibili degli umani, delle piante e degli animali, le relazioni tra i membri della famiglia, gli strati sociali, le occupazioni e le specialità, le meteore, gli alimenti e i medicamenti, le divinità, i corpi celesti, le malattie, le divisioni del tempo, i siti e i punti cardina li, tutti questi elementi erano interconnessi. presso gli antichi Nahua attraverso un intrico fitto di corrispondenze e di determinazioni reciproche, come lo sono ancora adesso per molti popoli del Meso-America. Probabilmente la totalità e l'architettura di questi saperi sul quale i messicanisti hanno scritto molti volumi non erano acces sibili che a una piccola cerchia di specialisti, esperti sulla divinazione, l'astrologia e la medicina; ma anche le persone del popolo, i macehualtin, dovevano possederne dei frammenti, utili alle operazioni rituali della vita quotidiana e sufficienti a provare la densità delle relazioni tra le costituenti dell'universo. È questo ciò che possiamo desumere dall'etnografia delle comunità indiane contemporanee: che i profani hanno conoscenze abbastanza sicure, se non sempre precise come quelle degli esperti ricono sciuti, guaritori, veggenti, hechiceros o levatrici. Si svolge nell'Europa del Rinascimento, in Cina o presso i Nahua della Conquista, questo groviglio di segni che per soddisfare gli uni e gli altri è spesso collegato dagli anali sti alla formula classica della corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo. Ora, questo argomento è difficile da gestire. Perché è universale se lo prendiamo nel suo più alto grado di generalità: dovunque sono fatte delle analogie - e ben attestate nei lessici - tra parti del corpo umano, parti delle piante e degli animali ed elementi dell'ambiente inorgani co; ovunque la casa è intesa come un microcosmo di livello intermedio tra il corpo di cui forma un'estensione e il mondo che riproduce in miniatura; ovunque si trovano evoluzioni, a volte molto allusive, tra funzioni, disfunzioni e sostanze biologiche, da una parte, tra avvenimenti e cicli climatici o stagionali, dall'altra. Insomma, il nostro corpo offre un serbatoio così ricco e così immediatamente disponibile di particolarità anatomiche e fisiologiche che sarebbe stato sorprendente che non ne avesse affatto bene ficiato tutta la superficie della terra al fine di costruire delle reti di analogie e di metafore
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Oltre natura e cultura che si estendono sovente fino al cielo. Ma solo le ontologie analogistiche hanno saputo sistematizzare queste sparse catene di significato in insiemi ordinati e interdipendenti, orientati essenzialmente verso l'effìcacità pratica: trattamento dell'infortunio, orienta mento degli edifici, calendario, predestinazione, destino escatologico, dispositivi divina tori, compatibilità dei coniugi, buon governo, tutto si articola passo dopo passo in una trama così serrata e così caricata di determinazioni che non è più possibile sapere se è l'uomo che riflette l'universo o l'universo che prende l'uomo come modello. Catene di causalità transitiva così lunghe e lussureggianti non si incontrano molto nelle ontologie animistiche o totemiche, non sussistono più nel naturalismo contemporaneo se non allo stato di frammenti, retaggi nostalgici di un'epoca incantata da cui attingono dilettanti di oroscopi, addetti di medicine dolci e fedeli delle sette New Ages. Non si può quindi dire che l'analogismo abbia sistemato l'uomo nel punto di inter sezione di tutte le linee di senso che connettono le cose. Come dice Foucault a proposito del Rinascimento, la corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo è piuttosto un ef fetto di superficie; la situazione privilegiata che l'analogismo dà all'uomo come standard ermeneutico permette di ridurre la proliferazione delle somiglianze attraverso una gui da di interpretazione controllabile in quanto fondata sulle proprietà imputate alla sua persona. Aggiungiamo che l'ecologia di un organismo costituito da molteplici istanze nomadi che coabitano in modo più o meno armonioso non può che evocare l'immagine di un mondo in miniatura, molto meglio in ogni caso che le combinazioni più semplici alle quali le altre ontologie hanno fatto ricorso. I sistemi analogistici non hanno tutta via niente di antropomorfico; malgrado la posizione epistemica preponderante che gli uomini vi tengono, la diversità delle parti che li compongono è così grande, e la loro architettura così complessa, che una sola creatura non saprebbe costituirne la sagoma. Un altro modo di dare ordine e senso a un mondo popolato di singolarità è di ripartirle in grandi strutture inclusive a due poli. La gemmazione di attributi può allora essere conte nuta da un'operazione di classificazione in una nomenclatura semplificata di qualità sensi bili. Due di queste nomenclature sono molto diffuse - quella che oppone il caldo al freddo e quella, a volte combinata con la precedente, che oppone il secco all'umido - e queste costituiscono forse gli indici più immediati per identificare un'ontologia analogistica. Gli antichi Nahua non usavano che la prima, ma la impiegavano permanentemente e in modo esaustivo per ripartire tutti gli esistenti in due classi. Mettevano così dalla parte del caldo il mondo celeste, la luce, il maschile, il sopra, la forza, il fuoco, l'aquila, il giorno, il numero 13, la vita ecc.; dalla parte del freddo erano annoverati il mondo sotterraneo, l'oscurità, il femminile, il sotto, la debolezza, l'acqua, l'ocelot, la notte, il numero 9, la morte... Ancora vivente in Meso-America, questa dualità continua a disciplinare l'insieme delle entità visi bili e invisibili: piante, animali, minerali, corpi celesti, giorni della settimana, mesi, spiriti, alimenti, stati fisiologici, tutto può essere riportato alla polarità del caldo e del freddo. Come si può vedere dalla natura degli elementi classificati, l'assegnazione di una cosa ad una o all'altra classe non dipende molto dalla propria temperatura effettiva, ma dalle proprietà che le sono attribuite e dalle associazioni che la sua ubicazione e la sua funzio ne suggeriscono. Il caldo e il freddo, qualità soggettive e contrastive eventuali, servono
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9. Le vertigini dell'analogia qui da categorie astratte e convenzionali per sussumere delle coppie di contrari, non di indicatori empirici di uno stato materiale. Secondo i Maya dello Yucatan, per esempio, il calore di un forno trasmette al cibo una qualità "freddà' in ragione delle analogie che questo presenta con il mondo sotterraneo, mentre gli alimenti cucinaci sul coma!, un piatto di terra cocca direttamente posato su un focolare, acquisiscono una qualità "calda" identica a quella del cielo29 • Sebbene dicotomica, la polarità del caldo e del freddo am mette anche delle gradazioni, in particolare nel dominio della medicina dove si restaura l'equilibrio termico degli organismi riscaldandoli o raffreddandoli con dei trattamenti idonei, in generale a base di piante: queste sono quindi dette "calde" (è la maggioranza) o "fredde", ma alcune possono avere l'uno o l'alcro attributo secondo l'uso che ne è fac to. È il caso dei Tzoczil dove un piccolo numero di piante da alcuni sono classificate sia come sik (fredde) che come k'ixim (calde) 30 • Esistono infine delle entità che riuniscono in se stesse in modo intrinseco le due qualità, come il mais per i Toconachi della Sierra de Puebla31 • I gradi di caldo e di freddo imputati alle cose e agli stati funzionano così come dei parametri molco polivalenti che permettono contemporaneamente di strutturare il mondo in una tassonomia dell'identico e del differente e di definire posizioni relative, e congiunturali, per orientare l'azione. Il carattere autenticamente meso-americano della polarità del caldo e del freddo non è ammesso da cucci e un'importante polemica si è sviluppata a questo proposito sulla quale è meglio spendere qualche parola. La coincidenza sconcertante era questa coppia di concetti e il suo omologo nell'antica teoria europea degli umori, dove gioca anche un ruolo preponderante, ha condotto Foscer ad affermare in un articolo celebre che la classificazione dicotomica secondo il caldo e il freddo era un'eredità della medicina ippo cratica trasmessa al Nuovo Mondo dagli Spagnoli32• La tesi fu presto adottata da nume rosi messicanisti e contribuì in modo decisivo a stimolare un'inondazione di scudi sulla parte presa dagli innesti iberici nella costituzione di quel grande melting pot culcurale e sociale che era la Nuova-Spagna, un dominio di ricerca certamente a lungo negato, ma la cui moda presence tende a volte a far dimenticare che gli Indiani del Meso-America hanno conservato vivi molci tratti del loro passato precolombiano. Nessuno contesterà che molti secoli di dominazione coloniale abbiano suscitato nei sistemi del pensiero indigeni dei cambiamenti significativi, alcuni fra essi si sono facci sentire fin dai primi decenni del contatto, in particolare all'interno dell'élite messicana che costituiva la prin cipale fonte di informazione di Sahagun e dei suoi colleghi. Detto questo, gli argomenti che sostengono un'origine preispanica dell'opposizione caldo/freddo sembrano più con vincenti di quelli che ne fanno una credenza importata. Senza entrare qui nel dettaglio della polemica, possiamo seguire L6pez Auscin, sostenitore dichiarato dell'autoctonicità di questa polarità, soprattutto quando sottolinea che è curioso che una sola parte della
29 Redfield, R., e Villa Rojas, A., 1964 (I 934), p. 130. 30 Berlin, E. A., e Berlin, B., 1996, pp. 62-63. 31 Ichon, A., 1969, pp. 41-42. 32 Foster, G. M., 1944.
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Oltre natura e cultura teoria umorale abbia oltrepassato l'Atlantico, poichè l'opposizione complementare del secco e dell'umido, centrale nella dottrina europea dei quattro elementi, non avrebbe che un valore molto debole in Meso-America; lo seguiremo anche quando fa notare che le prime fonti scritte in nahua menzionano classificazioni per il caldo e il freddo senza rapporto diretto con questioni che provengono dalla salute, e questo in un'epoca dove la medicina spagnola non aveva potuto ancora stabilire la sua influenza; lo seguiremo ancora quando sottolinea che il campo strutturato dalla coppia di concetti è molto più vasto di quello della medicina, al momento della Conquista come adesso, dato che quasi tutto vi può essere annoverato33 . Aggiungiamo che l'importanza cruciale accordata alla polarità caldo/freddo in altre regioni del mondo dove l'influenza ippocratica è o esclu sa- la Cina, il sistema ayurvedico in India-, o possibile ma poco probabile - l'Afri ca dell'Ovest- depone ugualmente piuttosto in favore di un'origine indipendente nel caso del Meso-America34. Se si ammette che le grandi classificazioni inclusive attraverso coppie di qualità sensibili sono uno dei tratti più tipici delle ontologie analogistiche, allora la controversia sull'origine della polarità caldo/freddo sembrerà vana. Si tratta qui semplicemente di una coincidenza parziale - la dicotomia del secco e dell'umido non avendo fatto alcuno sforzo in Meso-America indigena- tra due modi di classificazione simili poiché nati entrambi in contesti analogistici comparabili, benché geograficamente separati. La convergenza strutturale della nomenclatura autoctona e di una parte della nomenclatura europea non pone quindi nessun problema rilevante35• Sappiamo che gli Europei furono scandalizzati da alcuni aspetti della civiltà degli antichi Messicani che contrastavano gli insegnamenti del Vangelo. Invece, non manifestarono alcuno stupore davanti alle loro tecniche divinatorie e mediche delle quali piuttosto sottolineavano le somiglianze con le proprie pratiche; come scrive in tutta sincerità un commentatore del Codex Borgia, «tutto era ben ordinato e accordato, utilizzavano gli stessi metodi dei no stri astrologi e medici» 36. E se i conquistatori si sono a volte sforzati di squalificare aspetti della medicina autoctona, non era affatto in ragione, o a causa, dell'uso che essa faceva dell'opposizione caldo/freddo come indicatore eziologico e nosologico, ma perché alcu ne applicazioni terapeutiche che ne risultavano andavano contro l'ortodossia ippocra tica37. Liti fra esperti, quindi, che dividevano principi qualitativi, e che, come trattati medici del Rinascimento, manifestavano soprattutto i loro dissensi circa le conseguenze cliniche da prendere in quello o quell'altro caso. 33 Per un esempio dettagliato degli argomenti e delle confutazioni avanzate dai due campi in questa controversia, L6pez Austin, A., 1988, pp. 270-282. 34 ln Cina, il yin e lo yang sono spesso caratterizzati principalmente attraverso l'opposizione complemen tare del caldo e del freddo; per la medicina ayurvedica, vedi Zimmermann, Fr., 1989; per l'Africa dell'Ovest, vedi il caso esemplare dei Samo, Héritier, Fr., 1996. 35 È anche l'interpretazione di Ryesky, D., 1976, p. 33. 36Citaco in L6pez Austin, A., 1988, p. 349, dall'edizione spagnola dei Comentarios al Codice Borgia (ed. E. Seler), t. I, p. 207. 37 Così bagni freddi o l'esposizione a un calore intenso per ripristinare l'equilibrio termico dell'organi smo di cui si faceva beffe Francisco Hernandez nella sua Hiscoria Natural de Nueva Espafla (cfr. il commen to di L6pez Austin, A., 1988, p. 274).
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9. Le vertigini dell'analogia
Proprio come troviamo ovunque delle bozze di corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo, non c'è probabilmente alcuna parte del mondo dove gli umani non ab biano occasionalmente ceduto alla tentazione di classificare le cose a seconda che esse siano ritenute calde o fredde, secche o umide. Inserite in enunciati e in nomenclature di circostanza, queste opposizioni non diventano quindi dei vasti sistemi inclusivi, e espli cativi, del tipo di quelli ai quali le ontologie analogistiche hanno ricorso al fine di ordi nare la molteplicità delle entità di cui esse popolano i loro mondi. È importane, infatti, che non si trovi alcuna traccia di polarità generale caldo/freddo nell'Australia totemica, né in quelle terre animistiche per eccellenza quali sono la Siberia, l'America subartica o l'Amazzonia indigena38• Il naturalismo ne conserva qualche traccia nelle tassonomie popolari, eredità tenace dell'antica teoria degli umori che si insinua del resto a volte fin nel pensiero accademico: è a tale sopravvivenza, secondo Bachelard, che si deve la tradu zione in "calorie" del valore nutritivo degli alimenti39 • Piuttosto che vedere un'invariabile universale nell'opposizione del caldo e del freddo, o del secco e dell'umido, è meglio quindi comprenderla come un meccanismo sempre disponibile di riduzione delle singo larità, sicuramente fondata su qualità salienti universalmente riconosciute, ma che non si attualizzano in un sistema classificatorio che ingloba se non quando il tasso di diversi ficazione ontologica è tale che nomenclature specializzate non giungono più ad ordinare il reale per il pensiero e l'azione, e che un principio più generale diviene necessario per assicurare l'integrazione di differenti dispositivi di classificazione.
Echi di Africa A questo esempio di analogismo messicano che incontra quello dell'Europa del XVI secolo, l'aggiunta di un breve contrappunto preso da un'altra regione del mondo potrà sembrare necessaria. È l'occasione di voltarsi verso l'Africa, un continente poco presente fino ad ora in quest'opera. Un ricordo evocato dall'antropologo maliano Amadou Ham paté Ba permetterà di comprendere le ragioni di questa scelta. Mia madre, ogni volta che desiderava parlarmi, prima di tutto faceva venire mia moglie o mia sorella e diceva loro: «ho il desiderio di parlare con mio figlio Amadou, ma vorrei, prima, sapere quale degli Amadou che lo abitano è presence in questo momenco» 40 •
· Jean Chiappino nota che esistono degli indici di un uso dei criteri del caldo e del freddo nei tratta menti sciamanici di qualche popolazione dell'Amazzonia venezuelana e della Guyana (il soffio della sciama no "rinfresca" gli alimenti potenzialmente contaminatori, i bagni freddi o l'esposizione al calore di un fuoco restaurano l'equilibrio del corpo), ma quest'uso, del resto poco esplicito, resta confinato al solo dominio della salute e non si appoggia affatto ad una classificazione termica generalizzata del tipo di quelle che ci sono state in Messico, in Cina, in alcune parti dell'Africa dell'Ovest o nella medicina ayurvedica, per citarne che alcuni esempi (Chiappino, J., 1997). 39 Bachelard, G., 1938, p. 173. 40 Hampaté Ba, A., 1973, p. 182. 18
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Oltre natura e cultura
In una porzione dell'Africa dell'Ovest corrispondente grosso modo all'area Mandé Voltaica (Mali, Burkina Faso, frangia orientale del Senegal e settentrionale della Co sta d'Avorio) domina infatti una concezione della persona umana stranamente vicina a quella che hanno gli Indiani del Messico: ogni individuo è costituito da una molte plicità di componenti in movimento di cui le combinazioni tutte differenti producono identità uniche. I..:esempio dei Bambara esaminato da Hampaté Ba non potrebbe essere più chiaro. Due termini esistono per la persona: maa, la persona propriamente detta, e maaya, "le persone della persona", cioè diversi aspetti del maa riuniti in essa; da cui l'espressione tradizionale «le persone della persona sono multiple nella persona» 41 • Que sto stato di fatto data dalla genesi, quando il demiurgo Maa-nala, avendo creato esseri nessuno dei quali era adatto a diventare suo interlocutore, raccoglie una piccola parte di cucci gli esistenti e mescola questi frammenti per creare un essere ibrido, l'umano, che conterrebbe in lui un briciolo dell'insieme delle entità che popolano l'universo. Sul viso sono leggibili gli attributi psichici e morali di ognuna delle persone che coabitano in un individuo, essendo i segni ripartiti tra la fronte, le sopracciglia, gli occhi, le orecchie, la bocca, il naso e il mento42• Uguale funzionamento per le componenti della persona presso i Samo del Burkina. Secondo François Héricier, ogni umano è composto da un corpo, mE, di cui la carne è data dalla madre; di sangue miya ricevuto dal padre; di soffio sisi veicolato dal "sangue del cuore"; di slancio vitale nyìni, diffuso dal "sangue del corpo", di cui ogni essere vivente detiene un briciolo e che rende manifesti il calore e il sudore (tàtare); di una personalità psichica yi:ri (intelletto, coscienza di sé, memoria, immaginazione), del tutto idiosincratica, ma che può essere a volte la reincarnazione di quella di un antenato; di un "doppio" mErE, una essenza immortale assolutamente specifica ad ogni individuo, in par te riconoscibile attraverso le caratteristiche dell'ombra nysilE e di cui sono anche dotate le piante, gli animali e alcuni elementi inorganici come l'argilla o il ferro; di un "destino individuale" lEpErE,in parte condizionato da quello della madre e che determina la durata della vita; e di attributi singoli come il nome o anche !"'omonimia surreale" toma deri vante dall'acquiescenza di un genio della savana, identificato da un indovino, alla nascita del bambino43 • Ogni esistente si presenta quindi come un assemblaggio particolare di elementi materiali e immateriali molto diversi che gli conferiscono un'identità originale, gli umani sono il prodotto di una combinazione più complessa di quella di altre entità del mondo, fatto che porta Héricier a definire l'individuo samo come uns "serie di strati di componenti elementari44 • In questa regione dell'Africa sono tuttavia i Dogon che hanno spinto più lontano la diversificazione dei costituenti degli esseri. Secondo Germaine Oiecerlen, ogni umano è formato da un corpo godu, di otto "anime" kikinu (contrazione di kindu kindu), di otto
41 lbid.
Jbid., pp. 187-188. 43 Héririer, Fr., 1977.
42
44 lbid., p. 65.
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9. Le vertigini dell'analogia "semi di clavicole" e di un gran numero di frammenti di "forza vitale" nàma, alla quale si aggiunge un doppio animale45• Le otto anime kikinu si ripartono in quattro "anime di corpi", a loro volca divise in due coppie di anime gemelle di sesso opposto - i kikinu sdy, o "anime intelligenti", associate alle facoltà mentali, diffuse in tutto il corpo e capaci di staccarsene, e i kikinu bumonf, o "anime rampicanti", riflessi dei precedenti, si mani festano nel!'ombra e raramente lasciano il loro supporto - e in quattro "anime di sesso", sorta di doppione delle "anime di corpo", assegnate alle funzioni procreatrici e anch'esse divise in due coppie di anime gemelle di sesso opposto. Le otto anime kikinu di ogni umano gli sono del tutto proprie e non sono trasmesse ai suoi discendenti; il bambino ne riceve un insieme specifico fin dall'inizio della sua vita intra-uterina che conserverà fino alla sua morte, concesso da Nommo, maestro dell'acqua e genitore dell'umanità, e nato da depositi di kikinu risiedente nel!'acqua, in particolare negli stagni sacri detti "di famiglia" assegnati ad ogni lignaggio esteso. Quanto alle due clavicole, esse contengono i simboli di otto semi primordiali, quattro per clavicola, generati dal Creatore all'inizio della genesi - il piccolo miglio, il miglio bianco, il miglio d'ombra, il miglio femmina, il fagiolo, l'acetosella, il riso e la Digitaria -, essendo l'insieme assimilato ad un granaio in miniatura che permette all'individuo di approfittare dell'energia nàma delle pian te colcivate che consuma. Il contenuto clavicolare e la sua organizzazione variano per ogni persona secondo il sesso, la tribù, la casta, la funzione, ecc.; inoltre, la posizione delle parti all'interno dell'osso si modifica ogni volca che il possessore cambia status in conseguenza dei numerosi riti di passaggio ai quali si sottopone, e anche ogni volta che partecipa a una cerimonia collettiva. Infine la "forza vitale" nàma è situata sotto la giurisdizione diretta delle anime kikinu. Nel senso di Marce! Griaule, possiamo definirla come «un'energia in sospeso, impersonale, incosciente, ripartita fra tutti gli animali, vegetali, negli esseri soprannaturali, nelle cose della natura e che tende a far perseverare nel suo essere il supporto al quale essa è attribuita temporaneamente (essere mortale) o eternamente (essere immortale)» 46• Tuttavia, il nàma di un umano non è un fluido in differenziato; esso è formato da una combinazione di ottanta frammenti di provenienza diversa, specifico di ogni individuo e collega ai suoi ascendenti diretti e indiretti: sotto l'egida del kikinu "del corpo" maschile sono raggruppati quaranta nàma aventi a capo quello del padre e, sotto l'egida del kikinu "del corpo" femminile, altri quaranta aventi a capo quello della madre. I due insiemi rimangono nelle clavicole e, ogni giorno, una nuova coppia di frammenti di nàma proveniente da queste due serie va a vegliare sulla persona, occupando il suo corpo intero, secondo un ciclo di alternanza di quaranta giorni. Inoltre, ogni umano acquisisce delle porzioni supplementari di nàma concesse dalle potenze che adora, porzioni che non si mescolano al deposito iniziale. È quindi de positario di una moltitudine di nàma di origini diverse che lo mantengono in relazione con una folla di esseri che gli hanno trasmesso dei frammenti di forza vitale, «ognuno di essi contribuisce a assicurare integrità spirituale e, di fatto, a mantenere l'equilibrio
45 Dieterlen, G., 1973. Griaule, M., 1938, p. 160.
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Oltre natura e culcura
delle sue forze fisiche» 47 • Insomma, non solo ogni Dogon forma una lega composita e assolutamente unica di una quantità prodigiosa di componenti materiali e immateriali, un vero mondo in miniatura con un'ecologia propria e proprie leggi di compatibilità e di incompatibilità, ma la mobilità costante delle sue parti costitutive fa di lui un essere ogni giorno diverso da quello che era il giorno prima. Negli esempi africani considerati, l'attribuzione ai non-umani di qualità simili a quelle degli umani sembra certamente farsi con più parsimonia che nel caso della Mesa-America dove quasi tutti gli esistenti si vedono provvisti di componenti analoghe, benché strut turate in ognuno in modo diverso. Siamo comunque ancora lontani dalle separazioni ontologiche del naturalismo, con le sue ristrette segregazioni tra umani onorati di un'in teriorità e la massa generica degli esseri della natura senza coscienza né libero arbitrio. Ricordiamoci che, per i Dogon di Tireli, ad alcuni alberi piace spostarsi la notte per chiac chierare, così come alle pietre situate vicino ai cirniteri48 • Inoltre, il nàma principio gene rale di animazione e identità, è distribuito liberamente, lo si è visto, negli umani e nella maggior parte dei non-umani. I Bolo del Mali e del Burkina hanno una nozione simile, il nyama, riconosciuta da tutti i popoli del Mandé, una forza di vita che bagna l'universo e si condensa in ogni sorta di entità, umani, animali, o geni49• Per i Sarno, il mErE è un'essenza stabile e eterna che fornisce il supporto dell'identità di un umano o di un non-umano, la quale sussiste come principio di individuazione dopo la scomparsa fisica dell'entità che rende singolare. Così, la morte di un umano fa svanire i suoi elementi costitutivi, ad eccezione del mErE che va ad iniziare una seconda vita nel paese dei morti, ricreando così una persona completa con nuove componenti; al termine di questa esistenza nel mondo dei defunti, il processo si rinnova in una seconda "vita di morte", dopo di che il mErE del defunto passa in un grande albero, anch'esso provvisto di un mErE. Proprio come per i Messicani, gli elementi costitutivi degli esseri sono molto mobili, in costante ricomposizione, e in parte localizzati ali'esterno del loro rivestimento fisico. È il caso del mErE sarno che vagabonda nelle fisicità diverse dove coesiste a volte con il mErE di altri organismi. È ancora più manifesto presso i Dogon. Tra le "anime di corpo", l'ani ma "intelligente" (kikinu sdy) femminile di un uomo a volte resta nel!'acqua dello stagno familiare, come quella dell'anima kikinu sdy maschile di una donna; le "anime rampican ti" kikinu bumonE di un uomo possono abitare il santuario del suo culto ancestrale per l'uno, l'animale interdetto del clan per l'altro. Ogni rito di passaggio - assegnazione del nome, circoncisione, escissione, matrimonio o funerale - come la partecipazione a una cerimonia collettiva provoca lo spostamento di uno o più componenti dell'individuo. Inoltre, ogni umano possiede un doppio animale nato nel suo stesso momento nell'area associata alla sua famiglia. Secondo quello che dice Ogoternrneli, il celebre informatore di Griaule, quando gli otto antenati umani dei Dogon furono creati, otto animali nacquero nel cielo nello stesso momento e ogni coppia di umano e di animale aveva un'anima in
i 7 Diecerlen, G., 1973, p. 215. Van Beek, W. E A., e Banga, P. M., 1992, pp. 68-69. 49 Le Moal, G., 1973, pp. 198-199. 48
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9. Le vertigini dell'analogia
comune. Come il tona messicano, «l'animale è come il gemello dell'uomo [ ...] è certa mente diverso da lui, nato in altre zone, di forma apparentemente eterogenea, ma della stessa essenza» 50 • Ogni animale gemello ha esso stesso un gemello di un'altra specie, come anche quest'ultimo, la sequenza continua progressivamente fino alle piante, in modo che ogni umano, membro di uno degli otto discendenti degli antenati primordiali, si trovi collegato ad una catena di individui non umani di cui la sua nascita ha azionato l'appari zione e che copre l'ottava di tutti gli esseri viventi nel mondo. Come ciò che accade in Mesa-America, trame immense connettono così ogni uma no ad una molteplicità di esistenti attraverso l'intermediario di un piccolo numero di elementi comuni, vere catene di esseri che stringono ogni singolarità in un intrecciarsi di determinismi e di attributi a specchio sotto il controllo degli antenati. Probabilmente i Dogon hanno spinto molto questa ossessione di corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo, e con una coerenza così meticolosa - e tanto meticolosamente riportata da Griaule e i suoi collaboratori - che essa ha potuto sollevare dubbi sul fatto che chiunque fra di loro, anche Ogotemmeli, sarebbe stato capace di formarsi una visione di insieme di quel mondo incollato negli innumerevoli filamenti di analogie e di echi significanti, o avrebbe potuto in ogni momento conformare l'insieme delle sue azioni ai precetti che regolano il buon funzionamento di questa cosmologia sovrappopolata. Ma ciò che i Do gon hanno spinto ali'estremo è presente anche nella restante area mandé-voltaica. Presso i Bambara, per esempio, per i quali il corpo è pensato come «un santuario dove tutti gli esseri si ritrovano in interrelazione» o presso i Samo, per i quali l'individuo è «una concretizzazione singola a un incrocio di strade, all'intersezione di linee surreali e reali che ritagliano due mondi, quello dell'Universo e quello dell'Umanità» 5 1• Valutiamo fino a che punto sarebbe incongruo dire questo degli Jivaros, dei Naskapi o dei Chewong, la cui organizzazione ontologica si conforma a una dualità rassicurante e che si connette ai non-umani attraverso il solo commercio quotidiano di interiorità investite nella vita sociale, non dai molteplici collegamenti dei diversi strati della loro persona con tale o tal'altro settore del cosmo. D'altronde, abbiamo potuto parlare in termini quasi uguali dell'ontologia messicana o cinese, e per ragioni identiche: questa regione dell'Africa si ricollega al grande arcipelago analogistico che si sparpaglia sulla superficie della Terra in una moltitudine di isole e di isolotti per cui, a questo punto, nessuna rete di diffusione avrebbe potuto uniformare la struttura.
Corrispondenze, gerarchia, sacrificio Ricordiamo in poche parole le proprietà del modo di identificazione che dà agli abitanti di questo arcipelago il loro carattere distintivo. L'interiorità e la fisicità sono qui frammentate in ogni essere tra componenti molteplici, mobili e in parte extra-corporali, di cui l'assemblaggio instabile e congiunturale genera un flusso permanente di singolari50Griaule, M., 1966 (1948), p. 121. 51 Hampaté Ba, A., 1973, p. 187; Héritier, Fr., 1977, p. 65.
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Oltre natura e cultura tà. All'interno di questa collezione gigantesca di esistenti unici, gli umani formano una schiera privilegiata poiché la loro persona offre un modello ridotto, quindi controllabile, di rapporti e processi che disciplinano la meccanica del mondo. Da qui una preoccupa zione costante per la conservazione di un equilibrio regolarmente minacciato tra le parti costitutive degli individui, che si traduce specialmente attraverso il ricorso sistematico a teorie del dosaggio e della compatibilità degli umori e delle sostanze fisiologiche, accom pagnata dall'inquietudine sempre presente di essere investita da un'identità intrusiva e alienante, o di vedere sfuggire un elemento essenziale della sua propria identità. Da qui anche la necessità di mantenere attivi e efficienti i canali di comunicazione tra ciascuna parte degli esseri e la folla di istanze e determinazioni che assicurano loro stabilità e buon funzionamento. I..:onere di queste dipendenze esige di apportare un'attenzione maniaca le verso un fascio di proibizioni e di prescrizioni tanto vincolanti che richiedono general mente gli aiuti di specialisti esperti nell'interpretazione dei segni e l'esecuzione corretta dei rituali, allo stesso tempo che lo sviluppo di tecniche particolari di lettura del destino, quali l'astrologia o la divinazione. Per non perdersi nella foresta delle singolarità, bisogna infatti disporre di un serbatoio di simboli e di emblemi che permettono di codificare la diversità in una griglia ermeneutica; questo è il motivo per il quale deleghiamo a mecca nismi semi-automatici di calcolo e di combinazione, ma anche ad artefatti di cui molti popolano i nostri musei etnografici, l'attenzione a ridurre un cosmo troppo complesso incorporando le sue articolazioni e le sue linee di forza in figure manipolabili. I..:analogismo usa quindi l'analogia per cimentare un mondo reso friabile dalla mol teplicità delle sue parti, e lo fa con una sistematicità ammirabile. Il gioco della con nessione dei luoghi e delle contiguità temporali permette di raggruppare le cose in classificazioni fondate sulla loro posizione in un sito e in una serie, motivando una proliferazione ineguagliabile di coordinate spaziali e di suddivisioni della durata: punti cardinali, dintorni, rigorosa separazione topografica, calendari, e soprattutto lunghi cicli di genealogie. È in particolare attraverso le distese catene di filiazione che si può tessere la grande matassa di solidarietà intergenerazionali, modo comodo per giustifica re la permanenza nel tempo di gruppi di attributi e di prerogative trasmesse continua mente, e ragione del posto predominante che occupano spesso gli antenati in questo modo di identificazione, come della riverenza timorosa di cui sono circondati - in perfetto contrasto con l'animismo e il totemismo dove questi ingombranti personaggi sono assenti. Abbiamo anche visto che le grandi classificazioni duali (o quadripartite, per duplicazione della dualità) vi sono diffuse perché offrono la soluzione più econo mica per riordinare gli esistenti in funzione delle qualità che a loro si attribuiscono e per evidenziare le similitudini nascoste che intrattengono dietro la loro diversità feno menale. La differenza è grande, di nuovo, con i dualismi totemici comuni in Australia. Questi ultimi costituiscono classi primitive di proprietà intangibili alle quali si ricollega un numero variabile di entità che esprimono queste proprietà, mentre le classificazioni binarie del tipo caldo e freddo non sono che un modo di ordinare elementi in fun zione dei predicati che vengono loro attribuiti. Nel primo caso, la classe è originaria e specifica le caratteristiche ontologiche di ciò che contiene, nel secondo caso, non è che
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9. Le vertigini dell'analogia un potente strumento tassonomico per sussumere qualità riconosciute a entità la cui composizione ontologica resta indipendente dagli indicatori impiegati per riordinare queste entità nell'una o nell'altra categoria. Un altro espediente per disporre un flusso di singolarità consiste nel gerarchizzarle. Il modello della catena degli esseri è quindi grosso modo trasportabile a tutte le ontologie analogistiche, sebbene i criteri di disposizione gerarchico siano molto variabili. Si tratta di una differenza importante in confronto all'animismo e al totemismo dove le distin zioni tra i collettivi di esistenti strutturalmente equivalenti si mostrano sul solo piano orizzontale, e non in sovrapposizioni di caste, di classi e di funzioni, in impilamenti di potenze e di divinità, che le civiltà analogistiche, e i loro politeismi cespugliosi, ci hanno reso così familiari. Gerarchie troppo lunghe diventano tuttavia disagevoli da gestire. Sono necessari anche dispositivi per strutturare le loro semplici gradazioni e dei modi per at tenuare l'ampiezza delle discontinuità che li scandiscono. Possiamo riordinare in questa categoria gli schemi organizzatori messi in evidenza da Louis Dumont nelle sue analisi della gerarchia delle caste e delle varna in India: per esempio, la ripetizione all'interno di ogni suddivisione della gerarchia dei principi che ne reggono la struttura generale - ogni casta riproduce a livello delle unità che la compongono il modello globale di distribuzio ne del quale è essa stessa un risultato52 • Ciò che Dumont chiama olismo, cioè un sistema di valore che subordina il posto di ognuno degli esistenti in una gerarchia, e la coesione di questa, ad una totalità trascendente le sue parti, non sarebbe quindi tanto una carat teristica attraverso la quale le società non moderne nel loro insieme si differenzierebbero dall'individualismo moderno, ma piuttosto un modo impiegato dalle sole ontologie ana logistiche per rendere controllabile un mucchio di singolarità. È lo stesso per le inversioni di dominio che accompagnano, in Cina, i cambiamenti di livello - preminenza della sinistra sulla destra nella parte superiore del corpo e del cosmo, della destra sulla sinistra nella parte inferiore53• Grazie ad un gioco di regole che si poggia sull'analogia, l'inversione e la duplicazione, un universo sbriciolato da discontinuità multiple diviene intellegibile in tutte le sue connessioni e, a costo di una deferenza perfetta agli obblighi rituali e alle prescrizioni dell'etichetta, abitabile da ognuno senza confusione di luogo né di status. Un ultimo dispositivo di accoppiamento deve essere menzionato, anche se solo ipoteti camente e invocando l'indulgenza del lettore. Non si può impedire, infatti, di costatare che il sacrificio è presente nelle regioni dove dominano le ontologie analogistiche - soprattutto nell'India bramanica, in Africa dell'Ovest, nell'antica Cina (dove era soprattutto legato alle funzioni politiche), nella zona andina e nel Messico precolombiano -, mentre è sco nosciuto nell'Australia totemica e nelle terre animistiche per eccellenza quali l'Amazzonia e l'America subartica. Potrebbe certo essere utile notare che, ad eccezione del cane per l'America settentrionale, l'allevamento è assente, o di introduzione recente, in queste regio ni: senza animali domestici da immolare, il sacrificio diventerebbe impossibile 54• Ma il 52 Dumont, L., 1966. 53 Vedere il capitolo su "La destra e la sinistra in Cina" in Granet, M., 1963. 54 È vero che, fino al sud dell'area subartica, gli Irochesi, i Fox e i Winnebago praticavano una messa a morte rituale del cane che somigliava molto ad un sacrificio: Schwartz, M., 1977, pp. 83-85.
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Oltre natura e cultura riferimento a questa ragione pratica non farebbe che spostare la questione, bisognerebbe infatti spiegare perché c'è necessariamente incompatibilità tra l'addomesticamento ani male e le ontologie animistiche o totemiche, un problema che sarà esaminato nell'ultima parte di questo libro. Inoltre, sarebbe teoricamente possibile in casi simili sacrificare umani; infatti possiamo probabilmente generalizzare il precetto dell'India vedica che vuole che la sola vittima autentica sia l'officiante del sacrificio che prende l'iniziativa del rito e ne aspetta un effetto, gli animali immolati non sono che suoi sostituti, i quali possono essere essi stessi rimpiazzati da altre cose in questa funzione. Niente impedirebbe per mancanza di animali domestici, di abbattere animali selva tici catturati a tale scopo e in parte socializzati nella sfera del paese. Il periodo di fami liarizzazione li renderebbe del tutto atti a rappresentare gli umani che li hanno nutriti e se ne sono presi cura, come quello che accade con gli animali di allevamento. Casi come questo non sono sconosciuti nel mondo animistico. I Cashibo dell'Amazzonia peruvia na organizzano regolarmente una grande cerimonia durante la quale mettono a morte un tapiro addomesticato, la cui carne è poi consumata in un banchetto che riunisce più gruppi locali: la famiglia che lo ha allevato decanta le sue lodi e piange la sua sparizione portando tutti i segni del lutto riservati a un parente umano. La "festa dell'orso" presso i Giliachi (o Nivchi) del bacino dell'Amur e di Sachalin si basa su un principio analogo: vi si uccide ritualmente un orso di giovane età catturato e allevato per diversi anni con sollecitudine, prima di mangiarlo in un banchetto collettivo dove si fa attenzione, in se gno di rispetto e di affetto, ad offrire alla sua spoglia una porzione della sua carne55 • Ora, in questi due casi presi da società tipicamente animistiche, la messa a morte dell'animale non è proprio simile a un sacrificio: l'orso, o il tapiro, non sono una vittima consacrata a una divinità che ci si augura di accattivare; nessun beneficio è atteso al termine della cerimonia, in particolare nessun cambiamento di stato per coloro che hanno allevato l'animale o che l'hanno ucciso; infine, l'animale non può essere rimpiazzato nella festa da un sostituto, neanche da un animale della stessa specie. La caratteristica del sacrificio è infatti quella di collegare due termini tra i quali non esiste all'inizio alcun legame, essendo il principio dell'operazione, per riprendere la de finizione di Lévi-Strauss, «di instaurare un rapporto, che non è di somiglianza, ma di contiguità, attraverso una serie di identificazioni successive che possono avvenire nelle due direzioni [... ]: sia dal sacrificante al sacrificatore, dal sacrificatore alla vittima, dalla vittima sacralizzata alla divinità, quanto nell'ordine inverso» 56• Tale concatenazione di mediazioni sarebbe tanto inutile quanto sconveniente nel caso del tapiro e dell'orso, poiché si ritiene che entrambi possiedano un'interiorità somigliante a quella degli uma ni, trattati come persone che si uccidono con considerazione e che nessun surrogato saprebbe rappresentare, e a cui non è assegnato alcun ruolo connettivo di fronte ad un'inesistente potenza trascendente. Servirsi del sacrificio per forgiare un rapporto di continguità tra entità inizialmente dissociate può invece sembrare necessario in un'on-
55 Per i Cashibo, vedere Frank, E., 1987; per i Giliachi, vedere Sternberg, L., 1905, pp. 260-274. 56Lévi-Strauss, Cl., 1962, pp. 297-298.
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9. Le vertigini dell'analogia tologia analogistica dove tutti gli esistenti sono delle singolarità tra le quali devono essere stabilite delle passerelle: come non si possono salrare degli anelli nella catena degli esseri senza compromettere la sua integrità strutturale, così il legame tra due entità distanti ed eterogenee, il sacrificante e la divinità, non può essere costruito se non attraverso un meccanismo di identificazioni graduali e transitive tra elementi intermediari. Ma perché allora mettere a morte la vittima sacrificale dato che sembra così spezzare, e in modo spettacolare, la connessione che si cercava di istituire con identificazioni a ca scata? Di nuovo la risposta di Lévi-Strauss è ingegnosa. Una volra assicurato il rapporto tra il sacrificante e la divinità attraverso la sacralizzazione della vittima, la distruzione di questa da parte degli umani interrompe la continuità prima instaurata, inducendo pres so il destinatario del sacrificio il desiderio di riallacciare il contatto dispensando il favore aspettato; l'abolizione del termine che connette il "serbatoio umano" e il "serbatoio di vino" crea così una carenza brutale di contiguità, un richiamo attraverso una mancanza, che si presume inizi un ripristino compensatorio 5 7• L'interpretazione è seducente, ma forse è eccessivo parlare di "serbatoio" come se si trattasse di due domini perfettamente autonomi da ricollegare con un condotto. Infatti l'efficacia imputata al dispositivo sacri ficale va contro il fatto che la vittima si presenti come un pacco composito di proprietà diverse di cui alcune sono identiche a quelle del sacrificante (è dotata di vita, socializzata in un collettivo umano...), altre a quelle della divinità (può rappresentare il suo corpo, discendere da questo, contribuire alla sua sussistenza...), alrre infine a quelle dei sostituti che possono sostituirla (è intrattenuta dagli uomini, commestibile...). Ed è precisamente questa decomposizione di attributi della vittima, sulla base di un frazionamento generale di esistenti in una gran quantità di componenti, che gli permette di svolgere una fun zione di collegamento attraverso l'identificazione di ognuno degli attori del rito almeno ad una delle sue proprietà. Peraltro, numerosi sono i casi di sacrificio, soprattutto in Africa, dove il beneficiario degli effetti del rito non è una persona, ma un'entità concreta o astratta che non intrattiene alrro che legami congiunturali con il sacrificante, sia que sto un individuo o un gruppo. A volce non si tratta di introdurre o di consolidare uno stato o di attribuire un beneficio, ma anzi di risolvere un rapporto antecedente, come il sacrificio offerto dai Nuer in occasione di un incesto: che la vittima sacrificale sia un cetriolo, una capra o un bue, è sempre tagliata in due in senso longitudinale, un'ope razione chiamata bakene rual, «la separazione in due dell'incesto», la cui finalità è di dissociare due gruppi di parenti che una relazione indesiderata, e potenzialmente letale, aveva unito 58 • Potremmo quindi intendere il sacrificio come un mezzo di azione svilup pato nel contesto delle ontologie analogistiche per istituire una continuità operativa tra singolarità intrinsecamente differenti, e che utilizza per far questo un dispositivo seriale di connessioni e di deconnessioni funzionanti sia come attrattore- di una connessione nel senso inverso-, sia come interruttore- di una connessione già esistente su un altro piano e che si cerca di interrompere.
lbid. 58 Evans-Pritchard, E.E., 1956, pp. 183-185.
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10 TERMINI, RELAZIONI, CATEGORIE
Al termine di questo viaggio nelle ontologie esotiche o familiari, è ora possibile preci sare e arricchire la tabella dei modi di identificazione. Secondo le caratteristiche che gli umani rivelano negli esistenti in rapporto all'idea che essi si fanno delle proprietà fisiche e spirituali della propria persona, continuità o discontinuità di importanza diversa sono istituite tra le entità del mondo, raggruppamenti sulla base dell'identità e della somi glianza prendono forza dai dati, emergono frontiere che dividono differenti categorie di esseri in regimi di esistenza separati. La distribuzione delle quattro combinazioni di so miglianze e di differenze si organizza a partire da due assi verticali. Luno è caratterizzato da grandi differenze dicotomiche, attraverso la preminenza del continuo sul discontinuo e per l'inversione dei poli di inclusione gerarchica: la continuità delle interiorità tra umani e non-umani che condividono una stessa "cultura" prende nel!'animismo il valore dell'universale (al contrario con il particolare e il relativo che introducono le differenze di forme e di attrezzature biologiche), mentre è la discontinuità delle fisicità nel campo unificato della "natura" che gioca questo ruolo nel naturalismo (in contrapposizione con il particolare e il relativo che introducono le differenze culturali). I.:altro asse privilegia le contiguità cromatiche e giustappone in una simmetria di coppia un sistema di somi glianze che tendono verso l'identità, il totemismo, e un sistema di differenze graduali che tende verso la continuità, l'analogismo (figura 2). Potremmo obiettare ragionevolmente che il mondo e i suoi usi sono ben complessi per essere ridotti a questo genere di combinazione elementare. Ricordiamo quindi che i modi di identificazione non sono modelli culturali o habitus localmente dominanti, ma schemi di integrazione dell'esperienza che permettono di strutturare in modo selettivo il flusso della percezione e il rapporto ali'altro stabilendo somiglianze e differenze tra le cose a partire da risorse identiche che ognuno porta in sé: un corpo e un'intenzionalità. I principi che regolano questi schemi sono universali per ipotesi, non saprebbero essere
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Oltre natura e cultura esclusivi gli uni degli altri e si può supporre che coesistano in potenza in tutti gli umani. I..:uno o l'altro dei modi di identificazione diventa certo dominante in tale o tal'altra situa zione storica, e si trova quindi mobilitato in modo prioritario nell'attività pratica come nei giudizi classificatori, senza che sia per questo annichilita la capacità che hanno gli altre tre di infiltrarsi occasionalmente nella formazione di una rappresentazione, nell'organizzazio ne di un'azione o anche nella definizione di un campo di abitudini. Così, la maggior parte degli Europei sono spontaneamente naturalisti - e non mi escludo dal gruppo - in ragione della loro educazione formale e informale. Questo non impedisce che alcuni di essi, in determinate circostanze, trattino il loro gatto come se avesse un'anima, credano che l'orbita di Giove abbia un'influenza su ciò che faranno il giorno dopo, o ancora si identifichino a tal punto con un luogo e con i suoi abitanti umani e non-umani tanto che il resto del mondo sembrerà loro essere di una natura completamente diversa da quella del collettivo al quale sono legati. Non sono per questo diventati animisti, analogisti o totemici, le isti tuzioni che inquadrano la loro esistenza e gli automatismi acquisiti nel tempo sono suffi cientemente inibenti per evitare che questi scivolamenti episodici in altri schemi portino a dotarli di una griglia ontologica del tutto distinta da quella in vigore nel loro contesto. Fig. 2 - Distribuzione degli esistenti secondo l'interiorità e la fisicità Grandi differenze (inclusione) - somiglianza delle interiorità (continuità delle anime) - differenza delle fisicità (discontinuità delle forme che possono portare a un'eterogeneità dei punti di vista)
- differenza delle interiorità (discontinuità degli spiriti) - somiglianza delle fisicità (continuità della materia)
Piccole differenze (simmetria)
animismo
totemismo
modello australiano
naturalismo
analogismo
- somiglianza delle interiorità (identità delle anime-essenze e conformità dei membri di una classe a un tipo) - somiglianza delle fisicità (identità di sostanza e di comportamento) - differenza delle interiorità (discontinuità graduale dei componenti degli esistenti) - differenza delle fisicità (discontinuità graduale dei componenti degli esistenti)
Potremmo anche obiettare che i due grandi assi di identificazione non sono della stessa natura. Il primo combina somiglianze e differenze invertendo i campi dove esse si manifestano, mentre il secondo giustappone un accoppiamento di somiglianze e un accoppiamento di differenze: ogni discontinuità sembra sparire nel totemismo e ogni continuità nell' analogismo. Eppure non c'è qui un effetto deformante della prospettiva adottata per definire i modi di identificazione a partire da un individuo astratto, che oggettiva delle regolarità nel mondo sulla base degli attributi che rivela in lui. Da questo
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1 O. Termini, relazioni, categorie
punto di vista il quadro originale di identificazione di un Aborigeno australiano è pro prio la sua classe totemica, caratterizzata da una continuità interna di proprietà fisiche e morali che divide un gruppo di umani e di non-umani derivati da uno stesso prototipo. Tuttavia tale quadro non è valido di per sé e richiede, affinché una vita sociale possa dispiegarsi, altri gruppi totemici omologhi ma fondati ognuno su fasci di proprietà diffe renti che diventano complementari secondo la combinazione che queste unità formano in una tribù, cioè all'interno di un insieme più vasto. I..:aspirazione ad un interno omoge neo, popolato di ibridi indifferenti ad alcune delle loro dissimilarità apparenti, non può quindi diventare verosimile e funzionale, se non quando ognuno dei collettivi si pone in contrasto con gli altri, in modo che possa circolare tra essi e secondo un codice al quale tutti aderiscono, un flusso di segni, di persone e di valori. Ed è qui che la discontinuità ritrova i suoi diritti, come una condizione per la quale segmenti totemici si integrano e formano un sistema giocando sulle differenze intrinseche (figura 3). Fig. 3 - Articolazione del continuo e del discontinuo nel totemismo discontinuità
totemismo
discontinuità
discontinuità
Insieme A
Insieme B
Insieme C
- somiglianza di interiorità - somiglianza di fisicità
- somiglianza di interiorità - somiglianza di fisicità
- somiglianza di interiorità - somiglianza di fisicità
continuità
continuità
continuità
discontinuità
discontinuità
discontinuità
. ... . . ..
Succede lo stesso, in senso inverso, per l'analogismo. Il suo stato iniziale è una fram mentazione generale degli esistenti e dei loro componenti, ma questa accumulazione di discontinuità può essere vista come una condizione logicamente necessaria al vasto movimento di ricomposizione destinato a contrastare gli effetti dell'atomismo originale. Un mondo saturato di singolarità è quasi inconcepibile e in ogni caso molto inospitale; bisogna anche che preveda nelle sue premesse la possibilità di temperare il pullulare infi nito delle differenze ontologiche attraverso la continuità rassicurante che corrispondenze e analogie potranno tessere instancabilmente tra i suoi disparati elementi (figura 4). Fig. 4 - Articolazione del continuo e del discontinuo nell'analogismo Discontinuità ontologiche interiorità fisicità analogismo
interiorità fisicità ecc.
Continuità analogiche
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Discontinuità oncologiche fisicità interiorità fisicità interiorità ecc.
Oltre natura e cultura
Inclusioni e simmetrie Sebbene le classi di entità ritagliate grazie ai sui modi di identificazione siano state considerate fino ad ora dal solo punto di vista delle loro caratteristiche intrinseche, è possibile desumere, a partire dalle loro proprietà e dalle posizioni contrastanti, che esse occupino alcuni rapporti che potrebbero essere stabiliti gli uni con gli altri. Nello sche ma animistico, per esempio, le differenze di fisicità tra le diverse categorie di esistenti non impediscono affatto ai loro membri di stringere tra loro relazioni intersoggettive: di fatto, l'eterogeneità ostentata di umani e non-umani definiti da forme e comportamenti specifici si vede in gran parte annullata dai legami simmetrici che queste entità sono ca paci di intrattenere facendo appello alle risorse delle loro interiorità. Quando un uomo tratta un animale come un affine o come un amico cerimoniale, si aspetta che questo atteggiamento sia riconosciuto dalla persona non umana verso la quale è diretto, e che questa persona gli risponda con le stesse convenzioni. Imputare ai non-umani condotte umane che la somiglianza delle interiorità rende possibile, ha quindi come risultato di annettere una gran parte di ciò che noi chiamiamo la natura nella sfera della vita sociale, un movimento di inclusione gerarchico nel quale il fatto di condividere una relazione reciproca predomina sulla differenza fisica tra i termini che essa avvicina. È vero che la scimmia o l'orso si distinguono da me per la loro dotazione corporale, ma questo non impedisce di intrattenere su un altro piano rapporti da persona a persona. Questo del resto spiega l'unanimità con la quale gli etnografi delle società animistiche amerindia ne, asiatiche o malesi pongono l'accento sul carattere relazionale delle cosmologie che descrivono e sul fatto che le identità individuali vi si vedono definite da subito dalle posizioni contrastanti: in questo modo di identificazione, le relazioni hanno la meglio sui termini. È l'opposto ciò che prevale nel naturalismo. Dal punto di vista della loro fisicità, tutti gli esistenti sono dipendenti dagli stessi meccanismi fisico-chimici elementari, un buon numero fra questi possono inoltre essere annoverati nella lunga serie evolutiva delle continuità filogenetiche. Luniversale della natura li include tutti in una rete di determinazioni comuni dove si distinguono solo attraverso i gradi di complessità nelle disposizioni molecolari e sistemiche. Le entità del mondo si assomigliano quindi, da questo punto di vista, per il fatto che nessuna scappa alla giurisdizione delle leggi della materia, oltre le differenze di forma, di comportamenti e di organizzazione interna. Del resto queste entità si trovano riunite in collezioni di campioni dei musei di storia natura le, giganteschi inventari ontologici ordinati secondo le regole della sistematica, cosmi in miniatura dove ogni regno, ogni ramificazione, ogni ordine, ogni famiglia, ogni genere può riposare in se stesso, nei suoi cassetti, nei suoi vetrini, nei suoi barattoli, protetto dalle incognite che le interazioni sinecologiche introducono nel mondo reale, punto di relazioni all'interno di questi repertori di esseri decontestualizzati, tranne quella della sussunzione inclusiva propria alla classificazione. Ma si trova anche nella maggior parte di questi musei qualche sala dedicata all'etnografia: gli umani e i loro artefatti -"primiti vi" gli uni come gli altri -hanno qui la loro nicchia a parte, in contraddizione con l'am bizione unificatrice iniziale che mirava a raggruppare l'insieme degli esistenti sotto uno
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1 O. Termini, relazioni, categorie stesso regime tassonomico. Infatti la più grande confusione regna in quei luoghi ambigui dove classificazioni razziali, linguistiche, culturali, tecnologiche, geografiche e stilistiche si recuperano e si aggrovigliano, la cultura e i suoi prodotti testimoniano la loro resisten za alla pianificazione dettata dalle scienze della natura. Ed è così che le dissomiglianze cominciano a proliferare, tra i non-umani e gli umani, da una parte, questi ulrimi resi particolari dal loro spirito e dalla loro capacità di creare un flusso illimitato di oggetti, di relazioni e di segni; tra gli umani, dal!'altra, con il loro caleidoscopio di istituzioni, di simboli e di tecniche. Gli umani, strana specie i cui membri si distinguono appena nel fisico, che indubbiamente si iscrivono nel grande registro della natura e che tuttavia si differenziano quando si esaminano i loro modi di usare il mondo e di dare a questo un senso. Questa singolarità fa in modo che nessuna relazione sia trasponibile, che nessuna fornisca una dimensione generalizzabile agli umani e ai non-umani, che nessuna faccia più disciplinare un campo circoscritto di interazioni in un segmento circoscritto degli esistenti. Il dono, la dipendenza trofica, la giustizia, il parassitismo, l'asservimento, la simbiosi, la gerarchia, tutto è diversificato, niente è comune: in questo modo di identifi cazione, al contrario dell'animismo, è la continuità materiale dei termini che prevale per il fatto dell'eterogeneità delle relazioni. A differenza dei meccanismi di inclusione gerarchica propri dell'animismo come del naturalismo, lo schema totemico è perfettamente simmetrico. Tutte le entità umane e non umane incluse all'interno di una classe di esistenti condividono un insieme di at tributi identici che provengono contemporaneamente dall'interiorità e dalla fisicità, le differenze morfologiche non sono percepite come un criterio sufficiente per procedere a discriminazioni oncologiche interne alle classi. I membri umani e non umani di ogni gruppo totemico hanno in comune anche una stessa relazione - di origine, di parentela, di similitudine o anche semplicemente d'inerenza - e tutti i gruppi insieme sono situati in un rapporto di equivalenza dato che costituiscono degli elementi omologhi del collet tivo più inclusivo formato dalle loro giustapposizioni a livello di una tribù. Qui nessuna traccia di quell'inizio di dualità ontologica che l'animismo induce con la differenza di fisicità e che il naturalismo converte in dogma con la differenza di interiorità. La natu ra e la culrura si trovano completamente "fuori gioco", come testimoniano le perifrasi alle quali sono costretti gli etnografi dell'Australia quando devono citare un ordine che è contemporaneamente «sociale-e-naturale» (Merlan), un'«identità» dell'uomo e delle specie naturali (Elkin), o il Sogno «come culrura ma anche come natura» (Glowczewski), espressioni che segnalano bene la diffìcolrà semantica di collocare il totemismo nella vec chia polarità dualistica e alle quali Lévi-Strauss stesso apporta il suo contributo quando scrive che alcune organizzazioni totemiche offrono «un'immagine socio-naturale unica, ma frazionata» 1• Esaminato dal solo punto di vista di ogni classe, e non del sistema ge nerale che formano tutte insieme, il totemismo australiano è quindi una struttura equi pollente caratterizzata da una doppia identità, quella dei termini e quella delle relazioni,
1 Merlan, F., I 980; Elkin, A.P., 1933, p. 121; Glowczewski, B., 1991, p. 44; Lévi-Srrauss, Cl., 1962, pp. 154-155.
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che va a fare eco alla doppia identità ontologica delle interiorità e delle fisicità. Mentre l'animismo assicura la preminenza delle relazioni sui termini, e il naturalismo quella dei termini sulle relazioni, il totemismo australiano mette allo stesso livello relazioni e termini interdipendenti, origine di perplessità per gli antropologi e ragione probabile delle loro oscillazioni tra due spiegazioni antitetiche del fenomeno, dove l'una privilegia l'identità dei termini - l'interpretazione "partecipativa" -, l'alcra sottolinea piuttosto l'omologia delle relazioni - la logica classificatoria boasiana o léviseraussiana. Anche l'analogismo gioca sulla simmetria, ma delle differenze e non più delle somi glianze. Gli esistenti sono cucci particolareggiaci e formati da componenti dissimili che confondono e riducono la dualità soggettiva del corpo e dell'intenzionalità; l'interiorità è spesso esteriorizzata in parte e la fisicità investita di proprietà spirituali. Tuttavia, deboli differenze ontologiche separano queste singolarità innumerevoli e molceplici dispositivi di accoppiamento si impegnano a collegarli in una trama di corrispondenze che giocano su alcune qualità che esse sembrano manifestare: esse avvicinano nello spazio, l'una sem bra fatta sul modello dell'altra, si attirano reciprocamente. Esse sono tutte ben intrinseca mente differenti, ma è possibile, e a volce necessario, rivelare in esse dei punti in comune. Ed è questo il paradosso dell'analogismo: pone una differenza di principio era termini che si assomigliano del resto sotto alcuni aspetti. Eppure, le vie dell'analogia sono numerose, così numerose che troveremo sempre era due entità più percorsi possibili, più catene di corrispondenze. Come quelle che uniscono, le relazioni sono quindi molto varie, sebbene molce fra queste possano applicarsi agli stessi esistenti. La combinazione dei due sistemi di differenze, era termini che si assomigliano e tra relazioni che conducono agli stessi ter mini, dà al modo di identificazione analogistico la sua strana e seducente ambivalenza: le cosmologie che rende possibile sono così perfettamente integrate e coerenti che rasentano l'ordine totalitario allo stesso tempo lasciando a ognuno dei loro abitanti una grande libertà ermeneutica. Anche qui, come nel totemismo, termini e relazioni sono interdi pendenti, ma a livello più vasto di un mondo luccicante di cui si enumerano senza tregua cucci i riflessi nella speranza vana e magnifica di renderlo perfettamente significante. I quattro modi di identificazione implicano anche dei rapporti differenti era termini e relazioni che avremo tutto il modo di vedere ricomparire nelle oggettivazioni cosmolo giche e sociologiche concrete di cui ognuno di questi modi fornisce il principio di sche matizzazione. Possiamo, per descrivere queste sistemazioni in modo sintetico, riprendere la comoda distinzione che propose Roman Jakobson tra la metafora e la metonimia: la prima è un rapporto di similitudine interno tra i termini - facendo appello alla facolcà di selezione e di sostituzione delle parole nell'organizzazione del senso - e la seconda un rapporto di similitudine esterno era le relazioni - dove gioca la facoltà di combinazione delle unità linguistiche nella relazione referenziale2 • Nell'animismo, l'assenza di somi glianze metaforiche tra gli esistenti (in ragione delle loro differenze di fisicità) è com pensato dalla metonimia (in ragione delle relazioni che stringono), mentre, nel natura lismo, è l'assenza di somiglianze metonimiche (eterogeneità delle relazioni) che viene 2 Jakobson, R., 1963, pp. 43-67.
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compensata dal legame metaforico (a causa della continuità materiale). Nel totemismo e nell'analogismo, invece, metafora e metonimia si sostengono mutualmente, ma in modo differente. La similitudine tra gli elementi che compone una classe totemica fornisce la base della relazione che caratterizza l'insieme delle classi (una stessa serie di scarti differenziali); la metafora al livello della classe è quindi la condizione della metonimia a livello del sistema. Quanto ali'analogismo, fatica a trovare delle relazioni tra termini posti come dissimili e moltiplica le relazioni dissimili per ritrovare una somiglianza tra i termini; l'assenza di metafora qui porta quindi alla metonimia e l'assenza di metonimia alla metafora (figura 5). Fig. 5 - Distribuzione degli esistenti secondo i termini e le relazioni piccoli scarti
grandi scarti
- identità era i termini (in ragione dell'origine comune e malgrado le differenze di forma)
- differenze tra i termini (in ragione delle differenze di fisicità e malgrado la somiglianza di interiorità) - somiglianza era le relazioni (modo per cancellare le differenze di fisicità)
totemismo
animismo
Termini e relazioni sono interdipendenti all'interno di ogni classe
Le relazioni hanno la meglio sui termini
- differenza tra i termini che si assomigliano (in ragione delle analogie di proprietà e malgrado le differenze di interiorità e di fisicità)
- somiglianza era i termini (in ragione delle somiglianze di fisicità e malgrado le differenze di interiorità) - differenza era le relazioni (come correlazione delle differenze di interiorità)
- identità tra le relazioni (in ragione delle discontinuità era le classi: corrispondenza di scarti differenziali
naturalismo
analogismo
I termini hanno la meglio sulle relazioni
- differenza tra le relazioni che si basano sugli stessi termini (più tipologie di analogia sono possibili era gli stessi termini) Termini e relazioni sono interdipendenti al livello del sistema generale
Differenze, somiglianze, classificazioni I modi di identificazione differiscono anche dal punto di vista dei meccanismi classi ficatori che mobilitano. Nel campo delle etnoscienze si è presa l'abitudine di opporre la categoria attraverso gli attributi alla categorizzazione prototipica come se l'uso dell'una fosse incompatibile con l'uso dell'altra. Ricordiamo che la prima fu in voga verso la metà
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del secolo scorso con l'analisi componenziale (componential analysis) che consisteva nel decomporre i termini di una nomenclatura in matrici di tratti contrastanti che si suppo ne fossero impiegati nei giudizi di attribuzione. La seconda diviene l'ipotesi dominante con i lavori di Rosch sulla categorizzazione dei colori e di Berlin sulle tassonomie ecno biologiche, due domini per i quali si pensa che le classificazioni si costruiscano intorno a rappresentanti tipici, o "prototipi naturali", che costituiscono il nucleo di una classe per il fatto che sono più evidenti sul piano percettivo3 • Ora, piuttosto che esaminare questi due meccanismi cognitivi come delle soluzioni esclusive l'una dell'altra, è più verosimile pensare che noi le impieghiamo in alternanza secondo i domini di oggetti da classificare, in aggiunta ad altri schemi classificatori, come la contiguità spaziale, l'origine o la sfera di attività. Così, nelle comuni tassonomie di piante, la sussunzione in una classe sembra far dovunque richiamo alla classificazione prototipica: in francese, la quercia comune Quercus pedunculata è il prototipo del taxon "quercia", poiché è percepito come il mi glior esemplare di questa classe che la quercia rovere; la quercia verde, la quercia nana o la quercia da sughero sono sussume in quella classe con aggiunta di un determinante per meglio distinguerle. Ma, in alcuni contesti, si raggruppano anche piante secondo il loro habitat (la canna va con il vetrice, il salice, l'ontano e tutte le pianti delle zone umide), secondo la loro provenienza (l'olivo, la vite, il fico, il cipresso o il pino domestico sono costitutivi del paesaggio mediterraneo) o secondo i loro usi (i legumi, la frutta, le piante medicinali, le piante ornamentali ecc.); a volte oggettivabili da un lessema proprio, que sti raggruppamenti molto spesso restano non marcati sul piano linguistico. Diversi criteri possono inoltre essere combinati, a condizione di non essere troppo numerosi, fatto che porta ad una classificazione per attributi. È il caso, per esempio, del taxon "agrume" in italiano, del quale non si capisce bene a quale prototipo potrebbe corrispondere: niente permette di dire che l'arancia o il limone costituiscono i migliori esemplari di questa classe rispetto al pompelmo, al mandarino o al cedro. Invece "agru me" è definibile in modo contrastivo all'interno del campo semantico "frutto" per un sa pore- l'acidità (che entra nell'etimologia del termine ma non ne esaurisce i significati)-, una provenienza - il perimetro mediterraneo-, un habitat - il frutteto-, una temporali tà - la maturazione invernale-, ancora una tonalità dominante - il giallo e l'arancione-, molti di questi criteri sono necessari per specificare il taxon, e questo anche quando non sarebbero automaticamente presenti nella mente nel giudizio classificatorio. Certo, il ri sultato non è assolutamente identico alle matrici contrastive dell'analisi per componenti dato che, contrariamente a queste, i contrasti restano impliciti: è possibile supporre che l'acido si opponga qui al dolce, il mediterraneo al settentrionale, il frutteto al campo o l'inverno all'estate. Ciononostante è una classificazione per attributi in senso ampio e di un genere molto comune. Lo schema animistico sembra fare appello in modo prioritario alla generalizzazione prototipica. A differenza di ciò che accade nelle classificazioni ecnobiologiche, il prototi-
3 Per un esempio di analisi componenziaJ,. vedere Lounsbury, F.G., 1956; per la classificazione prototi pica, vedere Rosch, E., 1973, e Berlin, B., 1992.
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1 O. Termini, relazioni, categorie po non è qui caratterizzato da una forma o da un'apparenza, ma da una condizione o da uno stato: è l'umanità, pacco composito di affetti, di intenzionalità, di coscienza rifles siva, di attitudini linguistiche e tecniche, di capacità di inventare norme arbitrarie, che fornisce la dimensione ontologica attraverso la quale sono valutati e classificati gli esi stenti; è l'umanità e la sua interiorità conquistatrice, non l'umano come specie biologica, che costituiscono il miglior esemplare della classe delle persone alle quali dei non-umani si aggregano a seguito di una petizione di principio sulla loro identità nascosta. Si tratta certo di un prototipo contro-intuitivo sul piano della sensibilità, cosa che sembra andare contro la definizione stessa di un tale oggetto: che cosa c'è a prima vista di comune tra me e un orso o un tucano o una pianta di manioca, tranne questo predicato un po' vago che è la vita? Ma questo succede perché abbiamo l'abitudine di dare alla dimensione percettiva del prototipo un privilegio esorbitante, a discapito di altre dimensioni meno ostentate. Dare a una scimmia o a una patata dolce un'interiorità identica alla mia, richiede solamente di sostituire una rilevanza percettiva manifesta con una rilevanza psi cologica eclissata tipo quella che si rivela nei sogni o nelle attribuzioni di intenzionalità alle quali cediamo tutti in occasione nei nostri rapporti con i non-umani. Del resto, la sostituzione non è né completa né definitiva, ma una semplice questione di contesto: come tutti, gli Achuar, i Makuma o i Naskapi utilizzano tassonomie inclusive di piante e di animali fondati sulla generalizzazione prototipica di una rilevanza percettiva, fatto che non impedisce per niente, in alcune situazioni, di comprendere piante e animali a partire dal modello di interiorità del quale sono essi stessi il prototipo. Giacché il modo di identificazione totemico sembra così governato dalla generaliz zazione a partire da un prototipo, l'impiego ripetuto di questo termine per gli etnografi dell'Australia fornisce già un indice della sua pertinenza per comprendere il modo in cui si struttura il gruppo totemico. Converremo che si tratta di un prototipo ancora più astratto di quello che usa l'animismo, dato che non esiste sotto le specie di un oggetto fenomenico. Infatti, il prototipo sotto il quale è sussuma una classe di umani e di non umani non è, strettamente parlando, l'essere del Sogno che ha generato il modello di questa classe, né il totem principale con il quale essa si specifica, ma il nucleo di proprietà fisiche e morali che identificano ognuno dei suoi membri e di cui l'una, che dà spesso il suo nome alla classe e al totem, sintetizza le caratteristiche di tutte le altre. Per riprendere la terminologia di Brandenstein, tutti i membri umani e non umani di una classe tote mica possono essere "arrotondaci", cioè anche "grandi", "collerici", "primi", "con il viso largo" ecc.; o anche " piatti", cioè "piccoli", "flemmatici", "secondi", "con il viso stretto" ecc. Si potrebbe obiettare che si tratta qui di una lista di qualità e quindi piuttosto di una classificazione per attributi. Ciò significa dimenticare che, in una classificazione per attributi, questi sono contrastanti; e lo sono, infatti, a livello del sistema totemico completo, ma non della classe che è per noi il punto di partenza del processo di iden tificazione, dato che esprimono ognuno una caratteristica complementare derivata dal prototipo iniziale che dà coerenza a questa classe. Ciò significa dimenticare soprattutto che gli attributi sono decomponibili come un inventario. Ora, l'identificazione totemica non proviene prima di tutto dal calcolare le proprietà comuni, anche se queste possono
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essere enunciate quando le circostanze lo esigono; essa suppone un'adesione massiva e involontaria per il fatto che tale o tal'altro esistente è identico a me perché siamo venuti dalla stessa forma ontologica, perché siamo materializzazioni dello stesso modello gene rativo. È a questa condizione solamente che si può dire, come l'informatore di Spencer e di Gillen, che un canguro è esattamente simile a me. Qui ancora prototipo contro intuitivo, perché ignora le differenze di forme, ma prototipo prodigiosamente normati vo dato che la sua stessa astrazione impedisce che lo si possa invalidare con l'esperienza. Sotto questo aspetto si avvicina ad alcune idealità che impieghiamo comunemente, del tipo "le creature del buon Dio" o "la cultura umanistica". Per quanto riguarda il modo di identificazione analogistico esso classifica attraverso attributi, e lo fa in modo eccelso. Ogni esistente è decomponibile in una moltitudine di elementi e di caratteri che possono essere appaiati ad altri od opposti ad essi, in modo che una tabella di corrispondenze sia sempre anche una tabella di contrasti. Pensiamo, per esempio, alle corrispondenze stabilite dal Hong fan, probabilmente il più antico trattato di filosofia cinese, tra gli elementi, le facoltà umane e i segni celesti: i cinque elementi - l'Acqua, il Fuoco, il Legno, il Metallo e la Terra - formano proprio un campo di contrasti, ma ognuno di essi è connesso a una delle cinque attività umane - il gesto, la parola, la vista, l'udito, la volontà - e a uno dei cinque segni celesti - la pioggia, lo yang, il caldo, il freddo, il vento - che costituiscono altri due campi semantici in correlazione contrastiva4 . E questa nomenclatura è ancora rudimentale e i ritualisti e filosofi cinesi si sono impegnati ad esprimerla, aggiungendo serie di elementi. Infatti, il repertorio delle analogie e dei contrasti è illimitato per legge per colui che si impegna ad esaurire tutte le correlazioni del mondo. Possiamo quindi pensare che tale tipo di sapere, se pretende veramente di essere esaustivo, non saprebbe privarsi troppo a lungo dell'aiuto della scrit tura, o almeno di dispositivi grafici, al fine di accrescere le colonne delle tabelle senza sollecitare troppo la memoria. Il modo di identificazione naturalistico opera anch'esso secondo una classificazione per attributi, a dire il vero molto elementare: gli umani sono tali perché hanno una fisicità più un'interiorità, i non-umani perché hanno una fisicità meno un'interiorità. Numerose raffinatezze possono certamente essere introdotte in questa opposizione con trastante che prende la sua forza di persuasione dalla sua stessa semplicità; ma si basano, essenzialmente, sulla fisicità. Una volta separato l'uomo dal mondo per le sue facoltà morali, bisogna reinserirlo nell'economia generale della natura grazie agli elementi che possiede in comune con altri esistenti, cioè la sua anatomia, la sua fisiologia, le sue fun zioni. Anche il posto che occupa nelle immense arborescenze tassonomiche di un Buffon o di un Linneo è determinato, come per tutti gli organismi, da dicotomie successive di tratti contrastanti che specificano i suoi attributi fisici rispetto a quelli dei suoi più vicini non umani. Allo stesso interno della specie umana, del resto, è soprattutto in termini di variazioni fisiche che le distinzioni sono state concepite nel XVIII secolo, epoca dove niente sembra scappare all'efficacia tassonomica della classificazione per differenze: in 4 Granet, M., 1968 (I 934), p. 308.
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1 O. Termini, relazioni, categorie Blumenbach, per esempio, con la sua classificazione in cinque razze che contrastano per colore della pelle, per la natura dei capelli e per la forma del viso, un sistema esem plare di classificazione per attributi di cui la posterità non si dimentica, dato che alcune delle sue caratteristiche hanno sempre uno statuto ufficiale negli Stati Uniti (le famose tipologie "caucasico", "africano", o "amerindiano"). Esistono da molto tempo delle ta belle di caratteri nazionali - lo Spagnolo è orgoglioso, l'Italiano portato ali' amore ... -, ma senza alcuna pretesa scientifica, anche se Buffon ne subì probabilmente l'influenza menzionando il "naturale" tra i criteri di differenze tra le razze. Non è che con i primi incerti passi dell'antropologia che ci si è impegnati nel classificare in modo metodico le istituzioni umane nelle tipologie contrastanti che ricoprono tutta la superficie della terra; sorgono allora coppie di opposizioni meno superficiali, e gerarchizzate attraverso l'evoluzione: tra parentela classificatoria e parentela descrittiva, famiglia consanguinea e gens o organizzazione gentilizia e società statale. Tutto accade come se il naturalismo, instaurato da una frattura tra umani e non-umani basata sul solo tratto differenziale dell'interiorità, si fosse sforzato da allora in poi di far dimenticare la rusticità delle sue origini ontologiche moltiplicando classificazioni dai criteri più diversificati che permet terebbero di portare gli umani nel grembo della storia naturale e di distinguerli attraver so le variazioni di interiorità. Il pensiero naturalistico prova del resto una predilezione per le classificazioni in tabelle di attributi; ne sono testimonianza quelle grandi carte di autentificazione retroattiva che sono le classificazioni delle scienze, quelle di Comte o di Ampère per esempio. Ne è testimonianza anche, questo non potrà essere scappato al lettore, la presence impresa.
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