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Italian, Hebrew Pages 320/322 [322] Year 2020
STEFANO MAZZONI, dei frati Servi di Maria, è docente di Antico Testamento presso la Pontificia Facoltà Teologica Marianum. Ha conseguito il Dottorato in Teologia Biblica alla Pontificia Università Gregoriana, difendendo la tesi L'amore fedele di Dio si fa storia. Studio esegetico-teologico del Sal l 36 (Cittadella Editrice 20 l l). Per le Edizioni San Paolo ha collaborato alla preparazione dei volumi Salmi (20 15), Isaia (20 16), Giobbe (20 17) e Proverbi (20 18) della collana Bibbia Ebraica lnterlineare.
Copertina: Progetto grafico di Angelo Zenzalari
NUOVA VERSIONE DELLA BIBBIA DAl TESTI ANTICHI
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Presentazione '\l 0\ \ \TilC:IO\;l: DFI.L.\ llllllll.\ Il\ l lESTI \\TIUil
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a Nuova versione della Bibbia dai testi antichi si pone sulla scia di una Serie inaugurata dall'editore a rnar.. __ j gine dei lavori conciliari (la Nuovissima versione della Bibbia dai testi originali), il cui primo volume fu pubblicato nel 196 7. La nuova Serie ne riprende, almeno in parte, gli obiettivi, arricchendoli alla luce della ricerca e della sensibilità contemporanee.
J volumi vogliono offrire anzitutto la possibilità di leggere le Scritture in una versione italiana che assicuri la fedeltà alla lingua originale, senza tuttavia rinunciare a una buona qualità letteraria. La compresenza di questi due aspetti dovrebbe da un lato rendere conto dell'andamento del testo e, dall'altro, soddisfare le esigenze del lettore contemporaneo. L'aspetto più innovativo, che balza subito agli occhi, è la scelta di pubblicare non solo la versione italiana, ma anche il testo ebraico, aramaico o greco a fronte. Tale scelta cerca di venire incontro aU:interesse, sempre più diffuso e ampio, per una conoscenza approfondita delle Scritture che comporta, necessariamente, anche la possibilità di accostarsi più direttamente ad esse. Il commento al testo si svolge su due livelli. Un primo livello., dedicato alle note filologico-testuali -lessicografiche, offre informazioni e spiegazioni che riguardano le varianti presenti nei diversi manoscritti antichi, l'uso e il significato dei termini, i casi in cui sono possibili diverse traduzioni, le ragioni che spingono a preferirne una e altre questioni analoghe. Un secondo livello, dedicato al commento esegeticoteologico, presenta le unità letterarie nella loro artieolazione, evidenziandone gli aspetti teologici e mettendo in rilievo, là dove pare opportuno, il nesso tra Antico e Nuovo Testamento, rispettandone lo statuto dialogico. Particolare cura è dedicata all'introduzione dei singoli libri, dove vengono illustrati l'importanza e la posizione dell'opera
PRESENTAZIONE
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nel canone, la struttura e gli aspetti letterari, le linee teologiche fondamentali, le questioni inerenti alla composizione e, infine, la storia della sua trasmissione. Un approfondimento, posto in appendice, affronta la presenza del libro biblico nel ciclo dell'anno liturgico e nella vita del popolo di Dio; ciò permette di comprendere il testo non solo nella sua collocazione "originaria", ma anche nella dinamica interpretativa costituita dalla prassi ecclesiale, di cui la celebrazione liturgica costituisce l'ambito privilegiato.
I direttori della Serie Massimo Grilli Giacomo Perego Filippo Serafini
Annotazioni di carattere tecnico \l. 0\\ \ lllSIU\F
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Il testo in lingua antica Il testo ebraico stampato in questo volume è quello della
Biblia Hebraica Stuttgartensia (BHS) quinta edizione. Le correzioni alla lettura di alcuni termini, indicate dai Masoreti (qerè l ketib), sono segnalate da parentesi quadre, con il seguente ordine: nel testo compare la fonna "mista" che si trova nel manoscritto, nelle parentesi si ha prima la forma presupposta dalle consonanti scritte (ketìb) e poi quella suggerita per la lettura dai masoreti (qerè).
La traduzione italiana Quando l'autore ha ritenuto di doversi discostare in modo significativo dal testo stampato a fronte, sono stati adottati i seguenti accorgimenti: - i segni • ' indicano che si adotta m1a lezione differente da quella riportata in ebraico, ma presente in altri manoscritti o versioni, o comunque ritenuta probabile; le parentesi tonde indicano l'aggiunta di vocaboli che appaiono necessari in italiano per esplicitare il senso della frase ebraica. Per i nomi propri si è cen~at:o di avere una resa che non si allontanasse troppo dall'originale ebraico o greco, tenendo però conto dei casi in cui un certo uso italiano può considerarsi diffuso e abbastanza affennato.
I testi paralleli Se presenti, vengono indicati nelle note i paralleli al passo cmrunentato con il simbolo Il; i passi che invece hanno vicinanza di contenuto o di tema, ma non sono classificabili come veri e propri paralleli, sono indicati come testi affini, con il simbolo •:•.
La traslitterazione La traslitterazione dei tennini ebraici e greci è stata fatta con criteri adottati in ambito accademico e quindi non con riferi-
ANNOTAZIONI
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mento alla pronuncia del vocabolo, ma all'equivalenza formale fra caratteri ebraici o greci e caratteri latini.
L'approfondimento liturgico Redatto sempre da Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli, rimanda ai testi biblici come proposti nei Lezionari italiani, quindi nella versione CEI del2008.
GIOBBE Introduzione, traduzione e commento
a cura di Stefano Mazzoni
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SAN PAOLO
Per il testo ebraico: Biblia Hebraica Stuttgartensia, edited by Karl Elliger and Wilhelm Rudolph, Fifth Revised Edition, edited by Adrian Schenker, © 1977 and 1997 Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart. Used by permission.
© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2020 Piazza Soncino, 5- 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
ISBN 978-88-922-2133-8
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TITOLO E POSIZIONE NEL CANONE
Il libro di Giobbe prende il titolo dal nome del protagonista della vicenda narrata: 'Jyyob in ebraico, Job nella versione greca dei Settanta, Liber !oh secondo la Vulgata (negli scritti di alcuni padri della Chiesa è usata però anche la forma Hiob ). La sua presenza nel canone non è mai stata messa in questione, sebbene si riscontrino delle differenze riguardo alla posizione. Nel canone ebraico, Giobbe fa parte del gruppo dei k'titbfm; la tradizione ebraica non ha mai stabilito in modo definitivo un ordine unico per i libri di questo gruppo, per cui troviamo diversi elenchi. Nel codice di Leningrado (L) esso è collocato al secondo posto tra i Salmi e il libro dei Proverbi; il Talmud babilonese pone invece al primo posto il libro di Rut, davanti a Salmi e Giobbe; la maggior parte delle moderne edizioni in stampa segue la sequenza Salmi, Giobbe, Proverbi, ma è attestata anche la serie Giobbe, Proverbi, Salmi. Nella versione dei Settanta, il libro di Giobbe appartiene al gruppo dei libri sapienziali o poetici, talvolta denominati «agiografi». Anche in questo caso, le testimonianze sulla posizione del libro non sono univoche: nel codice Vaticano (B), esso si trova in quinta posizione, dopo Salmi (con le Odi di Salomone), Proverbi, Qohelet e Cantico dei Cantici; nel codice Alessandrino (A), occupa la seconda posizione, dopo i Salmi; nel codice Sinaitico (N), chiude il gruppo dei libri poetici. Nella versione siriaca, il libro di Giobbe si trova tra il Pentateuco e Giosuè, forse a motivo di un'antica tradizione che ritiene Mosè
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come il suo autore. Questa stessa tradizione potrebbe avere influenzato la disposizione nel canone latino secondo la Vulgata; qui il libro di Giobbe, con la sua ambientazione «patriarcale», appare come il primo dei libri didattici, precedendo il Salterio, di attribuzione davidica. La vicinanza al libro dei Salmi potrebbe rispondere, inoltre, a un intento teologico: nell'ordine proposto dalla Vulgata, la tragedia vissuta da Giobbe si collega direttamente al tono di lamento e di supplica dominante nella prima parte del Salterio, il quale si trasforma invece verso la fine in una serie di inni in cui prevale un'atmosfera di lode e di celebrazione della signoria di Dio 1•
ASPETTILETTERARl Articolazione del libro A livello di macrostruttura, il libro di Giobbe si può agevolmente suddividere in tre sezioni principali: i primi due capitoli, in prosa, che fungono da prologo all'intero libro (1-2); la sezione centrale, in poesia, contenente i dialoghi (3, 1-42,6); l'epilogo, in prosa (42,7-14). Come si vede, dal punto di vista quantitativo è la parte centrale a dominare; si tratta anche della sezione più complessa e articolata del libro. Questo quadro d'insieme può essere ulteriormente specificato, scendendo più nel dettaglio; è a questo livello che emergono gli elementi ancora discussi e problematici. Prologo Nel prologo si distinguono una parte introduttiva, che presenta il personaggio principale, Giobbe, e cinque scene che illustrano le prove alle quali egli è sottoposto e dalle quali scaturiscono gli sviluppi successivi; le prime quattro scene sono caratterizzate da un'alternanza della collocazione spaziale, situata ora in cielo ora in terra, e vedono come protagonisti Giobbe, YHWH e il satan2 ; con 1 Cfr. E. Zenger, «La Sacra Scrittura degli ebrei e dei cristiani)), in Id. (ed.), Introduzione al! 'Antico Testamento, Queriniana, Brescia 22008, pp. 9-45. 2 Per questo personaggio si veda il commento a Gb l ,6, pp. 40-41.
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la quinta scena, ambientata sulla terra, fanno la loro comparsa gli amici di Giobbe, preparando lo scenario della sezione in poesia. Gli studiosi sono per la maggioranza concordi nel proporre la seguente articolazione: l' 1-5:
presentazione di Giobbe, timorato di Dio e da Lui benedetto;
1,6-12:
prima scena, in cielo: il satan sfida YHWH riguardo alla fedeltà di Giobbe, ricevendo il permesso di metterlo alla prova;
1,13-22:
seconda scena, sulla terra: la sventura si abbatte su Giobbe, che perde tutti i suoi beni e i figli;
2,1-6:
terza scena, in cielo: nuova sfida del satan, che riceve da YHWH il permesso di provare Giobbe nella sua carne;
2,7-10:
quarta scena, sulla terra: Giobbe è colpito da una grave malattia;
2,11-13:
quinta scena, sulla terra: i tre amici Elifaz, Bildad e Zofar si recano da Giobbe per consolarlo.
Pur concordando nell 'individuazione delle scene, nel nostro commento proponiamo una suddivisione della sezione in due unità, con la seguente distribuzione delle cinque scene (dalla scena c, separiamo inoltre la confessione di Giobbe in una sotto unità c', comprendente i vv. 20-22): l, 1-22: presentazione di Giobbe e prima serie di disgrazie (a; b; c; c'); 2,1-13: seconda serie di disgrazie (d; e; t). Il genere dominante è quello del racconto novellistico e popolare, con richiami alla narrativa dei racconti patriarcali del libro della Genesi.
Sezione poetica centrale Nella prima parte della sezione centrale, troviamo i dialoghi di Giobbe con i tre amici che sono andati a visitarlo per manifestargli
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la propria vicinanza, anche se le loro parole si rivelano subito come atti di accusa per le sue supposte iniquità, alle quali sono imputate le sventure accadutegli. Gli studiosi sono d'accordo nel suddividere questi dialoghi in tre cicli, ma non c'è unanimità nel modo di farlo. Un primo elemento di discussione riguarda la funzione del capitolo 3: si tratta di un monologo di Giobbe, nello stile delle lamentazioni salmiche. Ma, mentre per alcuni esso apre la serie dei discorsi, per altri costituisce un intervento introduttivo ai successivi dialoghP. Ci allineiamo a questa seconda posizione, in quanto nel capitolo 3 non si fa cenno agli amici ed esso forma un'inclusione con il monologo conclusivo di Giobbe dei capitoli 29-31. Facciamo iniziare, quindi, il primo ciclo dei discorsi con le parole di Elifaz dei capitoli 4-5. Nei primi due cicli di discorsi lo schema compositivo è regolare e ripetitivo: ali 'intervento di ognuno degli amici di Giobbe (nell'ordine: Elifaz, Bildad e Zofar), segue la replica di quest'ultimo. Per quanto concerne il terzo ciclo, ci sono però dei problemi: esso appare incompleto, manca una menzione esplicita di Zofar e non sempre è chiara la transizione tra un discorso e la relativa risposta. Gli studiosi cercano di ricostruire in vari modi la sequenza logica delle diverse unità, operando traslazioni e integrazioni4 • Nella nostra proposta, ci atteniamo il più possibile alla forma del Testo Masoretico, evitando congetture non supportate da prove testuali. 3 Tra i sostenitori della prima posizione citiamo, p. es., G. Ravasi, Giobbe, Boria, Roma 1979, pp. 29-31 e L. Alonso Sch5kel - J .L. Sicre Diaz, Giobbe. Commento teologico e letterario, Boria, Roma 1985, pp. 45-49; per entrambi, i tre cicli di discorsi corrispondono ai cc. 3-11; 12-20; 21-27. Il c. 3 è invece considerato come introduttivo al ciclo dei discorsi da J. Lévèque, Job et san Dieu. Essai d'exégèse et de théologie biblique, Gabalda, Paris 1970, pp. 213-229 e da L. Schwienhorst-Sch5nberger, «Il libro di Giobbe», in E. Zenger (ed.), Introduzione al! 'Antico Testamento, Queriniana, Brescia 2 2008, pp. 507-526; i tre cicli di discorsi corrispondono, conseguentemente, ai cc. 4-14; 15-21; 22-27(28). 4 Le ipotesi più diffuse mirano a ricostruire il terzo ciclo di discorsi facendovi intervenire tutti i protagonisti. Citiamo, p. es., le proposte di G. Ravasi, Giobbe, cit., pp. 31-32: Giobbe (21,1-34), Elifaz (22,1-30), Giobbe (23,1-24,17.25), Bildad (25,1-6; 26,5-14), Giobbe (26,1-4; 27,1-12), Zofar (27, 13-23; 24,18-24); L. Alonso Sch5kel- J.L. Sicre Diaz, Giobbe. Commento teologico e letterario, cit., pp. 49-54: Giobbe (21, 1-34), Elifaz (22, l-30), Giobbe (23,1-24,17.25), Bildad (25,1-6; 26,5-14), Giobbe (26,1-4; 27,1-7), Zofar (24,18-24; 27,823); M.H. Pope, Job. A New Translation with Introduction and Commentary, Doubleday, Garden City (NY) 3 1973, pp. 163-196: Elifaz (22,1-30), Giobbe (23,1-24,3.9.21.4-8.l0-14b. 15.14c.16-17), Bildad (25,1-6; 26,5-14), Giobbe (27,1; 26,1-4; 27,2-7), Zofar (27,8-23; 24,18-20.22-25).
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A conclusione dei discorsi, al capitolo 28 troviamo un lungo poema sulla sapienza- il cui cantore rimane anonimo -che segna una pausa nella tensione drammatica del libro, anticipandone per certi aspetti lo sviluppo successivo. Nel nuovo monologo di Giobbe che segue (cc. 29-31) e che chiude definitivamente i tre cicli di discorsi, viene sancito l 'insuccesso degli amici di Giobbe e delle loro posizioni teologiche; al tempo stesso vengono poste le basi per la risposta divina; questa, però, viene differita a motivo della comparsa di un nuovo personaggio, Elihu, e quindi di un nuovo ciclo di discorsi che lo vedono come unico protagonista (a Giobbe, infatti, non viene concesso di replicare). Anche riguardo ai discorsi di Elihu le posizioni degli studiosi si differenziano, nell'individuazione sia del loro numero che della loro estensione5 • L'ultima parte della sezione centrale è occupata da due discorsi di YHWH (38, 1-39,30; 40,15--41 ,26), seguito ognuno da una breve replica di Giobbe (40, 1-14; 42, 1-6)6 • Riportiamo di seguito lo schema proposto per la sezione:
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monologo di Giobbe, lamento nei confronti di Dio (c. 3); primo ciclo di discorsi: Elifaz (cc. 4-5); Giobbe (cc. 6-7); Bildad (c. 8); Giobbe (cc. 9-10); Zofar (c. 11); Giobbe (cc. 12-14); secondo ciclo di discorsi: Elifaz (c. 15); Giobbe (cc. 16-17); Bildad (c. 18); Giobbe (c. 19); Zofar (c. 20); Giobbe (c. 21); terzo ciclo di discorsi: Elifaz (c. 22); Giobbe (23, 1-24,17 .25); Bildad (25,1-6; 26,5-14); Giobbe (26,1-4; 27,1-12); Zofar (27,13-23; 24,18-24); inno alla sapienza (c. 28); monologo di Giobbe, nuova sfida a Dio (cc. 29-31 ); ciclo di Elihu: presentazione del personaggio (32, 1-5) e introduzione ai discorsi (32,6-22); primo discorso (33, 1-30); secondo discorso (c. 34); terzo discorso (33,31-33 +c. 35); quarto discorso (cc. 36-37);
5 Per approfondimenti, si rimanda a D. Wolfers, «Eiihu: The Provenance and Content ofHis Speeches», Dor le Dor 16 (1987) 90-98; L Wilson, «The Role ofthe Elihu Speeches in the Book of Job», The Reformed Theological Review 55 (1996) 81-94. 6 Si veda, su questa unità, J. Lévèque, «L'interprétation des discours de YHwH (Job 38, 1-42,6)», in W.A.M. Beuken (ed.), The Book ofJob, Peeters, Leuven 1994, pp. 203-222.
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i dialoghi con Dio: teofania e primo discorso di YHWH (cc. 3839); interpellazioni di YHWH e prima risposta di Giobbe (40,114); secondo discorso di YHWH (40,15-41,26); seconda risposta di Giobbe (42,1-6). Dato il carattere composito della sezione, diversi sono i generi letterari presenti; maggiori dettagli al riguardo saranno fomiti nel commento alle singole unità letterarie, mentre per la questione del genere letterario dell'intera opera si rimanda al paragrafo dedicato in questa sezione introduttiva.
Epilogo L'epilogo riprende lo stile della narrazione in prosa del prologo, a cui è strettamente collegato; può essere suddiviso in due scene: il giudizio di YHWH sugli amici di Giobbe e sulle loro parole (42,7-9); Giobbe è ristabilito nella prosperità (42,10-17). I paralleli del Vicino Oriente antico Il libro di Giobbe presenta degli interessanti paralleli con alcuni testi della sapienza del Vicino Oriente antico 7 • Ciò dimostra l'universalità delle tematiche trattate nella Bibbia, soprattutto quelle legate alla sofferenza e alla questione della giustizia divina. Nella letteratura egiziana, due opere meritano di essere menzionate. La prima, risalente circa al 2200 a.C., è nota come il Dialogo di un disperato con la sua animaB. La struttura è simile a quella di Giobbe: un prologo e un epilogo in prosa includono una parte dialogica in stile poetico. Un disperato, trovando insostenibile il peso dell'esistenza, medita il suicidio; la sua anima intesse con lui un dialogo in difesa della vita, provocandone le reazioni. Il protagonista ha una visione pessimistica dell'esistenza, segnata dalla malvagità degli uomini, che rende impossibile ogni sogno di 7 Si veda, in proposito, lo studio di M. Weinfeld, «Job and Jts Mesopotamian Parallels - A Typological Analysis», in W. Claassen (ed.), Text and Context. Old Testament and Semitic Studies for F. C. Fensham, Sheffield Phoenix Press, Sheffield 1988, pp. 217-226; inoltre, l'ottima sintesi di L. Alonso Schokel- J.L. Siere Diaz, Giobbe. Commento teologico e letterario, cit., pp. 19-37. 8 Si veda la traduzione italiana in E. Bresciani, Letteratura e poesia del/ 'antico Egitto, Einaudi, Torino 3 1999, pp. 198-205.
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felicità; la morte è quindi preferibile alla vita, perché libera l 'uomo dalla miseria in cui è immerso; l 'unica prospettiva capace di offrire serenità è il raggiungimento della vita futura con gli dèi. Al termine dei dialoghi, l 'anima riconosce le ragioni del protagonista e si dichiara disposta ad accettarne le decisioni. La seconda opera, scritta attorno al 2000 a.C., è L 'oasita eloquente9; anche in questo caso, una cornice in prosa inquadra una parte centrale, composta da nove appelli in prosa ritmata. Il protagonista, Khu-en-Anup, abitante di un'oasi ifellah) nel deserto egiziano, subisce una serie di soprusi da parte del funzionario locale; si rivolge allora al prefetto, che deferisce la questione al faraone Neb-kau-Re. Questi propone all'uomo un accordo, sulla base di una compensazione in viveri, ma egli si rifiuta di accettare, certo del proprio diritto. Inizia così una lunga protesta di innocenza, tesa a ottenere la giustizia; infine, Khu-en-Anup si rivolge alla divinità, il dio Anubis, che condanna il funzionario per il suo abuso, costringendolo a risarcire ilfellah. Passando al mondo mesopotamico, il primo testo che possiamo relazionare allibro di Giobbe è l'opera sumerica risalente circa al 2000 a.C. Un uomo e il suo dio 10 (conosciuta anche come il «Giobbe sumerico» ). La caratteristica principale della teologia dell'opera è la presenza di un «dio personale», intermediario tra l'essere umano e il pantheon celeste. In quest'ultimo, le relazioni tra le divinità sono segnate da tensioni e gelosie, che condizionano pesantemente il destino dell'uomo, il quale ha come tutela soltanto quella del suo dio personale. Il protagonista eleva il suo lamento per la condizione di miseria in cui si trova, a motivo dell'inspiegabile irritazione del suo protettore; alla fine, dopo aver riconosciuto i propri peccati, la sua supplica viene accolta dal dio, che gli restituisce la gioia perduta. L'opera sembra diretta da quell'ideale rigoroso della retribuzione, pesantemente contestato da Giobbe. Importante per un confronto con il libro di Giobbe è anche il poema Loderò il signore della sapienza (traduzione dell'incipit in lvi, pp. 146-151. Si veda la versione italiana a cura di G.R. Castellino, Testi sumerici e accadici, UTET, Torino 1977, pp. 473-477. 9
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lingua accadica Ludlul bel nemeqi, con il quale talvolta viene indicato), noto anche come il «Giobbe babilonese» (circa 1500 a.C., ma giunto a noi in una redazione posteriore del VII sec. a.C.) 11 • Il protagonista della vicenda racconta di come sia stato abbandonato senza apparente motivo dagli dèi, perdendo al contempo l'affetto e la vicinanza dei suoi amici; solo, colpito da miseria e malattie, riceve in sogno la visita di tre misteriose figure, inviate a lui da amici lontani per riconciliarlo, attraverso incantesimi, con Marduk, il dio-principe del pantheon babilonese. Ottenuta in questo modo la riconciliazione e la guarigione, il protagonista innalza la sua lode e il suo ringraziamento a Marduk. Vicina al testo di Giobbe è soprattutto l 'idea dell 'incomprensibilità dei progetti divini, pur coesistendo con sostanziali differenze a livello letterario e teologico. Un ultimo testo che vogliamo citare è l'opera conosciuta come Teodicea babilonese o Dialogo di un sofferente con il suo pio amico o, ancora, Qohelet babilonese (circa 1000 a.C.) 12 • Oltre a contenere diversi temi che ritroviamo in Giobbe (il mistero della sofferenza, la teoria della retribuzione, il ribaltamento delle sorti, l'uso dell'ironia, ecc.), la somiglianza è palpabile a livello della struttura dialogica: il protagonista si lamenta della sofferenza che patisce ingiustamente e dell'iniquità che regna nel mondo; interviene un amico, che lo rimanda alla considerazione dell'ordinamento del mondo voluto dagli dèi, il quale rimane inaccessibile per l'uomo, e lo invita di conseguenza a sottomettersi con umiltà agli stessi dèi. È interessante, sempre nell'ottica del confronto con Giobbe, l'utilizzo della descrizione del mondo animale per spingere a riflettere sulla condizione dell'uomo. In conclusione di questo paragrafo, accenniamo soltanto al confronto istituito da alcuni autori con opere del mondo greco e romano, a partire soprattutto dal motivo della sofferenza: si ricordino, per esempio, Prometeo e Persiani di Eschilo (525-465 a.C.), i drammi di Euripide (480-406 ca. a.C.) o La consolazione della filosofia di Boezio (480-524 d.C.) 13 • n Cfr. ivi, pp. 478-492. Cfr. ivi, pp. 493-500. 13 Per maggiori dettagli si rimanda a G. Ravasi, Giobbe, cit., pp. 155-160; L. Schwienhorst-Sch6nberger, «Il libro di Giobbe», cit., pp. 514-515. 12
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Il genere letterario Il libro di Giobbe si presenta come uno scritto variegato, in cui trovano spazio stili e generi diversi; tuttavia, ciò non ha impedito agli studiosi la ricerca di un filo conduttore, che sia di aiuto per una comprensione unitaria dell'opera stessa14 • Presentiamo di seguito alcune delle ipotesi più significative al riguardo. Tragedia. Già nell'antichità, Teodoro di Mopsuestia (350 ca.428) proponeva di leggere il libro di Giobbe come una tragedia; l'ipotesi è stata ripresa e sviluppata all'inizio del XX secolo da H.M. Kallen, che accosta l'opera alle tragedie greche di Euripide; interventi redazionali posteriori, di matrice giudaica, ne avrebbero trasformato l'impianto originario 15 • Sebbene sia innegabile la presenza di elementi tipici del dramma, il paragone con la tragedia, sia essa greca o moderna, appare inadeguato a spiegare l'insieme dell'opera. Epopea. Alcuni autori del XVIII secolo considerano il libro di Giobbe come un racconto epico, centrato sulla figura dell'eroe che combatte strenuamente per la sua causa16 • Il limite di questa proposta è costituito soprattutto dalla preponderanza, nell'opera, delle parti dialogiche rispetto ali' «azione» che, normalmente, caratterizza l'epopea. Dibattimento giudiziale. Lo sfondo giuridico presente in ampie porzioni del testo ha condotto alcuni autori a classificarlo nel suo insieme come un dibattimento processuale, proponendo anche schemi di strutture letterarie modellati secondo le diverse fasi dell'atto giudiziario 17 • Certamente lo schema giuridico, soprattutto 14 Sulla questione e il dibattito al riguardo si veda, p. es., G. Ravasi, Giobbe, cit., pp. 3539. Al di là dei generi specifici, che di volta in volta emergono nell'analisi dei testi, sono di fondamentale importanza la dimensione poetica del libro e la natura simbolica del suo linguaggio; cfr. le riflessioni di L. Mazzinghi, «Il libro di Giobbe», in Id., Il Pentateuco sapienziale. Proverbi Giobbe Qohelet Siracide Sapienza. Caratteristiche letterarie e temi teologici, EDB, Bologna 2012, p. 94. Su quest'ultimo aspetto si veda, inoltre, l'opera di G. Borgonovo, La notte e il suo sole. Luce e tenebre ne/libro di Giobbe. Analisi simbolica, PIB, Roma 1995. 15 Cfr. H.M. Kallen, The Book of Job as a Greek Tragedy Restored, Moffat-Yard, New York 1918. 16 Cfr., p. es., A.A.H. Lichtenstein, Num liber Jobi cum Odyssea Homeri comparari possit?, Helmstedt 1773. 17 Lo studio di riferimento è quello di H. Richter, Studien zu Hiob, Theologische Arbeiten 11, Berlin 1959.
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quello corrispondente al rfb («contesa»), costituisce una chiave di lettura illuminante in molti dialoghi, ma estenderlo allibro nel suo complesso appare una forzatura. Lamentazione drammatizzata. Nei suoi studi sul Salterio, C. Westermann ha individuato una struttura triangolare tipica dei Salmi di supplica, in cui intervengono: l'arante, i nemici, Dio. Su questa base, egli considera il libro di Giobbe come un'estensione del genere salmico della lamentazione, integrato da uno sfondo giuridico che fornisce il quadro della drammatizzazione 18 • Così facendo, limita però l'interpretazione del poema alla figura individuale di Giobbe, mentre il senso universale della riflessione viene sminuito. Dibattito sapienziale. Il genere che più di ogni altro riesce agarantire l 'unitarietà del poema è forse quello del dibattito tra sapienti: il modello di riferimento va ricercato non tanto nel «simposio» greco, ma nelle dispute tra sapienti che, sia nel mondo egiziano, sia in quello babilonese, avevano originato testi ben definiti nella loro forma e articolazione, che richiamano da vicino quelle di Giobbe 19 • Altri autori preferiscono rinunciare a individuare un genere letterario unico, affermando l'assoluta originalità dell'opera e l'impossibilità di ricondurla a modelli esistenti. Senza dubbio, data la complessità e la varietà dell'opera, l'individuazione di un genere letterario specifico rischia di condurre a interpretazioni parziali e ideologiche; tuttavia, ci sembra che il genere del «dibattito sapienziale», non escludendo la compresenza di stili e generi diversi, possa fornire uno sfondo adeguato sul quale leggere il libro in modo unitario, senza ridurne la ricchezza delle modalità espressive.
LINEE TEOLOGICHE FONDAMENTALI
Breve storia dell'interpretazione La complessità del libro di Giobbe trova corrispondenza anche nella difficoltà di evidenziarne le linee teologiche portanti. È inteCfr. C. Westermann, Der Aufbau des Buches Hiob, Mohr, Tiibingen 1956. Si veda al riguardo soprattutto lo studio di J.J. van Dijk, La sagesse suméro-accadienne, E.J. Brill, Leiden 1953. 18
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ressante, in proposito, vedere come alcune di queste linee emergano nella storia dell'interpretazione dell'opera. Nei primi due secoli dell'era cristiana Giobbe sembra essere poco considerato, se si eccettuano alcuni riferimenti nel Dialogo con Trifone di Giustino (limitati al prologo in prosa) e, soprattutto, nella Lettera ai Corinzi di Clemente Romano: qui Giobbe viene presentato come modello di pazienza, mentre troviamo già una lettura escatologica del passo di Gb 19,26. Nel III secolo Cipriano, nel suo Libro dei testimoni a Quirino, propone Giobbe come modello di umiltà, generosità, fragilità umana. L'attenzione, fin qui, è limitata alla figura del protagonista e al suo valore di esempio. Il primo commento organico al libro di Giobbe sembra essere dovuto a Origene; purtroppo ne possediamo solo frammenti, che testimoniano l'emergere di una linea ermeneutica importante, quella della funzione pedagogica del dolore. Inoltre, Giobbe viene considerato come prototipo dei martiri cristiani (ma non di Cristo, non essendoci in lui alcun peccato). Nell'ambito della scuola antiochena, Giovanni Crisostomo propone una lettura dell'opera letterale e morale, in cui Giobbe appare come filosofo e moralista, uomo giusto e saggio, che si affida pienamente a Dio. In Occidente, troviamo il commento teologico di Agostino Annotazioni sul libro di Giobbe, che assume Giobbe come modello per affermare l 'universalità del peccato, in chiave polemica contro Pelagio. Dopo di lui, Ambrogio nel Le rimostranze di Giobbe e di Davide, affronta una delle tematiche centrali del libro, quella della tensione tra la ragione umana e il mistero dell'azione di Dio; la risposta che Giobbe può offrire a questa aporia è quella della fede, che si coniuga con la vera sapienza. L'opera patristica più imponente e influente riguardo all'interpretazione di Giobbe sono i 35libri di Commento morale a Giobbe scritti da Gregorio Magno tra il 579 e il585; esegesi, lettura spirituale, ecclesiale, morale e cristologica si intrecciano e offrono numerosi spunti di riflessione teologica e di attualizzazione. Giobbe, oltre ad essere modello di perfezione morale, diventa il «tipo» del Cristo (e della Chiesa) sofferente. L'opera di Gregorio ha esercitato un forte influsso su quasi tutti i commenti successivi, attraversando
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l'epoca medievale, sino alle soglie dell'età moderna, quando nascono i primi veri e propri commentari teologici. Sintesi teologica
Il carattere dialogico e talvolta polemico secondo il quale l'opera si sviluppa, implica la presenza di una molteplicità di tematiche e di opinioni teologiche, che si intersecano e si confrontano tra di loro, spesso senza giungere a una chiara enunciazione di principi definiti e condivisi. Giustamente, si è detto perciò che Giobbe è un libro di domande più che di risposte2°; gli interrogativi lasciati aperti sfidano ogni lettore a proseguire nell'indagine, alla ricerca di una risposta personale; in ciò, a nostro parere, consiste la grande attualità dell'opera e il motivo del fascino che continua a esercitare al di là del tempo. Per questè ragioni, è riduttivo considerare- come talvolta è stato fatto- il libro di Giobbe come un'opera centrata esclusivamente sul tema della sofferenza dell'uomo giusto21 ; certamente, questa è una tematica importante e da essa iniziamo la nostra presentazione sintetica delle linee teologiche del libro, ma non è la sola né- crediamo- quella centrale, che individuiamo piuttosto nel problema della concezione di Dio e del rapporto dell'uomo con Lui, dal quale tutte le altre tematiche dipendono. L 'enigma della sofferenza Come si è detto, la cornice narrativa del libro mette in scena il dramma che fa da sfondo a tutta la parte dialogica centrale; all'inizio
dell'opera, Giobbe viene presentato come un uomo «integro e retto, timorato di Dio e alieno dal male)) (1,1): è il modello dell'uomo giusto, che vive con coerenza la propria fede, sentendosi concretamente 20 Sarebbe interessante anche, a questo proposito, analizzare le diverse frasi interrogative che compaiono nel libro e la loro funzione comunicativa; cfr. J.F.J. van Rensburg, «Wise Men Saying Things by Asking Questions: The Function of the Interrogative in Job 3 to 14», 0/d Testament Essays 4 (1991) 227-247; L.J. de Regi, «Functions and Implications of Rhetorical Questions in the Book of Job», in R.D. Bergren (ed.), Biblica! Hebrew and Discourse Linguistics, Summer Institute ofLinguistics, Dallas (TX) 1994, pp. 361-373. 21 Condividiamo, al riguardo, l'opinione di A. Bonora, Il contestatore di Dio, Marietti, Torino 1978, p. 46: «Giobbe non è un libro sul dolore, sul problema della sofferenza o sul mistero del male. Non è un trattato teoretico sul "problema del dolore" ma la storia di un uomo sofferente in conflitto con il suo Dio».
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responsabile per gli altri e godendo, perciò, della benedizione divina. L'intervento del satan presso la corte celeste, con la richiesta di mettere alla prova la fede di Giobbe, per saggiarne l'autenticità e il disinteresse, sconvolge questa condizione di armonia e di benessere; il satan insinua che la rettitudine di Giobbe sia motivata dalle benedizioni ricevute da Dio e non dalla gratuità della sua fede. Le sventure che si abbattono su Giobbe, privandolo dei suoi molti beni e degli affetti più cari e toccandolo nella sua stessa persona, costituiscono perciò una sfida poderosa alla sua fede nella presenza amorevole e provvidente di un Dio buono22 ; la sofferenza appare qui come una prova a cui l'uomo viene sottoposto e come l'occasione per testimoniare la propria fedeltà a Dio. Tuttavia, Giobbe sembra non vivere mai la sua sofferenza secondo questa ottica, e ci potremmo chiedere - secondo il pensiero moderno - per quale motivo Dio dovrebbe voler mettere alla prova l'uomo, conoscendo già ciò che abita nel suo cuore. Se, nelle parte narrativa, Giobbe si dimostra rassegnato e accoglie con sottomissione tutto ciò che gli è capitato (da qui l'immagine tradizionale della «pazienza di Giobbe»), nei dialoghi successivi sorge prepotente una domanda: perché, se l'uomo è giusto, deve soffrire? Giobbe è ali' oscuro di quello che è avvenuto nei cieli e di ciò che il satan e Dio hanno concordato; perciò attribuisce a Dio le disgrazie che lo hanno colpito e non ne comprende le ragioni. Per tutto lo svolgimento dei dialoghi con gli amici insisterà nell'affermare la propria innocenza, sentendosi vittima di una profonda ingiustizia. La domanda riguardo alla sofferenza innocente è sempre una delle più attuali e difficili 23 : basti pensare a ciò che sentiamo davanti a un bambino che nasce gravemente ammalato, o alle vittime inermi di guerre o di violenze, di cui non sono in alcun modo responsabili. Essa, nel libro di Giobbe come nella vita dei credenti di oggi, è indissolubilmente intrecciata a un'altra questione fondamentale: quella della giustizia di Dio e del modo in cui Egli l'amministra nel mondo degli uomini. 22 Sulla prospettiva biblica riguardo al tema, cfr. J .L. Crenshaw, Defending God. Biblica/ Responses to the Problem of Evi/, Oxford Uni v. Press, Oxford- New York 2005. 23 Si veda, p. es., nella prospettiva della teologia della liberazione, l'opera di G. Gutiérrez, Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell'innocente. Una riflessione su/libro di Giobbe, Queriniana, Brescia 1992.
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La giustizia retributiva e lo scandalo del/ 'innocente che soffre L'idea della giustizia divina che soggiace al racconto delle vicende di Giobbe e ai dialoghi con gli amici è legata al meccanismo, noto e codificato da un filone della tradizione biblica, della retribuzione (cfr., p. es., Gen 18,23-32; Nm 16,22; 2Sam 24,17; Sal 37,9-10; 73, 18-19; Pr 11,21.31; 19, 17; Ger 15,11-13; Ez 18): il pensiero che Dio premi i giusti per la loro buona condotta e punisca i malvagi in proporzione alla loro iniquità è, infatti, ben radicato nell'esperienza religiosa dell'Israele biblico24 • Questa dottrina è rappresentata e strenuamente difesa dagli amici di Giobbe, il quale invece ne evidenzia e denuncia i limiti e le dissonanze rispetto a quanto sperimenta nella realtà della propria vita. Le conseguenze di questa tensione si rendono ben presto evidenti nello svolgimento del poema: se, come ritengono gli amici, la tesi della retribuzione è vera, allora le sofferenze di Giobbe devono presupporre come causa qualche sua mancanza. Fin dall'inizio, quindi, essi si mostrano impegnati a convincere Giobbe riguardo al proprio peccato, esortandolo a riconoscersi colpevole e a confessare i propri misfatti. Questo atteggiamento di umiltà è visto come la condizione necessaria affinché Dio perdoni Giobbe e lo ristabilisca nel suo precedente stato di benessere e benedizione. All'interno di questo quadro generale, le posizioni degli amici si differenziano, sottolineando di volta in volta diversi aspetti. Elifaz, nel suo primo discorso, assume che Giobbe sia sostanzialmente innocente; deve ammettere, di conseguenza, che Dio possa talvolta riservare la sofferenza anche ai giusti, ma questa rimane comunque minima e transitoria. Si tratta, più che altro, di una condizione intrinseca alla fragilità della creatura umana (4,17-21). Bildad assume un tono più aspro, è convinto che Giobbe sia un peccatore e che la sua sofferenza sia causata da questa condizione; afferma la rettitudine di Dio nell'amministrare la giustizia; tuttavia, la gravità delle colpe di Giobbe non appare tale da fargli perdere la vita, come invece è avvenuto per i suoi figli (8,2-4). Zofar è il più critico dei tre amici, 24
Cfr. J.L. Crenshaw, «Popular Questioning of the Justice of God in Ancient Israel»,
Zeitschriftfur die alttestamentliche Wissenschafi 82 (1970) 380-395. Sulla dottrina biblica della retribuzione, si veda anche G. von Rad, La sapienza in Israele, Marietti, Torino 1975, pp. 265-269.
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accusa violentemente Giobbe di essere un peccatore e un ipocrita e di voler nascondere i propri misfatti; ma le disgrazie che lo hanno colpito smascherano la sua colpevolezza e manifestano la rigorosa giustizia di Dio, che Giobbe non può pretendere di capire nella sua profondità (11,7-10). Nei successivi cicli dei discorsi, gli amici gradualmente accentuano il carattere accusatorio delle proprie parole, imputando a Giobbe malvagità e delitti che, secondo la loro visione, possano spiegare la punizione divina a cui Giobbe è andato incontro. Anche i successivi interventi di Elihu vogliono rappresentare un'ulteriore difesa della giustizia di Dio. Elihu sviluppa il tema secondo un'altra prospettiva, sottolineando il valore pedagogico della sofferenza: essa ha uno scopo di ammonizione, per tenere l'uomo lontano da una condotta di vita malvagia, e di correzione, per spingere l 'uomo che ha sbagliato a ravvedersi. Le modalità di intervento di Dio possono non apparire chiare e ragionevoli all'uomo, ma discendono dalla sua imperscrutabile sovranità, da cui origina la sua giustizia indefettibile. Di fronte alle reiterate e sempre più aggressive accuse degli amici, Giobbe continua a professare la propria innocenza; ma se la loro teoria riguardo alla retribuzione è vera e Giobbe non è colpevole di azioni tanto gravi da meritargli tutto il dolore che patisce, l'unica conseguenza possibile è la messa in discussione della giustizia divina. Poiché il confronto con gli amici non conduce ad alcun esito positivo, Giobbe esprime in modo sempre più insistente il desiderio di contendere direttamente con Dio: lo sfida a chiamarlo in giudizio, per avere la possibilità di dimostrare davanti a Lui la propria innocenza. Il dramma si sviluppa, quindi, attorno a un conflitto apparentemente insanabile: da un lato l'affermazione di una sofferenza ingiustamente subita, dali 'altro una fede- messa in questione, ma mai abbandonata, e per questo dolorosa e problematicain un Dio giusto, nonostante le apparenze palesemente contrarie. Si comprendono, in quesf ottica, gli accorati lamenti di Giobbe e il suo desiderio di scomparire da questa vita per non soffrire più; le sue accuse di indifferenza rivolte a Dio, il quale non sembra preoccuparsi del dolore degli innocenti, mentre lascia prosperare gli empi e i malvagi; il suo avvertire Dio come un avversario e un nemico
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implacabile; il suo oscillare tra la fiducia nell'esistenza di un ordine morale divino nel mondo e la percezione che esso sia invece disatteso; la speranza, infine, in un mediatore imparziale che garantisca la propria difesa davanti al giudice divino. Dio viene incontro alle attese di Giobbe, ma in maniera assolutamente spiazzante, sia per lui che per gli amici, e anche per il lettore. Dio e il mondo
La risposta divina, attesa per tutto il poema, giunge soltanto verso la sua conclusione, quando Dio si manifesta a Giobbe, accondiscendendo finalmente alla sua richiesta di un confronto personale. Tuttavia, questa risposta è sorprendente, in quanto non contiene alcun riferimento esplicito alla questione che si trova al centro dell 'interesse di Giobbe, quella della giustizia divina e del riconoscimento della propria innocenza. I due discorsi divini si concentrano, invece, sul cosmo: è come se Dio volesse distogliere Giobbe dalla preoccupazione esclusiva per la propria condizione, invitando lo ad allargare lo sguardo e a ricercare nel cosmo le risposte alle proprie domande sulla vita. Il mondo naturale assume, quindi, una dimensione rivelativa che è fondamentale per la comprensione del rapporto tra Dio e l'uomo25 • Lo scenario numinoso che fa da sfondo ai discorsi si apre con il riferimento al fenomeno naturale della tempesta (38, l); YHWH viene quindi celebrato non soltanto come il creatore, bensì come colui che dirige e governa costantemente l'intera realtà creata (38,4-21). Il controllo di Dio sugli astri e sui fenomeni atmosferici è anch'esso manifestazione del potere divino e della sapienza secondo cui esso si dispiega. Tutti gli elementi della natura appaiono perciò posti a servizio della rivelazione di Dio, costituendo un segno evidente della sua presenza misteriosa nel mondo. Uno spazio notevole nei discorsi divini è riservato al mondo animale e ai suoi misteri, per culminare nella descrizione dei due grandi mostri Behemot e Leviatan (38,3941 ,26); la forza straordinaria di questi ultimi- simboli mitici del caos 25 Cfr. J. Lévèque, «L'argument de la création dans le Livre de Job», in L. Derousseaux (ed.), La création dans l'Orientancien: congrès de l'ACFEB, Lille, 1985, Cerf, Paris 1987, pp. 261-299; P.J. Nel, «Cosmos and Chaos: A Reappraisal ofthe Divine Discourses in The Book ofJob», Old Testament Essays 4 (1991) 206-226.
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primordiale- rivela, per riflesso, l 'incommensurabile potenza di Dio, che li ha creati ed è l 'unico che possa sottometterli alla sua volontà. Giobbe, osservando con attenzione il cosmo, ha la possibilità di incontrare YHWH, riconoscendolo nel dominio sapiente e potente che vi esercita; al tempo stesso, questa esperienza gli manifesta i limiti inscritti nella propria condizione umana: tra questi, anche i limiti del «sapere» (42,2-3), che si scontrano con l'inafferrabilità del grandioso disegno divino, mai racchiudibile in formule e schemi teologici immutabili e predefiniti. Dio respinge, in questo modo, le accuse mossegli da Giobbe di indifferenza e di un'amministrazione arbitraria della giustizia; ribadisce, inoltre, l'esistenza di un ordine di cui egli è artefice e garante, ma che rimane, nei suoi aspetti più profondi, in gran parte nascosto e misterioso per le limitate capacità di comprensione umane, che possono coglierne soltanto come un riflesso, contemplando le meraviglie del mondo. Nel rivelarsi a Giobbe, YHWH lascia aperto uno spazio di libertà, in cui possa nascere il dialogo; nel riconoscere l'alterità divina, Giobbe è chiamato a compiere un cammino di conversione: della propria immagine di Dio, di se stesso, della propria comprensione del dolore che accompagna l'esistenza. Miseria e grandezza del! 'uomo Il percorso di Giobbe ci offre anche la possibilità di una riflessione sull'uomo e il suo cammino di fede. Le sue prime parole dopo la serie di sventure che ne stravolgono l'esistenza, sembrano caratterizzate da una paziente accettazione del limite intrinseco nella creaturalità umana e da un senso di abbandono alla volontà di Dio: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo vi tornerò. YHWH ha dato e YHWH ha ripreso. Sia benedetto il nome di YHwH!» (l ,21 ); in modo simile suona la replica di Giobbe alla moglie, che lo aveva invitato a maledire Dio: «Se da Dio accettiamo il bene, non dovremmo accettare il male?» (2, l 0). Tuttavia, queste affermazioni appaiono come il disperato tentativo di Giobbe di trovare una ragione a un dolore incomprensibile; sembrano frasi stereotipe o proverbiali, citate come meccanismo di difesa davanti a una situazione che egli percepisce come troppo pesante e penosa.
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Certamente, Giobbe si scontra in maniera violenta con la propria fragilità. Quest'ultima è una delle realtà universali che caratterizzano l'uomo nel suo stare al mondo, come sottolineato ripetutamente nel corso dell'opera: l'espressione ricorrente «nato di donna» (14, l; 15, 14; 25,4) evidenzia, infatti, la debolezza insita nella carne umana, il suo essere inevitabilmente segnata dalla caducità; l 'uomo è paragonato al fiore del campo che, appena spuntato, avvizzisce (14,2), la sua vita è breve e piena di inquietudini ( 14, l); egli è come un verme o un bruco (25,6), un essere insignificante nel grande scenario della creazione. Una tale fragilità contraddistingue anche la dimensione morale della vita umana; l'uomo è impuro, irrimediabilmente incline al peccato e alla colpa (14,4), segnato dalla corruzione e dall'iniquità (15,16). Questa consapevolezza, non esime comunque Giobbe dal ricercare una risposta al dubbio che ben presto si affaccia alla sua mente e che tocca anche il suo rapporto con Dio. Giobbe dà libero sfogo ai suoi sentimenti di frustrazione e di rabbia; impreca contro il giorno della sua nascita (3, l), inveisce contro il padre e la madre che lo hanno messo al mondo (3, 12); si scaglia, poi, contro gli amici, accusati di non essere capaci di comprenderlo (6, 14-15). Con loro, Giobbe condivide l 'idea della fondamentale fragilità umana, ma trae delle conseguenze opposte sul piano etico e religioso: per gli amici, l 'uomo è infinitamente distante dalla santità divina, la sua condizione rende impossibile la pretesa- avanzata invece da Giobbe- di riconoscersi innocente davanti a Dio. Ne risulta una distanza incolmabile, una radicale frattura tra il mondo umano e Dio stesso. Giobbe, pur consapevole dei limiti creaturali propri dell'uomo, non li considera come un ostacolo al rapportarsi correttamente con Dio; per questo, nel corso del poema, la sua rabbia viene rivolta anche contro di Lui (33,10; 34,5): se Dio ha creato Giobbe donandogli vita e benevolenza e prendendosi cura di lui (10,8-12), qual è il senso del dolore che sembra smentire l'originario atto divino? In questa sfida, che Giobbe lancia a Dio, intravediamo i segni più eloquenti della grandezza dell'uomo; Giobbe non si rassegna all'ingiustizia e a un'immagine di Dio che, in nome del diritto, sacrifica la sua creatura. Le parole aspre, polemiche e che talvolta sfiorano la blasfemia, sono in fondo espressione di una fede che non si arrende
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all'apparenza del non senso e dell'iniquità; Giobbe supplica Dio, discute con Lui, gli ricorda la propria debolezza e caducità (7,7), lo richiama alla sua responsabilità in quanto creatore (7,21 ); chiede a Dio con insistenza quella risposta che gli amici non hanno saputo offrirgli e che gli appare come l'unica possibile speranza, prima di svanire nell'oscurità della morte. Giobbe desidera da Dio soltanto una parola (31 ,35), che gli restituisca la dignità; in questo dialogo, così appassionato e vero, scopriamo l'interiorità deli 'uomo che ricerca in Dio il senso ultimo della vita e una presenza amica che lo sostenga. Lo svelamento del volto di Dio
Il percorso di fede di Giobbe culmina nella teofania finale e nei discorsi che, in questo contesto, Dio gli rivolge; sono proprio la ricerca dell'autentico volto di Dio e l'incontro con il suo mistero a costituire, a nostro parere, il cuore dell'opera e il punto di convergenza delle tematiche teologiche sopra esposte. L'esclamazione conclusiva di Giobbe esprime la realizzazione del desiderio che lo ha mosso lungo tutto il poema: «lo ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto» (42,5). La lotta che Giobbe ha condotto contro Dio lo ha portato a una consapevolezza nuova del suo rapporto con Lui; la conoscenza teologica proveniente dalla tradizione lascia spazio all'esperienza personale che Giobbe ha fatto di Dio. In questo incontro, non troviamo risposte esplicite agli interrogativi avanzati da Giobbe riguardo al senso della sofferenza, alla giustizia divina, alla retribuzione; Giobbe è chiamato invece a cambiare in modo radicale la sua immagine di Dio, intuendone il volto nella vastità e complessità del mondo, e sperimentandone la presenza al proprio fianco anche nel momento del dolore26 • La fede di Giobbe trova il suo approdo nella certezza di una comunione che nessuna prova può interrompere. Per questo, Dio stesso alla fine esprime la propria approvazione nei confronti di Giobbe, giudicando invece negativamente i suoi interlocutori; dice infatti a Elifaz: «La mia ira è divampata contro di te e contro i tuoi due amici, perché non 26 Si vedano, in proposito, le interessanti riflessioni di B. Costacurta, «"E il Signore cambiò le sorti di Giobbe".ll problema interpretativo dell'epilogo del libro di Giobbe», in V. Collado Bartomeu (ed.), Pa/abra, Prodigio, Poesia. In memoriam p. Luis Alonso SchOkel, PIB, Roma 2003, pp. 253-266.
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avete parlato di me con fondamento, come il mio servo Giobbe» (42, 7); non esistono formule teologiche che possano racchiudere ed esaurire il mistero di Dio, che eccede ogni possibilità di comprensione umana. Come Giobbe, l'uomo procede spesso a tentoni, in un cammino faticoso di ricerca che è l'unico modo possibile per lasciarsi sorprendere da Dio e accoglierne il disegno, tante volte soltanto intravisto, nel mondo e nella propria storia personale; il mistero della sofferenza dell'innocente, la presenza del male nella storia e l'apparente successo dell'ingiustizia possono trovare un senso nell'incontro con il volto di un Dio che non si rivela come giudice inflessibile né come tiranno o padrone dispotico, bensì come sorgente della vita e della libertà, come padre misericordioso che si affianca con pazienza e sollecitudine ai suoi figli e li sostiene nel cammino sempre incerto e faticoso della fede.
AUTORE, DESTINATARI, DATAZIONE
Storia della redazione e proposte di datazione
Cerchiamo adesso di proporre un'ipotesi di sviluppo storico della redazione del testo di Giobbe, ripercorrendone le varie fasi della formazione, nella consapevolezza che a tale questione si collegano strettamente le problematiche della datazione e dell'autore dell'opera27 • La storia di Giobbe nella sua versione più antica era probabilmente quella contenuta nei primi due capitoli dell'attuale libro e nella sezione 42,7-17, che ad essi consequenzialmente si ricollega. In verità, anche nei capitoli iniziali gli studiosi individuano diversi strati compositivi, pur non essendoci un accordo unanime al riguardo (alcuni 28 , p. es., considerano secondarie le scene celesti). La narrazione, in prosa, ci presenta il protagonista, Giobbe, benedetto da Dio a motivo della sua rettitudine. L'intervento soprannaturale del satan mette in crisi questa condizione idilliaca; egli, infatti, spinge Dio a concedergli di 27 Seguiamo, nella sostanza, la ricostruzione proposta da L. Schwienhorst-ScMnberger, «Il libro di Giobbe», cit., pp. 516-520. 28 Si veda, p. es., la posizione di L. Schwienhorst-SchOnberger - G. Steins, «Zur Entstehung, Gestalt und Bedeutung der ljob-Erziihlung (Jiob 1f; 42)», Biblische Zeitschrift 33 (1989) 1-24.
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mettere alla prova tale fede, colpendo Giobbe con una serie di terribili disgrazie che lo toccano in tutto ciò che ha di più prezioso e caro, dai beni, agli affetti, alla salute. Giobbe viene condotto al limite estremo della sopportazione, tuttavia rimane pienamente sottomesso a Dio, accettando con stoica pazienza le contrarietà che si succedono. Questa eroica sopportazione dimostra la fedeltà di Giobbe nei confronti di Dio il quale, nella sezione dell'epilogo, lo ricompensa, rinnovando la sua benedizione e ricostituendo lo in una condizione di prosperità e felicità persino maggiori di quelle iniziali. Dal punto di vista teologico, il racconto originario ribadisce così il carattere retributivo della giustizia divina: Dio benedice l'uomo che si mantiene fedele e che non si allontana da Lui neppure nelle più grandi avversità. Nella sua linearità, questa storia passa sotto silenzio diversi problemi, essendo assente una riflessione approfondita sull'origine del male, sul ruolo che Dio ha nei dolori che colpiscono l'uomo, sulla possibilità del loro superamento. In tutto ciò, traspare una concezione semplicistica della vita e della fede, che non tiene conto della complessità dell'esistenza e dell'esperienza umana. Ecco perché l'autore del libro ha ritenuto di dover integrare il racconto iniziale con la serie dei dialoghi poetici di Giobbe con i suoi amici, che costituiscono parte della sezione centrale e più lungadell'opera(cc. 4-27 e 29-31). Nei dialoghi, appare una figura di Giobbe più umana, meno idealizzata; la vita dell'uomo è resa in tutta la sua problematicità; al tempo stesso, viene riproposta con forza la domanda riguardo alla responsabilità di Dio sul male. Se Giobbe abbozza delle risposte, sempre parziali e non completamente soddisfacenti, non cessa comunque di provocarci con le domande che continuamente si pone e pone a Dio. Più complessa si presenta la questione dei discorsi di Dio e delle due risposte di Giobbe (38, 1-42, 1-6). Alcuni studiosi ritengono che tali discorsi facciano parte del materiale originario dei dialoghi in poesia; altri li ritengono un'aggiunta posteriore, allo scopo di completare un testo che si chiudeva con i discorsi di sfida di Giobbe (cc. 29-31 ); non mancano, poi, ipotesi più complesse- ma difficilmente verificabili - sulla stratificazione di questa sezione, sulla sua articolazione e sul rapporto con il resto del materiale del libro. Sicuramente posteriore è, invece, l 'inserzione dei discorsi di
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Elihu (cc. 32-37); il nuovo personaggio non è menzionato nella cornice narrativa del libro e il suo intervento interrompe il legame logico tra l'appello di Giobbe in 31 ,3 5 e la risposta di Dio che ha inizio in 38, l. Teologicamente, c'è da chiedersi se questa inserzione voglia esprimere una correzione o un'attenuazione delle posizioni estreme di Giobbe, mediante una riflessione sulla dimensione pedagogica del dolore e della sofferenza, oppure introduca un ulteriore dato della tradizione che, al pari di quelli proposti dai tre amici in precedenza, viene ugualmente sottoposto a critica.. Un discorso a parte va riservato, infine, al «poema della sapienza» del capitolo 28, che la maggior parte degli studiosi considera ugualmente come un'aggiunta posteriore; esso appare inserito in continuità con il terzo discorso di Giobbe, ma potrebbe essere considerato una sorta di intermezzo tra il dibattito con gli amici (cc. 3-27) e il monologo di Giobbe (29-31) che, prima dell'inserzione dei discorsi di Elihu, preparava il confronto conclusivo con Dio. Da questa ricostruzione, si evince che la composizione 4ellibro di Giobbe si estende su un arco temporale piuttosto ampio, anche se difficile da precisare, come dimostra la varietà delle ipotesi proposte, che vanno dal periodo patriarcale (secondo millennio) fino al II secolo a.C. 29 • Occorre distinguere, in primo luogo, la datazione degli eventi narrati nel libro da quella di composizione dello stesso. Il testo non contiene rimandi espliciti ad avvenimenti noti, né è ambientato in un contesto storico ben definito; tuttavia, ci sono alcuni indizi che consenton.o di situare la vicenda di Giobbe nella prima metà del secondo millennio: i nomi dei personaggi, alcune pratiche cultuali tipiche dell'era patriarcale, la natura nomadica dei Sabei e dei Caldei (cfr. l, 15 .17), sono infatti caratteristiche peculiari di quell'epoca. Questo, però, non ci dice molto sul periodo di composizione del libro; può suggerire al più che una qualche versione della storia di Giobbe abbia origini antiche e che con ogni probabilità fosse trasmessa oralmente anche prima dell'epoca patriarcale. 29 Per una rassegna delle opinioni dei diversi autori, si veda L. Alonso Schokel - J.L. Sicre Diaz, Giobbe. Commento teologico e letterario, cit., pp. 76-77. Si veda, inoltre, J. Léveque, «La datation du livre de Job», in J.A. Emerton (ed.), Congress Volume. Vìenne, 1980, Brill, Leiden 1981, pp. 206-219.
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Secondo una testimonianza del Talmud babilonese (Baba Batra 14b), il libro di Giobbe fu scritto da Mosè; lo stesso Talmud però, poco dopo (l Sa), asserisce che Giobbe fu tra coloro che fecero ritorno dall'esilio babilonese nel538 a.C., quindi diversi secoli dopo l'epoca in cui visse Mosè; in altri passi talmudici Giobbe appare contemporaneo di Giacobbe o di Abramo, oppure viene considerato un personaggio puramente allegorico. Il profeta Ezechiele (circa 622-570 a.C.) menziona Giobbe insieme a Noè e Daniel come esempi di uomini giusti (Ez 14, 14.20); tuttavia, ciò dimostra solo che Ezechiele conosceva una storia di Giobbe e non ci consente di fare deduzioni sulla data di redazione del libro (tanto più che storie legate a personaggi miti ci, come Daniel a Ugarit e altri personaggi simili aNoè e allo stesso Giobbe nelle vicine civiltà semitiche, erano conosciute fin da tempi molto anteriori). Giobbe viene menzionato, inoltre, nel testo ebraico del Siracide (49,9), risalente all'inizio del II secolo a.C., ma anche in questo caso non si possono trarre conclusioni, in quanto il testo sembra semplicemente fare riferimento al passo di Ezechiele appena esaminato. Come data limite per la redazione finale del libro non si può salire comunque oltre il II secolo a.C.: infatti, esso viene citato -compresi i discorsi di Elihu- nella cosiddetta lettera dello Pseudo Aristea, datata intorno al 100 a.C. Ciò appare confermato anche dalle scoperte di Qumran, dove nella grotta XI è stato rinvenuto un targum di Giobbe, risalente al II o I secolo a.C., e che corrisponde in gran parte al Testo Masoretico, pur coprendolo solo parzialmente (da 17,14 fino a 42, 11)30 • Ulteriori indizi utili per la datazione possono essere ricavati dali' analisi della lingua e della teologia del libro. Giobbe è scritto in un ebraico complesso, è il libro biblico con il maggior numero di hapax legomena (più di 100) e circa un terzo del testo totale presenta difficoltà di comprensione31 • Per certi aspetti, il linguaggio è arcaico, facendo pensare a una data di composizione antica, ma per altri si 30 Per approfondimenti sulla questione del testo alla luce dei ritrovamenti di Qumran, cfr. J. Gray, «The Massoretic Text ofthe Book of Job, the Targum and the Septuagint Version in the Light of the Qumran Targum (Il QtargJob )», Zeitschrift fiir di e a/ttestament/iche Wissenschafl86 (197 4) 331-350. 31 Sul tema, si veda lo studio di H.R. Cohen, Biblica/ Hapax Legomena in the Light oj Akkadian and Ugaritic, Society of Biblica) Literature, Missoula (MT) 1978.
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nota un forte influsso dell'aramaico, indice di una datazione tardiva. Alcuni studiosi ritengono che il testo ebraico sia una traduzione da un'altra lingua semitica (p. es., aramaico o edomita); la maggior parte, però, considera l'ebraico come la lingua originaria, in una forma leggermente diversa da quella di Gerusalemme e influenzata dall'aramaico. L'orizzonte cosmopolita del libro avrebbe incentivato l 'uso di espressioni delle lingue o dei dialetti del semitico nord-occidentale delle regioni vicine; le forme arcaiche sembrano invece una scelta deliberata dell'autore, per dare alla storia una ambientazione più antica. Dal punto di vista della teologia, alcuni temi rimandano chiaramente al contesto esilico e post-esilico. La figura del satan, che non è menzionata nei libri pre-esilici, viene tratteggiata nella cornice narrativa del libro come un componente del consiglio divino (cfr. Zc 3,1), pur non essendo ancora designata con un nome proprio, come invece più tardi in l Cr 21, l; la problematizzazione della dottrina tradizionale della retribuzione e la vicinanza poetica con il libro del Qohelet si accordano parimenti con la stessa collocazione temporale, così come il rapporto con alcuni passi di Geremia e dei Proverbi e la dimensione universalistico-monoteistica che emerge dalle scelte letterarie dell 'autore; infine, la mancanza della prospettiva del prolungamento della vita dopo la morte, che appare con chiarezza per la prima volta nel libro di Daniele, in una sezione attribuita al II secolo a.C., suggerisce di porre la conclusione della fase redazionale del libro prima di questa data. L'autore e i destinatari
Dall'insieme di questi dati, possiamo concludere che, con ogni probabilità, la redazione finale del libro di Giobbe deve collocarsi tra il V e il III secolo a.C.; l'anonimo autore potrebbe essere uno scriba, un erudito ebreo cosmopolita che parlava l'aramaico o uno dei dialetti presenti nella regione del Vicino Oriente antico, e che sceglie l'ebraico come lingua letteraria; i suoi destinatari sono forse gli esuli tornati da Babilonia, che si interrogano sui motivi della catastrofe accaduta e sulla giustizia di Dio, ma l'opera potrebbe essere diretta anche a un gruppo di discepoli della diaspora, che lo scriba-autore istruisce, mostrando loro i limiti della sapienza tradizionale. Certamente, la portata universale ed esistenziale delle domande poste da
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Giobbe, riguardo alla sofferenza umana e alla posizione che Dio assume in rapporto a essa, trascende l'identità dei destinatari e l'epoca di composizione del libro, rendendo lo perennemente attuale.
TESTO EBRAICO E VERSIONI
Per molto tempo, il testo ebraico di Giobbe è stato considerato (insieme a Osea) come il più corrotto e mal conservato di tutto l'Antico Testamento. Effettivamente, innumerevoli sono i passi problematici o persino incomprensibili, molte sono le parole rare e sconosciute; tutto ciò costituisce un grande ostacolo alla lettura del testo. Tuttavia, più di recente la prospettiva è cambiata decisamente: le scoperte di Qumran e gli ultimi studi nell'ambito delle lingue semitiche hanno avuto come risultato un nuovo approccio al testo, nella consapevolezza che molti passaggi sono oscuri a motivo non di una cattiva trasmissione, ma di un'insufficiente conoscenza della lingua ebraica e delle sue sfumature, soprattutto per quanto concerne i generi poeticP 2 • Nelle grotte II e IV di Qumran sono stati ritrovati alcuni frammenti di manoscritti ebraici: 2QGiobbe (2QJob o 2Ql5; contiene 33,28-30), 4QGiobbea (4QJoba o 4Q99; contiene il c. 36), 4QGiobbeb(4QJobb o 4Ql00; contiene 13,4-5), 4QpaleoGiobbec (4QpaleoJobc o 4Q101; contiene 13,18-20.23-27; 14,13-18, in paleoebraico33) e, sempre nella grotta IV, un frammento aramaico di un Targum, 4QTargum di Giobbe (4QtgJob o 4Q 157; corrisponde a 3,5-6; 4, 17-5,4). Più imponente il ritrovamento nella grotta XI di un Targum che copre circa un terzo del testo ebraico: JJQTargum di Giobbe (11QtgJob o 11Q10; corrisponde a 17,1442,11 ); si tratta di un manoscritto risalente al I o II secolo d.C., di notevole importanza perché mostra una sostanziale corrispondenza 32 In questo campo, pionieristico e influente è stato il lavoro di M. Dahood ( 1922-1982), professore del Pontificio Istituto Biblico, che ha studiato i testi poetici della Bibbia ebraica comparandoli con quelli, databili tra il XIII e il XII sec. a.C., rinvenuti a Ras Shamra in Siria, l'antica Ugarit. 33 Si tratta della prima forma di scrittura della lingua ebraica, derivata dall'alfabeto fenicio, utilizzata dal X al V sec. a.C., in seguito sostituita gradualmente dall'«ebraico quadrato», che è la forma adoperata ancora oggi.
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con il Testo Masoretico, sia per il contenuto, sia per quanto concerne l'ordine del testo (in particolare, ciò vale anche per i più discussi cc. 24-27, contenenti il terzo ciclo di discorsi). Una caratteristica di questo manoscritto è la brevità dell'epilogo, più corto di 6 versi rispetto al Testo Masoretico 34 • La versione dei Settanta non aiuta molto a chiarire i punti oscuri del testo ebraico; più che una traduzione, sembra spesso una parafrasi, e non è esente essa stessa da incertezze testuali. Nella sua forma più antica, il testo greco appare notevolmente più breve di quello ebraico, tanto da spingere alcuni studiosi a ritenere che i traduttori avessero di fronte un originale diverso. Origene in seguito integrò le parti mancanti, prendendole dalla traduzione di Teodozione e marcando le linee introdotte con un asterisco. Un'antica versione copta, pubblicata con traduzione in inglese nel 1846, concorda in linea generale con il testo pre-origeniano 35 • Tuttavia, in entrambi i casi, anziché pensare a un testo ebraico a disposizione dei traduttori più breve, sembra più plausibile che le parti mancanti siano state volontariamente omesse a motivo delle difficoltà, ritenute insormontabili, di comprensione. La versione latina Vulgata segue abbastanza fedelmente il testo ebraico, pur non mancando alcuni passi tradotti in maniera più libera. Girolamo ha subito notevoli influssi dali' esegesi rabbini ca del suo tempo; importante appare anche il contributo apportato alla sua traduzione dalla Esapla di Origene (opera disposta in sei colonne, in cui veniva confrontato il testo ebraico con diverse sue traduzioni greche). È evidente, in alcuni passaggi, la rilettura cristiana, come, per esempio, in 19,25-27 a proposito della fede nella risurrezione dai morti (cfr. note). Un'ultima menzione merita la versione siriaca Peshitta; eseguita direttamente sul testo ebraico, può essere utile nella chiarificazione di alcuni passi oscuri, aiutando nella loro ricostruzione e corretta interpretazione.
34 Cfr. F. Garcia Martinez- E.J.C. Tigchelar- A. S. van der Woude, Qumran Cave 11.11, Discoveries in the Judean Desert 23, Clarendon Press, Oxford 1998, pp. 79-180. 35 H. Tattam, The Ancient Coptic Version ofthe Book of Job the Just, William Straker, London 1846.
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ran nella Transgiordania La seconda posizione invece, partendo dalle genealogie di Gen 36,28 e lCr 1,42, colloca Uz nel territorio di Edom, nel sud-est della Palestina. Secondo quest'ultima ipotesi, considerata più probabile, Giobbe appare inserito nella discendenza di Esaù, tradizionalmente ostile a Israele. È possibile che il nome nasconda anche un significato simbolico: in ebraico il~ significa «disegno)), «progetto)),
PROLOGO (1,1-2,13) Il libro di Giobbe si apre con un prologo, scritto in prosa, nel quale si presentano i personaggi principali della storia e si descrive la situazione dalla quale scaturiscono i dialoghi della parte centrale dell'opera. La sezione, che occupa i primi due capitoli del libro, presenta una successione di diverse scene, caratterizzate da un'alternanza della collocazione spaziale, situata ora in terra (1,1-5.13-22; 2,7-13), ora in cielo (1,6-12; 2,1-6). Una prima conclusione, provvisoria, delle vicende in l ,22 e un nuovo inizio in 2, l segnalano la suddivisione della sezione in due unità: nella prima (1,1-22) troviamo la presentazione di Giobbe e la descrizione della serie iniziale di disgrazie; la seconda (2, 1-13) si apre con la narrazione delle nuove prove a cui Giobbe è sottoposto, per concludersi con l'arrivo degli amici. 1,1-22 Presentazione di Giobbe e prima serie di disgrazie In apertura del racconto, troviamo la descrizione del protagonista Giobbe e del suo felice stato di vita (l, 1-5). Segue la prima scena collocata nel cielo, che introduce gli altri protagonisti non umani: il satan e Dio, impegnati in una discussione circa la rettitudine di Giobbe (1,6-12). Il racconto ci riporta quindi sulla terra, con la descrizione della prima serie di disgrazie che colpiscono Giobbe (l, 13-19), e si conclude con le parole di quest'ultimo che, nonostante sia stato duramente colpito, conserva la sua fedeltà a Dio (l ,20-22). Le scene, pur nell'alternanza spaziale, sono strettamente legate tra di loro: ciò che accade in terra è conseguenza delle decisioni che sono state prese in cielo, e, soltanto mettendo insieme i due diversi piani, il racconto acquista la sua coerenza e completezza. 1,1-5 Un uomo integro e retto La narrazione ha inizio in maniera repentina, con la presentazione sintetica del protagonista del libro; di Giobbe vengono menzionati soltanto il nome e la città di provenienza, Uz, mentre nulla viene detto circa la collocazione temporale delle vicende. Da .questi pochi indizi e dal resto del racconto si evince che Giobbe non è un israelita; il
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C'era un uomo nel paese di Uz, di nome Giobbe. Quell'uomo era integro, retto, timorato di Dio e alieno dal male. 2Gli erano nati sette figli e tre figlie. 3Possedeva settemila pecore, tremila cammelli, cinquecento coppie di buoi e cinquecento asine e un'ingente servitù; quell'uomo era il più grande tra tutti gli uomini d'oriente. 41 suoi figli erano soliti celebrare banchetti a turno a casa di ognuno e mandavano a chiamare le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme a loro. 5Quando si concludeva il ciclo dei banchetti, Giobbe li inviava 1
concetto molto presente e importante nel libro, soprattutto nella parte finale del confronto tra Giobbe e YHWH (cfr. 42,3). Giobbe (:l1"~) - Sebbene alcuni abbiano proposto un'associazione del nome con la radicale ebraica :l'N «essere nemico», cogliendovi un'allusione alla vicenda personale del personaggio nel suo rapporto ostile con Dio, la sua presenza in alcuni documenti rinvenuti a Mari, Ugarit,
Tell el-Amarna, suggerisce un'origine extrabiblica; il significato del nome probabilmente è «dove sta mio padre?», da intendersi come una sorta di invocazione rivolta al dio protettore. 1,3 Gli uomini d'oriente (C!.P.-'~-~)- Alla lettera: «i figli d'oriente». · · · 1,5 A purificarsi (CW"!i?~1) -Alla lettera: «e li santificò». La radice ebraica tti,p, utilizzata per esprimere il concetto di «santità», signifi-
suo stile di vita fa pensare a quello dei ricchi «uomini d'Oriente», capi di clan nomadi o seminomadi abitanti oltre i confini orientali della terra di Israele; dal punto di vista cronologico, alcuni situano le vicende al tempo dei patriarchi. Questa scarsità di notizie sembra intenzionale. La figura di Giobbe non emerge da un contesto ben definito e delineato; assume piuttosto il ruolo di un ;1 c~ v,h~ l'1.~f. ~i'IOf 1'~ 'f. :Ji~~ :Ji~~ N:l; C~fJO 1P-Nll1 ily1;·.n~ iP.~iJ 1~:~1 9 :31}~ ilP.~ T;l~W [il~~-wm 1 I;l~-N7QJ T;l~.J'N?O IO :c';;:i'~ z:l:r1l Ì'1' i'IWVO ::1'::10>0 i?-1WN-?!! 11'::1~ i.n'l-11'::1~ -z -,w~-;~f VJ1 ~1 ~ Nrn?'P. b7~N1 l l =n.~f. n~ ~nJ.i?Q~ ii).D t~~;:t·?~ n!n; 1~N~1 12 :;t~tF;t; 'Tf'~.~-?~ N?·c~ i? c~~ t~~iJ N~~! 'TfJ; n?V?T:l·?~ ,,7~ i'J 'Tfi;f ì?-,w~-?~ T l
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1'~iJ7 '1:;7 :t.~ri'1 il\?7~~1 c~:;>Nr-l! 0'1};'~:;~ tN~~ 1V-~T:l1 Isaia (Is 42,1-4; 49, 1-6; 50,4-9; 52,13-53, 12). Lungi dallo sminuire la dignità della persona, il sostantivo la esalta in modo sorprendente, sottolineando il valore straordinario che essa assume per Dio e, spesso, il ruolo che a essa viene affidato: chi è chiamato «servo» dal Signore, lo è non in quanto privato della propria libertà, o costretto da un despota indifferente alla sua sorte, ma perché amato dal Signore in
modo del tutto peculiare, da Lui scelto come interlocutore e collaboratore privilegiato. Timorato di Dio (c•ry';,~ N!.:)- Nella Bibbia ebraica, la radice ~i' è ·la più diffusa per indicare la realtà della «paura» o del «timore»; tuttavia, la locuzione «timore di Dio» assume un significato quasi tecniço nell'esprimere il rapporto religioso: «temere Dio» significa porsi davanti alla sua presen-
da Lui descritto utilizzando le stesse espressioni con cui viene presentato al v. l, provocando la reazione del satan: questi insinua infatti che l'integrità e la rettitudine di Giobbe esaltati da YHWH non siano autentiche, bensì derivino dal fatto che YHWH ha colmato Giobbe della sua benedizione. Il satan imbastisce una sorta di processo contro Giobbe, con lo scopo di smascherare la sua religiosità interessata; assume quasi la funzione di un pubblico ministero che sostiene la sua accusa, certo che l'accusato non riuscirà a portare le prove di una fede vissuta nella gratuità. Il satan sfida quindi YHWH a colpire Giobbe nei suoi beni, affinché con la sua risposta dimostri se davvero la sua fiducia in Dio è autentica Da parte sua, YHWH mostra di fidarsi della sincerità dei sentimenti di Giobbe, ponendo come unica condizione al satan di risparmiare
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Poiché nessuno sulla terra è come lui, uomo integro, retto, timorato di Dio e alieno dal male». 9Ma il satan ribatté a YHWH dicendo: «Forse gratuitamente Giobbe teme Dio? 10Non hai forse posto una siepe intorno a lui, alla sua casa e a tutto ciò che gli appartiene? Hai benedetto l'opera delle sue mani e i suoi beni si dilatano sulla terra. 11 Ma stendi la mano e toccagli tutto ciò che possiede, vedrai se non ti benedirà in faccia». 12 YHWH disse al satan: «Ecco, tutto ciò che gli appartiene è in tuo potere, soltanto non stendere la tua mano contro lui». E il satan uscì dal cospetto di YHWH. 13Un giorno, in cui i suoi figli e le sue figlie stavano mangiando e bevendo vino nella casa del loro fratello primogenito, . 14un messaggero giunse da Giobbe dicendo: «l buoi stavano arando e le asine pascolando alloro fianco, 15 quando i Sabei si sono avventati su essi predandoli e hanno passato i guardiani a fil di spada; soltanto io sono scampato per riferirtelo». 16Stava ancora parlando quando giunse un altro dicendo: «Un fuoco divino è caduto dal cielo, ha arso il gregge e divorato i guardiani; soltanto io sono scampato per riferirtelo». za con atteggiamento di profonda riverenza e fiducia, nella disponibilità ad accogliere la sua Parola e a osservare i suoi precetti (cfr. Es 14,31; 20,20; Dt 10,12-13; 13,5; Sal 103,17-18). 1,15/ Sabei (~~~)-Come per i Caldei del v. 17, si tratta di un gruppo scelto con senso rappresentativo, probabilmente predatori nomadi stanziati nella regione dell'Arabia,
menzionati anche negli Annali di Tiglatpileser III. 1,16 Un fuoco divino (t:l';:i~~ ~~)-Il sintagma potrebbe essere inteso come una forma superlativa per indicare «un fuoco devastante», tuttavia l'idea del fuoco divino accompagna spesso le teofanie (cfr. l Re 18,38) e può essere utilizzata per esprimere il giudizio di Dio (cfr. 2Re l ,10.12).
la sua persona. L'uscita del satan dal cospetto di YHWH conclude la scena, creando un'ulteriore attesa nel lettore riguardo a ciò che sta per accadere. 1,13-19 Giobbe colpito nei beni e negli affetti La scena torna sulla terra; qui, la serie delle disgrazie che colpiscono Giobbe è descritta utilizzando uno schema ripetitivo. L'apertura della sezione ci mostra i figli e le figlie di Giobbe riuniti per uno dei consueti banchetti, una situazione che richiama, per l'ultima volta, la condizione felice della vita del protagonista; subito, infatti, entra in scena il primo messaggero, latore della prima disgrazia. In successione e in ordine progressivo di importanza, vengono colpiti i buoi e le asine di Giobbe, razziati da una banda di Sabei; le pecore con i loro guardiani, inceneriti da un fuoco divino;
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:o'ry;N; ii~~T:lT.PtN;1 :li~~ NP.ITN; nNr;:tf 22 1,17 I Caldei (C""!~~)- Da non confondersi con i Babilonesi, oon cui furono in seguito identificati; si tratta di gruppi nomadi abitanti nella parte meridionale della Mesopotamia, già noti nei testi assiri del IX sec. a.C. La tecnica di assalto qui descritta, che prevede la suddivisione delle forze in tre schiere,
ricorda quelle di Gedeone (cfr. Gdc 7,16.20), Abimelek (Gdc 9,43-45), Saul (1 Sam 11,11) e dei Filistei (l Sam 13, 17). 1,18Ancora (,1.11)- Leggiamo così con molti manoscritti ebraici e le versioni antiche, ricalcando la costruzione che si trova nei vv. 16 e 17, mentre il codice di Leningrado (L), seguito
i cammelli, catturati dai Caldei; infine, i figli e le figlie di Giobbe, uccisi dal crollo della casa in cui si trovavano riuniti, investita da un vento impetuoso. La successione dei fatti è fulminea, il ritornello «stava ancora parlando quando giunse un altro» (w. 16.17.18) evidenzia il precipitare degli eventi, che stravolgono la vita di Giobbe in maniera devastante. Gli uomini e gli elementi cosmici diventano quindi lo strumento attraverso il quale il satan mette alla prova Giobbe: è interessante notare, però, che la responsabilità ultima delle calamità, come suggerito anche dall'apparire del «fuoco divino» e del «vento impetuoso» - usuali segni numinosi della presenza e dell'azione di Dio (l Re 18,38; 19, Il; 2Re 1,10.12; ls 41,16; Ger 13,24; 18,17)- viene attribuita a Dio stesso, al quale Giobbe, ormai privato di tutto, si rivolge direttamente. 1,20-22 La rettitudine di Giobbe I gesti di Giobbe sono improntati al tipico rituale orientale di fronte alle disgrazie e alla morte: stracciarsi il mantello, radersi il capo, prostrarsi, esprimono la reazione al dolore e alla sventura e sono il modo usuale di celebrare il lutto (p. es., Gen 37,34; Gs 7,6; 2Sam 3,31; Is 15,2; Ger 7,29). Da questo stato di profondo abbattimento, Giobbe innalza al Signore una sorta di inno. Le parole iniziali denotano una profonda consapevolezza della fragilità della condizione umana, connotata con l'immagine della «nudità»; nella sua valenza esistenziale, essa indica anzitutto la transitorietà dei beni e di tutto ciò che l'uomo possiede, ma anche l'incapacità umana di trovare
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Stava ancora parlando quando giunse un altro dicendo: «l Caldei, disposti in tre gruppi, si sono lanciati sui cammelli, li hanno razziati e hanno passato i guardiani a fil di spada; soltanto io sono scampato per riferirtelo». 18Stava ancora parlando quando un altro giunse dicendo: «l tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino nella casa del loro fratello primogenito, 19ed ecco un vento impetuoso è venuto da oltre il deserto e ha travolto i muri portanti della casa; essa è caduta sui ragazzi, che sono morti. Soltanto io sono scampato per riferirtelm>. 20 Allora Giobbe si alzò, lacerò il suo manto e si rasò il capo; cadde a terra e si prostrò, 21 dicendo: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre l e nudo vi tornerò. YHWH ha dato e YHWH ha ripreso. l Sia benedetto il nome di YHwH!». 22 ln tutto questo Giobbe non peccò e non fu irriguardoso verso Dio. 17
dall'edizione qui riprodotta, ha «finché)>(,~). 1,22 E non .fit irriguardoso (il"f;ll;'l 11JrN"l:'1) -Alla lettera: «e non diede stoltezza)); ma il senso del sostantivo è discusso. Il significato base del termine è «insipienza)), «stoltezza)): cosi, infatti, intendono la Settanta con alj>poauvn e la Vulgata con stultum quid.
L'espressione parrebbe indicare che Giobbe non accusò Dio di follia, oppure che non pronunciò stoltezze a suo riguardo; in senso traslato, può essere inteso quindi come «insolenza)), «iniquità)), «indegnità)). Altri autori considerano il sintagma ii75?J:'l 11J~ equivalente a «rimproverare)), «incolpare)).
una difesa efficace contro le disgrazie e le sofferenze della vita, che raggiungono il loro culmine nel mistero doloroso della morte. L'intera parabola della vita di Giobbe è condensata tra il momento de li 'uscita «dal ventre di mia madre» fino al suo ritorno in esso: si tratta chiaramente di una sovrapposizione di immagini, dove al ventre della madre- origine della vita- viene fatto corrispondere il grembo della terra, luogo in cui la vita stessa ha termine e in cui l'uomo trova il suo riposo dagli affanni dell'esistenza. Le parole di Giobbe, tuttavia, non nascono dalla disperazione o dall'apparente non senso del vivere: tutta la realtà, infatti, appare soggetta all'insondabile signoria di Dio, a cui Giobbe si sottomette con un atto di fiducia incondizionata. YHWH è colui che «ha dato» e «ha ripreso»; nella polarità delle due espressioni è racchiusa l'intera esperienza della vita dell'uomo, con i doni che da Dio ha ricevuto e che, al termine del cammino terreno, a Dio torneranno. Ma la confessione di Giobbe si riferisce più direttamente anche a ciò che gli è appena accaduto: tutti i beni di cui Dio lo aveva colmato, gli stessi figli con cui la sua vita era stata benedetta, gli sono stati sottratti da un destino awerso, che però non può sfuggire al dominio di Dio stesso. Questa fiducia è il fondamento del suo abbandono e dell'accettazione paziente delle disgrazie che lo hanno colpito; ed è anche la base dell'esclamazione finale dell'inno di Giobbe il quale, nonostante il carico di dolore che ha sconvolto la sua esistenza, benedice il nome di YHWH.
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separazione, con una sfumatura di ostilità. La forma hifil, «rendere un altro», esprime invece l'intenzione del satan di allontanare Dio da Giobbe, intaccando la
A conclusione dell'unità, la virtù straordinaria di Giobbe viene esaltata ancora una volta dali' autore, che sottolinea l'estraneità del protagonista dal peccato e da ogni atteggiamento di insolenza nei confronti di Dio: ne emerge una figura eroica, che dimostra l'autenticità della propria fede con l'obbedienza assoluta ai misteriosi disegni divini. Al tempo stesso, Giobbe diventa la prova vivente che le disgrazie non sono la conseguenza diretta e necessaria del comportamento iniquo deli 'uomo, introducendo uno dei temi centrali del libro, quello della giustizia di Dio. 2,1-13 Seconda serie di disgrazie La pausa segnata dalla confessione di Giobbe interrompe soltanto per un breve momento la sequenza dei mali che lo colpiscono; un nuovo dialogo avviene nel cielo tra Dio e il satan (2, 1-6), dando avvio a una seconda serie di disgrazie, che questa volta colpiscono Giobbe nella sua persona (2,7-10); anche in questo caso le scene in cielo e in terra sono perciò legate strettamente. L'unità e l'intera sezione del prologo si concludono quindi con la comparsa sulla scena dei tre amici di Giobbe (2, 11-13), che saranno i protagonisti dei successivi dialoghi. 2,1-6 Seconda discussione tra il satan e Dio Il racconto del secondo dialogo tra Dio e il satan ricalca la struttura e le espressioni del primo, secondo la tipica tecnica del parallelismo; in apertura troviamo una nuova indicazione temporale indeterminata, «un giorno» (che, questa volta, il Targum identifica con il giorno del kippur, cioè il «giorno dell'Espiazione»); quindi, gli esseri celesti, e il satan con loro, tornano a presentarsi davanti a YHWH per l'usuale resoconto. Giobbe viene nuovamente presentato da Dio, con le stesse parole utilizzate nel primo dialogo: > (il cui significato è forse «Dio è oro») è un nome edomita (cfr. Gen 36,4 in cui compare con questo nome il primogenito di Esaù) e la provenienza da Teman conferma questa origine (cfr. ICr 1,45); il nome «Bildad» è conosciuto dalle tavolette accadiche di Nuzi («figlio di Adad»), mentre Shub è un nome etnico di tribù (cfr. Gen 25,2) stanziate tra l'Eufrate e la Transgiordania; «Zofam (forse «passerotto») proviene invece
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dalla regione ignota di Na'ama. I tre uomini sembrano essere rappresentativi, a livello culturale, del mondo sapienziale e, dal punto di vista geografico, dell'intera area circostante la Palestina. 2,12 Al cielo (iTf?;f?~lJ) - L'espressione è ridondante, in quanto già si dice che la polvere è sparsa «sulle loro teste» e non appare necessario specificare che venga lanciata «al cielo»: forse per questo, viene omessa dalla Settanta. Altri autori congetturano c~~lJ, i'Tb~Mf? o i!f?~~:;l. espressioni con significato analogo: «con stupore» o «con orrore»; la
2,11-13 Arrivo dei tre amici Alla fine della sezione, l'arrivo di tre amici di Giobbe allenta la tensione accumulatasi con il racconto delle disgrazie, preparando lo sviluppo successivo. I tre amici vengono introdotti con l'indicazione del nome e del paese di provenienza; avendo saputo in qualche modo della situazione di Giobbe, lo raggiungono con lo scopo di «commiserarlo e consolarlo» (v. 11). L'aspetto di Giobbe è sfigurato dalla malattia e dalle sofferenze patite, al punto che gli amici non lo riconoscono; la loro reazione e la relativa durata temporale di «sette giorni e sette notti» (v. 13) sono quelle tipiche del lutto. Agli occhi degli amici, Giobbe appare quindi già come morto: la sua vita, devastata dai recenti tragici avvenimenti, non è più considerata degna di essere vissuta, è soltanto un'attesa disperata della morte. Colpisce il silenzio con il quale si conclude la scena: gli amici non hanno parole da rivolgere a Giobbe, talmente intenso e profondo appare il suo dolore; al tempo stesso, però, il silenzio è come una pausa di riflessione, nella quale vengono raccolti i pensieri che saranno formulati nei dialoghi successivi; forse al momento gli amici non si
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amici di Giobbe, avendo udito tutto il male che gli era accaduto, partirono ognuno dal proprio paese: Elifaz, il Temanita, Bildad, il Shul,ita e Zofar, il Na'amatita; insieme si accordarono per andare a commiserarlo e a consolarlo. 12 Da lontano alzarono gli occhi e non lo riconobbero; elevarono la voce e piansero, lacerandosi ognuno il proprio mantello e spargendo polvere al cielo sulle loro teste. 13 Poi sedettero a terra con lui per sette giorni e sette notti; nessuno gli rivolse la parola, poiché vedevano che troppo grande era il dolore. 11 Tre
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1Dopo
di ciò Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. prese la parola dicendo:
2Giobbe
lezione del Testo Masoretico, pur insolita, ci sembra tuttavia accettabile. 3,1 Maledisse (l;l~~;2) - La radice l;ll;lp al qal ha come significato fondamentale «essere leggero»; al pie/ esso diventa «considerare leggero», nel senso di «disprezzare» e quindi anche «maledire»; con quest'ultima accezione il verbo va però distinto da altri verbi che denotano l'azione di «maledire» in un senso più tecnico, come o ::!:lp (cfr. al v. 8), i quali spesso sottintendono un esercizio da parte di professionisti e un effetto di tipo magico. Con l;ll;lp si vuole indicare per
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lo più un'ingiuria come atto di ribellione nei confronti di una situazione che si sperimenta come oppressiva, nel desiderio di liberarsene: è il caso di Giobbe nei confronti del suo giorno natale. 3,2 Giobbe prese la parola (:li"~ W~1) L'espressione è omessa dalla Vulgata e dalla Settanta, che probabilmente la ritengono ridondante, in quanto già al versetto precedente Giobbe viene menzionato nell'atto di «maledire»; la conserviamo, in quanto formula introduttiva usuale anche nei discorsi seguenti.
sentono di infierire su Giobbe, ma esprimeranno presto il loro disaccordo con lui riguardo alla sua presunta integrità, accusandolo delle sue mancanze nei riguardi di Dio, considerandole come la causa di tutti i suoi mali.
SEZIONE POETICA CENTRALE (3,1-42,6) La sezione contenente i discorsi tra Giobbe e i suoi amici e i successivi interventi divini è la più lunga e articolata del libro; dal punto di vista stilistico, è da notare il passaggio dalla prosa, caratterizzante la narrazione del prologo, allo stile poetico, che prosegue fino ali' epilogo (42,7-17), nuovamente in prosa. Il capitolo con cui la sezione si apre (3, 1-26) contiene un lungo monologo pronunciato da Giobbe e funge da introduzione alla successiva serie dei dialoghi; questi presentano l'estenuante confronto tra Giobbe e gli amici i quali, partendo dalla situazione da lui vissuta, lo incalzano per convincerlo in merito alle posizioni teologiche da essi sostenute. l discorsi sono disposti secondo tre cicli (4,1-14,22; 15,1-21,34; 22,1-27,23) che prevedono un'alternanza tra gli interlocutori: in ogni ciclo, a turno Elifaz, Bildad e Zofar prendono la parola, provocando le repliche di Giobbe. Al
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no infelice della sua nascita, reclamandone la proprietà, come se ciò potesse sottrarlo ali' esistenza. Le eclissi ('1'!~~)- La Vulgata deve avere interpretato a partire da'!'!~ («amaro») e rende con et involvatur amaritudine («e sia avvolto dall'amarezza»), mentre la Settanta sposta al versetto seguente, forse presupponendo l'ebraico ,~,N, Ci• e traducendo
termine di questo confronto troviamo un lungo poema sulla sapienza, il cui cantore, nella forma attuale del libro, rimane anonimo (28, 1-28). Segue un secondo monologo del protagonista (29,1-31,40), che anticipa l'intervento di un nuovo personaggio, Elihu, il quale assume il ruolo prima svolto dagli amici nel contendere con Giobbe. Le argomentazioni di Elihu (32,1-37,24) non lasciano spazio al dialogo, ma preparano le due grandiose risposte di Dio a Giobbe (38,1-42,6), con le quali si chiude la sezione e che costituiscono il vertice teologico del libro. 3,1-26 Il monologo iniziale di Giobbe Il profondo silenzio, con il quale si chiudeva la sezione precedente, viene rotto da Giobbe, che prorompe in un grido di lamento: colpiscono i toni drammatici e di protesta delle parole di Giobbe, che contrastano con l'immagine rassegnata e paziente del protagonista descritta nel prologo. Le prime parole del monologo di Giobbe contengono una maledizione del giorno della sua nascita (3,1-10); seguono due lamenti sull'infelicità della condizione umana, caratterizzati da una sequenza di frasi interrogative, il primo dei quali, dal punto di vista del contenuto, ha un carattere personale (3, 11-19), il secondo, invece, un tono più universale (3,20-23); il ritorno al discorso in prima persona e alla forma assertiva caratterizza la parte conclusiva del brano, nella quale Giobbe manifesta nuovamente il proprio dolore (3,24-26). 3,1-10 Maledizione del giorno della nascita La sezione si apre con un nesso temporale indeterminato, che ha lo scopo di collegarla alla precedente: «Dopo di ciò». Giobbe prende la parola e maledice
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«Perisca il giorno in cui sono stato generato l e la notte che ha detto: "È stato concepito un maschio". 4Quel giorno sia tenebra, l non lo cerchi Dio da lassù l e non rifulga su di lui la luce diurna! 5Lo redimano la tenebra e l'ombra mortale, l su di lui si posi una nube l e lo terrorizzino le eclissi di giorno! 6Quella notte se la prenda il buio, l non si rallegri nel corso dell'anno l e non entri nel conto dei mesi; 3
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Kcxtcxptt9E( 11 ftiJ.Éptt («sia maledetto il giorno»). Proponiamo invece la traduzione «eclissi», sulla base del siriaco k"mlr («scurm> ), proseguendo la simbologia della tenebra presente nel resto del verso (cosi anche la versione CEI con «l'oscurarsi del giorno», correggendo «gli uragani» della precedente versione). 3,6 Si rallegri (~ti') - In parallelo con la
seconda parte del versetto, la Vulgata (computetur) e la Peshitta sembrano avere letto itT~ «si unisca», dalla radice iM' anziché da :'!in (cosi anche la versione CEI che traduce «si aggiunga»). È probabile che il testo giochi sulla possibile duplice lettura del testo consonantico; con questa ipotesi, abbiamo scelto di tradurre secondo la vocalizzazione masoretica.
«il suo giorno», locuzione con la quale viene indicato non soltanto il giorno della nascita, come appare chiaro in seguito, ma l'intero corso della vita di Giobbe. Se al centro del prologo troviamo il concetto di benedizione, il primo discorso di Giobbe comincia invece con una maledizione. La strategia del satan sembra avere avuto successo; in realtà Giobbe maledice non Dio (cfr. l, 11; 2,5), ma la condizione miserabile della propria esistenza. Richiamandosi all'amaro lamento del profeta Geremia (Ger 20,14-18), Giobbe maledice il giorno della sua nascita e la notte in cui è stato dato l'annuncio del suo concepimento; un evento che di solito comporta gioia ed esultanza si tramuta così in occasione di tristezza e di angoscia. La simbologia delle tenebre e della luce allude all'atto creatore di Dio; ma se la prima parola pronunciata da Dio nel racconto della creazione è «sia la luce», Giobbe desidera che quel giorno, ovvero il giorno della sua creazione-nascita, «sia tenebra» (v. 4); vorrebbe poter tornare nel nulla primordiale, mentre auspica che Dio «non cerchi» quel giorno, principio di infelicità, ma lo lasci sprofondare nella tenebra e che questa lo rivendichi come sua proprietà. L'immagine delle eclissi e del terrore ad esse associato completa il quadro della desolazione e del caos nei quali Giobbe spera di essere riassorbito, uscendo perfino dal computo del tempo (v. 6): nella sofferenza atroce di Giobbe non c'è più spazio per la gioia e la vita sembra non avere un senso. Ci troviamo di fronte, sostanzialmente, a un processo di anti-creazione: per questo Giobbe associa alla sua maledizione anche l'evocazione del Livyatan, mitico mostro marino simboleggiante le potenze distruttrici che si oppongono all'ordine cosmico.
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>, ovvero alla raccolta dei frutti di iniquità che essi stessi hanno seminato; passa poi a descrivere esplicitamente la punizione divina mediante il «soffio» o «l'alito» della sua ira; infine, conclude la sua argomentazione ricorrendo ali' immagine del leone
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4,15 I peli (M1~W) - Il termine è singolare, ma deve avere qui valore collettivo; alcuni autori leggono l'l,llO o M,llt!l «tormenta», in parallelismo con"I~immagine del «vento» della prima parte del versetto, traducendo: «una tormenta mi raggrinzi la pelle». La correzione tuttavia non ci sembra necessaria e non è supportata dalle antiche versioni.
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4,17 Può ... essere giusto~.,~)- La questione della «giustizia» dell'uomo davanti a Dio, insieme alla messa in discussione della giustizia dello stesso Dio, è lUJO dei temi centrali del libro di Giobbe. Il verbo p~ trova perciò proprio nel libro di Giobbe la sua massima concentrazione (diciassette occorrenze sulle quarantuno totali della Bibbia ebraica). La «giustizia>> biblica, più
(nei vv. 10-11 vengono utilizzati ben cinque sostantivi diversi per l'animale): è una simbologia tipica per indicare i malvagi, con il loro atteggiamento di minaccia e di violenza nei confronti dei giusti. Ebbene, il giudizio divino non risparmierà gli iniqui, che saranno definitivamente dispersi e messi in condizione di non più nuocere, ricevendo cosi il contraccambio per la loro condotta. Rivelazione sulla fragilità umana (4,12-21 ). Il passaggio al nuovo brano è marcato da un'espressione che richiama da vicino le formule profetiche, con la menzione della «parola» che sopraggiunge e viene colta dall'uomo. Si tratta, in questo caso, di una parola quasi sussurrata, che si manifesta però- a differenza di quello che normalmente avviene per i profeti- in un contesto di visione onirica. L'uso del termine raro tardéméi «torpore» (che, oltre a qui, compare solo in Gen 2,21 e 15, 12), rimanda infatti a uno stato di sonno soprannaturale, che costituisce lo sfondo di una teofania. La reazione di Elifaz di fronte a questa rivelazione è quella tipica dello spavento e del terrore, che derivano dalla coscienza della piccolezza e dell'indegnità dell'uomo nei confronti del divino; il «vento» che passa sulla sua faccia sembra essere il segno del passaggio della presenza di Dio, o di colui che da Dio è incaricato di riferire il messaggio. Subito dopo, infatti,
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(Se) il ruggito del leone, l 'urlo del felino l e i denti dei leoncelli sono tolti, 11 perisce il leone per mancanza di preda l e i cuccioli della leonessa sono dispersi. 12Ma a me giunse una parola furtiva l e il mio orecchio ne colse il sussurro; 13tra le immagini delle visioni notturne, l quando il torpore cade sugli uomini, 14 un terrore mi prese e un tremore l scosse tutte le mie ossa; 15un vento mi passò sulla faccia, l i peli si drizzavano sulla mia pelle. 16 Una figura, di cui non riconoscevo l'aspetto, l stava davanti ai miei occhi; l silenzio ... ma poi udii una voce: 17 "Può un mortale essere giusto davanti a Dio l o un uomo (essere) puro davanti al suo creatore? 18Ecco, non si fida dei suoi stessi servi l e nei suoi messaggeri scorge difetti, 19quanto più in quelli che dimorano in case di fango, l che hanno nella polvere il loro fondamento! l Li schiacceranno come un tarlo, 10
che a un insieme di nonne etiche e giuridiche, fa riferimento a quegli atteggiamenti che assicurano la sussistenza di una relazione di comunione, sia tra l'uomo e Dio, sia degli uomini tra di loro. 4,18 Difetti (i17wN- Cosi sembrano inten· dere sia la Vulgata con pravitatem, sia la Settanta con aKoÀLov n, ma si tratta di un hapax di difficile interpretazione.
4,19 Li schiacceranno come un tarlo (C~N:P'T. ~V"'~~) - Segnaliamo una diversa interpreta~ zione~ che collega la frase al versetto precedente, correggendo il testo: CW11-'l.E;l~~ ~N:PT «Sta· ranno limpidi davanti al loro.creatore». Prefe· riamo, tuttavia, la versione del Testo Masore· ti co, che collega più lineannente l'immagine di distruzione a quelle del versetto seguente.
alla vista di Elifaz compare d'improvviso una figura dai tratti indefiniti (v. 16); è il momento culminante della visione, ma l'attenzione è immediatamente distolta dali 'immagine e una pausa di silenzio induce un'attesa carica di tensione verso la «voce» che deve comunicare il contenuto della rivelazione. Non si può escludere che l'autore abbia rivestito questa introduzione di una velata ironia, volta a colpire la pretesa di Elifaz di una partecipazione di tipo carismatico al ministero profeti co. II presunto messaggio celeste si apre (v. 17) e si chiude (v. 21) con alcune domande retoriche, in cui vengono ribaditi i principi ai quali Elifaz si attiene fermamente; contro le affermazioni di Giobbe in sostegno della sua condotta irreprensibile, viene sottolineata l'universalità della colpevolezza umana: nessun uomo può ritenersi giusto davanti a Dio, nessun essere creato può considerarsi puro. Arafforzare la convinzione di un'antologica fragilità umana, la voce misteriosa accosta al giudizio sull'uomo quello sulle creature celesti, i «servi» e i «messaggeri» della corte divina; anch'essi, davanti a Dio, non sono privi di difetti e non meritano, di conseguenza, la sua piena fiducia. La fragilità umana viene poi descritta attraverso immagini che esprimono un'idea di inconsistenza e precarietà (le «case di fango>>, la «polvere>>, il «tarlm>). Al v. 19, richiamandosi all'espressione divenuta proverbiale di Gen 3,19, vengono ulteriormente
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:O~'IJ O'~~ ~~~1 4J,OSenza che alcwwse ne accmga (C~~) - Espressione di difficile interpretazione; Blla lettera: «da mancanza di un disponente». La Settanta intende diversamente: mxpò: tò 1.1~ &Uvao9cxt cx&toùç Ècxuto1ç flon9fiacxL «per non aver potuto aiutare se stessi>>. Da segnalare la proposta di M. Dahood, che legge cw cc·~~ (con c enclitico come in ugaritico): «senZa nome», ovvero senza lasciare un ricordo. La nostra proposta ci sembra ben sottolineare la repentinità della scomparsa degli uomini, già espressa nella prima parte del versetto.
5,3 Maledissi (::lip~~)- Cosi intende la Vulgata (maledixi), mentre la Settanta ha una forma passiva ~pwe, «fu divorata», che presuppone un testo diverso, non facilmente ricostruibile: alcuni congetturano ,p~~J (alla lettera: «e fu abbattuta»). Altri autori interpretano la forma verbale come un infinito aramaico equivalente a ::lip;:t «seccarsi», oppure a partire dalle radicali arabe 'qb «marcire>> o qwb «essere strappato»: si avrebbe una continuazione dell'immagine vegetale della prima parte del versetto. La lezione del Testo Masoretico ci sembra,
ribadite la caducità e la fugacità dell'esistenza, che termina con il ritorno alla polvere, in un tempo che appare assurdamente breve («dal mattino alla sera>>: v. 20), soprattutto se confrontato con la condizione della morte che è «per sempre». Un'ultima domanda retorica segna la conclusione del brano (v. 21 ); il riferimento, questa volta, è tratto dal mondo dei beduini nomadi del deserto: la fine repentina della vita umana è paragonata alle corde della tenda che sono strappate. Cosi l'uomo muore «senza sapienza», espressione che può intendersi come «senza neppure rendersene conto», ma anche «senza avere la possibilità di acquistare quella sapienza che deriva da una vita piena e ricca di giorni». La morte, quindi, appare come quella realtà ineluttabile che smaschera l'intrinseca caducità della creatura umana e ne rivela la finitudine, togliendo all'uomo ogni pretesa di affermare la propria integrità e giustizia di fronte a Dio; indirettamente, anche Giobbe è invitato ad accogliere questa verità, riconoscendo le proprie colpe. L 'uomo secondo l 'esperienza di Elifaz (5,1-7). Dopo aver comunicato il contenuto della rivelazione ricevuta, Elifaz riprende l'iniziativa, esortando Giobbe a gridare; si tratta, anche in questo caso, di un artificio retorico, come confermato dalle domande che seguono, attraverso le quali viene manifestata l'assenza di intercessori (il testo parla di «santi», con ogni probabilità da identificare con gli angeli; cfr. 4,18) che accolgano il grido .di Giobbe e ne prendano le difese (alcuni autori vedrebbero meglio
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GIOBBE5,5
mattino alla sera saranno fatti a pezzi, l senza che alcuno se ne accorga periranno per sempre. 21 Non è stata forse strappata la corda della loro tenda l e muoiono senza sapienza?". 1Grida, dunque! C'è forse chi ti risponda? l A chi tra i santi ti rivolgerai? 2Poiché l'indignazione ucciderà lo stolto l e l 'inesperto morirà d'invidia. 31o ho visto lo stolto mettere radici l e subito maledissi la sua abitazione, 4i suoi figli saranno lontani dali~ salvezza l e saranno calpestati in tribunale, senza alcun difensore, 5la sua messe la mangerà l'affamato, l la prenderà anche dalle spine l e inghiottirà i suoi averi 'I' assetato'.
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comunque, accettabile, come espressione del giudizio negativo di Elifaz sullo stolto, che si estende anche alla sua abitazione. 5,5 La sua messe (i,'i'i?)- Data la presenza della particella relativa in apertura del versetto, è possibile un originario ,,=R;' «hanno mietuto»; cosi in effetti sembra avere letto la Settanta, che prosegue però in maniera diversa per tutto il versetto: li yètp ÈKE'ivo~ auvfryo:yov ... «quel che essi avranno mietuto ... ». La prenderà anche dnlle spine C'~~) - La costruzione con le due preposizioni ~ e
(,m.r.
1~ appare anomala e ha dato origine a diverse ricostruzioni del testo. Citiamo qui soltanto la versione della Vulgata, che ha et ipsum rapiet armatus «e l' annato lo condurrà via», forse leggendo l'm'l M~ c~ c•rp~'l (alla lettera: «e manipoli inflessibili prenderanno lui»). L 'assetato- Traduciamo correggendo il termine c•rp~ «nodO>), incomprensibile nel contesto, con C'l:t~i' «assetati»: cosi la Vulgata (sitientes), con Aquila, Simmaco e la Peshitta. Altri intendono il termine come «affamati», da un'ipotetica radicale C~l: con questo significato.
il v. l a conclusione del brano, dopo il v. 7). Il detto sapienziale del v. 2 (gli autori che spostano il v. l lo leggono come una spiegazione di 4,21) introduce poi il nuovo argomento, riguardante il destino dello stolto; l'insensato, colui che non ricerca la sapienza, muore proprio a causa della sua stoltezza. Di questo principio generale Elifaz offre un'illustrazione a partire dalla propria esperienza personale e di quanto ha potuto constatare direttamente (v. 3: «lo ho visto»). Elifaz sembra voler rispondere preventivamente a una possibile obiezione, ovvero che spesso l'empio pare prosperare e avere successo; ricorrendo a un'immagine frequente tratta dal mondo vegetale (nel libro di Giobbe, compare ancora in 8,16; 14,7-9; 15,32; 18,16; 19,10; 24,20; 29,19), paragona l'insensato a un albero che «mette radici», ma l'impressione di rigoglio evocata dali' espressione è soltanto apparente: l'abitazione dell'empio, infatti, è segnata dalla maledizione. E quando il giudizio di Dio sembra risparmiare la vita deli' empio, in realtà esso ricade sui suoi figli, descritti nel v. 4 mentre si trovano alle porte della città, ovvero nel luogo dove si amministra la giustizia, senza che nessuno possa difenderli e proteggere i loro interessi. La descrizione prosegue nel versetto successivo che, nonostante ammetta diverse interpretazioni a causa delle difficoltà testuali, in ogni caso mostra le pesanti conseguenze della punizione divina sui figli dell'empio, spogliati dei propri averi e dei frutti dei campi che dovrebbero garantire la loro sussistenza.
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GIOBBE5,6
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5,7 È generato ('17~·)- Come la Nova Vulgata (generat), la versione CEI presuppone '1~1• o .,~~·. «genererà)), cambiando cosi il senso della frase: l'uomo diventa non - come a noi sembra - il de-
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Dopo questa illustrazione, Elifaz enuncia un nuovo principio di carattere generale, introdotto dalla particella enfatica kf, «certo» (v. 6): il testo con ogni probabilità contiene un'allusione alla maledizione di Dio sul suolo ( 'adiima) in conseguenza della disobbedienza dell'uomo ('adiim) che si trova in Gen 3,1719. Elifaz asserisce che l'iniquità e l'oppressione non nascono dal suolo e dalla polvere, ovvero non trovano la loro origine esternamente all'uomo, bensì sono la condizione intrinseca alla creaturalità umana: l'uomo che viene al mondo, necessariamente è soggetto alla negatività dell'esistenza. L'ineluttabilità di questo destino viene espressa, a conclusione del brano, attraverso un paragone variamente interpretato (v. 7b; cfr. nota filologica); comunque si intenda il testo, esso chiaramente vuole indicare la «necessità» della miseria che affligge la vita dell'uomo, il quale non può sottrarsi al dolore e al male che gli appartengono. Inno al Dio giusto {5,8-17). Nel brano precedente, Elifaz ha provocatoriamente invitato Giobbe a innalzare il suo grido, cercando un intercessore tra gli angeli di Dio, certo che non avrebbe trovato risposta; adesso, suggerisce a Giobbe che Dio è l'unico al quale potrebbe affidare la sua causa. Per sostenere la sua affermazione, Elifaz intona un inno, ricco di reminiscenze salmiche e di tonalità sapienziali, in cui esalta ancora una volta l'assoluta giustizia di Dio, artefice e garante dell'armonia cosmica e dell'ordine storico del mondo. Entrambi i piani, quello cosmico e quello storico, rientrano infatti nel dominio che Dio esercita sull'universo, compiendo in esso prodigi e meraviglie che, per numero e grandezza, sfuggono alla capacità di comprensione dell'uomo, suscitando invece sentimenti di stupore e di lode riconoscente.
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GIOBBE 5,14
l'iniquità non esce dalla polvere l e dal suolo non germoglia l'oppressione, 7ma l'uomo è generato per l'oppressione, l come le scintille si innalzano per volare. 8Quanto a me, mi rivolgerei a Dio, l a Dio affiderei la mia causa, 9a lui che compie grandiosità insondabili l e meraviglie senza numero, 10manda la pioggia sulla terra l e rovescia le acque sulle campagne, H innalza gli umili l e trae in salvo gli afflitti, 12 rende vani i progetti degli astuti l così che le loro mani non abbiano successo, 13cattura i sapienti nelle loro astuzie l e la trama degli scaltri svanisce: 14essi di giorno si imbattono nella tenebra l e come di notte brancolano nel meriggio.
6Certo,
«uccello rapace», ma la correzione non è necessaria: l'immagine delle scintille che dal fuoco si librano in aria è perfettamente comprensibile, facendoci preferire il Testo Masoretico; interessante è la
proposta di M. Dahood, secondo la quale sarebbe il nome proprio del dio degli inferi cananeo, che scagliava come fulmini malattie e sventure verso la superficie della terra. ~~l.
Il primo prodigio divino ad essere celebrato nell'inno è il dono della pioggia sulla terra (v. lO); è questa anche l'unica azione cosmica ricordata, ma è altamente significativa se pensiamo all'importanza rivestita dall'acqua in zone aride e secche, e alla ricca simbologia della stessa: Dio è esaltato in quanto dominatore della potenza caotica delle acque (Geo 1,7-9), principio di vita e di fecondità, unico tra i tanti idoli delle nazioni (Ger 14,22). La stessa potenza che Dio dispiega nel cosmo è all'opera anche negli avvenimenti della storia, sui quali l'inno indugia maggiormente, manifestando ancora una volta la concezione retributiva sostenuta daEiifaz. Dio si occupa, anzitutto, degli umili e degli afflitti (v. Il), offrendo loro sicurezza e prosperità; l'opposizione tra le due azioni di «umiliare» e N i1~i1 rT a • - r· - " •,•z r J•: • y,?f 19 N~~D Tit.z>7. "io/f 21 i'!JlpT:lT~~7~ i\;>7 22 5,15 Che è la loro bocca (CiJ'~~)- Alla lettera: «dalla loro bocca>>. Consideriamo l'espressione come apposizione di «dalla spada», mentre la Vulgata preferisce semplificare con a gladio oris eorum «dalla spada della loro bocca>>. Alcuni autori ipotizzano, per il parallelismo con lì'=il~ «il povero» della seconda parte del versetto, la lettura l'T~!? «l'oppresso».
5,17 Shadday ('"'!~)-Si tratta di un antico titolo divino, utilizzato nei racconti relativi ai Patriarchi (cfr. Gen 17,1; 28,3; 43,14; 48,3; 49,25), il cui significato originario è incerto. Alcuni studiosi ipotizzano una derivazione dalle religioni mesopotamiche e traducono (dio) «della montagna» (cfr. l'accadico sadu), considerando le alture come luogo
oppressori, simboleggiate rispettivamente dalla «spada» affilata e dalla «mano» violenta che incombono su di lui (v. 15). Questo intervento salvifico diventa il fondamento inamovibile della speranza del misero, nella certezza che Dio è dalla sua parte, mentre l'ingiustizia- chiaramente personificata- è costretta a «serrare la bocca» (v. 16), ridotta all'impotenza e resa inoffensiva. Il brano si conclude con un macarismo, rivolto all'uomo «che Dio corregge» (v. 17). Nella visione di Elifaz, la sofferenza del misero, l'oppressione del povero, gli affanni dell'umile, trovano la loro giustificazione nella pedagogia divina; Dio è come un maestro che mette alla prova i suoi allievi, o come un padre che riprende con severità i propri figli, allo scopo di educarli e di insegnare loro a vivere. Questa è la ragione ultima della beatitudine, che anche Giobbe è chiamato a riconoscere, accogliendo il dolore che sta soffrendo come espressione dell'azione correttiva di Dio (qui indicato con l'arcaico titolo Shadday, cfr. nota filologica), come un'ammonizione, sia pur severa, che mira a fargli prendere coscienza delle proprie mancanze, per porvi rimedio. Invito alla sottomissione a Dio (5,18-27). Nell'ultima parte del suo discorso, Elifaz torna a rivolgersi direttamente a Giobbe; dopo aver celebrato nell'inno l'agire salvifico di Dio, prospetta all'amico la felicità che lo attende se si sottometterà con fiducia alle prove che Egli gli ha inviato. Riprendendo l'idea conclusiva
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GIOBBE5,22
Ma egli salva il povero dalla spada che è la loro bocca, l dalla loro mano violenta: 16c'è speranza per il debole, l mentre l'ingiustizia serra la sua bocca. 17Perciò, felice l 'uomo che Dio corregge; l non respingere l'ammonizione di Shadday! 18Davvero, egli produce dolore e lo fascia, l ferisce e con la sua mano guarisce. 19Da sei angustie ti libererà l e alla settima non ti toccherà il male; 20nella fame ti riscatta dalla morte l e nella battaglia dal filo della spada, 21 ' dal, flagello della lingua ti riparerai l e non temerai quando verrà il disastro, 22del disastro e dell'inedia riderai l e non temerai le fiere della terra. 15
simbolico e privilegiato della manifestazione divina. Altre ipotesi partono invece dalla parola ebraica i~ «seno»: il titolo esalterebbe la dimensione creatrice della divinità, legata alla fecondità e alla procreazione. In alternativa, si è proposto un collegamento con la radice verbale ii~ «distruggere», ponendo l'accento sulla fona incontrollabile del dio.
5,21 Dal flagello- Con la Vulgata (a flagello), la Settanta (&1Tò 1-1cionyoç) e la Peshitta, presupponiamo la lettura ~iw~ «dal flagello)), anziché quella del Testo Masoretico ~;~~ «nel flagello»; in alternativa, è possibile 'leggere la forma verbale ~,~~ «nel disprezzare di» (ovvero, «quando [ia lingua] disprezzerà»).
dell'inno, Elifaz ripropone una descrizione della correzione divina, utilizzando questa volta l'immagine del medico, particolarmente adatta alla situazione di malattia che Giobbe sta patendo, un medico che però è anche artefice delle piaghe e dei colpi che cura. L'espressione è forte, ma con ogni probabilità vuole indicare che Dio permette il male, servendosene per condurre la sua opera ammonitrice e punitiva; dopo di ciò, è Lui stesso che agisce, guarendo e sanando ogni ferita. Dal v. 19, Elifaz elenca una serie di benedizioni che attendono Giobbe e che esemplificano l'azione sanante di Dio, utilizzando uno schema numerico tipico dello stile sapienziale. L'enumerazione nella modalità 6 + l indica la totalità delle angustie e dei mali dai quali Giobbe sarà liberato; Elifaz inizia parlando della «fame» e della «battaglia», dalle quali Dio «riscatta»: il verbo piida è caratteristico della teologia dell'esodo e richiama l'evento, fondamentale per la fede di Israele, della liberazione dalla schiavitù in Egitto e della salvezza procurata da Dio al suo popolo. La successiva sventura dalla quale Giobbe sarà protetto è il «flagello della lingua», espressione che simbolicamente indica le calunnie, le false accuse o anche le maledizioni pronunciate dai suoi avversari e oppositori. Elifaz evoca, poi, uno scenario idiiiiaco di serenità e prosperità, che ricorda l'armonia originaria del giardino di Eden o quella attesa dell'era messianica, dove non esisteranno più fame e sventura, e Giobbe vivrà senza timore e in pace perfino con gli animali selvatici.
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GIOBBE 5,23
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5,23 Le pietre del campo (i1":t,!pi:t ·~:;»_()-Alcuni autori interpretano 'J.~ come equivalente a 'J.~ con~ prostetico, traducendo «i figli (dei cam·pi)», considerati come gli spiriti qui dimoranti; in proposito si rimanda al commento.
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> (per il testo greco in realtà ciò vale solo per il v. 19, in quanto il v. 18 è completamente diverso dali' ebraico). 6,19 Tema ... Sheba (l, che nel contesto della frase ci sembra però meno appropriato, non essendo chiaro il referente del suffisso pronominale.
l'immagine del deserto; con vivacità, Giobbe dipinge un paesaggio le cui caratteristiche corrispondono al proprio mondo interiore. Gli amici, che in apertura del v. 15 sono chiamati enfaticamente «fratelli», vengono paragonati ai torrenti che, dopo lo sciogliersi delle nevi e del ghiaccio, sono gonfi di acque, ma non appena sopraggiunge la siccità evaporano e svaniscono; la loro presenza pertanto si rivela illusoria poiché, nel momento della prova, tradiscono Giobbe, dileguandosi e facendogli mancare il proprio sostegno. Il quadro desertico prosegue nei vv. 18-20, che insistono sulla vana ricerca di acqua da parte delle carovane di viandanti attraverso le vie assolate e solitarie; come la loro speranza è delusa, cosi avviene anche per Giobbe, che invano confida nell'aiuto degli amici, ricercando lo insistentemente, ma senza trovarlo. Con un gioco di parole, il v. 21 condensa la percezione che Giobbe ha dell'atteggiamento degli amici: essi «vedono» (tir 'u) la devastazione in cui versa e «temono» (wattirii 'u), ogni loro iniziativa in suo favore è come paralizzata. Per questo, agli occhi di Giobbe, essi si rivelano un «nulla», incapaci di fornirgli qualsiasi tipo di soccorso e di comprensione.
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: mentre Giobbe ha sbagliato bersaglio agli occhi di Dio, questi fa di lui il proprio bersaglio, colpendolo in modo spietato e infallibile. L'ultima ardita domanda che Giobbe rivolge a Dio sembra però contenere uno spiraglio di speranza; mentre attende la morte, egli pone Dio di fronte alla responsabilità della sua scomparsa, fa appello al senso di una relazione personale che andrebbe perduta per sempre, e giunge a ipotizzare un'alternativa alla concezione retributiva della giustizia divina, alludendo alla possibilità che Dio perdoni il peccato e cancelli la colpa dell'uomo. La coesistenza della dimensione punitiva e di quella della misericordia svela l'ambivalenza della concezione che Giobbe ha di Dio e chiude il suo primo discorso, sospendendolo in un'atmosfera di incertezza; ma la secca replica degli amici non si farà attendere.
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GIOBBE 8,1
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7
come equivalente a,:~ 1~ «dare in mano»; alcuni intendono, invece, come «togliere di mezzo» o «espellere dalla presenza»; altri ancora
8,1-22 Primo discorso di Bildad Il secondo degli amici di Giobbe a prendere la parola è Bildad; il suo discorso appare nei toni meno delicato rispetto a quello di Elifaz, egli si rivolge direttamente a Giobbe cercando di convincerlo dei suoi errori e facendosi difensore e rappresentante di quella linea teologica che rimanda al diritto sacrale: se Elifaz, infatti, appariva come il portavoce della rivelazione profetica, Bildad afferma l'assoluta correttezza e immutabilità del diritto sancito neli' alleanza, che prevede l'esatta corrispondenza tra la fedeltà dell'uomo e la conseguente benedizione divina e, viceversa, tra infedeltà e maledizione. L'argomentazione di Bildad assume una varietà di toni e di generi, dall'inno, alla contesa giuridica, all'istruzione didattico-sapienziale e si articola in diversi passaggi: in apertura, egli ribadisce la perfezione della giustizia divina (8,1-4) e la necessità della conversione da parte dell'uomo ingiusto (8,5-7); segue l'invito, rivolto a Giobbe, a verificare la bontà delle sue affermazioni, interrogando la sapienza degli antichi (8,8-19); infine, esorta ancora alla conversione, ritenuta come la condizione necessaria per riottenere la serenità perduta (8,20-22). L 'assoluta giustizia divina (8, 1-4). Bildad prende la parola improvvisamente, contestando con durezza a Giobbe il discorso che ha appena pronunciato; le parole di quest'ultimo sono paragonate a un «vento impetuoso» (v. 2), che impressiona per la sua forza, ma non ha consistenza. L'immagine richiama quella analoga del soffio di vento, usata poco prima da Giobbe a proposito della brevità e della fugacità della vita (7, 7.16): nonostante la veemenza che le accompagna, anche le parole con cui Giobbe espone le proprie ragioni sono effimere e destinate a passare senza lasciare traccia. Essa richiama però anche l'espressione con la quale lo stesso Giobbe connotava il proprio discorso, come parole disperse «al vento» (6,26), che salgono da un animo afflitto dalla disperazione. Attraverso una domanda retorica,
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8
GIOBBE8,7
Allora Bildad il Shul).ita prese la parola e disse: a quando discorrerai di queste cose l e un vento impetuoso saranno i detti della tua bocca? 3Forse Dio stravolgerà il giudizio l o Shadday stravolgerà la giustizia? 4 Se i tuoi figli hanno peccato contro di lui, l egli li ha lasciati in potere della loro trasgressione. 5Se all'aurora cercherai Dio l e implorerai il favore di Shadday, 6se sarai puro e retto, l certo egli veglierà su di te l e ti restaurerà nella giustizia; 7così la tua condizione precedente sarà piccola, l mentre quella futura crescerà molto. .
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intendono a partire dal sostantivo n7W IJ?.1 iTtiPTpQ ~3;!,7:;L;·o~ 18
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t;.r':;> 'T:ll,JJ; ot1?~ 2 8,17 Nella pietraia ~r~~)- Il tennine ~~deriva dalla radice ~~~ «rotolare» e di solito indica rovine di mura o costruzioni e, quindi, lUl cumulo di pietre. AlclUli autori preferiscono tradurre con
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«fontana» o «sorgente», in riferimento al fluire delle acque che roteano nel loro sgorgare. Per questioni di parallelismo con «rocce» nella seconda parte del versetto e per maggiore coeren-
mondo vegetale: la prosperità dell'empio viene paragonata al rigoglio di un albero che dispiega le sue fronde al cielo sotto il sole e le sue radici sulla terra. Tuttavia, il suo vigore è soltanto apparente, le radici non hanno profondità nel terreno, ma si fermano in superficie, avvinghiate alle pietre; è facile allora: strapparlo dal proprio posto il quale, qui chiaramente personificato, si affretta a disconoscerlo: «Non ti ho mai visto» (v. 18). Con parole simili si esprimeva Giobbe riguardo alla dimora di colui che è condarmato allo 8"61 e che da essa non sarà più riconosciuto (7,10). Così, secondo la concezione di Bildad, finirà l'empio, sradicato come un arbusto e abbandonato a se stesso; il suo apparente successo verrà smascherato e altri prenderanno il suo posto nel ciclo della vita, guidato dall'inesorabile giustizia divina (v. 19). Nuova esortazione alla conversione (8,20-22). Al termine del suo discorso, Bildad rivolge a Giobbe un nuovo invito a cambiare le proprie convinzioni in merito al comportamento divino; l'affermazione che Dio non rigetta l'uomo «integro», mentre ribadisce la tradizionale dottrina della retribuzione, suona ancora una volta ironica sulle labbra di Bildad: accoppiato con l'aggettivo «retto», anche il termine tiim, «integro» è usato nel prologo per delineare l'identità di Giobbe; nella presente sezione, i due vocaboli costituiscono un'inclusione, che racchiude tutta la problematicità dell'argomentazione di Bildad: l'assistenza e l'aiuto che, nella visione dell'amico, Dio garantisce all'uomo «integro e retto», è negata proprio a Giobbe il quale, per ammissione di Dio stesso, è il modello esemplare di tali virtù. Lo schema di Bildad è troppo semplicistico per potere interpretare la complessità della realtà, la suddivisione tra retti ed empi troppo rigida per dare ragione dell'agire divino, ridotto a un inventario di azioni buone o malvagie da premiare o punire in modo conseguente. L'espressione «stringere la mano» del v. 20 rimanda, forse, ai ce rimo-
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le sue radici si intrecciano nella pietraia, l vede gli antri delle rocce, ma se lo si sradica dal suo luogo, l questo lo rinnega: "Non ti ho mai visto"; 19ecco il gaudio della sua via, l mentre dalla polvere altri germoglieranno. 20No, Dio non respinge l 'uomo integro l e non stringe la mano ai malfattori; 21 potrà riempire di riso la tua bocca l e le tue labbra di acclamazione, 22quelli che ti odiano saranno rivestiti di vergogna l e la tenda degli empi non ci sarà più». 1Giobbe riprese la parola dicendo: 2«Davvero, so che è cosi; l e come può essere giusto un uomo davanti a Dio? 17
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za con il senso del!' immagine, a nostro parere la prima traduzione è da preferirsi (cosi, infatti, intendono anche le versioni antiche). r-éde (1"1!IT.:) - Alcuni autori correggono in TI}'
«si afferra», dalla radicale Tnt-t, in parallelo con «si intrecciano» della prima parte del versetto. Conserviamo la lezione del Testo Masoretico, che offre comunque un senso accettabile.
niali orientali di intronizzazione, quando il re veniva condotto davanti alla statua della divinità e ne afferrava la mano, in segno della forza e del coraggio che questa gli avrebbe assicurato; ebbene, i malfattori non godranno di questo sostegno, che è riservato soltanto ai giusti. Bildad continua, quindi, a proporre a Giobbe una logica religiosa fondata sull'interesse e sul merito personale: la ricerca di Dio e l'allontanamento dal peccato come garanzia del proprio benessere e come liberazione dalla sorte infelice che spetta al malvagio (vv. 21-22). In tutto ciò, non trovano spazio il dramma personale di Giobbe e l'enigma della sofferenza del giusto. 9,1-10,22 Risposta di Giobbe a Bildad La risposta di Giobbe a Bildad segue uno schema che si avvicina molto a quello della risposta a Elifaz nei capitoli 6-7: si inizia con una replica generica alle parole deli' amico, segue un lungo soliloquio; infine, il discorso si rivolge a Dio. In questa sezione domina lo stile forense, ma le dinamiche dell'accusa e della lite giuridica si intervallano con altri generi, quali la lamentazione e l'inno. Dal punto di vista strutturale, la risposta di Giobbe si apre con una riflessione circa la forza irresistibile di Dio (9,1-13), dalla quale consegue l'impossibilità di rispondergli (9, 14-24); l'indignazione di Giobbe si trasforma nella ricerca vana di un mediatore che possa garantire un dialogo imparziale tra i due interlocutori (9,25-35); segue un lungo lamento per il comportamento dispotico di Dio nei confronti dell'uomo, nonostante Egli stesso lo abbia creato (10,1-12); infine, il discorso si chiude con le parole amare di Giobbe, che esprimono il suo desiderio di essere sottratto alla situazione di angoscia che vive, preferendo piuttosto la morte (10,13-22). Laforza irresistibile di Dio (9,1-13). Giobbe prende la parola per rispondere a Bildad; in realtà la sua affermazione fa riferimento alla rivelazione ricevuta da Elifaz, secondo la quale l'uomo non può essere giusto davanti a Dio (4,17).
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9,9 Crea l'Orsa ... e le Camere di Austro ( ... fli~-;,~iJ vtn. ,,\ij1)- L'identificazione delle costellazioni citate non è certa; la Vulgata, p. es., traduce qui facit Arcturum et Oriona et Hyadas «che crea Arturo, Orione e le Pleiadi», mentre la Settanta cita, nell'ordine, Ili..Euiùa.
Apparentemente, Giobbe concorda con l'amico, ribadendo il concetto da lui espresso (v. 2), ma subito il tono si manifesta sarcastico, tramutando il discorso in un'esplicita accusa nei confronti di Dio. Il linguaggio («essere giusto», «contendere») appartiene al piano giuridico, secondo le modalità del rib («contesa giudiziaria»); i due contendenti sono Dio e l'uomo, ma appare subito evidente la sproporzione delle forze in gioco, accentuata anche dall'utilizzo del termine 'enos, che connota l'essere umano nella sua dimensione fragile e mortale. Per Giobbe, ogni tentativo di disputare con Dio è destinato a fallire; neanche l'uomo più intelligente e più forte potrebbe pretendere di ottenere una risposta alle proprie domande di giustizia o di opporsi efficacemente a Colui che fa del suo potere smisurato il metro di ogni giudizio (vv. 3-4). Questa potenza divina viene illustrata in un breve inno, che esalta il dominio di Dio sulle potenze del cosmo, con un movimento ascendente. La prima immagine riguarda le montagne, che Dio sposta e sconvolge nella sua collera; nelle antiche cosmologie vicino-orientali, le montagne erano considerate come le colonne sulle quali il Creatore aveva fondato la terra (Sal65,7; l 04,6; Is 40, 12); l'effetto di tale sconvolgimento, infatti, si ripercuote anche sulla crosta terrestre, che viene scossa dall'immane energia dei terremoti (Sal 75,4; 114,7). Il poema passa poi a descrivere l'azione di Dio nei confronti del sole e delle stelle (v. 7); sono probabili influssi delle tradizioni sapienziali egiziana e mesopotamica, come emerge dall'uso del sostantivo l:zeres per indicare il sole, possibile riferimento al dio egizio Horus, e dalle allusioni agli oscuramenti degli astri, descritti nei testi astronomici mesopotamici. Terminato questo movimento ascendente, Giobbe prosegue la sua esaltazione della potenza creatrice di Dio con riferimento alle due
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Se volesse contendere con lui, l non gli risponderebbe una volta su mille. 4Chi, sapiente di cuore e robusto di vigore, l gli ha resistito ed è rimasto indenne? 5Egli fa avanzare i monti e non lo sanno, /li rivolta nella sua ira, 6fa tremare la terra dal suo luogo l e le sue colonne tentennano, 7dice al sole di non sorgere l e pone un sigillo alle stelle, 8lui solo dispiega i cieli l e viaggia sulle creste del mare; 9crea l'Orsa, Orione l e le Pleiadi e le Camere di Austro, 10 compie grandezze insondabili l e meraviglie senza numero. 11 Ecco, passa su di me e non lo vedo, l transita e non mi accorgo di lui; 12 se rapisce, chi potrà fermarlo, l chi gli dirà: "Che cosa fai?". 3
KIÙ rorrEpov KCÙ apKtOUpOV «le Pleiadi, Vene-
re e Arturo». Le «Camere di Austro» (o «del sud») sono il luogo in cui si riteneva avessero origine i venti meridionali, ma talvolta sono identificate anche come le stelle del sud. 9,12 Rapisce (~Mr;t~)- In pochi manoscritti
ebraici il verbo è scritto con la grafia ~iOt)~ (cfr. Gdc 21,21; Sal 10,9), a motivo dello scambio tra le due consonanti omofone n e r.o; si tratta di una forma rara dal significato incerto, stabilito sulla base dell'arabo e deli' accadi co.
estremità del mondo: il cielo e il mare. Il cielo, in alto, è visto come una sorta di lamina o di tela che Dio «dispiega», distendendolo e conferendogli la forma di una calotta semisferica che contiene ogni cosa; sotto, troviamo invece la massa delle acque marine, sulle quali Dio «cammina>>, gesto che esprime il dominio assoluto su quelle forze che, nell'immaginario mitico dei semiti, erano considerate come distruttrici dell'ordine cosmico (si ricordi in proposito il mito ugaritico narrato nel Ciclo di Ba'al, che descrive la lotta tra Yam, divinità del mare, e Ba'al, il dio creatore della religiosità cananea, il quale sconfigge e schiaccia a terra il suo avversario, imponendo sul mondo il suo dominio). L'ultima delle opere di Dio elencate nell'inno è la creazione delle costellazioni; al di là delle diverse identificazioni proposte, si tratta ancora una volta di evidenziare l'assoluta superiorità di Dio su ogni potenza cosmica, che da lui è stata creata e non può sfuggire al suo controllo. Giobbe riprende, quindi, un'espressione già usata da Elifaz nel suo precedente discorso (5,9), con la quale sintetizza l'intera opera di Dio confessandolo come colui che «compie grandezze insondabili e meraviglie senza numero» (9,10). Tuttavia, per Giobbe questa manifestazione di dominio e di potenza non è motivo di lode e di meraviglia, bensì si traduce in un'amara accusa: Dio opera in maniera incomprensibile e inafferrabile (v. 11 ), la sua forza senza pari diventa, quando esercitata nei confronti dell'uomo fragile e mortale, sopruso e oppressione. Se Dio è capace di sovvertire a suo piacimento l'ordine della natura, altrettanto può fare nei riguardi deli' ordine morale e della giustizia, senza dovere dar conto a nessuno (v. 12). Se l'unico criterio su cui Dio fonda il suo giudizio è la propria forza, questa si tramuta in un agire dispotico e aggressivo, che non risparmia chi Egli considera
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9,13 Non ritira (::l·~·-N·~) -La Settanta omette la negazione, fÒrse intendendo che è al termine della manifestazione dell'ira divina che gli aiutanti di Rahab (reso con K~t11 «i mostri marini») si sottomettono alui; la Vulgata ha un testo diverso, in cui viene messa in evidenza la forza dell'ira divina, davanti alla quale nemo resistere potest «nessuno può resistere», e parafrasa gli aiutanti di Rahab con qui portant orbem «coloro che reggono il mondo». Consèrviamo la lezione del Testo Masoretico, che evidenzia il persistere della collera divina e della sua forza incontrastabile, tema centrale della sezione. 9,15 Potrei rispondere (i!~;(~)- Cosi la Vulgata, con respondebo. Con'i.:loOO-'~:;t l -'?W·io:;t] l?,yt·,~:t 'r:t~IJlJ;IiTO~ 30 :'!:l::l 1!13 'ni:bmi J: • •-:IT-
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9,30 Con la neve- Con la Settanta (x~6v~) seguiamo qui il ketìb ~~~ i~~ «con la neve» anziché il qerè ~~~-,~~ «con le acque della neve)) (cosi invece la Vulgata con aquis nivis, il Targum e la Peshitta). Data la stranezza dell'immagine, alcuni autori ipotizzano un sostantivo ~~W II con il si-
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gnificato di «sapone»; non ci sembra necessario, e preferiamo mantenere il significato «neve)), tradizionalmente associata con la purificazione. 9,31 Nella fossa (Mtf~~)- La Vulgata con sordibus e la Settanta con Ev f'n\m.; forse hanno letto ni'tf.!:!~ «nelle sporcizie)); in
le sue richieste e la sua presunzione di innocenza. Neanche i suoi propositi di conversione o le liturgie di purificazione, evocate attraverso il gesto di lavarsi con la neve o con la potassa, avrebbero alcuna efficacia; in contrasto con queste immagini di purezza, il fango della fossa, in cui Dio sprofonderebbe Giobbe, diventa il segno della punizione per le trasgressioni da lui commesse. Perfino le sue vesti, simbolo della dignità personale e qui chiaramente personificate, avrebbero in orrore Giobbe, ritirandosi da lui, a motivo della sua impurità (v. 31 ). Il quadro che emerge è desolante: ogni tentativo di Giobbe di rivendicare la propria giustizia viene frustrato dall'intervento di Dio, che lo costringe a rimanere peccatore, non accogliendo neppure una sua eventuale confessione di colpevolezza. La teologia sostenuta dagli amici di Giobbe mostra qui in modo evidente tutti i suoi limiti. Giobbe è consapevole della distanza che lo separa da Dio, dovuta alla sua trascendenza; tuttavia, per lui questa distanza non è una garanzia dell'assoluta giustizia divina, bensl segna l'impossibilità di instaurare una relazione in cui possa far valere i propri diritti: Dio non può essere citato in giudizio e non è tenuto a rispondere all'uomo del proprio agire (v. 32). Nei versetti finali Giobbe giunge
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Ma se sono empio, l perché invano dovrei affaticarmi? Anche se mi lavassi con la neve l e purificassi con la potassa le . . mte mam, 31 nella fossa mi immergeresti l e le mie vesti mi aborrirebbero. 32 Poiché egli non è un uomo come me, al quale potrei dire: l "Andiamo insieme in giudizio!". 33 Se ci fosse tra noi un arbitro, l che ponga la sua mano su entrambi, 34 che rimuova da me il suo bastone l così che il suo terrore non mi sconvolga! 35Allora parlerei senza temere; l ma poiché non è così, io sono solo. 1È nauseato l'animo mio della vita, l voglio dare sfogo al mio lamento, l voglio parlare dell'amarezza del mio animo. 2Dirò a Dio: "Non dichiararmi empio, l fammi conoscere per cosa contendi con me.
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modo simile rende la versione CEI («in un pantano»). Il termine «fossa», genericamente utilizzato per indicare il mondo sotterraneo, può tuttavia assumere in senso traslato anche gli altri significati proposti, senza necessità di modificare il Testo Masoretico.
10,1 Voglio parlare (ill~1~) -Pochi manoscritti ebraici hanno la forma i'IM'WI't «mi voglio lamentare»; questa lezione app~ come una modifica secondaria, introdotta per esplicitare lo stato psicologico di Giobbe; ci atteniamo, perciò, al testo del codice di Leningrado (L).
a ipotizzare, irrealisticamente, l'esistenza di un mediatore tra lui e Dio, che sia garante del corretto svolgimento della contesa e che gli consenta di allontanare da sé la minaccia del castigo divino e il terrore che ne consegue: l'immagine del «bastone» (v. 34) si sovrappone qui a quella dello «scettro», a indicare il potere punitivo di Dio, il grande sovrano, dal quale Giobbe chiede di essere difeso. Soltanto in questo modo si sentirebbe in grado di esporre le proprie ragioni senza timore; tuttavia, il versetto conclusivo riporta Giobbe ali' amara realtà, che lo vede solo, senza alcun aiuto e conscio della sua insignificanza di fronte alla potenza divina e all'incomprensibile giudizio che in essa si fonda. La difesa della creatura contro il Creatore (10,1-12). L'amarezza che opprime Giobbe è tale che egli non può trattenersi dal rivolgersi ancora a Dio, con un lungo sfogo nel quale si immagina di proseguire il procedimento giudiziario presentando la propria difesa, in risposta alle accuse ricevute. Riprendendo gli elementi tipici del rib, Giobbe chiede anzitutto a Dio che gli manifesti le imputazioni a suo carico, cercando in questo modo di allontanare da sé la condanna (v. 2). Segue una serie di domande retoriche, che esprimono il pensiero di Giobbe nei riguardi di quello che
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10,3 Mo/estarmi (pw.p!j-':;l)- La Settanta, forse per attenuare' l'immagine di Dio che si accanisce contro Giobbe, ha t!&v aOLK~OW «qualora io sia colpevole»; ma il Testo Masoretico vuole insistere proprio sul carattere oppressivo e arbitrario, dal
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punto di vista di Giobbe, dell'atteggiamento di Dio. Far risplendere (r;'1~~1:'T)- Il significato base della radicale l'El' è «risplendere», «irradiare)) e.~ quindi, in senso figurato, «manifestarsi». E un verbo tipico delle teofanie (cfr. Dt
ritiene un comportamento ingiusto. Giobbe accusa Dio di essere violento contro di lui e di molestarlo, nonostante egli sia il frutto dell'opera creatrice divina; non comprende quale vantaggio possa derivargli dall'opprimere il giusto, mentre davanti a lui gli empi portano a compimento, sotto il suo sguardo benevolo, i loro progetti malvagi (v. 3). Nella successiva domanda, Giobbe mette in dubbio la capacità di valutazione e di giudizio di Dio accusandolo, con un audace antropomorfismo, di avere «): cosi anche la Vulgata con totum in circuitu.
mentazione di Giobbe prosegue, richiamando il Creatore alla sua responsabilità nei confronti delle sue creature: Giobbe, infatti, ricorda a Dio che quella «mano» da cui ora vorrebbe essere liberato, perché è diventata segno del potere oppressivo a cui è sottoposto, è la medesima con la quale è stato plasmato da Lui. Le immagini richiamano i passi del racconto di creazione di Gen 2,7 e 3,19, che descrivono l'opera divina assimilandola a quella di un artigiano o di un vasaio che modella l'argilla dandole forma; Giobbe si domanda per quale motivo Dio, che ha voluto l'uomo e l'ha tratto dalla terra in fondendogli il suo spirito vitale, adesso voglia distruggerlo e annientarlo. Il testo indugia nel descrivere le diverse fasi della formazione dell'essere umano, dal momento del concepimento allo sviluppo dell'embrione, secondo le conoscenze fisiologiche del tempo (la fecondazione dell'ovulo era concepita come una coagulazione del sangue materno sotto l'azione dello sperma dell'uomo e al v. l Oviene paragonata, con un 'immagine tipica del mondo pastorale, al condensarsi del latte che si trasforma in formaggio). La seguente immagine richiama invece l'attività della tessitura; come una stoffa pazientemente intessuta, il corpo umano è il risultato dell'intreccio attento di ossa e nervi, rivestiti di carne e pelle (v. Il). La descrizione ha come effetto quello di esaltare l'opera più eccelsa del Creatore, l'essere umano, presentando la come il suo capolavoro e come il frutto della sua volontà benevola; la vita di ogni uomo è vista come la conseguenza di un atto gratuito di Dio, il quale con la sua presenza provvidente dovrebbe impegnarsi a custodirla e a prendersene cura.
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:;~~N ,~m.7 T\?~r;J 10,12 E grazia (.,9m)- Si tratta di un sostantivo teologicamente ricco nella Bibbia ebraica. Quando il vocabolo è riferito all'agire di Dio, si può cogliere in esso la compresenza del signillcato di «fedeltà», che implica la solidità delle promesse divine, soprattutto in relazione all'alleanza con il suo popolo: Dio non viene meno alle sue promesse, in Lui parola e azione non sono disgiungibili. Con tale fedeltà Dio si rivolge alle sue creature, colmandole di tenerezza e circondandole con le sue amorevoli e premurose cure. Potremmo tradurre il termine come «amore fedele»: attraverso il
suo.,~, Dio dona all'uomo vita e salvezza, manifestandosi come grazia e bontà assolute. Per contrasto, risalta l'atteggiamento di ostilità da parte di Dio che Giobbe invece sperimenta E la tua presenza (1~'1i?E?~) -Alla lettera: «e la tua visita)), da intendersi qui come espressione di premura e attenzione provvidente; sull'uso e il significato della radicale .,pEl, si veda la nota a 7,18. 10,15 Vedendo -Abbiamo tradotto con il gerundio il termine i!K,, che dovrebbe essere la forma costrutta dell ;~ggettivo verbale ittt":), non attestato altrove. Le antiche versioni non offro-
Nuovo lamento di Giobbe e desiderio di morte (l O, 13-22). La congiunzione di valore avversativo all'inizio del v. 13 segna l'inizio di un nuovo lamento. Le attese di Giobbe riguardo alla sollecitudine divina sembrano smentite dalla realtà; egli si sente ingannato, in quanto la speranza nella cura provvidente di Dio si è rivelata illusoria, e la sua condizione di desolazione manifesta quelli che erano in realtà i pensieri nascosti del Creatore. Questi si comporta come uno spietato sorvegliante, che osserva e castiga Giobbe per ogni peccato commesso; ma anche nel caso in cui non trovi in lui una colpa, persiste nel suo atteggiamento ostile, mantenendolo nel suo stato di afflizione e umiliandolo al punto di non lasciargli alzare la testa (vv. 14-15). Se Giobbe appena accenna, sollevando la sua fronte, a ribellarsi alla sua miseria o a invocare l'aiuto di Dio, questi gli si rivela come un accanito avversario, assumendo le sembianze di un leone feroce o di un esercito schierato. Sono adoperate in questo passo alcune immagini tipiche del simbolismo
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vita e grazia mi hai concesso l e la tua presenza ha custodito il mio spirito. 13Eppure serbavi queste cose nel cuore, l ora so ciò che avevi in mente. 14Se ho peccato, tu mi sorvegli l e dalla mia colpa non mi dichiarerai innocente; 15 se sono empio, guai a me! l E se sono giusto, non solleverò la mia testa, l poiché sono sazio d'ignominia, vedendo la mia miseria. 16 Se si solleva, come il leone tu mi dai la caccia, l ripetendo le tue meraviglie contro di me; 17rinnovi i tuoi testimoni davanti a me l e moltiplichi la tua indignazione verso di me, l (lanciando) reclute ed esercito contro di me. 18Perché, dunque, mi hai fatto uscire dal grembo? l Sarei spirato, senza che occhio mi vedesse; 19e sarei come se non fossi mai esistito, l dal ventre alla tomba sarei stato condotto. 12
no contributi utili alla comprensione, omettendo il tennine. La versione CEI sembra presupporre, per il parallelismo con l.7;1~ «Sazio di», la fonna il, «ebbro di», di cui pèrò mancano testimoni; preferiamo perciò conservare il Testo Masoretico, che offre un senso accettabile. 10,16 Se si solleva (il~~'1) - L'espressione è ellittica; nella Settanta manca, mentre la Vulgata ha et propter superbiam «e per la superbia», forse leggendo ill;tn Noi ipotizziamo che sia sottinteso il tennine «fronte»; in modo simile la versione CEI con «se lo[= il capo] sollevm>, presupponendo però la prima
singolare il~~~1 (cfr. anche la Nova Vulgata, che parafrasa con si superbia exto/lar «se per superbia mi innalzerò>>), correzione che non riteniamo necessaria. 10,17 I tuoi testimoni (';'1-!1)- Cosi la Vul· gata (testes tuos), mentre la Settanta, forse parafrasando, ha il singolare t~v ha.a(v ~ou «la mia prova»; altre versioni, partendo dall'arabo 'dy, traducono con «la tua ostilità>> o «la tua collera>>; ma l'uso frequente del linguaggio giuridico in tutta la sezione poetica rende perfettamente plausibile la lezione del Testo Masoretico.
del salterio, stravolgendone il senso: il simbolismo teriomorfo e quello bellico, solitamente utilizzati per descrivere gli oppressori dell'arante, dai quali Dio offre liberazione e salvezza, sono applicati alla stessa persona divina, che viene da Giobbe percepita come il nemico da cui cercare, senza alcuna possibilità di successo, riparo e scampo. In maniera significativa, anche le «meraviglie» compiute da Dio (v. I 7) non sono qui le opere meravigliose nel creato e nella storia, solitamente celebrate nei Salmi, bensi le azioni con le quali Egli demolisce la vita di Giobbe e lo riduce in disgrazia, moltiplicando le sue accuse e dando libero sfogo alla sua ira immotivata. L'improvvisa ed enfatica domanda del v. 18 riprende il tono dei lamenti già pronunciati nel capitolo 3 e in 6,8-9 e 7,15-16.21; l'amarezza della vita di Giobbe è talmente grande che sarebbe stato meglio per lui non essere venuto alla luce o essere morto al momento della nascita. L'esistenza è per Giobbe soltanto una breve e infelice parentesi tra la nascita e la morte che lo attende inesorabile.
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:'il'P.ll ,,t'~lp n.p~~1 1~1 rii?~ Jn~-,~ o71N1, 5 10,20 I miei giorni? Fermati (,11'!.1 ·~~) - Spostando l' 'atniif:z dopo ·~· leggiamo alla lettera, con il qerè, «1 miel giorni? E cessa». Diverse versioni ipotizzano invece 'i~IJ ·~·«i giorni della mia esistenza»; cosi forse hanno letto anche la Settanta, con O xp6voç tofi p(ou !-LOU «il tempo della
mia vita», e la Peshitta; la Vulgata invece segue il ketìb e riferisce il verbo a «il numero dei miei giorni», traducendolo con finietur «finirà». La versione da noi scelta, con l'imperativo, ci sembra più coerente con il tono implorante con cui Giobbe si rivolge a Dio.
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Pertanto, l 'unica richiesta che può avanzare a Dio è che almeno per un momento lo lasci stare, che gli conceda una tregua dalla sofferenza e dall'angoscia, così che possa godere di un istante di serenità, prima di scomparire per sempre. Giobbe descrive il regno dei morti mediante una serie di espressioni che appartengono al campo semantico delle «tenebre»; gli inferi appaiono come un luogo oscuro, dove anche il chiarore è simile alla notte più buia e tutto è avvolto da un'ombra mortale. Questo è il destino, cupo e senza speranza, che egli immagina gli sia riservato e dal quale non può sfuggire, ma che gli appare talora come preferibile alla vita stessa. 11,1-20 Primo discorso di Zofar L'ultimo degli amici di Giobbe a prendere la parola è Zofar; il suo discorso appare fin dall'inizio potemico e aggressivo e, per quanto riguarda i contenuti, afferma in modo rigido e privo di sfumature la concezione della sapienza tradizionale concernente il rapporto tra peccato e castigo. Zofar insiste, inoltre, sulla grande distanza tra la sapienza divina e ciò che l'uomo, nella sua limitatezza, può coglierne; l'atteggiamento di Giobbe riflette, agli occhi di Zofar, l'ignoranza e la presunzione di chi non sa riconoscere l'insondabile trascendenza di Dio. La prima parte del discorso assume, pertanto, la forma di una severa ammonizione nei confronti di Giobbe, con toni che rasentano l'ingiuria (11,1-6); Zofar vuole smascherare l'illusione di Giobbe di poter penetrare, mediante le proprie insufficienti facoltà, il mistero della perfezione divina, che viene esaltata poeticamente
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sono forse pochi i miei giorni? Fermati, l !asciami essere un poco lieto, 21 prima che io vada, senza poter tornare, l nella terra della tenebra e dell'ombra mortale, 22terra oscura come il buio l dell'ombra mortale e di disordini, l dove il rifulgere è come il buio"». 1Allora prese la parola Zofar, il Na'amatita, e disse: 2 «Forse una tale moltitudine di parole non riceverà risposta? l Il ciarlatano sarà nel giusto? 31 tuoi vaniloqui ammutoliranno la gente, l hai irriso gli altri e nessuno ti offenderà? 4 Hai detto: "Pura è la mia dottrina l e irreprensibile sono stato ai tuoi occhi". 5Ma se Dio parlasse l e aprisse le sue labbra contro di te!
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11,3 Hai irriso (l~~l;11)- Il verbo sottintende un oggetto diretto, esplicitato nella nostra traduzione con «gli altri» (cosi la Vulgata con ceteros). 11,4 La mia dottrina ('r:ti'~)- Il sostantivo è legato al verbo npl;l «prendere» e indica, nel contesto sapienzmle, il contenuto di ciò che
viene appreso, ricevuto nell'atto di imparare e quindi ritrasmesso nell'insegnamento. Riprendendo la lezione della Settanta to1ç EpyoLç «nelle azioni», la versione CEI traduce «la mia condotta»; ma qui il riferimento più probabile è alle parole che Giobbe ha in precedenza pronunciato nel suo discorso.
con espressioni tipiche della tradizione sapienziale ( 11,7-12); infine, invita Giobbe a ravvedersi dalla sua condotta e a fare penitenza, affinché Dio gli restituisca la prosperità e la gioia perdute a motivo della sua ribellione (11, 13-20). Violento rimprovero a Giobbe (11,1-6). Zofar attacca Giobbe, ritenendolo colpevole di non aver parlato con saggezza, bensì moltiplicando inutilmente le parole, come un ciarlatano. Secondo la concezione sapienziale, infatti, i tanti vuoti discorsi caratterizzano il modo di esprimersi dell'empio, mentre il sapiente conosce il valore del silenzio e della prudenza nel discorrere (cfr., p. es., Pr l O, 19; 12, 18; 18,21; 26,22; Sap l ,8-11; Sir 5, 13; 20,5-8). Giobbe viene accusato di farsi beffe degli altri, intendendo con questo che, con le sue argomentazioni, ha cercato di scardinare le convinzioni dei sostenitori della religiosità tradizionale; ma le sue parole sono considerate «vaniloqui», parole inconsistenti e dissennate; Zofar riprende, quindi, in maniera tendenziosa, alcune affermazioni con le quali Giobbe aveva sostenuto la propria irreprensibilità e la purezza della sua dottrina (v. 4). In realtà, il discorso di Giobbe non enuncia propriamente una «dottrina»; egli contrappone all'insegnamento tradizionale sulla retribuzione, sostenuto dai suoi amici, la propria concreta esperienza personale, che contraddice apertamente tale insegnamento. Proseguendo nel proprio attacco, Zofar auspica che Dio accolga la richiesta di Giobbe di rispondere ai suoi interrogativi, nella convinzione che ciò lo condurrebbe a una pronta resa: Zofar introduce quindi, a questo punto del discOrso, il tema che svilupperà nell'unità
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11,6 Doppi (c;~f;l,:P)- Alcuni autori ipotizzano che la lettura corretta sia c·~~ (variante ortografica di c•t:t~~) «mirabili»; cosl probabilmente presuppongono anche la Nova Vulgata con arcana «cose misteriose», e la versione CEI con «difficili». Le antiche versioni sembrano però confermare il significato da noi attribuito al termine: la Vulgata ha multiplex «molteplice», la Settanta liLTTÀoùç «il doppio». Il senso del Testo Masoretico
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risulta a nostro parere pertinente, evocando la «doppiezza» di un insegnamento che sfugge alla comprensione umana per la sua complessità. 11,8 È più alta dei cieli (c·~~ •;::t~~) - Il Testo Masoretico ha, alla lettera: «innalzamenti di cieli»; per la traduzione seguiamo la Vulgata excelsior caelo est che presuppone l'ebraico c:~~~ il~~~ e si pone in parallelo con la seconda parte del verso («più pro-
successiva, quello della sapienza divina. Il senso del v. 6 non è del tutto chiaro; da un Jato, esso affenna l'impossibilità, per l'uomo, di cogliere i disegni nascosti di Dio, che appaiono sempre eccedenti rispetto alle capacità di comprensione umane; dall'altro, presenta un problematico «perdono parziale» delle colpe dell'uomo da parte di Dio. Quest'ultima espressione potrebbe voler significare che Dio condona all'uomo parte delle sue colpe, senza che l'uomo ne abbia consapevolezza, ritenendosi anzi già punito oltre il dovuto; il castigo meritato dall'uomo sarebbe, invece, ancora peggiore di quello effettivamente sperimentato, al quale però Dio si limita con un atto gratuito, manifestando la sua condiscendenza. Tuttavia, una simile interpretazione sembra contraddire la rigidità con la quale Zofar ha sostenuto fin qui il principio della retribuzione. Il testo con ogni probabilità vuole soltanto sottolineare l 'illimitata capacità di Dio di penetrare nelle profondità del cuore umano, che spesso rimangono inaccessibili all'uomo medesimo. L'insondabile sapienza divina (11,7-12). Attraverso una serie di proposizioni interrogative, Zofar stigmatizza l'illusoria pretesa di Giobbe di sondare l'intimo divino e di poteme comprendere la perfezione; la trascendenza di Dio viene qui riaffennata in maniera categorica, secondo la tradizionale concezione biblica (cfr., p. es., Sal 139; Sir l; Bar 3,29-32; Am 9,5-6). Il tennine di paragone, assunto da
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annunciasse i segreti della sapienza, l che sono doppi alla comprensione, l allora sapresti che Dio ti condona parte della colpa. 7Puoi forse sondare l 'intimo di Dio l o raggiungere la perfezione di Shadday? 8Essa è ·più alta dei cieli': cosa farai? l È più profonda degli inferi: cosa ne saprai? 9Estesa più della terra è la sua misura l e vasta più del mare. 10 Se egli transita, rinchiude (qualcuno) l e convoca in giudizio, chi può fermarlo? 11 Sì, egli conosce gli individui vani, l vede l'iniquità e non comprende forse?
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fonda degli inferi»); cosi traduce anche le versione C El. La Settanta ha, più semplicemente, ùljl,ì..òç ò oùpav6ç «il cielo è alto», ma il parallelismo già evidenziato e la logica dell'argomentazione ci inducono a preferire la forma comparativa. 11,11 E non (!(!;l!) - La Vulgata con nonne interpreta la frase come un'interrogativa retorica «forse non ... ?»; cosi anche la versione CEI, che qui seguiamo, mentre altre versioni
moderne ipotizzano la lezione N~, interiezione con valore assertivo enfatico. Un modo alternativo di rendere l'intera frase si ottiene attribuendo a !(!;l! un valore concessivo, «anche se non (sembra considerarla)»: in questo modo, Zofar sosterrebbe la sua accusa nei confronti di Giobbe, ribadendo la sua colpevolezza davanti a Dio, il quale, pur non dimostrando di considerare l'iniquità di Giobbe, non per questo lo ritiene giusto.
Zofar per evidenziare la distanza incolmabile tra Dio e l'uomo, sono le dimensioni del cosmo, nelle sue diverse direzioni: l'altezza della volta celeste, la profondità del mondo sotterraneo (lo S'o/), l'estensione della terra, la vastità del mare; ciò che, nel mondo creato, rimane inconcepibile per l'esperienza e la mente umana, è pur sempre un nulla di fronte all'assoluta trascendenza di Dio. Questo tema non è esclusivo della letteratura biblica, trovandosi dei paralleli in alcuni poemi della civiltà babilonese che sviluppano un'analoga «teologia negativa» (si vedano le espressioni del poemetto Ludlu/ bel némeqi: «Chi può conoscere i disegni degli dèi del cielo? Il consiglio di Dio è un abisso, chi potrà comprenderlo?»). Tale trascendenza si manifesta anche nel modo in cui Dio giudica: mentre Giobbe pretende di citarlo in giudizio, in realtà è soltanto Dio che - come un sovrano che passa per i suoi possedimenti, imprigionando i suoi oppositori e intentando processi ai suoi avversari- ha il potere di citare in giudizio e di emettere sentenze, senza che alcuno possa opporvisi e senza sottostare ad alcuna autorità (v. lO). In antitesi alla limitatezza delle facoltà umane, Zofar esalta la capacità di Dio di conoscere la falsità e l'iniquità degli uomini; si può cogliere in queste parole, con ogni probabilità, un tono polemico nei confronti di Giobbe, che persiste nel considerarsi integro e retto davanti al Signore, non riconoscendo le proprie mancanze:
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11,12 L 'uomo vacuo diventa prudente (t~N~! ::1::1 "~ ::1,::1~) - Il versetto, che sembra ri~ p~rtare un Tproverbio o un detto popolare, appare problematico per la non chiara relazione sintattica tra le parole, soprattutto nella seconda parte; le interpretazioni del detto, infatti, sono state innumerevoli. Il paragone tra comportamento animale e umano è tipico dello stile sapienziale; il
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senso dell'intera frase che più rispetta il Testo Masoretico sembra essere che «l'uomo stolto non ragiona se non quando l'asino selvatico nasce uomo». 11,15 Starai saldo (p~~ J;1"::f1)- Facciamo derivare il termine p~~ dalla radicale P~' «versare», «fondere», abitualmente utilizzata per indicare il processo di fusione dei metalli; il risultato della successiva soli-
Il versetto conclusivo del brano, che ha la fonpa di un proverbio sapienziale, pur nell'oscurità della costruzione, sembra voler esprimere un giudizio definitivo su Giobbe, incapace di abbandonare la propria ostinazione e di giudicare se stesso in modo più obiettivo; mentre alcuni commentatori leggono il detto come una speranza di maturazione di Giobbe (il senso sarebbe «l 'uomo stolto metta giudizio, e l 'asino selvatico sia addomesticato»), a nostro parere il paragone con l'asino selvatico enfatizza l'irrazionalità, agli occhi di Zofar, dell'atteggiamento di Giobbe, e l'impossibilità manifesta di cambiarlo. Un'interpretazione alternativa di tutto il versetto è quella di chi vi legge un riferimento all'atteggiamento di ipocrisia che Zofar attribuisce a Giobbe, il quale «stolto, vorrebbe apparire saggio, anche se nato come un asino selvatico». Invito alla conversione e alla penitenza (11,13-20). Il sintagma «se tu» ( 'im 'atta), posto in posizione enfatica in apertura del v. 13, segna l'inizio dell'ultima parte del discorso di Zofar il quale, dal tono generale veicolato dal proverbio conclusivo della precedente unità, torna a rivolgersi in maniera diretta a Giobbe, con un lungo appello alla conversione. In contrasto con l'ostinazione dell'«uomo vacuo», Giobbe viene invitato a rivolgere il proprio cuore a Dio e a stendere verso di lui le proprie mani: le due espressioni indicano l'assunzione di un atteggiamento di sincerità e di fiduciosa preghiera, che si traduce nella rettitudine del comportamento. Il v. 14 elenca quindi alcune delle azioni che, in particolare nella preghiera dei Salmi, vengono richieste all'orante come condizioni per partecipare alla celebrazione del culto in un modo
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vacuo diventa prudente, l quando il puledro di un asino selvatico nasce uomo! 13 (Ma) se tu renderai saldo il tuo cuore l e tenderai la tua mano verso lui, 14 se allontanerai l'iniquità dalla tua mano l e non farai dimorare l'ingiustizia nella tua tenda, 15 allora potrai elevare il tuo volto senza macchia, l starai saldo e non temerai; 16 perché dimenticherai l'oppressione, /la ricorderai come acque che sono passate, 17 più del meriggio risorgerà la tua vita l e, se farà buio, sarà come il mattino, 12 L'uomo
dificazione del metallo fuso è una massa compatta, dura: da qui il significato «saldm>, «solido)). Altri autori lo considerano invece come un participio hofal di p,~ con il significato di «stretto)), «assediato)), in contrasto con la seguente espressione «ma non temerai)). 11,17 Farà buio (l"lElllrl)- La forma è dubbia: la Vulgata con cu'in' te consumptum puta-
veris «quando ti riterrai consumato)) sembra interpretare dalla radice ~'li «essere esaustm>; la Settanta invece con~ òÈ EÙX~ oou «la tua preghiera)) pare avere letto '9~7~t;1. La versione CEI presuppone il sostantivo n~~t;1 «buio)), che funge da soggetto del verbo l"l~;:lr;'l «sarà)); noi riteniamo invece che si tratti ·di una forma verbale denominativa derivata dal sostantivo l"l~'l! «buio)).
gradito a Dio: il simbolismo della «mano» ingloba le dimensioni della preghiera e dell'agire personale, mentre quello della «tenda» ha una connotazione più sociale; in ogni ambito della vita, Giobbe è chiamato ad allontanarsi dall'ingiustizia, per potersi presentare davanti a Dio senza timore, saldo nella propria innocenza, a fronte alta (v. 15). L'espressione «elevare il volto» richiama l'analoga «sollevare la testa» che Giobbe utilizzava nella sua precedente risposta a Bildad (10,15): dalle parole di Giobbe, già sappiamo che neanche la sua presunta innocenza gli consente di alzare il capo davanti a Dio, dal quale si sente braccato e ridotto in miseria; l'argomentazione di Zofar, pertanto, suona amaramente ironica, tanto più che Giobbe ha sempre agito in conformità con il quadro virtuoso presentatogli dall'amico. Questi, sempre convinto della colpevolezza di Giobbe, prosegue il suo discorso mostrandogli - ancora sulla base della dottrina della retribuzione - gli effetti della sua eventuale conversione: Giobbe dimenticherebbe le suedisgrazie, che svanirebbero come l'acqua che passa, senza lasciare traccia (v. 16). Le immagini successive utilizzate da Zofar sono quelle tipiche degli oracoli di salvezza: la luce che sorge al mattino è simbolo della rinascita e del ritorno alla vita, lo splendore del sole al meriggio è segno della pienezza di vita e della prosperità, che si contrappongono al vuoto grigiore delle tenebre e della morte (v. 17). Zofar prospetta a Giobbe, purché accolga il suo invito alla penitenza, un futuro luminoso, in cui godrà di pace e sicurezza, di nuovo circondato dalla stima degli uomini; come nelle parole di Elifaz(4,6) e di Bildad (8,13), troviamo un appello alla speranza, di cui però non si riesce a vedere un fondamento: il discorso di Zofar rimane,
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11,18 Scaverai (un rijùgio) (1'1,!pi'T1)- Il verbo ebraico significa «scavare>> in 'senso traslato, indica l'essere alla ricerca di qualcosa, quindi «indagare», «spiare», come taluni autori traducono. Nel contesto, ci sembra più probabile però il senso letterale, che rimanda all'immagine dell'animale che si scava la tana in cui riposare. Altri commentatori
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>, forse presupponendo l'ebraico fl~~ M~lj (alla lettera: «l'animale della terra») o un'espressione simile, continuando in questo modo l'elenco degli animali che Zofar è invitato da Giobbe a
al v. 7; il significato stesso è dibattuto, per alcuni commentatori si tratterebbe di una serie di massime sapienziali che Giobbe contrappone agli insegnamenti dei suoi amici per dimostrare la propria abilità nel ragionamento, non inferiore alla loro; è più probabile, però, che i detti in questione facciano riferimento a Giobbe stesso. Ali 'inizio del v. 4, infatti, egli si lamenta di essere diventato oggetto di scherno; pur avendo vissuto in maniera piena la comunione con Dio e la sua vicinanza, adesso sperimenta la derisione e la mancanza di rispetto da parte degli amici, che non riconoscono la sua giustizia e integrità. Giobbe, nella sua sventura, appartiene infatti alla categoria degli esclusi, che non godono della simpatia e del sostegno di coloro che sono nella prosperità e che infieriscono sui primi. Nel mondo reale non sembra esserci sempre corrispondenza tra comportamento ed effetti che esso produce: talora, chi provoca Dio e cerca di piegarlo ai propri scopi, facendone uno strumento per il proprio egoistico benessere, appare sicuro e tranquillo. L'espressione finale del v. 6 viene talvolta tradotta anche come «la cui mano è il loro Dio», evidenziando in questo modo l'autosufficienza e l'arroganza di chi fa della sua forza, simboleggiata dalla «mano», l'unico criterio del proprio giudizio e del proprio agire. La dottrina della retribuzione è perciò, ancora una volta, smentita dai fatti proposti da Giobbe. La sapienza inarrestabile di Dio (12,7-25). Con la particella avversativa 'ulam in apertura del v. 7 ha inizio un nuovo brano, la cui collocazione e il cui significato sono discussi. Alcuni autori individuano due inni distinti e giustapposti (vv. 7-12 e 13-25), il primo dei quali in modo particolare si raccorda con fatica al contesto in cui è inserito: appare strano infatti, oltre alla presenza dell'avversativa iniziale, il brusco passaggio alla seconda persona singolare nel v. 7; inoltre, il v. 9 è l'unico passo della parte poetica, prima della teofania conclusiva, in cui compare il tetragramma YHWH. Altri autori considerano perciò originario soltanto il secondo inno, contenente una descrizione caricaturale della concezione sapienziale dell'ordine cosmico, mentre il primo sarebbe l'interpolazione di un copista; altri, infine, os-
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Ma chiedi pure alle bestie, ti istruiranno, l e agli uccelli del cielo, ti informeranno; 8o lamentati con la terra, ti istruirà, l e ti insegneranno i pesci del mare: 9chi non sa tra tutti costoro l che la mano di YHWH ha fatto questo? 10 Sì, è nella sua mano la vita di ogni essere l e il respiro di ogni corpo umano. 11 Forse l'orecchio non distingue il discorso l e il palato non gusta il cibo? 7
interrogare. Conserviamo il Testo Masoretico, sufficientemente chiaro e coerente con il con testo. 12,9 YHWH (:11:1;)- Questo è l'unico passo in cui compare il tetragramma nella se-
zione poetica del libro di Giobbe. Significativa è la sua collocazione: prima del dialogo finale con Dio. Pochi manoscritti ebraici leggono invece il più generico "li'='~ «Dio».
servano come il testo di 13,1 si raccorda logicamente con 12,6, concludendo che entrambi i brani sono aggiunte, il cui pensiero si accosta a quello dei posteriori discorsi di Elihu (ai cc. 32-37) e ad alcuni passi del Deutero-Isaia (cfr., in particolare, Is 44,24-28). Nella forma attuale del testo, il passaggio alla seconda persona singolare al v. 7 potrebbe significare, come alcuni sostengono, che Giobbe stia riprendendo ironicamente i discorsi che i suoi amici continuano a rivolgergli nel solco nella sapienza tradizionale; preferiamo, però, leggere il v. 7 in continuità con il v. 3, come uno sviluppo in tono ironico del tema della conoscenza della sapienza: non soltanto questa non è monopolio degli amici di Giobbe, ma perfino gli animali potrebbero dame prova, raggiungendo le loro stesse conclusioni e insegnando le stesse dottrine. I quattro gruppi di creature citati (le bestie, gli uccelli del cielo, la terra- o, accettando una delle congetture proposte dagli esegeti, i rettili -e i pesci del mare) sono simbolo dell'universalità dell'insegnamento proposto; quest'ultimo viene descritto con altrettanti verbi tipici del contesto pedagogico: «istruire» (yiira hi.fil, due volte), «informare» (niigad hi.fil), «insegnare}> (siipar pie/). Il contenuto dell'insegnamento viene però lasciato indeterminato: si può pensare che esso comprenda ciò che Zofar e gli altri amici hanno esposto, oppure che si riferisca all'esperienza degli stessi animali che, nel ciclo naturale dell'esistenza, sono sovente sottomessi alla legge del più forte e non ripagati - come avviene anche per gli uomini- secondo il loro comportamento: è evidente che le bestie più feroci e astute hanno la meglio sulle più piccole e indifese, prosperando sicure e in disturbate. I vv. 9-1 Oriprendono la metafora della «mano», ribaltando la visione del v. 6: è la «mano» di Dio che ha creato ogni cosa e nella sua «mano» egli tiene la vita e il respiro di ogni essere; vengono cosi esaltati il dominio e la potestà di Dio su tutte le creature, alludendo ai racconti di Gen 1-2. I due detti sapienziali che seguono nei vv. 11-12 sono di difficile applicazione, anche se il senso di ognuno appare chiaro. Il primo, formulato retoricamente in forma interrogativa, utilizza le realtà sensoriali dell'udito e del gusto per indicare i processi intellettivi
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12,17 Scalzi (l;l~irD) - Un'altra possibile traduzione è «denudati». La Vulgata con in stultum.finem «a finire da stolti», fa derivare il tennine dalla radice l;l,l!l «essere insensatO>), in parallelismo con la seconda parte del versetto; la Settanta invece lo rende con cxlx~!..uhouç «prigionieri>) (cosi anche al v. 19), i quali venivano solitamente costretti
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a camminare scalzi e spogliati in segno di umiliazione (cfr. Is 20,2-4 ). 12,18/nsegne (,;m~)- Il Testo Masoretico ha «ammonizione», che nel contesto non ha molto senso; traduciamo seguendo la Vulgata, che con balteum «cintura>) deve presupporre una derivazione dalla radicale ,OM «cingere)); questa ha nonnalmente un senso
della conoscenza e del discernimento (cfr. anche Gb 34,3); sebbene possa apparire come un detto proverbiale di carattere generale, il contesto richiede che ci sia un riferimento o agli amici di Giobbe, che egli starebbe criticando per non aver saputo usare pienamente le loro facoltà e non aver compreso la sua posizione, oppure all'applicazione e all'impegno che sono richiesti ali 'uomo per cogliere, a partire dall'osservazione e dall'esperienza sensibile, gli insegnamenti concernenti Dio e il suo agire. Il secondo detto riprende un'affermazione tradizionale secondo la quale la sapienza si accompagna alla maturità raggiunta con gli anni (cfr. anche 32,7); se lo consideriamo in continuità con quanto precede, possiamo ritenerlo come una conclusione ironica della critica rivolta agli amici i quali, nonostante la loro maturità, non hanno dato prova di grande sapienza; altri autori preferiscono collegare il detto a quanto segue, considerandolo una citazione da parte di Giobbe delle parole degli amici, che vengono smentite dall'inno successivo sulla sapienza di Dio (vv. 13-25). Questo si apre infatti in antitesi con i versetti precedenti, affermando che la vera sapienza non si può ottenere - come presumevano gli amici di Giobbe dall'esperienza o dalla maturità degli anni, bensi appartiene soltanto a Dio; vengono elencate quindi quattro qualità che caratterizzano la persona divina e che si
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2Negli anziani sta la sapienza/ e nei molti giorni trascorsi la comprensione. ln lui sono la sapienza e la forza, l suoi sono il consigÌio e la comprensione. 14Ecco, ciò che egli demolisce non viene ricostruito, l se rinchiude un uomo non gli sarà riaperto; 15se trattiene le acque, si seccano, l se le lascia andare, rivoltano la terra. 16 ln lui sono la potenza e il successo, l suoi sono chi sbaglia e chi fa sbagliare. 17 Fa camminare scalzi i consiglieri, l i giudici rende dementi; 1Bpriva delle . insegne' i re l e stringe con una cintura i loro fianchi; 19 fa camminare scalzi i sacerdoti l e gli ostinati rovescia; 20 leva la parola ai fedeli l e il gusto ai vecchi toglie; 21 riversa il ludibrio sui nobili l e il cinturone dei valorosi allenta; 1
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negativo, usandosi, p. es., in relazione ai prigionieri condotti in catene, ma la intendiamo qui riferita alla cintura d'investitura regale o, in alternativa, ai «vincoli>> che, nelle mani del re, sono il segno del suo potere e della sua autorità; cosi anche la versione CE I. Cintura (,it~)- In opposizione alle «insegne» della prima parte del versetto, si tratterebbe
piuttosto di una «corda», segno della prigionia e della deportazione; cosi, in effetti, la Vulgata confune e la versione CEI. La Settanta, leggendo tutto il versetto come descrizione dell'intronizzazione regale, pensa invece qui alla cintura di investitura ((w1111), ma ciò pare poco probabile, visto il contesto che parla del rovesciamento dei potenti operato da Dio.
richiamano al celebre passo di Is 11,2: la «sapienza», la «forza», il «consiglio» e la «comprensione» (Gb 12,13 ). A queste quattro qualità corrispondono, nel versetto seguente, quattro azioni da parte di Dio, di ognuna delle quali viene presentata anche la conseguenza o l'effetto che produce: «demolisce l non viene ricostruito», «rinchiude l non sarà aperto», «trattiene l si seccano», «lascia andare l rivoltano»; tutte queste azioni manifestano la signoria di Dio sulla storia e sul mondo, una signoria che si connota però per il suo carattere di distruzione e sconvolgimento e per la sua dimensione di definitività. La potenza di Dio si traduce nella riuscita di ogni suo intervento e nel dominio su ogni categoria di persone, classificate nel v. 16 mediante la suddivisione tra «chi sbaglia» e «chi fa sbagliare», probabile riferimento rispettivamente ai popoli e ai loro capi. L'inno prosegue infatti presentando le azioni di Dio volte a condurre a un rovesciamento nella vita sociale, esemplificato da un elenco di figure pubbliche che sono private delle loro prerogative (vv. 17-21); i «consiglieri», funzionari di corte, vengono inviati «scalzi», ovvero spogliati degli onori e della dignità associati al loro rango; i «giudich>, amministratori del diritto, sono resi «dementi», incapaci di svolgere i loro compiti processuali; i «re» sono legati e condotti in prigionia, dopo aver ceduto le loro insegne, simboli dell'autorità; al pari dei consiglieri, anche i «sacerdoti», le guide
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:c~~~ Z,?,~ '~~1 1i?W-"?~t? CtJ~ c?~N1, 4 12,23 E li guida (CM.~".1)- Per mantenere il parallelismo con la prima parte del versetto, alcuni commentatori congetturano cn.~·1 «li sopprime» (dalla radicale itMO), in op-
posizione al precedente «incrementa»; la congettura, tuttavia, non risulta necessaria, potendosi intendere il verbo come «li riconduce (alla condizione precedente)>>
religiose del popolo, sono declassati, così come vengono destituiti tutti coloro che esercitano funzioni ereditarie e permanenti; ai saggi e agli anziani viene tolta la capacità di insegnare e discernere, vanificando l'esperienza maturata con gli anni, mentre i nobili perdono il rispetto dovuto alla loro posizione e i valorosi la loro forza e abilità (questo, forse, il senso dell'oscuro «cinturone» allentato: le ampie vesti tipiche dell'epoca intralciavano i movimenti e dovevano essere cinte in vita durante il lavoro o la corsa). Il v. 22 interrompe la serie degli esempi relativi alla vita sociale e per questo motivo è stato ritenuto fuori posto da alcuni autori; anche in esso troviamo, comunque, un'esaltazione della potenza di Dio, che si manifesta nel suo dominio sull'oscurità e sull'ombra di morte. L'espressione «profondità delle tenebre» può riferirsi alle azioni nascoste degli uomini, che Dio svela portandole alla luce, oppure - con ogni probabilità, visto il parallelo con il senso della seconda parte del versetto - al mondo degli inferi, ai cui misteri tenebrosi Dio ha pieno accesso. L'inno riprende poi con la descrizione degli interventi divini nella storia umana, mostrando l 'illusoria grandezza dei popoli e delle nazioni che, all'apice della loro espansione, sono fatti perire e scompaiono dalla scena del mondo; lo stesso destino è riservato ai capi politici, ai quali è tolta ogni capacità di governare. Nell'insieme, l'inno appare come un rovesciamento della teologia della storia cosi come formulata, per esempio, nel Sal l 07 e in ls 44: nella visione di Giobbe, il potere di Dio si dispiega nelle vicende del mondo non come espressione di una volontà benevola e prowidente, bensl in modo distruttivo e irrazionale; la sua forza dirompente, inoltre, appare del tutto staccata da un senso di equità e di giustizia, non fornendo alcun fondamento a quella concezione di tipo retributivo sostenuta strenuamente dagli amici di Giobbe. Se l'agire divino
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GIOBBE 13,4
22rivela le profondità delle tenebre l
e fa uscire alla luce l'ombra mortale; innalza le genti e le fa perire, l incrementa i popoli e li guida; 24 leva il senno ai capi del popolo del paese l e li fa vagare nel nulla, senza una strada; 25 brancolano nelle tenebre, senza luce, l e li fa barcollare come l'ubriaco. 1Sì, tutto questo ha visto il mio occhio, l ha udito il mio orecchio e ha compreso; 2quello che sapete lo so anch'io, l non sono inferiore a voi. 3Ma io parlerò a Shadday, l con lui desidero discutere. 4Voi invece vi imbiancate di falsità, l voi tutti siete guaritori fasulli;
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13
oppure in riferimento alla deportazione. 12,24 i capi del popolo del paese - Il Testo Masoretico ("C,P 'Wtq fll;t;:'l) concorda con la Vulgata con principum populi terrae,
mentre la Settanta, seguita dalla versione CEl, omette c.p «del popolo», probabilmente considerandolo ridondante e traducendo semplicemente lipx_6vtwv yiìç «dei capi del paese».
è ispirato dalla sapienza, la natura di questa rimane del tutto inaccessibile alle capacità di comprensione umane. Prosecuzione delle accuse agli amici ( 13, 1-12). Giobbe continua ad attaccare gli amici, riaffermando la bontà della propria conoscenza, basata sull'esperienza diretta di ciò che ha potuto vedere e sentire personalmente (v. l); le sue argomentazioni non hanno, perciò, meno valore delle loro (v. 2). Nel confronto con gli amici, Giobbe non ha ottenuto le risposte cercate: la teologia e la sapienza tradizionali, da essi rappresentate, non sono state in grado di offrire una spiegazione soddisfacente a una sofferenza che, agli occhi di Giobbe, appare ingiusta e del tutto sproporzionata. Per questo motivo, egli non può accettare neanche la difesa che gli amici hanno condotto in favore di Dio, che è il responsabile ultimo della condizione umana; pur se mossa da buone intenzioni, essa si è rivelata falsa e interessata. Giobbe vorrebbe allora contendere direttamente con Dio, per avere da Lui stesso una spiegazione chiara ed esauriente (v. 3); il linguaggio utilizzato da Giobbe suona quasi come una sfida lanciata a Dio e si richiama alla procedura penale, preannunciando lo svolgimento della contesa vera e propria. Prima di rivolgersi a Dio, Giobbe conclude però la sua critica agli amici apostrofandoli pesantemente; infatti, anziché ricevere da loro sostegno e consolazione, è stato considerato colpevole e meritevole di castigo: in conseguenza dei loro vani consigli, essi vengono definiti da Giobbe ipocriti, che si rivestono di falsità come di intonaco (cfr. Mt 23,27), e medici fasulli (per l'immagine del medico applicata aDio, cfr. invece 5,18), che con le loro parole illudono di portare guarigione, mentre in realtà aggravano le condizioni dell'ammalato (v. 4). Giobbe Ii invita pertanto a tacere, perché il loro silenzio, più dei loro vuoti discorsi, sarebbe segno di sapienza. Più che parlare, essi dovrebbero ascoltare la difesa che
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GIOBBE 13,5
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13,8 Gli mostrerete favore (}~l't~ l'\ 1'~EI;:t) -Alla lettera: «il suo volto e everete» (cfr. anche 13,10). 13,12 I vostri memoriali (C~'~.'"l:;lr) -Il vocabolo 11if! deriva dalla radicale i!:)T «ricordare»; nel nostro contesto, esso significa probabilmente «detto memorabile», «massima» e
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13,26 Amarezze (ni,"l~)- Così la Vulgata con amaritudines, mentre la Settanta rende con KaKa «cose cattive». Non ci sembra necessaria la correzione, talvolta proposta, in ni1"'\~ «ribellioni»: il Testo
Masoretico evidenzia bene le conseguenze dell'atteggiamento di Dio sull'animo di Giobbe. 13,28 Alcuni autori considerano il versetto fuori posto e lo collocano dopo 14,2 o
sua volta, sembra considerare l'uomo come un suo nemico, al punto di nascondere da lui il suo volto (v. 24): l'espressione, largamente utilizzata nel salterio (Sal 27,9; 30,8; 44,25; 88,15; 104,29), indica non semplicemente un atteggiamento di indifferenza nei confronti della condizione di sofferenza de li 'uomo, bensì una vera e propria ostilità, che si manifesta come rottura di ogni rapporto. Nel v. 25, per rappresentare l'arbitrario accanimento divino nei suoi· confronti e la propria incapacità di resistenza, Giobbe fa ricorso a due immagini tradizionali tratte dal mondo naturale, quelle della foglia sbattuta dal turbine del vento e della paglia secca (Sal 1,3-4; Is 1,30; 34,4; 64,5; Ger 8,13; Ez 47,12). L'accusa di Giobbe prosegue con un'ulteriore interrogativa, nella quale emerge la presa di coscienza dell'inutilità della propria difesa: egli realizza che Dio ha già pronunciato su di lui un verdetto prima ancora dello svolgimento della contesa (a questo pare alludere l 'uso del verbo «scrivere», che rimanda alla formulazione legale di un decreto di condanna), imputandogli anche le «colpe della giovinezza»: si tratta di quelle colpe per le quali ci si aspetterebbe clemenza, in quanto frutto della fragilità e dell'immaturità tipiche dell'età giovanile. Giobbe si raffigura, quindi, l'esito della sentenza, con la conseguente punizione, al modo riservato a un criminale o a uno schiavo. L'ultima espressione del v. 27 è stata variamente interpretata: alcuni commentatori ritengono che «porre un segno alle impronte dei piedi» equivalga a fissare un limite agli spostamenti del carcerato; altri la riferiscono all'usanza di tatuare le mani e le piante dei piedi del prigioniero o dello schiavo, per poterlo riconoscere in caso di fuga (Is 44,5; 49,16). In ogni caso, Giobbe si vede già privato della libertà e oppresso in maniera umiliante
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GIOBBE 14,2
Perché nascondi il tuo volto l e mi consideri come tuo nemico? e inseguire una paglia secca? 26 Perché scrivi contro di me amarezze l e mi imputi le colpe della mia giovinezza? 27 Poni nel ceppo i miei piedi l e sorvegli tutti i miei sentieri, l ponendo un segno alle impronte dei miei piedi. 28E intanto come legno tarlato (l 'uomo) si sfalda, l come un abito che la tarma ha rosicchiato. ~L'u~mo, .nato da donna, l breve di giorni e sazio di mqUietudme, 2come un fiore spunta e avvizzisce, l si dilegua come l'ombra e mai si ferma.
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25Forse una foglia dispersa vuoi spaventare l
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dopo 14,6. Mentre il Testo Masoretico ha come soggetto un generico N~i11 «ed egli», nella Vulgata tutto il versetto è alla prima persona singolare; la versione CEI invece esplicita il soggetto come «l'uomo». Possia-
mo mantenere l'ordine del Testo Masoretico, supponendo che Giobbe parli di sé alla terza persona, preparando cosi il passaggio alla riflessione di carattere generale del brano successivo.
e insostenibile. Se manteniamo l'attuale collocazione del v. 28 (cfr. nota), possiamo leggerlo come elemento di transizione alla riflessione generale sull'uomo della sezione seguente: Giobbe sperimenta sulla propria pelle l'insignificanza dell'esistenza umana davanti a Dio e la corruttibilità che la segna da sempre, esemplificata dalle immagini del legno tarlato e del vestito rosicchiato dalle tarme. La condizione di infelicità di Giobbe diventa così cifra dell'universale esperienza umana. L 'universale injèlicità umana (14,1-12). Il brano mostra molti punti di contatto con il capitolo 7, sviluppando la medesima tematica della sofferenza insita nella condizione umana. L'uomo, 'adiim, viene connotato come «nato da donna», a enfatizzare la fragilità e, con ogni probabilità, anche l'impurità (legata al sangue del parto) che caratterizzano la sua natura, dal momento della sua venuta al mondo. I giorni della vita dell'uomo sono pochi, passano rapidamente e nella continua agitazione; l'espressione «sazio di inquietudine» del v. l richiama, per contrasto, la descrizione della pienezza di vita dei patriarchi i quali, dopo una lunga e serena vecchiaia, terminavano la loro esistenza terrena «sazi di giorni» (Geo 25,8; 35,29). A Giobbe, invece, la vita appare effimera ed evanescente; le due immagini, tratte ancora una volta dal mondo della natura, del fiore che spunta e subito avvizzisce (cfr. anche Is 40,6; Sal 37,2; 90,5-6; 103,15) e dell'ombra che fugge e si dilegua (Sal102,12; 109,23; 144,4; Gb 8,9; 17,7; Qo 6,12; 8,13) esprimono in modo malinconico il senso del tempo che scorre inarrestabile. Lo scopo di questa descrizione è quello di spingere Dio ad allentare la sua pressione sull'uomo: per Giobbe, infatti, è incomprensibile che, di fronte alla piccolezza e alla limitatezza umane, Dio si
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GIOBBE 14,3
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14,3 E mi ('1:1N1)- La Vulgata (et eum), la Settanta (Kal toutov) e la Peshitta presuppongono ink1 «e lo» (così anche la versione CEI), nel contesto di un discorso che parla dell'uomo in terza persona, mentre la prima persona del Testo Masoretico implica un nuovo passaggio da una situazione generale
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al caso particolare di Giobbe: ci atteniamo a quest'ultima lezione, non essendo infrequente nell'ebraico una simile alternanza di persone, peraltro molto espressiva in questo caso. 14,5 Un limite- Cosi la versione CEI, seguendo il ketìb ii'':'· mentre la Vulgata ha il
accanisca a scrutarlo minuziosamente in cerca delle sue mancanze e che lo sottoponga a giudizio (v. 3). In realtà, era Giobbe a voler citare Dio in giudizio, ma dalla sua protesta emerge la consapevolezza della situazione di svantaggio in cui si trova nei confronti di Dio. La successiva domanda retorica del v. 4, a cui segue anche l'esplicita risposta, si colloca in ambito cultuale; riprendendo l'allusione iniziale, Giobbe ribadisce la sua concezione de li 'uomo come di una creatura segnata fin dalla nascita dali 'impurità (Sal 51,7), dalla quale è incapace di liberarsi, persino facendo ricorso ai riti sacri. Neli' interpretazione patristica e medievale, questo versetto è stato utilizzato a sostegno della dottrina del peccato originale; tuttavia, nel contesto originario il significato mira semplicemente a mettere in evidenza la fragilità congenita dell'uomo, allo scopo di propiziarsi la comprensione e la benevolenza divine. Con una terminologia cosmica (Ger 5,22), Giobbe torna quindi a parlare della brevità della vita dell'uomo, alla quale Dio ha fissato un termine, un confine insuperabile che sfocia nella morte. Per questo, Dio viene esortato a distogliere lo sguardo da lui, consentendogli di avere un po' di tregua; agli occhi di Giobbe, la vita dell'uomo appare infatti come quella di uno schiavo, oppresso dal controllo autoritario di un
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GIOBBE 14,12
su questo tieni aperto il tuo occhio l e mi fai venire in giudizio con te! 4Chi può trarre il puro dall'impuro? l Nessuno! 5Se i suoi giorni sono stabiliti l e il numero dei suoi mesi è da te fissato, l se gli hai tracciato un limite invalicabile, 6distogli lo sguardo da lui e si riposi, l e possa godere come un salariato la sua giornata. 7Poiché per l'albero c'è una speranza, l se viene tagliato ributta ancora l e il suo ramo non cessa di spuntare; 8anche se la sua radice invecchia nella terra l e il suo tronco muore nella polvere, 9all'odore dell'acqua sboccia l e mette ramoscelli come una giovane pianta. 10L'uomo, invece, se muore, soccombe; l e il mortale, quando spira, dov'è? 11 Possono sparire le acque del mare, l il fiume inaridirsi e seccare, 12così l 'uomo che giace non si rialzerà; l finché non siano (più) i cieli, non si sveglieranno, l né saranno destati dal loro sonno. 3Eppure
plurale terminos eius «i limiti suoi», secondo il qerè ,'!?M. La Settanta invece, probabilmente interpretando in base al contesto che parla di «giorni» e «mesi», ha eolç xp6vov «in un tempo». Ci atteniamo alla lezione del ketìb, a nostro parere sufficientemente chiara. 14,6 E si riposi ('=' 1'1;1) -Alla lettera: «e
cessi»; alcuni autori, con un manoscritto ebraico, presuppongono, in continuità con la forma del primo verbo che apre il versetto, la forma imperativa '='1m «e lascia(lo) stare». La variazione è soltanto stilisti ca; conserviamo pertanto la lezione del codice di Leningrado (L).
Dio-padrone. L'ultima parte del brano contiene un suggestivo paragone che contrappone la speranza dell'uomo a quella deli' albero, sempre capace di rinnovarsi a ogni primavera (vv. 7-12): a questa meraviglia del ciclo naturale, che celebra il trionfo della vita, Giobbe oppone amaramente il destino finale dell'uomo, che trova la sua conclusione nella dissoluzione della morte; al termine del suo cammino terreno, l'uomo infatti scompare per sempre, dissolvendosi nella terra, senza possibilità di tornare in vita. La definitività della morte viene illustrata poi con immagini che richiamano la stabilità del cosmo: il mare, i fiumi, il cielo. Ebbene, se anche questa stabilità dovesse venire meno, per Giobbe invece il destino ultimo dell'uomo non cambierebbe, al pari di un sonno senza possibilità di risveglio. Il contrasto con la speranza di ritorno alla vita dell'albero è netto ed esprime la percezione, da parte di Giobbe, di un'ingiustizia insita nell'ordine della natura voluto da Dio; in queste parole non trova spazio l'idea di una vita ultraterrena, anche se la domanda «dov'è?», riferita alla condizione dell'uomo dopo la morte, continua a provocare Giobbe il quale, nel brano seguente, prova a immaginare almeno per un momento una possibile risposta che apra un nuovo spiraglio alla speranza.
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:i'?i''?~ i'~l:': ,~~i ~if7 ~~il-,iJ o7~Nl 18 14,1 ODo v 'è? (i•&o.m- La Settanta con oÒKÉn Eanv «e non è piii)), deve avere letto, come un manoscritto ebraico, 1'~1; il senso è co· munque lo stesso, esprimendo lo sconcerto per la fine dell'esistenza dell'uomo e la sua scomparsa dalla terra dei vivi. 14,12 Finché non siano ('1'1~~-,~) -Alla
lettera: «fino a non più>>; l'espressione è resa in vari modi, concordando nel senso generale; la Vulgata legge donec atterratur «finché (il cielo) non sia abbattuto)); la versione CEI rende con «finché duranO>>; la Settanta ha \Éwc; lXv... oò IllÌ auppa.lj)ij «finché non sia scucito)), nel senso di «aperto)).
Un desiderio irrealizzabile (14, 13-17). L'esclamazione di Giobbe giunge improvvisa e inaspettata: dopo il lamento sulla finitudine e il destino mortale dell'essere umano, Giobbe ipotizza uno scenario diverso, in cui l'uomo dopo la morte trovi rifugio nello S'o/, attendendo che l'ira di Dio sia passata ed egli possa nuovamente sperimentare il suo favore (v. 13). Lo 8'6/ è descritto in questo passo come un grembo che accoglie l'uomo al termine del suo cammino terreno, in attesa di un intervento di Dio che «si ricordi» della sua creatura e risponda al suo desiderio di vita. Mentre formula questa ipotesi, Giobbe stesso, con la domanda di apertura del v. 14, si rende conto che il suo pensiero è ardito e il desiderio espresso gli appare assurdo. Tuttavia, prosegue nel delineare le conseguenze della sua fantasia, prima utilizzando un vocabolario tratto dall'ambito militare (paragonando la sua attesa nei confronti di Dio a quella di un soldato o di una sentinella nei riguardi del proprio cambio), per poi passare al linguaggio tipico dell'amore: la prontezza di Giobbe nel rispondere esprime infatti tutto il desiderio di essere amato e ricercato da Dio. Audace è il verbo tiksop «aneleresti», utilizzato al v. 15 per illustrare la nostalgia da parte di Dio dell'incontro con Giobbe (alcuni autori traducono il verbo all'imperativo, intendendolo come un'esortazione di Giobbe rivolta a Dio; ci sembra, piuttosto, una conseguenza dell'ipotetico desiderio di Giobbe di sperimentare nuovamente la comunione con Dio, il quale tornerebbe a mostrargli il suo amore). La trasformazione dell'atteggiamento di Dio nei confronti di Giobbe viene evidenziata anche da un ulteriore contrasto: mentre nel momento presente Dio si comporta come un sorvegliante, che scruta con attenzione ogni
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0h, volessi occultarmi negli inferi, l nascondermi finché sia passata la tua ira, l fissarmi un termine e ricordarti di me! 14Se un uomo muore, potrà forse rivivere? l Tutti i giorni della mia milizia aspetterei, l finché giunga il mio cambio; 15mi chiameresti e io ti risponderei, l aneleresti all'opera delle tue mani. 16Mentre ora conti i miei passi, l non sorveglieresti (più) il mio peccato, 17 la mia trasgressione sarebbe sigillata in un sacchetto l e sulla mia colpa metteresti intonaco. 18 Ma come una montagna cade franando l e una rupe è sbalzata dal suo luogo, 13
Alcuni commentatori propongono di leggere ri~:;~-i~ «fino al passare de», dalla radicale i"'T~~ «consumarsi», «passare»; questo senso non si discosta apprezzabilmente da quello attribuito al Testo Masoretico, che, pur nella sua sinteticità, preferiamo perciò conservare. 14,14 Tutti i giorni ... il mio cambio( ... -~~-~f
'1:1~-~~)- L'immagine, tratta dal mondo militare, vuole esprimere l'impazienzadell'attesa. 14,15 Aneleresti (~O~!})- Il significato letterale del verbo è «impallidire» (dalla stessa radice deriva il sostantivo ~9~ «argento», a motivo del colore chiaro del metallo), per il desiderio o la nostalgia.
colpa umana, Giobbe si auspica di poter sperimentare il suo perdono; il v. 17 utilizza in proposito due immagini simboliche, quella del sacchetto che racchiude e sigilla il peccato di Giobbe e quella dell'intonaco che copre la sua colpa. La prima immagine può essere fatta derivare dall'uso dei beduini di racchiudere in una borsa un numero di piccole pietre, corrispondenti agli animali facenti parte del gregge, per facilitare le transazioni commerciali (testimonianze archeologiche di un simile uso, risalenti alla metà del secondo millennio a.C., sono state rinvenute negli scavi della città-stato mesopotamica di Nuzi, nell'attuale Iraq); per alcuni interpreti, esprimerebbe l'attenzione scrupolosa di Dio nei confronti dei peccati di Giobbe, contati e annotati con cura in modo da non dimenticarli; per altri significherebbe invece metterli via per dimenticarli, o chiuderli in modo da bloccarne il computo, impedendo di aggiungerne di ulteriori. Preferiamo questa seconda interpretazione, che si armonizza con la seconda immagine utilizzata nel versetto: stendere l'intonaco comporta infatti coprire le imperfezioni e le irregolarità per rimettere a nuovo una superficie, restituirle il colore bianco simbolo di purezza. Giobbe sospira cosi la misericordia e il perdono di Dio, che renderebbero inutile il rib; questa speranza entra però in tensione con l'esperienza attuale di Giobbe, schiacciato dall'inflessibile e incomprensibile rigore della giustizia divina. La scomparsa e l 'oblio definitivi (14, 18-22). La particella avversativa in apertura del v. 18 segna la fine della fantasia di Giobbe e il ritorno alla durezza della realtà, la cui descrizione occupa l'ultima parte del discorso. L'annientamento delle speranze di Giobbe viene illustrato anzitutto mediante una serie di immagini cosmiche che
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14,19 Un 'alluvione (:'I'M'E:IO) - Traduzione congetturale, l' espressiònè suona alla lettera: «le effusioni veementi di essa», dove il suffisso pronominale deve essere riferito, se-
condo il senso, a «l'acqua». Cosi, comunque, hanno inteso sia la Vulgata (alluvione) che la Settanta (1.\ùa:ta: u11na:, «acque fluenti»). 15,4 Il timore ... la devozione (:"'r;r'~ ... :'la;tl')-
evocano distruzione e devastazione (vv. 18-19): tutto ciò che, nell'esperienza umana, è ritenuto più saldo e inamovibile, soccombe dinanzi alla furia divina; le acque che erodono le pietre illustrano l'idea della lenta ma tenace azione di Dio che demolisce la speranza umana senza sosta, con una forza dirompente e inarrestabile. Questa dimensione cosmica suggerisce la portata universale del comportamento di Dio, che condanna l'uomo a una morte percepita come insensata e irreversibile. Le espressioni del v. 20 enfatizzano ancora l'atteggiamento aggressivo di Dio, che abbatte l'uomo e ne sfigura il volto, togliendogli ogni dignità; il testo sembra alludere anche alle vicende del primo essere umano, scacciato dal cospetto di Dio e costretto lontano dalla terra dei viventi. La morte segna, inoltre, la rottura insanabile di ogni legame e relazione: il defunto che scende nello s•ot rimane per sempre isolato nell'abisso della propria solitudine (v. 21 ). Questa condizione definitiva viene ulteriormente caratterizzata nel versetto conclusivo del brano, che è stato variamente inteso. Per alcuni commentatori, la «carne» (biiSiir) e !'«anima» (nepeS) dell'uomo sono soggette alla sofferenza e al tormento soltanto finché l'uomo è in vita, perdendo nella morte ogni facoltà di sentire, con la conseguente riduzione dell'individuo in uno stato privo di qualsiasi coscienza; altri autori, ai quali ci associamo, intendono il testo come un'illustrazione del dolore assoluto nel quale l'uomo, con la morte, viene precipitato in maniera irrevocabile: lo S"ol appare, quindi, come il grado supremo e perenne dell'alienazione umana. Con questo scenario oscuro e desolato ha termine il primo ciclo di discorsi, nel quale le diverse posizioni di Giobbe e degli amici si sono scontrate, senza riuscire a scalfire il mistero del dolore innocente e della relativa responsabilità di Dio. 15,1-21,34 Secondo ciclo di discorsi L'articolazione di questo ciclo di discorsi ricalca strettamente quella del preceden-
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GIOBBE 15,3
le acque sbriciolano le pietre l e un'alluvione inonda la massa della terra, l così fai perire la speranza dell'uomo. 20Lo sconfiggi per sempre e se ne va, l gli sfiguri il volto e lo mandi via; 21 se i suoi figli avranno gloria non lo saprà, l se falliranno, non ne verrà a conoscenza: 22 solo la sua carne per lui proverà dolore, l (solo) la sua anima per lui farà lutto». 19
15
Poi riprese la parola Elifaz, il Temanita, e disse: un sapiente risponde con conoscenza vana l o nemp1e il suo ventre di vento di oriente? 3Discute con una parola inefficace l e con discorsi inutili? 1
2«Forse
Si tratta di due termini legati al modo di vivere la religiosità. Sul «timore» del Signore si veda la nota a 1,8; il termine tradotto con «devozione» indica, soprattutto nei Salmi, il movimento
con il quale l' orante si rivolge a Dio, pregandolo a voce alta e meditando la sua legge (cfr. Salll9,97.99), dimostrando in tal modo la sua pietà e la profondità della propria fede.
te: troviamo i tre interventi di Elifaz (15,1-35), Bildad (18,1-21) e Zofar (20,1-29), intervallati con le rispettive repliche di Giobbe (16,1-17,16; 19,1-29; 21,1-34). Dal punto di vista contenutistico, non emergono particolari novità; i discorsi riprendono le tematiche già discusse in precedenza, con variazioni stilistiche e con accentuazioni diverse. Si può notare come il tono delle parole degli amici si faccia progressivamente più aggressivo, cosi come più circostanziate risultano le accuse da loro mosse contro Giobbe, che riguardano non tanto il suo passato, quanto l'attuale atteggiamento di ribellione. Da parte sua, Giobbe si difende, alternando momenti in cui esprime la propria fiducia in Dio ad altri in cui prevalgono il lamento e la contro-accusa. 15,1-35 Secondo discorso di Elifaz Il discorso è costituito da due parti; nella prima, Elifaz rimprovera aspramente Giobbe a causa delle sue parole, considerate blasfeme e pericolose per la religione costituita (15, 1-16); nella seconda, Elifaz passa a illustrare a Giobbe l'insegnamento tradizionale sulla sorte infelice dell'empio: pur non applicando direttamente il ragionamento al caso dell'amico, è evidente l'intento di Elifaz di includerlo nella categoria di quanti si sono rivoltati contro Dio, non ascoltando la voce deli' esperienza e della tradizione (15,17-35). Duro rimprovero a Giobbe (15,1-16). Elifaz prende la parola attaccando Giobbe, attraverso due domande retoriche che mirano a colpire la falsa sapienza da lui dimostrata; agli occhi di Elifaz, infatti, Giobbe non può essere un vero sapiente, perché le dottrine che ha esposto sono fallaci. Esse sono paragonate al vento di scirocco (cfr. anche 8,2) che spira con veemenza provocando la siccità, sia a motivo della loro mancanza di consistenza, sia per i loro effetti dannosi: i discorsi che Giobbe ha in precedenza pronunciato, infatti, appaiono a Elifaz privi di capacità argomentativa e di qualsiasi utilità (vv. 2-3); inoltre, essi manifestano una valenza distruttiva nei confronti del «timore» e della «devozione», che costituiscono i car-
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GIOBBE 15,4
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15,5 Degli astuti (c·~~,~)- Il tennine può essere inteso anche come un plurale di astrazione, «astuzia». L' «astuzia» è un atteggiamento ambivalente; può essere sinonimo di scaltrezza (cfr. Pr 1,4), ma può anche nascondere secondi fini, perseguendo l'inganno dell'altro; è significativo che con questo aggettivo venga connotato, nel racconto genesiaco, il serpente: «era la più astuta (C~,~) di tutte le bestie» (cfr. Gen 3,1 ).
15,11 Pacata (1.0~7) - Interpretiamo l'espressione come una locuzione avverbiale con la preposizione !;l prefissa al tennine 1.0~, nel senso di «dolcemente»; così anche la versione CEI con «moderata». La Vulgata, invece, deve avere interpretato il tennine come una fonna verbale da t.O~oti;l «celare», «velare», da cui «impedire», considerando la «parola» come pronunciata da Giobbe anziché dagli amici: verba tua prava hoc
dini della vita religiosa e del corretto rapporto dell'uomo con Dio (v. 4). Secondo Elifaz, dunque, Giobbe ha parlato con l'intento di sovvertire e screditare l'ordine religioso tradizionale, i suoi ragionamenti sono la dimostrazione evidente del suo peccato e dell'astuzia con la quale ha cercato di piegare le parole dei sapienti a proprio vantaggio. Per questo motivo, la protesta di innocenza di Giobbe si trasforma in un'autocondanna; Elifaz riprende qui, in maniera ironica, le affermazioni dello stesso Giobbe in proposito (cfr. 9,20), interpretandole come un esplicito riconoscimento di colpevolezza (v. 6). Mantenendo il tono sarcastico, Elifaz prosegue il suo attacco nei confronti di Giobbe, mediante una serie di interrogative retoriche che introducono una nuova tematica; egli fa riferimento al mito del primo uomo, 'iidtrm, considerato come modello del sapiente, sulla base di una tradizione già attestata in altri scritti biblici (cfr., p. es., Ez 28, 11-29). Secondo Elifaz, la presunzione conduce Giobbe a paragonarsi a tale primo uomo, generato «prima dei colli», ovvero nei tempi primordiali; se, per assurdo, così fosse, allora Giobbe avrebbe ragione nel rivendicare la propria conoscenza dei piani divini della creazione, che rimangono invece nascosti agli uomini comuni; allo stesso modo, la sua sapienza non ammetterebbe confronti, essendo stato lui presente nel momento in cui essa era al fianco di
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GIOBBE 15,12
pure annulli il timore l e sopprimi la devozione davanti a Dio, poiché la tua colpa ispira la tua bocca l e scegli la lingua degli astuti. 6Non io, ma la tua bocca ti condanna, l e le tue labbra depongono contro di te. 7Sei forse il primo uomo che è nato, l e prima dei colli sei stato partorito? 8Hai ascoltato il piano segreto di Dio l e ti sei accaparrato la sapienza? 9 Che cosa sai che noi non sappiamo, l cosa comprendi che noi non possiamo? 10Anche tra noi c'è il canuto, l'anziano, l chi ha più giorni di tuo padre. "Sono poca cosa per te le consolazioni di Dio l e la parola pacata che ti è rivolta? 12 Cos'è che prende il tuo cuore l e a cosa ammiccano i tuoi occhi,
4Tu 5
prohibent «le tue parole cattive impediscono ciò». Un senso simile è reso dalla Settanta con ,.u;ya>..wç ùrrEppaU6vrwc; À.EÀaÀ11Kaç «hai parlato orgogliosamente oltre misura». La versione da noi adottata, più rispettosa del Testo Masoretico e conservando il parallelismo con la prima parte del versetto, ci sembra preferibile. 15,12 E a cosa ammiccano (p~n~-:"1~,) Il verbo è un hapax dal significato incerto,
che sembra indicare un gesto di insolenza o superbia; la forma potrebbe anche essere dovuta a una meta tesi per ptf? i,' «suggeriranno», «faranno cenni» (cosi, in effetti, alcuni manoscritti ebraici). Alcuni autori correggono il testo in p~,;; «sono innalzati(= orgogliosi)», che offrirebbe un significato appropriato, ma in assenza di testimoni in tal senso ci atteniamo al Testo Masoretico.
Dio (cfr. Pr 8,22-31 ).Ironicamente, la critica rivolta a Giobbe per il fatto di ritenersi destinatario di una rivelazione speciale da parte di Dio e di una comunicazione unica della sua sapienza, va a colpire anche il precedente discorso di Elifaz, nel quale egli stesso si appellava al carattere ispirato del suo insegnamento, ricevuto in visione da un misterioso messaggero divino (cfr. 4,12-21). Elifaz prosegue negando la presunta superiorità della sapienza di Giobbe e ribadendo l'autorità costituita degli anziani, depositari della tradizione (vv. 9-10); tra questi include anche se stesso e gli altri due amici che contendono con Giobbe, rappresentanti del gruppo più ampio di tutti coloro che basano le loro argomentazioni sull'esperienza accumulata negli anni e ricevuta dalle precedenti generazioni. Nella successiva domanda di Elifaz, al v. li, si evidenzia come egli consideri le parole sue e degli amici una consolazione divina; implicitamente, ritiene quindi che essi siano in qualche modo ispirati da Dio e rimprovera Giobbe per non avere accolto i loro consigli. Elifaz accusa poi Giobbe di agire impulsivamente, mosso dalla passione, dall'orgoglio (questo sembra il significato dell'espressione del v. 12: «gli occhi ammiccano») e dal risentimento. Anche in questo caso, è ironico che Elifaz, mentre biasima Giobbe per il suo orgoglio, cada nello stesso atteggiamento, proclamandosi
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GIOBBE 15,13
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15,20 E anni limitati sono serbati al/ 'op· pressore (f"!~'? ~~~~~ c-~~ içl9~~) Alla lettera: «e un numero di anni...». Il senso della frase non è molto chiaro; dal
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contesto, intendiamo che la longevità, che costituisce nella mentalità biblica corrente un segno della benedizione divina, è negata all'empio, i cui anni sono contati; cosi
portavoce di Dio. L'affennazione del v. 14 sulla condizione di impurità dell'uomo di fronte a Dio riprende, quasi alla lettera, l'analoga di 4,17 (la presunta rivelazione ricevuta da Elifaz) e rimanda al commento di Giobbe di 14,4; ma, mentre per quest'ultimo essa voleva essere un tentativo di scagionare l'uomo, ricordando a Dio la sua innata fragilità e l'inclinazione al male, per Elifaz asserisce l'inevitabile peccaminosità de li' agire umano e costituisce la giustificazione del castigo che, nella logica retributiva, ne consegue. La concezione dell'uomo che ne risulta è alquanto pessimistica, sulla scia deli' amara constatazione del salmi sta: «Tutti hanno traviato, tutti sono corrotti; nessuno fa il bene, neppure uno» (Sal53,4). Per rafforzare il proprio assunto, Elifaz procede con un ragionamento a fortiori (vv. 15-16), partendo dall'evidenziare l'imperfezione che, agli occhi di Dio, tocca anche i suoi «santi» (ovvero, le creature angeliche) e i «cieli» (simbolo del mondo trascendente); pertanto, ancora meno di essi l 'uomo, qualificato - con tennini che usualmente fanno riferimento all'idolatria- come «abominevole e corrotto», può sperare di godere della fiducia di Dio. Il brano si conclude con un'immagine fortemente espressiva, che sintetizza la visione proposta da Elifaz, con un implicito riferimento alla condizione vissuta da Giobbe: l'iniquità è per l'uomo come l'acqua per l'assetato, è un elemento che gli è connaturale e, in quanto tale, non evitabile; le proteste di innocenza di Giobbe appaiono a Elifaz del tutto incongruenti con questa verità. La giusta sorte del/ 'empio (15, 17-35). Nella seconda parte del suo discorso,
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GIOBBE 15,21
quando rivolgi a Dio il tuo rancore l e fai uscire dalla tua bocca simili discorsi? 14Cos'è un uomo per ritenersi puro,/ per ritenersi giusto un nato di donna? 15 Ecco, neppure nei suoi santi ha fiducia, l e i cieli non sono puri ai suoi occhi; 16 quanto meno l 'uomo abominevole e corrotto, l che beve come l'acqua l'ingiustizia! 17 Voglio illustrartelo, ascoltami; l ciò che ho visto voglio raccontare, 18quello che i sapienti trasmettevano, l senza celar(lo), dai loro padri. 19 A essi, soltanto a essi è stata data questa terra, l e non passò straniero in mezzo a loro. 20 L' empio si contorce per tutti i suoi giorni, l e anni limitati sono serbati all'oppressore, 21 echi di paure nei suoi orecchi, l quando è in pace, arriva l'invasore;
13
la Settanta con Eti'J 15È àpL9j.lfJt& 15EI5oj.IÉV~ 15uv&ot1J «e gli anni assegnati al potente sono contati». In modo simile intende anche la Vulgata, che mette l'accento
sull'insicurezza che minaccia la vita del tiranno: et numerus annorum incertus est tyrannidis eius «è incerto il numero degli anni della sua tirannide».
Elifaz ripete l'insegnamento tradizionale circa la misera sorte destinata ali' empio, per confutare le obiezioni di Giobbe, secondo il quale i malvagi spesso sembrano prosperare, senza subire quello che, nell'ottica retributiva, sarebbe il meritato castigo divino. Il tono delle parole di Elifaz è didattico, egli accumula una serie di massime sapienziali e di proverbi per illustrare ciò che ha potuto constatare a partire dalla propria esperienza (v. 17: «ciò che ho visto»; il verbo biiza è usato per esprimere la visione profetica e sembra suggerire che Elifaz attribuisca alla propria conoscenza lo stesso valore di una rivelazione divina) e dalla tradizione trasmessa fedelmente dai saggi delle precedenti generazioni (v. 18). Questi ultimi sono ricordati da Elifaz come coloro a cui «è stata data questa terra» (v. 19); secondo il contesto, si potrebbe pensare alla terra di Teman, da cui chi parla proviene, ma questa interpretazione non è sostenibile: Elifaz, infatti, viene presentato come il rappresentante della pura tradizione israelitica, come il modello della teologia sapienziale e profetica giudaica. La «terra» deve indicare perciò la terra di Canaan, alla quale si fa riferimento ricordandone i tempi della ideale purezza originaria, quando le infiltrazioni dei popoli stranieri non avevano ancora contaminato la fede dei padri. Si nota, nelle parole di Elifaz, un forte sentimento di nazionalismo religioso, timoroso di ogni forma possibile di sincretismo. A partire dal v. 20, Elifaz espone la sua tesi con dovizia di particolari; la vita del malvagio è segnata dal tormento, nonostante talora possa apparire diversamente: per tutto il breve tempo della propria esistenza, la serenità dell'oppressore e del
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GIOBBE 15,22
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15,22 Egli è destinato - Alla lettera: «è scrutato)); molti manoscritti ebraici hanno la forma qerè ,,EI~1 anziché la variante irregolare del ketìb ,EI~1· La Vulgata con circumspectans undique «vedendo da ogni lato)) presuppone una forma attiva (:-tç~?), mentre la Settanta rende con E:vrÉta.À.ra. L yàp ~~~11 ); cosi la Vulgata, con verbosi amici mei «verbosi sono i miei amici». In alternativa, il termine potrebbe essere reso come «coloro che interpretano», nel senso di «intermediari», ma ciò obbligherebbe a identificare i «compagni» di Giobbe con il «testimone» e il «garante» introdotti al ver• setto precedente; alcuni autori, perciò, traducono '~!. con «i sentimenti miei)), da l!,.
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L'appello al testimone celeste (16,18-21). Questo nuovo brano si apre con un appello che Giobbe innalza alla terra, invocata quale testimone di fronte a Dio; l'invito a «non coprire il sangue» ci pone davanti a una scena fittizia, nella quale Giobbe si immagina spettatore della propria morte. Al tempo stesso, l'espressione evoca l'episodio dell'uccisione di Abele da parte di Caino (Gen 4,10); il sangue che grida dalla terra è quello dell'innocente ucciso ingiustamente, che reclama la vendetta divina (Sal9,13). Chiedere alla terra che non lo copra, significa- come specificato anche nella seconda parte del versetto- consentire che il grido di Giobbe non si spenga, bensi continui a reclamare il riconoscimento della propria innocenza. Paradossalmente, il grido sale verso quel Dio che è appena stato descritto come il persecutore di Giobbe e come responsabile del suo annientamento. D'improvviso, Giobbe salta con il pensiero, evocando un misterioso «testimone», un «garante» che abita nelle altezze celesti (v. 19). Si tratta di una figura enigmatica, che è stata variamente intesa dai commentatori: alcuni pensano a un angelo, altri a un personaggio simbolico, forse personificazione della preghiera di Giobbe che raggiunge Dio, altri ancora a Dio stesso. Quest'ultima identificazione si scontra con il fatto che il testimone in questione deve svolgere il ruolo di mediatore proprio tra Giobbe e Dio; ma è probabile che il testo presenti una sorta di sdoppiamento della figura divina, che fa emergere la lacerazione interiore di Giobbe: da un lato
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GIOBBE 17,1
0 terra, non coprire il mio sangue, l e il mio urlo non abbia sosta! ora, ecco, nei cieli c'è il mio testimone, l il mio garante nelle altezze; 20mi deridono i miei compagni, l ma a Dio il mio occhio stilla lacrime. 21 Egli sia arbitro tra l'uomo e Dio, l come ·tra' un uomo e il suo simile, 22poiché i miei anni raggiungono il numero fissato, l e mi avvio sul sentiero senza ritorno. 1Il mio spirito è perduto, l i miei giorni si esauriscono, l per me è la tomba. 18
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«pensierm>, «intenzione», «disegno» (cfr. la Nova Vulgata: interpretes mei sunt cogitationes meae «i miei avvocati sono i miei pensieri»). È possibile che il testo sia volutamente ambiguo, esprimendo il pensiero di Giobbe riguardo agli amici che, presentatisi come mediatori nel suo rapporto con Dio, finiscono in realtà per prendersi gioco di lui. La traduzione proposta ci sembra più in linea con la logica del discorso, che vede Giobbe contrapposto agli amici. 16,21 Come tra uomo (Cjl;q~~)- Il testo alla lettera significa «e un figlio di umano»,
e così è tradotto dàlle antiche versioni; con pochi manoscritti ebraici, preferiamo invece la lezione Cj~-,,~~ «e tra un uomo» (cosi anche versione CEI), che appare più logica. 17,l Si esauriscono (l~-\'\)) - Si tratta di un hapax, che la Vulgata ha reso con breviabuntur «si accorciano». Alcuni manoscritti ebraici hanno la variante ~::l.ll,J «si sono estinti», probabilmente per faciiitare la comprensione del passo, utilizzando un verbo più noto. Manteniamo il testo del codice di Leningrado (L) in quanto lectio difficili or.
egli percepisce il volto di un Dio giudice, il quale si accanisce spietatamente per punire i suoi presunti misfatti; dall'altro, non trova alcun possibile difensore se non nel Dio misericordioso e fedele in cui, nonostante tutto, continua a credere. Deriso e umiliato dai compagni, Giobbe infatti può trovare rifugio soltanto in Dio, verso il quale i suoi occhi versano lacrime di supplica (v. 20). Al capitolo 9, Giobbe aveva constatato l'impossibilità di un arbitro tra lui e Dio, il quale non si può sottomettere ad alcun giudizio; nella sua immaginazione irrazionale, forse è Dio stesso che può decidere e accettare di comportarsi da arbitro, ponendosi -nella contesa- alla pari dell'uomo, riconoscendone così l 'intrinseca fragilità. Nuovo lamento di Giobbe (16,22-17,12). La flebile speranza con cui si chiudeva il precedente brano si scontra, però, con la brevità della vita di Giobbe, che sente giungere al termine il numero dei suoi anni, ormai incamminato verso la morte, il «sentiero senza ritornoH (16,22). L'amara constatazione può essere letta come un appello, affinché il riconoscimento dell'innocenza di Giobbe giunga prima della sua morte, oppure come espressione dell'attesa disillusa della fine, dopo la perdita di ogni fiducia di essere ascoltato. Il lamento di Giobbe prosegue, alternando l'espressione del proprio stato d'animo interiore, colmo di tristezza e turbamento, con l'evocazione della morte che, inesorabile, si avvicina ( 17, l). I pensieri si susseguono, quindi, senza un definito ordine logico. Giobbe subisce gli
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GIOBBE 17,2
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17,2 Non sono forse immerso negli scherni? (',0.!.7 C'';lnn ~";;-c~)- Alla lettera: «se non (s~~~) sch~~i con me». Tra le loro insolenze (CJ;I1i7pij=il~)- Alla lettera: «e nel ribellarsi loro». La Vulgata con et in amaritudinibus «e nelle amarezze», forse ha letto l'ebraico l:l'i~i~M~t 17,3 Disponi ... la ~ia'dduzione (~rmti.!l '~::ll.V) - Traduciamo il secondo termine leggendo il sostantivo con suffisso 'J~"1~· anziché la forma verbale imperativa del Testo Masoretico «assicura me»; cosi anche la versione CEI (cfr. la Nova Vulgata pone pignus pro me). La Vulgata conserva la forma verbale, modificando l'ordine della frase e traducendo libera me, Domine, et pone iuxta te «tutti loro» del codice di Leningrado (L): per concordanza con quanto segue. 17,11 Ciò che appartiene al mio cuore ('~i~ -~~7)- La radice lUi' ha come significato' di base quello di «ereditare», «entrare in pos-
sesso»; il sintagma, alla lettera, indica quindi «le possessioni del mio cuore», ovvero i desideri che avvincono e talvolta rendono schiavo il cuore umano. La Settanta traduce metaforicamente con tà &p9pa tt;ç tcap&Caç IJ.OU «le corde del mio cuore»; la Vulgata sembra leggere invece una forma verbale al
posizione di autorità a lui destinate, è diventato oggetto di scherno e di disprezzo per gli altri, considerato come un simbolo dell'abbassamento a cui il peccato conduce; la vita sembra fluire via dalle sue membra, mentre lo sguardo diviene opaco per l'indignazione. Nei vv. 8-9 compare, come in una parentesi, una riflessione sull'atteggiamento dei giusti di fronte alla sventura dell'innocente; è difficile capire a chi vadano attribuite queste parole, come dimostra la varietà di proposte avanzate dai commentatori. Alcuni considerano i versetti come l'interpolazione di un testo che si trovava ipoteticamente a margine, amo' di un commento esortativo sull'atteggiamento da assumere davanti alle parole di Giobbe; altri ritengono il contenuto più consono a esprimere i sentimenti di Bildad, proponendone quindi una diversa collocazione; è possibile, però, che il senso del testo, posto sulle labbra di Giobbe, sia fortemente ironico: Giobbe riporterebbe con sarcasmo i detti degli amici riguardo ai «veri» giusti che, indignati di fronte alla sua protesta e ritenendo la sua condizione come una punizione per la sua malvagità, dovrebbero sentirsi incoraggiati a mantenere una condotta irreprensibile. Considerando il waw in apertura del v. 9 come avversativo, suggeriamo un'altra possibilità: i «retti» che si stupiscono e «l'innocente» che si sdegna sono gli amici di Giobbe, da lui così definiti in modo ironico, i quali lo considerano colpevole; egli, in realtà, è l'unico «giusto», che con coraggio e fermezza non si piega alle calunnie, mantenendo integra la propria coscienza.
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GIOBBE 17,15
1 retti si stupiscono di ciò, l e l 'innocente si sdegna contro l 'iniquo; ma il giusto tiene salda la sua condotta, l e chi ha le mani pure aumenta lo sforzo. 10 Quanto a· voi tutti', ritornate, venite dunque, l sebbene non trovi tra voi un sapiente. 11 1 miei giorni sono passati, sono svaniti i miei progetti, l ciò che appartiene al mio cuore. 12 Essi asseriscono che la notte è giorno, l che la luce è vicina, al giungere delle tenebre. 13Non ho speranza! Gli inferi sono la mia casa, l nelle tenebre distendo il mio giaciglio; 14 grido alla fossa: "Tu sei mio padre!", l "Madre mia e sorelle mie!" al verme. 15 Dov'è dunque la mia speranza? l La mia speranza chi l'ha scorta?
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participio, interpretando con torquentes cor meum «tonnentanti il mio cuore». Manteniamo la lezione del Testo Masoretico, che ci appare sufficientemente chiara. 17,15 La mia speranza ('t:11i?t:11) -La Settanta con t& &yaM IJ.OU forse ha letto 'r:'l~it01 «e il mio benessere» (cosi anche la versione
CEI); la Vulgata, probabilmente volendo variare per ragioni stilistiche, ha reso le due occorrenze del tennine nel versetto rispettivamente con praesto/atio mea «la mia attesa» e patientiam meam «la mia pazienza». Manteniamo la ripetizione, per la forza poetica che assume.
Tornando a rivolgersi agli amici, Giobbe li invita provocatoriamente a riprendere il dibattito, sebbene tra loro non riconosca nessun sapiente degno di tale nome (v. l 0). Quindi, prosegue il, suo lamento, pieno di rammarico e tristezza per i giorni che sono passati, facendo svanire tutti i progetti, i desideri e le speranze più profonde. Una nuova interruzione del filo del discorso è provocata dal v. 12, che appare anch'esso fuori contesto; supponendo che il soggetto plurale siano ancora gli amici di Giobbe, attraverso un detto proverbiale si mette in luce la loro falsità, che giunge a scambiare la notte per il giorno, negando persino l'evidenza; alcuni autori pensano invece che il soggetto sottinteso siano i «pensieri» di Giobbe; altri ancora, preferiscono leggere la frase in senso impersonale, come una constatazione da parte di Giobbe, che vede la notte mutarsi in giorno, impedendogli ogni riposo. Optiamo per la prima interpretazione, a nostro parere più coerente con il resto del discorso. Invocazione della morte, la dimora definitiva (17,13-16). La particella 'im con cui si apre l'ultima parte del discorso di Giobbe può avere diverse funzioni; la intendiamo come introduttiva di una formula di giuramento ellittica, quindi con significato negativo. Altri autori la considerano come la protasi di un periodo ipotetico («Se spero ... »), la cui apodosi è costituita dal v. 15. Il tema centrale dell'unità è rappresentato dalla «speranza», che per Giobbe sembra non esserci
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GIOBBE 17,16
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l'1.~ :l!P.D ~HP~7q i~~f iti>~J ~J\' 4 :i'?P~Q ,~~-vmt1 17,16 Scenderanno alle sbarre degli inferi (:"'f1lr:'l ~k~ '"~-~) -Con f.LE'C' Éf.LOÙ ... Kcx'Ca~~oovtaL «con me ... scenderanno», la Settanta forse presuppone l'ebraico ·~ invece di '"!~ (cfr. versione CEI 197 4); la versione CEI 2008 invece considera '"!~ come soggetto del verbo e traduce «caleranno le porte del regno dei morti». La Vulgata rende il sintagma ':lk~ '"!~ con in projùndissimum infernum «nel profondissimo inferno», considerando come soggetto omnia mea «tutte le mie cose». Alcuni autori propongono di considerare la forma del primo termine come una contrazione di '"1.':;1, secondo un uso attestato a Ugarit, con significato «tra le
braccia (alla lettera: "mani")» degli inferi. Ci sembra però che il Testo Masoretico sia sufficientemente chiaro e non necessiti di particolari correzioni. Sprofonderemo (nij~)- Interpretiamo il termine come una forma verbale dalla radice nnl «discendere»; cosi anche la Settanta (Katcx~!)OO~E8cx «scenderemo») e la versione CEI («sprofonderemo»); in alternativa, il termine può essere inteso come sostantivo con significato «riposo>>, dalla radice ml: cosi la Vulgata con requies, a nostro parere perdendo però nell'efficacia espressiva dell'immagine, modificando il resto dello stico: Putasne saltim ibi erit requies
più. Lo S"61 è diventato ormai la sua dimora, le tenebre il suo giaciglio. Giobbe evoca la morte con immagini che richiamano il disfacimento corporale ed esprime la sua vicinanza a essa mediante il linguaggio delle relazioni familiari: il sepolcro gli è «padre», i venni (femminile in ebraico) «madre e sorelle». La morte pone fine in maniera radicale a tutte le speranze coltivate in vita, esse finiranno con Giobbe nelle profondità dello S"o/, sommerse dalla polvere della corruzione. Con questa immagine, carica di malinconia e profonda tristezza, si conclude la risposta di Giobbe a Elifaz, preparando il nuovo intervento di Bildad. 18,1-21 Secondo discorso di Bildad Il secondo discorso di Bildad può essere chiaramente suddiviso in due parti; la prima (vv. 1-4) contiene un rimprovero a Giobbe, accusato di non avere rispetto nei confronti dei suoi amici; la seconda (vv. 5-21) ripropone ancora una volta tematiche e immagini a sostegno della tradizionale dottrina della retribuzione, nella sua applicazione riguardo al destino degli empi. Il discorso, pur non apportando nuovi elementi di discussione, è pregevole per lo stile vivace ed espressivo; Bildad, imprigionato nella sua supponenza, appare sempre più incapace di comprendere il dramma e le ragioni dell'amico. Rimprovero a Giobbe (18,1-4). Il tono di apertura del discorso è subito po-
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GIOBBE 18,4
alle sbarre degli inferi, l dove insieme nella polvere s2rofonderemo». 1Bildad, il Shul)ita, replicò: 2«Fino a quando andrete a caccia di discorsi? l Riflettete e poi parleremo! 3Perché siamo considerati come bestie, l e ritenuti immondi ai vostri occhi? 4Si lacera nella sua ira ... l Forse a causa tua sarà abbandonata la terra l e la rupe si sposterà dal suo luogo? 16Scenderanno
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mihi? «Credi che almeno li avrò riposo?». 18,2 Andrete a caccia di discorsi? Riflettete (~J·~ 1'~~7 ·~~i' 1~0·~~)- La versione CEI, seguendo la Settanta, ha letto i verbi al singolare, riferendo li al solo Giobbe. Il significato dell'hapax n,p «caccia» è desunto dall'arabo qan$; altri autori collegano l'espressione ali 'accadico qin$U «freno», ma la derivazione non è sicura. La Vulgata con usque ad quem finem iactabitis «fino a quale fine getterete» e la Settanta con mu!ou «porrai fine», invece, forse hanno considerato il termine come una forma aramaizzante di fP. «fine» (cosi anche la versione CEI). Ma la menzione delle «bestie» nel versetto successivo rafforza, a nostro
parere, l'interpretazione venatoria proposta. 18,3 E ritenuti immondi (~~)- Consideriamo la forma una variante ortognmca di ~JN~t,Ol, dalla radicale NO~. La versione CEI congettUra, invece, a partire dall'aramaico ilO~ o CO~ «ci fai passare per idioti». Giustifichiamo la nostra traduzione a motivo del paragone con le «bestie», intendendo «immondi» nel senso di «disprezzabili», «abominevoli». Ai vostri occhi (C;?'J.'~~)- Cosi deve avere letto la Vulgata che rende con coram vobis «dinanzi a voi», mentre la Settanta continua con la seconda persona singolare Évocvr(ov aou «dinanzi a te» (in questo modo anche la versione CEI: «ai tuoi occhi»).
!emico. L'espressione iniziale «Fino a quando» esprime il fastidio e l'esasperazione di Bildad per le tante parole ascoltate in precedenza; se Giobbe è il destinatario della lamentela, occorre spiegare l'uso della seconda persona plurale «voi» (v. 2). Secondo alcuni commentatori potrebbe riferirsi, in realtà, a Elifaz e Zofar, redarguiti per non avere saputo trovare le parole adatte per replicare a Giobbe, oppure a Elifaz e lo stesso Giobbe, il cui scambio di argomentazioni è appena terminato, senza raggiungere una conclusione accettabile. Tuttavia, sembra improbabile che Bildad critichi gli amici, finora a lui strettamente associati nella discussione comune contro Giobbe, e in nome dei quali sembra parlare nel versetto successivo. Si deve pensare, quindi, che il «voi» includa, con Giobbe, l'intera categoria degli empi, il cui destino sarà tratteggiato nella seconda parte del discorso. Essi vengono invitati a riflettere, per poter essere in grado di proseguire nel confronto. Bildad accusa Giobbe di aver mancato di rispetto ai suoi interlocutori, disprezzandoli come bestie immonde; c'è forse un riferimento alle parole di Giobbe in 12,7-8, con le quali egli aveva paragonato la sapienza degli amici a quella che perfino gli animali dimostrano (cfr. anche la sottolineatura della loro stoltezza in 17,4.1 0). Il v. 4 va letto come un tentativo di mostrare l'irragionevolezza di Giobbe, causata dall'ira che lo rode insieme a
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GIOBBE 18,5
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18,8 Con i piedi (1'7rl~) -Alcuni autori considerano l'espressione come idiomatica con senso temporale, traducendo «all'improvvisO>>. 18,9 Lo stringe un nodo (c·~~ 1'7~ pr.t:)~) La Vulgata con sitis «sete» pare avere letto il sostantivo l't~ :il, anziché Cl'~ll «nodo»; anche la Settanta d~~e avere interj,~etato il termine a partire dalla radice verbale N~ :il «essere assetato», facendone l'oggetto diretto del verbo, il cui soggetto sottinteso viene a essere «il Signore»: Ko:noxuoH l:rr' o:utòv lìL\jJwvto:ç «prevarrà sugli assetati contro lui». Il Testo
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Masoretico è, a nostro parere, da preferirsi, per la costruzione in parallelismo sinonimico dei due emistichi e la corrispondenza tra «laccio» e «nodo». 18,12 La sua prosperità (iJN) - Alcuni commentatori fanno derivare l'espressione dal sostantivo na:t «disgrazia», la cui «fame» indicherebbe il desiderio di divorare l'empio; tale interpretazione ci sembra però macchinosa. Vogliamo segnalare anche una lettura targumica del versetto, che intende i termini ìia;t e .U~~ rispettivamente come «primogenito» e «sposa», proponendo un
una smisurata arroganza: agli occhi di Bildad, Giobbe infatti pretende che Dio stravolga l'ordine naturale delle cose, sovvertendo il diritto per dichiarare la sua innocenza; egli sembra non essere cosciente della sua piccolezza e insignificanza nella vastità del mondo e della storia. Il destino infelice degli empi (18,5-21). Bildad inizia a illustrare la sorte che attende gli empi, facendo uso di una serie di immagini tradizionali. La prima di queste è la «luce» (vv. 5-6), simbolo di vita e di prosperità; vengono elencati tre tipi di luce, quella prodotta dal focolare, la lampada che abitualmente illuminava le stanze delle abitazioni e la lucerna che si appendeva per la notte al vertice della tenda, presso le popolazioni nomadi. Nell'insieme, il quadro richiama la serenità della vita familiare e la felicità condivisa nella casa; per contrasto, il venire meno della luce, lo spegnersi della fiamma e l'esaurirsi della lucerna indicano la sventura, l'infelicità e la perdita della vita che attendono i malvagi, come punizione per la loro condotta perversa (Pr 13,9; 20,20; 24,20). L'immagine successiva è quella, anch'essa tradizionale, del cammino o della via; nel suo itinerario, l'empio
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GIOBBE 18,13
Sì, la luce degli empi si estingue l e non splende più la vampa del suo focolare, 6la luce si oscura nella sua tenda l e la lucerna sopra di lui si estingue. 71 suoi passi energici si accorciano l e il suo progetto lo getta a terra; 8incappa nella rete con i piedi l e tra le maglie cammina, 9un laccio gli afferra il tallone l e lo stringe un nodo, 10 nel suolo è sotterrata una fune l e una trappola nel sentiero. 11 Tutt'intomo orrori lo terrorizzano l e lo braccano alle calcagna, 12 la sua prosperità si muta in fame l e la disgrazia si stabilisce al suo fianco; 13 divora i brandelli della sua pelle, l divora i suoi brandelli il primogenito della morte, 5
significato in chiave di castigo familiare: «il suo primogenito diventa emaciato e la disgrazia si attacca alla sua sposa». Preferiamo, tuttavia, mantenere il senso del Testo Masoretico. Si muta infame (:::l~'r'0~) -Alla lettera: «sia affamata». La versione CEI rende con «diventerà carestia». 18,13 Divora i brandelli della sua pelle ("~N' ìiil1 '"!.~) - Il termine i~ può indicare in modo generico una parte del corpo; se riferito alla pelle, può essere tradotto con «brandello». La Vulgata traduce con il sor-
prendente pulchritudinem «la bellezza», forse pensando all'armonia delle membra che costituiscono la bellezza del corpo umano; la Settanta ha, invece, un testo abbastanza diverso: ppw9EL110CW llÒTOU KÀ.WVEç 1TOOWV «siano divorate le dita dei suoi piedi». Alcune versioni ipotizzano '1"1:!1 ":;?~~ «(la sua pelle) è divorata dalla malattia», derivando il secondo termine dalla radicale il1i «languire» (cfr. la resa simile della CEI: «un malanno divorerà la sua pelle»). Il Testo Masoretico ci sembra sufficientemente intelligibile e lo preferiamo.
sperimenta la perdita del vigore e il fallimento di tutti i suoi progetti, il suo passo perde sicurezza finché egli cade (v. 7). Per meglio descrivere le conseguenze delle scelte scellerate degli empi, Bildad ricorre poi al linguaggio venatorio, accumulando nei vv. 8-1 O una serie di vocaboli che designano gli strumenti utilizzati al suo tempo per la caccia degli uccelli o di altri animali: «rete», «maglie», «laccio», «nodo», «fune», «trappola»; sebbene non venga specificato chi sia l'autore della caccia, possiamo supporre, senza escludere un implicito riferimento all'intervento punitivo di Dio, che i malvagi rimangano vittime delle trappole che essi stessi preparano per gli altri. A causa di ciò, essi sono costretti a vivere sotto la costante minaccia del terrore (v. 11); gli > nel versetto seguente e l'uso dei verbi /:liiqaq «fissare» e /:lii$ab «incidere» fanno pensare alle tecniche adoperate nell'antichità per produrre le iscrizioni monumentali. Potrebbe trattarsi, come mostrato dai ritrovamenti archeologici, di iscrizioni incise su lastre di rame o di bronzo con scalpelli di ferro, oppure di incisioni realizzate su pietra e rese più visibili da una colata di piombo fuso sulle lettere. In ogni caso, l'immagine vuole suggerire l'idea dell'importanza e della perennità delle parole pronunciate, che rimarranno come un monumento per le generazioni future. Per quanto concerne il contenuto.delle parole, il riferimento più diretto è a ciò che Giobbe sta per pronunciare, come viene riportato nei vv. 25-27; ma bisogna includere anche un riferimento più ampio all'intera vicenda di Giobbe, il quale vuole lasciare ai posteri una dichiarazione e un'attestazione solenne della propria innocenza. Con il pronome personale di prima persona in posizione enfatica si apre il v. 25, contenente la prima delle solenni affermazioni di Giobbe, il quale parla presentando la propria speranza come una solida certezza: «io so». Per comprendere il ruolo della enigmatica figura che compare improvvisamente nel versetto, occorre fare riferimento all'istituzione giuridica ebraica del go'el (dalla radicale g'/ «riscattare»). All'interno del clan, il go 'el ha il compito di garantire gli interessi dei membri uniti da legami di sangue; è il parente più prossimo, che ha l'obbligo
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GIOBBE 19,26
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19,26 Sarà distrutta- La versione CEI ha reso con «sarà strappata via». La fonna verbale ~Eli?~ propriamente significa «hanno battuto» o, in alternativa, «hanno circondato»; problematica è l'individuazione del soggetto, cosi come il riferimento del dimostrativo femminile nMt «questa», che segue (noi lo
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associamo al precedente sostantivo '!ili, «mia pelle», sebbene altrove esso sia usato come maschile). Alcuni autori correggono in nMti' ~iP~ «sarà battUta cosi». Proponiamo di seguire il Testo Masoretico, interpretando la fonna verbale di terza plurale in senso impersonale e traducendo al passivo. La
di intervenire per difendere il consanguineo e i suoi diritti, sulla base del valore della solidarietà familiare. In concreto, il go 'el è tenuto a riscattare una proprietà nel caso in cui un membro del clan abbia contratto un debito (Lv 25,25); il riscatto si estende anche alle persone, nell'ipotesi in cui, per motivi economici, rischino di diventare schiave di genti straniere (Lv 25,47-49); in caso di morte violenta di un familiare, il go'el si assume poi il compito della vendetta del sangue versato (Nm 35,21); in alcune situazioni di lite, il go'elha anche la funzione di mediatore, per tutelare i diritti del proprio protetto (Ger 50,34; Pr 23,11 ). A livello teoiogico, sono importanti quei passi in cui Dio viene presentato come il go 'el di Israele: avendo con il suo popolo una relazione intima, di tipo «familiare», Dio interviene a riscattarlo dalla schiavitù (Es 6,6; Is 44,24; 49,7; 51,10; 52,3), riconoscendolo come sua proprietà e difendendone i confini (Es 15,13.16; Sal74,2), ed esercitando la vendetta contro chi lo opprime (Dt 32,41-43; Is 59, 15-20; Is 62, 11-63,6). Nelle parole di Giobbe, non è chiaro con chi questo redentore/vendicatore debba essere identificato; di lui si dice che «è vivo», forse per indicare una qualità che gli appartiene in maniera essenziale, ma l'espressione potrebbe alludere anche a un contesto di giuramento solenne, in cui ci si impegna «per la vita» stessa di Dio (Ode 8,19; 1Sam 14,39.45; 2Sam 2,27). Se Dio è colui che opprime Giobbe fino a farlo morire, il go 'el dovrebbe essere logicamente una figura che gli si oppone, prendendo le difese di Giobbe. Tuttavia, sembra difficile poter pensare a una persona dotata di una simile capacità; anche in questo caso, è più plausibile trovarsi di fronte a uno sdoppiamento della figura di Dio o a un inviato che rappresenta, secondo la finzione letteraria, l'inviante divino. A Giobbe, deluso dagli amici e privo di ogni sostegno umano, non resta che riporre la sua ultima speranza in quello stesso Dio da cui si sente perseguitato, con un'ostinata e irrazionale fiducia che la propria giustizia sarà alla fine riconosciuta. Questo go 'el si ergerà, quindi, sulla polvere; il gesto di alzarsi prelude al pronunciamento della sentenza giudiziale definitiva («ultimo» va inteso qui nel senso di «alla fine») e indica la disposizione a intervenire a favore dell'accusato; la «polvere» allude, simultaneamente, alla caducità della condizione umana e alla realtà della morte. Quindi, la ferma speranza di Giobbe è che, prima del sopraggiungere della morte,
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GIOBBE 19,27
dopo che questa mia pelle sarà distrutta, l senza la mia carne vedrò Dio: 27 io stesso lo vedrò, l i miei occhi guarderanno, e non un altro". l I miei reni si consumano dentro di me. 26 e
Vulgata, fedele alla sua prospettiva resurrezionistica, ha reso lo stico con et rursum circumdabor pelle mea «e di nuovo mi circonderò della mia pelle». Senza la mia carne ('")~~~~)-Cosi rende la versione CEI; alla lettera: «e dalla mia carne». L'espressione può essere interpre-
tata come indicante sia uno stato di estrema consunzione corporale, sia la condizione dell'uomo dopo la morte; in proposito, si rimanda al commento. La Vulgata, in linea con l'interpretazione complessiva del versetto, traduce et in carne mea «e nella mia carne», pensando al corpo risuscitato.
il go 'el intervenga finalmente a rendergli giustizia. In questo senso intendiamo anche il difficile v. 26, la cui traduzione è giustificata nelle note filologiche; le espressioni utilizzate fanno riferimento, a nostro parere, al momento terminale della vita terrena, quando il disfacimento del corpo e delle sue membra è irreversibile e anticipa lo svanire dello spirito vitale. La speranza di Giobbe è che allora, almeno per un istante, possa «vedere Dio». Queste parole, di origine cultica, sembrano qui anticipare la teofania che sarà descritta nei capitoli 38-42; il desiderio di Giobbe implica il raggiungimento di una piena riconciliazione con Dio e l'esperienza rinnovata della sua presenza giusta e misericordiosa. L'insistenza sulla dimensione personale di questo incontro risalta nella ripetizione del pronome «io» al v. 27; con i suoi propri occhi di carne, Giobbe potrà contemplare Dio ancora una volta, dopo che la sua innocenza sarà finalmente riconosciuta. Il termine ziir, che abbiamo tradotto con «un altro», può avere anche il significato di «straniero», «estraneo», e ribadirebbe l'avvenuta riconciliazione di Giobbe con Dio, che tornerebbe a mostrargli il suo volto amico. Il brano si conclude con un'immagine che sottolinea il turbamento emotivo di Giobbe, il quale sente le viscere disfarsi dentro di lui, segno del desiderio struggente che lo sconvolge nell'intimo. Prima di procedere oltre, è necessario accennare a un altro filone interpretativo che ha segnato l'esegesi di questi versetti fin dall'antichità, come testimoniato già dalla traduzione della Vulgata: si tratta della posizione di coloro che leggono nelle parole di Giobbe un annuncio della risurrezione dai morti, collocando l'intervento del redentore/ ·vendicatore e l'incontro personale con Dio nell'aldilà (con questo senso, il brano è inserito nel Lezionario del Rito delle esequie). Se confrontiamo il passo con numerose altre affermazioni del libro di Giobbe (3,11-13 7,9-10; 10,21; 14,20-21; 16,18-22; 17,1.1316; 21,23-26; 23,17), ci sembra che un riferimento esplicito all'idea di una vita dopo la morte sia da escludere; l'orizzonte in cui Giobbe si muove è ancora soltanto quello della vita terrena ed è sul piano della storia che egli attende di vedere riconosciuta la propria giustizia. È dall'incontro personale con il Dio vivente che Giobbe può trovare una risposta al perché della sua incomprensibile sofferenza; questo desiderio conduce Giobbe a immaginare e sperare situazioni paradossali, che spingono all'estremo i dati tradizionali della fede di Israele, senza però giungere a compiere il salto verso l'idea della risurrezione, che apparirà soltanto negli scritti più recenti dell'Antico Testamento.
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GIOBBE 19,28
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ne», e per la cui interpretazione rimandiamo al commento. 19,29 Della spada (:l"JIT'~.çl~) -Alla lettera: «da faccia di spada». · · · Poiché l'ira (i1~M.-'~)- Alcune versioni ipotizzano i1~::y-,~ «perché questi», ma il pronome mancherebbe di un antecedente. Intendiamo che l'ira dimostrata dagli amici nei confronti di Giobbe verrà considerata una colpa grave, passibile di essere punita con la spada. Le versioni antiche traducono lo stico in modo alquanto diverso: la Vulgata ha quoniam ultor iniquitatum gladius «poiché la spada è vendicatrice delle iniquità>>, forse leggendo l'ebraico (testimoniato da un
Minaccia agli amici (19,28-29). In chiusura del suo discorso, Giobbe torna a rivolgersi agli amici. Secondo alcuni autori, i versetti sono fuori posto, ma formano un'inclusione con l'inizio del discorso di Giobbe, riprendendo il tono di rimprovero e di accusa. Il v. 28, pur con le difficoltà testuali evidenziate in nota, si apre con una citazione delle parole degli amici, intenti a trovare il modo di perseguitare Giobbe con successo, inducendolo a desistere dalla sua ostinata difesa; non ci sembra convincente la proposta di alcuni commentatori di riferire il pronome «lo» (ebraico, IO) a Dio, come se gli amici esprimessero- dopo l'intervento del «vendicatore» nel riaffermare l'innocenza di Giobbe -la loro impossibilità di perseguitare Dio, individuato finalmente come il vero colpevole della situazione. La seconda parte del versetto non è chiara e il senso dipende dall'interpretazione del termine diibiir. Se inteso come «colpa», Giobbe starebbe lamentandosi del fatto che gli amici continuano a considerarlo responsabile della propria condizione; alcuni autori lo intendono invece in senso positivo come la «pietà» o «sincerità» con la quale Giobbe ha affrontato i suoi amici, nonostante il loro atteggiamento aggressivo. Ci sembra che lo stico possa essere letto semplicemente come lavolontà di Giobbe di sottrarsi al giudizio degli amici per una questione che riguarda soltanto il suo rapporto personale con Dio. Il tono diventa perciò minaccioso nel v. 29: a causa delle loro ingiuste accuse, dei pregiudizi e dell'ostilità mostrate nei suoi confronti, sono proprio gli amici a dover temere il giudizio divino, che si
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GIOBBE20,2
dite: "Come lo perseguiteremo?", l mentre la radice della questione si trova in me, 29preoccupatevi della spada, l poiché l'ira è una colpa degna di morte, l e allora saprete che c'è una sentenza». 1Allora Zofar, il Na'amatita, riprese: 2«Perciò le mie riflessioni mi spingono a rispondere, l a causa dell'agitazione che è in me; 28 Se
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manoscritto) ::l~.\1 n1li~ nttr:t; la Settanta ha, invece, 9u~òç yètp Èn' &v6~ouç È.7TEAEUOE'raL «il furore infatti arriverà sugli empi». Una sentenza (1~,~) - Seguiamo la lezione del qerè. Alcuni commentatori leggono secondo il ketìb 1~'1t+,i «colui che giudica», oppure correggono in 1~'1 !li~ «c'è un giudice», con riferimento a Dio; altri ipotizzano che il termine sia una variante dell'epiteto divino arcaico ''1~· Con il qerè, riteniamo preferìbile non interpretare il termine in senso personalizzante, mantenendo il tono generico di minaccia contenuto nella parola «giudizio» o «sentenza» (cosi, infatti, le versioni antiche). 20,2 Mi spingono a rispondere ('l,:l't.!J~) -
La Vulgata traduce variae succedunt sibi «varie si succedono», omettendo il suffisso e probabilmente leggendo il verbo :l,!li al qal, nel suo senso letterale «tornare»; interpreta in questo modo il flusso dei pensieri e delle riflessioni di Zofar che, a causa della sua agitazione, ritornano a lui in rapida e disordinata successione. La nostra traduzione, che segue il Testo Masoretico, corrisponde al significato che, in un contesto dialogico, va solitamente attribuito alla forma verbale hifil: «rispondere» (cfr., p. es., 2Sam 3,11; 24,13; 2Re 22,20; Is 41,28). L 'agitazione che è in me (':;l •!,!l,n) -Alla lettera: «l'affrettarsi mio in me».
realizzerà «con la spada». Colui che riconoscerà l'innocenza di Giobbe, al tempo stesso condannerà i suoi calunniatori con una giusta sentenza. 20,1-29 Secondo discorso di Zofar Zofar prende nuovamente la parola per replicare a Giobbe, proseguendo nel suo tentativo di convincerlo della bontà della tradizionale dottrina della retribuzione; il discorso si apre, sulla scia del precedente, con un tono aggressivo, che denota l'esasperazione di Zofar e la concitazione con la quale espone le sue convinzioni davanti all'atteggiamento ostinato di Giobbe (20,1-3); la tesi sostenuta da Zofar affenna l 'illusorietà del successo e la gioia effimera del malvagio, che va incontro alla rovina e all'infelicità (20,4-9); l'ultima parte del discorso contiene una serie di esempi dei castighi che il malvagio subisce a motivo della sua condotta e che Zofar interpreta come una confenna di quanto esposto in precedenza (20, l 0-29). La mancanza di novità a livello di contenuto è compensata dalla ripresa creativa di immagini tratte soprattutto dal mondo della natura e dall'esperienza umana. L 'agitazione di Zofar (20, 1-3). Zofar attacca il suo discorso con un «perciò» che lo collega a qualcosa che Giobbe ha pronunciato in precedenza; forse reagisce alla minaccia del giudizio contro gli amici con la quale Giobbe chiudeva il suo intervento. Zofar non riesce a tacere, la sua replica è quasi obbligata dallo stato di agitazione e dallo spirito interiore che lo inducono a manifestare il proprio pensiero (v. 2). Si sente umiliato da quello che Giobbe ha sostenuto e dal tono ammonitorio (questo il
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GIOBBE20,3
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20,3 Ma l 'ispirazione della mia intelligenza ('J:l~'~~ t'!~ì1) -Alla lettera: «ma lo spirito dalla mia intelligenza»; l'interpretazione dell'espressione cambia a seconda della funzione attribuita alla preposizione W. Con valore di origine, come la intendiamo, indica la provenienza dello spirito «da» l'intelligenza, ovvero «l'ispirazione» che muove Zofar a parlare. Con valore comparativo, indicherebbe uno «spirito» più alto de li' intelligenza, quindi «soprannaturale»; ma ciò non s'addice alla situazione di Zofar, che argomenta a partire dalla sua esperienza, a meno di intendere che egli si consideri portavoce di Dio. Con valore privativo, potrebbe esprimere l'insensatezza di Zofar, che parlerebbe mosso da uno spirito «privo di intelligenza»; non ci pare che ciò sia coerente con il discor-
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so che Zofar sta per pronunciare, nel quale si fa appello proprio alla ragionevolezza (v. 4: «Tu sai ... »). 20,4 Forse non sai (1;1-\)1~ MN~::p- Con un manoscritto ebraico e la Settanta 11~, presupponiamo il più logico N"::) «forse non», anziché la lezione del codice di Leningrado (L) «forse questo» (cosi anche la versione CEI: «Non sai tu ... »). La Vulgata con hoc scio invece presuppone la prima persona singolare e la forma affermativa: r;1-\)1~ MNr «questo io so». Preferiamo la forma interrogativa, con cui Zofar continua a provocare Giobbe. 20,7 Come sterco (i""~~)- Alla lettera: «come il suo sterco»; maif~ignificato è dubbio e l 'immaginè strana. Alcuni autori riferiscono il termine ali' arabo gal/"" «splendore», «gloria»: nonostante gli onori ricevuti in vita, il
significato proprio del sostantivo musar) con cui ha parlato (v. 3). Introdotto in questo modo il suo discorso, si dispone a istruire il suo interlocutore sulla retta dottrina. L 'infelice sorte del malvagio (20,4-9). Zofar fa appello alla conoscenza di Giobbe, presentando ciò che sta per illustrare come una verità universale, valida «da sempre», da quando l'uomo è esistito sulla terra; è possibile un riferimento al precedente intervento di Elifaz, che ironicamente additava Giobbe come «il primo uomo che è nato» (15,7). Il contenuto di questa verità perenne riguarda il destino del malvagio, la cui gioia si mostra essere passeggera ed effimera (v. 5). Con l'uso di una terminologia spaziale legata all'ascensione, Zofar indica nell'ambizione e nell'orgoglio sfrenato le radici della malvagità; riecheggiano, in questo passo, i racconti paradigmatici del libro della Genesi relativi alla disobbedienza del primo uomo e alla costruzione della torre di Babele (Gen 3 e 11 ). Come conseguenza di questo comportamento insensato, il malva-
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GIOBBE 20,10
ho ascoltato una lezione insolente, l ma l 'ispirazione della mia intelligenza mi fa replicare. 4Forse ·non, sai che da sempre, l da quando l'uomo fu posto sulla terra, 5il giubilo degli empi è fugace l e la gioia dell'ingiusto dura un istante? 6Anche se si eleva al cielo il suo orgoglio l e la sua testa tocca le nubi, 7come sterco per sempre perirà, l e quanti lo vedevano diranno: "Dov'è?". 8Come un sogno svanisce e non lo trovano, l è messo in fuga come una visione notturna; 91'occhio che lo vedeva non continuerà più a farlo, l né lo scorgerà più la sua dimora. 101 suoi figli dovranno risarcire i poveri l e le sue mani restituiranno la sua ricchezza.
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malvagio perirà. Altri, forse in parallelo con la sua vita è andato in rovina, al punto che i figli l'immagine del sogno del versetto succes- dovranno chiedere aiuto persino ai poveri. Altri sivo, lo collegano invece all'assiro gallu · relazionano la forma qui usata alla radicale f:::l, «fantasma»: il malvagio svanisce come un «maltrattare», leggendo al passivo «i suoi figli saranno maltrattati dai poveri)). essere vacuo, inconsistente. 20,8 È messo in fuga (,1;1) - La Vulgata E le sue mani (1'"!:1) - Grammaticalmente, (transiet) e la Settanta (ETTtT\) sembrano si tratta delle mani del ricco; poiché in preavere letto una torma attiva ,.,;! «e si dile- cedenza si parlava della sua morte, diversi gua» (cosi anche la versione CEI); il senso commentatori modificano il testo leggendo dell'immagine non cambia, ma la forma 1:1\.1''!: «le loro manh), riferendosi ai figli del passiva suppone un riferimento all'azione malvagio, oppure 1'"!~~ «i suoi nath). Altri divina di giudizio e, per questo motivo, ci conservano il Testo Masoretico, interpretandolo come una forma distributiva riferita a sembra preferibile. 20,10 Dovranno risarcire (1~"];) -Intendiamo ciascuno dei figli. Tuttavia, più avanti si paril verbo ii::!, nel senso di «placare», «inden- la nuovamente del malvagio come se fosse nizzare». Alcuni autori, partendo dall'aramaico vivo, per cui non c'è necessità di correggere N~, attribuiscono alla forma il significato di il testo, né di cercare interpretazioni che ap«~~ndicare»: l'idea è che il malvagio durante paiono forzate.
gio è condotto a una morte ignominiosa, simbolicamente rappresentata dall'impurità e dalla corruzione dello sterco (v. 7). Egli svanisce come una visione notturna o come un sogno, che non lasciano traccia nella realtà al momento del risveglio (sul paragone della vita o della realtà a un sogno, cfr. Sal 73,20; Is 29,7); scompare definitivamente dalla vista degli uomini e dei luoghi (chiaramente personificati) in cui ha vissuto. Esempi delle sventure del malvagio (20,10-29). Zofar, a commento ed esemplificazione della dottrina appena enunciata, passa a elencare una serie di sventure riservate al malvagio, la disposizione delle quali non pare seguire un ordine logico. La prima di queste riguarda, in realtà, i suoi figli: secondo la diffusa mentalità della responsabilità collettiva, anch'essi subiscono le conseguenze della condotta empia dei padri, e sono costretti a risarcire i poveri delle ricchezze a loro estorte con l'inganno (v. 10). Al malvagio è destinata una morte prematura, che lo coglie nel
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20,11 Di vigore giovanile (,'~~~P,) - Leggiamo, con il qerè, il sostantivo al plurale; è questa la forma solitamente utilizzata in ebraico, con il valore astratto di «giovinezza». Alcuni autori collegano il termine alla radicale t:l~ll «essere occulto», intendendo di conseguenza l'espressione come «peccati occulti»; la versione della Vulgata sembra unire i due significati con vitiis adulescentiae eius «i vizi della sua giovinezza». Riteniamo però che l'intenzione del testo sia di
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21,8 Con loro e i loro discendenti sotto i loro occhi {tli"1'l'l1L;, Ci"1'K~K~1 CT.Ol1 tli"!'l~L;,) Nella trad~zi~ne ~bbi~~ traÌ~ciato.. Ù.termine o;::r•~ç,~ «al cospetto loro», che risulta ridondantè. La versione CEI sembra seguire la congettura che propone di leggere Cv'~' ;l~ Cv·~~~~ ,Cl?~ (alla lettera: «si sono estesi [dali' arabo 'amma] i discendenti loro agli occhi loro»), traducendo liberamente: «i loro rampolli crescono sotto i loro occhi>>. Un'altra possibilità è la correzione di CfF~ in C"!'?ll «stanno», cambiando l'ordine dei vocaboli
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e costruendo un parallelo con la prima parte del verso: «e i loro discendenti stanno davanti a loro occhi». Entrambe le proposte ci sembrano modificare con troppa facilità il Testo Masoretico, che preferiamo mantenere. 21,12 Cantano (,K~•)- Il verbo KfDl alla lettera significa «eievare», «portare», ma in questo caso si deve intendere sottinteso il termine L;,;p «voce», «suono»; quindi, il significato diventa «acclamare» o, parlando di strumenti musicali, «suonare», «cantare» (cfr. Nm 14,1; Is 3,7; 42,2.11).
confutazione delle prove addotte dagli amici di Giobbe a sostegno della loro posizione. Se Bildad aveva negato all'empio la possibilità di una discendenza (18, 19), Giobbe al contrario vede i malvagi generare e far crescere i loro figli (v. 8); mentre la casa dell'empio dovrebbe subire la distruzione sotto i colpi del «bastone» del giudizio di Dio (15,34; 18,15; 20,28), Giobbe ne contempla l'assoluta sicurezza e tranquillità (v. 9). Un ulteriore segno di benedizione per l'empio è rappresentato dalla fecondità degli animali che gli appartengono (cfr. Dt 28,4); la scena campestre del v. 11 può riferirsi sia ai piccoli del bestiame sia ai figli dei malvagi, descritti mentre si godono serenamente la libertà degli spazi aperti. Questa visione gioiosa si prolunga nella menzione della danza e del canto, in cui alcuni autori hanno colto un possibile riferimento ai rituali di fertilità celebrati dalle popolazioni cananee: si accentuerebbe così il contrasto tra la peccaminosità degli empi e la loro vita appagante. Comunque sia, tutta la scena trasmette l 'idea di una condizione di prosperità e felicità piene, che culmina per il malvagio nella morte serena e
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GIOBBE21,15
La loro prole sta salda con loro l e i loro discendenti sotto i loro occhi, le loro case sono serene, senza paura, l e il bastone di Dio non grava su di loro. 10Illoro toro feconda e non falla, l la sua vacca figlia e non abortisce, 11 mandano fuori i loro piccoli come un gregge l e i loro nati saltano allegramente. 12Cantano con il timpano e la cetra l e gioiscono al suono del flauto, 13consumano i loro giorni nel benessere l e scendono nella quiete degli inferi. 14Eppure avevano detto a Dio: "Allontanati da noi, l non desideriamo conoscere le tue vie; 15chi è Shadday perché dobbiamo servirlo, l e a cosa ci giova supplicarlo?".
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Con il timpano- Accogliamo la lezione variante ZO]h=i! di molti manoscritti ebraici anziché quella del codice di Leningrado (L) ZO]h~ «come un timpano)). 21,13 Consumano- Seguiamo la lezione del ketìb ~"~' anziché il qerè ~":.,; «finiscono)), anche se la differenza di significato è minima. E scendono (11'\M') - Intendiamo dalla radice nm «disce~dere)); cosi la Vulgata con descendunt, seguita dalla versione CEI; alcuni autori considerano invece il verbo una forma nifal della radice nnM con signi-
ficato «essere spaventati)). La Settanta ha ÈKOL~~e,mw «si addormentano)), probabilmente volendo presentare la morte come uno stato di sonno. Nella quiete (lJ~").:;l~)- Così la Settanta con EV o€ &vaml'.uoEL ·i< nel riposo)) e la maggior parte degli autori moderni. La Vulgata, invece, intende et in puncto «e in un istante)), ma l'interpretazione temporale dell'espressione appare meno plausibile, avendo di solito un carattere di minaccia che non si adatta al contesto.
nella tranquilla discesa nello s•of, senza conoscere angoscia e tormento (v. 13). È impossibile ascoltare le parole di Giobbe senza considerare la sua vicenda: pur professandosi innocente, egli ha perso i figli, il bestiame, il conforto della famiglia e degli amici, è oppresso da una malattia nauseante che lo consuma, è avviato ormai verso la morte, senza più speranza, in completa solitudine; e vede, davanti a sé, che i malvagi prosperano e vivono felici, anziché subire il castigo divino che ci si aspetterebbe. La teoria degli amici appare in tutta la sua assurdità. Ad aggravare la situazione, agli occhi di Giobbe, c'è il rifiuto da parte dei malvagi della dimensione religiosa dell'esistenza; riportando le loro parole, Giobbe evidenzia come essi mostrino un totale disinteresse per Dio e per le sue vie (v. 14), con un atteggiamento guidato solo da un principio utilitaristico: in assenza di un vantaggio immediato e tangibile, per loro la preghiera e la devozione non hanno alcun senso (v. 15; risuona ancora una volta, nelle parole dei malvagi, la visione "satanica" della religione, come espressa in 1,9). L'esposizione di Giobbe è
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21,16 L'interpretazione dell'intero versetto è controversa; anzitutto, non è chiaro chi sia a parlare. Potrebbe essere, come noi crediamo, Giobbe, che continua a esporre la sua opinione; intendendo il primo emistichio in senso interrogativo (la Settanta, invece, omette la negazione t(", ottenendo lo stesso significato in forma affermativa), ci troveremmo di fronte a una critica di Giobbe per il fatto che i malvagi prosperano e hanno successo, seguita, nel secondo emistichio, da una sua decisa presa di distanze dal loro gruppo: «è lontano da me» (·~~ 1"1171:)1)· In alternativa, si può pensare che Giobbe stia citando le affermazioni degli amici, secondo
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op~ «ma egli non considera le opere degli empi>~). Una terza ipotesi, leggendo in 16a ,.,;:p. ,);:m~ > e «colpe senza fine». Le colpe contro la giustizia (22,6-11 ). L'elenco delle colpe che Elifaz attribuisce a Giobbe, introdotto dal ki che segna l'inizio del brano, costituisce una sorta di suggerimento per una confessione, nel contesto di una liturgia penitenziale. Le trasgressioni riguardano l'ambito della giustizia umana e i doveri di carità nei confronti del prossimo, secondo gli insegnamenti della Torà, ripresi più volte anche nella predicazione profetica, alla quale Elifaz pare richiamarsi. Tuttavia, le accuse mosse a Giobbe dall'amico appaiono del tutto gratuite: non è evidente su quali basi Elifaz possa considerare Giobbe colpevole di tali misfatti, tanto più che nel prologo il satan aveva riconosciuto davanti a Dio il suo comportamento virtuoso e alieno da ogni malvagità. La colpevolezza di Giobbe, pertanto, può essere dedotta da Elifaz soltanto a partire dalle sofferenze che lo affliggono e che vengono errone-
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GIOBBE22,9
Quale interesse ha Shadday che tu sia giusto l o quale guadagno che tu segua una condotta integra? 4È forse per la tua religiosità che ti rimprovera, l o ti convoca in giudizio? 50 non piuttosto per la tua grande malvagità l e le tue colpe senza fine? 6lnfatti, prendevi pegno dai tuoi fratelli senza motivo l e gli abiti agli ignudi toglievi; 7non versavi acqua allo spossato l e all'affamato rifiutavi il pane; 8al prepotente davi la terra l e il favorito vi abitava; 9rimandavi le vedove a mani vuote l e le braccia degli orfani erano frantumate.
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Settanta, invece, legge in maniera piuttosto oscura ~Sau~aaaç BÉ nvwv 11poaw1Tov T;l o:~·rw~WJ. i1~1D-N7 'iJ~iTìN :mi-'::1 O':l:Ji::! WNi i1Ni~ O'OW n:l~ ni;N-N;i1 ~ il7=?~ Ci.t;l7i ug"i? 1!'J=?~ N?-c~ 20 :il~i\? !f.t;l~i:u;~ ci)~ c;~~ itpl:' N_rtf.t?iJ 21 :'if;~?~ ,.,irt~ C"'P-1 iiJir-t ,.,~~ NJrni? 22
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22,20 Il nostro rivale (1~~·p)- Il tennine è verbo ì:::lC hifil compare soltanto tre volte un hapax variamente interpretato. La Set- nella Bibbia ebraica (cfr. Nm 22,30; Sal tanta con ~ tl'ltooraou; aùtwv «la sostanza 139,3); nel suo significato di «riconciliarsh), loro» forse ha letto C~j?; o c~;~p, mentre la contiene l'idea di ristabilire una condizione Vulgata con erectio eorum «l'elevazione lo- di familiarità e di intimità. ro» suppone CJ;'!~'p; entrambe le versioni lo A te verrà ('9~i~)- La Vulgata con habebis intendono quindi in parallelo con C1J71;1 «e i .fructus «avrai un frutto» deve avere letto il soresti lorm) della seconda parte del versetto, stantivo 1~1~; in maniera simile la Settanta, a esprimere un possesso materiale o la con- che rende l'intero emistichio con El t' ò Kctprr&; dizione elevata che ne deriva. Sulla stessa oou EOtctL Èv &ya9oi.ç «e allora il tuo frutto linea si pone la versione CEI, che traduce sarà prospero)), Manteniamo il Testo Masorecon «i loro averh). La traduzione di c•p con tico, che intendiamo come una fonna verbale «rivale)), tuttavia, è perfettamente plausibi- anomala: all'imperfetto di terza femminile sinle e inserita nella logica della polemica tra golare, Ki~, è aggiunta la sillaba paragogica giusti ed empi presentata nel discorso e, con i'IJ;'I - e il suffisso di seconda persona. 22,23 Sarai ristabilito (i!J:l!r-'1) -Alla lettera: diversi autori, la preferiamo. ., · 22,21 Dunque, riconciliati (Kr1f.9ij) - Il «sarai (ri)costruitm).
di sfida rivolte dagli empi a Dio. In bocca a Elifaz, assumono un tono sarcastico, allo scopo di confutare le precedenti affermazioni di Giobbe. La tracotanza dei malvagi, che pensano di poter fare a meno della presenza di Dio e di essere al sicuro dal suo giudizio, si fonda in realtà su una mera illusione: il loro comportamento, inoltre, è aggravato dall'ingratitudine che essi dimostrano nei confronti di Dio, il quale li aveva beneficati con abbondanza di doni. Tuttavia, secondo la visione di Elifaz, il giudizio divino non si farà attendere: l'immagine del fuoco del v. 20 descrive l'intervento purificatore e punitivo di Dio che distrugge i malvagi e le loro fortune. Spettatori di questo intervento sono i giusti e gli innocenti, che gioiscono per la sorte degli empi; si tratta di un tema ricorrente nel Salterio (Sal52,8; 58,11; 69,33; 80,7; l 07 ,42), che contrappone in maniera netta i due gruppi di persone, ancora una volta sulla base del principio, rigidamente applicato, della retribuzione. Invito alla riconciliazione (22,21-30). Nell'ultima parte del suo discorso, Elifaz torna a rivolgersi direttamente a Giobbe, esortandolo alla conversione, affinché
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GIOBBE 22,26
1 giusti vedranno e gioiranno, l e l'innocente li irriderà: veramente, il nostro rivale è annientato l e i loro resti li ha divorati il fuoco. 21 Dunque, riconciliati con lui e sii in pace, l con ciò a te verrà il bene. 22Accogli dalla sua bocca l'istruzione l e poni le sue parole nel tuo cuore. 23 Se tornerai a Shadday, sarai ristabilito, l se allontanerai l'ingiustizia dalla tua tenda; 24 getta nella polvere i lingotti l e tra i sassi dei torrenti l'oro di Ofir, 25 allora Shadday sarà i tuoi lingotti, l sarà per te come cumuli di argento. 26 Sì, allora in Shadday troverai diletto l ed eleverai a Dio il tuo volto. 19
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22,24 Getta nella polvere i lingotti - Il senso dell'emistichio è incerto: ,l=::il ,Elll""ll"M'~, è variamente interpretato daùè an'dche- ver~i~ ni; la Settanta ha 9~ou É1Tl xul~-tcxn Év 1TÉ.tp~ «ti porrai sopra un argine nella roccia», la Vulgata dabit pro terra silicem «invece di terra ti darà una pietra»; la versione CEI congettura «se stimerai come polvere l'orm>, continuando il paragone nella seconda parte del versetto: «e come ciottoli [ebraico, ,~l=:!;l~] dei fiumi l'oro di Ofio>. La traduzione da noi proposta ci sembra sufficientemente chiara e rispettosa del Testo Masoretico, in cui si esorta Giobbe a non preoccuparsi dei beni materiali, essendo Dio l 'unica ricchezza desiderabile. Ofir (,'f;)1N)- Si tratta di una regione per cui
sono state proposte diverse localizzazioni, dall'India, all'Arabia, all'Afiica; nella Bibbia è citata soprattutto per le sue miniere d'oro (cfr. IRe 9,28; lCr 29,4; Is 13,12; Sal 45,10), importanti al punto che 29 c.- ' ,..,... 10N.r-t1 ... -
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22,29 Essi si umiliano, tu dici: "Esaltazione!" (:"11~. ,~ttM1 ~~·~~;:!) - La formulazione della thise non è chiara, cosi come l'individuazione dei soggetti. La Settanta ha
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ÈttxTTELVWOEV txÒ!W KtxÌ. i=pE'ì.ç ÙTTEpTJ>; a presenza della negazione 't:t ha suscitato difficoltà a livello interpretativo, originando diverse proposte di emendamento. Già le antiche versioni la omettono, riservando la liberazione divina al
riconciliarsi con Dio: nella comunione ritrovata, sperimenterà ancora la gioia della sua presenza e la prontezza con cui ogni sua supplica verrà esaudita. Il simbolo della luce (v. 28), che illuminerà nuovamente il cammino di Giobbe, manifesta la pienezza di vita nella condizione in cui Dio lo ristabilirà. Nonostante le difficoltà testuali, il v. 29 sembra ribadire la dottrina tradizionale del ribaltamento della condizione dei miseri e dei superbi (l Sam 2,1-1 O; Sal 18,28; 31,24; Le 1,52). Più difficile è l'interpretazione del versetto conclusivo del discorso. Molti autori, anche sulla base delle antiche versioni, riferiscono il testo a Giobbe il quale, una volta purificato e riconciliato con Dio, sarà da Lui liberato e salvato: la conversione di Giobbe, quindi, è vista come la motivazione dell'intervento di Dio, che mostra il suo amore efficace nei riguardi dell'uomo giusto e innocente. Tuttavia, la forma originaria del testo rende possibile un'altra lettura, che preferiamo: Dio salverà anche il non innocente, e lo farà mediante la bontà di Giobbe, una volta riconciliato. Si tratta dell'efficacia della preghiera di intercessione, già testimoniata da figure bibliche quali Noè, Abramo, Mosè, Daniele, e che si fonda sulla concezione tipicamente ebraica della personalità corporativa; essa deriva dall'idea dell'esistenza di uno stretto legame, che conduce a una sorta di identificazione, tra una persona singola e il gruppo a cui appartiene: il destino del singolo diventa, in questo modo, inscindibile da quello del gruppo che rappresenta. La preghiera di Giobbe, sul cui esaudimento già si era espresso
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GIOBBE23,2
Lo implorerai e ti ascolterà, l e i tuoi voti adempirai, se deciderai qualcosa, ti riuscirà, l e sulle tue vie splenderà la luce. 29 Quando essi si umiliano, tu dici: "Esaltazione!"; l e salverà chi ha gli occhi abbassati. 30 Egli libererà anche il colpevole, l che sarà liberato per la Qurezza delle tue mani>>. 1Allora Giobbe replicò: 2«Anche oggi il mio lamento è una ribellione, l la 'sua' mano pesa sul mio sospiro. 27 28
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solo innocente; su questa linea, c'è chi ipotizza la lettura 'prc'i"i"l_$ «Dio (darà scampo) ali' innocente»; altri autori invece, sulla base dell'ugaritico e dell'arabo, attribuiscono a'~ il significato di «ogni», «chiunque», mentre pochi sostenitori ha la proposta di tradurre «l'isola» (= «regione»). Conserviamo la lettura del Testo Masoretico e il senso negativo della particella, rimandando al commento per l'interpretazione teologica. 23,2 Una ribellione ('1~)- Dalla radice il1~ «ribellarsi»; alcuni autori intendono il termine come aggettivo «ribelle». La Vulgata, invece, fa derivare il termine dalla radice,,~ «essere amaro», traducendo in amaritudine
: che porta a una faticosa comprensione del testo; con la Settanta (lÌ XEtp txÒtoD) e la Peshitta, ipotizziamo uno scambio di suffisso da;,, «la mano sua», in riferimento all'azione oppressiva di Dio, causa del lamento di Giobbe (cosi anche la Nova Vulgata e la versione CEI). La Vulgata, invece, elimina la difficoltà interpretando come manus plagae meae «la mano della mia piaga», nel senso della «mano che ha causato la mia piaga».
il v. 27, diventerà causa di salvezza anche per altri, ed Elifaz si appella al senso di responsabilità dell'amico come ultimo tentativo per indurlo a rivedere la propria condotta di vita. 23,1-24,25 Risposta di Giobbe a Elifaz L'intervento di Giobbe si apre con un accorato lamento; più che una risposta alle accuse mossegli da Elifaz, egli esprime con urgenza il desiderio di potere presentare la sua causa direttamente a Dio, certo della propria giustizia (23, 1-7), che continua a confessare con immutata convinzione, pur se la sua ricerca di Dio rimane senza esito (23,8-12); tuttavia, Giobbe è spaventato dal fatto che Egli abbia già emesso la sua sentenza, senza la possibilità che tomi sulle sue decisioni (23, 13-17). Riflette, quindi, sulle ingiustizie e la violenza che caratterizzano le relazioni umane e che rimangono inspiegabilmente impunite (24, 1-11 ); il grido e la preghiera dei sofferenti restano inascoltati, testimoniando l'indifferenzadi Dio nei confronti d~l destino dell'uomo, che rimane in balia della prepotenza dei malvagi (24, 12-17). Prima della conclusione del discorso di Giobbe, che ribadisce la verità delle sue opinioni (24,25), troviamo un brano che rispecchia il pensiero degli amici riguardo alla retribuzione degli empi (24,18-24) e che consideriamo, insieme a27,13-23, come parte di un terzo intervento di Zofar, altrimenti mancante nello schema complessivo dei dialoghi. Lamento di Giobbe e desiderio di un processo con Dio (23, 1-7). Il brano si apre con un'indicazione temporale, «anche oggi», da alcuni autori considerata
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appare un'eccezione. La Nova Vulgata (audiat) e la versione CEI congetturano ·~ ll~~· «ascolti me», mentre le versioni antiche traducono lo stico piuttosto liberamente. 23,7 Dal mio giudice ('tpi;)W~)- Cosi intendiamo, con la Nova Vulgata (a iudice meo) e la versione CEI, identificando il «giudice» con Dio (altri pensano in modo più generico ai «calunniatori», ma la figura del giudice non si presta a rappresentarli). La Settanta (-rò Kp[IJ!li-LOU) e la Vulgata(iudicium meum)
in senso strettamente cronologico, come se il dibattito di Giobbe con gli amici si protraesse già da più giorni; è probabile che l'espressione voglia invece indicare lo stato d'animo di Giobbe, che si dispone a proseguire la discussione con aspettative nuove. Anziché rispondere a Elifaz, Giobbe si lascia andare a un accorato lamento, che assume i toni di una ribellione, in quanto ancora non comprende il motivo della sofferenza che si è abbattuta su di lui e l'inesplicabile silenzio di Dio al riguardo. Anzi, il tormento di Giobbe è acuito dal fatto che è proprio «la mano» divina a pesare su di lui, affliggendolo con dolori insopportabili (sulla simbologia della mano divina, come causa di calamità o malattie, si vedano Sal 32,4; 38,3; 39,11 ). Giobbe esprime, quindi, ancora una volta, il profondo desiderio di potersi incontrare con Dio e presentargli la propria causa; non si appella alla misericordia divina, bensl chiede che il suo diritto venga riconosciuto, esponendo le sue ragioni in maniera diretta, sincera, esauriente, spingendo Dio a rispondergli e a spiegargli le motivazioni del proprio operare. Giobbe è convinto che, se riuscisse a dibattere con Dio, Egli lo dovrebbe ascoltare, astenendosi dall'usare la forza contro di lui, in quanto ne constaterebbe l'innocenza e, come in un vero rib, Io riconoscerebbe vincitore della causa (v. 7).
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0h, se sapessi dove trovarlo, l andrei fino alla sua sede! Esporrei davanti a lui la mia causa/ e la mia bocca riempirei di argomenti, 5conoscerei i discorsi con i quali mi risponde l e comprenderei che cosa mi dice. 6Forse con grande vigore contenderebbe con me? l No, solamente dovrebbe prestarmi attenzione; 7allora sarebbe un uomo retto a discutere con lui, l e io mi difenderei definitivamente dal mio giudice. 8Ecco, cammino verso oriente e lui non c'è, l verso occidente e non lo distinguo, 9a Settentrione, mentre è all'opera, non lo vedo, l se si dirige a Sud, non lo scorgo; 10invece lui conosce il mio cammino, l se mi esamina, ne uscirò come l'oro. 3
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invece devono avere letto, considerandolo come oggetto diretto del verbo, ·~~~~ «il mio giudizio»; ci sembra però che il contesto della contesa renda più plausibile la lezione da noi seguita. 23,9 Mentre è all'opera (in·w.p~)- Alla lettera: «nel fare suo». Con la Peshitta, la versione CEI traduce invece «cerco». Alcuni autori relazionano il verbo all'arabo gasa «occultare» o gasiya «dirigersi» (cfr. la Nova Vulgata pergam «mi dirigo»); ma
la lezione del Testo Masoretico a noi sembra sufficientemente chiara. Si dirige (~io~~)- Con la Vulgata (si me vertam) e la Peshitta, la versione CEI ha la prima persona singolare «mi dirigm; (ebraico, ~io~~), considerando Giobbe come soggetto de li' azione. Crediamo invece che il soggetto sia Dio, il quale si sottrae a ogni tentativo da parte di Giobbe di incontrarlo. 23,1 OIl mio cammino ('!IFll 'Tt!)- Alla lettera: «la via con me>;: l'espressione è inusuale.
Infruttuosa ricerca di Dio e nuova protesta di innocenza (23,8-12). L'avverbio «ecco» (hen) in apertura del v. 8 segnala un cambiamento nel discorso; Giobbe descrive la sua ricerca di Dio nel cosmo, con le espressioni tipiche della lingua semitica per indicare i quattro punti cardinali. Nessuna direzione spaziale rimane inesplorata, ma per ognuna di esse Giobbe sperimenta un'assenza; Dio non si manifesta, né è possibile scorgerlo con le facoltà della percezione sensibile (vv. 8-9). Il testo sembra richiamare, confermandole, le affermazioni degli empi, attribuite dagli amici anche a Giobbe, secondo le quali Dio è rinchiuso nelle altezze dei cieli, distante dalle vicende umane, delle quali pare disinteressarsi. Nonostante questa distanza, Giobbe esprime però la convinzione che Dio conosce la sua condotta e, se lo esaminasse con attenzione, riconoscerebbe la sua innocenza, che è certa come lo è la purezza dell'oro raffinato al fuoco (v. lO). Alla ricerca condotta secondo i quattro punti cardinali corrispondono, continuando nel discorso, quattro affermazioni che esprimono la coscienza, da parte di Giobbe, della propria integrità: le prime due utilizzano la metafora del cammino, le due successive fanno riferimento all'obbedienza di Giobbe ai comandi di Dio e alla custodia attenta e fedele dei detti da Lui pronunciati
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23,12 Più della mia intenzione ('i?':!~)- Attribuiamo alla preposizione Wsenso comparativo. La Settanta (€v 1\È K6À TTu,> fLOU) e la Vulgata (et in sinu meo) invece presuppongono l'ebraico 'PM.:i/- «nel mio seno» (cosi anche la versione CEI con «nel cuore»). Conserviamo il Testo Masoretico, che gioca sul contrasto tra i detti di Dio e le intenzioni dell'uomo. 23,13 È immutabile (,l;ltt:i/-)- Alla lettera: «in uno»; il senso della strana espressione sembra essere che Dio rimane fermo in ciò che ha deciso. La versione CEI congettura «ha deciso», forse presupponendo la forma
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(vv. 11-12). In questo modo, Giobbe appare come il tipo del vero credente e, senza riguardo per le sue origini non israelite, come il modello del pio ebreo che osserva fedelmente la Torà di Dio. Spavento di Giobbe per le decisioni irrevocabili di Dio (23, 13-17). Il waw avversativo all'inizio del v. 13 interrompe l'elenco dei comportamenti virtuosi di Giobbe, introducendo il tema della paura: dopo avere riaffermato ancora una volta con convinzione la propria integrità, Giobbe è assalito dal terrore che Dio abbia già pronunciato la sua sentenza di condanna e che le sue decisioni non possano ormai essere mutate. Il destino di Giobbe, al pari di quello degli altri uomini, è nelle mani di Dio, che lo compie in base ai suoi disegni imperscrutabili. Questo è il vero motivo di spavento e di turbamento per Giobbe, che si sente impotente e smarrito davanti all'agire divino: nonostante le tenebre da cui è avvolto, simboleggianti il carico di dolore e sofferenza che lo affliggono, la causa ultima del
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ha calcato le sue onne, l ho seguito la sua via senza deviare, comando delle sue labbra non ho scansato, l i detti della sua bocca ho serbato più della mia intenzione. 13 Egli è immutabile, chi lo farà cambiare? l Ciò che vuole lo fa; 14sì, egli adempie la mia sentenza, l e di simili piani ne ha molti. 15 Perciò sono sconvolto al suo cospetto, l se ci penso sono atterrito; 16Dio ha intimidito il mio cuore l e Shadday mi ha sconvolto. 1'No, non sono scomparso davanti alle tenebre, l né ha coperto il buio • ' il mio volto. 1Perché Shadday non fissa scadenze l e i suoi fedeli non vedono i suoi giorni? 2Spostano i confini, l pascolano mandrie che hanno razziato, 11 Il mio piede 12 il
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preso di essere ancora vivo nonostante la durezza delle prove subite. Il mio volto (·~~~~)-Leggiamo qui ·~~~. omettendo la preposizione. 24,1 Non fissa scadenze (C'l;1l? m;l~r~") Alla lettera: «non sono serbati tempi» (da Shadday). Il verbo è variamente interpretato: alcuni autori lo intendono come «occultare» (cfr. la Vulgata con non sunt abscondita «non sono nascosti»), ma il senso del versetto non appare più chiaro; per questo, alcuni omettono anche la negazione, giungendo alla traduzione: «Perché Shadday occulta i tempi...?». Preferiamo conservare il Testo
Masoretico e il significato più comune del verbo, «serbare», «segnalare» (i tempi), nel senso di fissare una scadenza. E i suoi fedeli (,'~\ 1 1) -Alla lettera: «e i conoscenti lui»; con la Vulgata (qui autem noverunt eum) seguiamo la lezione del qerè, anziché il ketìb ~.11,~, «e il conoscente lui» o ~.11,,, «e hanno co~o~ciuto». 24,2'Spostano i co'lfini (~~·w• r'li":::ll)- Nel Testo Masoretico il sogg~Ùo deì!a frase rimane sottinteso; la Settanta esplicita, in base al senso, anteponendo &oEPEtç «malvagi», mentre la Vulgata ha il più generico a/ii «altri».
dramma di Giobbe è proprio l'incomprensibilità di Dio e la percezione della sua indifferenza, che si concretizza in un giudizio freddo e distaccato, incapace dj comprensione e obiettività. La violenza impunita nelle relazioni umane (24, 1-11 ). Con la domanda del v. l ha inizio un nuovo brano del discorso di Giobbe. Il riferimento ai «tempi» e ai «giorni» del Signore, pur nella formulazione non del tutto chiara, rinvia all'idea, diffusa nella fede ebraica, che Dio deve intervenire nella storia, nel momento da Lui decretato, per ristabilire il diritto e la giustizia. Giobbe, contemplando la realtà umana, conclude che l'attesa di questo intervento è vana, e che la storia continua a essere segnata dalla violenza e dai soprusi di un uomo sull'altro, senza che Dio prenda provvedimenti al riguardo. A illustrazione della propria riflessione, Giobbe elenca una serie di ingiustizie che hanno come scenario la vita nella campagna. Sono accusati, anzitutto, coloro che «spostano i confini» (cfr. Dt 19,14; 27,17;
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24,5 La steppa è per ciascuno pane per (figli (c·,.v~~ CIJ~ 1':1 :'!~'W) -Alla lettera: «steppa per lui pane ai ragazzi». Il senso del passo è di difficile comprensione, come testimoniano anche le versioni antiche. La Settanta rende con f)ouv9!] cdm\ì &ptoç Elç vewrÉpouç «il suo pane è diventato dolce per i giovani», mentre la Vulgata hapraeparant panem liberis «procurano il pane ai figli». Per l'interpretazione adottata si rimanda al commento.
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24,6 Mietono il foraggio 0,1~p~ 1':!•~:p.) Per il verbo leggiamo il qerè, preferibile alla forma causativa del ketìb (i,"l;'p:, «accorciano»); attribuiamo al sostantivo ':!·~~ il significato «foraggio» (cfr. 6,5), mentre il suffisso (che abbiamo omesso nella traduzione) deve riferirsi all'«empim> citato nella seconda parte del verso. L'espressione «mietere foraggio» non è comune, per cui sono stati proposti degli emendamenti. Già la Vulgata riferisce il primo termine a :"!"!~~
Pr 22,28; 23,10) e si appropriano delle greggi appartenenti ad altri (Gb 24,2). La legislazione biblica si oppone infatti all'accumulo della proprietà e alla concentrazione latifondistica della terra (Is 5,8; Mi 2, 1-5; Ab 2,6); essa appartiene a Dio che la concede agli uomini perché la coltivino, secondo principi di equità e di giustizia. l soprusi poi sono particolarmente odiosi quando vengono rivolti verso i più deboli della società, come gli orfani e le vedove (Es 22,21-23; Dt 24, 17; 27,19; ls 1,17.23), i poveri e i miseri (Gb 24,4). I versetti seguenti sono dubbi, per quanto concerne sia l'interpretazione sia la disposizione; il testo sembra riferirsi ora ai malvagi oppressori, ora ai miseri da loro oppressi, senza che ciò sia sempre chiaro e per ogni versetto le posizioni dei diversi commentatori sono varie. La prima immagine, al v. 5, utilizza la metafora degli onagri del deserto, per indicare gruppi di uomini che vivono ai margini del consesso sociale, ricavando dalla steppa il cibo necessario al sostentamento. Alcuni autori identificano questi gruppi con i beduini che, nelle regioni desertiche, compivano razzie, mettendosi fin dal mattino in cerca di malcapitati da depredare. A noi sembra che, per la coerenza del
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l'asino degli orfani conducono via, l prendono in pegno il bue della vedova, 4 scostano i poveri dalla via, l insieme devono nascondersi i miseri del paese. 5Ecco, come gli onagri nel deserto, l escono alloro lavoro, all'aurora vanno in cerca di cibo; l la steppa è per ciascuno pane per i figli. 6Nel campo mietono il foraggio l e la vigna dell'empio racimolano. 7Nudi passano la notte, privi di vestiti, l e non hanno da coprirsi nel freddo; 8dal temporale dei monti sono inzuppati, l privi di riparo si stringono alla rupe. 9 Spogliano l'orfano fin dal seno materno, l ciò che copre il misero prendono in pegno.
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«nel campo», forse leggendo ;';l ·~~ e traducendo non suum «non suo» (cfr. Ili versione CEI «mietono nel campo non loro»). Altri autori leggono il testo consonantico come combinazione della preposizione :l e del sostantivo"'~, traducendo «nella notte», oppure leggono il sostantivo "~:~~. «di un farabutto». Riteniamo che la form.ulazione del Testo Masoretico, pur rara, sia accettabile e ben integrata nel contesto. 24,9 Ciò che copre il misero ('~~-"~1)- Al-
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la lettera: «e (ciò che è) sopra un misero»; intendiamo l'espressione come indicante il mantello che serve da riparo al povero. Altri autori propongono la lezione ·~~-"~!!1 «e il piccolo del misero», riferita al figlio che verrebbe tolto al povero per essere ridotto in schiavitù; ma il verbo l;l::1n che chiude il versetto ha come significato proprio «prendere in pegno» ed è solitamente riferito a un bene che il creditore riceve come cauzione; ciò ci fa preferire la prima interpretazione.
discorso, l'immagine si adatti meglio a descrivere la condizione dei miseri che, spinti fuori strada e costretti a nascondersi dai loro oppressori (secondo quanto detto nel v. 4), vagavano nel deserto, raccogliendo con fatica il poco cibo per sé e per i propri figli. I miseri sembrano essere anche i protagonisti del v. 6, descritti nell'azione della mietitura di un campo che non appartiene loro, come lavoratori sottoposti e sfruttati, costretti a raccogliere soltanto le rimanenze della vigna dei malvagi (cfr. Lv 19, l O; Dt 24,21; altri vedono, invece, anche nel v. 6 un ritratto degli oppressori che si appropriano dei campi degli altri e raccolgono «frutti di malvagità»; quest'ultima interpretazione ci appare però forzata). La descrizione della condizione dei miseri continua al v. 7: depredati dei loro beni e spogliati di tutte le loro sicurezze, appaiono inermi e indifesi nell'affrontare il rigore del freddo notturno (il senso è questo anche per coloro che vedononei malvagi il soggetto del primo verbo del versetto, che considerano causativo: «fanno passare la notte») e delle piogge sferzanti (v. 8). Con il v. 9 riprende la descrizione degli oppressori (ma alcuni autori lo considerano fuori posto, poiché interrompe la successione logica del discorso
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24,21 Trattava male (it;/"1)- La fonna verbale propriamente significa «pascere», ma qui andrebbe intesa nel senso negativo di «divorare)) (cfr. la Vulgata conpavit); il Targum e la Settanta (oÒ< EÒ bra[ T)>, manifestando in tal modo lo sconvolgimento che la potenza del Signore provoca in loro. Infatti, nonostante lo S'o/ si trovi agli antipodi rispetto alla dimora celeste di Dio, esso è come «nudo» e scoperto davanti a Lui: la forza divina raggiunge anche le regioni più remote e inaccessibili. Con il v. 7 ha inizio la descrizione deli' opera creatrice, con un 'immagine singolare: Dio appare mentre distende il Settentrione e sospende la terra sul vuoto. L'evocazione del «nulla» non ha un significato metafisica, bensi indica l'immensità dello spazio privo di materia che sembra circondare la terra, suggerendo che la stabilità del mondo
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può essere ricondotto al fenomeno de li' eclissi, ma sembra strano che si citi un fenomeno meno spettacolare de li' eclissi solare; ci atteniamo, perciò, al senso del Testo Masoretico. Stendendo (Tll,ii~) - Il verbo, con quattro consonanti radicali invece delle abituali tre,
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è un hapax, il cui significato dovrebbe essere simile a ~iEl «stendere». 26,10 Ha tracciato un cerchio (~J;!-ph)- Alla lettera: «un limite ha circoscritto»; l'espressione non è comune, perciò alcuni autori ipotizzano l'ebraico ~wpp,M o ~~::~-pJJ, con un signi-
dipenda soltanto dalla libera volontà divina. La descrizione prosegue con elementi che richiamano il racconto genesiaco della creazione (v. 8); al vertice della sfera celeste è collocato, secondo la concezione tradizionale, il «trono» di Dio, la cui vista è impedita dalla coltre delle nubi. Il successivo atto creatore consiste nel tracciare la linea dell'orizzonte: essa appare come un cerchio che delimita la superficie delle acque alle estremità della terra, segnando qui anche il confine tra la luce e le tenebre, concepite come entità indipendenti dai corpi celesti, e dalla cui alternanza dipende il succedersi del giorno e della notte (v. 10). Si torna poi a descrivere gli effetti della straordinaria forza divina nel mondo; le montagne, qui designate - secondo la tradizionale visione cosmologica semitica - «colonne dei cieli», e chiaramente personificate, sussultano davanti al dispiegarsi della potenza di Dio, che si manifesta con toni spaventosi nel rombo dei tuoni e nello scuotimento provocato dai terremoti. Per lo stesso motivo, sono sconvolte le acque del mare, insieme al temibile Rahab e al «serpente sfuggente» (altrove denominato Livyatan), i mostri mitologici simboleggianti le potenze distruttrici della natura. Come in altri racconti di creazione, Dio appare vittorioso contro l'arroganza dell'abisso e la minaccia del caos. Anche il «vento» (v. 13) che spazza via le nubi riportando il sereno, sembra essere un elemento che richiama simbolicamente tale vittoria (si vedano Gen l ,2 e, nella letteratura extra-biblica, il racconto babilonese di Eniima Elis 4,99-101). A conclusione dell'inno, Bildad
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GIOBBE27,2
tracciato un cerchio sulla superficie delle acque, l fino al confine della luce con le tenebre; 11 le colonne dei cieli si scuotono l e sono sgomente davanti alla sua mmaccta. 12Con il suo vigore agita il mare, l con la sua astuzia percuote Rahab, 13 al suo soffio i cieli diventano limpidi, l la sua mano strazia il serpente sfuggente. 14Ecco, queste sono solo le estremità delle sue opere; l come una parola sussurrata ne percepiamo. Chi può comprendere il tuono della sua potenza?». 1Poi Giobbe continuò il suo discorso, dicendo: 2«Per la vita di Dio, che nega il mio diritto, l e di Shadday, che amareggia la mia vita! 10Ha
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ficato analogo a quello della nostra traduzione; la correzione tuttavia non ci sernbm necessaria, manteniamo pertanto il Testo Masoretico. 26,12 Agita (VtJ,) - La stessa radice può avere il significato opposto «calma»; abbiamo optato per la prima traduzione sulla
base del parallelismo con «percuote» della seconda parte del versetto, ma anche la seconda può essere giustificata, esprimendo la conseguenza della sottomissione del mare, simbolo del caos, nella lotta mitica della creazione.
evidenzia come l'opera potente di Dio, appena celebrata, sia it1 realtà soltanto un pallido riflesso della vera forza divina, della quale possiamo percepire appena una «parola sussurrata» (cfr. Sal 19,2-5); la realtà divina rimane al di là delle possibilità di comprensione umane e da questa consapevolezza Bildad indirizza a Giobbe l'ultima domanda retorica, volta a dimostrare l'insensatezza della sua pretesa di poter discutere con Dio: la manifestazione divina nella natura, pur nella straordinarietà della sua potenza, non lo sottrae a quella oscurità, che continua a essere impenetrabile per la mente umana. 27,1-12 Continuazione della risposta di Giobbe a Bildad L'inusuale formula introduttoria che apre la sezione («Poi Giobbe continuò il suo discorso») appare come l' interpolazione di uno scriba, nel tentativo di mettere ordine nella problematica articolazione di questi capitoli. Il discorso si presenta, pertanto, come la continuazione di un precedente intervento di Giobbe, che noi supponiamo essere quello rivolto a Bildad in 26,1-4: dopo le parole polemiche contro l'amico, Giobbe prosegue, riaffermando solennemente la propria innocenza (27,1-6), per poi augurare ai suoi avversari di subire la sorte che dovrebbe essere riservata ai malvagi (27,7-10); Giobbe, quindi, chiude il discorso vantando la propria conoscenza dei piani divini (27, 11-12). Giuramento di innocenza di Giobbe (27, 1-6). L'invocazione con cui ha inizio il brano, «per la vita di Dio», equivale a un solenne giuramento: Dio viene chiamato
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27,13 Che Dio destina (l;!~rc-1')- Alla lettera: «con DiO)>; ma la lezione probabilmente deriva dalla dittografia della lJ del termine lJ~l («empio») che precede, che ha modificato l'originale l;!~o. «da Dio». La versione CEI ha reso con «che Dio riserva».
27,15 I suoi superstiti (1'1''1~)- Con la Settanta (ot 5È 1TEpL6vtEç o:òtoD) e la Vulgata (qui reliqui fuerint ex eo) seguiamo il qerè anziché il ketib che ha il singolare,,,!~ «il suo superstite». Dalla morte (n~~;)- Alcuni autori traduco-
Conclusione del discorso di Giobbe (27, 11-12). Sempre rivolgendosi ai suoi oppositori, Giobbe si propone nel ruolo del sapiente; a chiusura del discorso appena pronunciato, egli vuole porre fine alla disputa prevenendo ulteriori obiezioni, presentandosi quindi come profondo conoscitore del potere di Dio e delle sue disposizioni. Giobbe è convinto di esprimere una verità la cui validità può essere dedotta dali' esperienza; in quanto realtà direttamente constatabile da tutti, essa non può essere smentita e rende pertanto vano ogni ulteriore tentativo di discussione. 27,13-23 Ripresa del terzo discorso di Zofar Il brano, a livello di contenuto, si pone in continuità con il frammento 24,1824, che in precedenza abbiamo attribuito a Zofar. Per quanto concerne l'ordine dei due brani, l'inizio con il pronome «questa>> in posizione enfatica in 27,13 e la presentazione dell'«empio» con il suo destino nel medesimo verso ci inducono a ritenere che 27,13-23 preceda l'altro (che, infatti, in 24,18 sembra continuare un qiscorso precedente riguardo all'empio, indicandolo anonimamente con il pronome «egli»). Per quanto riguarda l'articolazione del testo, possiamo distinguere tre momenti: si inizia con la descrizione della sorte dei discendenti dell'empio (27,13-15), per passare poi a quella riguardante il destino dei suoi beni (27, 16-19) e della sua stessa vita (27,20-23). /figli del/ 'empio (27, 13-15). In un contesto in cui la fede nella vita ultraterrena è ancora assente, si comprende l'importanza attribuita alla generazione di una discendenza. Se la vita individuale ha un limite invalicabile segnato dalla morte,
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GIOBBE 27,17
11 Vi istruirò sul potere di Dio, l e
ciò che pensa Shadday non vi nasconderò. voi tutti l'avete visto; l perché dunque inseguite vanità?». 13 «Questa è la sorte· che Dio destina' all'empio, l l'eredità che 12 Ecco,
i violenti ricevono da Shadday: 14 se i suoi figli sono :t,nolti, saranno (destinati) alla spada l e i suoi discendenti non si sazieranno di pane; 15 i suoi superstiti saranno sepolti dalla morte l e le sue vedove non piangeranno. 16 Se ammassa l'argento come la polvere, l e accumula vestiti come il fango, 17egli prepara, ma il giusto li vestirà,/ e l'argento l'avràinsorte l'innocente. no con «la peste)) che, insieme alla «fame)) e alla «spada» completerebbe la tema tipica delle piaghe che colpiscono i peccatori (cfr. Ger 14,12); tuttavia, preferiamo mantenere il senso usuale del termine, con una chiara personificazione della morte.
E le sue vedove (,'~l~~~~q)- La Settanta (xr\pc.:ç oÈ c.:utwv «e le vedove loro))) e la Peshitta presuppongono il suffisso di terza plurale Cijljl~~~~. con ogni probabilità per evitare ogni possibile allusione alla poligamia.
essa trova, per così dire, un prolungamento nella vita dei propri figli. Tuttavia, da tale concezione, consegue che i figli condividono anche la sorte riservata ai propri genitori. Nel caso dell'empio e del malvagio, la «porzione» che Dio riserva loro, in risposta alla condotta abietta che ha caratterizzato la loro esistenza, diventa così patrimonio anche dei loro discendenti. L'immagine della «spada» (v. 14) sta dunque a indicare, complessivamente, il destino di violenza e distruzione che segna la loro vita; scendendo nel dettaglio, Zofar puntualizza la natura di quelle disgrazie che colpiscono inesorabilmente la famiglia dell'empio- qui descritta secondo la classica concezione patriarcale (padre, figli, nipoti)- fino all'annientamento: la penuria, la fame, la morte (che qui appare personificata, nell'atto di seppellire le proprie vittime: v. 15); non restano neppure le vedove per celebrare il lutto, piangendo la morte dei propri cari e alimentandone il ricordo. Alcuni autori leggono lo stico finale come un segno de!l 'ultima e peggiore maledizione, quella del cadavere che rimane senza sepoltura, impossibilitato a tornare alla terra da cui è stato tratto (cfr. Gen 3, 19). I beni del/ 'empio (27,16-19). Anche i beni dell'empio sono destinati a condividere la sorte infelice dei loro possessori; se in vita i malvagi sono stati dediti ad accumulare ricchezze, dopo la loro morte saranno altri a goderne. I vv. 16-17 esemplificano questo principio, applicandolo al caso del denaro («l 'argento») e delle «vesti»; la struttura chiastica che caratterizza i due versetti esprime a livello stilisti co il rovesciamento della condizione dell'empio, i cui beni passeranno in possesso del «giusto» e dell' «innocente». Anche la sua abitazione mostrerà la sua
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27,18 Come quella del tarlo (1ZiVi')- La versione CEI congettura 1ZÌ':;li'Vi' «come (una tela di) ragno» (cfr. 8, 14), con ogni probabilità sotto l'influsso della Settanta, che presenta però una traduzione duplice, seguendo in parte il Testo Masoretico: wmrEp oiìtEç KCÙ ootrEp &pax.vT'I «come tarli e come ragno». Entrambe le immagini indicano in modo
simile una realtà fragile e inconsistente. 27,19 Non sarà seppellito(~~ aot"J) -Alla lettera: «non sarà riunito»; nella nostra traduzione interpretiamo come sottinteso «ai suoi avi». 27,20 Come acque (C'~:;?)- A motivo del parallelismo con il7;~ «di notte», che segue nel versetto, alcuni autori ipotizzano c1•~ o Cft1' «di giorno»; la correzione non ci sembra
fragilità e seguirà la sorte effimera del proprietario, con la dissoluzione della stessa famiglia che con la «casa» si identifica. La disgrazia colpirà l'empio durante la notte, nel momento in cui è più indifeso e non può sottrarsi all'assalto (v. 19); la perdita delle sue ricchezze sarà perciò definitiva e irreparabile. La vita del/ 'empio (27,20-23). Nell'ultima parte deli 'unità, il discorso di Zofar torna a esporre i mali che colpiscono l'empio; i «terrori» che lo sconvolgono sono associati- come già si alludeva alla fine del brano precedente- alla notte, simbolo delle potenze distruttrici, e alla forza devastatrice dell'acqua, del vento e degli uragani (vv. 20-21). Il malvagio sperimenta, in questo modo, il peso della«mano» di Dio, strumento del giudizio implacabile con il quale Egli ripaga il male da lui compiuto (v. 22). L'ultimo versetto suona come una sentenza impersonale, in cui Zofar sembra trovare compiacimento nei gesti di scherno e di disprezzo che vengono rivolti ali' empio e che accompagnano la manifestazione del giudizio divino. Nell'ottica di Zofar, non c'è segno più eloquente della validità del principio della retribuzione, ribattendo così ancora una volta alle obiezioni di Giobbe.
28,1-28 Inno alla sapienza Al termine del terzo ciclo di discorsi tra Giobbe e i suoi amici, il dramma si arresta momentaneamente, a causa della sorprendente presenza di un lungo inno, dedicato alla sapienza divina. Il testo pone diverse domande, alle quali non è sempre facile offrire una risposta certa. In primo luogo, non sappiamo se l'autore dell'inno sia lo stesso delle altre parti poetiche del libro; gli elementi stilistici e
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la sua casa come quella del tarlo l e come una capanna fatta da un guardiano. 19Giacerà ricco, ma non sarà seppellito; l schiude i suoi occhi, ma non è più. 20Terrori lo assalgono come acque, l di notte un turbine lo rapisce, 21 il vento d'oriente lo solleva e se ne va, /lo spazza via dal suo posto. 22Dio lo incalza senza pietà, l dalla sua mano egli tenta di sottrarsi. 23 Si applaudirà su di lui l e si fischierà contro· di lui' da ogni parte». 1Certo, l'argento ha la sua miniera l e l'oro il posto dove viene raffinato, 18Costruisce
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necessaria e non è supportata dalle versioni antiche. 27,22/ncalza (1~~;1)- Il soggetto del verbo è sottinteso; dal contesto di giudizio e notando la presenza nel versetto dell'espressione «dalla sua mano», supponiamo che vada identificato con Dio. Altri propongono, invece, il «vento d'oriente» del versetto prece-
dente; oppure considerano la forma verbale come impersonale: «si incalza». 27,23 Contro di lui (i~~'?.~)- Cfr. la nota a 20,23.
28,1 Miniera (N~~)- Il sostantivo, legato alla radice Nl'', alla lettera significa «uscita», quindi, nel nostro contesto, il luogo da cui il minerale viene estratto, appunto una «miniera».
formali non sono sufficienti a delineare una posizione condivisa tra gli studiosi. Problematica è anche la posizione dell'inno all'interno del libro: non è chiaro se il componimento, che appare slegato dal contesto, sia stato scritto in maniera indipendente (prima o dopo la redazione del libro) e successivamente inserito nell' opera, oppure appartenga al suo piano originario. Ciò ha delle conseguenze importanti a livello di interpretazione del testo stesso. Nel punto in cui attualmente si trova, l'inno non offre indizi su chi sia il soggetto recitante: alcuni pensano a Giobbe, in quanto il poema sembra dargli ragione nel suo confronto con gli amici; altri, e ci sembra la posizione più probabile, pensano a una voce esterna, sia essa quella dell'autore del libro oppure di un portavoce anonimo che svolge una funzione letteraria e scenica, al modo del «coro» delle antiche tragedie greche. Comunque sia, nella forma finale assunta dal libro, l'inno svolge un ruolo importante: da un lato, esso introduce una pausa riflessiva dopo la lunga discussione che ha animato le precedenti unità, suggerendo un giudizio critico riguardo alla posizione degli amici di Giobbe e allentando la tensione prodotta sul lettore; dall'altro, anticipa il successivo dialogo tra Dio e Giobbe dei capitoli 38-42. Il poema, tuttavia, non pone fine ai dubbi avanzati da Giobbe circa la giustizia divina e il problema della retribuzione; se è vero che la celebrazione della sapienza di Dio nella sua essenziale inaccessibilità ali 'uomo rende inutili gran parte delle argomentazioni proposte dagli amici, ciò non può costituire la risposta definitiva ali' angoscia e alla sofferenza di Giobbe. Un segnale della tensione che permane si può scorgere nel versetto finale dell'inno, che sembra contraddire quanto asserito
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:iV~:rio:p 1~i;l~ i!'~t;ttli ory?.·N~~- i1~~~ fl.~ 28,2 Si fonde (P~":) - Facciamo derivare la fonna verbale, impersonale, dalla radicale «fondere»; altri autori preferiscono leggere, in parallelo con il verbo Iii?~ della prima parte del versetto, una fonna passiva p~~' o dalla radicale P"'. con lo stesso significato; la correzione non ci sembra necessaria. 28,3 La pietra oscura e tenebrosa (i:l~M l~~ M1~~~1)- L'espressione è interpretata in mo-
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do diverso: si può intendere come il limite a cui l 'uomo nella sua esplorazione sotterranea può giungere; oppure, può indicare un tipo di pietra nera di particolare valore o, ancora, la lava di origine vulcanica che scava con il calore le gallerie nel sottosuolo (cfr. v. 4). La prima ipotesi ci sembra preferibile, dato il contesto in cui si esalta la capacità dell'uomo. 28,4 Scava gallerie in luoghi inaccessibili
in precedenza: Giobbe viene qui rinviato alla tradizionale concezione religiosa che identifica la sapienza con il timore di Dio, quasi come un invito ad accettare i misteriosi piani divini senza discuterli oltre. Il principio è ben formulato nel libro dei Proverbi: «L'inizio della sapienza è il timore del Signore» (Pr 9,10); il vero sapiente è colui che si pone davanti a Dio con atteggiamento di timore riverenziale, riconoscendone l'alterità e la superiorità, l'assoluta signoria sul creato, la santità inassimilabile, ma al tempo stesso si apre all'accoglienza fiduciosa della sua parola di vita e della sua azione benefica. Si tratta, quindi, di una sapienza esperienziale, che nasce da una relazione personale ed effettiva con Dio, nutrita dalla fede e dalla preghiera, e diventa capacità di leggere la realtà e la complessità della vita alla luce della sua presenza amorevole. Questo tipo di sapienza si pone però su un altro piano rispetto a quella prima celebrata nell'inno, che possiede una natura sfuggente e inafferrabile, in quanto condivide la trascendenza di Dio; essa appare, infatti, come una realtà distinta da Dio ma anche dal mondo, è il principio organizzatore sulla base del quale Dio ha creato e ordinato il cosmo e, in quanto tale, rimane nascosta all'uomo, che può coglierne soltanto un riflesso nelle realizzazioni concrete della creazione. Molti studiosi ritengono, perciò, che il versetto finale sia un'aggiunta posteriore, nel tentativo di reinserire l'inno nell'alveo tradizionale della fede giudaica. Tuttavia, esso è sintomatico di una domanda, quella relativa alla sofferenza de li' innocente e ali' apparente indifferenza di Dio, che ancora attende una risposta soddisfacente. Per quanto concerne la struttura letteraria, la presenza di un ritornello, ripetuto ai vv. 12 e 20, ci consente di suddividere agevolmente il poema in tre strofe; nella prima (vv. 1-12) vengono esaltate l'audacia e la perizia dell'attività umana nell'estrarre i metalli dalla terra, sottolineandone però, per contrasto, l'incapacità di raggiungere la sapienza; la seconda (vv. 13-20) celebra il valore sublime della
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il ferro si estrae dal sottosuolo l e la pietra si fonde in rame. Un limite impone (l 'uomo) alle tenebre, l fino all'estremo egli esamina l la pietra oscura e tenebrosa; 4scava gallerie in luoghi inaccessibili, l dimenticati da piede umano; l sospesi, lontano dagli uomini, oscillano. 5La terra, dalla quale si trae il pane, l è sconvolta là sotto, come dal fuoco. 2
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(,p:l~ ~tT~ f1~)- Il testo è oscuro e variamente interpretato; alla lettera, dice: «Ha perforato un torrente da-con un soggiornante». Abbiamo inteso ~tT~ in riferimento ai cunicoli indica solitamente il sotterranei; il verbo trasferimento in un altro territorio, ma anche l'atto di risiedere in esso una volta arrivati: lo intendiamo in quest'ultimo senso, mentre la preposizione 1~ esprime l'idea di lontananza o
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assenza. In modo simile ha interpretato anche la versione CEI con «in luoghi remoti scavano gallerie». Alcuni autori moderni correggono in ,~-c~ c·~~~ f1~ «ha scavato gallerie gente straniera» o, ancora, leggono per l'ultima espressione ,J_·c~ «la gente della lampada (=i minatori)». Preferiamo conservare il Testo Masoretico, che offre un significato accettabile e coerente con il contesto.
sapienza, paragonandolo a quello dei metalli più preziosi disponibili all'uomo; nella terza, infine, si conclude che soltanto Dio, il creatore del cosmo, possiede la vera sapienza e ne conosce i segreti (vv. 21-28). 28,1-12 Elogio e limite dell'abilità umana L'inno si apre con la congiunzione kf in posizione enfatica, dal valore assertivo «certamente», per proseguire con la descrizione dell'attività umana legata all'estrazione e alla lavorazione dei metalli. L'attività mineraria era ben nota nel mondo antico: i metalli più preziosi, come l'argento e l'oro, usati negli scambi commerciali, venivano prevalentemente importati in Palestina dalle regioni del Mediterraneo e dali' Africa orientale; la lavorazione del rame per la fabbricazione di utensili era conosciuta fin dall'epoca preistorica, soprattutto nella penisola del Sinai e in Edom; la lavorazione del ferro è posteriore, richiedendo tecniche più avanzate, e divenne comune dal XII secolo a.C. A partire dal v. 3, entra sulla scena l'uomo, pur se il soggetto dei verbi rimane sottinteso; è grazie alla sua abilità che i metalli sono stati estratti e lavorati, la sua perizia gli ha consentito di scandagliare i segreti più oscuri e profondi della terra; è possibile che nelle espressioni del v. 3 si voglia alludere alla discesa fino alle soglie del regno dei morti, di cui le tenebre sono figura, segno del limite massimo raggiunto dal coraggio e dalle capacità tecniche dell'uomo. L'oscuro v. 4 sembra fare riferimento al lavoro sotterraneo dei minatori, costretti a scavare profonde gallerie e a muoversi sospesi con funi, in luoghi lontani dai centri abitati. Con stupore, l'autore dell'inno constata poi che quella terra così ordinata da cui si ricava il nutrimento, coltivandola pazientemente, nelle sue profondità è sconvolta dal fuoco; la descrizione può riferirsi in genere ai fenomeni sismici o vulcanici, sebbene alcuni autori abbiano colto nell'immagine un rimando all'episodio della distruzione di Sodoma e Gomorra (Gen 19,24-25). Anche da queste profondità
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28,8 Il/eone (~MW) - Cosi le versioni antiche e la maggi~;anza degli autori; alcuni autori, sulla base di comparazioni con le altre lingue semitiche e l'uso delle immagini animali nei testi mitologici del Vicino Oriente, hanno proposto di tradurre con «il serpente», più adeguato a rappresentare (dato il suo habitat) un luogo inaccessibile ali 'uomo. La proposta però non ci sembra sufficientemente fondata. 28,11 Le sorgenti dei .fiumi (ni,;;t~ •:;:~~~) Seguendo il Testo Masoretico, che vocaliz-
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za secondo il significato più frequente della parola ':;l :;l, si dovrebbe tradurre: «dal pianto dei fiumi>>; tuttavia, la traduzione proposta, leggendo il testo consonantico ebraico ';?:;l~, è supportata dal confronto con l'ugaritlco mbk nhrm (Aqhat, n. 47) «le sorgenti dei fiumi». In modo simile intendono anche la Settanta (~&e11 ùÈ 1Totn:IJ.wv) e la Vulgata (profunda quoque fluviorum) che rendono entrambe con «le profondità dei fiumi» (cfr. anche la versione CEI «il fondo dei fiumi»). Blocca {W~M) -Alla lettera: «fascia». Con
- pur sconvolte da forze immani -, l'uomo sa estrarre per il proprio godimento pietre preziose come gli zaffiri e l'oro, nascoste nella roccia. Dalle profondità della terra lo sguardo dell'autore si sposta quindi alle altezze celesti, nell'aria solcata dal volo del falco e dell'avvoltoio; si tratta di uccelli noti per la loro vista acutissima, che però non riescono a scorgere i sentieri tracciati dai minatori; allo stesso modo, questi rimangono sconosciuti alle fiere che scrutano il suolo in cerca di prede. Il linguaggio e le immagini, volutamente esotiche, richiamano una realtà lontana e misteriosa, che affascina e stupisce (vv. 7-8); l'uomo è l'unica tra le creature di Dio che ha l'ardire e le capacità di confrontarsi con i misteri più nascosti del cosmo. Al v. 9 riprende la descrizione dell'attività di scavo (ma il soggetto, ancora una volta, è sottinteso): il riferimento alle fondamenta della terra, poste da Dio a suo sostegno nel momento stesso della creazione, fa comprendere la grandiosità dell'impresa umana: neanche la roccia è capace di arrestare l'avanzata dei minatori, (v. 10), neppure le sorgenti dei fiumi sono un ostacolo insormontabile per il raggiungimento e l'estrazione di ciò che la terra racchiude nelle sue profondità, apparentemente impenetrabili. Con il waw avversativo in apertura del v. 12 viene introdotto per la prima volta
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Le sue pietre sono filoni di zaffiri, l contiene polveri d'oro. L'uccello rapace non ne conosce il sentiero, l né lo avvista l'occhio del falco; 8non lo percorrono le belve feroci, l né si inoltra in esso il leone. 9(L'uomo) stende la mano alla selce, l rivolta i monti dalla radice; 10nella roccia scava canali l e il suo occhio scruta tutto ciò che è prezioso; 11 'le sorgenti' dei fiumi blocca/ e fa uscire alla luce ciò che è segreto. 12Ma la sapienza dove si trova? l E dov'è il luogo dell'intelligenza? 13 L'uomo non ne conosce il valore l e non la si trova nella terra dei viventi. 6
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la Vulgata (scrutatus est «ha scrutato»), la versione CEI forse ha letto ID!:m e rende con «scandaglia»; la Settanta ha invece &vEKciJ..uljJEv «ha svelato». Manteniamo il Testo Masoretico, indicante l'azione dell'uomo che blocca e devia le sorgenti dei fiumi per controllarne le acque, in modo che non intralcino il suo lavoro di scavo. 28,12 Si trova (ec;,;~r-1) -La versione CEI sembra presupporre,' s~guendo un manoscritto ebraico, N~t1 «esce», traducendo la forma verbale con «si estrae», forse per proseguire
nella metafora dello scavo. Preferiamo conservare la lezione del codice di Leningrado (L), che meglio esprime la realtà dell'incerta ricerca dell'uomo. 28,13 Il valore (:1~!l?) - Seguendo la Settanta ooòv cdm1ç «la sua via», la versione CEI presuppone l'ebraico :1t'!"1; preferiamo mantenere il Testo Masoretico, in cui la sapienza viene dichiarata preferibile ai metalli preziosi, che non possono competere con il suo valore (cosi la Vulgata con pretium eius «il suo prezzo»).
il ritornello dell'inno, che focalizza l'attenzione sulla vera questione del poema, ovvero l'inaccessibit ità della sapienza. Dopo avere magnificato le capacità e la perizia dell'uomo nel lavoro di scavo del suolo e di ricerca degli elementi preziosi che in esso sono racchiusi, la duplice domanda retorica sottolinea i limiti che impediscono allo stesso uomo di raggiungere la sapienza; non c'è un luogo da dove essa possa essere estratta, come avviene invece per i metalli preziosi, né un giacimento in cui essa si nasconda, in attesa di venire scoperta. L'abilità che l'uomo dimostra nella tecnica e neli 'indagine del mondo non è di nessun aiuto nella ricerca della sapienza, che rimane per lui essenzialmente inavvicinabile. Anche la pretesa dei cosiddetti «sapienti» di offrire una risposta definitiva e inconfutabile alle domande e ai dubbi di Giobbe si scontra, pertanto, con questa difficoltà insormontabile. 28,13-20 Il valore sublime della sapienza La seconda strofa dell'inno inizia con una risposta alla domanda formulata nel ritornello del v. 12 sull'origine della sapienza: essa non si trova nella terra dei viventi, l'uomo non ha, quindi, la possibilità di raggiungerla; la sua localizzazione rimane ignota persino all'abisso e al mare, qui chiaramente personificati come principi cosmici, i quali dichiarano la loro ignoranza in merito. L'uomo, d'altra parte, non conosce neanche «il suo valore»: viene introdotto, così, il tema centrale
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GIOBBE 28,14
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Nel/ 'intimità (,iO:;l)- Alla lettera: «nella riunione»; la Vulgata rende con secreto «segretamente», mentre la Settanta (È1TWKO'IT'Ì"pl È1TmEi:ro «faceva visita»), Simmaco e la Peshitta forse hanno letto '1i0f «nel proteggere di» (cosi la versione CEI: «quando Dio proteggeva»); alcuni autori giungono alla stessa traduzione collegando il termine alla radice verbale «coprire», «proteggere». Va segnalata, infine, una proposta che considera il termine come infinito di ,o, «fondare» e la preposizione·~~ come un titolo divino, giungendo alla tradu~
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amorevole di Dio nel passato con l'atteggiamento inquisitorio del presente. Il senso della protezione e della prosperità dovute alla presenza di Dio viene delineato mediante il ricorso ad alcune immagini simboliche, la prima delle quali è quella della «lucerna>>, la cui luce indica a Giobbe il cammino da percorrere con sicurezza, senza timore dell'oscurità (v. 3). La seconda immagine è, se accettiamo la traduzione da noi proposta, quella dell'autunno (v. 4): nel contesto del brano, si tratta del tempo destinato alla vendemmia, tempo caratterizzato, quindi, da abbondanza e pienezza di gioia. Segue l'immagine della tenda, che evoca gli affetti e la tranquillità della vita familiare; la presenza di Dio e la vicinanza a Giobbe dei propri figli erano garanzia di benessere e di felicità. A chiudere questa prima scena, troviamo l'immagine del latte e dell'olio (v. 6), simboli di pienezza e di sovrabbondanza, che richiamano forse anche la benedizione collegata al dono della terra promessa (cfr., p. es., Dt 32,13; il v. sembra una ripresa, in positivo, delle parole di Zofar in 20, 17). L 'onore nella vita pubblica (29,7-10). Il secondo elemento caratterizzante
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GIOBBE29,11
quando la sua lucerna splendeva sulla mia testa, l e alla sua luce camminavo nelle tenebre? 4Com'ero nei giorni del mio autunno, l nell'intimità con Dio presso la mia tenda, 5quando ancora Shadday era con me l e intorno a me stavano i miei figli, 6lavavo i miei piedi nel latte l e la roccia mi versava ruscelli di olio; 7uscivo alla porta della città, l stabilivo il mio seggio nella piazza, 8al vedermi sparivano i giovani, l gli anziani si alzavano e restavano in piedi; 9i notabili trattenevano i loro discorsi l e si ponevano la mano sulla bocca, 10 la voce dei capi si attutiva, l la loro lingua si incollava al palato. n sì, l'orecchio che mi ascoltava mi dichiarava felice, l e l'occhio che mi vedeva mi rendeva testimonianza, 3
zione: «quando Dio Altissimo fondava la mia tenda». Conserviamo il Testo Masoretico, che offre una bella immagine della passata amicizia tra Dio e Giobbe. 29,6 Ne/latte (:"l~M:l)- Si tratta di una forma difettiva per i1~~~~ (cosi pochi manoscritti ebraici); il termine indica propriamente il latte cagliato o la panna. 29,7 Alla porta (i.\1~) - La Settanta ha 5p9pwç «al mattino», forse leggendo l'ebraico iljtg; l 'immagine della porta, in parallelo a quella successiva della piazza, si riferisce
all'attività giudiziaria e agli affari pubblici di cui trattano i versetti seguenti; va quindi mantenuta. 29,10 Si attutiva (~Nilr;t~)- Il verbo è lo stesso utilizzato al v. 8 a proposito dei giovani che «sparivano» davanti a Giobbe. Il significato base è «nascondersi», «ritirarsi»; utilizzato in senso metaforico a proposito della «voce», indica l'attenuarsi del tono, fino a rendersi impercettibile all'orecchio. Non riteniamo perciò necessarie le correzioni talvolta proposte dagli esegeti.
il passato felice di Giobbe era la sua posizione di preminenza nella vita sociale e l'onore che ne derivava. Giobbe si rammenta del tempo in cui si recava alla porta della città (v. 7), luogo in cui si amministrava la giustizia, ponendo il suo seggio nella piazza: l'espressione indica il ruolo di autorità da lui esercitato, quando presiedeva l'assemblea riunita per discutere e decidere sulle questioni di pubblico interesse. I vv. 8-1 O descrivono poi, in maniera enfatica, il rispetto di cui Giobbe godeva da parte di tutti i membri della comunità, a iniziare dai più giovani e dagli anziani, che mostravano la loro deferenza nei gesti, passando successivamente ai notabili e ai capi, ovvero ai membri più eminenti per le loro cariche e funzioni, i quali rimanevano in silenzio davanti a lui, protesi ad ascoltare le sue parole. La giustizia di Giobbe (29,11-17). Consideriamo il v. 11 come introduttivo di questo nuovo brano: esso contiene la menzione della «testimonianza>> di coloro che potevano «ascoltare» e «vedere» Giobbe, testimonianza che noi riferiamo alle azioni elencate nei versetti seguenti; altri autori preferiscono, invece, collegare il
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GIOBBE 29,12
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29,12 L 'orfano e chi era privo di aiuto (CiM'1 i~ itlrN';I1) - Con la Vulgata, la Settant'a e la Peshitia, la versione CEI presuppone i~ itl1-lo(~ cin~1 N J.. l ""
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29,24 Se sorridevo loro (cry~~ p!j~~)- Il sintagma ':lN. pn~ significa «sorridere a», nel senso di mostrare favore, e non «ridere di» in senso di scherno, espressione per
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la quale si usa invece ':l pn~ o pn~. 29,25 Come uno che consola gli afflitti (crq~ c•':l~~ .,~~!!!) -Alcune versioni moderne congetturano «dove li guidavo,
della sua passata prosperità, insieme alla sua «gloria» (kiibOd), termine che indica la posizione di riguardo nella comunità, nel senso dell'onore tributatogli dagli altri e continuamente rinnovato (v. 20). L 'onore nella vita pubblica (29,21-25). Il v. 21 riprende il filo del discorso interrotto al v. 10, proseguendo la rievocazione dell'onore attribuito a Giobbe per la sua autorevolezza nella vita pubblica. Il tema sviluppato in questi versetti è quello dell'ascolto: mentre Giobbe parlava con parole ispirate dalla sapienza, gli uomini lo ascoltavano con fiducia, pronti a cogliere i suoi consigli (cfr. Sal 37,7; Lam 3,26; si tratta, in questi passi, del silenzio fiducioso dell'uomo davanti a Dio: con lo stesso atteggiamento, gli interlocutori di Giobbe si ponevano nei suoi confronti, riconoscendolo così implicitamente come un uomo di Dio). La mancanza di una replica indica il prestigio riconosciuto ai pronunciamenti di Giobbe e crea un contrasto con l'atteggiamento polemico degli amici nel corso dei dialoghi. Le parole di Giobbe vengono assimilate anche alla pioggia di primavera che cade goccia a goccia sui suoi ascoltatori, i quali le accolgono avidamente, ricevendone sollievo e beneficio. La descrizione fatta in questi termini accomuna tali parole a quelle di Dio, suggerendo che esse erano ascoltate con pari attenzione (cfr. Dt 32,2; Is 55, l 0-11; Os 6,3 ). La difficile formulazione del v. 24 ha dato origine a diverse interpretazioni; crediamo che il gesto di Giobbe di «sorridere» (sii/:zaq 'el) indichi una manifestazione di benevolenza e di favore, alla quale i destinatari stentavano a credere, a motivo della grazia loro concessa, oppure perché gesto non usuale in chi esercitava ruoli di autorità. Nella seconda parte del versetto, la «luce del volto» di Giobbe rappresenta, allo stesso modo, un atteggiamento di magnanimità e, come il volto luminoso della divinità o del re, un segno di speranza e serenità (cfr. N m 6,25; Sal4,7; 44,4; Pr 16,15). Nell'ultimo versetto, Giobbe viene ritratto come un capo nell'atto di «scegliere la loro via», ovvero di indicare ai suoi sottoposti la condotta da seguire, quindi in quelle di un sovrano al comando delle sue schiere e, infine, in
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G10BBE30,1
mia gloria si rinnoverà sempre l e il mio arco nella mia mano accrescerà il vigore". 21 Mi ascoltavano, attendendo, l facevano silenzio per il mio consiglio; 22 dopo la mia parola, non replicavano, l e su di loro cadeva a gocce il mio discorso; 23 mi attendevano come la pioggia, l e spalancavano la loro bocca come ai rovesci di primavera. 24 Se sorridevo loro, non credevano, l e la luce del mio volto non lasciavano cadere; 25 sceglievo la loro via, seduto come un capo, l e rimanevo come un re tra le sue schiere, l come uno che consola gli afflitti. 10ra invece mi deridono l i più giovani di me in età, i cui padri avrei rifiutato l di mettere con i cani del mio gregge.
20 la
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si lasciavano condurre», presupponendo l'ebraico 1m• c·"~1N itDN:ll. Il senso si adatta meglioT ili cont.esto ffià; éon le versioni antiche, conserviamo il Testo Masoretico
(cfr. anche l'espressione simile in Is 61,2), cogliendovi un collegamento con il v. 11, che alcuni in effetti spostano dopo questo versetto.
quelle di un padre della comunità, che si prende cura dei sofferenti, offrendo loro la consolazione. Si tratta di paragoni che esaltano, ancora una volta, la figura di Giobbe per il suo impegno nel buon andamento della vita civile, presentandolo come un uomo saggio e responsabile, autorevole e attento alle necessità degli altri. Si conclude, così, il memoriale celebrativo del passato glorioso di Giobbe, preparando il lettore al forte contrasto creato dalla successiva scena del poema, quella relativa al presente. 30,1-31 L 'infelicità del presente La sottounità che passiamo a considerare si concentra sulla condizione di infelicità che Giobbe sta vivendo nel momento in cui parla; il forte contrasto con la precedente è marcato dalla ricorrenza dell'espressione temporale «ma ora» (w• 'atta), ripetuta all'inizio dei vv. l, 9 e 16, a delineare la discontinuità con il passato. La particella 'ak «almeno», all'inizio del v. 24, ribadisce sinteticamente l'opposizione tra la condizione passata e il presente. A partire da queste annotazioni possiamo ricavare una chiara suddivisione del testo: Giobbe è sbeffeggiato e schernito, perfino dagli uomini più miseri e disprezzati (30, 1-8); è sottoposto a ogni tipo di maltrattamenti, di fronte ai quali si trova inerme e senza difese (30,9-15); subisce tormenti crudeli anche da parte di Dio (30, 16-23); nonostante la sua giustizia e la rettitudine dimostrate nel passato, cammina perciò ora nella più profonda sventura (30,24-31 ). Dal punto di vista formale, il testo si presenta come una lunga lamentazione salmica, con la peculiarità che il nemico o l'avversario, motivo del lamento di Giobbe, è Dio stesso, pur non essendo mai nominato esplicitamente. Giobbe schernito e disprezzato (30, 1-8). Se nel passato i giovani si facevano da parte, dimostrando la loro deferenza nei confronti di Giobbe (cfr. 29,8), ora sono essi i primi a manifestare il loro scherno nei suoi riguardi; in senso dispregiativo, Giobbe accosta i loro padri ai cani che sorvegliavano il suo gregge. Il cane era considerato un animale impuro, in quanto si cibava di carogne; ai cani erano paragonati in Israele coloro che aderivano ai culti cananei della fertilità e «cane» era
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GIOBBE 30,2
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30,2 In loro è svanita ogni energia (i~·~~ n~f i~~)- Il significato dell'espressione è oscuro; tradotta alla lettera darebbe «su loro è perita maturità». La Vulgata sembra parafrasare, con et vita ipsa putabantur indigni «ed erano ritenuti indegni della vita stessa»; la Settanta, invece, riferendosi alle «mani» (anche se il suffisso pronominale in ebraico è maschile), traduce El!' aùtoùç &lTwÀ.Eto ouvtÉAHa «a esse è venuto meno il compimento». La versione CEI ha reso con «hanno perduto ogni vigore>> (forse correggendo l'ultimo termine in n""":l). Ci sembra che il Testo Masoretico pos-~~ ofmre un senso accettabile, intendendo l'espressione come un riferimento alla
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rapida scomparsa del vigore dell'età matura. 30,3 In tempo di(~)- Interpretiamo cosi l'espressione temponile che alla lettera significa «ieri» (cosi la Settanta con E:xE!Éç), anche se la traduzione non è del tutto soddisfacente, come mostrato dalle diverse versioni. La CEI rende con «da lungo tempo». Altre proposte presuppongono diverse correzioni e aggiunte al Testo Masoretico, che non ci sembrano giustificate. 30,4 La ma/va (11~1;1~) -Il termine, che ricorre anche nel Talmud (cfr. Qiddushin 66a), sembra indicare la «malva», un'erba che, secondo i commenti di alcuni rabbini, costituiva il cibo dei poveri. Delle ginestre (C'~J;'I,)- Oppure, secondo
una delle ingiurie più sprezzanti (p. es., Dt 23,19; 1Sam 17,43; 2Sam 16,9; Mt 7,6; Ap 22, 15). Giobbe si sente, perciò, posto al di sotto degli uomini più spregevoli della società, individui che non potrebbero essere di nessuna utilità, privati di ogni possibilità di contribuire in modo costruttivo al benessere della collettività (v. 2). I vv. 3-8 proseguono nella presentazione di questo gruppo di persone, costrette ai margini della comunità, vagabondi senza diritti e senza dignità, che vagavano nelle regioni desertiche, sopravvivendo per mezzo di espedienti. Giobbe, per effetto della sua ripugnante malattia, con ogni probabilità si trova a condividere il loro stato di segregazione e di miseria, subendo un'umiliazione ancora maggiore. La condizione dei segregati è presentata infatti come una punizione, sulla base del trattamento riservato ai malviventi, e caratterizzata da una estrema penuria e precarietà. A chiusura del brano, il gruppo di quanti sono stati scacciati dal paese viene qualificato ulteriormente con gli epiteti «stupidi» e «gente senza nome»:
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Del resto, il vigore delle loro mani, a cosa mi sarebbe servito? l In loro è svanita ogni energia: 3svuotati per l'indigenza e la fame, l brucavano nella steppa, l in tempo di sfacelo e scempio; 4 strappavano la malva dai cespugli l e le radici delle ginestre erano il loro cibo. 5Banditi dalla società, l si strepitava su di loro, come al ladro; 6dimoravano nei dirupi dei torrenti, l nelle caverne del suolo e nelle rocce, 7ragliavano tra i cespugli, l si accalcavano sotto i rovi; 8razza di stupidi, gente senza nome, l sono stati espulsi dal paese. 9Ma ora sono diventato la loro canzone, l la loro favola; 10 mi aborriscono, si allontanano da me l e non trattengono gli sputi alla mia faccia.
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alcuni, è preferibile tradurre «di ginepro». l/loro cibo (Cftt;T~)- È possibile leggere l'espressione anche come una forma dell'infinito costrutto di c~n, traducendo «per scaldarsi» (cfr. Is 47,14); cosi traducono coloro che non ritengono possibile alimentarsi con le «radici delle ginestre», ma l'immagine vuole con ogni probabilità sottolineare l'estrema penuria di chi non ha nient'altro con cui sfamarsi. 30,5 Dalla società (,~-w)- Il termine,~ ha significato incerto. Il senso «interno;), «centro;) è attestato in siriaco e in fenicio; applicato alla città abitata o al consesso umano, dà origine alla traduzione proposta. Altri autori, a partire dall'ugaritico g («grido;), «voce alta)))
traducono «con un grido;). Le antiche versioni hanno un testo diverso per tutto il versetto, quindi non aiutano a dirimere la questione. 30,11 Ha allentato ... hanno gettato( .. .nt~~ ,n~l!l)- Nella prima parte del versetto il soggetto è singolare, mentre nella seconda plurale; riteniamo che si tratti, rispettivamente, di Dio (sottinteso) e degli espulsi dal paese. La sua corda - La lezione del ketìb ,,1:1', che seguiamo (con la Settanta e la Vulgata), pone l'accento sull'agire oppressivo di Dio nei confronti di Giobbe; con la Peshitta e il Targum, la versione CEI segue invece il qerè '!!}' «la mia cordiD), evidenziando l'effetto dell'aZione divina su Giobbe, privato del suo vigore.
uomini indegni e ignobili, perfino il loro nome sarà cancellato dalla terra dei vivi, perdendone per sempre il ricordo. Giobbe oggetto di maltrattamenti (30,9-15). Con la ripresa dell'indicazione temporale «ma ora» si apre un nuovo brano in cui, dopo la precedente descrizione della condizione misera e spregevole degli espulsi dal paese, Giobbe si lamenta di essere diventato oggetto di disprezzo perfino da parte loro (alcuni autori considerano il brano una prosecuzione del lamento del v. l, ritenendo i vv. 2-8 un'aggiunta redazionale, forse inserita per smorzare i toni eccessivamente aspri del v. iniziale; un indizio di ciò sarebbe proprio la ripresa della locuzione «Ma ora» in apertura del v. 9). I termini utilizzati nei vv. 9-1 O esprimono lo scherno e la denigrazione da lui subiti, culminando con gli «sputh> che colpiscono il suo volto. Il vocabolario rimanda alla sorte simile riservata al servo di YHWH nel libro di Isaia (cfr. ls 50,6). Al v. Il il soggetto passa improvvisamente
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30,l2Lagentaglia(Mt?,)- Il significato di questo hapax è desunto dalle altre lingue semitiche.
La Settanta con ~Àacrtoiì «del gennoglio» deve avere letto l'ebraico M'"]~ «gennoglim>, «fiore», che però non ha molto Senso nel contesto. 30,13 Chi li contrasti (ìt.l1) - Il verbo ha solitamente il significato di «aiutare», che però non ha un significato accettabile nel contesto (così la Vulgata con quiferret auxilium «chi
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porta aiuto», omettendo però il i~~ finale eriferendo l'espressione a Giobbe); per questo è stato proposto di leggere ì):l1 «chi si oppone» (cfr. la versione CEI), che offre un senso più coerente. È però possibile mantenere il Testo Masoretico, giungendo alla stessa traduzione, a partire dalla radicale araba 'zr «impedire» e ipotizzando quindi l'esistenza in ebraico di un verbo ìtll II dal significato analogo.
dal plurale al singolare, rimanendo implicito: alcuni autori lo identificano, in continuità con quanto precede, con quanti maltrattano Giobbe; tuttavia, con la maggioranza, riteniamo che il soggetto sottinteso sia Dio, il quale assalta Giobbe, come già in 16,9-14; 19,6-12 e nei vv. 18-22 del seguente brano. L'im~ magine utilizzata per rappresentare l 'umiliazione di Giobbe è quella della corda allentata, che può essere interpretata in due modi: come la corda dell'arco, la cui perdita di tensione indica il venire meno del vigore, oppure come la corda della tenda, il cui scioglimento significa la distruzione dei legami familiari o, secondo la simbologia già utilizzata da Elifaz in 4,21, la fine improvvisa della vita umana. Dio, quindi, è il responsabile ultimo della condizione di Giobbe, che rimane indifeso di fronte all'assalto sfrenato degli avversari. Questi insorgono «a destra», ovvero nella posizione dell'accusatore (secondo altri, invece, è il Iato da cui si aspetta la salvezza; ma al posto della salvezza attesa, Giobbe riceve solo un assalto mortale); i nemici insidiano Giobbe utilizzando tecniche di tipo militare, preparando la strada per la sua disfatta. L'azione degli avversari assume, in effetti, le sembianze di un vero e proprio assedio, che culmina nella
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allentato la sua corda e mi ha umiliato; l hanno gettato ogni freno davanti a me. 12 A destra insorge la gentaglia, l spingono via i miei piedi l e spianano contro di me le strade della loro distruzione; 13 demoliscono il mio sentiero, l cospirano per la mia rovina, l non hanno chi li contrasti, 14per un'ampia breccia irrompono, l sotto le macerie strisciano. 15 Si rivoltano contro di me i terrori, l ·si disperde' come il vento la mia dignità, l e come una nuvola passa la mia salvezza. 16E ora su di me si strugge la mia anima, l mi afferrano giorni di miseria, 17 di notte si trafiggono le mie ossa· 'l e i dolori che mi rodono non si placano. 18 Per la (loro) grande intensità, si sforma il mio vestito, l mi stringe come il collo della mia tuni~a. 11 Ha
30,15 Si disperde (f]"'T\1'1)- Leggiamo qui con la vocalizzazione del nifa/~111:1; il senso del qal «inseguire», infatti, mal si adatta al contesto e richiede di introdurre un soggetto sottinteso (p. es., «il terrore>>). 30,17Nella traduzione omettiamo l'espressione ridondante'~-!'~ «da sopra me». 30,18 Si sforma (tls:!!JJ:'I') - La Settanta traduce f1TEN$Eto «ha afferrato», considerando
Dio come il soggetto sottinteso (cosi anche la versione CEl: «egli mi afferra>>); la Vulgata rende con consumitur «si consuma>>. Il significato principale del verbo t!Eln hitpael è «farsi cercare», «travestirsi»; lo abbiamo inteso in riferimento alla veste, che cambia la sua foggia fino a rendersi irriconoscibile. Il senso dell'intero versetto non è comunque chiaro ed è variamente interpretato dagli autori.
distruzione e nello stenninio, senza che alcuno possa intervenire in difesa di Giobbe (vv. 13-14 ). La scena si chiude con la personificazione dei «terrori» che piombano su Giobbe (cfr. anche 18, 11.14; 27 ,20); privato di ogni dignità e senza più speranza di salvezza, egli rimane atterrito e ridotto al nulla, in uno stato di profonda prostrazione fisica e psicologica (v. 15). La crudeltà di Dio verso Giobbe (30, t 6-23). Oltre che dal pubblico disprezzo e dai maltrattamenti a opera dei suoi avversari, Giobbe è afflitto oltremodo dall'atteggiamento di Dio nei suoi confronti; il suo intimo è gravato perciò dalla tristezza più cupa (v. 16), che si accompagna ai sintomi del disfacimento fisico: torna al v. 17la simbologia della notte, a indicare l'approssimarsi della morte, una notte che si trasfonna in una sfiancante tortura, a causa dei continui dolori che lo consumano e lo straziano. L'accusa di Giobbe diventa più circostanziata, pur senza mai nominare il responsabile dei suoi mali, che dal contesto appare comunque essere Dio stesso. La faticosa formulazione del v. 18 rimanda con ogni probabilità al contesto della lotta: Giobbe si sente afferrato per la veste, la gola stretta in una morsa che minaccia di soffocarlo, gettato nel fango, prostrato nell'umiliazione più profonda (v. 19). Si
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GIOBBE 30,19
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:;~~ N:l~l 1iN7 il~O~~l VJ N~~l "J:l"~i?. :lit? "f. 30,20 Ma tu non mi badi (':;! H~':1l;l1) -Con un manoscritto ebraico, presupponiamo la negazione •:;~ P~':1l;l cosi anche la Vulgata e la versione CEI. La Settanta, invece, cambia, insieme al verbo che precede, il soggetto, leggendo EOtt'}ocw KCÙ KatEVOTJOocv f.LE «si sono levati e mi hanno scrutato)); il contesto richiede, però, la prosecuzione del discorso con cui Giobbe si rivolge direttamente aDio.
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30,22 Nella bufera (i"'f1~t;1)- Seguiamo la lezione del ketìb (una variante ortografica di i"''~~t;1), al posto dell'oscuro qerè i"''~~~l'l «(con) riuscita)) (cosi la Vulgata con valide). Alcuni autori invece rendono con «terrorizzerai me)), supponendo una forma verbale da una radice i"''1W, che però non risulta attestata altrove con questo significato. 30,24 Sulla rovina non ('l!~ -N") - La
rivolge, quindi, in maniera diretta, al suo persecutore, svelandone in questo modo l'identità: le grida di Giobbe rimangono inascoltate, Dio pare non interessarsi a lui e alla sua sofferenza (v. 20); anzi, Giobbe lo taccia di crudeltà nei suoi confronti e lo rimprovera dell'ostilità con cui lo tormenta, impiegando «tutta la forza del suo braccio» (v. 21 ). La sproporzione tra la debolezza di Giobbe e la forza con cui Dio si accanisce su di lui, simboleggiata dal «braccio», diventa ancora più evidente nelle espressioni utilizzate al v. 22: secondo una tipica immagine cosmica, desunta dalla mitologia cananea e indicante il dominio sugli elementi della natura, Dio cavalca le nubi, planando sulle ali del vento (ls 19,1; Sal 18,10-11; 68,34); ora, invece, è Giobbe a essere innalzato e posto a cavallo del vento, ma l'immagine evoca non il dominio, bensi lo sconvolgimento di Giobbe, travolto dalla violenza della tempesta e abbandonato in balia della furia degli elementi. L'ultima parte del brano contiene l'accusa culminante di Giobbe, consapevole che Dio lo sta conducendo alla fine; Egli non soltanto si serve delle potenze cosmiche per torturarlo, ma sembra perfino coalizzarsi con l'eterno nemico, la morte, per ridurlo al nulla e cancellarlo definitivamente dal mondo dei vivi (v. 23). Lamento conclusivo di Giobbe (30,24-31 ). Il v. 24 apre la parte conclusiva della sottounità, iri cui Giobbe ricapitola ciò che gli è accaduto tornando, ancora
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GIOBBE 30,26
Mi getta nel fango, l divento simile alla polvere e alla cenere. Ti imploro, ma tu non rispondi, l mi presento a te, ma tu ·non, mi badi, 21 ti tramuti in crudele con me, l con tutta la forza del tuo braccio mi perseguiti; 22 mi sollevi, mi fai cavalcare sul vento l e mi sconvolgi nella bufera. 23 So che mi conduci alla morte, l la casa di incontro per tutti i viventi. 24 Almeno, sulla rovina non stende la mano, l se nella sua sventura ha implorato aiuto. 25Non ho forse pianto per l'oppresso l e il mio animo non si è addolorato per il povero? 26 Speravo il bene, ma venne il male, l aspettavo la luce, ma venne il buio; 19
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stranezza dell'immagine ha dato luogo a diverse congetture; alcuni autori ipotizzano la lezione «non contro il povero)) (ebraico, 'l~=?-M>,). In realtà tutto il versetto appare problematico ed è variamente interpretato dalle versioni: la Vulgata ha Veruntamen non ad consumptionem eorum emittis manum tuam; et, si corruerint, ipse salvabis «Però tu non stendi la mano alla
loro consunzione, e se dovessero cadere
li salverai)); la Settanta, invece, El yàp ocjlEJ..ov Buva(ll11V Ellau'tòv XELpwaaa9at ~ BE119E(ç yE ÈtÉpou mt 1TOt~aH 110t 'tOU'tO «Oh, potessi dare una mano a me stesso, o pregare un altro che Io facesse per me)); la versione CEI lo ha reso con «Nella disgrazia non si tendono forse le braccia e non si invoca aiuto neiia sventura?». Per ulteriori dettagli riguardo aii 'interpretazione si rimanda al commento.
una volta, a ricordare la sua rettitudine passata. La formulazione del versetto non è chiara, al punto da essere stato considerato come uno dei più difficili de li 'intero libro; diverse sono le interpretazioni che ne sono state proposte. Intendiamo il senso generale come un'accusa di Giobbe nei confronti di Dio, il quale non soltanto non si è mostrato solidale con lui nel momento in cui, dall'abisso della sua sofferenza, lo ha implorato, bensl lo ha oppresso e umiliato, stendendo contro di lui la sua mano. Altri autori, invece, interpretano il versetto come riferito all'azione di Giobbe, il quale non si accaniva contro il povero, quando questi implorava il suo soccorso. Il successivo v. 25 è considerato da molti commentatori fuori posto e collocato (da alcuni insieme al v. 26), per continuità tematica, dopo 31,29-30 o all'inizio dello stesso capitolo 31. Giobbe rammenta qui la sua compassione nei confronti del povero e dell'oppresso, dei quali condivideva la sofferenza. Le attese di Giobbe, però, nonostante l'integrità di animo sempre dimostrata, non sono state soddisfatte: le antitesi del v. 26 sottolineano proprio il contrasto, simboleggiato dal binomio luce-buio, tra la sua aspettativa di felicità e la condizione presente di sventura. La giustizia di Giobbe non gli ha procurato i benefici sperati; anzi, l'ultima parte del brano indugia nel tratteggiare un quadro carico di tristezza e
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GIOBBE 30,27
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30,28 Conforto - Alla lettera il vocabolo ;,~n indica il «sole» o il suo «calore». In se'n~o traslato, possiamo intenderlo come «conforto» oppure, con questo significato, si può ipotizzare l'ebraico ;,ttr;r~ (cfr. 6, IO e la Nova Vulgata con consolatione). La
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Vulgata lo ha reso, invece, come furore «ira» (ebraico, ;"'ftlj), che appare meno ap· propriato nel contesto. Con tjlq.Loiì «museruola» la Settanta sembra avere interpretato erroneamente dalla radicale con «mettere la museruola».
di amarezza (vv. 27-31). Giobbe è consumato dalla malattia e dall'affanno, con cui deve affrontare i giorni duri che gli vengono incontro; non c'è nessuno che possa offrirgli sollievo e conforto, le sue implorazioni di aiuto cadono nel vuoto, a testimoniare la solitudine e l'isolamento in cui è costretto. L'unica compagnia possibile per Giobbe è costituita dagli sciacalli e dagli struzzi, animali selvatici che abitano in regioni deserte, lontano dagli uomini. L'abbattimento interiore trova corrispondenza nel suo aspetto esteriore, caratterizzato dal disfacimento delle membra (la «pelle») e dali' arsura della febbre che lo consuma. L'ultima immagine è velata di malinconia: la cetra e il flauto, strumenti che solitamente accompagnano i canti gioiosi nelle occasioni di festa e di condivisione, servono a Giobbe soltanto per esprimere il suo lamento e il pianto che denotano la disperazione in cui è sprofondato. 31,1-40 Giobbe riafferma la sua innocenza La sottounità si presenta come l'ultimo atto di un dibattito forense e riflette un'impostazione essenzialmente giuridica: Giobbe, per l'ultima volta, riafferma la sua innocenza davanti al giudice divino. Dal punto di vista formale, sono state sottolineate le somiglianze con alcuni testi della letteratura egiziana, in particolare con il Libro dei morti (antica raccolta di testi funerari che avevano lo scopo di accompagnare il viaggio del defunto nel regno dei morti; fu composto da vari sacerdoti egizi nell'arco di un millennio, a partire dal XVII sec. a.C.), anche se la confessione dell'estraneità al male, in quel caso, contiene una commistione di elementi etici e rituali, che non si trovano invece in Giobbe. Il testo si articola in due parti principali: Giobbe inizia ribadendo, dinanzi a Dio, il suo comportamento retto e virtuoso, che rende inaccettabile il trattamento che gli è riservato (31, 1-4); segue un lungo elenco di azioni che testimoniano la correttezza del
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GIOBBE 31,4
le mie viscere ribollono e non si placano, l mi sono venuti incontro giorni di miseria; 28Tetro cammino, senza conforto, l mi alzo nell'assemblea per implorare aiuto; 29 sono diventato fratello degli sciacalli l e compagno degli struzzi. 30La mia pelle annerita mi si stacca, l le mie ossa bruciano per la febbre; 31 la mia cetra serve solo per il lutto l e il mio flauto per la voce di chi piange. 1Ho stretto un patto con i miei occhi: l come potrei pensare a una vergine? 2 nvece quale sorte mi riserva Dio dall'alto, l e quale eredità Shadday dalle altezze? 3Nonè forse la disgrazia per l'ingiusto l e la sciagura per chi opera iniquità? 4Non guarda egli le mie vie l e tutti i miei passi non conta?
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30,30 Mi si stacca ('"ll~)- Alla lettera: «da sopra me». Alcuni a~tori, a partire dal sostantivo ·~ll. «crogiuolm>, intendono «più di un calderone» (cfr. anche al v. 17); l'immagine tuttavia ci sembra forzata. 31,1 A una vergine (i17~n:r"~)- La pro-
posta, avanzata da alcuni commentatori, di correggere il testo in i17;.r"~ «alla follia», oltre a non essere supportata dalla Vulgata e dalla Settanta, non ci appare necessaria né opportuna (si veda, in proposito, il commento).
comportamento morale di Giobbe (31,5-40). L'elenco non è esaustivo né sistematico, ed è inserito in uno schema basato sulla formula di giuramento di innocenza, certificato da un documento (vv. 35-37) che costituisce l'ultimo appello alla controparte divina. Le ragioni di Giobbe (31, 1-4). Il primo versetto del brano contiene già un'affermazione riguardo al comportamento integro di Giobbe; perciò diversi autori lo considerano fuori posto e lo vedrebbero meglio collocato dopo il v. 4, ad aprire l'elenco delle azioni virtuose dello stesso Giobbe oppure, per ragioni di affinità contenutistiche, dopo il v. 10 o il v. 12. L'affermazione riguarda l'atteggiamento prudenziale di Giobbe, il quale non indugia con lo sguardo su alcuna giovane; il «patto» stretto con i propri occhi sta a significare l'assoluta intenzione di Giobbe di evitare situazioni ambigue o impure, mediante il dominio sui suoi sensi (cfr. l'insegnamento di Gesù in Mt 5,27-29). Alcuni studiosi hanno riferito il termine b"tula «vergine» alla Vergine celeste, titolo attribuito alla dea babilonese Ishtar, oppure alla dea 'Anat della mitologia ugaritica; si tratterebbe, quindi, del rifiuto, da parte di Giobbe, di lasciarsi sedurre da pratiche idolatriche desunte dalle popolazioni vicine a Israele (cfr. la condanna dei culti alla «Regina del cielo» in Ger 44, 16-19). Con il v. 2, Giobbe torna a esporre le sue ragioni in maniera più generale; l'interrogativa introduce l'oggetto della contesa, ovvero, ancora una volta, la validità della dottrina della retribuzione. Se è vero che Dio assegna ali 'uomo una «sorte» e gli prepara dali' alto un' «eredità», queste dovrebbero corrispondere a ciò che l'uomo ha compiuto nella sua vita: per chi ha commesso il male e per il perverso, ci si aspetterebbe un destino di sventura e infelicità, ma Giobbe sa di non appartenere a questa categoria e, implicitamente, sfida Dio - il quale conosce la sua condotta in ogni minimo aspetto- a provare il contrario (vv. 3-4).
GIOBBE 31,5
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31,5 Ho forse camminato ('l;'l=;l~inl~) Alla lettera: «Se ho camminato·». Inizia la serie dei giuramenti di Giobbe. La formula di giuramento nella lingua ebraica si compone, usualmente, di una frase principale e una condizionale, secondo lo schema: «Dio mi castighi cosi... se (C~) ho compiuto/non ho compiuto ciò ... ». Spesso la sequenza è invertita, facendo precedere la frase condizionale e la principale può addirittura essere
omessa, considerandola sottintesa. La particella c~, oltre a introdurre il giuramento, può avere però anche altre funzioni, come quella interrogativa, e non sempre è facile distinguerle, soprattutto quando ci troviamo in presenza di frasi ellittiche, come avviene anche nel nostro brano. Con vanità (N1W"C.l?) - Cosi la Vulgata (in vanitate); irivece, la Settanta con j.LHÙ yEÀ.oLaatwv «con buffoni» e la Peshitta sem-
Giuramento di innocenza di Giobbe (31,5-40). Con il v. 5 inizia la serie dei giuramenti con i quali Giobbe intende affermare davanti a Dio la propria rettitudine morale; ricorrere al giuramento significa appellarsi direttamente a Dio e al suo giudizio, con il rischio di incorrere nella sua punizione e maledizione, nel caso in cui si giuri il falso. La serie dei giuramenti di Giobbe copre una varietà di situazioni e di comportamenti peccaminosi, senza che sia possibile individuare uno schema coerente; si tratta, comunque, di azioni contemplate nei testi legislativi biblici. Al v. 5 Giobbe nega, anzitutto, di avere agito con falsità e in modo fraudolento; le espressioni sono generiche, ma potrebbero rimandare anche al mondo degli affari e del commercio, se le leggiamo insieme al versetto successivo, in cui compare l'immagine della «bilancia». Giobbe pare qui invocare su di sé la pena del taglione, chiedendo a Dio di essere «pesato» su una bilancia esatta, alludendo in questo modo all'esattezza della bilancia usata per i propri commerci. L'immagine della bilancia divina è conosciuta anche nei testi egiziani come simbolo del giudizio: secondo il rito descritto nel Libro dei morti, il cuore del defunto veniva pesato su un piatto della bilancia, ponendo sull'altro piatto la piuma di Maat, la dea della verità e della giustizia. Il secondo 'im della sezione (v. 7) introduce un giuramento riguardo alla rettitudine delle scelte di Giobbe; il trinomio «passo», «cuore>> e «mani» indica i diversi elementi del processo decisionale, a partire dalla volontà fino al momento operativo.
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GIOBBE 31,12
Ho forse camminato con vanità, l e il mio piede si è affrettato verso la frode? 6Mi pesi Dio con la bilancia della giustizia l e conoscerà la mia integrità! 7 Se il mio passo ha deviato dalla strada, l e il mio cuore ha camminato dietro i miei occhi, l o alle mie mani si è attaccata la sozzura, 8un altro mangi ciò che io semino l e i miei germogli siano sradicati. 9 Se il mio cuore è stato sedotto da una donna, l e ho spiato alla porta del mio prossimo, 10che mia moglie macini per un altro, l e altri si accostino a lei. 11 Infatti, quella sarebbe un'infamia l e una colpa da deferire ai magistrati, 12 quello sarebbe un fuoco che divora fino alla distruzione l e consuma alla radice tutte le mie sostanze. 5
brano presupporre l'ebraico N1~ 'M.f?"C.!J «con individui di vanità» (cosi due manoscritti ebraici); dato il parallelismo con la «frode», ci sembra preferibile mantenere il sostantivo astratto. 31,11 Una colpa da deferire ai magistrati (C'~'~~ 1i~) -Alla lettera: «una colpa di magistratm; alcuni autori correggono in ·~·'?~ li~ o considerano come enclitico il C finale, intendendo «una colpa degna di
pena»; la differenza non è semanticamente significativa. 31,12 Consuma alla radice (!Ll,llin)- Alla lettera: «sradica» (cfr. la Vulgaià 'con eradicans). Siccome l'azione non si addice al «fuoco», alcuni commentatori propongono di leggere ~"l~r:'l «brucia» (cosi, forse, la versione CEI con «avrebbe consumatm) ); la correzione tuttavia, alla luce della traduzione proposta, non ci appare necessaria.
Giobbe non ha deviato dalla retta via, non si è lasciato sedurre dali' apparenza delle cose, né si è lasciato corrompere per soddisfare il proprio interesse. La formula auto-imprecatoria del v. 8 sancisce la punizione che spetterebbe a Giobbe nel caso in cui fosse riconosciuto colpevole. Il giuramento successivo riguarda il peccato di adulterio: Giobbe esclude di essersi mai lasciato sedurre da una donna altrui (il sostantivo 'issa indica la donna sposata); il peccato è visto qui, secondo l'ottica israelitica, come una violazione della proprietà (questo il senso della menzione della «porta del prossimo»). L'automaledizione associata al giuramento è duplice: prevede che la moglie di Giobbe sia ridotta alla condizione di schiava, macinando alla mola per un altro, e che diventi oggetto del piacere del nuovo padrone. Il lavoro alla mola indica una condizione di oppressione, tuttavia ha già anche una possibile connotazione sessuale, esprimendo l'abuso subito dalla donna. L'imprecazione è seguita da una riflessione di carattere moraleggiante sulla concupiscenza, che da molti autori è ritenuta una glossa (vv. 11-12): l'adulterio viene definito zimma, ovvero un delitto turpe e infame (Lv 18, 17; 19,29; 20, 14), che deve essere sottoposto al giudizio del tribunale. Il desiderio impuro è paragonato a un fuoco che brucia, distruggendo chi lo asseconda e si abbandona a esso; l 'immagine del fuoco potrebbe alludere, in una sorta di contrappasso, anche alla pena stabilita dai giudici per l'adulterio che, secondo Gen 38,24, era il rogo (cfr. anche Pr 6,27-29; però la pena prevista dalla legislazione era la lapidazione: cfr. Dt 22,22-24).
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31,15 Lo stesso (.,J;ll'_n- Riferiamo l'aggettivo al soggetto della frase, Dio; cosi anche la Vulgata, mentre la Settanta lo lega, in maniera che ci sembra meno appropriata, al termine precedente, leggendo Èv ttì n:òtfl Ko~J..(~ «nello stesso grembo». 31,18 Lui è cresciuto ... ed ella ho guidato (Mr:t~ ... ·~'?·W - Intendiamo come soggetto della prima parte del versetto «l'orfano», che sarebbe cresciuto considerando Giobbe, pur giovane, come padre; nella seconda parte del verso, è Giobbe stesso che si presenta, fin dal grembo di sua madre - espressione iperbolica per indicare la disponibilità da lui costantemen-
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te dimostrata- come guida della «vedova». In questo modo, viene esaltato il carattere misericordioso di Giobbe, sempre pronto a soccorrere i più deboli. Alcuni autori, correggendo il Testo Masoretico, assumono Dio come soggetto dell'intero versetto, spostandolo dopo il v. 15: secondo questa ipotesi, Dio verrebbe descritto come «padre» dell'orfano e guida della vedova È cresciuto con me (•~'?1~)- La forma verbale, un perfetto qa/ con suffisso, è dubbia e non ricorre altrove. La traduzione da noi proposta equivale a 1;!1~ ·~~; così intende la Vulgata (crevit mecum), dove però il soggetto di tutto il versetto è miseratio «la misericordia».
I vv. 13-23 contengono riferimenti a diverse realtà sociali; si inizia con i vv. 13-15, dove troviamo l'attestazione della giustizia di Giobbe nei confronti dei suoi servi, verso i quali egli si è dimostrato alquanto liberale. La condizione degli schiavi nel mondo del Vicino Oriente antico era solitamente molto dura; essi erano equiparati a un oggetto di cui il padrone poteva disporre a suo piacimento. La legislazione biblica mostra un maggior rispetto nei loro confronti (Lv 25,39-41; Sir 33,25-33), richiamandosi a principi di umanità e giustizia; l'atteggiamento di Giobbe, però, va sicuramente oltre, riconoscendo agli schiavi una dignità senza precedenti. La motivazione addotta da Giobbe è di tipo teologico: Dio è il creatore di tutti e questa comune origine diventa il fondamento di un'uguaglianza universale; per questo, di fronte a Dio stesso, che si erge come giudice supremo, Giobbe sa di non poter calpestare i diritti di nessuno, neanche dei servitori. Agli
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GIOBBE 31,21
ho negato il diritto del mio schiavo e della mia schiava, l nella loro contesa contro di me, 14cosa farei, quando Dio si leverà, l e cosa risponderei, quando interverrà? 15 Chi mi ha fatto nel ventre materno, non ha fatto anche lui? l Non fu lo stesso a stabilirei nel grembo? 16 Se ho negato ai miseri quanto desideravano l e gli occhi della vedova ho lasciato languire, 17 se mangiavo il mio boccone di pane da solo, l senza che l'orfano ne mangiasse 18- giacché fin dalla mia giovinezza lui è cresciuto con me come padre, l ed ella ho guidato fin dal grembo di mia madre-, 19 se vedevo uno sventurato senza vestito l o un povero senza qualcosa per coprirsi, 20 se non mi hanno benedetto i suoi fianchi l e non si è scaldato con la lana dei miei agnelli, 21 se ho alzato la mia mano contro l'orfano, l poiché godevo del sostegno del tribunale, 13 Se
La Settanta, invece, ha tt;ÉtpEcjlov «ho nutrito (l'orfano)», forse leggendo l'ebraico ~~'tl~l.'! (cosi la Nova Vulgata con educavi eum e la CEI con «l'ho allevato»). Altri autori, considerando come soggetto Dio, congetturano il pie/ 'l~'l~ «mi ha fatto crescere». Ed ella ho guidato (il~~~l!t)- Secondo il Testo Masoretico, il suffisso femminile va riferito alla «vedova>>. La Settanta ha WOT!YTJOU «guidai (lui)» (ebraico, W:t~l!t), con >, sempre riferito a miseratio «la misericordia>>. Riteniamo che tutto il versetto sia un inciso che sintetizza il comportamento di Giobbe nei confronti, rispettivamente, dell'orfano e della vedova citati in precedenza: ci atteniamo, perciò, al Testo Masoretico. 31,21 Contro l'orfano (oin;·".g) - Poiché de li' (i.g~) presso la quale si svolgevano i procedimenti giudiziari, alcuni autori correggono in OJ;1 '~.g «contro l'innocente»; in assenza di prove testuali in tale direzione, preferiamo mantenere il Testo Masoretico.
schiavi fanno seguito, nei vv. 16-17, le categorie più svantaggiate della società: i miseri, le vedove, gli orfani, nei riguardi dei quali Giobbe ha sempre dimostrato un atteggiamento caritatevole, intervenendo per soccorrerli nelle loro necessità. Il v. 18 appare, nel contesto, come un inciso, la cui traduzione è problematica, non essendo immediata la comprensione del soggetto delle forme verbali. Chiuso l'inciso, la sequenza dei giuramenti riprende con l'enunciazione della solidarietà di Giobbe nei riguardi dei più poveri e indigenti; la condizione dei poveri è simboleggiata qui dalla mancanza delle vesti necessarie per coprirsi e per combattere il freddo, fatto che muove Giobbe a fare dono con generosità della lana dei suoi agnelli, suscitando la gratitudine dei beneficati (le cui membra, al v. 20, appaiono personificate). Si ha una nuova menzione dell'«orfanm> (o dell'«innocente»: si veda la nota filologica) al v. 21: Giobbe giura solennemente di non avere mai
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31,23 La disgrazia che viene da Dio (';!l't ,,l't) - Alla lettera, l'espressione suona: «la disgrazia di Dio». In questo tipo di costruzione, mai la «disgrazia>> si riferisce al suo autore, bensì a colui che ne soffre le conseguenze; ma siccome è inverosimile che il testo presenti un Dio che subisce
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il male, i commentatori hanno ipotizzato diverse correzioni del Testo Masoretico. Tra queste ne citiamo soltanto una, che modifica leggermente l'ebraico, leggendo ·~~ ,,~: "~ ,~ç ':l «Poiché la paura di Dio mi spaventa». Noi scegliamo di conservare il Testo Masoretico, traducen-
oppresso l'orfano, approfittando della propria posizione e del prestigio goduto in tribunale. La formula imprecatoria utilizza l'immagine del «braccio>>- simbolo di forza e autorità- spezzato, riprendendo quella della «mano» minacciosa, prima alzata contro l'orfano. La motivazione del comportamento virtuoso di Giobbe va ricercata nella maestà divina e nel terrore che questa gli incute, spingendolo ad assumere un atteggiamento di obbedienza riverente (v. 23; alcuni autori lo considerano, in realtà, una glossa o lo spostano, p. es., dopo il v. 14). Con il v. 24, inizia un elenco variegato di comportamenti peccaminosi che Giobbe giura di avere sempre accuratamente evitato; il primo è l'amore smodato per la ricchezza, rappresentata dall'oro, insieme alla fiducia posta in esso; l'abbondanza dei beni non è in sé negativa, ma rischia di far perdere all'uomo il senso di ciò che è veramente prezioso e, soprattutto, la consapevolezza del proprio legame originario con Dio, unica sicurezza. Subito dopo, infatti, viene biasimato il peccato dell'idolatria (vv. 26-27), per cui il sole e la luna, non più considerati per quello che sono, ovvero creature di Dio, seducono il cuore dell'uomo, spingendolo a compiere atti di
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GIOBBE 31,31
il mio braccio si spezzi dal gomito! la mia paura è la disgrazia che viene da Dio, l e davanti alla sua maestà non resisto. 24 Se ho riposto nell'oro la mia fiducia l e all'oro fino ho detto: "Mia sicurezza!", 25 se ho gioito perché era grande la mia ricchezza l e la mia mano aveva trovato una fortuna, 26se, quando guardavo la luce risplendere l e la luna che avanzava splendida, 27 il mio cuore si è lasciato segretamente sedurre l e la mia mano baciò la mia bocca, 28 anche questa sarebbe una colpa da tribunale, l perché avrei rinnegato Dio che sta in alto. · 29Ho forse gioito per la sventura di chi mi odia, l e ho esultato perché lo colpì il male? 30E mai ho concesso alla mia bocca di peccare, l chiedendo la sua vita con una maledizione. 31 Non diceva forse la gente della mia tenda: l "A chi non ha dato della sua carne, per saziarsi?".
22 la mia spalla caschi dalla schiena/ e 23 Poiché
do secondo il senso più plausibile che il contesto richiede. 31,29 E ho esultato ('l'\l'Jll~01)- Il significato letterale del verbo hitpo/el è «eccitarsi», ma il contesto rende più appropriato il senso «esultare», come anche la Vulgata ha inteso (et exsultavi); l'eccitazione dovuta alla gioia
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può, in effetti, manifestarsi in esultanza, giustificando la traduzione. Alcuni autori invece congetturano la lezione 'I;W~'1r:'l01 dalla radicale «giubilare», (cfr. Sal 6o; 10; 65,14), oppure l'\!'1llr:'li}1 da un 'ipotetica radicale "1"111 «esultare>) (cfr. ·l'ugaritico gdd); per quanto detto sopra, non ci sembra necessario.
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venerazione e di culto (questo il senso del «bacio») nei loro confronti; l'inciso del v. 28- che potrebbe essere una glossa- definisce tale peccato una «colpa da tribunale», ovvero un delitto passibile di condanna da parte del giudice, in quanto distoglie il credente dall'adorazione esclusiva che spetta a Dio soltanto. Nei vv. 29-30 la virtù di Giobbe viene esaltata nella sua capacità di andare oltre il desiderio - e il diritto sancito dalla legge - della vendetta: non soltanto Giobbe la rifiuta, ma rinuncia anche a rallegrarsi per le sventure del nemico e a lanciare contro di lui maledizioni, dimostrando capacità di autocontrollo e grandezza d'animo. L'argomento successivo è l'ospitalità (vv. 31-32), anche se l'interpretazione dei versetti non è univoca. Uno dei problemi è il significato dell'espressione «saziarsi della sua carne»; solitamente essa ha un 'implicazione di ostilità e aggressività, per cui il v. 31 potrebbe essere letto in continuità con i precedenti, intendendo la «sua carne» come riferito al «nemico>> (v. 29), contro il quale Giobbe non avrebbe agito in modo violento. Un'altra possibilità, che preferiamo, è di leggere il v. 31 in relazione al seguente, che chiaramente parla dell'ospitalità offerta al forestiero e al pellegrino; in questo caso, il termine
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31,32 Al viandante- Con la Settanta (mxvrì. Eì..96vn) e la Vulgata (viatori), preferiamo la vocalizzazione n1kl:i «al viandante», anziché quella meno j:)èriinente del Testo Masoretico n1k'=' «al sentierm>. 31,33 Com-e Àdamo (C,N:O)- Interpretiamo il sostantivo come nome proprio anziché tradurre genericamente «come un uomo»
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). 32,2 Elihu (l't~1'1'~~)- Il nome proprio significa «Egli è il mio Dio»; è lo stesso nome
del profeta Elia e vuole alludere in questo modo alla missione del personaggio, che si presenta come difensore di Dio. Barakel 1:r1~ N~ry'7~ 11~:~1 6
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32,9 I molti anni (c•:n)- Esplicitiamo nella traduzione, aggiungendo il termine «anni», sottinteso in ebraico. Altri autori intendono l'aggettivo C'~1 come un titolo onorifico, traducendo «le autorità», in parallelo con «i vecchi» della seconda parte del versetto. Ci sembra, però, che nel discorso l'accento ca-
da sull'età di coloro che si ritengono saggi. In tal senso, la Settanta (ot 7roJ..uxp6vLm) e la Vulgata (longaevi) sembrano avere letto c·~~ ':1.1 «longevh> (alla lettera: «molti di giorni»); la versione CEI ha reso con «essere anziani». 32,10 Ascoltami (•~-n~~~)- Con due ma-
gli amici di Giobbe, incapaci di offrire una risposta chiara e convincente alle sue argomentazioni; egli viene presentato, quindi, come il difensore di Dio, sulla scia dell'antico profeta Elia, di cui porta il nome; il suo silenzio fino a questo momento dell'opera viene attribuito alla sua modestia e al rispetto dovuto all'anzianità, ma è probabile che si tratti di un artificio letterario per spiegare l'inserimento di questo blocco di capitoli, con l'intervento di un nuovo personaggio mai menzionato in precedenza. La mancanza di ulteriori argomenti di discussione da parte degli amici di Giobbe diventa, per Elihu, il pretesto per subentrare loro nel dibattito. 32,6-22 Introduzione ai discorsi Questa parte, nuovamente in stile poetico, ha una funzione introduttiva ai successivi discorsi e si articola in tre momenti: Elihu esprime il proprio desiderio di parlare (32,6-10), manifestando l'inconcludenza delle argomentazioni degli amici di Giobbe (32,11-14) e ritenendo come un dovere esporre la propria replica, ispirata da Dio stesso (32, 15-22). Il desiderio di Elihu di parlare (32,6-1 0). Elihu prende la parola, rivolgendosi inizialmente ai tre amici di Giobbe e ribadendo il motivo della sua esitazione, dovuta alla giovane età (v. 6). Nella società del tempo, gli anziani erano quelli che godevano di autorità e di prestigio, in quanto formati da una più lunga e ricca
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GIOBBE 32,13
Elihu, figlio di Barakel, il Buzita, prese la parola, dicendo: «lo sono ancora giovane in età, l e voi anziani; per questo ho esitato e temuto l di illustrarvi il mio sapere; 7mi dicevo: "Parlerà l'età, l gli anni numerosi insegneranno la sapienza". 8 ln realtà, nell'uomo c'è uno spirito, l il soffio di Shadday, che rende intelligenti, 9non sono i molti anni che rendono sapienti, l né i vecchi sanno giudicare. 10Perciò dico: "Ascoltami, l e illustrerò anche io il mio sapere". 11 Ecco, contavo sulle vostre parole, l porgevo l'orecchio alle vostre ragioni, l finché cercavate argomenti; 12per quanto vi intendessi, l ecco nessuno tra voi poteva ribattere a Giobbe, l rispondendo alle sue argomentazioni. 13Non dite dunque: "Noi abbiamo trovato la sapienza, l Dio solo lo può confutare, non un uomo".
6Allora
noscritti ebraici, la Settanta (&.Km\ooctÉ !J.Ou) e la Vulgata (audite me) presuppongono, più correttamente nel contesto, ,';!-,.!)~~ «Ascoltatemi», in quanto Elihu si rivofge ai tre amici di Giobbe (così anche la versione CEI). Il singolare può essere comunque mantenuto, intendendo che Elihu si
rivolge a ognuno dei presenti più anziani. 32,13 Lo può confutare (1Z~t'l')- Alla lettera: «lo disperderà». Un manoscritto ebraico ha m:l,il' «lo bandirà», un altro 1ZEI,,, «lo inse~i~IÌ>~; il senso dei verbi appar~ si;nile, esprimendo con sfumature diverse la contrapposizione tra Dio e Giobbe.
esperienza di vita; i giovani erano tenuti a mostrare rispetto e riverenza nei loro confronti, ascoltandone i consigli e gli insegnamenti. Elihu, però, critica in modo abbastanza esplicito il valore dell'esperienza legata all'età, contrapponendovi una sapienza di tipo carismatico, ispirata direttamente da Dio. L'accostamento dei due termini «spirito» (rfiab) e «soffio» (rt.Mma), che Shadday ha posto nell'uomo, rimanda chiaramente al racconto della creazione di Gen 2; il Dio creatore è anche colui che dona all'uomo la sapienza e l'intelligenza (t'bina), che non sono, quindi, legate all'età o all'esperienza acquisita nel corso degli anni (v. 9). A partire da questa intima convinzione, Elihu non teme di invitare i tre uomini più anziani ad ascoltare ciò che anche lui, pur giovane, ha da dire. Insufficienza degli argomenti degli amici (32, 11-14). Elihu continua a rivolgersi agli amici di Giobbe; dalle sue parole, lascia intendere di essere stato presente al dibattito, ascoltando con attenzione le loro argomentazioni e i tentativi di trovare risposte alle posizioni sostenute da Giobbe (v. 11 ). Tuttavia, conclude che nessuno di loro è stato capace di criticare l'amico e di smascherare l'insensatezza dei suoi discorsi, nonostante la loro esperienza e la presunta saggezza dovuta all'età. A questo punto, Elihu riporta una citazione delle parole degli amici, che può essere interpretata in modi diversi (v. 13): noi crediamo si tratti di una critica rivolta agli
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stessi amici e alla loro presunzione di aver parlato con una sapienza che soltanto Dio potrebbe confutare, e non un uomo qual è Giobbe. Altri autori invece spezzano la frase, ritenendo la prima parte un'affermazione della soddisfazione degli amici per avere incontrato la sapienza, lasciando però, come esprime la seconda parte, a Dio il compito di confutare l'irremovibile Giobbe. Altri, infine, interpretano la «sapienza>> trovata dagli amici come quella di Giobbe, di fronte alla quale essi sono a corto di argomenti, lasciando di conseguenza a Dio il compito di confutarla; l'affermazione rifletterebbe l'opinione di quei circoli sapienziali che ritenevano il libro di Giobbe come intoccabile, opinione non condivisa da Elihu. Queste ultime ci sembrano però interpretazioni meno probabili, in quanto gli amici hanno sempre sostenuto l'infondatezza delle posizioni di Giobbe, pretendendo di confutarle con i loro ragionamenti. Nel versetto conclusivo del brano, Elihu ribadisce quindi la propria presa di distanza dagli amici, rappresentanti della sapienza tradizionale, preannunciando l'intenzione di replicare a Giobbe con altre argomentazioni. Ddovere dì una replica ispirata da Dio (32, 15-22). Elihu parla degli amici di Giobbe passando alla terza persona; Ii dipinge, in modo ridondante, mentre tacciono, sconcertati, non sapendo più cosa rispondere (vv. 15-16). Alloro silenzio, subentrano le parole di Elihu; si sente forzato, quasi costretto a parlare, da uno spirito che preme dentro di lui; torna così, dopo l'esperienza onirica di Elifaz descritta in 4,12-16, l'idea dell 'ispirazione (cfr. v. 8), che sta alla base della pretesa di Elihu di portare un contributo nuovo al dibattito, non più fondato sull'esperienza degli anziani, ma proveniente da Dio stesso. La descrizione che Elihu offre di questo impulso a parlare ne svela la presunzione; le immagini del vino che ribolle e degli otri che scoppiano manifestano l'urgenza di tale slancio, che Elihu non riesce a trattenere, richiamando l'esperienza analoga del profeta
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GIOBBE33,2
Non ha rivolto a me discorsi, l né gli risponderò con i vostri argomenti. Sono sconcertati, non rispondono più, l cessano i loro discorsi, 16aspetterò ancora, giacché non parlano, l stanno lì e non rispondono più? 17Replicherò anche io per la mia parte, l anche io illustrerò il mio sapere, 18poiché sono pieno di discorsi, l mi preme lo spirito nel mio intimo: 19ecco, il mio intimo è come un vino che non ha sfogo, l come otri nuovi si squarcia, 2Dvoglio parlare, mi sarà di sollievo, l aprirò le mie labbra e risponderò. 21 Non prenderò partito per nessuno l e non adulerò nessuno, 22 poiché non so adulare; l altrimenti, in breve mi annienterebbe il mio creatore. 1Ascolta dunque, Giobbe, i miei discorsi, l e porgi l'orecchio a tutte le mie parole. 2Ecco, apro la mia bocca, l parla la mia lingua entro il mio palato, 14
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Geremia nei riguardi del messaggio affidatogli (Ger 20,9). Proseguendo con un tono altezzoso e appesantito dalle ripetizioni, Elihu annuncia la propria risposta; nessuno lo ha interrogato, ma nei circoli della sapienza che egli rappresenta il libro di Giobbe appariva, evidentemente, come una provocazione alla quale era necessario dare una risposta teologica Elihu tesse le lodi della propria imparzialità e sincerità, preparandosi a esporre le sue argomentazioni senza timori reverenziali; a testimonianza di ciò, pronuncia un giuramento imprecatorio, appellandosi a Dio - il creatore, colui che dà la vita e può riprenderla- quale garante della propria promessa (v. 22). 33,1-30 Primo discorso di Elihu Elihu, terminato il confronto introduttivo con i tre amici ormai ridotti al silenzio, si rivolge direttamente a Giobbe. Il discorso si apre con un duplice invito, ad ascoltarlo e discutere con lui (33, 1-7); Elihu, quindi, cita alcune parole di Giobbe (33,8-11), offrendo poi una sua risposta, seguita da due argomentazioni critiche (33,12-18 e 33,19-28) e una conclusione (33,29-30). A livello formale, il discorso si presenta come una disputa sapienziale, anche se non ha un carattere dialogico, in quanto a Giobbe non viene consentito di replicare. Per quanto riguarda i contenuti, oltre a riprendere temi già presentati nei precedenti discorsi degli amici, Elihu sviluppa in modo esteso l'argomento della pedagogia di Dio, il quale corregge e ammonisce l'uomo mediante la prova della sofferenza. Invito a Giobbe (33, 1-7). Tra i personaggi che intervengono nel dramma, Elihu è il solo che si rivolge a Giobbe chiamandolo per nome; ciò non corrisponde, però, come vedremo, a una maggiore comprensione e vicinanza empatica. Il primo invito a Giobbe ad «ascoltare» è formulato attraverso un ridondante elenco di termini attinenti all'atto del parlare: «discorsi», «parole», «detti», «bocca», «lingua», «palatm>, «labbra», tutti
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33,31 miei detti esprimono la rettitudine del mio cuore ('1ft~ '!;l~-if#')- Alla lettera: «la rettitudine del mio cuore i miei detti». Pur nella formulazione faticosa, il senso della frase appare abbastanza chiaro; abbiamo aggiunto il verbo «esprimono» per rendere il testo più comprensibile. 33,6 Davanti a Dio (~~~) - In alternativa,
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il ~ può essere interpretato come di origine, intendendo «(opera) di Dio»: cfr. la Vulgata confecit Deus «fece Dio». 33,7 La mia pressione ('El:ll't1)- Il termine è oscuro, ma il senso s~mbra confermato da siriaco, aramaico, arabo ed ebraico rabbinico. La Settanta ha 1Ì XE(p f.LOU «la mia mano» (forse leggendo l'ebraico, '~:;?1 «e il
esprimenti la «rettitudine del cuore» di Elihu, ovvero la sua presunta obiettività in ciò che indirizza all'orecchio di Giobbe (vv. 1-3). Lo stile ampolloso caratterizza il modo di esprimersi di Elihu il quale, pur criticando i molti discorsi pronunciati dagli amici in precedenza, ne riprende la forma prolissa, affidandosi alle sue doti oratorie. Nella seconda parte dell'invito, egli inizia con un riferimento all'atto creativo di Dio, riprendendo il binomio «spirito» (rfiab) e «soffio» (rfsama), che stabilisce una corrispondenza tra la scintilla vitale che anima Elihu e la sua pretesa di parlare in modo ispirato (cfr. 32,8). Quindi, rivolgendosi nuovamente a Giobbe, lo chiama a dibattere con lui, mediante espressioni che rimandano all'ambito processuale. Per tranquillizzare Giobbe, affinché non abbia timore davanti alla sua autorità, Elihu si pone in posizione di parità, richiamando la condizione di uguaglianza che scaturisce dalla comune creaturalità (v. 6). Di fatto, questa uguaglianza è soltanto apparente, perché Elihu considera Giobbe a partire dall'intima convinzione di conoscere la verità e di poter rispondere ai suoi dubbi, ma senza la disponibilità a immedesimarsi nella sua situazione per comprendere la profondità del suo dolore. Elihu cita Giobbe (33,8-11 ). Elihu lascia intendere di essere stato presente alla
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GIOBBE 33,12
i miei detti (esprimono) la rettitudine del mio cuore l e le mie labbra pronunciano discorsi veri. 4Lo spirito di Dio mi ha fatto, l il soffio di Shadday mi ha dato vita. 5 Se puoi, rispondimi; l preparati, presentati al mio cospetto! 6Ecco, io sono come te davanti a Dio, l dal fango sono stato tratto anche io; 7 il timore nei miei confronti non ti atterrirà, l la mia pressione non graverà su di te. 8Certo, hai detto ai miei orecchi, l e odo ancora il suono dei ·tuoi, discorsi: 9"Puro sono io, senza trasgressione; l sono immacolato, non ho colpa! 10Eppure lui trova opposizioni contro di me, l mi considera come suo nemico; 11 pone i miei piedi in ceppi, l spia tutti i miei sentieri". 12 Ebbene, in questo non hai ragione, ti rispondo, l perché Dio è più grande dell'uomo. 3
mio palmo»): cosi la versione CEI, mentre altre versioni moderne esplicitano l'immagine della «mano», rendendo con «la mia autorità)). 33,8 Dei tuoi discorsi- Il testo ebraico ha l'~~ «parole)>, «discorsi»; con la Settanta (pru.uhwv oou) e la Vulgata (verborum tuorum), presupponiamo la forma con suffisso
pronominale ;·7,~. più coerente con il contesto (cosi anche la versione CEI). 33,10 Opposizioni (ni~ot~Jl'1)- Con la Peshitta, la versione CEI traduce oon il più pertinente «pretesti», con ogni probabilità leggendo l'ebraico niJ~in. Ma il Testo Masoretico può essere mantenuto, intendendolo nel senso di «motivi di opposizione».
lunga discussione con gli ~miei, affermando di avere ascoltato le parole di Giobbe (v. 9). Ne cita, quindi, pur non alla lettera, alcune, che rispecchiano il nucleo del pensiero espresso da Giobbe nei precedenti discorsi: l'affermazione della propria innocenza, la mancanza di una colpa o peccato che rendano ragione della sua sofferenza, l'incomprensibilità dell'atteggiamento di Dio, che lo considera un nemico, opprimendolo con una sorveglianza asfissiante (per le possibili frasi a cui Elihu fa riferimento, cfr. 7, 17-19; 9,20-21.29; 10,6-7; 13,24-27; I 6,7; 19,6-11; 23, 10; 27,5-6). Replica di Elihu e prima argomentazione (33, I 2- I 8). La replica di Elihu alle posizioni di Giobbe richiamate nella citazione precedente è perentoria: Giobbe ha torto, perché «Dio è più grande dell'uomO>). Elihu rimanda, quindi, alla grandezza di Dio per far tacere i dubbi di Giobbe il quale, creatura piccola e limitata, non può pretendere di contestarlo. In realtà, anche Giobbe aveva riconosciuto la grandezza di Dio ed espresso chiaramente la consapevolezza del proprio limite (p. es., in 5,9-16; 9,1-13; 12,13-25); Elihu dimostra, perciò, di mancare completamente il cuore dell'argomentazione di Giobbe, il quale mai mette in dubbio la superiorità di Dio sull'uomo, ma non riesce a conciliarla con l'ingiustizia di cui si sente vittima
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GIOBBE 33,13
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:~~1 N? ,.,~io~.P [~~~1 1,~~~] ll~tp1 "~1~ ij~=ll ?~; 21 33,13 Delle sue parole (,'1~"\) - Cosi la versione CE!. La Vulgata riferisce invece la risposta di Dio al discorso pronunciato da Giobbe: non ad omnia verba responderit tibi «non ti avrà risposto a tutte le parole». In modo simile la Settanta, citando le parole di Giobbe, 1lLà. t( tf)ç &LK11ç i.J.OU ouK emxK~Koev rriiv pf)i.J.tx «perché non ha ascoltato ogni parola del mio processo?». La correzione non ci appare necessaria, essendo il Testo Masoretico sufficientemente chiaro e coerente nell'esprimere l'inoppugnabilità dei giudizi di Dio. 33,14 Gli si presta attenzione (:"'r1~l!i~)- Desumiamo il significato dalla radicale ,,l!i II «badare>>, «fare attenzione», «osservare»; altri attribuiscono al verbo il senso di «ripetere», considerando Dio come soggetto: cosi la Vulgata con et secundo idipsum non repe-
ti t «e due volte non ripete la stessa cosa». 33,16 E vi sigilla l'ammonizione a loro rivolta (chr;t~ C19b~~)- La fonnulazione del testo non è chiara; alla lettera: «e con la loro ammonizione sigilla». La Vulgata rende con et erudiens eos instruit disciplina «e istruendo li corregge con la disciplina». La Settanta presuppone un testo alquanto diverso:
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«con apparizioni cosi paurose (ebraico, C'l;tl~ «apparizioni» o C'l;t1i~ «terrori»?) li spaventa (ebraico, cn.r;t~. dalla radice nnM)»; la versione CEI segue in parte il Testo Masoretico e in parte la Settanta, traducendo «e per la loro correzione li spaventa». Manteniamo il Testo Masoretico, interpretandolo come un modo da parte di Dio di assicurare che la sua ammonizione raggiunga gli uomini. 33,17 Dalla sua opera (:'lip~~)- Con la Vul-
e il cui responsabile gli appare essere Dio stesso. Elihu prosegue il suo intervento con una domanda (v. 13) che suggerisce l'assurdità della pretesa di Giobbe di chiedere risposte a Dio, il quale non deve rendere conto delle proprie parole. Si collega direttamente a questa domanda la tematica delle modalità comunicative di Dio, che Elihu sviluppa nei versetti seguenti. Dio, infatti, parla all'uomo in maniere diverse, che spesso sfuggono a chi non presta la necessaria attenzione: Elihu indica esplicitamente alcune di queste modalità, che appartengono anche alla tradizione biblica, come il sogno e le visioni notturne (delle quali già Elifaz aveva
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GIOBBE 33,21
Perché hai aperto con lui una contesa, l dato che non rende conto di nessuna delle sue parole? 14Dio parla ora in un modo l e ora nell'altro, ma non gli si presta attenzione: 15 in sogno, in una visione notturna, l quando il torpore cade sugli uomini, l nel sopore sul giaciglio. 16 Allora dischiude l'orecchio degli uomini, l e vi sigilla l'ammonizione a loro rivolta, 17per distogliere l 'uomo ·dalla, sua opera l e preservarlo dali' orgoglio, 18per impedirgli di cadere nella fossa l e alla sua vita di passare il canale. 19Sarà castigato anche con il dolore nel suo giaciglio, l e con l'incessante tortura delle sue ossa, 20avrà nausea la sua vita del cibo l e la sua gola di vivande appetitose; 21 la sua carne si consuma a guardarla, l e le sue ossa, che prima non si vedevano, spuntano fuori; 13
gata (ab his, quae facit «da quello che fa») presupponiamo l'ebraico ~i!W~~~ o i!WW~~ «dall'opera (sua)», con successiva caduta del ~ iniziale per aplografia; cosi anche la versione CEI («dal suo operato»), mentre altri autori esplicitano il senso negativo dell'espressione, rendendo con «dalle sue cattive azioni». La Settanta, invece, ha ~t; &cStdaç «dall'ingiustizia» (forse leggendo l'ebraico i!':l,v~. ma la correzione non ci sembra nec~s~-arla, in quanto il contesto già indica il carattere negativo dell' «opera>) umana). Preservar/o {i!9:;l;)- Il verbo ha come significato base quello di «coprire»; nel contesto, l'espressione letterale «coprire dall'uomo l'orgoglio» sembra essere equivalente a «preservare l'uomo dall'orgoglio»; in modo simile infatti hanno inteso la Vulgata con et /iberet eum de superbia «e lo liberi dalla
superbia>) e la Settanta con tò c5È awj.La autou &rrò TTtW!J.CXtoç ~ppuaato «e ne salva il corpo dalla sciagura»; alcuni autori moderni correggono- a nostro parere, senza necessitàil verbo, leggendo la radicale MO:l al qal o al pie! con significato «troncare», «porre fine». 33,18 Il canale (M~lf'~)- Inteso come il «fossato degli inferi», che conduce alla morte; cosi anche la versione CEI con «il canale infernale». Un'altra possibile traduzione del termine è «lancia», «freccia», a indicare una morte violenta: cosi intendono la Vulgata con in gladium «di spada>) e, con ogni probabilità, la Settanta con ~v TToÀÉj.L~ «in guerra>). 33,21 Spuntano jùori (~El~1) - Seguiamo la forma verbale pual del qerè, anziché il poco comprensibile sostantivo del ketìb 'F;ll!i~ («monte brullo»?). ·
parlato, cfr. 4, 12-16). La parola di Dio penetra nella coscienza umana anche attraverso questi canali misteriosi, per portare ali 'uomo la salvezza, tenendo lo lontano dall'orgoglio- radice di ogni peccato- e preservandolo dalla morte (vv. 16-18). Seconda argomentazione di Elihu (33, 19-28). Per Elihu, c'è un'altra modalità mediante la quale Dio comunica ali 'uomo i suoi avvertimenti e lo esorta a prendere coscienza dei propri errori: la malattia. Nei vv. 19-21 vengono descritti, in maniera generica, i sintomi a essa legati (il dolore, l'immobilità, la nausea, la consunzione). La malattia conduce progressivamente alla morte, evocata attraverso l'immagine
GIOBBE 33,22
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33,22 Agli sterminatori (c·~~~~) - L'espressione è inusuale e risente forse di un substrato mitico accadico o cananeo. La Settanta rende con il più generico Év ~OlJ «negli inferi»; tra le proposte di emendazione avanzate dagli esegeti, troviamo C'r:'i~ i~7 «ai morti», C'r:'lb~ o n!~ i~~ «alla morte», C'r:'i~ cip~~ «al luogo dei morti», ;~-n!~ ·~7 «alle acque della morte». Manteniamo il senso, comunque chiaro, del Testo Masoretico. 33,24 Risparmia/o (,il~l~)- Il significato
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del verbo, che compare soltanto qui, è incerto; lo desumiamo dalla Vulgata (libera eum «liberalm>) e dalla Peshitta, che forse lo assimilano a quello della radice i!,EI «riscattare» (cfr. anche la versione CEI con «scampalo» ). LaBib/ia Hebraica Stuttgartensia, seguendo due manoscritti ebraici, suggerisce la lettura ,i!ll11l «liberalm>. 33;25 Diventerà ... florida (~tlt,?"l)- Il significato del verbo è incerto; sulla base della radice WEI~ e dei paralleli accadici, frequentemente è stato proposto di leggere tli~tp' con
della «fossa» e le misteriose figure degli «sterminatori»; secondo alcuni studiosi si tratta semplicemente di una personificazione dei dolori associati alla malattia, ma con ogni probabilità l'espressione indica degli esseri celesti, inviati da Dio, come intermediari del suo potere sulla vita e sulla morte (meno plausibile è l'ipotesi che si tratti, come si supporrà nel tardo giudaismo, di esseri malvagi associati al satan). La malattia, quindi, è per Elihu un segno del castigo di Dio, ma allo stesso tempo ha un valore pedagogico, in quanto ammonimento ed esortazione a ritornare a Lui, allontanandosi dalle vie del male; la dimensione educativa del dolore e della sofferenza è sicuramente l'elemento più originale introdotto dal discorso di Elihu. Un altro elemento di originalità è rappresentato dalla figura del «mediatore» del v. 23; la maggioranza dei commentatori pensa a un angelo, sebbene sia stata proposta anche l'identificazione con un sacerdote. Pure Giobbe, nei suoi discorsi, aveva più volte evocato la presenza di un ,mediatore, che facesse da arbitro tra lui e Dio (9,33; 16,19-21 ). Ora, questo intercessore, presentato da Elihu, ha un triplice compito: spiegare all'uomo «il suo dovere», ovvero ciò che è giusto, il vero senso del dolore, come castigo e correzione; mostrargli il suo «favore»,
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GIOBBE 33,27
sua esistenza si awicina alla fossa l e la sua vita agli sterminatori. c'è sopra di lui un angelo, l un mediatore tra mille, l che annunci all'uomo il suo dovere, 24 gli mostri favore e dica: l "Risparmiato dallo scendere nella fossa, l ho trovato un riscatto!", 25 allora la sua carne diventerà più florida, che in gioventù, l tornerà ai giorni della sua adolescenza; 26 implorerà Dio che lo gradirà, l acclamando contemplerà il suo volto; l ed egli renderà all'uomo la sua salvezza, 27 scruterà sugli uomini e se uno dice: l "Ho peccato e ho pervertito la giustizia, l eppure non sono stato trattato per ciò che meritavo",
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senso «essere pingue» (cfr. anche la versione CEI con «sarà florida»). In modo simile intende la Settanta con &mxì..uvE'i: «renderà morbide», mentre la Vulgata traduce, con senso opposto, consumpta est a suppliciìs «è consunta dai supplizi». Altri autori correggono diversamente il verbo, leggendo ::lep1' «sarà rigoglioso». 33,26 Contemplerà (N!~J)- La versione CEI considera il verbo corrie una forma hifil con Dio come soggetto, traducendo «gli mostrerà»; crediamo però che il soggetto sia,
in continuità con la prima parte del versetto, l'uomo che si rivolge a Dio implorandolo. E renderà (:J.W~J)- Alcune versioni moderne presuppongono l'ebraico ;~~1 «e canterà», considerando come soggetto l'orante, anziché Dio. 33,27 Scruterà (iiD') - Consideriamo Dio come soggetto del v~rbo; altri commentatori lo identificano, invece, con Giobbe, talora ipotizzando una lettura if.!t~ «canterà», oppure iW~ «divulgherà»; la Vulgata traduce con respiciet «si rivolgerà».
la sua vicinanza fatta di compassione; infine, presentare a Dio il «riscatto» per l'uomo, salvandolo dalla morte. Il termine koper «riscatto» appartiene all'ambito giuridico e commerciale, indica il prezzo da pagare per la liberazione di uno schiavo; mentre Sal49,8-9 nega che qualcuno possa offrire a Dio il riscatto per la propria vita, questa possibilità sembra concessa qui all'angelo mediatore. L'effetto dell'intervento del mediatore sulla vita dell'uomo viene descritto al v. 25, in termini di un ritorno alla giovinezza, con la freschezza e il vigore che la caratterizzano. Seguono alcuni versetti che si ispirano alle cerimonie di ringraziamento per la guarigione ottenuta, che avvenivano visitando il tempio, per contemplare il volto di Dio, ovvero la sua presenza salvifica, e lodarlo con inni e salmi (v. 26). Nella parte finale del discorso viene portato alla luce il pensiero soggiacente a tutta la scena: ancora una volta, nonostante i propositi di novità dell'intervento di Elihu, ci troviamo di fronte alla riproposizione del meccanismo retributivo, declinato secondo la successione di peccato, malattia (come castigo per il peccato), conversione (con la confessione del proprio peccato), perdono, guarigione e gioia. L'uomo pentito e perdonato, salvato dal pericolo della morte, torna a contemplare
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Eppure non sono stato trattato per ciò che meritavo ('7 i!~~~1)- Alla lettera: «ma non c'era uguaglianza per me». Il significato dell'espressione non è del tutto chiaro, ma sembra riferirsi alla mancata conispondenza tra l'agire dell'uomo e il modo in cui Dio lo ripaga; così,
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infatti, hanno inteso la Settanta, con KCÙ oÙ< /içLcx ~nwÉv fLE \lJ.aptov «ma non mi ha punito per quanto ho peccato» e la Vulgata con et, ut eram dignus, non recepi «ma non ricevetti secondo quanto meritavo»; in modo simile anche la versione CEI, che traduce «ma
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la luce, fonte di vita e di felicità (v. 28). Se questa è la prospettiva che Elihu presenta a Giobbe, non può che essere destinata al fallimento: ciò che Giobbe non può fare è proprio confessare il suo peccato (v. 27), riconoscendo davanti agli uomini e a Dio trasgressioni che non ha commesso. La coscienza della propria rettitudine rimane un ostacolo insormontabile per la dottrina retributiva e le parole di Elihu mancano, ancora una volta, il cuore del problema. Conclusione del primo discorso (33,29-30). A conclusione del suo intervento, Elihu ribadisce la strategia utilizzata da Dio nei confronti de li 'uomo, per salvarlo dalla morte e restituirlo alla pienezza della vita, simboleggiata dalla luce; l'inciso «due, tre volte» specifica la ripetizione paziente di tale strategia, confermandone la funzione pedagogica e correttiva. Come si è detto, si tratta però di una correzione che non trova applicazione nel caso dell'innocente Giobbe; con ciò, è sancita l'inutilità delle parole di Elihu. 33,31-33 Introduzione al terzo discorso di Elihu I vv. 31-33, come già anticipato, sono con ogni probabilità mal collocati; con diversi commentatori, li consideriamo come un'introduzione al terzo discorso di Elihu (collegandoli, quindi, al c. 35). Elihu apre la conversazione invitando ancora Giobbe ali' ascolto attento e silenzioso; pur dando l'impressione di cercare il dialogo, lasciando a Giobbe la possibilità di replicare, per presentare le sue
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la sua esistenza dalla fossa l e la sua vita vedrà la luce. Ecco, tutto questo fa Dio, l due, tre volte, con l 'uomo, 30 per sottrarre la sua vita dalla fossa, l affinché sia illuminato con la luce dei viventi. 31 Fa' attenzione, Giobbe, ascoltami; l fa' silenzio, e io parlerò; 32 se hai argomenti, rispondimi, l parla, perché vorrei darti ragione, 33 altrimenti, ascoltami l e sta' in silenzio, e io ti insegnerò la sapienza». 1Poi Elihu riprese, dicendo: 2«Ascoltate, o sapienti, i miei discorsi l e voi, dotti, porgetemi l'orecchio!
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egli non mi ha ripagato per quel che meritavo». 33,28 La sua esistenza ... e la sua vita (in~!J1 ... i!Zi~~)- Con la Vulgata (animam suam ... sed vivens «l'anima sua ... ma vivente))), seguiamo il qerè, considerando già conclusa la citazione della confessione umana.
Invece, seguendo la Settanta (ljlux~v fLOU ••• (w~ fLOU «l'anima mia ... e la vita mia))), la versione CEI legge secondo il ketìb il suffisso di prima persona 't:l~!Jl ... '1\i~~. considerando il discorso come una prosecuzione del versetto precedente.
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ragioni e discolparsi (v. 32), di fatto lo costringe a tacere, presentandosi - con supponenza- come il dispensatore di una sapienza superiore alla sua, alla quale Giobbe non può controbattere. 34,1-37 Secondo discorso di Elihu La struttura del secondo discorso di Elihu ricalca a grandi linee quella del primo: dopo un'introduzione, nella quale vengono citate alcune parole di Giobbe, critiche nei confronti del comportamento ingiusto di Dio (34,1-9), Elihu espone la sua replica, articolata in tre momenti: Dio rifiuta il male e retribuisce gli uomini con giustizia (34,10-15), è un giudice imparziale, che tutto conosce e non fa preferenze (34,16-30), perciò l'atteggiamento di Giobbe è insensato e viene qualificato come ribellione (34,31-37). La forma è ancora quella di una disputa tra sapienti; Elihu espone le sue idee, che rispecchiano la dottrina tradizionale della retribuzione, rimanendo però su un piano teorico, non cogliendo la reale situazione di Giobbe e il senso dell'accusa che egli muove nei confronti di Dio. Invito ai saggi e citazione delle parole di Giobbe (34, 1-9). Elihu apre il suo discorso rivolgendosi ai «sapienti»; ciò conferma la necessità di considerare fuori posto i versetti conclusivi del capitolo 33 (33,31-33), in cui Elihu si apprestava a discutere con Giobbe. I «sapienti» sono certamente gli amici di Giobbe, ma anche gli appartenenti ai circoli della sapienza ufficiale, che Elihu invita a prendere po-
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> (cfr., con questo significato, la radice ugaritica /:ldy e simili forme dei dialetti cananei). 34,31 Ho sopportato ('!}l't~~)- Alcuni au-
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tradizionale insegnamento biblico (Es 3,7; Sal 9,13; 34,18)- non rimangono inascoltati. A conclusione dell'argomentazione, Elihu ammette che, talvolta, Dio possa apparire impassibile o assente e non intervenire nella storia prontamente a ristabilire la giustizia (cfr., su questo tema, anche Sal l O, l; 44,25; 88,15; 104,29; Gb 13,24; 23,9; ls 8,17; 45,15); tuttavia, questa è soltanto un'impressione, che deriva dalla limitatezza delle capacità umane, insufficienti a leggere in maniera obiettiva e su un orizzonte più vasto le vicende del mondo. I ritardi di Dio sono, semmai, un segno della sua pazienza e, anche se molti episodi concreti potrebbero smentirlo, Elihu insiste nell'affermare come principio generale l'assoluta equità del suo giudizio: Egli, infatti, continua a vigilare sui popoli e sui singoli individui, affinché chi esercita il potere lo faccia senza commettere iniquità e il popolo sia guidato rettamente, preservato dal pericolo di inciampare (vv. 29-30). Giobbe accusato di ribellione (34,31-37). Nella parte finale del discorso, Elihu trae alcune conclusioni a partire dalle argomentazioni esposte, volendo le applicare al caso concreto di Giobbe. Si tratta, tuttavia, di versetti molto oscuri, per cui anche la traduzione e l'interpretazione sono, in molti casi, ipotetiche. Un primo aspetto problematico è il soggetto dei vv. 31 -32; alcuni commentatori, collegandosi a quanto precede, considerano tali parole come pronunciate dali' empio, che rivolgerebbe a Dio la propria confessione, riconoscendo il proprio errore e la
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perché si sono allontanati da lui l e di tutte le sue vie non si sono curati, fino a far giungere a lui il grido del debole; l ed egli udì l'urlo dei miseri. 29Ma se egli è impassibile, chi può condannarlo? l E se nasconde il suo volto, chi può vederlo? l Così sia per la gente e per il singolo, 30che non regni l 'uomo iniquo, l che non si pongano esche per il popolo. 31 Si può forse dire a Dio: l "Ho sopportato, pur senza avere agito male. 32 Istruiscimi oltre ciò che vedo; l se ho commesso ingiustizia, non continuerò"? 33 Forse secondo la tua norma dovrebbe ripagare? l Dato che sei tu che respingi e scegli, e non io, l di' quanto sai! 34 Gi uomini assennati mi diranno, l come il sapiente che mi ascolta: 27
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tori correggono in '!}l't~~ «ho sbagliato»; possiamo conservare il Testo Masoretico, il cui senso è chiaro se consideriamo sottinteso «colpa» o «Castigo». Avere agito male (~~r:'!~)- Secondo i dizionari esistono almeno quattro radicali omofone ~:!M con diversi significati; oltre a quello di «agire male», che ci pare il più appropria-
to, troviamo anche «prendere in pegno», che è quanto ha inteso la Settanta (ÈvExup&aw). 34,33 Respingi (J;I~tt~) - La versione CEI aggiunge, in base al senso, «il suo giudizio», legando l'espressione a quanto precede; non ci sembra necessario e preferiamo leggere il verbo in coppia polare con il seguente i!J:;l!} «scegli». ·
giustizia della pena subita («Dirà a Dio: "Porto la pena, non sarò più stolto ... "»); altri ritengono che il locutore sia Dio, il quale ironicamente si rivolgerebbe a Giobbe, scusandosi per il proprio errore di valutazione sulla sua condotta («Dovrà dirti Dio: "Mi sono ingannato, non sarò più sciocco ... ">>); a nostro parere, è più probabile che si tratti di parole che Elihu mette sulla bocca di Giobbe («Dirai a Dio: "Ho sopportato, pur senza avere agito male? ..."»), per contestarle: la pretesa di Giobbe di essere senza colpa e il senso di ingiustizia per la punizione a cui si sente sottoposto nascono, per Elihu, da un insensato atteggiamento di ribellione. In alternativa, potremmo considerarle come un'esortazione, che Elihu rivolge a Giobbe, a riconoscere il proprio errore, con la disponibilità ad accogliere la correzione divina («Di' a Dio: "Mi sono ingannato, non farò più il male ... "»). Seguendo questa linea interpretativa, la domanda retorica del v. 33a suona come una sfida che Elihu lancia a Giobbe, accusandolo di voler piegare il criterio di giudizio di Dio ai propri schemi, con la presunzione di avere ragione. La prosecuzione del versetto conserva un tono ironico e di sfida: Elihu, affennando che Giobbe ha il dono del discernimento («sei tu che respingi e scegli»), lo invita a parlare, per esporre la sua idea di giustizia (salvo, poi, non concedergli la parola per replicare). Al v. 34, Elihu torna a rivolgersi agli «uomini assennati», ovvero a tutti i sapienti e gli ascoltatori provocati dall'opera di Giobbe. Il giudizio sulle
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GIOBBE 34,35
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:;rt#Q ~;:9~ D"i?t:~\P' ,~'P1 i1~ì~ o;9~ '-'#iJ 5 34,36 Ebbene (':;lt;t)- Interpretiamo il termine come interiezione ottati va; la Vulgata, invece, lo intende come sostantivo, traducendo con il vocativo pater mi «padre mio», significato che però appare fuori contesto. Alcuni commentatori lo considerano come dittografìa di ::li•a:t «Giobbe» e lo omettono, altri propongono correzioni diverse del Testo Masoretico, che ci sembra però accettabile. 34,37 Si burla di noi (,l'J.'~ .Il~)- Cosi inten-
diamo il verbo che, alla lettera, significa «batterà le mani»; in modo simile, la versione CEI rende l'espressione con «getta scherno su di noi». 35,2 La mia giustizia supera quella di Dio (L;!~~ 'i?\:,1)- La frase è interpretata e tradotta in maniere diverse. La Settanta ha llLKaLC5ç Eifl.L ~vavn Kup(ou «sono giusto davanti al Signore», la Vulgata iustior sum Deo «sono più giusto di Dio». Seguendo il Testo Masoretico, manteniamo come soggetto il sostantivo astratto 'i?\:,1 «la mia
posizioni di Giobbe, espresso dal punto di vista della sapienza tradizionale, è negativo: egli è accusato di insipienza e di stoltezza, e le sue affermazioni devono essere esaminate accuratamente, per smascherame la falsità e l'arroganza e ribadire la bontà della dottrina rappresentata dai suoi amici. Le parole di Giobbe perciò lo accomunano ai malvagi e sono conseguenza del suo peccato e della sua ribellione all'ordine voluto da Dio, oltre a voler screditare certezze teologiche ormai assodate (vv. 36-37). 35,1-16 Terzo discorso di Elihu Dopo l'introduzione costituita da 33,31-33, prosegue il terzo discorso di Elihu; è il più breve della serie e, tematicamente, si collega al precedente, in quanto contiene la replica all'affermazione di Giobbe- rimasta senza risposta- circa l'inutilità della religione. Dal punto di vista strutturale, dopo una breve citazione di alcune parole di Giobbe (35,2-4), Elihu tesse l'elogio della sublimità di Dio, al quale il peccato umano non può togliere niente (35,5-8), per concludere con una riflessione sulla preghiera non esaudita (3 5,9-16). L 'accusa a Dio di indifferenza (35,1-4). Elihu avvia il suo intervento citando, ancora una volta, alcune espressioni tratte dai discorsi di Giobbe (p. es., 7,20; 9,15; 33,9; 34,5.9); nella prima, Giobbe dichiara di avere ragione davanti a
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GIOBBE35,5
parla senza sapere l e le sue parole sono prive di saggezza. Ebbene, sia esaminato Giobbe fino in fondo, l per le sue risposte da uomo iniquo, 37 poiché egli aggiunge la trasgressione al suo peccato, l si burla di noi l moltiplica i suoi detti contro Dio"». 1E proseguì Elihu, dicendo: 2«Forse ti consideri in diritto l di dire: "La mia giùstizia supera quella di Dio?". 3Poiché affermi: "Cosa ti giova? l Che utilità mi viene dal mio essere senza peccato?", 4risponderò a te con discorsi, l e ai tuoi amici insieme con te. 5Volgi lo sguardo ai cieli e guarda, l e scruta le nubi, come sono più alte di te.
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giustizia». La preposizione 1~ può avere valore comparativo o di origine; nella logica dell'argomentazione, il primo sembra da preferirsi, intendendo che la ragione di Giobbe esclude quella di Dio. 35,3 Cosa ti giova (1"-r~~·-i!~)- Intendiamo la frase come riv~lta da Giobbe a Dio; cosi la Vulgata, che completa il senso, traducendo non tibi piacet quod rectum est «non ti piace ciò che è retto». Alcuni commentatori correggono il suffisso, leggendo ·~
«mi giova»; preferiamo conservare il Testo Masoretico, in cui Giobbe, prima ancora di pensare al suo vantaggio (nella seconda parte del versetto), accusa Dio di indifferenza nei confronti delle proprie azioni e della loro moralità. Che utilità mi viene ("'.1,1~-~)- La Vulgata considera ancora Dio come destinatario dell'«utilità»: quid tibi proderit «che gioverà a te»; crediamo, invece, che qui Giobbe si riferisca a se stesso.
Dio, sottintendendo l'argomento del contendere, ovvero la propria rettitudine, assurdamente contraccambiata da Dio con un giudizio oppressivo; nella seconda, riprende il tema del disinteresse di Dio nei confronti dell'agire umano, che implica l'irrilevanza della dimensione religiosa dell'esistenza (cfr. 34,9). Per Giobbe, infatti, il peccato o la giustizia dell'uomo non appaiono come determinanti del modo in cui Dio opera il suo giudizio; queste sue parole ricalcano il pensiero dei malvagi esposto in 21,15, secondo il quale non ha senso pregare o servire un Dio che si dimostra indifferente alle sorti degli uomini. Elihu si dispone, quindi, a replicare a Giobbe e a quanti condividono le sue paradossali affermazioni (v. 4). Elogio della sublime grandezza di Dio (35,5-8). Continuando a rivolgersi a Giobbe, Elihu gli intima di alzare lo sguardo verso il cielo e le nubi (v. 5); si tratta, chiaramente, di elementi cosmici che hanno una valenza simbolica, in quanto alludono alla grandezza di Dio creatore e, al tempo stesso, alla sua trascendenza, ponendolo al di fuori della sfera di esperienza dell'uomo. Le domande successive di Elihu, infatti, mirano a dimostrare che il comportamento umano, sia quando è ispirato dalla malvagità («se pecchi», «trasgressioni» ), sia quando segue i dettami della «giustizia», non ha alcun effetto- né in negativo, né in positivo-sull' essenza
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GIOBBE 35,6
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manoscritto ebraico ha c•piw~ «mole'statori», con ogni probabilità per il parallelismo con i «potenti» della seconda parte del versetto; cosi (o la forma participiale c•p~ill) sembra avere letto la Vulgata con propter multitudinem calumniatorum «per la moltitudine dei calunniatori», mentre la Set-
tanta ha la forma passiva OUKOcjlttVTOUj.lEVOL, intendendo c·p~w~ come participio passivo e identificando i «calunniati» con il soggetto del verbo seguente: «calunniati da una moltitudine urleranno». A nostro parere non c'è ragione di modificare il testo del codice di Leningrado (L), che in mari iera del tutto plausibile vede nelle «molestie» in senso generale
divina, non potendo apportarle né danno né vantaggio (vv. 6-7; una posizione simile è sostenuta da Elifaz in 22,2-3). Anche Giobbe aveva celebrato l'assoluta trascendenza divina e la sua signoria sul cosmo (p. es., in 9,8-11 ), concludendo però- a partire dali 'incolmabile distanza tra Dio e la creatura umana- che Dio non si interessa delle azioni degli uomini (7 ,20-21 ). Per Elihu, la trascendenza divina non significa indifferenza, bensì costituisce una garanzia di imparzialità: gli effetti dei comportamenti etici degli uomini, infatti, ricadono su chi li compie e sugli altri uomini, rimanendo a un livello intra-umano; Dio può giudicarli rettamente, in quanto non è da essi toccato e la sua valutazione non nasce, perciò, dal vantaggio o dal danno che può derivargliene, bensì ha come unico scopo quello di ristabilire il diritto violato. Le parole di Elihu assumono, sul finale del brano, un carattere forense, in cui è in gioco· soltanto il diritto umano: la visione della morale che emerge dal discorso sembra non riguardare la relazione con Dio, ma appare come una serie di norme astratte che regolano, secondo criteri di razionalità e convenienza, i rapporti tra gli uomini. La preghiera non esaudita (35,9-16). Anche questo brano presenta un testo difficile e variamente interpretato, a partire dal versetto iniziale, che alcuni intendono come un'obiezione di Giobbe a Elihu, riguardante il problema della preghiera non esaudita. Crediamo, piuttosto, che il versetto prosegua l'argomentazione di Elihu, arricchendola di un altro elemento di discussione: la storia degli uomini è spesso segnata dalla violenza e quanti sono oppressi dai potenti non hanno nessuna possibilità di liberazione
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GIOBBE 35,13
Se pecchi, che cosa gli arrechi? l E se le tue trasgressioni sono molte, che cosa gli fai?· 7 Se sei giusto, che cosa gli dai l o che cosa riceve dalla tua mano? 8La tua empietà ricade su un uomo come te, l e per un umano è la tua giustizia. 9Urlano per la moltitudine delle molestie, l implorano aiuto dal braccio dei potenti, 10ma nessuno dice: "Dove è Dio che mi ha fatto, l che dona inni di gioia nella notte, 11 che ci rende più intelligenti delle bestie selvatiche l e più sapienti degli uccelli del cielo?". 12 Allora strillano - ma egli non risponde - l a causa dell'arroganza dei malvagi. 13 Certamente, Dio non ascolta la falsità, l e Shadday non vi bada.
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la motivazione delle urla di chi le subisce. 35,10 Inni di gioia {Mi"l~T)- Traduciamo dalla radicale ebraica "l~T ( c,~iJ "W1~1
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:nìiv·~~ '1~ il~ i? Q 36,27 Alla loro fonte (i,~L,)- La parola ebraica ,~ ricorre solo qui e fu Gen 2,6. Il significato è incerto, la spiegazione più fondata è quella che la collega all'accadico edu, termine che designa le acque sotterranee. È anche possibile che la finale della forma ;,M non sia il suffisso possessivo, ma un adattamento della forma accadica. Il vocabolo indicherebbe, quindi, i bacini o serbatoi in cui, secondo le antiche cosmologie orientali, erano conservate le riserve idriche, da cui scaturivano le piogge e le inondazioni. Alcuni autori, invece, traducono il termine con «il suo vapore». 36,29 Qualcuno - Per maggiore chiarezza, abbiamo reso con il pronome indefinito il soggetto sottinteso della frase ipotetica introdotta dalla congiunzione c~ «se»; seguendo la Peshitta, la versione della CEl presuppone invece il pronome interrogativo·~ «chi». 36,30 Su di essa (,~V)- Alcuni aurori correggo-
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no il tesro, leggendo al posro della preposizione l'antico nome divino 'Aliy, attestaro come tirolo di Baal nei testi ugaritici (La leggenda di Keret), che diventa il sogget1D del verbo iniziale; la congettura non ci sembra necessaria Ricopre (l"i!!l~) - Segnaliamo la proposta di alcuni comÌnentarori, che vocalizzano il tesro leggendo l"iÌ!l~ «(le profondità del mare sono) il suo tronm>, con riferimenro all'immagine del pantheon cananeo, la cui sommità era collocata nel punro di confluenza delle acque sotterranee. 36,31 Governa (T!")- Alla lettera: «dà sentenza>>; ma l'immagmeTdi Dio che governa mediante la pioggia e i fulmini appare strana, per cui diversi autori traducono «sostenta», «alimenta» (così anche la versione CEI), considerando il verbo come una forma dialettale di 1'1" o leggendo l'ebraico Tl~ dalla radicale 11t «nutrire». In quesro modo si ricostruisce anche il parallelismo con la seconda parte del verso. Tuttavia,
divina (v. 24). Questa è oggetto dell'ammirazione degli uomini ma, al tempo stesso, può essere contemplata soltanto «da lontano»; l'espressione rimanda alla realtà trascendente di Dio, che rimane fondamentalmente inaccessibile all'uomo, il quale può limitarsi a riconoscere il suo intervento nella storia e nella creazione. È proprio quest'ultimo l'ambito che l'inno passa in rassegna, anticipando per certi versi la grande teofania dei capitoli 38-41. Il v. 26 costituisce il vero incipit dell'inno; la trascendenza di Dio è declinata nelle due dimensioni spaziale («è immenso») e temporale («il numero dei suoi anni»), entrambe eccedenti le capacità umane di misurazione e di comprensione. La prima delle meraviglie divine cantate nell'inno è la pioggia (vv. 27-33); lo stupore dell'uomo per la formazione delle precipitazioni e le smisurate dimensioni delle nubi fa risaltare la ancor più straordinaria grandezza di Dio il quale, dalla volta celeste,
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GIOBBE 36,33
Ricordati di celebrare la sua opera, l che gli uomini hanno cantato, tutti gli uomini la contemplano, l ogni mortale da lontano volge lo sguardo. 26 Ecco, Dio è immenso, non possiamo conoscerlo, l il numero dei suoi anni è incalcolabile, 27egli attira le gocce d'acqua, l si condensano alla loro fonte per la pioggia, 28 che le nubi riverseranno, l grondando abbondantemente sugli uomini; 29qualcuno può calcolare l'estensione delle nubi, l e i fragori della sua tenda? 30Ecco, egli stende su di essa la sua luce, l e ricopre le profondità del mare. 31 Con essi governa i popoli, l dà cibo in abbondanza. 32 Ricopre le sue mani di folgori, l le dirige contro il bersaglio, 33 il suo tuono lo annuncia, l si raccoglie la sua ira contro ·1 'iniquità'.
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preferiamo mantenere il significato usuale «governare», che anticipale immagini giudiziali del versetto successivo; così anche la Settanta con KptvE'ì. e la Vulgata con iudicat «giudica». 36,32 Ricopre (l'l~!;)) -Alcuni commentatori correggono leggendo 1'1~~. da una radicale 00) affine all'accadico naséisu, dal significato «far tremolare», «far oscillare», che meglio si adatterebbe all'immagine; tuttavia, il senso del Testo Masoretico è accettabile, pur nella sua formulazione singolare, intendendolo come il modo in cui Dio riempie le sue mani dei fulmini da scagliare. Cosi, infatti, hanno inteso la Settanta con ÈKaJ..uljJEv «ha coperto», e la Vulgata con abscondit «ha nascosto». 36,33 Il suo tuono (i.!.il)- La Vulgata ha inteso come amico suo «ai suo amico»; cosi anche la Settanta con >; la versione CEI ha reso con «il suo fragore». Si raccoglie (l'l~\?~)- Alla lettera:. «acquisto» (cfr. la Settanta con Ktflc:nç «propnetà», «guadagnm> ). Il termine si riferisce solitamente al bestiame; intendiamo il sostantivo come indicante un raggruppamento, ispirato all'immagine di una mandria. La versione CEI congettura l'l~j?~ (variante ortografica di N'~P~) «attizza»,' >, «acqua abbondante». 37,12 Secondo i suoi piani (1'n.,,:lf:t!j~) Leggiamo secondo il qerè anzièhé la foima singolare del ketìb ìn7,:ilr;tJ:I~, mai attestata altrove. La Settanta non ha compreso e traslittera semplicemente Èv 9EE~ou>..o:9w. La Vulgata usa una circonlocuzione: quocumque eas voluntas gubernantis duxerit «dovunque le guidi la volontà di colui che le governa».
e alle meraviglie che ne conseguono, l 'uomo tuttavia è incapace di comprendere ciò di cui è spettatore (si veda il medesimo senso di impotenza espresso da Elifaz in 5,9 e da Giobbe in 9,10). L'inno passa poi a considerare gli eventi atmosferici invernali e il loro impatto sugli esseri viventi, uomini e animali, costretti all'inattività e a cercare riparo dal gelo. L'immagine plastica del v. l Odipinge Dio nell'atto di congelare, mediante il suo soffio, la distesa delle acque; il testo prosegue quindi nell'elencazione degli elementi meteorologici, nella loro duplice valenza benefica o apportatrice di distruzione: le nubi, con le folgori che da esse si diffondono, vengono descritte come messaggeri inviati da Dio in tutto l 'universo, obbedienti
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GIOBBE 37,13
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38,24 La luce (,1N) -Cosi la Vulgata con lux, mentre la Settanta ha mixv11 «brina», che presuppone un testo diverso. Ciò che appare strano è il parallelo con il «vento d'oriente» della seconda parte del verso, che può avere indotto il traduttore greco a cambiare il testo; per questo alcuni autori vocalizzano ,~N «afa» o leggono 11~, «vento»; altri ancora ipotizzano un originale 1~ «nebbia» (per il significato del termine si veda, però, la nota a 36,27). Ci sembra che il Testo Masoretico offra un significato accettabile, potendosi
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collegare la luce del sole al calore del vento orientale. 38,27 Germogli (N~b)- Il termine, dalla radicale N~', significa propriamente «ciò che esce» e quindi, in senso traslato, ciò che «spunta>>, «germoglia>>. Alcuni autori preferiscono emendare il testo, proponendo i1~l;l~ «dalla steppa» o N~~~ «dalla (terra) assetata>>, ma non ci sembra necessario. 38,30 Si solidificano (~N~r::tl:l')- Così ha inteso anche la Vulgata con durantur «si induriscono», forse leggendo l'ebraico ~N!pr::tJ;'I'. o con-
ovviamente, Giobbe non può competere con il Creatore, il solo che fosse presente nel momento in cui stabilì il succedersi ordinato del tempo. Per lo stesso motivo, Giobbe rimane all'oscuro dell'origine della neve e della grandine, conservati da Dio in depositi o serbatoi, situati al di sopra della calotta del firmamento, per riversarli sulla terra al momento opportuno. Neve e grandine sono spesso associati a eventi teofanici, ma possono assumere anche una valenza di punizione e giudizio (Es 9,18-26; Gs 10,11; Is 28,17; 30,30). Ugualmente ignoti, per Giobbe, sono l'origine del vento, dei tuoni e delle piogge torrenziali; queste ultime, che sembrano scaturire da un canale appositamente scavato, manifestano la grandiosa liberalità di Dio, che fa piovere anche sulle regioni disabitate, rendendo le feconde e rigogliose, nonostante nessun uomo possa goderne (vv. 26-27). È questo, con ogni probabilità, un primo invito implicito rivolto a Giobbe a rivedere il suo antropo-
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6IOBBE 38,32
sai, poichéalloraerigiànato,l e ilmunerodei tuoi giorni è immenso! mai andato ai serbatoi della neve l e hai mai visto i serbatoi della grandine, 23 che serbo per il tempo della sventura, l per il giorno della guerra e della battaglia? 24Per quali vie si divide la luce, l si diffonde il vento d'oriente sulla terra? 25 Chi traccia un canale per le piogge torrenziali, l e una via per il lampo tonante, 26 per far piovere su una terra disabitata, l su un deserto dove non c'è un uomo, 27 per saziare la desolazione e lo squallore l e far spuntare germogli d'erba? 28 La pioggia ha forse un padre, l o chi genera le gocce di rugiada? 29Dal ventre di chi è uscito il gelo l e chi ha generato la brina del cielo? 3°Come la pietra le acque si solidificano, l e la superficie dell'abisso si rapRrende. 31Puoi tu annodare i 'legami' delle Pleiadi, l o sciogliere i vincoli di Orione? 32 Puoi fare uscire le costellazioni a suo tempo, l e guidare l'Orsa con i suoi figli? 21 Tulo
22 Sei
siderando il verbo ~~~IJJ;1' (che normalmente significa «coprirsi», «nascondersi») come una forma dialettale a quello equivalente. La Settanta invece ha letto l'emistichio legandolo a n&xv11v «brina» del versetto precedente, proseguendo COn~ KCl'tClraLVH Wo11Ep UOWp pÉov «che scende come acqua corrente». 38,31 !legami (niJ"'!P.~) - Il significato del termine è discusso; alcuni lo collegano alla radicale 1111, che indica diverse forme di piacere, interpretandolo come «dolci influenze»; il parallelismo con la seconda parte del
verso fa propendere però per il significato di «legami», al quale si giunge attraverso la metatesi ni"'~~~. dalla radicale 1l11 «legare». Cosi in effetti sembrano intendere anche le versioni antiche. 38,32 Le costellazioni (Mi"1~~) - Si tratta di un hapax, che potrebbe essère una variante dialettale di ni.,m, da cui abbiamo desunto il significato. Vulgata lo rende però con luciferum «la stella del mattinm), mentre la Settanta mostra di non comprenderlo, traslitterando semplicemente in IJ.a(oupwe.
La
centrismo e a modificare i propri criteri di giudizio in merito alla giustizia divina, come apparirà in modo sempre più chiaro nella prosecuzione del discorso divino. L'idea della fecondità si prolunga nei versetti successivi, dove per due volte troviamo il verbo yiilad «generare» (vv. 28-29). L'immagine patema e quella materna alludono con ogni probabilità ad antiche credenze mitiche cananee; nel contesto, vogliono soprattutto esprimere l'idea della misteriosa origine dei fenomeni considerati, aprendo gli occhi di Giobbe alla meraviglia. Questa si trasforma in stupore davanti allo spettacolo delle acque che, gelandosi, si solidificano «come la pietra» o del mare che «si rapprende», espressioni certamente iperboliche, ma che sottolineano la straordinarietà di eventi rari e inusuali, oltre che inspiegabili (v. 30). Dagli abissi, YHWH conduce Giobbe a contemplare le meraviglie celesti; le stelle e le costellazioni sembrano unite da misteriosi legami che, nelle credenze dell'epoca, esercitavano i loro
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GIOBBE 38,33
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38,33 Il suo influsso (i1~~~)- Si tratta di un hapax, il cui significato può essere dedotto dall'accadico mastaru «scritto». Nel contesto del versetto, in parallelo con nipJ::! «leggi», il senso più appropriato del termine ci sembra «regola», «influsso». 38,34 Ti sommerga ('j9~t;l) -Alla lettera: «ti copra». Cosi la Vulgata con operiet te, mentre la Settanta con Ù7ra.KouoEtcx( oou «ti
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obbedirà» forse ha letto l'ebraico 'j~.~t;~, che ci sembra però meno appropriato. 38,36 Nel/ 'ibis (nin~~)- Traduzione congetturale di un termine incerto, basata sul parallelismo con il successivo (e più sicuro) «gallo»; tra le varie proposte di interpretazione, ne citiamo soltanto un'altra, dedotta dall'uso del termine in Sal 51,8 e attestata dalla Vulgata con in visceribus hominis «nell'intimo
influssi anche sul mondo sottostante. Soltanto Dio conosce queste «leggi del cielo», è Lui che guida gli astri nei loro movimenti e negli effetti che producono (vv. 31-33). Dopo la parentesi celeste, lo sguardo di Giobbe è riportato sui fenomeni atmosferici; le nubi, le piogge, i fulmini sono personificati e, con un linguaggio che appartiene al mondo militare, descritti nell'atto di obbedire prontamente agli ordini di Dio. A questo punto, troviamo un versetto (v. 36) dal significato discusso. Interpretiamo le espressioni contenute come riferite a due animali, l'ibis e il gallo, dei quali viene qui esaltata l'intelligenza; di conseguenza, diversi autori vedrebbero meglio collocato il versetto più avanti. Tuttavia, è possibile evidenziare un legame con i precedenti argomenti del discorso: l'ibis, in Egitto, si riteneva che annunciasse le piene del Nilo; in modo simile, si riteneva che il gallo annunciasse non soltanto il sorgere del sole, ma anche le piogge autunnali. Il riferimento alle piogge e alle inondazioni giustificherebbe, perciò, l'attuale collocazione del verso. Il passo si conclude con un'ulteriore espressiva immagine riferita all'acqua, fonte della vita. Le meraviglie del mondo animale (38,39-39,20). Dopo avere passato in rassegna i prodigi della creazione cosmica e i misteri celesti e dei fenomeni atmosferici, nella seconda parte del discorso YHWH si sofferma a illustrare le meraviglie del mondo animale. È difficile precisare il criterio che l'autore ha seguito nella
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GIOBBE 38,41
Conosci forse le leggi del cielo, l e puoi determinare il suo influsso sulla terra? 34Puoi alzare la tua voce alle nubi, l perché un acquazzone ti sommerga? 35Forse tu scagli le folgori, che partono l e dicono: "Eccoci!". 36Chi ha messo nell'ibis la sapienza/ o ha dato al gallo l'intelligenza? 37Chi può contare le nubi con esattezza l e gli otri dei cieli chi inclina, 38 quando si fonde la polvere in una massa l e le zolle si attaccano? 39 Forse dai la caccia alla preda per la leonessa, l e sazi i leoncelli, 40 quando si acquattano nelle tane l e si appostano nelle macchie in agguato? 41 Chi provvede al corvo il suo nutrimento, l quando i suoi nati implorano aiuto a Dio, l vagando senza cibo? 33
dell'uomo)). Ci sembra preferibile però conservare il parallelismo tra i due uccelli. 38,38 Si fonde (nr,~:r-)- Il verbo pl&' si usa solitamente per descrivere il procedimento di fusione dei metalli; può indicare, tuttavia, sia la fase del passaggio allo stato fuso, sia il risultato del processo, che si conclude con la risolidificazione. Da qui, l'ambiguità nell 'interpretazione del versetto, che può descrivere lo stato del
suolo sia prima (duro e compatto per la siccità), sia dopo (quando la polvere si amalgama in zolle coltivabili) l'arrivo delle piogge. 38,41 Vagando (,liM')- Il verbo può riferirsi sia ai corvi adulti che vanno in cerca del cibo, sia ai piccoli che si agitano nel nido aspettando di riceverlo; le versioni antiche optano per questa seconda ipotesi (cosi anche la versione CEI).
scelta degli animali descritti: alcuni commentatori sottolineano il loro carattere selvaggio, che li rende simboli del caos e delle forze ostili alla vita, comunque dominati da Dio (ma il cavallo, p. es., difficilmente rientra in questa categoria). Altri evidenziano che, di ogni animale, vengono illustrati un aspetto positivo e uno negativo, creando un quadro generale della varietà delle specie. In ogni caso, si tratta di un mondo che sfugge alla comprensione e al pieno dominio dell'uomo, che è chiamato a prendeme coscienza. La sezione è sicuramente debitrice della simbologia zoomorfa e teriomorfa diffusa sia in Egitto che in Mesopotamia. Articoliamo il brano sulla base dei diversi animali considerati: un primo raggruppamento di animali selvatici (il leone, il corvo, le camozze, le cerve: 38,39-39,4); l'asino selvatico (39,5-8); il bufalo (39,9-12); lo struzzo (39,13-18); il cavallo (39,19-25); l'aquila (39,26-30). Gli animali selvaggi (38,39-39,4). Il primo gruppo di animali è accomunato dal fatto di essere creature non addomesticabili, indipendenti e selvagge; le descrizioni, inoltre, sono più brevi e coincise delle seguenti. Il quadro si apre con il più fiero degli animali, la leonessa, che si preoccupa di procurare prede per i suoi piccoli, ancora inesperti nell'arte della caccia. È poi il turno del corvo, che nutre i suoi nati, mentre protendono in alto il loro collo, pigolando e agitandosi in attesa
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:~t?~: TI~l11. 'Tf~l! 39,3 Si sgravano (it~r;T~~r;'l) -Alla lettera: il verbo significa «fendere», «aprire una breccia»; l'utilizzo nel contesto del parto appare legato al flusso del sangue e ai dolori che lo accompagnano. Essendo questo uso del verbo raro, alcuni autori congetturano it~~~~r;'l «partorisconO>> (così forse la Vulgata con pariunt); la correzione non ci sembra tuttavia necessaria. Pongono fine alle loro doglie (Cli;J'~~r:)
it~r;T~~r;'l)- Alcuni autori intendono il primo termine come «figli», da S:;~':'t «feto», traducendo il verbo seguente come «espellono»: cosi la versione CEI. La Vulgata ha, invece, et rugitus emittunt «ed emettono ruggiti», forse interpretando il sostantivo come «grida di dolore». Preferiamo considerare la seconda parte del versetto come consequenziale alla prima: il momento del parto per le cerve segna la fine delle loro doglie.
del cibo. In entrambi i casi, l'attenzione è concentrata sul nutrimento, che Dio non fa mancare loro, mostrando la propria sollecitudine. Seguono nell'elenco le camozze e le cerve, di cui si parla con toni carichi di meraviglia e di stupore, a proposito delle loro gravidanze; i tempi e i modi in cui esse mettono al mondo i propri piccoli rimangono nascosti e misteriosi agli occhi degli uomini. Ugualmente sconcertante è il comportamento dei nuovi nati che, una volta cresciuti e svezzati, si allontanano dalle madri per non tornare più. L'asino selvatico (39,5-8). Secondo alcuni commentatori si tratterebbe, invece, della zebra; a nostro parere è più probabile l'identificazione con l'asino selvatico, in quanto si evidenzia il contrasto con l'asino domestico. Comunque sia, siamo
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'Conosci forse il tempo in cui partoriscono le camozze? l Hai assistito alle doglie delle cerve? 2Hai contato i mesi della loro gestazione l e conosci il tempo del loro parto? 3Si curvano, si sgravano dei loro piccoli, l pongono fine alle loro doglie. 41 loro figli si sviluppano, crescono all'aperto, l partono e non tornano più da esse. 5Chi lascia libero l 'asino selvatico l e chi scioglie ilegacci dell' onagro, 6al quale ho assegnato la steppa come sua casa l e come sua dimora la terra salmastra? 7Egli ride del tumulto della città, l non ascolta gli strepiti di chi lo incita; 8esplora le montagne, suo pascolo, l ricercando ogni verdura. 9Forse il bufalo si metterà al tuo servizio l e passerà la notte nella tua greppia? 10 0 puoi legare il bufalo con la corda per arare, l o per dissodare le valli dietro di te? liTi fiderai di lui perché è robusto, l e cederai a esso la tua fatica? 12 Conterai su di lui per far rientrare l il tuo raccolto, e ammucchiarlo nella tua aia? 39,8 Esplora (,~n')- Alcuni esegeti considerano il termine come un sostantivo; tuttavia, la vocalizzazione anomala della forma verbale, al posto dell'usuale ,~n:, può essere ritenuta un aramaismo. 39,9 Il bufalo (C',) - Cosi anche la versione CEI, ma l'identificazione dell'animale è incerta. La Settanta traduce con tJ.OVOKEpwç «unicorno», la Vulgata con rhinoceros «rinoceronte».
39,12 Per far rientrare (:l'rD'"':l)- Con la Vulgata (quod reddat tibi) e ·là Settanta (1\n &rroowaH aoL) seguiamo il qerè, anziché la forma del ketìb :l~rzi:·':l «poiché tornerà»; quest'ultima è, invece, preferita dalla versione della CEI («perché tomi»), che deve presupporre per il prosieguo :"1~1~ 1P.1!1 «e il seme tuo sull'aia», dividendo il verso in maniera diversa rispetto al Testo Masoretico, che noi preferiamo.
davanti a un animale simbolo della vita libera e indipendente, che dimora lontano dalle abitazioni umane e dal rumore delle città, preferendo le zone montuose e le steppe solitarie. In cambio di questa libertà, sopporta la fatica della ricerca di cibo, frugando nei terreni aridi e salmastri (Ger 14,6; Gb 6,5; 11,12; 24,5). Il bufalo (3 9,9-12). Come nel caso precedente, l'identità deli' animale è discussa; alcuni autori pensano al rinoceronte, ma è più probabile che si tratti del bufalo, di cui viene sottolineato il contrasto con il bue domestico. In primo piano è posta la forza straordinaria de li' animale, che risulta però totalmente inutile per l'uomo e dalla quale non si può trarre nessun profitto: esso, infatti, non può essere addomesticato e messo a servizio del lavoro umano, per arare i campi o raccogliere le messi.
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GIOBBE 39,13
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::J.ll;T").~~ :J.1ù>~-N71 nn~ N71 11J;J7, i'r.Jo/7 22 39,13 Come se avesse penne (:"ll=il~ft:l~) Interpretiamo cosi l'oscuro testo ebraico (alla lettera: «se penna»). In modo simile intende la versione CEI. E piume (:"l~j1)- Un'altra possibile traduzione del termine è «femmina di falco»: così ha inteso la Settanta con Ka.Ì. vEooa. e, similmente, la Vulgata, che ha però un testo alquanto diverso per l'intero versetto: Penna struthionis similis est pennis herodii et accipitris «La penna dello struzzo è simile alle penne della cicogna e dello sparviero». 39,16 Tratta duramente (11'~P::t) -A differenza dei versetti precedenti, la forma
verbale è al maschile anziché al femminile; alcuni autori, con due manoscritti ebraici, correggono in 11'~ì?IJ, ma il cambiamento dal maschile al femminile non è infrequente in riferimento agli animali. Come non fossero suoi (è!7"N"~) - Con la Settanta (wotE I.L~ Éa.utfl) e la Vulgata (quasi non sint sui) presupponiamo la forma comparativa è!7·N>,~ (così anche la versione CEI). 39,18 Si slancia (N'!~N - Il verbo è stato variamente interpretatO: alcuni autori lo collegano all'arabo mr 'l mry «incitare», «spronare»; altri considerano N,~ come metatesi
Lo struzzo (39, 13-18). Questi versetti mancano nella versione greca dei Settanta anteriore alla revisione di Origene e sono considerati da diversi autori come un'interpolazione. Curiosa è anche la caratterizzazione dell'animale, che sembra corrispondere a una credenza popolare, la quale non trova però riscontro nell'osservazione dei comportamenti effettivi dell'uccello. Esso viene descritto mentre abbandona le uova nella sabbia calda, senza curarsi di proteggerle e senza preoccuparsi che qualcuno possa calpestarle; l'immagine delle ali che sbattono festanti, mentre l'animale lascia il nido, ne sottolinea l'incoscienza (in realtà, le uova dello struzzo vengono covate, a turno, sia dalla femmina che dal maschio). Inoltre, esso sembra trattare con durezza i piccoli appena nati. Il motivo di questo strano comportamento è attribuito alla mancanza di /:lokma «sapienza» e bimi
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GIOBBE 39,22
L'ala dello struzzo batte allegramente, l come se avesse penne e piume di cicogna, 14quando abbandona nel terreno le sue uova l e sulla sabbia le fa riscaldare, 15 dimenticando che un piede può schiacciarle l o una bestia selvatica calpestarle. 16 Tratta duramente i suoi figli, 'come' non fossero suoi, l la sua fatica è vana ma non teme, 17 perché Dio gli ha negato la sapienza l e non gli ha dato la sua parte di intelligenza. 18Ma quando si slancia in alto, l se ne ride del cavallo e del suo cavaliere. 19Sei forse tu che dai al cavallo la forza? l O vesti il suo collo di criniera? 20 Lo fai saltare come una locusta? l L'imponenza del suo nitrito è spaventosa; 21 " scalpita' nella valle, esultante l per il vigore, lanciandosi incontro alle armi. 22 Se ne ride della paura e non trema, l non retrocede davanti alla spada, 13
di Cl. Pensiamo che il senso del
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Testo Masoretico sia più in linea con i precedenti interventi di Giobbe. La Settanta semplifica l'intero versetto: lhra.~ À.EÀ.t0~.TJKa Érrl lìÈ tQ lìEutÉp~ oò rrpoo9rpw «Ho parlato una volta, non aggiungerò nulla una seconda». 40,8 Il senso del versetto nella Settanta è l'opposto di quello del Testo Masoretico, presupponendo il riconoscimento da parte di Dio della giustizia di Giobbe: 1-1~ &rrorrOLoù IJ.OU tò
ragione delle sue accuse, esortandolo a rispondere, senza ritirarsi dalla contesa. Risposta di Giobbe (40,3-5). Giobbe riconosce la propria piccolezza davanti a YHWH e al piano cosmico che gli è stato in precedenza illustrato, prendendo consapevolezza della propria incapacità di formulare una risposta adeguata; il gesto di portare la mano alla bocca (cfr. anche 21,5; 29,9) indica che l'unico atteggiamento possibile nei confronti di un mistero tanto grande è il silenzio. Giobbe conclude la sua risposta con un senso di resa, non ha niente da aggiungere a quello che ha già detto e che, dopo l'intervento divino, gli pare insignificante o senza efficacia alcuna. Seconda interpellazione di Dio a Giobbe (40,6-14). La nuova menzione del «turbine>> da cui giunge la voce di YHwH ci ricorda il contesto teofanico del dialogo; YHWH non accetta la ritirata di Giobbe e lo sprona, utilizzando un linguaggio bellico, a continuare la contesa, cingendo i suoi fianchi come il combattente che si prepara allo scontro. Ironicamente, YHWH propone a Giobbe un rovesciamento delle parti: sarà Giobbe a doverlo istruire, rispondendo alle sue domande. Il v. 8 costituisce un momento cardine nella struttura della contesa: il dibattito verte, in ultima istanza, sulla questione della giustizia; le idee di giustizia divina e umana sembrano contrapporsi, e la pretesa di Giobbe di essere giustificato implica, secondo la prospettiva falsa fin qui seguita, la cancellazione e la condanna del giudizio di
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GIOBBE 40,13
E Giobbe rispose a YHwH così: «Ecco, sono impotente, cosa posso rispondere? l Pongo la mia mano sulla mia bocca. 5Ho parlato una volta e non replicherò, l una seconda e non continuerò». 6Allora YHWH ribatté a Giobbe dal turbine, dicendo: 7«Cingiti i fianchi come un prode, l ti interrogherò e tu istruiscimi! 8Vorresti invalidare il mio giudizio, l dichiararmi empio per giustificarti? 9Hai forse un braccio come quello di Dio, l e puoi tuonare con una voce come la sua? 10Adornati pure di maestà e grandezza, l vestiti di splendore e di onore! ''Effondi i furori della tua ira l e umilia con lo sguardo ogni orgoglioso, 12con lo sguardo abbassa ogni orgoglioso l e schiaccia sul posto l'empio, 13 sprofondali insieme nella polvere l e rinchiudi i loro volti sotto terra.
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KpL~J.a atEL M IJ.E &J..J..wç aaL KEXPTJIJ.O:tLKÉva.L ~ tva. &va.ljla.vflç .S[Ka.Loç «Non rifiutare il mio
giudizio: pensi che abbia discusso con te diversamente che per farti apparire giusto?». Ma tutto il discorso divino vuole smentire il punto di vista di Giobbe, incentrato sul contrasto tra la sua pretesa innocenza e l'ingiustizia di cui si sente vittima; conserviamo, perciò, il Testo Masoretico.
40,11 I furori
(rlìi:;l~)-
La Settanta con
&yyÉÀouç «messaggeri» forse ha letto un participio hi.fil di i:::l.ll «far passare»; la Vul-
gata ha invece superbos «i superbi», con ogni probabilità un'armonizzazione con il testo del versetto seguente. Ci sembra che l'espressiva immagine del Testo Masoretico debba essere mantenuta (cosi la versione CEI).
Dio. Tenendo sullo sfondo la dottrina della retribuzione, Giobbe pone sullo stesso piano i due tipi di giustizia, rendendoli di fatto incompatibili; in tutto il poema, infatti, Giobbe ha sempre sostenuto davanti ai suoi amici la propria innocenza e, sulla base di questa, secondo l'ottica umana, l'inaccettabilità del dolore subito, interpretato come un castigo immeritato. A maggior ragione, non può accettare l'idea di una giustizia divina superiore, che non sappia riconoscere le vere responsabilità dell'uomo e non lo ripaghi di conseguenza: se Giobbe è innocente, la giustizia di Dio appare negata e non c'è nessuno che possa essere garante per lui neanche davanti agli uomini; questa è la vera origine del suo dramma interiore. YHWH prosegue con tono ironico e di sfida, invitando Giobbe a un improponibile confronto sul piano della potenza; il «braccio» e la «voce» sono i simboli della forza divina e del suo governo sul mondo, in merito ai quali Giobbe ha già dovuto riconoscere la propria insignificanza. L'invito seguente ad adornarsi di «maestà e grandezza>>, «splendore e onore» (v. 10), va letto nel contesto del rovesciamento dei ruoli che il Signore sta proponendo a Giobbe: si tratta, infatti, degli attributi caratteristici della divinità, che si riferiscono in modo particolare alla sua regalità e al compito di amministrazione della giustizia che gli è connesso. Applicati a Giobbe, denotano però la sua arroganza e il suo orgoglio, nel volersi sostituire a Dio. Nei vv. 11-13, Costui svela
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40,15 Behemot (ni~~)- Il sostantivo dal punto di vista grammatiCale è una fonna plurale intensiva (tuttavia, la tenninazione in ni- potrebbe indicare, analogamente a quanto si trova in ugaritico, anche un femminile singolare) e avrebbe quindi il senso di «belva per eccellenza>>; dato il carattere simbolico, si preferisce non
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tradurlo, considerandolo come un nome proprio. 40,l9Soloilsuocreatore ... con/a spada( .. )llllr1 to:lj) - Il senso del secondo emistichio è incerto e diverse sono le proposte di traduzione. Alcuni interpretano: «Il suo Creatore gli applicò la spada», nel senso che gli fonù una dentatura poderosa (cosi la Vulgata con qui fecit
quali sarebbero, nell'ipotetico scambio di ruoli, le intenzioni di Giobbe nei riguardi dei superbi e degli empi: seguendo la propria concezione della giustizia e volendo ristabilire nel mondo l'ordine violato dall'arroganza umana, Giobbe non esiterebbe ad annientare i fautori della malvagità, riversando su di loro la sua collera. umiliando li e schiacciando li fino a farli scomparire nella polvere e nella tenebra dello 8"6/. La soluzione radicale alla presenza del male e dell'ingiustizia si troverebbe quindi, secondo Giobbe, nella loro distruzione. L'ultimo, sarcastico commento di YHWH vuole scuotere Giobbe dalla sua presunzione; se davvero fosse capace di estirpare il male dal mondo operando la giustizia in tal modo, Dio stesso ne riconoscerebbe la vittoria e ne tesserebbe le lodi (v. 14). L'argomentazione giudiziale, assunta a unico criterio per ristabilire la giustizia, e la conseguente netta distinzione tra innocente e colpevole, mostrano qui il loro limite, soprattutto quando Dio viene chiamato come parte in causa; in rapporto all'uomo, Egli non è essenzialmente ed esclusivamente giudice, e l'eliminazione del male- così radicato nel cuore umano- non può passare attraverso la distruzione delle creature (cfr. la replica di YHWH a Giona in Gio 4, l 0-11 ). La giustizia divina infatti non è disgiungibile dalla misericordia con cui il Creatore guarda alla sua opera e Giobbe, pur nel suo dolore e nell'assurdità della propria condizione, è invitato a relazionarsi con Dio su un piano che sorpassa la sua limitata concezione di tale giustizia. 40,15-41,26 Il secondo discorso di YHWH: Behemot e Livyatan Dopo la parentesi dialogica, nel suo secondo discorso YHWH riprende a celebrare le meraviglie della creazione, riferendosi a due bestie enigmatiche: il Behemot (40,15-24) e il Livyatan (40,25-41,26). Si è già detto della probabile origine secondaria di questa unità letteraria; rispetto al primo discorso, è più rara la forma interrogativa e si dà maggior spazio alla descrizione; questa si sofferma inoltre in maniera minuziosa sull'aspetto fisico delle due bestie, più che sul loro comportamento, con un lessico e uno stile originali. L'interpretazione del testo oscilla tra due estremi: una lettura realisti ca, che va alla ricerca dell'identificazione delle due specie animali, e una miti ca, che insiste sulla dimensione simbolica della
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GIOBBE 40,19
anch'io ti loderò, l perché la tua destra ti ha dato salvezza. il Behemot, che ho creato al pari di te, l come il bestiame mangia erba. 16 Vedi il vigore dei suoi lombi l e la potenza dei muscoli del suo ventre; 17 drizza la coda come un cedro, l i tendini delle sue cosce si intrecciano saldi; 18 le sue ossa sono tubi di bronzo, l le sue vertebre barre di ferro. 19Egli è la prima delle vie di Dio, l solo il suo creatore può accostarsi con la spada. 14Allora 15 Ecco
eum app/icabit gladium eius «colui che lo fece, applicherà la sua spada»). Altre proposte: «Le creature non temono la sua dentatura»; «Solo il ben coperto può avvicinare la sua spada». Tra le correzioni testuali, citiamo soltanto la più frequentemente accettata: ,,'1~t:l ~» ,,tt1~ «Fatto signore dei suoi compagni». DiverSi!
è anche l'interpretazione della Settanta, che
ha TTETTOLT]fl.ÉVOV ÉyKO:tO:TT!XL(E090:L lJTTÒ tWV éqyi.:'Jw:w o:ùtoD «fatta perché i suoi angeli si divertano». Il senso più probabile del testo ci sembra quello proposto nella nostra traduzione, ovvero che soltanto il Creatore può dominare o perfino distruggere la sua creatura.
descrizione. I fautori della prima linea generalmente pensano che si tratti di due animali tipici del mondo egiziano, come l'ippopotamo e il coccodrillo, conosciuti per la loro forza terrificante (anche se sono state proposte altre possibilità). Chi invece legge il testo in chiave simbolica, ritiene i due esseri come mostri mitologici, rappresentanti delle forze disgregatrici del caos che si oppongono all'attività creatrice e ordinatrice di YHwH, il quale è il solo che possa contrastarle efficacemente, imponendo su di esse il suo dominio. Crediamo che questa seconda linea di lettura corrisponda meglio all'intenzione del testo, con un'ulteriore precisazione: a livello interpretativo, il carattere simbolico dei due mostri potrebbe non essere limitato soltanto alla dimensione cosmica, ma essere passibile di un'estensione al piano storico, essendo i due animali anche il simbolo delle potenze ostili per antonomasia, Babilonia e l 'Egitto. La compresenza dei due piani- quello cosmico e quello storico- è infatti un dato ricorrente della polisemia biblica. Behemot (40, 15-24). La particella «ecco» apre il nuovo brano, introducendo sulla scena il Behemot; oltre alla già menzionata identificazione con l'ippopotamo, altri autori hanno proposto il bufalo o un tipo di bovino acquatico o anche l'elefante. Qui ci interessa soprattutto evidenziare gli elementi simbolici della descrizione. La prima affermazione riguardo al Behemot lo definisce come una creatura di YHWH, al pari di Giobbe. Con ciò si collocano gli elementi mitici successivi in un contesto ben chiaro, in cui YHWH è l'unico Dio e il dominatore assoluto di ogni essere. L'alimentazione erbivora del Behemot e il paragone con il bue alludono alla natura non pericolosa dell'animale, che contrasta però con la forza indomabile che lo caratterizza: la successiva descrizione fisica, infatti, si sofferma sui dettagli anatomici (il ventre compatto, la coda drizzata, il fascio dei nervi, la solidità delle ossa) per far risaltare- mediante espressioni fortemente iperboliche- tutta la potenza della bestia. Il Behemot viene quindi definito come «la prima (re 'sit) delle vie (darké) di Dim>. Partiamo dal secondo termine evidenziato: «vie» può essere qui considerato un sinonimo di «opere», in quanto indica il tracciato seguito, ovvero l'esito del
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:i~w7 l?"i?.V?J::t ;;ry:ti ilf.Df m:17 'if~'?t:l 25 40,20 Il pascolo >, correggendo il seguente ;"-,Mo/' in «sono tranquille». In
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questo modo, si ottiene un parallelismo con il secondo emistichio. Ci sembra che il Testo Masoretico offra una lettura accettabile, come testimoniato anche dalla Vulgata, che ha reso lo stico con huic montes herbas ferunt «ad esso i monti forniscono erbe». 40,23 Il fiume minaccia (1:;t~ p~.V,~) - La Settanta ha reso con Èà:v yÉVTJtaL TTÀJl~~wpa «se venisse l'alluvione», mentre la Vulgata ha, riferito a Behemot, absorbebit fluvium
processo decisionale, che sfocia nell'azione divina. Il tennine «prima» ha invece una duplice valenza: cronologicamente, può significare ciò che sta ali' inizio e precede le seguenti realizzazioni di Dio; dal punto di vista qualitativo, può significare inoltre ciò che eccelle per importanza. l due significati sono con ogni probabilità compresenti e rinviano al racconto genesiaco della creazione: il Behemot, come rappresentante dei mostri marini, è la manifestazione più eclatante della potenza espressa da Dio nella sua opera creatrice (Gen l ,21 ). La seconda parte del v. 19 è stata variamente interpretata; noi crediamo che l'immagine della spada si riferisca, in continuità con le idee espresse in precedenza, al dominio che YHWH esercita sul Behemot, sottomettendo la sua forza impressionante al proprio volere; una singolare interpretazione rabbinica, spingendo oltre l'immagine, riteneva che il Behemot, sconfitto dalla spada divina, nell'epoca messianica sarebbe diventato il cibo degli eletti (altri autori attribuiscono invece il possesso della spada al Behemot, come ulteriore segno della potenza e delle capacità offensive a sua disposizione). Anche il difficile v. 20 è stato variamente inteso e corretto; pensiamo si riferisca alla grande quantità di erbaggio necessaria per sfamare l'enonne animale; in alcuni testi mitici ugaritici si parla in modo simile di grandi bovini dall'appetito insaziabile, chiamati i «Divoratori». Non è molto chiaro il collegamento con la seconda parte del versetto; si può intendere forse nel senso che altre bestie selvatiche dimorano tranquille sulle stesse colline, non sentendosi minacciate dalla presenza inoffensiva dell'erbivoro Behemot. Nel verso seguente lo scenario cambia, passando dalla zona montuosa alla palude e alludendo alla natura anfibia della bestia, che non teme un'eventuale piena delle acque. I tratti più realistici,
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1monti gli offrono il pascolo l e tutte le bestie selvatiche vi si trastullano; sotto i loti egli si sdraia, l nel folto del canneto e della palude; 22i loti gli intessono la loro ombra l e lo circondano i salici del torrente. 23 Se il fiume minaccia, non si allarma, l rimane sicuro anche se il Giordano prorompe fino alla sua bocca. 24 ' Chi' potrà mai prenderlo per gli occhi l o forargli le narici con lacci? 25 Puoi tu 'pescare il Livyatan con un amo, l o con una fune bloccare la sua lingua? 20 21
«assorbirà un fiume». Ci sembra che il testo greco abbia meglio compreso il senso dell'ebraico; in modo simile anche la versione CEI con «se il fiume si ingrossa». 40,24 Chi- Con diversi autori, ipotizziamo che il versetto iniziasse con la forma interrogativaN~il ·~.«Chi (è) lui (che)», caduta per aplografia dopo il precedente ~il'~ («la sua bocca»). Ciò migliora il senso e la metrica del verso.
Con lacci (C'I!ii?i~~)- Il termine solitamente indica le reti o i lacci utilizzati per cacciare gli uccelli; poiché tali strumenti non si usano per «forare le narici», alcuni autori suggeriscono di leggere C'~i~p~ «con spine», ma la proposta non ci pare soddisfacente. Possiamo semplicemente intendere che la bestia è trattenuta con lacci, fatti passare attraverso le narici, forate in precedenza con altri strumenti.
che potrebbero far pensare a un ippopotamo o a un bufalo acquatico, si mescolano qui con elementi mitici, che sfumano il ritratto dell'animale. L'ultimo versetto del brano introduce, con una frase interrogativa, una scena di caccia: colpire negli occhi l'animale o forargli con un uncino le narici sono due tecniche utilizzate nell'antichità per catturare bestie selvatiche (ma alcuni ritengono che le espressioni possano riferirsi anche a incantesimi in grado di paralizzare l'animale); nessun uomo potrebbe essere in grado di sopraffare la mole e la forza del Behemot, che può essere sottomesso soltanto da YHWH, il suo creatore. Con questa immagine si prepara anche il passaggio alla successiva e più lunga descrizione, il cui protagonista è un altro mostro mitologico. Livyatan (40,25-41,26). La scena di caccia con cui si concludeva il brano precedente prosegue all'inizio del presente, in cui viene introdotto un nuovo protagonista, il Livyatan. Gli elementi mitici, già presenti sullo sfondo della descrizione del Behemot, sono qui accentuati, al punto da rendere improbabile una lettura puramente realisti ca, che cerca di identificare la bestia con un vero animale, solitamente il coccodrillo, oppure un cetaceo. Sembra innegabile, inoltre, il collegamento con il mostro denominato Lotan nei testi ugaritici, termine che rinvia al significato di «attorcigliarsi»; esso è descritto come un drago a sette teste, un serpente sinuoso che vive nel mare. Anche se il poema del libro di Giobbe non menziona le teste del Livyatan, il suo ritratto trascende quello di un semplice coccodrillo, assumendo - come nei racconti ugaritici - una connotazione mitologica. Il Livyatan entra sulla scena in maniera repentina; attraverso una serie di interrogative, viene presentato come un mostro inafferrabile, che non è possibile
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35,8 con lM~::I, «per le tue figlie», confenna però il senso da noi proposto per il Testo Masoretico, seguito anche dalle antiche versioni. 41,1 L 'aspettativa su di lui (in~r::th)- Alla lettera: «l'aspettativa sua»; ma ·intendiamo l'espressione come l'aspettativa degli uomini nei riguardi del Livyatan, nel momento in cui si accorgono di non potersi confrontare con lui e sottometterlo (si veda, invece, la Vulgata, che la applica al mostro: spes eius frustrabitur eum «la sua speranza viene
catturare con le usuali tecniche di pesca o di caccia. Le espressioni adoperate, oltre al significato venatorio, richiamano anche le modalità utilizzate nell'antichità per la detenzione dei prigionieri di guerra, impedendo loro ogni tentativo di ribellione o di fuga. Inoltre, possono alludere ai racconti mitologici mesopotamici della creazione, dove il dio El sottometteva le divinità sconfitte arpionandole al naso con uncini (si veda il racconto di Enuma EliS 1,72). Il Livyatan, forte della sua superiorità nei confronti dell'uomo, non si rivolge a lui implorando pietà, né ha necessità di stringere con lui un patto, riconoscendosi quale suo servitore (vv. 27-28); l'unico patto a cui deve sottostare è quello cosmico, che lo vincola alla sottomissione a YHWH creatore. Con ironia, YHWH ricorda poi a Giobbe che il Livyatan non è un animale da compagnia, che si possa catturare come un passero, per far divertire i bambini (v. 29); né può diventare oggetto di scambio e di compravendita tra pescatori e mercanti (v. 30). Le squame che lo proteggono possono essere colpite dai dardi senza essere scalfite e la sua testa è invulnerabile alla fiocina; per questo, se Giobbe pone mente alla forza e alla robustezza del Livyatan, non cercherà di riprendere la lotta con lui, certo della propria inevitabile disfatta (vv. 31-32).
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Puoi ficcargli un giunco nel suo naso l e con un uncino forargli la mascella? 27Forse moltiplicherà le sue suppliche a te l o ti parlerà con dolci parole? 28Stringerà con te un patto, l perché tu lo prenda come servo per sempre? 29 Ti trastullerai con lui come con un passero, l e lo legherai per le tue figlie? 30I soci di pesca contratteranno su di lui, l e lo spartiranno tra i mercanti? 31 Forse riempirai di dardi la sua pelle, l e la sua testa di fiocine da pesca? 32Poni su di lui la tua mano, l e ricorda il combattimento: non continuerai! 1Ecco, l'aspettativa su di lui è smentita, l al solo vederlo si resta abbattuti; 2 • nessuno' è tanto audace da provocarlo. l Ma chi può resistere al mio cospetto? 26
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frustrata»). Pochi manoscritti ebraici hanno
-~~r:tM «l'aspettativa mia>>, ma non ha molto
senso, essendo YHWH a parlare; un manoscritto ebraico ha, invece, ;~~r:tM «l'aspettativa tua», indirizzando a Giobbe il discorso divino (ma ciò richiederebbe di modificare anche la seconda parte del verso). 41,2 Da provocar/o (~~!~ll; '~)-Il soggetto del verbo non è chiaro; alcuni lo identificano con YHWH, altri con il Livyatan; preferiamo considerarlo come un soggetto indefinito, integran-
do la traduzione con l'aggiunta di «nessuno». Al mio cospetto ('~~7)- Seguendo molti manoscritti ebraici, alcuni autori correggono in ,,~~~ «al suo cospetto», riferendo l'espressione al Livyatan (così la versione CEl con «chi mai può resistergli?» ); ci sembra però che, nella dinamica del discorso, sia preferìbile considerarla come un'attestazione della superiorità di YHWH, che non teme confronti neanche con i mostri più terribili (cosi, infatti, hanno inteso anche le antiche versioni).
I versetti iniziali del capitolo 41 presentano alcune difficoltà non risolte; il testo è incerto e ha subito diversi rimaneggiamenti, e ciò si ripercuote nella difficoltà di individuare i soggetti del discorso, rendendone problematica l'interpretazione. Alcuni commentatori spostano i vv. 1-3 alla fine del capitolo, come conclusione del brano. Secondo altri il testo sarebbe stato pesantemente rielaborato per mitigare alcune immagini mitologiche, che vedevano nel Livyatan un principio cosmologico negativo, in lotta con il Creatore; per questo motivo, le espressioni che leggiamo nei versetti sono attribuite ora a Dio (secondo il tenore attuale del Testo Masoretico, che sembra testimoniare un auto-elogio di YHWH stesso), ora al Livyatan (secondo quello che doveva essere il senso originario delle immagini). Nelle note testuali diamo ragione della traduzione proposta, che qui commentiamo. Il v. l esprime, in maniera impersonale, l'impossibilità umana di dominare il Livyatan; in questo senso, ogni aspettativa dell'uomo è negata e alla sola vista del mostro l'unica possibile reazione è quella dello sgomento e del terrore. Nel v. 2b YHWH passa a parlare di sé in prima persona: la tanto celebrata grandezza del Livyatan non è minimamente paragonabile alla sua, davanti alla quale nessun uomo può resistere. Inoltre, nessuno potrebbe presentarsi davanti a YHwH con la
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41,3 Chi può venirmi incontro perché lo ripaghi? (c7fii~1 ·~~''11?0 •o) - Il senso del verso non è del ttitto chiaro. La Settanta ha, considerando come locutore YHWH, t(ç ò:vncrtiJCIEta( IJ.OL Kal ÙTTOIJ.EVE1 «Chi si opporrà a me e resisterà?», forse leggendo per il secondo verbo cL;llU', «e sarà illeso». Alcuni autori riferiscono la' frase allo scontro con il Livyatan, seguendo in parte la scelta della Settanta e cambiando anche il primo verbo in ìO'"Tpry o ìO")Ii? N~i1 «chi lo ha affrontato ed è nmasto il eso?» (cosi la versione CEI). Conserviamo il Testo Masoretico, intendendolo come una parola di sfida da parte di Dio, che riafferma in questo modo la sua potenza incontrastabile. Qualsiasi cosa ... è mia (N~i1-•~)- Proseguendo nella linea della correzione prece-. dente, la versione CEI congettura N~i1-16 «nessuno». 41,4 Dell'armonia della sua struttura (1'1:11 Ì:!l"H!)- Il senso dell'espressione è incerto e
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variamente interpretato. La Vulgata sembra rendere liberamente con et ad deprecandum compositis «fatte per muovere a compassione». La Settanta invece pare interpretare 1'1:1 come verbo e ·pv nel senso di «paragonare», traducendo ÉÀErpH tòv l.aov cxirrou «avrà misericordia di chi è pari a lui». Altri autori moderni congetturano Ì:!l"W, 1'~ «non ha pari», collegando l'espressione iii termine precedente, corretto anch'esso in ìnJ.I::lll «la sua forza». Per la nostra traduzione, proponiamo di collegare il problematico 1'1:1 al sostantivo 1r.t «grazia» (da cui «armonia») e ì:!l"W alla radicale «preparare», «predisporre>) (da cui «struttura»). 41,5 Con il suo doppio morso (il~! L;l~~:;l) L'espressione può essere intesa rome rirenta alla doppia fila di denti del mostro; così sembra comprendere la Vulgata, con in medium oris eius «in mezzo alla sua bocca». La traduzione CEI segue la Settanta che, in parallelismo con la prima parte del verso («la sua veste»), ha Elç
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pretesa di essere ripagato per ciò che gli offre, perché tutto ciò che esiste sotto il cielo già gli appartiene (v. 3). Con il v. 4 ha inizio la descrizione vera e propria del Livyatan, pur se il testo, ancora una volta, non è molto chiaro; consideriamo il versetto come espressione della volontà divina di svelare a Giobbe i meravigliosi segreti del mostro, la sua forza incomparabile e l'armonia delle sue membra. Da ciò, assumeranno maggior risalto la perizia e la sapienza del suo Creatore. L'aspetto esteriore del Livyatan viene dipinto inizialmente attraverso una serie di immagini iperboliche, che accentuano il carattere
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può venirmi incontro perché lo ripaghi? l Qualsiasi cosa sotto il cielo è mia! 4Non tacerò delle sue membra, l della realtà della sua forza, dell'armonia della sua struttura. 5Chi ha aperto sul davanti la sua veste, l e può venire a lui, con il suo doppio morso? 6Chi ha aperto i battenti della sua faccia, l circondati dai suoi denti terrificanti? 7 Il suo orgoglio sono le scaglie simili a scudi, l strettamente sigillate; 81'una all'altra sono accostate, l neppure il vento può passarvi in mezzo, 9ognuna aderisce alla sua vicina, l sono saldate e non possono staccarsi. 10 Il suo starnuto irradia luce, l e i suoi occhi sono come le palpebre dell'aurora; 11 dalla sua bocca partono vampate, l sprizzano scintille di fuoco, 12dalle sue narici esce fumo, l come da pentola attizzata e bollente. 13 Il suo respiro incendia carboni, l e saette escono dalla sua bocca. 3Chi
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Un pezzo di argento (:"'~'iqp) - Il termine indica un'antica unità di scambio conosciuta al tempo dei patriarchi, di valore ignoto: cfr. Gen 33,19; Gs 24,32. 42,13 Sette figli (C'~~ :"'~~=!ll.P)- Cosi secon-
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do la Settanta (É1Tta) e la Vulgata (septem), mentre il Targum legge «quattordici>>, raddoppiandone il numero, al pari degli altri beni di Giobbe (ma non del numero delle figlie, che rimangono «tre»). La forma del
anche consolazione per tutta la sofferenza patita; è da sottolineare l'espressione che attribuisce a YHWH la causa del male che aveva afflitto Giobbe, ignorando il vero mandante delle disgrazie, il satan; ma forse la notazione semplicemente vuole riferirsi al permesso, concesso da YHWH al satan, di mettere Giobbe alla prova. In occasione del banchetto, i convitati regalano a Giobbe doni preziosi, come pezzi di argento e anelli ornamentali d'oro (cfr. Gen 24,47; 35,4; Gdc 8,24; Is 3,21 ). Anche questi doni rappresentano per Giobbe una forma di consolazione e di restituzione della felicità. La nuova condizione di Giobbe prevede poi che raddoppi il numero di tutti i capi di bestiame prima posseduti, segno ulteriore della rinnovata benedizione di YHwH che, in un certo senso, era stata preannunciata da Bildad (8,7). Anche i figli, perduti nel corso delle disgrazie iniziali, vengono sostituiti da altri che ne prendono il posto, sette maschi (che diventano quattordici, il doppio, per il Targum) e tre femmine. L'interesse del racconto si sofferma su queste ultime, conferendo alla narrazione una sfumatura prettamente esotica; la simbologia dei loro nomi evoca, infatti, il mondo della bellezza e della cosmesi femminile orientale. La prima figlia viene chiamata Yemima, che significa «colomba»; l'animale è simbolo di fertilità e di fedeltà, di tenerezza e di passione (si ricordi, in proposito, l'utilizzo dell'immagine nel Cantico dei Cantici: Ct 2, 14). Alla seconda figlia viene dato il nome Qezi'a, termine che in ebraico si riferisce a una varietà di cannella, utilizzata per la preparazione dei profumi e anche del crisma per i riti di consacrazione (Es 30,24; Ez 27,19; Sal45,9). Il terzo nome,
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consolarono per tutto il male che YHWH aveva fatto venire su di lui, e gli diedero ognuno un pezzo di argento e un anello d'oro. 12 Poi YHwH benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima. Ebbe quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. 13 Ebbe anche sette figli e tre figlie. 14 Chiamò la prima Yemima, la seconda Qezi 'a, e la terza Qeren-happuk. 15ln tutto il paese non si trovavano donne così belle come le figlie di Giobbe; e il loro padre diede loro un'eredità insieme ai loro fratelli. 16Dopo tutto questo Giobbe visse ancora centoquaranta anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, per quattro generazioni. 17 Infine Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni. numerale è anomala, a metà strada tra i1lJ:Hù «Sette» e il duale W:rt!l «quattordici»; è p~s~ sibile, però, che si tratti di una forma arcaica legata all'ugaritico sb 'ny. 42,14 Yemima (i1~·~~)- Il termine ebraico,
che conserviamo in quanto nome proprio, significa «colomba» (cosi lo traduce la versione della CEI), ma è stato erroneamente ncondotto a ci• «giorno» sia dalla versione dei Settanta ('H~Épav) che dalla Vulgata (Diem).
Qeren-happuk, indica il contenitore in cui si conservava la tintura, composta di ceneri e polvere di antimonio, con la quale nell'antico Egitto si dipingevano i contorni degli occhi, come trucco cerimoniale; evoca, al tempo stesso, il potere seduttore dello sguardo della donna (2Re 9,30; Ger 4,30; Sir 26,9). Il fatto che vengano menzionati i nomi delle figlie, ma non quelli dei figli, potrebbe essere una reminiscenza dei miti ugaritici che narrano della discendenza di Ba'al con la stessa modalità. Le tre figlie di Giobbe vengono esaltate per la loro bellezza, che non trova pari in tutto il paese (v. 15). Un fatto singolare è costituito dalla loro partecipazione all'eredità del padre; secondo il diritto biblico, le figlie potevano ereditare soltanto in assenza di fratelli (Nm 26,33; 27,1-11; 36), il che non corrisponde al caso di Giobbe. Ciò può indicare il carattere eccezionale delle ricchezze e dei possedimenti di Giobbe, ma anche la costituzione di un tipo di rapporti familiari che supera i modelli codificati. L'ultima scena del libro è dedicata al protagonista; la rinnovata benedizione di YHWH su Giobbe trova il suo culmine nel dono della longevità. Giobbe visse ancora centoquarant'anni, il doppio della lunghezza della vita ordinaria di un uomo (Sal 90,10), potendo vedere i suoi figli e i discendenti fino alla quarta generazione (più di Giuseppe, che poté vedere i figli di Efraim fino alla terza generazione: Gen 50,23). La benedizione di YHWH raggiunge così in Giobbe la sua pienezza, culminando, al modo dei patriarchi, con una morte serena, al termine di un'esistenza lunga («sazio di giorni») e felice (cfr. Gen 25,8; 35,29; 50,26).
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Da una lettura superficiale di questa unità conclusiva potremmo concludere di trovarci di fronte al classico lieto fine, con il completo ribaltamento della situazione iniziale di crisi: Giobbe, dopo avere sofferto atrocemente per le prove inviategli dal satan, ha dimostrato la sua fedeltà a Dio e per questo viene premiato; ciò che gli era stato tolto, gli viene restituito in sovrappiù, ed egli può terminare la sua lunga vita nella felicità, benedetto da Dio e circondato di beni e di affetti. In realtà, abbiamo visto che l'attuale redazione della conclusione richiede che essa venga Ietta in riferimento alla lunga sezione intermedia, contenente i dialoghi di Giobbe con gli amici, la teofania, l'incontro finale con YHWH. A partire da questa consapevolezza è possibile superare il senso di disagio che può sorgere dalla soluzione dell'intreccio narrativo: la storia di Giobbe, infatti, sembra compiersi sulla base di quel principio retributivo che lo stesso Giobbe ha criticato e rifiutato nel corso di tutte le discussioni con gli amici. Ma la rinnovata benedizione di YHWH non cancella semplicemente tutto ciò che Giobbe ha vissuto e sofferto; se i beni riottenuti in doppia quantità possono certamente costituire un risarcimento generoso, l'esperienza del dolore ha segnato Giobbe nella carne in maniera indelebile. Il conforto dei familiari e dei conoscenti non annulla il senso di solitudine e abbandono provato in precedenza a motivo della malattia e delle disgrazie; la nascita dei nuovi figli non può far dimenticare la profonda ferita causata dalla morte prematura dei primi. Ciò che può offrire un senso al finale e, più in generale, ali 'intera opera di
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Giobbe, è il suo incontro personale con YHWH. A questo è diretto il suo desiderio e ogni suo sforzo argomentativo; non soddisfatto delle risposte preconfezionate degli amici e della teologia classica, Giobbe è alla ricerca di un'esperienza diretta e profonda del divino. Il momento della teofania segna il punto massimo di incontro e di vicinanza tra Giobbe e il mistero di YHWH; qui, Giobbe prende coscienza della propria limitatezza, dell'impossibilità di comprendere il grandioso disegno del mondo e - a maggior ragione - il suo Creatore. In questo incontro, Giobbe riesce appena a intuire un volto inedito di Dio e una modalità di amministrare la giustizia diversa da quella umana; riesce a collocare la sua esperienza di dolore e finitudine in una trama più ampia, la cui tessitura è affidata alle mani sapienti e amorevoli di Dio. Nella propria storia, Giobbe scorge una realtà di bene che resiste a ogni attacco da parte del male, una presenza capace di fare emergere la visione di una mèta di felicità al di là della cortina opaca della miseria quotidiana. Se non tutto è ancora chiaro nella mente e nel cuore di Giobbe, lo è almeno la necessità di abbandonarsi con fiducia a questa presenza, di credere nella forza di una comunione da cui poter trovare un senso alla sofferenza e perfino alla morte. Giobbe ci insegna, infine, come sia necessario un processo di conversione e di purificazione delle immagini di Dio, degli schemi teologici e di pensiero, per cercare risposte alle domande più profonde e vitali dell'esistenza; la sua inquietudine e il suo cammino di ricerca lo rendono un personaggio quanto mai attuale, compagno e interlocutore ideale di ogni autentico cercatore della verità.
IL LIBRO DI GIOBBE NELL'ODIERNA LITURGIA
L'uso liturgico di Giobbe è molto limitato. Nellezionario viene valorizzato unicamente in due domeniche, nei giorni feriali di una settimana del Tempo Ordinario e nelle celebrazioni dei defunti (sia il2 novembre, sia nel comune dei defunti). I testi sono ripresi intrecciando frammenti, raramente per intero. Giobbe nel ciclo festivo La prima pagina di Giobbe viene proposta la V domenica del Tempo Ordinario (anno B). Il brano evangelico di Mc 1,29-39 riporta l'ultima parte della "giornata di Cafarnao", con la guarigione della suocera di Pietro e le molteplici guarigioni di malati e liberazioni di indemoniati sul far della sera. «Quando ancora era buio» Gesù, al mattino presto, si ritira in preghiera, in un luogo deserto: deciderà di «andare altrove» per predicare nei villaggi vicini, anche se la gente del luogo lo cerca con ansia. La prima lettura è tratta dalla risposta di Giobbe a Elifaz (Gb 6-7) dove si sottolinea in modo particolare la fragilità e la caducità della vita. Giobbe conclude le sue parole con una preghiera: «Ricordati che un soffio è la mia vita». Con le sue parole, egli è il rappresentante di un'umanità ferita e fragile che attende da Dio la liberazione. Egli pone una domanda fondamentale: «Quando mi alzerò?». Nel brano evangelico Gesù fa alzare la suocera di Pietro «prendendo la per mano». Accostando il brano di Giobbe con gli episodi narrati da Marco, la liturgia ci conduce a interpretare il ministero di Gesù come una risposta al grido dei sofferenti e dei malati. La seconda lettura propone il testo di lCor 9,16-19.22-23 dove Paolo afferma
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che per lui l'annuncio del Vangelo «è una necessità» che gli si impone: «mi sono fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli». Davanti all'umanità debole e ferita Paolo, come i discepoli di tutti i tempi, sente la spinta all'annuncio del Vangelo, facendosi deboli con i deboli. La Chiesa è prolungamento della missione di Gesù nel risollevare chi è oppresso dal dolore e dalla malattia. La seconda ricorrenza di Giobbe cade nella XII domenica del Tempo Ordinario (anno B). Il brano evangelico propone la tempesta sedata (Mc 4,35-41), una "cristofania" che spinge i discepoli a interrogarsi sull'identità di Gesù: «Chi è dunque costui?>>. La barca, nello spostamento all'altra riva, è sballottata dalle onde, mentre Gesù dorme. C'è una forte tensione tra la calma di Gesù che è assopito «a poppa, sul cuscino», e l'agitazione dei discepoli che lo supplicano: «Maestro, non t'importa che moriamo?». Gesù si manifesta come colui che comanda al mare e al vento, rivelando una relazione unica con il Dio Creatore. A questa pagina viene accostato il brano di Gb 38,1.8-11 tratto dal primo discorso di Yhwh sul mistero del cosmo (Gb 38-39). Giobbe risponde dicendo: «Ecco non conto niente: che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca» (Gb 40,4). L'argomento utilizzato da Dio parte dalla sua potenza sulle forze della natura: chi se non Dio è in grado di dominare le potenze del cosmo e porre un limite alle acque impetuose? Nella Scrittura il mare, le acque profonde, rappresentano le forze del male e della morte. In Gesù, Dio si manifesta nuovamente come colui che ha il potere su ogni forza negativa. La tensione tra Gesù che dorme a poppa e i discepoli che si agitano inutilmente dice lo "scarto" che esiste tra la creatura e il Creatore: i discepoli sono come davanti alla santità di Dio. La seconda lettura, attingendo a 2Cor 5,14-17, offre uno spunto di attualizzazione. Paolo afferma: «Non guardiamo più nessuno alla maniera umana. . . se uno è in Cristo è una creatura nuova>>. L'incontro di Giobbe con la grandezza e maestà di Dio, così come l 'incontro dei discepoli con l'identità di Gesù, porta ad assumere uno sguardo differente, a leggere la realtà a partire dall'incontro trasformante con la santità di Dio, che si manifesta e si lascia toccare nell'umanità di Cristo.
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Giobbe nel ciclo feriale Nel ciclo feriale Giobbe viene letto in lettura semicontinua nella XXVI settimana del Tempo Ordinario degli anni pari. Si tratta di una lettura che tocca sommariamente solo alcuni tratti del testo. Il lunedì viene letta la prima parte della vicenda di Giobbe (Gb l ,6-22), fino alla famosa espressione, cara anche alla tradizione ebraica: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (v. 21). Il testo riporta il dialogo tra Dio e Satana con la "scommessa" su Giobbe, seguita da una serie di sciagure che lo travolgono. Nel brano evangelico di Le 9,46-50 i discepoli discutono su chi sia il più grande. L'accostamento dei testi potrebbe far riflettere sulla vera grandezza umana: Giobbe è un uomo ricco e felice che vede sgretolarsi ogni cosa in pochi istanti; Gesù indica ai discepoli qual è la vera grandezza nella logica del Regno. Il martedì propone alcuni stralci del monologo iniziale di Giobbe (Gb 3,1-3.11-17.20-23), una meditazione sulla vita umana toccata dalla sciagura: «Perché dare alla luce un infelice?». In essa Giobbe arriva a maledire il giorno della sua nascita. Il brano evangelico (Le 9,5 1-56) presenta la decisione di Gesù di andare fermamente verso Gerusalemme, luogo della sua Pasqua, del dono della sua vita. L'accostamento mette a confronto la figura di Giobbe, segnata dalla sciagura improvvisa e subita, e quella di Gesù che volontariamente sceglie di incamminarsi verso il luogo in cui vivrà il dono di sé, in obbedienza alla volontà di Dio. Ogni male umano può essere vissuto nella chiusura o nel dono di sé. In fondo, il cammino di Giobbe sarà una riflessione su come poter vivere il male e il dolore. Alla luce di Gesù e del Vangelo anche la sofferenza umana viene illuminata. Il mercoledì il testo di Gb 9,1-12.14-16 propone la risposta di Giobbe all'amico Bildad nel primo ciclo di interventi (cc. 4-14). È una riflessione sulla grandezza di Dio e sulla sua sapienza con cui l'uomo non può gareggiare o mettersi a discutere: «Come può un uomo aver ragione davanti a Dio?». Nel brano evangelico (Le 9,57-62) viene narrato l'episodio in cui tre persone si misurano con la sequela di Gesù: due si offrono spontaneamente, uno vie-
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ne chiamato da Gesù stesso. Il testo di Giobbe, come riflessione sull'alterità di Dio, può anche illuminare le esigenze della sequela. Il giovedì, la prima lettura (Gb 19,21-27b) propone a un altro intervento di Giobbe, attinto dalla sua risposta a Bildad nel secondo ciclo di dialoghi (cc. 15-21). In esso Giobbe invoca un redentore. Il testo ha avuto particolare attenzione perché sembra una professione di fede nella vita dopo la morte: «Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio». Il brano evangelico di Le l O, 1-12 narra l'invio dei settantadue discepoli. Il punto di contatto tra i due testi è la sete di salvezza e di pace che abita il cuore dell'uomo, invocata da Giobbe e annunciata dai discepoli inviati in missione. Il venerdì il brano di Gb 38,1.12-21; 40,3-5 riprende il discorso della XII domenica del Tempo Ordinario. Viene accostato alle parole che Gesù rivolge alle città della Galilea (Le l O, 13-16). I testi sono due "requisitorie": la prima di Dio, la seconda di Gesù, verso le pretese di "autonomia" dell'uomo. L'uomo è chiamato a riconoscersi creatura bisognosa della salvezza di Dio. Infine, il sabato propone un testo (Gb 42,1-3.5-6.12-16) tratto sia dalla seconda risposta di Giobbe a Yhwh (Gb 42, 1-6), sia dalla cornice narrativa conclusiva del libro. Dopo un lungo cammino di sofferenze, Giobbe giunge a una rinnovata conoscenza di Dio: «Prima ti conoscevo per sentito dire, ora i mi occhi ti hanno veduto». Il brano evangelico (Le l O, 17-24) propone il ritorno dei settantadue discepoli e la beatitudine rivolta loro: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete». Se Giobbe parla di una visione di Dio che nasce dall'aver attraversato l'esperienza della sofferenza e del dolore, Gesù dichiara beati i discepoli perché vedono la salvezza di Dio che in lui si rinnova. L'ultimo brano di Giobbe utilizzato nel lezionario liturgico lo troviamo nelle celebrazioni dei defunti (Gb 19, 1.23-27a). Il testo viene scelto perché, a partire dalla traduzione latina di Girolamo, è letto come una professione di fede nella vita dopo la morte. Nella Commemorazione dei fedeli defunti esso è accompagnato da Rm 5,5-11, che annuncia la redenzione operata da Dio in Cristo Gesù mentre eravamo ancora peccatori, e dal brano evangelico di Gv
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6,37-40, in cui Gesù dichiara: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno». Conclusione L'aver ripercorso i testi di Giobbe proposti nellezionario, mostra come questo testo sia valorizzato con difficoltà e in modo molto limitato. La stessa sorte è riservata a Giobbe anche dalla tradizione ebraica. Scrive Amos Luzzatto: «Il popolo ebraico non ha mai trovato nel libro di Giobbe un fondamento del proprio comportamento, della propria identità profonda, delle promesse a lui fatte e da lui custodite. Nel modo tradizionale di essere educati ebrei si poteva, addirittura, ignorare l'esistenza del libro di Giobbe, anche se, ovviamente, non fu (né è) mai dato ignorare l'esistenza della sofferenza». Solo in alcune tradizioni Giobbe viene letto il 9 del mese di Av quando si commemora la distruzione del tempio. In questa occasione il libro viene letto- come sottolinea Amos Luzzatto - «nel contesto di ricchezza, abbandono e nuova ricchezza propria della vicenda di Giobbe e che si spera essere propria anche del Tempio, una volta splendido, ora distrutto e in futuro, nella speranza, nuovamente splendido». Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli
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Annotazioni di carattere tecnico
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INTRODUZIONE Titolo e posizione nel canone Aspetti letterari Linee teologiche fondamentali Autore, destinatari, datazione Testo ebraico e versioni Bibliografia
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9 9 lO 18 28 33 35
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PROLOGO (1,1- 2,13) 1,1-22 Presentazione di Giobbe e prima serie di disgrazie 2,1-13 Seconda serie di disgrazie
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SEZIONE POETICA CENTRALE (3, l - 42,6) 3,1-26 Il monologo iniziale di Giobbe 4, l - 14,22 Primo ciclo di discorsi tra Giobbe e i suoi amici 4, l - 5,27 Primo discorso di Elifaz 6, l - 7,21 Risposta di Giobbe a Elifaz 8, 1-22 Primo discorso di Bildad 9,1- 10,22 Risposta di Giobbe a Bildad 11,1-20 Primo discorso di Zofar 12, l - 14,22 Risposta di Giobbe a Zofar
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Presentazione
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l 5, l - 21,34 Secondo ciclo di discorsi pag. 124 )) 125 15,1-35 Secondo discorso di Elifaz )) 133 16,1 - 17,16 Risposta di Giobbe a Elifaz )) 144 18,1-21 Secondo discorso di Bildad )) 150 19,1-29 Risposta di Giobbe a Bildad )) 159 20,1-29 Secondo discorso di Zofar 21,1-34 Risposta di Giobbe a Zofar )) 166 )) 174 22, l - 27,23 Terzo ciclo di discorsi )) 175 22,1-30 Terzo discorso di Elifaz )) 183 23,1 - 24,25 Risposta di Giobbe a Elifaz 25,1-6 Inizio del terzo discorso di Bildad )) 194 26,1-4 Risposta di Giobbe a Bildad )) 196 26,5-14 Continuazione del discorso di Bildad )) 196 )) 199 27,1-12 Continuazione della risposta di Giobbe a Bildad 27,13-23 Ripresa del terzo discorso di Zofar )) 202 28,1-28 Inno alla sapienza )) 204 )) 207 28,1-12 Elogio e limite dell'abilità umana 28,13-20 Il valore sublime della sapienza )) 209 28,21-28 Soltanto Dio possiede la sapienza )) 210 29,1 - 31,40 Lungo soliloquio di Giobbe )) 212 29,1-25 Il ricordo della felicità passata )) 213 30,1-31 L 'infelicità del presente )) 219 31, 1-40 Giobbe riafferma la sua innocenza )) 226 32, l - 37,24 I discorsi di Elihu )) 236 )) 237 32,1-5 Presentazione di Elihu 32,6-22 Introduzione ai discorsi }) 238 )) 241 33,1-30 Primo discorso di Elihu 33,31-33 Introduzione al terzo discorso di Elihu )) 248 34,1-37 Secondo discorso di Elihu )) 249 35,1-16 Terzo di'scorso di Elihu }) 256 36,1 -37,24 Quarto discorso di Elihu }) 260 38, l - 42,6 I dialoghi con Yhwh )) 272 )) 273 38,1-39,30 Teofania e primo discorso di Yhwh 40,1-14 Interpellazioni di Yhwh e prima risposta di Giobbe )) 287 40,15 - 41,26 Il secondo discorso di Yhwh: Behemot e Livyatan )) 290 42,1-6 Seconda risposta di Giobbe )) 300
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EPILOGO (42,7-17) 42,7-9 Dio biasima gli amici di Giobbe 42, l 0-17 La conclusione: Giobbe ristabilito nella prosperità IL LIBRO DI GIOBBE NELL'ODIERNA LITURGIA Giobbe nel ciclo festivo Giobbe nel ciclo feriale Conclusione
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