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Italian Pages 220 [247] Year 2020
O R I E N TA L I A L OVA N I E N S I A A N A L E C TA Il De tragoedia “barocciano” Una rivisitazione cinquant’anni dopo
di MARIA LUISA AGATI
P E E T ERS
IL DE TRAGOEDIA “BAROCCIANO”
Oxford, Bodleian Library, Barocci 131, fol. 415v. © Bodleian Library, University of Oxford.
ORIENTALIA LOVANIENSIA ANALECTA ————— 294 —————
BIBLIOTHÈQUE DE BYZANTION 25
IL DE TRAGOEDIA “BAROCCIANO” Una rivisitazione cinquant’anni dopo
di
MARIA LUISA AGATI
PEETERS LEUVEN – PARIS – BRISTOL, CT 2020
A catalogue record for this book is available from the Library of Congress. © 2020, Peeters Publishers, Bondgenotenlaan 153, B-3000 Leuven/Louvain (Belgium) All rights reserved, including the rights to translate or to reproduce this book or parts thereof in any form. ISBN 978-90-429-3913-4 eISBN 978-90-429-3914-1 D/2020/0602/122
SOMMARIO PREFAZIONE .
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VII
ABBREVIAZIONI .
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XI
INTRODUZIONE .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Tradizione manoscritta, edizioni a stampa e studi . . . . . 2. Natura del testo e quesiti attribuzionistici . . . . . . . 3. Caratteristiche paleografiche e prime ipotesi di genesi del manoscritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1
1 3 9
PARTE PRIMA
TESTO E COMMENTARIO . . . . . . . . . . . . . 1. Criteri editoriali . . . . . . . . . . . . . 2. Comportamenti del copista e categorie di emendamento 3. Siglum codicis et abreviationes . . . . . . . . 4. Testo e traduzione . . . . . . . . . . . . 5. Commentario . . . . . . . . . . . . . .
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29 29 30 33 34 41
119 119 124 130 136 152
PARTE SECONDA
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE . . . . . . . 1. Teatro a Bisanzio e quesiti preliminari . 2. Tentativi di attribuzione . . . . . . 3. Dubbi sulla paternità pselliana . . . . 4. Fonti del Περὶ τραγῳδίας e deduzioni . 5. Conclusioni . . . . . . . . . .
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BIBLIOGRAFIA
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INDICI . . . . . . . . . . . . . . Indice terminologico . . . . . . . Indice dei nomi, delle opere e delle scuole XIX secolo e dei toponimi . . . . . Indice delle fonti manoscritte . . . . .
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. . . . . . . . di pensiero . . . . . . . .
. . . . . . anteriori . . . . . .
. . al . .
205 207 211 221
PREFAZIONE La poesia non può e non deve essere tradotta. Quando viene tradotta, infatti, l’armonia si rompe, il metro si perde, la bellezza svanisce e tace per sempre il meraviglioso che è in essa, divenendo così simile alla prosa (mu’tazilita al-Jâhiz, trad. Cassarino*)
Mi ero occupata dell’anonimo testo bizantino in oggetto appena quindici anni dopo la pubblicazione che l’aveva reso noto, nel 1963, prima che vicende di vario genere, accademiche ma non solo, dessero nuovo corso ai miei filoni di ricerca e di didattica, sì da farmi accantonare questo lavoro, già giunto allo stadio conclusivo nella sua rielaborazione da una iniziale tesi di specializzazione in Dramma Antico presso l’Istituto INDA di Siracusa1. Il fatto, tuttavia, di essermi casualmente trovata tra le mani una sua seconda edizione in italiano, corredata di traduzione e commento, uscita trent’anni dopo la prima, in mezzo alle varie letture su argomenti che continuano a starmi a cuore dai tempi della mia prima formazione filologica classica e bizantina, mi ha invogliato a riprenderlo tra le mani: dalla iniziale certezza di non poter più aggiungere niente, ormai, all’acribia delle precedenti analisi, sono così passata infine alla sorpresa, e convinzione, che qualcosa ancora da dire, sia pur limitata dopo l’avanzamento degli studi in questi anni, mi sarebbe rimasta, da quella prima traduzione con commentario stilati, con zelo di novizia, nella stagione in cui mi appassionavo in studi sul teatro greco antico ma nel contempo, superando la griglia degli schemi ‘classicisti’, acquisivo anche un’ottica più allargata attraverso gli studi di bizantinistica. Qualcosa da dire ancora oggi, malgrado dunque – e certamente – l’esistenza di qualche cenno in più sull’argomento rispetto agli ultimi decenni del secolo scorso, e alla luce, tra l’altro, della più moderna esperienza del teatro antico. Ciò significa considerare in primo luogo le acquisizioni e speculazioni più recenti nelle indagini relative specialmente agli aspetti paratestuali della poesia drammatica – intendo quelli scenico-spettacolare, nonché musicale-coreutico, nel quale questo testo sembra particolarmente compiacersi e in cui, in modo particolare, si sono convogliati i miei interessi negli ultimi anni –; ma significa, d’altra parte, prestare anche un’attenzione nuova al contesto in mezzo al quale * M. CASSARINO, Traduzioni e traduttori arabi dall’VIII all’XI secolo, Roma, 1998, p. 85. 1 AGATI, Un trattato anonimo Sulla tragedia.
VIII
PREFAZIONE
quest’operetta ci è giunta (tipologia di libro/manoscritto che la tramanda e silloge di testi ivi trasmessi, con le indagini di tipo storico, filologico e paleografico che vi si possono connettere) e quindi, per trarne nuove riflessioni conclusive, considerare come punto di partenza le più recenti investigazioni relative ai milieux dotti d’età medio o tardo-bizantina e alla loro attività di copia, letture e studio, con le particolari forme di trasmissione dei testi che vi si riallacciano: un sostrato, questo, dal quale non può essere avulso lo studio del presente testo, che è – va ribadito – un testo bizantino e non un testo classico. Dunque, qualcosa da dire o aggiungere, soprattutto, in merito al possibile quadro storico-culturale relativo alla sua origine. Si tratta, in sostanza, del problema cruciale mai risolto della genesi del testo e, più in particolare, della sua paternità, aspetti che forse erano ancora prematuri e, quindi, sorvolati dal primo editore, quanto del tutto trascurati dalla seconda editrice, ma che comunque in generale pare non siano stati affrontati direttamente o nello specifico del testo in questione2. Per quanto riguarda propriamente il testo, ho inizialmente concepito le annotazioni ermeneutiche e riflessioni che seguono – talora, forse, anche “divagazioni” – nell’ambito di un contributo, ristretto, di carattere esegetico, ma quando la materia ha assunto una certa proporzione e ha richiesto la necessità di un confronto diretto e, quindi, di accesso immediato al testo per una migliore comprensione dei vari punti del commentario, è inevitabilmente nata l’idea di riproporre una nuova edizione, non senza una certa dose di perplessità a dire il vero, dal momento che questo testo è tradito da un exemplar unico ed è stato eccellentemente trascritto dal primo editore. Mi è sembrato, ciò nonostante, utile ripartire dalla lettura diretta del codice, per verificare, evidenziare e/o prendere posizione su alcune lezioni controverse, che hanno indotto anche a correzioni condivisibili o meno, nonché sui segni e criteri di punteggiatura usati dallo scriba del codice. Dette annotazioni non sono perciò nate con la pretesa, o ragione, di essere sistematiche, ovvero relative ad ogni passo del componimento – ormai abbastanza sviscerato –. A parte inevitabili ripetizioni nella presentazione iniziale del testo, evitando piuttosto nel corso del commento di reduplicare riferimenti già apportati (o semmai limitandoli), esse sono unicamente tese ad aggiungere precisazioni nei soli punti e sulle fonti di volta in volta sottese che si riterrà opportuno riprendere, o, anche, a sottolineare qualche eventuale discrepanza d’interpretazione con chi mi ha preceduto.
2 PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, è forse il solo, sinora, che è arrivato a formulare delle conclusioni originali, sulla base, tuttavia, non del singolo trattato in sé (del quale, anzi, non si occupa), ma ampliata a tutti gli altri del “blocco” filosofico in mezzo a cui questo è collocato. Vi si tornerà nella discussione dell’ultima parte di questo lavoro.
PREFAZIONE
IX
Senza pertanto nulla togliere all’eccellenza filologica delle edizioni preesistenti, delle quali la seconda integra di certo la prima, intuitiva ma fondamentale e tuttora ineludibile punto di riferimento, ho voluto semplicemente aggiornarle, offrendo sia una messa a punto a distanza di più di cinquant’anni da quando il testo è stato reso pubblico e sia, insieme, un nuovo tentativo di ridiscutere sulla problematica complessiva presentata da quest’operetta interessante che, anello di una tradizione partita dalla teorizzazione della Poetica aristotelica, è, e rimane tuttora, un unicum. Il fatto che, dopo decenni, il dibattito intorno ad essa non si sia esaurito, non fa che confermare e, anzi, rafforzare la sua peraltro già sottolineata straordinarietà. Ho suddiviso in tre parti questo lavoro. La prima parte, introduttiva, in tre paragrafi presenta in modo generale l’argomento, ponendo sulla bilancia i diversi quesiti che pone: testi e fonti di riferimento, e ipotesi sinora formulate, sia sul testo che sul manoscritto miscellaneo che lo tramanda, con un tentativo di ricostruire in via ipotetica le fasi del lavoro dei diversi scribi ed un’analisi paleografica del copista che ha vergato il nostro trattato. La seconda parte è quella centrale di edizione del testo, traduzione e commentario. Nella terza ed ultima parte, in cinque paragrafi, si raccolgono le fila, cercando di dipanare la matassa ingarbugliata dei problemi già esposti con una serie di riflessioni critiche, a partire da una rapida visione d’insieme dell’oscuro soggetto del teatro a Bisanzio, poi il dilemma della paternità del testo e la ripresa in modo dettagliato delle fonti, punto dopo punto: un’analisi serrata da cui spontaneamente, col supporto di nuove osservazioni di tipo storico-filologico, scaturiscono le considerazioni conclusive sull’autore e sul possibile ambito in cui fu concepita non solo la singola operetta ma, con ogni probabilità, tutto il blocco di testi in mezzo ai quali essa è tramandata. Nel momento di liquidare alle stampe il presente studio, mi è gradito volgere un particolare pensiero di gratitudine alla memoria di “Maestri” con i quali ne avevo condiviso il progetto ed una parziale realizzazione: in primo luogo Rosario Anastasi, noto specialista di studi sull’XI secolo e in particolare su Michele Psello, che fu il primo interlocutore per il mio approccio a questo trattato; quindi Filippo Maria Pontani, col quale avevo intavolato una discussione sulla problematica di questo testo, in vista di una pubblicazione finale; e infine Carlo Gallavotti che, appena approdata in Vaticana, quasi mi “adottò”, istillandomi tutto il suo giovanile entusiasmo per il mondo greco, classico e bizantino. Last, but not least, il mio pensiero va a Paul Canart da poco scomparso, che dopo avermi istradata nei sentieri impervi della cultura grafica di quella civiltà
X
PREFAZIONE
che amavo, mi ha poi sempre seguita nei miei disegni di ricerca, anche in quelli che non rientravano strettamente nell’ambito paleografico: così, anche di questo era a parte, ma non ha fatto in tempo a leggere la sua stesura finale, privandomi delle sue preziose osservazioni. Al suo ricordo dedico dunque questo lavoro. Un grazie sincero voglio rivolgere al personale della biblioteca del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Torino, per la squisita disponibilità a venirmi incontro, ed uno vada, infine, alla redazione e a tutto lo staff di Byzantion, in primo luogo al suo direttore Peter Van Deun, per la stima senza riserve con cui hanno accolto il mio lavoro nella presente collana. * *
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A conclusione di questa parte preliminare, mi piace confessare l’idea che, realizzando questo lavoro, mi ha pervaso: quella di cogliere il larvato invito implicito nelle parole di Maria Grazia Bonanno sul «meditato commento» di Perusino, che non manca di offrire «fervide suggestioni al lettore che voglia produttivamente ‘sconfinare’ …»3. Credo di avere, in effetti, sufficientemente – e per diletto – “sconfinato”. Atene, settembre 2018
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BONANNO, Recensione, p. 232.
ABBREVIAZIONI
BAR BBGG BF BMGS BROWNING BSGRT Byz BZ CB CGF CFHB CMH CSHB DOP ΕΕΒS FHG GG GL GRBS HGM JHS JÖB JÖBG MSG OCP OLA PERUSINO PG PLP RE REB REG RFC RFIC RH RHC RSBN ST TGA
British Archaeological Reports Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata Byzantinische Forschungen Byzantine and Modern Greek Studies BROWNING, A Byzantine Treatise Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana Byzantion Byzantinische Zeitschrift Corpus Bonnense vedi anche CSHB Comicorum Graecorum Fragmenta Corpus Fontium Historiae Byzantinae Cambridge Mediaeval History Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae vedi anche CB Dumbarton Oaks Papers Ἐπετηρὶς Ἐταιρείας Βυζαντινῶν Σπουδῶν Fragmenta Historicum Graecorum Grammatici Graeci Grammatici Latini Greek, Roman and Byzantine Studies Historici Graeci Minores Journal of Hellenic Studies Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik Jahrbuch der Österreichischen Byzantinischen Gesellschaft Musici Scriptores Graeci Orientalia Christiana Periodica Orientalia Lovaniensia Analecta PERUSINO, Anonimo (Michele Psello?) La tragedia greca Patrologia Graeca Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit Real-Encyclopädie (Pauly-Wissowa) Revue des Etudes Byzantines Revue des Etudes Grecques Rivista di Filologia Classica Rivista di Filologia e di Istruzione Classica Revue Historique Recueil des historiens des Croisades Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici Studi e Testi Thesaurus Graecarum Antiquitatum
INTRODUZIONE 1. TRADIZIONE MANOSCRITTA, EDIZIONI A
STAMPA E STUDI
L’anonimo trattato bizantino Περὶ τραγῳδίας è tramandato da un unico – a quanto sinora sembra – manoscritto, il codice oxoniense Bodl. Library, Baroccianus 131 (f. 415r-v), miscellanea databile intorno alla seconda metà del sec. XIII4. Il testo veniva per la prima volta portato alla luce nel 1963 da Robert Browning, che lo pubblicava senza una traduzione ma corredandolo di un breve commentario che avviava la discussione sugli innumerevoli problemi di interpretazione5. A parte qualche nota aggiunta da J. Glucker al commento di Browning6, una traduzione in inglese fatta da D.D. Feaver pochi anni dopo7, e qualche stralcio (dalle sezioni 5, 8, 9, 11 e 12) pubblicato in appendice ad una sua opera magistrale da Pickard-Cambridge8, l’interesse di questo trattatello sembrava per lo più essere sfuggito agli studiosi specialisti di teatro e di musica antichi, quando a distanza di trent’anni, nel 1993, Franca Perusino colmava questa strana (ma non poi così tanto, come si vedrà) lacuna: ne riaffrontava lo studio, con tutti i suoi quesiti in sospeso, almeno quelli di carattere filologico, più che storico, offrendone un’edizione critica questa volta con traduzione oltre che commento, con l’intento di «ripercorrerne ed eventualmente allargarne le prospettive critiche e le proposte di interpretazione»9. L’interesse, tuttavia, che tale testo offre come fonte “tecnica” per certi aspetti inedita di informazioni, ha fatto sì che, con la designazione, ispirata al manoscritto, di «Trattato Barocciano» o «Anonimo Barocciano», esso rientrasse tra le testimonianze protagoniste negli studi più recenti dedicati alla scarna tradizione post-classica della Poetica di Aristotele, costituendo un termine importante di riferimento e di confronto che oramai è dato per scontato, senza peraltro che esso sia più stato oggetto di ulteriori analisi, almeno su determinati, particolari aspetti, che sono rimasti più nell’ombra. 4 Su di esso, si rinvia principalmente a WILSON, The Date and the Origin (data proposta: ca. 1250), mentre per la sua descrizione, cf. IDEM, A Byzantine Miscellany (lo attribuisce più latamente agli aa. 1250-1280), e COXE, Bodleian Library, Quarto Catalogues, pp. 211-230 (che lo data al sec. XIV). Cf. anche GAUTIER, Michel Italikos, pp. 7-11, e inoltre WEINSTOCK, Catalogus, pp. 16-19. Ancora, cf. WILSON, Mediaeval Greek Bookhands, I, pp. 29-30 e II, Plates 58-62. Per le altre riproduzioni pubblicate dal manoscritto, cf. VOICU – D’ALISERA, Index, p. 452. Oggi il codice è digitalizzato nel sito della Bodleian Library. 5 BROWNING, A Byzantine Treatise. D’ora in poi citato BROWNING. 6 GLUCKER, Notes. 7 FEAVER, More on Mediaeval Poetics. 8 PICKARD-CAMBRIDGE, Dramatic Festivals, pp. 322-323. 9 PERUSINO, Anonimo (Michele Psello?) La tragedia greca, p. 9 la citazione, d’ora in avanti menzionata PERUSINO.
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INTRODUZIONE
Tra gli studi menzionati, va in primo piano considerata la riedizione, con traduzione e ampio commentario, preceduta da diversi saggi preparatori, del Περὶ τραγικῆς ποιήσεως del grammatico ed erudito bizantino Giovanni Tzetze10. Si tratta di un’opera tecnica e di carattere didattico in versi, che è il risultato di una compilazione da diverse fonti post-classiche, dichiarate e non, talvolta contraddittorie tra loro ed anche criticate di confusione dall’autore, prima che egli stesso offrisse una proposta sua personale nella classificazione strutturale del genere tragico, e molti punti di contatto presenta col nostro trattato, in special modo nell’articolazione delle parti del dramma che vi troviamo nelle sezioni 1 e 4. Per questo, già il primo editore Browning aveva ipotizzato delle fonti o, piuttosto, una fonte in comune tra i due autori: un aspetto che, nel frattempo, è stato analizzato in relazione all’eredità aristotelica e, soprattutto, all’“annacquamento” di quella poetica del IV secolo col passare del tempo, nella precipua esigenza dei critici – bizantini e più moderni – di definire meglio una normativa ritenuta troppo generica11. Accanto a quest’opera, vanno inoltre presi in esame gli altri componimenti teorici sul dramma dello stesso autore, quelli anch’essi in versi che troviamo pubblicati in CGF dal Kaibel, come già il primo menzionato componimento (pp. 43-49)12: Στίχοι περὶ διαφορᾶς ποιητῶν (pp. 34-40) e Ἴαμβοι τεχνικοὶ περὶ κωμωιδίας (pp. 40-43) – del quale ultimo disponiamo anche di due redazioni stese in prosa come introduzione ad un’edizione di Aristofane, secondo Wendel posteriori13: In Aristophanem bis bina Proemia, Pa, Pb (pp. 17-24), e Bίβλος Ἀριστοφάνους Τζήτζην φορέουσ’ὑποφήτην, Μa, Μb (pp. 24-33) –. Di questa serie di tre componimenti versificati, è stato anche messo in luce come siano stati concepiti unitariamente da Tzetze in un certo ordine logico e cronologico14, fornendoci la misura della mentalità erudita del tempo, volta con cura analitica a redigere compendi e selettive compilazioni teoriche o speculative ad uso scolastico: una mentalità sicuramente condivisa dall’autore del nostro trattato.
10 L’edizione: PACE, Giovanni Tzetze la poesia tragica; cf. inoltre, in ordine cronologico: EADEM, Nota a Giovanni Tzetze; EADEM, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze; EADEM, La struttura della tragedia; EADEM, Le parti della tragedia nella teoria post-aristotelica. 11 PACE [vedi n. 10], ma più dettagliatamente Giovanni Tzetze la poesia tragica e Le parti della tragedia nella teoria post-aristotelica (in special modo p. 99 e nn. sull’insufficienza del testo aristotelico per casi particolari). 12 KAIBEL, De Comoedia Graeca, pp. 17-49, dopo l’edizione del testo Anonymus De comoedia (Περὶ κωμῳδίας) di CRAMER, Anecdota Graeca I, pp. 3-10, che nel corso del lavoro verrà richiamato nei passi corrispondenti. Questi testi sono stati poi ripubblicati, com’è noto, da KOSTER, Prolegomena de comoedia, pp. 84-109 (pp. 99 ss. il poema sulla tragedia), ma nel presente lavoro si è preferito unificare i vari testi bizantini facendo sempre riferimento all’edizione dei CGF. 13 WENDEL, Tzetzes I, col. 1988. 14 In particolare, cf. PACE, Nota a Giovanni Tzetze, pp. 81-82; Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 229-230; Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 9 ss.
INTRODUZIONE
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Infine, per un confronto non vanno negletti pochi altri testi bizantini che, quasi come una moda nel revival di studi classici che, a più riprese, anima la cultura costantinopolitana a partire dal IX secolo15, teorizzano sulle antiche forme drammatiche per mettere soprattutto in evidenza le differenze tra genere comico e genere tragico. Tali sono il Trattato Coisliniano del X secolo, pubblicato anch’esso da Kaibel assieme ai testi tzetziani16, o il frammento più recente (sec. XV) del cod. Par. gr. 1173 (Anon. Par.17) edito da Cramer e da lui ritenuto una delle fonti nominate da Tzetze18, che si menzioneranno nel corso del lavoro. Il Kaibel riteneva tutti questi testi bizantini collegati alla Crestomazia (Χρηστομαθεία γραμματική) di Proclo, un’opera giunta a noi solo attraverso la sintesi di Fozio19, che, secondo la Dosi, potrebbe anche derivare da Teofrasto20; e Proclo viene ipotizzato come possibile fonte intermediaria di questo trattato Sulla tragedia anche dal Mathiesen21. Non del tutto chiara, però, risulta tuttora la dinamica genealogica e cronologica di rapporto reciproco tra questi vari testi. Altri sparsi contributi ancora, relativi a tematiche molto specialistiche, di genere lessicale o metrico o musicale o, anche, coreutico, in date più recenti alle rispettive edizioni del trattato e di Tzetze, menzionano questo testo sia pure solo rapidamente – sia per un termine inusuale o una notizia non altrove confermata, sia a proposito di qualche problematica di tipo esegetico (che peraltro rimane per lo più irrisolta, e quindi allo stato di ipotesi) –, contributi che, pure, verranno citati e/o discussi, se il caso, qui nei luoghi opportuni. 2. NATURA
DEL TESTO E QUESITI ATTRIBUZIONISTICI
La curiosità suscitata nella critica, in modo però sempre parziale e mai esauriente, si spiega col noto fatto che, senza affrontare luoghi topici sull’argomento, come ad esempio i problemi di origine e genesi del dramma o quelli relativi all’etimologia del termine, quest’operetta teorica sull’antica tragedia vuole riferirsi ai canoni teatrali del V e IV secolo a.C. – del momento quindi di massima fioritura del genere – in un’epoca dell’era cristiana in cui quei canoni non 15 Se ne parlerà nell’ultima parte di questo lavoro, ma cf. intanto CAVALLO, A Bisanzio: pratiche intellettuali, sull’effettivo significato e ruolo della cultura antica in una Bisanzio dominata, piuttosto, dal referente cristiano. 16 KAIBEL, De Comoedia Graeca, pp. 50-53. 17 Così nella sua edizione critica PACE, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 12, e per convenzione anche nel presente lavoro. 18 CRAMER, Anecdota Graeca I, pp. 19-20 (p. 19 l’opinione che si tratti di una fonte tzetziana); secondo JANKO, Aristotle on Comedy, p. 240, potrebbe trattarsi di una versione abbreviata della fonte da Tzetze chiamata Euclide. Sul contrasto tra i due generi comico e tragico, cf. ROSTAGNI, Aristotele e l’Aristotelismo, p. 45. 19 Phot., Bibl., V, cod. 239, pp. 155-166 Henry. 20 KAIBEL, Die Prolegomena, pp. 47 ss.; DOSI, Sulla Poetica di Teofrasto, pp. 613 ss. 21 MATHIESEN, Apollo’s Lyre, pp. 99-100.
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INTRODUZIONE
esistevano (e forse non si comprendevano) più, e per di più cucendo insieme in modo anche sommario elementi e notizie sia “classiche” che più tardive, a volte insolite e, insomma, mescolandovi elementi anacronistici, o monchi, da ‘decriptare’. Solo apparentemente, quindi, essa si presenta facile da tradurre ad una prima lettura nel suo impianto strutturale semplice o addirittura schematico, fatto di frasi brevi e secche. È in realtà un vero puzzle – per dirla col primo editore – per le notevoli difficoltà di interpretazione, oltre a quelle di genesi, a causa appunto di un sostrato composito, se non confuso, di influssi e fonti che si celano e intrecciano dietro il suo tentativo di sintesi, come anche la disamina della Perusino lascia evincere. Non va, tra l’altro, trascurata una constatazione: che comunque quello stesso modello di riferimento dell’epoca classica – nel quale non pretenderemo di entrare nel merito se non quel tanto di indispensabile, anche dal punto di vista bibliografico – quel modello di teatro antico del quale la stessa fonte aristotelica tenta di mostrare la superiorità rispetto alla lenta degenerazione successiva senza darci la coerenza di un’opera esaustiva e compiuta quanto, piuttosto, suggerirci note di lettura; un’opera «altamente tecnica e a difesa della Poesia» sulla quale la critica ancora oggi si scontra con le interpretazioni più divergenti22, costituisce ancora un problema per noi moderni, un problema con tante incognite, si sa, per la scarsità e frammentarietà delle testimonianze in nostro possesso e soprattutto per l’enorme distanza dalla nostra odierna esperienza, per cui dobbiamo essere consapevoli che il quadro che gli studi nel corso del tempo sono arrivati a configurare è in ogni caso pur sempre inadeguato a rappresentare l’effettiva realtà di allora. Basti pensare all’odierna messa in scena di una tragedia, quando non abbiamo più alcuna cognizione delle dimensioni musicale, coreutica e prosodica – la recitazione poetica in metri! – che erano l’essenza stessa del dramma, ed ogni regista, per un testo reso in una piatta traduzione in prosa, deve ricorrere al suo personale estro per “inventarsi” una musica (se non l’abolisce del tutto), o per ricorrere ai movimenti più “esotici” e improbabili per un coro del tutto privo di ogni austera dignità, movimenti attinti ai più disparati repertori moderni e contemporanei che nulla, ahimé, hanno a che vedere con l’ethos e la solenne gravità della tragedia antica23. Ora, nel panorama di quesiti che quest’opera anonima suscita, ha avuto un ruolo importante la sede che essa occupa nel manoscritto che lo tramanda. Si tratta di argomentazioni ormai note, e non ci si soffermerà più del dovuto: 22 Su cui cf. JONES, On Aristotle, spec. pp. 11-62, che sostiene come la Poetica sia stata rigettata per essere riscritta: p. 21 la definizione dell’opera aristotelica che ho riportato tra virgolette in traduzione. 23 Interessanti, al riguardo, le schiette riflessioni di KAPETANAKI, The role of the chorus, con la quale ritengo condivisibile il suggerimento di provare lo studio della musica e danza tradizionali della Grecia come fonte di ricerca più appropriata nel tentativo di rendere più adeguata una moderna rappresentazione.
INTRODUZIONE
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già tutto il codice Barocciano è stato infatti oggetto di ripetuta attenzione a ragione, soprattutto, della natura composita e dell’interesse degli scritti che contiene, testi per la maggior parte dell’XI e XII secolo, molti dei quali rari o addirittura unici, come il nostro; ma è stato anche oggetto di confronti diversificati di tipo paleografico in margine a studi relativi ai complessi meccanismi di copia e circolazione libraria intorno all’età paleologa. I testi di cui è latore, infatti, oggi rovinati in diversi punti, sono vergati in blocchi da mani diverse – otto, secondo l’analisi di Nigel Wilson, cui qui ci si attiene24 –, probabilmente, secondo l’ipotesi del primo editore, ogni blocco su un diverso modello25. A giudicare dal tipo di assemblamento, dall’articolazione delle mani, che ritornano in blocchi diversi e collaborano tra di loro, dalle diverse serie di fascicolazione, che attestano una composizione a tappe su un periodo di tempo abbastanza lungo, il Barocciano rispecchia quella consuetudine bizantina che, nell’ambito di una mentalità selettiva del sapere che, almeno a partire del X secolo, si fa “enciclopedica”26, già sin dall’età tardoantica ci ha lasciato un numero imponente di manoscritti miscellanei, aggregazioni plurime – il cui assemblaggio era certo favorito dalla nuova forma del libro-codice e, successivamente, da un supporto più economico e flessibile come la carta – che, occorre ammetterlo, costituiscono per chi vi si debba cimentare terreno non certo agevole di studio, sia dal punto di vista filologico quanto di quello paleografico e codicologico. Sia che si tratti di miscellanee unitarie, raccolte cioè di testi messi insieme da qualcuno – qualche intellettuale – su una tematica che tende ad essere omogenea, sia che si tratti invece di accorpamenti di testi e/o disparate unità codicologiche27, che raramente siamo in grado di stabilire se fossero finalizzati ad un lungo lavoro programmato e, in un certo senso, “aperto” come dice Bianconi28, sicuramente queste tipologie librarie danno un contributo non indifferente alla storia della produzione libraria e della trasmissione dei testi antichi, 24 WILSON, The Date and the Origin, e A Byzantine Miscellany, p. 177: discussione sull’alternarsi delle mani. 25 BROWNING, p. 67: d’altra parte non potrebbe essere diversamente, considerata la natura disparata del contenuto di ogni sezione. 26 Cf. PICCIONE, Scegliere, raccogliere e ordinare, pp. 47-48, dove efficacemente parla di «letteratura di raccolta»; si veda anche ODORICO, La cultura della συλλογή; IDEM, Un esempio di lunga durata; nonché CANFORA, Le collezioni superstiti, spec. p. 233. Rinvio poi, in modo particolare, alla rigorosa disamina del termine «enciclopedismo», col conseguente e inedito significato da dare a quello bizantino, di SCHREINER, Die enzyklopädische Idee in Byzanz. Sul cosidetto «enciclopedismo della rinascenza macedone», poi, si rinvia almeno a HUNGER, Hochsprachliche profane Literatur, II, pp. 360-367; DAIN, L’encyclopédisme de Constantin Porphyrogénète; LEMERLE, L’encyclopédisme à Byzance, nonché IDEM, Le premier Humanisme byzantin, pp. 267-300, dove la suggestiva ed efficace definizione di «obsession du passé hellénique», ma resa ambigua e diffidente a causa del Cristianesimo (p. 268). 27 Si può richiamare la definizione di «Hausbücher» data a libri-mix di uso privato da HUNGER, Schreiben und Lesen im Byzanz, pp. 74-75. 28 BIANCONI, Libri e mani, p. 342, dove parla di work in progress che vedeva protagonista l’intero circolo intellettuale.
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sotto diversi profili: gettano infatti luce su modalità particolari di copia e di allestimento librario e sugli specifici interessi culturali sottesi, sui relativi canali di circolazione e, possibilmente, sui protagonisti di questa storia ed il tessuto eventuale delle loro inter-relazioni (possesso e scambi di libri, prestiti, passaggi tra l’uno e l’altro…), protagonisti che, quando non si tratti di raccolte monastiche29, all’interno di élites privilegiate nel Medioevo greco, soprattutto quello medio e più recente, conservavano e tramandavano la cultura antica con un minuzioso lavoro filologico30. Parliamo infatti di produzioni di cerchie intellettuali che, come Guglielmo Cavallo per primo ha indagato coniando la definizione di “sodalizi eruditi”, o salotti letterari – ben differenti da un vero e proprio scriptorium organizzato –, esercitavano pratiche di lettura, di studio e di scrittura insieme, collazionando anche e copiando testi profani, stendendo escerpta e allestendo compilazioni ed edizioni di testi classici senza alcuno scopo remunerativo ma per uso proprio o, anche, di didattica31; un ambito esclusivo, ove l’amore per il libro e la condivisione di valori sociali e culturali era forma e sostanza di vita32. Al di là di casi emblematici, come ad es. quello del codice di contenuto logico di Cortasmeno, De Wulf-Mansion Centrum di Lovanio, che Michel Cacouros, in base a caratteristiche inequivocabili, ha ricondotto all’ambito dell’insegnamento 29 Per questo tipo di raccolte, per lo più basate sull’autorità dei Padri, mi limito a rinviare all’indagine, relativa al XV secolo, di De GREGORIO, Manoscritti greci patristici. 30 Scopo infatti si può dire fosse proprio la registrazione e conservazione dei testi, più che la loro circolazione: così PETRUCCI, Dal libro unitario al libro miscellaneo, al quale si deve forse la prima attenzione a questa tipologia di libro medievale collectaneo ai suoi inizi, dopo il quale si può dire che uno studio sistematico, anche dal più materiale punto di vista della struttura fisica, sia cominciato col convegno ad esso dedicato: CRISCI – PECERE (edd.), Il codice miscellaneo. Un caso significativo di manoscritto creato all’interno di un gruppo erudito del XIII secolo con verosimile evidenza per la conservazione (come “archivio”), è ad es. il Laur. 85,1 contenente i Commentari al corpus aristotelico su cui ritorneremo, su cui cf. CACOUROS, Le Laur. 85,1, ma anche IDEM, Jean Chortasmenos restaurateur du Laur. 85,1, e Le commentaire d’Aristote à Byzance, pp. 173 ss., e inoltre FRYDE, The Early Palaeologan Renaissance, pp. 194-196. 31 Soprattutto CAVALLO, La storia dei testi antichi a Bisanzio, pp. 105 ss. e IDEM,“Foglie che fremono sui rami”, nonché IDEM, Per una storia delle modalità di lettura, spec. p. 108; IDEM, Tracce per una storia della lettura a Bisanzio, spec. pp. 429-432; IDEM, Sodalizi eruditi. Una cerchia di questo genere è stata ipotizzata essere, per esempio, alla base della Biblioteca di Fozio: CANFORA, Il “reading circle” intorno a Fozio, e IDEM, Le“cercle des lecteurs”autour de Photius (cf. anche IDEM, Il copista come autore, p. 82), e cf. CAVALLO, Sodalizi eruditi, p. 669 sull’inferenza che si potesse parlare anche di circolo di scrittura, oltre che di lettura. Per l’età più recente dei Paleologi, si veda principalmente BIANCONI, Eracle e Iolao; IDEM, Libri e mani; IDEM, Tessalonica nell’età dei Paleologi; IDEM, La ‘biblioteca’ di Niceforo Gregora, spec. pp. 228-229; IDEM, Sui copisti del Platone Laur. Plut. 59.1. Si rinvia infine a ŠEVČENKO, Society and Intellectual Life, p. 70 (con riferimento particolare alla biblioteca di Chora come luogo collettivo di scrittura, su cui cf. anche BIANCONI, La biblioteca di Cora, p. 411). 32 Rinvio in modo particolare a BIANCONI, Eracle e Iolao, p. 556. Sull’amore del libro presso i Bizantini, capace di essere «ossessione libresca» per il ruolo centrale che occupa il libro come «referente al quale non si può derogare», CAVALLO, Tracce per una storia della lettura a Bisanzio, p. 436.
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privato33, e in generale al di fuori di tutti quei textbooks o schoolbooks corredati di scoli, schedografie e tecnologie, approntati manifestamente per uso scolastico dall’XI secolo in poi, con particolare fioritura in età comnena e soprattutto paleologa34, è per lo più difficile distinguere criteri per discernere chiaramente quando uno di questi pluri-aggregati fosse finalizzato alla semplice lettura o ad una più pregnante funzione di studio. È ormai provato: non solo materialmente tali libri, dall’aspetto normalmente piuttosto dimesso come fossero copie personali, non ci offrono indizi particolari che possano orientarci sul loro preciso uso, ma è il concetto stesso di insegnamento che si confonde con ciò che, allora, era un circolo di dotti, composto cioè da uomini dotati di un certo grado di istruzione, anche grafica, che essi mettevano a servizio l’uno con l’altro; quindi, il concetto stesso di erudito/insegnante si confonde con quello di allievo/ erudito, rimanendo tuttora alquanto ambigui, e privi di nette demarcazioni, i due ambiti e le rispettive modalità di scrittura, studio e apprendimento35. Mi sembra superfluo precisare che non stiamo parlando dell’istruzione primaria, con l’apprendimento, più informale, dei primi rudimenti della grammatica («una iniziazione alla lingua greca antica»36), e quindi i primi studi di retorica e poesia (almeno in parte), bensì di quella, istituzionalizzata, che comprendeva il secondo ciclo della cosidetta ἐγκύκλιος παιδεία, con le scienze del quadrivium, se non addirittura dell’istruzione superiore, destinata ai funzionari dello Stato o della Chiesa37. 33
CACOUROS, Un manuel byzantin d’enseignement. Mi limito a rinviare alla più recente indagine, incentrata all’età più particolarmente ricca sotto quest’aspetto, di NOUSIA, Byzantine textbooks, basata anche su materiale inedito: vedi spec. pp. 52-92 sul metodo schedografico (con bibliografia retroattiva), nonché a tutto il Colloquio CUOMO (ed.), The editing of text books. Sulla schedografia, oltre a SCHIRÒ, La schedografia, e MERCATI, Giambi di Giovanni Tzetze, come sviluppo del sistema mnemotecnico di apprendimento cf. CACOUROS, L’enseignement des disciplines littéraires, pp. 67-68; NUTI, Longa est via, pp. 48-51, e lo status quo di CAVALLO, Oralità scrittura libro lettura. Sulla differenza tra schedografia e tecnologia cf. in particolare GALLAVOTTI, Nota sulla schedografia di Moscopulo, p. 21. Sulle sillogi scolastiche di età paleologa cf. CANART, Les anthologies scolaires commentées de la période des Paléologues. Di «Schulbücher» per una serie di manoscritti palinsesti moscopulei del XV secolo parla GAMILLSCHEG, Zur handschriftlichen Überlieferung byzantinischer Schulbücher. 35 Cf. in particolare BIANCONI, Erudizione e didattica; anche IDEM, Tessalonica nell’età dei Paleologi, p. 233. 36 CACOUROS, L’enseignement des disciplines littéraires, p. 41. 37 Per una definizione dell’espressione enkyklios paideia riferita all’Antichità, si veda il classico MARROU, L’éducation dans l’Antiquité, p. 264. Malgrado le difficoltà suscitate dalla terminologia bizantina relativa all’insegnamento, l’eredità culturale dell’Antichità, di cui Bisanzio si sentiva garante, veniva trasmessa non in modo informe, ma secondo un canone di materie didattiche ordinate, inserito all’interno del quadro cristiano che doveva conformare la vita del cittadino. Non è questa la sede per entrare nel merito di un tema complesso, che si è prestato a un ricco ventaglio di interpretazioni, anche a causa del silenzio da parte della documentazione ufficiale delle istituzioni bizantine legate all’insegnamento; per limitarmi a qualche riferimento significativo, oltre a BIANCONI, Libri e mani, pp. 313-314 (in rapporto all’allestimento dei codici miscellanei nei loro ‘dispositivi’ editoriali), e IDEM, Erudizione e didattica, pp. 477-480 e 505 ss. (sui cicli dell’insegnamento, con la fluidità connessa, e la coincidenza di insegnanti/eruditi), sull’ enkyklios paideia, 34
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Preliminare, nell’ambito del presente lavoro, è ricordare che nel Barocciano non è riportato alcun nome d’autore nell’intero gruppo di trattatelli di vario genere – retorica, filosofia, fisica, medicina, astrologia, metereologia – cui appartiene il nostro, trascritti tutti dallo stesso scriba (B di Wilson) tra f. 404r e f. 446v38, che segnano la fine del quinto blocco e corrispondono ai fascicoli 5256. Dal momento, però, che almeno sei di essi sono ascrivibili al poligrafo bizantino Michele Psello, e in particolare il primo editore, il Weinstock, ne segnalò la stretta affinità con l’opera pselliana De omnifaria doctrina, sulla considerazione che si tratta di un blocco unitario egli pensò allo stesso come possibile autore di tutti i testi, e fu successivamente seguito quasi all’unanimità39. Su tale ipotesi, data dunque ormai generalmente per scontata, la Perusino, senza voler approfondire la questione, sembra cautamente non volersi pronunciare apertamente, anzi, conclude che la questione dell’identità passa in secondo piano rispetto al problema delle sue fonti, e lo ripete in un altro contributo40, anche se nell’edizione il suo orientamento emerge in modo direi chiaro sia dal nome dello scrittore posto tra parentesi col punto interrogativo nel titolo, e sia dagli elementi a favore che ella condivide dal trattato pselliano su Euripide e Giorgio di Pisidia edito da Dyck41, che si avrà modo di rievocare. Le perplessità un termine dai contorni alquanto evanescenti e, conseguentemente, inteso in modo molto fluido, si vedano in particolare FUCHS, Die höheren Schulen von Konstantinopel, pp. 41 ss., il già menzionato CACOUROS, L’enseignement des disciplines littéraires (ampio excursus con riflessioni su come intendere questi termini), e IDEM, La philosophie et les sciences du Trivium et du Quadrivium. Cf. quindi PICCIONE, Encyclopédisme et enkyklios paideia, e CAVALLO, Alla ricerca del lettore comune a Bisanzio, spec. pp. 1246 ss. Ineludibile, poi, KOUKOULES, Βίος και πολιτισμός, Ι, 1, pp. 105-137, mentre sull’insegnamento in generale a Bisanzio, cf. specialmente BROWNING, Byzantine Scholarship; IDEM, Literacy in the Byzantine World; MARKOPOULOS, Ἡ ὀργάνωση τοῦ σχολείου e IDEM, De la structure de l’école byzantine; MALTESE, Ecole et enseignement à Byzance. Anche CAVALLO, I fondamenti culturali della trasmissione dei testi, e (sull’insegnamento superiore) CACOUROS Vie et survie de Byzance, spec. pp. 41-48. 38 WILSON, The Date and the Origin, e A Byzantine Miscellany, fa cominciare il blocco con f. 397v, anche se la mano B comincia questa porzione a f. 392r, ma la sequenza dei trattati anonimi parte dal f. 404, che corrisponde ad un inizio fascicolo (fatto non indifferente). 39 WEINSTOCK, Catalogus, pp. 101-137 (Excerpta ex codice (Barocc. 131). Excerpta e Psello). Cautamente BROWNING, pp. 67-68 (e n. 2 per l’elenco di testi pselliani nel blocco), seguito da FEAVER, More on Mediaeval Poetics, p. 114 (con un possibly), e KASSEL, Kritische und exegetische Kleinigkeiten IV, p. 104 n. 25, con la proposta di definire questo testo «Trattato Barocciano». Nella sua dettagliata descrizione, WILSON, A Byzantine Miscellany, attribuisce tacitamente a Michele Psello (posto tra parentesi uncinate) tutti i testi di questo blocco dei ff. 397v-446v (= sez. 129, pp. 171-175) in cui è trascritto il trattato, e infatti nell’indice degli autori pone tutto il blocco sotto il nome di Psello mentre, naturalmente, non riporta il componimento nell’indice delle opere anonime. Si possono aggiungere anche WEST, Ancient Greek Music, p. 6, che tacitamente cita il trattato col nome di Psello, e MATHIESEN, Apollo’s Lyre, pp. 98-105, che riferisce l’attribuzione prima di aggiungere l’ipotesi di derivazione dalla Crestomazia di cui si è detto. Ripete la stessa attribuzione PACE, La struttura della tragedia, p. 111, e Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, p. 230. Per uno status quaestionis dettagliato sulle varie posizioni – almeno sino agli Anni Novanta – cf. PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, pp. XV ss., sul quale si avrà occasione di ritornare. 40 PERUSINO, pp. 15-16, e EADEM, La tragedia greca come spettacolo, p. 131. 41 PERUSINO, p. 15, n. 4: DYCK, Michael Psellus, The Essays (p. 30 riferimento al ns. trattato).
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che, invece, ella debolmente adduce, sono a ragione suscitate dai vari limiti, o difetti, dell’opera, che difficilmente si potrebbero attribuire al grande Psello, salvo ipotizzare – è la sua proposta – una frettolosa rielaborazione da parte di un compilatore poco … diligente42. Al contrario, non credo che il problema dell’identità sia di second’ordine, anzi: con ogni verosimiglianza, proprio questa è la principale ragione che mi spinge a scrivere (o a riscrivere). Tutto il codice Barocciano comprende, invero, svariate opere, epistole e orazioni di Psello43, ma senza il concorso di altri argomenti sufficientemente validi, ciò non può necessariamente o automaticamente implicare che lui sia l’autore di tutto ciò che vi viene riportato anepigrafo, anche se ne dà un’alta probabilità. Cercheremo di esaminare più a fondo quest’aspetto nella seconda parte del lavoro, anche sulla scia dell’unico lavoro che, nel frattempo, ha esaminato ex novo la questione44. 3. CARATTERISTICHE PALEOGRAFICHE E PRIME IPOTESI DI GENESI DEL MANOSCRITTO
3.1. Tutte le otto mani che hanno vergato il codice Barocciano e, quindi, anche la mano B dei summenzionati ff. 404r-446v, con sfumature e caratteristiche diverse si inscrivono nel filone “moderno-erudito” che, nei libri di contenuto profano, caratterizza il XIII secolo bizantino e oltre, con la frattura determinata dalla conquista latina di Costantinopoli (1204-1261): frattura, per inciso, da intendere sul piano politico, sociale e culturale, molto meno, se non addirittura inesistente secondo alcuni, da un punto di vista strettamente grafico, vista la sostanziale unità della scrittura greca45. Secondo, dunque, l’orientamento già instauratosi a cavallo tra XI e XII secolo, con la totale “dissoluzione del modello sciolto”46, e il suo inarrestabile processo evolutivo verso una sempre maggiore libertà e individualità, si tratta di mani di uomini dotti – di cui prima si è detto –, dotati spesso di una formazione da funzionari di cancelleria, che copiano da sé i libri di cui hanno bisogno con la grafia di uso corrente a 42
PERUSINO, p. 17. Richiamo, ad es., l’identificazione di sette epistole adespote e anepigrafe, in parte inedite, fatta nei ff. 485v-486r da MALTESE, Il manoscritto Barocci 131. 44 PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica. 45 Tra altri, PRATO, I manoscritti greci, in particolare pp. 117-118, con bibliografia menzionata nelle nn. 9-11. Cf. tuttavia anche WIRTH, 1204-Ein Epochejahr in der Geschichte der griechischen Schrift? Condivido quest’affermazione con una riserva: le conseguenze del frazionamento dell’Impero, soprattutto l’impoverimento economico, non possono non aver lasciato traccia, sia pure solo nel contribuire ad accelerare e incrementare il fenomeno. Si veda, quindi, HUNGER, Kontinuität und Innovation, e IDEM, Elemente der byzantinischen Urkundenschrift. 46 Seguo le definizioni di CANART, Lezioni, pp. 39 ss. 43
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cui sono abituati, in modo veloce e senza curarsi dell’estetica47. A differenza pertanto delle scritture d’apparato, di tipo conservativo o mimetico, che continuano ad essere impiegate in modo artificioso per i libri di carattere religioso e in modo particolare per quelli liturgici, per l’ufficiatura del culto48, le grafie usate per i testi scientifici, letterari o classici sono informali, ovvero dotate di diversi gradi di corsività che le collocano sino al limite estremo delle scritture librarie: personali e irregolari, soggette a grandi variabilità nella forma e grandezza delle lettere e dei tratti e, come le formali grafie cancelleresche, ricche di abbreviazioni e di sovramissioni di legature, con gli accenti sovente legati allo spirito o financo al corpo di una vocale, pertanto refrattarie a qualunque classificazione di tipo stilistico49. Ecco perché per esse si presenta oltremodo difficoltosa una corretta valutazione crono- e topologica. In realtà, sappiamo bene che risulta limitativa financo una suddivisione bipolare (calligrafico/corsivo), perché non tiene conto dei numerosi casi intermedi che con diversi gradi sfumano verso l’uno o l’altro polo; e non solo. L’educazione grafica a Bisanzio, con riferimento al lungo periodo medio e tardo, è un tema che è stato più volte discusso, e non è certo questa la sede per ricordare la complessità che vi è sottesa, soprattutto inerente ai numerosi fenomeni, attestati, di più di un registro grafico padroneggiato dagli scriventi o, addirittura, di multigrafismo50. Per gli anonimi copisti del Barocciano51, a partire dai primi confronti addotti da Nigel Wilson, diversi accostamenti permettono di fissare dei riferimenti 47 Per una prima indagine sulla tendenza “informale”, termine preferito a “corsivo” nell’ultimo orientamento della paleografia greca, in rapporto alla scrittura della cancelleria si rinvia innanzitutto all’ormai classico WILSON, Scholarly Hands. Per uno studio più metodologico da un punto di vista morfologico, cf. CANART – PERRIA, Les écritures livresques des XIe et XIIe siècles. Obbligato, quindi, il riferimento a CAVALLO, Scritture informali, che introduce il concetto di “cambio grafico” nella paleografia greca, gettando luce sui processi evolutivi della scrittura in rapporto al mutare delle condizioni storiche, sociali, culturali. 48 Espressione tipica ne è la minuscola monastica Τῶν Ὁδηγῶν, individuata da POLITIS, Eine Schreiberschule, che si prolunga sempre più cristallizzata sino a dopo la Caduta: IDEM, Persistances byzantines; cf. anche HARLFINGER, Zu griechischen Kopisten, p. 332. Un approfondimento, con aggiornamento, in PÉREZ MARTÍN, El “Estilo Hodegos”. Sulle grafie di imitazione, che si svilupperanno su questo filone soprattutto dopo la restaurazione dei Paleologi, basti rinviare a PRATO, Scritture librarie arcaizzanti, e ad HUNGER – KRESTEN, Archaisierende Minuskel. 49 Per nozioni di carattere generale dal punto di vista paleografico del periodo dell’intermezzo latino sino alla prima età paleologa, dopo CANART, Lezioni, pp. 44-46, cf. CRISCI – DEGNI (edd.), La scrittura greca, pp. 179-182; PERRIA, Per una storia della scrittura greca libraria, pp. 133-137. In particolare poi, sulle scritture del periodo di cui si parla, cf. WILSON, Nicaean and Palaeologan Hands. Non mi soffermo sul concetto di stile, sul quale mi limito a rinviare ad un lavoro “canonico”: CAVALLO, Fenomenologia libraria della maiuscola greca; trovo, quindi, una buona sintesi di concetti, specialmente con riferimento all’età nicena e paleologa, in BIANCONI, La biblioteca di Cora, pp. 392-394. 50 Di multigrafismo parla PERRIA, Palaeographica, p. 69. Si veda ora ad es. anche MAZZON, De la digraphie à la multigraphie? Sia poi sufficiente rinviare al noto contributo di DE GREGORIO, Καλλιγραφεῖν/Ταχυγραφεῖν, e inoltre a CAVALLO, Una mano e due pratiche, e quindi AGATI, Digrafismo a Bisanzio, e, per il periodo più recente, EADEM, Παλαιογραφικά. 51 E d’altronde l’anonimato è cosa normale in queste pratiche intellettuali ad uso privato, come sottolinea anche BIANCONI, Eracle e Iolao, p. 555.
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cronologici. Limitandomi alla mano della parte che qui interessa, come si è detto la mano B, è noto l’indizio indicato da Wilson: l’ha avvicinata alla mano della prima parte del cod. Vat. gr. 106, una raccolta di scritti retorici, ff. 1-157, che in monocondylion a f. 257r appone la data 125152. Questo dato cronologico collimerebbe con due indizi del Barocciano, evidenziati dallo studioso: uno è una nota di f. 71r della mano di B, dove egli fa riferimento al gran cancelliere Demetrio Tornicio, che sappiamo da Acropolite essere stato in vita sino al 1252, e ad una promozione a se stesso, che diviene βασιλικὸς γραμματικός; l’altro sarebbe il titolo di f. 485v Τοῦ Ἀλυάτου [τὸ προοίμιον] εἰς πρακτικόν, per il cui nome lo studioso ha avanzato l’ipotesi che possa trattarsi di Niceforo Alyate, personaggio dell’importante cerchia di Giorgio Acropolite53, che – da quanto lo stesso storico ci riferisce – prima “servitore personale” dell’imperatore (ἐξυπηρετής) e scriba “anonimo” assieme a Giuseppe Mesopotamite (a questi γραμματικοῖς ἀνωνύμοις l’imperatore si rivolgeva per la corrispondenza ordinaria subito dopo la morte di Tornicio54), proprio intorno allo stesso 1252 fu insignito dell’alta carica di ἐπὶ τοῦ κανικλείου per ascendere alla promozione di scriba reale di Giovanni III Vatatze, e fu quindi, probabilmente, uno dei quattro membri della cancelleria imperiale55. Conseguentemente, lo stesso scriba B «It does not seem by any means impossible that this scribe is Alyates»56, visto che in quella nota di f. 71 egli si dice investito del ruolo di scriba imperiale. Accogliamo dunque, per il momento, B = Niceforo Alyate. Questa proposta è stata minimizzata da Ihor Ševčenko57 ma, secondo Wilson, di fronte ad una minoranza di elementi contrari, ciò sarebbe l’elemento discriminante per fissare la cronologia di tutto il blocco e formulare l’ipotesi di una sua origine nicena, grazie anche ad indizi di altro tipo58. WILSON, The Date and the Origin, p. 305, Medieval Hands, p. 29, A Byzantine Miscellany, p. 177. Mano B e sottoscrizione del Vaticano riprodotte in TURYN, Codices Graeci Vaticani, rispettivamente tabb. 13 e 164; descrizione del manoscritto, pp. 40-41. Lo stesso f. 44r della tab. 13 viene riprodotto anche da PRATO, La produzione libraria, tav. 12. Anche la seconda mano del codice Vaticano trova riscontro nel Barocciano, mano C, di cui però non si ha alcun dato cronologico (WILSON, Medieval Hands, loc. cit.). 53 WILSON, The Date and the Origin, loc. cit. s. Alyate: PLP 1, nr. 706 e nr. 721. 54 Sul termine γραμματικός – βασιλικὸς γραμματικός – che indicava gli scribi della cancelleria imperiale, cf. LOENERTZ, Le chancelier impérial à Byzance, p. 300, e OIKONOMIDIS, La chancellerie impériale de Byzance, p. 172. 55 Sulla famiglia Alyate, famiglia di spicco già dal X secolo, MAZZUCCHI, Leggere i classici I, pp. 192-194, apporta una documentazione importante. La carica ufficiale di Niceforo Alyate si desume da Acrop., Hist., p. 91, 3 Heisenberg, così come ibidem, p. 155, 8, si riferisce della sua importante dignità di epi tou kanikleiou, una dignità riservata a persone di fiducia dell’imperatore, su cui cf. DÖLGER, Byzantinische Diplomatik, pp. 50-51, e KAZHDAN, Oxford Dictionary, p. 1101; quindi ANGOLD, A Byzantine Government in Exile, pp. 161-164, nonché ANGELOV, Imperial Ideology, pp. 72, 177. Sulla cancelleria imperiale di questo periodo, cf. LOENERTZ, Le chancelier impérial à Byzance, spec. 297-300, e OIKONOMIDIS, La chancellerie impériale de Byzance. 56 WILSON, The Date and the Origin, p. 306. 57 ŠEVČENKO, On the Preface, che a p. 72 riproduce il f. 485v. 58 Tale la presenza di testi di personaggi legati all’ambiente niceno, come Niceforo Blemmide (1197-1292). 52
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Da un punto di vista strettamente paleografico, peraltro, si può aggiungere che confronti con mani cancelleresche dello stesso periodo intorno o poco dopo la metà del 1200, conforterebbero questo dato: per limitarmi solo a qualche esempio, molto simili sembrano le mani di un ὁρισμός di Giovanni Lascaris dell’ottobre 1258 o, anche, di una copia di crisobolle di Michele VIII del 1259 dell’Archivio di Patmos59. 3.2. Invero, dopo la segnalazione dello studioso inglese, il codice Vaticano veniva inserito nella lista delle testimonianze grafiche del periodo latino fornite di dato cronico raccolte nel 1981 da Giancarlo Prato nel suo imprescindibile lavoro sulla produzione libraria in area orientale in quel periodo60; non moltissime, in verità, vista la difficoltà di individuarle, in mancanza di indizi certi di localizzazione61. Per tale incerta scarsità di libri pervenutici dopo la catastrofe del 1204, Wilson trovava la giustificazione nel fatto che, almeno nel primo periodo, doveva necessariamente trascorrere un po’ di tempo per il governo in esilio «to repair the dommage»; più difficile, invece, è capirne le ragioni per gli anni più avanti, una volta avviata e incrementata l’attività scolastica e letteraria62. Secondo Prato, però, in termini relativi la produzione libraria di quegli anni, malgrado tutto e tenendo conto che si tratta per la maggior parte di produzione di carattere sacro, non subì una riduzione quantitativa (sì, invece, e comprensibile, il calo di qualità dei libri), e spiega questa apparente contraddizione sulla base della dislocazione della produzione, col decentramento causato dalla caduta di Costantinopoli63. Ancora, l’ipotesi nicena per il Barocciano, almeno per una parte, è stata presa in considerazione nel 1992 da Ilias Pontikos nell’edizione, citata, dei trattati scientifici del nostro blocco, tutti trascritti da B64, e nel 1999 da Panagiotis Agapitos, che accostava il nostro codice al celebre ms. Laur. Conv. Soppr. 627 dei romanzieri greci, da lui collegato alla corte nicena per argomenti di tipo contenutistico65. VRANOUSSI, Βυζαντινὰ ἕγγραφα, Α., nr. 26, pin. XLIX, e copia sotto il nr. 14, pin. XXX. Senza porlo in relazione col Barocciano, WILSON, Nicaean and Palaeologan Hands, p. 264, aveva collocato a Nicea il codice Vaticano: PRATO, La produzione libraria, p. 41; p. 62 il confronto col Barocciano. 61 Per es., si è molto discusso se da Nicea provengano codici miniati famosi, databili proprio alla metà del XIII secolo (PRATO, La produzione libraria, spec. pp. 31-33 e bibliografia cit. Cf. anche FOSS, Nicaea, p. 70). 62 WILSON, Nicaean and Palaeologan Hands, p. 263, dove parla di periodo oscuro. 63 PRATO, La produzione libraria, p. 46, dove sottolinea la minoranza di testi profani (e cf. anche p. 71): «… e tuttavia di numero non inferiore a quelli datati prodotti, ad esempio, nel secolo precedente». E cf. poi pp. 64-72, e il tentativo di individuare manufatti probabilmente niceni attraverso note o indizi diversi, a p. 70. 64 PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, p. XVI. 65 AGAPITOS, Dreams and the Spatial Aesthetics, p. 114 e n. 20. 59
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Tuttavia, proprio sul fondamento di un ulteriore e più dettagliato confronto con questo manoscritto laurenziano, l’ipotesi di quell’origine è stata ultimamente ridimensionata, se non del tutto accantonata. In primis, non è stato certamente escluso che quell’ipotesi possa riferirsi alla sola parte dello scriba B, ma non può neanche escludersi che lo stesso copista che nel Vaticano ha lasciato il dato cronologico relativo alla metà del secolo possa aver vergato il codice oxoniense successivamente a Costantinopoli, dopo il re-insediamento dei Bizantini del 1261, anzi, l’ipotesi conclusiva formulata è che, piuttosto, tutta la composizione del manoscritto possa risalire alla prima età paleologa. Ciò sulla scorta di una serie di indizi convergenti, che sarebbero non solo di natura contenutisticofilologica (ad es. la presenza nel codice di testi del retore Manuele Massimo Olobolo, che troviamo a Costantinopoli dopo la restaurazione, sino alla morte avvenuta ca. 1310/1466), ma anche in questo caso paleografica, dal momento che le numerose ipotesi di identificazione delle altre mani di Wilson portano a manoscritti di sicura collocazione tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo, dunque senz’altro nel reinsediato milieu costantinopolitano67. E in effetti questa tesi, che il codice sia stato assemblato in modo conclusivo una volta che la Capitale riprese il suo ruolo con i Paleologi, rivendicando con rinnovata energia la sua continuità con un passato di cui con grande orgoglio si riteneva erede diretta68, fatto comprovato peraltro dal rinnovato sviluppo della produzione libraria69, troverebbe supporto in tutta una rete di relazioni tra codici e paralleli tra mani suggeriti già nel 1978 da Adriana Pignani in occasione della sua pubblicazione di un encomio frammentario sull’imperatore che viene attribuito a Niceforo Basilace70 e, successivamente, negli studi più recenti sull’attività filologica delle cerchie erudite della prima età paleologa, tra cui quella che fa capo a Massimo Planude71. 66 PLP 9, nr. 21047. Su di lui mi limito quindi a rimandare a CONSTANTINIDIS, Higher Education in Byzantium, pp. 52-59, dopo KRUMBACHER, Geschichte byzantinischen Litteratur, p. 375, e HUNGER, Hochsprachliche profane Literatur, I, p. 37. 67 Cf. BIANCHI, Il codice Laur. Conv. Soppr. 627 (F), pp. 174 ss. la discussione sul Barocciano. 68 E d’altronde è stato detto che il nuovo Impero (quello niceno) non esistette che in nome della capitale perduta: AHRWEILER, L’Expérience nicéenne, p. 28. Sulla rifioritura dell’età paleologa – la cosidetta “rinascenza” paleologa – basti rinviare a ŠEVČENKO, The Palaeologan Renaissance. Ma segnalo anche MERGIALI, L’Enseignement et les lettrés, oltre a FRYDE, The Early Palaeologan Renaissance cit. [vedi n. 30]. Si vedano quindi le considerazioni di BIANCONI, Umanesimi d’Oriente e d’Occidente, pp. 438 ss. 69 Ancora una volta cf. PRATO, I manoscritti greci, p. 121. 70 PIGNANI, Frammento inedito. 71 Mi riferisco in modo particolare ai vari contributi di BIANCONI [vedi nn. 28, 31 e 35], ma soprattutto a Libri e mani, dove a pp. 332-334 diverse mani di codici d’età paleologa sono accostate alle mani A e G del Barocciano (a G in particolare viene avvicinata una mano molto affine a quella di Planude, che avrebbe copiato una piccola porzione del Vat. gr. 309), e a Tessalonica nell’età dei Paleologi, dove a pp. 150 ss. è menzione del Barocciano, che viene attribuito cautamente alla fine del sec. XIII «sia pure con qualche incertezza per quanto concerne alcune unità».
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Vale la pena notare che si tratta di una conclusione che, infine, non si allontana dall’ultima proposta cronologica avanzata dal medesimo Wilson dodici anni dopo aver formulato quella prima e circoscritta ipotesi della metà del sec. XIII: se, infatti, già nel 1972 egli stesso limitava ad una sola parte della miscellanea l’eventuale origine nicena allargando la fascia cronologica tra il 1204 e il 1261, successivamente nel 1978, modificando ulteriormente il suo punto di vista, più cautamente egli indicava la fascia cronologica più avanzata 1250-128072. E non lontana è neppure dalla proposta del primo editore che, se in prima battuta aveva attribuito la scrittura del codice a circa il 1300, qualche riga dopo parlava di un compilatore del tardo XIII secolo, al quale potrebbe ascriversi il tentativo di salvare «what he could of the rhetorical and philosophical literature of the century before the Latin capture»73. Al di là delle varie discussioni, e descrizioni o contributi parziali apportati anche dagli editori dei testi del codice oxoniense74, non credo sia vano, allo scopo di una migliore comprensione e contestualizzazione del nostro trattato, tentare una riconsiderazione integrale del manoscritto, intersecando, allo stato attuale delle nostre cognizioni, l’osservazione testuale-filologica con quella paleografica e codicologica per fare il punto e colmare quel poco che servirebbe innanzitutto per definire meglio la categoria di miscellanee cui esso possa riferirsi, e la sua finalità: data la tipologia abbastanza varia del suo contenuto, si può credere sia uno “zibaldone” come quelli privati di cui parla Hunger75? O vi si possono scoprire dei criteri coerenti di selezione che portino ad individuare alla base un progetto unitario e ben determinato di raccolta, come piuttosto si è tentati di pensare, sull’evidenza contenutistica? E, su questo eventuale assunto, si può veramente escludere del tutto Nicea come inizio almeno del progetto “editoriale”, Nicea con quello sforzo che la contraddistinse per arrivare ad essere culturalmente (oltre che politicamente) all’altezza di sostituirsi alla Metropoli, malgrado ci manchino gli indizi di manoscritti sicuramente ivi prodotti76, ovvero si può ragionevolmente ad essa risalire almeno per una parte? 72
WILSON, Medieval Hands, p. 29, e A Byzantine Miscellany, p. 157. BROWNING, p. 67. 74 Cf. WEINSTOCK, Catalogus, p. 16, per una bibliografia di riferimento almeno sino agli anni Cinquanta. 75 Vedi n. 27. 76 Rimando ancora una volta a PRATO, La produzione libraria, per queste deludenti conclusioni ma anche per un panorama del suo rigoglio culturale. Quindi, sulla vita intellettuale del periodo della conquista latina, cf. specialmente CONSTANTINIDIS, Higher Education in Byzantium, e IDEM, Teachers and students of rhetoric; VOGEL, Byzantine Science; FÖRSTEL, Entre propagande et réalité. Da un punto di vista storico, rinvio a RUNCIMAN, Storia delle Crociate, spec. pp. 792-799, e CARILE, Per una storia, nonché ai classici GARDNER, The Lascarides of Nicaea, ANGOLD, A Byzantine Government in Exile, e (tra altri) IDEM, Administration of the Empire of Nicaea, e IDEM, Byzantium in exile; AHRWEILER, L’Expérience nicéenne. Sulla vita di corte a Nicea, cf. ANDREEVA, Očerki po kul’ture vizantijskogo dvora v. XIII v., Praha 1927, pp. 55 ss., mentre sui Vatatze AMANTOS, Ἡ οἰκογένεια Βατάτζη. 73
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A questo proposito, offre materia di riflessione innanzitutto un dato di fatto: la sola parte di B, se solo questa si volesse retrodatare al periodo dell’esilio, non è circoscritta, bensì abbraccia a intermittenza tutto il codice. Egli infatti ha trascritto i fascicoli (ii) 42-81, (iii) 82-105, (iv) 106-243 assieme ad A, (v) 244446 assieme a C e D, (vii) 475-480, (ix) 487-fine assieme a G77. Secondariamente, c’è un indizio a mio vedere molto interessante nella stessa mano B: l’uso che questo copista fa di un doppio livello grafico – il fenomeno di cui si è detto, che si va rivelando molto più usuale di quanto non si potesse immaginare –. Per il codice Vaticano, ciò era stato già segnalato dal medesimo Wilson78: la variante, infatti, visibilmente eguale a quella del Barocciano, è quella che scrive il minuto commentario a cornice, mentre nel testo il copista, che è evidentemente lo stesso, usa una grossa e artificiosa scrittura di tipo arcaizzante. Non è stato, invece, mai osservato per il Barocciano, dove B impiega talora (poche volte in verità) la stessa minuscola conservatrice per distinguere i titoli. Questo particolare sulla scelta alternativa, da parte di un unico scrivente e in questo specifico caso, di due pratiche di scrittura che dipendono evidentemente dalla tipologia di quel che viene copiato79, come segno “distintivo”, potrebbe essere sfruttato in un più approfondito, sia pure complesso, esame paleografico del Barocciano, nel tentativo eventuale di individuare ulteriori e anche imprevedibili elementi che potrebbero modificare il quadro acquisito. Cercare, in conclusione, una risposta ai tanti quesiti ancora rimasti in sospeso, potrebbe aiutare a delineare con maggiore precisione, se possibile, il “sodalizio erudito” e la o le personalità di rilievo che potessero esservi dietro (l’«anxious compiler» di Browning)80. Per cominciare, l’elemento (acquisito) più interessante su cui soffermarsi mi sembra la dinamica in cui gli otto copisti lavorano: essi non si succedono semplicemente, in rapporto a un cambio di testo o di fascicolo, ma nella maggior parte dei casi sono palesemente in collaborazione, alternandosi l’uno con l’altro, anche nel corso della stessa pagina e senza che necessariamente (ovvero, 77 78
WILSON, A Byzantine Miscellany, p. 177. WILSON, Nicaean and Palaeologan Hands, p. 264, ripreso da PRATO, La produzione libraria,
p. 52. 79
Da quanto ci viene dimostrato, il copista 1) distingue, nel cod. Vaticano, il ruolo subordinato del commentario rispetto al testo, 2) ma adotta la medesima variante corsiva della sua esperienza grafica per testi di natura scientifica e tecnica, come quelli del blocco del Barocciano, evidentemente finalizzata ad un uso privato, o comunque non “ufficiale”, 3) ricorre all’opposta tipologia calligrafica e arcaizzante per un uso distintivo, nella gerarchia dei ruoli. 80 BIANCONI, Libri e mani, p. 333 cit. (supra, n. 71), esprimeva cautamente qualche riserva sull’identificazione con l’ambiente planudeo, ancora da dimostrare, di quei manoscritti (il Vat. gr. 191, il Vat. gr. 203 e il Vat. gr. 184) collegati al Barocciano; più certezza sembra mostrare, relativamente al celebre Vat. gr. 191, portato in Italia da Emanuele Crisolora, in Umanesimi d’Oriente e d’Occidente, pp. 448-449; e, sempre per lo stesso esemplare, cf. anche IDEM, Erudizione e didattica, p. 505.
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qualche volta, ma senza fisso criterio) intercorra alcun tipo di cesura materiale o contenutistica81. Ricapitolando i dati di base forniti da Wilson verificati attentamente attraverso l’esame della copia digitale del codice, risulta la schematica situazione seguente (dove per esigenze pratiche non si tiene conto delle singole tipologie fascicolari82): blocco I: blocco II: blocco III: blocco IV:
ff. 1r-41v, ff. 42r-81v, ff. 82r-105v, ff. 106r-243v,
fascicoli fascicoli fascicoli fascicoli
1-5 6-10 11-13, segn. α’- γ’ 14-31, segn. ε’ f. 138 ζ’ f. 154
A B “ A e B in coll.: A 106-153 B 154-195 A 196-219 B 220-243 blocco V: ff. 244r-446v, fascicoli 32-56, segn. α’- ιγ’i primi 13 B,C,D in coll.: C 244-291 B 292-299 C 300-317 B 318-388r D 388r-392 B 392-446 blocco VI: ff. 447r-474r, fascicoli 57-60 E blocco VII:ff. 475v-480v, fascicolo [61] B blocco VIII:ff. 481r-486v, fascicolo [62] F blocco IX: ff. 487r-536v, fascicoli 63-[68] G e B in coll.: G 487-507v B 507v-fine
Oltre alle sporadiche segnature qui riportate, che sono probabilmente di prima mano, una fascicolazione evidentemente più recente, perché si riferisce all’odierno assemblamento, corre quasi regolarmente per tutto il manoscritto nel margine inferiore del primo foglio recto da α’ a ξστ’ (f. 511, assente negli ultimi due fascicoli). Ciò che salta all’occhio, è: i) che B/Alyate (?) è la mano che ha la parte maggiore; ii) è, anzi, l’unica presente dall’inizio alla fine, come si era già anticipatamente segnalato.
81 E d’altronde è ormai acquisito che, proprio in riferimento alle modalità non ufficiali di scrittura, si trattasse di una prassi del mondo bizantino, come a suo tempo intuito da CANART, Lezioni, p. 85. 82 Il fascicolo usuale è il quaternione. Nell’attuale assetto vi sono tuttavia eccezioni, che potrebbero essere causate da perdite o dal rifacimento delle cuciture, ma potrebbero anche essere state create apposta dagli scribi per concludere una sezione. Così, il blocco I ha un foglio in più (per finire il testo di Melezio?), il fascicolo 8 ha 7 fogli e il 10 è un quinione; una lacuna intercorre tra f. 178 e f. 179 il cui testo comincia acefalo, e in pratica è scomparso il fascicolo segnato 24; ma cf. WILSON, A Byzantine Miscellany, p. 157, il quale segnala tra l’altro che l’ordine dei fascicoli 57-60 dovrebbe essere: 57, 59, 60, 58.
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A compare solo in due blocchi della prima parte, C e D sono attive solo nel V, E appare in esclusiva nel VI, come F nell’VIII, G ha una piccola parte nel IX, parte poi presagli da B. Solo E ed F sembrano dunque non alternarsi con B, gestendo autonomamente, in modo unitario, la loro porzione: E, che copia tutta la Cronaca di Manasse in un unico blocco di quattro fascicoli, ed F, in un altro blocco limitato attualmente a un solo fascicolo (l’inizio del testo è infatti mutilo), che copia un trattato grammaticale e uno di sintassi + epistole, dunque un’altra sezione conclusa. A parte, ad H si deve la scrittura dei primi quattro fogli di guardia, che portano tre sermoni mutili sia all’inizio che alla fine contro l’eresia dei Bogomili: è una mano minuscola e variabile che comunque, come nota Wilson, è sicuramente contemporanea alle altre. Senza indugiare con ripetizioni su quanto è già stato scritto sulle mani, credo sia importante sottolineare che B ha senz’altro l’aspetto meno “moderno” di tutte, assieme a C, mano molto minuta che gli somiglia ma sembra avere un grado maggiore di corsività; le altre rivelano in modo più o meno esasperato l’influsso della Fettaugen-Mode, nella sua accezione beta-gamma, tipica della cancelleria imperiale della prima età paleologa83 – tranne E (che copia, come detto, tutta una sezione), piccola, saltellante, con aspetto arruffato, ma non meno moderno, anzi, tutt’altro, come si desume dai confronti che sono stati avanzati84 –. In particolare, poi, per le mani A e G, Wilson dice che lo stile grafico «may be slightly later»85. Ora, se l’ipotesi nicena è stata, come si è detto, scartata dagli studi più aggiornati – ma forse, direi meglio, tenuta in standby –, sono tuttavia del parere che, parzialmente, essa possa ritenersi attendibile, ipotizzando che B, il copista più “arcaico” e longevo, abbia cominciato a copiare a Nicea prima del 1261 (verso il 1252 in base agli indizi evidenziati da Wilson), per poi proseguire dopo, a Costantinopoli. Punto di partenza: l’attuale III blocco, con i fascicoli 11-13 segnati α’-γ’86. Esso non solo ha un testo unitario, che il copista conclude con eleganza con una sorta di monocondylion per la formula finale, ma si tratta di discorsi, omelie ed epistole di Germano II Patriarca, il quale fu patriarca di Nicea sino all’anno di morte, 124087: si può pensare che questo fosse stato il primo nucleo di tutta la miscellanea, in omaggio, in un periodo di rancore contro gli usurpatori, alla 83
Cf. PIERALLI, Le scritture dei documenti imperiali. In particolare, essa è stata accostata alla mano E di Turyn di un’altra miscellanea scientifica della fine del secolo, il Vat. gr. 191: cf. TURYN, Codices Graeci Vaticani saeculis XIII et XIV, pp. 89-97; mano che Bianconi ha riclassificato come F in Eracle e Iolao, p. 527 e n., per tornare più ampiamente sul codice in Libri e mani, pp. 324-333 (e cf. già supra, n. 80). 85 WILSON, The Date and the Origin, p. 306. Del resto proprio A, assieme a C ed E, è tra le mani che PIGNANI, Frammento inedito, p. 211, ha identificato in manoscritti della prima età paleologa che la stessa attribuisce ad un medesimo circolo dotto. 86 WILSON, A Byzantine Miscellany, pp. 159-160. 87 Cf. LAGOPATES, Γερμανὸς ὁ Β’ πατριάρχης. 84
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memoria di un personaggio non solo importante in ambiente niceno, ma in particolare risaputamente anti-latino, malgrado i suoi tentativi (falliti) di un dialogo con Roma. La mano, pur nel suo ductus corsiveggiante, sembra fresca e giovanile, e priva di eccessi deformanti, e tutto l’insieme sembra ben dotato: l’inchiostro scuro è di buona qualità, quello distintivo è di un carminio vivace tendente al fucsia, i motivi ornamentali iniziali, a f. 82r, 85v, 93r, 101r, sono costituiti da una lunga fascia a doppio tratto lasciata in bianco, interrotta da nodi di diverso tipo (intreccio, catena, giglietti, cappello frigio) e con varie forme, a punta, di “acroteri” finali, mentre vi sono iniziali ornate esili e allungate (seminascoste dalla cucitura interna a f. 84r e 85r), con trifogli nelle parti finali dei tratti e fusti decorati da trattini orizzontali. Sembra trapelare un’accuratezza tipica dell’entusiasmo iniziale di un progetto, e favorita, anche, da un certo tempo a disposizione. Messo questo punto fermo di inizio durante l’esilio di Nicea, oltre a questo B, ancora presumibilmente da solo, potrebbe aver copiato (ma è pur sempre un’ipotesi) il fascicolo unico del VII blocco, collectaneo, con testi medici e teologici (Cirillo Alessandrino [?]) e note o excerpta vari88, cui probabilmente egli non aveva ancora dato precisa destinazione e forma (questo fascicolo di sei fogli è privo della segnatura più antica, e viene lasciata in bianco la prima facciata, f. 475r). La mano sembra un po’ più nervosa, e si lascia andare a qualche prolungamento o slabramento; per finire e fare entrare tutto a f. 480v, lo scriba rimpicciolisce notevolmente il modulo della sua grafia. Traccia per lo più a inchiostro scuro i titoli – o in un carminio oggi scurito e scolorito –, che appaiono di dimensione appena maggiore delle lettere del testo, ma nello stesso carattere, così come nel blocco precedente. Si ha l’impressione di una copia fatta di corsa, senza la cura di prima, quasi per se stesso: forse, trattandosi di materiale sparso portato dietro in esilio (o racimolato di qua e di là, come Blemmide ci racconta di aver fatto?89), lo scopo della copia era di evitarne la perdita; forse, col precipitare di nuovi eventi, su cui tornerò a breve, bisognava accelerare i tempi … Sembrerebbe, invece, a prima vista difficoltoso capire la genesi del IV blocco, che si configura come una sezione prevalentemente di epistolografia (poche le eccezioni). Vi si trovano insieme, con autori vari come Michele Coniate, Teodoro Prodromo, Costantino Manasse, Michele Italico, Procopio di Gaza, Simeone Metafraste, Anastasio Sinaita, Michele Psello, Niceforo Basilace, Teofilatto Simocatta e anonimi, sia testi di Niceforo Blemmide (epistole)90, un autore che riporterebbe a Nicea, e sia, alla fine (ff. 236v-242r), uno stralcio di Manuele WILSON, A Byzantine Miscellany, p. 175. Blemm., Curric., pp. 35, 25-27; 36, 3-37, 7; 72, 8-16 Heisenberg. 90 Anche un’omelia, di nuovo, di Germano II, tuttavia nel manoscritto attribuita al precedente Michele Coniate (f. 156r): per tutto il blocco, cf. WILSON, A Byzantine Miscellany, pp. 160166. 88 89
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Olobolo (prima dell’encomio a Michele Paleologo che apre la sezione successiva a f. 244r)91, un autore che al contrario riporta, come già detto, a Costantinopoli. Questa mescolanza si ripeterà anche nel V blocco92, in questo primo caso però si scopre che l’autore per così dire “niceno”, il maestro di Teodoro Lascaris e Giorgio Acropolite, cioè Blemmide, è copiato da B in una porzione che, dopo la chiusura a metà pagina del testo precedente (epistole di Michele Coniate), comincia con inizio fascicolo (segnato κβ’a f. 170r), sia pure sul lato verso, a seguito di vari items grammaticali e lessicografici che occupano il recto, e (con una lacuna tra ff. 178 e 179) termina a f. 195v con una fine fascicolo (il κε’), dove il testo si chiude prima della fine di pagina, che rimane in bianco. Sembrerebbe una sezione autonoma, che potrebbe essere stata inserita in un secondo momento in questo blocco che, in altri punti, vede alternarsi B con A, con un filo conduttore che sono i titoli in minuscola dello stesso color fucsia del primo blocco. A, però, mostra caratteri di modernità: ha nuclei molto arrotondati e un ductus saltellante, con l’ingrandimento di beta e gamma, e il confronto che è stato avanzato col Reg. gr. 31 porterebbe alla cronologia avanzata 128093. La sua prima porzione – rimanendo sempre al IV blocco – comincia a f. 106r, con titolo nella stessa minuscola color carminio-fucsia e iniziale decorata in carminio, più piccola delle iniziali che fa B, ma di cui cerca di imitare la tipologia, con le fogliette terminali alla base e in alto, e due trattini orizzontali nel sottile fusto. I titoli sono scritti da lui stesso, ma ai ff. 126r e 126v sono rimaste in bianco le righe ad essi riservati. Il primo cambio con B, che interviene a continuare il testo di Michele Coniate (omelia, cominciata a f. 152v94) all’inizio di f. 154r, inizio fascicolo numerato con la serie più antica ζ’, mostra senza dubbio un lavoro in collaborazione; il secondo passaggio da B di nuovo ad A, a f. 196r, sembra invece sganciato (l’epistola di Psello che comincia è anepigrafa95, ma visto che A ha lasciato sempre in bianco gli spazi per tutti i titoli di questa porzione, si può pensare che fosse in attesa di titolatura), e ciò mi autorizza a supporre per l’appunto indipendente la precedente porzione “nicena” di B. In questo ‘pezzo’ allegato di A, B si succede a sua volta col cambio di fascicolo (f. 220r, segnato κθ’) per continuare Michele Coniate ecc., sino al lessico di termini biblici con cui chiude la porzione a f. 243v96. È in questa parte, suddivisa con A, che figura una prima volta Manuele Olobolo (ff. 236r-240r, copiati da B). Non vi è allora dubbio che questo blocco sia stato formato a Costantinopoli abbastanza più avanti degli anni Sessanta, ma B potrebbe aver conservato quel suo fascicolo con i testi da Nicea, 91 92 93 94 95 96
Cf. TREU, Manuelis Holoboli Orationes, II, pp. 78-98; I, pp. 20-29. WILSON, A Byzantine Miscellany, pp. 166-175. WILSON, The Date and the Origin, p. 305. LAMBROS, Μιχαὴλ Ἀκομινάτου τοῦ Χωνιάτου τὰ σωζόμενα, pp. 180-186. Cf. WILSON, A Byzantine Miscellany, p. 164. WILSON, A Byzantine Miscellany, p. 166.
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che sarebbero stati, forse alla fine di tutto, inseriti qui per seguire un grossolano criterio contenutistico: lettere. Non va trascurato il dettaglio delle due antiche segnature ε’ a f. 138r e ζ’ come si è detto a f. 154r, che attesterebbero l’intento di cucire in qualche modo queste (e altre parti per le segnature mancanti δ’ e στ’) a quei primi fascicoli α’-γ’. Si ricordi che A copia anche l’attuale prima sezione (ff. 1r-41v) con Melezio medico97, che, anch’essa, potrebbe solo successivamente essere stata cucita in testa. L’evidenza delle testimonianze mi impone di non andare oltre, con Nicea, per quanto suggestiva fosse l’ipotesi che anche i cinque fascicoli del blocco II, dove sono raccolti testi di Tzetze e vari dei secoli X-XII, tra cui diversi sono anonimi98, potessero ad essa risalire, sempre come parte di B rimasta autonoma, con altri testi da “salvare”: tuttavia, benché non dirimenti come indizi, perplessità viene sia dalla diversità dell’inchiostro distintivo, un carminio non fucsia ma molto scuro e oggi sbiadito (come del resto nel VII blocco), e sia, soprattutto, dalla tipologia di fascia iniziale a rinceaux in negativo, differente dai “bastoni” di mano di B e molto simile alla fascia di A all’inizio del foglio 1 (della medesima mano A?), e sia anche dall’uso, nei titoli, della minuscola stavolta arcaizzante, sia pure non proprio canonica, ma talora ibrida. Per contro, ad es. l’iniziale tau a f. 76r è dello stile, visto, di B. Al reinsediamento nella Capitale, però, parrebbe che B si trovi intanto a collaborare subito con C, una mano che gli somiglia molto – evidentemente dovevano conoscersi già prima, come del resto porta a pensare la collaborazione nel Vat. gr. 106 –, e iniziano con l’encomio di Olobolo, prima menzionato, a Michele Paleologo99: un nuovo magnifico inizio, il più appropriato per celebrare l’imperatore vincente: si ricomincia da 1 la nuova segnatura dei fascicoli che costituiscono l’attuale blocco V, con l’intento di invertire l’ordine precedente. Evidentemente, C non è sodisfacente, oppure interrompe il lavoro per un qualche motivo: lascia incompiuto un testo a f. 291v che B riprende, quando se ne accorge, dopo due pagine dall’inizio del suo intervento (f. 293r-v) che dura solo otto fogli, ma non dall’inizio del fascicolo, che è a f. 293, prima che C riprenda di nuovo, per altri 8 fogli. B, dopo ben 10 fascicoli in mezzo ai quali copia – nota bene – altri excerpta e testi intervallati di Blemmide, trova un altro collaboratore, D, ma gli dà una piccola porzione, il De dialectis di Gregorio di Corinto (ff. 388r-392r), in un nuovo fascicolo che comincia con un motivo ornamentale a inchiostro di un serpente avvolto lungo un bastone: si tratta di una mano morbida, chiara e spedita, che segue la nuova tendenza alla moda dell’ingrossamento soprattutto della lettera beta – sarà più giovane? – Tuttavia WILSON, A Byzantine Miscellany, p. 158. WILSON, A Byzantine Miscellany, pp. 158-159. 99 TREU, Manuelis Holoboli Orationes, II, pp. 51-77. Per tutto questo blocco: WILSON, A Byzantine Miscellany, pp. 166-175. 97 98
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non termina il testo, è B che lo continua, riprendendolo a metà pagina, addirittura a rigo cominciato, dopo una virgola (si nota molto la differenza delle due mani, anche nel colore dell’inchiostro, più vivo in D), e lo porta a compimento due pagine dopo (f. 394r), per poi proseguire con tutta una serie di piccoli testi, anche versi di Tzetze, e, quindi, la serie dei trattati anonimi, tra i quali il nostro sulla tragedia100. Interrogarsi sul perché e sul significato dell’inserimento di un testo del genere in mezzo a contenuti di tutt’altra natura, sarà oggetto di riflessione nell’ultima parte di questo lavoro. Per il momento, ci atteniamo all’osservazione dei fatti: la mano sembra quasi più veloce che nei blocchi precedenti e un po’ più disordinata, e mostra a volte ingrossati i nuclei (vedi epsilon, omicron che include il ny, sigma lunato, ypsilon); a metà di f. 399r comincia a scrivere in carminio (oggi scolorito) impiegando una minuscola più grossa e vicina al tipo arcaizzante per il secondo libro dell’excerptum plutarcheo De philosophorum placitis che in pratica da f. 397v inaugura la parte filosofica di tutta la miscellanea, con i testi attribuiti a Psello. Da questo punto, tutte le suggestioni di collaborazione sono aperte, dal momento che le altre mani che figurano nel codice – A di cui si è detto, E, F, G – sono tutte mani “moderne”, quasi tutte, come già detto, apparentate alla Fettaugen. Nell’ultima sezione, da f. 507v101, B sembra avere forme più ardite, come beta, gamma e omega maiuscoli ingranditi o ypsilon enorme e deformato, mentre da f. 508v la sua mano sembra quasi malferma e molto irregolare, tanto che in alcuni punti non sembra essere la stessa (514, 517, 519 …). Non servono molte parole per evidenziare come l’osservazione di questa miscellanea accredita e dà luce al (ad un) circolo dotto e di scrittura che da Nicea sarebbe poi di nuovo stata in vita nella prima età paleologa, età per la quale l’ipotesi, avanzata da Pignani, era poi stata sostenuta da Bianchi e condivisa per es. da Bianconi. Ciò che, però, non era stato sufficientemente focalizzato era proprio questo: B finisce, così come egli stesso – secondo le nostre ipotesi – aveva cominciato. Gli indizi di Wilson che portano alla metà del XIII secolo non sono affatto trascurabili, al contrario, essi mi sembrano incontrovertibili e potrebbero supportare la presente ricostruzione avanzata – si ribadisce – sulla base dei dati tratti dall’analisi del manoscritto: B avrebbe, dunque, presumibilmente cominciato la sua raccolta proprio a Nicea, all’ombra della corte, in quel fermento dettato dalla necessità di reperire testi, dopo le distruzioni operate dai Latini, per ricreare le condizioni necessarie allo studio, quello studio superiore per pochi eletti destinati alla carica di funzionari, avallato dai sovrani Lascaridi con la sponsorizzazione di famosi insegnanti privati e la raccolta di libri da ogni 100 Questa ricostruzione non può, in tal modo, risultare compatibile con la tesi dell’origine nicena del solo blocco dei trattati, sostenuta da PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, p. XVI cit. 101 WILSON, A Byzantine Miscellany, p. 176.
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parte del mondo bizantino102. Anni di lavoro, tanto più che occorreva nel mentre coordinarsi e scegliere o decidere mano a mano sui modelli gli oggetti della copia, in un contesto, tra l’altro, di uomini anche impegnati nel potere e nella diplomazia. Non si deve, anzi, dimenticare che fu proprio quella classe dirigente, quella élite sociale da molti forse ambita ma a pochi accessibile, la maggior garante della trasmissione di quei valori alla base dell’identità bizantina e del prestigio che ne derivava103. Nella temperie delle note vicende storiche, quindi, il nostro copista avrebbe poi ripreso e continuato nel clima ormai disteso della Metropoli riconquistata in seno a tutto un circolo di interessati, comunque sempre vicini all’ambiente di corte, quello stesso circolo che probabilmente ha prodotto anche gli altri esemplari dello stesso genere individuati dagli studi summenzionati104, e su cui si ritornerà. Un’impresa nata quasi in sordina, negli anni difficili dell’esilio che raramente diedero il tempo, o la possibilità, di ultimare o, anche, definire prodotti librari, ma che nei nuovi fermenti della riconquista, fugati i fantasmi, trova appoggi e condivisioni, nell’intento comune e nel nuovo entusiasmo di ricostruire quanto era stato distrutto. E, come un filo rosso, lo dimostrerebbe quell’elemento della minuscola arcaizzante prima evidenziato: per tutto il codice, anche se non sistematicamente, è presente il suo intervento nei titoli, anche nelle porzioni dei colleghi, ad es. nel VI blocco copiato da E. Inoltre, la supposizione troverebbe sostegno anche nel fatto che sempre e solo alla mano di B si deve la copia dei testi di Blemmide, che potrebbe essere stata dunque realizzata in parte in loco (Nicea) e, laddove il copista non aveva fatto in tempo, successivamente a Costantinopoli. Il mutamento che verso la fine si nota nella sua mano, potrebbe forse denunciare la sua età. Si consideri che il 1296 è la cronologia più recente offerta dal manoscritto, in particolare dalla mano E, tramite confronto con la mano di quell’altra miscellanea di cui si è detto, il Vat. gr. 191, databile a quell’anno105. Per il nostro scriba, potrebbe trattarsi di all’incirca 40 anni di attività, un lasso di tempo in verità eccezionalmente lungo che potremmo, però, ridurre immaginando che E abbia partecipato alla sua copia anni prima di copiare il Vaticano. E a buon diritto si potrebbe anche pensare, vista la lunga gestazione della sua opera, che sia egli stesso, B, almeno il coordinatore dell’impresa “editoriale”: non credo, infatti, vi siano elementi per poter dire se ne sia stato anche il promotore, o se un committente va ancora cercato attorno a lui (lo stesso Acropolite?). 102 Acrop., Hist., p. 49, 10-21 Heisenberg, e cf. CONSTANTINIDIS, Teachers, pp. 42 ss. Di periodo eroico, per gli sforzi profusi, parla ANGOLD, Byzantium in exile, p. 559. 103 Su questa sorta di comunicazione tra intellettuali, rinvio a BROWN, Power and Persuasion in Late Antiquity. Di vera e propria “casta” parla CAVALLO, “Foglie che fremono sui rami”, p. 628, e cf. anche BIANCONI, Erudizione e didattica, p. 512. 104 Oltre al Laurenziano, su cui cf. BIANCHI, Il codice Laur. Conv. Soppr. 627, i manoscritti elencati da PIGNANI, Frammento inedito. 105 Cf. supra, n. 84.
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Ma un ulteriore dettaglio delle prime argomentazioni di Wilson va a questo punto discusso e valutato, per cercare di verificarne la compatibilità con quanto sinora ipotizzato. Ovvero: se B fosse realmente Niceforo Alyate, tutti i dati storici di cui disponiamo su questo personaggio risultano conformi a questa ricostruzione? Bisogna dire che su questo personaggio non disponiamo purtroppo di informazioni che vadano cronologicamente oltre al 1261. Esse ci sono fornite principalmente dalla Χρονικὴ Συγγραφή (Historia) di Acropolite, nei soli tre punti citati da Wilson, che corrispondono ai capitoli 49, 75, 79, due dei quali sono essenzialmente confermati dalla Χρονική di Teodoro Scutariote106. A parte le alte cariche cui in poco tempo pervenne alla morte di Tornicio, di cui sopra si è detto, si può mettere in rilievo la sorte infelice che non molto dopo gli toccò con l’avvento di Teodoro II Lascaris (1254-58). Personalità complessa, malato e irascibile malgrado il suo umanesimo letterario, Teodoro, l’imperatore filosofo già allievo di Blemmide e del medesimo Acropolite (con i quali venne pure in contrasto), per cercare un consenso popolare, combatté i privilegi della nobiltà esaltando la nobiltà naturale dell’animo contro quella blasonata, e degradò, allontanandoli da sé, tutti coloro che, discendenti dalle grandi famiglie costantinopolitane, avevano vissuto nella corruzione della Polis prima della caduta, e che erano stati altamente insigniti da suo padre Giovanni III107. Alyate, come altri, ebbe la confisca dei beni e anche la mutilazione della lingua ἐπ’ οὐδεμιᾷ αἰτίᾳ108. Riabilitato, però, e reintegrato nella sua carica di ἐπὶ τοῦ κανικλείου da Michele VIII alla sua incoronazione e prima del rientro a Costantinopoli, fu da questi inviato in missione in Sicilia, da Manfredi, nel 1259 (per ritornare due anni dopo)109, un atto che Ruth Macrides spiega come una dimostrazione agli avversari, da parte del neoeletto imperatore Paleologo, del cambio di politica, con un ritorno, come scrive Hélene Ahrweiler, alla «costantinopolizzazione»110, mentre invece lo stesso episodio fa dubitare Pappadopoulos della veridicità del racconto di Acropolite111. Ora, sia o non sia vero questo, è naturalmente possibile che, tornato dalla sua missione diplomatica, e col ritorno all’antica ideologia aristocratica promossa dal Paleologo, Niceforo Alyate, sia pur con la sua eventuale disabilità, abbia 106 WILSON, loc. cit.: Acrop., Hist., pp. 91, 3, 155, 7, 165, 6 Heisenberg; cf. Ἀνωνύμου Σύνοψις Χρονική, p. 537 e p. 542 Sathas. 107 Per una disamina di questi eventi, rinvio a AHRWEILER, L’Expérience nicéenne, pp. 33-34, e in particolare sul regno di Teodoro II e la sua ideologia antiaristocratica, a ANGELOV, Imperial Ideology, pp. 204-252, che lo accosta a Machiavelli, e a PAPPADOPOULOS, Théodore II Lascaris. Cf. anche DRÄSEKE, Theodoros Laskaris. 108 Acrop., Hist., p. 155, 9 Heisenberg, e cf. Ἀνωνύμου Σύνοψις Χρονική, p. 537 Sathas. 109 Acrop., Hist., p. 165, 6 Heisenberg, e cf. Ἀνωνύμου Σύνοψις Χρονική, p. 542 Sathas. 110 MACRIDES, George Akropolites History, p. 355, e AHRWEILER, L’Expérience nicéenne, p. 37. Sul ritorno allo stato precedente al 1204, cf. anche ANGELOV, Imperial Ideology, pp. 42 ss.; 98 ss. sul cambio nell’ufficiale ideologia da Nicea alla prima età paleologa. 111 PAPPADOPOULOS, Théodore II Lascaris, p. 136, n. 1.
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ripreso la sua attività di scriba. Tale teoria importante darebbe sostegno alla nostra ricostruzione, ma storicamente non possiamo provarlo, anche se siamo propensi a non escluderlo. La rinuncia, infatti, ad una identificazione di B con Alyate che non escluderebbe comunque il personaggio reale dal contesto o ambiente della nostra miscellanea, porrebbe un reale quesito di identità di B tra i pochi personaggi possibili di quegli anni, dal momento che con alta probabilità si tratta di qualcuno della cerchia di corte, e che i nomi dei quattro scribi più importanti della cancelleria nicena sono registrati da Acropolite: oltre ad Alyate, citato accanto a Giuseppe Mesopotamite, come si è detto, egli menziona solo Giovanni Macroto ed infine se stesso112. In ogni caso, va ribadito che questo copista, per i motivi appena denunciati di politica anti-aristocratica di Teodoro II, verosimilmente abbia dovuto interrompere la sua attività durante il nuovo corso – per fortuna breve – instaurato da questo giovane regnante, e che pertanto la sua grafia frettolosa possa riferirsi proprio a tale precipitare degli eventi, di cui sopra si parlava. E non penso che le cose possano essere andate diversamente anche nel caso che non volessimo dare a B il nome di Alyate, in quanto egli va comunque immaginato nel contesto imperiale di Nicea e quindi della nobile cerchia di Acropolite. Malgrado, dunque, si tratti di ipotesi, sempre sulla base degli indizi raccolti, in ogni caso sembrerebbe ragionevole immaginare attivo il nostro scriba a questa nostra miscellanea dapprima sotto il regno di Giovanni III Vatatze (†1254), intorno agli ultimi anni113, e successivamente sotto quello della Restaurazione di Michele VIII Paleologo (1261-1282). Questi dati per il momento acquisiti sulla base di ciò che sinora è stato ipotizzato e di ciò che l’allestimento del manoscritto sembrerebbe indicare, saranno tuttavia ulteriormente vagliati nell’ultima parte di questo lavoro. 3.3. Sia ora B identificato, o meno, si esamini, infine, da vicino la sua grafia erudita. La minuscola minuta e rapida di tipo corrente114 riempie la pagina in modo molto soffocato e denso, con un numero di righe che oscilla tra 41 e 44 e senza il respiro di ampi margini, caratteristiche abbastanza comuni non solo nell’ambito cancelleresco, ma anche nel periodo che seguì alla presa latina, per le precarie condizioni economiche e l’esigenza di risparmiare sul materiale. Essa non ha nemmeno l’accuratezza di porre tanto in evidenza i titoli che, senza 112
Acrop., Hist., p. 91, 2-5 Heisenberg. Quest’affermazione si basa non solo sul fatto, di cui sopra si è discusso, che ci volle del tempo perché tutta la macchina del nuovo Impero in esilio entrasse nel pieno delle sue funzioni (a maggior ragione dal punto di vista dell’organizzazione culturale), ma anche sulla data 1252 della promozione di Alyate e infine, inevitabilmente, anche sulla cronologia di Giorgio Acropolite, che divenne il fulcro dell’attività intellettuale di quel momento, e quindi sulla sua maggiore età e l’inizio della sua carriera diplomatica ed educativa insieme. 114 Cf. supra, p. 12 e n. 59 per possibili confronti in ambito documentario. 113
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alcuno stacco dal contenuto precedente, vengono scritti col semplice inchiostro, sia pure di colore diverso, oggi molto pallido – era probabilmente carminio? – in un carattere talora solo leggermente ingrandito ma sempre minuscolo, solo a volte, non sistematicamente come si è prima detto, nella variante arcaizzante che egli usa nel testo del Vat. gr. 106. Al ductus veloce contribuisce un asse grafico che leggermente si inclina verso destra. Il repertorio non è originale, ma è personale il modo in cui viene realizzato: i nuclei delle lettere sono rotondeggianti, talora particolarmente dilatati, preludendo debolmente alla FettaugenMode, come epsilon di forma maiuscola il cui tratto centrale orizzontale può prolungarsi a legare a destra, o può essere soppresso come in legatura con pi maiuscolo, theta aperto quando è legato a destra (altrimenti è stretto e chiuso), omicron “appeso” al di sopra del sistema bilineare della minuscola, e talora inclusivo del ny quando in desinenza, csi sinistrorso arrotondato in legatura ad epsilon ridotto a un occhiello, e il grande sigma maiuscolo a semicerchio; nel suo individuale ibridismo, tuttavia, questa minuscola riecheggia anche il coevo stile beta-gamma nel tratteggio esasperato di gamma maiuscolo allungato che parte con un occhiello che lo fa somigliare a un delta, mentre molto più basso appare il delta, che si piega per legare a destra115. I tratti ascendenti o discendenti non sono normalmente molto slanciati. Abbondano poi le forme cosiddette moderne, come kappa minuscolo e ny a V appuntito, che scende sovente al di sotto del rigo di base della scrittura, e le maiuscole. Maiuscole sono, oltre ad epsylon, alpha “a cappello” la cui pancia è spesso ridotta a un occhiello, beta con l’occhiello inferiore molto più grosso del superiore, e spinto al di sotto del rigo di base, gamma (basso e alto quando è doppio; di quello alto si è detto), eta basso, lambda molto divaricato nelle gambe (che scendono al di sotto del rigo di base), tau moderno “a bandierina”, omega aperto. Numerose sono anche le abbreviazioni: quelle tachigrafiche di καί, γάρ, δέ, μέν, la prima – la congiunzione – eseguita esclusivamente nella tipica morfologia “a corno”, che da un calcolo statistico risulta essere la più diffusa, con un vero picco, in tutto il corso del XIII secolo116. Sono quindi abbreviate quasi tutte le desinenze, a volte sovramesse (dei participi, genitivi, dativi, accusativi: si osserva lo slabramento 115 Moda, più che stile, che nella seconda metà del XIII secolo costituirà il clou, assieme allo stile cosidetto beta-gamma con cui spesso si interseca e confonde, di queste correnti erudite, prima di un ritorno all’equilibrio e alla misura con l’età paleologa. Rimando a HUNGER, Die sogenannte Fettaugen-Mode per l’una, e a WILSON, Nicaean and Palaeologan Hands, pp. 264265, per l’altra, che secondo lo studioso non arriva oltre al 1300, e dove definisce la mano veloce del commento nel Vat. gr. 106 (= B) un incrocio tra arcaismo e stile beta-gamma. Questa caratterizzazione del copista, che non si spinge alle forme più accentuate ed esasperate di tali tendenze o mode, costituisce a mio parere un elemento determinante – assieme all’elemento cronologico del codice Vaticano – ai fini di un orientamento valutativo che non porti troppo lontano dal periodo niceno. D’altronde lo stesso Wilson aveva giudicato di aspetto leggermente più recente le altre mani del Barocciano, A e G, che collaborano con B (WILSON, The Date and the Origin, p. 306). 116 Secondo le percentuali calcolate da AGATI, La congiunzione kai, tab. 1 (tipo L).
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dell’accento circonflesso nella desinenza del genitivo). Legature rilevanti, di tipo corsivo: epsilon con rho e tau, tau-rho. Un confronto con la descrizione delle lettere dell’alfabeto delle grafie correnti del periodo niceno offerta da Prato, dove sono enucleati gli elementi più caratteristici, si rivela attendibile per diversi casi, come beta maiuscolo tracciato in un tempo, gamma maiuscolo basso e basso solo il primo nel doppio gamma, delta nella forma minuscola, le varie morfologie di epsilon in legatura, anche quella “ad asso di picche” aperta di epsilon-rho, eta maiuscolo basso, lambda in forma maiuscola, my minuscolo e ny moderno, rho legato a destra tozzo e arrotondato: si tratta comunque di analogie poco significative, se si vuole banali in quanto molto comuni e non esclusive del periodo della conquista latina, come si è anticipato prima parlando di repertorio comune, e come d’altronde il medesimo studioso avvertiva, aggiungendo che tale descrizione non può garantire certezza assoluta che un manoscritto possa datarsi tra il 1204 ed il 1261, ma può almeno orientare sufficientemente all’interno di un circoscritto arco temporale117.
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PRATO, La produzione libraria, p. 53.
PARTE PRIMA
TESTO E COMMENTARIO 1. CRITERI EDITORIALI Il testo del trattato, stabilito dal primo editore, è stato sottoposto nuovamente a lettura diretta dal manoscritto, attraverso la copia digitalizzata riprodotta sul sito della Bodleian Library di Oxford118. Ho cercato di verificare innanzitutto se e fino a che punto si potevano mantenere lezioni originali sulle quali erano state proposte facili correzioni o congetture da parte degli editori e di altri studiosi che si sono interessati al testo. Nei limiti del possibile, ho mantenuto la lectio genuina se sorretta da valide ragioni di senso e/o di correttezza grammaticale. Più in particolare, le lezioni originali ripristinate sono: sez. 1, 4 τύποι
3, 16 ἢ
5, 31 ἐξ
12, 81 παρόδους
Allo stesso modo, pur sapendo come differente dal nostro sia il sistema di puntuazione nei manoscritti bizantini, ho voluto prestare particolare attenzione ai segni di punteggiatura impiegati dal copista se, in taluni dei casi più difficoltosi, potessero essere di aiuto nell’interpretazione del passo. Il riscontro positivo che ho avuto da questo tentativo di lettura, che credo vada fatto ogni volta si editi un testo bizantino, ha trovato conforto in una citazione in cui mi sono imbattuta, che per l’appunto valorizza questo aspetto come «an intelligible pattern, analysable to a certain degree, in itself and in its originai intention»119. Di conseguenza, più di una volta mi sono dissociata dall’esegesi sinora fatta. Come invece già fatto dai precedenti editori, ho normalizzato il testo sciogliendo automaticamente tutte le abbreviazioni, mettendo l’iniziale maiuscola dopo un punto e per i nomi propri, e aggiungendo tacitamente lo iota sottoscritto ove mancante. Questi casi non sono pertanto riportati in apparato. Lo stesso trattamento sarebbe stato riservato ad eventuali errori di iotacismo, ma bisogna dire che questo copista ne è ammirevolmente esente, almeno in questo pezzo120. Ho quindi seguito i miei predecessori anche nel correggere termini o nomi palesemente storpiati, ed errori grossolani di ortografia, o qualunque altro tipo 118 Già per la mia tesi di Specializzazione del 1978 avevo preso visione diretta del manoscritto attraverso microfilm richiesto, e poi archiviato, dall’allora Istituto di Studi Bizantini e Neoellenici dell’Università degli Studi di Catania. 119 A. ANGELOU, Manuel Palaiologos Dialogue with the Empress-Mother on Mariage, Wien, 1991, p. 24, cit. in PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, p. CXVIII. 120 Risultano, infatti, pochi di questi errori nell’edizione critica di tutti i testi di PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica: cf. p. CXVIII.
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PARTE PRIMA
di refuso del copista, ad es. πάριδος per πάροδος nella sez. 1, 6, ἐγκέκλημα per ἐκκύκλημα nella sez. 3, 18, ἀριπώδης per εὐριπίδης nella sez. 5, 41, μεσάλιον per μεσαύλιον nella sez. 9, 62, refusi che, più che di distrazione, lascerebbero pensare ad una cattiva lettura del suo modello (appunti?) ma anche ad una sua totale ignoranza su certi specifici argomenti; altri sono molto banali per essere qui elencati, ma tutti sono stati segnalati in apparato, col nome dell’autore della correzione (o della proposta di correzione). Tra gli inserimenti che gli studiosi hanno apportato (ad es. di articoli), che certamente danno al testo un diverso equilibrio e ne migliorano la comprensione, ho valutato l’indispensabilità caso per caso, sì che alla fine ho accolto gli articoli inseriti da Browning nella sez. 1, 5 e nella sez. 5, 42, e ho optato per l’articolo preferito da Perusino piuttosto che per la congiunzione proposta da Winnington-Ingram in sez. 7, 50, mentre ho rinunciato alle inserzioni di (Browning) in sez. 2, 11, e (Glucker) in sez. 9, 67. Infine, nella presentazione tipografica del testo ho mantenuto, come del resto anche la precedente editrice, l’ottima ripartizione operata dal primo editore in 12 sezioni, che risponde a criteri tematici logici e risulta funzionale ad una lettura più agevole. Per il commentario, invece, piuttosto che rinviare al relativo rigo, ho trovato più pratico rinviare, tramite una numerazione progressiva, al singolo termine da glossare. 2. COMPORTAMENTI
DEL COPISTA E CATEGORIE DI EMENDAMENTO
Per quanto riguarda l’uso dei segni diacritici nelle abitudini dello scriba B, è costantemente presente la dieresi su iota e ypsilon, omesso invece è lo iota sottoscritto. Spiriti e accenti sono sempre rispettati, anche se si riscontra qualche inesattezza nella posizione degli accenti. Secondo la consuetudine del tempo, di cui si è detto sopra, spesso l’accento iniziale è tracciato in un tratto unificato con lo spirito. Si può anche osservare come sistematicamente siano segnate in modo corretto, col grave, non solo la congiunzione e le particelle μέν, δέ, γάρ, ma anche la terza persona singolare del verbo εἰμί (ἐστί), salvo quando viene usata l’enclitica, un fenomeno che ricorre abbastanza frequentemente, come si vede dal seguente elenco: sez. 2, 2, 5, 3, 4, 7, 9,
14 15 38 16 25 e 27 51 e 54 64
ἠθῶν εἰσιν γάρ εἰσι παρ’ αὑτῇ εἰσιν μέν ἐστι “ “ “
TESTO E COMMENTARIO
5, 5, 9, “
41 45 61 66
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οἰκειότερός ἐστι πολυειδέστερός ἐστι ἕτερά τινα δέ ἐστιν
I segni di punteggiatura vengono impiegati abbondantemente, e secondo criteri che, naturalmente, non sono i nostri: la virgola separa normalmente il soggetto dal suo verbo, e segue dopo le particelle μέν ... δέ, quasi a marcare tonicamente ciascuna delle due parti del bilanciamento, mentre il punto in alto divide le frasi in piccoli cola o separa le proposizioni secondarie da quelle principali – una caratteristica messa in evidenza anche dalla disamina di Pontikos121 –, con valore che, tradotto nel nostro sistema, oscilla dalla virgola, al punto e virgola, ai due punti qualche volta e persino al punto basso. Si sintetizzano qui di seguito le categorie più significative di errori in cui incorre lo scriba: Errori di omissione di consonanti: sez. 12, 84
σοφολῆς per σοφοκλῆς
Errori di scempiamento di consonante: sez. 1, 7 sez. 10, 72
κομός per κομμός ἀλάξαι per ἀλλάξαι
Errori di reduplicazione/aggiunta di consonanti: sez. 3, 19
δράγμα per δράμα
Errori di reduplicazione di parola: sez. 3, 19
ἄγγελον
Errori nel numero, genere o caso della declinazione: sez. sez. sez. sez. sez. sez. sez. sez. sez. sez. 121
1, 5-6 3, 21 4, 26 5, 32 5, 33 5, 40 5, 45 5, 46 11, 77 12, 83
πρόλογον ... ἔξοδον per πρόλογος ... ἔξοδος τινος per τίς φαίνεται ἀναπαιστικόν per ἀναπαιστική τὸν τραγικόν per τῶν τραγικῶν πλείστοις per πλεῖστον τὸν κιθαρῳδικὸν τρόπον per τῷ κιθαρῳδικῷ τρόπῳ ῥυθμῷ per ῥυθμοῖς ἐπ’ ὁλίγῳ per ἐπ’ ὁλίγον τοῖς ...σατυρικοῖς per τῆς ... σατυρικῆς τῶν χρωματικῶν per τὴν χρωματικήν
PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, p. CXIX.
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PARTE PRIMA
Accenti messi al posto sbagliato: sez. 4, 29
κόμμος per κομμός (2 volte) °°°
Tenendo criticamente conto dei numerosi contributi sinora disponibili sotto ogni aspetto, mi auguro di avere un poco arricchito la costituzione e il ventaglio di ipotesi interpretative di questo importante testo.
TESTO E COMMENTARIO
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SIGLUM CODICIS cod.: cod. Oxonii, Bodl. Library, Baroccianus 131, saec. XIII p. m. (1252-1280?) ABREVIATIONES acc.: accepit corr.: correxit ins.: inseruit Editorum Browning et Perusino nomina, et alia conijecturarum auctorum per extensum scribuntur.
Περὶ τραγῳδίας
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1. [Fol. 415r] Ἡ τραγῳδία, περὶ ἧς ἠρώτησας, ὑποκείμενα μὲν ἔχει, ἃ δὴ καὶ μιμεῖται, πάθη τε καὶ πράξειςˑ ὁποῖα τὰ ἑκάτερα. Οἷς δὲ μιμεῖται μῦθος, διάνοια, λέξις, μέτρον, ῥυθμός, μέλος, καὶ ἔτι πρὸς τούτοις αἱ ὄψειςˑ αἱ σκηναί, οἱ τύποι, αἱ κινήσειςˑ τούτων δέ, τὰ μέν, ὁ σκηνοποιόςˑ τὰ δέ, ὁ χορηγόςˑ τὰ δὲ ὑποκριτὴς ἀποδίδωσι. Μέρη δὲ τραγῳδίας πρόλογος, ἐπεισόδιον, ἔξοδος, χορικόν, ἀπὸ σκηνῆς. Χορικοῦ δὲ πάροδος, στάσιμον, ἐμμέλεια, κομμός, ἔξοδος. 2. Τὰ δὲ πάθη μᾶλλον μιμεῖται, ἢ τὰς πράξεις. Τὸ γὰρ πρωταγωνιστοῦν ἐν πᾶσι τοῖς τραγικοῖς δράμασι τὸ πάθος ἐστί. Μιμεῖται ἡ τραγῳδία καὶ τὸ καλούμενον ἦθος, καὶ μάλιστα ἐν τοῖς στασίμοις ᾄσμασιν, ἐν οἷς καὶ αἱ ἀποφάσεις ἠθικαὶ καὶ γνωμολογίαι καὶ ἐπιτιμήσεις. Μιμεῖται δὲ καὶ τῶν ἀψύχων πολλά. Ἡ δὲ πρᾶξις, δυσμιμητοτέρα τοῦ πάθουςˑ οὐ τὰς τυχούσας δὲ πράξεις ἡ τραγῳδία μιμεῖται, ἀλλ’ὅσα ἡρωϊκῶν καὶ πρακτικῶν ἠθῶν εἰσιν οἰκεῖα καὶ μεγαλοψύχων, καὶ μάλιστα ἐὰν τελευτῶσι εἰς πάθη. Πολλαὶ μὲν γάρ εἰσι πράξεις, καλαὶ μὲν καὶ σπουδαῖαι, ἀτράγῳδοι δέ. 3. Τῶν δὲ τραγῳδιῶν, τὸ μέν ἐστι δέσις, τὸ δέ, λύσις γίνεταιˑ ἢ ἀπὸ τῶν χρόνων μεταβολή, τὰ πολλὰ οὐκ ἄνευ δαιμονίου τινός. Ἔστι δὲ καὶ τὸ ἐκκύκλημα καλούμενον αἴτημα δραματικὸν τοῦ φαίνεσθαι τὰ ἐν τῇ οἰκήσει πραττόμενα. Ἔχει δὲ τὸ δρᾶμα καὶ ἄγγελον καὶ ἐξάγγελον καὶ σκοπόνˑ διαμεμηχάνηται δὲ καί τινα ἐν τῇ σκηνῇ ἐφ’ ὧν οἵ τε θεοὶ καὶ τῶν ἡρώων τίς φαίνεταιˑ γίνεται δέ, καὶ εἷς χορὸς ἐν ταῖς τραγῳδίαις καὶ δύοˑ τὸ δὲ τοιοῦτον καλεῖται διχορία. 4. Διαιρεῖται δὲ ἡ τραγικὴ ποίησις εἴς τε τὸν χορικὸν [fol. 415v] καλούμενον τρόπον, καὶ τὸν ἀπὸ σκηνῆςˑ ἑκάτερον δὲ αὐτῶν εἰς ᾠδὴν καὶ λέξιν. Τῆς δὲ λέξεως, τὸ μέν ἐστι μέτρον, οἷον ἰαμβικόν, τροχαϊκόνˑ τὸ δέ, περίοδος, οἷον ἀναπαιστική, ἰαμβική. Τοῦ δὲ μέτρου, τὸ μὲν πρόλογος, τὸ δὲ ἐπεισόδιον, τὸ δὲ ἔξοδος. Τῆς δὲ ᾠδῆς, ἡ χορικὴ εἰς πέντε μέρη διῄρηται, ὧν τὸ μέν ἐστι πάροδος, τὸ δὲ στάσιμον, τὸ δὲ ἐμμέλεια, τὸ δὲ κομμός, τὸ δὲ ἔξοδος. Ἔστι δὲ ὁ κομμὸς θρῆνος κεκινημένος καὶ ἐπιτεταμένος.
2 τὲ cod. 4 τύποι cod. (et Borthwick iuste legendum censet): τόποι Browning Perusino Bonanno, τρόποι Glucker 5 ins. Browning / πρόλογον ... ἔξοδον cod. corr. Browning 6 πάριδος ... στάσιμον ... κομὸς cod. corr. Browning 11 ins. Browning post ἀποφάσεις 15 ἀτρά ... δας cod. corr. Browning 16 ἢ cod.: δέ corr. Winnington-Ingram et Browning acc. 18 ἐγκέκλημα cod. corr. Browning 19 δράγμα cod. corr. Browning / καὶ ἄγγελον bis cod. corr. Browning 21 τινος φαίνεται cod. corr. Perusino: τινὲς φαίνονται Browning 26 ἀναπαιστικὸν cod. corr. Browning
Sulla tragedia
1. La tragedia, sulla quale mi hai interrogato, ha come soggetti – che sono appunto materia di imitazione – passioni e azioni (1): quali che siano sia le une che le altre. I mezzi con i quali avviene l’imitazione sono racconto, pensiero, parola, metro, ritmo, canto (2), e ancora oltre a questi gli effetti spettacolari (3): gli scenari, le figure coreografiche (4), i movimenti; di questi, gli uni realizza lo scenografo, le altre il coreografo e gli altri l’attore (5). Parti della tragedia sono prologo, episodio, esodo, parte corale e parte scenica (6). Appartengono alla parte corale parodo, stasimo, emmeleia (7), kommos, esodo. 2. imita piuttosto le passioni che le azioni; infatti quello che tiene il primo posto in tutti i drammi tragici è il pathos (8). La tragedia imita però anche il cosiddetto ethos (9), e soprattutto nei canti stasimi, nei quali anche le dichiarazioni etiche, nonché sentenze (10) e critiche. Ed imita inoltre molte delle cose inanimate (11). L’azione invero è più difficile del pathos ad essere imitata, dal momento che la tragedia imita non tanto le azioni comuni («le prime che capitano»), bensì quanto è proprio dei caratteri eroici e intraprendenti oltre che magnanimi, e soprattutto se finiscono in sciagure (12). Molte azioni sono infatti belle e virtuose, ma non adatte a tragedia. 3. Proprio delle tragedie, da un lato è un nodo, dall’altro avviene uno scioglimento: ovvero un mutamento col trascorrere del tempo, nella maggior parte dei casi non senza l’intervento di una divinità (13). Anche il cosiddetto enkyklima è un espediente drammatico/teatrale per mostrare i fatti che avvengono all’interno dell’abitazione (14). Inoltre, il dramma ha un nunzio, un portavoce e una vedetta (15), e si sono escogitati anche alcuni congegni sulla scena sopra i quali si mostrano («appaiono») gli dei e qualcuno degli eroi. Vi è poi un coro nelle tragedie, e anche due; in quest’ultimo caso, si parla di dicoria (16). 4. Si divide la poesia tragica nel modo detto corale e in quello scenico, e ciascuno di questi modi in canto e recitazione (17). Della recitazione è da una parte il metro, come quello giambico e trocaico, dall’altra la periodo, come quella anapestica e giambica (18). Appartiene all’ambito del metro il prologo, poi l’episodio e l’esodo (19); per quanto invece riguarda il canto, quello corale si divide in cinque parti (20), che sono parodo, stasimo, emmeleia, kommos ed esodo (21). Il kommos è un lamento agitato e prolungato (22).
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PARTE PRIMA
5. Ἡ δὲ παλαιὰ τραγικὴ μελοποιία γένει μὲν τῷ ἐναρμονίῳ ἐχρήσατο ἀμιγεῖ καὶ μικτῷ ἐξ ἁρμονίας καὶ διατόνουˑ χρώματι δὲ οὐδεὶς φαίνεται κεχρημένος τῶν τραγικῶν ἄχρις Εὐριπίδουˑ μαλακὸν γὰρ τὸ ἦθος τοῦ γένους τούτου. Τῶν δὲ τόνων πλεῖστον μὲν ἡ παλαιὰ κέχρηται τῷ τε Δωρίῳ καὶ τῷ Μιξολυδίῳ, τῷ μὲν ὡς σεμνότητος οἰκείῳ, τῷ δὲ Μιξολυδίῳ, ὡς συνεργῷ πρὸς τοὺς οἴκτους. Κέχρηται δὲ καὶ ταῖς ἀνειμέναις τότε καλουμέναις ἁρμονίαις, τῇ τε Ἰαστὶ καὶ ἀνειμένῃ Λυδιστί. Τοῦ δὲ Φρυγίου καὶ Λυδίου, Σοφοκλῆς ἥψατο πρῶτος. Κέχρηται δὲ τῷ Φρυγίῳ διθυραμβικώτερον. Ὁ δὲ Ὑποφρύγιος καὶ ὁ Ὑποδώριος σπάνοι παρ’αὐτῇ εἰσιν, ὡς διθυράμβῳ προσήκοντες. Πρῶτος δὲ Ἀγάθων τὸν Ὑποδώριον τόνον εἰς τραγῳδίαν εἰσήνεγκεν καὶ τὸν Ὑποφρύγιον. Ὅ γε μὴν Λύδιος τῷ κιθαρῳδικῷ τρόπῳ οἰκειότερός ἐστι. Συστήμασι δὲ οἱ μὲν παλαιοὶ μικροῖς ἐχρῶντο, Εὐριπίδης πρῶτος πολυχορδίᾳ ἐχρήσατο, ἐκαλεῖτο ὑπὸ τῶν μουσικῶν παλαιῶν ἀνάτρητος ὁ τρόπος οὗτος τῆς μελοποιίαςˑ καὶ καθ’ὅλον εἰπεῖν, Εὐριπίδης πολυειδέστερός ἐστι τῶν πρὸ αὐτοῦ καὶ πολυχρούστερος, καὶ ἐχρήσατο καὶ τοῖς προσήκουσι ῥυθμοῖς, καὶ βακχείοις ἁπλοῖς τε καὶ διπλοῖς, καὶ τῷ ἀπ’ἐλάττονος ἰωνικῷ, καὶ ἐπ’ ὀλίγον προκελευσματικῷ. 6. Δεῖ δὲ τὴν λέξιν ἐν τραγῳδίᾳ μὴ ὑποπεπτωκέναι τῷ μέλει καὶ τῷ ῥυθμῷ, ἀλλ’ἐπικρατεῖν καὶ ἐπιδέξιον εἶναι. Τὸ λίαν δὲ ἐνδινεύεσθαι ἀνάρμοστον τραγῳδίᾳ καὶ τῷ ταύτης ἀξιώματι. 7. Ἔστι δὲ ἐν τοῖς τραγικοῖς μέλεσι στροφὴ καὶ περίοδος, καὶ τὸ ἀντίστροφον. Καὶ τῶν μελῶν, τὰ μέν ἐστι μακρά, τὰ δέ, ἀντίστροφα. Τῶν δὲ ἀντιστρόφων, τὰ μὲν μονόστροφα, τὰ δέ, ἐπῳδικὰ καλεῖται. Ἔστι δὲ ἐν τοῖς δράμασι καὶ προῳδικὸν καὶ μεσῳδικόνˑ κοινῶς δὲ πάντων τῶν ἀντιστρόφων μελῶν, τὰ μέν ἐστιν ἁπλᾶ, τὰ δέ, μεταβολικάˑ γίνεται δὲ ἡ μεταβολή, ἢ ἐκ μονοστρόφου εἰς μονόστροφον, ἢ ἐξ ἐπῳδικοῦ εἰς ἐπῳδικόν, ἢ ἐκ μονοστρόφου εἰς ἐπῳδικόν, ἢ ἀνάπαλιν. 8. Περὶ δὲ μέτρου τραγικοῦ, ἁπλοῦς πάντως ἐστὶν ὁ λόγοςˑ σχεδὸν γὰρ δύο μέτροις οἵ γε δὴ πολλοὶ ἐν τραγῳδίᾳ κέχρηνται, τε ἰαμβικῷ καὶ τῷ τροχαϊκῷ τετραμέτρῳ. Τὸ δὲ ἀναπαιστικὸν τετράμετρον, παρὰ Φρυνίχῳ μόνον τῷ παλαιῷ τετύχηκε χρήσεως. 30 τὰ ἐναρμονία cod. corr. Browning 31 ἐν correctus ἐξ cod. et sic Perusino: ἐνικῆς lexit Browning, γένει τῆς corr. Winnington-Ingram / διτόνων cod. corr. Perusino: διατόνων Winnington-Ingram (et Browning) 32 τὸν τραγικὸν cod. corr. Browning 33 πλείστοις cod. corr. Browning 34 μιξολυδία cod. 36 φοδίου cod. corr. Browning 37 φοδίῳ cod. corr. Browning 38 παρ’αὑτῆς cod. corr. Browning / ὥς τέ ἐστι θυράμβω cod. corr. Browning 39 προσή ...τες cod. corr. Browning / αἶος cod. corr. Browning 40 ὡς γε cod. corr. Browning / τὸν κιθαρῳδικὸν τρόπον cod. corr. Browning 41 ἀριπώδης cod. notavit et corr. Perusino 42 πολυχορδίου cod. corr. Browning / ins. Browning 44 ἐχρῆ δὲ cod. corr. Browning 45 προσήκοις cod. corr. Browning / ῥυθμῶ cod. corr. Browning / βραχείοις cod. corr. Browning 46 ἐπ’ cod. corr. Winnington-Ingram / ὀλίγῳ cod. corr. Winnington-Ingram 47 ὑποπτωκέναι cod. corr. Browning 50 ins. Perusino: Winnington-Ingram 53 προσωπικόν cod. corr. Browning / μεσοδικόν cod. corr. Browning 54 ἀμετάβολα cod. corr. Browning 55 ἐξωδικοῦ cod. corr. Browning 58 ins. Browning et tacite Perusino acc. sed sine τε
TESTO E TRADUZIONE
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5. La musica tragica tradizionale («antica») si servì del genere sia enarmonico puro che misto della [pura] scala armonica e della diatonica (23), mentre non risulta che alcuno dei tragici abbia impiegato il cromatico sino a Euripide: molle, infatti, il carattere di questo genere (24). Dei toni, invece, la tragedia antica ha usato piuttosto il dorico e il misolidio, l’uno in quanto adeguato alla serietà, l’altro – il misolidio – in quanto fattore di pietà (25). Ha impiegato inoltre anche le armonie allora dette languide, quella nel modo ionico e quella rilassata nel modo lidio (26). Del frigio e del lidio Sofocle fu il primo a servirsene, ma del frigio si è servita in modo ditirambico, mentre rari in essa sono l’ipofrigio e l’ipodorio, come più convenienti al ditirambo. Fu Agatone il primo a introdurre nella tragedia le armonie ipodoria e ipofrigia. Quella lidia, invece, è più adatta alla maniera citaredica (27). E mentre gli antichi si servivano di accordi di ambito limitato, Euripide fu il primo a impiegare la polychordia. Dai musici antichi questo tipo di composizione musicale veniva denominato “perforato”. Peraltro, in generale si può dire che Euripide sia il più variegato e il più colorito rispetto ai suoi predecessori, e che si servì anche di ritmi adatti, (cioè) bacchei semplici e doppi, ionico a minore e un po’ meno del proceleusmatico (28). 6. È necessario che la parte recitata, nella tragedia, non rimanga subordinata al canto e al ritmo (= danza), ma sia prevalente ed agile (29). Il muoversi troppo è sconveniente alla tragedia e alla sua dignità (30). 7. Nei canti tragici vi è strofe, detta anche periodo, e l’antistrofe (31). E dei canti alcuni sono continui, altri antistrofici. Di questi ultimi, poi, alcuni sono chiamati monostrofici, altri epodici. Nei drammi si osservano pure canti proodici e mesodici. Comunemente, poi, tra tutti i canti antistrofici, alcuni sono semplici e altri invece modulati (32). La modulazione può andare o da canto monostrofico a monostrofico, o da epodico a epodico, o da monostrofico a epodico o viceversa. 8. Per quanto riguarda il metro tragico, il discorso è molto semplice. Infatti, nella tragedia i più hanno impiegato quasi esclusivamente due metri, e cioè quello giambico e il tetrametro trocaico. Il tetrametro anapestico ha trovato impiego solamente presso Frinico l’Antico (33).
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9. Ἔστι δὲ καὶ ἕτερά τινα συνταττόμενα τοῖς τραγικοῖς μέλεσί τε καὶ μέτροις, οἷον μεσαύλιον, ἐπίφθεγμα, ἀναβόημα, ἀνάπαιστον ἔρρυθμον. Ἔστι δὲ τὰ μεσαύλια τὰ κρουμάτια βραχέα μεταξὺ τῶν μελῶν ταττόμεναˑ τῶν δὲ ἐπιφθεγμάτων, πλείω μέν ἐστιν ἡ χρῆσις ἐν τοῖς σατυρικοῖς δράμασινˑ ἔστι δὲ καὶ ἐν τοῖς τραγικοῖς. Τὸ δὲ ἀναβόημα, ἔστι μὲν τῶν ᾀδομένων σχεδόν τι, μεταξὺ δέ ἐστιν ᾠδῆς καὶ καταλογῆς. Ἔστι δὲ ὅτε οἱ τραγικοὶ ἐπίσκηνα συντιθέασιν ἀνάπαιστα, καὶ χορικὰ ἀπὸ σκηνῆς, καὶ γὰρ ἀγγέλων ὅλα πρόσωπα, ἐκπληροῦσι δι’αὐτῶν καὶ ἐν ταῖς παρόδοις προτάττουσιν αὐτὰ τῶν μελῶν. 10. Ἡ δὲ κορωνίς, μέρους ἐστὶ σημεῖον, ὅταν οἱ ὑποκριταὶ ἐξελθόντες τῆς σκηνῆς μόνον τὸν χορὸν καταλείπωσι καὶ ἐπεισέλθωσι πάλιν, ὁπόταν καὶ τὸν τόπον ἔστιν ἀλλάξαι, καὶ τόπον καὶ χορόν, καὶ ὅλον τὸν μῦθον, ἀρχῇ δὲ ἐπείσοδίου ἢ τελευτῇ, καὶ αὐτῶν δὲ τῶν μελῶν τὰ μὲν ἀπὸ σκηνῆς ἔγκειται, τὰ δὲ τῷ χορῷ ὑπόκειται. 11. Τῶν δὲ ὑποκριτῶν, οὐδεὶς οὐδέποτε ἐν τραγῳδίᾳ ὠρχήσατο, ἀλλ’ἦν ἴδιος τοῦ χοροῦ ἡ τοιαύτη ἐνέργεια. Ἔπειθ’ὅτι τὸ μὲν εἶδος τῆς τραγικῆς ὀρχήσεως ἡ προσαγορευομένη ἐμμέλεια, ὥσπερ τῆς μὲν σατυρικῆς ἡ σίκιννις, τῆς δὲ κωμικῆς ὁ κόρδαξ ἐπονομαζόμενος. Τὸ δὲ τῆς ὀρχήσεως εἶδος σεμνὸν ἦν καὶ μεγαλοπρεπὲς καὶ μεγάλας ἔχον τὰς μεταξὺ τῶν κινήσεων ἠρεμίας. 12. Μετὰ πλείστης δὲ σπουδῆς τὰς παρόδους πρὸς αὐλὸν ᾖδον οἱ τραγικοὶ χοροί, καὶ προσηύλουν αὐτοῖς οἱ κράτιστοι αὐληταί, ὁ μὲν τὴν χρωματικὴν περίοδον, ὁ δὲ τὴν ἐναρμόνιον, ὁ δὲ τὴν σύντονον. Καὶ κιθάρᾳ δὲ ἐν ταῖς τραγῳδίαις ἐχρήσατο καὶ Εὐριπίδης καὶ Σοφοκλῆς. Σοφοκλῆς δὲ καὶ λύρᾳ ἐν τῷ Θαμυρᾷ.
62 μεσάλιον cod. corr. Browning 63 κτηματρα ... cod. corr. Browning 65 sic cod.: encliticum ἐστι mutavit Browning 67 ἐπιστήμη cod. corr. Sophroniou, sed reliquit Perusino cum crucibus / χωρικά cod. corr. Browning, post χορικά ins. Glucker et Perusino acc. 72 ἀλάξαι cod. corr. Browning 75 ἐχρήσατο cod. 68 πράττουσιν cod. corr. Browning corr. Browning 77 ἡ: ὃ ἥ cod. corr. Browning / τοῖς μὲν σατυρικοῖς cod. corr. Browning 79-80 κιννίρων cod. corr. Browning 81 περιόδους corr. Winnington-Ingram / αὑτὸν cod. corr. Browning 83 τῶν χρωματικῶν cod. corr. Browning / διάτονον corr. WinningtonIngram 84 σοφολῆς cod. corr. Browning 85 τῶ . μύρα cod. notavit Perusino
TESTO E TRADUZIONE
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9. Vi sono anche altri elementi combinati insieme ai canti e ai metri tragici (34), quali mesaulion, epiftegma, anaboema, anapesto ritmico (35). I mesaulia sono brevi frasi musicali accompagnate con aulo collocate in mezzo ai canti. Per quanto attiene agli epiftegmata, maggiore è l’uso nei drammi satireschi, ma non sono esclusi anche in quelli tragici. L’anaboema è qualcosa di vicino alle parti liriche, in realtà è tra canto e recitazione. Vi è poi quando i tragici compongono anapesti davanti alla scena e corali dalla scena. Infatti con gli anapesti coprono tutte le parti dei messaggeri e nelle parodoi prepongono anapesti ai canti (36). 10. La coronide è segno distintivo di una parte del dramma: quando gli attori, uscendo dalla scena, lasciano solo il coro, e rientrano di nuovo, e nel caso che si debba cambiare il luogo dell’azione, e luogo e coro e l’intera trama, all’inizio di un episodio o alla fine. E degli stessi canti, alcuni sono eseguiti [dagli attori] sopra la scena, altri sotto, affidati al coro (37). 11. Nessun attore ha mai danzato nella tragedia, ma un’azione siffatta era propria del coro. inoltre che la forma di danza tragica era quella denominata emmeleia, come propria del dramma satiresco era la sikinnis e della commedia il cosiddetto cordax. Il carattere della danza era dignitoso e solenne, e con lunghe pause tra i movimenti (38). 12. I cori tragici cantavano col massimo ardore le parodoi a suon di aulo, e li accompagnavano i migliori auleti, chi il genere cromatico, chi l’enarmonico, e chi il diatonico (40), ma Euripide e Sofocle nelle loro tragedie si servirono anche della cetra, anzi Sofocle usò la lira nel Tamiri (41).
COMMENTARIO SEZ. 1 1. La tragedia viene scomposta nei suoi elementi costitutivi, che determinano la struttura particolare per cui essa si definisce tale. Sulla traccia aristotelica, col fondante concetto di imitazione che starebbe alla base di ogni forma artistica, sia pure con mezzi, oggetti e modi differenziati (Poet. 1447a) – concetto che il Filosofo chiarisce assai meglio nel III libro della Retorica –, l’Anonimo comincia senza preamboli teoretici in media re con quelli che secondo Aristotele erano gli ἃ μιμοῦνται, gli oggetti della mimesi scenica (rinvio a Halliwell, Aristotle’s Poetics, cap. IV, per un’analisi del concetto di mimesis nel mondo greco). Come prima osservazione, proprio in base alla concezione aristotelica della poesia tragica, secondo cui la sua bontà si può evidenziare anche dalla sola lettura (ascolto), indipendentemente dalla visione – su cui cf. infra, p. 48 e p. 55 –, in questo punto particolare che mette in risalto l’imitare come sostanza o essenza di questa forma di arte, non mi sento di condividere pienamente la traduzione di μιμεῖται di Feaver, More on Mediaeval Poetics, p. 115, in rappresentation (che implica esclusivamente la realizzazione spettacolare) invece che imitation (che sarebbe la vera essenza della Poesia tout court); una traduzione che riflette, anche inconsciamente, una incomprensione del concetto aristotelico, e non solo di esso. Più tardi, Proclo opererà nell’ambito del genere poetico una distinzione, classificando la tragedia, assieme al dramma satiresco e alla commedia, come «poesia imitativa», a differenza della «poesia narrativa» che comprenderebbe gli altri generi di poesia, e cioè epica, giambica, elegiaca e lirica (Phot., Bibl. 239, 319a, p. 156, 4-7 Henry). Più smorzata mi sembra l’espressione «riproduzione» usata piuttosto da Perusino, p. 27 (in quanto si può riprodurre anche solo per iscritto, senza che vi sia lo spettacolo visivo), la quale, tuttavia, impiega anch’essa il verbo rappresentare («La tragedia preferisce rappresentare») subito dopo, all’inizio della sezione 2, un punto in cui però oramai il termine mi sembra più accettabile. Partendo sempre da Aristotele, va comunque subito messa in evidenza una prima differenza con la Poetica. Secondo quella, la tragedia era definita semplice mimesi di azione (1449b 24), sia pure con tutti i requisiti che essa deve avere (σπουδείας καὶ τελείας, μέγεθος ἐχούσης), e questa si qualificava e concretava in μῦθος, ἤθη, διάνοια, in logica successione, che quindi finivano per essere – tutti e tre – gli oggetti dell’imitazione: ἃ μιμοῦνται (ibidem, 29 ss.). Qui, invece, l’azione non si identifica se non con se stessa, un conferimento della sua assoluta importanza nell’ambito del genere – il dramma è azione, al contrario dell’epos che è narrazione – che fa comunque venire in mente l’espressione
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aristotelica «senza azione non esisterebbe tragedia» (Poet. 1450a 24; sull’apparente contraddizione con l’affermazione delle linn. 29-33 si rinvia a Scattolin, Aristotele e il coro tragico, p. 203). Però, l’Anonimo le affianca un elemento diverso, che per Aristotele era invece parte del racconto, dopo peripezia e riconoscimento (Poet. 1452b 19): il πάθος, senza il quale la definizione resterebbe più generica e non completamente distintiva della forma tragedia, e la cui preponderanza verrà anzi ribadita più avanti (sez. 2), dove la riminiscenza aristotelica – ma non solo questa – si sostanzierà nell’aggiunta, posticipata, dell’ἦθος: vi ritorneremo. Πάθη associato a πράξεις ricorre, invero, in Poet. 1447a 29, assieme ad ἤθη, ma il contesto è diverso – riferito all’imitazione dei danzatori –; più prossimo, piuttosto, per un accostamento che però non è alla lettera ma solo concettuale in quanto causa del pathos, mi sembra il passo 1452a 3 (e cf. anche 1452b 3233 e ss., e 1453b 1), in cui, ritornando agli elementi del racconto mimetico, accanto alle azioni troviamo analogamente associato un altro oggetto di imitazione tragica che si configura come concretamento di quel racconto (μῦθος): in questo caso, «casi paurosi e pietosi» o, meglio, «casi che suscitano paura e pietà» (… [μίμησις] ... φοβερῶν καὶ ἐλεινῶν), in funzione com’è noto della concezione catartica dell’arte che, come conseguenza di quella mimetica, pervade – sia pure in un senso più medico che etico – la Poetica dello Stagirita (anche se propriamente in essa o, almeno, nella parte pervenutaci, il termine catarsi appare esplicitamente espresso solo in 1449b 27-28, secondo Rostagni, Aristotele e l’Aristotelismo, p. 12, perché non ha un significato estetico ma pratico nel modo in cui la intende il Filosofo, il quale ne chiarisce bene il significato, invece, nell’VIII libro della Politica (1341b 32 ss., 1342a 7 ss.). Sulle varie interpretazioni del significato aristotelico di catarsi si rinvia a Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 316-320. Cf. anche Janko, From Catharsis to the Aristotlian Mean. La catarsi tragica viene intesa come emozione purificatrice da Segal, Catharsis, Audience and Closure in Greek Tragedy). Una finalità catartica viene esplicitamente dichiarata dal bizantino Trattato Coisliniano, che attribuisce al genere tragedia τὰ φοβερὰ παθήματα τῆς ψυχῆς δι’οἴκτου καὶ δέους, ma è alla commedia che imputa παθημάτων κάθαρσις (Tract. Coisl. 2-3, p. 50 Kaibel). Invano la cercheremmo invece nel nostro testo. L’elemento πάθος, tuttavia, è sufficiente per collegarlo alla posteriore tradizione peripatetica, con la sua distinzione in λέξις παθητική, elevata e propria della tragedia, e λέξις ἠθική, comune, propria della commedia, cioè pathos ed ethos rispettivamente rappresentazioni delle passioni e dei caratteri, criteri insindacabili di giudizio di un’opera d’arte; una classificazione netta che deve trarre origine dalla stessa descrizione aristotelica della tragedia, che lasciava capire come questa fosse in genere povera di ἦθος ma non di πάθος, al contrario della commedia (cf. Rostagni, Aristotele e l’Aristotelismo, pp. 197 ss.; cf. inoltre Dosi, Sulla Poetica di Teofrasto, passim).
COMMENTARIO
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Che l’Anonimo abbia presenti queste fonti, remote e prossime, è probabile ma non comunque a mio avviso certo, dal momento che antico è il binomio πρᾶξις – πάθος, e lo si incontra anche in altri contesti, come in Plat., Leg. 876d, dove πάθος è impiegato nel senso di “danno subito”. E proprio a proposito di significato, non trovo molto convincente la traduzione, piatta o addirittura fredda, «avvenimenti», e poi «avvenimenti tragici» di Perusino, p. 27, meglio spiegato a p. 38, sulla base di Arist., Poet. 13, 1453a 12 e 21. Sembra suonare tra l’altro come amplificazione di “azioni” (l’agire provoca l’evento), malgrado la giusta precisazione, più avanti a proposito della sez. 2 (ibidem, p. 44), che le azioni si fanno mentre i πάθοι si subiscono. Πάθος si subisce, infatti, non dà scampo, ma è qualcosa di molto più estremo di un semplice avvenimento – sia pure drammatico –, in tutto il ventaglio delle sue valenze semantiche: πάθος potrebbe in prima istanza essere una situazione interiore dolorosa e letale, di “passione” o “forte emozione” (cf. Poet. 1447a 23, 1456b 1 [emozioni]; ma anche Arist., Eth. Nic. 1105b 21, Rhet. 1418a 12, Pol. 1287b 3) – emotions traduce Feaver, More on Mediaeval Poetics, p. 115 – o potrebbe essere com’è per la prima volta impiegato da Eschilo (Aesch., Ag. 533), “dolore” o “sofferenza” di riscatto, che «fa esperienza» (πάθος-μάθος). Ma, come piuttosto lo stesso autore lascia evincere più avanti – lin. 14 –, sembrerebbe più probabile che impieghi il termine nell’(altro) senso aristotelico più tecnico: come fatto luttuoso, o sciagura. E questo è comunque qualcosa di molto più eccessivo di «avvenimento tragico»: fatale e ineluttabile, che si abbatte e inesorabilmente travolge e schiaccia, si trova in Poet. (1452b 11, 1453b 19, 20 e 1454a 13), lo stesso significato con cui Aristotele, altrove, usa l’altro termine πάθημα (De gen. an. 738a 16, 750a 30), mentre usa παθητική per indicare una delle quattro specie di tragedia, esemplificata con Aiace e Issione (Poet. 1455b 33). L’analogo significato di πάθημα trovo proposto anche da Bonanno, Recensione, p. 228. Singolare, nella definizione di tragedia, l’uso di πρᾶξις in Tzetze, Περὶ τραγ. ποιήσ. 7, p. 43 Kaibel, al posto di πάθος (invece dallo stesso impiegato in Ἴαμβ. τεχν. περὶ κωμ. 66), che Pace, Nota a Giovanni Tzetze, p. 84, e Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 63, tenta di giustificare proprio sulla base dell’uso aristotelico di πάθος, Poet. 1452b 11 cit., che ha insita una valenza speciale dell’azione tragica: un’azione luttuosa, o sciagurata. 2) Ordinatamente, secondo lo schema qualitativo di Aristotele (Poet., cap. 6, in part. 1450a 8-12), agli oggetti seguono i mezzi dell’imitazione (οἶς μιμεῖται), che sono sei elementi (μύθος, διάνοια, λέξις, μέτρον, ῥυθμός, μέλος), numero che riflette la scala aristotelica di elementi che, però, erano classificati in ἃ, οἷς, ὡς μιμοῦνται (1449b 32 – 1450b 20), e numero che arriverebbe a dieci per l’aggiunta di altri quattro elementi (ὄψεις, σκηναί, τύποι, κινήσεις). Salvo, tuttavia, considerare in un unico elemento gli ultimi quattro, secondo l’interpretazione che avanzo (concordemente a Perusino e Bonanno), che è avallata
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anche dal punto in alto che nel manoscritto segue a ὄψεις (con un valore grammaticale evidentemente più forte dei successivi), e che è stata anche quella scelta da Perusino, p. 39: ovvero lo spettacolo, o meglio gli aspetti spettacolari, non a caso al plurale, che consistono – o si diversificano – nei tre elementi che seguono ad ὄψις. Ricordiamo che per Aristotele, invece, in quella scala di sei elementi i mezzi erano solo λέξις (come stile della poesia, che dipende dai metri) e μελοποιία (su cui invece il Filosofo non si ferma: Sifakis, Looking for the actor’s art, pp. 152 ss.), il binomio basilare di parola e impianto musicale – alla lettera, «composizione di canti» (Poet. 1449b 34 e 1450a 10): δύναμις κατασκευαστικὴ μέλους è la definizione di Arist. Quint., p. 28, 10-11 Winnington-Ingram. Per inciso, alla lettera l’Anonimo omette qui l’ὡς – il modo in cui – μιμεῖται. Svilupperà invece nella sez. 4 la trattazione, con le rispettive sottoclassificazioni, di questo binomio come «modi» propri della poesia tragica, seguendo una fonte diversa da Aristotele, come si dirà più avanti. Per soffermarci intanto su questa esclusiva coppia di mezzi aristotelici dell’imitazione, un’analisi attenta della musica greca tragica come imitazione (di qualità etiche, per giungere alla virtù, laddove invece il dramma deve imitare πρακτικαί, avvenimenti e πάθοι), viene proposta da Sifakis, The function and significance of music, il quale desume che l’aspetto musicale non è solo abbellimento della poesia, ma un vero sussidio per rappresentare ciò che la parola non può esprimere, per cui lecitamente egli parla di bilinguismo, o linguaggio musico-poetico nel cui ambito il ritmo del verso è valorizzato da un ritmo addizionale che rende completa l’imitazione. Mi piace menzionare una frase di Wilson, The musicians among the actors, p. 39: «Ancient Greek Theatre was a fundamentally musical experience». Tutto ciò non si potrebbe comprendere senza ricordare la profonda sensibilità ritmica e melodica dei Greci e l’elaborazione, da parte loro, di un sistema assai ricercato che, in modo assoluto, in età arcaica e classica poneva la μουσική o arte delle Muse – arte e scienza insieme –, «invenzione degli dei» (θεῶν εὔρημα: Ps. Plut., De mus. 14, 1136, p. 117, 30 Lasserre), al centro della società, in ogni sua manifestazione (e ciò è attestato dall’iconografia come dalle numerose testimonianze letterarie a cominciare dai poemi omerici) e, inoltre, nel suo indissolubile legame con la poesia, considerato che la poesia consisteva in gran parte in canti, canti a solo o corali (cf. West, Ancient Greek Music, p. 39; Gentili, Tragedia e comunicazione, parte dall’esame di questa associazione per indagare quali furono i cambiamenti insiti nel passaggio, senza apparente soluzione di continuità, dalla lirica corale alla lirica drammatica). Il musico del IV secolo Bacchio definiva la musica Εἴδησις μέλους καὶ τῶν περὶ μέλος συμβαινώντων (Bacch., Isag., 1, p. 292, 1-2 Jan); Platone dichiarava che nessuna differenza intercorre tra le parole che sono messe in musica e quelle semplicemente parlate (Resp. 398d): una συμπάθεια dunque che le accomuna, solo a
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condizione, per il dramma, della μίμησις, donde deriva il piacere tragico (Arist., Poet. 1453b 12). Troviamo pertanto associati il μέτρον col μέλος (Plat., Resp. 607d), in un binomio dizione e musica che va inteso soprattutto λόγος (ovvero anche λέξις, ῥῆμα, μέτρον) – μέλος (melodia), associazione già sancita da una tradizione popolare antica secondo la quale cioè la melodia era composta di parole. Così, ancora in Plat., Resp. 376e, la musica – mezzo educativo per l’animo, come la ginnastica lo è per il corpo – include ogni genere di λόγοι (mette dunque in risalto il contenuto narrativo). Assieme, però, la melodia era composta di armonia e ritmo (cf. Moutsopoulos, La musique dans l’œuvre de Platon, p. 67), dove armonia (termine introdotto nel VI secolo da Laso di Ermione, sul quale cf. Brussich, Laso di Ermione) va intesa sia come altezza dei suoni che come disposizione degli intervalli, ed era necessario che armonia e ritmo si accomodassero alle parole, e non viceversa (Plat., Resp. 398d). Per capire il concetto di ritmo, lo stesso Platone, in un altro passo, precisa che la musica comprende σχήματα, oltre ai μέλη (Leg. 656d-e) – elementi, dice, che i giovani dovrebbero praticare –, dunque non solo canto-recitazione ma anche figure che si adattano al ritmo o, meglio, con esso si identificano: figure di danza. Il processo educativo che il Filosofo teorizza si compie controllando voce e movimento corporeo attraverso armonia e ritmo. Il movimento è ad es. fondamentale nella definizione di Bacchio: χρόνου καταμέτρησις μετὰ κινήσεως γινομένη ποιᾶς τινος (Bacch., Isag., 93, p. 313, 1-2 Jan), l’identificazione tra ritmo e movimento viene, tra l’altro, suggerita da quel passo aristotelico di Poet. 1447a 27, che dice che i danzatori imitano col ritmo, senza armonia (vi si tornerà più avanti), ma anche da ibidem, 22-23, dove ῥυθμός, λόγος e ἁρμονία sono i mezzi di ogni imitazione, un principio che lo Stagirita ribadisce in 1447b 26, dove ῥυθμῷ καὶ μέλει καὶ μέτρῳ compiono imitazione diverse arti, tra le quali quella tragica, mentre ancora, in 1449b 29-30, ῥυθμὸν καὶ ἁρμονίαν καὶ μέλος sono congiunti come componenti del linguaggio tragico (una analisi del lessema ritmo in Rocconi, Moving the soul through the immovable, pp. 182 ss.; cf. anche Eadem, Music and Dance in Greece and Rome, ma prima ancora l’esame musicale esaustivo, in rapporto anche ai compositori moderni, di Abdy Williams, The Aristoxenian Theorie). Questi tre elementi μέτρον-μέλος-ῥυθμός si trovano di conseguenza associati in vario modo: ancora Plat., Gorg. 502c: «cosa rimane alla poesia se le si toglie la musica, il ritmo e il metro?», che richiama Idem, Resp. 600e-601c «… se priviamo le opere di poesia dei colori della musica, […] non assomigliano forse a come nell’aspetto divengono i volti giovani ma non belli, quando hanno perso la loro freschezza»; e poi Plat., Resp. 397b, 398d cit.: λόγος/ λέξις associato a ῥυθμός e ἁρμονία (i tre elementi della melodia/μέλος); ibidem, 601a: ἐν μέτρῳ καὶ ῥυθμῷ, e cf. Arist., Rhet. 1403b 31; Ar., Nub. 638 ss.); Plat., Leg. 656c: μέλος con ῥυθμός e ῥῆμα. Μέλος e ῥυθμός anche in Dion. Hal., De comp. verb. 11, che tuttavia vi aggiunge la μεταβολή (cioè la varietà, come terzo elemento per
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dare bellezza alla λέξις [da intendere qui come “stile”]), e, in modo molto pertinente, nota musicale, tempo (durata) e sillaba o lettera sono i tre elementi che Soterico dice che debbono arrivare simultaneamente all’orecchio in Ps. Plut., De mus. 35, 1144, p. 128, 23-24 Lasserre. Secondo questo punto di vista dei Greci, molto efficacemente Naerebout definisce la danza «la componente cinetica della musica» (Naerebout, Moving in unison, p. 41); una «parte integrale del modo in cui la gente comunicava» (Naerebout, Dance in ancient Greece, p. 156); espressione fondamentale, dunque, «di un contesto sociale e culturale che essa contribuisce a modellare» (Pelosi, Funzione socio-antropologica della choreia, p. 405). Νon dobbiamo perciò immaginarla o valutarla con i parametri di noi moderni, in quanto gli ὀρχησταί potevano usare ogni genere di movimenti ritmici anche senza usare i piedi (cf. Lawler, The Dance in Ancient Greece, pp. 11-12), e ciò spiega anche come mai tra le fonti sulla danza antica figurano i trattati di metrica. E d’altronde Aristosseno, nella classificazione dei ritmabili, a λέξις e μέλος aggiunge proprio il movimento corporeo al posto del ritmo: a tal proposito Kitto, Dance in Greek Tragedy, p. 36, cita Aristosseno come la migliore autorità sulla «triple partnership», una vera Gestalt, non esistendo isolatamente nessuno dei tre elementi (Wiles, Tragedy in Athens, pp. 90 ss.; su tali indissolubili legami cf. anche Pintacuda, La musica nella tragedia greca, spec. pp. 23 ss. e p. 63). A questo concetto potremmo ancora una volta collegare quello platonico, laddove dice che i movimenti del corpo umano – «la cui maggior parte riceverebbe, a buon diritto, il nome di danza» – hanno contribuito a determinare ritmi e misure (Leg. 814d ss., dove dichiara anche che l’arte della danza è nata dall’imitazione delle parole con i gesti, e distingue le due categorie di danze guerriera [pyrrica] e pacifica [emmeleia] di cui v. più avanti), e che a sua volta la misura musicale è legata ai movimenti del corpo (Phileb. 56a) (cf. Moutsopoulos, La musique dans l’œuvre de Platon, pp. 63-64). Si può osservare che i medesimi tre elementi aristossenici si ritrovano, più tardi, pure negli Excerpta Neapolitana (4-5, pp. 412-413 Jan), nei Fragmenta Parisina (cod. Paris. gr. 3027, f. 33, 9, p. 44 Westphal), nonché nei Προλαμβανόμενα di Psello (ibidem, p. 19, 3), una catena corposa di testimonianze relative dunque a questo che è tra i concetti fondanti della civiltà greca, anche se Gentili, Metro e ritmo nella dottrina degli Antichi, rileva che, già sul finire dell’età classica, le prime libertà di Euripide nel non osservare il rapporto tra sillaba accentata e melodia, preludono ad una frattura tra il sistema linguistico e quello musicale. Egli osserva che tale frattura diventerà definitiva nel periodo ellenistico, quando proprio la nuova teoria ritmica di Aristosseno considererà il ritmo della musica come disciplina autonoma. Aristide Quintiliano, di conseguenza, distinguerà il ritmo verbale fondato sulla quantità delle sillabe, quello musicale fondato su arsi e tesi e quello coreutico fondato sulle figure di danza (De mus., p. 32, 4 Winnington-Ingram: λέξις – melodia – ritmo p. 5, 5; 28, 11; 31, 22; 65, 23; 85, 22; μέτρον associato al ῥυθμός p. 5, 8; 45, 20; mentre definisce il
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μέλος τ έ λ ε ι ο ν (distinto dal μέλος semplice): συμβαίνοντα κίνησις φωνῆς τε καὶ σώματος (p. 5, 9-10), e ancora: μὲν τὸ ἔκ τε ἀρμονίας καὶ ῥυθμοῦ καὶ λέξεως συνεστηκός (p. 28, 8). Sul sistema ritmico greco fondamentale punto di riferimento storico è Georgiadis, Der griechische Rhythmus, e Idem, Musik und Rhythmus bei den Griechen. Cf. anche Westphal, Griechische Rhythmik (Aristox., Rhytm.: Suppl., pp. 3-14). Attenzione alla ritmica offre il volume miscellaneo Gentili – Perusino (edd.), Mousike. Metrica ritmica e musica greca; segnalo anche Raftis (ed.), Ρυθμός και χορός, che, anche se riferito alla danza greca tradizionale, ha uno sguardo retrospettivo. 3) La ὄψις come “parte visiva”, spettacolare della tragedia, che noi moderni qualifichiamo più che altro come scenotecnica, l’insieme di tutti gli elementi propriamente teatrali o messa in scena, di cui fa parte essenziale la scenografia, che è “una messa in scena” (si può avere una messa in scena senza scenografia ma non senza scenotecnica), in questo significato tecnico e in modo prevaricante è stata per la prima volta usata (forse su precedente platonico, Leg. X, 887d?) proprio da Aristotele, probabilmente su sua esperienza diretta nei due periodi di soggiorno ateniese (367-347 e 334-322 a.C.). In una visione globale che ne coglie la valenza ma nello stesso tempo anche il limite, come subito si evincerà, il Filosofo la definisce come l’elemento con il quale si compie l’imitazione, il modo – ὡς – δὲ μιμοῦνται (Poet. 1450a 11) – quel modo che, come detto, viene dal Ns. tralasciato –. La semplice poesia si svolge solo nel tempo, mentre il dramma, che è agire (πράττειν), non può prescindere anche dallo spazio: ecco dunque la necessità dell’allestimento spaziale, e nella sua ampia concezione Aristotele deve riconoscerlo. Lo si vede tre righe dopo, in 1450a 14, che dà allo spettacolo l’importanza di racchiudere dentro di sé tutti gli altri elementi – ἔχει πᾶν –. Eppure, in quel passo precedente, ponendolo assieme alla musica all’ultimo posto nel suo ordine gerarchico, Aristotele ha reso implicito il fatto che, quale tecnica empirica, fondato quindi sui sensi (e non sulla mente), questo elemento, seppure il più vistoso, è del tutto estraneo alla vera poesia: elemento ψυχαγωγικόν, attraente sì, ma ἀτεχνότατον in 1450b 18, e cf. pure 1453b, dove dice che l’effetto pauroso e compassionevole della forma tragedia può risultare dallo spettacolo, ma anche (e soprattutto) dalla struttura in sé della vicenda, il che vuol dire che lo spettacolo deve avere una funzione sussidiaria, di complementarità, rispetto all’opera poetica (vedi anche Perusino, p. 39); un modo elegante di uscirsene, da quell’”uomo di scuola” che dimostra di essere, dichiarando indirettamente che “la scrittura non verbale” non è di sua competenza, laddove ancor peggio Platone nel X libro della Republica aveva completamente bandito, come pura illusione, ogni aspetto artistico, e quindi anche musica e pittura, perché dannosi all’anima. Non ritengo il caso di entrare nel merito di un delicato problema filologico che ha interessato tutta la critica aristotelica riguardo all’esatta lezione dei due passi contigui che in modo differenziato (con l’ὄψις
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rispettivamente all’ultimo e al primo posto) riassumono i sei elementi – si può dire ‘ingredienti’ – della forma artistica tragica cui si è appena fatto cenno (ὄψις, ἧθος, μῦθος, λέξις, μέλος, διάνοια), e secondo i quali Aristotele è stato attaccato per non avere svolto un’analisi sistematica di questi elementi “effimeri” (cf., per es., Morpurgo Tagliabue, Linguistica e stilistica di Aristotele). Nel secondo passo, l’ὄψις come soggetto – lezione confermata da Gallavotti, Dell’Arte Poetica, p. 22 –, che racchiude appunto gli altri cinque elementi messi in accusativo, è la lezione e l’ipotesi che accolgo, contrariamente alle lezioni alternative ὄψιν / ὄψεις complemento oggetto alla pari degli altri elementi, su cui rinvio a Donadi, Nota al cap. VI della Poetica. Suggestive, riguardo alla divergenza dei due punti, le ipotesi addotte da Cantarella, Il dramma antico come spettacolo, spec. pp. 68 ss., ma è inammissibile parlare di ripensamento da parte del Filosofo. Cf. su questo problema anche Di Marco, ΟΨΙΣ nella Poetica di Aristotele, dopo le appropriate riflessioni, nello stesso volume, di Gigante, La parola e la voce. La querelle merita di essere rievocata perché a sostegno di quanto si dirà subito appresso. Ma tornando ancora al fatto che per la tragedia Aristotele dichiari e, anzi, ribadisca più volte che la sua vitalità si manifesta anche alla sola lettura, oltre che sulla scena (1450b 19-20, 1462a 17-18, confermato in 1453b 3-6), ovvero indipendentemente dalla visione, e insomma che lo spettacolo è accessorio se il poeta ha delle elevate qualità, come commentato da Donadi, Nota al cap. VI della Poetica, ciò è in realtà una presa di posizione contro Gorgia. Gorgia definiva la poesia un λόγον ἔχοντα μέτρον, e dunque vedeva nel metro l’esclusivo discriminante tra prosa e poesia, mentre per lo Stagirita l’essenza della poesia è, si è detto e si ripete, la mimesi (Poet. 1447b 13-20, e cf. Rhet. III, 1404a 26, 1405b 38, 1406b 9, 15, 1408b 20, 1414b 31, 1416a 1, 1418a 35, 1419b 4), perché solo la mimesi è la condizione per la catarsi (e quindi per una opera d’arte riuscita). E ancora Gorgia aveva ampiamente mostrato gli straordinari, sconvolgenti poteri dell’ὄψις, di contro alla più mite seduzione del λόγος, sì da aver determinato nella tradizione a lui posteriore un vero e proprio luogo comune sulla sua superiorità, da Platone, a Orazio, a Luciano (cf. Donadi, Nota al cap. VI della Poetica, p. 423). In chiave antigorgiana pertanto Aristotele è il solo a ridimensionare lo spettacolo, e lo dimostra persino nell’altro dei due passi in cui lo cita insolitamente al primo posto: 1449b 33 (il primo è quello già citato e discusso 1450a 14). La scarsa importanza che vi attribuisce è dimostrata non solo dal precedente τι μόριον, ma ancor più dall’ottativo ἄν εἴη che darebbe una sfumatura limitativa («dovrebbe essere considerato»), denunciando una realtà di fatto contrastante con la sua rigida visione. Nella tradizione a lui posteriore tale ridimensione viene recepita dal Trattato Coisliniano (7 e 8, p. 52 Kaibel, dove rispettivamente nella classificazione degli elementi della commedia – gli stessi della tragedia aristotelica – l’ὄψις è all’ultimo posto, e dove poi, quasi come un’ammissione, dice che lo spettacolo è di grande utilità nelle rappresentazioni). E dall’Anonimo?
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Nell’Anonimo non solo non cogliamo lo stesso disprezzo per l’elemento più appariscente ma, anche, (secondo Aristotele) più fatuo di una rappresentazione teatrale, anzi: egli vi volge un’attenzione particolare con ciò che dice subito appresso; tuttavia parimenti, e non senza sottigliezza, l’ὄψις, anzi più pertinentemente le ὄψεις al plurale (un dettaglio sottolineato anche da Bonanno, Recensione, p. 229), secondo un’oscillazione già esistente in Aristotele (per il plurale cf. Poet.1450b 20, 1454b 15, 1462a 16), vengono citate a parte dopo gli altri elementi – ἔτι πρὸς τούτοις, «oltre a questi» –: assieme a tutto ciò che è al di fuori della creazione poetica, e a cui dunque non presiede più il poeta, ma qualcun altro che, contrariamente alla sua consueta sinteticità (o trascuratezza), viene stavolta esplicitato subito dopo, rendendo maggiormente comprensibili questi elementi aggiuntivi, come giustamente osservato da Perusino, p. 40. Dunque: ὄψεις come termine usato nella loro dimensione spazio-visiva, e quindi – a mio avviso – complessive e comprensive di σκηνή, τύπος, κίνησις, allo stesso modo in cui Aristotele vi aveva racchiuso i suoi elementi di tragedia. 4) Non ci si sofferma, in questo punto, sul primo dei tre elementi, la σκηνή, o scena, la cui interpretazione è, o sembra, pacifica e non solleva questioni, quale che sia nell’intento o nella realtà rispecchiata, intesa quindi o come spazio dell’azione o come eventuale elemento architettonico (o di sfondo), come interpretatato e sufficientemente spiegato da Perusino, ma sul cui ventaglio di alternative interpretative si tornerà più avanti. Per il secondo, invece, τύπος/τύποι è la lezione che sono propensa a leggere nel manoscritto (Borthwick in Browning, p. 72) al posto di τόποι (Browning, Perusino, Bonanno), o τρόποι, in senso musicale (Glucker, Notes, p. 268, che parla di «natura caleidoscopica» di questo passo). Sia pure a malapena, infatti, la vocale si mostra aperta nella parte superiore ma, soprattutto, si nota la presenza di uno dei due puntini di dieresi che il copista usa normalmente sovrapporre a ypsilon come pure a iota (il secondo puntino evidentemente nascosto dall’accento acuto). Pertanto, non “luoghi”, che suonerebbe come ridondanza del concetto di σκηνή, anche se si può evocare l’espressione ὁ [...] χορὸς μὲν ὀρχήστρας τόποις di Tzetze, Ἴαμβ. τεχν. περὶ κωμ. 21, p. 40 Kaibel, e dare quindi il senso più ampio di “spazio”; tanto meno “modi” musicali, che saranno oggetto della sezione 5 sulla musica, malgrado si possa ammettere che in questo punto troverebbero un idoneo parallelo nel choregos inteso come chorodidaskalos. Piuttosto, appaiono pertinenti i τὐποι come “forme”, “immagini” o “figure”, e quindi ciò che appare e come appare, in fluire, nel corso di uno spettacolo. In sostanza la coreografia nel suo insieme come assetto teatrale, che nel complesso della ὄψις costituisce propriamente l’aspetto visivo, di valenza estetica, e che riguarda in larga parte – se non completamente – il coro: è al coro, infatti, e non all’attore che spetta la vera e propria performance. È il coro che monopolizza tutto lo spazio dell’azione divenendo il centro focale del
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dramma, e l’Anonimo, pur vivendo in una Bisanzio che del coro non ha esperienza alcuna, mostrerà di conoscere assai bene questa centralità quando, nella sezione successiva, metterà in evidenza che l’ethos, oggetto della mimesi tragica assieme al pathos, si rivela soprattutto nei canti stasimi. Per tale centralità del coro la tragedia è stata classificata nel genere corale – danza corale la considerava già Platone, e cf. ad es. Gagné – Govers (eds.), Choral Mediations, p. 18; ancora, Herington, Poetry into Drama, pp. 3-10, cita la tragedia come la «cultura del canto» –, e gli approcci più recenti in modo precipuo focalizzano tutti gli aspetti non verbali, come spazio, musica, canto e danza (in modo particolare Powers, Athenian Tragedy in Performance, pp. 47-63, sottolinea, a dispetto del rabbioso giudizio di Aristotele [Poet. 1456a 26 ss.] su cui si tornerà più avanti, la sua importanza cruciale che si evince attraverso un gran numero di fonti. Cf. inoltre Vahtikari, Tragedy Performances). A tal proposito, singolare l’interpretazione di Weiner, The Function of the Tragic Greek Chorus, il quale considera il coro tragico un elemento non-drammatico, che non fa parte della teoria ma della produzione per l’appunto: un elemento cioè t e a t r a l e , ideato per l’aspetto musicale-spettacolare (visto che canta e danza) allo scopo di dare un effetto-alienazione. È questa coreografia, che sicuramente riveste la parte più impegnativa dell’allestimento spettacolare, che pertiene ad un professionista qual è il corego (sic l’Anonimo), secondo l’ineccepibile corrispondenza che così risulta, di cui v. subito appresso; un binomio – coro/corego – la cui importanza ci viene evidenziata dal fatto che nei monumenti eretti per le vittorie agonistiche il nome del corego era spesso accompagnato dai nomi di membri del coro (cf. Foley, Choral Identity, p. 3, n. 9). La lezione τύπος, riferita proprio al coro, trova tra l’altro un supporto a mio parere inequivocabile: Tzetze, nel secondo dei suoi Περὶ κωμ. in prosa edito da Kaibel (149-150, p. 29 Kaibel), dopo aver detto dell’entrata e sistemazione del coro nell’orchestra, dice: ἐν τετραγωνίζοντι τοῦ χοροῦ τύπῳ (e cf. anche Idem, Ἴαμβ. τεχν. περὶ κωμ. 38, p. 41 Kaibel), corrispondente a … τετράγωνον εἶχον οἱ χοροὶ σχῆμα di Et. M. 764,1 Gaisford (e cf. Glos. Et. M. 4-5, p. 16 Kaibel), e a ἐν τετραγώνῳ σχήματι ἱστάμενοι di Schol. Dion. Thr. 746b, 8-9, p. 18 Hilgard = 11-12, p. 11 Kaibel. Queste affermazioni sulle figure assunte dai coreuti, inducono indirettamente a porsi, o meglio rievocare, il dibattutto quesito sulla effettiva configurazione, o posizionamento fisico, del coro nella tragedia, se, così come dichiarato per la commedia, una volta entrati dalle parodoi i 15 membri (12 nella tragedia più arcaica) si disponessero nell’orchestra su file lineari di 3 × 5, “forma tetragona” (sostenuta, ad es., da Mathiesen, Apollo’s Lyre, p. 100), secondo alcuni riferito però solo all’entrata (Poll. IV, 108, 17-18, precisa che κατὰ τρεῖς μὲν εἰρήσαν, εἰ κατὰ ζυγὰ γίγνοιτο ἡ πάροδος, riferendo tuttavia una pratica ellenistica che potrebbe essere già cambiata rispetto a quella clas-
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sica, anche se già Elio Aristide diceva che le danze corali erano rettangolari e organizzate secondo la disposizione delle lineee di opliti in battaglia [Or. 46, p. 161 Dindorf]) – ma quello Schol. Dion. Thr. cit. (ἱστάμενοι) dovrebbe escludere tale limitazione, e così anche e soprattutto l’affermazione di Tzetze, Στίχ. περὶ διαφ. ποιητ. 98-99, p. 37 Kaibel, che il fermarsi del coro in forma quadrata è comune alle tre forme di dramma –; oppure, se essi si disponessero in cerchio – disposizione peraltro dionisiaca, e sicura per il ditirambo almeno sino alla probabile riforma di Arione, secondo Proclo, Chrest., 43 (Phot., Bibl. 239, 320a, p. 160, 32-33 Henry), a sua volta attinto ad Aristotele (per la tragedia però, ad es. nega che essa fosse un rituale Taplin, Emotion and Meaning in Greek Tragedy, p. 4 «there is nothing intrinsically Dionysiac about Greek tragedy», posizione opposta a quella di Henrichs, Why should I dance?, che invece focalizza la dimensione dionisiaca della tragedia, peraltro già indicata dal termine medesimo di χορεία, spiegato come «servire gli dei attraverso il mezzo della danza» [p. 66 e n. 46], così come anche Prudhommeau, Histoire de la dance, I, pp. 195-196); Wiles, Tragedy in Athens, pp. 89-90, ritiene rilevante per la circolarità la questione del numero dei danzatori – o se assumessero sia l’una che l’altra disposizione, ipotesi che riterrei più attendibile, sulla base delle differenti situazioni o esigenze delle singole tragedie (su cui cf. ad es. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, pp. 239-242, e il più recente Csapo, Imagining the shape of choral dance [e relativa bibliografia]; anche Ley, Theatricality of Greek Tragedy, che in modo innovativo si approccia alla ricostruzione del coro nella sua coreografia, cap. I, dove la forma circolare viene messa in relazione alle istituzioni democratiche; e David, The Dance of the Muses, che sviluppando il rapporto tra danza e verso, sia epico che lirico, pp. 253 ss. studia la realtà orchestica delle tragiche strofe e periodo, deducendo come il ritmo dato dal λόγος ed espresso col piede marcasse lo stare in cerchio; cf. infine Davidson, The Circle and the Tragic Chorus, che dall’analisi delle formule riguardanti il cerchio nei testi tragici – compresi i vari riferimenti dei cori stessi – deduce che formazioni circolari si realizzassero sia pure non sistematicamente, se non altro perché più consoni alla forma [circolare?] dell’orchestra; e anche Henrichs, Dancing in Athens, che alle auto-referenze dei cori aggiunge l’esame delle proiezioni corali [nel passato o nel futuro], più complesse nel terzo dei tre grandi tragici [p. 49, n. 5, discute sulle scarse argomentazioni di Davidson]; forma dell’orchestra sulla quale pure, peraltro, sono stati espressi dubbi, a partire da una teoria che faceva derivare la forma, trapezoidale o circolare, da tipi diversi di danze: doriche squadrate, e ioniche circolari: essendo più facile una costruzione a spigolo, si è pensato che il primo stadio fosse trapezoidale. Convinto, ad es., Anti, Teatri Greci, p. 109 e p. 322 (con l’ipotesi che si dovette a Policleto l’introduzione della cavea circolare nel IV secolo); critici, tuttavia, Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, p. 27; p. 235 discussione sulle figure del coro, tutte
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ipotizzabili, in linee e in cerchio; cf. poi anche Foley, Choral Identity, pp. 9-10; Powers, Athenian Tragedy, pp. 13-15 [con le due opposte posizioni di Wiles e Ashby]). Quanto all’uso, nel ns. autore, del termine χορηγία, sarei perplessa ad accogliere come eccezionale l’accezione un po’ diversa da quella usuale di sponsor, o finanziatore (ancora viva nella lingua neogreca), che qui indubbiamente si coglie, quell’accezione di κορυφαῖος attestata particolarmente in Platone ed Esichio e Polluce rif. in Perusino, p. 41, e che, diversamente da quanto commentato dal Glucker, Notes, p. 268, ritengo allineata a quella che si evince dalla frase dello stesso Aristotele, Poet. 1453b 7-8, dove il termine viene pertinentemente tradotto «regia» da Gallavotti, Dell’Arte Poetica, p. 45, e come anche viene spiegato da Reich, Χορηγός, col. 2422 («Chorführer»), col riferimento ad Ath. XIV, 633a. Studi recenti hanno, infatti, evidenziato l’importanza del corego “classico” anche da un punto di vista più artistico o immanente allo spettacolo, responsabile non solo della scelta dei coreuti tra i cittadini (non professionisti nel periodo più arcaico – cf. ad es. Baldry, I greci a teatro, p. 42 – ma dopo la metà del IV secolo pare si facesse attenzione a sceglierli tra i più esperti e migliori cantanti: cf. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, p. 90, e cf. discussione in Foley, Choral Identity, p. 8 e n. 33), dell’identità di tutto il coro come gruppo indifferenziato di persone e del suo successo nelle gare, detentore di una leadership che poteva anche arrivare a farlo coincidere col coryphaios (cf. la testimonianza addotta da Wilson, The Athenian Institution of the Khoregia, p. 131; anche Goette, Choregic Monuments, pp. 122-149, il cui esame delle varie tipologie di monumenti coregici è finalizzato a dimostrare l’importanza che tali persone ebbero nella comunità democratica), per cui è stato dimostrato che, oltre che produttore-finanziatore, egli può essere descritto anche come leader del coro (Wilson, The Athenian Institution of the Khoregia, pp. 113-115). In conclusione, non troverei perciò azzardato interpretare il termine nel nostro Anonimo con una valenza a tutto tondo di regia del coro, che non è lontano dalla traduzione di Feaver, More on Mediaeval Poetics, p. 115, «choral director», come compito che normalmente dunque, di prassi, egli doveva svolgere, tutt’al più con l’aiuto di un χοροδιδάσκαλος (e cf. Plot., Enn. III 2, cap. 17). Ma a proposito di quest’ultimo ruolo, vi sarebbe anche da aggiungere, in concomitanza, la considerazione dei mutamenti che, col tempo, ebbero gli stessi autori di tragedie, o poeti: se sino ad Eschilo il poeta era anche attore e chorodidaskalos (e quindi era tutto), con Sofocle il poeta continuava ad essere attore, almeno nei primi tempi (pare che egli non avesse una potenza vocale idonea per cui dovette smettere), mentre dopo di lui il poeta non recitava più ma era invece, per l’appunto, chorodidaskalos (e cf. Capone, L’arte scenica degli attori tragici greci, p. 27). In questa nuova situazione, è anche probabile che l’effettivo regista, o direttore, fosse addirittura l’attore stesso – il primo
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attore (da quando furono tre a partire dall’ultima tragedia di Eschilo, gli altri due, che si scambiavano diverse parti, avevano un’importanza secondaria): verosimilmente ancor di più man mano che questa figura – che non aveva precedenti come invece il coro – aumentava di importanza, nel periodo post-classico, divenendo famoso per il suo virtuosismo (Hall, The singing actors of antiquity, p. 12). Quando la tragedia finì di essere l’espressione politico-sociale della polis per diffondersi fuori dell’Attica svuotata del suo originario significato e divenire un semplice evento di divertimento pubblico prevalentemente estraneo al sentire del civis comune, la classica χορηγία fu abolita (al tempo di Demetrio Falereo secondo Sifakis, Studies in the History of Hellenistic Drama, pp. 37-38; cf. anche Wilson – Csapo, The End of the Khoregia in Athens) e sostituita da un’organizzazione finanziata con fondi pubblici (Csapo and Slater, The Context of Ancient Drama, p. 351), un cambiamento radicale, e dunque una situazione post-classica, che potrebbe riflettersi nel nostro testo. Anzi, è più facile che l’Anonimo faccia riferimento proprio ad un’epoca più tardiva, piuttosto che al contrario, che egli possa riferirsi ai primi tempi in cui il poeta era tutto, e quindi anche regista (su questa evenienza: Di Marco, ΟΨΙΣ nella Poetica di Aristotele, p. 132). Ma in conclusione, è certo più realistico affermare che non si può dare un’interpretazione definitiva a questo passo, che non tenga conto della complessità legata all’evoluzione cronologica. 5) Conseguentemente, intendendo i tre elementi “scenari, forme/figure coreografiche e movimenti” come parti costitutive dell’aspetto spettacolare ὄψις, e quindi tre elementi al di dentro di quello grazie ai quali quello (spettacolo) viene realizzato, si elude il problema di trovare un parallelismo tra strumenti (quattro) e persone addette (che sono tre, menzionate, e non quattro). Così, anche se σκηνοποιός in relazione (più generale e ampia) a ὅψις si trova in Aristotele, Poet. 1450b 20, e nel comico Alessi (fr. 98 Kaibel), nel caso specifico è proprio l’interpretazione di ὄψις in quel passo aristotelico 1450a 14 di cui si è detto – ὄψις al nominativo, come “ombrello” degli altri cinque elementi – che conforta l’opinione che, in conclusione, non sembra necessario inserire qui (come avevano proposto Browning, p. 72, e Glucker, Notes, p. 267) una quarta persona addetta, dopo i tre curatori σκηνοποιός (σκευοποιός di Poet. 1450b 20; Browning, p. 72, porta per questa forma la testimonianza di Poll. VII, 189), χορηγός e ὑποκριτής rispettivi di σκηναί, τύποι e κινήσεις. Questa soluzione, che si presenta come la più logica, si evince anche dalla traduzione inglese di Feaver, More on Mediaeval Poetics, p. 115, e come si era accennato vi è propensa anche Perusino, pp. 39-41, nonostante che nello schema di p. 41 essa presenti una suddivisione dei compiti non del tutto univoca, e differente da quella che qui si ipotizza, ma con la quale concordo invece nel significato propriamente di “realizzare” da conferire al verbo ἀπωδίδωμι. Ricapitolando, in questo passo vedrei insomma così i binomi, o parallelismi, tra gli elementi compresi nell’aspetto teatrale e i loro rispettivi curatori:
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σκηνοποιός (scenografo-costumista) > σκηναί (scene, scenari, coi costumi) χορηγός (regista – coreografo) > τύποι (figure [varie posizioni] e gesti del coro) ὑποκρίτης (attore) > κινήσεις (i movimenti, la gestualità con cui si compie la mimesi, del singolo recitante e in interazione coi movimenti del coro) dove, per concludere, vorrei aggiungere ancora due riflessioni: a. l’importanza dello scenografo, intendendo come τέχνη la scenografia (secondo Arist., loc. cit.), induce a ipotizzare due possibilità (tre se si considera anche quella prospettata da Perusino, loc. cit., di competenze eventualmente estese a quelle di un μηχανοποιός): la prima è che si riferisca alla costumistica (vesti, maschere), secondo il senso che pare avere in Aristotele dal modello classico (se vero è che per l’epoca classica non può parlarsi di scena nel senso moderno: v. infra), e su cui anche Poll. IV, 115 si esprime, spiegando il termine σκευοποιός con “προσωποποιός”, e quindi alla lettera “personificatore”, o colui che rende l’attore personaggio, con tutto il suo abbigliamento; la seconda possibilità è che, invece, abbracci anche la σκηνή vera e propria: «scene-painter» traduce Feaver, More on Mediaeval Poetics, loc. cit., quest’addetto allo scenary (da lui messo al singolare, non rispettando il plurale non a caso messo dall’Anonimo), rievocando con questa interpretazione ipotesi nate a proposito della testimonianza aristotelica che Sofocle abbia inventato la σκηνογραφία assieme all’introduzione dei tre attori (Poet. 1449a 18-19), testimonianza interpretata anche “pittura di scene (o fondali)”, o scene che cominciano «ad aspirare ad una qualche profondità spaziale» (prospettiche): Anti, Teatri Greci, p. 301, o “pittura della scena”: Baldry, I greci a teatro, p. 66; Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, p. 17). Ma si può anche pensare a un apporto scenografico vero e proprio, per vere costruzioni architettoniche – come qui interpreta Perusino le σκηναί, p. 40 – però possibile probabilmente in età post-classica, e allora è lecito chiedersi di quale tipo di scena, e quanto elaborata, ovvero di quale epoca dobbiamo parlare se persino l’espressione aristotelica ἀπὸ σκηνῆς dà adito a molti dubbi da un punto di vista fisico-strutturale: sulla consistenza e l’eventuale sopraelevazione della parte marginale – di fondo – dell’orchestra che era riservata agli attori. Ne riparleremo più avanti, ma si vuole segnalare un problema, che esiste dal momento che, per quanto la terminologia dell’autore si ispiri fondamentalmente a quella aristotelica, la sua continua contaminazione di fonti ci rende oscuro il modello per ogni suo riferimento. b. L’affermazione di Perusino, p. 40, che per movimenti si intendano sia quelli dell’attore e sia quelli del coro, rende un po’perplessi. Non è tanto per il fatto che il terzo parallelismo ha come soggetto l’attore e non il coro (nonostante che il coro debba essere equiparato a un attore secondo Aristotele [Poet. 1456a 26], sia pur con tutti i quesiti posti da quest’affermazione, e solo in tale valenza complessiva si potrebbe parlare di attore tout court):
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viene naturale collegare il movimento con l’azione/πρᾶξις, che nel concetto aristotelico è l’oggetto dell’imitazione (cf. Poet. 1450a 16: mimesi di azione e non di uomini), e quindi con chi quest’azione la compie, divenendo protagonista del drama, del fare (rinvio a Jones, On Aristotle, pp. 24 ss. sui fraintendimenti e le precisazioni di questo concetto di azione, nella quale la stage-figure di Aristotele è la maschera, pur senza essere mai nominata). I movimenti del coro si dovrebbero, piuttosto, desumere dai precedenti τύποι, termine attraverso cui – in quanto forme o immagini – penso si possano immaginare con eguale legittimità sia le posizioni dei coreuti da fermi quanto le loro eventuali circonvoluzioni ritmiche di danza, secondo una sottile distinzione di σχήματα e κινήσεις di cui si parlerà più avanti. Su tutti i possibili movimenti scenici del coro – quelli che avvenivano durante gli stasimi e gli episodi – cf. Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 260 ss. Sono, piuttosto, le testimonianze che la Perusino riporta da Aristotele, Poet. 1461b 30, 1462a 8 e 11, che non sembrano alludere a movimenti del coro in modo specifico. Il Filosofo prende posizione contro la volgarità di una eccessiva gesticolazione nel primo passo, ed elogia la tragedia che produce il suo effetto (catartico) anche senza mimica nel terzo. Solo nel secondo dei tre passi viene chiamata in causa la danza vera e propria (εἴπερ μηδ’ὄρχησις) per ribadire in sostanza il medesimo concetto di disprezzo per le forme mimiche più accentuate, che diventano volgari, e per concludere affermando la superiorità della tragedia sull’epopea, perché «produce il proprio effetto anche senza mimica» (trad. Gallavotti, Dell’Arte Poetica, p. 113). Nulla a che vedere, dunque: malgrado la terminologia di base aristotelica, Aristotele è per l’Anonimo una reminiscenza o, piuttosto, un punto di partenza da cui poi si allontana. Solo una riflessione su questo concetto aristotelico della superiorità del dramma: più avanti esso viene dal Filosofo rafforzato con l’aggiunta di un elemento in più, la musica (οὑ μικρὸν μέρος τὴν μουσικὴν κατὰ τὰς ὄψεις: Poet. 1462a 15-16), un’affermazione che sembra contraddittoria con la sua concezione, di cui si è detto prima, che lo induce a non parlare della ὄψις (ma cf. Polit. 1340a 18-22, sul potere della musica nel formare i caratteri) e che è stata perciò considerata una forzatura, cui già aveva reagito l’estetica degli Epicurei: rinvio a Gigante, La parola e la voce, pp. 16 ss., e all’analisi di Sifakis, Aristotle on the Function of Tragic Poetry, spec. pp. 54 ss. e 72 ss., che focalizza nel concetto di catarsi (di cui sopra, p. 42, e cf. anche 145, n. 233) la vera chiave d’interpretazione della funzione della tragedia, come il medesimo Stagirita dice esplicitamente in Poet. 1462b 23-26, sancendo definitivamente su questo presupposto la sua superiorità sull’epica. E per quanto, poi, attiene ai movimenti stessi dell’attore – la cinesica come codice teatrale, cui dedica l’attenzione Rossi, Livelli di lingua, gestualità, pp. 68 ss. – sono opportune altre puntualizzazioni. In concreto brancoliamo
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quasi nel buio anche in questo caso, nonostante che si raccolga la documentazione di una grande varietà di spostamenti fisici e gesti anche forti dei personaggi e, insomma, di un’arte assolutamente libera e creativa sia attraverso i testi delle tragedie superstiti che attraverso l’iconografia della ceramica: «theatrical bodly signs»: Valakas, The Use of the Body by Actors in Tragedy, che parla della postura come movimento espressivo, e del significato simbolico delle mani dell’attore, che in età post-classica va incontro a vero e proprio manierismo; e a tal proposito, cf. in particolare la discussione di Powers, Athenian Tragedy, pp. 65 ss. sui cambiamenti del tardo V secolo dei quali Euripide appare pioniere, con la critica dell’attribuzione, a detti mutamenti, di categorie stilistiche quali «realismo», «manierismo», «naturalismo» in quanto inapplicabili a un contesto storico differente da quello per il quale esse sono state create. Un elenco dei possibili movimenti (di scontro, di partecipazione emotiva, di sofferenza, di agitazione, ecc.) in Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 193-198, mentre Sifakis, Looking for the actor’s art, p. 160, parla di differenziazione di registri e di livelli di stati emozionali. Baldry, I greci a teatro, pp. 84-85, nota però che il modo in cui gli attori erano abbigliati e soprattutto la maschera – che pur caratterizzando il personaggio (rivelava il carattere rendendo insignificante l’attore: Sifakis, Looking for the actor’s art, loc. cit.) dava al volto una fissità che impediva movimenti di espressione – non poteva lasciare troppo spazio né ad una vera e propria caratterizzazione dei protagonisti né a tipi di performances del tutto libere – causa anche il poco spazio a disposizione davanti alla σκηνή –; anzi, induce a immaginare un modo codificato, stilizzato, piuttosto semplificato e non realistico, di comportamento e gestualità, in cui peraltro l’elemento fondamentale era la possenza vocale, cosa che, invero, spiegherebbe anche la preminenza data all’azione – favola, intreccio – più che ai caratteri (malgrado la flessibilità con cui i caratteri individuali erano trattati dai poeti, la cui creazione costituiva la parte fondamentale della loro attività artistica, come evidenziato da Yoon, The Use of Anonymous Characters in Greek Tragedy), e spiegherebbe dunque anche lo sviluppo maggiore dell’arte della danza corale rispetto all’arte dell’agire, in quanto quella era regolata dal ritmo e, pertanto, soggetta a schemi più fissi, sì che sulla ὄρχησις abbiamo maggiori testimonianze (Plat., Leg. 655d, chiama «imitazioni di caratteri» le performances corali; cf. Foley, Choral Identity, p. 7). Ma è d’altra parte anche vero, come riflette Di Marco, La tragedia greca, pp. 90-91, che una declamazione antinaturalistica o troppo improntata alla tipologia epica avrebbe ostacolato quella immedesimazione del pubblico nei personaggi che portava alla catarsi, per cui, senza escludere un certo grado di stilizzazione, magari più accentuata nel periodo più arcaico, «sarà preferibile pensare ad una recitazione che fosse di tipo prevalentemente realistico-mimetico». Eppure, Aristotele ancora una volta ci dà qualche indicazione tra le righe,
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anche se non sodisfa pienamente i nostri interrogativi: Poet. 1455a 23, dove dice che il poeta, quando compone, deve avere innanzi agli occhi la scena e, più avanti (1455a 30), che deve fare questo per quanto possibile tenendo conto τοῖς σχήμασιν: «atteggiamenti dei personaggi» traduce Gallavotti, Dell’Arte Poetica, p. 61, ma l’espressione è stata riferita ai movimenti veri e propri, tranne Else, Aristotle’s Poetics, pp. 490-495, che la riferisce alle figure di dizione invece che a quelle dei gesti. Sugli attori tragici, oltre a Sifakis, Looking for the actor’s art (che sottolinea la duplice valenza dell’attore: da un lato “impersonator”, e dall’altro era chi recitava un componimento poetico), cf. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, pp. 127-231, Csapo, Actors and Icons, e la bibliografia esaustiva in Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 201-207. Sullo stile delle performances rinvio a Green, Towards a reconstruction of performance style, che ritiene gli elaboratissimi costumi un indice della professionalità degli attori, che sembrano però in contrasto col realismo del dramma contemporaneo di cui parlano le fonti. Sui costumi, per i quali abbiamo testimonianze più chiare verso la fine del V secolo, quando diventano fissi, mentre dopo le notizie si fanno alquanto confuse, cf. Webster, Greek Theatre Production, pp. 35 ss. 6) Le parti (μέρη) “quantitative” – κατὰ ... τὸ ποσὸν, che sono gli elementi con i termini tecnici basilari di Poet. 1452b 15-17 – della tragedia: prologo, episodio, esodo, parte corale (χορικόν) e parte ἀπὸ σκηκῆς, dove intenderei il termine “parte” più che come ruolo come segmento costitutivo dell’opera teatrale (cf. a proposito di queste precisazioni concettuali Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 164 ss.). Nei primi quattro elementi l’Anonimo sembra seguire pedissequamente Aristotele, loc. cit. (πρόλογος, ἐπεισόδιον, ἔξοδος, χορικόν), ma lo stesso elenco di quattro offrono anche il Trattato Coisliniano (9, pp. 52-53 Kaibel, per la commedia), e le diverse redazioni del Περὶ κωμ. tzetziano (69, p. 21 Kaibel; 125, p. 28 Kaibel = 10-11, p. 8 Cramer, Anecdota Graeca I; Ἴαμβ. τεχν. περὶ κωμ.11 ss., p. 40 Kaibel), qui però con la variante, per χορικόν (μέρος): μέλος χοροῦ, secondo l’espressione aristotelica di Poet.1452b 23 riferita allo stasimo (un passo che è evidente Tzetze abbia innanzi, come mostra nella sua definizione appunto di stasimo, ai vv. 51-52, p. 44 Kaibel). Questa variante non mi sembra priva di fondamentale importanza – come si capirà più avanti – in quanto rende direttamente esplicito quanto, ad es. nel Trattato Coisliniano 9 cit., viene dato come spiegazione appunto di χορικόν, un termine che potrebbe in certe posizioni diventare ambiguo, come avviene per Poet. 1452b 17-18, di cui si discuterà a breve. Ed è proprio ciò che segue a far dubitare che l’Anonimo si sia attenuto ad Aristotele, elaborando e semplificando – come vuole Glucker, Notes – le due liste di 1452b 16 e 18 (e 22 ss.), dove al coro sono attribuiti solo πάροδος, στάσιμον e κομμός in comune con l’ἀπὸ σκηνῆς. Piuttosto, è proprio in Tzetze, Περὶ τραγ. ποήσ. 9 ss.,
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e 75 ss., pp. 43 e 44 Kaibel, dove riporta fonti imprecisate, che, in modo più articolato, troviamo prima κατὰ τύπον classificate le due parti/μέρη della tragedia come modi / τρόποι σκηνικός τε καὶ χοροῦ, e poi le cinque parti corali nello stesso identico ordine del trattato, compresa l’ἐμμέλεια ignorata da Aristotele (e per questo Browning, pp. 73-74, parla di una fonte comune col Nostro, ipotesi ripetuta da Koster, Prolegomena de comoedia, I A, p. 80, e cf. Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 12; cf. poi ibidem, pp. 65 ss., 73 ss.); ma prima ancora troviamo queste cinque parti liriche così raggruppate in Poll. IV, 53, anche se dice κομματικά per κομμός (e cf. al riguardo Aly, Stasimon, in part. col. 2160, secondo il quale Polluce tradirebbe un collegamento indiretto [il corsivo è di chi scrive] ai tre elementi aristotelici πάροδος-στάσιμον-κομμός). Siamo davanti alla struttura elementare convenzionale del dramma, che Aristotele per primo ha descritto in modo semplificato, e che trova corrispondenza nelle tragedie sopravvissute, anche se non rende tutta la complessità nei metri e nei ritmi che ciascuna singolarmente può presentare (e cf. Perusino, p. 42, sull’ipotesi di O. Taplin che il cap. 12 di Poetica non sia originale). Aristotele ha costituito un modello normativo, che è rimasto basilare nel tempo perché universalmente valido; un modello che, nel dare la spiegazione di ciascuno di questi elementi, lo fa in funzione del coro pur non dando al coro una trattazione adeguata (visto che lascia aperta la questione del trattamento teoretico di esso, e cf. infra): il posto che ogni parte ha rispetto al canto corale, essendo proprio i canti del coro – quelli strutturati in forma strofica – a separare le parti recitate, come fossero diverse scene nel significato odierno, e dunque quanto basta – il minimo – a dargli comunque un’importanza strategica di snodo nello svolgersi dell’azione (Poet. 1452b 19-22). Anche Tzetze, Περὶ τραγ. ποιήσ. 21-25, pp. 43-44 Kaibel, adotta – solo in questo punto – un criterio simile di distinzione, ma con la differenza che ogni parte in lui è μέρος riferito al λέγειν e non al canto del coro, probabilmente da intendere, più che in modo rigido “recitare”, semplicemente come pura manifestazione verbale: v. Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 70 ss., e infra, sez. 4, 20-21. Si tratta di particolari che, si noti bene, l’Anonimo omette, seguendo una sinteticità che gli è propria. Ciò è già sufficiente a mostrare come, da quel modello di base, che mirava a dare un’idea essenziale, la tradizione posteriore ha integrato e ampliato, mescolato e contaminato, migliorando secondo alcuni o peggiorando quello schema secondo altri (tra i primi: Janko, From Catharsis to the Aristotlian Mean, p. 239; tra i secondi: Kaibel, Die Prolegomena, p. 7, e cf. Pace, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, p. 241 n., e Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 66), arrivando così a quella lunga lista delle dieci parti della tragedia, che in realtà sono poi nove (manca l’esodo, e v. Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 99), che Tzetze riferisce da quella sua fonte questa volta nominata che sembra la più importante, Euclide (94-121, pp. 46-47 Kaibel, dopo gli altri riferimenti ai
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vv. 39-41, 43-45, 53-56, 60-61), costituita da πρόλογος, ἄγγελος, ἐξάγγελος, πάροδος, ἐπιπάροδος, στάσιμον, ὑπορχηματικόν, ἀμοιβαῖον, σκηνικόν, la stessa lista offerta dall’Anon. Par. in Cramer, Anecdota Graeca I, pp. 19-20 (εἴδη τῆς τραγικῆς ποιήσεως), e su cui si tornerà a proposito dell’ὑπόρχησις che sostituisce l’ἐμμέλεια. Di questa mescolanza non rimangono altre tracce, come pure sembra rimanere senza seguito la seconda lista tzetziana (122-129, p. 47 Kaibel) che il dotto bizantino riporta, ancora una volta, da “altri” (ignoti), che sembrerebbero comunque questa volta corrispondere, sia pure non alla lettera, agli Schol. Dion. Thr. 314c, 14-315c, 1, pp. 451-452 Hilgard (cf. Pace, La struttura della tragedia, p. 112 e n. 7, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 233-234, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 17, e p. 116): πρόλογος, ῥῆσις, ἀμοιβή, ἄγγελος, ἐξάγγελος, σκηνικὴ ᾠδή, κούρισμα, σάλπιγξ, σκοπός, χορός (questo definito σύστημα πρὸς μέλος λέγων, che corrisponde a quel μέλος χοροῦ di cui sopra, ma che in Sch. Dion. Thr. cit. presenta la variante σύστημα πλειόνων ἐμμελῶς τὰ προκείμενα φθεγγομένων), l’opposto di ῥῆσις, definito λόγος ... ὑποκριτοῦ λέγοντος), prima di dichiarare di voler mettere ordine a nozioni confuse, avanzando a sua volta una classificazione sua propria (155-182, p. 48 Kaibel), che propone uguale anche a proposito della commedia e del dramma satiresco (e su cui cf. Pace, La struttura della tragedia, pp. 114 ss., e Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 125-136), e che offre qualche variante rispetto alle sue fonti perché cerca di fonderle o accorparle, nel tentativo, che rimane tutto esclusivo nell’arco di questa tradizione, di semplificare, soprattutto sulla base di una più sottile distinzione dei campi. Vale la pena intanto riportarla in breve, per riflettere successivamente su alcuni elementi, in rapporto al nostro testo: α. Πρόσωπα, che distingue in σκηνικόν = 1 attore (e qui sono collocati gli σκοπούς, σάλπιγγας, ἀγγέλους, ἐξαγγέλους presi da Euclide e dagli “altri”, di cui in parte alla sezione 3 del ns. trattato) e χορόν = molti attori (in uno, in virtù della sua compattezza). Credo che questa prima classificazione sia determinante per chiarire meglio quale senso dare ai termini analoghi del nostro Anonimo. Da notare che, in quanto πρόσωπα, termine in cui è pregnante l’idea della maschera con tutto l’universo caratteriale che essa può rievocare, quello dell’attore si suddivide nei ruoli elencati, indivisibile invece è la parte del coro (vv. 162-165): esattamente al contrario delle parti cantate, indivisibili nell’attore e suddivisibili in cinque parti nel coro (28-29, 71-72, 83-86, 175-176). β. Λόγους, che egualmente alla sua fonte Tzetze divide in metro e periodo – qui intesi come parte di “dizione”, mentre prima, vv. 9 ss. (secondo le sue fonti), erano una suddivisione della λέξις e cioè della recitazione, distinta rispetto alla ᾠδή, come farà l’Anonimo alla sez. 4 –, per includere nel metro quattro parti: prologo, rhesis, episodio, esodo (le parti recitate); e poi amebei, kourismata, canto scenico (σκηνικὴ ᾠδή), canto corale (χορευμάτων)
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(le parti liriche, evidentemente inserite nelle periodi, al contrario della fonte di vv. 9-86 che come appena detto considerava le periodi parti della λέξις, e quindi recitate in opposizione all’ᾠδή /parte cantata: un’oscillazione, per la periodo, equivalente al comportamento dell’Anonimo tra sez. 4 e sez. 7), attingendo da Euclide prologo, amebeo e canto scenico, e dalle altre fonti a quello posteriori rhesis, kourisma, canto corale; e attribuire a quest’ultimo – al canto corale – parodo, epiparodo, stasimo e ὀρχηματικόν. Da osservare che l’esodo è qui assente tra le parti liriche (dove invece compariva ai vv. 31, 72, 85), viene invece collocata tra i metri all’interno della λέξις, quindi come parte recitata, come già ai vv. 20 e 81, ed anche 24 che però si riferisce al coro come λόγος χοροῦ, in modo analogo ai vv. 16-17 dell’altra sua opera Ἴάμβ. τεχν. περὶ κωμ.: «dopo il quale il coro non p a r l a – non si esprime – più» (p. 40 Kaibel). Cf. Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 131 ss., anche sull’incongruenza di Tzetze del v. 169 e sulla sua scelta a proposito dell’esodo per eludere le discrepanze delle fonti. Ora, tornando al testo del trattato, su tutto questo blocco credo che occorra ancora una volta soffermarsi a riflettere sulla tanto controversa espressione ἀπὸ σκηνῆς cui sopra ho fatto cenno. In base all’analoga espressione di due passi di Aristotele, Poet. 1452b 18 su menzionato, e poi 25, già Glucker, Notes, p. 269, Feaver, More on Mediaeval Poetics, loc. cit., con la traduzione «on-stage songs», e successivamente Perusino, p. 42 (anche Pace, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, p. 239; Eadem, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 73, 114-115), traducono qui «melica scenica» o «monodie (canti) dell’attore», una lettura consueta che, però, trova a mio vedere spiegazione solo nel primo dei due passi aristotelici richiamati, che dobbiamo indagare se possa adattarsi anche all’espressione del ns. autore. Occorrerebbe, infatti, innanzitutto fare una distinzione tra i due passi. Nel primo caso l’espressione è preceduta dall’articolo τὰ, ed è opportuno ricordare il problema esegetico che questo passo offre. Aristotele elenca πρόλογος, ἐπεισόδιον, ἔξοδος (parti recitate), χορικόν (parte del coro [?]). Poi séguita attribuendo al χορικόν (καὶ τούτου) parodo e stasimo. E infine la frase rebus, che dice: κοινὰ μὲν ἀπάντων ταῦτα, ἴδια δὲ τὰ ἀπὸ σκηνῆς καὶ κομμοί: un’antitesi, κοινά e ἴδια, dove il primo aggettivo si presta ad essere interpretato sia riferito a tutti gli elementi precedenti, e sia solo a parodo e stasimo del χορικόν, per cui i successivi due elementi peculiari apparterrebbero pure al χορικόν, creando una contraddizione per i τὰ ἀπὸ σκηνῆς, perché ciò che è del coro non è dell’attore. Il problema si risolverebbe dando al χορικόν il senso non più esclusivo del coro, ma generale di χορικὸν μέρος/”parte cantata”: solo così sarebbe legittimo intendere i τὰ χορικὰ μέρη ἀπὸ σκηνῆς come ᾄσματα (peraltro corroborato dall’espressione affine e più esplicita in Ps. Arist., Pr. XIX, 15 [918b 26-27] τὰ μὲν ἀπὸ τῆς σκηνῆς οὐκ ἀντίστροφα, τὰ δὲ τοῦ χοροῦ ἀντίστροφα). Saremmo insomma autorizzati a inserire nell’ambigua
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espressione aristotelica ogni possibile forma lirica, sia degli attori che degli attori col coro, e quindi monodie, duetti e terzetti e tutte le forme di amebei, quelli non trenetici, e quelli lirici e lirico-epirrematici; quindi, logicamente, vi trovano posto anche i kommoi, i “compianti” che Aristotele pertinentemente vi associa. Sulla questione si veda Pace, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, p. 240, e Le parti della tragedia nella teoria post-aristotelica, p. 100; anche Scattolin, Aristotele e il coro tragico, pp. 162 ss., e Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 397-398, n. 1, che interpretano che i canti dalla scena e i kommoi sono propri di alcune tragedie, diversamente da Gentili, Il coro tragico nella teoria degli antichi, p. 27, che intende ἴδια «peculiari» della tragedia. Cf. anche Diehl, Kommoi, in part. coll. 1196-1197; Gentili cit., pp. 29-30; Marzullo, La definizione della parodos, in part. pp. 29-30). È tuttavia opportuno tener presente che, benché maggioritaria, non è neanche unanime l’interpretazione come “canti”: Mathiesen, Apollo’s Lyre, p. 96, dà infatti la seguente traduzione, su cui non si è vista alcuna valutazione critica: «These parts are common to all tragedies; individual are the characters on the stage and the kommoi», che quindi riferisce l’articolo neutro plurale a un ipotetico ἤθη che mette in evidenza la varietà nella caratterizzazione dei personaggi, che rende “singolo”, individuale per l’appunto ciascun personaggio come ruolo, o μέρος; vedrei pertanto questa differente, anzi esclusiva interpretazione [ἤθη] sovrapponibile a τὰ [μέρη] ἀπὸ σκηνῆς, coerentemente ai μέρη che apre tutta la frase e da cui dipende tutta l’elencazione, un’interpretazione che mi convince, come adesso si capirà. Ma passiamo per il momento al secondo caso offerto, poco dopo, dal testo aristotelico, dove il riferimento è al kommos, «comune – dice Aristotele – χοροῦ καὶ ἀπὸ σκηνῆς» (senza articolo), e quindi al coro e all’attore come ruoli (e cf. Scattolin, Aristotele e il coro tragico, p. 164: si tratta della «performance cantata dell’attore che si alterna al coro»; cf. poi Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 253-260 sui rapporti tra attore e coro). In modo identico, posteriormente anche Tzetze, Περὶ τραγ. ποιήσ. 69, p. 45 Kaibel, dà la medesima spiegazione di kommos, riferendola infatti a qualcun “altro” – è la seconda volta che in questo modo allude ad Aristotele – e pertanto scrivendo: “κοινὸν χοροῦ σκηνῆς τε ...”, dove dunque usa l’espressione semplice σκηνή, senza cioé implicazione di canti. Messa a fuoco tale premessa, scaturiscono le osservazioni che seguono: 1. I due passi, si ribadisce, non sono accostabili, nel senso che l’espressione ἀπὸ σκηνῆς, che si riferisce certamente agli attori, ricorre con un diverso oggetto di attenzione: i loro canti (o caratteri?) in uno, ed essi stessi attori nell’altro. 2. Intendere “canti” dell’attore l’ἀπὸ σκηνῆς di questa sez. 1 del trattato malgrado l’assenza di articolo, presuppone come fonte dell’Anonimo il primo dei due passi aristotelici – se si considera l’interpretazione generale “canti”–. A parte quel punto di Aristotele, bisogna però dire che anche la fonte tzetziana
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Euclide – e l’Anon. Par., che con quella coincide – dà la medesima spiegazione melica del termine σκηνικός (equivalente di ἀπὸ σκηνῆς): ὅτε τῶν ὑποκριτῶν εἰς ᾠδὴν φέρηται. La sola differenza sta che, nel riportare la sua fonte, Tzetze, vv. 119-120, mette il termine al neutro con articolo τό, come πρόσωπον, mentre l’Anon. Par., p. 20 Cramer, Anecdota Graeca I, usa σκηνικός senza articolo – come peraltro gli altri elementi – e al maschile: il maschile dunque come sostantivazione dell’aggettivo, che propriamente allude all’attore. Una spiegazione, in questa circoscritta definizione del termine, potrebbe trovarsi nel fatto logico che esso è il quarto ed ultimo di una serie che fa riferimento a parti liriche, dopo cinque elementi riferiti invece alle parti recitate; ma è più probabile che in esso sia sotteso un lontano influsso aristotelico, in un’espressione che sembra glossare proprio quel passo di Poetica. 3. Per il ns. testo, però, credo che sia determinante ciò che abbiamo messo prima in rilievo: che la sua fonte primaria non sia Aristotele, e in questo caso nemmeno la fonte tzetziana di ascendenza aristotelica, bensì quelle fonti che Tzetze non precisa. Abbiamo detto che a quelle porta la sottoclassificazione successiva dei canti del coro (ο, piuttosto, delle parti giocate dal coro, visto che vi figura anche la danza tragica: su questo problema v. infra). Ora è Tzetze che, riferendo quelle sue fonti, 9 ss., e 75 ss., divide i due μέρη nei due τρόποι σκηνικός e χοροῦ; di nuovo però a 159-60, nella sua personale suddivisione, queste due parti σκηνικόν e χορόν non più τρόποι sono le due articolazioni dei πρόσωπα, di cui sopra: un attore, e più attori = coro. In questo nostro punto l’Anonimo sta analogalmente elencando le parti di cui si compone la tragedia: dopo i tre segmenti che sono la struttura portante del dramma come azione: prologo, episodio, esodo, la suddivisione simmetrica tra parte del coro da un lato, e parte “dalla scena”, ovvero parte dell’attore dall’altro, che a quella viene contrapposta, è quella primaria e maggiormente caratterizzante dell’arte scenica. Esattamente così è anche in Ps. Arist., Pr. XIX, 48 (922b17), stavolta con l’articolo maschile οἱ ἀπὸ σκηνῆς, e ricordo anche Poll. IV, 123: καὶ σκηνὴ μὲν ὑποκριτῶν ἴδιον, ἡ δὲ ὀρχήστρα τοῦ χοροῦ, malgrado sia stato molto discusso. In conclusione, così com’è il testo stringato che l’Anonimo ci dà, che non è esattamente né quello di Aristotele né tanto meno quello di Euclide, mi sembra di primo impatto forzato intendere come se fosse sottinteso un τὰ – scil. “canti” – non specificato o (almeno apparentemente) non voluto dall’autore: pur ammettendo la difficoltà del passo, sarei più propensa a intendere in questo punto l’espressione ἀπὸ σκηνῆς semplicemente come l’opposto di χορικόν, come “parte” costitutiva, o πρόσωπον, un’interpretazione che si allinea a quella di Mathiesen del τὰ ἀπὸ σκηνῆς aristotelico, che mette al centro il “carattere”/ essenza del personaggio piuttosto che i canti, e che in sostanza vedo come pendant della parte del coro.
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Da notare che lo stesso significato di distinte “parti” si trae anche in Pace, La struttura della tragedia, p. 118, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 65 (e passim), ad v. 9, nonché Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, p. 234, malgrado dopo, p. 239 (ma anche in Giovanni Tzetze la poesia tragica, locc. citt., ad vv. 10 e 119-120), essa specifichi l’attribuzione come si è detto ai canti dell’attore, così come si deduce anche a p. 240 in cui, affiancando la classificazione rispettiva del ns. Anonimo e di Tzetze (come anche in Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 66), dice che essa «permette di separare le sezioni cantate dagli attori (σκηνικὴ ᾠδή Tzetze, ἀπὸ σκηνῆς Anon. Barocc.) da quelle cantate dal coro, mentre in Arist., Poet. 1452b 17 sg. τὰ ἀπὸ σκηνῆς, i canti degli attori, sono compresi nel χορικόν» (e qui interviene la soluzione di cui si è detto, di intendere questo termine come generica “parte cantata”), e anche al v. 119 di Tzetze – verso che riporta quella definizione euclidea del termine σκηνικόν (τὸ) che abbiamo commentato dal codice parigino (quindi la parte dell’attore quando canta, lì al maschile) –: per analogia, anche qui Pace interpreta “canto dell’attore” l’ἀπὸ σκηνῆς di questa sez.1, assumendo quindi tacitamente l’ascendenza aristotelica senza distinzioni (Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 114). Tant’è vero che, non solo essa menziona insieme i due punti della Poetica (p. 240) che abbiamo spiegato come sarebbe opportuno considerare in modo distinto ai fini di una corretta esegesi, ma prima (p. 234), riportando tutti i passi in cui Tzetze usa l’equivalente espressione σκηνικόν, non fa distinzione tra σκηνικόν come “parte” e σκηνική come attributo di ᾠδή. Pertanto, nella lista dei vv. 28, 76, 86, 98, 119, 124, 129, 160, 162, 174, 175 a p. 234 n. 33, sarebbero da eliminare, o da distinguere, i vv. 28, 86, 124, 129, 174, 175 perché – quelli sì – esplicitamente riferiti alla parte melica dell’attore, e non all’attore in sé. Si tornerà comunque ad approfondire questo punto a proposito della sez. 4, dove, esattamente come in Tzetze, Περὶ τραγ. ποιήσ. 9 ss. cit. (da altre fonti), questa distinzione tra le due parti scenderà alla più precisa articolazione tra rispettivi “modi”, che porterà ciascuno, quello χορικόν e quello ἀπὸ σκηνῆς, a sconfinare nell’altro, in un vicendevole scambio tra la parte cantata e quella recitata: una sottilissima differenziazione a mio avviso sottesa nella terminologia, che probabilmente non sempre è stata colta, inducendo all’equivoco di accorpare i due rispettivi punti dell’Anonimo (di sez. 1 e sez. 4) per accostarli indifferenziatamente assieme alla classificazione dei “modi” tzetziani. Correttamente però Perusino, p. 42, commenta: «Diverso alla r. 28 il significato di τρόπος ἀπὸ σκηνῆς». Infine, la difformità che si osserva nell’evoluzione della tradizione mostra quanto irta e ambigua fosse l’interpretazione del pensiero aristotelico (anche a causa dell’insufficienza della sua stessa articolazione). L’ἀπὸ σκηνῆς si riduce, come si vede, nella tradizione posteriore, nel sinonimo σκηνικός / όν che, a seconda del genere, può indicare l’attore (= τὸ πρόσωπον; anche impiegato al maschile riferendolo a quando l’attore canta su ascendenza aristotelica
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[Anon. Par.]) o il τρόπος recitato (v. sez. 4), oppure il canto dell’attore se esplicitamente espresso, ove piuttosto che l’arcaico μέλος o ᾄσμα si preferisce il più pragmatico termine ᾠδή (canzone). Si può notare come l’Anonimo, con un atteggiamento tutto intellettualistico, abbia la pretesa letteraria di distinguersi dai suoi contemporanei (o predecessori?), intanto attingendo al sostrato della più genuina tradizione aristotelica (che potremmo ritenere topica) nell’aspetto puramente tecnico, terminologico più che nella sostanza, oramai scolorita; quindi, di quei termini “classici” non più correnti se ne serve gestendoli in un modo strano che a noi moderni risulta certamente alquanto ambiguo, ma che è frutto della mescolanza e cernita delle sue fonti. 7) Nell’elenco delle parti pertinenti al coro, va esaminato il termine ἐμμέλεια. Esso ricorre tre volte nel trattato: a. qui, tra le parti della tragedia, e più precisamente come detto di competenza del coro; b. in una classificazione simile con lo stesso significato di “parte” della tragedia nella sezione 4, dove però si ribadiscono meglio queste suddivisioni di competenza tra l’attore e il coro e, anzi, si precisa che le parti del coro sono cantate (τῆς δὲ ᾠδῆς, ἡ χορικὴ εἰς πέντε μέρη διῄρηται), così come in Polluce, cit., lo stesso elenco riguarda i μέλη χορικά: l’ἐμμέλεια figura perciò come parte c a n t a t a del coro; c. nella sezione 11 (vedi), dove finalmente si dà una definizione esplicita – mancante nei due casi precedenti – che però segue la tradizione più antica, a partire da Esichio, s.v. ἐμμέλεια, e poi da Aristosseno (fr. 104 Wehrli): essa cioè viene spiegata come danza tipica della forma tragedia, così come la sikinnis è danza della rappresentazione satirica (danza sacra [ἱερατική] dei Satiri, affettata ma vigorosa, collegata alla pantomima) e il kordax – κορδακικός rif. a ῥυθμός in Arist., Rhet. 1408b 36 – lo è della commedia, descritta come danza triviale e oscena, onde κορδακίζειν viene da Suida glossato: αἰσχρῶς ὠρχεῖται. Ora, non posso fare a meno di rievocare come unanimemente, negli studi precedenti, si sia vista una discrepanza tra queste rispettive accezioni del termine ἐμμέλεια (canto e/o danza) nel nostro trattato, su cui rinvio direttamente a Perusino, p. 43, ma si veda anche Pace, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, p. 255, e soprattutto lo studio specifico di Centanni, Emmeleia (non citato da Perusino malgrado sostenga la medesima tesi). Attraverso analisi delle fonti, questo studio mira a giustificare tale presunta incoerenza percorrendo l’evoluzione cronologica del termine e il suo slittamento semantico sino a confondersi col senso di hyporchema = “canto corale parte di tragedia”, “accompagnato da danza” (p. 103).
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Vorrei affrontare una per una queste tre diverse ricorrenze dell’Anonimo, nel rispettivo contesto testuale. Per quanto dunque attiene a questa prima menzione, una volta precisate le due parti χορικόν e ἀπὸ σκηνῆς, come ho già anticipato l’autore vuole qui semplicemente elencare, in una lista di μέρη, quali sono tutte le parti, o porzioni, che spettano al coro, quali dunque che siano, sia canto – o parola – che movimento. Dissento, dunque, dall’opinione (vedi opp. citt.) che qui l’Anonimo la intenda tout court come “canto” e, anzi, non ritengo che questo primo inserimento dell’emmeleia in quanto semplicemente μέρος offra materia di dibattito, allo stesso modo degli altri due termini κομμός e ἔξοδος e la rispettiva discrepanza di intendimento nelle fonti (su cui cf. Perusino, pp. 43-44). Esamineremo nella loro sede le altre due citazioni di emmeleia. SEZ. 2 8) Il testo è chiaro: fedele al concetto aristotelico di mimesi, sia pure tronco in quanto privato della sua logica conseguenza di catarsi, così come Aristotele l’Anonimo usa il verbo μιμεῖται, semplicemente e puramente “imita”, sono dunque inutili se non fuorvianti le variationes di chi traduce con «rappresentare» o «riprodurre». Quanto a questo assurgere del pathos al ruolo di protagonista, tale da superare la stessa azione in quanto solo ed esclusivamente determinante la forma tragedia, da un lato potrebbe riflettere la concezione cristiana per cui lo spirito umano, con i suoi sentimenti e le sue sofferenze, non è più visto subordinato all’azione, ma acquista autonomia e preminenza (cf. Cottas, Le théâtre à Byzance, p. 191), considerato però l’insieme delle fonti di cui si serve l’Anonimo, è senz’altro più naturale pensare ad un’ascendenza peripatetica: Teofrasto, d’altronde, pare avesse rivalutato l’individualismo, rispetto all’affermazione aristotelica che possono esistere tragedie senza carattere ma non senza azione (Poet., 1450a 24-25, già sopra richiamato), ed è proprio la sua definizione di tragedia, …ἡρωϊκῆς τύχης περίστασις (Diom. VIII, p. 57, 126 Kaibel, nel senso di “circostanza avversa che ha qualcosa di grandioso, o metafisico”, da cui discenderà la dottrina dei caratteri eroici di cui infra), che avrebbe portato in sé il germe di quella distinzione tra dolore e riso che furono poi visti come l’essenza stessa, se non addirittura la causa prima, rispettivamente della tragedia e della commedia, con la conseguenza dell’affermazione che – sia pur essendo ἄμφω πρὸς ὠφέλειαν [...] βίου (Tz., Στίχ. περὶ διαφ. ποιητ. 24, p. 35 Kaibel) – fine della tragedia è il dolore, e compito suo è di dissolvere la vita (λύειν βίον: De com. opusculum 49, p. 14 Kaibel; Tz., Περὶ κωμ. 64, p. 21; 75, p. 33; 10-11, p. 34 Kaibel; Idem, Στίχ. περὶ διαφ. ποιητ. 72, p. 37 Kaibel), laddove al contrario la commedia ha il compito di ricomporla (per una esegesi di questi topoi cf. Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 63-64, e Eadem,
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Nota a Giovanni Tzetze, pp. 84 ss.) e, stilisticamente, con la distinzione delle due opposte λέξεις di cui si è già detto (e cf. in particolare Dosi, Sulla Poetica di Teofrasto, p. 604, e Rostagni, Aristotele e l’Aristotelismo, pp. 218 ss.; infine ancora Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 137 ss.). Un filone per cui tutto il Medioevo considerò determinanti, per la differenziazione dei due generi, l’inizio sereno e la fine dolorosa dell’uno, e l’inizio movimentato ma la fine lieta dell’altro (cf. Creizenach, Geschichte des Neueren Dramas, I, pp. 9 ss.). Basti guardare alla tradizione bizantina: δεινοπάθεια definisce Suida la tragedia, s.v. (come già in Poll. IV, 201); che la tragedia «ha come madre la sofferenza» (ἔχει δὲ μητέρα τὴν λύπην) leggiamo nel Trattato Coisliniano (2, p. 50 Kaibel, e poi v. anche 3 e 4 sulla commedia, che riprende il modello tragico aristotelico, compresa la suddivisione di Arist., Rhet. 1371b 35); che essa è mimesi ἠθῶν, πράξεων, παθημάτων (πάθος nel senso di sventura: anche in Pace, La poesia tragica cit., pp. 137 s.) in Tzetze, Περὶ τραγ. ποιήσ. 185, p. 48 Kaibel, dopo aver individuato nel πάθος l’oggetto del dramma (37, p. 44 Kaibel); che le è proprio avere πένθη καὶ συμφοράς, dopo avere detto che scopo della tragedia è εἰς θρῆνον κινῆσαι τοὺς ἀκροατάς in De com. opusculum 45, p. 14 Kaibel, nelle due redazioni prosastiche del Περὶ κωμῳδίας (7-8, p. 17, e 51, p. 21 Kaibel = 29, p. 4, e 25, p. 7 Cramer, Anecdota Graeca I; 68, p. 33 Kaibel); e che θρήνους μόνον ἔχει καὶ οἰμογάς in Tz., Περὶ κωμ. 7-8, p. 34 Kaibel; o che della tragedia è τὴν θρηνῳδίαν in Idem, Στίχ. περὶ διαφ. ποιητ. 61, p. 36, e 112, p. 38 Kaibel. 9) Non è pertanto casuale se, subito dopo, l’Anonimo aggiunge l’ἦθος come terzo elemento: ripensamento dovuto al passo di Poet. 1447a 28, come suppone Glucker, Notes? A dire il vero si può nutrire qualche dubbio, dal momento che questo passo aristotelico – cui allora sarebbe legata anche la definizione tzetziana – non si riferisce alla tragedia, e nemmeno si riferisce alla tragedia l’elenco degli oggetti, comprensivo di ἦθος, che il Trattato Coisliniano 7, p. 52 Kaibel, riferisce alla commedia su modello ancora una volta aristotelico. Molti casi di associazione ἦθος – πάθος della letteratura greca mostrano come si trattasse di un binomio consacrato da lunga tradizione e oramai topico, non esclusivamente tragico (cf. Arist., Rhet. 1356a 23; Dion. Hal., Ep. ad Pomp. 3 e De comp. verb. 22; Dem. Phal., Eloc. 28; Ael., Var. hist. 4, 3; Long. 9, 15, ecc., ma anche tutta la tradizione peripatetica post-aristotelica su cui si veda Dosi, Sulla Poetica di Teofrasto, e Rostagni, Aristotele e l’Aristotelismo, passim). Tuttavia, se pure l’Anonimo abbia potuto assimilare quel concetto aristotelico secondo il quale il carattere è visto in funzione dell’azione (Poet. 1450a 21; cf. anche 1448a 1, 1449b 9-10, 24, 37, 1450a 15 ss. e passim), e le tragedie possono essere senza carattere, ma non – come si è visto – senza azione (1450a 24), credo che ancora una volta la somiglianza più stretta sia con Tzetze, Περὶ τραγ. ποιήσ. 185 cit., che abbiamo detto definisce la tragedia μίμησις ἠθῶν, πράξεων,
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παθημάτων: esattamente i tre elementi del ns. autore (conferma in Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 136-137, che mette in risalto la probabile dipendenza da alcuni passi della Poetica). Molto dibattuto, piuttosto, il concetto aristotelico di ethos, che secondo Jones, On Aristotle, pp. 40-42, si riferirebbe più che a un carattere drammatico individuale a «moral qualities characteristic of broad categories of people»: discussione e bibliografia in Sifakis, Looking for the actor’s art, pp. 150-151 e nn. 9 e 11 (ma cf. anche Idem, Aristotle on the function of tragic poetry, p. 33, sulle diverse classi sociali – quelle del pubblico in questo caso – che il Filosofo doveva avere in mente). Considerate le ascendenze sin qui rilevate, non ritengo significativo ai fini di un’attribuzione a Psello il concetto affine da questi espresso nel trattato su Euripide e Giorgio di Pisidia, 40-43, richiamato da Perusino, p. 44 (comm. alle rr. 9-11). 10) γνωμολογίαι: cf. Diog. Laert. VIII, 3 (su Epicarmo), dove γνωμολογεῖν è impiegato nel senso di “discutere precetti morali”, mentre nei passi citati da Browning, p. 73, prevale il significato di “effetto stilistico”, o “elemento retorico”. La precisazione che lega questi elementi etici ai canti stasimi pone ancora una volta in rilievo la funzione del coro rispetto a quella certa standardizzazione caratteriale dei personaggi singoli, dopo aver sottolineato l’importanza per esso della coreografia. Perusino, p. 44, definisce l’ethos l’elemento statico della tragedia, di fronte alla parte dinamica rappresentata da πάθη e πράξεις; in quanto tale, perciò, affidato al coro appunto, che è ἄπρακτος secondo Ps. Arist., Pr. XIX, 48 (922b 26): un’affermazione che impone riflessione, in quanto il medesimo Pseudo-Aristotele, nello stesso punto, del coro dice anche, in modo che sembra contraddittorio, che è κηδευτής, «partecipe». Evidentemente, esso riflette la situazione di degenerazione di un’epoca post-classica, quella situazione che già Aristotele, prima, aveva cominciato a denunciare. La sottolineatura dell’aspetto gnomico del coro, aspetto fondamentale della sua entità, è infatti coerente con quello che era il ruolo del coro nella concezione “classica” aristotelica (Poet. 18, 1456a 26 ss. cit.), in quelle poche righe in polemica con la pratica di scollamento tra coro e attore del suo tempo: dovrebbe equivalere a un attore com’era un tempo, dice il Filosofo, e come tale collaborare, aiutare – συναγωνίζεσθαι – all’azione, come “parte dell’intero”. Senza entrare nel merito delle divergenze interpretative suscitate da questo passo della Poetica, che in sostanza è l’unico scritto teoretico sul coro che, nel contempo, liquida ogni discorso su di esso, rinvio alla discussione in Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 396-397, in polemica ancora una volta con Gentili, Il coro tragico nella teoria degli antichi, in part. pp. 33-35, o anche a Baldry, I greci a teatro, pp. 89 ss., Foley, Choral Identity, e Scattolin, Aristotele e il coro tragico. Quindi, mi limito ancora a segnalare, oltre alla bibliografia in Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, p. 264 (pp. 233-283 per tutte le
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questioni relative al coro), Baur, Chor und Theater, che invece, proprio perché il coro è figura non definita – 15 coreuti in un unico Stück di fronte a un’unica figura im Stück – considera nulla la sua identità (e cfr. Battezzato, Lyric, in part. pp. 154-155, che spiega come invece sia proprio la sua marginalità fonte di autorità [con una sintesi di altre posizioni]); o le osservazioni di Taplin, Comedy and Tragedy (spec. pp. 179-194 dove definisce il coro tragic mask, che attende la tragedia per farne testimonianza), e Gould, Tragedy and Collective Experience, che visualizza l’angolazione marginale del coro per teorizzare la sua espressione come esperienza alternativa, anche opposta, alla figura dell’Eroe che più spesso domina la scena. In un’epoca, dunque, in cui ormai non rimaneva più niente, l’Anonimo mostra così di sapere molto bene quanto il coro fosse stato elemento caratterizzante, presenza ancestrale in quanto nucleo genetico della tragedia, derivando essa dal ditirambo secondo quanto afferma anche Arist., Poet. 1449a 11 (passo tuttavia dibattuto; cf. Cavalli, Lo spettacolo nel mondo greco, p. 42). È noto come nella critica esso fosse considerato trait-d’union tra attore e pubblico (e cf. Goldhill, Reading Greek Tragedy, p. 271; anche Calame, Choral polyphony, sulla sua “sociale” mediazione; del coinvolgimento nell’azione drammatica e la complicità con gli attori – tutt’altro che da ἄπρακτος – parla Centanni, Metro, ritmo e parola nella tragedia, pp. 121-129), ma anche tra parole, ritmo, musica e danza, tra generi, ecc. (e cf. Gagné – Govers [eds.], Choral Mediations, dove per arrivare a cogliere le specificità del coro tragico, nella sua multiformità e polivalenza, si esaminano tutti i transfer mimetici che portano diversi livelli di interferenza a interagire e completarsi a vicenda), definito anche «spettatore ideale» (Schlegel, Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur, I, pp. 76-77), ma persino portavoce delle opinioni del poeta (cf. Di Marco, La tragedia greca, pp. 185-188). Da tempi arcaici e rituali cultuali tale presenza è rimasta a rappresentare la collettività, col suo bagaglio di esperienza e, quindi, con un ruolo incisivo talora anche in misura maggiore rispetto ai caratteri individuali – quasi con essi in competizione –. Ecco dunque, nel trattato, catturate in una breve frase fatta di due sostantivi – decisioni (quelle etiche) e sentenze – tutte le sue possibili teorizzazioni concettuali, o interventi verbali atti a persuadere o dissuadere un personaggio, interventi che, raramente, potevano arrivare anche a modificare il corso della vicenda (v. esempi in Di Marco, La tragedia greca, p. 176) ma, come evidenziato da Di Benedetto – Medda (La tragedia sulla scena, pp. 261-264, anche 278-280; 349-353 sulle considerazioni gnomiche finali), erano sempre espressione della saggezza di cui una comunità è depositaria, e anche delle tensioni tra pubblico-individuo che costituivano un aspetto fondamentale del teatro tragico. 11) τῶν ἀψύχων πολλά: non può essere una reminiscenza di Poet. 1452a 34, dove il contesto è differente: meglio senz’altro riferirlo alle imitazioni sonore, come del tuono (cf. Poll. IV, 130-131, e cf. Perusino, pp. 45-46). Ma potrebbe
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alludere anche a scenografie estremamente realistiche, considerata l’importanza che la θέα (ὄψις) venne sempre più assumendo dal periodo ellenistico-romano in poi (cf. Del Grande, Τραγῳδία, p. 176). 12) Per la dottrina degli ἠθῶν ἡρωϊκῶν, l’Anonimo si riallaccia, ancora una volta, a quel filone tradizionale post-aristotelico di cui prima si è riferito, piuttosto che a Poet. 1454b 9, nonché 1454a 17 ss., dove non si parlava propriamente di eroicità, ma solo di superiorità e nobiltà di carattere – oltre che nobile, un carattere doveva essere ἁρμόττοντα, ὅμοιον, ὁμαλόν (e cf. Jones, On Aristotle, pp. 12 ss. sull’assenza in Aristotele del concetto di eroe). Rostagni, Aristotele e l’Aristotelismo, pp. 8-9, ne dà la seguente giustificazione: nella necessità di superare le critiche platoniche contro la Poesia, Aristotele, così come col concetto di catarsi elude l’accusa che la Poesia agiti basse passioni (Plat., Resp. 603d-607c; 386 ss.), altrettanto all’accusa di immoralità, determinata dal fatto che nell’imitare dei o eroi la Poesia applica loro vizi umani (Plat., Resp. 377d-383c; 386-92), egli «gira l’ostacolo: cioè tace … il carattere eroico e mitico della poesia», definendo in primo luogo la tragedia come «semplice azione seria senza l’attributo dell’eroico e del leggendario» (Poet. 1449b 24). «… cessata questa necessità, i suoi successori, a cominciare da Teofrasto, ristabilirono il concetto divino-eroico dell’Epopea e della Tragedia». E infatti Teofrasto, con la sua già citata definizione (supra, p. 65), «al dramma tragico greco restituiva il suo senso originale di storia, di leggenda, di fede» (ibidem, p. 208). Di conseguenza, leggiamo in Et. M. 764, 1 cit. (e cf. Glos. Et. M. 1, p. 16 Kaibel): τ. ἐστὶ βίων καὶ λόγων ἡρωϊκῶν μίμησις; Schol. Dion. Thr. 746b, 5 ss.: [che prende] ἀρχαίας ἱστορίας τῶν ἡρώων ἐχούσας πάθη τινά, […] θανάτους καὶ θρήνους, mostrando ἡρώων ...πρόσωπα e σώματα ... ἡρωϊκά (31-32, p. 11, e 40 ss., p. 12 Kaibel = rispettiv. 20 e 28 ss., p. 17 Hilgard), con relativa spiegazione di come dovessero essere – con voce possente – e dovessero vestirsi gli attori per raffigurare eroi; fino a Tzetze, Περὶ τραγ. ποιήσ. 186, p. 49 Kaibel: [μίμησης] ἡρωϊκοῦ τρόπου (su cui cf. Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 138-140). SEZ. 3 13) Non vi è tragico senza conflitto; nel contrasto la tragedia «trova la sua più precisa e fondamentale caratteristica» (De Falco, Osservazioni sulla struttura della tragedia, p. 122): la ripartizione nodo-scioglimento o, in altre parole, il concetto del cambio di fortuna (che riguarda l’essere umano in modo universale, e non individuale, senza nulla avere a che fare con l’eroe: cf. Jones, On Aristotle, pp. 14 ss.) costituisce dunque la vera chiave dell’interpretazione del tragico (e cf. anche Orazio, Ars Poet. 191-192). Tragico però, secondo una concezione degli antichi, per cui esso non si risolve con l’annullamento o distruzione dei valori, ma piuttosto li salva, attraverso una
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conciliazione dei contrasti, in un mondo superiore. Questo è lo scioglimento. Chi all’apparenza soccombe vinto, è in realtà il vincitore. Fonte, probabilmente, è Poet. 1455b 24 (e cf. Perusino, p. 47), dalla quale però il Nostro si allontana subito, senza darci la stessa accurata spiegazione, bensì esaurendo la sua subito dopo in una proposizione lapidaria, in cui il termine aristotelico μετάβασις viene mutato in μεταβολή, e che viene introdotta (legata e resa come conseguenza della prima) dalla preposizione disgiuntiva ἢ, “ovvero”. Questa almeno la lectio del manoscritto che abbiamo preferito lasciare, e che (accolta anche da Perusino, loc. cit., ma con la quale non condivido la traduzione, come dirò appresso) suonerebbe dunque così, mantenendo intatta l’interpunzione del copista: «delle tragedie, da un lato è un nodo, mentre dall’altro avviene uno scioglimento: ovvero un mutamento dopo qualche tempo». Il γίνεται, riferito al suo soggetto λύσις farebbe quindi parte della prima metà della proposizione, non della seconda. Di per sé tale lezione non darebbe ragione di essere corretta secondo la proposta di Winnington-Ingram, accolta da Browning nel suo testo, che sostituisce ἢ con δέ. Salvo, tuttavia, fare un ragionamento alternativo, che propongo con riserva. La correzione in questione darebbe il seguente testo: γίνεται δὲ [...] μεταβολή, cioè sposterebbe il verbo alla seconda metà, attribuendolo a μεταβολή, e rileggendo tutto il trattato, si scopre nella sezione 7 un’espressione uguale, che analogamente segue a un punto, anche se riferita ad altro contesto: γίνεται δὲ ἡ μεταβολὴ ... L’unica differenza sta nella presenza o meno dell’articolo, che si giustifica assai bene nei due passi: – qui, infatti, va inteso: “avviene invero un (un qualche) mutamento”, mutamento che non è stato nominato prima (n.b.: Perusino traduce invece aggiungendo l’articolo determinativo, che nel testo non c’è e non ci deve essere, per cui non condivido altri interventi che vanno in questa direzione, come quello di Morelli, Dalla Poetica di Aristotele); – l’altro, invece, si traduce: “invero la modulazione avviene” subito dopo aver parlato dei canti modulati (v. infra). Insomma, alla fine la correzione del 1963 – che credo sia sintatticamente inutile e per questo non inserita nel nostro testo – verrebbe assai bene giustificata dall’usus scribendi dell’Anonimo, e ad esso perfettamente congruo anche nella punteggiatura che precede la nostra espressione, che la separa dall’affermazione precedente «Nelle tragedie vi è da un lato un nodo, dall’altro uno scioglimento». È infatti nello stile di questo autore dare frasi sintetiche e separate, nelle quali comunque la consequenzialità, laddove esiste, si può cogliere dal posizionamento ad arte dei μέν e δέ. Contrariamente la Perusino, p. 47, ritiene che inserire il punto dopo λύσις romperebbe la connessione tra λύσις e μεταβολή, argomentazione non condivisa neanche da Bonanno, Recensione, pp. 230-231, che a sua volta sulla scia di Morelli, Dalla Poetica di Aristotele, propone un καὶ al posto di ἢ tramandato dal manoscritto.
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Un’ultima osservazione riguarda il termine μεταβολή di cui si è detto. Se nell’analogo passo aristotelico esso non trova corrispondenza, lo si riscontra però in altri due passi di Poetica: 1452a 24 e 31, in cui si parla del mutamento apportato dalla peripezia e dal riconoscimento, due elementi nodali nella concezione aristotelica del dramma (1452b 9-10), che sono stati del tutto soppressi dal ns. autore a favore della sintetica frase in oggetto. 14) Per tutta questa sezione, nulla da aggiungere a Perusino, pp. 47-50, salvo non condividere i riferimenti paralleli all’espressione ἀπὸ τῶν χρονῶν (per cui ritengo non indiziaria l’espressione pselliana παρὰ τοὺς χρόνους del trattato su Euripide e Giorgio di Pisidia), che trovo pendant dell’aristotelico ἀπὸ τῆς ἀρχῆς impiegato proprio nella spiegazione di nodo e scioglimento (Poet. 1455b 26-28) e salvo, ancora, sottolineare che tali ragguagli inerenti la scenotecnica costituiscono una novità rispetto alla tradizione aristotelica secondo cui certi fatti non devono mostrarsi al pubblico e solo allora si ricorre alla μηχανή (Poet. 1454b 2), una tradizione che arriva sino a Orazio (Ars Poet. 185-188). Probabilmente il silenzio di Aristotele è dovuto al fatto che questi e altri congegni di cui parlano le fonti più tardive risalgono al periodo ellenistico, anzi, come nota Arnott, Greek Scenic Conventions, p. 90, il loro sviluppo rifletterebbe la tendenza verso lo spettacolo e l’illusione; pertanto più recenti sono le fonti cui l’Anonimo attinge al riguardo (cf. Poll. IV, 128-129). La testimonianza dell’ekkyklema di Ar., Ach. 408, cui potrebbe aggiungersi anche quella di Ar., Thesm. 95, non è per niente condivisa dagli studi più recenti: cf. discussione in Webster, Greek Theatre Production, pp. 8 ss., e quindi Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 22-24 e p. 33 per una bibliografia dettagliata, in aggiunta (per ogni tipo di congegno del teatro antico) a Quattrocchi, Ekkyklema, e Bieber, Scenografia e scenotecnica, ma anche Caveggia, Exostra, ricordando che la distinzione tra l’ekkyklema e l’exostra si sia basata soltanto su una diversità di funzionamento scenico, e le due maccchine si siano identificate sulla base di Poll. 129 cit. ed Hsch, s.v. ἐξώστρα. Si rinvia, inoltre, all’elenco di congegni (τὰ περὶ σκηνὴν εὐρήματα) fornitoci dal cod. Par. gr. 2720, f. 87, ed. Cramer, Anecdota Graeca I, p. 19, in cui le due macchine sono distinte. D’accordo sul θεολογεῖον, cui accenna l’A. subito dopo; da esso, probabilmente in età ellenistica o romana, sarebbe derivato lo στροφεῖον e l’ἡμιστροφεῖον, più piccolo, nominato solo da Poll., loc. cit., esclusivamente per gli eroi mostrati in apoteosi. 15) A proposito dell’ἄγγελος, ἐξάγγελος e σκοπός, si è già visto che in Tzetze, Περὶ τραγ. ποήσ., figura anche il σάλπιγξ, mentre Euclide, la sua fonte principale, secondo quest’ultimo (95, p. 46 Kaibel) citava solo i primi due, tra le nove parti della tragedia viste sopra, mentre il terzo ritorna, quale parte attinente al metro, nella classificazione decupla che Tzetze attribuisce ad “altri”
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che scrissero dopo Euclide. Ἄγγελος, ἐξάγγελος e κατάσκοπος invece figurano nel Περὶ κωμ. (114, p. 23 Kaibel = 23, p. 9 Cramer, Anecdota Graeca I). Il più comune nella tragedia antica è lo σκοπός, più diffuso del κατάσκοπος, che ricorre solo in Eur., Rh. 125. Analisi esaustiva di questi personaggi in Pace, La struttura della tragedia, pp. 118-121, e Giovanni Tzetze la poesia tragica, spec. pp. 102-108, 129; cf. inoltre Eadem, Le parti della tragedia nella teoria postaristotelica, pp. 104-105, dove si mette in rilievo il ruolo di queste parti recitate che nella tradizione post-aristotelica sostituiscono le parti aristoteliche recitate, che erano episodio ed esodo. 16) Διχορία: attenzione, non l’ἡμιχόριον attestato nei testi sulla commedia (ad es. 111, p. 23 Kaibel = 18-20, p. 9 Cramer, Anecdota Graeca I), ma di cui esistono vari esempi tragici desumibili dai testi, talora anche con separazione fisica delle due parti (es. Aesch., Sept., Suppl.; Soph., Ai.; Eur., Or., Tro.). Su questo termine propriamente tecnico relativo piuttosto a un doppio coro, da notare che anche Tzetze, Περὶ τραγ. ποιήσ. 43 ss., e 109-110, p. 44 e p. 46 Kaibel, parla di un secondo coro attenendosi a Euclide, senza però usare questo termine e tuttavia per definire l’epiparodos “ingresso” del secondo coro (dopo l’uscita del primo), definizione che si legge quindi anche in Anon. Par. (Cramer, Anecdota Graeca I, p. 20, e cf. anche III, pp. 343-349) ma che risulta contrastante sia con Polluce, IV, 108 (che chiama μετάστασις l’uscita o spostamento del coro; per un’analisi della funzione significativa di tale espediente, cf. Paduano, In assenza del Coro) e sia con lo Schol. Eur., Alc. 897, secondo i quali si tratterebbe di un secondo ingresso dello stesso coro, attestato, tra le tragedie superstiti, oltre che in Alc. cit., anche in Hel. e Rh. e in Aesch., Eum., e Soph., Ai. Si è pensato a errore di Euclide, o a cattiva interpretazione delle sue notizie (Del Grande, Τραγῳδία, p. 268, ad es. ha sostenuto che per la tragedia arcaica e classica non si può dare affidamento ad una testimonianza così tarda – in tal caso, però, essa avrebbe potuto esserci utile per un riferimento alla tragedia posteriore!), e si è anche cercato di conciliare la sua affermazione con la teoria del doppio coro nella fase più arcaica della tragedia (Untersteiner, Le origini della tragedia; Lammers, Die Doppel- und Halbchöre; Kranz, Stasimon). D’altronde, tale teoria non poggia sul vuoto (cf. De Falco, L’epiparodos, p. 5), perché vero è che più frequenti sono le ἐπιπάροδοι dello stesso coro dopo che si è allontanato dalla scena, per un cambiamento di quest’ultima nei primi due tragici, senza invece alcuna necessità tecnica in Euripide – il più libero di fronte alle norme quasi mai trasgredite dai suoi predecessori (sui vari stratagemmi – oltre a quello di allontanare temporaneamente il coro dalla scena – messi in atto da Euripide per conciliare le convenzioni teatrali canonizzate con la sua esigenza di realismo illusionista, cf. Arnott, Alcune osservazioni) –, ma esistono anche rari esempi di secondo coro, o coro secondario, nelle tragedie rimasteci (e cf. Perusino, pp. 49-50, ma anche Pickard-Cambridge, The Dramatic
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Festivals, pp. 236-237, e Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 244-245), e non solo: spesso Euripide fa cantare al suo coro di un coro diverso da se stesso (che danzerebbe in modo “cultuale”), come analizza Csapo, Imagining, pp. 119-156. Ampia e completa discussione sul testo di Tzetze, con esaustivi riferimenti e bibliografia, in Pace, La poesia tragica, pp. 78-81, nonché, prima, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 245 ss., con l’ipotesi che, per l’assenza di riscontri sicuri all’epiparodo di Euclide, Tzetze potrebbe aver frainteso la definizione di Polluce, o potrebbe essere stato indotto all’equivoco per analogia col termine ἐπεισόδιον che, prima dell’introduzione del prologo, indicava la seconda entrata, cioè quella dell’attore, diversa dalla prima entrata che era quella del coro. SEZ. 4 17) Tutto il passo sviluppa la classificazione già annunciata come semplice elenco dei segmenti costitutivi della forma tragedia alla fine della sez. 1 su cui si è ampiamente discusso, ed è basato sulla contrapposizione ma, insieme, l’intrecciarsi di ᾠδή-λέξις, tra χορικόν e ἀπὸ σκηνῆς. I due termini che in un modo schematico alludono alle due parti poli fondamentali dell’azione teatrale, acquisiscono una valenza più pregnante, sulla base della fonte più prossima, e come quella fonte l’Anonimo li articola adesso come modi, preceduti infatti questa volta dall’articolo: (διαιρεῖται δὲ ἡ τραγικὴ ποιήσις εἰς τε) τὸν χορικὸν καὶ τὸν ἀπὸ σκηνῆς τρόπον, rispettivamente quello lirico e quello recitato, che si compenetrano a vicenda. Difatti, la tentazione di interpretarli in questo punto in modo univoco, viene subito elusa da quanto esplicitato appresso, ἑκάτερον δὲ αὐτῶν εἰς ᾡδὴν καὶ λέξιν, che vuol dire che il coro, che normalmente canta, può anche recitare e l’attore, che normalmente recita, può anche cantare (anche se, in realtà, non sempre l’attore cantava e non tutti i cori recitavano): il χορικὸς τρόπος riguarda anche l’ἀπὸ σκηνῆς, e viceversa. È in pratica l’articolazione che mancava al menzionato testo di Aristotele 1452b 17-18 per essere comprensibile, e quindi è la sua soluzione. E ancora una volta, come si era annunciato, ciò risulta perfettamente collegabile alle fonti di Tzetze, vv. 9 ss., e anche 76-78, p. 43 e p. 45 Kaibel, in cui leggiamo che, tra i due modi σκηνικὸς καὶ χοροῦ in cui la tragedia si divide κατὰ τύπον, «ἔκαστον αὐτῶν αὖ διαιρεῖσθαι νόει ᾠδὴν πρὸς αὐτὴν, ἀλλὰ καὶ λέξιν λέγω; ὑποκριτὴς ᾄδει γὰρ ἔν τινι χρόνῳ χοροῦ λαλοῦντος, ἃ λαλεῖν θέλει τότε» (11-14, p. 43 Kaibel). Si rinvia a Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 66 ss., nonché Eadem, Le parti della tragedia, pp. 234 ss. cit. Una volta fatta questa precisazione, l’Anonimo non tornerà più indietro, e in altri punti insisterà mantenendo questa logica dei due modi che si intersecano (peraltro sulla traccia di Poet. 1452b cit.): sia alla fine della sez. 10 quando dice che alcuni canti sono pure affidati agli
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attori, e sia anche, probabilmente, alla fine della sez. 9 (anapesti corali e «dalla scena») se però si accoglie una delle possibili interpretazioni dei χορικὰ ἀπὸ σκηνῆς (v. infra). In conclusione, se, allora, ᾠδή e λέξις sono pertinenti tanto al modo χορικόν quanto a quello ἀπὸ σκηνῆς, la distinzione non è tanto nell’ambito della melica, bensì tra chi opera nell’orchestra – che potrebbe anche recitare – ovvero ciò che si svolge (in basso?) ad opera del coro, e chi sta nella o sulla scena ovvero ciò che si svolge (in fondo? in alto?) ad opera degli attori – che potrebbero anche cantare. Per inciso, attenzione, però, al sotto o sopra, una separazione che, come riflette Wiles, Tragedy in Athens, cap. 3, è correlata al pensiero dualistico dell’epoca ellenistica (la sfera razio-morale appartiene all’attore, mentre ai danzatori appartiene la propria espressione fisica, un’opposizione spaziale socialmente condizionata che articola un conflitto); una distinzione troppo semplicistica che elude un’intricata problematica che è il caso di ricordare solo rapidamente. Siamo, infatti, nell’ambito della tradizione aristotelica, secondo quelle testimonianze dello Stagirita cui gli studiosi si sono appellati per dimostrare l’esistenza di una scena sopraelevata, come un palcoscenico, nel teatro antico, come quella che, molti secoli dopo, l’Et. M. dà come descrizione del lemma τραγικὴ σκηνή: πῆγμα μετέωρον, ἐφ’οὗ ἐν θεάτρῳ τινὲς παριόντες ἔλεγον, dunque: «palco sopraelevato». Il Filosofo, infatti, al di là del cenno a chi opera o agisce nello spettacolo, neanche quando menziona – concedendole al dramma – le ὅψεις come dimensione spaziale dà informazioni tecniche sulle strutture materiali. Benedetto Marzullo, in una sua magistrale lezione (presso l’INDA di Siracusa, a.a. 197778), spiegava che nel dramma la parola ha significazione comunicativa ed è sufficiente, esclusiva, a creare l’immagine: ha la funzione di materializzare la scena. Per questo la tragedia di Aristotele (ma in fondo tutta la tragedia) è senza scena, perché basata su φόβος e ἔλεος. Se ci fosse la scena – se il Filosofo ne parlasse –, annullerebbe la parola. Un ragionamento cui può accostarsi, inoltre, quanto rileva Capone, L’arte scenica, p. 9, che la mancanza di mezzi tecnici, con scenografie abbastanza povere, corrispondeva ad una mancata esigenza, o ricerca, illusionistica, essendo tutto affidato alla fantasia e immaginazione del singolo spettatore – oltre che alla parola, qui aggiungiamo con Marzullo: immaginiamo dunque uno spettacolo stilizzato in maniera arcaica, inteso principalmente come sottolineatura del grande dramma umano. La potenza trasfiguratrice della poesia bastava a sostenere l’illusione scenica. Malgrado l’indubbia attendibilità di tali letture, e indipendentemente da esse, occorre dire che i tanti riferimenti riscontrabili nei testi, alla casa, al tempio, al palazzo (o reggia) ecc., che certamente nascevano dalla necessità funzionale alla narrazione di delimitare anche solo virtualmente lo spazio scenico, hanno da sempre posto la questione se possano o meno collegarsi ad una qualche sorta di costruzione reale nel teatro, e a partire da quando: insomma, il quesito su cosa era lo spazio teatrale nel V secolo e poi dal IV in avanti, col collaterale
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sviluppo – aggiungerei – della “parte magica” del teatro, quella riservata agli effetti (che venivano certamente eseguiti, anche se non sappiamo i trucchi). E in effetti, il silenzio generale su quest’aspetto e, comunque, sull’arte scenica anche da parte dei commediografi, per cui le assai scarne notizie sono da integrare sia con l’esame diretto dei drammi che con i riferimenti accidentali che possono trovarsi in lessicografi, grammatici, o scoliasti più recenti, induce a pensare, con Baldry, I greci a teatro, pp. 54-75, e quindi a confermare, che una vera e propria pratica scenografica, nel senso odierno, non fosse esistita davvero, almeno nella fase più antica (maggiore mobilità scenica, per il gusto particolare dell’intreccio complicato, deve supporsi con Euripide, «temperamento artistico imbevuto di realismo», col quale «le ragioni tecniche, esterne, ebbero spesso il sopravvento»: Capone, L’arte scenica, p. 4), tanto più che in molte tragedie coro e attore interagiscono come fossero sullo stesso livello, senza che niente sembrasse delimitare il luogo rispettivo dell’uno e dell’altro, e senza l’esistenza di alcuna sorta di sipario (coro e attori non avevano bisogno di spazi separati – ma non tutti sono concordi – secondo Pickard-Cambridge, che ne aveva discusso tra l’altro in The Theatre of Dionysus, pp. 49 ss., ritenendo però che si dovesse parlare di separazione dal periodo ellenistico), anche se un’obiezione è la possibilità dell’esistenza di gradini, o di una pedana bassa in legno (Anti, Teatri greci, p. 299), e cioè l’evidenza di materiale usato deperibile, che non ha lasciato traccia (ad es. Arnott [P.D.], Greek Scenic Conventions, p. 15). Per questi tempi più antichi, Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 2831, negano in modo deciso l’esistenza di un palco fisso o di una vera σκηνή, salvo eventuale struttura di fondo leggera e rimovibile, e/o, anche, sopraelevazioni occasionali e smontabili legate alla singola opera, che creavano un articolato gioco scenico ma che nel contempo avevano un ruolo determinante nello svolgimento della vicenda (pp. 70 ss.); diversamente, Longo, La scena della città, p. 26, sostiene che, anche se lignee, queste strutture primitive dovevano avere una certa compattezza e saldezza, come dimostrano rari resti di sostruzioni in pietra nei teatri antichi. Né chiarisce qualcosa quella testimonianza aristotelica su Sofocle inventore della σκηνογραφία cui sopra si è accennato (Poet. 1449a 18-19), testimonianza che non viene neanche interpretata in modo omogeneo: oltre alle interpretazioni di pitture, prima riferite, «scena» ad es. traduce genericamente Gallavotti, Dell’Arte Poetica, p. 15. E del resto Agatarco di Samo già nel 465 a.C. avrebbe messo in appalto «scene dipinte» per Eschilo secondo Vitruvio (pref. l. VII), intese come «prospettiche» (e cf. Anti, Teatri Greci, p. 298, il quale tuttavia ritiene che la scena arcaica avesse un carattere decorativo-evocativo). La problematica è, comunque, di interesse archeologico piuttosto che filologico – ma ricordo la dichiarazione di Arnott (P.D.), Greek Scenic Conventions, p. 41, che si tratta di una questione non tanto di fatto ma di interpretazione,
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certamente, visto che anche i dati archeologici vanno interpretati –, e non rievocheremo la vastissima bibliografia, a cominciare dagli studi noti del Dörpfeld sino a quelli di Norwood, per citare solo due esempi. Gli argomenti a favore si riferiscono comunque a Ps. Arist., Pr. XIX, 48 (922b 17 cit.), in cui οἱ ἀπὸ σκηκῆς sono gli attori, in opposizione al coro (cf. Dem. 18,180 e corrispondente a οἱ περὶ σκηνῆς in Plut., Galb. 16 e οἱ ἐπὶ σκηνῆς in Alciphr. 3, 65 codd., cf. Luc., Nec. 16), mentre ibidem, 918b 27 nonché Poet. 1452b 18, già menzionato, l’espressione τὰ ἀπὸ σκηνῆς sottintende come si è detto il sostantivo neutro al plurale ᾄσματα o μέλη, “canti degli attori” (Koster, Traité de métrique grecque, ne dà infatti la definizione di «monodia» degli attori [XII, 2] e «parte lirica» degli stessi [XIV, 11]: meglio, perché come si è già detto supra, 6, non si tratta solo di monodie: cf. Di Marco, La tragedia greca, pp. 257-275 sui vari tipi di amebei e monodie); attori che operano dalla scena, cui dunque Aristotele sembrerebbe pensare come agenti in un luogo distinto da quello del coro, anche nel caso in cui si voglia interpretare σκηνή come sfondo (Dörpfeld – Reisch, Das griechische Theater. Il problema viene affrontato anche da Frickenhaus, Skene, spec. col. 481. Sulla σκηνή cf. pure Fensterbusch, Theatron, coll. 1389 ss.). Sorvoleremo sugli argomenti contrari, come quello basato su scrittori tardivi che affermano che il romano λογεῖον era una volta chiamato orchestra (ad es. Tz., Περὶ κωμ. 75, p. 22 Kaibel, e 141, p. 29 Kaibel, dove si riferisce che l’orchestra è detta anche logheion; solo Idem, Ἴαμβ. τεχν. περὶ κωμ. 22, p. 41 Kaibel, precisa νῦν, solo ora – al suo tempo, dunque non prima – l’orchestra è chiamata logheion): Vitruvio in particolare, V, 6, 2, dice che dopo il I sec. a. C. i cori romani stavano sulla stessa piattaforma degli attori (uguale quindi all’orchestra greca), lasciando vuota l’orchestra (cf. Sifakis, Studies in the History of Hellenistic Drama, pp. 120 ss.), per arrivare alle conclusioni di Norwood, Greek Tragedy, pp. 53 ss., che mentre nel teatro romano il livello d’azione era sopraelevato, nel teatro greco il coro usufruiva di tutto il cerchio dell’orchestra e gli attori solo di una parte di essa, con la gradinata posta di fronte, per cui non esisteva una scena, anche se questa poteva apparire quando la facciata rappresentava un edificio a pochi passi. Insomma, dovremmo concludere che i termini della questione sarebbero se a buon diritto possiamo fare quella distinzione tra sopra la scena (= attori) e sotto, nell’orchestra (= coro), o non piuttosto tra in fondo e davanti. Essendo come si è detto il problema di natura archeologica, l’archeologia stessa costituisce la fonte migliore, pur con i tanti problemi che le odierne e per lo più stratificate rovine pongono (e cf. per es. Pace, Introduzione allo studio dell’archeologia, pp. 144-157, o Anti, Teatri Greci cit., spec. pp. 290 ss.). Realmente, luogo originario dell’azione nel teatro più antico restò sempre l’orchestra, anche quando, dopo l’introduzione dell’ὑποκριτής ad opera di Tespi e la nascita della tragedia vera e propria, al margine della sua circonferenza sorse quella costruzione lignea adibita ai travestimenti la quale, da semplice baracca da sfondo, pervenne poi via via a forme sempre più elaborate, anche murali. Anti, Teatri
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Greci, p. 293, sostiene che la scenografia non è nata dalla tenda ma dal fondale; Cavalli, Lo spettacolo nel mondo greco, pp. 15-16, spiega che quando la skene divenne un vero edificio (ritiene dubbiosamente già dal V secolo), d a v a n t i ad esso si svolgeva l’azione. Dal IV secolo in poi, però, dati concreti, come l’esistenza dei parasceni nei resti dei teatri, fanno supporre che già al tempo di Euripide il proscenio restasse chiuso lateralmente, oltre che sul fondo, e fosse innalzato di qualche gradino che conferisse una maggiore monumentalità (ipotesi formulata per la prima volta da Bethe, Prolegomena, e Der Spielplatz). Si sarebbe quindi avuto un podio sopraelevato, o appunto λογεῖον prima citato (cf. Hsch., s.v.: ὁ τῆς σκηνῆς τόπος, ἐφ’οὗ [οἱ] ὑποκριταὶ λέγουσι), corrispondente al latino pulpitum, che Vitruvio (V, 7, 2) attribuisce sia al teatro greco che a quello romano. I resti dei teatri ellenistici dimostrano come egli si riferisse a questo tipo intermedio, dunque sembra incontrovertibile che dal III secolo sicuramente se non anche un po’ prima, si possa parlare di un sopra e sotto, e quanto ad Aristotele, torniamo alle “parole”, essenza del genere drammatico, che sarebbero annientate da una scena: Aristotele si riferisce (o vagheggia?) al V secolo quando la scena appunto non c’era, e non condivide neppure la sua esistenza. La sua critica al decadimento qualitativo progressivo della tragedia che vede quell’allontanamento tra coro e attore di cui supra, p. 54 e p. 67, può anzi a buon diritto spiegarsi proprio con questo processo, già in atto al suo tempo, di trasformazione strutturale del teatro, in cui i due spazi scenici andavano allontanandosi tra loro dando sempre più enfasi all’attore (sopraelevandolo) (cf. Centanni, I canti corali infraepisodici, pp. 102-105; e cf. Μια σκηνή για τον Διόνυσο per un esame della struttura scenica di vari teatri greci e dell’odierno sfruttamento dello spazio per le rappresentazioni). Ulteriore conferma di tale processo viene d’altronde da quel passo, sopra menzionato, dell’opera pseudo-aristotelica Pr. (XIX, 48) che fa esplicito riferimento ad un palcoscenico, anche se sappiamo che potrebbe essere posteriore ad Aristotele. La questione cambierebbe, semmai, per il teatro bizantino, per il quale scarsi documenti fanno supporre che il coro operasse sulla scena, secondo la tradizione romana (cf. Vogt, Le théâtre à Byzance, p. 264. Anche Mahr, The Cyprus Passion Cycle, p. 83, notando un certo rapporto col mimo di alcune scene di tale rappresentazione religiosa, deduce che il tipo di teatro non dovesse essere diverso da quello allestito a Roma per il mimo stesso). Ma, tralasciando il fatto che ciò potrebbe essere valido solo per un determinato tipo di rappresentazione di derivazione latina, quale il mimo o il pantomimo, non possiamo stabilire se l’Anonimo voglia riferirsi a una situazione a lui contemporanea, o piuttosto segua pedissequamente, sia pure indirettamente, la tradizione classica, come in effetti dimostra spesse volte. Quel che si può notare ancora una volta è, semmai, come ammirevolmente puntuale fosse l’impiego che egli fa dell’espressione ἀπὸ σκηνῆς: senza articoli che lo precedano, questa indica
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all’inizio una parte della tragedia distinta da quella corale, mentre adesso qualifica piuttosto un modo di espressione linguistica che, partecipando tanto di recitazione quanto di melica, non è più contrapposto all’altro ma, al contrario, è con esso in condivisione, sul modello di Tzetze. Sembra realizzarsi a meraviglia quella straordinaria coralità della tragedia. 18) Per questa classificazione della λέξις con la distinzione tra metro e periodo, tale e quale a Tz., Περὶ τραγ. ποιήσ. 15-18 e ss., 79-80 e ss. e 166-170 e ss. (nella classificazione sua personale di cui supra, pp. 59 s.), pp. 43, 45, 48 Kaibel, cf. Perusino, pp. 51-52, e quindi rinvio al commento in Pace, La struttura della tragedia, pp. 122-123, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 234-235, e Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 67-70 e 131-132. Ancora, a Eadem, Il termine περίοδος, per un esame dettagliato del concetto di periodos presso gli antichi nelle sue varie accezioni, metrica, retorica e ritmica presso le fonti, con riferimento alle teorie metriche moderne. Dalle stesse fonti, si evince come per gli antichi il termine περίοδος designasse una serie di piedi più estesa di una sizigia o di un esametro (Arist. Quint., p. 36 Winnington-Ingram; Haeph., p. 65, 13 Consbruch e p. 168, 19 ss. (Schol. A) cit.; M. Vict. I, p. 55,1 ss. Keil), tranne che questo fosse formato da dipodie. In sostanza si denominava periodo una sequenza superiore allo στίχος (in generale con più di 30/32 tempi), e dotata quindi di una sua propria autonomia (Arist., Rhet. 1409a 35 la definisce λέξις ἀρχὴν ἔχουσα καὶ τελευτὴν αὑτὴν καθ’αὑτὴν καὶ μέγεθος εὐσύνοπτον). Cf. anche la sintetica definizione in Webster, The Greek Chorus, p. 215, e Westphal, Griechische Rhythmik, pp. 660 ss. (anche per quanto riguarda una periodo ἀσύνθετος, cioè μονόκωλος, e σύνθετος – su cui v. Arist. Quint., pp. 34-35 WinningtonIngram – che può essere δίκωλος, τρίκωλος, τετράκωλος, secondo una nomenclatura pervenuta alla metrica dal linguaggio retorico (p. 670). Dal momento che l’ambito è – così come in Tzetze – quello della λέξις, o linguaggio poetico (cf. Arist., Poet. 1450b 13 ss.), è impossibile che qui l’Anonimo si riferisca al periodo lirico, di cui parlerà invece nella sezione 7, e sulla cui differenziazione è significativa la descrizione di Dion. Hal., Dem. V, 50, 8 (riportata in Pace, Il termine περίοδος, p. 30); benché non si possa prescindere dalla difficoltà rilevata da Browning, p. 74. 19) Cf. Arist., Poet. 1452b 16 cit.: parti – ribadiamo – κατὰ ποσόν, cui viene aggiunto il χορικόν, ed anche Tz., Περὶ τραγ. ποιήσ. 19-20, p. 43 Kaibel, come parti λέξεως, κατὰ μέτρον: cf. Pace, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 236 ss., e Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 70. Si parla quindi delle parti propriamente di dizione in forme metriche, contrapposte alle parti di ᾠδή che seguono subito dopo. E si noti come logicamente ἔξοδος, che può essere di pertinenza sia dell’attore che del coro, sia ripetuta poi anche tra le parti meliche, secondo analoga classificazione nel testo tzetziano, su cui torneremo.
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Ma se metro e periodo appartengono ambedue alla forma metrica, perché prologo, episodio ed esodo, che erano recitati – e quindi λέξεως – dovrebbero appartenere soltanto al metro e non anche alla periodo? Per l’analoga assenza di articolazione in Tzetze, Pace, Le parti della tragedia nella teoria post-aristotelica, p. 107 (ma cf. anche Eadem, La struttura della tragedia, p. 123, e Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, p. 236 cit., oltre a Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 73), deduce che è «evidentemente a motivo della presenza più ridotta in tragedia delle tipologie metriche che essa designa». E ancora, perché la periodo è inclusa solo nella λέξις e non anche nel canto? Tzetze invece, in quella sua classificazione personale, elencando l’amebeo, il kourisma, il canto dell’attore e quello del coro nell’ambito della periodo, allude chiaramente alle parti liriche, rinviando ad un significato della periodo come struttura κατὰ σχέσιν o non κατὰ σχέσιν (e cf. Pace, La struttura della tragedia, pp. 124-125, e Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 131 ss., sull’incongruenza del grammatico di attribuire giambi e anapesti anche in questo caso in cui è lirica, come a v. 18 in cui fa parte della λέξις), che nell’Anonimo troverà concretezza più avanti (sez. 7, come detto), dove si troverà un parziale scioglimento del quesito posto dall’incompletezza del ns. autore. Probabilmente, egli si sarà accorto della duplice e confusa valenza tzetziana, ma in questo punto una spiegazione tenta di dare Perusino, p. 52, ricorrendo al concetto di παρακαταλογή, su cui vedi appresso (e cf. anche Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 68-69, per una discussione al riguardo a partire dall’ipotesi di Browning, p. 74, che interpreta la distinzione tra metro e periodo come possibile differenziazione tra dialogo recitato in metri e passaggi in recitativo). Va, inoltre, anche ricordato che nella λέξις una periodo può coincidere col verso, ossia ogni verso costituisce una periodo (cf. Snell, Metrica greca, p. 6), ma più periodi aggregate possono formare un sistema se di ritmo uguale, o una strofe se di ritmo differente, e la strofe è lirica, non recitata. E ancora, un metro oltre che giambico e trocaico può essere anche anapestico, ammesso che la fonte dell’Anonimo – e poi egli stesso – per metro intenda dipodia, come fa pensare la citazione del giambo e del trocheo che, in trimetri e tetrametri, sono i metri caratteristici della tragedia. Ma sappiamo che questi – i metri giambici e anapestici inclusi nella λέξις – possono anche essere lirici, come ad esempio nelle monodie degli attori o nei duetti lirici, dove sono mescolati anche a metri docmiaci, κατ’ἐνόπλιον ecc. (soprattutto in Euripide). Un problema, pertanto, esiste. 20) Se canto e dizione sono pertinenti sia all’attore che al coro – i due modi –, ci si chiede come mai, a proposito del canto, si parli solo di quello del coro e non di quello degli attori. Pace, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, p. 239: «forse proprio perché essa (ᾠδή) non presenta distinzioni interne?». Certamente, ma qui, per una comprensione della asimmetria del testo in questo punto, può venirci in aiuto a darci la spiegazione solo un particolare, che la fonte premette
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alle parti liriche, e che il nostro Anonimo non pare aver tenuto in conto, oppure ne è a conoscenza e lo sottintende, tralasciandolo: τὴν σκηνικὴν ἄτμητον ᾠδήν μου νόει (Tz., Περὶ τραγ. ποήσ. 28, p. 44 Kaibel, ma cf. anche 86 e 175, rispettiv. p. 45 e p. 48, già da Browning, p. 74, richiamato). La forma personale di questa dichiarazione dell’erudito («a me sembra») avrà indotto il ns. autore a lasciarla perdere, malgrado la sua attendibilità, visto che dei canti degli attori, così come Pace (cit.) si chiedeva, non è effettivamente possibile fare una ripartizione definita come di quelli del coro. Di conseguenza, sembrano non sodisfacenti le due traduzioni esistenti e perfettamente in sintonia tra loro, l’una «The term meter comprises prologos, …; the term song comprises the choral parts wich are divided into five: …» (Glucker, Notes, p. 115); l’altra «il metro comprende prologo, …, mentre il canto corale si divide in cinque parti: …» (Perusino, p. 29). Esse non colgono la sfumatura sottile della asimmetria, d’altronde molto bene e senza ambiguità resa dal testo greco, in cui aggiungo la virgola presente nel manoscritto: τοῦ δὲ μέτρου, τὸ μὲν πρόλογος, τὸ δὲ ἐπεισόδιον, τὸ δὲ ἔξοδος / τῆς δὲ ᾠδῆς, ἡ χορικὴ εἰς πέντε μέρη διῄρηται. 21) Un misto delle stesse fonti tzetziane e di Aristotele ispirano l’Anonimo per le parti liriche della tragedia – tranne l’ἐμμέλεια – che però riproducono anche la disposizione di Polluce IV, 53 –, parti su cui cf. in particolare Masqueray, Théorie des formes lyriques; Weil, Etudes sur le drame antique, in part. pp. 247281; Dale, The Lyric Metres. Evidentemente non è sua la responsabilità di qualche piccola incongruenza, almeno a prima vista. Nessun problema per gli aristotelici στάσιμον e κομμός, il primo – contrapposto agli episodi, dei quali scandisce una pausa – definito μέλος χοροῦ senza anapesto e trocheo in Poet. 1452b 23, e così registrato anche in Tzetze (secondo “altri” con allusione ad Aristotele) 51-52, p. 44 Kaibel: cf. Gentili, Il coro tragico nella teoria degli antichi, pp. 29-30, per l’interpretazione della controversa definizione aristotelica, che correttamente esclude quelli che in realtà erano i sistemi anapestici e i tetrametri trocaici impiegati nella παρακαταλογή, e quindi non in parti liriche come appunto è lo stasimo (e cf. inoltre Pace, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, p. 252; Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 83). Ai vv. 111-113, p. 46 Kaibel, invece, Tzetze si rifà alla diversa fonte Euclide, che differentemente definisce lo stasimo un canto da fermo (e cf. Pace, spec. Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 253 ss.). L’Anonimo tuttavia omette ogni definizione, impedendoci ogni confronto di fonti (ma si noti che il testo dell’Anon. Par. è su questo termine corrotto, e si rinvia a Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 83). Ricordiamo inoltre che, considerato il problema del testo aristotelico, che dà cioè solo le nozioni di base – e v. infra – nel canto stasimo si dovrebbero includere anche i canti episodici, o alterni: si vedano rispettivamente De Falco, Sui canti episodici della tragedia greca, nonché Aly,
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Stasimon, Centanni, I canti corali infraepisodici, e Kranz, Stasimon). In secondo luogo troviamo elencato il kommos, quel patetico dialogo lirico tra coro e attori, su cui stavolta l’Anonimo tornerà subito dopo per sbilanciarsi a dare la sua unica definizione che commenteremo più avanti. Si veda Diehl, Kommoi, spec. col. 1196, in cui è evidenziato il rapporto con l’ἀπὸ σκηνῆς aristotelico; Peretti, Threnos e kommos; Cornford, The so-called ‘kommos’ in Greek Tragedy, che in particolare cerca di far luce sulla difficoltà suscitata dall’identificazione aristotelica del termine kommos = amoebaeum, con threnos = lamentazione (cf. pure Masqueray, Théorie des formes lyriques, p. 17). Il termine aristotelico, però, non trova stavolta accoglienza nella successiva personale classificazione di Tzetze, che lo sostituisce, come si è visto sopra, con κούρισμα, attestato solo dagli Sch. Dion. Thr. 314c, 30, p. 452, 7 Hilgard, quegli ἄλλοι cui egli si rifà in questo caso, ma che Pace, La struttura della tragedia in Giovanni Tzetze, p. 123, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 120, e Le parti della tragedia nella teoria post-aristotelica, p. 105, dimostra come possa essere considerato un sinonimo di kommos. E a proposito delle rispettive definizioni di Arist., loc. cit. ss., si è accennato come lo Stagirita, tranne che non volesse sottintenderle in quei generici e ambigui τὰ ἀπὸ σκηνῆς, almeno palesemente abbia tralasciato di nominare tutte le altre parti liriche della tragedia, quelle atipiche e astrofiche, come quelle infra-episodiche. Per tale ragione, probabilmente, esse sono state poco prese in considerazione dalla critica posteriore, anche se, come fa notare Gentili, Il coro tragico nella teoria degli antichi, p. 30, «non incidono sulla struttura canonica della tragedia delineata da Aristotele». E in realtà potrebbe essere un’omissione cosciente del Filosofo, se si considera il passo 1449a 29-31: «E poi c’è … il resto. Ma ciò che si conosce sul perfezionamento di ciascuno di questi particolari, diamolo per detto; perché sarebbe una vera impresa passarli in rassegna singolarmente» (trad. Gallavotti, Dell’Arte Poetica, p. 15). Si noti che neppure l’Anonimo, stringato come al solito, sembra considerare tale sottoclassificazione in questa sua partizione, salvo individuare, più avanti nella sezione 9 dedicata ai metri e ai canti, una frase che sembra contenere una contraddizione in termini, che Centanni, I canti corali infraepisodici, in una nuova classificazione della lirica corale tragica che prescinde dalla Poetica, interpreta proprio in direzione dei canti infra-episodici (cf. infra, 36). Un po’ più articolata, piuttosto, la situazione riguardante la πάροδος e l’ἔξοδος qui incluse tra i canti corali secondo una tradizione che non è invece univoca, essendosi differenziata da quella aristotelica. Per ambedue si tratta di un’inclusione che può sembrare non tenere conto della sequenza di anapesti dorici che venivano declamati, e non cantati, più frequentemente nelle parodoi di Euripide e quasi sempre nelle exodoi, malgrado molti casi siano dubbiosi (si rinvia a Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, pp. 160-162, per le esemplificazioni). Verosimilmente in recitativo col flauto, ad es., le parodoi di Aesch., Pers., Suppl., Agam., o Soph., Ai., con 40-65 dimetri anapestici iniziali
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(sugli anapesti dei Persiani in particolare cf. Polacco, L’ingresso del coro, una focalizzazione della loro funzione nel sottolineare momenti di tensione o di cambiamenti di scena e/o personaggi, introducendo veri e propri «quadri» in una rappresentazione che senza dubbio era concepita per la scena); a volte è il solo corifeo a declamare gli anapesti, o mentre entra il coro, es. Eur., Hec., o alternandosi ad esso, es. Eur., Alc. 77-135: il ritmo, irreversibile, scandisce l’azione che comincia in uno spazio azzerato, che (come detto sopra) viene determinato dalle parole: ogni parola è un segnale, oltre che segno. Peraltro, si possono menzionare certamente parodoi liriche, per es. quelle di Aesch., Sept., o Soph., Ant., o, ancora, di Eur., Hel., che, dopo tre versi dattilici in recitativo, prosegue con un canto tra Elena e il coro; altre volte però il coro entra in silenzio, preceduto dal flautista, e canta solo dopo aver preso posto nell’orchestra, es. Soph., Ant., Oed. T., Trach., Phil.; Eur., Hipp., Andr., Hel., Ion, Iph. A., H. F. Declamate, o cantate dunque le parodoi: una ricognizione in Di Marco, La tragedia greca, pp. 207 ss., ma si rinvia a Zaminer, Il contrapposto ritmico negli anapesti di marcia, per la riflessione di carattere ritmico (più che metrico) relativo al sistema greco quantitativo, unico nel suo genere, e in particolare al fatto che tali anapesti, alternandosi in movimenti ritmici contrari (cioè col piede dattilico, che è l’opposto dell’anapesto), «determinavano anche il passo di marcia dell’ingresso del coro» imponendo studiate pause di riflessione: espone, dunque, le maniere possibili di rapporto tra ritmo e passo. Tra la bibliografia sulla parodo, segnalo ancora Kranz, Parodos, spec. coll. 1686 ss., che presenta una schematizzazione in due tipi, A e B, ciascuno dei quali viene suddiviso rispettivamente in tre e due forme, e Pattoni, La sympatheia del coro nella parodo, che offre un esame di parodoi incentrate sul legame di philia tra coro e personaggi. Lo stesso potrebbe dirsi per l’ἔξοδος, nella quale anche è probabile che i metri anapestici fossero accompagnati dall’auleta: pochi versi in Eur., es. Alc., Med., Andr., Hel., Bacc. (si veda a proposito Koster, Traité de métrique grecque, XIV, 11-12) ed anche in Sofocle, mentre una complessità maggiore si riscontra in Eschilo. Se non avessimo le fonti, non sembrerebbe azzardato ritenere naturale che l’Anonimo non sia andato troppo per il sottile, e abbia considerato parodos ed exodos genericamente senza entrare nei dettagli. Tuttavia, è dalle fonti che si deve partire, le sue possibili fonti. Annessa alla πάροδος in particolare, esiste tutta una problematica soprattutto a partire dalla definizione di Arist., Poet. 1452b 22, che ha suscitato interventi a non finire dalla critica, πρώτη λέξις ὅλου χοροῦ: in sostanza «prima espressione v e r b a l e » del coro tutto intero (non diviso in due come nelle epiparodoi), oppure secondo Gentili, Il coro tragico nella teoria degli antichi, p. 29, «prima intera espressione del coro» (leggendo ὅλη invece di ὅλου), proprio perché in tal modo si può eliminare il problema e intendere la parodo sia cantata che in recitativo, in un contesto in cui i due campi μέλος
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e λέξις si escludono a vicenda. Anche riferendo la scelta aristotelica agli anapesti corali della tragedia più antica, riesumati nel IV secolo, coinvolgerebbe Aristotele «in contraddizioni, quanto meno anacronistiche»: così Marzullo, La definizione della parodos, p. 30, al quale si rinvia per una disquisizione filologica sul tema, con analisi delle proposte moderne e fonti alla mano. Queste ultime, infatti, le fonti, ad eccezione di Haeph., p. 75,16 Consbruch che, su evidente scia aristotelica, definisce la parodo ἀναπαιστικὰ ... ἃ δὴ ἐν παρόδῳ ὁ χορὸς λέγει, diversamente la designano come i n g r e s s o del coro – ed ecco che perciò si giustifica la correzione del λέξις aristotelico in δεῖξις («prima apparizione del coro») operata da Gallavotti, Dell’Arte Poetica, p. 40 – oppure la designano c a n t o del coro contemporaneo al suo ingresso: cf. rispettivamente Poll. IV, 108 e Schol. Haeph., p. 173,19 Consbruch (che aggiunge ἐπὶ τὴν σκηνήν), e Schol. Eur., Phoen. 202. Vi possiamo aggiungere Euclide, con l’analoga fonte del Par. gr. 1173 (Anon. Par.), 19, la cui definizione ᾠδή Tzetze, Περὶ τραγ. ποιήσ., vv. 39-41, p. 44 Kaibel, riferisce calcando la mano, contrapponendola appunto a quella di “altri” (Aristotele) che la chiamano λέξις. Più esattamente il dotto dice che Euclide chiama ᾠδή la λέξις, e non λέξις: Pace, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, p. 243: «Nel contrapporre esplicitamente i due termini Tzetze può essere stato influenzato dal sistema di articolazione della tragedia da lui seguito, che si fonda sulla distinzione tra λέξις, parti recitate, e ᾠδή, parti cantate». Non si tratta tanto, dunque, di un’adesione alla definizione aristotelica che – se intesa come secondo Gentili, cioè “espressione linguistica”, che può intendersi bivalente – evidentemente gli consentiva di distinguere parodo come ingresso e stasimo come canto da fermo del coro (Περὶ τραγ. ποιήσ. 30, 38-39, 83-84, 107, p. 44 Kaibel, e cf. commento di Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 74 e 75 ss., e Eadem, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 241 ss., e Le parti della tragedia nella teoria post-aristotelica, p. 103), anche perché Tzetze fa capire che ritiene tutte egualmente valide le definizioni a v. 42, dove dice che le fonti esprimono lo stesso concetto con molti discorsi. E infatti secondo il significato euclideo egli poi riclassifica la parodo tra i canti del coro nella sua personale classificazione, a v. 176-177. Non possono dunque esservi dubbi che il ns. autore abbia qui completamente ignorato Aristotele per servirsi invece della versione di Tzetze/ Euclide – che comunque è quella di Polluce –, così come d’altronde ignora Aristotele anche per l’esodo. Per quest’ultima parte, infatti, ricordiamo che il Filosofo la definiva, come le altre, in funzione del coro, e quindi: parte della tragedia dopo la quale non vi è più canto del coro (Poet. 1452b 21-22), tradizione che influenza come in altri casi il Trattato Coisliniano (9, p. 53 Kaibel). Questa definizione viene solo in parte ripresa da Tzetze, Περὶ τραγ. ποιήσ. (24-25: la chiama λόγος, dopo il quale non c’è μέλος del coro), dove sono in realtà mescolate ambedue le tradizioni esistenti, quella metrica aristotelica (ma cf. anche Sch. Ar., Ve. 582b, che si riferisce all’accompagnamento dell’aulo),
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e l’altra che considera l’esodo come ultimi versi cantati dal coro; esclusivamente alla seconda tradizione si rifanno invece le altre definizioni tetziane, rispettivamente ai vv. 29-31, ed anche ai vv. 72, 83-85, pp. 44, 45 Kaibel, su cui cf. Pace, La struttura della tragedia, pp. 125-126 (e n. 62 le fonti), Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 237-238, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 71, tradizione però che, benché riferita, non viene condivisa dal dotto grammatico, il quale anzi, quando alla fine propone la sua personale classificazione di cui sopra, riferisce l’esodo solo tra i μέτρα, suddivisione dei λόγοι, evitando ogni problema di discrepanza tra le fonti (e v. Pace, La struttura della tragedia): Περὶ τραγ. ποιήσ. 166-172, p. 48 Kaibel, come già a 24-25 citt. e 79-81, pp. 44 e 45 Kaibel, su cui cf. Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, loc. cit. e pp. 131 ss. In particolare a p. 71, sulla terminologia λόγος a proposito del primo riferimento 24-25, la condivisibile interpretazione come una semplice “espressione verbale”, così come si è argomentato anche a proposito della parodo, richiama il parallelo λέξις aristotelico come pendant, proprio nel senso di prima espressione verbale, di cui si è discusso. C’è da sottolineare che questa tradizione “metrica”, per ambedue πάροδος e ἒξοδος, ha il pregio di poter così includere il recitativo in anapesti, escluso dalla versione “lirica” seguita dal ns. autore. Infine, va riveduto il problema dell’ἐμμέλεια, questa volta come già detto inclusa tra i μέλη, un’inclusione che è stata considerata strana e peraltro interpretata da Perusino (p. 43 cit. e poi 87-88), e già prima da Centanni, Emmeleia, pp. 103-104, come “canto corale all’interno di un episodio” e quindi “intermezzo lirico corale”: un’interpretazione che le due studiose estendono come si è visto anche alla menzione della sez. 1, a proposito della quale ho già spiegato il mio disaccordo, visto che lì l’emmeleia vi ricorre in una semplice lista di parti costitutive dell’opera teatrale. Una reale difficoltà, invece, potrebbe in effetti sorgere per questa seconda menzione, che trova una corrispondenza, come parte del canto corale tragico, ᾠδῆς τι μέλος (sic, lezione che accolgo: v. infra), in Tz., Περὶ τραγ. ποήσ., vv. 29-31, 59-60; anche 114 dove riferisce la definizione di Euclide «canto del coro accompagnato da danza» (pp. 44, 45, 46 Kaibel), diversamente da v. 74 in cui il riferimento è alla danza (ὄρχησις) della tragedia. In modo chiaro Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 108112, ad v. 114 (ma cf. anche ibidem, pp. 73-74 e 87, mentre pp. 93-94 sul v. 74), spiega come fondamentalmente il problema sia collegato al fatto che la danza, eseguita verosimilmente durante gli stasimi, non si concilia con la tradizione, principalmente scoliastica, che interpreta erroneamente lo stasimo come canto da fermo (su cui v. anche Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, p. 251), probabilmente anche a causa della scomparsa della danza dal dramma (cf. pure ibidem, pp. 65-66 e p. 84) – tradizione in cui si inserisce anche la fonte Euclide, come si è visto, e di cui la medesima studiosa parla anche in Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 253 ss. –, per cui a un certo momento essa fu
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scissa dallo stasimo e collocata nella parte centrale della tragedia, in cui il coro poteva muoversi mentre cantava. Secondo la stessa studiosa, p. 110, l’ipotesi degli intermezzi lirici formulata da Centanni «non sembra essere suffragata da elementi decisivi». La critica odierna, tuttavia, è orientata a intendere lo stasimo non nel senso che il coro era stante, ma in quello che aveva raggiunto la στάσις nell’orchestra (e cf. testimonianze in Pace, loc. cit.), ricominciando a muoversi nelle due direzioni: in tal caso, si può allora alludere alle sue evoluzioni durante gli stasimi, alternativamente a destra e a sinistra in modo ritmico, probabilmente in modo intervallato, per cui più avanti, nella sez. 11 (vedi), l’Anonimo potrà parlare del suo carattere «dignitoso e solenne, con lunghe pause tra i movimenti». Infatti, il punto è che non si può precisare come fossero i movimenti, rispettivamente, nella strofe e nell’antistrofe, se la musica fosse ripetitiva e i movimenti gli stessi. Va inoltre ricordato che presso i Greci era considerata danza anche una semplice gestualità che accompagnava un canto (cf. Lawler, The Dance in Ancient Greece, p. 82; anche Iüthner, Ἐμμέλεια, col. 2498: «concordanza dei movimenti del corpo nella danza col canto»). Si rinvia a Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, loc. cit. ss., e Dale, The Lyric Metres, p. 214, e in special modo a Pintacuda, La musica nella tragedia greca, pp. 81-82, per la discussa questione relativa al modo in cui la danza si associasse all’esecuzione cantata, e alle possibili alternative, in assenza di documentazione sufficiente. Di questa ἐμμέλεια tuttavia elencata tra le parti corali cantate in questo nostro testo, come si è detto Tzetze non solo ci fornisce un parallelo, ma malgrado l’oscurità delle sue fonti ci fornisce addirittura la chiave di interpretazione. Egli ci dà infatti le definizioni dei cinque elementi corali secondo la sua fonte, definizioni omesse dal Nostro. E così πάροδος è il c a n t o d’ingresso del coro: canto e non λέξις, dice Euclide, come già sopra sottolineato; στάσιμον è quando il coro, stando fermo (ecco che anche lui si inserisce nella tradizione erronea), comincia a c a n t a r e ; κομμός è il c a n t o del coro con gli attori; ἔξοδος è la quinta parte del coro, che sta alla fine. Coerentemente, l’ἐμμέλεια è – si ripete – un ᾠδῆς τι μέλος122, ma solo questa non è citata da Euclide, il quale al suo posto aveva collocato l’ὑπόρχημα: «chiama hyporchema l’emmeleia» riferisce Tzetze (Περὶ τραγ. ποιήσ. 114-115 citt.), cioè canto del coro che termina con una danza. In realtà l’ὑπόρχημα era una danza in perfetta coordinazione con la poesia, e dunque basata su un rapporto dialettico di movimento/canto, in un concetto mimetico dell’esecuzione: ricordo che Proclo dà la definizione di «canto eseguito con accompagnamento di danza (μετ’ 122 Non ritengo necessario l’emendamento della lezione condivisa da tutti i testimoni in μέρος, proposto da Westphal e accolto da Perusino, p. 43, e da Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 48, cui neanche Browning, p. 72, era ricorso. L’ambiguità μέρος / μέλος è peraltro consueta in contesto musicale (ad es. Alyp., Isag., p. 367,11 Jan: l’editore si chiede quali dei due, nell’espressione τῆς μουσικῆς μέρος).
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ὀρχήσεως)» (Phot., Bibl. 239, 320b, p. 162, 33-34 Henry). In questo senso, dunque, non è poi così stonata l’associazione di Euclide, considerato inoltre che non tutti i canti erano accompagnati da danza (come dice Ath. XIV, 631d). Tuttavia, va ammesso che non è semplice l’individuazione delle caratteristiche peculiari di questa danza, tenendo presente la confusione evidente nelle fonti tardive, come ad es. l’assimilazione col kordax (Ath. XIV, 630c-e, da cui si arguisce stranamente un ben altro carattere di vivacità, malgrado il tono austero e grave di molti dei frammenti pervenutici, e l’attestata affinità col genere solenne del peana). Si rinvia a Di Marco, Osservazioni sull’iporchema, su tutta la problematica e sul corrompersi di questa danza coi cambiamenti della musica tradizionale, assieme a tutte le contraddizioni attestate dalle stesse fonti, analiticamente passate in rassegna, e in special modo pp. 335 ss. Cf. anche Dale, Stasimon and Hyporcheme. A proposito, quindi, dell’inserimento di quest’altro εἶδος operato da Euclide, cf. ancora la stessa Dale, The Lyric Metres, p. 210, nonché i commenti di Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 87 e pp. 108113, e Eadem, La struttura della tragedia, pp. 126-127. È dunque probabile che sia stata l’interferenza della fonte tzetziana Euclide ad influire sull’accezione del termine ἐμμέλεια nell’Anonimo, tanto più che ancora Tzetze, più avanti, parla di τραγῳδίας ὄρχησις (60 e 74, p. 45 Kaibel; cf. poi Perusino, p. 43 cit.), che non ritengo proprio sia una svista, come ritenuto da Browning, p. 72. D’altronde, sappiamo bene che il termine ἐμμέλεια nei testi classici non è usato solamente col significato di danza: anzi, prima di ricevere questa stigmatizzazione, come la sua stessa etimologia suggerisce (ἐν μέλει), equivaleva a sintonia musicale, o giusto accordo nel suono e nella voce, e poi modulazione armonica di voce (cf. Dion. Hal., Dem. 50; Plut., De aud. 41d; Ar., Ran. 895-8), onde in Polluce, come si è visto, viene inserito tra i generi di canto. Si può, ancora, osservare che tra le sette parti della parabasi comica, che sono danzate (ἑπτάκις γὰρ ὁ χορὸς ὠρχεῖτο), la quarta danza si chiamava ᾠδὴ καὶ στροφή (cf. Tz., Περὶ κωμ. 78, p. 22 Kaibel = 19, p. 8 Cramer, Anecdota Graeca I), mentre ricordo quell’altra testimonianza di Tzetze, Περὶ κωμ., sopra già messa in risalto, che intende (e sostituisce tacitamente) χορικόν semplicemente come μέλος χοροῦ, mostrando di ritenere prerogativa della parte corale il cantare ma in totale indifferenza dell’una o l’altra sua specificità, dal momento che la componente cinetica o ritmica è naturale e quindi scontata in ogni manifestazione del coro tragico, anche se diversa ne è la misura o la tipologia (a partire ad es. dall’ingresso del coro, segnato ritmicamente con un passo per ogni elemento metrico – m a r c i a t o , però, e non d a n z a t o nel caso del ritmo anapestico – ). Per concludere, il problema è alla fine un falso problema: «parte del coro (coro come personaggio) in cui il coro canta con movenze di danza» (o pose, o figure di danza, secondo quanto si analizzerà a proposito del terzo ricorrere
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dell’ἐμμέλεια): canto, insomma, che non esclude l’attività cinetica del corpo, che non contraddice «danza che può essere cantata» (secondo Sch. Ar., Ran. 896a), è l’interpretazione che darei senza indugio indistintamente nei tre passi. Ma, infine, fondamentale testimonianza della polivalenza del termine in epoca bizantina mi sembra proprio la testimonianza di Suida da Centanni riportata e spiegata a dimostrazione della sua tesi di slittamento semantico per confusione col termine ὑπόρχησις. Mi pare opportuno riflettere nuovamente sulla interessante definizione del lessico bizantino: ἐμμέλεια χορικὴ ὄρχησις, che è dunque il significato ordinario, se vogliamo primario. Dopo un punto, tuttavia, viene spiegata διχῶς (= separatamente, doppiamente) [...] ἡ εὐρυθμία [...] καὶ ἡ μετὰ μέλους τραγικὴ ὄρχησις καὶ ἡ πρὸς τὰς ῥήσεις ὑπόρχησις, dove la seconda definizione evoca Plat., Leg. 816b che, dopo aver elogiato la danza emmeleia aggiunge ἢ ἀπὸ τοῦ μέλους ὠνομάσθαι, ἢ ἀπὸ τοῦ πρὸς τὰ μέλη γίνεται. Le tre distinte definizioni della Suida sono collegate tra loro dalla congiunzione kai, dunque sono presentate in piena parità (e non in alternativa) l’una con l’altra. Penso pertanto che non vada persa di vista la prospettiva cronologica, dato che l’Anonimo, assieme a Tzetze, sono posteriori a Suida, quando evidentemente era del tutto compiuto il processo di assimilazione ed equivalenza delle varie accezioni del termine. Tant’è che, posteriormente, i due significati convivono pacificamente in quell’autorevole fonte del Seicento che è Giovanni Meursius, Orchestra, che può considerarsi la prima monografia sulla danza greca antica, e che assieme a Giulio Cesare Scaligero e Musonio Filosofo costituiscono le uniche fonti “archeologiche” sull’argomento, malgrado i rischi sottesi di fraintendimenti (ed. Gronovius, TGA, VIII). S.v. ἐμμέλεια, definita inizialmente saltatio tragica, a chiusura Meursius dice: «Porro non sola saltatio ἐμμέλεια dicebatur; sed at cantus ille, qui ad tibia inter saltandum canebatur», col riferimento a Eust., Ad Il. 1167, 21-22 (IV, p. 272, 12-13 Van der Valk): ἐκαλεῖτο δέ φησιν ἐμμέλεια καὶ τὸ ὑπὸ τὴν τραγηκὴν ὄρχησιν ᾀδόμενον αὔλημα, e il collegamento alla definizione di “canto” di Polluce (ed. Naerebout & Raftis, col. 210). Aggiungo solo una breve riflessione, dettata dalla terminologia della lingua greca moderna. Mi sembra molto significativo che oggi il termine χορός, la cui etimologia antica indica un χορεύειν ἐν χορῷ (diversamente da ὀρχέομαι, che indicava il movimento ritmico in generale), indichi la danza corale (κατὰ ὀμάδες) in generale, quella tradizionale che è spesso accompagnata dal canto; ed è danza in cerchio, secondo quello stesso principio antico dell’appartenenza dei singoli membri ad un unico corpo e quell’uso arcaico, di origine cultuale, di danzare attorno all’altare. Ricordiamo che già Plat., Leg. 654b3, usava χορός per indicare danze e cori insieme, ma rinviava anche al movimento degli astri, mossi da intelligenza divina, a cui si richiama la circolarità della disposizione del coro: chi è educato al choros, secondo il filosofo, ha un’educazione completa. Penso che nell’evoluzione semantica abbia influito uno slittamento del concetto
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di coro della tragedia antica, concetto complesso, inclusivo, per l’appunto, di canto e danza, e di cui le tracce più evidenti rimangono nella danza tradizionale greca di oggi, come del resto è stato anche scritto più volte (cf. es. David, The Dance of the Muses, p. 257, o Pintacuda, La musica nella tragedia greca, p. 75). L’alleanza, essenziale per il gruppo, di corpo e voce nel χορεύειν viene focalizzata da Peponi, Theorising the Chorus in Greece, dove si ripercorre l’etimologia del termine e la sua evoluzione nella percezione degli antichi, per i quali tra V e IV secolo il significato dedotto dalle fonti è duplice, sia di area pubblica in cui il coro si esibiva e sia dell’attività stessa del χορεύειν. 22) Κομμός = θρῆνος era già in Poet. 1452b 24, con la quale, però, nient’altro ha in comune la definizione dell’Anonimo. E allo stesso modo niente ha in comune con Tzetze, Περὶ τραγ. ποιήσ. 64-70, p. 45 Kaibel (e cf. commento e testimonianze riportate da Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 89-92), il quale, pur ripetendo, quasi similmente, la definizione aristotelica (nonostante che l’essere qualcosa in comune del coro e dell’attore turbi l’equilibrio della sua struttura, in cui ha operato una distinzione tra i due ruoli), aggiungerà che il κομμός è più triste del θρῆνος, anche se quest’ultimo è più tranquillo: attuerà, dunque, una separazione tra i due termini, pur senza ignorare che «secondo qualcuno» κομμός è θρῆνος (si rinvia al commento di Pace, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 89-91). SEZ. 5 23) Questa sezione del trattato, dedicata alla musica nella tragedia e commentata da Browning alle pp. 75-78, è si può dire, e come è stato riconosciuto, un inedito – e non solo rispetto ad Aristotele, ma anche alle fonti bizantine – malgrado i non pochi refusi del copista che mostrerebbe una notevole ignoranza in materia, e perciò presenta senz’altro un interesse unico, probabilmente al di là del fatto che numerose siano le lacune nella documentazione relativa in nostro possesso, come osserva Perusino, p. 55. La perdita più grave, malgrado il gran numero di fonti che ci ragguagliano di una sufficiente quantità di notizie, è proprio l’assenza della musica. L’eccezione, per la tragedia, dei due frammenti musicali di Eur., Or. 140-207, 338-344, e Iph. A. 784-792, 1499(?)-1509 in codici che non rispettano la tradizione testuale alessandrina fa ipotizzare l’esistenza di due rami diversi di trasmissione, dei quali quello sopravvissuto derivato dalle edizioni dei filologi alessandrini era epurato da ogni riferimento musicale-spettacolare, in quanto il fine era la lettura: cf. Ballerio, Plutarco La musica, p. 8 n. 6. Comotti, La musica nella tragedia greca, attribuisce la causa di questa assenza al fatto che i copioni teatrali non venivano corredati di spartiti musicali perché gli stessi poeti avrebbero insegnato a orecchio le arie; egli considera il ns. trattato tra le fonti che passa in rassegna, dalle quali il quadro
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dei caratteri della musica teatrale almeno sino a tutto il V secolo viene delineato in modo abbastanza dettagliato. Si intenderà sottinteso il riferimento a questo importante contributo, per tutta questa sezione. Dello stesso, cf. Parola, verso e musica nell’Ifigenia in Aulide, successivo ai ritrovamenti pubblicati da Pöhlmann, Denkmäler altgriechischer Musik. Non resterebbe, dunque, molto altro da dire sul nostro testo, anche rispetto alla disamina di Perusino, pp. 55-72; mi limiterò tuttavia ad aggiungere alcune precisazioni, anche per dare un senso compiuto a questo commentario, non senza sottolineare l’iniziale condivisione con la correzione, operata dall’editrice, di διτόνων in διατόνου che dà un parallelo ad ἁρμονίας e supplisce alla mancanza del genere diatonico. La nozione di γένος: escogitata da Aristosseno assieme a quella di τόνος, per cui le armonie vennero distribuite in generi per la grandezza degli intervalli, in modi (τρόπος, σχῆμα, εἶδος) per la collocazione degli intervalli (es. Bacch., Isag., 48, p. 304, 2 Jan, definisce il modo: πλοκῆς ἐμμελοὺς σχῆμα), e in toni per l’altezza dei medesimi, riguardo ad essa e ai tre tipi di melodia cf. le fonti musicali edite da Jan, nonché Ptol., Harm. ΧΙΙ, p. 29 Düring, Porph., Comm. In Ptol. Harm., pp. 137-138 Düring, e G. Pachim., De mus., pp. 110-111 Tannery. West, Ancient Greek Music, pp. 190 ss., evidenzia questa generale abbondanza di riferimenti sul carattere delle melodie a fronte dell’estrema povertà di documenti sulla musica antica. Il genere diatonico, semplice, austero e grave, era il più antico e più vicino alla sensibilità greca (φυσικώτερον secondo Arist. Quint., p. 16, 10-11 Winnington-Ingram (cf. Vitr., De arch. V, 4.3), mentre l’enarmonico, più raffinato ma di effetto più artificioso (l’ottava, divisa in quarti di tono, veniva ad avere 24 suoni), fu introdotto per ultimo – secondo Aristosseno ad opera di Olimpo e quindi dell’auletica frigia: cf. Ps. Plut., De mus. 11, 1134, p. 115, 36 -116, 19 Lasserre – in quanto presupponeva già definiti gli intervalli cromatici (da Filocoro, fr. 23 Jacoby, attribuiti a Lisandro di Sicione). Della mescolanza dei due generi, oltre ad Aristosseno cit. da Browning, p. 74, e Perusino, p. 58 assieme a Cleon., Isag., 6, p. 189, 15 Jan (ma anche 4, p. 184, 11), parla inoltre Nicom., Harm. 1, 12, p. 264 Jan. Per una ricostruzione del percorso del diatonico, con la dimostrazione della sua origine orientale e la sua importazione in Grecia sin dall’epoca arcaica, e il suo ruolo fondamentale nelle innovazioni musicali del tardo periodo classico, cf. Franklin, Diatonic Music in Greece. Da un punto di vista filologico, lin. 31, non fa problema restituire, assieme a Perusino, la lectio del codice ἐξ, già corretta dal copista da un precedente ἐν. Questa sovrapposizione sicuramente avrà indotto Browning a leggere ἑνικῆς, riferito all’armonia, una lezione che trovo comunque ottima, da interpretare come “singola”, “a solo”, ovvero “pura”, senza che sia necessaria la correzione γένει τῆς di Winnington-Ingram, condivisa dal medesimo Browning e sottintesa da Perusino, visto che la cancella dal testo (p. 28, lin. 37). Si può anche osservare che ἁρμονία per ἐναρμόνιον è comune presso i musici; soltanto in Arist. Quint.
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ἁρμονία per ἐναρμόνιον si trova una sola volta, p. 15, 21 Winnington-Ingram. A proposito di questo genere della dottrina aristossenica passato nella storia della teoria musicale greca, cf. tuttavia S. Baud-Bovy, La canzone popolare della Grecia moderna, che attraverso un’analisi tecnica dimostra l’impossibilità di una sua reale esistenza nella realtà. Sulla musica in generale nel mondo greco ci si limita a rinviare (in ordine cronologico) a Reinach, La musique grecque; Winnington-Ingram, Ancient Greek Music; Anderson, Ethos and Education in Greek Music; Righini, La musica greca; Chailley, La musique grecque antique; Comotti, La musica nella cultura greca e romana; Barker, Greek Musical Writings; Gentili – Pretagostini (edd.), La musica in Grecia; West, Ancient Greek Music (p. 6 cita il ns. trattato tra le fonti). Con particolare riferimento alla tragedia: Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, pp. 257-262; Pintacuda, La musica nella tragedia greca; Sifakis, The function and significance of music, e Weiss, The Music of Tragedy. 24) Anche quanto segue mostra una certa competenza dell’Anonimo in tema musicale, compresa una notevole conoscenza della rivoluzione musicale che si attuò a partire dal IV secolo (su cui cf. Perusino, pp. 55-56). Ci sono però delle distinzioni da fare. Innanzitutto la sua distanza da Aristotele, se si fa eccezione di quanto Perusino osserva a p. 56, e cioè del fatto che ad Aristotele (e a PseudoAristotele, Pr. XIX), come a Platone e poi Aristosseno e Aristide Quintiliano, risale lo stesso concetto etico dei generi musicali col valore educativo della musica, originato dal principio pitagorico, e poi damoniano – recepito da Platone (e cf. Anderson, The Importance of Damonian Theory, nonché Barker, Greek Musical Writings cit., pp. 168-169) – che la musica inculca la pratica delle principali virtù, per cui ciascuna armonia e ritmo, per il suo proprio carattere, poteva suscitare un particolare stato d’animo. Rinvio a Rossi, La dottrina dell’«éthos» musicale, per una ricostruzione nelle numerose occasioni di pratica musicale della Grecia arcaica e classica della sperimentazione che stava a fondamento di tale dottrina, e a Abdy Williams, The Aristoxenian Theory, pp. 94-106 (anche in rapporto alla musica odierna), mentre sulla considerazione di criteri nuovi con cui valutare questa nozione di ethos modale nella musica posteriore (bizantina) – valutazione estetica più che morale – cf. Moutsopoulos, Modal Ethos. Non penso, tuttavia, che tutto ciò vada sopravvalutato, trattandosi dell’ottica prevalente nella cultura greca (come del resto riconosce anche Perusino, loc. cit.) e persistente presso i teorici per tutto il periodo ellenistico e romano, contrastata solo dalla corrente epicurea. In Poetica, tra l’altro, se prescindiamo dal discorso della catarsi di cui questo principio è il motore, sappiamo bene che un approccio musicale in quanto tale è quasi inesistente, e si coglie solo una sottile ironia nei confronti di Agatone, cui il Filosofo imputa l’introduzione di intermezzi slegati alla vicenda drammatica (Poet., cap. 18, 1456a 12-32) – per cui erano intercambiabili –, rispecchiando così secondo Gentili, anzi, divenendo la più
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antica teorizzazione sia pure in chiave negativa di un ormai prevalente uso «contaminatorio» di compilare antologie drammatiche, che in età ellenisticoromana sarebbe diventata quella cultura selettiva della contaminazione alla base dell’insegnamento scolastico ed anche dei repertori delle compagnie teatrali (Gentili, Lo spettacolo nel mondo antico, pp. 11 ss., 27 e passim, diversamente da Gallavotti, Dell’Arte Poetica, p. 167). Dunque, la critica aristotelica alla nuova musica, nella Poetica, si riduce sostanzialmente al disappunto per il ben noto decadere della funzione del coro al suo tempo di cui abbiamo già detto, cui corrisponde la smisurata sopravvalutazione del ruolo dell’attore, disappunto però recepito dalla tradizione successiva, se anche Orazio raccomanda che il coro deve avere una funzione propria, sostenendo la parte di un attore, e negli intervalli non deve cantare cose che non si riferiscono all’argomento (Hor., Ars Poet. 193-195). E allo stesso Agatone, Plut., Quaest. Conv. III, 1,1 (645e) attribuisce l’introduzione nella tragedia del genere cromatico – notizia in realtà opposta a Ps. Plut., De mus. 20, 1137, p. 119, 25-26 Lasserre, che nega che la tragedia si fosse mai servita di questo genere –. L’innovazione fu aspramente criticata dai tradizionalisti perché, per le modulazioni simultanee che la sua scala di semitoni implicava, produceva un effetto languido (e cf. West, Ancient Greek Music, p. 351: lo studioso riporta il ns. trattato, da lui attribuito a Psello, come fonte unica per le innovazioni euripidee). È però poco chiaro se si trattasse di un solo ἐμβόλιμον, mentre secondo il medesimo Ps. Plutarco l’innovatore sarebbe invece stato Filosseno di Citera, il quale anche in uno stesso μέλος alternava le scale cromatiche con quelle diatoniche, non abusò tuttavia rispetto ad altri innovatori come Melanippide, Cinesia o Frinide, accusato da Ferecrate (Χειρ. 1, in Ps. Plut., De mus. 30, 1141-1142a, pp. 124, 23 ss. Lasserre) di aver avventato un turbine nella musica per aver immesso nell’ottava diatonica tutti gli intervalli possibili; o rispetto ad un Timoteo il quale, mirando a riflettere nella musica i sentimenti dei personaggi, ἀνέλυσε, scompose la medesima frazionando al massimo gli intervalli tonali, e immettendo quindi altri suoni entro gli estremi della scala (γένος πυκνόν secondo i musicologi) – formando intricati ἐκτράπελοι μυρμηκίαι, νίγλαροι (espressione “saccheggiata”, per un utilizzo differente, più avanti dal ns. autore) –. L’Anonimo, ignorando o negligendo tali notizie, ad Agatone piuttosto riserverà più avanti l’introduzione delle armonie ipodorica e ipofrigia (e cf. Schol. Ar., Thesm. 121), mentre invece è su Euripide, come si vede, che concentra diverse iniziative, per prima proprio questa dell’introduzione del cromatico, cromatico che, per affinità, è associato al ritmo ποικίλῳ, e questo a sua volta – si può anticipare – si identifica con quella πολυχορδία di cui dirà più avanti (vedi). Dopo, diatonico e cromatico si sovrapposero ancora negli Inni Delfici, finché una reazione al cromatico fu rappresentata dai tre inni romani del VI secolo d.C. A Calliope, A Nemesi, Al Sole (cf. Romagnoli, Musica e poesia nell’antica Grecia,
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pp. 37 ss.). Per un riesame degli inni ad Apollo, cf. Bélis, A proposito degli «Inni Delfici», mentre sul problema della sopravvivenza del cromatico nella musica bizantina, cf. Amargianakis, The Chromatic Modes, ed Abdy Williams, The Aristoxenian Theory, p. XI. Un’analisi dei generi antichi nella musica della chiesa ortodossa bizantina in Husmann, Chromatik und Enharmonik in der Byzantinischen Musik. Cf. anche Wellesz, History of Byzantine Music. 25) Successivamente ai generi, oἱ τόνοι, secondo la terminologia aristossenica modi o armonie designati da un nome etnico, probabilmente risalente come si è detto a Laso di Ermione, dal quale discenderebbe l’etica musicale del sec. V e la critica posteriore: cf. Lasserre, Plutarque, De la musique, Introd., p. 43. Sette in tutto (tredici secondo Aristosseno che sdoppiava ciascuno in acuto e grave) se si devono intendere come tutte le possibili maniere di formare una scala, partendo da ogni nota dell’ottava. Sull’interpretazione controversa di questi termini (confusi dai concetti moderni di ottave, modi o toni di altezza, ma già confusi nel medioevo), cf., oltre a Lasserre, Plutarque, De la musique, pp. 38 ss., anche Moutsopoulos, La musique dans l’œuvre de Platon, pp. 69 ss., e Chailley, La musique grecque antique, pp. 105 ss. La più schietta sembrerebbe quella che può dedursi da Aristosseno, Ἁρμονικῶν στοιχείων, presso il quale il tono, distinto dal modo, corrisponderebbe all’attuale chiave di trasposizione. Aristide Quintiliano, annotando tre diverse maniere in cui bisogna intendere τόνος, si rifà a lui per questo singolo caso, ma – diversamente da lui – intende il termine come sinonimo di τρόπος (modus) (p. 20, 1, cf. p. 112, 28 Winnington-Ingram, e vedi Plut., An seni 793a: τόνων καὶ τρόπων ... οὓς ἁρμονίας οἱ μουσικοὶ καλοῦσι: altri esempi in Franklin, Diatonic Music in Greece, p. 683 n. 40), mentre impiega τόνος a p. 30, 9 e 23, 1 e ἁρμονία nello stesso senso a p. 81, 23. Ἁρμονία, a sua volta, è largamente usato da Platone, Resp. 398c-399c, ecc.; Arist., Pol. IV, 1290a 20; VIII, 1339a 11-1342b 34; Ps. Arist., Pr. XIX, 48, ecc.; Eracl. Pont. in Ath. XIV, 625b. Τόνος invece secondo Aristosseno si trova in Cleon., Isag., 12, p. 203, 4, 5, 11 e 13, p. 205, 7 Jan, mentre τρόπους τε καὶ τόνους in Alyp., Isag., 3, p. 367, 21 ecc., e τρόπος in Bacch., Isag., 46, p. 303, 3; 53, p. 304, 16 … Il dorico, virile e solenne (che Platina di Fliunte opponeva allo ionico rilassato, fr. 1,19 Del Grande; cf. Plat., Leg. 670b e Lach. 188d (con Resp. 399a); Arist., Pol. VIII, 1342b 12; Ath. XIV, 624c, 625b; Ps. Plut., De mus. 16 e 17, 1136-7, p. 118, 7-33 Lasserre; Arist. Quint. 81,20, cf. 23,1 Winnington-Ingram) e il misolidio, inventato da Saffo secondo Ps. Plut., De mus. 16, 1136, p. 118,7 ss. Lasserre (su Aristosseno, fr. 81 Wehrli), lamentoso e triste (carattere già affermato da Damone, fr. 8. Su tale tono, cf. Plat., Resp. 398 d-e; Arist., Pol. VIII, 1340b 1-2; Ps. Plut., De mus. 16 cit. e 28, 1140, p. 123, 32-35 Lasserre; Bacch., Isag., 46 ss., p. 303 Jan), assieme all’eolico furono i toni ritenuti nazionali di fronte agli altri considerati esotici, e unanimemente considerati i più convenienti alla struttura tragica: cf. le citazioni di Browning, p. 75. Anche Aristosseno menzionava dorico e misolidio come propri alla tragedia, certamente sem-
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pre in base a quella dottrina dell’ethos. Mi discosterei dalla traduzione di πρὸς τοὺς οἴκτους di Perusino, p. 29 «…più confacente ai lamenti», optando piuttosto per il primario significato di “compassione”, “pietà” intrinseco nel termine oἶκτος, più aderente al concetto aristotelico di tragedia, i cui fatti devono suscitare paura e compassione per indurre alla catarsi (di cui v. infra, p. 145, n. 233), grazie quindi anche all’armonia più adatta. Perfettamente pregnante, pertanto, mi sembra la traduzione inglese di Feaver, More on Mediaeval Poetics, p.115: «… the Mixolydian for its effectiveness in depicting pity». 26) Per l’impiego di queste due armonie nella tragedia, la ionica e la lidia, corrispondente al passo di Ps. Plut., De mus. 17, 1137, p. 118, 31-33 Lasserre (cit. anche da Perusino) che ci avverte che Platone sapeva che i poeti tragici se ne erano serviti «nelle parti cantate», richiamo anche il passo di Ps. Arist., Pr. XIX, 48 (922b 19-20, e cf. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, pp. 258-60), dove è detto conveniente al coro ethos e canto lamentoso e pacato, anche se non si concilia molto col luogo platonico già citato Resp. 398e, in cui le armonie ionica e lidia, condannate per il loro carattere snervante ed effeminato, sono definite non soltanto molli, ma pure “conviviali”, probabilmente per un mutamento dovuto a influsso orientale dopo la conquista della Ionia da parte dei Persiani, come fa pensare Ath. XIV, 624c-d. La stessa fonte d’altro canto, 625b, riportando il giudizio di Eraclide Pontico, definisce l’armonia ionica austera e dura, e per questo τῇ τραγῳδίᾳ προσφιλής. Si rinvia a Mathiesen, Apollo’s Lyre, pp. 166 ss., per un discorso completo sulla trattazione delle armonie in Platone. Altri riferimenti sono estranei alla tragedia. 27) L’accostamento del frigio al lidio deriva probabilmente dal fatto che ambedue erano di importazione orientale. Il frigio era il modo del furore bacchico – collocato, per altezza dei suoni, tra il dorico e il lidio: Arist. Quint., p. 23, 1 Winnington-Ingram – alla quale Damone faceva corrispondere la virtù della saggezza, senza escludere l’estasi religiosa, considerate per le sue proprietà catartiche restauratrice dell’equilibrio interiore. Da qui proviene la teoria pitagorica della purificazione delle passioni, recepita da Aristotele (cf. Lasserre, Plutarque, De la musique, p. 63) il quale, apprezzando il frigio, ἐνθουσιαστικός (Pol. VIII, 1340b 5; ma cf. anche Ps. Arist., Pr. XIX, 48 cit., se si emenda ὑποφρυγιστί in φρυγιστί, come fa Boek, De metris Pindari, p. 242, 9), lo pone alla stessa stregua del dorico tra le armonie (Pol. IV, 1290a 20, VIII, 1342a 33-1342b 3: cf. Plat., Resp. 398c), e del flauto tra gli strumenti, in quanto ambedue ὀργιαστικὰ καὶ παθητικά (Pol. VIII, cit.). Frigio – attenzione – usato dalla tragedia in modo ditirambico, ovvero come armonia conveniente al ditirambo (e cf. Dith. Trag. Com., pp. 31-32), e qui concordo con Perusino, p. 64, sul soggetto più logico di κέχρηται, come già impiegato più sopra. Tale affermazione sul frigio, era del resto data da Proclo (Phot., Bibl. 239, 320b, p. 161, 19-20 Henry), ma Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, p. 260, osserva come il frammento musicale, già citato, dell’Oreste, appare proprio in
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questo modo, dando una conferma all’opinione di Aristotele. Si segnala tra l’altro che una testimonianza di Dionigi d’Alicarnasso (cit. in Romagnoli, Musica e poesia nell’antica Grecia, p. 37) sui poeti di ditirambi, ci assicura che essi passassero con facilità dal dorico al frigio e al lidio nello stesso componimento, così come da un genere all’altro, e non c’è da stupirsene, dal momento che furono essi i principali innovatori. Forse, sarà stato un riferimento del genere a influire sull’altra affermazione dell’Anonimo intorno all’uso sofocleo del lidio, non attestato; al contrario, è la Vita Soph., 23, ad attribuire al tragico l’introduzione del frigio. Più avanti, però, l’autore dichiara che il lidio è più adatto alla maniera citaredica, contraddicendo quanto prima detto su quest’armonia ma conformemente a Proclo, loc cit., 20-21: cf. Perusino, pp. 65-66, a difesa di questa lezione, contro la correzione di Browning, p. 76, in Αἰόλος. Avevo già espresso anch’io opinione di lasciare il testo com’è in quanto la seconda affermazione sul lidio potrebbe conciliarsi col carattere di questa armonia, conviviale da un lato e adatto ai cori tragici dall’altro, ovvero un’armonia varia, ma piuttosto aggraziata, e quindi con un carattere particolarmente lirico. Sulla rarità, in tragedia, dell’ipogrigio e ipodorico, rinvio a Borthwick, Notes on the Plutarch, pp. 66-67, che rimandando al trattato («possibly compiled by Psellus») collega l’affermazione a Ps. Arist., Pr. ΧΙΧ, 30 (920a 8-9). 28) Le altre innovazioni di Euripide secondo l’Anonimo: non solo egli costituisce l’unica fonte al riguardo, ma suggella un distacco definitivo dalla Poetica, con la quale – se proprio si volesse trovare un punto in comune – condivide solo una forma elogiativa accrescitiva riferita ad Euripide (vedi più avanti), che in Aristotele è un superlativo assoluto, e non precisamente del medesimo aggettivo. Per Aristotele, Poet. 1453a, Euripide tra i poeti è quello che riusciva a cantare ad es. la caduta di Troia «in singole parti» (1456a 17: elogio per saper focalizzare un’azione nella giusta dimensione), ma più semplicemente è τραγικώτατος, «il più tragico», il migliore perché quello che meglio riusciva ad ottenere l’effetto catartico che la tragedia deve raggiungere, evidentemente capace di suscitare un alto impatto emotivo col suo gioco di accenti interiori: una indoratura di pillola da parte del Filosofo di fronte all’appunto della frase precedente: «anche se non gestisce bene τὰ ἄλλα». Quali fossero queste “altre parti” che Euripide non sapeva trattare non è spiegato in questo punto, ma può dedursi dalla fine del capitolo 18 cui si è fatto tante volte riferimento, laddove Aristotele sentenzia che il coro deve partecipare all’azione «come fa in Sofocle, e non in Euripide», per concludere questa sorta di climax discendente con Agatone, colpevole della deleteria rivoluzione operata sulla natura dell’embolima di cui si è detto sopra. Euripide insomma, nella considerazione del Filosofo, starebbe a mezza strada nella china degenerativa, perché già con lui il coro avrebbe cominciato a snaturarsi (si rinvia a Scattolin, Aristotele e il coro tragico, pp. 176 ss.).
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Ma torniamo all’Anonimo, secondo il quale le innovazioni euripidee riguardano dunque l’estensione delle note (πολυχορδία: ma cf. Plat., Resp. 399c-d) e il metro, e su cui va sottolineata anche l’originalità delle sue espressioni. Sui termini impiegati, molto pertinenti, non solo di πολυχορδία, ma anche di ἀνάτρητος e poi – ecco i comparativi di maggioranza riferiti al poeta tragico, che sono due – πολυειδέστερος e πολυχρούστερος, dopo Perusino, pp. 67-69, un’analisi puntuale di tutto il passo viene offerta da Carucci, Chi ha “sforacchiato” la musica di Euripide?, che tra l’altro si dissocia dall’interpretazione del termine άνάτρητος data con perplessità da Browning, p. 77, da Borthwick, Notes on the Plutarch, p. 70, e da Perusino stessa, pp. 67-69 – riferita ad una metafora comica che collega la innovativa sperimentazione musicale alla tortuosità dei sentieri di formica – e, sviluppando un’osservazione di Bonanno, Recensione, p. 232, punta piuttosto, apportandone le testimonianze, sull’accezione musicale tecnica del termine, che, riferito all’αὐλός in quanto solo strumento che poteva prestarsi al virtuosismo, va inteso “forato” e, meglio, “multiforato” quando gli innovatori tentarono nuove possibilità di melodie con strutture sempre più complesse aumentando il numero dei fori. L’osservazione conclusiva e condivisibile è che dunque molto espertamente l’Anonimo mutui l’aggettivo «dal mondo degli strumenti a fiato piuttosto che da quello dei formicai» (p. 22), ma non si può negligere che lo stesso Browning, inizialmente, associando la policordia all’aulo per la sua ampia gamma di note, abbia scritto «it is tempting to refer the term to the pierced holes of the instrument». Su πάμφωνος e πολύχορδος riferito all’aulos di cui parla Pindaro (Ol. VII, 12, Pyt. XII, 19, Adesp. 29b [PMG 947]), la ποικιλία di Ps. Plut., De mus. 18, 1137, p. 119,1 Lasserre (termine glossato in πολυχορδία) e altre considerazioni sulla Nuova Musica (coniazione moderna), cf. Franklin, Diatonic Music in Greece, pp. 696 ss., e West, Ancient Greek Music, pp. 56 ss. da un punto di vista tecnico. Sulla musica in Euripide in particolare, la cui libertà metrica e ritmica – con note tenute più a lungo del dovuto – viene denunciata anche da Aristofane quando dice che colleziona monodie cretesi [hyporchema, eseguito da danzatori che mimando accompagnano il canto] e introduce nella sua arte inni sacrilegi, dileggiando per bocca di Eschilo i suoi canti lirici e la sua maniera di comporre le monodie (Ran. 849-850; 1329-1330), cf. Pintacuda, La musica nella tragedia greca, spec. pp. 164-168, che, sia pur ritenendo il tragico «un cauto innovatore, pronto ad assimilare le esperienze e le conquiste degli altri, ma prudentissimo nel trarne profitto immediato», ne mette in risalto la libertà che portò nel canto scenico con l’introduzione dell’armonia eolica antica (ipodorica, che l’Anonimo abbiamo visto attribuire ad Agatone, e che Ps. Arist., Pr. XIX, 48 (922b 14-15) caratterizza come ethos solenne e pacato e perciò più adatto alla cetra e all’attore, non al coro); un’analisi dell’amebeo euripideo, con le innovazioni di cui il drammaturgo ne fece oggetto per raggiungere un maggior effetto patetico in Cerbo, L’amebeo lirico-epirrematico; ma soprattutto cf. Csapo, Later
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Euripidean Music, con iniziale bibliografia retrospettiva: la sua analisi rivela, in termini statistici e cronologici, il vistoso aumento dei canti degli attori (monodie, duetti e terzetti) e l’introduzione di forme liriche libere, astrofiche e polimetriche da parte di Euripide, con un deciso mutamento qualitativo nella musica della tragedia, per concludere che, malgrado la Nuova Musica passi per anti-tradizionale, al contrario l’evidenza mostra che questi musicisti operavano nell’ideale di ri-creare una musica dionisiaca autentica. Di altro genere e impatto l’esame della lirica euripidea – e della sua novità di farne scaturire effetti drammatici – nell’ambito di uno studio completo della sua poetica in rapporto alla situazione storica del suo tempo in Di Benedetto, Euripide: teatro e società: ne emergono i nuovi moduli espressivi dell’ultima stagione del poeta, caratterizzata dalla ricerca di bellezza, vagheggiamento di terre lontane, senso coloristico esasperato, musica con funzione rasserenante – esigenza di evasione da una realtà ostile – in parallelo e sintonia con l’affermarsi ad Atene di un nuovo gusto artistico – quello dello ‘stile fiorito’ – che prelude all’ellenismo. Per la metrica, resterebbe aperto il problema del baccheo – usato dal tragediografo per le scene più patetiche (cf. Gentili, La metrica dei Greci, pp. 153 ss.) – distinto in semplice e doppio. Quest’ultima definizione potrebbe derivare dalla definizione dei ritmici antichi, i quali sentivano questo metro affine ai metri esasémi, per cui lo chiamavano coriambo (ibidem, p. 150); o potrebbe anche derivare dalla definizione quintilianea di «piede composto κατὰ συζυγίαν», e cioè da giambo+trocheo (p. 36 Winnington-Ingram), oltre alle supposizioni di Browning, p. 77. Ma non è escluso che con “baccheo doppio” si alluda ai casi di accoppiamenti di bacchei in seno al medesimo colon (cf. Dale, The Lyric Metres, p. 72. Essi, tuttavia, non mancano, per es., neppure in Aesch., Prom. 115). Si rinvia a Pace, Il termine περίοδος, p. 31 e i riferimenti a n. 24. SEZ. 6 29) La musica, malgrado la sua importanza, non deve però prevalere sulla recitazione. Si coglie quasi un avvertimento, e un timore che l’A. lascia trapelare dopo il climax sulle nuove vie di sperimentazione musicale, i cui effetti evidentemente egli vede negativi su tutto l’equilibrio della struttura tragica. In questa frase, intravedo nuovamente un riflesso aristotelico sulla superiorità della tragedia nella sua λέξις che, rispetto agli altri generi, può e deve gustarsi anche senza elementi accessori (ὄψεις e μελοποιία). Nel rinviare a Perusino, pp. 72-74, ne condivido anche il ritenere inutile la correzione di Kassel, Kritische und exegetische Kleinigkeiten IV, di ἐπιδέξιος in ὑπερδέξιος: ἐπιδέξιος = “agile” (εὐτρἀπελος: cf. Arist., Eth. Nic. 1128a 10), ma anche e soprattutto “elegante” (εὔμορφος: cf. Hsch., s.v.; Achm., Ὀνειρ. 124, 85) e, pertanto,
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“appropriato”, “adatto”, “conveniente”, “opportuno” (v. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, s.v.). In tale significato ben si lega e giustifica la frase che segue. 30) Ἐνδινεύεσθαι nel suo significato originario (anche medico: oltre a Hipp. e Galen. cit. da Perusino, p. 73, cf. Aret., Acut. morb. causs. I, 1, p. 2 Hemst.) può riferirsi tanto ai movimenti degli attori sulla scena, quanto alle evoluzioni del coro, che non erano certo sfrenate: e ciò è da collegare a quanto sarà detto nella sezione 11 sul carattere dell’ἐμμέλεια. Tutta l’espressione di disprezzo è comunque verosimilmente diretta non all’elocuzione tortuosa, come vuole la traduzione di Perusino che si riferisce a labirinti verbali, interpretazione sostenuta anche da Bonanno, Recensione, p. 232, e Carucci, Chi ha “sforacchiato” la musica di Euripide?, p. 14, e apparentemente giustificata dal precedente discorso sui labirinti musicali (secondo tuttavia quell’interpretazione fondata sui sentieri di formiche smontata come si è visto da Carucci). Penso che invece essa vada contro il movimento corporeo esagerato, proprio in considerazione della preoccupazione appena espressa che il ritmo (dunque la danza, assieme al canto) non deve esagerare a coprire la recitazione: da ricondurre alla critica aristotelica di chi gesticola eccessivamente nella mimesi della tragedia, «la maniera dei peggiori» (Gallavotti, Dell’Arte Poetica, p. 113), neanche necessario d’altronde, visto che la tragedia può ottenere il suo effetto – come sostenuto nel paragrafo precedente – anche senza κίνησις, così come l’epopea (Poet. 1462a 8 ss.). Ritengo per questo più idoneo il verbo to thrash usato da Feaver, More on Mediaeval Poetics, p. 116, nel tradurre la medesima espressione, e una conferma trovo nell’interpretazione di Csapo, Imaging… cit., p. 151: «excessive vortex dancing». SEZ. 7 31) Tralascio i rinvii ad Efestione, su cui cf. direttamente Perusino, p. 74 e pp. ss. per i vari riferimenti relativi a tutta la sezione. Ritorna qui una classificazione che lascia un po’ perplessi. Intanto, proprio in risposta agli interrogativi che erano stati posti dalla sezione 4, ecco che troviamo nuovamente menzionato la περίοδος, e questa volta non come λέξις, ma ἐν μέλεσι. E d’altronde, pare che proprio dalla musica derivassero le varie connotazioni del termine, ragione per la quale esso mantenne sempre la sua caratteristica ritmica (cf. Fleming, The Origin of Period). Essendo dunque inteso, in questa parte, non come possibile elemento costitutivo della strofe, e quindi di estensione minore («eine Miniaturstrophe»: Korzeniewski, Griechische Metrik, p. 12) come secondo Bruno Gentili – che difende il testo del manoscritto dando a καὶ valore esplicativo (cf. Perusino, p. 75) –, ma piuttosto come sistema κατὰ σχέσιν, che può equivalere alla strofe, come espressamente descritto da
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Dion. Hal., Dem. V, 50, 8 cit. (periodo sinonimo di strofe) e come si deduce anche da Schol. A ad Haeph., p. 169, 3 Consbruch addotto sia da Browning, p. 78, che da Perusino, pp. 74-75, per questa ragione propenderei ad accogliere la proposta – legittimata da esempi simili – della stessa Perusino, loc. cit., di inserire l’articolo ἡ prima di καὶ περίοδος, ancora meglio dell’inserzione di ἣ di Winnington-Ingram accolta da Browning. Si rinvia anche a Pace, Il termine περίοδος, p. 31, che apporta la testimonianza del ns. trattato come unica fonte bizantina di questa accezione musicale del termine (= strofe), e cf. anche Eadem, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 132. Sulla periodo nella musica greca cf. in particolare Abdy Williams, The Aristoxenian Theory, pp. 107 ss. (con esempi) e definizioni a pp. 181-182. La simmetria cui i Greci tendono nella costruzione dei loro periodi viene inserita nella stessa natura, formale, dell’arte greca. Non pone, poi, difficoltà la mancanza di articoli davanti ai due elementi in questione, abituale al ns. autore nei casi in cui egli offre un elenco di elementi (ad es., lo abbiamo notato per le parti della tragedia nella sez. 1, o nella sez. 3 per il termine μεταβολή). Tὸ ἀντίστροφον sarebbe dunque un terzo elemento, questa volta τό, scil. μέλος: il canto antistrofico, che sta in responsione col canto strofico. Analogamente è costruito nella preposizione successiva: τὰ (μέλη) ἀντίστροφα, contrapposti a quelli μακρά, che non può intendersi altro se non nel senso di ἄστροφα. Mακρόν designava infatti la terza delle sette parti (μέρη) della parabasi comica (cf. Tz., Περὶ κωμ. 154, p. 29, e 45 [Ἴαμβ. τεχν.], p. 41 Kaibel), che parimenti al κομμάτιον era non κατὰ σχέσιν come le altre ma ἄστροφον, composta di un solo sistema anapestico, da recitarsi tutto d’un fiato (cf. Koster, Traité de métrique grecque, XIV, 12). Niente di straordinario, se ci troviamo di fronte ad uno slittamento del termine proprio della commedia. Svincolati da responsione esterna, tali μέλη si svolgono in una serie ininterrotta di μέτρα, come i cori anapestici, ed anche gli epodi – proodi o mesodi – del dramma (cf. Maas, Metrica greca, p. 69). Per strofe e periodo musicale in rapporto ai movimenti del coro, v. David, The Dance of the Muses, pp. 254 ss. 32) Perusino, p. 76, evidenzia analoga valenza di μονόστροφα e ἐπῳδικά in Tz. (Is.), De metr. Pind., p. 17, 11 Drachmann. Per quanto riguarda la suddivisione dei canti antistrofici in ἁπλᾶ e μεταβολικά, ἁπλοῦς negli scrittori di metrica è comunemente riferito a ῥυθμός (Ῥυθμοὶ ἁπλοί – ῥυθμοὶ μικτοί ad es. in Arist. Quint., p. 36, 2; 39, 6; 38, 3 Winnington-Ingram); solo Aristox., Harm., p. 23, 4-5, 6-7; 24, 11-12; 44, 3; 47, 17-18; 50, 15 Da Rios, lo impiega per indicare un sistema senza modulazioni. A sua volta, μεταβολή si trova spiegato in campo sia armonico che ritmico presso Arist. Quint., p. 22, 11; 40, 1 Winnington-Ingram, mentre puntualmente ricorre presso tutti gli scrittori di musica. Così, per es., Cleon., Isag., 1, la definisce ὁμοίου τινὸς εἰς ἀνόμοιον τόπον μετάθεσις (p. 180, 6 Jan, e cf. Abdy Williams, Aristoxenian Theory,
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p. 105) e ne distingue quattro tipi: κατὰ γένος, κατὰ σύστημα, κατὰ τόνον, κατὰ μελοποιίαν (p. 204,19 Jan; su quella κατὰ γένος, cf. p. 205, 3); Bacchio dà una definizione simile, distinguendone però sette tipi: συστηματικήν, γενικήν, κατὰ τρόπον, κατὰ ἦθος, κατὰ ῥυθμόν, κατὰ ῥυθμοῦ ἀγογήν, κατὰ ῥυθμοποιίαν (50, p. 304, 6-9 Jan), secondo una classificazione non molto lontana da quella retorica, la quale distingue mutamenti di ritmo, metro, figure, periodi (Dion. Hal., De comp. verb. 19), e dentro la quale può inserirsi la μεταβολή trattata dall’Anonimo. SEZ. 8 33) Come già segnalato (Browning, p. 79; Perusino, p. 80), lascia interdetti l’errata attribuzione del tetrametro anapestico a Frinico, il παλαιός, dunque il tragico, di molto anteriore all’omonimo commediografo, ritenuto sì da Suida εὑρετὴς τοῦ τετραμέτρου, ma del tetrametro trocaico, mentre Haeph., p. 38, 9 Consbruch riporta due versi dello stesso come esempio di tetrametro catalettico nel capitolo sui metri ionici (cf. Trich., p. 395, 32 Consbruch). Si può attribuire la notizia a confusione dell’Anonimo, che avrebbe combinato insieme le due informazioni sul tetrametro, o al contrario, come propone Perusino, loc. cit., al fatto che quel Frinico «è avvertito … come una singolarità … degna di essere segnalata ai lettori», ma – in terza ipotesi – se si riflette che tale metro anapestico era quello proprio della parabasi comica e in genere del dialogo comico (impiegato già da Aristosseno di Selinunte e da Epicarmo in due commedie, l’Ἐπινίκιος e i Χορεύοντες), non appare forse del tutto improbabile che qui l’Anonimo voglia alludere proprio al commediografo (d’altronde definito anch’esso παλαιός in Trich., De nov. metr. 8, p. 395, 30 Consbruch). Ossia: si può interpretare che l’autore vuole escludere categoricamente che il tetrametro anapestico sia stato usato nella tragedia – la quale nelle parti recitate si avvaleva soltanto del trimetro giambico e, raramente, del tetrametro trocaico come residuo della forma più arcaica (es.: Aesch., Pers. 155-175, 215-248 e 703-758; Soph., Phil. 1402-1408, ecc.: cf. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, pp. 158 ss.) –: non nella tragedia dunque, ma soltanto nella commedia, della quale egli sceglie come rappresentante Frinico, un Antico in assoluto, da intendere anche nel senso di “venerando” (lat. antiquus). Sarebbe una nuova riprova della preparazione dell’autore, piuttosto che della sua negligenza. SEZ. 9 34) Pienamente da condividere con gli studiosi lo stato difficoltoso del testo da questo punto, su cui cf. intanto Perusino, pp. 80-85 (per cui non discuteremo su ogni termine), dalla quale ci discosteremo in piccola parte, come si vedrà.
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D’accordo, inoltre, che il riferimento è qui alle parti che non sono né cantate né recitate, ma semiliriche o in recitativo cui si è accennato, oppure che vanno considerate al di fuori della metrica stabilita, o che sono parti puramente strumentali. Si può notare il ricorrere dell’Anonimo a due termini davvero rari: il primo è ἀναβόημα, attestato unicamente da Eschilo, Coeph. 34, ma nella forma doricizzata ἀμβόαμα: «qualcosa tra canto e καταλογή», dice, e secondo Mathiesen, Apollo’s Lyre, p. 103, è sinonimo di παρακαταλογή, poco convincentemente, mi pare, in quanto seguito da un termine simile, καταλογή, che solleva la difficoltà maggiore. Καταλέγω è attestato nel Simposio di Senofonte (VI, 3), e indica la recitazione di tetrametri a suon di aulo, ed è tramandato da Esichio, che chiama ᾄσματα i tetrametri anapestici della parabasi che erano recitati, non cantati (cf. Ar., Eq. 507-509, dove si descrive il coro ‘recitante’ la parabasi). Interpretare la chiosa esichiana τὸ τὰ ἄσματα μὴ ὑπὸ μέλει λέγειν “dire canti non liricamente (o: “non in melodia”)”, più che “interpretazione parlata di canti lirici” come secondo Browning, p. 80, qualificherebbe la declamazione, ovvero quel tipo particolare di recitativo con accompagnamento (forse su nota più alta), che le fonti chiamano παρακαταλογή, che abbiamo già menzionato. Sembrerebbe dunque probabile che il termine esichiano sia impiegato nello stesso senso, ma: a. dal contesto del trattato risulta improbabile, visto che il termine ἀναβόημα viene dall’A. spiegato in modo simile, e in ciò concordo con Perusino, p. 83 (mentre invece Gentili, Il coro tragico nella teoria degli antichi, p. 30 n. 37, ritiene i due termini sinonimi e, anzi, riferisce al ns. anonimo trattato la testimonianza eccezionale di questo particolare tipo di performance musicale, che spiega come una sorta di recitativo accompagnata dall’aulo); b. anche sul termine παρακαταλογή e il suo significato tecnico le fonti non sono affatto chiare. Solo due la nominano esplicitamente: Ps. Plut., De mus. 28, 1140-1141, p. 124, 2 Lasserre (se ne desume l’accompagnamento), e Ps. Arist., Pr. XIX, 6 (918a 10-11) che dice che ha un effetto tragico nei canti, e la cui frase conclusiva che «il contrasto genera pathos» al contrario dell’uniformità che dà meno effetto di lamento, indurrebbe a considerare παρακαταλογή non solo forma intermedia tra canto e recitazione, bensì anche passi recitati immediatamente precedenti o seguenti versi lirici, o dialoghi nei quali una parte cantava e l’altra recitava, oppure anche un alternarsi rapido, nello stesso personaggio, di canto e recitazione che, in effetti, può dare un effetto molto patetico. Una terza fonte, Ath. XIV, 636b, usa invece il verbo παραλογίζομαι che viene specificatamente connesso ai metri giambici e al clessiambo (cf. Moore, Parakataloge; Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, p. 157, li considera insieme tutti e tre). Da una nuova e più recente analisi esegetica, Moore, Parakataloge, deduce che doveva trattarsi di una forma di recitazione accompagnata dall’aulo, con ridotta melodia in modo
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da distinguersi da ἀειδεῖν ma più simile al canto rispetto a un normale recitativo, svincolato dalla tipologia di metri, che potevano essere diversi, ma che comunque non dovette essere affatto usata in modo massiccio. Secondo West, Ancient Greek Music, p. 40, si può congetturare – con un probably – che nel dramma fosse impiegato con gli anapesti non lirici (es. molte entrate e uscite corali), nei trimetri giambici o esametri dattilici in dialetto attico in un contesto lirico, in alcune scene composte in tetrametri trocaici e giambici, e che i versi fossero recitati in un modo più stilizzato, con l’auleta che doveva seguire lo stesso schema metrico. Ai tetrametri trocaici con accompagnamento dell’aulo la collega Centanni, Metro, ritmo e parola nella tragedia, pp. 119-121, dove pone in risalto la rottura ritmica e, quindi, uno scarto nel modo della recitazione, soprattutto nei casi in cui la scena trocaica si innesta sui giambi. Si rimanda, inoltre, alla bibliografia riportata da Peretti, Threnos e kommos, p. 14, n. 1, a Maas, Παρακαταλογή, a Gentili, Paracataloghè; e cf. Webster, The Greek Chorus, p. 65. Dobbiamo però ritornare a καταλογή. Se dunque pensiamo che non possa in questo passo identificarsi con la παρακαταλογή, tentando di trovare un’interpretazione, va intanto ricordato come per la natura della lingua greca basata sulle quantità delle sillabe, il parlare – λέγειν – implica una modulazione ritmica di voce che lo rende abbastanza simile al cantare, per cui ne deriva la difficoltà di distinguere nettamente l’uno dall’altro o, anche, di immaginare esattamente gli effetti acustici. In secondo luogo, rispetto a λέγω, il verbo καταλέγω porta insito il concetto di ripetizione, elencare o dire in una certa sequenza: si potrebbe forse supporre che l’anaboema stia a metà tra un canto vero, nel senso di melodia – come dice l’Anonimo – e una forma incalzante o ritmica di recitativo. Forse, rispetto alla παρα-καταλογή che è seguita da note musicali, essa viene appena declamata, o come dialogata con particolare cadenza senza accompagnamento musicale, ma non sapremo mai quale sfumatura semantica separi veramente i due termini. 35) Non v’è motivo di pensare che il testo sia corrotto, anche se la forma attestata è ἔνρυθμος, ma in Diog. Laert., VII, 60 e Quint., Inst., IX, 4, 56, le lezioni variano tra ἔρρυθμος e εὔρυθμος, e il significato è “che ha ritmo” (cf. Plat., Leg. 654; Dion. Hal., De comp. verb. 11; Sext. Emp., Adv. mus. 38, p. 364: ἔνρυθμος καὶ ἐκρυθμός; cf. Abdy Williams, The Aristoxenian Theory, p. 105 sul carattere energico dell’anapesto ritmico, relazionato all’ethos). Non può perciò trattarsi dell’anapesto λέξεως della sezione 4, ma andrei cauta anche ad intenderlo all’opposto, lirico, come fa Glucker, Notes, p. 270. In analogia con i primi tre elementi, ma anche da quanto può dedursi dalle ultime due proposizioni, è soprattutto e più chiaramente l’ultima «e nelle parodoi premettono questi [anapesti] ai canti» ad escludere decisamente l’identificazione con i metri lirici e, di conseguenza, a indurre a considerarli, piuttosto, anapesti semilirici, o in παρακαταλογή.
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36) Non mancano, tuttavia, dei problemi. Quanto segue, coerentemente con la spiegazione data per gli elementi precedenti, dovrebbe essere la spiegazione appunto di questi anapesti ritmici, tuttavia sembra di primo impatto impostato su una serie di contraddizioni o, quantomeno, equivoci; vi è dedicata un’appendice in Centanni, I canti corali infraepisodici, pp. 99-106, con cui non sono sempre d’accordo e cui farò riferimento di volta in volta. Innanzitutto, ἔστι δὲ ὅτε, «vi è quando», cioè «alcune volte», implica una limitazione a casi non ordinari, bensì rari, eccezionali, e per il momento diciamo che è forse l’unico elemento che può giustificare o rendere in qualche modo accettabili le affermazioni che seguono. L’A. sostiene infatti che i tragici possono (occasionalmente) comporre: a. anapesti ἐπίσκηνα: per il testo †ἐπιστήμη†, evidentemente corrotto, Browning ha accolto questa correzione ἐπίσκηνα di Sophroniou – espunta invece da Perusino –, che proviamo a lasciare. La Centanni accoglie tacitamente tale lectio come originale del manoscritto. b. καὶ χορικὰ ἀπὸ σκηνῆς: due termini, come si è detto, in reciproca opposizione (ciò che è χορικόν non è ἀπὸ σκηνῆς, dove sta l’attore), a meno che si ricorra a quell’accezione di modo che accomuna i due poli, di cui sopra si è discusso, e che va eventualmente valutata anche in questo caso. Cosa vuole dunque dire l’Anonimo? (Browning, p. 80: «is most puzzling»). Subito dopo, il γάρ esplicativo introduce la relativa spiegazione, che potrebbe o dovebbe aiutarci, con due proposizioni che sembrano costruite parallelamente alle due precedenti, proprio come esegesi e precisazione di esse. E cioè, si dice, gli uni sono quelli impiegati nelle parti ἀγγέλων, mentre gli altri sono quelli delle πάροδοι, precedenti al canto d’ingresso. Tuttavia, anche in questo caso, appare alquanto oscura l’affermazione che i nunzi (ἄγγελοι) parlassero in anapesti («there are no anapestic messengers speeches in surviving tragedy»: Mathiesen, Apollo’s Lyre, p. 103; e cf. Perusino, p. 84-85; Browning, p. 80, cita l’unica eccezione probabile, il papiro musicale di Oslo). Non sarebbe una soluzione neanche pensare che il riferimento fosse, più che ai “nunzi” propriamente detti, agli “annunci” (parti di particolare concitazione) di chi, per primo, vede o saluta un nuovo personaggio, sia esso attore, sia coro, o (in Euripide) avverte l’avvicinarsi di una processione, di un deus ex machina, ecc. (nell’accezione di comunicazione di avvenimenti esterni a chi sta dentro la scena, sull’ἄγγελος cf. Pace, La struttura della tragedia, Giovanni Tzetze la poesia tragica, Le parti della tragedia nella teoria postaristotelica, locc. citt. supra, p. 72). In questi casi, spesso vengono usati pochi dimetri anapestici che è possibile fossero in recitativo (e allora l’Anonimo si mostrerebbe assai ben documentato), ma secondo Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, p. 162, è difficile credere che non fossero mai parlati, essendo il metro in sé sufficiente a sottolineare il tono appropriato.
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Esaminando tutta la prima frase, penso che si possano proporre inizialmente diverse interpretazioni, non del tutto sodisfacenti ma attendibili in misura diversa, dalle quali alla fine ne sarà scelta una: 1. Intendere le due parti a. e b. in opposizione: da un lato anapesti “davanti alla scena” – dall’altro [anapesti] corali “dalla scena”. I primi potrebbero riferirsi alla marcia d’ingresso dei cori, quando uscendo dalle parodoi laterali passano davanti alla scena per fermarsi nell’orchestra. E d’altronde sarebbe questa la spiegazione data dall’A. nell’ultima frase che abbiamo prima riportato. Quanto all’espressione ἐπὶ σκηνήν, in questo senso viene del resto attestata in Poll. IV, 127: εἰσελθόντες δὲ κατὰ τὴν ὀρχήστραν ἐπὶ τὴν σκηνὴν ἀναβαίνουσι, oltre che da Sch. Haeph., p. 173 Consbruch, già menzionato sulla parodo, definita per l’appunto εἴσοδος τοῦ χοροῦ ἐπὶ σκηνήν. I secondi, i χορικὰ ἀπὸ σκηνῆς, sottintendendo sempre gli anapesti, e dunque “[anapesti] corali dalla scena”, malgrado il coro non invadesse la parte riservata agli attori, potrebbero riferirsi innanzitutto a particolari momenti in cui i due interagiscono: a) anapesti prima del kommos, come in Aesch., Pers. 907-930, o Soph., Trach.; b) o nei dialoghi, es. Aesch., Coeph. 1448-1577 (tra Clitemnestra e il coro), Soph., Phil. 144-200 (tra Neottolemo e il coro); c) in scene emotive, in Eur., Med. 96-203, Iph. T. 143-235, ecc. Potrebbero però alludere anche alle parti declamate dai soli attori, quelle trattate con grande libertà soprattutto da Euripide; pertanto a determinati dialoghi tra protagonisti (es. Eur., Hipp. 1282-95, Iph. A. 1276-82, Hel. 12921341, ma non ad es. un caso come la monodia di Creusa in Ion. 859-922, che non potrebbe essere certo definita “corale”), spesso in momenti di particolare tensione (es. Med. 96-203, Hipp. 170-266, Tro. 98-121, Iph. T. 143-235), non escludendo, tra di essi, gli anapesti degli ἄγγελοι di cui sopra, se consideriamo che semilirici erano gli anapesti affidati a personaggi di rango non molto elevato, per i quali perciò si evitavano metri esclusivamente lirici (v. Maas, Metrica greca, p. 72); tutte situazioni dove il recitativo è dunque naturale, ma con i dubbi espressi da Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, loc. cit., il quale rileva inoltre che poiché il termine παρακαταλογή non si trova mai applicato ai dimetri anapestici, è da pensare che questi fossero trattati dai poeti indifferentemente secondo tutti e tre i metodi di dizione. 2. Diversamente, si potrebbe intendere il precedente ἐπίσκηνα come “scenico” in un senso generale e teatrale, ovvero “del luogo della rappresentazione” come punto focale nel quale converge l’azione, sia sopra (o in fondo) che sotto la scena (o davanti), e quindi luogo comune valido per il coro e gli attori che subito seguono: gli anapesti del coro e dell’attore. Avremmo
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insomma “anapesti scenici” per i quali la frase che segue appresso costituirebbe la relativa classificazione, a condizione però di accogliere la proposta di Glucker, Notes, p. 270, di introdurre la congiunzione καί tra i due termini in contraddizione χορικά e ἀπὸ σκηνῆς. Condivisa anche da Perusino, essa ri-creerebbe la distinzione tra le due categorie, del coro e dell’attore, per cui gli anapesti scenici sarebbero quelli χορικά e quelli ἀπὸ σκηνῆς, col καί iniziale presente nel codice prima della seconda frase e dopo il punto in alto che separa le due parti: καὶ χορικά [καὶ] ἀπὸ σκηνῆς, che in traduzione Perusino rende con «sia», e dunque: “[anapesti scenici], e sia per il coro sia per gli attori”. La correzione viene invece nettamente respinta come «improponibile» da Gentili, Il coro tragico nella teoria degli antichi, p. 33 n. 49, come inutile ripetizione di ἐπίσκηνα (non tuttavia col senso che noi daremmo a questo termine). In conclusione, poiché generalmente tenderei a correggere il meno possibile a meno che non sia assolutamente necessario, pur non ritenendo «improponibile» l’intervento integrativo di Glucker, ma al contrario suggestivo ed anche efficace, non ne vedo l’utilità, per cui non mi sento di condividere questa linea interpretativa. 3. Intendere le due parti a. e b. egualmente in opposizione, ed ἐπίσκηνα come nella prima, più facile, interpretazione, ma sottintendere stavolta nel secondo segmento non più gli anapesti bensì: i. τὰ [μέλη] (così intende Feaver, More on Mediaeval Poetics, nella sua traduzione, p. 116: «anapaests on stage and c h o r a l o d e s on stage»), e quindi “parti corali dalla scena” (cf. Battezzato, Lyric, pp. 150-151: secondo alcuni, gli attori potevano accompagnare il coro, cantando lo stesso testo e musica). Si otterrebbe in tal modo l’equivalente dell’espressione aristotelica τὰ ἀπὸ σκηνῆς, in cui veramente non sappiamo se il Filosofo includesse anche questo tipo di canti corali (dalla scena) che, unanimamente, sono stati intesi come possibile riferimento al raro uso del doppio coro: così Weebster (in Browning, p. 80), Gentili, Il coro tragico nella teoria degli antichi, p. 33, e Centanni, I canti corali infraepisodici. Quest’ultima vi aggiunge l’ipotesi che possa anche trattarsi dei già menzionati canti corali infra-episodici, «in cui più stretta è la partecipazione del coro all’azione scenica» (p. 105). ii. Non può tuttavia escludersi, in modo analogo, che τὰ χορικὰ ἀπὸ σκηνῆς sottintenda μέρη (secondo la segmentazione della sez. 1), e dunque “parti corali dalla scena”, malgrado non attestato in questa precisa forma e accezione, e che in conclusione, in quanto “corali”, non ci allontanerebbero da un significato simile a τὰ μέλη. L’unica obiezione che mi sento di sollevare a questa duplice e di per sé accettabile soluzione, è che così inteso (riferito a canti lirici), però, questo segmento non sarebbe più pertinente agli «anapesti ritmici» di
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cui invece dovrebbe essere una spiegazione. Per questa ragione, per non eliminare la corrispondenza “anapesti scenici” e “anapesti del coro e dell’attore”, visto che la frase si snoda come spiegazione degli anapesti “in ritmo” prima elencati tra gli elementi a metà tra canto e metro, scarterei senz’altro anche la terza opzione. Credo pertanto la prima interpretazione la più congrua, e ciò pur condividendo – ma solo a metà – la suggestiva ipotesi avanzata dalla Centanni: nella frase χορικὰ ἀπὸ σκηνῆς c’è Aristotele, Poet. 1452b 14-18 tante volte richiamato sulle parti della tragedia, dove dice che del coro sono parodo e stasimo – questi comuni a tutte le tragedie, mentre invece peculiari sono τὰ ἀπὸ σκηνῆς καὶ κομμοί, normalmente interpretati, si è detto, come canti dell’attore (monodie) e compianto comune del coro e dalla scena secondo lo stesso Aristotele, ibidem 24. Non corrisponde forse questa limitazione aristotelica di peculiarità o singolarità a quella del ns. autore «vi è quando», cioè «non sempre»? L’Anonimo sfrutterebbe dunque un concettο ed anzi quasi letteralmente, esplicitandola, l’ambigua espressione aristotelica, di cui però – se è sensato il senso che ho proposto – coscientemente o meno, egli coglierebbe un diverso significato, se impiega χορικὰ ἀπὸ σκηνῆς non per le forme puramente liriche (eseguite dai soli attori, dagli attori assieme al coro come per i κομμοί o, ad es., Phil. 144-200, e dal solo coro, sia un secondo coro che interagisce sulla scena e sia anche un coro che intoni canti atipici non strutturati secondo la proposta della stessa Centanni), ma per quelle più equivoche, quelle semiliriche o in recitativo accompagnato, cui nessun’altra fonte avrebbe dedicato tanta attenzione. SEZ. 10 37) Sulla coronide e le sue funzioni secondo Efestione assieme agli altri due segni diacritici del tutto dimenticati dall’Anonimo, cf. dopo Browning, p. 80, Perusino, pp. 85-86. Sul suo impiego per indicare la fine di una scena, o anche di un libro o di un capitolo, cf. anche Schol. Ar., Nub. 506 e Isid., Etym. 11, 21, 26. L’Et. M., s.v. κορωνίς la riporta soltanto come nota apposta in calce a conclusione di un libro. Chiaramente in questa breve parte l’Anonimo è passato dalla tragedia-spettacolo teatrale alla tragedia-testo scritto, da leggere, secondo il concetto caro ad Aristotele più volte ricordato. La coronide a segnare un cambio di intera trama – e quindi presumibilmente da un soggetto o tragedia all’altra, nella lettura in sequenza – non impone riflessioni. Nell’ipotizzare invece altri cambi (di luogo dell’azione, e luogo e coro), si potrebbe osservare che l’autore paia porsi in bilico di fronte ad un altro concetto chiave dello Stagirita, quello dell’unità. È noto che, secondo la sua teorizzazione, diversamente dall’epopea la tragedia doveva svolgersi «entro un giro
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di sole o poco più» (Poet., cap. 7, 1449b 12-13, e si veda la problematica esegetica in Di Marco, La tragedia greca, p. 164): una compattezza temporale che costituiva un dato tecnico per rispondere anche a esigenze di tipo pratico nella rappresentazione, confluendo nell’altra presunta unità, quella di luogo. Nel V secolo però non pare esistessero normative in merito, e perciò non tutte le tragedie appaiono allineate a tale principio. Soprattutto Eschilo – di cui peraltro Aristotele non si occupa – mostra più libertà, sconfinando pure in cambiamenti di luogo in uno stesso dramma, come nelle Eumenidi e nell’Aiace (cf. Di Benedetto – Medda, La tragedia sulla scena, pp. 302-312). Non vi è dunque nessun contravvenire dell’autore alla norma aristotelica, ove anche si consideri che, solo posteriormente al suo tempo, inappropriatamente l’esegesi umanistico-rinascimentale muterà quell’unità aristotelica nel canone della triplice unità di azione, tempo e luogo. Ancora una volta, infine, torna la contrapposizione tra ἀπὸ σκηνῆς e χορός, ma questa volta senza equivoci come μέλη. SEZ. 11 38) Come già sopra annunciato, riappare l’ἐμμέλεια, questa volta nella triplice classificazione aristossenica (fr. 104) della danza drammatica, standardizzata parallelamente a quella della danza lirica (che comprenderebbe la pirrica, la ginnopedica, la iporchematica: Ath. I, 20e; XIV, 630c-e, passo controverso su cui rinvio a Di Marco, Osservazioni sull’iporchema, pp. 338 ss.), e tramandata scolasticamente (v. Poll. IV, 99; Luc., De Salt. 26 [che omette la sikinnis]; Ath. I, 20e cit., Schol. Ar., Nub. 540). In aggiunta ai riferimenti e le considerazioni di Perusino, pp. 87-88 (dopo Browning, p. 81), si osserva innanzitutto che tale triplice schema è fondato sul carattere etico delle danze. Per tale ragione, come osserva Wehrli, Die Schule des Aristoteles, II, p. 82, l’identificazione specifica con le tre forme di danza del teatro va avanzata con una certa cautela: lo dimostrano i due passi di Platone e di Erodoto relativi all’ἐμμέλεια, che non hanno alcun riferimento scenico: Plat., Leg. 816a-b, caratterizzando armonica l’ἐμμέλεια, la chiama καλὴ ὄρχησις, di carattere pacifico (εἰρηνικόν), opposto a quello della guerresca pirrica; in Erod. VI, 129, l’ἐμμέλεια viene s u o n a t a dal flauto e d a n z a t a da Ippocleide – celebre esempio di danza “a solo” dell’antichità –, tornando a ricordarci del legame tra melodia (musica) e ritmo (danza). Nello stesso Esichio che si è già menzionato (sez. 1), la prima definizione è genericamente εἶδος ὀρχήσεως, e solo successivamente viene aggiunto il genere, tragico, evidentemente perché il suo carattere lento e dignitoso si confaceva alla rappresentazione tragica. E per quanto riguarda la danza in quest’accezione tragica, si può rilevare come, per gli attributi che l’A. le riferisce (σεμνὸν καὶ μεγαλοπρεπές), il testo si accosti molto ad un altro luogo di
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Platone (Leg. 814) dove si parla di un genere di danza ἐπὶ τὸ σεμνὸν μιμουμένην, e ad Ateneo (XIV, 630e-631d), che la caratterizza τὸ βαρὺ καὶ σεμνὸν e σπουδαία, in contrasto col κόρδαξ, φορτικός. Al di fuori, però, di queste uniche informazioni attinenti in modo generico allo stile, non possediamo purtroppo notizie più specifiche su movimenti veri e propri che fossero caratteristici di questa, come di ogni altro tipo di danza del mondo antico, anche se ne conosciamo i nomi e talora la provenienza o la natura del movimento. Se, infatti, esistono sia pur rare notazioni musicali, nessuna notazione di danza è pervenuta a noi, e anche se abbiamo notizia di un Περὶ χοροῦ di Sofocle (Suida, s.v. Σοφοκλῆς) e un Περὶ χορῶν di Aristocle (Αth. XIV, 620b, d) sulle danze drammatiche, come scrive Nearebout, Moving in unison, p. 58, è difficile che avessero a che fare coi movimenti di danza, così come eventuali trattati tecnici è poco probabile che potessero dare direttive di come riprodurre sequenze di movimenti. Malgrado i più disparati tentativi di comprensione e approfondimento dei rapporti tra ritmo, musica e movimento, e la varietà di approcci sino ad oggi messi in campo, di tipo antiquario, o folckloriko, o ethnologico, o antropologico – ad es. Ley, Theatricality of Greek Tragedy, si accosta al problema della ricostruzione dei movimenti attraverso la loro ‘assenza’ nelle scene –, qualunque tentativo di ricostruzione di antiche coreografie è perciò arbitrario, «pura speculazione» (Nearebout, Moving in unison, p. 59, e cf. anche Idem, Προσπάθειες ανασύστασης του χορού της Αρχαίας Ελλάδας). Tornando alla danza tragica, Webster, The Greek Chorus, nella sua indagine sul coro greco sviluppata da un punto di vista tecnico-metrico, attraverso la documentazione reperita trova una continuità nei ritmi della poesia corale che fa supporre una continuità anche nei passi, dalle origini micenee o anche minoiche sino alla tragedia del V secolo. Solo Poll. IV, 105, però, ci dà un elenco di τραγικῆς ὀρχήσεως σχήματα (movimenti? figure? passi? V. infra) che, tuttavia, a meno che egli non si riferisca a un concetto più lato di danza, sembrano sulle prime contrastanti col suo carattere serio, come «mano concava» (e cf. nuovamente Ath. XIV, 630a), «a canestro» (cf. Apolloph., fr. 1, I, p. 797 Kock), «all’ingiù» (cf. Hsch., s.v. χείρ), «doppia», «capriola», «tenaglia» (Ateneo inserisce a volte confusamente questa nelle μανιώδεις ὀρχήσεις), catalogate anche da Meursius, Orchestra, s.v. χεὶρ σιμή, χείροκαλ θίσκος, χεὶρ καταπρηνής, διπλή, σύλου παράληψις ecc., mentre gli stessi Esichio, Suida, Eust., Ad Il. 1167, 23 (IV, p. 272, 14 Van der Valk), attribuiscono all’ἐμμέλεια come danza tragica lo σχῆμα detto ξιφισμός o ξίφισμα, o σκιφισμός (e cf. Meursius, Orchestra, s.v.), ingenerando invero una certa confusione: solo apparentemente tuttavia. Questo termine, infatti, per etimologia instaura un collegamento con le armi da taglio – coltelli o spade –, tant’è che l’Et. M. spiega che gli ξιφίσματα sono danze in cui i danzatori sono armati di spade, e Polluce medesimo (IV, 99) lo definisce anche ποδισμός, dando a sua volta per quest’ultimo termine la definizione di danza armata o di guerra, alla stessa stregua della
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più nota πυῤῥίχη. Solo Ateneo (XIV) annovera semplicemente lo ξιφισμός tra gli σχήματα ὀρχήσεως senza altro aggiungere. Ma ecco che un chiarimento ci viene dal medesimo Esichio, laddove chiosa il verbo ξιφίζειν con ἀνατείνειν τὴν χεῖρα, καὶ ὀρχεῖσθαι. Potremmo dunque pensare che questa strana figura dell’emmeleia consistesse nel tendere le mani: una semplice figura (σχῆμα) dunque, impiegata nella danza tragica verosimilmente perché con le mani che si levano in alto (a invocare, o lamentare, o supplicare, o inveire, o esprimere il πάθος per le sciagure che si abbattono sui personaggi, ecc.) è sicuramente pertinente al carattere drammatico; una figura che non è assolutamente la danza stessa (ὄρχησις, o anche εἶδος ὀρχήσεως), tant’è che ad analizzare la chiosa di Esichio, la frase è articolata in due tempi: I) tendere le mani (= figura); II) danzare (= movimento). Ho distinto tra σχῆμα ed εἶδος ὀρχήσεως, aprendo una ulteriore e nota questione, che è il problema cruciale sollevato dallo stesso termine σχῆμα tante volte ricorrente nelle fonti, un termine di per sé polivalente (peraltro nel medesimo Aristotele: cf. Gallavotti, Dell’Arte Poetica, p. 275, s.v.). In particolare, però, a stimolare il dibattito è il suo possibile significato in questa specifica accezione, ovvero come σχῆμα ὀρχήσεως (Plut., Quaest. Conv. 732f) o anche ὀρχηστικόν (Hsch.) / σχήματα ὀρχηστικά (Ath. I, 21d 9 - e 9; 22a 5 ss.), che, come si è potuto sopra dimostrare e torno a sottolinearlo, è qualcosa di diverso da εἶδος ὀρχήσεως. Il passo di Ateneo in modo precipuo, che tra l’altro si riferisce a Eschilo come inventore di questi σχήματα ὀρχηστικά per l’appunto, viene ad es. inteso come “passi” di danza da Bocksberger, Dance as silent poetry, pp. 164 ss. e 170-171, che mette in relazione l’origine del termine proprio col mondo della danza, in un contesto di mimesis. Ma proprio in tale indiscusso contesto mimetico di cui σχῆμα è un elemento distintivo, diversamente secondo i più esso è piuttosto figura statica di danza, ovvero “posa” (cf. ad es. Lawler, The Dance of the Owl, pp. 484-485; Cavalli, Lo spettacolo nel mondo greco, p. 36), anzi in questa direzione sembrano andare maggiormente gli studi più recenti. In particolare, rinvio a Rocconi, Moving the soul, che da un riesame analitico delle fonti desume che il termine – nel suo significato basico di “forma” o “figura” (es. geometrica) – debba senza ombra di dubbio intendersi come posizione cristallizzata, o atteggiamento terminale di movimenti corporei, e in questa prospettiva fornisce nuove chiavi di lettura alle componenti della danza antica. Anche Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, p. 249, parla di «postures as the attitudes in which each motion terminated». La testimonianza forse maggiormente pregnante è quella di Plut., Quaest. Conv. 747b-c (XV), che, come elementi della danza, alla stregua di veri e propri parametri per definirla, elenca: φορά, σχῆμα, δεῖξις, alla lettera “movimento” il primo e “mostra” il terzo (= “evocazione” in Alciphr. 2, 4, 15, che induce al carattere imitativo della danza, su cui v. subito appresso), accanto a cui σχῆμα, col sostegno dell’altra frase dell’autore, ibidem (ἡ γὰρ ὄρχησις ἔκ τε κινήσεων καὶ
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σχέσεων συνέστηκεν …φορὰς μὲν […] κινήσεις ὀνομάζουσι, σχήματα δὲ τὰς σχέσεις καὶ διαθέσεις), frase che si conclude con un’analogia con la pittura – arti mimetiche che hanno in comune gli schemata –, non può essere inteso se non esclusivamente come “posa” o “figura” (e cf. ad es. Pintacuda, La musica nella tragedia greca, pp. 73-81; Rocconi, Moving the soul, spec. pp. 192 ss.; ma cf. anche Rossi, Mimica e danza sulla scena comica greca; Gagné – Govers (eds.), Choral Mediations, p. 30, dove assieme alle pose mette in evidenza la gestualità delle mani – χειρονομία – e il loro ruolo importante, sostitutivo e traduttivo delle parole, nella danza corale; Prudhommeau, Ο χορός στα αρχαία ελληνικά κείμενα, spec. pp. 86-87; e soprattutto l’intera monografia ad esso dedicata di Catoni, Schemata, pp. 144 ss., una disamina del termine come mezzo tecnico dell’arte della danza). Alla luce di questa suggestione, peraltro già indicata da Schlapbach, Dance and Discourse in Plutarch’s Table, la danza greca si visualizza come un insieme di movimenti e pause ritmiche di mani, piedi e capo, e le inusuali figure (o passi “fermati”) stigmatizzate da Polluce trovano una giusta contestualizzazione perdendo la loro apparente estraneità al genere tragico, in quanto assumerebbero una funzione di commento visivo, o sottolineatura, di determinate situazioni o discorsi dell’opera scenica, inserendosi in una dimensione di metafora, o linguaggio figurativo, un modo di leggere la danza nel mondo antico, un modo che è stato di recente perspicuamente proposto da Bocksberger, Dance as silent poetry, pp. 172-175 sul fondamento della concezione mimetica di cui si è detto (p. 173 si evocano altri aggettivi singolari con cui Polluce qualifica più in generale la danza: attenzione, dove però egli parla di εἶδη e non di σχήματα di danza! Come spiegare questa discrepanza? Più avanti commenteremo l’uso di questi termini tecnici). Movimenti mimetici di accompagnamento alle parole dell’attore, sulla base della scoliastica, sono stati ipotizzati anche nei momenti in cui il coro non canta (es. Lawler, The Dance of the Ancient Greek Theater, p. 28; Baldry, I greci a teatro, pp. 91-92), mentre secondo altri in quelle pause il coro doveva assumere posizioni statuarie (es. Taplin, Greek Tragedy in Action, pp. 12-13). Che cosa d’altronde sono le statue, le statue degli antichi, se non τῆς παλαιᾶς ὀρχήσεως λείψανα (Ath. XIV, 629b 3 ss.)? Ne consegue il concetto di danza come “animata scultura”. E, ancora, ne consegue che, riguardo ai termini di Polluce, non avrebbe più molto senso l’ipotesi di Dale, The Chorus in the Action, p. 209, che egli possa essere stato fuorviato da qualche tradizione di mimo senza connessione con la rappresentazione tragica, e la frase che il nostro Anonimo usa per descrivere l’ἐμμέλεια, μεγάλας ἔχον τὰς μεταξὺ τῶν κινήσεων ἠρεμίας, rientra perfettamente in questo schema, sia pure senza l’impiego del termine σχῆμα: l’emmeleia appare come una perfomance di movenze intervallate da figure statiche, così come nella melodia gli intervalli si alternano alle note.
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Nessun problema per le figure di Polluce, dunque. In generale, però, non tutto mi sembra così semplice e lineare. Vero è che la triplice clessificazione plutarchea si sostanzia in una vera e propria definizione teorica, ineccepibile e perfetta, ma un legittimo interrogativo sorge nello scorgere come l’uso del termine σχῆμα riferito alla danza presso autori diversi risulti sfuggente e tale da non escludere in modo categorico altre possibilità di interpretazione, prestandosi malgrado tutto ad essere riferito anche a figure che, invece che stanti, fluiscono in movimento (come, ad es., è molto probabile che sia in Ar., Pax 323324: tradotto con «fare capriole/salti», e poi chiaramente sinonimo di ὀρχέομαι, nell’ed. Coulon – Van Daele, Paris, 1985). La mia obiezione trova assoluto conforto nella dettagliata analisi a tappeto dei tre termini plutarchei svolta da Lawer sulle fonti. Ritenendo confusa e illogica tutta la discussione, essa arriva alla conclusione che questi termini sono stati impiegati con connotazioni differenti dai diversi scrittori greci e in epoche diverse, per cui è erroneo considerare la frase di Plutarco alla lettera come fonte di informazione sulla danza greca, e i tre termini con un significato tecnico fisso. Φορά οltre che “movimento” potrebbe essere uno ‘spostarsi’ (carriage) che può applicarsi ai piedi, alle mani, all’intero corpo, e quindi una combinazione di passo e movimento; σχῆμα, che di volta in volta sembra intrecciarsi con φορά, può svariatamente significare “gestura”, “figura”, “posa”, “movimento”, “pittura”, ma in Poll. IV, 105 non v’è dubbio che sia semplicemente “posa” e basta; δεῖξις, che sembra significare “esecuzione”, “interpretazione”, e quindi portrayal nella danza, in Plutarco stesso (ibidem, 747b) appare riferito a χειρονομία, che in altri autori comprende σχήματα, e il corrispondente verbo δείκνυμι, usato nell’ambito della danza, da Libanio (Pro Salt.) viene associato a μιμέομαι / μίμησις. E tuttavia – conclude la studiosa – la vita e i colori della danza trascendono ogni analisi meccanica di questo tipo (Lawler, Phora, Schêma, Deixis; Eadem, The Dance in Ancient Greece, pp. 25 ss.). Critica contro una drastica interpretazione di σχῆμα anche Gianvittorio, A dance of death, spec. pp. 95-96, sul fondamento che tale interpretazione verrebbe posta in dubbio dall’equivalenza, contraddittoria, del verbo σχηματίζω con χορεύω, ὀρχέομαι, κινέομαι; osserverei però che questa equivalenza è applicata a posteriori sul parallelo significato conferito a σχῆμα nelle fonti in cui tale valenza (sc. di “movenze” di danza) possa desumersi con quasi inconfutabile certezza (presupposto messo in discussione, come si è visto). In conclusione, le varie considerazioni passate in rassegna trovano la loro giustificazione nel concetto fondamentale di imitazione preposto presso i Greci ad ogni forma di arte e, in primis, alla danza. Anche Aristotele, ribadendolo in Poet. 1447a, dice «i danzatori imitano, διὰ τῶν σχηματιζομένων ῥυθμῶν (letteralmente «con ritmi fatti figure», o che danno figure, ovvero con atteggiamenti del corpo che seguono il ritmo), caratteri, affetti, azioni» (Poet. 1447a 28), dove la singolare espressione impiegata – un vero hapax – διὰ τῶν σχηματιζομένων
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ῥυθμῶν μιμοῦνται, di difficile traduzione, è una di quelle che maggiormente hanno suscitato interesse e curiosità per distillarne un’interpretazione adeguata: Rocconi, Moving the soul, p. 179 e 182 ss., per dimostrare che, alle battute ritmiche, la danza assumeva pose statiche; Peponi, Aristotle’s definition of dance, per evidenziare l’indubbia densità del concetto aristotelico, che in due parole – r i t m i come soggetto, e s c h e m a t i z z a t i participio passato ad esso riferito – cattura l’essenza della danza: ritmo (che è ciò che induce al movimento, che non necessariamente implica melodia, come il Filosofo ha precisato poco prima) che si fa figura, posizione, che in pratica si personifica, passando da un qualcosa che si percepisce con l’udito alla sua realizzazione visiva e corporea, un processo dinamico – il movimento della danza – così efficacemente incapsulato da Aristotele. Il ritmo, dunque, personificabile e personificato, diversamente da altri luoghi del IV secolo in cui sono gli σχήματα ad essere ritmabili (certo per una comunque comune percezione di vicendevole compatibilità tra i due elementi), e al cui proposito Peponi, pp. 229-230, porta un’altra testimonianza: Plat., Leg. 672e-673a, secondo la quale, nell’arte della danza, al movimento del corpo pertiene ritmo e σχῆμα, postura: dunque, una summa di moto e arresto. Sulla danza greca come arte mimetica, si rinvia inoltre a Peponi, Dance and Aesthetic Perception. È da questa concezione mimetica che consegue che i passi dovevano differire a seconda del tipo di emozioni che si rappresentavano, anche se il metro poteva rimanere il medesimo. Si tenga presente che la lista di Ateneo in cui l’ἐμμέλεια è inclusa si riferisce a quanto è στασιμώτερα e ποικιλώτερα, quindi non solo quanto è «più consolidato», ma anche «più variegato», o insomma «ricco», inducendoci a pensare ad una notevole varietà e libertà nei movimenti, magari decisi di volta in volta dai registi o autori delle opere, o dagli stessi artisti, per cui non si può e non si deve supporre l’esistenza di modelli fissi di movimento – e posizioni – anche a fronte della categorizzazione in stili diversi (e cf. Bocksberger, Dance as silent Poetry, pp. 160-161); per questo non potevano esistere descrizioni specifiche. Per concludere, insomma, il nome poteva probabilmente «comprendere una grande varietà di danze … adattandosi ad ogni genere di emozione, e presentando ogni forma di bellezza lirica» (Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, p. 254 [246-257 sulla danza nel dramma]; e cf. Di Marco, La tragedia greca, p. 106, che ipotizza un insieme di danze raggruppate sotto lo stesso nome), dove pertanto “varietà di danze” io intendo come “varietà σχημάτων (nel senso complessivo di passi, figure, attitudini e/o posizioni)”. Questo concetto avrà contribuito al sorgere di certe confusioni che di tanto in tanto si riscontrano nella tradizione scoliastica della tragedia, per cui un coro scenico, che danzava per dare espressione al proprio canto, viene talvolta interpretato come se svolgesse una danza sincronizzata con le parole degli attori. Ciò per uno scambio con quelle danze mimiche che, fuori dall’ambito teatrale, si accompagnavano a canti citaredici (cf. Schol. Ar., Ran. 896 τίνα λόγων ἐμμέλειαν,
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dove il termine ἐμμέλεια, secondo Dale, The Chorus in the Action, p. 213, potrebbe essere equivalente a εὐρυθμία o alla definizione che Suida dà s.v. ἐμμέλεια: ἡ πρὸς τὰς ῥήσεις ὑπόρχησις (di cui sopra). Oltre ai contributi sin qui citati, tra la vasta bibliografia sulla danza antica, e tragica e teatrale in particolare, si segnalano Reich, Chor (coll. 2385-8 relativamente al dramma); Sechan, Saltatio (spec. pp. 1041-1042); Ferri, Coro melico e coro tragico; Harsh, A Handbook of Classical Drama, pp. 17-23; Garzya, Emmeleia; Roos, Die tragische Orchestik, pp. 91-92, 154-156; Kitto, The Dance in Greek Tragedy, e Idem, Dance in Greek Tragedy; Prudhommeau, La danse grecque antique, I, pp. 316-318; Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, pp. 246-257; Webster, The Greek Chorus; Lazou, Η φιλοσοοφική προοπτική στη Χορογραφία; Bierl, Der Chor in der Alten Komoedie, pp. 102-103; Lazou, Ancient greek dance, in part. pp. 23 ss., 39 ss. e passim; Ley, The Thetricality of Greek Tragedy, in part. pp. 158-159; Peponi, Theorising the Chorus. SEZ. 12 39) Cosa vuole dire, qui, l’Anonimo? Che il coro cantasse le parodoi, come si legge nel codice, o le periodi, come emenda Winnington-Ingram, probabilmente per quel περίοδον che si trova più avanti? Proprio per questo collegamento è grande la tentazione di accogliere l’emendamento, tuttavia, benché possa sembrare strano il riferimento a questa sola tra tutte le parti corali, proverei a lasciare la lectio genuina (come senza indugi anche Perusino, pp. 88-89). Non è il primo caso in cui l’A. mostri un’incompiutezza di questo genere: ad es. sez. 4, dopo aver distinto metro e periodo, suddivide a sua volta il metro e si dimentica della periodo; o, alla sez. 10, sceglie solo la coronide, tralasciando inspiegabilmente gli altri σημεῖα. Νé, soprattutto, deve sorprendere il fatto che parli di canto per questa parte della tragedia, anzi, la nostra scelta della lezione del codice si giustifica proprio tenendo presente che egli ha già classificato la parodo tra i canti del coro, mostrando alla fine di saper operare una selezione in mezzo alle diverse definizioni di una tradizione piuttosto confusa nell’ambiguo concetto di παρακαταλογή (si è già ricordato che Esichio chiama ᾄσματα la recitazione della parabasi). Lasciando dunque πάροδος, vi si possono ben riferire sia l’’ardore’ provocato dal ritmo cadenzato della marcia anapestica, sia, naturalmente, l’accompagnamento dell’aulo (anzi, cf. al riguardo Mathiesen, Apollo’s Lyre, p. 101). 40) Del tutto normale la funzione preponderante affidata all’αὐλός, lo strumento a fiato, semplice o doppio (Stes., fr. 25 Page ci ricorda αὐλοὶ πολυχόρδοι; cf. Poll. IV, 80 Περὶ διαφορᾶς αὐλῶν) che sin dall’età arcaica permeò la vita sociale greca (già utilizzato da Archiloco per accompagnare la melodia) divenendo tra VIII e VII secolo protagonista delle celebri scuole musicali
COMMENTARIO
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spartane (cf. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, pp. 18 ss.) ma, soprattutto, era normalmente associato ai rituali sfrenati di Dioniso (cf. in modo part. Eur., Bacc. 120-134, 151-167, 378-381), in contrasto con la dignità della musica apollinea. Oltre a Feaver, More on Mediaeval Poetics, p. 116, su una ricognizione dello strumento dalla prima età arcaica all’età ellenistica cf. Perusino e Rocconi (edd.), A. Barker, Euterpe, capp. I-V. Da notare, subito dopo, la specializzazione di ogni auleta in uno solo dei tre diversi generi musicali, e l’inclusione, tra questi ultimi, del cromatico che, come si è visto nella sez. 5, pertiene alla tragedia più tardiva. Il termine περίοδος ricorre per la terza volta, ma qui è chiaro che riprende il significato musicale di cui alla sezione 7, anche se può apparire strano il suo impiego per γένος, cui non ho trovato riscontri. Perusino, p. 90, fa riferimento a fonti da cui si trae il senso più lato di “canto corale” in generale. Non ritengo, poi, che σύντονον per διάτονον presenti difficoltà (cf. le perplessità di Perusino, pp. 89-90), in quanto σύντονον è, come il μαλακόν, una variazione (εἶδος) del genere diatonico, con tono+tono+semitono (cf. Arist. Quint., p. 17, 21 Winnington-Ingram; Aristox., Harm., p. 64, 7 Da Rios; Cleon., Isag., p. 193 Jan, in alcuni esemplari della tradizione manoscritta esibisce dei diagrammi, tra i quali sono distinti il μαλακὸν διάτονον e il σύντονον διάτονον), ma Schol. Ar., Eq. 968, usa questo termine per definire l’armonia degli antichi. Quanto ai tre suonatori – professionisti, alla pari degli attori ma non, almeno sino alla fine del sec. IV, dei coreuti (cf. Baldry, I greci a teatro, p. 42 cit. [v. p. 52], o Cavalli, Lo spettacolo nel mondo greco, p. 33, essi erano semplici cittadini addestrati appositamente) – non credo neanche opportuno discutere che non fossero impiegati contemporaneamente, essendo monodico il canto dei Greci, con accompagnamento all’unisono o all’ottava, in un puro parallelismo melodico, in cui la melodia superiore dipendeva da quella di base. Così l’aulos, quando si arricchì di una seconda canna, se ne poté servire per eseguire l’accompagnamento all’acuto, fermo restando il μέλος eseguito al grave dalla canna più lunga. È infatti noto che l’eterofonia nacque più tardi (da non confondere con la polifonia, mai conosciuta nel mondo ellenico) e, con essa, gli accoppiamenti sonori anche diafoni oltre che sinfoni, e le metabole ritmiche, anche se poi ogni melodia si risolvesse sempre nell’unisono o nell’antifonia di ottava (cf. Ps. Arist., Pr. XIX, 14 [918b, 7-10]). Tale innovazione fu però disprezzata soprattutto dai filosofi, certo perché turbava il contatto lineare dell’uditore con l’arco melico, offrendo possibilità troppo ampie di evasione dai rigidi canoni tradizionali (Plat., Leg. 812d-e insiste sulla pura chiarezza dei suoni. Si rinvia a Marzi, Sinfonia ed eterofonia, per una più esauriente trattazione dell’argomento). Un’eco si coglie pure in Orazio, Ars Poet., 102-215, che criticando l’aulo ricco e la “licenza” dei tempi moderni, raccomanda quello tenue e semplice con pochi fori. La musica bizantina, però, tornerà ad essere omofona, e sempre diatonica, con la melodia che tiene dietro all’intonazione del discorso, senza alcuna ritmica
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mensurale: cf. Gamberini, La parola e la musica nell’Antichità, pp. 200 ss.; Idem, Modernità della musica greca nella tragedia, evidenzia, con esempi, la continuità del diatonismo sino ai nostri giorni, nonostante la sensibilità modale dei Greci abbia lasciato il posto ad una sensibilità tonale. Dei tre generi musicali si è già parlato nella sez. 5; qui si aggiunge solo – per rimanere nell’ambito dell’aulos – che l’auletica precedette la citaristica nel passaggio dalla musica diatonica a quella cromatica ed enarmonica (cf. Del Grande, Espressione musicale dei poeti greci, p. 17). 41) Piuttosto insolita o sorprendente, alla fine, la precisazione con la quale l’Anonimo distingue cetra e lira, che generalmente vengono confuse sia nella tradizione classica che in quella medievale, tanto che nel periodo bizantino non corre più alcuna differenza tra i due termini (cf. Eust., es. Ad Il. 574, 36 (II, p. 132, 5 Van der Valk); Ad Od. 1913, 38 (II, p. 264, 37 Stallbaum); ed Hsch. e Suid., risp. s.v. λύρα e κιθάρα), anche se in origine i due strumenti erano distinti. Pur avendo, infatti, stessa accordatura, la lira – la φώρμιγξ omerica e strumento nazionale della Grecia – era di proporzioni più ridotte rispetto alla cetra che, importata più tardi dall’Oriente, veniva per lo più suonata seduti e da musici di professione. Anche Aristox. ap. Ammon., FHG II, p. 286, 63, porta la seguente distinzione: κίθαρις καὶ κιθάρα διαφέρει: κίθαρις γάρ ἐστιν ἡ λύρα, καὶ οἱ χρώμενοι αὐτῇ κιθαρισταί, οὓς ἡμεῖς λυρῳδοὺς φαμέν; κιθάρα δέ, ᾗ χρῆται ὁ κιθαρῳδός. Così Ps. Plut., De mus. 6, 1133, p. 113,30-114,7 Lasserre, distingue dalla κίθαρις la κιθάρα, che dice inventata all’epoca di Cepione allievo di Terpandro, e detto Ἀσίας perché usata dai citaredi di Lesbo (in realtà di molti secoli anteriore a Terpandro, come dimostrano testimonianze archeologiche recentemente rinvenute: cf. Stella, Strumenti musicali della lirica greca, cui rinvio anche per la bibliografia relativa). Lasciata in un primo tempo alla lirica corale, la citara entrò anche nel ditirambo in seguito alle innovazioni del V secolo, per sodisfare alla nuova esigenza di arricchire il canto oltre ai cinque-sette gradi dell’aulos (cf. Tiby, La musica in Grecia e a Roma, p. 90). Perciò, anche se – come nota Browning, p. 81 – nei casi citati dall’Anonimo si tratta di accompagnamento per il coro, non possiamo stavolta accusarlo di troppa ignoranza: i due tragici nominati, infatti, usarono anche gli strumenti a corda oltre l’aulos (Mathiesen, Apollo’s Lyra, p. 102, collega a Sesto Empirico tale notizia [ibidem, pp. 234 ss. su questi strumenti a corda e loro rispettiva storia], e cf. Richter, Instrumentalbegleitung zur attischen Tragödia), come nell’ultimo canto dell’Aiace o nel secondo stasimo delle Trachinie, mentre nel secondo stasimo dell’Eracle pare che l’accompagnamento fosse affidato sia alla cetra eptacorde che all’aulos libico. È probabile che la lira fosse riservata ad effetti particolari, come appunto l’uso specifico – qui richiamato – che ne fece Sofocle nel Tamiri. Richiamo anche Ar., Ran. 1304, dove i versi lirici di Eschilo ed Euripide vengono accompagnati
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dalla lira su richiesta di Eschilo, mentre ibidem, v. 1286, Euripide fa riferimento ai nomoi citarodici (ma cf. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals, p. 165, sulle difficoltà sollevate da questi passi), e cf. anche Aesch., Eum. 332, dove le Furie descrivono il loro canto come ἀφόρμικτος. Wilson, Music, in part. pp. 185-186 sul dibattito relativo all’uso di quali strumenti nella tragedia, precisa che tuttavia il poeta, almeno quando componeva e dirigeva, doveva certamente servirsi della lira.
PARTE SECONDA
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 1. TEATRO A BISANZIO E
QUESITI PRELIMINARI
L’analisi testuale sin qui ripresa e condotta, impone riflessione affinché si tenti, in qualche modo, di trovare una congrua collocazione di questo singolare componimento. Porre in termini di chiarificazione i diversi interrogativi che l’opera ha sempre offerto, senza che fossero mai affrontati in modo definitivo, alla ricerca di risposte sodisfacenti, significa in sostanza, come si era premesso, indagarne in primo luogo la paternità e la datazione, e quale possa essere stata la sua genesi; e in secondo luogo per chi essa sarebbe stata scritta e a quale scopo, e a chi poteva rivolgersi un testo simile, unicum forse in tutta la letteratura bizantina. Anche se, infatti, la trattatistica era uno dei generi più congeniali ai Bizantini, ben rispondendo alla loro predisposizione alla retorica e alla didascalica, non sembra esistere riscontro a un tal contenuto che, senza minimamente affrontare le varie questioni relative all’origine del genere tragedia o all’etimologia del termine – topoi abbastanza in auge anche in epoca più tarda123 – si riferisce a un tipo di tragedia, quella immediatamente successiva al suo acme nell’Atene classica, che, ormai, è morta nella tarda Costantinopoli. È difatti noto che del teatro bizantino non si può parlare come del teatro greco classico o, meglio, attico, e non sarà questa la sede per ricordare tutta la querelle sulla sua effettiva esistenza e consistenza, dal momento che non ci sono rimasti testi scritti al riguardo, e non v’è dubbio che la letteratura bizantina, sia pure nella sua incredibile mole124, abbia ignorato il genere drammatico125. Venuti meno i presupposti politici e le condizioni sociali e psicologiche che ne avevano determinato il nascere126, l’espressione teatrale fu irrimediabilmente 123 Sull’interpretazione del termine presso i Bizantini, cf. GARZYA, Varia philologica VII, 4, Τραγῳδία, pp. 578-580, il quale alla testimonianza di Giovanni Malala sull’origine della tragedia, aggiunge quella dell’ep. 7 di Giorgio Lacapeno, di ca. otto secoli più recente, che fornisce spiegazioni non più pertinenti alla sua origine, ma semplicemente di tipo grammaticale ed etimologico. Tra queste, la [b] e la [c] possono trovare un collegamento nel nostro trattato. Sulla prima in particolar modo (τραγῳδία καὶ τὸ πάθος αὐτὸ καὶ ἡ συμφορά) Garzya dice che «risale all’impiego traslato di τραγῳδία che, iniziatosi almeno col noto luogo delle Leggi di Platone (VII, 817b-d) nel quale si descrive la vita come un dramma (ma vedi anche Phileb. 50b), ebbe più larga fortuna sino a Bisanzio e nel greco dell’uso corrente». 124 Si rinvia in particolare a MANGO, La civiltà bizantina, p. 266. 125 Cf. le considerazioni di BECK, Il Millennio bizantino, pp. 152 ss. 126 Per cui esso, specialmente nella forma tragica, è stato visto come espressione di un tipo di esperienza umana, e sua materia è stata considerato il pensiero sociale della polis: cf. VERNANT – VIDAL NAQUET, Mito e tragedia nell’antica Grecia, pp. 5 ss.
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destinata a languire, e già allo stesso Aristotele, quando nel IV secolo ne fissa la teoria nella sua Poetica, è estraneo il concetto di uomo tragico nel suo significato più profondo, secondo il quale esso si scopre impotente di fronte al proprio destino127. Per sopperire alla deficienza di ispirazione, dal periodo ellenistico prende il sopravvento lo spettacolo, che acquista grandiosità scenica mirando a ricerche di effetto e al truculento e, adeguandosi alle nuove tendenze letterarie, si spinge verso forme realistiche esasperate, ben lontane da quello spirito di sacralità che aveva contrassegnato il genere alle sue origini. Anche il coro com’è noto, l’espressione lirica più pura del genio poetico, il cui contributo, per dirla con Dale, era «lirico o emozionale, mai retorico»128, già a partire dall’epoca stessa di Aristotele va perdendo la sua funzione e il suo fine col crescere dell’elemento retorico, in cambio dei canti monodici accompagnati da cetra degli attori ἀπὸ σκηνῆς, che danno espansione al loro virtuosismo, e di sempre più numerose trasgressioni: si arriva anche a musicare parti delle tragedie che erano in recitativo129. Persino il termine τραγικός perde il significato originale di “solenne” per passare a quello di “enfatico”. E in questo senso lo accoglie il popolo romano, che importava i testi teatrali in copioni (per le rappresentazioni) e antologie composte da estratti. Come spiega Gentili130, la contaminatio è una delle forme in cui si esplicò il teatro ellenistico, piuttosto che una innovazione latina. I Latini trasformarono poi i testi con grande libertà – anche nei metri –, mutandone l’impostazione: con la loro tendenza al grandioso, accentuando l’elemento mimico e buffonesco, sviluppando ulteriormente l’aspetto spettacolare di un teatro che non è più mezzo di educazione e di cultura e che, mediante l’influsso dello spirito italico, opera la più completa dissacrazione di quanto presso i Greci aveva costituito la manifestazione più religiosa. Il teatro che Bisanzio eredita da Roma assieme all’ippodromo è tipicamente pagano, com’è il pantomimo, un teatro volgare di “rivista” e “varietà” che mirava al solo divertimento, di cui nulla ci è rimasto sicuramente perché affidato all’improvvisazione131, oltre che per la naturale censura ecclesiastica a causa delle sue tematiche, e a cui si aggiungeranno feste varie, processioni, 127
Cf. JONES, On Aristotle, contro chi vuole ad ogni costo trovare l’eroe in Aristotele, ponendo in tal modo un limite alla comprensione di molte parti della Poetica. 128 DALE, The Chorus in the Action, p. 21. Sulla tragedia del periodo ellenistico, cf. VENINI, Note sulla tragedia ellenistica. 129 Sul coro greco, si rimanda alla bibliografia citata nel commentario, supra, p. 68. Per il periodo più tardivo con attinenza alla problematica della σκηνή, cf. CAPPS, The Chorus in the Later Greek Drama, pp. 287-300 relativamente alla tragedia, greca e romana, per la quale l’autore ritiene certo il rapporto coro-attore e coro-azione sino ad epoca abbastanza tarda. 130 GENTILI, Lo spettacolo nel mondo antico. 131 Cf. VOGT, Etudes sur le théâtre byzantin, p. 639.
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mascherate, banchetti, ecc., tutte forme più spettacolari che teatrali132. Non si può infatti parlare di vero teatro laddove manca una coscienza drammatica con una organizzazione a scopo artistico, e dove invece è soltanto una rozza parata di figurazioni, per di più malviste e bandite dalla Chiesa, in quanto oltraggiose nei riguardi dei sacri misteri. Il mimo ebbe fortuna in campo letterario solo coi sofisti di Gaza: si perfezionò la danza mimica e il preferito tra i tipi di commedianti (βιολόγος, ἠθολόγος, ἀρχαιολόγος) fu proprio il τραγῳδός: il termine designò un ballerino cantante133. Di conseguenza, il termine τραγῳδία assunse il nuovo significato di canto e danza, e non v’è da stupirsi, se già in Dionisio Trace e negli scoli a Teocrito, come pure ancor prima in Diodoro134, esso era stato impiegato nel senso di “canto”, riemerso nella lingua greca odierna. Non è dunque nel significato antico che lo intende lo storico Menandro135 e, ancora più tardi, perso del tutto il significato teatrale, il termine indicò una qualificazione retorica di qualsiasi composizione letteraria di stile elevato. Sappiamo che solo l’inserimento ufficiale in seno alla Chiesa diede nuova dignità al teatro, che entrò così nella sfera letteraria senza mai popolarizzarsi. Vogt spiega la nascita del teatro religioso con influssi venuti dalla Siria e dall’Egitto136, poi fusi dalla restaurazione ecclesiastica di Giovanni Damasceno. All’interno delle Chiese cristiane, la rappresentazione consacrata ad episodi biblici o a vite e martiri di santi, con approfondimento del simbolismo, aumento della pompa, e importanza dell’inno sacro, che fondeva elementi musicali e metrico ritmici, non derivava assolutamente dal dramma classico137. Come scrive Cottas, in ogni civiltà l’arte drammatica nacque dalla religione138. In fondo, un’evoluzione non molto diversa da quella del teatro classico: si arriva al logos dal mito narrativo, e col logos vi è dialogo, mentre l’intervento degli astanti fornisce il coro139. 132 E panegyria, strade o luoghi privati ospitavano questo tipo di teatro (cf. PLORITIS, To Θέατρο στο Βυζάντιο, pp. 75-80), mentre il termine stesso θέατρον si trasformava a significare una sala in cui ci si riuniva, quella che nella tarda Bisanzio accoglieva i circoli di eruditi. Cf. essenzialmente MARCINIAK, Byzantine Theatron, e TOTH, Rhetorical Theatron in Late Byzantium, ma anche PRUDHOMMEAU, Histoire de la dance, p. 233. Si veda anche BIANCONI, Erudizione e didattica, spec. p. 476 e n. 1 per altra bibliografia relativa. 133 Cf. Coricio, Apol. XIV, 19-20. Ma rinvio a PICKARD-CAMBRIDGE, The Dramatic Festivals, pp. 127-132, sull’evoluzione semantica del termine e la sua diversificazione dal termine ὑποκριτής. 134 IV, 5: BOISSONADE, Anecdota graeca, pp. 411, 892, cui fanno rimando sia SOPHOCLES, Greek Lexikon, sia DIMITRAKOS, Mέγα λεξικὸν, s.v. τραγῳδία, che definiscono rispettivamente ᾠδή e ᾄσμα. 135 Ed. DINDORF, HGM II, p. 71. COTTAS, Le théâtre à Byzance, pp. 47 ss., conclude che allora il genere scenico composto da Menandro è degno di attenzione, quale prodotto veramente bizantino. 136 VOGT, Le théâtre à Byzance, p. 258. 137 Cf. LA PIANA, Le rappresentazioni sacre nella letteratura bizantina. 138 COTTAS, Le théâtre à Byzance, p. 152, dove continua: «e non fu dapprima che una forma plastica della celebrazione dei suoi riti». 139 Cf. DEL GRANDE, Bizantino (teatro).
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Fu, però, un altro filone minore che, sempre traendo ispirazione dalla religione cristiana, cercò di conciliarla con le forme dotte della tradizione teatrale. Perché, per dirla con Gigante, l’Antico fu sempre componente essenziale della civiltà letteraria bizantina: il Classicismo140. Un classicismo formalistico quanto si vuole, che tuttavia non include immobilismo, come invece vede il Pasquali, in una civiltà caratterizzata dall’assenza di contrasti e da una unità assoluta perniciosa allo spirito bizantino, per cui egli non trova che tediosità ed aridità in quella letteratura141. Il dramma greco-cristiano, dunque (diversamente dal dramma sacro), fuse forme antiche con le nuove, e in un ambiente più raffinato e vivo culturalmente, ma, si sa, non riuscì mai ad emergere142, ad eccezione di quel «jeu», che è «un sermon en action»143, il Χριστὸς Πάσχων. Senza scendere nei dettagli delle sue note problematiche di attribuzione e di cronologia144, ricorderemo solo come esso rappresenti un tipo di creatività genuinamente bizantino: campione di puro virtuosismo letterario, in esso la tragedia antica c’è, ma «non si riconosce in questa rigida struttura di episodi, in questa opacità sorda dei cori, che non entrano nel dramma pur partecipando all’azione, in questa costruzione narrativa …»145. Impostazione scenografica e vivacità di movimento lasciano comunque dedurre come fosse destinato alla rappresentazione e non alla sola lettura, assunto importante che, considerando gli altri testi drammatici di natura sacra segnalati da Vogt, compreso un testo siriaco fornito di effetti scenici di squisita ascendenza classica146, porterebbe a sostenere che dopo il IX secolo questo tipo di dramma acquistò una sua autonomia rispetto alla liturgia: che c’era dunque un teatro a Bisanzio147, e gli influssi della tragedia classica non erano morti. Come scrive 140 GIGANTE, Antico, Bizantino, Medioevo. Ma vedi, ad es., THEMELIS, Λεκτικαί επιδράσεις αρχαιών τραγωδιών, uno dei tanti esempi di riutilizzazione o trasformazione del materiale classico da parte dei Padri della Chiesa. 141 PASQUALI, Medioevo bizantino. 142 Cf. HUNGER, Hochsprachliche profane Literatur, II, pp. 143 ss. Non raggiunsero veramente un valido livello artistico le tragedie d’imitazione euripidea di Apollinare il Vecchio (Soz., Ἐκκλ. Ἱστ. V, 18: PG 67, coll. 609-614), la Susanna di Nicola Damasceno, la Morte di Cristo di Stefano Sabbaita, sino ai Versi di Adamo di Ignazio Diacono nel sec. IX, dopo la stasi dell’VIII. Vi si possono aggiungere le produzioni dialogiche posteriori d’intento moralistico, su cui cf. DEL GRANDE, Bizantino (teatro), COTTAS, Le théâtre à Byzance, e LA PIANA, The Byzantine Theater; KRUMBACHER, Geschichte der byzantinischen Litteratur, pp. 646 ss.; SATHAS, Ἱστορικὸν δοκίμιον περὶ τοῦ θεάτρου; BRÉHIER, Le théâtre religieux à Byzance; CATAUDELLA, Drammi cristiani greci. 143 VOGT, Etudes sur le théâtre byzantin, I, p. 39. 144 Si rinvia, tra altri, a COTTAS, Le théâtre à Byzance, pp. 197-248, e TUILIER, La passion du Christ, per l’attribuzione a Gregorio Nazianzeno; a CANTARELLA, Poeti bizantini, per la collocazione all’XI-XII secolo; a CATAUDELLA, Nuova ipotesi sulla cronologia e sull’autore del Christus Patiens, per l’inedita attribuzione ad Apollinare di Laodicea; a HUNGER, On the imitation of antiquity in Byzantine Literature, per la valutazione accanto alla Katomyomachia di Teodoro Prodromo. 145 CATAUDELLA, Drammi cristiani greci, p. 432. 146 VOGT, Etudes sur le théâtre byzantin, II, spec. pp. 639-640. 147 Cf. VOGT, Le théâtre à Byzance (dove sottolinea anche l’esistenza di costruzioni teatrali distinte da circhi e ippodromi a testimoniarlo), e le obiezioni di LA PIANA, The Byzantine Theater,
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anzi La Piana, per il principio della persistenza bizantina nella tradizione esso dovette esistere sino alla fine di Costantinopoli, solamente va riesaminata la questione se tutti i testi drammatici giunti sino a noi fossero effettivamente rappresentati o meno148. Ora, capire quando, dopo il primo e più oscuro periodo, quegli influssi classici cominciarono a riemergere, ovvero quando la tragedia greca riprese posto nella cultura bizantina è stato il fine di un interessante studio di Robert Browning149. Egli si chiede anche quando le tragedie classiche divennero testi scolastici e furono ricopiate in minuscola e, superando il parere di Alphonse Dain, che riteneva nella seconda metà del X secolo (almeno Sofocle)150, trova che già nel IX si hanno testimonianze innegabili che la tragedia classica era ritornata oggetto di studi attenti151. In sostanza, è dopo la nuova stabilizzazione dell’Impero seguita alla lotta iconoclasta, e il nuovo assetto grafico-librario che si impose con l’adozione delle lettere minuscole per la copiatura dei testi152. Questo revival, coincidente con una rinascita globale delle scienze che diede avvio ad uno dei periodi più rigogliosi della cultura bizantina153, abbracciò naturalmente anche i principi teorici dell’antica musica, che si cercò di convogliare nel canto bizantino, malgrado la controversia relativa a quali aspetti di quella musica e a quanto esattamente i Bizantini compresero di quella musica, ovvero quali antiche armonie corrispondono a quali echoi della Chiesa bizantina; comprendere infatti la natura dei canti sacri rientrava nella finalizzazione della ricerca sull’antica musica154. Era però pur sempre la cerchia ristretta dei letterati, filologi o grammatici, che annotavano, commentavano, copiavano e redigevano testi scolastici o di teorizzazioni metriche e musicali, e proprio in quest’attività erudita che – sia pure mirata principalmente a fini di insegnamento della lingua attica e della grammatica155 – riesumava, salvaguardava e tramandava l’eredità classica Vogt pp. 186 ss. D’accordo anche BRÉHIER, Le Théatre à Byzance, p. 254, malgrado non condivida con Vogt l’opinione che si rappresentasse fuori dalla Chiesa. 148 LA PIANA, The Byzantine Theater, p. 210. 149 BROWNING, Ignace le diacre et la tragédie classique. 150 DAIN, La transmission des textes littéraires classiques, pp. 45 ss. 151 Come il caso dell’anonimo autore di lettere del ms. di Londra, Brit. Libr., Add. 36749 (ed. MARKOPOULOS, Anonymi professoris epistulae), che possedeva un testo di Sofocle; di Leone Choirosfaktes, da Areta accusato di studiare la tragedia classica; di Fozio e le sue numerose citazioni di tragedie nel suo Lessico; o, ancora, della conoscenza diretta dimostrata da Ignazio Diacono nel suo dialogo drammatico tra Adamo, Eva, il Serpente e Dio. 152 Un fenomeno ben noto, per il quale seleziono, tra la vasta bibliografia, MANGO, L’origine de la minuscule e BLANCHARD, Les origines lontaines de la minuscule; poi MESSERI-PINTAUDI, I papiri greci d’Egitto e la minuscola libraria, DE GREGORIO, Materiali vecchi e nuovi per uno studio della minuscola greca, e PERRIA, Alle origini della minuscola libraria greca. 153 Su cui cf. in special modo IMPELLIZZERI, L’umanesimo bizantino del IX secolo. 154 Tutta questa problematica è discussa in WHITE, The Artifice of Eternity, spec. pp. 92 ss. 155 Emblematico ad es., anche se riferito a qualche tempo dopo, il caso indagato da CUOMO, L’efficacia didattica del commento di Manuele Moscopulo all’Elettra (con bibliografia di riferimento
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vede una delle cause del fatto che poco e nulla ci è rimasto del teatro (contemporaneo) bizantino156. Se ci si è preliminarmente soffermati, sia pure in sintesi, su queste note nozioni, è nel tentativo di indagare in quale momento, in una situazione di “rinascita” di classicismo a Bisanzio – da intendere pur sempre con le riserve che si cercherà di esporre più avanti – si potrebbe inserire il nostro anonimo trattato Περὶ τραγῳδίας. Niente di strano che un uomo sufficientemente colto, o meglio erudito, sentisse l’esigenza (o fosse incaricato) di farsi carico di compilare una sorta di maneggevole ὁδηγός alla lettura dei poeti tragici, riportando così all’attenzione quelli che – dal suo punto di vista, o dal punto di vista di una mentalità del suo tempo – erano stati i canoni del dramma classico e meno classico. E che il ns. trattato sia opera di un letterato si desume dalla sua capacità di reperire, o disporre, delle fonti necessarie, che non sembrano poche, e di mostrare di sapersene servire, se o meno adeguatamente, al di là delle critiche che gli si sono rivolte, si cercherà di capire, anche se, su questa dichiarazione, una precisazione va fatta, e non è da poco: sappiamo infatti che va sempre tenuto in conto quella maniera di selezionare i testi che avevano i Bizantini, di cui si è parlato all’inizio: è difficile che la citazione di un testo classico si faccia direttamente sull’originale quanto, piuttosto, attraverso fonti intermedie e antologie, per cui quando queste citazioni indirette sono basate su più di un autore tardivo, è facile che avvenga confusione157, come lo stesso Tzetzes nel suo poema sulla tragedia ci testimonia e come si vedrà anche nel caso qui indagato. Ad ogni modo, siamo obbligati a chiederci: chi potrebbe essere? 2. TENTATIVI
DI ATTRIBUZIONE
Come già più volte detto, si è pensato a Michele Psello come ipotetico autore di quest’opera. Egli visse nel periodo forse più turbolento della storia di Bisanzio (1018-1080) ma, culturalmente, grazie al concorso di più persone straordinarie, forse il più vivo, dopo il periodo di decadenza delle scienze e delle lettere in cui il governo militare di Basilio II aveva spento le scintille dell’epoca macedone. Ad esso soprattutto si fa riferimento quando si parla di “umanesimo bizantino” – o, meglio, di uno dei cosiddetti umanesimi bizantini che, si sa, nulla hanno a che fare con l’umanesimo occidentale, principalmente in quanto non comportano una scoperta, o riscoperta, dei classici158. Salvatore Impellizzeri ha alle varie “edizioni” dei tragici d’età paleologa); ma si veda principalmente BIANCONI, Erudizione e didattica, p. 489, e quindi EASTERLING, Sophocles and the Byzantine student. 156 VOGT, Le théâtre à Byzance, p. 292. 157 Significativo, come esempio, il caso riportato da CHRISTIDIS, Euripidea and pseudo-euripidea in Michael Gabras. 158 Una riflessione originale sul tema si trova in BIANCONI, Umanesimi d’Oriente e d’Occidente.
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egregiamente analizzato il significato di simili “ricorsi” che nella storia della cultura si presentano come reazioni a forme di civiltà immediatamente precedenti nel suo celebre saggio dedicato al primo di questi “umanesimi”, quello del IX secolo di cui sopra159. Il discorso sull’”umanesimo bizantino” è tuttavia complesso, e non è naturalmente questa la sede per addentrarvisi160; dell’ambiguità di un concetto come questo (e come quello di “rinascenza”), era cosciente anche Paul Lemerle, che pure ha intitolato una delle sue opere più note Le premier humanisme byzantin, quel fermento anteriore alle crociate dal quale nacque poi lo sforzo enciclopedico del X secolo161. Come ha scritto tuttavia Antonio Garzya, la componente umanistica ha sempre percorso la grecità bizantina, anche se è emersa episodicamente e sotto diversi aspetti, sì che egli ha distinto tra «umanesimo scolastico», volto alla conservazione e trasmissione del passato, «umanesimo cristiano», che dell’antico accoglie le forme, ma i contenuti solo quelli non discordanti dal proprio ethos162, e «umanesimo laico», svincolato dal dogma e permeato di filosofia: è quello appunto rappresentato da Psello163. Una concezione simile esprime Ugo Criscuolo quando afferma che l’Antico, come elemento di erudizione, non era stato mai abbandonato a Bisanzio, così come Marcello Gigante, sopra menzionato, dichiarava prima che «L’Antico senza il Bizantino è un concetto deficiente e incompleto, e il Bizantino senza l’Antico rimane – semplicemente – inaccessibile e impenetrabile»164: senz’altro vero, sia pure in una prospettiva finalizzata, o “utilitarista”, messa più volte in evidenza da Guglielmo Cavallo165 e, per es., sottolineata da Daniele Bianconi quando afferma che si trattava pur sempre di «un referente tecnico-linguistico e retorico, assoggettato all’ortodossia e traguardato alla difesa, alla diffusione e alla conservazione della fede e dei suoi testi»166. Sul tempo e sull’umanesimo di Psello, piuttosto, il Criscuolo sostiene che esso viene ripreso come paradigma di formazione umana opposto a quello proposto 159 IMPELLIZZERI, L’umanesimo bizantino del IX secolo. Di revival artificiale parla, invece, MAGDALINO, Hellenism and Nationalism in Byzantium, p. 10. 160 Una succosa sintesi dei termini della questione può ad es. leggersi in CRISCUOLO, Michele Psello Epistola, pp. 41-42, n. 37. 161 LEMERLE, Le premier humanisme byzantin. Secondo questo studioso, un secondo umanesimo bizantino, dopo quello del IX-X secolo, fu quello dei Paleologi, XIII-XV secolo, e non si può, a questo proposito, ignorare le discussioni incentrate sulla figura d’età paleologa di Teodoro Metochite, considerato o meno come prototipo di umanista bizantino: rinvio a GIGANTE, Per l’interpretazione di Teodoro Metochites quale umanista bizantino, ma cf. anche BAZZANI, Theodore Metochites. 162 E cf. al riguardo DAGRON, Orthodoxie byzantine. 163 GARZYA, Configurazione e sviluppo della grecità. 164 GIGANTE, Antico, Bizantino, Medioevo, p. 215. Non si devono tuttavia ignorare posizioni differenti, come ad es. di MANGO, Discontinuity with the Classical Past in Byzantium, che vede la civiltà bizantina fondata, più che sul passato classico, su tutta una struttura di carattere giudeocristiano; e cf. anche IDEM, Byzantine Literature as a Distorting Mirror, dove spiega la staticità della letteratura bizantina con il convenzionale attaccamento ai suoi modelli. 165 In particolare CAVALLO, I fondamenti culturali, e IDEM, “Foglie che fremono sui rami”. 166 BIANCONI, Umanesimi d’Oriente e d’Occidente, pp. 439-440.
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dalla Chiesa167. Zervos, invece, parla di «rinnovamento» dell’XI secolo – di cui Psello sarebbe il migliore rappresentante –, alla cui base starebbe proprio l’imitazione del mondo antico e, più in generale, l’ellenizzazione dell’Impero168. Ora, pur presentandosi Psello come esponente di quel bizantinismo deteriore legato all’atmosfera corrotta di una corte che poggiava la sua magnificenza su intrighi e marciume, è pur certo che rappresenta sia una straordinaria eccezione nell’uso creativo del greco attico, maneggiato con padronanza e semplicità (una lingua morta riesumata per reazione alla lingua parlata, e che ormai poteva essere usata solo in una dimensione sociale e letteraria169), sia il massimo portavoce non solo di quella cultura ma, forse, di tutta la civiltà letteraria e filosofica di Bisanzio, con la sua «fitta rete di riferimenti al pensiero antico» – da Platone e Aristotele alle concezioni neoplatoniche, Plotino e Proclo – messa in evidenza con questa espressione da Enrico Maltese quando parla dei suoi Theologica170, mentre le sue qualità di stile, la sua eleganza, il suo acume di giudizio ne fanno il più grande scrittore171. Indubbiamente, non sarebbe difficile attribuire questa ulteriore opera a chi scrisse con straordinaria versatilità tanto e di tutto (di metrica, grammatica, retorica, geometria, matematica, musica, astronomia, medicina, diritto, divinazione, agricoltura, e poi anche epistolografia e storia), al suo «poligrafismo irrequieto»172, ad un uomo ricco di curiosità e intuizioni e propenso a «estemporanee incursioni, al respiro breve dell’opuscolo e della lezione» e, proprio per questo, con un limite, riconosciuto: il limite di incapacità a imprese sistematiche173. Per questo la sua opera ha subito nel tempo parecchie vicende di smembramento e riassemblamenti vari su selezioni di finalità scolastiche. Ma si è all’inizio accennato al vero motivo di quest’attribuzione, che è sostanzialmente contenutistico, relativamente ai trattati filosofici di tutto il blocco, e che ha finito per coinvolgere nel mazzo anche il nostro trattato. Di conseguenza, per primo Browning, ha accostato allo stile e all’argomento di questo
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CRISCUOLO, Michele Psello Epistola, p. 31 e n. 2. Cf. anche ANASTASI, L’Umanesimo di Michele Psello. 168 ZERVOS, Un philosophe néoplatonicien du XIe siècle. WHITBY, Michael Psellus on Euripides and George of Pisidia, prende spunto dalla singolare opera pselliana per indagare sulla recezione dei poeti classici al suo tempo. 169 MANGO, Discontinuity with the Classical Past in Byzantium, p. 268. Sull’arcaismo linguistico di Psello, cf. in particolare KRIARAS, Ὁ Μιχαὴλ Ψελλός, in part. pp. 91-107. Cf. anche RENAULD, Michel Psellos Chronographie, pp. XXII-XXIX. 170 MALTESE, I Theologica di Psello: citazione a p. 54. 171 Tale, ad es., il giudizio di LJUBARSKIJ, del quale si segnala il recente contributo critico sul tradizionale modo di accostarsi alla letteratura bizantina (come fosse distinta dalla civiltà europea), incentrato su un moderno approccio che è rivalutazione a tutto tondo della polivalente figura di questo straordinario scrittore: LJUBARSKIJ, Michael Psellos in the history of Byzantine Literature. 172 GARZYA, Configurazione e sviluppo della grecità, p. 116. 173 MALTESE, I Theologica di Psello, pp. 68-69. Di impegno versatile più che sistematico parla anche CRISCUOLO, Michele Psello Epistola, p. 40 e riferimenti in n. 36.
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componimento quella lettera pselliana Sulla musica pubblicata nel 1900 da Abert174 dopo una precedente edizione, da due manoscritti dell’Escorial, che ne aveva fatto Ruelle insieme ad un’altra epistola dallo stesso dedicata «a un cesare bizantino grande amatore di musica» (l’editore si chiede se non fosse Michele Doukas)175. Non è certo un fatto straordinario che una personalità come quella di Psello non potesse non essere attratta dalle teorie musicali, al pari delle altre scienze: ricordiamo che a lui viene attribuita ancora un’altra opera che include una trattazione sulla musica (τῆς μουσικῆς σύνοψις ἠκριβωμένη), e di cui generalmente non si parla, neppure sotto la paternità di uno Pseudo-Psello, quando si affronta il tema dell’attribuzione pselliana del ns. trattato176. Alludo al Compendium sulle quattro scienze antiche – geometria, astronomia, musica, aritmetica –, il Σύνταγμα εὐσύνοπτον εἰς τὰς τέσσαρας μαθηματικὰς ἐπιστήμας, edito nel 1929 da Heiberg177. Come arguito dal Mathiesen, esso è basato su materiale tratto dall’Organon di Aristotele e dalle opere di Teone di Smirne, Aristosseno, Cleonide, Nicomaco e Gaudenzio – ma vi va aggiunto anche Bacchio, autore di una Εἰσαγογή anteriormente al sec. X che segue Aristosseno tranne che nel numero dei toni, per i quali si rifà a Tolomeo178 – ed ebbe molta popolarità almeno sino alla conquista latina di Costantinopoli, come attestano i numerosi manoscritti superstiti179. Per quanto controversa sia anche tale paternità180, e più accreditata parrebbe la cronologia che si ricava nella sezione dell’astronomia, p. 108,14 e p. 109,10 Heiberg, e cioé dal 1 settembre al 14 dicembre 1007181, lo stesso Mathiesen ad esempio la difende, sull’argomentazione che questo genere di compendio, che rielaborava il materiale tradizionale, fosse comune nella cultura bizantina, e che le varie opinioni relative a presunti nomi di autori, diversi da Psello, apposti nel manoscritto più antico e in altri della tradizione del testo, sono basati su fraintendimenti dei colofoni, e pertanto fallaci. Il fatto che questa compilazione sia pervenuta a noi o anepigrafa o col nome di Psello, in codici collectanei di opere pselliane, e la fortuna incontestabile di cui che essa godette, non danno dubbi allo studioso che il reale autore sia il grande poligrafo bizantino, cui «no figure of eleventh century comparable […] can be found in the East or the West»182, e che pertanto egli ritiene il responsabile del primo studio sistematico della tradizione della antica teoria musicale greca nel Medioevo, e il fondatore BROWNING, p. 71; ABERT, Ein ungedruckter Brief des Michael Psellus. Cf. RUELLE, Trois lettres sur la musique. Ho in realtà tralasciato di menzionare, come meno pertinente, una delle tre lettere (ep. 4 Ruelle), in cui la musica è toccata solo indirettamente in un contesto specifico relativo a problemi di geometria. 176 Di Pseudo-Psello parla MAZAL, Manuel d’études byzantines, p. 172. 177 HEIBERG, Anonymi logica et quadrivium. 178 Bacch., Isag., pp. 283-316 Jan. 179 MATHIESEN, Apollo’s Lyre, pp. 648 ss. 180 Si rinvia soprattutto a HANNICK, Byzantinische Musik, in part. pp. 185-187 per tutte le contro-argomentazioni. 181 Seguita, ad es., da CACOUROS, L’enseignement des disciplines littéraires, p. 45 e n. 72. 182 MATHIESEN, Apollo’s Lyre, p. 651. 174 175
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del più recente filone della teoria musicale bizantina e della scholarship che ebbe poi espressione tra il XIII e il XIV secolo con le opere di Giorgio Pachimere e Manuele Briennio: una certezza che egli rafforza accostando, a quest’opera, le lettere pselliane summenzionate, i Προλαμβανόμενα εἰς τὴν ῥυθμικὴν ἐπιστήμην, in cui sono evidenti i riflessi di Aristosseno ed Aristide Quintiliano, e, appunto, il nostro Περὶ τραγῳδίας, sulla cui paternità egli neanche discute e per il quale riconosce come fonti Aristosseno, Aristotele (Politica, VII), Plutarco e Aristide Quintiliano183. Certamente è importante sottolineare, in questo Syntagma, come l’anonimo autore dimostri di avere sotto mano un certo numero di fonti da cui compie delle selezioni sulla base delle sue conoscenze. Come mette in evidenza White, quando descrive i tre antichi generi musicali nella parte dedicata alla musica, egli propende palesemente per il diatonico, che apprezza per la sua nobiltà184. Lo stesso White accosta questo testo al ns. trattato – che sia, anch’esso, o meno di Psello secondo lui – per sottolineare ancora una volta il bagaglio di conoscenze dell’autore, che mostrerebbe come l’antico dramma fosse un importante elemento di educazione nel periodo medio-bizantino185. Non sono elementi da sottovalutare, questi, per un confronto; rifletterei, tuttavia, innanzitutto su un fatto posto in evidenza da Cacouros, cioè che la selezione operata sul materiale aristotelico di cui abbiamo detto, presente nella prima sezione, quella filosofica del Syntagma, starebbe a dimostrare (assieme ad altre testimonianze dallo studioso addotte) come per l’insegnamento filosofico nell’XI secolo, a partire da quando è difficile dirlo, si tendesse a ridurre o semplificare la parte più difficile della filosofia dello Stagirita, e questo sino al recupero che si cominciò a fare dopo, a partire dal XII secolo con Michele d’Efeso e, anche, Teodoro Prodromo186. Mi sembra importante evidenziare, in questi compendi, la totale assenza della Poetica, importante riferimento per il nostro trattato. E per quanto poi riguarda i componimenti epistolari sicuramente autentici prima citati, bisogna innanzitutto dire che da essi traspare chiaramente il platonismo pselliano: egli impiega metaforicamente termini musicali e tratta dell’influenza morale della musica, che raddrizza i costumi e guarisce le sofferenze, e dei rapporti che gli antichi Greci avevano istituito tra essa e la sinfonia dei corpi 183
MATHIESEN, Apollo’s Lyre, p. 645 e n. 113 per i riferimenti alle edizioni rimanenti. Pp. 63-72 Heiberg. Γενναῖον καὶ φυσικώτερον (φυσικώτερον secondo Aristide Quintiliano, cit. supra, p. 89), e per questo ammesso da Platone: p. 72, 13, 5-6 Heiberg, e cf. WHITE, The Artifice of Eternity, p. 115, dove discute anche sull’approccio, al riguardo, di RICHTER, Fragen der spätgriechisch-byzantinischen Musiktheorie, il quale tra l’altro definirebbe questo testo «uneven and eclectic» (p. 208): un giudizio che, va ammesso, si direbbe attagliarsi anche al nostro trattato, ma ciò non è dirimente. 185 WHITE, The Artifice of Eternity, p. 116. Come nell’Anonimo, tra l’altro, vengono accostati il lidio e il frigio (Heiberg, loc. cit.), ma ciò non fa testo, dal momento che i due modi stanno vicini nella successione del tetracordo, essendo il frigio più profondo di un tono del lidio (cf. ad es. Bacch., Isag., 47, p. 303, 10 Jan). 186 CACOUROS, L’enseignement des disciplines littéraires, p. 46 e n. 78 bibliografia. 184
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celesti: canto, ritmo e χορεία sono … σχήματα δὲ καὶ μορφώματα τινῶν ἀγαλμάτων187. Come dice quello stesso editore, si tratta di una testimonianza interessante in un mondo in cui della musica, ormai sfiorita dal VI secolo, non restavano altro che le teorie: vero, ma solo in parte, visto che, come si è appena detto, a differenza dell’Occidente Bisanzio non conobbe vere soluzioni di continuità tra antico e moderno, però in determinati momenti in modo particolare l’antico venne riesumato e studiato con interesse rinnovato. Molti di questi elementi che si trovano nelle epistole, infatti, abbiamo visto come fossero consacrati da lunga tradizione. Esaminando in particolare quell’epistola evocata dal Browning, senza dubbio, oltre all’affinità nella formula introduttiva «sulla quale mi hai interrogato», che imposta tutta l’opera in forma dialogica, immaginando un astante – meglio ancora un allievo (e cf. Browning, loc. cit., e Perusino, p. 37), altre analogie potrebbero vedersi, ad esempio, laddove essa dice τέλειον δὲ μέλος λέγεται τὸ συγκείμενον ἐκ λέξεως καὶ μέλους καὶ ῥυθμοῦ, in cui ritroviamo assieme i tre elementi di cui nella sezione 1 del trattato; ancora, al medesimo passo si può connettere il punto τὸ ὑλικὸν (una delle 4 parti della musica) εἰς τρία μέρη … τέμνεται; ἁρμονικὸν καὶ τὸ ῥυθμικὸν καὶ τὸ μετρικόν, mentre nel passo ἔτι δὲ ἔργον μουσικῆς ἡ τῶν ἠθῶν ἐπανόρθωσις καὶ ἡ τῶν παθῶν θεραπεία riscontriamo il binomio ἦθος – πάθος e, un po’ più avanti, la citazione delle tre armonie dorica, lidia e frigia, della χορῶν κίνησις e di ποδῶν τύπος εὔρρυθμος188. Ciononostante, tutto questo – secondo me – non prova nulla. A proposito di quell’inizio, vero è che Psello diceva ai suoi allievi che era pronto a rispondere a tutte le loro domande, e ciò rientrava nel suo orgoglio di insegnante consapevole dell’altezza di tale compito189, ma immaginare di rivolgersi a un allievo è comunque da considerare abbastanza normale in un’opera che abbia intento didascalico: lo fa, ad es., anche Tzetzes all’inizio del suo poema in versi sulla tragedia, e ciò spiega il carattere compilativo dell’opera190. Per il momento ribadiamo semplicemente che si tratta, insomma, di un’introduzione formulare di genere che può anche essere retorica, e nel nostro caso essa è presente anche in numerosi tra gli altri testi anonimi del manoscritto191, 187
Ep. p. 338 Abert (= ep. 5, p. 618t-u Ruelle). Ep. rispett. pp. 335 s. e 337, 336 Abert (= ep. 5, pp. 617c e 618n, 617h Ruelle). 189 Cf. il suo discorso agli studenti in KYRIAKIS, Student Life in Eleventh-Century Constantinople, p. 383, 72-74. Molte sue opere sono d’altronde indirizzate a studenti: rinvio a MOORE, Iter Psellianum, p. 584. Su Psello insegnante cf. BEZOBRAZOV, Vizantijskij pisatel’ i gosudarstvennyj dejatel’ Michail Psell, pp. 122-181. 190 Cf. PACE, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 10-11. Per il ns. Anonimo, PERUSINO, così come nella sua edizione, p. 37 cit., già anche in La tragedia greca come spettacolo, p. 132, parla di «opera destinata a soddisfare la curiosità di uno scolaro». 191 Per fare qualche esempio, nel blocco stesso del trattato, i testi dell’edizione di PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, 1, p. 1; 3, p. 6; 5, p. 12; 8, p. 22, ecc., e cf. i riferimenti addotti da BROWNING, p. 71. 188
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ma ci sarà data occasione di tornarvi sopra; mentre per gli altri rapporti, ci si è abbondantemente effusi, nel corso del commentario, sulla pregnanza nel mondo concettuale e teorico ellenico di quei moduli espressivi e associazioni di elementi: abbiamo, quindi, accostamenti tecnici divenuti canonici, e perciò comuni a scritti di tal genere. Per il resto, occorre convenire che il contesto dell’epistola è ben differente, allo stesso modo degli altri componimenti affini prima evocati: della tragedia non si parla, né sono tenute in particolare considerazione sue situazioni, sia pure solo quelle di natura musicale. Non sono probanti neppure gli influssi aristossenici che trapelano sia nell’uno che nell’altro testo, dal momento che ad Aristosseno si rifanno tutti i musicologi posteriori, dopo che ad Aristide Quintiliano192: un filone di tradizione arcaizzante che preserva e, in qualche modo, sistematizza le antiche teorie musicali, gettando le basi per il moderno studio storico che in Occidente si instaura con gli Umanisti193. In conclusione, nell’ambito di un discorso specialistico di tecnica musicale diffuso tra i trattati di musica, trattati che a Bisanzio – si ripete – non furono rari, a partire da questo periodo di revival culturale in poi194, puramente casuali possono considerarsi quelle poche analogie col nostro testo, troppo poche e insufficienti e, inoltre, con una totale assenza di riferimenti al genere tragico, per fare facili attribuzioni. 3. DUBBI SULLA PATERNITÀ PSELLIANA Eliminati, pertanto, come poco significativi elementi di carattere dottrinario e generale, altre caratteristiche intrinseche al testo, associate ad ulteriori ragioni e/o a peculiarità pselliane, portano a rendere dubbia la paternità del grande poligrafo. 192 Nei suoi studi di ritmica, Psello fece anche degli estratti di Aristosseno, a noi utili per averci conservato frammenti altrimenti perduti, forse dei libri I e III, anche se l’ordine non è l’originale. Cf. WESTPHAL, Griechische Rhythmik. Suppl., p. 44. 193 Così MATHIESEN, Apollo’s Lyre, p. 668. 194 Abbiamo già menzionato Giorgio Pachimere (cf. ed. TANNERY, Quadrivium de Georges Pachymères, o anche VINCENT, Notices sur trois manuscrits grecs relatifs à la musique, pp. 384553; cf. JOOST-GAUGIER, Pitagora e il suo influsso, p. 154, sul suo pitagorismo e una tradizione ripresa da Boezio nell’associazione aritmetica, musica, geometria e astronomia), e Manuele Briennio, di ascendenza pitagorica nella sua teoria fondata sull’uso del numero (ed. WALLIS, Opera matematica, III, pp. 359-508, e GOVERDUS HENRICUS JONKER, The Harmonics of Manuel Bryennius; cf. poi CHRIST, Über die Harmonik des Manuel Bryennius). Su ambedue, cf. anche MATHIESEN, Apollo’s Lyre, pp. 656 ss., che mette in evidenza il loro probabile uso delle medesime fonti ma in modo indipendente l’uno dall’altro e a lui quasi contemporaneo. Vale la pena citare ancora, per quanto di minore impatto, Giovanni Pediasimo (ed. VINCENT, Notices sur trois manuscrits grecs relatifs à la musique, pp. 289-315) o Michele Blemmide (ed. TARDO, L’antica melurgia bizantina, pp. 245-247). Cf. per una ricognizione di autori ed edizioni PAPADOPOULOS-KERAMEUS, Βυζαντινῆς ἐκκλησιαστικῆς μουσικῆς ἐγχειρίδια, e THIBAUT, Les Traités de Musique byzantine.
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1. Innanzitutto l’analisi dello stile. Franca Perusino è estremamente critica nei confronti delle qualità espositive dell’Anonimo. «Negligenza e frettolosità» sono i difetti fondamentali da lei focalizzati nel testo, sì da indurla a ipotizzare, con la riserva «se si accetta la paternità di Psello», la «rielaborazione del trattato di Psello ad opera di un maldestro erudito, forse lo scriba stesso»195. Più concretamente, a parte i numerosi refusi di trascrizione196, imputa all’Anonimo (o allo scriba negligente?) «fraintendimenti» e «vistose omissioni». Per inciso, penserei che uno “scriba negligente” difficilmente si spingerebbe a intaccare un testo così nella direzione argomentata dalla studiosa (ammesso che il testo sia veramente monco e tanto difettoso, e questo sarà verificato, tralasciando naturalmente le sviste che, pur se abbondanti ed evidentemente non revisionate dal copista o da qualunque altro revisionatore del testo, riteniamo nel complesso abbastanza normali in una copia manoscritta): non ne avrebbe nemmeno la capacità se fosse tanto mediocre oppure, se lo facesse in modo cosciente, bisognerebbe concedergli un minimo di cognizioni in causa. Considerando i primi difetti, i fraintendimenti, Perusino ad es. evidenzia l’uso ambiguo della terminologia, con l’attribuzione persino di significati diversi nelle diverse sezioni, senza preoccupazione di sanare le aporie, e porta degli esempi, su alcuni dei quali ritengo opportuno soffermarmi. Ad es. sul caso dei termini ἔξοδος ed ἐμμέλεια. Il primo termine ricorre nelle sezioni 1 e 4, le due sezioni in cui appare più evidente l’analogia con Tzetze – le sue fonti. Non si comprende bene come Perusino dica che esso venga inteso prima come “parte della tragedia che segue l’ultimo stasimo” e poi come “espressione finale del coro”. L’Anonimo non solo non dà definizioni (l’unica definizione che fornisce è – si ricordi – quella del κομμός), ma, anche se lascia intendere, non direi che propriamente mostri incoerenza tra i diversi punti. Come si è già messo in rilievo nel commentario al testo, egli inserisce l’esodo all’inizio della sez. 1 nella lista generica delle parti (μέρη), nel senso di “segmenti”, della tragedia, assieme al prologo e all’episodio e quindi tra le parti costitutive dell’agire (drama) vero e proprio. In questo, ritengo, nulla da eccepire, anche perché nella sez. 4 ciò trova una perfetta corrispondenza nelle parti propriamente dei sistemi metrici, cioè l’esodo tra le parti recitate. Subito dopo però (e qui starebbe l’incoerenza denunciata dalla studiosa), in ambedue le sezioni 1 e 4 (in quest’ultima articolando la struttura tragica nelle due distinzioni ‘modali’ di scenico e corale su modello tzetztiano), egli riporta l’esodo, più dettagliatamente, tra le parti del coro o, ancor meglio, tra i canti del coro. La contraddizione, se la si vuol vedere, è solo apparente, visto che l’esodo appare ambivalente già nella sua fonte principale Tzetze (ed eventualmente i suoi 195 196
PERUSINO, p. 17; EADEM, La tragedia greca come spettacolo, p. 132. Su cui cf. PERUSINO, p. 21.
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PARTE SECONDA
intermediari) senza che ciò sia scorretto, risalendo, come si è già messo in evidenza nel commentario, a due tradizioni differenti ma che non sono in opposizione: secondo esse, infatti, rispettivamente, l’esodo è considerato parte della λέξις o recitazione, dopo la quale non vi è più canto del coro (Aristotele197), mentre nell’altra tradizione è parte recitata o anche c a n t a t a dal coro, ovvero ultima sua manifestazione verbale (sia in metri che in canto)198. Tra le due sezioni perciò, e tra i due punti di ciascuna sezione, non vedo contraddizione, quanto semmai un modus operandi dell’autore poco critico e compilativo, come del resto è sempre, che vuole sfoggiare tutto il ventaglio di tradizioni (o definizioni) che aveva a disposizione, senza preoccuparsi di farne una anche minima rielaborazione. Andiamo all’emmeleia: d’accordo che nella sez. 11 essa indichi senza equivoco la danza del dramma; ma nelle sezioni 1 e 4 non è scritto da nessuna parte che essa indichi «un intermezzo cantato dal coro all’interno di un episodio»: abbiamo già discusso su questi punti e su questa interpretazione, che è stata proposta anche da Centanni, e che può essere opinabile o meno, ma si vuole qui focalizzare il fatto che la Perusino, nel suo sommario articolo precedente all’edizione critica, non dia spiegazioni sulla sua interpretazione e lanci questo significato come un dato di fatto che risulta incomprensibile se si va a controllare il testo del trattato. Si è già argomentato, e si vuole ribadire, che non vi è contraddizione nel concepire e definire questo elemento sia come danza del coro (canonicamente attestata) nella sez. 11 che come parte del coro (senza altra specificazione) alla sez. 1; ma neppure c’è contraddizione nell’inserimento tra i canti del coro alla sez. 4, per via della sovrapposizione, in epoca più tarda, col concetto di hyporchema199 (abbiamo già ricordato Proclo in Phot., Bibl. 239, 320b, p. 162, 33-34 Henry), e della complementarità della componente cinetica al canto, pienamente coerente col concetto di stasimo come oggi generalmente accolto, e cioè non canto da fermo ma dopo che il coro ha preso posto nell’orchestra e ricomincia a muoversi. Ne abbiamo abbondantemente parlato. Abbiamo dunque a che fare con false incoerenze. A voler veramente trovare una contraddizione, potremmo forse vederla nella sez. 5 dove si parla dell’armonia lidia, che prima l’Anonimo attribuisce alla tragedia adducendone un inedito uso sofocleo, e dopo considera più adatto alla maniera citaredica. Andrei tuttavia cauta a vedere opposizione nelle due dichiarazioni e non, piuttosto, un parere tecnico o dottrinario nel secondo caso, che 197
Poet. 1452b 21-22. Poll. IV, 108, Tract. Coisl. 9, p. 53 Kaibel, Tz., Περὶ τραγ. ποιήσ. 24-25, p. 44 Kaibel; Sch. Ar., Ve. 582b. Un elenco completo di fonti, con. commento su queste classificazioni, in PACE, spec. Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 237-238. 199 Si potrebbe qui aggiungere un’ulteriore testimonianza, quella di HENRICHS, Why should I dance?, p. 59, che afferma che tutti i cori tragici possono essere descritti come hyporchema. 198
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
133
egli potrebbe aver ricavato da Dionigi d’Alicarnasso, dove dice che i poeti di ditirambi passavano facilmente da un genere all’altro. Si potrebbe trovare una contraddizione anche nella sez. 7, dove la περίοδος viene riportata non come λέξις come nella sez. 4, ma ἐν μέλεσι: ne abbiamo tuttavia discusso200, e l’incongruenza può essere sanata. Allo stesso modo, si è visto come si possa arrivare ad una congrua interpretazione nel caso dell’apparente opposizione di termini nella sez. 9 (problema dei χορικὰ ἀπὸ σκηνῆς201). In conclusione, se non paiono pienamente condivisibili le (presunte) varie incoerenze di cui accusare l’autore, c’è da chiedersi se veramente egli vada criticato per un difetto che in fin dei conti non possiede, quanto, invece, per un altro che più correttamente gli si può imputare: l’incompletezza, o assenza di simmetria nel fornire le spiegazioni. Arriviamo così alle «vistose omissioni» criticate da Perusino. Essa puntualizza che queste si vedono soprattutto nella parte finale, e dopo i due punti comincia a precisare le omissioni del par. 4, un paragrafo che non è la parte finale del trattato, anche se la lista prosegue poi col (solo) par. 10, e basta. Peraltro, stavolta pieno accordo sugli esempi che a questo proposito essa evoca: nelle suddivisioni del canto corale una definizione viene dall’Anonimo data solo per il kommos mentre tralascia gli altri elementi, e nella parte dedicata ai segni diacritici della tragedia come testo scritto viene ricordata solo la coronide e trascurati gli altri segni. Si possono aggiungere altri casi, o falsi casi quando le omissioni risalgono alla fonte, già evidenziati nel commento: sez. 4 (vd. 19: metro e periodo rientrano nella dizione, ma prologo, episodio ed esodo, che erano recitati – e quindi λέξεως – vengono inclusi solo nel metro e non anche nella periodo: così, però, anche in Tzetze. Inoltre, la periodo è inclusa nella λέξις, mentre nella sez. 7 si allude alla periodo lirica (31); 20: canto e dizione sono pertinenti sia all’attore che al coro, ma a proposito del canto si parla solo di quello del coro e non di quello degli attori – si trova tuttavia risposta in Tzetze, che quindi l’autore mostra di padroneggiare sì da tenere per scontate certe sue dichiarazioni –; 21: le parodoi vengono inserite tra le parti cantate, in un trattamento comune con l’esodo, senza tener conto di quelle declamate in anapesti. Eppure l’autore sa benissimo che esse erano anche in recitativo, come mostra nella sez. 9. Anche nella sez. 12, dove si afferma che il coro canta le periodi (o le parodoi secondo la lezione del manoscritto), trascurando le altre parti liriche. È dunque verissimo che tante omissioni danno quel quid di diseguale, o di poco equilibrato, che si nota e disturba nell’esposizione. Bisognerebbe capire se esse sono volute – poteva l’autore dare per scontate certe definizioni, e per questo ometterle? – ovvero dettate da fretta, o da ignoranza, o da assenza di spiegazioni, dunque incompletezza nelle fonti che egli aveva a disposizione. 200 201
Cf. supra, pp. 97 s. Supra, pp. 102-105.
134
PARTE SECONDA
Dando come poco probabile quest’ultimo caso, dal momento che, almeno per la parte strutturale della forma tragedia, ci è consentita la verifica sul testo a lui più vicino (se sua fonte principale, si vedrà), che è quello di Tzetze (con i suoi intermediari, e cf. supra), in ogni caso, lo stile di quest’operetta risulta senz’altro, come si evince, poco omogeneo e, anzi, alquanto trasandato: stile stringato e, si direbbe, secco, e inoltre piatto, monotono e quasi dimesso. Allora, come potrebbe accostarsi all’usuale modus scribendi di uno scrittore quale fu Psello, così ricco, vivace, colorito e armonico202? Anche se ci si trova nell’ambito di un genere preciso che esigeva uno schema determinato, o anche se la sinteticità e la mediocrità di tale trattatello fossero derivate dal fatto che poteva trattarsi di copia minuta o di semplici appunti destinati ad essere riveduti ed ampliati o, viceversa, dal fatto che si trattava di un qualche estratto, troppo lontana pare la possibilità che l’autore fosse Psello, Psello “καλλιτέχνης τοῦ λόγου”, che accoglie la musicalità come una caratteristica del discorso203, il quale – per dirla con Hesseling204 – fonde la p r o l i s s i t à con l’eleganza, o che – per dirla con Renauld205 – conserva qualcosa dell’a b b o n d a n z a e della flessuosità dei retori attici, o ancora la cui lingua erudita è nobile, piena di pathos e di raffinatezza, caricata di parole rare sì da creare un effetto imponente, pur sembrando scrivere in modo naturale, come dice Jorga206, che lo definisce il creatore di un nuovo stile oratorio, colui il cui grande sforzo è di arrotondare la frase207; e lontana pare anche tenendo in conto le acute osservazioni di Guglielmo Cavallo riguardanti il ‘trucco’ dello scrittore ad adeguarsi, in certi suoi scritti, a un tipo di pubblico non di élite cui normalmente si rivolgeva ma più – diciamo – di massa, o meno in grado di capire o godere degli artifici retorici in cui era abilissimo: una rivelazione, questa, che quasi lo scagiona del livello meno qualificato di alcune sue composizioni. In realtà, queste composizioni incriminate apparterrebbero principalmente alla categoria cortigiana degli encomi, e l’esempio concreto, indagato da Cavallo, è appunto l’encomio a Simeone Metafraste, cui Psello accostava generi come quello liturgico e cronachistico, o anche i florilegi208. Un trattato sulla tragedia classica, il cui studio rientrava
202 Oltre a quanto detto prima a proposito del purismo linguistico di Psello, col rinvio a KRIARAS, Ὁ Μιχαήλ Ψελλός, cf. soprattutto le valutazioni del vecchio RENAULD, Etude de la langue et du style de Michel Psellos, specialmente pp. 405-558. 203 KRIARAS, Ὁ Μιχαήλ Ψελλός, p. 105. 204 HESSELING, Essai sur la civilisation byzantine, p. 299. 205 RENAULD, Etude de la langue et du style de Michel Psellos, p. 358. 206 JORGA, Médaillons d’histoire littéraire byzantine, in part. pp. 270-271 (Constantin Psellos). 207 Tutte valutazioni vincenti, nonostante qualche sporadico giudizio in contro-corrente: ad es., KRUMBACHER, Geschichte der byzantinischen Litteratur, p. 1008, ha cercato di mostrare come fosse un retore buono a nulla ed uno pseudo-filosofo; o Finley, cit. in GADOLIN, A Theory of History and Society, p. 18, vi ha riconosciuto solo qualità pretenziose. 208 CAVALLO, Alla ricerca del doppio pubblico.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
135
nei programmi dell’istruzione secondaria per l’approfondimento della grammatica209, non può rientrare in un tipo di “letteratura di massa”210. Lontana, infine, anche la possibilità prospettata dalla superficiale ipotesi di Perusino, che il testo pselliano originale sia stato del tutto sfigurato da un copista ignorante e pasticcione. Più lontana ancora appare tale possibilità, se si pensi – a parte lo stile – alla pratica assidua dei classici, propria di tale scrittore; tantomeno la sua filosofia e la sua sensibilità alle problematizzazioni di carattere etico autorizzerebbero la totale assenza, nel testo, di riferimenti moralistico-pedagogici. 2. Psello era dichiaratamente un platonico, sia nel suo insegnamento quanto nei suoi scritti, un dato di fatto su cui non è neanche il caso di diffondersi211. Aristotele era, certamente, il riferimento di base per la fisica, la logica e la dialettica, ma era da lui considerato un filosofo «oscuro» e un «cattivo teologo»212. A Platone, dunque, nella sua vocazione filosofica lo scrittore guardava come maestro di filosofia e vero teologo, che cercò di integrare almeno in parte nell’ortodossia, in quanto ha sistematizzato le nostre conoscenze del mondo intellegibile213; dunque alla sua metafisica, “distillata” attraverso gli esponenti del neo-platonismo Plotino, Porfirio, Giamblico, Proclo («è a lui che devo sapienza e giuste idee»214). Platone era visto come erede della mistica numerica di Pitagora, nel quale tra l’altro si considerava un antesignano delle dottrine cristiane215. Dunque, prima ancora che platonico, Psello era pitagorico216, e il suo pitagorismo si evince anche dal suo tentativo di ricostruire l’enciclopedia di Giamblico (s. III) sul pitagorismo, basato su fonti oggi scomparse, e dal suo possesso di quel famoso manoscritto delle opere filosofiche ermetiche di Ermete Trimegisto, che esaltano Pitagora dal punto di vista della magia. L’evidenza del ns. testo si è visto come invece, sia pure in modo molto diluito, porti alla teorizzazione di Aristotele e ai suoi commentatori. 3. Psello era uno che rimproverava i suoi allievi di occuparsi più di teatro che di studio, laddove invece Tzetze un secolo dopo riconoscerà già che gli attori sono tenuti in considerazione come i letterati217. E quel poco di teatro in lui presente, induce a pensare che ancora al suo tempo, evidentemente, esso era 209
Cf. supra, n. 155. Quella di cui parla HUNGER, Schreiben und Lesen im Byzanz, p. 133. 211 Anche se, secondo ZERVOS, Un philosophe néoplatonicien, p. 114, non riuscì nel tentativo di imitarlo. Secondo JORGA, Médaillons d’histoire littéraire byzantine, invece, egli fu il rinnovatore dell’idea platonica. 212 Cf. NIARCHOS, The Philosophical Background of the Eleventh-Century Revival, p. 133. 213 Cf. TATAKIS, La philosophie byzantine, p. 186. 214 GARZYA, Configurazione e sviluppo della grecità, p. 116 cit. 215 Cf. JOOST-GAUGIER, Pitagora e il suo influsso, p. 153. 216 Sul pitagorismo pselliano cf. principalmente ZERVOS, Un philosophe néoplatonicien. 217 COTTAS, Le théâtre à Byzance, pp. 54-55, dove parla di «metamorfosi meravigliosa». 210
136
PARTE SECONDA
una farsa, anche se meno immorale di prima per influsso del Cristianesimo218. A maggior ragione è poco verosimile che abbia compilato un trattato del genere. 4. Ma infine, piuttosto che ignorati perché riguardanti gli altri trattati del blocco, vanno al contrario presi in seria considerazione gli argomenti di tipo contenutistico, per la prima volta esaminati in modo ineccepibile da Ilias Pontikos nel ’93. Se, sotto questo punto di vista, Psello c’entra in qualche modo, abbiamo però a che fare con estratti o compilazioni posteriori, che mostrano un ventaglio ben più diversificato di fonti tutte identificate e descritte, compresa quella aristotelica, e un interesse in special modo teoretico del compilatore219. 4. FONTI DEL Περὶ τραγῳδίας E DEDUZIONI Una volta eliminato Psello come plausibile autore, e considerata dunque anonima l’opera con maggiore consapevolezza, rimane da riesaminare accuratamente le fonti da quest’autore utilizzate; meglio dire più in generale, forse, le fonti evidenziate, fino al momento in cui non si potrà chiarire completamente l’aspetto del rapporto cronologico. Si è cercato nel commento di trovare man mano i riferimenti di confronto, in sintonia o a integrazione di quelli apportati dai precedenti editori del testo; se ne dà di seguito una sommaria sintesi (in ordine alfabetico delle fonti220) che evidenzi almeno i collegamenti sui concetti di base, prima di discuterne: Anonimo, Περὶ τραγ.
Fonti Alcifrone Ep. 3, 65 (cf. Luc., Nec. 16) οἱ ἐπὶ σκηνῆς
cf. riferimenti sez. 1 e 9
Aristide Quintiliano De mus. p. 35,1 W.-I.
distinzione metro – periodo cf. sez. 4
p. 34-36 W.-I.
definizione di periodo
cf. sez. 4
p. 17,21 W.-I.
σύντονον per διάτονον
cf. sez. 5
p. 22,11; 40,1 W.-I.
definizione di μεταβολή
cf. sez. 7
218 VOGT, Le théâtre à Byzance, pp. 289-290, con la confutazione dell’attribuzione al noto poligrafo dell’opuscolo sui demoni pubblicato nel 1922 dal Reinach, un testo che egli definisce un vero mimo che pone in ridicolo i misteri greci. 219 PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica. 220 Dove si è preferito elencare Tzetze distintamente laddove riferisce attingendo (presumibilmente, come si capirà in seguito) sia ad altre fonti, non nominate, e sia alla sua fonte esplicita Euclide.
137
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Anonimo, Περὶ τραγ.
Fonti Aristosseno Harm.
Triade della melodia cf. sez. 1 (e cf. Excerpta Neapolitana 4-5 [pp. 412-413 J.]; Fragmenta Parisina [p. 44 W.]; Psello, Προλαμβανόμενα [p. 19,3 W.])
Aristotele Poet. 1447a 29 (cf. Rhet. 1371b 35) assoc. ἤθος-πάθος-πρᾶξις b
b
1449 32-1450 20
elementi della mimesi tragica
cf. sez. 1-2 (oggetti mim.) “ “ “ (senza l’ὡς μιμεῖται)
1447a 27, b 26, 1449b 29-30 assoc. vv. metro – ritmo – armonia/canto
cf. sez. 1
1450a 11ss. (e cf. 1450a 14, valenza tecnica di ὄψις (1450b 20, 1454b 15, 1450b 18, 1453b) 1462a 16: ὄψις al plurale)
cf. sez. 1
1450a 21; anche 1448a 1, 1449b 9-10, 24, 37, 1450a 15 ss. ecc.
concetto del carattere in funzione dell’azione
cf. sez. 2
1450a 24
senza azione non esiste tragedia
cf. sez. 1
1453b 7-8
valenza di χορηγία
cf. sez. 1
1461 30 e 1462a 8
contro la volgarità di eccessiva gesticolazione
cf. sez. 6
1450b 19-20, 1453b 3-6, 1462a 11 e 17-18
valore della tragedia anche senza mimica (alla sola lettura)
cf. sez. 6 e sez. 10
1450b 20
σκευοποιός/σκηνοποιός
cf. sez. 1
b
b
1452 14-18
parti quantitative d. tragedia, cf. sez. 1 (in parte, i primi e “peculiarità” dei τὰ ἀπὸ 4 elementi) σκηνῆς καὶ κομμοί cf. sez. 9
1452b 18 e 25
espressione ἀπὸ σκηνῆς
cf. sez. 1, 4, 9
1455 24 ss. (e cf. 1455b 26-28)
nodo-scioglimento ἀπὸ τῆς ἀρχῆς
cf. sez. 3 (ma sintetico) ἀπὸ τῶν χρονῶν
1452a 24 e 31, 1452b 9-10
mutamento da peripezia e riconoscimento
cf. sez. 3
1452b 16
parti di dizione contrapposte cf. sez. 1 e 4 a quelle di canto
b
138
PARTE SECONDA
Anonimo, Περὶ τραγ.
Fonti 1452b 23 e 24
definizioni di stasimo e kommos kommos = threnos
cf. sez. 4
Rhet. 1356a 23
binomio ἦθος – πάθος
cf. sez. 2
Aristotele (Pseudo) Pr. XIX 15
τὰ μὲν ἀπὸ τῆς σκηνῆς cf. sez. 1 e 7 οὐκ ἀντίστροφα, τὰ δὲ τοῦ χοροῦ ἀντίστροφα
30
οὐδὲ ὑποδωριστὶ οὐδὲ ὑποφρυγιστὶ οὐκ ἔστιν ἐν τραγῳδίᾳ χορικόν
cf. sez. 5
48
οἱ ἀπὸ σκηνῆς
cf. sez. 1
binomio ἦθος – πάθος
cf. sez. 2
11
μέλος – ῥυθμός
cf. sez. 1
22 (e cf. Ep. ad Pomp. 3)
binomio ἦθος – πάθος
cf. sez. 2
definizione di periodo
cf. sez. 4
Demetrio Falereo Eloc. 28 Dionigi di Alicarnasso De comp. verb.
Efestione Ench. p. 65,13 e 168,19 C.
p. 82,2 (Longin., Proleg.); distinzione metro-periodo 120,1; 168,19 (Schol. A) C.
cf. sez. 4
Sch. p. 173,19 C.
(parodo) εἴσοδος τοῦ χοροῦ ἐπὶ σκηνήν
cf. sez. 4 (ma vedi ἐπίσκηνα sez. 9)
Sch. p. 169,3 C.
periodo sinonimo di strofe
cf. sez. 7
binomio ἦθος – πάθος
cf. sez. 2
764,1 (e cf, Glos. 4-5)
τετράγωνον εἶχον οἱ χοροὶ σχῆμα
cf. sez. 1: rif. per τύποι
“
τ. ἐστὶ βίων καὶ λόγων ἡρωϊκῶν μίμησις
cf. sez. 2
Fonti ellenistico-romane non meglio identificate
imitazioni sonore
cf. sez. 2
Longino 9,15
binomio ἦθος – πάθος
cf. sez. 2
Eliano Var. hist. 4,3 Etym. Magnum
“ (e cf. Glos. 1)
139
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Anonimo, Περὶ τραγ.
Fonti Musici teorici: Aristoss., teorie musicali; Arist. Quint., Aten., Cleon., mescolanza dei generi; Nicomaco, Ps.Arist., ἁρμονία per ἐναρμόνιον Ps. Plut.
cf. sez. 5 (ma cf. notizie inedite, es. sulle innovazioni attribuite a Eur.)
Platone Leg., Resp., passim Gorg. 502c
metro – ritmo – canto/πάθος cf. sez. 1 metro – ritmo – musica
Phileb. 56a
assoc. musica – movimento cf. sez. 1
Plutarco Galb. 16
οἱ περὶ σκηνῆς
cf. sez. 4
Plutarco (Pseudo) De mus. 35
nota musicale – tempo – cf. sez. 1 lettera (= armonia – ritmo – metro)
18
ποικιλία
cf. sez. 5 (πολυχορδία)
17
impiego ionio e lidio in tragedia
cf. sez. 5 (assoc. ionio-lidio)
6
distingue lira e cetra
cf. sez. 12
IV, 53
le 5 parti corali
cf. sez. 1 e 4
IV, 108
πάροδος = canto del coro cf. sez. 1 e 4: parte del coro = Sch. Haeph., p. 173, 19 C.
IV, 123
καὶ σκηνὴ μὲν ὑποκριτῶν ἴδιον, ἡ δὲ ὀρχήστρα τοῦ χοροῦ
cf. sez. 1
IV, 127
εἰσελθόντες δὲ κατὰ τὴν ὀρχήστραν ἐπὶ τὴν σκηνὴν ἀναβαίνουσι
cf. sez. 9
Polluce
IV, 128-129
Congegni
cf. sez. 3
IV, 130-131
imitazioni sonore (tuono)
cf. sez. 2
IV, 201
Δεινοπάθεια (per la tragedia) cf. sez. 2
VII, 189
σκηνοποίος
cf. sez. 1
Proclo Chrest. (in Fozio, Bibl., 320b) Frigio più adatto al cf. sez. 5 p. 161, 19-21 H. ditirambo; lidio più adatto alla maniera citaredica p. 162, 33-34 H.
definizione di hyporchema
cf. sez.1 e 4 (emmeleia tra le parti liriche)
140
PARTE SECONDA
Anonimo, Περὶ τραγ.
Fonti Senofonte καταλογεῖν
cf. sez. 9 (καταλογή)
riferimento a Euripide per l’uso della lira
cf. sez. 12
746b, 8-9, p. 18 H. (11-12, p. 11 K.)
ἐν τετραγώνῳ σχήματι ἱστάμενοι
cf. sez. 1: rif. per τύποι
746b,
[che prende] ἀρχαίας ἱστορίας τῶν ἡρώων ἐχούσας πάθη τινά
cf. sez. 2
20-21
θανάτους καὶ θρήνους
cf. sez. 2
28 ss., p. 17 H. (e cf. 31-32, p. 11, 40 ss., p. 12 K.)
mostrando ἡρώων ...πρόσωπα e σώματα ... ἡρωϊκά
cf. sez. 2
Suida
v. emmeleia
cf. sez. 1, 4, 11 (valenza di emmeleia)
Trad. peripatetica
πάθος distintivo della tragedia
cf. sez. 2
Symp. VI,3 Sesto Empirico Adv. mus. 13 Sch. Dion. Tr.
dottrina degli ἠθῶν ἡρωϊκῶν cf. sez. 2 Trattato Coisliniano 2-3
φοβερὰ παθήματα τῆς cf. sez. 2: pathos più che ψυχῆς δι’οἴκτου καὶ δέους praxis, ma si allontana
7-8
ridimensione dell’ὄψις
cf. sez. 1
9
le 4 parti della commedia: esodo come ultima manifestazione del coro
cf. sez. 1
Frinico commediografo definito παλαιός
cf. sez. 8
Trichas De nov. metr. 8, p. 395,30 C. Tzetze, I. De metr. Pind., p. 17, 11 Dr. valenza di μονόστροφα e ἐπῳδικά
cf. sez. 7
141
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Anonimo, Περὶ τραγ.
Fonti Tzetze, G. Περὶ κωμ. Ma, 149-150 = Ἰαμβ. τεχν. 38 Περὶ κωμ. Pb, 69
ἐν τετραγωνίζοντι τοῦ χοροῦ τύπῳ
cf. sez. 1: rif. per τύποι
Ἴαμβ. τεχν. 11 ss.
4 parti quantitative della commedia
cf. sez. 1
Περὶ κωμ. Pb, 114
ἄγγελος ecc.
cf. sez. 3
Περὶ κωμ. Pb, 78
nome della quarta danza della parabasi comica ᾠδὴ καὶ στροφή
cf. sez. 1 e 4: danza emmeleia come parte lirica
Περὶ κωμ. Ma, 154
μακρόν riferito a μέλος
cf. sez. 7
classificazione personale con suddivisione degli attori in σκηνικόν e χορόν v. 160, ἄγγελος ecc. 162 ss., metro e periodo 166 ss., ὀρχηματικόν tra le parti del coro al posto dell’emmeleia 177
cf. sez. 1
Περὶ τραγ. ποιήσ. 155-182
cf. sez. 3 cf. sez.11, e 1 e 4 (ambiguità dell’emmeleia)
170
περίοδος come strofe lirica cf. sez. 7
185
tragedia μίμησις ἠθῶν, πράξεων, παθημάτων
186
[μίμησης] ἡρωϊκοῦ τρόπου cf. sez. 2
cf. sez. 2
Περὶ τραγ. ποιήσ. (altre fonti) 9 ss. (e 75 ss.) 19-20 29-30, 59-60 75 ss.
τρόποι σκηνικός τε καὶ χοροῦ; suddivisione del metro; emmeleia tra le parti corali
cf. sez. 4 cf. sez. 1 e 4 cf. sez. 1 e 4 sez. 1 e 4 (ma cf. 7)
sudd. canto corale in 5 (compreso esodo vv. 31, 72, 85); sudd. recitazione in metro e periodo (vv. 79-80; ma v. anche 166-170); e cf. 15-18, 28, 86 e 175
il canto degli attori non è divisibile
cf. sez. 1 e 4 (sottinteso)
64 ss.
kommos=threnos (> Arist.)
cf. sez. 4
142
PARTE SECONDA
Anonimo, Περὶ τραγ.
Fonti 74
emmeleia danza della tragedia
cf. sez. 11
39-41
chiama ᾠδή la parodos
cf. sez. 4 (parodos tra le parti cantate)
43 e 109
epiparodos (ingresso II coro)
cf. sez. 3 (dichoria)
94-121
ἄγγελος ecc. 95
cf. sez. 3
hyporchema al posto dell’emmeleia v. 114
cf. sez. 1 e 4 (emmeleia tra le parti liriche)
Περὶ τραγ.ποιήσ. (Euclide)
Oltre a quanto derivato da fonti a noi accessibili, occorre comunque ricordare come l’Anonimo dia pure notizie inedite, per le quali quindi è stato considerato esso stesso fonte esclusiva. Tale la notizia che fu Euripide ad introdurre il genere cromatico nella tragedia, Euripide che, inoltre, egli ritiene responsabile di innovazioni nel metro e nell’ampliamento delle note musicali, mentre attribuisce ad Agatone l’introduzione dell’ipodorio e l’ipofrigio. Tale, anche, la notizia dell’impiego dell’armonia lidia in Sofocle. Oppure usa termini rari e ricercati come quelli, molto pertinenti, di πολυχορδία, attestato nel III libro della Republica di Platone (399c-d), e che trova un riscontro nella ποικιλία di Pseudo Plutarco (Ps. Plut., De mus. 18 cit.), ma anche di ἀνάτρητος e poi di πολυειδέστερος e πολυχρούστερος; o termini esclusivi come ἀναβόημα, attestato unicamente da Eschilo, Coeph. 34, ma nella forma doricizzata ἀμβόαμα: «qualcosa tra canto e καταλογή», dice, sollevando una nuova difficoltà col termine raro di καταλογή, attestato nel verbo corrispondente solo in Senofonte, Symp. VI, 3. Non disponendo purtroppo di riscontri utili, rimaniamo nell’impossibilità di sapere se in tutti i casi in cui la sua testimonianza appare inconsueta egli si sia rifatto a fonti perdute oppure – poco probabile – se abbia giocato di immaginazione o di riminiscenze mnemoniche; oppure – perché no – se abbia fatto confusione o sia caduto in errore senza rendersene neanche conto. Non siamo di conseguenza in grado di dare, per questo tipo di informazioni da lui fornite, una valutazione che sia positiva su una sua eventuale diligenza e dottrina, o negativa sulla sua sciatteria, sebbene la sottigliezza che talora in lui si coglie – e lo ribadisco a dispetto di tanti giudizi negativi – indurrebbe a propendere per la prima opzione. Per richiamare solo qualche caso, per es. sorprendentemente egli distingue la lira dalla cetra, due strumenti simili e spesso confusi, che tuttavia troviamo distinti in Ps. Plutarco; oppure conosce la notizia rara che Sofocle si sia servito della lira in una sua tragedia, il Tamiri (sez. 12). O si può notare il suo pertinente impiego di ὄψεις al plurale, secondo Poet. 1450b 20 (sez. 1), così come sempre secondo il concetto di Poetica (passi
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citati supra) sulla superiorità della tragedia come λέξις, sottile è quella dichiarazione che la parola recitata non debba essere sottoposta alla musica (sez. 6) o quel gioco, già messo in rilievo e mai notato sinora, delle due frasi γίνεται δὲ ... μεταβολή rispettivamente nei due diversi contesti delle sez. 3 e 7. Il giudizio che si ricava da questi piccoli indizi non può perciò essere, a mio avviso, negativo. Tornando a commentare sulle fonti riconoscibili, è chiaro ed è stato più volte ribadito che il punto di partenza, come idea concettuale, è – o perlomeno appare essere – la Poetica di Aristotele. Indubbiamente, già sin dall’apertura della Scuola di Filosofia ad opera di Costantino Monomaco, nell’incremento generale che gli studi ebbero nell’ΧI secolo, il pensiero del grande Stagirita aveva cominciato a trovare una novella fioritura, e lo attestano i numerosi studi, commentari, parafrasi ed epitomi che se ne fecero, a partire dal commentario dello stesso Psello al De interpretatione (a lui, invece, falsamente attribuito un commentario alla Fisica221), sino a tutto il XIV secolo222. Della Poetica in special modo che qui ci interessa, tramandata nella tradizione esegetica tardoantica come parte dell’Organon nella sua versione più ampia (che comprendeva anche la Retorica), poi assorbito nella Logica, era stata fatta una versione siriaca già intorno al IX secolo (della quale ci rimane solo il brano iniziale del cap. 6223), che fu probabilmente quella su cui lavorarono i primi traduttori arabi del secolo successivo, gli intermediari della fortuna del testo in Occidente224. Inutile sottolineare il valore universale di un’opera tale, nella quale Aristotele, come esattamente detto dal Fritz225, non volle fornire una guida alla produzione delle tragedie, ma alla critica, e sancì quelle “regole” dal repertorio di centinaia di tragedie e che, poiché inerenti alla sostanza stessa dell’argomento, avrebbero conservato il loro valore per ogni epoca. Il risvolto meno positivo è quello che si è già denunciato: proprio per poter “comprendere” tutto, Aristotele è poi risultato troppo schematico o generale, per cui già sin dall’epoca
221 GOLITSIS, Un commentaire perpétuel de George Pachymère, lo ha con solide argomentazioni restituito al vero autore, Pachimere (e cf. infra, p. 162). 222 Cf. CILENTO, Sul commentario aristotelico di Psello, ma si vedano riferimenti in MOORE, Iter Psellianum, pp. 233-340 (Philosophical Works), mentre più in generale sugli studi aristotelici a Bisanzio: OEHLER, Aristotle in Byzantium, BENAKIS, Commentaries and Commentators on the Logical Works, IDEM, Commentaries and Commentators on the Works of Aristotle, nonché CACOUROS, principalmente Aristote et aristotélisme à Byzance (sottolinea come i manoscritti di Aristotele tengono il quarto posto tra gli autori copiati a Bisanzio) e Le commentaire d’Aristote à Byzance. 223 Da cui discende un manoscritto parigino del sec. XI pubblicato per intero da D.S. Margoliouth nel 1911 (MARGOLIOUTH, The Poetics) e poi da J. Tkatsch nel 1928 (TKATSCH, Die arabische Übersetzung der Poetik). 224 Sulla tradizione orientale della Poetica, cf. HUGONNARD-ROCHE, La Poétique, nonché BOGGES, Hermannus Alemannus and Catharsis. Sulla sua riscoperta in età rinascimentale, col presupposto della riscoperta e recupero della cultura ellenica, cf. in particolare, tra altri, PESCE, Introduzione, pp. 41-47. Un panorama in FORTE, La poetica aristotelica. 225 VON FRITZ, Tragedia antica e moderna, pp. 110-111.
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ellenistico-bizantina si è sentita l’esigenza di articolare più dettagliatamente il suo disegno strutturale226. Ora, si è visto che l’Anonimo sembri servirsi della Poetica come fondamento, ne assuma – ripetiamo – lo schema generico, come opera didattica, e talvolta anche la terminologia. Anzi, se i più hanno pensato ad una conoscenza mediata – circolava il testo originale al suo tempo? –, i passi a confronto, al contrario, sembrano mostrare come quella teoria fosse stata da lui abbastanza “metabolizzata”. Se focalizziamo l’attenzione su particolari come ὄψεις al plurale nella sez. 1, o i χορικὰ ἀπὸ σκηνῆς nella sez. 9 molto acutamente introdotti da quel «vi è quando», ecc., ma persino l’uso esclusivo, rispetto agli altri testi bizantini del genere, dell’espressione tecnica aristotelica ἀπὸ σκηνῆς al posto di σκηνικόν che gli conferisce un qualcosa di ricercato, si evidenzia una sottilissima e quasi invisibile trama, insinuata latamente nella trattazione. Ciò, tuttavia, non significa tout court che dobbiamo dar per certo che egli disponesse del testo integrale: non dovremmo perdere di vista quello che era presso i Bizantini il sistema di trasmissione e fruizione dei testi antichi. Cacouros ha magistralmente spiegato come si articolassero le diverse tipologie di raccolte, che scaturivano quasi spontaneamente dalla mole del materiale pervenuto dall’Antichità e, quindi, dalla necessità di gestirlo, soprattutto ai fini didascalici, con la distinzione tra forme abbreviate o epitomi, e compilazioni di più opere, raccolte o per temi o per autore/i (determinati testi o l’intero corpus di un autore), queste ultime connesse con l’esegesi delle fonti, che di conseguenza mettono insieme tutti i testi o gli estratti esegetici227. Non siamo quindi autorizzati ad escludere l’idea che, effettivamente, l’Anonimo si fosse basato su una (buona) epitome, o estratto, della teoria estetica aristotelica, ma questo è, e rimane, un problema che investe quello più grande della trasmissione di questo testo, già distorto attraverso la letteratura araba per cui, come conviene lo Ziegler228, i resti – seppur scarsi – di una letteratura molto complessa ci impediscono di immaginarne semplice e lineare lo sviluppo229, sia pure ammettendo che in area greca un punto fermo è dato nel sec. XIII dalla traduzione (finalmente dal greco e non dal siriaco o arabo) che ne fece Guglielmo di Moerbeke assieme alle altre opere aristoteliche – il cui ruolo fu decisivo nello sviluppo della filosofia tomista –, e credo sia importante ricordare che nel 1260 Guglielmo sia passato proprio da Nicea230 ma, nel contempo, sottolineare anche
226
Cf. supra, p. 58. CACOUROS, L’enseignement des disciplines littéraires, spec. pp. 70 ss. 228 ZIEGLER, Tragoedia, col. 2066. 229 Cf. CREIZENACH, Geschichte des Neueren Dramas, I, pp. 15 ss. Neppure si può essere certi di un utilizzo diretto della Poetica anche in quei casi in cui è lampante il suo influsso, come le ypotheseis di Aristofane di Bisanzio o gli scoli alle tragedie (su cui cf. TRENDELENBURG, Grammaticorum graecorum de arte tragica iudiciorum reliquiae, e SUSEMIHL, Aristoteles über die Dichtkunst, p. 20 e n. 3): rinvio a EGGERKING, De Graeca artis tragicae doctrina, pp. 42-56. Su «Aristotele dopo Aristotele» cf. quindi MORAUX, L’aristotelismo presso i Greci. 230 Rinvio a BRAMS, La riscoperta di Aristotele. 227
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che, per lo stesso secolo, non risulta alcun esemplare della Poetica – almeno a noi pervenuto – nell’inventario compilato da Wartelle231. Nel turbine, pertanto, delle sue vicende, occorre mettere in conto che, dalla poetica ellenistica in poi, non trovò più riscontro quella che costituiva la caratteristica essenziale di quella poetica, la trattazione, cioè, della Poesia in sé e per sé, quel suo carattere generale nella sua autonomia e indipendenza da fini pratici e morali, perciò distinta dalle altre categorie dello spirito (a differenza di Platone, che le dava un significato strumentale – anche se dal Maestro Aristotele derivava la definizione dell’arte come mimesi232); quella caratteristica – di un’ispirazione che non può considerarsi moralistica – che si riflette persino nel concetto di catarsi233. E occorre anche riconoscere che siffatta poetica “amoraleestetica” – assieme a quella opposta platonica, “ipermorale”, che si trasmetterà soltanto nei trattati neo-platonici di tendenza ascetica234 – abbia avuto in fondo un’importanza episodica nella concezione preponderante presso gli antichi che la Poesia deve dilettare ed educare assieme, τέρπειν καὶ ὠφελεῖν, mescolando utile e dolce235. Le poetiche più tarde, infatti, porranno per lo più l’accento su un concetto pedagogico di utilità236; e ciò soprattutto nell’era cristiana,
WARTELLE, Inventaire des manuscrits grecs d’Aristote. Ma cf. le considerazioni di ROSTAGNI, Aristotele e l’Aristotelismo, p. 4 e n. 1. 233 Tale concetto, come rilevato da GALLAVOTTI, Dell’Arte Poetica, pp. 229 ss., in base alla spiegazione che lo stesso Aristotele ci dà a proposito della musica in Pol. VIII, 7, 1341b 321342a 18 (ma cf. anche ibidem 6, 1341a 21-24), più che in senso etico è impiegato come “liberazione corporale” (in senso medico), e non va dissociato dal concetto di mimesi – della quale è effetto – e di piacere – il quale è un suo effetto e che finisce per costituire il fine pratico dell’attività poetica. Anche lo ZIEGLER, Tragoedia, col. 2053, ribatte che Aristotele pone l’accento sulla ἠδονή, più che sull’effetto morale-educativo o didattico, e (col. 2058) fa prevalere la πρᾶξις sull’ἦθος. Così PAGLIARO, La tragedia e il tragico secondo Aristotele, in part. pp. 62-63, afferma che «la catarsi di Aristotele non è concepita affatto in funzione etica come credettero i commentatori cinquecentisti … Il termine catarsi indica una operazione energica e magari violenta per restaurare un ordine eliminando ciò che lo turba». E, p. 65, «nella sua definizione Aristotele … guarda … a una condizione fenomenologica della tragedia …». Rostagni invece, Aristotele e l’Aristotelismo, p. 93, critica sia coloro che danno alla catarsi un puro significato estetico, sia coloro che, accettando l’interpretazione patologica sostengono che essa avesse fondo orgiastico e non medico, o viceversa; e ritiene assurda (p. 89 e pp. 114 ss.) l’identificazione di essa col piacere, in quanto la prima è un’azione, il secondo un sentimento. Egli dà piuttosto alla catarsi un significato pratico, come accennato sopra a p. 42, «adempiendo all’ufficio di eliminare, una volta tanto, l’appunto platonico circa l’azione nefasta dei παθήματα nella poesia». Cf. anche la sottile analisi di VALE, La rappresentazione oltre la realtà, pp. 98 ss. 234 Già in seno all’Accademia stessa, con Ammonio, pare abbia avuto inizio quella polemica contro l’esagerazione etica di Platone che si trova poi nel suo grande seguace Plutarco: cf. ZIEGLER, Tragoedia, coll. 2059 ss. 235 Anche questo non è condiviso da ROSTAGNI, Aristotele e l’Aristotelismo, p. 190, il quale sostiene che, da Teofrasto in poi, la Poetica ebbe tanta fortuna «che divenne, in forma manualistica, patrimonio quasi anonimo della universale cultura», venendo – a parer mio – in contraddizione con quanto dopo afferma e dimostra sulle innovazioni della scuola peripatetica. 236 Utile e dolce sarà poi il criterio cui si informerà anche la Poetica di Orazio, nonostante che da Aristotele erediti, accentuandolo ulteriormente, il senso della superiorità della tragedia sull’epos, un apprezzamento che si nota anche nell’ep. 2. Rinvio solamente a D’ANNA, I precetti oraziani 231 232
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evidentemente nella lotta contro la lettura degli autori immorali o pagani, tragici compresi. Lo vediamo dall’Etymologicum Magnum237, dagli Scoli a Dionisio Trace238 e, infine, anche dai vv. 23 ss. degli Στίχοι περὶ διαφορᾶς ποιητῶν di Tzetze239, che mostrano tutti una matrice comune. E, a conti fatti, malgrado le osservazioni prima fatte sulle analogie (prevalentemente terminologiche, quindi di carattere “esterno”), non può negarsi che alquanto deformato, per altri versi, sembri l’Aristotele che si intravede nell’Anonimo. In primo luogo è privo proprio di quell’esclusivo (e inimitabile) sostrato di universalità, andato irrimediabilmente perduto. In secondo luogo, data inoltre la distanza cronologica e la possibilità di “aggiornamento” grazie a teorie più recenti, il ns. autore è probabilmente costretto a distaccarsene, tant’è che un’altra parte della terminologia che più o meno appropriatamente (se si accolgono le critiche) impiega è anche ellenistica e a volte più tarda. Soprattutto, egli non segue più Aristotele quando parla di metrica e di musica con questioni da quello ignorate; per di più, diversamente da quello, mostra palesemente un interesse molto spiccato per gli aspetti di natura tecnica o prettamente teatrico e spettacolare: solo la sezione 8, su tutto il testo, appare esente da qualunque tipo di accenno all’aspetto scenico e/o coreutico musicale. Certamente, non sappiamo – come osserva Glucker – se questi argomenti erano trattati in quella parte della Poetica che è andata perduta: una possibilità, questa di una seconda parte dell’opera, aperta d’altronde dallo stesso Stagirita, laddove all’inizio del VI capitolo avverte il lettore: περὶ μὲν οὖν τῆς ἐν ἑξαμέτροις μιμητικῆς καὶ περὶ κωμῳδίας ὕστερον ἐροῦμεν, περὶ δὲ τραγῳδίας λέγωμεν ... (1449b 20), anche se non tutti sono d’accordo240. Non sarebbe, a questo punto, da respingere l’ipotesi di Browning che l’Anonimo abbia piuttosto avuto innanzi (anche? oppure: esclusivamente?) la poetica di Teofrasto, o l’opinione del Glucker che egli possa aver conosciuto fonti peripatetiche più tarde o anche μεταφράσεις ο ὑπομνήματα al corpus aristotelico, come quelle che scrisse Temistio, ma che oggi non possediamo più.
sulla tragedia, per la descrizione del percorso ideologico che portò il poeta, prima callimacheo, ad avvicinarsi ad Aristotele. 237 Et. M., p. 764, 1 Gaisford. 238 P. 17, 19 ss. Hilgard. 239 P. 35 Kaibel. 240 Su questa possibilità di un secondo tomo, con molta probabilità richiamato anche in Pol. VIII, 7 cit. (in part. 1341b 39-40), sull’educazione dei giovani e il ruolo della musica, ad es. cf. le riserve espresse da DÜRING, Aristoteles. Darstellung und Interpretation seines Denkens, p. 126, o più recentemente D’ANCONA, The Libraries of the Neoplatonists, p. 314. Da condividere su questo punto però sembrano i ragionamenti di ROSTAGNI, Aristotele e l’Aristotelismo, p. 13 e n. 2 a favore della sua esistenza, che doveva contenere una teorizzazione nell’ambito della quale, tra l’altro, il filosofo avrebbe ripreso e ampliato il suo concetto di catarsi. E cf. anche G ALLAVOTTI, Dell’Arte Poetica, p. 19 e pp. 227-240.
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Come puntualizzato dalla Dosi241, il primo, Teofrasto, pur svolgendo in forma sistematica le idee del grande maestro, si pose quasi in un atteggiamento di critica contro il suo sistema intellettualistico, sostenendo come vari possono essere i modi di imitare, e tutti validi purché artisticamente riusciti. Non solo, ma come giustamente osserva il Rostagni242, con lui ebbe fine quel primato ideale in cui Aristotele aveva tenuto la tragedia, e la teoria della tragedia cominciò ad esplicarsi «parallelamente a quella della commedia, ed in reciproca antitesi con essa», in quanto «il dramma tragico è fondato per massima parte sulla tradizione storica (leggenda compresa), il comico sull’immaginazione». E che queste sue teorie abbiano goduto a Bisanzio di larga fortuna, è provato dal fatto che egli fu anche l’ispiratore della Crestomazia di Proclo dalla quale – secondo quanto esaurientemente dimostrato dal Kaibel 243 – discenderebbero non solo gli Scoli a Dionisio Trace e, in parte, il Trattato Coisliniano, ma come si è già detto anche i testi tzetziani244, e precipuamente nella distinzione ἦθος-πάθος e in quel parallelismo tra commedia-tragedia l’una che ricompone e l’altra che dissolve la vita, e tra catarsi comica e catarsi tragica, di cui si è già detto245. Tutta una tradizione, dunque, che, non potendosi ricostruire per intero, si può parzialmente seguire nel suo cammino attraverso sparsi e insufficienti elementi. Da questi comunque si può constatare, con la Dosi246, che da Teofrasto la tradizione bizantina ha ricavato «soprattutto i concetti di critica letteraria, che permettevano di classificare in formule schematiche tutta la produzione letteraria, secondo i vari generi poetici», anche se, però, si limita generalmente a ripetere quei concetti accettandoli «come una semplificazione delle idee aristoteliche». L’affermazione si adatta al nostro trattato, nonostante che esso affronti un solo genere poetico. Non trova in esso riscontro alcuna teoria etica ma, al contrario, poiché definisce la tragedia esclusivamente in base alle vicende, “eroiche” da un lato e “infelici” dall’altro247, è perciò palese il suo incanalamento nel filone teofrasteo il quale, stando a ciò che rimane della poetica, oltre a fondare la distinzione tragedia-commedia sul fatto esteriore del pianto e del riso248, e cioè
DOSI, Sulla Poetica di Teofrasto, pp. 624 ss. ROSTAGNI, Aristotele e l’Aristotelismo, pp. 218-219. 243 KAIBEL, Die Prolegomena. 244 Una seconda categoria di fonti a lui facente capo, sarebbe invece costituita dai commenti latini di Diomede, Donato ed Evanzio, che però non passarono attraverso la Crestomazia e che risalgono a intermediari latini quali Svetonio e Varrone. 245 Supra, pp. 65 s. 246 DOSI, Sulla Poetica di Teofrasto, p. 659. 247 In ciò avvicinandosi, per conseguenza, ad Aristotele. Cf. infatti, oltre ai passi testé citati, pure altri relativi a questa “infelicità”, come 1452a 3 (tragedia come mimesi di fatti terribili e compassionevoli), 1452b 10 (terzo elemento del racconto è la sciagura), 1453a 15 (passaggio dalla felicità alla infelicità). 248 Cf. anche Tzetzes, Περὶ κωμῳδίας, in KAIBEL, De Comoedia Graeca, rispett. pp. 17, 21, 33. 241 242
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in relazione ai fatti che vi sono rappresentati, e non alla loro qualità morale249 – e questo, del resto, era ancora un’eredità di Aristotele, il quale ripetutamente ribadì che la poesia dovesse essere imitazione di fatti250, considerati pertanto materia costitutiva del dramma che, quindi, non doveva essere ἠθικόν quanto piuttosto πρακτικόν251 – rivaluta, si ribadisce, soprattutto il carattere eroico per i fatti tragici. Un filone, questo, che comunque troverà seguito parallelamente all’altro, di tipo etico-educativo, introdotto, piuttosto, successivamente dagli Stoici252. È, dunque, anche questa indifferenza etica che avvicina il trattato all’altra opera tzetziana Περὶ τραγικῆς ποιήσεως che, contrariamente a quelle testé citate e come più volte si è ripetuto, è un’opera di natura tecnica, e perciò affine anche in questo. Si è più volte insistito sulle somiglianze del trattato con l’opera tzetziana, unica forse, assieme al Trattato Coisliniano di due secoli anteriore, ad esserci arrivata dal mondo bizantino da poter accostare a quello di cui ci stiamo occupando. Nel Coisliniano, però, si nota un ritorno ad Aristotele abbastanza marcato, e soprattutto in punti, tra gli altri, che non trovano alcun parallelo nel nostro autore. La sua prima frase ἡ τραγῳδία ὁφαιρεῖ τὰ φοβερὰ παθήματα τῆς ψυχῆς δι’οἴκτου καὶ δέους altro non è se non una parafrasi, sia pur diluita («verwässernde»253), del concetto di catarsi, così come gli elementi che esso considera della commedia254 non sono che i medesimi sei che Aristotele riferisce alla tragedia e che nel Nostro, invece, diventano dieci. Più sbiadito, invece, è l’Aristotele che riaffiora ancora due secoli dopo nel Περὶ τραγικῆς ποιήσεως di Tzetzes, benché a prima vista non sembri. Lo mostrano le sue definizioni di prologo, episodio, esodo255, affini perciò anche a quelle appena citate del Coisliniano (fu questo il mediatore?); ma altri tre passi denotano come la poetica del grande Stagirita abbia ormai perso la sua identità, diventando dopo tanti secoli un’anonima immagine annacquata, attraverso le miriadi di poetiche che pullularono dal periodo ellenistico in poi. Sono tre punti che facilmente sfuggono ad un occhio poco attento, nei quali Tzetze riferisce definizioni da «qualcun altro»: 1) πάροδος = primo discorso del coro256; 2) στάσιμον = parte del coro senza i metri anapestico e trocaico257; 3) κομμός = θρῆνος comune e del coro e della scena258. Non vi è dubbio che fonte diretta sia proprio Poet. 1452b 23 e 1452b 24. 249
Così DOSI, Sulla Poetica di Teofrasto, rispett. p. 604 e passim. Sulla poetica teofrastea v. pure REGENBOGEN, Theophrastos, coll. 1523 ss. 250 Cf. Poet. 1448a 1; 1449b 9-10; 1449b 24, 37; 1450a 15 ss. e passim. 251 Cf. Poet. 1450a 23-26. 252 Cf. ZIEGLER, Tragoedia, coll. 2053, 2058, 2066. 253 ZIEGLER, Tragoedia, col. 2063. 254 P. 52 Kaibel. Cf. PLEBE, La teoria del comico, pp. 115-125 sui rapporti del trattato con Aristotele e coi trattatisti contemporanei. 255 Tz., Περὶ τραγ. ποιήσ. 21-25, p. 43 Kaibel. 256 Tz., Περὶ τραγ. ποιήσ. 38, p. 44 Kaibel. 257 Tz., Περὶ τραγ. ποιήσ. 51-52, p. 44 Kaibel. 258 Tz., Περὶ τραγ. ποιήσ. 68-69, p. 45 Kaibel.
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Procedendo in ordine, di conseguenza si può supporre che il nostro trattato sia intanto più tardo del Coisliniano. Interessante, ma poco proficua, è l’analisi dei rapporti col Περὶ τραγικῆς ποιήσεως di Tzetze, sopra messi in evidenza: tra i 3 gruppi di fonti tzetziane (escluso Aristotele) – i) fonti vaghe, ii) Euclide, iii) «altri» = Sch. Dion. Thr. – tali rapporti sono chiaramente riconducibili alle prime fonti (forse piuttosto una sola, che è stata quindi considerata fonte comune), quelle purtroppo non identificabili. Fondamentale è l’analogia con la singolare articolazione delle sezioni 1 e 4, basata sulla suddivisione in cinque della parte corale e sui due modi (scenico e corale) di quelle fonti, questi ultimi esplicitamente espressi dall’Anonimo in sez. 4, su cui abbiamo esaurientemente discusso. La fonte però che Tzetzes nomina più spesso è Euclide. Euclide, proviamo a fare il punto: non può essere il filosofo megarese del IV secolo a.C., ed è stato anche escluso si trattasse del matematico di poco posteriore, autore inoltre di scritti teorici sulla musica259, e sulla sua identità si sono avanzate le ipotesi più disparate nessuna delle quali mostra però di avere un solido fondamento, e che sono, peraltro, discusse da Pace nei suoi lavori sull’opera tzetziana260. Egli viene citato soltanto da Tzetze, anche se nell’altra sua opera Περὶ κωμῳδίας261 lo stesso autore lo cita come fonte della suddivisione delle parti della commedia, assieme ad un Cratete – probabilmente il grammatico della scuola pergamena262 – e ad un Dionisio, che potrebbe essere il Trace oppure Elio Dionisio detto il Musico263, ma il nome di Dionigi d’Alicarnasso citato con ἔτεροι nello scolio al v. 148 del trattato tzetziano renderebbe più plausibile l’attribuzione a quest’ultimo, Dionigi però il Giovane, autore di un Περὶ μουσικῆς, come viene argomentato da Pace264. Wilamowitz pensò che fosse un discepolo di Cratete l’Accademico, che avrebbe influito sui trattati bizantini attraverso la mediazione di Elio Dioniso265, ma tale teoria fu demolita soprattutto dal Kaibel266. Cramer, a sua volta, ipotizzò, come abbiamo già detto, che fosse lui l’autore di quel brano da lui pubblicato dal cod. Paris. gr. 1173, f. 106267, in quanto
259
Eucl., Sectio can., pp. 115-166 Jan. PACE, La struttura della tragedia, pp. 113-114; Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 231 ss.; Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 12 ss. 261 Nella redazione prosastica In Aristoph. Proem., II (P b), p. 21, 68 Kaibel (= Cramer, Anecdota Graeca I, p. 8,9). 262 Cf. PACE, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 14 per altre ipotesi. 263 È la tesi di ROSTAGNI, Aristotele e l’Aristotelismo, pp. 100 ss., il quale ritiene che la Μουσικὴ Ἱστορία di questo grammatico del II secolo d.C., che si ricollegherebbe alla stessa linea di PitagoraDamone-Aristosseno, abbia fornito non pochi elementi a Proclo, e di conseguenza, attraverso la Crestomazia di questi, anche a quei trattatelli bizantini che egli definisce “famigerati”. 264 PACE, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 14 ss. 265 WILAMOWITZ, Euripides Herakles, I, p. 350, n. 21. 266 KAIBEL, Die Prolegomena. 267 CRAMER, Anecdota Graeca I, pp. 19-20. Cf. a proposito PACE, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 12. 260
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questo contiene un elenco delle parti della tragedia che è perfettamente uguale all’elenco che Tzetzes riporta appunto da Euclide ai vv. 94 ss. Anche se così fosse, però, quest’attribuzione non sarebbe di nessun aiuto, né può servire a farne cavare una cronologia esatta (quel manoscritto di Parigi, ribadiamo, è del XV secolo)268. Vi è pure chi, come Koster, conclude che la triade sia una pura invenzione di Tzetze, che per dar sfoggio di erudizione avrebbe unito due grammatici noti, come Cratete e Dionigi d’Alicarnasso, con uno meno conosciuto, come questo Euclide, tratto da Sch. BT ad Il. I 5, I, p. 10 Erbse269: un’ipotesi che taglierebbe la testa al toro, ma sarebbe troppo facile eliminare in tal modo il problema. Se perciò si parte dal presupposto della reale esistenza di questo Euclide, nei confronti di Tzetze il problema sarebbe se gli fosse vicino o anteriore – anche di molto –. Dissentendo più volte da lui, il grammatico bizantino mostrerebbe di conoscerlo presumibilmente non direttamente – sic’? stando a Browning, perché secondo Kaibel, invece, e come sarei più propensa a credere, proprio perché è la fonte più frequentemente nominata dal dotto, avrebbe buona probabilità di essere proprio essa quella diretta, dove si trovavano citati gli altri due270 –. Nei confronti invece del Trattato Coisliniano, è facile desumere che l’anonimo autore di quest’ultimo, così rispettoso come si è detto di Aristotele271 e dei suoi seguaci della scuola peripatetica, ignorasse Euclide. Se ne arguisce che quest’ultimo fosse posteriore al X secolo. Non rimane molto spazio, due secoli scarsi, e anche meno, per arrivare a Tzetze. Ora, nei confronti infine del nostro Anonimo, verifichiamo se effettivamente neanche egli lo conosca. Abbiamo in realtà visto che la lista della sua ripartizione di nove elementi, riportata da Tzetze, non è quella che ha ispirato l’Anonimo. I pochi elementi che, forse, potrebbero indirettamente individuarsi in lui (che abbiamo inserito sopra nello schema sulle fonti), sembrano un riflesso da quello (riferimenti indiretti): li ripetiamo, in un ordine diverso, per discuterli: 1) 2) 3) 4)
la nozione del doppio coro. quella di ἄγγελος e ἐξάγγελος che appaiono nella sez. 3. il riferimento all’hyporchesis così nominata al posto dell’emmeleia. chiama ᾠδή la parodos.
268 Una rassegna bibliografica sull’argomento in PACE, Le parti della tragedia in Giovanni Tzetze, pp. 231-234, ed un’esposizione esauriente di tutte le proposte anche in EADem, Giovanni Tzetze la poesia tragica, pp. 14-16, dopo un cenno in EADEM, La struttura della tragedia, pp. 113114. 269 Sarebbe questa la tesi di Müller, cit. in PACE, Giovanni Tzetze la poesia tragica, p. 14 cit. e n. 27. 270 KAIBEL, Die Prolegomena, p. 5, ma cf. anche PACE, Giovanni Tzetze la poesia tragica, per altri riferimenti. 271 Si rivedano le definizioni di prologo, episodio ed esodo (p. 53 Kaibel) con Poet. 1452b 19, 20, 21.
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Per il primo, Euclide parla di epiparodos (peraltro ripreso da Tzetze nella sua personale classificazione) e non propriamente di dichoria, e comunque abbiamo parlato sui dubbi che esso suscita (cf. supra, 16); per il secondo, non si tratta di ruoli presenti esclusivamente in Euclide e, come si è visto (cf. supra, 15), l’Anonimo combina insieme diverse fonti aggiungendo anche lo σκοπός che Euclide non nomina, ma si trova nella classificazione che Tzetze definisce vagamente «di altri» (cf. Sch. Dion. Thr.), e lo rileggiamo, infine, in quella parte del poema in cui l’erudito bizantino, dopo aver confutato le sue fonti, propone una classificazione sua propria (vv. 155 ss. cit.). Non sono, dunque, due elementi incisivi. Significativo, invece, sia pure anch’esso in modo indiretto, può sembrare il terzo riferimento, quello all’hyporchesis, in quanto ci ha aiutato a capire tutto quell’equivoco della danza/canto. Ma è sufficiente per pensare che l’interferenza euclidea che ha generato l’equivoco in Tzetze abbia direttamente influenzato anche il ns. autore nella confusione canto/danza? Forse sì, se vi si aggiunge l’ultimo elemento da prendere ancora in considerazione, che si mostra anch’esso in sintonia con l’Anonimo, e cioè la parodos classificata tra le parti cantate. Tuttavia, come si è già ricordato, questa versione era già in Polluce, IV, 127 cit., ed è seguita anche da Sch. Haeph., p. 173, 19 cit., che dà della parodos la definizione: εἴσοδος τοῦ χοροῦ ἐπὶ σκηνήν. E allo stesso modo si può pensare ad una mediazione anche per l’hyporchesis: la mediazione di Proclo, come si è già evidenziato272. In conclusione, è in effetti poco probabile ritenere euclidee sia l’inserzione (per slittamento) dell’ἐμμέλεια tra le parti corali, che troviamo nelle sez. 1 e 4, ma anche come danza nella sez. 11 del ns. trattato, e sia le cinque parti corali che Tzetze nomina in modo analogo all’Anonimo. Per queste cinque parti, Tzetze aggiunge il parere di Euclide solo riguardo ad alcuni elementi (parodo, stasimo, emmeleia) che quello appunto non nomina, suscitando il commento del dotto grammatico. Dunque, come ipotizzato da Browning, Euclide – chiunque egli fosse o non fosse – che ha un ruolo così prevaricante in Tzetze sia pure per essere ricusato, verosimilmente non è fonte in comune col Nostro273. Tutto ciò farebbe e ha fatto argomentare che il Nostro fosse anteriore a Euclide/Tzetze, e che abbia avuto a disposizione fonti poi usate anche da Tzetze: la distanza cronologica sarebbe calzante a sostegno dell’attribuzione pselliana. Ma, come si è discusso, abbiamo categoricamente escluso l’attribuzione pselliana. Non rimangono molte alternative: l’Anonimo o conosce direttamente le o la fonte tzetziana e non l’opera di Tzetze, dunque è a lui anteriore, oppure al 272 273
Supra, pp. 85 s. e p. 132. BROWNING, p. 72.
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PARTE SECONDA
contrario, conosce Tzetze e si attiene solo a quel che quello approva, escludendo pertanto la fonte Euclide come inattendibile perché da quello criticata. Dare una risposta sarebbe determinate per arguirne una cronologia, anche se è impossibile sulla base dei dati di cui disponiamo. Ma infine, potrebbe anche essere all’inverso: che proprio il nostro trattato sia la fonte anonima di Tzetze, anteriore ad Euclide. Si può anzi aggiungere che a un autore ignoto (e mediocre?), che pur mostrando notevoli conoscenze non si dilunga in spiegazioni e pecca a volte di omissioni, calzerebbe a pennello l’espressione di “gracchiare” confusamente che con disprezzo Tzetze indirizza, relegandole in un blocco, a tutte quelle fonti che lascia nell’indeterminatezza, e quindi nell’ombra, perché non offuschino l’autorità del grande erudito. In verità, una volta tolta la paternità a Psello, non convince neanche questa discendenza genealogica, con l’idea di un oscuro compilatore della stessa epoca circa del noto poligrafo; sarebbe più naturale credere che sia il ns. autore ad attingere, lui, a Tzetze esperto conoscitore di fonti antiche: un’autorità, così come un’autorità era Aristotele. Lontano da uno Psello, l’autore avrebbe allora scritto non nell’XI secolo, bensì più tardi. Occorre verificare se e quando vi siano state le condizioni storiche e culturali per supportare tale tesi. 5. CONCLUSIONI Ricapitoliamo le caratteristiche dell’Anonimo: conosce in qualche modo, diretto o (più probabile) mediato, la Poetica aristotelica e la sua tradizione posteriore (Teofrasto e la Scuola peripatetica), e non è del tutto ignorante sui classici – anzi, sarei quasi propensa a pensare che possa possedere testi di tragedie dalle quali direttamente attinge determinate dichiarazioni (un esempio: il doppio coro; difficile, in questi casi, ipotizzare solo estratti come fonte) –, è probabile che abbia letto pure e, direi, in modo attento il trattato sulla tragedia di Tzetze, oltre a scolii vari tardivi e alla teorizzazione procliana, e possiede nozioni quanto basti e talora anche di più di tecnica teatrale, metrica e musicale. In questo campo egli batte chiunque: non si può non riconoscere come la trattazione della quinta sezione di carattere musicale, inserita nell’economia generale di un trattato sul genere tragico, rappresenti una novità assoluta rispetto non solamente alla poetica di Tzetze, ma rispetto a tutte le altre di cui abbiamo cognizione. In un certo qual senso, questa parte ci fornisce la misura della dottrina – sia pure di tipo scolastico-erudito e con i limiti che questo comporta – dell’Anonimo, il quale mostra di conoscere svariate fonti o brani riguardanti problematiche musicali, come di Platone, Pseudo-Aristotele e Pseudo-Plutarco. Vero è che quell’approssimazione che soventemente si scopre nella sua esposizione
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dia l’impressione di una dottrina raccogliticcia, come di seconda mano. In questo campo almeno, è più verosimile ammettere che la sua sia una conoscenza di tipo mediato, ovvero una conoscenza basata su estratti o parafrasi, piuttosto che sulla diretta lettura degli originali. Ma sarei propensa a minimizzare quelle che sono sembrate inesattezze dimostrate senza possibilità di sanarle: va sopra ogni cosa considerato il tardivo contesto storico-letterario, e allora l’Anonimo va giustificato, anche perché in fondo non improvvisa, anzi. Ha i suoi canali di informazione, nonostante che essi non siano quelli che ci si attenderebbe. Vivendo in una Bisanzio ormai lontana dal mondo classico e in special modo dallo spirito del genere tragico, certo egli non poteva avere a disposizione modelli o riferimenti concreti né possedere, dunque, tutti gli strumenti necessari per l’approfondimento di uno studio critico sulla tragedia classica. Dunque, dà l’impressione che cerchi di barcamenarsi in mezzo a fonti disparate, da cui attinge a volo d’uccello per tosto allontanarsi. Ci troviamo, insomma, di fronte ad un compilatore, il quale come meglio può cerchi di cogliere ciò che gli serve per realizzare, meglio compilare, quest’opera. Si è detto come questa pratica della compilazione fosse comune a Bisanzio; ciononostante, quesiti d’obbligo, a questo punto, sono: compilarla – se non per se stesso, per mero esercizio retorico – per chi e a quale scopo? E, eventualmente, per iniziativa di chi? Il filo cui ci aggrappiamo è forse alquanto sottile, e allo stato delle nostre conoscenze è possibile avanzare solo delle ipotesi, che possono più o meno avere probabilità di cogliere nel segno. Ipotesi 1. Alcune considerazioni, innanzitutto, porterebbero in direzione del secolo di Tzetze, ed è questo l’orientamento che sulle prime avevo abbracciato. A volte sembra di cogliere un richiamo a Eustazio (†1194) – ad es., nel μεσαύλιον, sez. 9 (Eust., Ad Il. 862, 19 [III, p. 251, 9 Van der Valk]), ma si vedano tutti gli altri riferimenti offerti da Perusino274 – e, tra le conoscenze metriche dell’autore, non va escluso il Manuale di Efestione – cf. sezioni 7 e 10 –, del quale proprio nel XII secolo Trichas, che si suppone di poco anteriore a Tzetze, elaborò un arrangiamento, proponendo una nuova classificazione dei metri antichi, la quale restò poi fondamentale per i Bizantini. E sempre al secolo di Tzetze risalgono commentari importanti ad Aristotele, che com’è noto videro protagonisti esponenti del circolo di Anna Comnena, come Eustrazio di Nicea e Michele di Efeso. Sia pure “schematizzato”, come si è detto, Aristotele è noto all’Anonimo, per cui non vi è dubbio che egli in qualche modo dovesse averne accesso.
274
PERUSINO, p. 82 e p. 91.
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PARTE SECONDA
Se pertanto si considera il secolo di Tzetze come terminus antequem, questo trattato potrebbe essere un prodotto ad uso di quelle élites raffinate di uomini eruditi che, sotto i Comneni, godevano ancora della lettura e discussione dei classici, e in special modo dei tragici. Oltre al circolo di Anna Comnena, abbiamo riferimenti, sia pure meno precisi, relativi a quello di Nicola di Metone275. Benché cominciasse a svilupparsi quella letteratura popolare che trovò poi pieno rigoglio nel XIV secolo, anche se nessuno più pensava a rappresentare un dramma antico la nuova curiosità per la vita umile non spense affatto quell’interesse, e quei testi antichi erano oggetto ideale di letture, studi, glosse e commentari di filologi e grammatici276. In tal modo, però, il nostro testo, mero “gioco” o esercizio letterario, avrebbe avuto una funzione piuttosto sterile. Troverei più verosimile che esso possa essere stato compilato per una funzione più pratica: un uso didattico, manualistico. Non può escludersi che fosse opera paziente di qualche grammatico dotato di una certa preparazione erudita, anche se, come risulta, non supera un livello alquanto superficiale. Ma è proprio questo che può imputarsi ad un’impostazione di “appunti per la scuola”, volutamente non pienamente elaborati. Dunque: un’opera destinata alla scuola non solo, o meglio non tanto per alimentare, attraverso la conoscenza di quei canoni, l’interesse o il revival per la classicità o il sapere antico di cui Bisanzio era diventata la più grande depositaria e che doveva rimanere un paradigma senza il quale essa si sarebbe snaturata, ma nel caso specifico per fornire una preparazione tecnica preliminare alla lettura dei tragici (sia pure strumentalizzata come si è detto, tale lettura, all’apprendimento delle conoscenze grammaticali di base277). Non v’è necessità di aggiungere che questa supposizione si spiegherebbe ottimamente con la densa attività erudita, di tipo grammaticale-didattico, che caratterizza il XII secolo, un’epoca la cui cospicua produzione scoliografica, traendo le sue radici da quella alessandrina e seguendo
275
PODSKALSKY, Nikolaos von Methone, p. 509. Cf. MULLETT, Aristocracy and Patronage in the Literacy Circles. Si rinvia quindi a HUNGER, Hochsprachliche profane Literatur, II, pp. 55 ss., sull’attività filologica e di commento agli autori antichi a Bisanzio (58 ss. sull’età comnena). La vitalità dell’attività intellettuale nel XII secolo viene messa a fuoco da KAZHDAN – WHARTON EPSTEIN, Change in Byzantine Culture, spec. pp. 120 ss.; p. 130 s.: «… in the twelfth century did the literati begin to emerge as a separate professional stratum». Essi sottolineano anche la differenza tra l’accostarsi ai classici nel IX e X e poi nel XII: curiosità e distacco prima, assimilazione e memorizzazione dopo, come dimostra proprio la produzione di Tzetzes. Il riemergere della tradizione classica riguarda anche le tragedie, secondo gli autori attraverso estratti e non sugli originali (p. 135), ciononostante – dicono – «fu scritto un trattato sulla tragedia nell’XI secolo, ed Euripide fu attentamente letto da Psello». Si nota dunque la reiterazione dell’attribuzione al grande filosofo dell’XI secolo. 277 Cf. supra, p. 123 e n. 155, ma anche p. 135. 276
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quella, notevole, di Fozio e Areta, precedette l’ultima, più tarda, della rinascita paleologa278. E la stessa supposizione – ripeto, già da me sostenuta279 – trova parzialmente conforto, nella linea generale, negli esiti della dettagliata analisi di Pontikos dell’intero blocco dei ff. 404-446 cui si è più volte fatto cenno (dalla cui edizione è escluso il foglio del nostro trattato, ed anche quello precedente, f. 414, evidentemente perché già editi280 ), e della riflessione complessiva sui mutamenti che intercorsero a Bisanzio tra XI e XII secolo nel modello d’insegnamento della έγκύκλιος παιδεία. Pontikos, come su accennato, è il solo – trovandomi dunque d’accordo – ad escludere decisamente la paternità di Psello per tutti i testi del blocco e, quindi, anche il nostro, soprattutto in ragione del platonismo e neoplatonismo di Psello, un argomento che abbiamo già addotto ma da lui sviluppato con un esame del concetto di filosofia del celebre poligrafo. Negli items filosofici da lui studiati ed editi sono comunque presenti anche dottrine neoplatoniche e procleane, tutte analizzate, assieme alle ascendenze aristoteliche, e certamente esse sono da ricondurre alla rinascita della filosofia a Bisanzio, nella quale figura dominante era stato proprio Psello. Egli mette però in evidenza non poche e notevoli differenze, specialmente in campo dottrinario, che inducono a separare Psello dall’autore di questi estratti, e la sua tesi è che, anche se basata su testi dell’XI secolo di tradizione pure pselliana, questa collezione sarebbe venuta man mano arricchita nel tempo nell’ambito verosimilmente della tradizione scolastica, col concorso dei nuovi studi aristotelici avallati dalla stesura dei vari commentari. L’autore, posteriore dunque a Psello, sarebbe qualcuno che sfrutta il materiale aristotelico che aveva a disposizione, e sarebbe il medesimo – questa è la tesi innovativa – per tutto il blocco dei trattati281. Nelle poche righe dedicate al nostro trattato sulla tragedia282, la sua opinione che, per come il materiale è organizzato – e ciò si riscontra d’altronde in tutta la sezione – debba trattarsi delle annotazioni o della compilazione di un maestro, tra l’altro indirizzata non a principianti, non è molto diversa da quella che anni fa avevo formulato e che in questa sede sto cercando di esporre. Certo, nell’economia generale di tutto il blocco, sinora trascurata, in questa ampliata prospettiva le conclusioni sul suo significato 278 Su questi fermenti, di cui il XII secolo è ricco, cf. inoltre GARZYA, Polemiche letterarie e retoriche. DAIN, À propos de l’étude des poètes anciens, p. 196, sottolinea come furono proprio i lavori di Tzetze ed Eustazio a contribuire a dare un nuovo slancio allo studio dei poeti antichi, sì che essi fossero introdotti nei programmi scolastici, preparando la strada alle nuove successive edizioni. Dal punto di vista paleografico, cf. le recenti riflessioni, a premessa di una ricerca, di BIANCONI, Età comnena e cultura scritta. 279 AGATI, Un trattato anonimo, pp. 140-141. 280 Il secondo infatti comprenderebbe l’opera pselliana sui demoni pubblicata da WEINSTOCK, Catalogus, pp. 115-121. 281 PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, p. XL. 282 PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, pp. LXXXVII - LXXXVII.
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sembrano acquisire una migliore attendibilità oltre che aprire nuove prospettive, con l’inquadramento in un contesto maggiormente definito, che corrisponde a quello, ancora per molti versi in discussione, dell’educazione secondaria – cui, del resto, avevamo in qualche modo o in parte collegato, sia pure in un ambito privato, la composizione del codice Barocciano – e dei suoi metodi a Bisanzio, con le selezioni che venivano operate nel redigere compendi e scoli in aderenza al modello della tarda Antichità, ma con l’arricchimento di sempre nuovi aspetti e testi del sapere. L’analisi, infatti, che lo studioso offre dell’insieme di questi testi, e il confronto con altri text-books composti su modelli di opere di letteratura dossografica del periodo ellenistico e tardo romano, evidenzierebbe nello specifico il ventaglio standardizzato di discipline o soggetti che erano oggetti di studio del secondo ciclo della ἐγκύκλιος παιδεία, ma con quella ricerca di nuovi standard di compilazione che si sarebbe verificata successivamente al revival del sec. XI, del quale vengono identificati i vari riferimenti. Questa lettura darebbe, forse, una giustificazione all’inserzione, tra testi di natura scientifica, di un genere completamente diverso, nonostante che la musica stesse nel quadrivium di apprendimento – ma il nostro non è un trattato di musica –, se dunque lo si vuole vedere come un’inclusione all’epoca innovativa. Ipotesi 2: la conclusione. Ma una giustificazione alla singolare inserzione del nostro trattato in mezzo a un blocco filosofico e, anche, una giustificazione a questa impostazione in qualche modo innovativa degli studi per il corso superiore, potrebbe forse venire da una diversa supposizione, che in questa sede vorrei azzardare e, infine, privilegiare modificando in parte le mie precedenti posizioni, sia pure con le dovute cautele e senza mettere in discussione la comunque condivisibile e documentata tesi, cronologica e letteraria, di Pontikos. Senza allontanarci dall’idea di un ambito legato pur sempre a una forma d’insegnamento, di cui si è senz’altro convinti, la nuova suggestione, scaturita approfondendo questa odierna “rivisitazione” nel tentativo di darne una lettura più completa, ci porterebbe cronologicamente più avanti. Tornando all’ipotesi (parzialmente) nicena per la genesi della miscellanea barocciana – e con questo sottolineo l’importanza, per la filologia, di guardare anche a ciò che è oltre al testo e alla sua storia “semplice”, in special modo al dove e come quel testo viene formato e veicolato –, questo trattato dedicato al teatro antico potrebbe essere collegato al suo milieu di trascrizione, un frutto maturato proprio a partire dal contesto del nuovo allestimento degli studi nell’Impero in esilio e senza escludere la sua prima, immediata, propaggine costantinopolitana. Con la grave crisi d’identità seguita al decentramento provocato dalla conquista latina di Costantinopoli, assieme a tutte le conseguenze di tipo politico, economico ma soprattutto culturale, con la perdita ingente e irreparabile della
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gran massa di materiale accumulato negli anni283, e nel generale impoverimento delle varie realtà che vennero a crearsi in sostituzione dell’unico polo centrale di riferimento, è noto come Nicea abbia saputo in qualche modo raccogliere l’eredità della Metropoli, grazie alla sensibilità e alle doti intellettuali dei sovrani Lascaridi, oltre che agli sforzi profusi dagli intellettuali. Come ha scritto Angold, indagando sull’«ideologia dell’esilio», era più che mai necessario, in quella contingenza, riaffermare l’identità bizantina, con la ferma volontà di conservare le tradizioni anteriori alla caduta di Costantinopoli. Così, la coscienza del passato ellenico divenne parte integrale dell’identità dei Bizantini in esilio: secondo Hélène Ahrweiler, proprio in questo periodo, che rappresenta lo sforzo di una comunità tesa ad adattarsi a forme di vita per le quali non era preparata, «e che erano destinate a divenire la fonte del suo essere», l’ellenismo ha preso per la prima volta coscienza della sua specificità, contribuendo alla nascita di una solidarietà nazionale284. È il momento in cui si consolida il senso di nazionalismo greco: un empito particolare – come è stato scritto – di cui si sentirono investiti gli intellettuali, che nei testi classici ritrovavano «il referente obbligato delle radici di quel passato sul quale l’Impero bizantino rifondava la sua continuità»285. Un concetto, questo di “nazionalismo”, che, in un’analisi molto sottile, Magdalino sottolinea essere relativo a un fenomeno moderno, ma che nella fattispecie è qualcosa di molto complesso, che non può trovare espressione solo in termini etnici, e in cui giocano un ruolo importante gli altri due concetti bizantini di romanità (ῥωμιοσύνη) e di ortodossia; dove, pertanto, l’ellenismo non è che un concetto retorico di pochi286. Pochi, sì (ma alla fine così tanto pochi?), ma quanti bastano a spiegare la densa – direi febbrile – attività erudita, e quella circolazione libraria che i manoscritti e le miscellanee arrivati sino a noi stanno a testimoniare, anche attraverso non pochissime note di lettura287; un’attività e una coscienza che, decollate proprio dopo l’instaurazione dell’Impero latino a Costantinopoli, saranno la linfa che alimenterà quella nuova (ed ultima) fioritura, ultima fiammata dell’età paleologa, che sfocerà dirompente dopo la riconquista del 1261288.
283 Rinvio alla narrazione di WILSON, Scholars of Byzantium, pp. 218-219, mentre, sui risvolti dell’occupazione latina sull’insegnamento, cf. CACOUROS, La philosophie et les sciences du Trivium et du Quadrivium à Byzance de 1204 à 1453, in part. pp. 11-12 e 26-29. Si veda quindi ANGOLD, The Fourth Crusade. 284 ANGOLD, Byzantium in exile; AHRWEILER, L’Expérience nicéenne, spec. pp. 29, 32 e 39. 285 CAVALLO, “Foglie che fremono sui rami”, p. 610. 286 MAGDALINO, Hellenism and Nationalism in Byzantium, pp. 1-29. Cf. quindi IRMSCHER, Nikäa als Mittelpunkt des griechischen Patriotismus. 287 Sulla presenza, a Nicea, di codici famosi come quello S di Demostene, ci si limita a rinviare a CRISCI – DEGNI (edd.), La scrittura greca, p. 182. 288 Cf. bibliografia citata supra, n. 68. Rinvio alla disamina di BIANCONI, Erudizione e didattica, spec. pp. 509 ss. sul ruolo fondamentale della fitta rete di intellettuali tra Nicea e Costantinopoli.
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PARTE SECONDA
Teodoro I, il primo sovrano Lascaride cui toccò il compito più arduo, ricreò Bisanzio in esilio, riuscendo a organizzare scuole per l’alta educazione (oltre che semplificando l’apparato amministrativo e burocratico)289. Come scrive Ruth Macrides, quest’Impero in esilio «began as a deliberate wish to renew the tradition wich the Latins had interrupted»290, e per questo Teodoro è protagonista di uno dei tanti revivals simbolici dell’Impero bizantino, così come Michele VIII lo sarà, poi, per il revival della restaurazione. Il suo successore Giovanni III Vatatze istituì anche una scuola superiore di filosofia, come ci informa nella sua autobiografia Niceforo Blemmide che ne fu a capo, che era fiorente nel 1259 quando Gregorio di Cipro andò a Nicea per completare la sua istruzione291. Monasteri come quelli di Sosandra e del San Salvatore di Kophos ebbero biblioteche che si andarono arricchendo di volumi che si raccoglievano da ogni parte possibile dell’Impero292, o si copiavano ad hoc. Ciò che, infatti, non si riusciva più a recuperare, e laddove non vi era più accesso ai testi antichi, andava nuovamente composto. Si spiega così l’introduzione nel corso di studi di nuovi autori, prima esclusi, in base a ciò che si trovava disponibile293, e mi pare significativo che tra questi figurasse Proclo, di cui si è ribadito il ruolo nel riflesso che si può cogliere nel ns. Anonimo, ricordiamolo, nel concetto di danza/canto sovrapponibile a quello di hyporchema descritto dal filosofo, oltre che nei riferimenti alle armonie frigia e lidia294. A questi fermenti, che si potrebbero definire sovrumani date le premesse condizioni precarie, si lega l’attività di uomini noti, intellettuali e storici o cronografi come Blemmide stesso (1197-1272), Giorgio Acropolite (1217-1282), Teodoro Scutariote (ca. 1230-1282?), Manuele Massimo Olobolo (II metà del sec. XIII, † ca. 1296-1310), Giorgio Pachimere (1242-1310) per non andare troppo oltre, ma sicuramente di uomini anche meno noti, grammatikoi rimasti anonimi. Il clima culturale estremo che, dunque, venne a determinarsi a partire da quegli anni in cui infine si arrivò a parlare di Nicea come di novella Atene, sino
289 ANGOLD, Byzantium in exile, pp. 547 ss. Il tentativo di Michele VIII di ripristinare l’autorità imperiale determinò un passo indietro. 290 MACRIDES, From the Komnenoi to the Palaiologoi, p. 280. 291 Cf. CONSTANTINIDIS, Higher Education in Byzantium, p. 25. 292 È noto come sia stato Blemmide incaricato di questa particolare incombenza, come egli stesso riferisce nel suo Curriculum: cf. supra, n. 89, e quindi cf. CONSTANTINIDIS, Higher Education im Byzantium, p. 13. 293 Cf. CACOUROS, L’enseignement des disciplines littéraires, p. 72. 294 Cf. supra, pp. 85 s., p. 132 e pp. 150 s. per il primo, p. 93 per le seconde. Questa riesumazione di Proclo in particolare è stata messa in rilievo da CACOUROS, La philosophie et les sciences du Trivium et du Quadrivium à Byzance de 1204 à 1453, pp. 18-19, ma cf. soprattutto IDEM, Deux épisodes inconnus dans la réception de Proclus, in part. pp. 595-596 relative al periodo niceno e paleologo. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che una prima riscoperta di quest’autore si doveva proprio a Psello, dopo un oblio di circa quattro secoli: cf. PODSKALSKY, Nikolaos von Methone, pp. 516 ss.
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alla avvenuta Restaurazione, non solo in generale non sarebbe incompatibile295, ma nello specifico darebbe un contesto di particolare e motivata spiegazione alla genesi del nostro testo: di un trattato didattico e tecnico, pratico e sintetico, sulla tragedia antica di cui si aveva necessità, un trattato che molto discretamente rivela, alle spalle, tutta la tradizione aristotelica e post-aristotelica, e in un periodo tra l’altro in cui, diversamente dalla tradizione platonica (e neo-platonica), Aristotele venne a trovarsi alla base di una riflessione filosofica tutta nuova e originale che com’è noto, a contatto con la Scolastica occidentale, i Bizantini cominciarono a elaborare, intrecciando il metodo aristotelico con la tradizione occidentale. Proprio a partire dalla fine dell’Impero dell’Esilio, la carenza di testi fu in modo particolare la spinta propulsiva per la compilazione di epitomi delle opere aristoteliche, a cominciare dalla Logica e tutto l’Organon, con lo scopo primario di avere strumenti d’insegnamento ma anche, come ha evidenziato Michel Cacouros, di arrivare alla costituzione di corpora fissi296. Non v’è bisogno di ricordare, a tal proposito, il numero cospicuo di manoscritti aristotelici a noi pervenuti, forniti di scoli e glosse, che, sia pure sforniti di data esplicita, sono riconducibili al XIII secolo, come i Vatt. gr. 242, 244, 248, 261, 499 o 506 ecc. Il Vat. gr. 269 tramanda i commentari aristotelici di Michele d’Efeso ed Eustrazio di Nicea, ed è significativa la nota che si legge nell’Ambros. M 46 sup. che dice che fu letto dallo stesso Teodoro II Lascaris, l’imperatore filosofo297. Secondo Oehler, anzi, mentre il XII secolo, che pure è il periodo più splendido nella storia di Bisanzio (e in cui si ricordano, oltre ai commentari citati di Michele ed Eustrazio, anche quelli di Teodoro Prodromo), è alquanto insignificante dal punto di vista filosofico, diversamente vanno le cose dal XIII in poi, in cui i filosofi bizantini cominciarono a influenzare anche la cultura italiana (così Blemmide, che egli definisce un’importante figura nella storia dell’aristotelismo in questo secolo, o, poco più tardi, Pachimere, autore di una Epitome di tutta la filosofia aristotelica, secondo Cacouros realizzata in rapporto al Σύνταγμα di cui sopra, e che fu tradotta in latino)298. Eppure, come ha fatto notare 295 Oltre a PRATO, La produzione libraria, cf. supra, n. 76, sulla fiorente vita intellettuale del periodo della conquista latina, con bibliografia di carattere storico. 296 Cui, nel secolo successivo, seguì anche un’attività di composizione di sillogi di termini, affiancata all’attività esegetica: CACOUROS, Le commentaire d’Aristote à Byzance, spec. pp. 160 ss. 297 Cf. PRATO, Un autografo, ma anche IDEM, La produzione libraria, p. 69. L’importanza e l’incremento della trasmissione dell’opera del grande filosofo in questo secolo si può cogliere anche dalle numerose testimonianze librarie di Terra d’Otranto, ponte tra Oriente e Occidente: cf. da ultimo ARNESANO, Aristotele in Terra d’Otranto. Rimane, comunque, il dato negativo, prima già esposto, rilevato dal censimento di WARTELLE, Inventaire des manuscrits grecs d’Aristote, dell’assenza della Poetica sino a età umanistica e rinascimentale, che può trovare svariate spiegazioni, come quella dovuta al fatto che l’operetta fosse “aggregata” a un corpus. 298 CACOUROS, Vie et survie de Byzance, p. 45. Rinvio anche a IDEM, La philosophie et les sciences du Trivium et du Quadrivium à Byzance de 1204 à 1453, sulla tradizione e, poi, le trasformazioni che permeano i corsi di studi filosofici alla Restaurazione del 1261, con l’esigenza di
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Browning, è proprio sulla cultura del XII secolo che Nicea fonda il suo prestigio, «una sorta di surrogato per il restauro del potere politico»299, e ciò ancor meglio spiegherebbe la natura e le ascendenze dei trattati scientifici di tutto il blocco, nel caso che volessimo mantenere in piedi la probabilità della sua unità, secondo la tesi di Pontikos. Questo va però riverificato. Si procederà perciò, da questo momento, a passare al vaglio tutte le eventuali alternative possibili assumendo, all’inizio, il solo nostro trattato come punto di partenza. Nello scenario appena aperto, la compilazione del Περὶ τραγῳδίας diverrebbe una rara e importante testimonianza del faticoso impegno profuso dopo la catastrofe della conquista latina all’interno di quelle cerchie elitarie di letterati e – in primo luogo – (anche) insegnanti, che lavoravano non per la posterità, come osserva Constantinidis300, ma intanto – garante lo Stato – per gli apprendisti, perché avessero di nuovo i testi necessari (i text-books, i «libri-biblioteca», per dirla con Luciano Canfora301) di apprendimento. La Poesia, e in particolare quella del dramma antico, il cui studio doveva già cominciare – ribadiamo – alla fine del primo ciclo di istruzione, era una fetta importante dell’eredità classica su cui, ora più che mai, si esplicò l’attività filologica ed ecdotica, e non è senza significato che quasi la maggior parte dei codici che tramandano florilegi dei tre poeti tragici risalgono al XIII secolo, sino agli inizi del 1300302, e appena successivamente si comincerà ad attivare, su di essi, quel particolare lavorio esegetico che caratterizzerà l’età paleologa, ma le cui proiezioni andranno ben oltre a quel periodo e a quel contesto orientale303. Non sarebbe, a questo punto, essenziale cercare un nome concreto per la paternità di questo testo: un testo siffatto, e inserito in un contesto di questo genere, potrebbe essere scaturito da confronti e letture collettive all’interno di un “sodalizio” di erudizione e insegnamento. È importante, infatti, ricordare, che non solo il nostro trattato ma tutto il manoscritto Barocciano è esente da esegesi di qualsivoglia tipologia (scoli, glosse, commenti), fatto che automaticamente esclude una finalità “ufficiale” di libro per l’apprendimento istituzionale. E d’altra parte, lo escluderebbe anche la generale natura della gran parte dei testi stessi, quelli ritrovare e reintrodurre autori perduti, di cui si è detto sopra. Cf. poi OEHLER, Aristotle in Byzantium, p. 139, dove l’elenco prosegue con Teodoro Metochite, ma siamo ormai nel XIV secolo, per il quale secolo egli mette anche in rilievo come per aristotelico fu preso Niceforo Cumno a causa dei suoi attacchi alle dottrine platoniche di Massimo Planude (p. 145). 299 BROWNING, The language of Byzantine literature, p. 124. 300 CONSTANTINIDIS, High Education in Byzantium, p. 148. 301 CANFORA, Il copista come autore, pp. 68 ss. 302 Mi limito a rinviare a PÉREZ MARTÍN, El Patriarca Gregorio de Chypre, in particolare pp. 87, 115, 131. 303 Rinvio nuovamente a DAIN, A propos de l’étude des poètes anciens, cit., mentre per un panorama relativo alla trasmissione dei testi drammatici tra XIII e XIV secolo e una sintesi della ricca bibliografia sulle recensioni notamente più significative d’età paleologa, quelle moscopulee a Sofocle e le edizioni tricliniane, basti vedere BIANCONI, Erudizione e didattica, pp. 489-498.
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delle altre sezioni, che vi sembrano, piuttosto, copiati a scopo conservativo, sillogistico, o erudito, ad eccezione forse di quelli appartenenti al genere oratorio e del blocco filosofico cui il nostro testo appartiene, che potrebbe essere stato “salvato” con qualche secondo fine propedeutico. In ogni caso, però, non lontano potrebbe un nome essere da quei pochi letterati, meglio insegnanti, noti e come abbiamo detto meno noti, che in quel momento salvarono Bisanzio e la sua identità nel senso che abbiamo spiegato; uomini che padroneggiavano un po’ tutti i campi dello scibile, alcuni anche dogmatici e teologi, come il più volte citato Blemmide, maestro di Acropolite e dell’erede al trono Teodoro II, tra l’altro autore anch’egli di un’Epitome logica e di una di fisica304, o come, ancora prima di lui, lo storico della “catastrofe” Niceta Coniate305. Si può fare un tentativo: se, come chiave per individuare un eventuale ipotetico autore, volessimo prendere in considerazione l’insegnamento innanzitutto (come del resto era già per Psello), e in secondo luogo l’essere presente non esclusivamente a Nicea o viceversa solo a Costantinopoli, ma meglio a cavallo tra tutti e due gli Imperi, dell’Esilio e della Restaurazione, a pochi nomi “noti” si potrebbe pensare con delle ragioni sufficienti, anche se in modo diverso. Parliamo di persone fornite di una notevole erudizione, ma soprattutto di esperti conoscitori di Aristotele, sia pure con la consapevolezza che una profonda conoscenza filosofica dello Stagirita di per sé non implica automaticamente quella delle sue teorizzazioni estetiche. Giorgio Acropolite, il grande logoteta, alto funzionario e ambasciatore di corte amato in modo particolare dai primi due sovrani Lascaridi, fu sì uomo diplomatico e politico, ma anche scrittore e storico acuto, l’unico uomo colto rimasto in quel periodo secondo Gregorio di Cipro306, e insieme insegnante a Nicea e dopo, dal 1262, docente ufficiale di filosofia a Costantinopoli307. Fu anzi protagonista dell’insegnamento ripromosso nella Capitale riconquistata, e al culmine del corso di studi, che procedeva per gradi, egli insegnava Aristotele, che amava308. Uno 304
PG 142, rispettivamente coll. 675-1004 e 1005-1320. Chon., Hist., ed. van Dieten. Cf. quindi A. SIMPSON, Niketas Choniates. A Historiographical Study. La sua opera storica è infine a disposizione nella recente edizione di PONTANI, Grandezza e catastrofe di Bisanzio. 306 PG 142, col. 381; cf. LAMEERE, La tradition manuscrite de la correspondance de Grégoire de Chypre, p. 185, 7-8. 307 Non è certo se continuò sistematicamente sino al 1274, quando venne inviato come diplomatico a Lione e il suo posto venne definitivamente dato a Olobolo: cf. CONSTANTINIDIS, High Education in Byzantium, p. 32. 308 Sul suo amore per Aristotele: Giorg. Chypr., Aut., p. 185, 13 e 27-30 Lameere. Cf. in modo particolare CONSTANTINIDIS, High Education in Byzantium, loc. cit. (31 ss. su Acropolite). Quindi su di lui, dopo i classici riferimenti di KRUMBACHER, Geschichte der byzantinischen Litteratur, pp. 88-89, HUNGER, Die hochsprachliche profane Literatur, I, pp. 442-447, e HEISENBERG, Studien zu Georgios Akropolites, rinvio alla trattazione ragionata più recente di MACRIDES, George Akropolites, Introduction, spec. pp. 5 ss. per notizie biografiche e riferimenti bibliografici. Secondo OEHLER, Aristotle in Byzantium, p. 140, fu allora che Aristotele avrebbe superato Platone, mentre CACOUROS, Le commentaire d’Aristote à Byzance, p. 175, dimostra come l’insegnamento di 305
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spunto diverso mi viene invece fornito dal Laur. 85,1 studiato principalmente da Michel Cacouros, che costituisce uno dei vari tasselli sullo studio sistematico dell’attività delle cerchie erudite d’età paleologa, di cui si è detto309. In sintonia con le nostre supposizioni relative al Barocciano, anche il codice di Firenze viene dallo studioso contestualizzato, assieme al Corpus logicum Paris. gr. 1917, proprio nell’ambito di quei pochi eruditi incaricati di insegnamento a cavallo tra l’Impero di Nicea e il nuovo Impero ricostituito, e il nome trovato come possibile per l’attribuzione del Corpus e la guida dell’impresa collettiva del Laurenziano è quello del maestro di Pachimere, Olobolo, che fu autore di opere sul sillogismo310. In realtà, si è detto sopra che questi è un autore della Costantinopoli restaurata, e come tale è stato esclusivamente considerato311. Come tuttavia Cacouros sottolinea, egli veniva comunque da Nicea, dove fu probabilmente allievo della Scuola Imperiale di San Trifon fondata intorno al 1255 da Teodoro II, e, fedele ai Lascaridi, appartenne alla cerchia dello sfortunato Giorgio Muzalone312. Evidentemente, ciò non gli impedì, successivamente e pur avendo subito una mutilazione, di servire il nuovo sovrano Paleologo. Riterrei invece troppo recente un Giorgio Pachimere (aveva solo 19 anni al tempo della Riconquista), che pure fu considerato il maggiore studioso del suo tempo313 e insegnò Aristotele alla Scuola Imperiale314, compilando l’Epitome di cui si è detto, autore, ricordiamolo, di un Syntagma sul quadrivio, oltre che di commentari alla Metafisica315 e probabilmente anche alla Fisica, secondo le argomentazioni di Golitsis che, come già detto, attribuisce a lui questi ultimi piuttosto che a Psello, con la dimostrazione che il più antico esemplare, il Laur. 87,5, della mano dello stesso Pachimere verso la fine del sec. XIII, non può essere una copia di Pachimere su modello, ma un autografo, da lui realizzato per il suo insegnamento superiore316. È chiaro che ci muoviamo su un terreno scivoloso di ipotesi, e in più stiamo argomentando di (pochi) nomi noti (forse troppo noti, per essere i possibili autori del nostro sintetico trattato?) riferibili principalmente all’insegnamento pubblico, anche se nulla vieta, anzi è più che possibile, che questi docenti tenessero contemporaneamente un qualche “salotto letterario”, senza escludere in tale ambito forme di insegnamento in privato.
Aristotele fosse nato proprio verso la fine dell’Impero di Nicea. Che, comunque, la filosofia fosse insegnata al culmine del quadrivio è una tradizione accreditata, attestata sia sotto i Comneni che sotto i Paleologi (δέσποινα τῶν ἐγκυκλίων μαθημάτων secondo Clemente Alessandrino, Στρ. Ι, 4 [PG 8, col. 721]. E cf. CACOUROS, Vie et survie de Byzance, in part. p. 44 e n. 67). 309 CACOUROS, Le Laur. 85,1; cf. quindi supra, p. 6 e n. 30. 310 CACOUROS, Le Laur. 85,1, p. 310. 311 Torniamo a considerare, ad es., BIANCHI, Il codice Laur. Conv. Soppr. 627, che fonda la sua tesi costantinopolitana, invece che nicena, proprio su tale argomentazione tra altre. 312 Cf. CONSTANTINIDIS, Higher Education in Byzantium, pp. 53-55. 313 KRUMBACHER, Geschichte der byzantinischen Litteratur, pp. 90-91. 314 Cf. supra, n. 221. GOLITSIS, George Pachymère comme didascale. 315 PAPPA, Georgios Pachymeres. 316 GOLITSIS, Un commentaire perpétuel de George Pachymère.
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Prenderei, tuttavia, in considerazione un elemento forse non tanto insignificante, nel caso si volesse insistere ad operare un’eventuale scelta, e cioè: a prescindere dal quesito se Giorgio Acropolite scrisse un’altra versione più lunga e rifinita della sua Historia317, attenendoci a quello di cui disponiamo è risaputo, e qui da sottolineare, come il suo stile fosse piuttosto sciatto, anche se l’organizzazione del materiale prevalentemente ordinata e la sua scrittura chiara essenziale e lucida; e inoltre che, malgrado l’apparente accuratezza, peccasse un po’ nei riferimenti cronologici. Non si può negare che tali caratteristiche sembrano attagliarsi perfettamente al nostro testo318. Ma un altro elemento, forse – il dubbio è d’obbligo per il momento – si potrebbe aggiungere a favore di Acropolite. Nel 1994 e poi ’95, in due parti, Carlo Maria Mazzucchi offriva una meravigliosa disamina delle numerosissime annotazioni fuori-testo esibite dal Diodoro Siculo Vat. gr. 130, celebre manoscritto del X secolo sopravvissuto al sacco del 1203 e poi finito nelle mani di Niceforo Gregora319. Egli era arrivato a delineare un σοφὸς σύλλογος, composto di πολιτικοὶ ἄνδρες che leggevano quel testo nel periodo tragico della presa latina di Costantinopoli, sulla base dei nomi segnati all’inizio di quattro rispettivi fascicoli verosimilmente – a suo parere – dall’annotatore nr. 3320, cronologia del quale non lasciano ombra di dubbio diverse sue note allusive agli eventi del 1203. Questi tre nomi (uno ripetuto due volte) venivano dallo studioso riferiti ad amici che si dovevano alternare nella lettura ad alta voce, piuttosto che a copisti che dovevano copiare il fascicolo. A parte la questione sollevata da questa singolare interpretazione, che non trova altre testimonianze malgrado la certezza dell’esistenza di simili σύλλογοι, e su cui Canart aveva lasciato invece aperta l’ipotesi della trascrizione condivisa321, ciò che mi dà qui motivo di riflessione è: 1. che tra i suddetti nomi figurano un Alyate (τοῦ αλυάτου), e poi un logoteta – da considerare sicuramente come carica piuttosto che come cognome, pure esistente, almeno da un certo periodo in poi, ma raramente322. Anche 317 Essa comunque pervenne nelle mani di Scutariote in questa forma sintetica e non rifinita in cui ci è giunta: al riguardo, MACRIDES, George Akropolites History, p. 32; pp. 34-35 sull’organizzazione della sua esposizione, con la sottolineatura di frasi interrotte per inserire un riferimento personale, e poi riprese. Cf. anche EADEM, George Akropolites’ rhetoric. 318 KRUMBACHER, Geschichte der byzantinischen Litteratur, p. 89, aggiunge la sua peculiarità di evitare volgarismi. 319 MAZZUCCHI, Leggere i classici I e II. 320 MAZZUCCHI, Leggere i classici I, pp. 188-191. 321 CANART, Lezioni, p. 85, dove datava la mano al XIV secolo; IDEM, Quelques exemples de division du travail, pp. 62-63, dove di fronte alle evidenze portate avanti da MAZZUCCHI, Leggere i classici I e II, riformulava la cronologia agli inizi del XIII secolo. 322 Oltre ai casi dallo studioso passati in rassegna (MAZZUCCHI, Leggere i classici I, pp. 194-195), sul PLP ne sono registrati solo tre, i nrr. 15019-15021, di cui il terzo è dubbio se fosse il titolo, mentre gli altri due sono attestati uno nel XV secolo e l’altro nel 1321, a Tessalonica. Su questa massima carica onorifica, equivalente all’essere primo ministro, in particolare OIKONOMIDES,
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se, come si è detto, quella degli Alyate era una famiglia per secoli importante323, focalizzerei il fatto che questo Alyate in particolare si trovi qui affiancato da un logoteta, e non posso fare a meno di richiamare il caso del Niceforo Alyate di Wilson nel ms. Barocciano, facente parte della cancelleria imperiale con a capo il grande logoteta Giorgio Acropolite; 2. un problema di cronologia. È così certo che questi nomi scritti in modo stilizzato, mezzo evanidi e vergati con mano e calamo leggeri, siano della stessa mano dello scoliasta 3 del 1203? Lo stesso Mazzucchi aveva scritto «con grande probabilità», giustificando poi la sua convinzione sia col fatto che nessuna delle altre mani intervenute nel codice mostri affinità con questa mano – ed è vero –, e sia attraverso un esame morfologico delle lettere. Ma, pur ammettendo una notevole somiglianza anche tenendo conto del carattere particolare, e veloce, del tracciato di questi nomi e dell’insufficienza della documentazione da essi rappresentata, non mi sento di accogliere con totale certezza questa identità: non abbastanza significativo mi sembra il tau di cui parla lo stesso Mazzucchi, con l’asta orizzontale prolungata in alto, e non trovo condiviso il gamma alto (in λογοθέτης) – che riconduce allo stile beta-gamma – qui eseguito morbidamente senza spigolo, né la forma geometrica di alpha (“a chiodo”, molto simile a un lambda), né quella elegante di chi (con la seconda obliqua che scende in basso molto più della prima). Peraltro nell’altro nome χαρσιανιτ(ου), il medesimo studioso notava una differenza nella forma del rho, che si allunga in basso anzicché curvarsi verso destra. Sono, forse, più vicini, ma non del tutto uguali, lambda (con la prima gamba allungata sotto il rigo di base e un po’ incurvata) e ypsilon (molto aperto, quasi un semicerchio col dorso poggiato sul rigo). Va ribadito: con tutti i limiti d’obbligo, sarei quasi più propensa a richiamare, per esempio, una delle mani del Laur. 32,16, manoscritto del 1280 proveniente dal milieu planudeo, uno dei diversi testimoni dell’attività erudita dei circoli d’età paleologa di cui si è parlato324; più precisamente, la mano del f. 255v riprodotto da Turyn325. In sostanza, se – da accogliere come ipotesi – questi nomi sono stati apposti dopo la Riconquista da una mano ulteriore, diversa dalle precedenti (e dalle successive), nulla vieterebbe di interpretare senza forzature i nomi letti da Mazzucchi come Niceforo Alyate e Giorgio Acropolite, riportandoci prima di La chancellerie impériale de Byzance, p. 168, e lo stesso MAZZUCCHI, Leggere i classici I, pp. 195-196. 323 Cf. supra, n. 55. 324 Dell’ampia bibliografia sul codice di Firenze, mi limito a segnalare le recenti menzioni in BIANCONI, Libri e mani, pp. 319 e passim, e IDEM, La biblioteca di Cora, p. 437, n. 109. 325 TURYN, Dated Greek Manuscripts of the thirteenth and fourteenth Centuries, Pl. 22.
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tutto verosimilmente a un ruolo di copisti, invece che di lettori, e riconducendo quindi il possesso del manoscritto vaticano ad uno stadio forse anteriore al suo arrivo a Chora, allo stesso circolo ipotizzabile per il Barocciano latore del nostro trattato: una prova tangibile del θέατρον/circolo di scrittura del XIII secolo che avrebbe fatto capo proprio ad Acropolite, non sappiamo se prima che egli fosse ufficialmente ingaggiato nell’insegnamento pubblico326. Più congrua sarebbe, conseguentemente, anche l’interpretazione dell’altro summenzionato nome, riportato due volte nel codice vaticano (f. 247r e f. 279r), Charsianite, attestato solamente da un sigillo nel XII secolo e invece da numerose testimonianze nel XIV327, e che potrebbe essere il medesimo Charsianite cui aveva in un primo tempo pensato Paul Canart: uno dei copisti del Laur. 74,10, del sec. XIV328. Quale che sia il valore della testimonianza del Vat. gr. 130, l’ipotesi attributiva del nostro trattato ad Acropolite lascerebbe aperta l’eventuale possibilità di una compilazione, se non proprio di sua diretta mano, scaturita però all’interno del suo milieu come esercizio di gruppo, a sintetizzare fonti avute tra le mani o a introdurre letture, sia pure sotto la supervisione del maestro, e magari alla fine a lui lasciata nella sua redazione conclusiva. Gregorio di Cipro, quando frequentò le lezioni di Acropolite a Costantinopoli, ci parla di allievi πρεσβύτεροι, più “avanzati”, che lo aiutavano (e probabilmente sostituivano) a lezione329: uno di quei casi in cui sfuma il confine tra maestro e allievo, tra erudito e apprendista, di cui si è detto sopra, peraltro già attestato anche anteriormente, tra funzionari di alto rango della cancelleria imperiale e dell’amministrazione centrale, nell’epistolario dell’Anonimo insegnante e filologo del X secolo330. Ma infine, la biografia movimentata di Acropolite avrebbe anche il vantaggio di abbracciare cronologicamente tutto il periodo compreso nella lunga stesura a tappe del manoscritto Barocciano – ancor più indietro negli anni di quanto non ci consenta la cronologia più recente di un Olobolo – secondo quanto l’analisi paleografica e codicologica ci aveva portato a concludere, ipotizzando in particolare per il blocco dei trattati una copia che doveva essersi conclusa dopo, a Costantinopoli, ma le cose non cambiano molto se si suppone che quei testi fossero stati già in parte raccolti e preparati precedentemente, negli anni dell’esilio. Lo scriba B doveva assemblare i suoi testi con un qualche criterio, la cui logica solo raramente ci sfugge.
326 Cf. BIANCONI, Erudizione e didattica, pp. 505 ss. sulla concorrenza dei vari circoli privati, veri e propri network, all’insegnamento pubblico. 327 MAZZUCCHI, Leggere i classici I, p. 194. 328 CANART, Quelques exemples de division du travail, p. 60 e p. 62. 329 Giorg. Chypr., Aut., p. 185, 19-20 Lameere, e cf. CONSTANTINIDIS, Higher Education in Byzantium, p. 33. 330 Cf. supra, p. 7. Su di esso si veda ancora BROWNING, The correspondence, e LEMERLE, Le premier humanisme byzantin, pp. 246-257.
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Ed ecco, proprio questo è forse il punto più difficoltoso per la presente supposizione: ammettere che questo testo, così unico nel suo genere, fosse slegato dal resto, in sostanza non tramandato da un modello, o da un qualche corpus pre-costituito di testi. Di conseguenza, si sarebbe dovuto inserire, dove? Dovremmo immaginare che la sequenza dei brevi trattati filosofici sembrasse la soluzione migliore al copista, ed egli lo copiasse là dove lo spazio gli consentiva di poterlo concludere con la fine della pagina (sic f. 415v), abbinandolo ad un item esplicitamente aristotelico, il De iuventute et senectute, de vita et morte (Ἀριστοτέλους περὶ νεότητος, γήρως, ἀναπνοῆς, ζωῆς καὶ θανάτου [ff. 415v-417r]), la cui fonte sono i Parva Naturalia331. Quasi un’associazione di pensiero: Aristotele. Aristotele era il trait-d’union con un compendio che certamente faceva venire in mente la Poetica del grande Stagirita. Non è forse tanto verosimile, o non del tutto convincente. Meglio: non sembrerebbe convincente quanto, piuttosto, quella tesi che non solo questo testo tecnico, ma tutto il blocco dei trattati, come sezione conclusa, così come venne copiato fosse anche stato compilato insieme, visto che di compilazioni si tratta. Torniamo in tal modo alla tesi di Pontikos, da riverificare tuttavia sulla base di questa diversa impostazione storico-cronologica. Vanno riesaminati quei testi da lui editi e numerati da 1 a 36. Da un punto di vista contenutistico, il problema fondamentale è che, più che veri trattati, si tratta di estratti di autori per lo più pagani, non menzionati e, dunque, di difficile identificazione. In buona parte però è materiale che come si è detto si può da un lato far risalire a Psello (vengono per es. espressamente citati Plotino, Porfirio, Giamblico, oltre che Platone, e poi ancora Simmia e lo stoico Crisippo), materiale che sarebbe stato così “fissato” in questa copia, e dall’altro a teorie aristoteliche (con l’esplicita citazione di Aristotele negli items 6, 7, 13, 15, 16, 18, 26, 34, 36, una volta citato con l’appellativo “Stagirita” [34, p. 107,29])332 sulla cui presenza, relativamente al periodo, non v’è bisogno di aggiungere nuovi commenti. Questi estratti sono specialmente tratti da opere di natura medico-scientifica o relative ai fenomeni naturali che, dalla generazione del XII secolo, cominciavano ad essere interpretati in modo più razionale333. Appaiono anche estratti di cosmogonia e (gli ultimi tre) di teologia e dogmatica. Ci si può però soffermare su alcune presenze: Proclo (items 30, 31, 32, 33, 36, 37, 38), un autore che, se era stato Psello il primo a riscoprirlo (e Nicola di Cf. PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, p. XXXVIII. Potrebbe a questo punto sembrare strano che Aristotele venga spesso citato nelle altre compilazioni che si riferiscono alla Logica e mai, invece, nel trattato Sulla tragedia, probabilmente per una differente tipologia di trasmissione (compendiata?) proprio della Poetica in quel periodo. 333 PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, p. XCVIII. 331
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Metone a ricusarlo) come si è detto, per una seconda volta proprio a Nicea venne riesumato, e in funzione dei programmi di studio superiore334. Ancora: dall’elenco comparativo tra questi items e altri text-books, che Pontikos redige per mettere in luce gli standard dei programmi formativi, si coglie il parallelo con diversi punti dell’Epitome fisica di Blemmide. Correggendo l’errata cronologia del sec. XII che egli riferisce a Blemmide335, visto che le sue date (1197-1272), qui già sopra riportate, lo collocherebbero assai meglio nel pieno secolo successivo, questo confronto riporterebbe al periodo niceno piuttosto che a quello dei Comneni. E infine, neanche le presunte (come si è detto) affinità col Syntagma pseudopselliano, né quelle reali col De omnifaria doctrina sarebbero di impedimento ad una collocazione più recente, data l’eccezionale diffusione e trasmissione dei testi pselliani, e l’autorevolezza ad essi connessa. Allo stesso modo non stupirebbe che si fossero trovate a disposizione fuori Costantinopoli tutte le fonti musicali sfoggiate nel nostro trattato in particolare, vista l’estrema importanza che da sempre hanno avuto nel mondo ellenico e, anzi, l’exploit che esse avranno ancora nei Syntagmata citati d’età paleologa336, con i lessici come quello di Polluce e le opere pseudo-aristotelica (Problemi) e pseudo-plutarchea (Sulla musica) sempre trasmessi con fortuna come veicoli preziosi, miniere, di notizie basilari. È dunque vero che gli autori bizantini di scuola copiavano compendi scolastici del passato, come viene ribadito da Pontikos, ma le innovazioni dallo stesso evidenziate in tutti i testi del nostro blocco, riprese in considerazione assieme al fatto che per tutto il manoscritto Barocciano sono presenti autori contemporanei (Germano Patriarca, Blemmide, Olobolo), portano abbastanza facilmente nella direzione di una compilazione tutta contemporanea alla composizione del codice: una compilazione che riflette tutto il materiale inedito, probabilmente perduto nella Capitale, che poteva trovarsi archiviato in Provincia e adesso ripescato. E veniamo al punto di vista stilistico. Tutti questi testi sembrano in effetti accomunati da un eguale modo di esposizione secco, sintetico, con frasi brevi ed un concetto molto particolare e variegato del punto in alto, come spiegato dal medesimo Pontikos337. Inoltre, essi mostrano un’identica modalità compilativa, effettuata con molta “diligenza” nel mettere insieme le fonti, ma nello stesso tempo senza poi troppo preoccuparsi di eventuali ripetizioni, dovute sicuramente all’utilizzo di fonti differenti. E ciò si può notare dalle “duplicazioni”,
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Supra, p. 158, n. 294. PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, p. XCII, ma si può notare che (forse per un refuso?) è deformata anche la cronologia del Barocc. 131, affiancato nel medesimo quadro sinottico (sec. XI-XII). 336 Supra, p. 130 e n. 194. 337 PONTIKOS, Anonymi Miscellanea Philosophica, pp. CXIX-CXXI. 335
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come avviene per gli items sull’anima (nrr. 12 e 17), sui fenomeni metereologici (nrr. 22, 23, 24 e cf. nr. 26) o astronomici (nrr. 30, 31, 32). Da queste osservazioni, ne deriva: i) che gli autori copiati siano compatibili col periodo dell’Esilio; ii) che la dottrina dimostrata dal compilatore, e le sue caratteristiche stilistiche, accomunino il nostro trattato a tutti i testi del blocco, convalidando l’affermazione di Pontikos che l’autore sia unico; iii) se infine possa trattarsi o meno di Acropolite, come sopra suggerito, anche in questo ampliamento di prospettiva, avrebbe bisogno di ulteriori verifiche. Quest’ultimo quesito potrebbe essere risolto grazie ad un ultimo dato, ricavabile proprio dalla lettura di tutti i trattati del blocco. Laddove non si tratti di compendi, come l’item 18 (Συνοπτικὸν καὶ μεταφραστικόν dai Phaenomena di Arato), o il 20 (Ἀπὸ τῆς ἐξηγήσεως al Tetrabiblo di Tolomeo) e il 21 (dal secondo libro di Tolomeo), molte di queste compilazioni compreso il nostro testo, come del resto notato anche dagli editori precedenti, sono retoricamente rivolte a un teorico apprendista. Si è già commentato, sopra, sul valore da dare a un simile formulario, ma forse, riconsiderando adesso tutto l’insieme, e l’ambito erudito in cui abbiamo inquadrato la genesi delle compilazioni, il teorico apprendista potrebbe non essere più tanto teorico. Forse in questo caso egli potrebbe eccezionalmente essere identificato, con una inedita proposta: tralasciando gli inizi testuali più banalmente retorici rivolti a un generico astante, alcuni sembrerebbero piuttosto degni di attenzione. Li riportiamo con la numerazione seriale degli items nell’edizione: 5. 6. 7. 10. 11. 12. 25.
Τρία σοι ταῦτα τῆς ἰατρικῆς τέχνης διὰ σπουδῆς, λογιώτατε, ὡς τῷ γράμματί σου ἐδήλωσας, τὸ περὶ οὔρων μάθημα. Περὶ τοῦ φυσικοῦ ἡμῖν ἐπεζήτησας σπέρματος ... Θαυμάσιόν τι ἠπόρησας, … Ἀποκναίεις τὰ νομικὰ λογιωτάτη ψυχὴ ὡς πεπατημένα καὶ μυριόλεκτα. Ἁνέγνως μὲν ἥδιστα ὡς ἔγραψα τὴν ἐπιστολήν. Ἰδού σοι καὶ τὰ περὶ ψυχῆς παρατίθεμι ἑλληνικὰ δόγματα. Ἠρώτησες ripetuto più volte (p. 80,15, con l’aggiunta ἐν τῷ αὐτῷ γράμματι).
Non solo l’insistenza supera, credo, ogni limite retorico, ma si parla più concretamente anche di lettere scritte dall’uno all’altro e, fatto più sorprendente, per ben due volte l’autore si rivolge a un λογιώτατε e λογιωτάτη ψυχὴ. Non è consueto, al contrario del tutto inusitato, che un insegnante si rivolga al suo allievo interpellandolo come “dottissimo”, o “eruditissima anima”. Queste formule
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
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deferenti ci riportano ad un ambito molto più particolare del previsto, che può essere uno soltanto: un allievo privilegiato, o di alto lignaggio. Si potrebbe pensare all’ambito imperiale. La possibilità si riduce a questo punto ad una sola, che corroborerebbe l’ipotesi di Acropolite autore non più solo del trattato sulla tragedia bensì di tutto il blocco, ma nello stesso tempo, in modo ambivalente, è anche la suggestione di Acropolite come autore che darebbe corpo a questa meravigliosa e imprevedibile realtà: alla circostanza del suo insegnamento privato al giovanissimo futuro imperatore Teodoro II, l’imperatore letterato. Da quanto si evince dalla sua Historia, intorno all’anno 1246 Giorgio avrebbe compiuto a Nicea i suoi studi con Blemmide, l’anno in cui avrebbe accompagnato Giovanni III nelle sue campagne in Tracia e Macedonia338, ma sembra che fosse già stato ingaggiato dall’imperatore Vatatze a fare da precettore all’erede al trono. Trentanove epistole scrittegli dal giovane pupillo, alcune (tre) anche dopo che divenne imperatore, e da lui raccolte, non solo documentano che Giorgio gli avrebbe dato lezioni di logica e filosofia, ma testimoniano anche l’affetto, l’attaccamento e insieme la grande deferenza che il ragazzo nutriva nei suoi confronti («al mio Acropolite», «o sapiente testa», «ὦ φίλε», «φίλε, ὦ φίλε», ecc.), come poi gli avrebbe dimostrato dedicandogli l’Encomio339. Malgrado le incertezze sulla cronologia esatta di questi anni di insegnamento, secondo la tesi più accreditata di Heisenberg essi si sarebbero conclusi nel 1252, con i nuovi viaggi in Occidente al seguito dell’imperatore, che lo avrebbero tenuto lontano per ben due anni. L’insegnamento sarebbe dunque riferibile solamente al periodo anteriore all’ascesa di Teodoro al trono, sancendo da quel momento un nuovo tipo di rapporto secondo il quale per almeno due anni (1254-1256) Acropolite fu in primo luogo responsabile della Cancelleria, accompagnò in viaggio il nuovo imperatore e ne ricevette anche cariche militari. L’impostazione dei trattati-estratti del manoscritto Barocciano, riflette sia quella particolare curiosità di apprendere di cui Teodoro era dotato, sodisfatta dalle dissertazioni scritte che il suo dotto maestro gli rivolge, e sia lo scambio di epistole, come realmente avvenne tra i due. Lo stile è stringato, come quello di Acropolite; l’erudizione è imponente, come la sua; grandi le conoscenze scientifiche, e la capacità di assemblare ciò che si era potuto ritrovare e raccogliere, anche in compendi, risponde allo spessore tramandatoci del personaggio. 338
Acrop., Hist., 32, pp. 49-50 Heisenberg. Cf. oltre a MARKOPOULOS, Encomium, TARTAGLIA, Opuscula, pp. 95-108 l’encomio. Per le epistole, ibidem, pp. 2-22 (un’epistola), e FESTA, Epistulae, pp. 67-116. Ricorre in esse il concetto di verità della filosofia, e tra le espressioni rivolte dall’allievo al maestro è ad es. retoricamente efficace, oltre che letterariamente bella «tu sei in me, come io giro intorno a te» (p. 71). Per una ricognizione e bibliografia completa, rinvio a MACRIDES, George Akropolites History, pp. 9-11. 339
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PARTE SECONDA
L’analisi dettagliata di Ruth Macrides, nella sua edizione della Historia, mette a fuoco il gran dispiegamento di fonti, non identificabili, citate dallo storico “oralmente”, soprattutto negli anni delle campagne del ’46, mentre in altre parti della sua opera egli mostra di avere come fonti lettere, trattati e altra documentazione, che in genere parafrasa o sintetizza o, anche, traduce340: come appare nei trattati barocciani. Mette anche a fuoco come, benché egli sia noto come storico, occasionalmente scrisse anche qualche opera teologica, e gli ultimi tre trattati del nostro blocco sono, come già evidenziato, teologici. Mi riferisco anche a un particolare significativo: scrisse un compendio di frasi di Gregorio Nazianzeno341, e non sarà tanto casuale che negli items pubblicati da Pontikos troviamo ascendenze dal Nazianzeno, ma anche da Gregorio di Nissa e Basilio, con curiosa, totale assenza – invece – del grande Crisostomo. La fretta poi, o piuttosto la diseguaglianza che si coglie nella sua narrazione, potrebbe essere anche dovuta a tempi diversi o frazionati, alla sua vita impegnata amministrativamente che lo portava inoltre fuori al seguito dell’imperatore, negandogli il tempo di limare ciò che scriveva. Se, comunque, veramente egli compose per Teodoro II suo pupillo queste operette, a prescindere dalla cronologia maggiormente condivisa per il suo insegnamento al principe, il terminus antequem non può che essere quando cadde in disgrazia presso lo stesso, quando quell’assurda follia del giovane di voler rivoluzionare le classi sociali avrebbe travolto anche Niceforo Alyate, al quale probabilmente, come si può a questo punto presumere, sarebbe stato affidato tutto il blocco per una trascrizione, che nulla vieta di pensare che egli abbia (o abbia dovuto) eventualmente posposto, al ritorno nella Capitale riconquistata. Si può così osservare come questa soluzione non sia in contrasto con la ricostruzione che nella prima parte si è tentato di proporre per tutto l’allestimento, scansionato, della Miscellanea barocciana. Per ricapitolare: la compilazione di tutti questi trattati didattici che magistralmente compendiano il sapere scientifico, riflettendo determinate esigenze educative, è verosimilmente attribuibile a Giorgio Acropolite nel suo ruolo di insegnante privato del futuro imperatore in esilio Teodoro II, e andrebbe quindi collocata all’incirca negli anni 1246-1252. Non va trascurato che quest’anno 1252, è quello da cui siamo partiti, con le ipotesi di Wilson sul personaggio Alyate e la sua promozione, avvenuta non a caso in coincidenza con la morte del gran cancelliere precedente, Demetrio Tornicio, e con la partenza del nuovo logoteta (logothetes tou genikou) Giorgio Acropolite per i viaggi impe-
340 341
MACRIDES, George Akropolites History, pp. 34 ss. In Gregorii Nazianzeni sententias, ed. Heisenberg, Georgii Acropolitae Opera, II, pp. 70-80.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
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riali342: pertanto, in coincidenza con la sua “vacanza”, o assenza in loco che, evidentemente, richiedeva la presenza, per le necessità burocratiche, di funzionari incaricati di alto livello, come appunto si trovò ad essere Alyate dopo la promozione343. Sappiamo da Giorgio Pachimere che l’opera del logoteta Acropolite fu bruciata, dopo la sua morte, dagli anti-unionisti344. Anche se questo riferimento va probabilmente inteso come una sola opera piutttosto che l’opera tout court, come Macrides commenta345, e diversi suoi componimenti sono comunque andati perduti, se la ricostruzione qui avanzata coglie nel segno, non dovette evidentemente dare all’occhio quest’insieme di estratti anonimi di contenuto scientifico e filosofico, per lo più mimetizzati dall’apparenza pselliana, e certamente ancor più inosservato dovette passare quel trattatello sulla tragedia trascritto nel loro mezzo. Ignorato, e perciò subito dimenticato, anche per questo il Περὶ τραγῳδίας non fu mai più riprodotto. ______ In conclusione, se anche rimanessero dei dubbi su Nicea o Costantinopoli, insegnamento pubblico o privato, e noto oppure ignoto grammatikos, maestro o/e allievo, non è necessario supporre che il Περὶ τραγῳδίας oggetto di questo lavoro sia stato redatto per avere una controparte, una risposta concreta, o che si sia basato su qualche tragedia in concreto – men che mai su un’opera corrente –. In altre parole, se lo considerassimo una teorica summa poetica, dovremmo riconoscere che una poetica, come che sia, certamente è sempre normativa dal momento che vuole indicare quanto è necessario per potere raggiungere un determinato risultato, ma non necessariamente una poetica è produttiva. E questa meno che mai. Il Περὶ τραγῳδίας è piuttosto un compendio di conoscenze basilari di studio, uno dei tipici compendi in cui i dotti Bizantini furono insuperabili, ad usum delphini in un determinato e irrepetibile momento (un motivo ulteriore del fatto che non fu più replicato), e come tale dimostrerebbe (se ancora ve ne fosse ragione) che, anche se scomparso dalla rappresentazione scenica, il dramma antico si leggeva e, meglio, si studiava insieme a tutte le branchie del sapere scientifico, almeno teoricamente e in determinati circuiti, assieme a quelle discipline che rientravano nell’istruzione al suo stadio più avanzato. E forse proprio perché non si recitava più, si vagheggiava e insisteva su quegli elementi peculiari 342 Cf. supra, n. 322 sul titolo, ma sui vari quesiti attinenti il suo valore in questo periodo – se cioè a Nicea fosse ormai una carica onorifica – e l’eventuale momento in cui Acropolite lo avrebbe ricevuto, logothetes tou genikou probabilmente in quel 1252, prima di megas logothetes, si rinvia a MACRIDES, George Akropolites History, pp. 19 ss. 343 Supra, p. 11. 344 CONSTANTINIDIS, Higher Education in Byzantium, p. 34 e n. 13. Cf. anche MACRIDES, George Akropolites History, p. 76. 345 Ibidem, anche per un elenco delle sue opere.
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del teatro, concentrando insieme, nel possibile, tutto ciò che, anche se scaglionato in epoche diverse, in un mix dunque anacronistico ma sincero, aveva costituito l’essenza stessa della visiva rappresentazione teatrale che tanta gloria aveva dato all’Atene classica: le imitazioni, i macchinari, gli effetti scenici e coreografici, la musica nella variegata sfaccettatura di tutte le sue armonie, vecchie e nuove, gli strumenti musicali, i canti e i semi-canti o recitativi accompagnati, la danza. Gesti, pose, voci, ritmi e suoni vengono riesumati e riecheggiati in una rievocazione appassionata e nostalgica che mi guarderei bene dal disprezzare. Alla fine di questa esposizione, non trovo parole più belle delle seguenti, con le quali Alphonse Dain esprime un concetto basilare: «Ma conclusion est que l’étude critique et philologique des manuscrits ne peut se separer de l’histoire. Mais il ne suffit pas pour cela d’etablir simplement une chronologie des temoins. Il faut que les faits philologiques soient lies aux faits historiques: destruction de livres, transfert de collections, creations de bibliotheques, emprise des personnalites laiques ou ecclesiastiques, tout cela se tient et pratiquement on peut dire qu’on n’a pas trouve l’essentiel tant qu’on n’a pas pu expliquer comment et pourquoi les choses sont faites telles qu’on les voit»346.
346
DAIN, La transmission des textes littéraires, p. 47.
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INDICI Secondo e terzo indice con la collaborazione di Sever J. Voicu
INDICE TERMINOLOGICO* ἄγγελος: 19, 67; – 31, 59, 71-72, 102-103, 150 ᾄδω (ἀείδω): 65, 81; – 87, 101 Αἰόλος: 92, 94-95 ἀλλάσσω: 72 ἀμβόαμα – vedi: ἀναβόημα ἀμοιβαῖον: 59-61, 76, 79, 81, 95 ἀμοιβή: 59 ἀναβόημα (ἀμβόαμα): 62, 65; – 100-101, 142 ἀναπαιστικός: 26, 59; – 31, 79-80, 98-101, 112, 148 ἀνάπαιστος (ἀνάπαιστον): 74, 79-83, 101-105, 133 vedi anche: ἐπίσκηνος; ἔρρυθμος; χορικός; – e inoltre: μέτρον; περίοδος; τετράμετρον ἀνάρμοστος: 48 ἀνατείνω: 108 ἀνάτρητος: 43; – 95, 142 ἀντίστροφος: 51-53; – 60, 98, 138 ἀξίωμα: 49 ἁπλοῦς: 45, 54, 57; – 96, 98 vedi anche: βακχεῖος ἀπόφασις: 11 ἄπρακτος: 67-68 ἁρμονία: 31, 36; – 45, 47, 89-95, 113, 132, 137, 139, 142, 158 vedi anche: ἰαστί; λυδιστί; ὑποδωριστί; ὑποφρυγιστί; φρυγιστί; – e inoltre: τόνος ᾆσμα: 10; – 60, 64, 76, 100, 112, 121 ἄστροφος: 98 ἀσύνθετος: 78 ἄτεχνος: 47 ἀτράγῳδος: 15 αὐλητής: 82; – 82, 101, 113 αὐλός: 81; – 83, 95, 100-101, 112-114 ἄψυχος: 12; – 68 βακχεῖος: 45; – 96 vedi anche: ἁπλοῦς; διπλοῦς; Ἰωνικός; προκελευσματικός
γένος (musicale): 30, 32; – 89, 91-92, 99, 113, 128 vedi anche: διάτονος; ἐναρμόνιος; σύντονος; – e inoltre: περίοδος; χρῶμα γνωμολογέω: 67 γνωμολογία: 11; – 67 γραμματικός: 11 (βασιλικός), 158, 171 δαιμόνιον: 17 δεινοπάθεια: 66, 139 δεῖξις: 108-110 δέσις: 16 διαιρέω: 23, 27 διαμηχανάομαι: 20 διάνοια: 3; – 41, 43, 48 διάτονος: 31; – 89, 91, 113-114, 128, 136 vedi anche: σύντονος διθυραμβικός: 37; – 93 διθύραμβος: 38; – 51, 68, 93-94, 114, 133, 139 διπλοῦς: 45; – 96 διχορία: 22; – 72, 142, 151-152 δρᾶμα: 9, 19, 53, 64-65; passim vedi anche: σατυρικός; τραγικός δραματικὸν αἴτημα: 18 δυσμίμητος: 12 Δώριος: 33; – 92-94 ἔγκειμαι: 74 ἐγκύκλιος παιδεία: 7, 155-156 εἶδος (χοροῦ): 86, 106, 108-109, 113 εἴσοδος: 103, 151 εἰσφέρω: 40 ἐκκύκλημα: 18; – 30, 71 ἐκπληρόω: 68 ἐμμέλεια: 7, 28, 77; – 46, 58-59, 64-65, 80, 84-87, 97, 106-112, 131-132, 139142, 150-151 ἐναρμόνιος: 30, 83; – 89-90, 114, 139 ἐνδινεύω: 48; – 97 ἐνέργεια: 76 ἐνόπλιος (κατ᾿ἐνόπλιον): 79
* I numeri in corsivo si riferiscono alle righe del trattato barocciano (vedi pp. 34-38); i numeri in tondo rinviano invece alle pagine del volume.
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INDICI
ἐξάγγελος: 19; – 59, 71-72, 150 ἐξέρχομαι: 70 ἔξοδος: 6-7, 27-28; – 31, 57-60, 62, 65, 72, 78-84, 131-133, 140-141, 148, 150 ἐξώστρα: 71 ἐπεισέρχομαι: 71 ἐπεισόδιον: 6, 26, 73; – 57, 60, 62, 73, 79-80, 148, 150 ἐπιδέξιος: 48; – 96 ἐπιπάροδος: 59-60, 72-73, 82, 142, 151 ἐπίσκηνος: 67; – 102-105, 138 ἐπιτείνω: 29 ἐπιτίμησις: 11 ἐπίφθεγμα: 62, 64 ἐπονομάζω: 78 ἐπῳδικός: 52-56; – 98, 140 ἔρρυθμος: 62; – 101, 104-105 εὐρυθμία: 112 ἠθικός: 11; – 42, 148 ἦθος: 10, 13, 32; – 30, 41-42, 48, 50, 61, 66-67, 90, 99, 101, 125, 129, 137-138, 145, 147 ἡμιστροφεῖον: 71 ἡμιχόριον: 72 ἠρεμία: 80 ἡρωϊκός: 13; – 65, 69, 138, 140, 148 ἥρως: 20; – 68-69, 120, 140 θεολογεῖον: 71 θεός (θεοί): 20 θρῆνος: 29; – 66, 69, 81, 88, 138, 140141, 148 ἰαμβικός: 25-26, 58; – 79, 100-101 Ἰαστί: 36 ἴδιος: 76 Ἰωνικός: 46 Ἰώνιος: 92, 139 κάθαρσις: 42, 48, 55-56, 65, 69, 90, 93, 145-146, 148 καλέω: 10, 18, 22-23, 35, 42, 52 καλός: 15 κανίκλειον (ἐπὶ τοῦ κανικλείου): 11, 23 καταλέγω: 100-101, 140 καταλείπω: 71 καταλογή: 66; – 100-101, 140, 142 κατάσκοπος: 72 κηδευτής: 67 κινέω: 29; – 110, 140 κίνησις: 4, 79; – 43, 45-47, 49, 53-56, 66, 97, 108-109, 139 κιθάρα: 83; – 114, 139, 142
κιθαρῳδικός: 40; – 31, 36, 94, 139 νόμος: 115 κιθαρῳδός: 114 κίνησις: 4 κομματικός (κομματικά): 58 κομμάτιον: 98 κομμός: 7, 28-29; – 31-32, 57-58, 60-61, 65, 80-81, 85, 88, 101, 103, 105, 131, 133, 137-138, 141, 148 vedi anche: κομματικός κορδακίζω: 64 κορδακικός: 64 κόρδαξ: 78; – 64, 86, 107 κορυφαῖος: 52 κορωνίς: 70; – 105, 112, 133 κούρισμα: 59-60, 79, 81 κρουμάτιον: 63 κωμικός: 3 vedi anche: ὄρχησις λέγω: 58-59 λέξις: 3, 24-25, 47; – 42-48, 59-60, 66, 73-74, 78-79, 82-83, 96-97, 101, 129, 132-133, 137, 143 λογεῖον: 76-77 λόγος: 57; – 45, 48, 51, 59-60, 82 Λύδιος: 36, 40; – 93-94, 128, 139 Λυδιστί: 36 λύρα: 85; – 114-115, 139-140, 142 λυρῳδός: 114 λύσις: 16; – 71 μάθος: 43 μακρός (μακρόν): 51; – 98 μαλακός: 32 μεγαλοπρεπής: 79; – 106 μεγαλόψυχος: 14 μελοποιία: 30, 43; – 44, 96, 99 μέλος: 3, 47, 50-51, 54, 61, 63, 69, 73; – 43-48, 57, 59-60, 64, 76, 80, 83-84, 86-87, 91, 97-98, 100, 104, 106, 113, 129, 133, 137, 138, 141 vedi anche: ἀντίστροφος; ἁπλοῦς; ἄστροφος; ἐπῳδικός; μακρός; μεσῳδικός; μεταβολικός; μονόστροφος; προῳδικός; στάσιμον μέρος: 5, 27, 70; – 57-58, 60-65, 78, 80, 85, 104, 129, 140 μεσαύλιος (μεσαύλιον): 62-63; – 30, 153 μεσῳδικός (μεσῳδικόν): 53; – 98 μετάβασις: 70 μεταβολή: 17, 54; – 45, 70-71, 98-99, 136, 143
INDICE TERMINOLOGICO
μεταβολικός: 54; – 98 μετάθεσις: 98 μετάστασις: 72 μετάφρασις: 146 μεταφραστικός: 168 μέτρον: 3, 25-26, 57-58, 62; – 43, 45-46, 48, 78-80, 84, 98, 101, 112, 136-139, 141, 148 vedi anche: ἐνόπλιος; ἰαμβικός; τραγικός; τροχαϊκός; – e inoltre: τετράμετρον μηχανοποιός: 54 μιμέομαι: 2, 8-9, 11, 13; – 41-44, 47, 65, 110-111, 137 ὄρχησις μιμουμένη: 107 μίμησις: 41-45, 48, 50, 54, 65-66, 69, 108, 110, 137-138, 145 Μιξολύδιος: 34; – 92-93 μονόστροφος: 52, 55; – 98, 140 μουσική: passim μουσικός: 42; – 92 μῦθος: 2, 72; – 41-43, 48 ξίφισμα (ξιφισμός, σκιφισμός): 107-108 οἰκεῖος: 14, 34, 41; – 31 οἴκησις: 18 οἶκτος: 35 ὀρχέομαι: 75; – 64, 87, 108, 110 ὀρχηματικός: 60, 141 ὄρχησις: 77-78; – 55-56, 84-87, 106-108 vedi anche: κωμικός, σατυρικός, τραγικός ὀρχηστής: 46 ὄψις (ὄψεις): 3; – 43-44, 47-49, 53, 55, 74, 96, 137, 140, 142, 144 πάθημα: 42-43, 66-67, 140-141, 145, 148 παθητικός: 42, 93 πάθος: 2, 8-9, 12, 14; – 42-43, 50, 6667, 69, 100, 119, 129, 134, 137-140, 147 πάμφωνος: 95 παρακαταλογή: 79-80, 100-101, 103, 112, 142 πάροδος: 6, 28, 68, 81; – 29-30, 50, 57-61, 81-84, 101, 103, 105, 112, 133, 138-139, 142, 148, 150-151 περίοδος: 25, 50, 83; – 51, 59-60, 78-79, 97-98, 112-113, 133, 136, 138, 141 vedi anche: ἀναπαιστικός; ἀσύνθετος; ἐναρμόνιος; ἰαμβικός; σύνθετος; σύντονος; χρωματικός; – e inoltre: γένος; χρῶμα
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πολυειδής: 44; – 31, 95, 142 πολυχορδία: 42; – 91, 95, 142 πολύχορδος: 95, 112 πολύχρους: 44; – 95, 142 πρακτικός: 13; – 44, 148 πρᾶξις: 2, 8, 12-13, 15; – 42-43, 54-56, 66-67, 137, 145 πράττω: 47 προκελευσματικός: 46 πρόλογος: 5, 26; – 31, 57, 59-60, 62, 73, 79-80, 148, 150 προσαυλέω: 82 προσαγορεύω: 77 προσήκω: 39, 45 (ῥυθμός προσήκων) πρόσωπον: 68; – 59, 62-63, 69, 140 προσωποποιός: 54 πρωταγωνιστέω: 8 προτάττω: 68 προῳδικός (προῳδικόν): 53; – 98 πυρρίχη: 46, 106-107 ῥῆμα: 45 ῥῆσις: 59-60, 87, 112 ῥυθμός: 3, 45, 47; – 31, 43-47, 51, 56, 64, 68, 79, 82, 86, 90-91, 97, 99, 101, 105-107, 110-112, 129, 137-139 σάλπιγξ: 59, 71 σατυρικός δρᾶμα: 64; – 59 ὄρχησις: 77; – 31 σεμνός: 34; – 106-107 ὀρχήσεως εἶδος: 79 σίκιννις: 78; – 64 σκευοποιός: 53-54 σκηνή: 4, 20, 71; – 43, 49, 53-54, 56, 61-62, 74-77, 139 ἀπὸ σκηνῆς: 6, 24, 67, 73; – 54, 56-57, 60-63, 65, 73-74, 76-77, 81, 102-106, 133, 137-138, 144 ἐπὶ σκηνῆς: 76, 136, 138 ἐπὶ [τὴν] σκηνήν: 83, 103, 139, 151 περὶ σκηνῆς: 139 σκηνικός: 58-59, 62-63, 80, 141 σκηνογραφία: 47, 54, 71, 75, 77 σκηνοποιός: 4; – 53-54 σκιφισμός – vedi: ξίφισμα σκοπός: 19; – 59, 71, 151 σπουδαῖος: 15; – 41, 107 σπουδή: 81 στάσιμον: 6, 10, 28; – 50, 57-60, 67, 80, 83-85, 148, 151 vedi anche: μέλος
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INDICI
στροφεῖον: 71 στροφή: 50; – 51, 79, 86, 97-98, 138, 141 συναγωνίζομαι: 67 σύνθετος: 78 συντάττω: 61 συντίθημι: 67 σύντονος: 83; – 113, 136 σύστημα: 41 σχῆμα (χοροῦ): 45, 50, 55, 57, 89, 107111, 129, 138, 140 τάττω: 63 τετράμετρον: 59; – 79, 99-101 vedi anche: ἀναπαιστικός; ἀνάπαιστος; τροχαϊκός; – e inoltre: μέτρον τόνος: 33, 38-39; – 89, 92, 99, 102, 113, 128, 185 vedi anche: Αἰόλος; Δώριος; Ἰώνιος; Λύδιος; Μιξολύδιος; Ὑποδώριος; Ὑποφρύγιος; Φρύγιος; – e inoltre: ἁρμονία; τρόπος τόπος: 72; – 49 τραγικός: 66; – 2-3, 31, 43, 45, 51, 66, 69, 94-95, 99-100, 106, 109, 120, 130, 145, 147 δρᾶμα: 9, 65; – 69 μελοποιία: 30 μέλος: 50, 61 μέτρον: 57; – 31 ὄρχησις: 76-77; – 62 ποίησις: 23; – 59 χορός: 82; – 42, 50, 61, 67-68, 80-82, 84, 86, 94, 100, 104, 112 τραγῳδία: 1, 5, 9, 13, 16, 21, 47, 49, 58, 75, 84; – passim τρόπος: 24, 40, 43; – 58, 62-64, 69, 73, 89, 92, 99, 141, 149 vedi anche: ἀνάτρητος; κιθαρῳδικός; σκηνικός; χορικός; χορός; – e inoltre: τόνος τροχαϊκός: 25, 59; – 79-80, 101, 148
τυγχάνω: 12, 60 τύπος: 4; – 29, 43, 49-50, 53-55, 57, 73, 140 Ὑποδώριος: 38-39; – 39, 91, 94-95, 138, 142 ὑποδωριστί: 138 ὑπόκειμαι: 1 (ὑποκείμενα), 74 ὑποκριτής: 5, 70, 75; – 53-54, 59, 62, 73, 76-77, 121, 139 ὑπόμνημα: 146 ὑπόρχημα: 64, 85-86, 95, 132, 139, 142, 158 ὑπορχηματικός: 59 ὑπόρχησις: 59, 87, 112, 150-151 Ὑποφρύγιος: 38, 40; – 40, 91, 94, 138, 142 ὑποφρυγιστί: 93, 138 φορά: 108-110 φόρμιγξ: 114 Φρύγιος: 36-37; – 93-94, 128, 139 φρυγιστί: 93 χορεία: 51, 129 χορηγία: 52-53, 137 χορηγός: 5; – 49-50, 52-54 χορικός (χορικόν): 6, 23, 27, 67; – 57, 60, 62-65, 73-74, 78, 80, 86-87, 102105, 133, 138, 144 χοροδιδάσκαλος: 49, 52 χορός: 21, 71-72, 74, 76, 82; – passim χράω: 30, 32-33, 35, 37, 41-42, 44, 58, 84 χρῆσις: 60, 64 χρόνος: 17; – 71 χρῶμα: 31, 83; – 31, 91-92, 113-114, 142 χρωματικός: 83; – 31, 113 ψυχαγωγικός: 47 ᾠδή: 24, 27, 66; – 59-60, 62-64, 73-74, 78-80, 83-84, 86, 121, 141-142, 150 ᾠ. σκηνική: 59, 63, 80
INDICE DEI NOMI, DELLE OPERE E DELLE SCUOLE DI PENSIERO ANTERIORI AL XIX SECOLO E DEI TOPONIMI
A Calliope (inno): 91 A Nemesi (inno): 91 Achmet, Ὀνειροκριτικόν 124, 85: 96 Agatarco di Samo: 75 Agatone, tragico: 37, 90-91, 94-95, 142 Al Sole (inno): 91 Alcifrone, Ep. 2, 4, 15: 108 – 3, 65: 76, 136 Alessi (Alesside), fr. 98 Kaibel: 53 Alipio, Isagoge, 3, 11, p. 367 Jan: 85 – 3, 21, p. 367 Jan: 92 Alyate (famiglia): 11, 163 Alyate, Niceforo (Baroccianus 131, mano B): 8-9, 11-13, 15-25, 30, 164165, 171 Ammonio, filosofo: 145 Anastasio Sinaita: 18 Anna Comnena: 154 Anonimo insegnante e filologo del X secolo: 165 Anonymi Synopsis Chronica (Ἀνωνύμου Σύνοψις Χρονική; Sathas), p. 537: 23 – p. 542: 23 Anonymus de comoedia (Περὶ κωμῳδίας; Anonymus Crameri): 2 Anonymus Parisinus (Paris, BnF, Grec 1173; Cramer): 3, 64, 80, 149 – I, 19-20: 59 – I, 19: 83 – I, 20: 62, 72 – III, 343-349: 72 Apollinare di Laodicea: 122 Apollinare il Vecchio: 122 Apollo, divinità: 92 Apollofane, comico, fr. 1, Kock I, p. 797: 107 Arato, Phaenomena: 168 Archiloco, poeta: 112 Areta di Cesarea: 123, 155 Areteo di Cappadocia, medico, De causis et signis acutorum morborum I, 1: 97 Arione, commediografo: 51
Aristide Quintiliano, De musica (Winnington-Ingram): 90, 128, 130, 139 – p. 5, 5: 46 – p. 5, 8: 46 – p. 5, 9-10: 47 – p. 15, 21: 89-90 – p. 16, 10-11: 89 – p. 17, 21: 113, 136 – p. 20, 1: 92 – p. 22, 11: 98, 136 – p. 23, 1: 93-92 – p. 28, 8: 47 – p. 28, 10-11: 44 – p. 28, 11: 46 – p. 31, 22: 46 – p. 32, 4: 46 – p. 34-36: 136 – p. 34-35: 78 – p. 35, 1: 136 – p. 36: 78 – p. 36, 2: 98 – p. 38, 3: 98 – p. 39, 6: 98 – p. 40, 1: 98, 136 – p. 45, 20: 46 – p. 65, 23: 46 – p. 81, 20: 92 – p. 85, 22: 46 – p. 112, 28: 92 Aristocle, Περὶ χορῶν: 107 Aristofane: 2 Acharnenses 408: 71 Equites 507-509: 100 – 968 – Schol.: 113 Nubes 506 – Schol.: 105 Nubes 540 – Schol.: 106 Nubes 638 ss.: 45 Pax 323-324: 110 Ranae 849-850: 95 – 895-898: 86 – 896 – Schol.: 87, 111 – 1286: 114
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INDICI
– 1304: 114 – 1329-1330: 95 Thesmophoriazusae 95: 71 – 121 – Schol.: 91 Vespae 582b – Schol.: 83, 132 Aristofane di Bisanzio: 144 Aristosseno di Selinunte, poeta: 99 Aristosseno di Taranto: 46, 89-90, 92, 127-128, 130, 139, 149 Harmonica (Da Rios): 137 – p. 23, 4-5, 6-7: 98 – p. 24, 11-12: 98 – p. 44, 3: 98 – p. 47, 17-18: 98 – p. 50, 15: 98 – p. 64, 7: 113 Rhytmica: 47 – fr. 81 Wehrli: 92 – fr. 104 Wehrli: 64, 106 fragm ap. Ammon., FHG II, p. 286, 63: 114 Aristotele: 2, 44, 47-49, 51, 55, 57-58, 61-63, 65-67, 69-71, 74, 76-77, 80-81, 83-84, 88, 90, 105-106, 108, 111, 120, 126, 128, 135-136, 141, 143-149, 152153, 155, 159, 161-162, 166 De generatione animalium 738a 16: 43 – 750a 30: 43 De iuventute et senectute, de vita et morte: 166 Ethica Nicomachea 1105b 21: 43 – 1128a 10: 96 Logica: 143, 159, 166 Organon: 127, 143, 159 Parva Naturalia: 166 Poetica: 1, 4, 62-63, 67, 91, 94, 120, 128, 143-145, 152, 159, 166 – 1447a: 41, 110 – 1447a 22-23: 45 – 1447a 23: 43 – 1447a 27: 45, 137 – 1447a 28: 66, 110 – 1447a 29: 42, 137 – 1447b 13-20: 48 – 1447b 26: 45, 137 – 1448a 1: 66, 137, 148 – 1449a 11: 68 – 1449a 18-19: 54, 75 – 1449a 29-31: 81
– – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –
1449b 9-10: 66, 137, 148 1449b 12-13 (VII): 106 1449b 20: 146 1449b 24: 42, 66, 69, 137, 148 1449b 27-28: 42 1449b 29-30: 45, 137 1449b 32-1450b 20: 137 1449b 32: 43 1449b 33: 48 1449b 34: 44 1449b 37: 66, 137, 148 1450a 8-12 (VI): 43 1450a 10: 44 1450a 11: 47 1450a 11ss.: 137 1450a 14: 47-48, 53, 137 1450a 15 ss.: 66, 137, 148 1450a 16: 55 1450a 21: 66, 137 1450a 23-26: 148 1450a 24-25: 65 1450a 24: 42, 66, 137 1450b 13 ss.: 78 1450b 18: 47, 137 1450b 19-20: 48, 137 1450b 20: 43, 49, 53-54, 137, 142 1452a 3: 42, 147 1452a 24: 71, 137 1452a 31: 71, 137 1452a 34: 68 1452b (XII): 58, 73 1452b 9-10: 71, 137 1452b 10: 147 1452b 11: 43 1452b 14-18: 105, 137 1452b 15-17: 57 1452b 16: 57, 78, 137 1452b 17 ss.: 63 1452b 17-18: 57, 73 1452b 18: 57, 60, 76, 137 1452b 19-22: 58 1452b 19-21: 150 1452b 19: 42 1452b 21-22: 83, 132 1452b 22 ss.: 57 1452b 22: 82 1452b 23: 57, 80, 138, 148 1452b 24: 88, 105, 148 1452b 25: 60, 137 1452b 32-33: 42
INDICE DEI NOMI, DELLE OPERE E DELLE SCUOLE DI PENSIERO ANTERIORI
– 1453a: 94 – 1453a 12 (XIII): 43 – 1453a 15: 147 – 1453a 21 (XIII): 43 – 1453b: 47, 137 – 1453b 1: 42 – 1453b 3-6: 48, 137 – 1453b 7-8: 52, 137 – 1453b 12: 45 – 1453b 19, 20: 43 – 1454a 13: 43 – 1454a 17 ss.: 69 – 1454b 2: 71 – 1454b 9: 69 – 1454b 15: 49, 137 – 1455a 23: 56-57 – 1455a 30: 57 – 1455b 24 ss.: 137 – 1455b 24: 70 – 1455b 26-28: 71, 137 – 1455b 33: 43 – 1456a 12-32 (XVII): 90 – 1456a 17: 94 – 1456a 26 ss. (XVIII): 50, 67 – 1456a 26: 54 – 1456b 1: 43 – 1461b 30: 55, 137 – 1462a 8 ss.: 97 – 1462a 8: 55, 137 – 1462a 11: 55, 137 – 1462a 15-16: 55 – 1462a 16: 49, 137 – 1462a 17-18: 48, 137 – 1462b 23-26: 55 Politica 1287b 3: 43 – 1290a 20 (IV): 92-93 – 1323a-1337a (VII): 128 – 1339a 11-1342b 34 (VIII): 92 – 1340a (VIII, 7): 146 – 1340a 18-22: 55 – 1340b 1-2 (VIII): 92 – 1340b 5 (VIII): 93 – 1341a 21-24 (VIII, 6): 145 – 1341b 32-1342a 18 (VIII, 7): 145 – 1341b 32 ss. (VIII): 42 – 1341b 39-40 (VIII, 7): 146 – 1342a 7 ss. (VIII): 42 – 1342a 33-1342b 3 (VIII): 93 – 1342b 12 (VIII): 92 Rhetorica: 143
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– 1356a 23: 66, 138 – 1371b 35: 66, 137 – 1403b-1420a (III): 41 – 1403b 31: 45 – 1404a 26 (III): 48 – 1405b 38: 48 – 1406b 9: 48 – 1406b 15: 48 – 1408b 20: 48 – 1408b 36: 64 – 1409a 35: 78 – 1414b 31: 48 – 1416a 1: 48 – 1418a 12: 43 – 1418a 35: 48 – 1419b 4: 48 Commentari al corpus aristotelico: 6 Aristotele (Pseudo), Problemata: 139, 152, 167 – XIX: 90 – XIX, 6, 918a 10-11: 100 – XIX, 14, 918b 7-10: 113 – XIX, 15, 918b 26-27: 60, 138 – XIX, 15, 918b 27: 76 – XIX, 30, 920a 8-9: 94, 138 – XIX, 48: 77, 92-93, 138 – XIX, 48, 922b 14-15: 95 – XIX, 48, 922b 17: 62, 76 – XIX, 48, 922b 19-20: 93 – XIX, 48, 922b 26: 67 Atene: 96, 119, 158, 172 Ateneo di Naucrati, Deipnosophistae: 107, 111, 139 – I, 20e: 106 – I, 21d 9-e 9: 108 – I, 22a 5 ss.: 108 – XIV: 107-108 – XIV, 620d: 107 – XIV, 624c: 92 – XIV, 624c-d: 93 – XIV, 625b: 92-93 – XIV, 629b 3 ss.: 109 – XIV, 630a: 107 – XIV, 630c-e: 86, 106 – XIV, 630e-631d: 107 – XIV, 631d: 86 – XIV, 633a: 52 – XIV, 636b: 100 Attica: 53 Bacchio, Isagoge (Jan): 127
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INDICI
– 1, p. 292, 1-2: 44 – 46 ss., p. 303: 92 – 46, p. 303, 3: 92 – 47, p. 303, 10: 128 – 48, p. 304, 2: 89 – 50, p. 304, 6-9: 99 – 53, p. 304, 16: 92 – 93, p. 313, 1-2: 45 Basilio Magno: 170 Bibbia – lessico di termini biblici: 19 Boezio: 130 Bogomili: 17 Callimaco: 145 Cepione, discepolo di Terpandro: 114 Charsianite: 164-165 Christos paschon (Χριστὸς πάσχων): 122 Cinesia, compositore: 91 Cirillo Alessandrino: 18 Clemente Alessandrino, Stromateis I, 4: 161 Cleonide, Isagoge (Jan): 127, 139 – 1: 98-99 – 4, p. 184, 11: 89 – 6, p. 189, 15: 89 – 8, p. 193: 113 – 12, p. 203, 4-5: 92 – 12, p. 203, 11: 92 – 13, p. 205, 7: 92 Clitemnestra: 103 Comneni (famiglia): 154, 161, 167 Coricio di Gaza, Apologia mimorum XIV, 19-20: 121 Cortasmeno, Giovanni: 6 Costantino Monomaco: 143 Costantinopoli (Bisanzio): 13, 17, 19, 2223, 119, 123, 127, 153-157, 159-163, 165, 167, 171 – Monastero di Chora. Biblioteca: 6, 164 Cratete, accademico: 149 Cratete, grammatico: 149-150 Creusa, figlia di Eretteo: 103 Crisippo, stoico: 166 Cumno, Niceforo: 159 Damone, musico: 90, 93, 149 – fr. 8: 92 De comoedia opusculum (Kaibel) p. 14, 45: 66 – p. 14, 49: 65 Demetrio Falereo: 53 De Elocutione 28: 66, 138
Demostene: 157 Or. 18, 180: 76 Diodoro Siculo: 163 Bibliotheca historica IV, 5: 121 Diogene Laerzio, De vitis philosophorum VII, 60: 101 VIII, 3: 67 Diomede, grammatico: 147 Ars grammatica III, 8, 1 p. 57 Kaibel: 65 Dionigi di Alicarnasso: 94, 133, 149-150 De compositione verborum 11: 45, 101, 138 – 19: 99 – 22: 66, 138 De Demosthene V, 50: 86 – V, 50, 8: 78, 98 Epistula ad Pompeium Geminum 3: 66, 138 Dionigi il Giovane, Περὶ μουσικῆς: 149 Dionisio Trace: 121 Schol.: 146-147, 149, 151 Commentarius Melampodis 746b, p. 17, 19 ss. Hilgard: 146 – 746b, p. 17, 20-21 Hilgard; p. 11, 31-32 Kaibel: 69, 140 – 746b, p. 17, 28-31 Hilgard; p. 12, 40-42 Kaibel: 69, 140 – 746b, p. 18, 8-9 Hilgard; p. 11, 11-12 Kaibel: 50-51, 140 Scholia Londinensia 314c 14-315c 1, pp. 451-452 Hilgard: 59 – 314c, 30, p. 452, 7 Hilgard: 81 Dioniso, divinità: 113 Donato, grammatico: 147 Efestione (Haeph.), Enchiridion de metris (Manuale; Consbruch): 97, 105, 153 – p. 38, 9: 99 – p. 65, 13: 78, 138 – p. 75, 16: 83 – p. 82, 2: 138 – p. 120, 1: 138 Schol. p. 168, 19 ss.: 78 – p. 168, 19: 138 – p. 169, 3: 98, 138 – p. 173, 19: 83, 103, 138-139, 151 Egitto: 121 Elena di Troia: 82 Eliano, Claudio (Ael.), Varia historia 4, 3: 66, 138
INDICE DEI NOMI, DELLE OPERE E DELLE SCUOLE DI PENSIERO ANTERIORI
Elio Aristide, Or. 46, p. 161 Dindorf: 51 Elio Dionisio, musico, Μουσικὴ ἱστορία: 149 Emanuele Crisolora: 15 Epicarmo, comico: 67, 99 Epicurei: 55 Eraclide Pontico: 92-93 Ermete Trimegisto: 135 Erodoto, Historiae VI, 129: 106 Eschilo (Aesch.): 52-53, 75, 82, 95, 108, 114 Agamemno: 81 – 533: 43 Coephorae 34: 100, 142 – 1448-1577: 103 Eumenides: 72, 106 – 332: 115 Persae: 81-82 – 155-175: 99 – 215-248: 99 – 703-758: 99 – 907-930: 103 Prometheus 115: 96 Septem ad Thebas: 72, 82 Supplices: 72, 81 Esichio (Hsch.), lessicografo, Lexicon: 52, 64, 100, 106-107, 112 s.v. ἐξώστρα: 71 s.v. ἐπιδέξιος: 96 s.v. λύρα: 114 s.v. λογεῖον: 77 s.v. ξιφίζω: 108 s.v. ὀρχηστικόν: 108 s.v. χείρ: 107 Etymologicum Magnum (Gaisford): 107, 146 s.v. κορωνίς: 105 s.v. τραγικὴ σκηνή: 74 s.v. τραγῳδία (764, 1): 50, 69 – Glos. 1: 138 – Glos. 4-5: 138 Euclide, filosofo megarese: 149 Euclide, matematico: 149 Sectio canonis, pp. 115-166 Jan: 149 Euclide, musico (?): 3, 58-60, 62-63, 71-73, 80, 83-86, 136, 142, 149-152 Euripide: 37, 39, 46, 56, 72-73, 75, 77, 79, 81, 91, 94-96, 102, 114, 139-140, 142 Alcestis: 72, 82 – 77-135: 82
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– 897 – Schol.: 72 Andromache: 82 Bacchae: 82 – 120-134: 113 – 151-167: 113 – 378-381: 113 Electra 1292-1341: 103 Hecuba: 82 Helena: 72, 82 Hercules furens: 82, 114 Hippolytus: 82 – 170-266: 103 – 1282-1295: 103 Ion: 82 – 859-922: 103 Iphigenia in Aulide: 82 – 784-792: 88 – 1276-1282: 103 – 1499-1509: 88 Iphigenia in Tauris 143-235: 103 Medea: 82 – 96-203: 103 Orestes: 72, 93 – 140-207: 88 – 338-344: 88 Phoenissae 202 – Schol.: 83 Rhesus 125: 72 Troades: 72 – 98-121: 103 Eustazio di Tessalonica: 153-154 Ad Iliadem V, 487 s., Van der Valk II, 132, 5: 114 XI, 548, Van der Valk III, 251, 9: 153 XVIII, 606, Van der Valk IV, 272, 12-13: 87 XVIII, 606, Van der Valk IV, 272, 14: 107 Ad Odysseam XXI, 391, Stallbaum II, 264, 37: 114 Eustrazio di Nicea: 153 commentari aristotelici: 159 Evanzio, commentatore di Terenzio: 147 Excerpta Neapolitana, pp. 412-413 Jan: 46, 137 Ferecrate comico, Chiron 1: 91 Filocoro di Atene, fr. 23 Jacoby: 89 Filosseno di Citera: 91 Fozio (Phot.): 155 Bibliotheca, cod. 239: 3, 6, 41, 51, 86, 93, 132, 139
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INDICI
Lexicum: 123 Fragmenta Parisina (Paris, BnF, Grec 3027): 46, 137 Frinide, compositore: 91 Frinico commediografo: 99, 140 Frinico l’Antico, tragico: 37, 99 Furie: 115 Galeno: 97 Gaudenzio, musicografo: 127 Gaza: 121 Germano II, patriarca: 17-18, 167 Giamblico: 135, 166 Giorgio Acropolite, Historia (Χρονικὴ Συγγραφή; Heisenberg): 11, 19, 22-24, 158, 161-165, 168-171 – pp. 49-50: 169 – p. 49, 10-21: 22 – p. 91, 2-5: 24 – p. 91, 3: 11, 23 – p. 155, 7: 23 – p. 155, 9: 23 – p. 165, 6: 23 Giorgio Lacapeno, Epistula 7: 119 Giorgio Muzalone: 162 Giorgio Pachimere, commentari alla Fisica (ps. Psello): 143, 162 commentari alla Metafisica: 162 De musica, pp. 110-111 Tannery: 89 Epitome: 159, 162 Syntagma: 162 Giovanni Comneno: 13 Giovanni Crisostomo: 170 Giovanni Damasceno: 121 Giovanni III Vatatze: 11, 23-24, 158, 169 Giovanni Macroto: 24 Giovanni Malala: 119 Giovanni Pediasimo: 130 Giuseppe Mesopotamite: 11, 24 Gorgia, retore: 48 Gregorio di Cipro (Giorgio): 158 Autobiographia, p. 185, 13 (Lameere): 161 – p. 185, 19-20: 165 – p. 185, 27-30: 161 De dialectis: 20 Gregorio Nazianzeno: 122, 170 Gregorio Nisseno: 170 Gronovius, Jacobus: 87 Guglielmo di Moerbeke: 144 Ignazio Diacono, Drama de primi parentis lapsu (Versi di Adamo): 122-123
Inni Delfici: 91 Ionia: 93 Ippocleide, nobile ateniese: 106 Ippocrate (Hipp.): 97 Isidoro, Etymologiae 11, 21, 26: 105 Kophos. Monastero del San Salvatore: 158 Lascaridi (famiglia): 21, 157, 161-162 Lascaris, Giovanni: 12 Laso di Ermione: 45, 92 Leone Choirosfaktes: 123 Lesbo: 114 Libanio, Pro Saltatoribus: 110 Lione: 161 Lisandro di Sicione: 89 Longino, Prolegomena ad Hephaestionis Enchiridion 9, 15: 66, 138 Luciano: 48 De Saltatione 26: 106 Necyomantia 16: 76, 136 Macedonia: 169 Manasse, Costantino, Compendium chronicum: 17-18 Manfredi di Svevia, re di Sicilia: 23 Manuele Briennio: 128, 130 Mario Vittorino, Ars grammatica I, p. 55, 1 ss. Keil: 78 Melanippide, compositore: 91 Melezio, monaco medico: 16, 20 Menandro, storico: 121 Meurs, Johannes van (Giovanni Meursius): 87, 107 Michele Blemmide: 130 Michele Coniate: 18-19 Michele d’Efeso: 128, 153 commentari aristotelici: 159 Michele Doukas: 127 Michele Italico: 18 Michele VIII Paleologo, imperatore: 12, 23-24, 158 Moscopulo, Manuele: 7, 160 Musonio, filosofo: 87 neoplatonismo: 145, 155, 158 Neottolemo, epico: 103 Nicea: 12, 14, 17-24, 144, 156-162, 167, 169-171 Scuola Imperiale di San Trifon: 162 Niceforo Basilace: 13, 18 Niceforo Blemmide: 11, 18-20, 22-23, 158-159, 161, 167, 169 Curriculum vitae: 18, 158
INDICE DEI NOMI, DELLE OPERE E DELLE SCUOLE DI PENSIERO ANTERIORI
Epitome physica: 167 Niceforo Gregora: 163 Niceta Coniate, Historia: 161 Nicola Damasceno, Susanna: 122 Nicola di Metone: 154, 166-167 Nicomaco di Gerasa: 127, 139 Harmonicum enchiridium 12, p. 264 Jan: 89 Olimpo: 89 Olobolo, Manuele Massimo: 13, 19, 158, 161-162, 165, 167 Encomium in Michaelem Palaeologum II: 18-20 Omero, Iliade I 5 – Schol. BT Erbse I, p. 10: 150 Orazio: 48 Ars Poetica: 145 – 102-215: 113 – 185-188: 71 – 191-192: 69 – 193-195: 91 Pachimere, Giorgio: 128, 130, 158, 162, 171 Paleologi (dinastia): 125, 157-158, 161, 164, 167 peripatetici: 152 Persiani: 93 Pindaro, Olympica VII, 12: 95 Pythica XII, 19: 95 adespota 29b (PMG 947): 95 Pitagora: 90, 93, 130, 135, 149 Planude, Massimo: 13, 15, 159, 164 Platina di Fliunte, fr. 1, 19 Del Grande: 92 Platone: 48, 50, 52, 90, 93, 126, 128, 135, 145, 152, 155, 158, 161, 166 Gorgias 502c: 45, 139 Laches 188d: 92 Leges: 139 – 654: 101 – 654b3: 87 – 655d: 56 – 656c: 45 – 656d-e: 45 – 670b: 92 – 672e-673a: 111 – 812d-e: 113 – 814: 107 – 814d ss.: 46 – 816a-b: 106 – 816b: 87
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– 817b-d (VII): 119 – 876d: 43 – 887d (X): 47 Philebus 50b: 119 – 56a: 46, 139 Respublica: 139 – 376e: 45 – 377d-383c: 69 – 386-392: 69 – 386 ss.: 69 – 397b: 45 – 398c-399c: 92 – 398c: 93 – 398d: 44-45 – 398d-e: 92 – 398e: 93 – 399a: 92 – 399c-d (III): 95, 142 – 595a-621d (X): 47 – 600e-601c: 45 – 601a: 45 – 603d-607c: 69 – 607d: 45 — vedi anche: neoplatonismo Plotino: 126, 135, 166 Enneades III 2, 17: 52 Plutarco: 110, 128, 145 An seni 793a: 92 De audiendo 41d: 86 De philosophorum placitis II: 21 Galba 16: 76, 139 Quaestiones Conviviales 645e (III, 1, 1): 91 – 732f: 108 – 747b-c (XV): 108 – 747b: 110 Plutarco (Pseudo), De musica (Lasserre): 139, 152, 167 – 6, 1133, p. 113, 30-114, 7: 114, 139 – 11, 1134, p. 115, 36-116, 19: 89 – 14, 1136, p. 117, 30: 44 – 16-17, 1136-1137, p. 118, 7-33: 92 – 16, 1136, p. 118, 7 ss.: 92 – 17, 1137, p. 118, 31-33: 93, 139 – 18, 1137, p. 119, 1: 95, 139, 142 – 20, 1137, p. 119, 25-26: 91 – 28, 1140-1141, p. 124, 2: 100 – 28, 1140, p. 123, 32-35: 92 – 30, 1141-1142a, pp. 124, 23 ss.: 91 – 35, 1144, p. 128, 23-24: 46, 139 Policleto, scultore: 51
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INDICI
Polluce, grammatico, Onomasticon: 52, 58, 64, 73, 83, 86-87, 109-110, 151, 167 – IV, 53: 58, 80, 139 – IV, 80: 112 – IV, 99: 106-107 – IV, 105: 107, 110 – IV, 108: 72, 83, 132, 139 – IV, 108, 17-18: 50 – IV, 115: 54 – IV, 123: 62, 139 – IV, 127: 103, 139 – IV, 128-129: 71, 139 – IV, 129: 71 – IV, 130-131: 68, 139 – IV, 201: 66, 139 – VII, 189: 53, 139 Porfirio: 135, 166 – In Ptolemaei Harmonica, pp. 137138 (Düring): 89 Proclo, filosofo, Chrestomathia (Χρηστομαθεία γραμματική): 3, 8, 41, 51, 85-86, 93, 126, 132, 135, 139, 147, 149, 151-152, 158, 166 – 20-21: 94 – 43: 51 Procopio di Gaza: 18 Psello, Michele: 8, 18-19, 21, 91, 124129, 131, 134-136, 151-152, 154-155, 158, 161-162, 166, 171 De daemonibus (Weinstock): 155 De Euripide et Georgio Pisida: 8, 71 – 40-43: 67 De interpretatione: 143 De musica (Τῆς μουσικῆς σύνοψις ἠκριβωμένη): 127 De omnifaria doctrina: 8, 167 Epistula ad Caesarem (4 Ruelle): 127 Oratio in sanctum Symeonem Metaphrasten: 134 Περὶ μουσικῆς 5 Ruelle: 127, 129 Προλαμβανόμενα εἰς τὴν ῥυθμικὴν ἐπιστήμην: 46, 128 – p. 19, 3: 137 Theologica: 126 Psello, Michele (Pseudo), Quaenam sint Graecorum opiniones de daemonibus: 136 Psello, Michele (Pseudo), In quattuor mathematicae disciplinas (Σύνταγμα
εὐσύνοπτον εἰς τὰς τέσσαρας μαθηματικὰς ἐπιστήμας): 127, 167 Quintiliano, Institutiones, IX, 4, 56: 101 Roma: 77, 120 Saffo: 92 Satiri: 64 Scaligero, Giulio Cesare: 87 Senofonte, Symposium VI, 3: 100, 140, 142 Sesto Empirico: 114 Adversus musicos 13: 140 – 38: 101 Sicilia: 23 Simeone Metafraste: 18 Simmia, poeta: 166 Siria: 121 Sofocle: 37, 39, 52, 54, 75, 82, 94, 123, 132,142, 160 Aiax: 43, 72, 81, 106, 114 Antigone: 82 Oedipus Tyrannus: 82 Περὶ χοροῦ: 107 Philoctetes: 82 – 144-200: 103, 105 – 1402-1408: 99 Thamyris: 39, 114, 142 Thrachiniae: 82, 103, 114 — vedi anche: Vita Sophoclis Sosandra, Monastero: 158 Soterico, poeta: 46 Sozomeno, Historia ecclesiastica, V, 18: 122 Stefano Sabbaita, Morte di Cristo: 122 Stesicoro, fr. 25 Page: 112 stoicismo: 148 Suida: 64, 66, 87, 107 s.v. ἐμμέλεια: 112, 140 s.v. κιθάρα: 114 s.v. Σοφοκλῆς: 107 Svetonio: 147 Temistio: 146 Teocrito – Schol.: 121 Teodoro I: 158 Teodoro II Lascaris, imperatore: 19, 23-24, 159, 162, 169-170 Encomium in Georgium Acropolitam: 169 Epistulae: 169 Epitome fisica: 161 Epitome logica: 161
INDICE DEI NOMI, DELLE OPERE E DELLE SCUOLE DI PENSIERO ANTERIORI
Teodoro Metochite: 125, 159 Teodoro Prodromo: 18, 128, 159 Katomyomachia: 122 Teodoro Scutariote: 158, 162 Χρονική: 23 Teofilatto Simocatta: 18 Teofrasto: 3, 65, 69, 145-147, 152 Teone di Smirne: 127 Terpandro, musicista: 114 Terra d’Otranto: 159 Tespi: 76 Tessalonica: 163 Timoteo, tragico: 91 Tolomeo: 127 Harmonica XII, p. 29 Düring: 89 Tetrabiblos II: 168 Tornicio, Demetrio: 11, 23, 170 Tracia: 169 Tractatus Coislinianus (Paris, BnF, Coislin 120; Kaibel): 3, 147-148, 150 – 2-3: 42, 140 – 2: 66 – 3: 66 – 4: 66 – 7-8: 140 – 7: 48, 66 – 8: 48 – 9: 57, 83, 132, 140 Trichas, grammatico: 153 De novem metris 8 (Consbruch): 99, 140 Triclinio, Demetrio – edizioni: 160 Tzetze, Giovanni (Kaibel): 3, 20-21, 58, 62, 73, 78-81, 83, 85, 87, 124, 131, 133-136, 147, 149-154 Ἴαμβοι τεχνικοὶ περὶ κωμῳδίας: 2 – 11 ss.: 57, 141 – 16-17: 60 – 21: 49 – 22: 76 – 38: 50, 141 – 45: 98 – 66: 43 In Aristophanem bis bina Proemia: 2 Περὶ κωμῳδίας (Ma; Βίβλος Ἀριστοφάνους Τζήτζην φορέουσ᾽ὑποφήτην): 2, 66 – 125: 57 – 141: 76 – 149-150: 50, 141 – 154: 98, 141
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Περὶ κωμῳδίας (Mb): 147 – 75: 65 Περὶ κωμῳδίας (Pa): 147 – 7-8: 66 Περὶ κωμῳδίας (Pb): 147 – 51: 66 – 64: 65 – 68: 149 – 69: 57, 141 – 75: 76 – 78: 86, 141 – 111: 72 – 114: 72, 141 Περὶ τραγικῆς ποιήσεως: 2, 129, 141142, 148-149 – 7: 43 – 9 ss.: 57, 59, 62-63, 73, 141 – 9-86: 60 – 9: 63 – 10: 63 – 11-14: 73 – 15-18 e ss.: 78 – 15-18: 141 – 18: 79 – 19-20: 78, 141 – 20: 60 – 21-25: 58, 148 – 24-25: 83-84, 132 – 24: 60 – 28-29: 59 – 28: 63, 80, 141 – 29-31: 84 – 29-30: 141 – 30: 83 – 31: 60, 141 – 37: 66 – 38-39: 83 – 38: 148 – 39-41: 59, 83, 142 – 42: 83 – 43 ss.: 72 – 43-45: 59 – 43: 142 – 51-52: 57, 80, 148 – 53-56: 59 – 59-60: 84, 141 – 60-61: 59 – 60: 86 – 64 ss.: 141 – 64-70: 88
220 – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –
INDICI
68-69: 148 69: 61 71-72: 59 72: 60, 84, 141 74: 84, 86, 142 75 ss.: 58, 62, 141 76-78: 73 76: 63 79-80 e ss.: 78 79-81: 84 79-80: 141 81: 60 83-86: 59 83-85: 84 83-84: 83 85: 60, 141 86: 63, 80, 141 94 ss.: 149 94-121: 58, 142 95: 71 98: 63 107: 83 109-110: 72 109: 142 111-113: 80 114-115: 85 114: 84, 142 119-120: 62-63 119: 63 122-129: 59 124: 63 129: 63 148: 149 155 ss.: 151
– 155-182: 59, 141 – 159-160: 62 – 160: 63 – 162-165: 59 – 162: 63 – 166-172: 84 – 166-170: 78, 141 – 169: 60 – 170: 141 – 174: 63 – 175-176: 59 – 175: 63, 80, 141 – 176-177: 83 – 185: 66-67, 141 – 186: 69, 141 Prolegomena ad Lycophronem 7-8: 66 Στίχοι περὶ διαφορᾶς ποιητῶν: 2 – 10-11: 65 – 23: 146 – 24: 65 – 61: 66 – 72: 65 – 98-99: 51 – 112: 66 Tzetze, Isacco, De metris Pindaricis, p. 17, 11 Drachmann: 98, 140 Varrone: 147 Vatatze (famiglia): 14 Vita Sophoclis, 23: 94 Vitruvio, De architectura V, 4, 3: 89 – V, 6, 2: 76 – V, 7, 2: 77 – VII, pref.: 75
INDICE DELLE FONTI MANOSCRITTE
CITTÀ DEL VATICANO, Biblioteca Apostolica vaticana Reg. gr. 31: 19 Vat. gr. 106: 11-13, 15, 20, 25 Vat. gr. 130: 163-165 Vat. gr. 184: 15 Vat. gr. 191: 15, 17, 22 Vat. gr. 203: 15 Vat. gr. 242: 159 Vat. gr. 244: 159 Vat. gr. 248: 159 Vat. gr. 261: 159 Vat. gr. 269: 159 Vat. gr. 309: 13 Vat. gr. 499: 159 Vat. gr. 506: 159 FIRENZE, Biblioteca Medicea Laurenziana 32, 16: 164 74, 10: 165 85, 1: 6, 162 87, 5: 162 Conventi Soppressi 627: 12-13, 22 LEUVEN, De Wulf-Mansion Centrum manoscritto greco: 6 LONDON, British Library Add. 36749: 123 MILANO, Biblioteca Ambrosiana M 46 sup.: 159
OSLO, Universitetet i Oslo P. Osl. inv. no. 1413 (papiro musicale di Oslo): 102 OXFORD, Bodleian Library Barocci 131: passim – mano A: 13, 15-17, 19-21, 25 – mano B – vedi: Alyate, Niceforo (Indice II) – mano C: 11, 15-17, 20 – mano D: 15-17, 20-21 – mano E: 16-17, 21-22 – mano F: 16-17, 21 – mano G: 13, 15-17, 21, 25 – mano H: 17 PARIS, Bibliothèque Nationale de France Coislin 120 – vedi: Tractatus Coislinianus (Indice I) Grec 1173 – vedi: Anonymus Parisinus (Indice I) Grec 1917 (Corpus logicum): 162 Grec 2720: 71 Grec 3027 – vedi: Fragmenta Parisina (Indice II) PATMOS, Μονή του αγίου Ιωάννου του Θεολόγου Αρχείον: 12
BIBLIOTHÈQUE DE BYZANTION 1. N.A. BRODSKY, L’iconographie oubliée de l’Arc Éphésien de Sainte-Marie Majeure à Rome. 2. M. SACOPOULO, Asinou en 1106 et sa contribution à l’iconographie. 3. P. KARLIN-HAYTER, Vita Euthymii patriarchae CP. Text, Translation, Introduction and Commentary. 4. J. LAFONTAINE-DOSOGNE, Itinéraires archéologiques dans la région d’Antioche. Recherches sur le monastère et sur l’iconographie de S. Syméon Stylite le Jeune. 5. M. CANARD, H. BERBÉRIAN, Aristakès de Lastivert. Récit des malheurs de la nation arménienne. Traduction française avec introduction et commentaire. 6. L. HARDERMANN-MISGUICH, Kurbinovo. Les fresques de Saint-Georges et la peinture byzantine du XIIe siècle. 7. I. SHAHÎD, Byzantium and the Arabs. Late Antiquity I. 8. I. SHAHÎD, Byzantium and the Arabs. Late Antiquity II. 9. I. SHAHÎD, Byzantium and the Arabs. Late Antiquity III. 10. J. MOSSAY, Gregoriana. 11. S. LAVENNE, Histamenon et tetarteron. La politique monétaire des empereurs macédoniens entre Nicéphore II (963-969) et Michel IV (1034-1041). 12. A. BINGGELI, A. BOUD’HORS, M. CASSIN (eds.), Manuscripta Graeca et Orientalia. Mélanges monastiques et patristiques en l’honneur de Paul Géhin. 13. E. AMATO, A. CORCELLA, D. LAURITZEN (eds.), L’École de Gaza: espace littéraire et identité culturelle dans l’Antiquité tardive. 14. V. SOMERS, P. YANNOPOULOS (eds.), Philokappadox. In memoriam Justin Mossay. 15. D. KNIPP, The Mosaics of the Norman Stanza in Palermo. A Study of Byzantine and Medieval Islamic Palace Decoration. 16. K. LEVRIE, Jean Pédiasimos, Essai sur les douze travaux d’Héraclès. Édition critique, traduction et introduction. 17. M. PIASENTIN, F. PONTANI, Cristoforo Kondoleon, Scritti Omerici. 18. A. HILKENS, The Anonymous Syriac Chronicle of 1234 and its Sources. 19. L. SELS, J. FUCHSBAUER, V. TOMELLERI, I. DE VOS (eds.), Editing Mediaeval Texts from a Different Angle: Slavonic and Multilingual Traditions. 20. J. LEEMANS, G. ROSKAM, J. SEGERS (eds.), John Chrysostom and Severian of Gabala: Homilists, Exegetes and Theologians. 21. E. DESPOTAKIS, John Plousiadenos (1423?-1500). A Time-Space Geography of his Life and Career. 22. A. BUCOSSI, A. CALIA (eds.), Contra Latinos et Adversus Graecos. The Separation between Rome and Constantinople from the Ninth to the Fifteenth Century. 23. M. CONTERNO, M. MAZZOLA (eds.), Intercultural Exchange in Late Antique Historiography. 24. D. OLTEAN, Devenir moine à Byzance. Coutumes sociales, règles monastiques et rituels liturgiques. 25. M.L. AGATI, Il De tragoedia “barocciano”. Una rivisitazione cinquant’anni dopo.
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