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Italian Pages 156 Year 1991
A I G O L O P O R T N VERSO UN'A O I C C E R T N I ' L DEL
di
MAURIZIO BETTINI
QuattroVenti
LETTERATURA E ANTROPOLOGIA a cura di Renato Raffaelli
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MAURIZIO BETTINI
VERSO UN’ANTROPOLOGIA PEFRINIRECSCIO e altri studi su Plauto
QuattroVenti
ISBN 88-392-0164-5
Pubblicato con contributi del M.P.I. e del M.U.R.S.T. (fondi 40% Ferrara).
Copyright © 1991 Edizioni QuattroVenti Snc, Cas. Post. 156, Urbino.
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.
PREMESSA
Venti anni fa ero uno studente assolutamente deciso a laurearsi con una tesi sull’Odissea di Omero. Poi accadde qualcosa che non potevo proprio prevedere, l’incontro con Marino Barchiesi: che amava Plauto. Le sue lezioni di Letteratura latina attiravano non solo gli studenti di Lettere ma persino quelli di Giurisprudenza: le ore di Grammatica greca e latina (da mezzogiorno all’una, Barchiesi era un
professore che arrivava mal volentieri alle nove ma si tratteneva con piacere sino alle due e mezzo ...) incantavano noi classicisti per la loro insolita tendenza a scivolare dalla Lateinische Umgangssprache alle citazioni di Shakespeare. E comunque dietro c’era sempre lui, il poeta di Sarsina, non più (o non solo) banco di esercitazione per distinguere la lana dalla seta, il plautino dall’attico, ma autore di vena libera e inarrestabile, capace di creare fantasmi verbali più solidi e scintillanti del cristallo. Come si faceva a resistere? Abbandonai Omero per Plauto. Ricordo quel periodo perché fu un bel periodo, e soprattutto per testimoniare la capacità, che Barchiesi ebbe, di spingere non solo me, ma tanti altri come me all'amore di un testo che lo meritava, e lo merita ancora. E anche per questo che mi sono deciso a ripubblicare
alcuni dei saggi che ho scritto, nel tempo, sulla commedia di Plauto. Sono quindici anni che Barchiesi ci ha lasciato, e questo libro (con l'occasione anche dell’anniversario, ma sarebbe stato comunque così)
è dedicato alla sua memoria. Le commedie di Plauto sono un testo vicino perché nel corso dei secoli sono entrate così tante volte, e in così tante forme, nella nostra cultura (imitate, riscritte, studiate) che talvolta si finisce per perdere di vista la distanza che ci separa da loro. Eppure, chiunque
percepisce anche che si tratta di testi lontani da noi, lontani per ragioni di cronologia e di mutata sostanza culturale. Il contesto antropologico in cui le commedie di Plauto sono nate coincide solo in par-
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Premessa
te, e a volte non coincide affatto, con quello in cui esse vengono chia-
mate a rivivere nelle loro ‘riscritture’ o negli studi che le riguardano.
Questa oscillazione fra contemporaneità e distanza, fra identità e
differenza, fa ormai parte integrante del testo plautino — del suo esistere persino come spettacolo da stagione estiva, montato in fretta di fronte ad una platea in maniche di camicia; ovvero come ‘piccolo Omero’
dei latinisti, testo arcaico per eccellenza, inaccessibile riserva
in cui si celano modelli di pensiero dimenticati, superstizioni, hapax legomena ... Fermare il testo, ridurlo ad una sola delle sue due nature, sarebbe a questo punto impossibile — e forse non sarebbe neppure augurabile. In ogni caso, la via scelta negli studi che seguono non poteva che essere la seconda, quella della lontananza. Perché la c o ntemporaneità deltesto antico, se lo rende spesso più amabile, agisce anche come un velo, una spolverata di neve che cancella i tratti, talora ostici e irti, della superficie originale. Proviamo dunque a guardarlo nella sua distanza, il testo di Plauto, allontaniamo l’obietti-
vo per quel tanto che ci permetta di non giudicare ‘ovvie’ tutte quelle parti che sembrano coincidere con la nostra percezione culturale immediata (perché probabilmente non è così): la lontananza ci impedirà anche di rimuovere tacitamente quei passaggi la cui mancata coinci-
denza con gli attuali quadri di riferimento suscita l'impressione della fiacchezza, del fuori luogo, del ‘non si capisce bene’. Il programma ideale sarebbe dunque quello di non trovare più ‘naturale’ quel che è semplicemente ‘usato’: del resto, l’obiettivo principale degli studi antropologici non è forse quello di provocare ciò che si definisce «denaturalizzazione dei pregiudizi»? Come ben si sa, la commedia plautina si caratterizza come un insieme di testi in cui l’intreccio svolge una funzione fortissima, quasi schiacciante. Ecco perché abbiamo scelto di partire proprio da qui. Dal punto di vista della intelaiatura, del canovaccio di progetti e di azioni che sostiene lo svolgersi di una commedia plautina, allo ntanare il testo significa in primo luogo cercare di riannodare i capi di queste antiche ‘trame’ ai sostegni da cui, in origine, esse si dipanavano.
In alcuni casi sarà necessario disfarli, questi intrecci, e rian-
nodarli in modo diverso per permettere ai nostri occhi disabituati di percepire la loro disposizione e il loro significato: come accade nel capitolo I, quello da cui il libro prende nome. Altre volte quest'opera di smontaggio sistematico non sarà necessaria, e basterà riconoscere
dietro le intelaiature della trama alcuni modelli antropologici di riferimento che la nostra mutata cultura non ci permette più di percepire in maniera immediata: le inversioni e i rovesciamenti praticati durante la festa dei Saturnali (nei capitoli II e III), il gioco dei dadi e l’z/ea della sorte (nel capitolo IMI), le regole della parentela e le ‘buffe’ contraddizioni delle genealogie mitiche (nel capitolo IV). Ma il presuppo-
Premessa
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sto di fondo resta il medesimo. Cioè che il codice culturale — il contesto antropologico in cui il corpus delle commedie è stato generato — svolge nei confronti del testo una vera e propria funzione ar mo n ica: le trame plautine, e con loro il corredo di episodi e di passaggi che formano il tessuto delle singole commedie, si snodano come melodie tanto libere nelle loro realizzazioni più visibili quanto preordinate da un insieme di regole e di passaggi (antropologici) obbligati.
Quando si ripubblicano cose già pubblicate, ci si trova sempre di fronte al dilemma se riscriverle o no. È come se ci si decidesse a guardare delle vecchie foto, iin cui si appare inevitabilmente diversi da come si è. Secondo me è meglio non riscrivere: non si possono adeguare le vecchie foto, tantomeno trasformare la fotografia in uno specchio. Per cui, non cercherò neppure di avanzare una di quelle molteplici spiegazioni (o giustificazioni) per non aver ‘riscritto’, che si trovano di solito in questo tipo di premessa. Mi sono limitato ad aggiungere qualche particolare che non turbava il quadro così come stava ma lo precisava un po’ meglio, e a togliere le inesattezze di cui mi sono accorto. Per il resto, un grazie affettuoso a Renato Raffaelli, a Roberto Danese, e a tutti gli amici di Urbino: dove, si sa, Plauto può contare su un gruppo di estimatori difficilmente eguagliabile.
M. B. Pisa, marzo
1990
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I VERSO UN’ANTROPOLOGIA DELL’INTRECCIO Le strutture semplici della trama nelle commedie di Plauto
{ Prima di avvicinarci al corpus costituito dagli intrecci plautini, sarà bene premettere qualche osservazione ir lizzine. Com’è noto, le commedie di Plauto vivono in uno spazio abbastanza anomalo (almeno in apparenza) all’interno del cosiddetto universo letterario. Il loro autore, infatti, non scriveva del suo,
ma rielaborava i copioni greci che gli erano forniti dalla vastissima produzione della commedia attica. D'altro canto, però, egli non si accontentava di tradurre il greco, ma operava qua e là sue «inserzioni»
originali e per di più «contaminava»
commedia greca con l’altra, inserendo cioè quenze tratte da un’altra. Di conseguenza, seguiranno potrebbero rischiare quel noto incombere sulla critica plautina: dove si ha toccare l’autore greco là dove si vorrebbe Plauto
una
nell’una scene e seanche le analisi che paradosso che pare sempre il dubbio di afferrare piuttosto
(perché il nostro traduce) o, inversamente,
di toccare
Plauto là dove si vorrebbero afferrare le ‘linee pure’ del copione attico (perché Plauto vi inserisce a forza i suoi cunei, oppure «contamina» un testo con l’altro).
1 Confesso però che — rispetto all’osservatorio dal quale ci poniamo — il paradosso in questione appare alquanto defilato. Delle trame plautine non ci interessa infatti scoprire che cosa ha elaborato, con ‘intuizione originale’, il poeta romano: oppure che cosa aveva elaborato, con intuizione altrettanto o maggiormente originale, il poeta attico prima che Plauto gli giocasse il suo tiro. Ciò che tentiamo di fare consiste semplicemente nel descrivere le strutture elementari di questi intrecci, non che nello spiegare i vari meccanismi di trasformazione che realizzano a questo livello i singoli scarti fra un testo e l’altro. E questo
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Verso un’antropologia dell'intreccio
non ha a che fare con una ricerca (più meno ingegnosa) del nobtog evoemig. Che anzi, proprio questa pratica plautina (e non solo plautina) della contamzinatio — questa possibilità di combinare testi originariamente distinti — è in definitiva il miglior invito ad una considerazione sincronica, unificata, del cor-
pus costituito dagli intrecci plautini. 1 L'affermazione non è paradossale. Nel linguaggio critico Corrente «contaminare» significa infatti selezionare certe sequenze da un testo per trasferirle in un altro. Ma sarebbe sbagliato ritenere che comportamenti compositivi di questo tipo siano riscontrabili nel solo campo che pertiene alla filologia classica. Si sa, per esempio, che essi sono diffusissimi, normali nella cosiddetta produzione folclorica, e anzi i folcloristi defini-
scono questi fenomeni addirittura nei termini di una legge, la «legge di trasferibilità». È noto infatti che nella fiaba personaggi, motivi etc. migrano sistematicamente da un testo all’altro (rendendo così metodologicamente ardua, tra l’altro, la catalo-
gazione delle fiabe secondo «tipi» o «motivi»). Le ragioni di queste analogie fra produzione folclorica e commedia palliata sono abbastanza intuitive ed ovvie. «Motivi» da un lato o «scene» dall’altro possono migrare attraverso i singoli testi perché qui come là si ha a che fare con testi ripetitivi, codificati sempre molto rigidamente: testi in cui una intelaiatura fissa — potremmo chiamarla più tecnicamente metastruttura — funge da sostegno ad una serie ristretta di elementi liberi, che in essa si incasellano e si combinano a seconda delle singole esigenze o scelte espressive. In altre parole, proprio la pratica latina della contaminatio presuppone che il corpus di testi greci utilizzato dai comici latini fosse caratterizzato (sempre, ripeto, dal punto di vista dell'intreccio) da un notevole grado di omogeneità e di staticità compositiva ': o perlomeno, che la selezione operata dai poeti della pa/liata all’interno di esso fosse guidata essen! Cfr. C. Questa nella sua introduzionie al Miles con trad. di M. Scandola, Milano
1980, 37 sgg. Sulla contarzinatio dei comici, e soprattutto sul significato antropologico e letterario di questo termine, vedi ora G. Guastella, La contaminazione e il parassita. Due studi su teatro e cultura romana, Pisa 1988. Sulla struttura degli intrecci plautini, C. Questa-R. Raffaelli, Maschere prologhi naufragi nella commedia plautina, Bari 1984; G. Chiarini, Plauto, in Dizionario degli scrittori Greci e Latini, Milano 1988, 1669 sgg. (soprattutto 1679 sgg.); Elena contesa, in Eredità dell’antico fra scuola e cultura, «Taccuini» 7, 1988, 89 sgg.
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zialmente dal criterio dell’analogia e della ripetizione, e non da quello della differenza. Potremmo anzi desumere, per metafora,
una espressione sin troppo usata negli studi sul linguaggio del-
l’epos, e dire che il teatro latino arcaico è un teatro, in qualche
modo, di tipo ‘formulare’: nel senso che i suoi intrecci appaiono costruiti combinando un certo numero di elementi ricorrenti secondo le linee di intelaiature prefissate. Questo modo di comporre (ripeto, sempre al livello di poetica degli intrecci) è ovviamente più vicino ai termini della langue che non a quelli della parole. Omogeneità e staticità delle strutture, ovverosia (sono due facce della stessa moneta) possibilità di trasferire sequenze da un testo all’altro, derivano in ultima analisi dal fatto che in produzioni di questo genere la norma socializzata ha un peso di gran lunga superiore alla invenzione poetica individuale: o meglio, questa si restringe all’abilità — talvolta persino virtuosistica — di combinare e ricombinare elementi noti ed attesi in maniera sempre un po’ diversa, ma sempre uguale a se stessa. Valga qui come modello, ancora una volta, la pratica stilistica dei cantori epici nella cosiddetta poesia orale. :/ Come nella langue saussuriana, gli elementi strutturali utilizzati (o utilizzabili) per i singoli intrecci drammatici vivono come di una vita extrapersonale, autonoma, pronti ad esser trascelti e combinati per formare le singole trame e a seconda delle varie esigenze. Il fatto è che in testi come questi di Plauto il sistema delle attese, rappresentato dal pubblico, appare chiaro e fissato una volta per tutte: e il poeta compone cercando il più possibile di rispettarlo, senza introdurre innovazioni tali da non poter essere immediatamente recepite e sistematizzate, in termi-
ni di langue, dal suo pubblico. Si tratta insomma di testi a destinatario soverchiante, testi che hanno pur sempre qualcosa di simile alla cosiddetta ‘creazione collettiva’ o popolare: nel senso ovviamente che il gruppo cui essi si rivolgono, con le sue attese da non frustrare e le sue censure inappellabili, svolge un ruolo non indifferente nella creazione letteraria °. In altre parole il teatro latino arcaico, e quello plautino in particolare, è stato un teatro di successo e di pubblico proprio perché teatro popolare, testo composto e ritagliato dentro confini prefissati dagli ? Cfr. P. Bogatyrév-R. Jakobson, Il folclore come forma di creazione autonoma, tr. it., «Strum. crit.» 1, fasc. 3, 1963, 16 sgg. (l'articolo apparve nel 1929).
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spettatori. Si potrebbe anche dire che in Plauto il pubblico sta dentro al testo. Ciò non implica però che in certa misura una produzione letteraria di tal genere debba risultare per forza sclerotica, o sia in qualche modo culturalmente spenta, morta. Basta intendersi su quel che deve essere considerato «vita» nel-
la creazione letteraria (sarebbe per caso la sola ‘intuizione origi-
nale’ del poeta creatore?): perché altrimenti potremmo dire, parafrasando Propp?, che questa commedia latina arcaica riproduce soltanto ciò che è simile a sé proprio perché così fa ogni cosa che è viva. È chiaro, comunque, che una produzione del genere riuscirà solo faticosamente ad ‘evolversi’. E chi pretenderà di far preponderare il versante della innovazione o della parole sul sistema collettivo, come Terenzio, non potrà che avere carriera faticosa e stentata. < Ma torniamo alla omogeneità e staticità degli intrecci presupposta dalla contarzinatio (ed intuitivamente chiara a chiun-
que abbia letto Plauto). Ciò che ci siamo proposti è appunto di ricercare e motivare la metastruttura che sottostà ai singoli intrecci plautini, ed è responsabile di questa loro ripetitività: si trattava di trovare una specie di archi-commedia che — una volta enunciate alcune semplici regole di trasformazione — fosse in grado di dar conto delle singole trame. Due parole ora sul metodo che abbiamo praticato. Nelle pagine che seguono non si troveranno descrizioni dettagliate di ogni intreccio (a meno che
non si vogliano considerare tali i riassunti di ciascuna commedia che, per comodità
del lettore, abbiamo
di volta in volta
premesso alle singole analisi). Il terreno su cui ci muoviamo è ovviamente — per usare un'espressione ormai canonica — quello
della fabula e non dell’intreccio. Quanto poi al grado di astrazione che (secondo certe preferenze specifiche, non che le ne-
cessità imposte dalla ricerca) abbiamo attribuito alla nostra nozione di fabula, qui il discorso si fa un po’ più complesso. È stato detto più volte che i singoli atti di pertinentizzazione nella costruzione del modello sono (in campo generalmente natratologico) piuttosto arbitrari ‘, e condizionati dal sistema di chi studia. E chiaro, esistono dei limiti (nel modello il testo deve ? Morfologia della fiaba, tr. it., Torino 1966, 84. 4 Rimando a note osservazioni di C. Segre, Le strutture e il tempo, Torino 1974, 38 seg.
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pur rimanere riconoscibile), però i confini possono allargarsi o restringersi. Noi li abbiamo ristretti alquanto. Non abbiamo infatti avuto l’intenzione, in questa sede, di formalizzare detta-
gliatamente l’intreccio di ciascuna commedia, riorganizzandolo (come si dice) secondo la logica del tempo e delle funzioni: questo lavoro è stato del resto già avviato da C. Questa ?. Quel che ci importava era semplicemente ricostruire le linee elementari di una struttura di senso che, attraverso un numero ristret-
to di trasformazioni, potesse renderci conto dell’ossatura fondamentale che regge i singoli testi plautini: ed è chiaro che, per riconoscere dei significati a un tempo così semplici e così generali, occorreva fondarsi su dei significanti drammatici altrettanto semplici e generali. (, E dunque per raggiungere questo obiettivo che si è dovuto sacrificare una buona parte delle modalità specifiche secondo cui ciascuna fabula si articolava (anche se non sempre questo è avvenuto), per tener ferme piuttosto determinate linee elementari. Se avessimo costruito dei modelli interamente sovrapponibili ai testi (in pratica appartenenti al loro stesso ordine) difficilmente saremmo potuti emergere ad una analisi metalinguistica qual è quella che ci siamo proposti. Vedremo comunque che nei modelli che abbiamo elaborato la ‘concretezza’ conserva pur tuttavia una presenza abbastanza corposa: e, forse, inattesa. I 7 Prenderemo
l’avvio da una commedia
assai nota, il Mz/es
gloriosus. Se partiamo proprio di qui (pur credendo che ad un identico risultato si potrebbe probabilmente pervenire anche muovendo
da un altro testo) è perché l’analisi di C. Questa °
ha chiarito nelle sue linee essenziali la trama della commedia: e
dunque il compito ci è facilitato di molto.
a. Pleusicle è innamorato di Filocomasio, cortigiana. Durante l’assenza del giovane il soldato Pirgopolinice, fanfarone e dongiovanni, rapisce la ragazza e la porta con sé ad Efeso. Palestrione, servo di Pleusicle, si imbarca subito per andare ad avvertire il padroncino,
> Il ratto dal serraglio, Bologna 1979; introd. al Miles, cit. 6 Il ratto, cit.; intr. al Miles, cit.
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ma è catturato dai pirati e donato per l'appunto al soldato (che ne ignora però la reale identità). Servo e fanciulla si riconoscono. In-
tanto arriva anche Pleusicle, avvertito da una lettera di Palestrione, e prende alloggio nella casa contigua a quella di Pirgopolinice, presso il simpatico vecchio Periplectomeno, che era in rapporti di ospitalità con suo padre. I due amanti riescono ad incontrarsi con l’ausilio di un foro praticato nel muro, ma uno schiavo di Pirgopolinice, Sceledro, li scorge. Gli vien fatto credere, però, che si tratta non di Filocomasio ma di una sua sorella gemella (che sarebbe l’a-
mante di Pleusicle) e tutto torna a posto. Infine, la trappola. Si finge che Periplectomeno abbia una moglie follemente innamorata del soldato: in realtà si tratta di una cortigiana, Acroteleuzio, affit-
tata per l'occasione con tanto di servetta mezzana (Milfidippa). Pirgopolinice, sollecitato nella sua vanità e nel suo libertinaggio, pensa immediatamente di mandar via lui stesso Filocomasio (divenutagli d’impaccio in questa nuova fase galante), e per facilitare il ‘distacco’ Palestrione gli propone anzi di lasciarle, come consolazione, vestiti e gioielli: il soldato abbocca, e anzi dona a Filocomasio anche Palestrione. I due se ne vanno (al porto ci sarebbe infatti ad attenderli la ‘sorella gemella’ e persino la ‘madre inferma’!) e Pirgopolinice si avvia verso la casa di Periplectomeno: tranquillo e sicuro perché gli si è fatto credere che la matrona, per amor suo, ‘ha allontanato di casa il marito. Ma lo aspetta solo un sacco di bastonate.
7 Il riassunto che abbiamo dato di questa commedia, benché (crediamo) completo, si presenta già abbastanza stringato 7. A noi, però, interessa generalizzare ulteriormente (come già si accennava, ci muoviamo con l’intenzione di ridurre al massimo
l'inventario dei tratti pertinenti) e costruire un modello ancor più semplificato. Si può provare a formulare una frase, la più semplice possibile, che possa dar conto della trama. Evidentemente non potrà essere che, più o meno, questa che segue: u n giovane, in sòl'idarietàltieonta bene sonaggi, vuol ad un soldato
strappate una che la detiene,
cortigiana e ci riesce
tramite un inganno. Il resto, le modalità specifiche della ‘detenzione’ e della ‘sottrazione’, si può dire che consista-
Premetto che nei riassunti non abbiamo distinto tra «fatti» realmente agiti sulla scena e «antefatti» presupposti: ai nostri fini tale distinzione non avrebbe senso. 7
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no in una serie di espansioni drammatiche che realizzano (ab-
bastanza liberamente)
questo nucleo elementare
di azione in
una commedia. Per usare la terminologia aristotelica, potremmo dire così: tò uèv oùv idlov TOUTO, Tè è'diia reroò-
do *.
? In altre parole, prescindiamo dalle modalità specifiche secondo cui il giovane sottrae la cortigiana al lenone che la detiene (modalità peraltro pertinenti ad altri livelli di analisi morfologica) per ridurre la trama ad un’ossatura piuttosto scarna: ma che rappresenta pur sempre la struttura fondamentale della commedia. Benché ridotto, il modello proposto è ancora sufficientemente specifico per poter restituire le linee fondamentali del Miles — o di una commedia tipologicamente affine al Miles: ed è proprio questo che ci interessa, semplificare sino a raggiungere una serie di tratti elementari comuni a vari intrecci plautini (non che le regole in base a cui questi elementi si combinano e si trasformano). Naturalmente ciascun testo, come si
diceva, realizzerà il proprio nucleo elementare secondo regole e finalità sue particolari, che lo renderanno contemporaneamente diverso, ‘originale’, ma anche raggruppabile con altre serie di testi plautini o meno ?. /0 Se proviamo ora a rappresentare il nostro modello elementare sotto la forma di uno schema, possiamo partire da una relazione semplice del tipo Bo
>
A
dove B è il «soldato», C la «donna», A il gruppo di personaggi (fra cui il «giovane») solidali nell’azione: mentre ( ) indicherà
l’«appartenenza» di C a B, e — il «trasferimento» di C da B ad A. Perché questo nudo schema di trasferimento possa trasformarsi in intreccio, ovvero in una certa sequenza organizzata
di azioni, sarà necessario che il detentore del bene in questione sia (come p. es. nel Miles) assolutamente riluttante a concederlo: questo è ovvio. Vincere le sue resistenze sarà per
8 Poet. 1455b.
i
vere
? È questo il caso dell’analisi condotta da Questa nel Razto, cit. (Miles, Ifigenia in
Verso un’antropologia dell'intreccio
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l'appunto ciò che costituisce la trama della commedia. Ora (proprio come avviene nel Miles) queste resistenze vengono vinte molto spesso in un modo solo: tramite un inganno, ovvero ricorrendo ad una trasgressione. Ci occuperemo più avanti dei problemi di compatibilità con il codice culturale che queste trasgressioni sollevano. Certo è che, in Plauto, il compito che l'eroe deve affrontare consiste generalmente nell’ingannare qualcun altro. Se, poniamo, il lenone detiene una cortigiana, l’adulescens e lo schiavo se ne impadroniranno ingannandolo (oppure ingannando il senex per fargli sborsare il denaro necessario al riscatto). \\ Diventa dunque necessario introdurre anche nel nostro Co di riferimento questa componente dell’inganno. Per farlo, sarà utile proiettare questo schema su due semipiani opposti, orientati in base alla categoria antropologica vietato (—) / permesso (+). Ossia: Bo)
A
In altre parole, se la linea tratteggiata separa lo spazio di ciò che è socialmente permesso da ciò che è socialmente vietato, il trasferimento di C da B ad A funziona contemporaneamente come una trasgressione di quest'ordine '°. \& Questa, dunque, la semplificata ossatura grafica di una trama plautina. Per metterla ora in grado di funzionare, rendendola capace di adattarsi alle diverse esigenze che verranno poste su su dalle commedie che studieremo, sarà utile ripensarla
in base ad una delle acquisizioni più interessanti dell’opera di Greimas, ossia il suo schema attanziale ‘!. Com’è noto, questo
studioso, lavorando sulla teoria proppiana, ha ricavato un grup-
Tauride ed Elena di Euripide, i libretti per Entfiibrung aus dem Serail e Italiana în Algeri, etc.)
‘© Il soldato Pirgopolinice, in quanto rapitore della fanciulla, si configura in realtà come detentore illegittimo di lei: su questo problema cfr. più avanti, 34 Sg. !! A.J. Greimas, Semantica strutturale, tr. it., Milano 1969, 212 sgg.
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po di tre categorie oppositive — rispettivamente destinatore /
destinatario, soggetto / oggetto, aiutante / oppositore — capaci di dar conto del tipo di fiaba studiata da Propp (e anche di qualcosa di più generale). Ci pare che la proposta di Greimas si adatti particolarmente bene al genere di trama che stiamo studiando: proviamo perciò ad applicarla al Mzles. È chiaro che Pleusicle sarà ad un tempo il destinatore e il destinatario dell'inganno, Palestrione il soggetto, Filocomasio l’oggetto, Periplectomeno l’aiutante, Pirgopolinice (con Sceledro) l’oppositore (o antagonista). Dunque, nei termini del nostro schema B funzionerà da oppositore, C da oggetto: mentre A cumulerà evidentemente le categorie di destinatore / destinatario, di soggetto e di aiutante. In altre parole, ci pare utile considerare A come un gruppo solidale di funzioni, marcate dalla comune partecipazione di un certo numero di personaggi (o «attori») ! ad un identico progetto di azione. Naturalmente, per abbreviare l’analisi non ci soffermeremo ogni volta sulla specifica distribuzione delle varie funzioni attanzali fra i singoli personaggi: tranne quando ciò non abbia importanza per la descrizione della struttura fondamentale.
1 Un'altra considerazione. Si sarà notato che nella nostra ‘frase’ elementare (quella che ci sembra racchiudere il nucleo della
commedia) ci siamo serviti di un tipo di sostantivi apparentemente sorprendente: «giovane», «cortigiana», «soldato». Dico sorprendente perché (almeno in apparenza) il livello di astrazione che ci siamo proposti vorrebbe piuttosto dei simboli, o dei pronomi e sostantivi generici («qualcuno» vuole strappare «un certo bene» etc.), tanto che certe qualificazioni specifiche possono apparire fuori luogo. Tali qualificazioni scompaiono, in effetti, nello schema che abbiamo tracciato: ma ci teniamo
che restino vive nella memoria, come correlato inscindibile, per ogni testo, di una simbologia che resterà invariante. Vedremo
12 Con «attori» utilizziamo una terminologia greimasiana, Struttura degli attanti, in Del senso, tr. it., Milano 1974, 266 sgg.: l’«attore» è una «unità lessicalizzata», e pro-
prio perché fornita del «sema di individuazione» si distingue dal «ruolo», che non lo
comporta. Dato però che qui ci occupiamo di testi teatrali — dove il termine «attore» sarebbe spesso suscettibile di confusione — utilizzeremo come suo equivalente «personaggio».
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più avanti le ragioni specifiche di questa preferenza RANE persino ovvio rammentare che il pericolo maggiore, in questo tipo di analisi, è proprio costituito dall’astrazione. Bisogna riuscire a fermarsi, come si dice, in tempo, senza rischiare di tro-
varsi fra le mani dei gusci vuoti anziché delle strutture piene di senso. C'è anzi un motto di La Rochefoucauld che vorremmo ricordare, magari come monito a noi stessi, e a chi pratica di
questi studi: «Il più grande difetto dell’acume non è quello di non raggiungere lo scopo: è quello di trapassarlo». )$ Proseguiamo dunque nel nostro cammino, rivolgendoci ad una commedia almeno tanto famosa quanto la precedente, lo Pseudolus: b. Il giovane Calidoro ama Fenicio, cortigiana appartenente al lenone Ballione. Questi ha ceduto la ragazza a un soldato per venti mine: quindici le ha già riscosse, le altre cinque gli verranno consegnate all’atto della cessione effettiva. Calidoro, senza danaro, non può
farci nulla. Ciò che Ballione al massimo può concedergli è questo: trovi anche lui venti mine, ed egli mancherà al patto col soldato per cedere Fenicio al giovane. Calidoro si rivolge per aiuto al furbissimo schiavo Pseudolo, che si mette all’opera. In un colloquio con Simone, padre del giovane, lo schiavo si vanta che intende far sborsare proprio a lui le venti mine necessarie. Simone, sportivamente, sta al gioco. Se prima di sera Pseudolo riuscirà a portar via la ragazza al lenone, egli sborserà spontaneamente il denaro: altrimenti lo schiavo finirà al mulino. Il vecchio non manca però di avvertire poco dopo Ballione perché stia in guardia. Giunge nel frattempo Arpace, un messo del soldato, con una lettera di ricono-
scimento e le cinque mine mancanti: dopo averle versate, il messo intende prendere con sé la ragazza e portarla al soldato. Pseudolo si fa passare per l’intendente di Ballione, e il messo gli consegna la lettera (non il danaro). Lo schiavo si rivolge allora a Calidoro, il
quale grazie al suo amico Carino ottiene l’aiuto di uno schiavo di questo, Simia, perché sostenga con Ballione la parte del messo (che il lenone non conosce). Simia fa il suo dovere, mostra la lette-
ra di riconoscimento, versa a Ballione le cinque mine (prestate da Carino) e il lenone gli consegna Fenicio. A questo punto Ballione è tranquillo, tanto tranquillo da promettere al vecchio Simone che
gli darà lui venti mine se Pseudolo riuscirà a portar via la ragazza: 2 Cfr, 28:8g,:48.
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e anzi, gli regalerà anche la ragazza! Giunge infine il vero messo del soldato, che fa venire in luce tutta la trappola. Ballione dovrà restituire le venti mine al soldato e sborsare altre venti mine per la scommessa perduta con Simone (che a sua volta le trasmetterà a
FIERA): Schiavo e padrone, riconciliati, vanno insieme a far bal-
oria.
6 E sin troppo chiaro che la struttura elementare rende questa commedia assolutamente identica alla precedente. Anche qui un giovane, in solidarietà con altri personaggi, vuol strappare una cortigiana ad un uomo che la detiene, e ci riesce con un inganno. Tutto si svolge, insomma, secondo lo schema tracciato a p. 18. Ciò che muta è semplicemente il «ruolo» !* del detentore — antagonista: non più un «soldato», ma un «lenone». 7 Per ciò che concerne poi le categorie attanziali, è facile vedere che Calidoro esprime la funzione di destinatore e di destinatario, Pseudolo quella di soggetto, Fenicio quella di oggetto, Ballione quella di antagonista: quanto all’aiutante, tale funzione appare spartita fra Simia, Carino e naturalmente Arpace, che è aiutante senza averne l’intenzione. Al gruppo dell’aiutante andrà ricondotto poi anche Simone, che da questo punto di vista agisce un po’ come il rovescio di Arpace: mentre questo coopera all’inganno senza averne l’intenzione, Simone ha in certo modo l’intenzione di farlo (promette di sborsare il danaro se Pseudolo riuscirà nella beffa) anche se di fatto la sua cooperazione non si traduce in realtà (egli dovrà sì sborsare a Pseudolo
le venti mine, ma esse gli verranno rifuse poi dal lenone che ha perso anche lui la sua scommessa). 14 Uso il termine ancora nel significato di Greimas, Struttura degli attanti, cit., 267 sgg.: una «denominazione che sussume un campo di funzioni» ossia un insieme di «comportamenti realmente manifestati nel racconto, o semplicemente sottintesi». Per ciò che ci riguarda, la qualificazione / lenone / sussume tutta una serie di «comportamenti lenonici» (quei comportamenti, realizzati o presupposti, ben noti al lettore di Plauto, visto che il poeta tende ad enfatizzarli): diversi, p. es., dai «comportamenti
soldateschi» che l’«attore» Pirgopolinice manifestava, in quanto — benché ugualmente «antagonista» sul piano dell’armatura attanziale — gli era attribuito il «ruolo» di soldato. Di fatto, nel teatro plautino il ruolo può corrispondere alla «maschera»: diversa-
mente, si costituisce in «personaggio» (o «attore») una «maschera» fornita anche di una individuazione particolare (e dunque Ballione considerato non come «ruolo-maschera» / lenone, ma come «Ballione», personaggio dello Pseudolus).
Verso un'antropologia dell’intreccio
22
€ Il personaggio di Simone ci costringe però a porci un problema. Se esso può venir ricondotto alla funzione di aiutante, va detto che, da un altro punto di vista, egli rientra anche in quella di antagonista. Pseudolo riesce infatti a sconfiggerlo, facendogli sborsare le venti mine: e in effetti nell’ultima scena della commedia il vecchio si comporta realmente come uno «sconfitto» dallo schiavo. Bisogna però distinguere i due diversi piani in cui le due funzioni di Simone si esplicano. Se il vecchio è aiutante per ciò che concerne la beffa perpetrata ai danni di Ballione, egli diventa antagonista in quella perpetrata da Pseudolo ai suoi stessi danni (la scommessa fra lui e lo schiavo:
dunque una «prova»). Ci sono cioè almeno due diversi ‘nastri’ su cui scorre la trama della commedia, forniti entrambi di una
loro specifica isotopia drammatica. Occorre notare, però, che tale secondo
nastro
drammatico
(la scommessa
con
Simone
etc.) non è una semplice partie ” narrativa incuneata nel testo, sul tipo degli episodi che spesso vengono incastonati p. es. nelle fiabe, o nei racconti di folclore. Non ci troviamo di fronte a
una inserzione che interrompe semplicemente la successione lineare del testo per poi lasciarlo riprendere immutato alla sua conclusione: al contrario, si tratta di un vero e proprio ingranaggio drammatico, una sequenza che svolge una funzione precisa nell'economia globale della trama: togliendola, la commedia si inceppa. Se dunque concepiamo la trama come una sorta di fascio nervoso (dove ciascun nervo è autonomo, ma tutti concorrono a determinare un certo impulso, ciascuno
con una funzione insostituibile), potremmo definire i singoli nastri concorrenti alla trama come «nervature» drammatiche.
Questo modo
di costruzione a molteplici nervature,
un modo
sofisticato e complesso, in cui vari episodi si organizzano non in giustapposizione ma secondo regole finalizzate di struttura, si presenta particolarmente tipico della palliata, e marca uno scarto abbastanza vistoso rispetto ad altri tipi di trama. (] Tornando dunque alla scommessa con Simone, potremmo dire che questi due diversi ‘nastri’, in cui scorre la trama della commedia, si incrociano in un punto, Simone: che (come «aiutante» nell’una e «antagonista» nell’altra) manifesta contempo“
s eco È La terminologia è lévi-straussiana: cfr. La struttura e la forma, in app. alla cit.
Le strutture semplici della trama in Plauto
23
raneamente le due nervature. Si noterà poi che la forma dell’a-
zione in cui Simone si presenta come antagonista è in tutto e
per tutto identica a quella analizzata per la prima nervatura drammatica: si tratta infatti del trasferimento di un certo bene (le venti mine) dal suo detentore (Simone) nelle mani di Pseu-
dolo, trasferimento operato pre un atto di astuzia. Limitiamoci per ora a notare che il carattere minore di questa seconda
nervatura drammatica è sottolineato dal fatto che Simone (cui
Ballione rimborserà le venti mine che gli sono state ‘beffate’) non è in realtà un vero danneggiato, ma solo un intermediario; tramite l’artificio della scommessa fra Simone e Ballione (la seconda scommessa) la tensione della beffa ai danni di Simone è scaricata anch’essa sul lenone, che diviene così, simultaneamen-
te, il polo negativo di entrambe le nervature drammatiche. 20 Se vogliamo completare quanto detto sin qui, possiamo no-
tare come l’azione principale abbia anche un suo equivalente (strutturalmente del tutto omologo) nel danno subìto dal solda-
to (in solidarietà con Arpace). Egli infatti, detentore potenziale di Fenicio, si trova sottratta la ragazza secondo quello schema di «trasferimento» con inganno che ci è ormai noto. Esiste dunque anche una terza nervatura drammatica, anch’essa secondaria e in certo modo di rimbalzo, che appare in tutto e per tutto identica a quella che si manifesta nella struttura principale. Questa triplice articolazione della trama nell’organarsi delle tre nervature attorno al soggetto Pseudolo, rende conto della complessità della commedia
(una caratteristica che risalta
già dalla semplice lettura del riassunto che ne abbiamo dato) e insieme della sua non comune felicità drammatica. 2) È ora il momento di passare ad un altro testo, il Persa: c. Lo schiavo Tossilo, in assenza del padrone, fa l’amore con Lemni-
selene, una cortigiana. Essa è in potere del lenone Dordalo, e per riscattarla occorre del danaro. Sagaristione, un altro schiavo, glielo fornisce (stornando a questo scopo una somma ricevuta dal padrone per certi acquisti) e Tossilo riscatta l'amata. Nel frattempo, però, ha ordito un inganno per recuperare il danaro sborsato. Fa vestire in modo esotico la figlia di Saturione, un parassita suo amico, tr. it. della Morfologia di Propp, 175 (o anche in Antropologia Strutturale II, Milano
1978, 164); vedi anche M. Bettini, Antropologia e cultura romana, Roma 1986, 236 sgg.
24
Verso un’antropologia dell'intreccio
e finge che sia una schiava inviatagli dal padrone che sta in Arabia (Sagaristione, travestito da persiano, è l’accompagnatore). Dordalo, a cui la ragazza è mostrata, abbocca, e sborsa per averla una cifra
molto superiore '° a quella ricevuta per Lemniselene. Dopo di che arriva Saturione che, dopo il ‘riconoscimento’ fra padre e figlia, minaccia di portare in tribunale Dordalo per aver fatto commercio di donne libere. Lemniselene e il danaro sono perduti.
22
Inutile dilungarsi in commenti. Anche qui un giovane ama
una cortigiana, che è in potere di un lenone, e in solidarietà
con altri personaggi se ne impadronisce tramite un inganno. L’unica osservazione che val la pena di fare è che (nella struttura, diciamo, superficiale della commedia) ha avuto luogo un fenomeno di sincretismo inedito nel panorama plautino: questa volta i due ruoli di «giovane innamorato» e di «schiavo ingannatore» appaiono cumulati in un unico attore, Tossilo. Di conseguenza egli è non solo soggetto (come lo è stato sin qui lo schiavo) dell’azione, ma anche destinatore / destinatario. Si potrebbe dire che questo sincretismo (che conduce alla meraviglia di Sagaristione al v. 25, 1472 servi bic amant?) rimedia, in certo modo, una ingiustizia drammatica cui lo schiavo appare sotto-
posto nel teatro di Plauto: egli infatti è regolarmente il soggetto di un’azione di cui, però, non è mai né il destinatario né il de-
stinatore. Questa rigida spartizione delle funzioni è naturalmente un riflesso della posizione sociologica dello schiavo: che è per definizione un subalterno, e quindi non può avere interessi o finalità sue proprie. 1% Tutto ciò merita una riflessione particolare. Perché a questa assenza di compartecipazione riguardo all’«oggetto» della trama fa riscontro, com'è ben noto, una incidenza discriminante dello
schiavo nello svolgimento dell’azione. È probabile che fra questi due fenomeni ci sia un nesso di interdipendenza. In altre parole, riteniamo che la notoria posizione egemonica del servo all’interno dell’intreccio (egli è realmente l’«eroe» della vicenda) sia conseguente alla privazione da lui subìta sul piano delle funzioni (egli non è mai destinatario o destinatore) — e quindi, in ultima analisi, una conseguenza del codice sociologico: proprio in quanto deve necessariamente essere disinteressato, ovve!° Così dall’analisi di G. Chiarini, La recita, Bologna 19837, 165 e n. 182.
Le strutture semplici della trama in Plauto
25
ro puro soggetto dell’azione, lo schiavo gode di un accrescimento di centralità e di attivismo. Crediamo dunque che stia
qui (nella dialettica fra la distribuzione delle funzioni dramma-
tiche e le regole del codice culturale) la radice di ciò che Marino Barchiesi definiva efficacemente «funzione metateatrale» dello schiavo plautino !: ossia la possibilità concessa a questo personaggio di rompere in qualche modo l'illusione scenica e di ‘improvvisare’ l’azione nel corso del suo stesso svolgimento. Questo procedere drammatico è possibile proprio perché lo schiavo trova enfatizzate le sue caratteristiche di soggetto (e dunque, in certo modo, di «detentore») dell’azione teatrale in
quanto vi agisce solo per agirvi, senza partecipare di finalità o vantaggi. Il fatto è che lo schiavo — questo subalterno — eroe — è simultaneamente dentro l’azione (perché vi agisce) ma anche fuori di essa (perché non ne fruisce i risultati). In quanto mero soggetto egli può mediare il dentro con il fuori, la posizione di ‘autore’ del dramma con quella di ‘attore’ di esso. 24 Ma allo stesso ordine di distribuzione funzionale credo che
vada ricondotta anche un’altra singolarità che può accompagnare la beffa dello schiavo. A volte l’antagonista viene esplicitamente avvertito del fatto che l’eroe — servo ha intenzione di imbrogliare proprio lui: è quel che capita, appunto, al vecchio Simone nello ‘Pseudolus (preavvertito da Pseudolo del fatto che lo schiavo ha intenzione di far sborsare i soldi proprio a lui) e al vecchio Nicobulo nelle 'Bacchides (anch’egli preavvertito dello stesso rischio da parte del servo Crisalo). In tal
modo la gravità della beffa cui gli antagonisti verranno sottoposti risulta enormemente enfatizzata, e tutto assume un colorito
quasi surreale. La situazione viene in qualche modo a corrispondere (sul versante comico) a quel tipico schema mitico secondo cui un personaggio, preavvertito da un oracolo di un pericolo che lo sovrasta, cerca in ogni modo di mettersi in salvo, ma di fatto le singole precauzioni messe in atto lo avvicinano sempre più alla rovina. Se dunque il serex finisce per avviarsi, in questi casi, lungo il precipizio di una specie di ‘ironia tragica’ alla rovescia (si potrebbe anche parlare di ‘ironia comica’, 17 Plauto e il «metateatro» antico, «Il Verri» 31, 1969, 113 sgg. (ora in I moderni alla ricerca di Enea, Roma 1981, 147 sgg.).
Verso un’antropologia dell'intreccio
26
ma è un po’ buffo), non va dimenticato che il servo prende in questo modo una sorta di alone demiurgico: tramite la sua bocca si esprime una ineluttabilità che è propria solo del fato. Ma le radici strutturali di questa dilatazione della funzione esercitata dall’eroe — servo sono sempre le stesse. Proprio perché puro soggetto (e quasi mai destinatario) dell'inganno, proprio perché sociologicamente votato al ‘disinteresse’ in ciò che fa, lo schia-
vo finisce per ingannare giocando, inganna per giocare: appun-
to come gli dei, che per Plauto ros quasi pilas homines habent **.
25
Ma concludiamo col Persa. Va notato che la beffa cui Dor-
dalo è sottoposto è in realtà duplice: egli perde infatti una certa quantità di danaro (si ricordi che la somma da lui sborsata per la donna ‘araba’ è in realtà molto superiore a quella ricavata da Lemniselene) oltre che la sua schiava. Nei termini del no-
stro schema avremo dunque un inganno Bc)
A
dove C è contemporaneamente «donna» e «danaro». Si ricordi il caso precedente del lenone di “Pseudolus, che perdeva anche lui donna e mine: nuovo esempio della capacità lenonica di cumular danni. ) Vediamo ora il Curculio: d. Fedromo ama Planesio, che è in potere del lenone Cappadoce. Curculione, parassita di Fedromo, trova il modo per far saltare fuori i soldi. In Caria (dove si è recato per cercar di ottenere un prestito per Fedromo) ha conosciuto Terapontigono, un soldato sbruffone che da tempo ha comprato Planesio dal lenone: e gli ha sottratto l’anello con il sigillo. Ora, Terapontigono non ha in sua mano la ragazza, ma ha depositato quaranta mine (trenta per la ragazza e dieci per abiti e gioielli) presso un banchiere, affinché siano consegnate al lenone: perché il banchiere, Licone, dia corso al pagamento occorre naturalmente una lettera di riconoscimento 18
capt. 22.
Le strutture semplici della trama in Plauto
del soldato. Curculione, che ha in mano
27
il sigillo, scrive con Fe-
dromo una falsa lettera. Il banchiere paga la somma pattuita e Curculione, dopo aver passato il danaro al lenone, si porta via la ragazza: Cappadoce si impegna però a restituire trenta mine (il prezzo della fanciulla) nel caso che ella fosse riconosciuta libera. Giunge però il soldato dalla Caria, e reclama Planesio da Cappadoce, che naturalmente afferma di avergliela già consegnata. Nel frattempo, Planesio riconosce nel sigillo sottratto al 75/es l’anello che appartenne a suo padre: si scopre così che essa (rapita bambina da uno sconosciuto durante un cataclisma) è sorella del soldato.
Cappadoce è costretto a restituire i denari ricavati per il riscatto di una donna libera, e i due giovani si sposano.
%/ La trama, anche morfologicamente, è simile a quella di °Pseudolus: si noti la presenza di due antagonisti (lenone — soldato), la sottrazione del simbolo di riconoscimento, etc. Inutile sottolineare, naturalmente, che si tratta ancora una volta di un giovane che ama una cortigiana in potere di un lenone, e che
in solidarietà con altri riesce a sottrargliela tramite un inganno. La distribuzione attanziale è più o meno quella consueta. 2% Si noti piuttosto la presenza di una coda, ossia il riconoscimento della ragazza (che, in conseguenza di ciò, da schiava di-
venta libera). Questa improvvisa svolta dell’azione permette di scaricare il danno della beffa non sul soldato (che ci rimetterebbe le trenta mine) ma sul lenone (riconosciuta libera la ra-
gazza, Cappadoce dovrà ora restituire il denaro preso). In altre parole, abbiamo qui una costruzione del tutto analoga, anche a questo livello, a quella riscontrata in ‘Pseudolus. All’azione principale (sottrazione della ragazza al lenone) si sovrappone infatti, qui come là, un’azione secondaria strutturalmente isomorfa alla principale: la sottrazione del danaro al soldato (in >Pseudolus, la sottrazione del danaro a Simone). Ora, qui come
là il danno non viene però scaricato sull’antagonista di questa seconda nervatura drammatica (l’azione parallela in cui si sviluppa la sottrazione del danaro): al contrario, esso viene dirottato sull’antagonista della nervatura principale, il lenone. I mezzi specifici in base ai quali questo scopo è raggiunto sono di-
versi: nel Curculio il riconoscimento della fanciulla (che costrin-
ge Cappadoce, sfruttatore di donne libere, a restituire il danaro
del riscatto), nello Pseudolus la scommessa di Ballione con Simone (la seconda scommessa, che costringe il lenone a sborsare
28
Verso un’antropologia dell'intreccio
le venti mine al vecchio). Ciò non toglie che la struttura fonda-
mentale sia chiaramente la stessa. 75 Crediamo di riconoscere i motivi di questa predilezione drammatica, per cui è il lenone che funge da polo di scarico di ogni danneggiamento, nella qualificazione di specifica odiosità che questa figura riveste: in quanto «ruolo» antropologicamente negativo (un detentore di donne che ottiene ed amministra odiosamente questa sua disponibilità), egli diventa il termine finale di più nervature di inganno. Si sa che, in Plauto, il lenone è sempre giudicato in maniera molto pesante '’. Ma val comunque la pena di riportare il commento che Labrace fa alle sue sventure in rud. 1284 sgg.: nam
lenones ex Gaudio credo esse
procreatos / ita omnes mortales, si quid est mali lenoni, gaudent. In altre parole, i danneggiamenti inflitti al lenone sono in qualche modo insiti nel sistema delle attese: la gente gode se vede un lenone disgraziato, e dunque in commedia lo si fa più disgraziato che si può. z0 Possiamo allora trarre una conclusione già abbastanza imlo portante (anche da un punto di vista metodico) e tale da tor-
narci utile anche più avanti: la qualificazione, il ruolo specifico è qualcosa che è in grado di determinare la struttura dell'intreccio. La «scommessa»
di Ballione, così come «il rico-
noscimento» di Planesio — ma dobbiamo ricordare adesso anche il doppio danno subito da Dordalo nel Persa — ne sono chiaramente la dimostrazione: ci troviamo sempre di fronte a sequenze drammatiche che si costituiscono proprio in f u nzione del ruolo, degli attributi specifici che caratterizzano l'antagonista (la sua qualificazione lenonica). Se dunque, con Propp, dobbiamo continuare ad insistere sull'importanza dell’azione, sul «che cosa» fanno i personaggi (soprattutto perché è proprio in base alle conseguenze, ai risultati delle azioni che vanno classificate le funzioni), non possiamo seguirlo allorché egli svaluta, totalmente o quasi, il «chi e come lo fa» ?°. La natura specifica dei testi che stiamo analizzando non ci permette infatti di sostenere che «in nessun caso bisognerà tener conto del personaggio esecutore»°': perché una semplice analisi !° Cfr. p. es. Poen. 89 sgg.; rud. 650 sgg.; etc. 2° Morfologia, cit., 26. 21 Morfologia, cit., 27.
Le strutture semplici della trama in Plauto
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del nostro corpus mostra che, in realtà, un medesimo schema
fondamentale si modifica di volta in volta anche in relazione alle qualità specifiche (al «chi e come lo fa») che le singole funzioni rivestono. Il «ruolo» ?° mostra insomma di avere un suo peso proprio sul piano della selezione e della combinazione dell’intreccio: ossia, proprio sul piano che la morfologia proppiana riservava al puro dominio delle «azioni» ”?. 3I Troveremo altri casi che mostreranno ancora meglio quanto ruolo ed intreccio si presuppongano vicendevolmente. Cominciamo comunque già a vedere perché abbiamo preferito fermarci sulla via dell’astrazione, e mantenere nelle nostre formulazioni sostantivi come «giovane», «lenone», etc. Riducendoli a
simboli o a pronomi indefiniti avremmo rischiato di trapassare, senza afferrarlo, il cuore del problema.
3% Tornando al Curculio, vediamo ora di definire più precisamente la coda di cui si diceva. Come è stato visto, la prima parte della commedia consiste come in ’Pseudolus nella sottrazione di una certa somma di danaro ad un soldato per poter liberare una donna posseduta da un odioso lenone: mentre la seconda consiste in un
riconoscimento.
Tramite que-
sto artificio, però, si ottiene un risultato cui siamo già assuefatti: una ragazza, dalle mani di un lenone che la deteneva, può passare nelle braccia del suo innamorato. In altre parole, la situazione è identica a quella, poniamo, del “Persa (o del “Miles, se si sostituisce «soldato» a «lenone»): solo che il trasferimento
dall’antagonista al destinatario non è operato tramite un inganno ma
tramite
un
riconoscimento.
Anche il ri-
conoscimento, insomma, funge da mezzo per «portar via la donna ad un lenone che la deteneva». Da un punto di vista funzionale, dunque, «inganno» e «riconoscimento» si presentano come equivalenti. È un punto su cui torneremo meglio più
avanti, dopo aver analizzato le ben quattro commedie in cui questo medesimo tipo ritorna. 2% Vediamo intanto il primo sostanziale scarto che separa la ‘«sottrazione tramite inganno» dalla «sottrazione tramite ricono22 Cfr. dietro, n. 14. 23 Cfr. più avanti, 69 sgg.
24 Cfr. 34 sg.
Verso un'antropologia dell'intreccio
30
scimento».
Ciò che muta vistosamente
è proprio il desti-
natore dell’azione: a sconfiggere il lenone adesso non è un personaggio tipo schiavo o adulescens, sono semplicemente le circostanze. È il destino che ora manovra le leve dell’azione: il destinatore, in quell’immutato schema di trasferimento, è ades-
so il Caso. È dunque una preliminare differenza nella distribuzione delle funzioni attanziali ciò che permette il passaggio dallo schema «sottrazione di una donna tramite inganno» al suo omologo «sottrazione di una donna tramite riconoscimento». Siamo dunque già in grado di cogliere un primo, fondamentale elemento che oppone fra loro le due azioni interne al Curculio: cioè l'inganno architettato ai danni del w2i/es (e del lenone) per opera di Curculione, realizzato tramite la sottrazione dell’anello; e la liberazione della fanciulla realizzata tramite un ricono-
scimento. Lo scarto tra queste due azioni dall’identica finalità consiste per l'appunto nello slittamento della funzione destinatore da un personaggio umano ad uno superumano: il Caso. L’eleganza compositiva di chi ha combinato questo intreccio fa sì che le due azioni — inganno e riconoscimento — si realizzino economicamente tramite un solo ed identico mezzo: l'anello. Ma nel passaggio dalla prima alla seconda nervatura la rosa dei personaggi di A si allarga per accoglierne uno nuovo:
ma che
diventerà assai importante nel seguito del nostro studio. Si tratta di una funzione drammatica cui il teatro menandreo aveva anzi dato modo di emergere direttamente e concretamente sulla scena, col personaggio di Tùyn nell’Aspis: colei che si definisce” advimv xuoia / TobTtov Poafevoar xai dLormijoat. Dandogli la fisicità di un vero e proprio personaggio, Menandro ha come pagato un tributo giusto a questo destinatore occulto (ma determinante) di tanti viluppi, rivolgimenti e scioglimenti della commedia nuova.
| Le considerazioni svolte sin qui ci introducono adesso ad un testo (almeno in apparenza) abbastanza intricato e complesso. Si tratta del Poenulus:
e. A Cartagine c'erano due cugini, Iaone ed Annone. Iaone aveva un figlio, Agorastocle, Annone due figlie, Adelfasio e Anterastile. Ago2147 sg. Sul gioco della sorte (e il «colpo di dadi») nella pa/liata vedi oltre, pp.
113 sgg.
Le strutture semplici della trama in Plauto
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rastocle fu rapito fanciullo e venduto in Grecia, a Calidone, ad un ricco signore. Iaone muore, e nomina erede di tutto suo cugino Annone. Ma anche a lui vengono rapite le sue due figlie, e vendute in Grecia, ad Anattorio, al lenone Lico: che, passato del tempo, si trasferisce anche lui a Calidone. Qui Agorastocle si innamora di Adelfasio (senza sospettare che si tratta della sua cugina di secondo grado), ma Lico non vuol cedere alle insistenze del giovane che gli chiede la donna: tanto che Agorastocle si rivolge per aiuto al fedele servo Milfione. Questi escogita una complessa trappola giudiziaria (in cui sono implicati il fattore Collibisco e una serie di falsi testimoni) al termine della quale il pretore dovrà necessariamente mettere Lico e tutta la sua casa nelle mani di Agorastocle. La trappola è già scattata quando Sincerasto, servo di Lico, rivela a Milfione l’origine libera delle due fanciulle: Milfione si rallegra per la nuova possibilità che gli si offre di attaccare il lenone («non è ancora partito il primo colpo che già un altro lo minaccia», dice). Ma ecco la sorpresa più grossa. Arriva il vecchio Annone, padre delle due ragazze e zio di Agorastocle. Avviene un generale riconoscimento, e così la sconfitta di Lico sarà duplice: perderà le due donne (che aveva a suo tempo comprato) e insieme perderà il danaro che dovrà versare ad Agorastocle per la condanna inflittagli in giudizio. Per di più dovrà anche restituire al soldato Antamenide una mina che questi gli aveva dato per un progettato incontro con una delle ragazze °°.
4
La trama ripropone cose note. Di nuovo un giovane che (in
solidarietà con altri) si adopera a sottrarre una cortigiana ad un lenone. Come nel “Curculio, le nervature dell’intreccio sono in
realtà due: la prima condotta con le risorse dell’inganno, la seconda con quelle del riconoscimento. Anche in questo caso la svolta drammatica è causata dalla mutazione in ciò che concerne la funzione attanziale del destinatario: da umano a superumano, con intervento del Caso. Non stiamo qui ad elencare la diversa distribuzione ‘umana’ delle funzioni attanziali nel passaggio dalla prima alla seconda nervatura drammatica (soggetto: Milfione > Annone, destinatario: Agorastocle > Annone — Agorastocle, etc.). A differenza del “Curculio, però, l’antagonista resta immutato nel passaggio dalla prima alla seconda nervatura («lenone»: là invece da «r2/es» — però anche «lenone» — 26 Com'è noto il Poenulus presenta due finali diversi, ma (dal nostro specifico punto di vista) questo non crea problemi: la loro struttura elementare è del tutto simile.
32
Verso un'antropologia dell'intreccio
si passava a «lenone»). Qui dunque il passaggio dalla prima alla seconda nervatura ha caratteristiche, in un certo senso, più economiche. Una semplice lettura del riassunto mostra poi come il lenone sia in grado di polarizzare una serie impressionante di danni. I motivi di ciò ci sono già chiari, ed è inutile ribadirli. Val comunque la pena di notare che è questo il quarto caso di commedia a nervatura doppia (o tripla) che si organizza globalmente attorno ad un antagonista lenone (polo di scarico per pini ogni danneggiamento). Mo La porta è ormai aperta anche per un’altra commedia, in apparenza del tutto diversa da queste due ultime che abbiamo studiato. Si tratta della Rudens: f. Demone vive sulla spiaggia di Cirene, nei pressi del tempio di Venere, afflitto per la perdita di una figlia rapitagli. Costei, Palestra, è in potere del lenone Labrace, che vive anch’egli a Cirene. Della ragazza è innamorato il giovane Plesidippo: che intende riscattarla, e ha già versato una forte somma a Labrace. Questi dà appuntamento al giovane presso il tempio di Venere (quello stesso presso il quale abita Demone) ma in realtà il lenone, violando la promessa, si imbarca per la Sicilia con Palestra, l’altra schiava Ampelisca e il vecchio ospite siciliano Carmide. Il caso (sotto forma di un intervento della stella Arturo, che recita il prologo) vuole che egli faccia naufragio proprio di fronte al tempio di Venere. Qui avverrà l’incontro fra Plesidippo, Labrace, Demone e la ragazza. Plesidippo è già riuscito a far condannare Labrace di fronte ai reciperatores, quando un baule contenente oggetti di Palestra bambina (smarrito in mare ma ripescato con una fune dallo schiavo Gripo) permetterà il riconoscimento: Labrace perderà ovviamente la sua schiava e in più (per ricompensare chi gli ha riportato il baule, che conteneva anche suoi beni preziosi) sarà costretto ad affrancare Ampe-
lisca e versare un mezzo talento.
)|
Ci limiteremo a notare che, come al solito, anche qui si tratta della sottrazione di una ragazza a un lenone operata da un giovane etc. non che di un lenone che polarizza danni (cortigiana + schiava Ampelisca + mezzo talento). Ciò che sembra mancare, rispetto ai testi visti sin qui, è ovviamente
l’ in gan-
no. Ma dall’analisi delle due commedie precedenti, ci siamo già accorti che questa struttura può sfociare molto facilmente in quella del «riconoscimento», a prezzo di un semplice sposta-
Le strutture semplici della trama in Plauto
55)
mento nella distribuzione attanziale (il destinatore non è più l’adulescens ma il caso). Ci troviamo insomma di fronte ad una realizzazione pura, per così dire, di un tipo che (nelle due com-
medie precedenti) ci si presentava invece in forma mista, ossia «inganno» + «riconoscimento».
3g Dunque, possiamo affermare che il tipo di intreccio «sottrazione di una ragazza ad un lenone», può realizzarsi secondo tre modalità distinte: sottrazione tramite inganno, sottrazione tramite inganno
+ riconoscimento,
sottrazione tramite riconosci-
mento. Si noti comunque che anche qui il riconoscimento non si presenta da solo, ma fa seguito ad una fase in cui il giovane (tramite la sentenza dei reciperatores) era quasi rientrato in pos-
sesso della ragazza. Il riconoscimento plautino tende insomma a porsi come l’inattesa soluzione di una situazione già peraltro conclusa (o quasi conclusa) con altri mezzi. IG
î Si è detto poi più volte che il passaggio dall’«inganno» al «riconoscimento» si opera — ovviamente, all’interno del tipo di intreccio che stiamo analizzando — tramite uno scorrimento della funzione destinatore. Ora ci accorgiamo che non è tutto. Infatti, se l'inganno, come si diceva, presuppone la «trasgressione» ossia il passaggio da ciò che è sociologicamente permesso a ciò che è sociologicamente interdetto, il «riconoscimento» non la implica affatto: anzi, esso conduce per l’appunto al contrario della trasgressione, ovvero la riparazione di una ingiustizia consumata in precedenza (la fanciulla si trova illegalmente
in condizione di schiava e cortigiana). Per cui, se avevamo descritto lo schema dell’inganno (a proposito del tipo comico che stiamo analizzando) nei termini di Bio) —_-______--oqno--=----_-_-----------_—-—r2-=-=---=----
A
dovremo comporre quello del riconoscimento come segue: A ii
Bro)
err1______-----------o------------------
Verso un'antropologia dell'intreccio
34
ossia in maniera simmetrica. Tornando ora, mentalmente, al ca-
so di “Curculio e “Poenulus, possiamo affermare che questi tipi ‘misti’ risultano per l'appunto dal ribaltamento inatteso del primo schema (l'inganno) nel secondo (il riconoscimento): quella sottrazione che era stata concepita o realizzata come inganno
(dunque come una trasgressione) viene inopinatamente realizzata come riconoscimento (dunque, come la riparazione di una
trasgressione precedente). 40 L’equivalenza funzionale fra «inganno» e «riconoscimento» constatata prima, ed il carattere simmetrico dei due schemi, ci permettono ora alcune osservazioni. La prima è che nel “Persa l’inganno, come abbiamo visto °°, è per l'appunto costituito da un falso riconoscimento: al lenone viene sottratta una cortigiana (che egli aveva regolarmente acquistata) proprio
perché essa è ‘riconosciuta’ libera dal padre. La situazione non è diversa (se non nelle sue premesse fraudolente) da quella di Rudens etc. Ma il fatto che un «riconoscimento» falso possa direttamente funzionare come «inganno» è una ulteriore riprova di quel che già sappiamo: cioè che, in Plauto, rico n oscimento ed inganno sono funzionalmente equivalenti. Ecco perché 1. Un falso riconoscimento può funzionare come inganno (‘Persa) 2. Un inganno può ribaltarsi in un riconoscimento
(“Curculio, “Poenulus)
3. Il solo
riconoscimento può stare in luogo del solito inganno (Rudens). #”\ Possiamo anzi porci ora il problema del versus alterno che caratterizza la freccia del trasferimento: dal + al — nell’inganno, dal — al + nel riconoscimento. Nei casi in cui abbiamo avuto a che fare con inganni perpetrati ai danni di lenoni (i
tipici antagonisti plautini), la cortigiana si trovava per così dire legalmente nelle loro mani: il lenone poteva vantare su di lei dei diritti in qualche modo socialmente riconosciuti. Per diritti socialmente riconosciuti intendiamo una situazione del tipo di quella descritta dal lenone Labrace in rud. 745 sgg.: argentum ego pro istisce ambabus [le due cortigiane] quoiae erant domino dedi; / quid mea
refert Athenis natae haec an Thebis sient, /
dum mihi recte servitutem serviant? Di fatto il lenone co mpra le sue donne, e dunque è sufficiente che recte servitutem 2? Cfr. dietro, 23 sgg.
Le strutture semplici della trama in Plauto
35
serviant: chi voglia prendersele dovrebbe, dunque, pagarle an-
che lui, e non certo sottrargliele contro la sua volontà. Il fatto,
però, che un riconoscimento — dunque un ristabilimento della giustizia, come si diceva — sia funzionalmente identico all’inganno, ci invita a credere che anche l’inganno stesso, se perpetrato ai danni di un lenone, si configuri in qualche modo come un atto di giustizia. Dato che il lenone è una figura sociologicamente negativa, ingannarlo diventa una sorta di riparazione sociale. La particolare struttura della commedia di inganno ai danni di un lenone nasce, insomma,
dalla contraddizione che
esiste fra «legittimità» formale del possesso di donne e riprovazione sociale del medesimo possesso: le beffe plautine ai danni del lenone sono sì trasgressioni ed inganni (e dunque movimenti dal + al —), ma trasgressioni che — dato il particolare ruolo sociologico dell’ingannato — camuffano in realtà una riparazione (e dunque movimenti
dal —
al +). Se queste osservazioni
permettono, da un lato, di riavvicinare ancor più strettamente i due schemi simmetrici descritti sopra (e, in pratica, di identificarli), dall’altro ci consentono anche di chiudere una partita che era rimasta in qualche modo sospesa.
4 Nella prima commedia analizzata, il “Miles, si rammenterà che la cortigiana era stata rapita dal soldato: e dunque, l'inganno perpetrato ai danni del r5les (passaggio dal + al —) corrisponde di fatto ad una riparazione (passaggio dal — al +). Ma questo non deve sorprenderci, perché ormai sappiamo che anche in casi meno espliciti di questo l’inganno corrisponde sempre ad una riparazione: nel “Mz/es accade semplicemente che le «motivazioni» (in senso proppiano) date all’inizio, cioè il rapimento, rendano più immediato ed esplicito il fatto che la donna era una vittima, e dunque il suo possessore meritava di essere ingannato e sconfitto. Il fatto è che anche il lenone, in qualche modo, è un ‘rapitore’ di donne (feles virginaria lo chiama Plauto) ’°, un possessore sociologicamente riprovato: e quindi portar via una donna a lui (possessore ‘legittimo’) è atto riparatorio ed approvabile tanto quanto portar via una donna ad un soldato che l’aveva rapita. La duplicità delle fun-
zioni narrative (ingannando un lenone si «inganna» e si «ripa28. Per. 751; feles virginalis in rud. 748.
Verso un’antropologia dell’intreccio
36
ra» nel medesimo tempo) corrisponde dunque ad una ambigui tà di tipo sociologico, la riflette. Insistiamo così nell’affermare che i «ruoli», le qualità culturali manifestate all’interno delle funzioni attanziali, hanno un peso molto importante nella realizzazione degli intrecci. 4% Sarà sufficiente dedicare ora poche parole ad una commedia pervenutaci, oltre tutto, guastata da gravi lacune, la Cistellaria: g. Un mercante di Lemno, Demifone, violò in giovinezza una ragazza, e poi scomparve. Da questa unione nacque una bambina, che la madre fece esporre. Demifone si sposò poi con una parente, ebbe un’altra figlia, ma presto la moglie morì. Egli pensò allora di sposare la donna a suo tempo abbandonata, mettendosi contemporaneamente alla ricerca della figlia perduta. Questa è diventata la giovinetta Selenio, amata da Alcesimarco. Il padre di questi, però, vuol fargli sposare l’altra figlia di Demifone (quella nata dalla unione legittima) e ha già combinato le nozze. Saputo ciò, la vecchia che fa un po’ da madre (e un po’ da mezzana) a Selenio, Melenide, impedisce al giovane di vedere l'amata. Questi cade allora in uno stato di esaltazione e di follia, e fa vani sforzi per tornare in possesso del suo bene. Risolverà tutto il caso, allorché si scoprirà che Selenio è anch'essa figlia di Demifone, e
i due potranno sposarsi.
‘{{ Anche qui, un giovane ama una fanciulla in potere di una madre adottiva ex cortigiana (variante femminile del lenone), e riesce a impadronirsene tramite un riconoscimento. Sempre come nella /Rudens, la riunificazione fra i due amanti fa tutt'uno
con la riunificazione fra padre e figlia. Si noti che l'antagonista si sdoppia qui in due personaggi °°: la supposta madre (che non vuol dare al giovane la donna desiderata) e il padre (che vuol dargliene una non desiderata). Il secondo antagonista agisce però come semplice «motivazione» (in senso proppiano) per l’azione svolta dal primo, la mezzana — madre: ci sarebbero infatti molti altri «motivi» possibili (come sappiamo), diversi dal risentimento per le nozze già stabilite con un’altra, che potrebbero spingere l’antagonista — supposta madre a rifiutare la donna all’adulescens (mancanza di denaro di questi, promessa già fatta ad un altro amante, etc.). “A Cirant 12
Le strutture semplici della trama in Plauto VOA
ne
4
3 x
Il dominio del «caso» ci conduce ora ad una commedia ce-
lebre, e abbastanza complessa. I Menaechmi:
h. Un mercante aveva due figli, ma uno lo smarrì giovinetto. Questi fu raccolto da un ricco mercante di Epidamno, e alla morte di lui divenne ricco. L’altro fratello decide di farne ricerca, e capita così ad Epidamno. Qui ha luogo l’azione. Menecmo I ha una moglie ricca e una bella cortigiana per amante. Egli si reca dalla donna, Erozio, insieme al parassita Penicolo, e le ordina un buon desinare: insieme le regala un mantello sottratto alla moglie. Dopo di che se ne va. Nel frattempo il cuoco di Erozio incontra Menecmo II, appena sbarcato. Naturalmente lo scambia per il fratello e avverte Erozio, la quale esce di casa e lo invita ripetutamente ad entrare (il banchetto è pronto).
Menecmo II non comprende bene, ma ci va. Nel frattempo Penicolo ha perso il suo ospite, Menecmo I, e sospetta che questi abbia voluto privarlo del pranzo promesso. Si reca perciò da Erozio, dove i suoi sospetti sono confermati. Egli incontra infatti Menecmo II che esce sazio dal banchetto, con in più il famoso mantello sul braccio (la cor-
tigiana glielo ha ridato perché c’era bisogno di certe riparazioni): e anzi, un’ancella di Erozio lo raggiunge fuori per dargli in più anche un braccialetto da portare all’orefice (anche questo Menecmo I lo aveva sottratto alla moglie per donarlo all'amante). Vedendo ciò, il parassita si crede frodato del suo pranzo, e per vendicarsi rivela ogni cosa alla moglie di Menecmo I. Questa, infuriata, va con Penicolo ad attendere il marito fuori dalla casa di Erozio. Qui incontra effettivamente Menecmo I, che si sta recando adesso al banchetto. Immancabile litigio (anche Penicolo dice la sua), dopo di che la moglie dichiara che riammetterà in casa il marito solo se egli le restituirà il mantello rubato. Partiti i due, Menecmo I va a richiedere il mantello ad Erozio. Questa, che è convinta di averglielo già dato, lo caccia via. Disperato, Menecmo I si allontana, mentre se ne viene verso la casa
della cortigiana Menecmo II, con ancora il mantello sul braccio. La moglie di Menecmo I lo scambia naturalmente per il proprio marito: nuova scena di litigio. Interviene il suocero a mettere pace, ma si convince però (dagli incomprensibili discorsi in cui il presunto genero se ne esce) che il poveretto è diventato pazzo. Si reca così a cercare un medico. Quando il vecchio ritorna col medico, arriva anche Menecmo I. Scambiato per il fratello, cerca di dimostrare di non essere pazzo, ma non fa che aggravare la sua situazione. Sopraggiunge in quel mo-
mento Messenione, servo di Menecmo II, che lo libera proprio quando sta per essere portato via da quattro schiavi: in cambio gli chiede però di essere affrancato. Menecmo I (che non lo conosce neppure) prima cerca di sottrarsi dicendo di non essere affatto il suo padrone, poi promette di liberarlo. L’ultimo equivoco si svolge tra Menecmo II
Verso un’antropologia dell'intreccio
38
e Messenione: questi protesta d’esser stato liberato dal padrone, mentre l’altro nega. Sopraggiunge però Menecmo I: i due gemelli sono finalmente di fronte, e si riconoscono. Messenione, nella letizia generale, verrà liberato davvero.
ul L'intreccio, o meglio l’intrico di questa commedia è sufficientemente complesso, e non ci pare opportuno analizzarlo dettagliatamente. Vediamo piuttosto gli elementi che sono in nostro possesso — alla luce degli schemi che abbiamo elaborato sin qui — per riassumerli, se possibile, in una struttura semplice. 71 La commedia ci presenta un numero impressionante di danneggiamenti, subiti da persone diverse: concretamente si tratta di un personaggio che, in maniera inconsapevole, inganna di volta in volta i suoi occasionali antagonisti sottraendo loro determinati «oggetti». Il carattere inconsapevole dei vari inganni realizzati corrisponde, ovviamente, alla presenza del Caso come destinatore generale: è il Caso che mette di fronte nello stesso luogo due gemelli incredibilmente identici senza che nessuno dei due sospetti la presenza dell’altro. Vediamo ora di riassumere i principali «inganni». Il primo consiste in cose no-
w
——_
te: la sottrazione di una cortigiana portata via ad un detentore che non è stavolta un «lenone» ma un «fratello» del prenditore. Si noterà che la «donna», oltre che da oggetto, funge contemporaneamente anche da antagonista, in quanto è in ga nnata essa stessa. Al trasferimento della donna si associa poi anche il trasferimento di diversi beni (il mantello, il braccialet-
to), e anche quello del pranzo (consumato da Menecmo
Il).
Così che, nei termini abituali del nostro schema di riferimento,
C ha composizione molto complessa e varia. Secondo lo stesso schema
(con una
serie di variazioni nella distribuzione
delle
funzioni attanziali che sarebbe superfluo rilevare caso per caso) a Penicolo è sottratto ancora il pranzo, alla moglie è sottratto il marito (per le rivelazioni di Penicolo l’adulterio diventa esplicito), a Menecmo I — nuovamente colpito — sta per essere sottratta la libertà e la condizione di uomo sano, a Messenione è sot-
tratto l'affrancamento. Si sarà notato che il soggetto è qui, quasi regolarmente, Menecmo II: mentre assolutamente fisso resta
il destinatore, cioè il Caso. Non è detto invece che Menecmo II
sia anche il destinatario abituale dell’inganno: frequentemente, anzi, i singoli inganni non hanno alcun beneficiario, e si riduco-
Le strutture semplici della trama in Plauto
59
no invece ad una pura perdita per l’antagonista. L'assenza frequente di un destinatario (e di un beneficiario) esprime natu-
ralmente la cosiddetta cecità della sorte. 4%
Fin qui, dunque, siamo nei termini abituali del nostro sche-
ma di riferimento. Cioè, la ripetizione (a più riprese e con personaggi diversi) della forma Bo)
Gr
A
caratterizzata dalla presenza del Caso quale destinatore, e (di
conseguenza) dall’occasionale assenza del destinatario in A. Solo che, a questa serie di inganni a catena, fa seguito un riconoscimento (di cui ovviamente è destinatore ancora il Caso) che
provoca una sorta di cancellazione delle trasgressioni avvenute. Tale riconoscimento,
stavolta, non riguarda ciò che abbiamo
definito «oggetto» nel nostro schema (generalmente, la fanciulla riconosciuta libera) ma piuttosto il «soggetto» dell’azione: si scopre l’esistenza imprevista di un fratello gemello, il che svela come i vari danneggiamenti subiti fossero stati in realtà tutti involontari ed operati dal Caso. Di conseguenza, il riconoscimento si configura qui come una sorta di riparazione nei con-
fronti dell’antagonista (o degli antagonisti). Ossia, una successione dei due tipi Bio)
(C)A
Yi Si potrebbe dunque concludere che lo schema fondamentadei due schemi a somma le dei Meraechmi consiste in una noi già noti: ovvero quello dell'inganno (trasgressione) + quello del riconoscimento (riparazione). In altri termini
Bic)
1
Verso un’antropologia dell'intreccio
40
5° C'è però da tener presente un fatto importante. Si è detto che nei Menaechmi il Caso non funge da destinatore solo in ciò che concerne il riconoscimento, ma anche in ciò che concerne
l'inganno. Si tratta sempre di inganni involontari. Questo getta una certa luce anche sulla natura particolare di quella ‘somma’
fra i due schemi che, come si è detto, sembra costituire l’os-
satura di una trama come questa. Dato che l’inganno è involontario, dovuto all’agire del Caso, il riconoscimento e la riparazione della trasgressione sono dati in qualche modo simultaneamente alla trasgressione stessa. Si tratta dunque non tanto di una somma, quanto di una vera e propria
fusione
para-
digmatica fra i due schemi. Una fusione che potremmo descrivere in questo modo: Bo)
À
| La torsione della freccia indica a sufficienza ciò che precipuamente caratterizza il tipo dei sirzi/limi: ossia l’assoluta inanità di tutto quanto viene compiuto. È ciò che distingue, per l'appunto, l’equivoco dall’inganno ”°. < Fin qui, abbiamo ragionato come se non ci riguardasse direttamente la natura specifica degli inganni involontari che si realizzano sulla scena. In altre parole, abbiamo ricavato uno schema che è valido, in fondo, per una qualunque commedia degli errori a prescindere se questi errori siano causati dall’incredibile rassomiglianza fra due fratelli oppure da altro. Si può ora aprire una parentesi, e cercare di spiegare un po’ meglio in che cosa consiste, specificamente, una commedia degli scambi
di persona. Il tipo dei strzz/lizzi, cui anche i Menaechmi appartengono, potrebbe esser definito come il risultato di una ‘patologia dell'intreccio’: come se nello sviluppo normale di un organismo si introducesse una mutazione, qualcosa di estraneo, che portasse ad esiti imprevedibili. Così, prendiamo un racconto
30 Questo stesso schema 3 potrà essere applicato anche a quella nervatura delle ‘Bacchides che prevede lo scambio fra le due gemelle identiche: cfr. più avanti, 58 sgg.
Le strutture semplici della trama in Plauto
41
nucleare già sufficientemente organizzato del tipo: «un uomo ha stabilito di recarsi a pranzo dall’amante di nascosto dalla moglie, assieme ad un parassita ...» Lo sviluppo patologico si innesca allorché, per opera del caso, si verifica qualcosa di strano ed impensabile: l'intervento di un personaggio assolutamente identico, nel sembiante, all’eroe della vicenda. Chiaramente
la somiglianza farà sì che questo secondo «personaggio» ’! venga inevitabilmente attratto nell’orbita delle funzioni attanziali proprie del suo omologo. E sta qui probabilmente il patologico: una funzione attanziale spartita fra due «personaggi» Idem eci 53 E ovvio che questo non può mai avvenire. Se due «personaggi» agiscono nell’ambito di una stessa funzione attanziale, il loro rapporto non potrà che essere di complementarietà: essi devono combinarsi nello sviluppo dell’intreccio, e la loro relazione si muoverà per forza sul piano sintagmatico. Al contrario, l'identità esteriore fra i due «personaggi» in gioco implica necessariamente l’analogia, e crea un rapporto che è piuttosto di tipo paradigmatico: un rapporto che non ha nessuna possibilità di inserirsi nello sviluppo dell’intreccio, ma ne devia patologicamente la progressione (gli «equivoci»). Naturalmente, questo gioco fra pedine identiche presuppone una sua regola semplice ma fondamentale, ossia l'alternanza: non si può muovere due volte. Ciò che è stato preparato per x deve essere necessariamente agito da x!, e viceversa, senza che i due «personaggi»
si trovino mai contemporaneamente
fatto, ciò coincide nei Menaechmi dramma). A questa delicata funzione Caso (colui che ha aperto la partita), gioco secondo un procedere davvero
sulla scena
(di
con lo scioglimento del presiederà naturalmente il continuando a condurre il poco «casuale» nella sua
estrema rigidezza e precisione.
II Y Giunti a questo punto, siamo dunque in grado di riassumere gli elementi semplici partendo dai quali è possibile generare x
Cfr
tz
Verso un'antropologia dell'intreccio
42
i vari tipi in cui ci siamo imbattuti sinora. Partendo da uno schema neutrale indicante il «trasferimento» Bo)
a
A
la sua proiezione su due semipiani opposti orientati in base alla categoria antropologica «permesso» / «vietato» ci fornisce (nel passaggio dal + al —) il tipo dell’«inganno»: l'inversione del processo (dal — al +), sommata alla caratteristica super-umana del destinatore, ci fornisce il tipo del «riconoscimento». Infine,
il destinatore super-umano assieme alla presenza simultanea dei due schemi in un unico paradigma (passaggio dal + al — e dal — al +), ci fornisce il tipo dei sirzi/limzi. Come già si diceva, possono darsi casi in cui i due schemi si combinano o si ribaltano l’uno nell'altro. È ciò che succede p. es. in “Curculio e “Poenulus, in cui a un movimento
di «inganno» ne segue uno
di «riconoscimento», senza che essi siano fusi paradigmaticamente in un solo schema. Il passaggio dal primo al secondo è segnato dalla mutazione nella funzione destinatore (da umano a superumano). 55 Parlando di sirzillimi, non che di equivoci, è ovvio che la
memoria corra all’Arphitruo: forse il capolavoro fra le cosiddette commedie degli scambi. Eccone il riassunto: i. Anfitrione, re di Tebe, è in guerra contro i Teleboi. Giove, inna-
morato di Alcmena, moglie di Anfitrione, assume le sembianze del marito, mentre Mercurio assumerà quelle del servo di Anfitrione, Sosia. Il padre degli uomini e degli dei trascorre una notte con l’ignara Alcmena (una notte che, nella sua onnipotenza, egli ha reso più lunga del normale), mentre Mercurio — Sosia veglia alla porta. Tornano i combattenti, e il vero Sosia
è mandato avanti da Anfi-
trione ad avvertire la moglie del suo arrivo. Prima serie di equivoci fra i due: Sosia, trovandosi di fronte ad un altro se stesso, batte in ritirata sconvolto, mentre Giove abbandona tranquillamente la reggia. Giunge finalmente anche Anfitrione, che comprensibilmente si sdegna alle parole della moglie: com'è possibile che egli abbia passato la notte con lei se è appena giunto dal porto? Ma Alcmena può esibire le prove di quel che afferma. Ella conosce l’esito della guerra, e in più ha già con sé la patera che Anfitrione intendeva per l'appunto donarle (Giove può tutto). Anfitrione apre allora la
Le strutture semplici della trama in Plauto
43
cesta che conteneva la patera, e in effetti non la trova più. La sua certezza comincia a vacillare. Egli torna allora al porto, lasciando la moglie terribilmente offesa. Ecco adesso riapparire Giove, ancora sotto le spoglie di Anfitrione. Egli conforta la donna, dicendo di averle giocato quel tiro solo per metterne alla prova il carattere: poi manda via Sosia con una scusa, e mette Mercurio al suo posto. Torna il vero Anfitrione, e Mercurio — Sosia lo caccia beffeggiandolo. Ma ecco anche il vero Sosia, mentre dalla casa escono Giove — Anfitrione e Alcmena: sulla scena ci sono ora due Anfitrioni. Alcmena è colta dalle doglie di un parto miracoloso, e si ritira. Il marito è sdegnato, ma un tuono poderoso lo tramortisce. Un’ancella narra allora il portento della nascita di un bimbo così forte da strozzare, in culla, i due serpenti che lo minacciavano. Tuona la voce di Giove che spiega ad Anfitrione (onorato) che sua moglie non l’ha tradito con alcun mortale: dall’unione fra Giove e Alcmena nasce Ercole.
5% Troviamo di nuovo cose note. La sottrazione di una donna, detenuta da un altro uomo, viene operata (in solidarietà con altri) tramite un inganno. La struttura dell’Amphitruo si presenta, così, chiara sin dall’inizio: la risorsa degli scambi di persona - applicata in forma diciamo libera nei ?Menaechmi — ritorna qui finalizzata ad un’usuale trama di inganno. Le analogie con PMenaechmi, comunque, continuano. Come là, anche qui il riconoscimento finale del soggetto (che qui è però anche destinatore, Giove) si trasforma in una riparazione per l’antagonista. Anche il destinatore ha delle analogie con quello dei Menaechmi. Come là, esso ha caratteristiche superumane: solo che qui si trova ad avere caratteristiche contemporaneamente umane, è una divinità che partecipa e fruisce delle cose del mondo. La caratteristica dell’Amzphitruo è, in fondo, questa: a ordire l'inganno è un personaggio superumano che, però, può
anche condurlo in porto personalmente, facendosene il soggetto, e soprattutto beneficiarne come destinatario. L’Amphitruo, sta un po’ a metà fra una normale trama d inganno e una più complessa trama ad equivoci: diciamo che la seconda, con la sua incredibile raffica di scambi di persona, è funzionalizzata alla realizzazione della prima’. È per l'appunto una commedia del travestimento. 32 Un caso interessante è costituito, a questo proposito, dal motivo che potremmo chiamare dei «simillimi inesistenti», riscontrabile nel “Miles: qui ad un personaggio
Verso un'antropologia dell’intreccio
44
57) Vediamo ora qualcosa che potrebbe sembrare solo margina-
le nella struttura della trama, ma che in realtà vi esercita una
funzione piuttosto discriminante: ossia la qualificazione «moglie» per l'oggetto, e quella conseguente di «marito» per l’antagonista — detentore. Prescindendo dai modi specifici in cui la trama si realizza, è chiaro che la qualificazione dei termini implica un tipo di tragressione cui non siamo affatto abituati: l’adulterio femminile. Ora, è nota la pesante condanna sociale che, nella cultura romana, gravava su questa forma di comportamento ”. Se si può tollerare che un uomo sottragga una cortigiana a un lenone o a un 7/es, non è certo lo stesso allorché qualcuno sottragga una matrona al proprio sposo legittimo. Appare dunque chiaramente la motivazione delle singole trasposizioni strutturali. Data la qualificazione C = «moglie» (e quindi B = «marito»), A non può che essere inserito in una casella che permetta la realizzazione di un simile intreccio: ossia, quella del dio. Perché l’adulterio possa contemporaneamente non essere tale, è sufficiente che l’adultero abbia una qualifica non umana,
ma
divina (tale tipologia è anche, in qualche modo,
neotestamentaria): in questo caso, da offesa per il marito l’azione si ribalta addirittura in onore (si veda 1124 sgg., parole di Anfitrione: pol me hau paenitet / si licet boni dimidium mihi dividere cum Iove).
4 Questo medesimo principio di scorrimento nel sistema dei valori messi in gioco, si può osservare anche in ciò che concerne le conseguenze dell’adulterio commesso: ossia la nascita di un figlio adulterino. Ciò che — in presenza di un destinatore — soggetto di tipo umano — costituirebbe il massimo della trasgressione, tramite lo spostamento dei ruoli si trasforma addirittura in fondazione: è nato un nuovo eroe, Ercole, che accre-
sce la gloria della casa di Anfitrione. Questa considerazione ci permette anzi di tornare su quello che si diceva prima a proposito del riconoscimento che è insieme un risarcimento per l’an(Sceledro)
si fa credere
che esistano due personaggi indistinguibili (Filocomasio
e la sua sorella gemella, che però non esiste). In tal modo, facendogli immaginare di
essersi ingannato (con destinatore Caso: *Menaechmi, *Bacchides) lo si inganna davvero (con destinatore Periplectomeno-Palestrione).
33 Cfr. lo stesso Plauto in merc. 817 sgg.; Catone, de dote, fr. 222 Malcov.?; etc. Cfr. «Studi Class. Or.» 26, 1977, 99 sgg. e n. 52.
Le strutture semplici della trama in Plauto
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tagonista. E chiaro che anche questo fa tutt'uno con lo scorrimento dei ruoli che abbiamo appena descritto (ovvero, corrisponde al sistema di aggiustamenti presupposti dalla trasforma-
zione — tramite «cortigiana» > «moglie» in C — di una normale trama d’inganno in una trama di adulterio). La trasformazione della solita «cortigiana» in una «moglie» postula che simultaneamente l’«adulescens» si trasformi in «dio», e che nel finale della commedia l’eroe debba essere «riconosciuto» per rivelare la sua qualità divina: permettendo così all’antagonista di essere in qualche modo risarcito. Secondo lo stesso schema di trasformazione, le conseguenze dell’inganno subìto da parte dell’antagonista saranno ancora di tipo onorifico (della famiglia di Anfitrione viene ora a far parte un eroe, Ercole).
57 Su questo stesso schema del risarcimento (non sempre, ma spesso, realizzato come un riconoscimento), non che sul principio che la presenza di certe sequenze drammatiche possa essere selezionata dalla natura specifica delle qualificazioni e dei ruoli, dovremo tornare meglio anche in seguito °°. Per ora limitiamoci ad osservare che la trama dell’Amphitruo — nonostante la presenza di un canovaccio mitico, e dunque una sostanziale alterità rispetto alle altre commedie di Plauto — si presenta però del tutto isomorfa, dal punto di vista della sua struttura fondamentale, rispetto alle altre trame che abbiamo studiato. Ciò spiega perlomeno perché Plauto (da qualunque modello avesse desunto) si fosse deciso a realizzare una tragi-commedia di questo tipo. Lo schema di riferimento resta immutato:
e i vari scarti
dovranno essere misurati sulle mutazioni strutturali imposte dal variare dei ruoli. 0 Ribadiamo così la nostra preferenza nel mantenere operanti le singole qualificazioni (prima «lenone», ora «moglie») senza volerle cancellare per il gusto di un’astrazione eccessiva. La trama dell’Amphitruo risulta incomprensibile se non si tiene conto di certi tratti solo apparentemente di dettaglio. 6[ Avviciniamoci adesso ad un gruppo di tre commedie dalla struttura abbastanza affine. L’analisi che ne faremo ci permetterà di arricchire, con contenuti nuovi, il tipo di cui ci siamo
quasi invariabilmente occupati sin qui: ossia la sottrazione di TCfrt5ylsa9070sg:
46
Verso un’antropologia dell’intreccio
una donna al suo detentore, operata tramite un inganno. Vediamo prima di tutto il Mercator. I. Il giovane Carino, di ritorno da un lungo viaggio per affari, porta con sé la bella cortigiana Pasicompsa, sua amante. Ma ha paura che suo padre, Demifone, lo disapprovi, e perciò al vecchio vien detto che la donna è stata acquistata come ancella per la madre. Demifone però si innamora lui stesso della fanciulla, e briga per averla. Dice al figlio che la donna, per la sua bellezza, è inadatta a far da ancella ad una madre di famiglia. Si offre perciò di comprarla lui al figlio, dicendo di voler favorire un ‘vecchio amico’: di rimando Carino afferma di avere in un suo ‘giovane amico’ un compratore ancor più vantaggioso. I due si lasciano senza nulla di fatto. Demifone affida allora all'amico Lisimaco il compito di comprare la fanciulla, mentre Carino affida un identico compito al figlio di Lisimaco, Eutico. Lisimaco batte il figlio in velocità e porta la ragazza in casa sua, dove Demifone intende darsi con lei alla bella vita. Ma la moglie di Lisimaco, Dorippa, scopre la fanciulla, e Lisimaco è nei guai: interverrà Eutico, che restituirà Pasicompsa e Carino (disperato, e oramai in procinto di partire per un lungo esilio) e svergognerà Demifone.
Ci troviamo stavolta di fronte a un «padre» che (in solidarietà con altri) tenta di sottrarre una donna al «figlio» tramite un inganno: ma non ci riesce. Dunque, una sequenza di azioni che ci è assolutamente nota, ma insieme anche un vistoso gruppo di trasformazioni. Se la donna, C, è ancora una cortigiana, B non è un lenone o un 777/es (oppure, come nelle due commedie dei sinzillimi viste sopra, un «fratello» o un «marito»), ma
un «figlio»: e A non è il solito giovanotto ma niente meno che un «padre». Di conseguenza si ha una distribuzione delle funzioni attanziali assolutamente anomala. Noi siamo infatti abituati a vedere il giovane (qui «figlio») nella rosa di A, ovvero destinatore / destinatario dell’azione. In questo caso invece il destinatore / destinatario, non che soggetto dell’azione, è un vecchio («padre»), mentre il giovane passa nella categoria dell’antagonista. Ebbene, in solidarietà con questa diversa distribuzione delle funzioni attanziali c'è un’ulteriore vistosa differenza: questa volta l'inganno fallisce. In altre parole, lo schema stavolta è
Le strutture semplici della trama in Plauto Bo)
47
ti
A
62 Il motivo di questa diversa realizzazione del nostro abituale schema di riferimento è del tutto evidente, ed è dato proprio dalla diversa dislocazione di A (e, reciprocamente, di B) secon-
do il parametro della classe di età: ovverosia, ciò che scatta qui a selezionare un diverso esito dell’azione è un principio di carattere specificamente antropologico. L’inganno d eve fallire: non si può ammettere che un vecchio entri in gara con un giovane per sottrargli una donna. Il carattere assiomatico di questo principio traspare del resto dalle parole stesse con cui Eutico stigmatizza l'operato di Demifone (vv. 984 sgg.): Itidem ut tempus anni, aetate alia aliud factum convenit. Nam si istuc ius est, senecta aetate scortari senes,
ubi locist res summa nostra puplica? ... Adulescentes rei agendae isti magis solent operam dare.
6‘ La violazione che il comportamento del serex presuppone è talmente forte da pregiudicare addirittura la solidità della res publica: è evidente che viene intaccato, in questo modo, uno
dei principi generali secondo cui la convivenza si regola. (5
E anzi interessante notare come questa opposizione vecchio /
giovane venga specificamente rafforzata nella trama, in modo da rendere più evidente l’abnormità del suo scardinamento. Il «vecchio» è anche un uomo sposato (dunque il suo comportamento intacca anche il codice matrimoniale): di più, egli è an-
che «padre» del suo giovane antagonista (dunque il suo comportamento intacca anche il codice che regola le relazioni di parentela). Ancora, l’aiutante principale del giovane antagonista (colui che manderà a monte i raggiri del vecchio) è una donna
anziana (v. 755 verum hercle anet), ossia appartenente alla stessa classe di età del vecchio: in questo modo, la distribuzione globale dei rapporti uomo / donna all’interno dell'intreccio viene rimessa in parità, dopo i tentativi operati dal vecchio per scardinarla. Il ricongiungimento del giovane con la fanciulla costituisce il pendant strutturale della sconfitta subita dal vecchio ad opera di una donna anziana. La pressione an-
Verso un’antropologia dell'intreccio
48
tropologica che sta dietro la sconfitta subita dal vecchio (e dunque, dietro la particolare realizzazione della trama) è resa addirittura esplicita dalla lex che si finge promulgata da Eutico alla fine della commedia: una lex secondo cui ai sessagenari (celibi o sposati) verrà vietato di andare con le cortigiane, mentre nessuno avrà il potere di vietare la stessa cosa ai giovani. h& Non ci stancheremo dunque di insistere sulla importanza dei «ruoli», delle qualificazioni nelle strutture dell’intreccio: ancora una volta dobbiamo infatti accorgerci che essi sono in grado di selezionare un particolare tipo di trama a scapito di altri. L’affiorare di una categoria specificamente culturale dietro le singole qualificazioni (il principio delle classi di età) ci permette anzi di intendere meglio qual è la ‘forza’ specifica che i singoli ruoli esercitano all’interno della trama. Se essi, le qualificazioni,
costituiscono in qualche modo le frontiere dell’intreccio, è perché l’intreccio trova in esse delle frontiere specificamente a nIl codice culturale assolve, nei confronti tropologiche. dell'intreccio, una funzione che potremmo definire ora a rmonica: la trama si snoderà come una melodia tanto libera nelle sue realizzazioni superficiali quanto preordinata da un insieme di passaggi obbligati. Di questi passaggi i ruoli costituiscono, appunto, gli accordi antropologici di base. (7 Torniamo all'analisi dei singoli testi. È il momento di occuparci, naturalmente, della Casiza, che con il Mercator ha moltissime affinità. m. Casina è una trovatella, allevata da Cleostrata. Sia il marito di co-
stei, il vecchio Lisidamo, che il figlio, vogliono impadronirsene. Per far ciò cercano ambedue di darla in moglie ad un ‘uomo di fiducia’: l’uno al proprio intendente, Olimpione, l’altro al proprio scudiero, Calino. Per dirimere la questione si fa ricorso alla sorte, che favorisce il vecchio: Casina sposerà l’intendente. Ma Cleostrata, moglie del vecchio, fa travestire da sposina lo scudiero Calino e lo fa condurre nella casa dove Olimpione (ma in realtà Lisida-
mo) intende godere i propri diritti. Amara sconfitta dei due: intanto si annunzia che Casina è riconosciuta fanciulla libera, e quindi potrà sposare tranquillamente il giovanotto.
f
bb
.
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. . . . Le analogie col ‘Mercator, come si. diceva, sono evidentissi-
me (anche a livello morfologico: p. es. nello scontro fra padre e
Le strutture semplici della trama in Plauto
49
figlio ciascuno ha dalla sua un aiutante — partaninfo). Di nuovo il padre è sconfitto nella rivalità amorosa col figlio: e di nuovo a sconfiggerlo è una donna appartenente alla sua stessa classe di età (la moglie). La struttura generale dell’intreccio, però, è al-
quanto diversa da quella del ‘Mercator. Vediamo più da vicino. 67 In primo luogo, la ragazza non appartiene al figlio, come nel ‘Mercator, ma è in qualche modo disponibile per entrambi gli antagonisti. Questo fa sì che il primo scontro fra giovane e vecchio non si configuri nei termini di un inganno (come avvie-
ne nel ‘Mercator) ma in quelli di un sorteggio. Dopo questa fase, che potremmo definire preparatoria, ci troviamo di fronte ad una struttura che ci è nota: in solidarietà con altri un giovane vuole impadronirsi di una ragazza (in possesso stavolta di un detentore che è «padre» del giovane), e ci riesce tramite un inganno (come spesso accade, l’inganno è gestito da un soggetto diverso: qui, la madre). La fase preparatoria che abbiamo descritto, e l’assestamento da essa prodotto nella situazione generale della trama, permette una distribuzione delle funzioni attanziali assai più usuale rispetto a quella riscontrata nel Merc4tor. Il vecchio infatti non si configura più come un eroe fallito (colui che ordisce una trama senza però riuscire a concluderla) contrapposto ad un antagonista vincente: con l’artificio del sorteggio, che trasforma preliminarmente Lisidamo in detentore diciamo ‘regolare’ della donna, il «vecchio» può svolgere una più normale funzione di antagonista sconfitto. )0 Non priva di interesse si presenta poi la distribuzione delle funzioni attanziali per quanto riguarda A. Il giovane, infatti, vi assolve la pura funzione di destinatario dell’inganno (riceverà la fanciulla): destinatore sarà infatti Cleostrata, sua madre, che è
anche soggetto dell’azione (Calino ci appare piuttosto un aiutante), non che parziale destinatario assieme al figlio (ella recupererà infatti la fedeltà del marito). Crediamo stia qui la ragione strutturale di una particolarità scenica abbastanza singolare di questa commedia: ossia l'assenza totale del giovane dalla scena. La sua scarsissima rilevanza nella spartizione delle funzioni, cumulate piuttosto dalla madre, faceva sì che si potesse in qualche modo ‘risparmiare’ sulla sua effettiva realizzazione scenica. D'altro canto, l’assenza dell’adulescens dalla scena non va valutata solo come una particolarità della Casina, ma risponde ad una tendenza strutturale della commedia plautina che abbiamo
Verso un’antropologia dell'intreccio
50
già avuto modo di osservare: ossia il generale ridursi dell’adulescens alla pura funzione di destinatore — destinatario (spesso in relazione all’emergente ruolo del servo demiurgico) ”.
| Per ciò che concerne la coda della commedia, ossia il riconoscimento della fanciulla, conosciamo già la facilità con cui lo
schema dell’inganno e quello del riconoscimento possono ribaltarsi l’uno nell’altro °°. 7 Per concludere questa sezione del nostro lavoro (dedicata allo scontro amoroso padre/figlio) sarà opportuno citare una sequenza parziale tratta dall’Asinaria, una commedia del cui intreccio complessivo(”) dovremo occuparci più avanti. n. Padre e figlio — dopo essere riusciti, in collaborazione, a liberare Filenio, una bella cortigiana — si trovano rivali in amore ad un convito. Demeneto, il padre, ha «vincolato» (v. 850) suo figlio Ar-
girippo con i favori che gli ha concesso e l’affetto che gli ha dimostrato. Il giovane pare costretto a cedere, quando arriva la madre Artemona (avvertita da Diavolo, amante geloso di Filenio, tramite
un parassita) e mette bruscamente fine ai desideri del marito, svergognandolo e trascinandolo a casa. Filenio resta in compagnia del giovane Argirippo.
7% Questa sequenza parziale ha una struttura identica a quella che caratterizza la trama complessiva del ‘Mercator (anche se, trattandosi di una nervatura secondaria, ha una realizzazione
superficiale molto più semplice e ridotta); non occorre perciò commentarla. Basterà ricordare che l’inganno, in cui il padre tenta di far cadere il figlio, consiste qui nel chiedergli un compenso inaudito per i suoi servigi (servigi che, per la verità, si presentano abbastanza inauditi anch'essi) ?”.
:{ Abbandoniamo ora il tema dello scontro padre/figlio per rivolgerci ad una commedia molto più ‘morale’, il Trinumrzus. J
o. Il padre di Lesbonico, Carmide, è partito per l'estero, raccomandando il figlio — che è uno scialacquatore — al vecchio amico Callicle. Il giovane, che insiste nella sua vita dissipata, vende persino la
9 Cfr. dietro, 24 sgg.
°© Cfr. 29 sgg., 32 sgg. DiSulla posizione anomala, anche dal punto di vista del sistema degli atteggiamenti familiari, ricoperta dal padre nell’Asinaria, cfr. più avanti 65 sgg., n. 49.
Le strutture semplici della trama in Plauto
Sil
casa paterna, che Callicle compra. Il motivo è che in quella casa c'è un tesoro, e Callicle non vuole che esso vada perduto per il vecchio Carmide: dirlo a Lesbonico non si può, perché il giovane troverebbe il modo di sperperare anche quello. Lesbonico ha anche una sorella, di cui è innamorato Lisitele, figlio di Filtone; il
giovane vorrebbe sposarla, ma la fanciulla non ha dote. Filtone sarebbe bensì disposto a concludere il matrimonio anche senza dote, ma Lesbonico, orgoglioso, non accetta e vorrebbe privarsi dell’unico campo che gli resta per darlo in dote alla ragazza. Ma così facendo piomberebbe nella più completa indigenza, e questo Lisitele, che è anche suo amico, non è disposto a permetterlo. Callicle, allora, prezzolerà un sicofante, e fingerà che Carmide abbia inviato da Seleucia una somma che serva di dote alla ragazza: in realtà, il danaro sarà tratto dal tesoro nascosto nella casa. Ma Carmide, in-
sospettato, giunge davvero, così che ogni problema (dopo una serie di equivoci fra lui e il sicofante) verrà risolto. Carmide provvederà direttamente lui alla dote per sua figlia.
15 Anche qui, una sequenza di azioni che ci è assolutamente nota: troviamo una ragazza che ha il suo detentore (il fratello)
e un giovane che, in solidarietà con altri, tenta di ottenerla con un inganno
(la falsa dote). Da notare che il giovane, per ciò
che concerne la distribuzione attanziale, ha una parte abbastanza secondaria. Nel gruppo rappresentato da A, infatti, egli ha praticamente la sola funzione di destinatario dell’azione, mentre soggetto e destinatore ci pare piuttosto il vecchio Callicle (con il sicofante come aiutante).
70 Quanto all’inganno, è sin troppo chiaro che esso ha qui uno statuto abbastanza inedito. Infatti, esso consiste non nel s o t-
trarre qualcosa all’antagonista, come usualmente accade, ma, al contrario, proprio nel donarglielo: il trucco consiste infatti nel far avere a Lesbonico una somma di danaro senza che egli possa considerare ciò un’offesa al suo orgoglio. La ragione di questa inversione è chiara, e risiede — ancora una volta — nel ruolo, nella qualificazione specifica che la «donna» (l’oggetto) riveste. Essa è infatti una donna libera (non una cor-
tigiana), una «sorella», e ha un «fratello» (non un lenone o un miles) come detentore. È evidente che il codice culturale non
può permettere che una fanciulla libera sia sottratta al suo de-
tentore legittimo tramite una frode. In conseguenza di ciò, l’in-
52
Verso un’antropologia dell'intreccio
ganno muta di segno, e da negativo si fa positivo. Il caso è del tutto analogo a quello dell’Arzphitruo, in cui la qualifica «moglie» rivestita da C aveva provocato quella di «dio» per A. La differenza è che qui il problema non è risolto tramite uno scorrimento dei ruoli («uomo»
> «dio»), ma tramite un rovescia-
mento del tipo di relazione fra i termini: l’inganno si trasforma in dono, e la tradizionale prova di astuzia si trasforma piuttosto in una gara di nobili sentimenti: ciò che fa il colorito tipico del Trinummus. L’antagonista non si configura quindi come uno sconfitto, ma come un beneficato.
1) Per quel che riguarda poi il ritorno di Carmide, siamo abituati ormai a questo genere di soluzione. Si tratta di una struttura equivalente a quella del riconoscimento, in cui, come altre volte (“Curculio, ‘Poenulus, Casina) può ribaltarsi inaspettatamente lo schema dell’inganno. Col ritorno del padre, infatti, la
fanciulla è ‘riconosciuta ricca’, ovvero in possesso di uno dei requisiti (la dote) necessari al matrimonio: negli altri casi, il ri-
conoscimento attribuiva alla donna la condizione di ingenua, altro requisito necessario a questo scopo.
I Anche il Trinummus combina dunque — secondo un meccanismo che ci è ben noto — l’inganno con il riconoscimento, ribaltando il primo nel secondo. Solo che lo fa in maniera originale. In “Curculio e “Poenulus, per usare esempi concreti, si
vuol dare la libertà
ad una schiava sottraendola ad un le-
none tramite un inganno, e questa stessa libertà è inaspettata-
mente elargita dal caso: nel Tr:nwur7us si tenta invece di dare una dote alla ragazza per sottrarla al fratello tramite un dono, ma poi questa stessa dote è elargita inaspettatamente dal ritorno del padre. Si tratta dunque di una trasformazione operata secondo un principio stabile di correlazioni: ovverosia «libertà tramite inganno»: «libertà elargita dal caso» = «dote tramite dono»: «dote elargita dall’inatteso ritorno del padre». Inutile dire che il cardine di questa trasformazione risiede — ancora una volta — nel ruolo, nella qualificazione antropologica dei personaggi: per passare da un tipo all’altro è sufficiente far scorrere C, la donna, dal ruolo «cortigiana» a quello di «sorella».
}) Struttura del tutto analoga presenta una delle due nervature drammatiche che compongono l’Aulularia. Infatti se una di es-
Le strutture semplici della trama in Plauto
53
se, come vedremo più avanti’, è costituita dalla folle avarizia del vecchio, l’altra consiste nel tentativo (operato da Megadoro x
da un lato, e da suo nipote Liconide dall’altro) di ottenere la
figlia di Euclione. Ecco il riassunto di quel che ci riguarda.
p. Megadoro, un vecchio, vuol prendere in moglie la figlia dell’avaro Euclione. Questi da principio non acconsente alle nozze (teme infatti che Megadoro voglia in realtà sottrargli il suo tesoro nascosto): in seguito però cede, allorché l’altro si dice disposto a prendere sua figlia anche senza dote. Accade però che Liconide, figlio di una sorella di Megadoro, abbia da tempo violato la ragazza (ma costei non conosce l’identità del giovane), e che essa sia anzi ormai
prossima al parto. Liconide convince Megadoro a rinunziare al matrimonio, e chiede ad Fuclione di volergli concedere la fanciulla, non che il suo perdono per la follia commessa. La commedia si interrompe poco dopo il dialogo fra il vecchio avaro e il giovanotto.
% Anche qui c'è di mezzo un detentore che non vuol concedere la donna che ha in sua tutela (non per dissipazione ed orgoglio, come nel caso del °Trinummus, ma per avarizia), un prenditore disinteressato (Megadoro) e un tesoro nascosto. É chiaro che Megadoro si comporta qui appunto come il Filtone (— Lisitele) del °Trinummus: per strappare la ragazza ad un detentore riluttante, egli è disposto a condonare al vecchio la dote che pure gli spetterebbe. Dato che Euclione, a differenza di Lesbonico, accetta, non c’è bisogno di trasformare il dono in inganno, come accadeva là. $) Chi, invece, ha un comportamento per noi del tutto inedito è il giovane, che ha realmente tentato di strappare una «figlia» al «padre» suo legittimo detentore: cioè, con la violenza operata sulla ragazza all’insaputa del genitore e senza render nota la sua identità. Il carattere mutilo della commedia (che si arresta per noi al v. 831) non ci permette purtroppo di analizzare compiutamente il modo in cui questa situazione veniva risolta: né di registrare tutte le ripercussioni strutturali che dovevano realizzarsi nella trama in presenza di un ruolo «figlia», per l’oggetto, combinato con una struttura di inganno
SSN Gfra 660s9:
non
evitato
54
Verso un'antropologia dell'intreccio
(come invece accade nel °Trinummus, nel ‘Mercator etc.). Dob-
biamo perciò accontentarci di ciò che viene anticipato nella parte che possediamo. In primo luogo, la scena decima dell’at-
to quarto, in cui Liconide, implorando Euclione (v. 739: id adeo te oratum advenio, ut animo aequo ignoscas mihi etc.),
confessa al vecchia la propria colpa e l’attribuisce alla follia del vino e dell'amore. Non siamo abituati a vedere un antagonista (qual è qui Euclione, B nel nostro schema) nella posizione di colui che è in grado di dispensare addirittura il suo «perdono» al soggetto o destinatore/destinatario dell’azione: né a vedere un «eroe» implorante e colpevole. Qual è dunque la posizione del giovane?
54€ In primo luogo egli non è riuscito nella sua azione, perché
la donna è ancora saldamente nelle mani dell’antagonista (che può concedergliela oppure no): dunque egli si trova ancora al punto di partenza. Di più, perché la sua azione possa aspirare a un qualche risultato egli necessita preliminarmente del p e rdono del suo antagonista. Ecco allora che nella struttura dell'intreccio un «inganno» praticato ai danni di un detentore — «padre» per sottrargli una «figlia» ha la capacità di trasformare il soggetto e destinatore/destinatario dell’azione in un debitore del suo antagonista: ovvero, esso fa retrocedere e non avanzare lo svolgimento della trama. Non possiamo conoscere (dato il carattere mutilo della commedia) le modalità se-
condo cui Euclione concedeva poi a Liconide il suo perdono cancellandone così il debito. È però estremamente probabile (si veda l’argumentum Il) che Liconide fosse colui che restituiva ad Euclione la pentola (contenente il tesoro) rubatagli dal servo
Strobilo (il testo ci lascia proprio di fronte a un animato colloquio fra Liconide e Strobilo, padrone e servitore), tanto da guadagnarsi così la riconoscenza del vecchio: e, in certo modo, pareggiare il debito. %? Quanto al vero e proprio scioglimento della commedia, le analogie riscontrate col °Trinumzzzus (e il testo dell’argumzentum
II) ci autorizzano a pensare che il tesoro svolgesse qui un’analoga funzione di «riconoscimento» nei confronti della fanciulla, trasformandosi in dote: e quindi rimuovendo ogni possibile ostacolo alla conclusione di un matrimonio secondo le regole. E certo infatti che nel finale Euclione, con suo stesso sollievo,
Le strutture semplici della trama in Plauto
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veniva liberato, per così dire, dalla pentola: cfr. il fr. IV Lindsay nec noctu nec diu quietus umquam eram: nunc dormiam. 64 Per concludere questa seconda sezione del nostro lavoro, citeremo una commedia che, per la debolezza del suo intreccio, presenta una realizzazione molto sbiadita del tipo che ci ha occupato sin qui. Si tratta dello Stichus. g. Due sorelle hanno sposato due fratelli: Epignomo e Panfilippo. Da più di tre anni i mariti sono lontani, per affari, né hanno più dato notizie di sé. Il padre delle ragazze insiste perché esse ottengano il divorzio, ma queste si rifiutano. Tornano i mariti, si riconciliano n suocero (soddisfatto per i loro affari) e ha luogo un lungo banchetto.
€
Anche qui c'è qualcuno che vuol sottrarre due donne (non
una) ai loro detentori, ma non vi riesce: si tratta però di un
«padre» che vuol riprendersi le «figlie» date a dei «mariti». &( Si noti poi che la sottrazione è tentata qui senza ricorrere specificamente a «inganni». La notoria e spesso rilevata debolezza dello Stichbus proprio per ciò che concerne la trama non ci consente ulteriori considerazioni. III
$7 Ci rivolgiamo ora ad un secondo tipo di intreccio che si presenta però assolutamente simile a quello studiato sin qui: ciò che muta infatti (ma è una mutazione
molto rilevante) è
solo la natura di C, l’oggetto dell’azione, che non è più una «donna» ma del «denaro», o beni ugualmente preziosi. Questo porta ad una distribuzione delle funzioni attanziali abbastanza uniforme e costante, tanto da autorizzarci a raccogliere i testi che seguono in una categoria propria (anche se numericamente
più ridotta). Cominciamo dall’Epidicus. r. Il giovane Stratippocle è partito per la guerra. Siccome è innamorato di una suonatrice (che chiameremo
S;) prima di andarsene ha
raccomandato al servo Epidico di trovare il modo di liberarla dal lenone che la detiene. Si tenga conto che c’è un soldato dell’Eubea che è innamorato anche lui di Sj, e la cerca. Epidico, dunque, ha
fatto credere al vecchio Perifane, padre di Stratippocle, che la suonatrice è una sua figlia illegittima, nata ad Epidauro da una donna
Verso un’antropologia dell’intreccio
56
chiamata Filippa: il vecchio ha sborsato i danari (versati subito da Epidico al lenone detentore della suonatrice) e si è preso in casa la fanciulla
come
figlia. Perifane,
in effetti, desidererebbe
sposare
quella Filippa abbandonata tanti anni prima (adesso è vedovo). Ma l'inquieto Stratippocle nel frattempo si è inanmorato di un’altra donna, per riscattare la quale ha preso in prestito dei soldi da un usuraio. Adesso è tornato ad Atene, e chiede ad Epidico di riuscire a far sborsare anche questi soldi al povero Perifane. Lo schiavo racconta allora al vecchio un’altra frottola, cioè che Stratippocle è follemente innamorato di una cortigiana ed è deciso a farla sua: perché il giovane desista da questa insana passione — e le nozze progettate per lui da Perifane possano andare in porto — non resta che battere Stratippocle sul tempo, comprando la donna e poi allontanandola immediatamente. La cosa si presenta vantaggiosa perché — dice Epidico — c'è un soldato Rodio [attenzione, non dell’Eubea!] che è innamorato anche lui di questa donna e sarà dun-
que disposto a ricomprarla immediatamente: questo soldato, naturalmente, non esiste. Il vecchio ci casca e sborsa di nuovo del de-
naro. Epidico affitta dunque una suonatrice libera (che chiameremo S.) e la fa passare col vecchio per la fiamma del figlio, fingendo cioè di averla riscattata dal lenone. In realtà, i soldi serviranno
per l’usuraio con cui Stratippocle è indebitato. Solo che giunge il soldato dell’Eubea (quello innamorato di $;) a cercare la sua amata: Perifane lo scambia per il fantomatico soldato Rodio che, secondo Epidico, sarebbe disposto a ricomprare immediatamente S.. Siccome Perifane insiste a fargli vedere S, — ma l’altro vorrebbe S1! — le trame di Epidico cominciano a rompersi. E giunge anche Filippa, che naturalmente non riconosce in S} sua figlia. La situazione per Epidico si è fatta ormai disperata, ma a salvarlo interviene il solito meccanismo di riconoscimento: si scoprirà che la seconda fiamma di Epidico è lei la figlia di Perifane e di Filippa. Il giovane, che ha trovato nella seconda amante una sorella, tornerà al
primo amore.
V% In questa commedia la «donna» interviene in misura massiccia (sono due, non una le cortigiane cui il giovane aspira). Si sarà però notato che c’è una differenza fondamentale rispetto al
tipo che abbiamo discusso sin qui: cioè che la donna è, per così dire, oggetto di secondo grado, mentre quel che l’eroe in-
tende sottrarre all’antagonista è semplicemente del denaro. In altre parole, se resta immutato lo schema di inganno che ci è
Le strutture semaplici della trama in Plauto
DI
ormai ben noto ’°, la differenza è data dal fatto che C è realiz-
zato in questo caso non come «donna» ma come «denaro» (anche se il denaro serve proprio per ottenere una donna). Vediamo la restante distribuzione delle funzioni attanziali, per chiarire meglio il quadro della situazione. B, l'antagonista, è un «padre», ma non un padre della «donna» bensì dell'eroe. In A troviamo invece, come al solito, un giovane che funge da destinatario/destinatore dell’azione e un servo che funge da soggetto. Anche qui, come in “Curculio e “Poenulus, il riconoscimento interviene a condurre in porto un’azione precedentemente impostata sulle risorse dell'inganno: ci è ben noto questo ribaltamento inatteso del primo nel secondo schema. Si noti che qui, a differenza degli esempi citati, il riconoscimento ha funzioni plurime.
Costituitosi
come
ribaltamento
dell’inganno
(ovvero,
raggiungimento del fine proposto ma con mezzi rovesciati) esso serve anche a correggere, retrospettivamente, una sorta di errore generatosi nello svolgimento precedente: la successione di due diverse strutture d’inganno ha fatto sì che il giovane si trovi ad aver a disposizione due donne. Ora, il riconoscimento permette di organizzare in complementarietà questi due «beni» altrimenti in esclusione. €9 Ancora, il riconoscimento permette che non solo il giovane, ma anche il padre (e antagonista) abbia la sua soddisfazione, e possa concedere il suo perdono: esso funziona, insomma, anco-
ra come un
risarcimento
dell’antagonista. Questo non
sarebbe stato possibile, ovviamente, in 4Curculio e “Poenulus, se
pure si trattava ugualmente del riconoscimento di una fanciulla. Il motivo è chiaro, ed è legato alla diversa distribuzione dell’elemento «fanciulla» nei due tipi di trama. Là essa era direttamente l’oggetto, qua invece essa compare
(come si diceva) in
qualità di ‘oggetto di secondo grado’ (oggetto vero e proprio è il danaro). In altre parole, questa diversa e più complessa struttura della trama è conseguenza di quella dilatazione nelle strutture sintattiche dell’azione che deriva dallo sdoppiamento dell'oggetto in «denaro» (di primo grado) e «fanciulla» (di secondo grado).
i
00 Dunque, le novità che l’Epidicus ci riserva sono sostanzial3? Cfr. p. 16 e passim.
Verso un’antropologia dell'intreccio
58
mente due: se lo schema di fondo è assolutamente invariato (sottrarre qualcosa al suo detentore tramite un inganno e in so-
lidarietà con altri), e se ci è ben nota la coppia servo — giovanotto per ciò che concerne A, nuovi ci paiono il «padre» del giovanotto quale antagonista in B, e il «denaro» quale oggetto
in C ‘°°. Ci pare evidente che la variazione operata in C, da «donna» a «denaro» (per ottenere una donna) è in correlazione
con quella realizzata in B: dove, quale antagonista, non trovia-
mo più direttamente il detentore della donna, ma un’altro per-
sonaggio, che con la donna in questione non ha vincoli di tutela o di possesso: ma la cui sconfitta servirà ad ottenere il mezzo («denaro») necessario al conseguimento della «donna». Ciò porta necessariamente ad un allargamento delle relazioni nella trama, una dilatazione delle struture sintattiche dell’azione, in
cui il nuovo C («denaro») funge da termine di collegamento fra antagonista (qui il padre) e oggetto reale da ottenere (la donna).
21 Struttura del tutto analoga ci presentano le Bacchides, una commedia cui ci è già capitato di far cenno nel corso di questo lavoro ‘*. s. Mnesiloco, figlio di Nicobulo, si è recato da Atene ad Efeso col servo Crisalo, per riscuotere un credito di suo padre. Egli si è innamorato di Bacchide, una cortigiana che però ha perduto, e da Efeso scrive ad Atene al suo amico Pistoclero perché gliela ritrovi. Nel frattempo la ragazza è stata affittata da un soldato, Cleomaco, che l’ha condotta proprio ad' Atene; Pistoclero la rintraccia, ma perché il soldato consenta a lasciarla andare occorrono duecento filippi. A complicare la situazione interviene una sorella gemella di Bacchide (che chiameremo Bacchide II) di cui Pistoclero si è subito innamorato. Arriva Mnesiloco, e Crisalo trova il modo di far saltare fuori i soldi che si devono dare a Cleomaco. Egli racconta al vecchio Nicobulo, padre di Crisalo, di non aver potuto riscuote-
re il credito in Efeso per via delle oscure trame di Archidemide,
l’ospite che era debitore di Nicobulo: in realtà, i soldi sono in mano di Mnesiloco. Questi, però, non sa che le Bacchidi sono due e SOLO
,
N
3 n Saul Diverso il caso di ”*Casira, dove il padre è antagonista in quanto detentore di: «donne» e non di «denaro». 7a : 3 CONCA: fo . : i Cfr. n. 30. Si rammenti che l’inizio è perduto: lo si ricostruisce tramite gli ac-
cenni sparsi nel corso della commedia e i pochi frammenti superstiti della parte caduta.
Le strutture semplici della trama in Plauto
DO
non una: per cui, quando apprende che l’amico Pistoclero è innamorato
di Bacchide
(ma non sa che si tratta di Bacchide II!) si
crede tradito, e sdegnato rivela al padre l’inganno ordito da Crisalo, restituendogli anche i soldi. Si chiarisce però l'equivoco fra i due amici, e Crisalo è nuovamente pregato di trovare i soldi. Lo schiavo escogita un nuovo stratagemma, ma prima di metterlo in opera ha la sfacciataggine di far scrivere da Mnesiloco una lettera per Nicobulo, in cui lo mette in guardia dalle trame di Crisalo. Letta la lettera, Nicobulo fa mettere in ceppi lo schiavo che l’ha portata di persona (novello Bellerofonte) ma arriva Cleomaco adirato a pretendere il suo danaro, mentre Mnesiloco se ne sta con Bacchide. Crisalo fa credere allora a Nicobulo che Cleomaco è il marito di Bacchide, e come tale intende prendersi la sua vendetta sull’adultero: per rabbonirlo, dice Crisalo, basterà versargli duecento filippi. Il vecchio cede, per evitare il peggio. Ma ecco giungere un’altra lettera, ancora di Mnesiloco, in cui egli prega di mandargli subito duecento filippi che egli deve alla moglie del militare. Il vecchio sborsa a Crisalo anche questi, e ora i filippi sono quattrocento. Dopo di che si reca con Filosseno, il padre di Pistoclero, presso la casa delle due cortigiane, con l’intenzione di castigare il figlio: ma entrambi i vecchi restano prigionieri anch'essi della gra-
zia che promana dalle due donne. Metà della somma verrà restituita a Nicobulo.
Wt- La trama, come si vede, è del tutto simile a quella di "Epidicus, persino nella duplicazione dell’inganno: la donna è ancora oggetto di secondo grado (il denaro serve per ottenere una cortigiana). Anche la distribuzione delle funzioni attanziali non è mutata: troviamo in A la coppia servo — adulescens (con la presenza di un secondo adulescens come aiutante), in B il «padre», in C il «denaro». Quanto alla ‘connivenza’ finale dei due vecchi, che cadono anch'essi nelle reti delle cortigiane, essa ha
la funzione pacificatoria che nell’Epidicus abbiamo visto svolgere al riconoscimento. È come se occorresse ancora un qualche al padre ingannato, che fruisce anch'egli risarcimento
della compagnia femminile e del banchetto, riconciliandosi col
figlio. Del resto, si è visto che metà della somma (ossia la cifra sborsata la terza volta) viene restituita al serex. 44 Per ciò che riguarda, infine, la seconda nervatura drammati-
ca, ossia l'equivoco a proposito delle due Bacchidi (che Mnesi-
loco crede una mentre
sono in realtà due), si rammenti
quel
Verso un’antropologia dell'intreccio
60
che si diceva dietro ‘* a proposito del tipo dei sirzi/limi e dei PMenaechmi in particolare: con la fusione paradigmatica di «inganno» e «riconoscimento» in una sola struttura, gestita dal Caso quale destinatore super-umano. Secondo questo schema, il Caso «inganna» Mnesiloco che così perde l’amico e conse-
guentemente anche l'amante, ma simultaneamente (con il «rico-
noscimento» di Bacchide II, di cui Mnesiloco ignorava l’esistenza) la situazione viene riportata al punto iniziale, secondo lo schema dell’equivoco negli scambi di persona. 9 Possiamo passare già ad un’altra commedia, la Mostellaria. t. Teopropide, il padre, è all’estero per affari, e il figlio Filolachete se la spassa col valido aiuto del servo Tranione. Il giovane ha preso del danaro ad usura per riscattare Filemazio, la sua amante, ed ora sta banchettando con degli amici (Callidamate e la sua amante Del-
fio) in casa propria. Giunge Tranione affannato, dicendo che il vecchio è già al porto. Scompiglio e panico fra i convitati, ma Tranione li salverà. Egli fa chiudere ermeticamente in casa il gruppetto e racconta al vecchio, quando arriva, che lui e Filolachete hanno dovuto abbandonare l’edificio perché abitato da uno spettro. Teopropide, terrorizzato, si allontana. Giunge intanto l’usuraio, a reclamare i suoi soldi. Tranione racconta allora a Teopropide che il danaro è stato preso per comperare
una nuova
casa, che indica in
quella del vicino Simone. Teopropide, rallegrandosi, promette che il giorno seguente pagherà, ma vuol vedere subito la casa. Tranione, con uno stratagemma, convince Simone (che non sa nulla) a lasciargli compiere la visita, e contenta il vecchio. Giungono però i servi di Callidamate, l’amico di Filolachete, a battere alla casa ‘stre-
gata’ per riportare a casa il padrone dopo il festino. Si scopre così ogni inganno: la commedia finisce con un perdono generale, concesso per intercessione di Callidamate, e un risarcimento in denaro versato a Teopropide dal medesimo Callidamate.
A5 La coppia adulescens — servo sottrae anche qui del denaro al «padre», del denaro che, come al solito, serve per riscattare una cortigiana. Si noti però che l’inganno, tramite cui l’azione è compiuta, appare triplicato: infatti, oltre al danaro viene ‘sottratta” al padre la casa vecchia prima (che gli appartiene senza che possa accedervi) e la casa nuova poi (cui può accedere, ma 4 Cfr. 38 sgg.
Le strutture semplici della trama in Plauto
61
senza che in realtà gli appartenga). Dunque, C ha in questo caso composizione più complessa rispetto al semplice «denaro» che vi compariva nei testi precedenti. Anche in questo caso, il finale contempla un «risarcimento» del vecchio, come nelle commedie precedenti: Callidamate, infatti, assicura che gli sperperi del suo amico Filolachete saranno rifusi. 7 Avviciniamoci ora ad un testo che, almeno in apparenza, sembrerebbe del tutto alieno da una riduzione al tipo di "Epidicus, “Bacchides e ‘Mostellaria. Una commedia che, secondo quel
che comunemente si dice ‘’, si distacca anzi nettamente dall’intero panorama plautino per le sue caratteristiche di moralità e di sentimento: i Captivi. u. Egione ha perduto due figli: il primo gli fu rapito bambino dallo schiavo Stalagmo, il secondo, Filepolemo, gli è stato fatto prigioniero in una guerra contro gli Elei (ed è ora schiavo del medico Menecrate). Il vecchio spende il suo denaro comprando schiavi Elei da scambiare, se possibile, col suo Filepolemo. Ora egli ha presso di sé due Elei: Filocrate (che in patria era il padrone) e Tindaro (che in patria era lo schiavo). Egione intende servirsi dei
due come merce di scambio per il figlio ed è disposto a liberarli senz'altro nel caso che, tramite loro, questi gli sia restituito. Il generoso Tindaro, allora, si fa passare per il padrone, e convince Egione a mandare in patria Filocrate per trattare lo scambio restando lui a far da pegno (è chiaro che Egione è disposto a mandare in Elide lo schiavo tenendosi il padrone, ma non il contrario).
Scoperto l'inganno Egione si infuria e fa gettare Tindaro in catene. Filocrate però, memore del servo fedele, torna da Egione, riportandogli il figlio Filepolemo: si scopre anzi che il nobile Tindaro altri non è che il primo figlio di Egione, rapitogli fanciullo e portato in Elide.
47 Nessuno potrebbe negare che questa commedia, dal punto di vista della realizzazione che potremmo definire superficiale (attribuendo a questo aggettivo un puro senso topografico, non di valore), sia molto diversa dalle altre. Che l’affetto paterno vi giochi una parte discriminante, che vi aleggino sentimenti di generosità e una certa elegiaca tristezza, tutto ciò è assolutax
4 E che soprattutto dice il testo stesso: cfr. capt. 55 sgg.; 1029 sgg.
Verso un'antropologia dell'intreccio
62
mente vero, e dunque molto importante per la definizione globale della commedia. Ciò non toglie, però, che dal punto di vista della struttura fondamentale ci si trovi di fronte anche qui - anche in questa «commedia per serate bianche», come la definiva Benedetto Croce #“ — ad una delle realizzazioni possibili del nostro schema di riferimento. Di nuovo infatti un elemento che sta in A, e per la precisione uno «schiavo», in qualità di soggetto sottrae ad un B antagonista un certo bene C (stavolta non una donna o del denaro, ma la «libertà») in favore di un
destinatario che è al solito un padroncino — adulescens: e, ovviamente, tramite un «inganno», che adotta la nota risorsa degli scambi di persona. Del resto, il carattere non secondario del-
l’inganno nell'economia dell’intreccio emerge non solo dalle espressioni che ad esso sono dedicate nel prologo (46 sgg. sua sibi fallacia / ita compararunt et confinxerunt dolum / itaque hi commenti de sua sententia ...), ma anche dal monologo che Tindaro recita ai vv. 516 sgg.: che è un tipico monologo di servo ingannatore che teme di essere ormai scoperto. GO
Ma vediamo la distribuzione delle funzioni attanziali. Resta
immutata, in A, la coppia padroncino — servo. Solo che qui è avvenuto uno scorrimento di ruoli in base al quale il padroncino è divenuto servo lui stesso, e perciò il servo è ora, in certo
modo, servo due volte. Conseguentemente, l'antagonista non è più un «padre» ma un «padrone». Noi conosciamo già, però, questa tecnica di scorrimento, per averla vista operare nel Persa. La situazione, anzi, è qui il rovescio di quella: se là un servo
scorreva nel ruolo di libero e adulescens, qui un libero scorre in quello di schiavo. Quanto
alla struttura della trama, essa si presenta abbastanza
chiara. Egione, il vecchio, compare sulla scena nella posizione di chi ha già subito un duplice danneggiamento: ha perso un figlio fanciullo, mentre l’altro è schiavo in Elide. Per l’inganno architettato ai suoi danni da Tindaro e Filocrate, si trova ora a subire
un terzo danneggiamento (la perdita dello schiavo di nobile famiglia tramite cui si riprometteva di ottenere la restituzione del secondo figlio). Comincia a questo punto la serie dei risarcimenti: Filocrate torna, portando con sé Filepolemo per restituirA
;
i
Poesia antica e moderna, 11 n. 2.
Le strutture semplici della trama in Plauto
63
lo al vecchio: dunque l’inganno che era stato inflitto ad Egione è riparato, e (contestualmente) è risarcita anche una delle due perdite iniziali (quella di Filepolemo). Di più, il riconoscimento del
soggetto — destinatore dell’inganno, Tindaro, conduce anche ad un risarcimento — del tutto imprevisto — dell’altra perdita iniziale: quella del figlio perso fanciullo. Conosciamo già questo meccanismo del riconoscimento del soggetto — destinatore che si trasforma in risarcimento per l'antagonista (cfr. dietro PMenaechmi, ‘Amphitruo). E chiaro poi che dal punto di vista funzionale il riconoscimento di Tindaro si presenta del tutto omologo al ritorno di Filocrate e di Filepolemo. /00 Potremmo dunque concludere che la struttura dei Capri, da questo punto di vista, consiste nella successione dei due schemi di «inganno» e di «riparazione»: con una riparazione in qualche modo complessa, in cui destinatori diversi (Filocrate nel ritorno — restituzione e il Caso nel riconoscimento) condu-
cono ad un risarcimento in qualche modo superiore alle aspettative. Val comunque la pena di fare una riflessione. Il particolare tipo di inganno escogitato da Tindaro (sostituirsi al padrone restando in prigionia) è tale da presupporre il tratto della generosità: ciò lascia spazio, d’altro canto, al ritorno di Filocrate (che ricambia con pari generosità il suo servo) ed alla prossima definizione di Tindaro come uomo libero. 101 Se dunque volessimo trovare una ragione strutturale dei ‘buoni sentimenti’ che aleggiano nei Captivi, dovremmo dire che essi risultano da due fattori: 1. lo scambio di persona è qui voluto non dal Caso (’Meraechmi, “Bacchides) ma dalle due persone stesse, che scambiano volontariamente e consapevolmente i loro ruoli. 2. Lo scambio così realizzato non agisce ai danni di una delle due persone, ma in favore di uno di essi, e ai danni di un antagonista esterno. In altre parole, è persino ammirevole il carattere di estrema economicità e di risparmio con cui questo intreccio — esplicitamente considerato dal poeta diverso dai soliti @ — è realizzato. Resta intatto praticamente tutto di una tipica commedia di Platuo (l'inganno, la coppia servo — padrone, gli scambi di persona, il riconosci mento, etc.), solo viene operato un minimo aggiustamento nella
Gf
45)
Verso un’antropologia dell'intreccio
64
distribuzione attanziale interna allo schema tipico degli scambi di persona: lasciando destinare questo meccanismo non più al Caso ma alla libera scelta dei due ‘scambisti’, e dunque rivolgendolo contro un antagonista esterno, ecco che si lascia lo spazio strutturale necessario alla realizzazione della generosità e dei buoni sentimenti, e dunque alla Sti27zung caratteristica dei Captivi. Ma tutto questo è ottenuto semplicemente combinando o ricombinando elementi noti, e con mutazioni minime. Questo
modo di comporre può dare un’idea di ciò che, per un poeta di langue come Plauto ‘, poteva essere considerato ‘innovazione’ nel campo della trama: ben poco, forse, per noi, ma certo
già molto per una norma collettiva, un sistema di attese codificate che concepiva la creazione come ripetizione. 19 Ma torniamo ai Captivi. L’antagonista — padrone viene qui
abbondantemente risarcito degli inganni subiti. Ma si è visto, d’altro canto, che un identico risarcimento finale dell’antagonista si presenta là dove esso sia rappresentato come padre ‘: questo ci conferma nel dire che il contrasto «padrone» / «ser-. vo» dei Captivi è una semplice trasformazione del più frequente contrasto «padre» / «figlio» presente nelle altre commedie. In effetti, da un punto di vista sociologico lo statuto del «padre» non differisce sostanzialmente da quello del «padrone». Ciò spiega il permanere di strutture drammatiche identiche (inganno + risarcimento) nell’un caso come nell’altro.
Ancora una volta dunque il ruolo, la qualificazione specifica appare in grado di selezionare la presenza di determinati sviluppi drammatici. Evidentemente una realizzazione del nostro schema di riferimento che prevedeva un «padre» (o un «padrone») come antagonsita creava dei problemi di compatibilità con le regole del codice culturale (così come, ricordiamo, ne creava
la realizzazione di C quale «moglie», «sorella» etc.) ‘: dei problemi di compatibilità che non sorgevano assolutamente quando l’antagonista era realizzato nel ruolo di lenone, un personaggio che, lungi dal ricevere risarcimenti, aveva invece la capacità di cumulare danni. Si determinava così l'opportunità di una
4 Cfr. 13 sg.; 72 sg. #7 rEpidicus, ‘Bacchides, ‘Mostellaria.
4 Cfr. 44 sgg. (‘Amphitruo), 51 sgg. (°Trinummus).
Le strutture semplici della trama in Plauto
65
espansione drammatica, il «risarcimento» (nella forma di un riconoscimento, di un perdono, di un versamento, etc.) che rie-
quilibrasse antropologicamente il dramma. /04 Possiamo ora rivolgerci ad un testo che ci è già parzialmente noto, l’Asiraria. Ne abbiamo già vista una delle due nervatu-
re drammatiche (”) (lo scontro amoroso fra padre e figlio), ora
possiamo vederne l’altra, che è poi la principale.
v. Argirippo è innamorato di Filenio, una cortigiana, ma gli occorrono venti mine per liberarla. Con l’aiuto del padre Demeneto e dei servi Leonida e Libano, egli riesce ad impadronirsi di una grossa somma che un mercante reca a Saurea, l’intendente della madre Artemona (la donna assolve in famiglia funzioni paterne, e regola lei l’amministrazione della casa). Liberata la donna, padre e figlio,
come già sappiamo, si trovano rivali in amore: ma l’intervento di Artemona svergogna il vecchio.
/*5 Lo schema è quello abituale. Solo il ruolo di «madre», per ciò che concerne l’antagonista, appare abbastanza insolito. Il motivo di ciò è spiegato da Demeneto stesso all’inizio della commedia: egli afferma infatti che vuole «essere amato» da suo figlio (v. 77), mentre è la madre che lo tiene arte contenteque
«secondo il costume dei padri». In altre parole, padre e madre si sono scambiati qui gli attributi che sono loro soliti, diventando così «indulgente» il genitore che suole essere «rigido» e viceversa °°. {tb Questa inversione dei ruoli tradizionalmente accettati porta a che la madre subentri al padre nel ruolo di antagonista, e questi passi, in qualità di aiutante, nella rosa di A. Naturalmente, questa dislocazione abbastanza anomala del «padre» in A prelude alla creazione della seconda nervatura drammatica‘, ossia il conflitto amoroso «padre» / «figlio». Secondo uno stesso modello, Demeneto tradisce il suo ruolo di padre sia quando si tratta di essere autoritari col figlio (non gli nega il danaro e non ostacola i suoi amori) sia quando si tratta di essere rispettosi nei suoi confronti. 4 È nota la severità
che caratterizza il padre nella cultura romana, specie
arcaica: cfr. Liv. 2, 9, 8; Dion. Hal. 2, 26, 9 sgg.; 3, 21, 10; anche Sen., de prov. Dei
(proprio sull’opposizione «padre severo» / «madre affettiva»); etc. Cfr. M. Bettini, Antropologia, cit., 18 sgg.
66
I?
Verso un’antropologia dell'intreccio
Ecco adesso una commedia che ci è anch'essa già parzialmente nota: l’Aulularia. Sappiamo? che in essa hanno posto una serie di conflitti per ottenere da un «padre», Euclione, una «figlia» che egli non vuol dare. Non ci resta ora che analizzare l’altra e ben più celebre nervatura drammatica della commedia, ossia l’avarizia del vecchio e le peripezie relative al suo tesoro nascosto, appunto, in una pentola. z. Euclione che ha una pentola piena d’oro sotterrata nel focolare, vive nel terrore che qualcuno gliela sottragga. E teme che a rubargliela siano tutti coloro che si avvicinano in qualche modo (pur senza saperne nulla) al suo tesoro: la vecchia Stafila, il vicino Me-
gadoro (che gli ha chiesto in moglie la figlia), dei cuochi, un gallo, infine Strobilo, il servo del giovane Liconide, e Liconide stesso (colui che ha messo segretamente incinta sua figlia e ora vorrebbe sposarla): ma Strobilo riesce effettivamente a portargliela via. La pentola (come già sappiamo) gli veniva verosimilmente resa dal giovane Liconide.
/0% Quel che ci interessa non è solo rilevare la «sottrazione» di ricchezza operata da Strobilo, secondo uno schema che ci è sin troppo noto. Allorché il furto ha effettivamente luogo, Euclione ha infatti già immaginato infinite volte, nel suo terrore angoscioso, questa scena: ci accorgiamo allora che buona parte di questa commedia si configura come un semplice ribaltamento del nostro schema dal piano dell'essere ‘a quello dell’apparire.L’Aulularia dunque è come l’immagine riflessa, soggettiva, di quel meccanismo che ci ha occupato sin qui: ossia l'inganno e la sottrazione di un certo bene. L’avarizia di Euclione si configura strutturalmente come la consapevolezza di essere un antagonista. Basta introdurre nella commedia un punto di vista rovesciato rispetto a quello abituale (non più quello dell’eroe, o solo dell’eroe, ma quello dell’antagonista) per passare dalle vanterie dello schiavo alle angosce di un avaro. L’Aulularia è, insomma, l’altra faccia di una commedia di Plauto. Sta qui, crediamo, uno dei motivi
della sua originalità e della sua efficacia. TS Concludiamo la nostra rassegna ’° con una commedia che, AN laria.
d
\
x
Non teniamo ovviamente conto, dato il suo carattere frammentario, della Vidu-
Le strutture semplici della trama in Plauto
67
dal nostro punto di vista (l’intreccio), merita assai poco: il Tru-
culentus. Senza riassumere esplicitamente una trama particolarmente tenue, basterà dire che si tratta di una cortigiana, Frone-
sio, la quale sfrutta (servendosi di ogni artificio) i suoi tre amanti: e soprattutto ordisce un inganno ai danni di un soldato, facendogli credere (per mantenere i suoi favori e i suoi regali) di aver avuto un figlio da lui. Anche qui la solita struttura di inganno, benché stavolta la «cortigiana» costituisca non l’og-
getto, C, come sempre accade, ma il destinatore / destinatario,
non che il soggetto stesso dell’azione (nei nostri termini, A). Questa distribuzione anomala dei ruoli implica ovviamente che la commedia abbia un forte carattere di originalità (Plauto se ne compiaceva
in vecchiaia):
non
che, ovviamente,
che essa
presenti qualche tratto di ‘immoralità’. Ciò non sembra però aver causato trasformazioni all’interno dell’intreccio. Il compito di assestare il rapporto fra ruolo e funzioni attanziali (è abbastanza fuori dalla norma che sia una «cortigiana» a ingannare così sfacciatamente) sembra qui rimandato alle strutture superficiali del dramma: più volte infatti viene rilevato il carattere di negatività proprio della cortigiana (cfr. p. es. 63a sgg.) o implicitamente la sua «malvagità» (cfr. p. es. 452, 471 sg., etc.).
IV 1/9 Siamo giunti così quasi al termine della nostra ricerca, e non ci resta che aggiungere alcune riflessioni che servano da commento agli elementi semplici che siamo venuti sin qui rintracciando. Siamo partiti da un semplice schema di «trasferimento» del tipo
dove B è riluttante a concedere un certo bene C, che egli detiene, mentre A tenta di impadronirsene. Ora, la semplice proiezione di questo schema su due semipiani opposti, orientati in base alla categoria antropologica vietato (—) / permesso (+), è praticamente in grado di dar conto dei vari intrecci plautini riguardati nelle loro linee elementari. Infatti, il passaggio da un + a un — restituisce il tipo dell’«inganno», quello dal — al +
68
Verso un’antropologia dell'intreccio
il tipo (plautino) del «riconoscimento» °°. Mentre una combinazione paradigmatica dei due schemi, con il Caso quale destinatore, ci fornisce il tipo degli equivoci’. Abbiamo visto poi come i due schemi di base possano combinarsi in successione: sia configurandosi come un ribaltamento del primo nel secondo ”, sia articolandosi in un inganno seguito da un riconoscimento — risarcimento ”. Ci è stato poi possibile introdurre una dicotomia all’interno di questa struttura fondamentale, tanto da poter raggruppare le trame plautine in due categorie distinte. La variazione capace di produrre questo scarto differenziale non sta però a livello delle relazioni fra i termini (lo schema di «trasferimento» resta invariato) ma a livello dei termini implicati. Infatti un gruppo si distingue dall’altro proprio per il variare del ruolo che realizza C, l’oggetto: «donna» nel primo, «denaro» (in un caso «libertà») nel secondo ”.
i\\ Dunque, una prima conclusione. tine si articola secondo una categoria vibile fondamentalmente nei termini so / desiderio. Lo schema narrativo
Il corpus delle trame plausemica elementare, descridi una opposizione possesin cui questa categoria se-
mica si manifesta è quello (descritto) del «trasferimento» di un certo bene da B (che è riluttante a concederlo) ad A (che desi-
dera impadronirsene). I contenuti specifici di questa categoria oppositiva ci mostrano che, anche a questo livello, le cose si svolgono in maniera abbastanza semplice. Infatti, tali contenuti
sono sostanzialmente riportabili a due tipi. Nel primo l’equivalenza C = «donna» ci mostra l'emergenza di un tema piuttosto importante nella codificazione culturale di una qualsiasi comunità: quello della disponibilità delle donne”. Nel secondo, l'equivalenza C = «denaro» (non dissimile il caso dei “Captivi, con C = «libertà») ci manifesta ovviamente il problema della disponibilità della ricchezza, molto spesso in relazione ai rapporti padre / figlio. Potremmo 71 Cfr. 18 sgg., 33 sgg. 92 Cfr. 39 sgg. ch: È il caso di “Curculio, ‘Poenulus, "Casina, °Trinummus. 54 E il caso di "Epidicus, "Captivi. 55 Inutile ripetere che i due tipi di intreccio possono anche presentarsi simultaneamente (su nervature diverse) in una stessa commedia: *Pseudolus, per esempio. ° Il tema emerge anche in presenza di un intreccio tenue: cfr. IStichus.
Le strutture semplici della trama in Plauto
69
dire che questi sono i temi fondamentali del teatro di Plauto. Tali temi possono naturalmente combinarsi in una sola commedia, che avrà allora carattere misto (p. es. ?Pseudolus) e com-
plessità maggiore. La necessità di far emergere questi nodi antropologici quali temi letterari porta a che, nel loro significante drammatico, il detentore di questi due beni debba necessariamente essere riluttante a concederli. Ciò fa sì che essi possano disporsi diacronicamente, in quanto sarà necessaria una certa sequenza di azioni (visto che il loro de-
tentore oppone resistenza) per realizzare l’effettiva distribuzione di questi beni. Naturalmente, è per l’appunto l’introduzione di una disposizione diacronica ciò che può trasformare semplici regole del codice culturale in «storie»: ovverosia, ottenere il passaggio dal paradigma antropologico al testo letterario. ia Un dato importante è poi emerso nell’analisi delle implicazioni fra
ruoli
(cioè, le qualificazioni specifiche in base alle
quali A, B e Csi realizzano nei singoli intrecci) e relazioni, la sintassi narrativa che regola il loro interagire nella trama (nel nostro schema specifico, la «detenzione» e il «trasferimento» del bene: ossia ( ) e >). Abbiamo visto infatti che la presenza di
certi ruoli è in grado di selezionare particolari realizzazioni concrete delle relazioni (se B = «fratello» e C = «sorella» l'inganno si trasforma in dono, °Trinummus; se B = «figlio» e A = «padre», con C = «donna», l'inganno fallisce, Mercator ed altre (””,
?); etc.), oppure degli altri ruoli implicati (se B = «marito» e C = «moglie», A > «dio»): di qui la nostra riluttanza a cancellare le singole qualificazioni concrete a vantaggio di una più astratta schematizzazione attanziale. Riteniamo infatti che tra qualibijclazionilcdei personaggi (ruoli) ed.vin: iceccionesistano relazioni Idi carattere strutturale: così come relazioni di carattere
fra chiaramente esistono strutturale singolare volitcombinatitin un intreccio. 3
Possiamo
i
anzi tentare, giunti a questo punto, di dare una
formulazione migliore e più completa a questo nostro convincimento. La struttura fondamentale — ovvero il sistema di relazioni che lega fra loro i singoli termini — si configura come un contesto: i ruoli saranno allora i diversi vero e proprio contenuti semici che in questo contesto si collocano. Naturalmente, le relazioni fra contesto e contenuti semici saranno rela-
Verso un'antropologia dell'intreccio
70
zioni di compatibilità: così come non tutti i contenuti semici possono combinarsi fra loro (secondo certe relazioni date) per formare un discorso accettabile, allo stesso modo non
tutti i ruoli ammessi in una certa rosa di preferenza potranno
trovar posto in una determinata struttura narrativa data”. Così,
prendiamo un intreccio del tipo «un uomo sottrae una cortigiana ad un lenone»: evidentemente esso è costituito secondo un principio di compatibilità interna (come sappiamo, si tratta di un tema piuttosto frequente). Al contrario, un intreccio del tiha in sé suo marito» po «un uomo sottrae una donna a ilità, visto che in questo caso anche un principio di incompatib l’altro termine implicato si modifica («uomo» > «dio»: ‘Arzph:truo): solo così può essere restituita l’isotopia dell’intreccio. Così come ugualmente improponibile, ovvero non isotopico, si presenta un intreccio del tipo «un uomo sottrae una donna al proprio figlio», visto che esso si trasforma (‘Mercator, "Casina,
"Asinaria)
in «un
uomo
non
sottrae la donna
al
proprio figlio» (l'inganno non riesce: si nega così quella data relazione fra i termini). Analoghe modificazioni nella relazione fra i termini si avranno negli intrecci tipo «un uomo sottrae una donna al trae una donna
padre di lei» (PAul/ylaria), «un uomo sotal fratello di lei (°Trinummus), etc.
\\ Oltre a questo tipo di trasformazioni che potremmo definire elementari (perché interne alle singole strutture del dramma:
le nervature) si ricorderà poi come i ruoli siano in grado di agire anche a livello, potremmo dire ora, transfrastico. In altre parole, talvolta la presenza di un certo ruolo nel nucleo dell'intreccio è in grado di determinare particolari espansioni drammatiche esterne, tali da modificare sostanzialmente, talvol-
ta, la struttura globale dell'intreccio. Sappiamo infatti che la qualificazione «padre» (o «padrone») per l'antagonista determi?? Mi permetto di portare un esempio molto concreto e molto banale, ossia la formulazione di una frase. Dati i termini «uomo» e «carne» da un lato, e la relazione «mangiare» dall’altro, è chiaro che i due termini e la relazione data sono, in un certo ordine, compatibili fra loro: infatti una frase come «l’uomo mangia la carne» può essere normalmente formulata. Se però al termine «uomo» sostituiamo il termine «cavallo» introduciamo per ciò stesso un principio di incompatibilità (alterando l’isotopia dell’enunciato), per cui ci si aspetta che anche «carne» venga sostituita p. es. da «biada» (col
che si modifica anche l’altro termine implicato); oppure si potrà sostituire «mangia» con «non mangia» (col che si modifica la relazione fra i termini)
Le strutture semplici della trama in Plauto
dl
na l'aggiunta di una sequenza drammatica il cui contenuto è quello di un «risarcimento» (sotto forma di un «riconoscimento», di un «rimborso» etc.) per il vecchio: è il caso di ’Epidicus, ‘Bacchides, ‘Mostellaria, “Captivi. Allo stesso modo, una realizzazione «lenone» per l'antagonista comporta spesso la presenza di una seconda nervatura drammatica, che raddoppia il danno finale (perdita di donna + danaro: ’Pseudolus, “Persa, “Curculio, “Poenulus, ‘Rudens). Dunque, «padre» e «lenone», i due
antagonisti diciamo naturali della commedia plautina, appaiono da questo punto di vista il complementare e l’inverso l’uno dell’altro: se il padre viene risarcito, al lenone si infligge invece un danno più forte possibile. {5 Ancora una volta, ci troviamo di fronte a problemi di isotopia drammatica, ovvero a ragioni di compatibilità fra il ruolo e la relazione in cui esso si trova inserito. Potremmo dire che, se
la qualificazione «padre» è poco compatibile con la funzione antagonistica che viene a ricoprire (tanto che si crea l’opportunità di un suo «risarcimento»), la qualificazione «lenone» è in-
vece «troppo compatibile» con essa: tanto da invitare alla ridondanza. Inutile ribadire, infine, e lo abbiamo sottolineato sin
troppo nel corso della nostra analisi, che questi principi di compatibilità drammatica altro non sono che la manifestazione letteraria del codice culturale che regola, più generalmente, il comportamento sociale. L’isotopia del testo coincide, a questo livello, con la logica della cultura. Francamente, ci pare sempre più difficile praticare una narratologia, o una ‘drammatologia’, che non sia contemporaneamente un’antropologia dell’intreccio. V Illo Torniamo a Plauto. La conclusione di questo lavoro potrebbe risultare abbastanza sconcertante. Se le venti commedie plautine-hanno in comune, tutte o quasi tutte, un’identico sche-
ma fondamentale — le cui trasformazioni sono piuttosto semplici e poche — bisognerà dire che Plauto ha scritto venti volte la stessa commedia?
(così come, secondo una malevola battuta di
Stravinskij, Vivaldi aveva scritto seicento volte lo stesso concerto?). Certamente no. Il punto di vista da cui questo lavoro è stato condotto, non ci ha fatto dimenticare l’importanza delle
Verso un’antropologia dell'intreccio
72
singole, specifiche realizzazioni concrete secondo cui quello schema è stato di volta in volta realizzato: quelle strutture che
fanno di ciascuna commedia una commedia, non uno schema
drammatico — ed è appunto una commedia che la gente va a vedere a teatro. Se in questa nostra analisi non ci siamo voluti occupare specificamente della lingua, dell’organizzazione scenica etc., così come abbiamo di proposito trascurato un'analisi particolareggiata dello svolgimento drammatico in ciascuna commedia, è solo perché di queste cose la critica plautina ha già parlato assai bene e a sufficienza (e, verisimilmente, ne sta parlando e ne parlerà ancora). Con tutto ciò, resta pur sempre vero che — dal punto di vista delle forme elementari dell’intreccio — le commedie di Plauto si presentano tutte estremamente simili fra loro. Cosa che le differenzia molto, com'è chiaro, da
quelle di Terenzio, in cui ciò non accade che in parte. \\] Le ragioni di questa tendenza plautina all'’inerzia compositiva — sul piano, giova a ripeterlo, della poetica degli intrecci — abbiamo già cercato di delinearle all’inizio ’°. Si tratta di una produzione di pubblico, di spettacolo, dove le esigenze del destinatario risultano preponderanti e dunque la serie dei testi finisce inevitabilmente per essere caratterizzata dalla ripetizione. Il poeta della pa/liata non ha interesse a modificare o a far fruttificare diversamente il campo delle sue attese, si limita a rispettarlo. La ‘commessa’ è per merce di un certo tipo, lui non vuole fornirne un’altra. Ecco quindi che gli elementi strutturabili in intreccio, così come
una
ristretta serie di intelaiature
complessive, si costituiscono in paradigma fisso (è un teatro di langue), stanno
come
in un serbatoio, già pronte per essere
riattualizzate dal poeta nei singoli testi e a seconda delle varie esigenze. Questo carattere paradigmatico degli intrecci (la loro ripetitibilità) ha come suo naturale risvolto la predilezione plautina a costruite per personaggi tendenzialmente
‘anonimi’:
in
altre parole, i pivots si presentano qui tanto tipici quanto le sequenze di azioni che sostengono, sono «maschere» o «ruoli» piuttosto che personaggi dotati ogni volta di una loro identità inconfondibile ””.
78 Cfr, 12 sgg. 2° Cfr. C. Questa, Maschere e funzioni nella commedia di Plauto, in C. Questa, R.
Raffaelli, Maschere, cit., 9 sgg.
Le strutture semplici della trama in Plauto
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Ù ‘l'é Ma sin qui restiamo sul piano, in certo modo, della forma. Comprendiamo meglio perché Plauto, quando scrive, tende più che altro a ri-scrivere (0, se si preferisce, a ri-creare: basta ram-
mentare che il poetare per «ri-» o per «nach-», questa poetica dei prefissi, non è un fatto di inferiorità estetica ma di funzione letteraria) ‘’: sappiamo che lo fa perché è un poeta di langue (negli intrecci), un poeta di pubblico. Ma perché ripetere sempre quei certi temi fissi? D'accordo che il tipo di comunicazione letteraria che a lui toccava, per funzione, doveva essere necessariamente di carattere iterativo, analogico: ma perché focalizzare l’attenzione (che è come dire la ripetizione) proprio sulla «disponibilità delle donne» (sotto molti aspetti), e sulla «disponibilità della ricchezza» (nei rapporti padre/figlio, essenzialmente)? Attorno a questi temi la produzione plautina ruota quasi ossessivamente, raccontandoli, riraccontandoli, variando punti di vista, ruoli, combinazioni, etc. ma in definitiva compo-
nendo un discorso che regolarmente ha per oggetto l’uno o l’altro di questi argomenti: se non entrambi, su nervature drammatiche diverse. 114 Giova qui, forse, un altro paragone, e lo prendiamo dal mi-
to. Si sa che un mito non esiste mai in una forma definita, peggio in una forma privilegiata, più vera delle altre. Se permane una sua ossatura fondamentale, il resto appartiene, come si dice, all’ordine del discorso,
e come tale può variare indefinita-
mente. Ma cos'è allora che colpisce di più in un mito, l’unicità (e quindi la ripetizione, l’iterabilità) della sua struttura fondamentale o la molteplicità differenziata delle sue varianti? Né l'una né l’altra, le due cose formano il recto e il verso di uno stesso foglio. Un mito esiste per essere sempre se stesso (per essere ripetuto) e insieme per essere raccontato in modi diversi. Questo, crediamo, è un po’ il nodo della questione che abbia-
mo posto per Plauto. Con quello schema fondamentale che ci è stato possibile descrivere — quello schema che, con un numero ristretto -di combinazioni, è in grado di dar conto dei diversi 60 Forse non è inutile ricordare che una produzione di tipo popolare, a destinatario soverchiante, segue comunque la via del Nachbilden o del Nachschaffen (anche in assenza di un corpus dato di testi da rielaborare): lo fa ri-creando se stessa da se stessa,
riattualizzando ad infinitum il paradigma che contiene le sue possibilità di combinazione.
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Verso un’antropologia dell'intreccio
intrecci — si coglie un po’ il ‘mito’ della commedia plautina. Un mito che ha per contenuto, per argomento quei due «temi» di cui si è detto (se si vuole, potrebbero
anche essere due miti
diversi) e per struttura lo schema che abbiamo tracciato: il nostro lavoro è consistito nel trovare le regole di trasformazione che consentono di passare il più economicamente possibile da una variante all'altra, secondo certi principi di correlazione. Questo mito ci è stato insomma raccontato in almeno venti ‘varianti’ diverse — talvolta, come c’era da aspettarsi, anche molto
diverse l’una dall’altra. E come se fosse un mito molto importante, un mito molto raccontato perché molto pieno di significato. È da credere che la «disponibilità delle donne» e la «disponibilità della ricchezza» siano temi di forte ossatura culturale: così come lo sono il parricidio e l’incesto (Edipo), le regole del sacrificio (Zeus/Prometeo), e via dicendo.
170 Il fatto è che gli intrecci, bisogna rammentarlo, sono contemporaneamente portatori di un significato: le trame parlano. Parlano perché in loro prendono voce anche gli interrogativi, le contraddizioni o semplicemente le riflessioni che una comunità si trova ad affrontare nel vivere secondo le regole di un determinato codice antropologico. Non dobbiamo dimenticare che nei raffinati ed incredibili giochi ad incastro degli intrecci plautini (tutta quella sofisticata strategia di funzioni che abbiamo esaminato) c’è purtuttavia, e molto forte, una cultura che tenta ed esplora se stessa: una ragione sociale, collettiva, che vuol sondare i vari possibilia e impossibilia culturali, vuole vedere discussi (ridendoci sopra, certo: ma il riso è una funzione antropologica tra le più importanti) quei due tre temi su cui la sua vita sociale anche si fonda. Una comunità va a teatro per divertirsi, è ovvio, ma ci va anche perché quegli intrecci che vede rappresentati sulla scena svolgono un fondamentale ruolo di mediazione culturale fra se stessa e le prescrizioni che promanano dal codice collettivo (e credo che questa opera di mediazione uno potrebbe anche chiamarla, per altri risvolti, «catarsi», oppure ascriverla tranquillamente fra le ragioni di quel «divertimento» di chi va a teatro: categoria, questa, per nulla ovvia perché non è da credere che il «divertimento» stia solo nelle freddure). E così il pubblico Romano va a vedere Plauto proprio per vedere una «cortigiana» sottratta
tranquillamente a un lenone sbeffeggiato, una «moglie» che pe-
Le strutture semplici della trama in Plauto
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rò è sotratta da un dio, una «sorella» rispettata e sottratta, al massimo, con un dono, l’amante di un giovane «non» sottratta da un vecchio e così via. Come una riflessione sfaccettata, continua, sulla posizione della «donna» nella vita sociale (un ‘mito’ x
relativo alla disponibilità delle donne, come lo fu il ratto delle Sabine), una discussione sulla disponibilità di un bene così prezioso e catalogabile sotto tanti punti di vista, nella forma di tanti «ruoli» diversi (qui il narratologico e l’antropologico coincidono).
;2/ Le trame parlano, la loro struttura, la scelta di certi contenuti anziché di altri ha un senso, ed è un senso antropologico. In una società dove il padre ha il figlio completamente in suo potere, e dove il giovane deve aspettare la morte del vecchio per entrare in possesso dei beni di famiglia, e anche di se stesso, vedere sulla scena un figlio che, in qualche modo, riafferma i diritti della sua gioventù (anche se il padre verrà «risarcito», il
figlio «perdonato» ...) è un fatto di mediazione culturale: un abbozzo di metalinguaggio elaborato sulla propria cultura. Accade che un nodo antropologico avvertito si trasforma in trama, e ‘parla’ attraverso i trucchi incredibili dello schiavo o le ambasce dell’adulescens innamorato. Riflessioni sul tema delle classi di età: ecco come potrebbe essere catalogato quel secondo tipo di intrecci che abbiamo esaminato (quelli, per intenderci, con il contrasto padre/figlio). In altre società questa riflessione culturale, questa tappa sarebbe stata segnata tramite rituali specifici, tramite feste particolari, etc. (anche a Roma ne
restavano). Ma ora è il momento di andare a teatro, per riflettere purtuttavia sul medesimo, comune argomento: prima o poi viene il momento in cui un uomo cessa di chiamarsi, poniamo,
Teopropide, e deve accettare di essere definito come «padre di Filolachete». Questa riflessione Plauto l’ha ripetuta molte volte,
in tanti modi diversi, così come da tanti punti di vista ha posto in gioco il «ruolo» della donna °’. E queste sono le sue commedie. Merito dunque di Terenzio aver allargato la rosa dei «temi» da mettere in scena, e segno certo di un forte scarto storico-culturale — anche se pagato con l'insuccesso di aver talvolta proposto al pubblico temi che evidentemente lo interessavano 61 Questi due temi, io credo, Plauto li affronta sulla scena sfruttando le opportunità carnevalesche (o saturnalesche) del «rovesciamento»: cfr. sotto, p. 79 sgg.
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Verso un’antropologia dell’intreccio
meno. Merito di Plauto averne enucleati invece alcuni che riguardavano molto il suo pubblico (anche se le sue commedie, oggi, possono sembrare ripetitive). Però non si deve credere che nel teatro di Terenzio ci sia più «cultura» che in quello di Plauto: sono culture diverse. 7% Ecco dunque il blocco che Plauto si è scavato nel corpus di intrecci che la vga gli offriva, operando, ora possiamo accorgercene, secondo un criterio di selezione piuttosto coerente. Un
blocco che ha per base dei contenuti culturali molto precisi ed emergenti, mentre in altezza si regge secondo un inconfondibile ed iterato schema di intreccio (ma le esigenze antropologiche, come si è visto, lo plasmano e lo strutturano a tutti i suoi livelli). E questo il ‘mito’ di Plauto, e del pubblico dei suoi tempi, un paradigma fisso capace di generare (secondo le regole di una particolare funzionalità drammatica) la serie dei singoli testi. E ovvio che, proprio come accade per le diverse varianti di un mito, le singole realizzazioni concrete di tale paradigma saranno interpretabili anche in base all’incidenza di una serie di codici complementari (in questo caso stilistico, ideologico, scenico, etc.) che concorrono alla formazione dei singoli testi, or-
ganizzandone il tessuto drammatico. Ma ciò non riguarderebbe più il nostro discorso. Per concludere con una similitudine, potremmo dire: ci arrestiamo là dove ai calcoli dell'ingegnere si sostituiscono i disegni dell’architetto.
II UN’UTOPIA PER BURLA
h
N14
Too
La cultura dei passati decenni ci aveva abituato a considerare un po’ come primario, nello studio delle opere letterarie o di teatro, il problema del rapporto fra il testo scritto e il contesto storico — o il milieu sociologico e ideologico — che lo contiene. Da molto tempo, però, nella critica letteraria le cose non vanno più così (spesso con notevole sollievo dei testi, sarà bene dirlo).
Il problema, tuttavia, resta dei principali, specie se riproposto in una versione allargata, capace cioè di accettare con natura-
lezza l'eventualità che i testi non solo possano non rispecchiare la propria epoca, ma siano addirittura superiori, in termini di rilevanza culturale, alla propria epoca ... Superiori perché centrati su temi che hanno sì ‘presa’ immediata sul pubblico cui il testo si rivolge, ma non per il fatto che tali contenuti corrispondono a specifiche contingenze: al contrario, la loro rilevanza per la comunità starà nella capacità di affrontare temi e problemi talmente generali da apparire trasparenti, ovvi — e invece
toccano direttamente le radici profonde di una comunità e dei suoi modelli culturali. Ma vediamo anche noi di partire con la domanda, un tempo, canonica: in che misura Plauto partecipava della realtà storica o politica del suo tempo? O perlomeno, che presenza, che peso sociale specifico i suoi testi potevano esercitare nella Roma a cavallo fra il III e il II secolo avanti Cristo? Per ciò che riguarda il legame con fatti ed accadimenti storici contingenti, direi proprio che la partecipazione del commediografo sia stata abbastanza minima. I filologi si sono adoperati a rintracciare echi ed allusioni alla realtà contemporanea nei testi plautini, ma nella rete non è rimasto poi molto: l’allusione
Verso un’antropologia dell'intreccio
80
alla prigionia di Nevio nel Miles Gloriosus, il possibile riferimento ai fatti di Ambracia nell’Ampbitruo o quello ai Baccanali nelle Bacchides, qualche sporadica e problematica allusione a testi tragici coevi ... Quanto poco sicuri si sia, almeno in gene-
rale, di questi riecheggiamenti lo sta a dimostrare del resto la stessa cronologia plautina: che se potesse disporre di riferimenti storici ben chiari non presenterebbe (come purtroppo accade) tante incertezze e tanti punti oscuri. In definitiva, non è
che il mondo contemporaneo sia assente in Plauto: è che vi figura in misura quantitativamente molto ridotta rispetto alla totalità dei temi e degli argomenti di cui il suo teatro si compone. Per cui, chi voglia tracciare il quadro di un Plauto in qualche modo partecipe (o impegnato) deve rassegnarsi a tener fuori buona parte del testo per costruire un collage di spunti e di allusioni qua e là disseminati. Naturale conseguenza, si potrà dire, del fatto che abbiamo
a che fare non con composizioni originali ma con traduzioni di testi greci preesistenti. Certo, ma non solo di questo: conseguenza anche del modo e del gusto particolare secondo cui Plauto scelse all’interno del corpus che aveva a disposizione, non che del punto di vista specifico secondo cui andò rielaborando questi suoi originali. Il fatto è che quello di Plauto è un teatro sostanzialmente convenzionale: un teatro della ripetizione, anche, del déjà vu. Pochi temi favoriti (le peripezie di due amanti, il raggiro perpetrato ai danni di un lenone per sottrargli una ragazza, l'inganno ordito da schiavo e adulescens per strappar denaro a un padre avaro, il riconoscimento di fanciulle smarrite ecc.), sono in grado di riassumere, come si è visto,
tutta la produzione plautina: una produzione che, guardata da questo punto di vista, rischia di apparire persino monotona *. Quali allora le ragioni di un successo così indiscutibile e singolare (un successo di pubblico che mancò, per esempio, al ben più culturalmente impegnato Terenzio)? Sarebbe sbrigativo ascriverle soltanto alla comicità di certe situazioni, alla felicità
dello stile o alla fantasia metrico-musicale dei cantica — quasi un condimento raffinato ed allettante che riscatta la banalità di una pietanza usata.
1 Cfr. p. 67 sgg.
E non dovremmo
essere proprio noi mo-
Un'utopia per burla
81
derni a cadere nell’errore, noi che, per esempio, abbiamo con-
statato sullo schermo il successo di mediocri (o talvolta anche
ben fatti) film western tirati su con lo stampo in centinaia di repliche. Il fatto è che la produzione del déjà vu, la ripetizione del noto in letteratura o in altre forme di comunicazione artistica, ha una sua funzione (e dunque un suo pubblico). In altre
parole, essa risponde a certi bisogni collettivi che sfuggono però alla contingenza degli eventi storici (anche importanti) con cui tendiamo a caratterizzare un’epoca, che stentano ad iscriversi nella ristretta specificità della struttura ideologica in cui si crede di riconoscere,
talvolta, il carattere di un’età o di un
gruppo sociale. Dobbiamo allora concludere che anche Plauto aveva un suo riscontro culturale? molto preciso, una sua aderenza ai gusti ed ai bisogni collettivi della società cui si rivolgeva. Abbastanza povero di agganci alla storia evenemenziale, il suo teatro doveva risultare però partecipe di quella attualità più profonda che è costituita, in definitiva, dalla sostanza antropologica e culturale della società. E in effetti, la cosa non è poi stupefacente. Anche ad uno sguardo superficiale, quei pochi temi plautini che prima abbiamo sintetizzato risultano tutt'altro che secondari, presentano anzi una notevole rilevanza nella pratica della vita sociale. Prendiamo il contrasto padre-figlio (e con lui il contrasto generazionale in genere): non è certo un tema secondario in una collettività che conosce il predominio assoluto del padre sul figlio, soggetto in tutto e per tutto alla potestà paterna. Altrettanto si potrà dire per il contrasto padrone-servo in una società su base schiavistica, in cui il servo deve funzionare, bene o male, come
instrumentum vocale. Quanto ai giovani amanti divisi da qualche accidente, che lottano per aver la possibilità di esprimere liberamente i propri sentimenti, siamo anche qui di fronte ad un tema generalissimo ma — non per questo — meno discrimi-
nante nell’assetto culturale del gruppo sociale che si reca a teatro ?. In quale luce dobbiamo dunque collocare le relazioni che si possono stabilire fra i temi, gli intrecci plautini, e i bisogni o le esigenze della collettività? Il solo buon senso ci fa escludere, naturalmente, che la trasposizione sia meccanica, e che la pre2 Usiamo l’aggettivo nell'accezione che gli ha dato da tempo l’antropologia. 3 Cfr. p. 67 sgg.
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Verso un'antropologia dell'intreccio
dilezione plautina per certi argomenti significhi semplicemente che la società romana ‘aspirava’ ad una trasformazione che prevedesse padri gabbati ignobilmente dai figli, lenoni impunemente raggirati da servi ed amanti, o peggio ancora schiavi intelligenti che trionfavano sui padroni sciocchi e arrendevoli ... Il problema, però, resta delicato, delicato come sempre quando si ha a che fare con oggetti quali l'intreccio. Sembrano infatti sempre interessanti (almeno dal punto di vista generale che ci riguarda) le affermazioni di Lukécs * sull'importanza di questo elemento nella costruzione dell’opera letteraria: «Poiché la realizzazione di un intreccio, di una vera azione, conduce inevita-
bilmente a far sì che sentimenti ed esperienze vengano messi alla prova del mondo esterno, vengano pesati alla bilancia della loro azione e reazione sulla realtà sociale e rinvenuti pesanti o leggeri, genuini o spuri ...». Dunque questi così ‘irrealistici’ temi plautini, misurati alla bilancia della realtà sociale, risulterebbero spuri, leggeri? Vediamo. Non che questo non sarebbe vero. Qualsiasi lettore o spettatore moderno prova, credo, la sensazione che Plauto non faccia poi troppo sul serio, che i suoi amanti abbiano spesso qualcosa di enfatico o di falso, i suoi contrasti risultino quasi sempre iperbolici e fittizi. Una sensazione che si rafforza, se si frequentano un po’ i modelli di Plauto, specie la commedia di Menandro. Non è certo un caso che Marino Barchiesi, in un suo saggio molto bello?, avesse escogitato la categoria di «lirismo comico» per definire quell’inconfondibile registro che, molto spesso, colora il teatro plautino. Ma con un «rispecchiamento mancato» (per restare in ter-
mini lukacsiani) non saremmo ancora al punto. Resta infatti il problema della ricetta di successo, della predilezione che un teatrante smaliziato come Plauto aveva per certi argomenti (e
per quel suo modo «spurio» di trattarli): infine, perché non dirlo, resta il problema del fascino indiscutibile che, a tutt'oggi, almeno certa parte della produzione plautina continua ad esercitare su noi moderni. Il fatto è che anche ciò che è «leggero», ciò che è «spurio» ha una sua funzione, un suo luogo sociologi-
* Marx e il problema della decadenza ideologica, in Marxismo e critica letteraria, tr.
it., Torino 1964, 186. ° Problematica e poesia in Plauto, «Maia» n.s. 9, 1967, 163 sgg.
Un’utopia per burla
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co. Il rispecchiamento può anche essere deformazione: lo specchio può agire proprio rimandando immagini rovesciate. Certi momenti della vita sociale richiedono l’inversione, o quanto meno la sospensione dei rapporti sociologici autentici. Potremmo allora dire che il teatro plautino è un teatro «carnevalesco»: e ricorrendo a questa metafora, a questa categoria culturale, ci avviciniamo forse di più al cuore del problema. Analogamente a ciò che accade nella festa di Carnevale, i ludi scenici plautini agiscono proprio come scompaginamento fittizio, come inversione giocosa dei rapporti sociologici usati. Il codice culturale si inverte, e ne spunta una società governata dal semplice principio del rovesciamento: quasi a mostrare come andrebbe il mondo se tutto si rimescolasse.
A Roma, com'è
noto, questo bisogno di sospensione e di rovesciamento carnevalesco si esprimeva soprattutto nella libertas Decembris dei Saturnali °, allorché i rapporti fra padroni e servi si invertivano e trionfava la giocosa libertà della festa. Uno spirito analogo, un medesimo «Urbediirfnis» (nei termini di Nilsson) è forse ciò che spiega tanta parte delle situazioni e del registro plautino. I figli ingannano i padri, i servi trionfano sui liberi e sui padroni. Non è un caso che siano proprio queste due categorie di subalterni (gli uni per motivi di classe d’età, gli altri per statuto economico e sociologico) a governare nel mondo della commedia. Il rovesciamento carnevalesco vuole che siano loro,
per una volta, i padroni, gli arbitri della situazione. Nel carnevale indiano
«ognuno
recita
e momentaneamente
può
fare
esperienza del ruolo del proprio opposto; la moglie in condizione servile fa la parte del marito dominante, e viceversa; il
predone fa la parte del predato; il servo fa il padrone; il nemi-
6 Vedi p. es. la voce Saturnalia nella Realencyclopaedie di Pauly e Wissowa (redatta dal Nilsson): II A 1, 201 sgg.; F. Bòmer, Untersuchungen iber die Religion der Sklaven in Griechenland und Rom, Wiesbaden 1961, III, 415 sgg. Va da sé che queste pagine non pretendono minimamente di affermare che fra i Saturnalia Romani e il «Carnevale» europeo debba sussistere una filiazione di carattere storico o evolutivo: piuttosto una certa analogia di tratti funzionali (che paiono innegabili), mentre per altri aspetti i due momenti festivi risultano profondamente diversi. Per questo ed altri problemi relativi al «Carnevale» (non escluso quel certo ‘bisogno di Carnevale’ da cui la critica letteraria, sulle orme di Bachtin e di Camporesi, sembra essere stata afferrata tra la fine degli anni settanta e.i primi anni ottanta), rimando alle riflessioni di P. Clemen-
Verso un'antropologia dell'intreccio
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co fa l’amico; i giovani sottoposti a restrizione fanno i reggitori dello stato» 7. Che anzi, questa giocosa e ‘giovanile’ rottura dell'ordine presenta in Plauto altre manifestazioni collaterali che rinviano anch’esse alla dimensione carnevalesca. In assenza di padroni e padri, servi e adulescentes si danno generalmente alla vita allegra, godono e banchettano. A questo proposito, c’è nella Mostellaria un’espressione abbastanza ricca di significato, là dove il fedele servo Grumione (quello che sta dalla parte della
campagna, del padrone e dei buoni costumi) si scaglia contro la depravazione in cui Tranione e Filolachete si sono gettati (vv. 64 sgg.): bibite, pergraecamini, / este, ecfercite vos, sa g tnam
caedite,
«bevete, vivete pure alla maniera dei Greci,
mangiate, rimpinzatevi, fate strage di bocconi grassi!». Mangiare di grasso è per l’appunto la cifra dell'abbondanza e della - festa: e non è certo casuale che questa godereccia distruzione di beni alimentari coincida proprio con il periodo in cui l’abituale detentore del potere (il padrone e padre) ha momentaneamente ceduto il suo scettro. Il buon Grumione non sapeva certo di anticipare, nei suoi amari ed ironici imperativi, una vera e propria massima carnevalesca (Predica del beato Carlevale, 497 sgg.): «ma zaffa et da’ de graffa / a ogni cosa buona e grassa» * Alla fine, naturalmente, i rapporti reali verranno ristabiliti, e ciò tramite la rassicurante pratica del «perdono» esercitata dal padre verso il figlio e dal padrone verso il servo (vedi, per esempio, proprio il finale della Mostel/aria). Anche qui, però, le analogie carnevalesce sono puntuali. Alla fine dell’antico carnevale russo °, dopo la libertas Decembris che ne aveva caratterizzato lo svolgimento, accadeva proprio che «i più giovani si
te, Idee del Carnevale, in Il linguaggio, il corpo, la festa: per un ripensamento della tematica di M. Bakhtin, «Metamorfosi» 7, 1983, 11 sgg. ? V. Turner, I/ processo rituale, tr. it., Brescia 1972, 201 (cit. da P. Camporesi, La maschera di Bertoldo, Torino 1976, 9): i corsivi sono nostri. Quanto alle mogli che
dominano sui mariti, ci sarebbe anche qui da riflettere sui vari ruoli plautini di matrone trionfanti, come quelle della Casina o del Mercator.
Un’utopia per burla
mettevano in ginocchio davanti agli anziani, padroni, e ciascuno chiedeva perdono pet se ...». Dopo la decapitazione, la destituzione tere, tutto rifluisce negli argini noti: ciascuno
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i servi davanti ai le colpe commesper burla del poal suo posto, figli
e servi al rango di sottomissione che compete a ciascuna cate-
goria. Ma la pratica del perdono significa anche che tutto quel che si è fatto era in qualche modo previsto: figli e schiavi plautini (proprio perché perdonati e perdonabili) avevano in qualche modo il ‘diritto’ di fare quel che hanno fatto. Non è regola solo il ritorno alla normalità — la prassi del perdono mostra che anche la trasgressione era regola: la regola burlesca del rovesciamento, quella stessa regola che si fa qui struttura dell'intreccio e codice, a un tempo, della composizione teatrale. Un analogo discorso carnevalesco, anche se più complesso,
più affascinante, si può svolgere credo anche a proposito della figura del lenone. Cos'è che detta l’importanza — negativa — di questo personaggio all’interno di molte commedie? Com'è che esso appare così insostituibile (e così plautino)? Ci potrà essere naturalmente una certa dose di «realismo» in questa figura, almeno nel senso di possibili corrispondenze fra le situazioni che Plauto attingeva alla commedia ateniese e le pratiche della gioventà romana del tempo. Ma la presenza del lenone è un po’ troppo esclusiva, diciamo così, per essere del tutto autentica. Più semplicemente,
com’è che si rappresentano
giovani inna-
morati solo di cortigiane (e costretti perciò alla frequentazione di lenoni e mezzane) e mancano quasi totalmente amori di fanciulle libere? Ciò potrebbe far nascere il sospetto che questi così grotteschi lenoni plautini stiano al posto di qualcos’altro — che ci si trovi, qui, ancora di fronte ad una masche-
ra: una maschera in certo modo di secondo grado. Non solo cioè ad un personaggio rovesciato (il padre sciocco e ingannato, lo schiavo trionfante, ecc.), ma ad una funzione rovesciata
spostata. Il lenone pare configurarsi come e, aggiungerei, la maschera carnevalesca di ciò che non potrebbe apparire in commedia: la famiglia, in quanto detentrice non di danaro (il padre), ma di un bene assai più prezioso, le donne. Quelle fanciulle (qui ‘spostate’ in cortigiane) su cui i giovani sentivano in
qualche modo di aver diritti amorosi, ma da cui una rigida codificazione sociale li separava in modo invincibile. Evidentemente sarebbe stato troppo ardire mostrare in sce-
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Verso un’antropologia dell'intreccio
na padri o fratelli (peggio mariti) ‘° cui la furia dell’adulescens
in solidarietà con la furbizia truffaldina del servo, riuscisse a
sottrarre un bene così gelosamente conservato come le proprie donne. Ecco allora spuntare il lenone, la maschera complessa di tutti quei freni culturali che impediscono ai giovani la realizzazione libera dei propri desideri e delle proprie fantasie. Lo spostamento di cui parliamo invita naturalmente a riflettere. Si direbbe che nella licenza plautina la componente affettiva e sessuale sia come raffrenata, trattenuta (potremmo dire censurata): forse nella cultura romana non c’è il coraggio di rovesciare, sia pure per gioco, sino a tanto. Ed è forse per questo che la sfrenatezza sessuale (tipica anch’essa, peraltro, della categoria car-
nevalesca) non ha modo di manifestarsi in Plauto se non in qualche oscenità linguistica, o in qualche situazione sociologicamente eccentrica. L’abuso sessuale compare al massimo retrospettivamente, ad esempio nel flash-back di colui che (sotto l’influsso del vino e della festa) l’ha praticato su una fanciulla libera, ma di cui si trova a dover regolarizzare ora la posizione. Il Carnevale è libertà, sia pure effimera. Il destino subisce i più impensabili rivolgimenti, come nel «colpo di dadi» che domina — aleggiante spirito bizzarro — la mania saturnalesca per l’alea". Sono le Eleutherie che lo schiavo Tossilo, nel Persa,
festeggia con tanta magnificenza. Il padrone è lontano, ed egli strapperà con un inganno la propria amata al lenone che la detiene, spillandogli in più del denaro (mentre il confratello Sagaristione ingannerà ‘a buon fine’ il suo proprio padrone). B 4 s #lice
agito Eleutheria (v. 29a), ecco come lo schiavo definisce
il suo stato presente: nella festa della libertà Tossilo è addirittura re. Un re per burla, naturalmente, l’effimero re carnevalesco che però — per il breve spazio che gli è concesso — vuol godere e far godere: vives mecum,
/ basilico
accipiere victu (v.
30b sg.), anche tu sarai «re» con me, per una volta. ’O)1yoy06vuos, di breve durata era — per Luciano — il potere attribui!° Non è un caso che l’unica commedia plautina di adulterio, l’Amphitruo, abbia nientemeno che il sommo Giove nelle vesti dell’adultero: in tal modo l’affronto al mari-
to (e all'istituzione matrimoniale) si rovescia addirittura in onore e favore divino. Cfr.
dietro, p. 42 sgg. Sull’unico caso di sottrazione di una «figlia» a un «padre» in Plauto, e i conseguenti aggiustamenti subiti dall’intreccio, cfr. p. 53 sgg.
!! Sul gioco dei dadi come metafora della stiche e la frequenza del «colpo del destino» nella struttura degli intrecci comici cfr. sotto, p. 113 sgg.
Un’utopia per burla
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to al re dei Saturnali. Ma le sue burlesche ingiunzioni erano inappellabili: «all'uno ordino di gridare qualche vergogna sul proprio conto, all’altro di danzare nudo e, sollevando la flautista fra le braccia, di fare tre volte il giro della casa ...» ”. Racconta anzi Tacito che questo effimero onore toccò una volta persino al giovane Nerone ! — e la coincidenza con le poche notazioni di Luciano appare strettissima. «Nei giorni dei Saturnali accadde che, fra gli altri giochi dei coetanei, si sorteggiasse per scherzo il regno: e che la sorte favorisse Nerone. Agli altri Nerone impose di fare cose diverse, e tali da non causare vergogna: ma a Britannico ordinò di alzarsi e, venuto in mezzo alla sala, di cominciare a cantare. Sperava così di suscitare il riso intorno a quel ragazzo, inesperto non solo di ubriachezza ma addirittura di semplici conviti ...». Né si dovrà dimenticare che Claudio — lo sciocco, colui che aveva fatto del suo regno un Saturnale continuo — porta in Seneca l’ironico ap-
pellativo di Saturnalicius princeps ‘*. Come un re sorteggiato ai Saturnali, lo schiavo Tossilo, nel finale del Persa, presiederà al banchetto della vittoria, alle danze, e sarà il maestro e il diret-
tore degli sberleffi da infliggere al lenone Dordalo. Il banchetto e il cibo (accanto alla burla) sono ovviamente
le province specifiche di questi effimeri re goderecci. Eccitato dall’abbondanza che si prospetta per il suo ventre, il parassita Ergasilo crederà per un attimo di poter addirittura dettare la sua legge alla vita della città: basilicas edictiones atque imperiosas habet ..., è il divertito commento del vecchio Egione al termine della sua tirata ‘’. Soffermiamoci anzi un attimo su queste edictiones del parassita. Non è solo Ergasilo che si diletta di 12 Luciano, Saturnalia, 4. dazi l3 15, 2Xsg, 14 gpok. 8, 2. Sul re dei Saturnali (che com’è noto giocò un immeritato ruolo di
spicco nella grandiosa architettura frazeriana del Rarzo d’oro) vedi le equilibrate osservazioni di Nilsson, Saturnalia, cit. 435 sgg. Assai prudente anche G. Brugnoli, I/ carnevale e i Saturnalia, «La ricerca folklorica» 10, 1984, 55 sgg., che sottolinea piuttosto le
affinità fra questo personaggio e l’usuale «re del convito»: stenza di questo tipo di cariche nell’ambito della festa può dubbio. Su Claudio personaggio-sciocco M. Bettini, Bruto nella storiografia classica, Atti delle Giornate filologiche
sgg.
D Capt. 811.
resta il fatto, però, che l’esiessere difficilmente messa in lo sciocco, in Il protagonismo Genovesi, Genova 1987, 71
Verso un’antropologia dell'intreccio
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promulgare leggi, in Plauto questo gioco è frequente. Se lo stesso Ergasilo aveva già ceduto alla tentazione qualche centinaio di versi avanti !', minacciando sanzioni contro coloro che
escludono i parassiti da victu et vita, non è da meno Penicolo nei Menaechmi": che intenderebbe riformulare niente meno che la composizione delle contiones a seconda delle esigenze del pranzo. Quanto a Saturione (ancora un parassita), sua è certamente la ‘legge plautina’ più ambiziosa e complessa (stavolta il bersaglio è costituito dai quadrupulatores, gente che andava in giro accusando per intascare denaro '); mentre la schiava Syra ' si occuperà di garantire la parità dei diritti e dei doveri, fra marito e moglie, in materia di fedeltà coniugale — obiettivo abbastanza insolito in una società in cui si pensava che al marito fosse permesso uccidere la moglie colta in adulterio: mentre la moglie non poteva «neppure toccare con un dito» il marito infedele °°. Alla fine del Mercator poi — commedia che vede in scena un conflitto amoroso fra padre e figlio — un «tribunale giovanile» si incaricherà, per bocca dell’adulescens Eutico °', di sancire per legge che ai vecchi sia proibito andare con le cortigiane; e, al contrario, che nessun padre possa impedire al figlio di andarsi a divertire con chi vuole. Dunque parassiti, schiavi, adulescentes si configurano, in Plauto, come detentori della giustizia: la parte bassa, o marginale, della comunità si impadronisce in scena dello ius e lo piega alle più pazze delle necessità — pazze perché realmente tali, o pazze perché così eque e giuste da dover essere considerate per forza «pazze» ... Ora, nella sua epistola sulla schiavitù (quella del celebre «servi sunt»: immo homines) Seneca loda la saggezza dei maiores, che si adoperarono per togliere ogni motivo di astio da parte dei servi verso i padroni, ed ogni forma di offesa da parte dei padroni verso i servi”: «stabilirono un giorno di festa, non perché i servi mangiassero con i padroni 16 492 sgg.
17 453 sgg. !* Persa 65 sgg. M. Bettini, I/ parasito Saturio, una riforma legislativa e un testo variamente tormentato, «Stud. class. or.» 27, 1977, 83 sgg. !° merc. 817 sgg. 20 Catone, de dote, fr. 222 Malc?. 21 merc. 1015 sgg.
°° ep. 47, 14. Cfr. anche sotto, p. 106 sgg.
Un'utopia per burla
89
solo in quello, ma almeno in quello: permisero loro di assume-
re cariche in casa e di emettere sentenze (ius dicere), facendo
della domus una piccola res publica». Del gioco dei Saturnali faceva dunque parte, sembrerebbe, anche il rivolgimento delle parti in campo giuridico: quel giorno sono gli schiavi (d’altronde rivestiti di forores) che emettono sentenze alla maniera del
pretore. L’analogia con le edictiones plautine ci pare particolarmente stretta: come nel giorno dei Saturnali, sulla scena della palliata la signoria della legge appartiene a tutti coloro che sembrano i meno indicati per possederla. Ai Saturnali, come sulla scena, si gioca con la legge: un costume che ci è testimoniato
(lo vedremo
subito sotto)?
anche dalla conviviale
/ex
Tappula, una legge parodica che cadeva in pieno periodo saturnalesco, il 22 dicembre.
Faccendiere sfrontato ed abile intrigante, lo schiavo domina incontrastato (come ben si sa) sulla scena plautina. Ma — re per burla — il suo aspetto ha molto di grottesco (e nulla di regale).
Val la pena di guardarlo, questo effimero eroe, per quelle poche e preziose volte in cui il poeta si è divertito a tracciarne il profilo. Ecco il Leonida dell’Asizaria, vv. 400 sgg.: «Guance scavate, piuttosto rosso di pelo, panciuto, occhio torvo, statura
normale, fronte aggrondata». E il celebre Pseudolo della commedia omonima,
vv. 1218 sgg.: «Un tipo rossiccio, panciuto,
con grossi polpacci, di colorito scuro, gran testa, occhi acuti, faccia rubiconda, e dei piedoni enormi» °°. La pancia, i grossi polpacci, i piedi enormi, la faccia rubiconda (o macilenta) sono tutti caratteri che (nella loro disarmonia e dismisura) evocano
automaticamente una giocosa infrazione alle regole. Né va trascurato l’inquietante tratto dei capelli rossi: di Catone il censore (il «furbo» — Cato — che mutò il cognome di Priscus in quello di Cato proprio per la sua abilità) la tradizione amava ricor-
22 Cfr. p93 seg:
24 Cfr. anche capt. 647 sgg. In questa descrizione è forse da riconoscere la maschera fissa del servo da commedia: cfr. E. Paratore, Storia del teatro latino, Milano 1957, 31; G. E. Duckworth, The Nature of Roman Comedy, Princeton 197 1°, 89 sgg. In generale si veda F. Della Corte, La tipologia del personaggio nella Palliata, in Opuscula VI, Genova 1978, 354 sgg.
Verso un’antropologia dell'intreccio
90
dare proprio l’insolito color rosso della capigliatura, assieme ad
altre caratteristiche quali la mordacità ”.
Nelle Eleutherie di Tossilo c’è tutto, persino il travestimento, la farsa persiana. Ma non sono solo singole scene o tematiche generali (come quelle che elencavamo) a connotare questo mondo rovesciato della palliata plautina. La dimensione carnevalesca compare infatti anche in altri spazi del testo, il tono, per esempio. Abbiamo già accennato a quel che di fittizio, di iperbolico che colora un po’ tutto il teatro di Plauto: quel lievito da cui pare germinare, tra l’altro, proprio il Plauto migliore, il più originale. Ma i toni accesi ed esasperati, volutamente falsi, sono appunto i toni di queste feste. Come pure è propria di questa dimensione la coscienza continua del carattere fittizio o «scenico» di quel che si va svolgendo. Così in Plauto, dove tut-
ti sanno che si sta giocando, che ci si traveste: tutti sanno che sulla scena si sta facendo del teatro °°, l'attore non ha pudore di manifestarsi tale e di rivelare il suo trasvestimento. Ecco le raccomandazioni di Tossilo a Saturione, prima della beffa persiana: «E tu porta qua tua figlia vestita alla moda esotica: ma come si deve, eh! Saf: Ma i vestiti, dove li piglio? To.: E pigliali dall’impresario, no? Te li deve dare per forza, gli edili gliene hanno appaltato la fornitura». E il travestimento sulla scena (quello regolato dalla verisimiglianza) di cui si sta parlando, o non piuttosto quello che l’attore compie abitualmente dietro le quinte? Queste barriere del dentro e del fuori-scena in Plauto cadono di frequente. Il personaggio plautino è contemporaneamente spettatore e attore della mascherata: il gioco richiede che si sia a un tempo destinatori e destinatari del messaggio teatrale. Di fronte alla mascherata di Sagaristione e della ragazza, Tossilo è pieno di meraviglia (vv. 462 sgg.): «Bravo, bravissimo, ti sei travestito da re! E come ci sta bene questa tiara nell'insieme! E la nostra forestiera, come le torna a pennello il sandaletto ...». Il Carnevale mischia attori e pubblico, è una grande platea di se stesso. Non ci sarebbe festa se nel personaggio carnevalesco non coesistessero sempre, senza contrad°° Cfr. Plutarco, Cato maior, 1, 3, e l’epigramma ivi riportato. SETA Rimando
N ancora a M. Barchiesi, Plauto e il: «metateatro» antico, cit., 113 sgg.
Sulla problematica del «farsesco» plautino in generale vedi G. Chiarini, La recita, cit. (con particolare riferimento al Persa)
Un’utopia per burla
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dizione, ciò che realmente si è e ciò che si dice o si finge di essere. Anche il linguaggio, questo linguaggio plautino così ricco, corposo, quasi fisico, il metaforeggiare sfrenato, il libero scomporsi e ricomporsi delle parole e il loro riecheggiarsi in un uni-
verso apparentemente senza ordine e senza confini — tutto ciò
rassomiglia troppo al «carnevalesco» di Rabelais per non dover essere iscritto nel medesimo orizzonte letterario. Leo Spitzer — commentando una «carnevalesca» ottava del Pulci, zeppa di parole rare e difficili e giocata tutta su un incalzante andamento anapestico dell’endecasillabo — aveva trovato una formula davvero felice per caratterizzare questo tipo di linguaggio: lo diceva inteso «to create a “word reality” not a “world reality”». Nella festa tutto si fa abbondanza, accumulazione e consumazione gratuita: anche di parole. L’ingordigia linguistica dei servi (e non solo dei servi) plautini è pari solo a quella — corporea — dei suoi parassiti, sempre pronti a tutto concedere per soddisfare le brame sfrenate del ventre. Siamo di fronte, inutile dir-
lo, ad un altro tema carnevalesco per eccellenza: l’iperbole alimentare, la consumazione smisurata come regola e misura della festa («Santo Pancione» era il santo comunemente
associato al
Carnevale in Francia) ‘°. Ecco in azione Ergasilo, il parassita dei Captivi, cui è stata concessa mano libera nella dispensa per l’inatteso ritorno del figlio di Egione (vv. 901 sgg.): «Se n’è andato, e mi ha affidato il supremo potere mangereccio. Dei immortali, ora sì che gli troncherei il collo alle groppe di porco! Che morìa per i prosciutti, che strage per il lardo, che pappata di poppa di scrofa, che rovina per la cotenna. Voglio veder stremati macellai e beccai. Ma perderei troppo tempo a rammentare tutto quel che fa godere il mio ventre. In forza dei poteri conferitimi andrò ad amministrar giustizia al lardo, e soccorrerò i prosciutti impiccati senza processo». Si ode, dopo di ciò, 27 Crai e Poscrai o Poscrilla e Posquacchera, in Romanische Literaturstudien, Tibin-
gen 1959, 596 sgg. (partic. 606 sgg.). Sul linguaggio carnevalesco in generale ha belle pagine anche Camporesi, La maschera, cit. 141 sgg., 151, 226.
28 M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, tr. it., Torino 1979, 359 (si veda anche il capitolo quarto, Le immagini del banchetto in Rabelais, 304 sgg.). Sui «panciuti» carnevaleschi vedi anche Camporesi, La maschera, cit. 162.
Verso un’antropologia dell'intreccio
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un gran fragore di piatti e di stoviglie proveniente dall’interno della casa ”’, mentre uno schiavetto commenta (vv. 909 sgg.):
«Che Giove e gli dei tutti ti rovinino, Ergasilo, e con te il tuo ventre, e tutti i parassiti, e chi d’ora in avanti darà ancora da cena ai parassiti. Che disastro, che flagello, che ciclone si è ab-
battuto sulla nostra casa. Pareva un lupo inferocito, temevo che mi saltasse addosso ... che paura, come digrignava i denti! Appena arrivato butta all'aria carne e carnaio, afferra la spada, spicca di netto-le ghiandole a tre groppe. Poi spacca tutte le pentole e i bicchieri che non siano almeno da un moggio e chiede al cuoco se si possono mettere sul fuoco le giare. Sfonda tutte le celle della cantina e spalanca la madia ...». La guerra e la tavola, la battaglia come metafora della «strage» di vivande è uno dei temi favoriti, come si sa, di Rabelais e della letteratura
burlesca in genere ”. Ma questo tema dell'abbondanza — del godimento alimentare e del godimento verbale, giocoso, che il cibo produce — era davvero così importante alla festa dei Saturnali? C’è da pensare di sì, e si può a questo proposito invocare la testimonianza di un poeta che pare assai alieno — per levigata, compassata letteratura — dagli eccessi verbali dei comici: lo Stazio delle Si/vae. Non ci riferiamo tanto ad 1, 6, componimento esplicitamente dedicato alla descrizione della festa: e in cui pure si rammenta la pioggia di Delikatessen che (fuor di metafora, una vera «pioggia») con abile meccanismo Domiziano fece rovesciare sulla folla entusiasta, mentre ovunque trionfava «la libertà dei vini», un’abbondanza di cibarie da far impallidire la larghezza dell'età dell'oro e, soprattutto, ridens Iocus et Sales protervi Vorremmo piuttosto ricordare 4, 9, indirizzato all'amico Plozio Gripo, uno «scherzo» che Stazio stesso (nella prefazione al libro) ” ricorda come «endecasillabi su cui ridemmo assieme ai
Saturnali». Ed ecco l'occasione del componimento. Alla festa di
Saturno (in cui, com'è noto, ci si scambiavano doni) Stazio ave-
va inviato all'amico una copia delle sue poesie in edizione di lusso. Ma l’altro, in vena di scherzi, aveva ricambiato con un
?° Vedi la nota del Lindsay ad I., nella sua edizione commentata dei Captivi. 30 o) * ) . a a Vedi ancora Bachtin, L’opera, cit. e il citato quarto capitolo.
3162358 g.
Un'utopia per burla
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volumen brutto e tarlato — e contenente, per di più, «gli sbadigli del vecchio Bruto»!
Una raccolta, insomma,
delle noiose
orazioni di quel vetusto personaggio. Stazio non è disposto a fargliela passare liscia: ma non aveva niente di meglio, da mandargli? ed ecco nascere, di endecasillabo in endecasillabo, un crescente, interminabile elenco di cibi e stramberie la cui allure
incalzante ha qualcosa del ‘mozza-fiato’ plautino (vv. 27 sgg.): Non avevi un paniere di prugne o di fichi di Siria ammucchiati in una piramide che crolla? stoppacci secchi, bucce di cipolla accartocciate? uova neppure, o spelta dolce, o farro aspro? non hai trovato l’umida casa delle chiocciole curve che vagano nei campi del Cinyps? o lardo rancido, o prosciutto anemico? né salsiccia alla Lucanica, né ventresca alla Falisca,
o sale, o digestivo, né formaggio o pani di verde fior di nitro, o passito ricotto nei grani del suo psitio, mosto cotto torbido di feccia?
Negli endecasillabi staziani, lo «scherzo dei Saturnali» si trasforma immediatamente in scherzo alimentare. La festa, il ci-
bo, il gioco sul cibo si richiamano: e la categoria stilistica cui si fa ricorso è, ancora una volta, quella dell’elencazione e dell’accumulo. Nel parassita plautino il nome stesso è, di frequente, trasparenza del ventre: Artotrogus («Divora-pani»), Curculio («Gorgo-
glione», il tonchio) ?, Saturio («Pancia-piena») ... E anche in questo i riscontri con la tradizione carnevalesca (o addirittura
saturnalesca) romana sono assai precisi. Verso la fine del secolo scorso Th. Mommsen
rese noto, da Vercelli, un testo invero
singolare, risalente probabilmente alla fine del primo secolo do-
32 Un parassita nella cui fantastica e godereccia geografia balena anche (e come poteva mancare?) una sorta di paese di Cuccagna: Peredia e Perbibesia — «MangiaMangia» e «Bevi-Bevi», potremmo rendere — Curc. 444. Sulla edacitas di questi personaggi cfr. G. Guastella, La contaminazione, cit., p. 81 sgg.
Verso un’antropologia dell'intreccio
94
po Cristo o agli inizi del secondo: la lex Tappula so Dell’esistenza di questo parodico editto conviviale si sapeva anzi già qualcosa da una glossa di Festo *, che citava in aggiunta un
verso di Lucilio in cui la suddetta lex era ricordata. Ora, fra i
«magistrati» rammentati nella lex Tappula compaiono, accanto a Tappo”, per l'appunto un Mu/tivorus «Molto-vorace», un Properocius «Sbrigati-presto» e (forse) un Mero «Vino-schietto» °°. Accanto a questi simpatici magistrati, si fa menzione di una tribù Sazureia, quella tribù dei «Pancia-piena» cui l’omonimo parassita del Persa si sarebbe indubbiamente vantato di appartenere. L’editto cadeva in pieno periodo di Saturnali, il 22 Dicembre. E certo questi burleschi collegae della lex Tappula, questa tribù Satureia, non sono poi molto diversi dalle goderec(Per. 143), dai senatus congerronum
ce decuriae
«senato
di compagnoni»)
(Most.
cui il colorito universo
1049:
linguistico
plautino ci ha assuefatto ”. Anche
l’insulto (insieme con la beffa) trova naturalmente
posto in questo insegnato molto la sua riduzione to che capiti a
universo rovesciato e trionfante. Bachtin ci ha bene la funzione del linguaggio di piazza — con al «basso» materiale e corporeo di ogni oggettiro — nella liberazione carnevalesca. In questo
mondo rovesciato la terra, gli escrementi (trait d’union fra l’uo-
mo e la terra), così come certe parti «basse» del corpo umano (basse rispetto alla testa, la «parte sovrana», potremmo dire con gli Stoici), non solo rientrano dall’esilio culturale cui sono normalmente
condannate,
ma
assumono
una
funzione
domi-
nante: ciò che era rimosso si fa addirittura regola, diventa un paradigma capace di ricodificare (rovesciando l’«alto» col «bas?? Cfr. il lavoro di A. Premerstein, Lex Tappula, «Hermes» 39, 1904, 327 sgg. Il testo lo si può reperire anche nel Petronio del Buecheler, 266. LIZCIOIE,
? Il nome ricorre anche in Catullo, 104, 4. ?° Il testo è frammentario. La congettura è del Mommsen, che rimandava ai tria
nomina burleschi affibbiati a Tiberio imperatore (che amava un po’ troppo il vino): Biberius Caldius Mero. Accanto a queste creazioni linguistiche latine non sfigurano cer-
to i nomi degli «Zani» della tradizione italiana: Zan Ganassa, Zan Massella, Zan Tripò ... (cfr. Camporesi, La maschera, cit. 212). ?” Altri testi, specialmente arcaici e di teatro, meriterebbero di essere ulteriormen-
te approfonditi in questa direzione. Per l’Atellana, vedi i richiami saturnaleschi e carnevaleschi che vi ha ben rintracciato R. Raffaelli, Pomponio e l’Atellana, in Cispadana e letteratura antica, Bologna 1987 (presso la Deputazione di storia patria), 115 sgg.
Un'utopia per burla
95
so») la realtà. Di qui il carattere anche liberatorio, quasi fecon-
dante dell’insulto che «abbassa». Viene subito alla memoria la filza di ingiurie che Tossilo e il lenone Dordalo si scambiano nel Persa (altre se ne potrebbero ricordare): «O melma ruffianica, letamaio pubblico impastato di sudiciume, zozzone, svergognato, traditore, fuori legge, rovina della gente, sparviero voglioso e invidioso dei nostri soldi, procace, rapace, strappace ...» (vv. 406 sgg.). E Dordalo: «O grand’uomo, rifugio d’ogni servitù, affrancatore di puttane, tu che fai sudare la sferza e logorare le catene, cittadino della città delle macine, servo perpetuo,
pappone,
sbafatore,
rapinatore,
disertore ...»
(vv. 418
sgg.). E vero, c’è qualcosa di forte, di liberatorio e di fecondante in questo «abbassamento» cui i due contendenti assoggettano le proprie persone in maniera assolutamente gratuita (dopo un momento,
parleranno di nuovo da buoni amici). É un ab-
bassamento ma anche, per paradosso, un innalzamento contestuale, la sporcizia e l’insulto danno vita: rammentano all’uomo la sua corporeità, e la esaltano. Un altro aspetto, per concludere, di questo carnevale linguistico che andiamo rintracciando: le percosse, i supplizi. Difficilmente altri poeti hanno raggiunto tanta potenza e tanta raffinatezza (balenano qua e là luci barocche) nella rappresentazione di sì ingrati aspetti dell’esistenza. Eppure Plauto vi insiste con una puntigliosità quasi idiosincratica: se non si assiste mai ad una vera e propria flagellazione di servi sulla scena, il fantasma del patibolo, della sferza, del mulino e della tortura in genere balena però frequentissimo nelle volute del linguaggio, spauracchio dei poveri servi. Spauracchio? Non so. Certo non più di quanto non lo sia la morte nelle rappresentazioni carnevalesche: amica e nemica insieme, compagna e infida, termine e ri-
nascita °. Oppresso dall’ansia (il padrone è già al porto) Tranione
cerca
chi lo sostituisca
sull’ineluttabile
croce
(vv. 355
sgg.): «C'è qualcuno che vuol guadagnare un po’ di denaro, ed è disposto a farsi mettere oggi sulla croce al posto mio? Dove sono quei piglia-botte di professione, quei macina-catene, o
quegli individui che per tre soldi si fanno sotto le torri nemiche, dove hanno l’abitudine di farsi trafiggere il corpo da dieci 38 Bachtin, L’opera, cit., 102 sgg.
E e
96
Verso un’antropologia dell’intreccio
lance per volta? Regalerò un talento al primo che correrà in cima alla croce, ma a questo patto: che gli si inchiodino due volte i piedi e due volte le braccia. Quando sarà stato fatto,
venga pure a chiedermi il danaro in contanti ...». La tortura e la sofferenza si fanno burla, il supplizio è allegria. Il fatto è che la tortura e la sofferenza restituiscono contestualmente l’uomo alla sua fisicità: costituiscono l’altro «rimosso» corporeo che fa pendant con il sudiciume e la trivialità dell’insulto, e sono così (paradossalmente) liberatorie e vivificanti. Il corpo percosso o smembrato riporta l’uomo ad un «basso» quotidianamente negato dalle regole culturali. Anche qui (e anche oggi) il Carnevale ci insegna. Le percosse, i colpi, più o meno attenuati, più o meno simulati o simboleggiati, fanno parte integrante della sua rottura, della sua utopia: quando si pretende che il verso, non il recto dell’esistenza sia la realtà.
III JAGIA CALEASEST Saturno e i Saturnalia
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La scena si apre, e al centro sta un imperatore triste: è Caligola. Nascosto nella sua villa di Alba, lontano dalla conversazione dei suoi cittadini, sta cercando di vincere l’abbattimento
profondo che lo ha preso per la morte della sorella Drusilla. Era la più amata delle sue sorelle (Svetonio riporta anche numerose insinuazioni al riguardo) ‘, e lui si è fatto crescere barba
e capelli, sconvolto: gioca a dadi. «Che vergogna» esclama Seneca ° (il quale peraltro lo detestava) «che vergogna per l’impero! un principe romano, in lutto per la sorella, che si consola con i dadi!». Della dignità del principe, francamente, a noi importa assai meno che a Seneca. Forse perché, abituati come siamo alle Vitae di Svetonio e agli Arnales di Tacito, giocare a dadi in un momento di lutto non ci pare fra le nefandezze peggiori di cui gli imperatori Romani si sono macchiati nel corso dell'impero. Resta purtuttavia singolare che un uomo così duramente colpito dalla morte e dal destino si dedichi proprio al gioco dei dadi. I dadi sono una cosa allegra, lieta. I dadi (e qui ci avviciniamo al tema del nostro discorso) sono il simbolo della festa lieta
per eccellenza: i Saturnali. Marziale, per designare questo periodo di festa, usa una perifrasi molto significativa’. Sono i giorni su cui regnator ... imperat fritillus 1 Suet., Cal. 24. 2 ad Pol. 17, 4. 2101593)
Verso un’antropologia dell'intreccio
100
i giorni in cui la fa da re quel piccolo recipiente a forma di torretta (il friti/lus) che si usava appunto per lanciare i dadi. Del resto, ancora nel calendario del 354 d.C., il cosiddetto ca-
lendario di Filocalo °, che ad ogni mese assegna una scena simbolica che lo rappresenti, Dicembre è raffigurato proprio come un uomo che gioca ai dadi. Lasciamo dunque che la nostra scena iniziale si chiuda, e che il cupo Caligola continui, per il momento, a lanciare i suoi enigmatici dadi. Torneremo a lui fra poco, alla fine del nostro discorso. E adesso facciamo in modo che una seconda scena si apra, più lieta.
È il 17 Dicembre, la sera. La festa è appena iniziata, in città bande di uomini con in testa il pi/eus, il berretto della liber-
tà” , si abbandonano al grido che di questa ricorrenza è il simbolo e il segnale: Io Saturnalia!°. Fra un po’ il vino comincerà a fare il suo effetto” — ma soprattutto, ovunque si gioca ai dadi°. Durante i Saturnali, infatti, la /ex a/earia — la legge che vieta in Roma il gioco d’azzardo ’ — è sospesa, e l’edile non può intervenire sui giocatori. Dicembre, dice ancora Marziale ', in-
certis sonat hinc et hinc fritillis, «da ogni parte risuona per i cornetti del gioco d’azzardo». È la mania del momento, il sugo della festa.
4 H. Stern, Le calendrier de 354, étude sur le texte et ses illustrations, Paris 1953
(l'iconografia che illustra il calendario ci è tramandata attraverso copie del XTV secolo e del XVII secolo, a loro volta copie di una copia del IX secolo). ? Sen,, ep. 18, 3; Mart. 11, 6; etc. © Liv. 22, 1; Mart., 11, 2; Macr. Sat. 1, 10,18; Dion. Cass. 60, 19, 3; etc. Sulla festa dei Saturnalia a Roma, vd. M. Nilsson, Saturnalia, cit.; F. Bòmer, Untersuchungen iiber die Religion der Sklaven in Griechenland und Rom, cit.
? Sen., ep. 18, 4; Stat. si/., 1, 6. 8 Suet., Aug. 71; Mart. 4, 14; 11, 7; 14, 1; Lucian., Sat. 2 sgg. ? Plaut., m7i/. 164; Ov., tri. 2, 1, 472: G. Humbert, Alea, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des antiquités Grecques et Romaines, I, 179 sg. Sulla sospensione del divieto durante i Saturnalia cfr. Mart. 4, 14, 7; 5, 84, 5 sg.; 14, 1, 3; Gell., noct. Att. 18, 13, 1. Sul gioco dei dadi a Roma vd. L. Becq de Fouquetières, Les jeux des anciens, Paris 1873, 302 sgg.; interessanti osservazioni (specialmente dal punto di vista iconografico)
in L. Beschi, Gli «Astragalizontes» di Policleto, «Prospettiva» 15, 1978, 4 Sgg.
RAI,
Iacta alea est
101
C'è un particolare interessante, però. Ai Saturnali non si giocano soldi, oggetti preziosi, beni: solo innocentissime noci !!. Luciano ‘ si diverte anche ad inventare una giustificazione ‘mitica’ di quest’uso. Il suo Saturno, interrogato dal sacerdote, spiega infatti che così si faceva nella mitica età dell’oro: dove si giocava, sì, a dadi, ma la puntata più alta era costituita da noci,
per cui nessuno aveva a soffrire per le perdite. Del resto, commenta il sacerdote, era giusto così. A quel tempo gli uomini erano fatti essi stessi d’oro: cos'altro avrebbero potuto puntare, di più prezioso? Non è dunque l’ambiguo e perverso piacere della vincita (o della perdita altrui) che spinge i giocatori dei Saturnali a misurarsi l’uno con l’altro. Al contrario, infinite volte nel corso della
storia l’innocente tintinnio dei dadi ha segnato non solo la rovina, ma addirittura la schiavitù o la morte del perdente. Tacito
narra che i Germani ‘ «giocano a dadi anche quando non hanno bevuto, e come se si trattasse di un’occupazione seria: cosa di cui certo ci si meraviglierà. E tanto temerario è il desiderio di vincere o di perdere che, quando hanno perduto tutto, essi giocano se stessi e la loro libertà. Il vinto si sottomette volontariamente alla schiavitù ... Tale la pervicacia che manifestano nella depravazione: ma loro lo chiamano ‘tener fede? ...». Per la verità, l’etnologo non esiterebbe probabilmente a rintracciare, in questo «tener fede» a un gioco rovinoso, una ennesima manifestazione di quel meccanismo profondo di gara e di distruzione dei propri beni che altrove porta il nome di «potlatch» "*: quando due persone si affrontano in una spirale di «rilanci» che inevitabilmente porterà alla rovina di uno dei due, costretto appunto a «tener fede» a quella gara sciaguratamente aperta. A Tacito, che della cultura del «potlatch» non sapeva evidentemente nulla, tanta caparbia risolutezza in re prava pareva solo condannabile follia: ma erano molto più esatti, i Germani, molto consapevoli della propria cultura quando definivano il loro comportamento in termini di fides. La serietà con cui i Germa11 Mart. 4, 66; 5, 30; 13, 1; 14, 1; Lucian., Sat. 8 sg., 18; etc. Vd. anche l’interessante frammento di Cratino 165 Koch = 176 Kassel-Austin. CRA 8)
13 Germ. 24. 14 M. Mauss, Essai sur le don, in Sociologie et Anthropologie, Paris 1950.
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Verso un’antropologia dell'intreccio
ni antichi giocavano a dadi era manifestazione di una forma astratta, non di una sostanza specifica: ogni contratto esige fedeltà — e tanto più il prestigio e l’onorabilità personale vi sono impegnati quanto più rovinoso si presenta il «tenervi fede». Più rapida e rozza, certo spogliata dalla serietà solenne di cui i Germani antichi la rivestivano, la stessa cerimonia doveva
svolgersi molti secoli dopo anche sulla «ample Piazza before the sea» di cui va orgogliosa la città di Livorno. Narra John Evelyn che là (siamo nel 1644)” stava una tenda «where any idle fellow might stake his liberty against a few crowns, at dice, or other hazard: and, if he lost, he was immediately chained
and led to the galleys, where he was to serve a term of years, but from whence they seldom returned ...». Ma niente di tutto questo poteva accadere ai Saturnali, dove si giocava solo di noci. Dunque era semplicemente il piacere del gioco (ma che cosa significa realmente questa espressione, il ‘piacere del gioco’?), il correre dei dadi sulla tabula lusoria che spingeva la mano degli aleatores del Dicembre Romano. La spirale del «potlatch», la romanzesca follia degli «idle fellows» che popolavano l’antica Livorno, o semplicemente la febbre del giocatore come Dostoevskij (sulla sua pelle) ce l’ha descritta, non hanno spazio, qui. E neppure ce l’avrebbe l’ardita interpretazione che Freud '° dava del gioco d’azzardo — una interpretazione tanto acuta quanto, in verità, legata all'educazione e ai borghesi tabù dei suoi anni: quando, nel rapido muoversi delle ‘mani’ nel gioco, nella irresistibile tentazione, nel piacere che stordisce e blocca la coscienza del fatto che «ci si sta rovinando», l’analista
scopriva le tracce di antiche e puberali abitudini auto-erotiche. Quel pericoloso «gioco» infantile che il gusto dell’«azzardo» avrebbe successivamente sostituito.
Dunque, un principe pazzo e disperato che, nel pieno del lutto, si abbandona al gioco dei dadi: dei Romani allegri, ubriachi, che fanno impazzire i loro fritilli ma, si badi, solo per
scambiarsi dei mucchietti di noci. Che sta succedendo? Che cosa ‘significa’, insomma, questo gioco dei dadi? Andiamo avanti. La scena è sempre la stessa, i Romani alla The Diary of John Evelyn, London 1908, 57. 1° S. Freud, Dostoevskj e il parricidio, in Opere, X, trad. it., Torino 1978, 521 sgg.
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festa dei Saturnali. Non è solo di dadi che vi si gioca: in realtà tutt’intera questa festa rassomiglia ad un gioco di proporzioni cittadine. Un gioco totale, multiplo, regolato da una legge strutturale assolutamente omogenea, oltre che ferrea. Perché nel gioco, si sa, quello che conta è la presenza di una regola: e i Saturnali, ce l'hanno. Cerchiamo di abbozzarne una prima definizione, e chiamiamola la ‘regola del destino’: per meglio dire, la «regola dell’anti-destino» — ai Saturnali si finge, anzi ‘si gioca’ a che il destino, la sorte, quel ‘lotto’ di beni o di posizione sociale che definisce l’identità di ciascuno, non esista. Ma ve-
diamo passo per passo come si articola, nel ‘gioco’ dei Saturnali, questa regola. Se c'è una cosa che distingue i Romani come nazione, si sa, è proprio la toga: quel bianco drappo che il cittadino, a qualunque condizione appartenesse, di giorno avvolgeva intorno al suo corpo (con una tecnica abbastanza complessa), di notte, almeno nei tempi antichi, utilizzava come coperta per il letto ‘. Per definire solennemente la nazione Romana, il Giove dell’E- :
neide usa direttamente questa perifrasi !*. Romanos, rerum dominos, gentemque togatam
Ebbene, durante i Saturnali questa gens fogata rinunciava amabilmente all’abito nazionale, per indossare la synthesis: una veste colorata, che si portava normalmente per recarsi a banchetto !°. Seneca °° se ne scandalizzava. Guarda come si è ridotta Roma, diceva: per i Saturnali ci togliamo la toga, e così «ciò che prima avveniva solo in occasione di pubbliche sventure [quando in effetti si toglieva la toga per indossare vesti da lutto] e di tumulti cittadini, adesso lo si fa per andarsi a divertire ...». Dunque, è come se in occasione di tale festa i cives Romani rinunciassero
spontaneamente
a questa loro prerogativa.
Chi sono, i Romani, ai Saturnali? Non più la gens togata che
17 Varro, de vita pop. Rom. fr. 44 Riposati. 18 1, 282; cfr. anche Hor., carm. 3, 5, 10 sg.; Flor. 2, 21, 3; Plin., ep. 4, 11, 3. 19 Sen., ep. 18, 2; Mart. 6, 24; sulla synthesis Mart. 5, 79, 14; Suet., Nero 51; etc.:
E. Saglio, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire, cit., IV — 2, 158 sg.
20 ep. 18, 2 sg.
Verso un’antropologia dell'intreccio
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popola Roma per tutto l’anno — semplicemente, un gruppo di persone che indossa l’abito dell’allegria e del piacere. Si capisce bene che Seneca ne rimanesse scandalizzato: i cittadini Romani lasciano a casa i segni visibili di questa loro condizione, li abbandonano per altre ostentazioni. Non basta. Viene adesso la caratteristica più nota di questa festa, la sua prerogativa più singolare. Durante i Saturnali si abolisce la distinzione fra liberi e schiavi, i servi sono trattati
dai loro padroni come se fossero degli eguali. I padroni accettano persino di sentirsi dire da loro verità sgradevoli, con piena libertas Decembris, come la si chiamava °'; e permettono
che,
durante il banchetto, essi facciano addirittura il verso ai patrizi”. Questi banchetti i padroni stessi li offrono, di buon grado, ai loro servi: ed accade anche che siano i padroni a servire in tavola, con un totale ribaltamento delle parti °°. Si tratta di un rivolgimento macroscopico, non c'è dubbio. Ma se si tien conto dell'etichetta complessa, regolata, secondo cui nel banchetto Romano si distribuivano i posti ai convitati, c'è allora un’altra caratteristica (forse meno immediatamente visibile) che colpisce
l'osservatore: i servi siedono infatti al convito con i padroni «dove capita» ‘’, per cui ogni prerogativa o precedenza risulta annullata. Agli occhi di un Romano libero e ricco, doveva apparire un ben strano banchetto, quello a cui sedeva durante i Saturnali. Dunque, i padroni non sono più padroni, i servi non sono più servi. E come se si incontrassero a mezza strada, su un ter-
reno che neutralizza le distinzioni dei ruoli e delle categorie sociali. Del resto, come sappiamo, in quei giorni i cittadini Romani hanno smesso la toga per indossare un altro abito. Ma c’è di più. In quei giorni si va in giro con in testa il pilews, il pesante berretto di lana che è indossato, nella vita comune, dai /iberti,
gli schiavi affrancati dalla servità: e lo indossano tutti, servi e padroni — persino l’imperatore Domiziano, il noster Iuppiter del
2! Hor., sat. 2, 7, 4; Plut., Sulla 18; Lucian., Sat. 5; 7; 13. 22 Dion. Cass. 60, 19, 3. ?? Acc., ann. fr. inc. 3 Morel; Iust. 43, 1; Sen., ep. 47, 14; Lucian., Sat. 17; Macr.,
Sat. 1, 12; etc.
SS TustNA3001!
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povero Marziale, lo indossa °°. Il simbolo non potrebbe essere più chiaro. Liberi e schiavi tendono ad avvicinarsi, a confondersi: e per farlo, scelgono il modello dello schiavo liberato, la categoria sociale che sta a mezzo fra le due. La turba pilleata invade Roma, il berretto di lana trionfa sulle gerarchie della vita comune. Tutto ciò, si dice, è merito del dio Saturno: del dio di cui si celebra la festa. Quando regnava lui, infatti, gli uomini erano tutti eguali, non c’era distinzione fra ricchi e poveri, fra servi e
padroni °°. Dietro il modello dei Saturnali sta dunque l’armatura di un passato mitico, che ogni anno, alla fine di Dicembre, torna a farsi presente nello spirito della festa. Il potere di Saturno vuole dunque che le gerarchie sociali siano annullate — il destino, quella Sors più o meno equa che volle alcuni liberi e altri servi, non ha più alcun peso: Dicembre e i Saturnali l’hanno cancellata, annullata.
Alla stessa regola profonda — l’anti-destino, come l'abbiamo chiamata, il cancellamento della sors individuale — può essere riferita, crederei, anche un’altra abitudine caratteristica di que-
sta festa: quella di scambiarsi doni, uno con l’altro. E tutti quanti danno e ricevono, ricchi o poveri che siano ’. Anche qui, sembra di riconoscere le fila di un modello mitico, l’onni-
presente proiezione dell’età dell'oro e del dio Saturno. A quel tempo, infatti, non esisteva la proprietà divisa, come poi è avvenuto dopo, tutto era meravigliosamente in comune °. Per cui, è difficile non pensare che questo incremento della reciprocità, questa distribuzione mutua di beni fra tutti coloro che partecipano alla festa non voglia rimandare ad un modello mitico in cui tutto era di tutti, in cui tutto era ripartito, scambiato fra tutti. Anche il ‘destino’ dei beni vacilla pericolosamente — tanto pericolosamente quanto simbolicamente, come c’era da aspettarsi in una materia del genere. E come se si sottolineasse questo fatto profondo: ciò che hai lo hai non per possederlo ma per donarlo ad altri, i beni non sono possesso e fissità ma circolazione. La tua sors — nel doppio senso di «beni» e di sor25 Mart. 14, 1; vd. sopra n. 5. 26 Macr., Sat. 1, 7, 26; Iust. 43, 1; Serv., Aen. 8, 319; etc. 27 Plin., ep. 4, 9; Mart. 5, 18; 8, 41.
28 Verg., georg. 1, 126 sg.; Ov., am. 3, 8, 42; etc.
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te che te li ha assegnati ?’ — va redistribuita, divisa. Ricorda co-
me funzionavano le cose quando l’umanità era felice e serena, in piena età dell’oro.
Questa società sconvolta, rovesciata, aveva anche i suoi magistrati: e anche qui, la regola che vuole siano cancellati i privilegi — il gioco dell’anti-destino — celebra il suo trionfo. Nelle case, infatti, erano i servi che esercitavano le cariche pubbliche ed emanavano editti: tanto che, come dice Seneca ”°, in occasione dei Saturnali la pusilla domus aveva piuttosto l’aria di una res publica. Non si può far a meno di ripensare, in questa prospettiva, al forte rapporto strutturale che intercorre fra il mondo dei Saturnali da un lato e quello della commedia (specie plautina) dall’altro. Perché spesso lo schiavo di Plauto, come si sa, sulla scena si atteggia a magistrato: e promulga editti, mi-
naccia pene e sanzioni, come dovevano fare i suoi saturnaleschi confratelli — in quei fatidici giorni della libertas Decembris — nelle case dei patrizi ”*. Dunque gli infimi, i più bassi, gli schiavi assumevano la funzione e il tono dei magistrati. Neppure gli borores — questa sostanza così suscettibile e delicata della vita sociale — escono immuni dal gioco dei Saturnali. Quelle cariche che si ottenevano per nascita aristocratica, per ricchezza acquisita, per presti-
gio, ora sono gratuitamente distribuite agli ultimi fra gli uomini. Ancora una volta, si gioca al gioco del destino: si fa come se il destino individuale fosse reversibile. Ma non c'erano solo dei magistrati (o meglio, dei servi-ma-
gistrati) che amministravano il mondo dei Saturnali. Soprattutto, c'era un re. Un re che veniva sorteggiato ai dadi ’’, ma che aveva un potere tanto buffo quanto assoluto: poteva ordinare a uno di danzare nudo, a un altro di prendere la flautista sulle
spalle e di fare con lei, per tre volte, il giro della casa, a un °° Paul. - Fest. 380 L: sors et patrimonium significat; vd. anche il doppio significato della parola fortuna.
90 ep. 47, 14. 3! cfr. dietro p. 87 sgg. ?? Lucian., Sat. 4; cfr. il Saturmalicius princeps (l'imperatore Claudio) in Sen., 4pok.
8, 21 (contra G. Brugnoli, Il carnevale, cit., 49 sgg.): e soprattutto Tac., ann. 13015 festis Saturno diebus inter alia aequalium ludicra regnum lusu sortientium euenerat ea sors Neroni. Cfr. dietro p. 86 sgg.
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altro di rivolgersi delle ingiurie e così via. Un re per burla, naturalmente, il cui destino regale era segnato semplicemente dalla sorte, da un colpo fortunato ’. È come se si dicesse: tutti possono diventare re, che ci vuole, basta avere la fortuna dalla
propria parte quando si gettano i dadi. Dunque un re che, guarda caso, derivava il suo potere regale proprio dal gioco dei dadi — e questo ci riporta, inevitabilmente, al tema da cui siamo partiti. Il regnator fritillus dei Saturnali, questa imperante mania del gioco che — accompagnata com’è dal «re» stesso dei Saturnali — ci appare adesso in tutta la sua importanza. I dadi costituiscono il simbolo pieno di questa festa: come nella rappresentazione del Dicembre che sta nel calendario di Filocalo.
Il fatto è che il tema della sorte, del ‘gioco del caso’, spunta un po’ dovunque in questa festa dedicata a Saturno. Nei Saturnalia di Macrobio ’' il dotto Pretestato — incaricato dai convitati di spiegare quale fosse l’origine dei Saturnali — racconta che Saturno era giunto in Italia con una flotta, e che Giano, il quale regnava allora su questo paese, lo aveva accolto come ospite. Saturno, per parte sua, aveva insegnato a Giano l’uso dell’agricoltura: e Giano, riconoscente, non solo aveva diviso con Sa-
turno il suo regno, ma aveva voluto segnare la sua riconoscenza anche per il futuro. E sulle monete volle che fosse manifestata la sua deferenza per Saturno: «siccome quello era arrivato per mare, su un verso fece imprimere l'effigie della sua testa, sull’altro una nave ... Che la moneta fosse così coniata si deduce ancor oggi dal gioco d’azzardo, quando i fanciulli, gettando in aria le monete, gridano ‘testa o nave!’: e il gioco è testimone dell'antica tradizione». Dunque, giocando a ‘testa o nave’ si riattivava un ricordo ‘antico’ del dio Saturno. Ammesso che il dotto Pretestato non stesse esagerando, è chiaro, con la sua erudizione ... Ma se dobbiamo prestargli fede, ne vien fuori che l’alea del gioco e l’antica divinità dell’età aurea si presentavano
decisamente connesse — le due facce di una stessa moneta, è il
caso di usare questa metafora.
33 Iactus basilicus (‘il lancio del re’) è chiamato un buon lancio di tal in Plaut., curc. 359 (vd. H. Lafaye, Tali in Daremberg-Saglio, Dictionnaire, cit., V, 28 sgg.). 197/02:
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Verso un'antropologia dell’intreccio
Comunque sia, il comportamento ‘saturnalesco’ dell’impera-
tore Augusto (fortunatamente tramandatoci da Svetonio) non fa
che confermare l’importanza della sorte, del ‘gioco del caso”
durante la festa. Non
solo, infatti, Augusto
distribuiva
come
doni agli invitati oggetti preziosi o di scarso valore, come capitava, accompagnandoli con scritte oscure ed ambigue (viene in mente il piatto dello Zodiaco che sta nella Cena di Trimalchione)”. Ma, durante il banchetto,
aveva
anche «l'abitudine
di
vendere delle lotterie in cui si sorteggiavano cose di valore molto ineguale, oppure quadri voltati verso la parete: in modo da deludere, oppure da soddisfare la speranza dei compratori con la incertezza della sorte. La vendita della lotteria la faceva all’asta, e non ai singoli convitati ma letto per letto, di modo che la perdita o la vincita fossero comuni a più persone». Anche qui la sorte, e il ‘gioco del caso’, recitano la parte principale. Chi compra non sa se guadagnerà un oggetto prezioso oppure un’inutile cianfrusaglia — non sa se la tabula rivolta contro la parete porta la mano di un artista famoso o è solo un’inutile crosta. Oltre tutto, la vendita è fatta per gruppi di tre persone (quante ne conteneva un letto tricliniare), per cui la vincita o la perdita
risultano doppiamente frutto del caso: quello della estrazione, e quello dell’appartenere all’uno o l’altro letto conviviale. Anche nel banchetto di Augusto, insomma, il ‘gioco del caso’ la fa da padrone. Dunque, il mondo dei Saturnali è un mondo che appare marcato dalla labilità, o meglio dalla reversibilità della sorte. I cittadini Romani non sono più cittadini Romani, i servi non sono più servi, i padroni non sono più padroni, la proprietà si
trasforma piuttosto in dono, gli schiavi fanno i magistrati, il re viene sorteggiato con i dadi — su tutto incombe l’4/ea, il gioco del caso, la lotteria. È questo il contesto in cui dobbiamo collocare il regnator fritillus dei Saturnali, l’imperante gioco dei dadi. In realtà, questa trionfante mania non fa che riproporre nella sua forma più pura e perfetta la regola profonda dei Saturnali: il gioco del destino e della sua reversibilità, la convinzione Suet., Aug. 73; Petr., sat. 46,7; vd. M. Grondona, La religione e la superstizione nella Cena Trimalchionis, Bruxelles 1980, 94.
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(seppure effimera) che la sorte non è immutabile ma può cambiare a piacimento degli uomini, e si può tornare alla felice serenità dell’età dell'oro, quando regnava la perfetta uguaglianza. E dunque si gioca, si gioca molto. Si gioca non per vincere danaro, per spogliare e distruggere chi ci sta di fronte, ma solo per scambiarsi mucchietti di noci — si gioca per giocare, per vedere ogni volta formarsi, sulla tabula lusoria, una somma
di
numeri diversi. Per vedere la mia sorte e quella del mio avversario mutare volubilmente, come capita: per scambiarsi le alternae vices del gioco (è così che le chiama Ausonio) ’, le «vicen-
de alterne» di chi vince e di chi perde, e vede ad ogni colpo mutata, o confermata, la propria fortuna. Ai Saturnali tutto è in discussione: un colpo di dadi. (Ci sia consentito
aprire una breve parentesi. I Saturnali,
dunque, sono un gioco, un gioco governato da una regola fissa. Come tutti i giochi, anche questo ha una sua durata temporale precisa, al di là della quale si intende che il gioco è finito: e lo si ‘gioca’ con la consapevolezza che si sta facendo qualcosa che è fuori dalla vita normale, e che si sta vivendo con un misto di
gioia come bene, gioco
e di tensione. Sono appunto le caratteristiche del gioco le descriveva, in un libro famoso, Johan Huizinga ’’. Ebse è un gioco dovrà pur accadere che ci sia anche chi al non vuol partecipare, chi è riluttante — che ci sia quel
che si chiama,
normalmente,
un «guastafeste».
Ebbene,
non
potremmo escludere che Seneca e Lucilio fossero inclini a fare i «guastafeste», ai Saturnali. Seneca che si scandalizzava per l'abbandono della toga da parte dei Romani, Seneca che, «conoscendo
Lucilio», come
lui stesso dice, è sicuro che l’altro
vorrebbe piuttosto far da arbitro che non mischiarsi alla turba pilleata che invade la città; Seneca che infine risolve di partecipare perché astenersi del tutto dalla festa non sarebbe bene, ma intende farlo con molte riserve: il saggio, dice, farà quello che fanno gli altri ma non allo stesso modo degli altri °. Accettare sino in fondo la regola del gioco, insomma, a Seneca ripugna: egli non crede troppo alla ‘regola’ dei Saturnali. Solo che,
36 prof. Burdig. 1, 27. 37. Homo ludens, tr. it., Milano 1972.
asicpisNaisp.
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come sapeva bene Valéry”, verso le regole del gioco non è possibile scetticismo: pena l’impossibilità di giocare). Ma torniamo al nostro tema principale: l’alea. Abbiamo detto che i dadi dei Saturnali manifestano, nella sua forma più pura e perfetta, il ‘gioco del destino’. Ma siamo sicuri che ci sia un legame così forte fra «dadi» e «destino»? Pensiamo di sì. I dadi simulano il destino, lo rappresentano. Parlando della vita dell’uomo, Terenzio ‘° dice che è «simile a quando si gioca con le tesserae (gli astragali): se, lanciandole, non esce (cadi?) il col-
po che ti occorre, bisogna cercare di correggere con la bravura ciò che il caso ha fatto capitare ...». La vita è dunque un gioco di dadi, la sorte, il destino, la governano a colpi di fesserae —
salvo l’ottimistica speranza nell’ars del giocatore, ovviamente:
un’ottimistica speranza che si vuole lasciare aperta al libero agire degli uomini. Si tratta di una metafora fra le più note, ma anche fra le più profonde. Plauto, nella Ruders *, usa anche lui un'immagine molto significativa da questo punto di vista. Lo schiavo Tracalione vuol descrivere il favorevole esito che la sorte ha impresso alla vicenda delle due ragazze prigioniere del cattivo lenone, Labrace. Costui le aveva infatti trascinate su una
barca, per portarle in Sicilia e sottrarle alla liberazione, ma il mare li ha fatti naufragare, e ora le ragazze sono di nuovo sulla terra ferma: la libertà è vicina. Ed ecco il commento di Tracalione: «O amabile Nettuno, salute a te! Non c’è nessun giocatore di dadi che sia più bravo! Hai fatto davvero un bel colpo, rovinando quello spergiuro ...». Il destino ha colpito Labrace e favorito le fanciulle: il mare ha fatto un ‘buon colpo’. Ma anche il Cesare di Lucano “ ci fornisce un buon esempio. Prima della battaglia di Durazzo egli avrebbe sì la possibilità di impadronirsi delle città greche senza colpo ferire, ma disdegna questa vittoria troppo sicura. È preso dall'amore del rischio, vuol godere il funesto piacere della sorte incerta, che sommergerà il capo suo o del suo avversario Pompeo: e placet ?° Citato da Huizinga (vd. sopra n. 37). 1° ad. 739 sgg. Cfr. Plato, resp. 604 c; Eur., suppl. 330; Soph. fr. 809 Nauck?; Alexis fr. 310 Kock; etc. (su alcuni contesti metaforici greci riguardanti il gioco dei dadi vd. C. Diano, Saggezze e poetiche degli antichi, Firenze 1958). 41 359 sg. 4 Pbars. 6,7.
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alea fati, dice Lucano, «preferisce l’alea, il colpo di dadi del destino», l’azzardo della sorte. Difficile non rammentarsi, a
questo punto, della celeberrima (anzi, proverbiale) frase che lo stesso Cesare avrebbe pronunziato varcando il Rubicone. Giunto presso questo fiume ‘’, il generale si fermò per un poco, meditando sulla grandezza di ciò che stava per compiere. Forse fu preso dal dubbio, perché rivolto a chi gli stava vicino disse «potremmo ancora tornare indietro ...». Ma poi, si narra anco-
ra, gli si presentò una visione. Apparve un uomo di straordinaria grandezza e bellezza, seduto lì presso, e prese a suonare il flauto. Molti accorsero ad ascoltarlo, pastori e soldati, fra cui dei trombettieri — ma quell’uomo, strappata la tromba a uno di loro, si gettò nel fiume, e suonando con straordinaria forza il
segnale di battaglia si diresse verso l’altra riva. In un attimo la decisione fu presa: «andiamo» disse il comandante, sacta alea est ... Ecco segnato, con un solo colpo, il destino di Cesare e di Roma
stessa. L’azzardo, la sfida alla sors. Adesso non restava
che attendere il ‘colpo’ dell’avversario, di là dal fiume. Chi avrebbe guadagnato la partita? (Ci sia consentito aprire un altro inciso. Il re degli Eruli, che come tutti i Germani i dadi li prendeva molto sul serio, fece assai più che pronunciare una frase proverbiale e metaforica in una situazione del genere. Paolo Diacono ‘ racconta infatti che egli giocava a dadi mentre il suo popolo si scontrava con i Longobardi. La stessa occupazione, peraltro, a cui ci si dedicava nella tenda del re Teodorico, presso Quierzy ‘’. Davvero si giocava, come dice spesso Livio ‘°, l’alea belli: ma stavolta, fuor di metafora). Ma non sono solo metafore, o frasi proverbiali. C'è di più. I dadi soro la sorte, soro il destino anche perché è direttamente per il loro tramite che il mondo antico interroga i fati. Fra le molte forme di divinazione praticate nella cultura greco-romana, infatti, ha il suo posto preminente anche la xvPouavteita, la divinazione tramite i dadi: così come quella praticata tramite il lancio degli astragali, un particolare tipo di ‘dadi’ a quattro 4 Suet., Caes. 31. dall'bis(@lear:0 10920Ì 4 Fredegari Chronic. libri, Mon. germ. Hist. IV 27, suppl. rer. merov. II, p. 131.
dla
137:36,9; 42, 59, 10.
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facce ‘”. Si lanciano i dadi, e la loro particolare combinazione funge da profezia e da responso. Il dio svela il destino degli uomini ‘parlando’ la lingua del colpo di dadi: la loro caduta, la loro disposizione segna la sorte di chi l’ha richiesta. L'uomo antico è abituato a legare fra loro «dadi» e «destino»: a sentire che il destino si esprime per mezzo loro. E infine, è il linguaggio stesso che svela quanto profondo sia il legame che unisce ai «dadi» la nozione di «destino». La metafora si è fatta in qualche modo parola, i due significati si sono congiunti in un’espressione mista che designa entrambe le nozioni in una volta sola. Perché il dado, si sa, «cade». E questo il momento delicato, discriminante, del gioco: l’attimo atte-
so con ansia dai giocatori, il passo decisivo che segna — con la sublime indifferenza del cubo che rotola, e si arresta — la vinci-
ta o la perdita, la fortuna o la disgrazia. Iudice Fortuna cadat alea, dice Petronio * «il dado cada a giudizio della Fortuna». E cadere, «cadere», è il verbo che si usa per designare appunto questo momento di verità, quando il dado ‘segna’ inappellabilmente l’evento ‘’. Ebbene, quest’uso linguistico presenta una singolare prossimità con la parola che indica, in latino, il «caso», la «sorte»: casus, appunto, la «caduta» e insieme
il «casuale» presentarsi degli eventi. Come se il «cadere» dei dadi nel gioco e l’«accadere» che marca la vita degli uomini si fossero lessicalizzati, insieme, in una espressione che può designarli simultaneamente entrambi. Le metafore di Plauto e di Terenzio, l’alea lanciata da Cesare al Rubicone, la pratica divinatoria della xvfopavteia si saldano in una parola che è tanto semplice quanto angosciosamente enigmatica: il Caso. Ecco, la scena che avevamo aperto si richiude: la festa dei Saturnali è finita e il giocatore di dadi, come dice Marziale ?°
«implora il perdono dell’edile»: la libertà di Dicembre non lo *° W. R. Halliday, Greek Divination, Chicago 1967 (=1913), 209 sgg.; A. S. Pease, M. Tulli Ciceronis de divinatione libri duo, Darmstadt in Lang. and Lit.» 6, 1920; 8, 1923).
1977, 122 (=«Univ. Ill. Stud.
34122, we 74, 4° Ter., ad. 739 sgg.; Cic., fin. 3, 54; Thes. ling. Lat. I 21, 16 sgg. e 28, 32
(«Archiv. Lat. lex.» 3, 1886, 370). 2085884:
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protegge più dai rigori della /ex 4learia. Tra poco inizierà un nuovo anno, e tutto ricomincerà come era prima. I dadi saran-
no vietati, i cittadini indosseranno la toga, gli schiavi saranno ancora schiavi e i padroni ancora padroni. Ma sul finire dell’anno vecchio, la città di Roma ha giocato al ‘gioco del destino’: nella libertà di Dicembre — mentre l’anno vecchio trascorreva nell’anno nuovo e creava come una sospensione del tempo reale, un labile passaggio — tutti hanno voluto illudersi che le sorti non fossero segnate, che tutto potesse essere rilanciato come nelle alterne vicende del gioco dei dadi. Dice un bel passo di Antifane ”': «la vita non la si può gettare una seconda volta, come fosse un colpo di dadi». Era proprio questo, invece, che ci si illudeva di fare durante i Saturnali. II La vita no, non si può gettarla una seconda volta. Lo sappiamo sin troppo bene. Ma la vita «imitata», la vita che si crea sulla scena? Quella sì, si può gettarla quante volte si vuole, in fondo il teatro è stato creato proprio per questo: basta si tratti di commedia, naturalmente. E così i Saturnali e il gioco dei dadi ci conducono nuovamente alla commedia palliata. Plauto lo sa bene che la Fortuna (il mutamento improvviso,
il «colpo») domina ogni intreccio. «I piani di cento uomini avveduti sconfigge da sola una dea, la Fortuna», dice Pseudolo appena il caso gli mette nelle mani la lettera portata da Arpace”. La soluzione dell’intrigo si apre ora davanti a lui e al suo padrone — cento Pseudoli, con tutte le loro astuzie, non sareb-
bero mai potuti arrivare a tanto. D'altra parte, meraviglierebbe che Plauto non sapesse quanto la fortuna domini gli eventi da commedia, visto che buona parte dei suoi intrecci sono governati, in varie forme e combinazioni, dall’intervento risolutore del Caso. A volte è l’inatteso riconoscimento di una fanciulla
(Curculio, Poenulus, Rudens, Cistellaria, Epidicus), altre volte un ritorno imprevisto (Trinummus, Mostellaria), sino all’incredibile
gioco della sorte che pone sulla scena due individui identici ed 51 fr, B 52 Demiaficzuk. 22 vv. 678 sgg.
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ignoti l’uno all’altro (Merzechm:). Di tutto questo abbiamo già parlato a lungo, come di uno dei meccanismi strutturali che re-
golano più strettamente il chiuso gioco degli intrecci plautini ”’. Ora possiamo riparlarne scendendo forse un po’ più in profondità.
La vita degli uomini è un gioco. Ed è un gioco, soprattutto, la vita intricata che sta nelle trame da commedia, quella che un «colpo» fortunato ed inatteso è comunque destinato a sciogliere. Nel prologo dei Captivi si spiega la complessa situazione in cui i due giovani Tindaro e Filocrate sono venuti a trovarsi per le oscure vicende della sorte: entrambi strappati al loro padre, Egione, adesso sono servi nella casa di questo stesso padre che ancora li sta cercando: ma né loro, né il vecchio hanno una
minima idea di come stiano le cose. Ed ecco il commento di chi recita il prologo: «gli dei giocano con gli uomini, come se fossero delle palle ...» °°. La vita — l'intreccio che ne simula in scena la sostanza — è un gioco. La sorte dispone a suo piaci-
mento, scaglia nelle direzioni più impreviste. Annoda e scioglie. Ma sappiamo che nella palliata il gioco della sorte non si esprime solo nella metafora della pila, si esprime anche in quella, per noi più familiare, dei tali o delle fesserae. Abbiamo visto come nella Rudens lo schiavo Tracalione si congratuli con Nettuno per «il bel colpo di dadi», cioè quel «naufragio felice» ” con cui ha bloccato i propositi del lenone Labrace °°. La trama ha preso una sua piega ‘inattesa’ e fortunata, di nuovo tutto è ancora possibile. Così come negli Ade/phoe di Terenzio (un altro passo che abbiamo visto sopra)”, quando si scopre che il ragazzo ha messo incinta non una flautista ma una donna libera, che costei ha anzi già partorito e ora non si può far altro che celebrare le nozze, Micione commenta: «la vita degli uomini è simile a quando si gioca con le fesserae (gli astragali): se lanciandole non esce il colpo che ti occorre, bisogna cercare di correggere con la bravura ciò che il caso ha fatto capitare». 9? cfr. sopra p. 29 sgg. SEVAQ2: ? cfr. R. Raffaelli, I! naufragio felice. Porti pirati mercanti e naufraghi nelle commedie di Plauto, in C. Questa - R. Raffaelli, Maschere, cit., 121 Sgg.
2° vv. 359 sgg. Cfr. sopra, p. 110. vv. 739 sgg. Cfr. sopra, p. 110.
57
Iacta alea est
115
La commedia palliata ha nel colpo della sorte, nel rivolgimento improvviso, una delle sue risorse principali. Questo lo sappiamo bene. Forse, però, non si riflette abbastanza sul significato che questo nodo della trama intende comunicare: perché, come abbiamo già avuto modo di notare, le trame «parlano» ’*, non sono solo grezzi canovacci su cui le azioni si ricamano ma
esprimono direttamente, in prima persona, dei messaggi culturali spesso di carattere fondamentale. Ci pare insomma che il gioco del caso, facendosi intreccio, esprime un messaggio tanto attraente sul piano della riuscita scenica quanto rassicurante sul piano della cultura: non esiste un destino «fisso», scritto 46 4eterno, la partita può mutare inaspettatamente ad ogni mano. Il lenone non trionferà sull’adulescens, né il denaro trionferà sull’amore, perché la sorte, con uno dei suoi colpi inattesi, mette-
rà tutto per il meglio — tutto come dovrebbe stare. Anche la commedia gioca il gioco dell’anti-destino. Anche in questo, il mondo della palliata richiama il mondo dei Saturnali. Ma dimenticavamo Caligola — l’imperatore triste, coperto di lutto, che nel gioco dei dadi cercava distrazione per la morte dell’amata (forse troppo amata) sorella. Lasciamo dunque che, conclusivamente, la scena si riapra sulla ricca villa di Alba. Perché non pensare che Seneca, almeno questa volta, fosse stato troppo severo con Caligola? Forse l’imperatore, messo crudelmente
di fronte alla ineluttabilità del fato, lanciando i
suoi dadi aveva voluto illudersi che in realtà le sorti degli uomini potessero essere ‘rilanciate’ e mutate: come nel gioco dei dadi. Preda lui stesso, l’imperatore, di un destino più grande di lui, aveva cercato sollievo nella metafora stessa del destino che
muta. Ad ogni mano della partita.
58 Cfr. sopra, p. 73 sgg.
IV LA STIRPE DI IUNO ovvero il metodo nella follia
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tlyura ni 19778AJ
Il giovane Alcesimarco ha ricevuto da Melenide un chiaro rifiuto: no, la donna non intende assolutamente dargli sua figlia. Allora l’adulescens ‘impazzisce’, e comincia a scongiurare gli dei sbagliandone sistematicamente i legami genealogici: AL. At ita me di deaeque, superi atque inferi et medioxumi, itaque me Iuno regina et Iovis supremi filia itaque me Saturnus eius patruos — ME. Ecastor pater! AL. Itaque me Ops opulenta, illius avia - ME. Immo mater qui-
dem! Iuno filia et Saturnus patruos et pater Iuppiter! AL. Tu me delenis, propter te haec pecco ... * 1 La situazione testuale presenta qualche incertezza. Al v. 514, però, avranno sicuramente
ragione Prisciano
(G. L. Il 322, 5 K.: et castor pater) e P (ecastor pater: et
castor pater B) contro A (et summus pater): si tratta di Melenide che interrompe il giovanotto, correggendolo, così come potrà tornare a fare subito sotto (12770 mater quidem!: stavolta la tradizione è concorde). Et sumzmus pater è una banalizzazione senza
alcun significato: che anzi, come notava il Leo (Plautinische Forschungen, Berlin 1912°, 271 n. 3), «verschlechtert den Dialog». Ritengo inoltre probabile che il verso 516 sia da attribuire a Melenide (secondo le indicazioni che stanno del resto in P), di seguito alla
sua interruzione del v. 515. L’interpretazione di Ussing (T. Macci Plauti Comoediae, Hauniae 1887, 190 sg. ad v. 341 = 514: testo a p. 103) resta la più accettabile: «Melaenis eius errores corrigit: quod postquam bis fecit, v. 341 mirabunda exclamans hos errores repetit». Una specie di ricapitolazione ironica, insomma: dopo la quale il giovanotto sentendosi ferito, ribatte #4 me delenis, propter te haec pecco... Se invece, accogliendo la proposta del Saracenus, si attribuisce il verso ad Alcesimarco (contro le indicazioni di P, naturalmente) ci si trova di fronte ad una ripetizione, da parte del giovane, degli ‘errori’ genealogici che ha appena commesso: seguita da una frattura improvvisa del discorso, con la quale il giovane sembra per un attimo rinsavire (facendo un
po’ tutto da solo, se così si può dire). Per il testo di 516, vd. oltre, 133 sgg.
120
Verso un’antropologia dell'intreccio
«Tu mi fai impazzire» dice Alcesimarco «è per colpa tua se sbaglio in questo modo ...». Iuno, infatti, non è filia di Iuppiter, ma
soror
(e uxor);
così Saturnus
è pater, non patruus
Iuno, Ops è mater, non avia. Si tratta dunque di gia ‘sbagliata’: ed è sbagliata perché recitata da un munque, limitarsi a correggerla senza arrestarsi un sarebbe un errore. «Come le azzecca!» esclamava
di
una genealo‘pazzo’. Cosolo minuto, infatti il vec-
chio Polonio di fronte alle ‘follie’ di Amleto, «è una felice vena
dei pazzi, che la ragione e la salute non posseggono in egual misura ...» î. E se anche Alcesimarco, in qualche modo, le aves-
se ‘azzeccate’? Ecco il dubbio che ci ha trattenuto: e ci ha spinto, anzi, a compiere una breve discesa nella follia di Alcesimarco.
Il Lambino, dopo aver anche lui segnalato i vari ‘errori’ commessi dall’adulescens, continuava: «... maxime ab illo loco,
At ita me dii deaeque superi etc., amore, et quasi furore praeceps, absurda, et perplexa, et minime inter se cohaerentia [adolescens] loquitur ...» ?. Parafrasando ancora il vecchio Polonio,
si tratterebbe dunque di ‘una follia senza alcun metodo’. Ma questo sarebbe falso. Il metodo c’è, solo che la natura partico-
lare dei rapporti logici messi in gioco (appellativi e relazioni di parentela) è tale da sfuggire ad una osservazione superficiale. Per capire la struttura di un insieme di relazioni di parentela occorre infatti avere sott'occhio uno stemma. Proviamo dunque a trascrivere graficamente i vari ‘scombinamenti’ causati da Alcesimarco: Ops (avia)
(pater) Iuppiter
Saturnus (patruus)
Iuno (filia) ? Cito dalla traduzione (che è anche un po’ rifacimento) di Eugenio Montale, Mi-
lano 1949, 69 sg.
? M. Accius Plautus... opera Dionys. Lambini Monstroliensis emendatus, apud he-
La stirpe di Iuno
121
Iuno è considerata filia di Iuppiter e, a sua volta, si trova Saturnus come pazruus: ovvero, come fratello del ‘padre’ Iuppiter. Per parte sua, Ops, madre di Iuppiter, è considerata 4vi4 di Iuno (in quanto fila di Iuppiter). La classificazione di Saturnus quale patruus di Iuno, e di Ops quale 4054 di Iuno, presuppone necessariamente che Saturnus sia considerato filius di Ops. Confrontiamo adesso lo stemma ‘folle’ con quello comunemente
accettato:
Ops
=
Saturnus
Iuno
=
Tuppiter
Si tratta, com’è noto, di due coppie di fratelli che sono anche, contemporaneamente, marito e moglie: se Ops ha sposato suo fratello Saturnus ‘, i loro due figli, Iuppiter e Iuno, hanno fatto lo stesso alla generazione successiva. Possiamo dunque notare, confrontando i due stemmi, che nella genealogia proposta da Alcesimarco le coppie fratello / sorella (che qui sono anche marito / moglie) sono state sostituite da coppie padre / figlia e madre / figlio: Iuno compare infatti in qualità di ‘figlia’ di Iuppiter (normalmente: ‘sorella / moglie’), Saturnus compare redes Estathij Vignon, 1595, 214. Che il giovane ‘sbaglia’ perché ‘pazzo’ è un po’ l’unico rilievo che i commentatori hanno fatto: così Taubmann (1621), 49; il «cum notis variorum» (e testo del Gronovius) di Amsterdam 1684, 359; o lo Schmieder, Gottingae 1804, 165; Bothe, II, Augustae Taurinorum 1822, 132 (in realtà solo riedizione di M. Atti Plauti Comoediarum tomi I-IV, Berolini 1809-1811: vd. t. IV [1811], 240 sg.); Ussing, cit., 190 («perturbatione animi commotus adulescens deorum rationes inter se
confundit»); etc. 4 Cfr. già Ennio, Eubem.
64 Vahl.?; Ov., met. 9, 497 sg.; etc. Saturnus e Ops vengono naturalmente identificati con Kronos e Rhea, così come i loro figli Iuppiter e Iuno riproducono la coppia Zeus e Hera (cfr. G. Wissowa, Gesammelte Abhandlungen zur Romischen Religions-und Stadtgeschichte, Minchen 1904, 156 sgg.; G. Radke, Gòrter Altitaliens, Minster 1965, 238 sgg.).
122
Verso un'antropologia dell'intreccio
in qualità di ‘figlio’ di Ops (normalmente: ‘fratello / marito”). Possiamo dunque concludere che Alcesimarco, nei suoi scombinamenti genealogici, ha applicato una regola, ed è questa: (ema ranuo: ilo.rappotto.dis'tratellanza di ‘filiao rapport in nio) si trasforma detto celebre nel fiducia nostra la o perciò zione?’ Manteniam del sia ci che proprio sembra follia questa in di Polonio: anche metodo. Dunque il giovane, nella sua follia, sostituisce il rapporto di fratellanza (ovvero di matrimonio) con il rapporto di filiazione.
Questo provoca lo scorrimento di Iuno a filia di suo fratello (e marito) Iuppiter: e lo scorrimento
di Saturnus
a filius di sua
sorella (e moglie) Ops. Il resto, ovvero la definizione di Saturnus quale patruus di Tuno, e di Ops quale avia di Iuno, è una semplice conseguenza dell’applicazione di questa regola. Ma perché in un caso la femmina scorre ‘verso il basso’ (Iuno) e
nell'altro scorre ‘verso l'alto’ (Ops)? In altre parole, perché la femmina funziona una volta da «figlia» del proprio fratello-marito, nell’altro invece funziona da «madre»? Alcesimarco è pazzo, potremmo dire: e questo basta. No, non basta. Perché an-
che in questo caso abbiamo l'impressione che nella sua follia ci sia del metodo. Per affrontare questo problema, però, abbiamo bisogno di vedere un po’ più in generale che cosa sia, e che valore abbia, il meccanismo antropologico dello scorrimento generazionale. Ciò che in questo caso risulta solo ‘follia’ classificatoria, in altri contesti sarebbe infatti non solo sanità mentale, ma addi-
rittura regola sociale. Ricordiamo il caso, peraltro fondamentale, del tipo terminologico Omaha: un sistema classificatorio, applicato presso popolazioni le più diverse, che opera la determinazione dei gradi di parentela proprio partendo dal principio che la ‘sorella’ deve essere classificata ‘figlia’ del proprio fratello. Lounsbury, che di questo sistema classificatorio ha fornito una accurata descrizione di tipo generativo ’, definisce questo principio proprio nei termini di ‘skewing rule’. In questo modello classificatorio, dunque, sostituire il rapporto di fratellanza ? The Formal Analysis of Crow- and Omaha-Type Kinship Terminologies, in Explorations in Cultural Anthropology, ed. by W. Goodenough, New York 1961, 351 SEE.
La stirpe di Iuno
123
con il rapporto di filiazione (così come fa Alcesimarco), non
sarebbe
‘follia’, ma
direttamente
‘metodo’:
dati un fratello e
una sorella, la sorella deve essere considerata realmente ‘figlia’ del proprio fratello. Il resto dei gradi, funziona di conseguenza °. Ma anche la cultura romana offre al suo interno un solido esempio di ‘skewing rule’ nel campo classificatorio. È noto infatti che la moglie romana, contraendo matrimonio cur manu, entrava nella casa di suo marito ir loco filiae: e, coerente-
mente, si poneva ir loco neptis nei confronti del suocero ”. Dunque, nel campo della affinità (e non della consanguineità, come nel tipo Omaha) la cultura romana pratica lo scorrimento generazionale: una moglie deve essere considerata ‘figlia’ del proprio marito (e quindi, coerentemente, ‘nipote’ del padre del proprio marito):
Una prima riflessione. Alcesimarco sbaglia, d’accordo: però sbaglia in una maniera piuttosto nobile, sorprendentemente ‘corretta’, alla fin fine. Cerchiamo di approfondire. Il significato della trasposizione marito / moglie > padre / figlia, è abbastanza chiaro: si tratta di tradurre in codice generazionale il principio della dominanza ‘marito’ vs. ‘moglie’, ovvero ‘maschio’ vs. ‘femmina’. Se nel matrimonio cum manu il marito si trasforma in un ‘padre’ della propria moglie, è per applicare e ribadire il principio che ha la moglie in suo potere, come sua
figlia: scorrendo di una generazione all’indietro, il marito assume
in sé anche il ruolo (autoritario,
potente,
etc.) di pater.
Questa sovrapposizione classificatoria di una linea agnatizia verticale sulla congiunzione orizzontale di affinità esprime, come meglio non si potrebbe, il reale contenuto del matrimonio cum manu. E del resto, anche nel tipo Omaha si può affermare che è un modello ‘ideologico’ (cioè la dominanza del maschio
sulla femmina) ciò che interviene a plasmare il sistema: trasformando regolarmente la ‘sorella’ in una ‘figlia’ °. Ipotizziamo allora, per un momento, che Iuno divenga ‘figlia’ di suo fratello 6 Sugli infelici tentativi di ricondurre al tipo Omaha la terminologia di parentela indoeuropea e latina in particolare, cfr. O. Szemerény, Studies in the Kinship Terminology of the Indo-European Languages, «Acta Iranica» 7, 1977, 169 sgg.; M. Bettini, Antropologia, cit., 55 sg.. ? Cfr. P. E. Corbett, The Roman Law of Marriage, Oxford 1930, 70 sg. 8 Cfr. F. Héritier, L'esercizio della parentela, tr. it., Bari 1984, 70 sg.
124
Verso un’antropologia dell'intreccio
(e di suo marito) Iuppiter perché anche Alcesimarco applica il modello della dominanza ‘maschile’ vs. ‘femminile’. In altre parole, stiamo supponendo che Alcesimarco, trovandosi a dover
sfalsare un rapporto di fratellanza (e di matrimonio) in un rapporto di filiazione, abbia trovato per così dire ‘naturale’ fare di Tuno la figlia di Iuppiter: e non viceversa. Proviamo a vedere se questa via è percorribile. Per la verità, in Plauto Iuno e Iuppiter si configurano spesso come una normale coppia di sposi (vd. p. es. mer. 956: quom propitiast luno Iovi suo)?, in cui va da sé che il marito ‘prevale’ sulla moglie: si rammentino passi come Amph. 832 per supremi regis regnum et matrem familias Iunonem
(Iuppiter è
rex, dispone di un regnum: Tuno è una mater familias); oppure Poen. 1220 sg. si sim Iuppiter / hercle ego illam uxorem ducam et lunonem extrudam foras; etc. D'altro canto, non va dimenticato che, se Iuno è un prototipo di uxor, essa sembra addirittu-
ra capace di ricoprire lo spazio di ciò che è ‘femminile’ rispetto a ciò che è ‘maschile’. Tant'è vero che la divinità personale di ciascuna donna — colei che della donna rappresenta l’esistenza stessa, così come fa il Genius per l’uomo ' — porta proprio il nome di Iuno '. Giorno di festa per la Iuno era naturalmente il dies natalis della protetta ’, così come accade con il Genius ‘; per Iuno la donna giura ‘, e Carisio ! ci riporta addirittura la forma eiuno per il giuramento femminile; le arcillae smaliziate, per ingraziarsi le padrone, protestavano proprio per Iuronem tuam *°; etc. In altre parole, di fronte alla necessità di differen-
? Cfr. Cas. 230 beia, mea Iuno, non decet esse te tam iratam tuo Iovi; 408 iussit haec Iuno mea; etc.
!° Cfr. Cens., die nat. 3, 1 Genius est deus cuius in tutela ut quisque natus est vivit... ab utero matris acceptos ad extremum vitae comitatur.
1! Plin., n.h. 2, 16 ... cum singuli quoque ex semetipsis totidem deos faciant Iunones Geniosque adoptando sibi; Sen., ep. 110, 1: singulis enim et Genium et Iunonem dederunt... Cfr. G. Wissowa, Religion und Kultus der Romer, Leipzig 19122, 154 sgg. !° Alla natalis Iuno rivolge i suoi voti Sulpicia, con indosso gli abiti migliori, perché conservi salda la sua unione d'amore (corp. Tib. 3, 12): in perfetto pendant con l’elegia precedente, in cui ci si rivolge al Genius per il dies natalis di Cerinto. 13 Cfr. ancora Tib. 2, 2, 5 sg.; Censor. 2. 14 Corp. Tib. 3, 6, 47; 3, 19, 5; Petr. 25, 4; etc. E GALLINI98 N13 \RA=425 89885: 16 Schol. Iuv. 2, 98.
La stirpe di Iuno
125
ziare nei termini maschile / femminile la divinità tutelare personale di ciascuno, al Genius è andata ad opporsi proprio Iuno. Segno che Iuno ha in sé la capacità simbolica di rappresentare la ‘donna’ nelle sue caratteristiche distintive. Cosa che spiega perché proprio Iuno compaia, con vari e diversi attributi, un
po’ in tutti i campi della vita femminile (Pronuba, Cinxia, Fluonia, Lucina, etc.) ”. Dunque Iuno — in quanto ‘moglie’ normale, e anzi, rappresentante di ciò che è ‘femminile’ in genere — si presenta come persona tanto femminile da risultare naturalmente soggetta al canone della dominanza maschile. Come sappiamo (dal matrimonio cum manu e dal tipo Omaha) questo canone può essere tradotto anche in termini generazionali: facendo scorrere la donna una generazione sotto a quella dell’uomo. Ecco dunque una buona ragione per fare di Iuno, con Alcesimarco, la ‘figlia’ del suo fratello-marito.
Ma se si ammette questo principio, perché fare allora di Ops la ‘madre’, e non ugualmente la ‘figlia’, del proprio fratello-marito Saturnus? Possiamo già immaginare che questo sia in
qualche modo connesso alle caratteristiche culturali di Ops: che non si prestavano ugualmente bene all’applicazione del canone suddetto. Vediamo comunque in concreto. Di Ops Plauto sottolinea il rapporto con opes: cioè con la ‘abbondanza’. In questo stesso passo della Cistellaria di cui ci stiamo occupando Ops è definita proprio opulenta (v. 515). Mentre nel ringraziamento di Sagaristione a Iuppiter (Per. 251 sgg.) questo legame appare ribadito e sottolineato con discreta insistenza: Jovi opulento ... Ope gnato ... opes ... copias commodanti ... Dunque Iuppiter è definito opulentus e figlio di Ops: come tale egli fornisce opes e copias "*. Tale modello di Ops ha un corrispettivo molto chiaro anche fuori dal testo plautino, con la nota assimilazione di questa divinità alla terra rzater. Si veda Varrone, /. L. 5, 64: terra Ops, quod hic omne opus et hac opus ad vivendum, et ideo-dicitur Ops mater, quod terra mater ... E ancora Ma17 Cfr. Radke, Gorter, cit., 53. 18 Cfr. anche oltre: meo amico... hanc commoditatis copiam / danunt, ut ei opem adferam. Sulle strutture foniche di questo passo (capaci di convogliare e ribadire, per via di ‘parallelismi’, i contenuti culturali presupposti dal ringraziamento di Sagaristione) cfr. R. Danese, Plauto Pseud. 702-705a: la ‘costruzione stilistica’ di un eroe perfetto, «MD» 14, 1985, 101 sgg.
Verso un’antropologia dell'intreccio
126
crobio 1, 10, 21: huic deae [Opi] sedentes vota concipiunt terramque
de industria
tangunt,
demonstrantes
ipsam
matrem
terram esse mortalibus adpetendam *. Dunque Ops, in quanto assimilabile alla terra, riceve anche l'attributo di meter. Agostino (civ. dei 4, 11) ci parla di una dea Opss che oper ferat nascentibus excipiendo eos sinu terrae (cf. 4, 21: Opi deae commo-
dare nascentes): qui la funzione ‘materna’ ed il legame con la terra sono affermati esplicitamente. Ops dunque si configura simultaneamente come ‘abbondante’ dispensatrice di ricchezze, come ‘terra’ e come ‘madre’. Si tratta di attributi culturali strettamente intrecciati fra loro, tali da presupporsi reciprocamente. In Ops c'è la ‘ricchezza’, l'esuberanza creatrice propria della ‘madre’ e quindi anche della ‘terra’: reciprocamente, è proprio in quanto ‘madre’ e in quanto ‘terra’ che essa può esprimersi come ‘ricchezza’ ed ‘abbondanza’. Tutto ciò implica, naturalmente, che Ops sia portatrice di un carattere specificamente materno,
e non
semplicemente
‘femminile’.
Se Iuno
(in
quanto ‘moglie’, in quanto i4r0, etc.) ricopre specificamente lo spazio di ciò che è ‘femminile’ rispetto a ciò che è ‘maschile’, Ops (in quanto ‘opulenza’ ‘terra’ ‘madre’) ricopre specificamente lo spazio di ciò che è materno,
creatore, etc. Que-
sto può ben spiegare perché Alcesimarco, nella sua ‘follia’, la trasforma in ‘madre’ del suo fratello-marito Saturnus: e non in ‘figlia’. Ops era troppo ‘madre’ per farne una ‘figlia’. Dovendo rovesciare il rapporto di fratellanza (e matrimonio) in rapporto di filiazione, Ops ha mantenuto la sua forte caratteristica ‘materna’.
Dunque Alcesimarco è molto meno ‘folle’ di quanto potesse sembrarci a prima impressione: o meglio, dice delle pazzie ma le dice secondo un certo metodo. Resta un’ultima domanda, naturalmente, la vera: perché Plauto lo fa parlare così? 4 che serve (dal punto di vista della produzione testuale, dell’opera comica che si sta svolgendo) tutta questa lucidissima assurdità? Perché Alcesimarco dice delle assurdità, non dimentichiamolo.
1° Cfr. anche 1, 10, 20. Varro /. L. 5, 57; Fest. 202, 20; Serv., ad Aen. 11, 532. Cfr. P. Pouthier, Ops et la conception divine de l'abondance dans la réligion Romaine jusqu'à la mort d’Auguste, Roma 1981.
La stirpe di Iuno
127
Proviamo a proporre una definizione della follia di Alcesimarco, per poi stabilire un confronto. Dunque, diciamo che essa consiste in una regola in sé coerente (fratellanza / matrimonio > filiazione), applicata ricorrendo a modelli culturali di carattere assolutamente generale e indiscutibile (dominanza del ‘maschile’ sul ‘femminile’, ma non dominanza del ‘maschile’ sul ‘materno’): che viene però impiegata per proporre una genealo-
gia che non sta né in cielo né in terra. Ora, un simile tipo di costruzione intellettuale (strumenti logici vs. prodotto assurdo)
somiglia moltissimo a quello che Freud attribuisce al Witz cosiddetto ‘concettuale’ °°: quello che gioca non con i rapporti fra significanti (combinandoli, facendoli coincidere, etc.) ma con i
rapporti fra significati. Anche nel motto concettuale, infatti, una situazione chiaramente assurda viene realizzata tramite un meccanismo che ha una sua apparente logicità (talvolta addirittura sofistica). Sappiamo inoltre che fra i principali strumenti usati per ottenere una struttura del genere viene uti(da una linea di pensielizzato proprio lo spostamento ro ad un’altra) ‘’, spostamento favorito, ovviamente, da una certa contiguità fra i due campi in questione. Ma come definire, se non ‘spostamento’, il processo tramite il quale Alcesimarco trasforma la fratellanza (e il matrimonio) in un rapporto di filia-
zione? Non dimentichiamo, infine, il dato forse più importante in nostro possesso:
questa genealogia scombinata è inserita in
un testo di carattere co mico. E non si tratta di un accenno frettoloso ma di una costruzione lunga, insistita, di cui non riusciremmo a giustificare l’esistenza se il poeta non se ne fosse ripromesso un qualche risultato. Dunque, sia la tecnica espressiva, sia il contesto in cui è collocata, ci invitano a credere che
la genealogia di Alcesimarco costituisca un ‘motto’. Se così fosse, sarebbe interessante, perché ci troveremmo di fronte a un
Witz costruito tramite una logica che non è quella del discorso usuale, ma quella specializzata, per certi versi autonoma, delle
regole di parentela. Solo che, anche se ne vediamo la tecnica e
20 S. Freud, I/ motto di spirito, in Opere, V, tr. it., Torino 1972, 65 sg., 81.
21 Sullo spostamento nel W:tz, cfr. soprattutto 45 sgg.
128
Verso un’antropologia dell'intreccio
le ragioni contestuali, di questo ipotetico Wifz non riusciamo a scorgere il contenuto. Se c'è davvero un ‘lavoro arguto’ dietro la genealogia di Iuno, in che cosa consiste il suo prodotto? di che cosa dovevano ‘ridere’ gli spettatori? Ora, è noto che nella interpretazione di Freud molti motti dell’assurdo possono essere spiegati in questo modo: si configura una situazione assurda, o stupida, al fine di «mettere in luce,
di figurare la stupidità di qualche cosa d’altro» °. Citiamo un
esempio fra quelli utilizzati da Freud °°. Itzig è un giovane capace e intelligente, specie negli affari, ma come militare di artiglieria se la cava molto male. Il suo comportamento continua a restare inadeguato rispetto alle regole della vita militare. Ecco dunque il consiglio datogli da un superiore: «comprati un cannone e mettiti per conto tuo». Si tratta chiaramente di un suggerimento assurdo (anche se rispettoso di un certo involucro di logicità), ma la cui ‘stupidità’ è capace di mettere in luce l’intrinseca assurdità della situazione in cui Itzig si è cacciato: quella di un militare che si comporta come un ‘borghese’. Ecco dunque la ‘riduzione’ di questo motto: «... è una grande stupidità da parte tua i capire che nella vita militare è impossibile comportarsi come nel mondo degli affari, dove ciascuno lavora per conto proprio e contro tutti gli altri ...» °°. In altre parole, di fronte a una situazione stupida o assurda si può ricorrere sia ad una affermazione esplicita, positiva, di questa assurdità («è assurdo perché ...»), sia ad una definizione ‘spiritosa’: operando tramite le categorie dello spostamento, del controsenso, attribuendo al ragionamento una sufficiente impalcatura logica, si cerca di trasferire l'assurdità dal piano del contenuto a quello della espressione. Vediamo allora se nella situazione genealogica reale di queste divinità non sia implicito qualcosa di ‘assurdo’. In effetti, sappiamo già che si tratta di due coppie di fratelli che hanno contatto matrimonio (incestuoso) fra loro:
22 Il motto, cit., 51. 2 Il motto, cit., 49 sg. 24 Il motto, cit., 51.
La stirpe di Iuno
Ops
==
Saturnus
Iuno
=
Iuppiter
129
Ammettiamo di dover leggere questa genealogia attribuendo a ciascun elemento il suo ‘giusto’ appellativo: ci si trova in imbarazzo. Definiremo Iuno soror o coniunx di Iuppiter? e Iuppiter, è un frater o un vir? Le cose peggiorano alla generazione superiore. Saturnus, per esempio, non è ambiguo solo rispetto ad Ops (vir o frater?), ma anche rispetto ai suoi due figli: è pater o, piuttosto, avurculus (= fratello della madre)? e perché
non anche socer, visto che è contemporaneamente il padre del coniuge? In un identico groviglio si dibatte anche Ops, inutile dirlo: contemporaneamente
mater, amita (= sorella del padre)
e socrus dei propri figli. Si tratta delle tipiche contraddizioni dei legami incestuosi (qui particolarmente visibili per via del doppio incesto consecutivo) in cui l’unione fra gradi proibiti genera una sovrapposizione fra appellativi i quali, normalmente, debbono restare distinti
25
?.
2° Valga per tutte la descrizione — messa addirittura in forma di esplicito enigma — che Seneca fa del groviglio terminologico in cui si dibattono Edipo e la sua famiglia (Phoen. 118 sgg.): avi gener patrisque rivalis sui / frater suorum liberum et fratrum parens, / uno avia partu liberos peperit viro, / sibi et nepotes... O l’altro enigma, ugualmente fondato sull’incesto, che Antioco propone ai pretendenti di sua figlia, nella Historza Apollonii regis Tyri, 4 (su cui cfr. G. Chiarini, Esogamzia e incesto nella Historia Apolloni regis Tyri, MD» 10/11, 1983, 267 sgg.). Sui rapporti strutturali fra incesto ed enigma, vd. M. Bettini, L’arcobaleno, l’incesto e l'enigma, Atti del Convegno Teatro antico: testo e comunicazione (= «Dioniso» 54, 1983 [= 1986], 137 sgg.). Che un «motto» ed un «indovinello» possano essere costruiti sopra una stessa tematica, non sorprende: anzi,
può costituire un ulteriore spunto di approfondimento. Sempre secondo Freud (I/ motto, cit., 28 n.) fra queste due forme esiste una sorta di relazione per simmetria: «negli indovinelli la tecnica è il presupposto e bisogna indovinare il testo, mentre nei motti il testo è comunicato ma bisogna indovinare la tecnica». Cfr. a questo proposito le osservazioni di E. Kris, Ricerche psicoanalitiche sull'arte, tr. it., Torino 1967, 172 sg.
Verso un'antropologia dell'intreccio
130
Dunque la situazione parentale di queste quattro divinità appare pasticciata in sé: Alcesimarco, ‘spostando’ la fratellanza / matrimonio in filiazione, non fa che complicare in modo diverso una situazione già in sé complicata. Egli affianca una situazione assurda ad una reale che, però, è ugualmente assurda. Ecco, allora, quale potrebbe essere la ‘riduzione’ di questo Witz: «com'è difficile invocare delle divinità, definendone ogni volta il ruolo familiare, quando esse sono inserite in una genealogia così assurda e intricata». Molti secoli dopo, Agostino, criticando l’affollato e contraddittorio pantheon dei pagani, si chiedeva (civ. dei 4, 9): cur illi [Iovi] uxor adiungitur, quae dicatur «soror et coniunx»? E più sotto, sfruttando abilmente gli intrichi delle mitologie poetiche (e non) dei suoi avversari: 707 solum Iuno «soror et contunx», sed etiam «mater» est Iovis ... Agostino, qui, è oggettivo, il suo sarcasmo insiste nel far parlare le contraddizioni del politeismo in quanto tali. Di fronte ad una
situazione
analoga, Alcesimarco
è invece
‘spiritoso’:
una
genealogia intricata e contraddittoria diventa una lignée dai rapporti spostati ed assurdi, tenuta però insieme da una consistente impalcatura /ogica (una logica culturale, come si è visto). Tale formulazione ‘spiritosa’, naturalmente, è proprio ciò che permette di aggirare i divieti e le inibizioni che normalmente proteggono da possibili tendenze ostili argomenti ‘intoccabili °°: come, appunto, le credenze religiose ”’. Detto questo, non intendiamo affatto affermare che al momento della produzione (e della ricezione) di questo Wiz risul-
tassero presenti e comprensibili alla mente di ciascuno le singole contraddizioni terminologiche che gli incesti causavano nella ‘vera’ genealogia di Iuno. Quello che abbiamo descritto sopra è un modello, se così si può dire, ideale, necessario a noi per comprendere e motivare dall'esterno la struttura del Wizz. Per il suo funzionamento concreto bastava la percezione (penso indiscutibile) che la lignée di questa divinità si presentava ‘eccessivamente complicata’, ‘confusa’: tale da mettere a dura prova
la mente indebolita di un ‘folle’ come Alcesimarco — ovvero da meritarsi una riformulazione ‘spiritosa’. DO ‘ N 5 l 26 Tale, com'èDIS noto, l’interpretazione che Freud dà a proposito del motto ‘tendenzioso’ (I/ motto, cit., 91 sgg.).
?” Sui motti ‘cinici’ (o addirittura ‘blasfemi’) cfr. in particolare le pp. 102 sgg.
Appendice DUE NOTE PLAUTINE
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INDICE ANALITICO
adulterio: 44 sg. armonia, funzione ‘armonica’ dei ruoli (vd.) negli intrecci plautini: 48 attori: vd. personaggi, ruoli
carnevalesco: 83 sgg.; vd. Saturnali caso, funzione del c. negli intrecci plautini: 38 sgg.; 114 sg.; gioco del c.: 103 sgg.; come ‘sorte’ ai Saturnali: 105 sg.; 108 classe di età: 47 sg. contaminatio:
12 sg.
correptio iambica: 133 dadi, gioco dei d.: 100 sgg.; Germani e gioco dei d.: 101 sg.; 111; vd. gioco, Saturnali destino: vd. caso, gioco, dadi
donna, come ‘oggetto’ degli intrecci plautini: 17 sgg.; ha Iuno come modello: 124 sg.; come ‘madre’ ha suo modello in Ops: 125 sg. denaro, come ‘oggetto’ negli intrecci plautini: 55 sgg. gioco, e destino: 103 sgg.; 110 sgg. inganno: 18 sgg.
intreccio: 6; antropologia dell’i.: 71; ‘significato’ dell’i.: 74 sg.; ripetitività degli i. plautini: 13 sg.; 72 sg.; 80 sg.; modello elementare degli i. plautini: 16 sgg.; 33 sgg.; 42 sg.; 67 sgg.; nervature d’intreccio: 22 sgg.; funzione della classe d’età negli i. plautini: 47 Sg8.
146
Indice analitico
lenone, polo di scarico per il danneggiamento: 27 sgg.; 35 sg.; figura di ‘spostamento’: 85 sg. nervatura: vd. intreccio
padre/figlio, conflitto fra: 46 sgg.; 83 sg.; alleanza fra: 65 sg. parentela: 120 sgg.; fratellanza = filiazione: 122 sgg.; classificazione Omaha: 122; gioco e Wiz sulla p.: 120 sgg., 129 sg. personaggi, loro funzione negli intrecci plautini: 19 sgg. riconoscimento, sua funzione strutturale negli intrecci plautini: 29 sg.; 34 sg. risarcimento: 84 sg. (perdono); sequenza di r.: 45; 57 sgg. ruoli, importanza antropologica dei r. negli intrecci plautini: 19 sgg.; determinano le azioni: 28 sgg.; 44 sgg.; 48 sg.; 64 sgg.; 70 sgg.; vd. donna, denaro, adulterio, padre/figlio
Saturnali: 83 sgg.; 86; re dei S.: 86 sg.; 106 sg.; abbondanza alimentare nei S.: 87 sg.; 92 sgg.; ‘leggi’ dei S.: 88 sg.; 94 sgg.; 106 sg.; linguaggio dei S.: 91 sg.; 94 sg.; gioco dei dadi ai S.: 100 sgg.; toga ai S.: 103 sg.; origine mitica dei S.: 107 sg. schiavo, come ‘eroe’ nell’intreccio plautino: 24 sgg.; suo aspetto: 89 sg.; ai Saturnali: 104 sgg. simillimi: 40 sgg. Tappula, lex: vd. Saturnali (‘leggi’ dei S.) toga: vd. Saturnali tricolon, come figura plautina: 138 sgg.
Witz: 127 sgg.
INDICE DEGLI INTRECCI PLAUTINI
Ampbitruo: 42 sgg. Asinaria: 50; 65 sg. Aulularia: 53 sgg.; 66 sgg.
Mercator: 46 sgg. Miles gloriosus: 15 sgg. Mostellaria: 60 sg.
Bacchides: 40; 58 sg.
Persa: 23 sgg. Poenulus: 30 sgg. Pseudolus: 20 sgg.
‘SES EOPTRSA Casina: 48 sgg. Cistellaria: 36 sg. Curculio: 26 sgg.
Rudens: 32 sgg.
Stichus: 55
Epidicus: 55 sgg. Menaechmi: 37 sgg.
Trinummus: 50 sgg. Truculentus: 67
Avvertenza. Nel testo gli intrecci plautini sono studiati non in ordine alfabetico ma secondo una disposizione interna dettata dalle loro caratteristiche strutturali. L’ordine progressivo di tale struttura è segnalato da lettere alfabetiche.
INDICE GENERALE
Premessa
I.
Verso un’antropologia dell’intreccio. Le strutture semplici della trama nelle commedie di Plauto
II.
Un'utopia per burla
III. Iacta alea est. Saturno e i Saturnalia
IV. La stirpe di Iuno, ovvero il metodo nella follia
LI7
Appendice. Due note plautine Lies
516
00,
2. Pseud. 627
137
Indice analitico
145
Indice degli intrecci plautini
147
Finito di stampare nel settembre 1991 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino
LUDUS PHILOLOGIAE a cura di C. Questa e R. Raffaelli
1. G. B. Conte, La ‘Guerra civile’ di Lucano. Studi e
prove di commento, 1988 . R. Cappelletto, La ‘Lectura Plauti® del Pontano, con edizione delle postille del cod. Vindob. lat. 3168 e osservazioni sull’Itala recensio’, 1988
. Metrica classica e linguistica, Atti del Colloquio (Urbino 3-6 ottobre 1988), a cura di R. M. Danese, F. Gori, C. Questa, 1990 . Sc. Mariotti,
Lezioni su Ennio
(seconda
edizione
edidit, apparatu
metrico
accresciuta), 1991
di prossima pubblicazione
T. Macci Plauti cantica, auxit, C. Questa
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