Studi su Teofilo 9788892102002

"Il mio interesse per Teofilo e per la sua Parafrasi è iniziato, alcuni anni fa, del tutto casualmente, a seguito d

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Italian Pages XII,204 [215] Year 2016

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Indice
Presentazione
Capitolo I - L’INSEGNAMENTO DI TEOFILO TRA ISTITUZIONI E PARAFRASI. Un significativo esempio di recupero culturale realizzato attraverso l’uso strumentale dei mezzi didattici, del linguaggio e della retorica bizantini
Capitolo II - THEOPHILUS AND THE STUDENT PUBLISHER: A RESOLVED ISSUE?
Capitolo III - GAIO, LA PARAFRASI E LE “TRE ANIME” DI TEOFILO
Capitolo IV - TEOFILO E LA SPES GENERANDI
Indice delle fonti
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 9788892102002

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STUDI SU TEOFILO

Carmela Russo Ruggeri

STUDI SU TEOFILO

G. Giappichelli Editore – Torino

© Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100 http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0200-2

Il volume è pubblicato con i fondi PRIN 2010/11 su “L’autorità delle parole. Le forme del discorso precettivo romano tra conservazione e mutamento”.

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Al mio Maestro, prof. Antonino Metro, con profondo, sincero affetto e gratitudine

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INDICE

pag.

Presentazione I.

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L’INSEGNAMENTO DI TEOFILO TRA ISTITUZIONI E PARAFRASI Un significativo esempio di recupero culturale realizzato attraverso l’uso strumentale dei mezzi didattici, del linguaggio e della retorica bizantini

II. THEOPHILUS AND THE STUDENT PUBLISHER: A RESOLVED ISSUE?

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III. GAIO, LA PARAFRASI E LE “TRE ANIME” DI TEOFILO

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IV. TEOFILO E LA SPES GENERANDI

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Indice delle fonti

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Studi su Teofilo

PRESENTAZIONE Il mio interesse per Teofilo e per la sua Parafrasi è iniziato, alcuni anni fa, del tutto casualmente, a seguito delle lettura di una splendida tesi in occasione della mia partecipazione agli esami finali del Dottorato di Pavia. Confesso che già quel primo embrionale contatto con le tante problematiche ancora aperte sulla personalità dell’antecessor costantinopoliano e, soprattutto, sul metodo di formazione e sulla natura della sua opera mi ha subito affascinato, sollecitando la mia curiosità e la voglia di approfondire una conoscenza che fino a quel momento era rimasta in vero ad un livello meramente superficiale. È nata così, come spesso avviene nel nostro mestiere, un’attrazione che è andata sempre più intensificandosi man mano che mi addentravo nella considerazione della sterminata letteratura esistente sul tema, ma che è divenuta fatale soprattutto a seguito della lettura diretta, ripetuta più e più volte, proprio della Parafrasi, lettura che mi ha svelato l’inaspettato spessore culturale di un’opera per lungo tempo troppo spesso ingenerosamente bistrattata in dottrina e comunemente considerata uno zibaldone zeppo di errori ed inesattezze, che peraltro non sarebbe neanche stato scritto personalmente da Teofilo, ma da un suo giovane studente, che avrebbe raccolto e poi pubblicato gli appunti delle lezioni tenute dal professore in aula. Ebbene, io non credo sinceramente che queste pur con-

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solidate communes opiniones sulla formazione del testo della Parafrasi e, soprattutto, sul mediocre valore da attribuire all’opera di Teofilo abbiano un reale fondamento. A chi si inoltri senza preconcetti nella lettura del testo non può, infatti, non apparire palese, al di là delle sviste e degli errori che pure certamente non mancano, il livello dell’insegnamento teofilino, quale già impostato nelle Istituzioni imperiali e completato e perfezionato poi nella Parafrasi: il profondo senso della storia che lo pervade e che induce l’antecessor a soffermarsi sempre sull’origine e sul divenire storico degli istituti, la cura per l’etimologia delle parole (non di rado frutto peraltro di personali ricerche condotte anche su fonti extragiuridiche), le pregnanti e non sempre facili questioni ed interpretazioni tecnico-giuridiche proposte agli studenti di I anno ancora digiuni di diritto, gli accattivanti esempi attraverso cui garantisce loro la piena comprensione delle fattispecie trattate, le sempre puntuali precisazioni indispensabili a chiarire gli aspetti oscuri o equivoci del ¸htÕn ci forniscono infatti un’inequivocabile attestazione della visione che il Maestro chiaramente aveva della docenza quale strumento essenziale per formare la cultura giuridica dei giovani bizantini, fornire loro cioè, proprio sulla scia del metodo lasciato in eredità dagli antichi prudentes, quella preparazione tecnico-giuridica necessaria per addentrarsi poi nei più approfonditi studi previsti dal nuovo programma universitario e, soprattutto, nella lettura e nell’interpretazione delle nuove leges in vista dei futuri doveri a cui sarebbero stati chiamati dall’imperatore. E d’altronde, proprio la ricchezza di contenuti e la profondità dell’insegnamento di Teofilo, quale emerge appunto soprattutto dalla lettura della traduzione e del commento alle Institutiones fatti con la Parafrasi, getta a mio avviso piena luce anche sulla personalità del nostro antecessor,

Presentazione

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evidenziando le ‘tre anime’ che chiaramente convivevano il lui: lo studioso, che proprio sui testi dei giuristi classici aveva condotto la sua formazione professionale, il professore di Costantinopoli, con alle spalle una lunga e consolidata esperienza didattica, ed il compilatore, primo e più insigne collaboratore di Triboniano, da questi chiamato appunto a partecipare alla redazione del Novus Codex, delle Institutiones e dei Digesta. Un’esperienza – soprattutto quest’ultima – che ha contribuito enormemente ad arricchire la cultura giuridica del Nostro e che ha finito inevitabilmente per riversarsi poi anche nella sua quotidiana opera di docenza universitaria e nelle opere didattiche di cui fu rispettivamente coautore e autore, cioè le Institutiones e la Parafrasi, nelle quali ci sono infatti innumerevoli tracce delle conoscenze acquisite nei tre anni di lavoro appena passati come commissario giustinianeo. E sempre l’articolata esposizione degli argomenti e la complessità della Parafrasi, che presenta una struttura linguistica e stilistica volutamente stratificata ed un’accurata dosatura dei mezzi retorici, oltre ad essere intrisa di un elevatissimo numero di parole ed espressioni giuridiche latine, rende a mio avviso difficilmente credibile, soprattutto alla luce di ciò che sappiamo sul livello di conoscenze degli studenti bizantini e sui sistemi di scrittura ed i metodi di insegnamento utilizzati in quel tempo, l’idea per cui un giovane grecofono, ancora digiuno di nozioni giuridiche e con un’inadeguata conoscenza del latino alle spalle, avesse potuto stenografare con tanta precisione e completezza una trattazione così densa ed articolata nei contenuti e così tecnica nel linguaggio giuridico adoperato, e per di più infarcita di continue frasi e citazioni latine, come quella contenuta nella Parafrasi; mentre fa apparire più ragionevole, anche alla luce della destinazione meramente didattica dell’opera, del confronto con le caratteristiche di altre simili

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opere istituzionali e della sostanziale coincidenza temporale tra il corso tenuto da Teofilo ed i mesi entro cui l’opera fu concepita ed ultimata, la congettura per cui sarebbe stato lo stesso antecessor a fissare, sia pure frettolosamente, in un canovaccio i contenuti del nuovo insegnamento che andava conducendo sulle Institutiones imperiali pubblicandoli poi alla fine del corso allo scopo di assicurare agli studenti un primo testo base su cui orientarsi nello studio del manuale latino appena ultimato. Ecco: questa, in estrema sintesi, l’idea che mi sono fatta di Teofilo, della Parafrasi e del metodo di formazione del testo nel corso di alcuni studi dedicati al tema condotti in questi ultimi anni, studi che ho voluto ora riunificare in questo volume, che raccoglie appunto i risultati delle ricerche effettuate in materia. Il primo lavoro è inedito ed è il frutto di una ricerca condotta nell’ambito del PRIN 2010/11, di cui sono responsabile per l’unità di Messina. Gli altri sono già stati pubblicati, rispettivamente, sui Subseciva Groningana del 2014, su SDHI del 2012 e su IURA del 2010.

I L’INSEGNAMENTO DI TEOFILO TRA ISTITUZIONI E PARAFRASI Un significativo esempio di recupero culturale realizzato attraverso l’uso strumentale dei mezzi didattici, del linguaggio e della retorica bizantini

1. Come è noto, quando nel 528 l’imperatore Giustiniano si accinse a riformare le leggi, la popolazione dell’Impero d’Oriente era ormai quasi del tutto grecofona 1. Già dal IV sec., d’altronde, la conoscenza e l’uso del latino erano andati sempre più affievolendosi e, non solo tra il popolo ma anche a corte e negli ambienti sociali più elevati, si colloquiava e scriveva sempre e solo in greco 2. La 1 Sul punto, da ultimo, v. C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico. Introduzione al lessico giuridico greco, in Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici (a cura di J.H.A. Lokin e B.H. Stolte), Pavia 2011, 71; ma, nello stesso volume, cfr. anche J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione. Dalla legislazione di Giustiniano ai Basilica cum scholiis, cit., 21 s. 2 In tal senso cfr. in specie G. MATINO, Lingua e pubblico nel tardo antico. Ricerche sul greco letterario dei secoli IV-VI, Napoli 1986, 11 ss. e S. PULIATTI, Nov. Iust. 66 e il problema della lingua. Conoscenza ed efficacia delle norme in età tardoimperiale, in Modelli di un multiculturalismo giuridico. Il bilinguismo nel mondo antico. Diritto, prassi, insegnamento II (a cura di C. Cascione, C. Masi Doria e G. D. Merola), Napoli 2013, 728 s. Sul fenomeno del bilinguismo greco-romano, assai studiato soprattutto dai linguisti e dai filologi, cfr. più in generale, per tutti, E. CAMPANILE, Le lingue

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maggioranza dei cittadini non era più in grado, dunque, di comprendere e parlare il latino, lingua che resisteva solo in formule stereotipate o come patrimonio di pochi specialisti o delle persone culturalmente più elevate. Va considerato, inoltre, che il greco non era solo la lingua più diffusa nella pratica, la lingua corrente, ma anche e soprattutto la lingua della cultura, dei letterati, che verso il latino da tempo provavano quasi un senso di fastidio, come lingua pomposa, molesta e tracotante 3. Proprio l’uso del latino, infatti, come è noto, fu uno dei tanti motivi di dissidio tra Triboniano e Giovanni di Cappadocia 4 e, semnell’impero, in Storia di Roma IV, Caratteri e morfologie, Torino 1989, 686; F. MONTANARI, L’impero bilingue. Integrazione e resistenze, in Storia di Roma II, L’impero mediterraneo III La cultura e l’impero, Torino 1992, 581 ss.; R. YARON, The competitive coexistence of latin and Greek in the Roman Empire, in Collatio iuris romani. Études dédiées à Hans Ankum à l’occasion de son 65e Anniversaire, Amsterdam 1995, 657 ss., e, più recentemente, M.J. BRAVO BOSCH, Il bilinguismo in Roma (dal III sec. a.C. al II d.C.) attraverso le testimonianze delle fonti letterarie, in IURA, 60, 2012, 180 ss. ed ivi precedente letteratura. Alle problematiche legate alle interferenze tra le due lingue sono stati peraltro dedicati il convegno tenutosi a Pisa nel 1987 (cfr. E. CAMPANILE, G. CARDONA, R. LAZZERONI, Bilinguismo e biculturalismo nel mondo antico, Atti del colloquio interdisciplinare, Pisa, 28-29 settembre 1987, Pisa 1988), e, per i profili più strettamente giuridici, il Convegno da me organizzato a Siracusa il 16 e 17 maggio del 2012 nell’ambito del PRIN 20082010, i cui atti sono ora confluiti nei due volumi su Modelli di un multiculturalismo giuridico. Il bilinguismo nel mondo antico. Diritto, prassi, insegnamento (a cura di C. Cascione, C. Masi Doria e G.D. Merola), Napoli 2013. 3 Così C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico, cit., 72 e S. PULIATTI, Nov. Iust. 66 e il problema della lingua, cit., 728 ss. 4 Sui complessi e contrastanti rapporti tra Triboniano e Giovanni di Cappadocia, ai quali non fu estranea la problematica linguistica, v. E. STEIN, Deux questeurs de Justinien et l’emploi des langues dans ses novelles, in Bulletin de la classe des lettres de l’Acadèmie royal de Belgique, V série XXIII, 1937, 365 ss.; P. DE FRANCISCI, Dietro le quinte della compilazione giustinianea, in Mèlanges Philippe Meylan I, Lausanne 1963, 6 ss.; T. HONORÉ, Tribonian, London 1978, 58 ss.; M.G. BIANCHINI, Osservazioni minime sulle costituzioni introduttive alla compilazione giustinianea, in Studi

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pre per limitarci agli anni di Giustiniano, vale la pena ricordare che Procopio di Cesarea accusava Giunillo, il quaestor sacri palatii che successe a Triboniano, di conoscere unicamente il latino e non le leggi o il greco, rendendosi così ridicolo ai suoi stessi interlocutori 5. Ma già agli inizi del VI secolo anche Procopio di Gaza, in una lettera ai fratelli, sottolineava la kÒmpov della lingua romana 6 e il grammatico Prisciano ne evidenziava la pompabilitas 7. Nonostante ciò, come si sa, Giustiniano scelse di emanare il Corpus iuris in latino. Comunemente si ritiene che ad indirizzare in questo senso furono soprattutto la formazione latina e l’amore verso la classicità dell’imperatore e del suo più pregiato collaboratore 8, ma anch’io – come di recente, ad esempio, il Mazzucchi – credo in effetti assai poco ad un «Giustiniano sognatore» 9. in memoria di G. Donatuti I, Milano 1973 (ora in Temi e tecniche della legislazione tardo imperiale, Torino 2008, 108 ss.). 5 Cfr. Anekd. 20. 17 e, su questa fonte, nell’ottica qui considerata, per tutti, C. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico, cit., 73 e S. PULIATTI, Nov. Iust. 66 e il problema della lingua, cit., 729 s. 6

Cfr. A. GARZYA-R.J. LOENERTZ, Procopii Gazaei Epistolae et Declamationes, Ettal 1963, 27 (Ep. 45). 7 Cfr. E. KEIL, Grammatici latini III, Lipsiae 1859, 419, 8-9. Ancora prima, e cioè nel 381 e nel 390, anche Libanio (rispettivamente in Or. 2.4344 ed Ep. 951) ricordava però con fastidio come gli studenti fossero costretti ad andare a Roma e studiare il latino per diventare avvocati o funzionari, concludendo peraltro che proprio questi funzionari risultavano essere i più ignoranti. Su queste preziose testimonianze rimando in specie a C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico, cit., 72 s. e S. PULIATTI, Nov. Iust. 66 e il problema della lingua, cit., 729. 8 È questa infatti, come è noto, l’opinione tradizionale, per la quale, da ultimo v., ad esempio, C. MASI DORIA, Il multiculturalismo giuridico nel mondo romano. Introduzione a una ricerca interdisciplinare, in Modelli di un multiculturalismo giuridico I, cit., XXII. 9 Così, infatti, si esprime C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e lin-

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Come il succitato autore suggerisce, potrebbero essere stati determinanti in questa scelta motivi essenzialmente ideologici, nel senso che il latino sarebbe stato uno dei mezzi attraverso i quali l’imperatore sperava di garantire, riaffermandone le radici culturali, l’unità e l’universalità di un impero ormai in via di disgregazione 10. Certo, è plausibile che il fascino verso la cultura classica ed anche alcune componenti di natura ideologica non siano stati del tutto estranei: ma in verità a me sembra più realistica l’ipotesi che l’imperatore pervenne a questa decisione principalmente per motivi pratici, vale a dire per la necessità di accelerare i tempi e garantire la concreta fattibilità delle opere che aveva in mente di realizzare. Infatti, se avesse chiesto ai commissari di effettuare anche la traduzione in greco delle parti che avevano avuto il compito di curare, avrebbe aggravato e complicato notevolmente il loro lavoro rischiando di vanificare appunto la realizzazione dell’intero ambizioso progetto. Ciò che vale soprattutto per i Digesta, per i quali ab initio erano stati preventivati addirittura almeno dieci anni di lavoro 11 e che si consideravano un opus desperatum già così come concepiti, vista l’enorme mole di libri che i commissari dovevano consultare e dai quali dovevano poi essere escerpiti e sistemati i frammenti dei giuristi 12. A ciò si aggiunga poi che la traduzione in greco dei brani guistico, cit., 71, che giustamente sottolinea il senso pratico e la determinazione con cui, senza porsi troppi scrupoli, l’imperatore ha perseguito i suoi piani politici e legislativi. 10 Così C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico, cit., 74. 11 Come lo stesso Giustiniano confessa in Tanta § 12. 12 V. Deo Auctore § 2, dove Giustiniano, nel preannunciare l’avvio dei Digesta, definisce espressamente l’impresa che si accingeva a compiere una res difficilissima, immo magis impossibilis, una res che peraltro nessuno fino a quel momento aveva osato sperare o desiderare.

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latini prescelti non sarebbe stata un’operazione agevole da compiere, e non solo perché la lingua greca non aveva un adeguato corrispondente vocabolario giuridico-tecnico a cui attingere 13, ma anche e soprattutto perché si trattava di rendere comprensibili ai bizantini norme ed istituti estranei all’esperienza giuridica del loro tempo 14: a parte il fatto che si sarebbe dovuta garantire anche una certa uniformità nella trasposizione linguistica, risultato non facile da raggiungere dato il consistente numero dei commissari incaricati. Certo, per le Institutiones, che furono concepite ex novo dai compilatori e che erano un’opera abbastanza contenuta quantitativamente, si sarebbe potuto prevedere la loro stesura direttamente in greco: soprattutto tenuto conto della finalità didattica dell’opera e della sua destinazione ai giovani studenti bizantini che si affacciavano agli studi giuridici, da tempo notoriamente ignari del latino, oltre che 13 Sulle difficoltà incontrate in proposito dai bizantini a causa della mancanza di un equivalente patrimonio lessicale tecnico in lingua greca e sulle soluzioni adottate al riguardo cfr. in specie G. MATINO, Lingua e letteratura nella produzione giuridica bizantina, in Spirito e forme della letteratura bizantina, in Quaderni dell’Accademia Ponteniana 47, Napoli 2006, 67 e C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico, cit., 74 ss. 14 Su ciò cfr. di recente U. LAFFI, In greco per i Greci. Ricerche sul lessico greco del processo civile e criminale romano nelle attestazioni di fonti documentarie romane, Pavia 2013, 96 s., che ricorda la preziosa testimonianza offertaci in proposito da Modestino in D. 27.1.1.1 (1 excus.), il quale, nell’annunciare l’intento di voler esporre le norme romane nella lingua dei greci, espressamente sottolinea la difficoltà di effettuare un tale lavoro di trasposizione linguistica: preoccupazioni – queste – che «non sono un vezzo letterario, né hanno una radice puramente letteraria: esse riflettono non tanto il disagio dello scrittore, quanto quello del giurista, che si accinge al compito di rendere comprensibili al pubblico greco delle regole che potevano apparire estranee alle esperienze giuridiche greche» (così esattamente LAFFI, 97, nt. 170). Sempre tra i più recenti contributi, sul passo di Modestino qui considerato cfr. J.H.A. LOKIN, Alcune note sul bilinguismo nella legislazione romana, in Modelli di un multiculturalismo giuridico, II, cit., 544 e, nello stesso volume, S. PULIATTI, Nov. Iust. 66 e il problema della lingua, cit., 727.

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digiuni di nozioni giuridiche 15. A ciò si aggiunga poi che il numero esiguo dei commissari incaricati di redigere il nuovo manuale (tre, dei quali peraltro solo due plausibilmente fecero il lavoro materiale) avrebbe consentito di ridurre notevolmente i rischi di difformità nella traduzione. Ma in questo caso prevalsero a mio avviso, oltre alla solita esigenza di garantirne la pubblicazione nel tempo più celere possibile, motivi di uniformità rispetto alle altre parti del Corpus iuris, nel senso che, una volta scelto di inserire le constitutiones ed i iura nella loro lingua originaria nel Codice e nei Digesta, dovette apparire più opportuno utilizzare il latino anche per quest’ultima parte del complessivo progetto legislativo di Giustiniano. Pur avendo effettuato questa scelta verosimilmente per i motivi sopra detti, non c’è dubbio però che Giustiniano doveva essere perfettamente consapevole del fatto che i suoi contemporanei non erano comunque più in grado di comprendere la legislazione così come consacrata nel Corpus iuris, legislazione che da quel momento in poi peraltro avrebbe dovuto regolamentare la loro vita quotidiana 16. E di questa consapevolezza ci sono vari indizi. Lo confessa apertamente, ad esempio, in I. 3.7.3, laddove ricorda di aver emanato nel 531 la costituzione pervenutaci in C. 6.4.4 sulla successione dei liberti in greco omnium notione, affinché cioè fosse comprensibile a tutti 17; e nel 535 nella 15 Sul bassissimo livello che la conoscenza del latino da parte degli studenti greci aveva raggiunto proprio nel 533 v., in specie, J.H.A. LOKINT.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, cit., 121. 16 Già da un pezzo, d’altronde, gli imperatori avevano consapevolezza del fatto che, nonostante il latino fosse la lingua del diritto, se volevano farsi comprendere ed ubbidire dovevano legiferare in greco: così v. S. PULIATTI, Nov. Iust. 66 e il problema della lingua, cit., 727. 17 Cfr. I. 3.7.3 Sed nostra constitutio, quam pro omnium notione Graeca lingua compendioso tractatu habito composuimus, ...

L’insegnamento di Teofilo tra Istituzioni e Parafrasi

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Nov. 7.1 (De non alienandis aut permutandis ecclesiasticis rebus immobilis) ribadisce l’opportunità di servirsi della lingua greca comune affinché tutti gli interessati capiscano, concetto – questo – ripreso ancora una volta poi nella Nov. 66.1.2 18. Ma anche l’aver predisposto una doppia versione della costituzione con cui pubblicò i Digesta 19 e della costituzione Omnem 20 è un chiaro segno del fatto che l’imperatore sapeva di doversi ormai rivolgere in greco ai propri sudditi. E la di poco successiva pubblicazione in greco delle Novellae, le nuove leggi imperiali, con cui si ufficializzò definitivamente l’adozione della lingua greca come lingua dell’Impero 21, conferma più di ogni altra cosa come l’adeguamento linguistico anche nel campo del diritto non fosse più differibile 22. Se così fu, ne consegue allora inevitabilmente che Giustiniano non poteva non sapere anche che la effettiva conoscenza delle nuove leggi passava necessariamente attra18

Su queste fonti, nella prospettiva qui presa in considerazione, cfr., tra gli ultimi, C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico, cit., 71 ss. e S. PULIATTI, Nov. Iust. 66 e il problema della lingua, cit., 728 ss. 19 Sulla Tanta-Dšdwken cfr., per tutti, T. WALLINGA, Tanta-Dšdwken. Two introductory Constitutions to Justinian’s Digest, Groningen1989. 20

Come è noto, tuttavia, mentre ci è stato conservato il testo greco della Tanta, per la Omnen abbiamo invece soltanto il testo latino: sulla questione cfr., per tutti, M.G. BIANCHINI, Osservazioni minime sulle costituzioni introduttive alla compilazione giustinianea, cit., 110 ss. ed ora J.H.A. LOKIN, Alcune note sul bilinguismo nella legislazione romana, cit., 560 ss. 21 Circostanza – questa – cui contribuì forse anche la morte di Triboniano avvenuta nel 542: così v. J.H.A. LOKIN, Alcune note sul bilinguismo nella legislazione romana, cit., 567. Sulla redazione in greco della maggior parte delle Novelle cfr. anche M.G. BIANCHINI, Osservazioni minime sulle costituzioni introduttive alla compilazione giustinianea, cit., 111 nt. 61. 22 Sulla «forza delle cose» che in pochi anni si sarebbe inevitabilmente imposta v. C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico, cit., 74.

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verso la loro traduzione e, dunque, che la immediata trasposizione in greco delle varie parti del Corpus iuris sarebbe stata un’operazione indispensabile ed ineluttabile al fine di rendere comprensibili e fruibili agli operatori giuridici, agli studenti ed ai cittadini le nuove norme consacrate nella legislazione imperiale. Ma io credo che Giustiniano non solo ne fosse pienamente consapevole, ma lo avesse già a priori messo in conto, come dimostra inequivocabilmente il fatto che, nell’accingersi a pubblicare i Digesta, mentre vietò categoricamente qualunque commento alla legislazione appena introdotta minacciando pene severissime 23, autorizzò invece espressamente i iuris periti a in Graecam vo23 Cfr. const. Deo Auct. § 12 e Tanta-Dšdwken § 21. Sul divieto di commentarios applicare, il cui esatto tenore appare ancora assai controverso in dottrina, cfr. il recentissimo contributo di G. FALCONE, The Prohibition of commentaries to the Digest and the Antecessorial Literature, in Subseciva Groningana. Studies in Roman and Byzantine Law IX, Groningen 2014, 1 ss., nel quale forse non a torto l’a. avanza la congettura che la proibizione fosse indirizzata ai giuristi e non ai professori di diritto e avesse lo scopo di vietare «interpretative work similar to that conducted by classical jurist» (35). Sulla questione cfr. comunque, tra gli autori che se ne sono specificamente occupati, F. PRINGSHEIM, Justinian’s Proibition of Commentaries to the Digest, in RIDA, 5, 1950, 383 ss.; A. BERGER, The Emperor Justinian’s ban upon the commentaries to the Digest, in BIDR 55-56, 1951, 124 ss.; P. PESCANI, Sul divieto di Giustiniano a commentari del Digesto, in Labeo, 7, 1961, 41 ss.; H.G. SCHELTEMA, Das Kommentarverbot Justinians, in TRG 45, 1977, 307 ss. (ora in Opera minora ad iuris historiam pertinentia, a cura di N. van der Wal, J.H.A. Lokin, B.H. Stolte, Roos Meijering, Groningen 2004, 403 ss.); N. VAN DER WAL-J.H.A. LOKIN, Histoire, iuris graeco-romani delineatio, Groningen 1985, 36 s.; WALLINGA, Tanta-Dšdwken, cit., 107 ss.; M. AMELOTTI, Giustiniano interprete del diritto, in Nozione formazione e interpretazione del diritto: dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, I, Napoli 1997, 3 ss.; M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano, II. 1, Perugia 2001, 243 ss.; J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, cit., 113 ss.; A. TORRENT, La fractura justinianea en la producción del derecho. La prohibicion de comentar el Digesto y la su ideologia positivista, in SDHI, 79, 2013, 193 ss.

L’insegnamento di Teofilo tra Istituzioni e Parafrasi

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cem transformare sub eodem ordine eaque consequentia, sub qua et voces Romanae positae sunt le leggi giustinianee 24.

2. Tutto ciò considerato, è evidente dunque che il primo problema con cui i commentatori bizantini del Corpus iuris dovettero confrontarsi fu appunto quello di rendere comprensibili ai destinatari, non più in grado di capire autonomamente il latino, le leggi di Giustiniano. E tra i primi a dover affrontare questo problema vi fu certamente Teofilo, nel momento in cui, immediatamente dopo la pubblicazione delle Istituzioni imperiali avvenuta nel novembre del 533, si accinse ad iniziare il corso universitario di I anno sul nuovo testo, raccogliendo poi in un compendio gli appunti delle lezioni che era andato via via tenendo 25: un’o24 Cfr. Tanta-Dšdwken § 21. Sulla esplicita ammissione delle annotazioni con cui, nello spazio interlineare del testo, sopra ogni parola latina si segnava la corrispondente parola greca, secondo l’uso dei kat¦ pÒda greci, v., per tutti, J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, cit., 115. 25 Contro la communis opinio secondo la quale la Parafrasi deriverebbe dagli appunti delle lezioni svolte in aula dal professore e raccolte da uno studente, che li avrebbe poi riordinati e pubblicati, mi permetto di rinviare al mio recente lavoro apparso sull’ultimo volume dei Subseciva Groningana (cfr. C. RUSSO RUGGERI, Theophilus and the student publischer: a resolved issue?, in Subseciva Groningana. Studies in Roman and Byzantine Law, IX, Groningen 2014, 99 ss.). Quanto all’ulteriore illazione per cui l’opera sarebbe addirittura il risultato della fusione, da parte dello studente editore, di due diversi quaderni di lezioni, corrispondenti alle due fasi dell’insegnamento nelle quali era articolato il corso di Istituzioni (e cioè una prima fase corrispondente alla traduzione del testo latino cui potevano aggiungersi delle proqewr…ai, ed una seconda fase contenente invece la paragraf» del testo tradotto), sostenuta in specie da H.G. SCHELTEMA, L’einsegnement de droit des Antécessores, in Bizantina Neerlandica, S. B, Studia, Fasc. I, Leiden 1970, 18, v. già il bel lavoro di G. FALCONE, La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, in TRG 68, 2000, 417 ss., alle cui critiche alla tesi di Scheltema, mutando la precedente opinione, hanno ora aderito

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pera – questa – destinata sì prevalentemente agli studenti, ma che si indirizzava plausibilmente anche ad un pubblico più ampio, dato il valore legislativo conferito da Giustiniano al manuale il 30 dicembre del 533. Ebbene, per comprendere appieno la natura ed il valore della complessa operazione di trasposizione linguistica delle Istituzioni effettuata da Teofilo con la Parafrasi, io credo sia necessario preliminarmente riflettere su una circostanza alla quale non sempre è stata data a mio avviso una adeguata considerazione, il fatto cioè che Teofilo fu tra gli autori del nuovo testo istituzionale: anzi, io direi, ne fu il principale degli autori. Non è questa ovviamente la sede per poter affrontare il controverso problema del metodo di compilazione delle Istituzioni 26. Tuttavia, è assai probabile – come è stato convincentemente proposto e come è ormai comunemente acquisito – che Triboniano affidò a Teofilo e Doroteo il compito di provvedere alla materiale redazione del manuale 27, anche J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, cit., 126 (ma in tal senso v. anche la prefazione alla nuova edizione della Parafrasi curata da J.H.A. LOKIN, ROOS MEIJERING, B.H. STOLTE e N. VAN DER WAL, Theophili Antecessoris Paraphrasis Institutionum, Groningen 2010, XV). 26 Sul quale rimando, per tutti, a G. FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, in AUPA, 45.1, 1998, ed ivi la citazione della precedente dottrina. 27 Sulla circostanza per cui la stesura del manuale sarebbe stata opera dei due antecessores, come è noto, vi è da tempo una certa convergenza in dottrina, anche se ancora controversa appare invece l’individuazione delle parti rispettivamente redatte da Teofilo e Doroteo. Per alcuni, infatti, la divisione del lavoro sarebbe avvenuta per libri [tra i principali sostenitori di questa opinione, cfr. P.E. HUSCHKE, Imp. Iustiniani institutionum libri quattuor, Leipzig 1867, III-XV, che riferiva il I ed il II libro a Doroteo ed i restanti due a Teofilo, e C. FERRINI, Delle origini della parafrasi greca delle Istituzioni, in AG, 37, 1886, 175 ss. (= Opere, I, Milano 1929, 120 ss.), che viceversa imputava a Teofilo i primi due libri e gli ultimi due a Doroteo],

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riservando per sé solo un lavoro di aggiornamento 28 o – a mio avviso forse più plausibilmente – di gubernatio 29: come induce a credere soprattutto (ma non solo) l’osservazione per cui agli inizi del 533 (quando cioè presumibilmente la compilazione delle Istituzioni fu decisa ed avviata) il questore era ancora attivamente impegnato nella direzione dei più complessi lavori dei Digesta, che, se pure ormai in fase di ultimazione 30, richiedevano comunque anmentre per altri autori si sarebbe proceduto per materie (così, ad esempio, R. AMBROSINO, Il metodo di compilazione delle Istituzioni giustinianee, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano e di storia del diritto (Verona 1948), I, Milano 1951, 135 ss.; S. SANGIORGI, Il metodo di compilazione delle Istituzioni di Giustiniano, in AUPA, 27, 1959, 181 ss.; U. ROBBE, Su la universitas, in Ricerche storiche ed economiche in memoria di C. Barbagallo, I, Napoli 1967, 539 s. e 660 ss.; G. FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 305 ss.). 28 È questa l’ipotesi avanzata per primo da T. HONORÉ, Tribonian, London 1978, 189 ss., seguita (e confortata da più sostanziosi argomenti) da G. FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 230 ss. 29 L’idea per cui Triboniano avesse svolto un ruolo di coordinamento è d’altronde ancora assai seguita in dottrina: tra gli ultimi, v. A. CENDERELLI, I giuristi di Giustiniano, in RDR, 4, 2004, http://www.ledonline.it/rivista dirittoromano/, ora anche in Scritti romanistici (a cura di C. Buzzacchi), Milano 2011, 556, il quale peraltro a mio avviso giustamente sottolinea soprattutto il ruolo di trait d’union che il questore ebbe tra i commissari e Giustiniano (586 ss.). Ed è soprattutto in questa prospettiva, io credo, che va considerata la tanto sottolineata funzione di gubernatio affidata dall’imperatore a Triboniano (v. Imp. § 5, Omnem § 2 e Tanta-Dšdwken § 11), il quale, per le Institutiones come per tutte le altre opere messe in cantiere e da lui dirette, era fondamentalmente il garante del lavoro dei commissari, nel senso che al questore spettava appunto il compito di controllare, rispondendone davanti all’imperatore, la piena conformità del lavoro dei compilatori ai piani imperiali ed alle minuziose direttive impartite da Giustiniano. 30 Come dimostra senza ombra di dubbio, tra l’altro, proprio la decisione di distaccare due tra i più autorevoli componenti della commissione e fidati collaboratori di Triboniano destinandoli alla compilazione delle Institutiones: in tal senso, per tutti, v. P. DE FRANCISCI, Dietro le quinte della compilazione giustinianea, cit., 12 s. D’altronde, non si dimentichi che lo

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cora una costante vigilanza e non pochi e gravosi adempimenti supplementari 31. Il che significa che difficilmente egli avrebbe avuto il tempo di attendere contemporaneamente alle incombenze che la stesura del manuale inevitabilmente comportava 32. Se così è, ciò significa dunque che stesso Giustiniano, in Imperatoriam § 3, presenta i Digesta come un ‘opus peractum’ (cfr. R. BONINI, Introduzione allo studio dell’età giustinianea, Bologna 1977, 48). 31 Penso soprattutto al lavoro di revisione finale dell’opera (avvenuto con buona probabilità collegialmente) cui Triboniano e i commissari hanno dovuto attendere prima di presentarne la stesura definitiva all’imperatore. Come esattamente osservava P. DE FRANCISCI, Dietro le quinte della compilazione giustinianea, cit., 13, inoltre, secondo quanto disposto dal § 12 della costituzione Dšdwken, al momento dell’entrata in vigore dei Digesta dovevano già essere state predisposte le copie necessarie per la pubblicazione da parte del praefectus Urbi a Costantinopoli e dei prefetti pretori per l’Oriente, l’Illirico e la Libia. «Ora, la trascrizione di queste copie – anche ammettendo la distribuzione del lavoro tra numerosi amanuensi – e la indispensabile revisione di ogni copia devono avere richiesto alcuni mesi: senza dire che, nel frattempo, dovevano essere state trascritte anche copie delle Institutiones, cui era attribuito valore legislativo pari a quello delle altre parti della compilazione». 32 Incombenze non da poco, soprattutto da parte di chi, pur essendo imbevuto di cultura classica, certamente non aveva una previa esperienza didattica e, di conseguenza, non aveva quella approfondita conoscenza della precedente letteratura isagogica che l’insegnamento attivo presupponeva. Infatti, solo attenendosi a quanto Giustiniano afferma nel § 11 della cost. Tanta [ma il lavoro dei commissari fu in realtà a mio avviso molto più ricco e pregiato: su questo punto, infatti, concordo con M. AMELOTTI, Appunti su Giustiniano e la sua Compilazione2, II, Torino 1983, 75 ss. Contra v., però, A. CENDERELLI, I giuristi di Giustiniano, cit., 555 ss., per il quale invece ci si limitò nei fatti ad utilizzare come base il manuale gaiano, cui furono aggiunti apporti di origine esterna e l’aggiornamento], i compilatori delle Institutiones avevano dovuto innanzi tutto raccogliere tutte le opere istituzionali degli antichi giuristi, leggerle e trarre da esse tutto ciò che di utile, appropriato ed adeguato ai nuovi tempi avessero trovato in esse, avevano dovuto poi rielaborare il tutto in un discorso unitario e distribuirlo nei quattro libri previsti. A ciò si deve aggiungere infine l’aggiornamento, che certamente imponeva di tener conto non solo delle costituzioni emanate da Giustiniano per apportare correzioni al diritto (secondo quanto prescritto dalla Tanta), ma anche di tutte le altre modifiche, legislative e

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Teofilo elaborò e scrisse in prima persona una parte consistente del manuale, del quale peraltro certamente condivise (prima) l’impostazione e che sicuramente contribuì (poi) a revisionare, dato che non è verosimile pensare che i commissari non abbiano previamente provveduto a decidere ed impostare in modo uniforme tutto il lavoro da compiere ed a riguardare poi collegialmente l’intera opera prima non, che nel tempo erano state apportate alla disciplina degli istituti giuridici così come descritti da Gaio e dagli altri giuristi classici. Ora, io non credo sinceramente che Triboniano, ancora tutto proiettato ed attivamente impegnato a garantire l’ultimazione di quell’opera che egli stesso aveva ideato ed insperatamente convinto Giustiniano a realizzare quali erano i Digesta, avesse il tempo e la voglia di passare almeno una parte della giornata a leggere le Institutiones di Gaio, Ulpiano, Paolo, Modestino etc.: tanto più che due illustri docenti di diritto, da lui stesso non a caso chiamati a collaborare ed esonerati (o comunque alleggeriti) dagli altri compiti cui attendevano, avevano quella esperienza didattica e quella cultura specifica necessarie a condurre a termine tutto il lavoro molto più celermente di quanto avrebbe potuto fare uno come lui, estraneo alla scuola e super impegnato. Certo, si potrebbe pensare che si fosse quanto meno occupato degli interventi giustinianei, con i quali aveva maggiore familiarità: ma, a parte il fatto che – come si è detto – l’inserimento delle costituzioni più recenti non esauriva l’aggiornamento rispetto al sistema classico, aggiornamento che avrebbe dovuto comunque essere curato dai due antecessores, e che questi ultimi dovevano inoltre essere abituati a dar conto in aula anche delle ultime novità imperiali, io continuo a credere che Triboniano non avesse né il tempo né la voglia di impegnarsi anche in questo ridotto (ma non per questo meno gravoso) lavoro di integrazione finale dell’opera: ancor più se si considera poi che esso avrebbe dovuto svolgersi una volta conclusasi la stesura del manuale da parte degli altri commissari, cioè presumibilmente nel settembre o nell’ottobre del 533 (visto che le Institutiones furono pubblicate nel novembre di quell’anno) e, dunque, proprio nei mesi – sicuramente frenetici – in cui stavano per chiudersi i Digesta, con tutto ciò che questo comportava per il Nostro. Peraltro, un sia pur debole indizio contro l’idea per cui gli aggiornamenti giustinianei delle Institutiones siano da attribuire a Triboniano potrebbe essere costituito a mio avviso dalle parole celebrative con cui in molti di essi il questore è ricordato (v., ad esempio, I. 1 5.3 e I. 2.23.12). Ora, vero è che ufficialmente è Giustiniano a parlare e vero è che Triboniano era un uomo vanaglorioso (sul punto V. T. HONORÉ, Tribonian, cit., 190): ma è davvero credibile che sia stato lo stesso Triboniano ad autocitarsi in maniera così spudoratamente encomiastica?

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di sottoporla all’attenzione dell’imperatore. Ma a mio avviso ci sono anche fondati motivi per credere che sia stato soprattutto il nostro antecessor, forte della sua lunga esperienza scolastica, a sollecitare e convincere Triboniano 33 (e, per il suo tramite, Giustiniano) dell’improcrastinabile necessità di effettuare anche una revisione dell’ormai invecchiato testo destinato alla didattica elementare; così come ci sono fondati motivi per pensare che lo stesso abbia svolto un ruolo preminente nell’ideazione e nell’impostazione del lavoro, se non addirittura nella sua redazione. Non si dimentichi, infatti, che Triboniano, pur essendo un profondo conoscitore della cultura classica, era però un avvocato, era cioè estraneo all’ambiente della scuola e non aveva dunque alcuna specifica competenza al riguardo; mentre, dei due antecessores presenti nella commissione, il Nostro era considerato di sicuro il più esperto ed il più eminente, visto che è il primo a cui Giustiniano si rivolge nella costituzione Omnem ed il primo ad essere menzionato nella costituzione Imperatoriam 34, oltre ad essere con buona probabilità addirittura il responsabile dell’insegnamento 33 Del quale si era conquistato la fiducia dai tempi del Codex, tanto da essere scelto poi tra i primi collaboratori per il Digesto e per le Istituzioni. La mancata partecipazione ai lavori della commissione incaricata di procedere alla II edizione del Codice è dovuta invece plausibilmente all’improvvisa ed immatura morte dell’antecessor: una serie di indizi (quali appunto l’assenza di Teofilo nella commissione del Codex repetitae praelectionis, il fatto che l’altra sua opera, l’Indice del Digesto, sia rimasta tronca ai libri de rebus ed il silenzio della Parafrasi sulle innovazioni legislative emanate in data successiva alle Institutiones) fanno pensare infatti con una certa fondatezza che l’antecessor sia morto prima dell’avvio della repetita praelectio del Codice e, dunque, presumibilmente non oltre la metà del 534 (per questa prevalente opinione e per altre interpretazioni avanzate al riguardo rimando comunque agli autori citati in C. RUSSO RUGGERI, Teofilo e la spes generandi, in IURA, 58, 2010, 172 nt. 14, cui si aggiunga ora J.H.A. LOKIN-T.E. VON BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, cit., 123 s.). 34 Cfr. Imperatoriam § 3.

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del diritto nell’Impero 35. E a ciò può aggiungersi inoltre l’osservazione per cui Doroteo, pur essendo principalmente un docente (appare infatti anch’egli tra i destinatari della costituzione Omnem e proprio per la sua ottima fama di insegnante fu richiamato da Berito e coinvolto nella compilazione dei Digesta e delle Institutiones 36), sembra in realtà essersi poi interessato, più che alla sfera didattica, alla prassi giudiziaria ed all’amministrazione, come dimostra la integrale e letterale traduzione dei Digesta di cui fu autore, un’opera – questa – che sicuramente non ha né una provenienza né una destinazione scolastica 37. Forse non a torto, dunque, anche di recente si è tentato di rivalutare il ruolo ed il peso del contributo offerto proprio dal nostro Maestro alla compilazione giustinianea e l’influenza esercitata già dai tempi del Novus Codex su Triboniano da Teofilo, tramite il quale soprattutto, più che attraverso altri, sarebbero prevalse le esigenze scientifiche e didattiche che portarono poi ai Digesta e alle Institutiones 38. E anche se 35

Secondo J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, cit., 123, infatti, la circostanza che nel § 9 della costituzione Tanta, oltre a ribadire i titoli con cui già qualificava Teofilo nelle altre leges, Giustiniano abbia aggiunto laudabiter optimum legum gubernationem extendentem, dimostrerebbe che l’antecessor era stato ora preposto come «sovrintendente dell’insegnamento giuridico a Costantinopoli». 36 Come Giustiniano stesso ricorda in Tanta § 9 ... et Dorotheum virum illustrem et facundissimum quaestorium, quem in Berytiensium splendidissima civitate leges discipulis tradentem propter eius optimam opinionem et gloriam ad nos deduximus partecipemque huius operis fecimus … 37 Su Doroteo e la sua opera cfr., in specie, F. BRANDSMA, Dorotheus and his Digest Translation, Groningen 1996. 38 Cfr. in specie G. BASSANELLI SOMMARIVA, Il codice teodosiano ed il codice giustinianeo a confronto, in MEFRA, 125-2, 2013, 91 e nt. 49, la quale ridimensiona il ruolo di Triboniano considerando determinante invece proprio l’apporto di Teofilo, oltre che di Costantino, profondo conoscitore degli uffici e degli archivi imperiali.

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Giustiniano rivendica a sé le linee direttive del nuovo manuale imperiale 39, è da presumere tuttavia che sia stato appunto principalmente il nostro antecessor, del quale da tempo l’imperatore conosceva la solertia, la legum scientia, la fides e – soprattutto – la risalente e fruttuosa esperienza didattica 40, ad averlo in realtà “guidato” (forse anche per il tramite di Triboniano) nella definizione della natura e dell’impostazione dell’opera. Ma credo che – a meno di non voler addirittura pensare che Teofilo scrisse personalmente tutta la parte portante del manuale, riservando a Doroteo ad esempio l’aggiornamento dell’opera alla luce delle novità introdotte nei Digesta, nel Codice e nelle altre costituzioni via via emanate (cosa a mio avviso in sé non incredibile) 41 – sia quanto meno nel complesso assai verosimile l’idea sostenuta da Giuseppe Falcone, e cioè che Teofilo si sia occupato in prima persona soprattutto dei diritti delle persone e delle successioni universali 42, delle parti cioè “più delicate” del diritto e delle quali lo stesso Teofilo peraltro in PT. 1.2.12 si premura di sottolineare la preminenza 43: e non solo per i numerosi indizi puntualmente se39

Cfr. Imperatoriam § 3.

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Cfr. Imperatoriam § 3.

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Soprattutto tenuto conto dell’interesse alla pratica giudiziaria e all’amministrazione manifestato, come si è detto, da Doroteo. 42

Cfr. G. FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 305 ss. 43 Cfr. PT. 1. 2. 12, che ricalca, ma ancora più incisivamente, il corrispondente passo delle Istituzioni. La conoscenza del diritto senza la considerazione delle persone nel cui interesse il diritto è creato è infatti definita da Teofilo non solo insufficiente (eÙtel¾v), ma addirittura inutile (¢nÒnhtov): di conseguenza – egli conclude – ‘de‹ oân per… prosépwn e„pe‹n’, cioè bisogna dunque parlare dalle persone, evidenziando ancor più una categoricità che dall’ac prius videamus de personis di I. 1.2.12 non emergeva con la stessa intensità. Sulla preminenza del diritto delle persone, ritenuto «al tempo stesso, il principio e la causa efficiente dell’intero ordi-

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gnalati dal valoroso collega ed amico palermitano. Più in generale, la lettura della Parafrasi evidenzia infatti chiaramente come, in riferimento alla classificazione delle res e alla trattazione delle obbligazioni e delle actiones, il Parafraste si attenga maggiormente al ¸htÕn, e, pur vivacizzando ampliando ed arricchendo il testo soprattutto con esempi ed altri espedienti didattici, non si discosti comunque fondamentalmente dal dettato istituzionale 44. Non così a proposito del diritto familiare e successorio, dove più volte invece integra il testo attraverso corpose proteorie o digressioni su argomenti anche non presenti nel ¸htÕn 45. Il che potrebbe spiegarsi, a mio avviso, appunto considerando che erano proprio quelle le parti di cui era stato l’autore, le parti cioè per comporre le quali aveva dovuto dunque effettuare un preliminare lavoro di consultazione e di studio del materiale pregresso specificamente esistente in materia, con la naturale conseguenza che questo materiale, seppure non utilizzato per evidenti esigenze di brevità nel manuale, finì inevitabilmente per riemergere in sede di paragraf» 46. namento giuridico», quale traspare, forse mutuata da D. 1.5.2 (1 iuris epit.) di Ermogeniano, da questi brani cfr. in specie R. BONINI, Corso di diritto romano. Il diritto delle persone nelle Istituzioni di Giustiniano. I titoli III-X, Rimini 1984, 16 ss. 44 Emblematico il titolo I del II libro, secondo Falcone imputabile appunto a Doroteo (v. G. FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 323 ss.). 45 V., a titolo meramente esemplificativo, la lunga digressione sui deditici contenuta in PT. 1.5.3 e tratta con buona probabilita da Gai 1.13-15, la interessante proteoria aggiunta alla chiusa del § 3 di I. 1.5 sui modi di manumissione conosciuti a Roma e la pregnante spiegazione del postliminium fornita agli studenti in PT. 1.12.5. 46 Interessanti in quest’ottica sono anche alcune spiegazioni etimologiche non presenti nel ¸htÕn fornite da Teofilo nella Parafrasi, che dimostrano ulteriormente come il Nostro avesse una più ampia conoscenza delle fonti (non solo giuridiche, ma anche letterarie) rispetto a quella che emerge

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Comunque sia, ciò che mi preme qui sottolineare è che la circostanza che Teofilo fu autore quanto meno di una parte materiale delle Istituzioni e probabile principale ideatore del tutto è un dato non senza rilievo per comprendere il rapporto esistente tra le Istituzioni e la Parafrasi, giacché, se così è, ciò significa che la Parafrasi non fu la traduzione ed il commento di un testo altrui, ma la traduzione ed il commento di un testo della cui progettazione ed elaborazione si era stati personalmente e fattivamente partecipi. A differenza di Stefano, Cirillo, Taleleo e degli altri commentatori del Digesto e del Codice, che tradussero e commentarono opere predisposte da altri (o alla cui redazione, seppure si fosse stati coinvolti, si era fornito un apporto individuale di minore rilievo, come nel caso ad esempio della traduzione dei Digesta realizzata da Doroteo), Teofilo tradusse e commentò un’opera plausibilmente da lui stesso concepita ed almeno per buona parte materialmente scritta e nel complesso comunque di sicuro previamente discussa e successivamente revisionata ed approvata con gli altri commissari. E non è questa, a mio avviso, una differenza da poco. Ciò vuol dire infatti che il vero insegnamento di Teofilo è soprattutto lì, nelle Institutiones: è lì che l’antecessor ha contribuito a definire la sistematica, è lì che ha deciso quali argomenti trattare e come e dove trattarli, è lì che ha impostato l’esposizione degli istituti, è dalle Istituzioni. In tal senso, v., ad esempio, PT. 1.5.3, dove Teofilo, a proposito della manumissio vindicta, accenna all’etimologia della parola vindicta, che deriverebbe dal nome di Vindicius, lo schiavo dei Vitellii che denunciò la congiura contro la neonata repubblica nel 509 a.C. e che ebbe in premio la libertà: una notizia – questa – che si trova sicuramente nell’opera liviana, dalla quale l’antecessor la trasse o direttamente o per il tramite dei libri de manumissionibus di Gaio (per questa opinione mi permetto di rinviare a C. RUSSO RUGGERI, Gaio, la Parafrasi e le ‘tre anime’ di Teofilo, in SDHI, 78, 2012, 204 ss.). Sulla questione v., comunque, più ampiamente, infra, 60 ss.

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lì che ha esternato la sua visione diacronica del diritto. La Parafrasi, da questo punto di vista, non presenta alcuna sostanziale novità né nel metodo né nel merito: si può dire che Teofilo non fa che sviluppare e completare il suo insegnamento ed il suo pensiero così come già esplicitato e consacrato nel testo istituzionale. È un’opera di completamento e di perfezionamento, dunque, fondamentalmente. Non a caso, d’altronde, come vedremo, le caratteristiche che notoriamente contraddistinguono la Parafrasi e che tanto hanno attirato l’interesse (e spesso la critica) della dottrina sono in realtà sostanzialmente le stesse caratteristiche che contrassegnano le Istituzioni imperiali: mi riferisco alle ricapitolazioni, agli excursus storici e dogmatici, agli esempi, alle dicotomie, tricotomie, alle analogie e alle contraddizioni, alle frequenti interrogative, etc. Presenti in maniera più estesa e in forme più incisive che nel manuale imperiale, certo, ma le stesse 47. È un’opera sostanzialmente di completamento e di perfezionamento, dunque, dicevo: ma che di certo ha rappresentato un’occasione d’oro per il professore di Costantinopoli. Le Institutiones, infatti, data la loro destinazione ad una didattica elementare, per espresso volere di Giustiniano dovevano fornire agli studenti un’esposizione breve ed agile degli istituti, dovevano essere cioè il più possibile semplici e sintetiche 48. Sintesi che aveva comportato la necessità di contenere al massimo il richiamo alla storia degli 47 Su ciò rimando a C. RUSSO RUGGERI, Theophilus and the student publischer: a resolved issue?, cit., 107 ss. 48 Cfr. Imperatoriam § 5 Quibus breviter expositum est et quod antea optinebat et quod postea desuetudine inumbratum ab imperiali remedio illuminatum est. Ma sulla necessità che le nozioni fossero comunicate agli studenti di I anno nel modo più lieve possibile, così da non indurli ad abbandonare gli studi o a sopportare una fatica sproporzionata, Giustiniano si sofferma anche in I. 1.1.2.

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istituti, di limitare agli essenziali gli esempi e di sacrificare profili che di certo avrebbero meritato un maggiore approfondimento; ma che aveva talora contribuito anche a rendere ellittiche e non facilmente comprensibili certe soluzioni o certe affermazioni. Ecco allora che la Parafrasi, che trae spunto e ispirazione dall’attività di docente svolta in aula dall’antecessor, diventa per lui l’occasione non solo per tradurre ai propri studenti un testo latino a loro oscuro, ma soprattutto per “spiegare” il proprio pensiero, cioè per completare e perfezionare appunto quell’insegnamento già sostanzialmente impostato e contenuto nelle Istituzioni, integrando ed arricchendo il testo (anche e soprattutto – io credo – alla luce delle tante letture fatte in occasione della preparazione tanto del manuale quanto – ed anzi, direi, principalmente – dei Digesta, alla cui redazione, non si dimentichi, Teofilo aveva partecipato proprio nei tre anni antecedenti! 49) con elaborazioni teoriche, precisazioni, chiarimenti, digressioni, esempi ed excursus storici che per ragioni di brevità non avevano potuto trovare spazio in quella sede.

3. Sotto un diverso profilo, non si può omettere di considerare inoltre che, a parte la difficoltà degli studenti grecofoni a capire il latino, era anche profondamente diverso il contesto socio-politico ed il clima culturale a cui essi appartenevano: a cominciare dall’assetto normativo, che conosceva solo la lex imperiale come unica fonte viva del diritto, mentre i iura dei giuristi antichi erano sì utilizzabili, 49 Sulla confluenza nella Parafrasi dell’arricchimento culturale acquisito da Teofilo in occasione della partecipazione ai lavori di compilazione dei Digesta, cfr. in specie C. RUSSO RUGGERI, Gaio, la Parafrasi e le ‘tre anime’ di Teofilo, cit., 201 ss.

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ma unicamente nei limiti e con i criteri automatici imposti dalla legge delle citazioni, con buona probabilità recepita nel Novus Codex 50 e definitivamente rimossa solo a seguito della pubblicazione e della entrata in vigore dei Digesta, avvenuta insieme alle Istituzioni 51. Il che significa che i giovani bizantini in realtà non erano più in grado di comprendere non solo e non tanto la lingua in cui erano state pubblicate le nuove leges, quanto, più in generale, la complessità e la problematicità dell’esperienza giuridica romana quale consacrata nel Corpus iuris e brevemente riassunta nelle Institutiones, esperienza ormai lontana dalla loro cultura e dalla loro quotidianità 52. 50

Sulla probabile presenza nel Novus Codex della legge di Teodosio II e Valentiniano III rinvio alla bibliografia già citata in C. RUSSO RUGGERI, Studi sulle Quinquaginta decisiones, Milano 1999, 83 nt. 1. Anche nella letteratura successiva, d’altronde, l’orientamento prevalente resta sempre in questa direzione: per tutti, v. M. BRETONE, Storia del diritto romano, Bari 2004, 381 s.; J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, cit., 108 e 111 e G. BASSANELLI SOMMARIVA, Introduzione agli studi giuridici, Bologna 2013, 443. Si mostra cauto al riguardo, invece, M. VARVARO, Contributo allo studio delle Quinquaginta decisiones, in AUPA, 56, 2000, 494. 51 Solo il 15 dicembre 533, infatti, Giustiniano, nella confirmatio digestorum, pur senza fare in realtà alcun esplicito riferimento alla legge del canone e pur senza dichiarare espressamente di averla abrogata, ne sancisce di fatto l’avvenuta definitiva eliminazione, confermando di avere ora abolito ‘aliqua praerogativa’ e di avere assegnato ‘una dignitas’e ‘una potestas’ a tutti i giuristi considerati degni di essere inseriti nella ultimata raccolta, alla quale soltanto si doveva da quel momento in poi fare riferimento (così Tanta § 20a). Su ciò mi permetto di rinviare, più ampiamente, ad un mio recente lavoro appena apparso negli Annali Palermo (cfr. C. RUSSO RUGGERI, Ancora qualche riflessione sulla politica legislativa di Giustiniano in riguardo ai iura al tempo del Novus Codex, in AUPA, 57, 2014, 153 ss.). 52 Complessità e problematicità che continuano ad emergere chiaramente dai Digesta e dalle Institutiones: nonostante le stringenti e minuziose direttive giustinianee tendenti a cancellare i contrasti e le divergenze di opinioni che avevano caratterizzato il ius controversum (v., ad esempio, Tanta § 21) e nonostante il serrato controllo da parte di Triboniano a cui cer-

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Ebbene, Teofilo di ciò ebbe a mio avviso piena consapevolezza tanto nel momento in cui si accinse a contribuire a predisporre il nuovo testo istituzionale, quanto – e soprattutto – nel momento in cui si accinse a tradurlo, spiegarlo e commentarlo ai suoi studenti in aula, prima, e nel compendio tratto dalle lezioni e successivamente pubblicato, dopo. D’altronde, come si è già ricordato, egli era il più eminente dei professori di diritto del periodo, aveva alle spalle una lunga e solida esperienza didattica e, dunque, certamente ben conosceva il livello di preparazione dei giovani bizantini che si affacciavano agli studi giuridici, conosceva i loro limiti e le loro capacità. Non si dimentichi, però, che egli era al tempo stesso anche un illustre iuris peritus, che proprio sui testi latini dei giuristi classici aveva condotto la propria formazione professionale (di recente per di più accresciuta in occasione della partecipazione come commissario alla compilazione delle principali parti del Corpus iuris, e in specie del Digesto) e che dunque di quei testi aveva avuto modo già da tempo di apprezzare e sperimentare le potenzialità sul piano formativo e culturale 53. tamente furono sottoposti, i commissari del Digesto e delle Istituzioni, scelti tra i più illustri professionisti del diritto dell’epoca, seppero infatti conservare la loro autonomia di pensiero «restando fedeli alla vocazione culturale assimilata e maturata, sulla scia dell’insegnamento concettuale e metodologico degli antichi maestri, nel corso dei loro studi e delle loro esperienze; restando, in una parola giuristi completi a tutti gli effetti» (così esattamente A. CENDERELLI, I giuristi di Giustiniano, cit., 587 ss.). Sul punto cfr. anche le belle pagine di L. VACCA, Controversialità del diritto e impianto casistico, in Ius controversum e processo fra tarda Repubblica ed età dei Severi. Atti del Convegno Firenze 21-23 ottobre 2010 (a cura di V. Marotta ed E. Stolfi), Roma 2012, 72 ss. 53 D’altronde, che, nonostante il generale decadimento della didattica, le scuole di Costantinopoli e di Berito, le uniche ad essere rimaste in vita dopo la riforma giustinianea degli studi (v. Omnem § 7), avessero mantenuto un livello di eccellenza lo dimostra soprattutto il lavoro svolto dalle

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È per questo che, da buon docente e da studioso, nell’accingersi a contribuire a redigere, prima, ed a tradurre e commentare, poi, il nuovo testo istituzionale destinato a dare le prime fondamentali basi alle nuove future generazioni di giuristi, strutturò ed impostò l’insegnamento ed il corso di lezioni che da esso derivarono in modo da consentire innanzi tutto agli studenti, che erano i suoi diretti interlocutori, e, più in generale, al pubblico dei suoi lettori, di recuperare il patrimonio culturale che sottintendeva alla secolare esperienza giuridica romana e che lui stesso aveva contribuito a salvare dall’oblio anche al fine di meglio comprendere ed apprezzare l’assetto ultimo dato da Giustiniano agli istituti giuridici, assetto che comunque da quella esperienza si alimentava e in quell’esperienza trovava la sua origine e la sua giustificazione teorica 54. Non a caso, infatti, l’insegnamento impartito da Teofilo nelle Institutiones e – soprattutto – nella Parafrasi mira a fornire ai lettori una visione essenzialmente diacronica degli istituti e una non trascurabile panoramica delle problematicità che storicamente erano emerse in sede interpretativa o nella pratica giuridica. Solo attraverso la conoscenza del passato e in specie dell’apporto che all’evoluzione del diritto era derivato dall’interpretatio prudentium, commissioni, composte in gran parte proprio dai docenti di quelle scuole e da avvocati che plausibilmente proprio in esse avevano maturato la loro formazione professionale. Su ciò v., di recente, A. CENDERELLI, I giuristi di Giustiniano, cit., 582 ss.; ma già prima in tal senso cfr. M. AMELOTTI, L’età giustinianea e bizantina, in Lineamenti di storia del diritto romano2, sotto la direzione di M. Talamanca, Milano 1989, 693 [ora in Altri scritti giuridici (a cura di M.P. Pavese), Torino 2014, 250]. 54 Sul rapporto tra passato e presente nella prospettiva di Giustiniano v. M. CAMPOLUNGHI, Il passato nelle costituzioni programmatiche di Giustiniano, in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, X, Napoli 1955, 697 ss. e, più recentemente, S. PULIATTI, “Arcaismi” come valori nella legislazione pubblicistica di Giustiniano, in IURA, 61, 2013, 180 ss.

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infatti, gli studenti e gli operatori giuridici bizantini, ormai lontani non solo dal latino, ma dagli orizzonti sociali, politici e culturali che avevano sottinteso alle norme romane, furono messi in grado di comprendere e recuperare, sia pure parzialmente e non sempre peraltro in modo esatto, le proprie radici culturali. Ed in quest’ottica la traduzione ed il commento di quell’insegnamento del diritto quale era già stato impostato nelle Istituzioni, da opera di pura trasposizione linguistica, divenne dunque per Teofilo – come si è detto – l’occasione d’oro per fornire soprattutto ai suoi lettori privilegiati, cioè gli studenti bizantini, lo strumento attraverso cui formarne la cultura giuridica, assicurare loro cioè quella «conoscenza tecnica del diritto» 55 necessaria all’applicazione delle leggi imperiali da parte dei futuri operatori giuridici. L’occasione d’oro, cioè, per realizzare – in ultima analisi – una contaminazione di tipo essenzialmente culturale, ma che aveva anche la finalità pratica di addestrare alla lettura e all’applicazione delle leggi bizantine, proprio sulla scia del metodo lasciato in eredità dagli antichi prudentes, i nuovi giuristi in vista dei futuri doveri a cui sarebbero stati chiamati dall’imperatore 56. Ebbene, questa non facile operazione di innovazione e, al tempo stesso, di recupero culturale fu sapientemente realizzata da Teofilo, oltre e più ancora che attraverso il fondamentale contributo dato alla ideazione e alla predisposizio55 Così cfr. L. VACCA, Controversialità del diritto e impianto casistico, cit., 73. 56 Cfr., infatti, quanto Giustiniano scrive ai giovani in Imperatoriam § 7: Summa itaque ope et alacri studio has leges nostras accipite et vosmet ipsos sic eruditos ostendite, ut spes vos pulcherrima foveat toto legitimo opere perfecto posse etiam nostram rem publicam in partibus eius vobis credendis gubernare. Sul brano, per tutti, v. M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano, II. 2, Perugia 2007, 110 ss.

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ne del nuovo manuale, soprattutto attraverso la traduzione e il commento del testo latino. Traduzione e commento che innanzi tutto consentirono agli studenti bizantini di studiare un libro di testo che era stato sì concepito ed emanato per loro, ma che a loro risultava in realtà del tutto incomprensibile; ma che, soprattutto, concorsero in modo determinante a fornire ai Iustiniani novi 57 quelle prime, fondamentali basi culturali che avrebbero consentito loro di addentrarsi poi nei più approfonditi studi giuridici previsti dal nuovo programma universitario 58 e, in definitiva, di diventare quegli eruditi che Giustiniano voleva diventassero, ut spes vos pulcherrima foveat toto legitimo opere perfecto posse etiam nostram rem publicam in partibus eius vobis credendi gubernare 59. D’altronde, proprio in questa prospettiva si spiega facilmente, a mio avviso, anche la circostanza per cui fin da subito nella pratica delle scuole di diritto la Parafrasi finì di fatto per sostituire, come è noto, il testo ufficiale, nel senso che essa venne utilizzata didatticamente in luogo appunto del dettato originale delle Institutiones imperiali 60: è attraverso la Parafrasi, infatti, che quell’insegnamen57 Così infatti, come è noto, Giustiniano ordina siano chiamati gli studenti di primo anno in Omnem § 2. 58 Come l’imperatore stesso sottolinea d’altronde in Tanta § 11. 59 Cfr., infatti, quanto Giustiniano scrive ai giovani in Imperatoriam § 7: Summa itaque ope et alacri studio has leges nostras accipite et vosmet ipsos sic eruditos ostendite, ut spes vos pulcherrima foveat toto legitimo opere perfecto posse etiam nostram rem publicam in partibus eius vobis credendis gubernare. Su questa testimonianza cfr., per tutti, M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano, II. 2, cit., 110 ss. 60 In tal senso cfr. in specie F. GORIA, Contardo Ferrini e il diritto bizantino, in Contardo Ferrini nel I centenario della morte. Fede, vita universitaria e studio dei diritti antichi alla fine del XIX secolo (a cura di D. Mantovani), Milano 2003, 127; ma che la Parafrasi fosse divenuta «il referente di qualsiasi citazione» del testo giustinianeo è sottolineato anche da G. CAVALLO, La cir-

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to elementare del diritto, che Teofilo insieme a Doroteo e Triboniano aveva concepito e realizzato per gli studenti di I anno della nuova scuola bizantina, arrivò concretamente alle loro orecchie ed ai loro occhi. È questo, dunque, essenzialmente, a mio avviso, quel “qualcosa in più” che la Parafrasi ebbe rispetto alle Institutiones: non una diversità nel metodo o nel merito dell’insegnamento, giacché – ripeto – l’insegnamento impartito nella Parafrasi resta fondamentalmente sia nel metodo che nel merito quello che lo stesso Teofilo aveva contribuito a consacrare nel manuale imperiale. Ma la Parafrasi permise a Teofilo (e, per il suo tramite, a Giustiniano) di realizzare ciò che il manuale, scritto in latino e con un’esposizione degli argomenti assai sintetica, non avrebbe probabilmente consentito di realizzare: rendere cioè concretamente fruibile e comprensibile, utilizzando i concetti i termini e gli strumenti didattici e retorici dell’ambiente bizantino, quell’insegnamento dalla cui ricezione dipendeva il futuro dei Iustiniani novi e, attraverso loro, in buona sostanza il futuro dell’Impero; fare in modo cioè che essi acquisissero realmente quella preparazione giuridica e quella conoscenza tecnica del diritto che l’imperatore, per mezzo della lezione degli antichi recuperata nel nuovo manuale, aveva voluto garantire a loro e all’Impero. colazione di testi giuridici in lingua greca nel mezzogiorno medioevale, in Scuole di diritto e società nel mezzogiorno medioevale d’Italia (a cura di M. Bellomo), Catania 1987, 114 e da E. GOMEZ ROYO, Introducción al derecho bizantino, in Seminarios Complutenses de derecho romano, VIII, 1996, 172, che osserva come il prestigio di Teofilo come docente fu tale che «no sólo desplazó casi por completo las obras de los restantes antecessores en el campo docente, sino que tambièn su obra relegó en oriente el texto original». In tal senso v., infine, anche G. MATINO, Problemi di natura letteraria e di struttura linguistica nella ‘Parafrasi’ delle Institutiones di Teofilo Antecessor, in Talar…skov, Studia greca Antonio Garzya sexagenaro a discepulis oblata, Napoli 1987, 283 s.

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4. Ciò che più salta all’occhio nell’insegnamento impartito da Teofilo è certamente il “senso della storia” che lo pervade. Senso della storia che già traspare chiaramente dal manuale istituzionale, ma che si manifesta in tutta la sua evidenza soprattutto nella Parafrasi, specie nelle parti relative alle persone e alle successioni universali, presumibilmente curate – come si è detto – in prima persona dall’antecessor 61. Come è noto, infatti, già le Institutiones sono tutte impregnate di brevi cenni storici sull’origine e sull’evoluzione che gli istituti avevano avuto nel corso dei secoli. Lo stesso Giustiniano, d’altronde, lo annuncia apertamente nel § 5 della costituzione Imperatoriam, laddove ricorda che agli studenti breviter expositum est et antea optinebat et quod postea desuetudine inumbratum ab imperiali remedio illuminatum est. È nella Parafrasi tuttavia che Teofilo sviluppa in modo molto più incisivo quella visione diacronica del diritto già esternata nelle Istituzioni, riservando un’attenzione particolare e privilegiata al divenire degli istituti che si sviluppa attraverso numerose proteorie e digressioni aggiunte all’Index e dedicate appunto alle loro vicende pregresse. Emblematiche in questo senso sono, per citare solo qualcuno dei più significativi esempi, la corposa rielaborazione 61 Senso della storia che l’antecessor plausibilmente ereditò specie dalla familiarità con Gaio, che ne sarebbe stato un profondo conoscitore. Sul valore della storia nell’opera gaiana v., per tutti, J. MACQUERON, Storia del diritto ed arcaismo in Gaio, in Gaio nel suo tempo. Atti del simposio romanistico, Napoli 1966, 77 e F. GALLO, La storia in Gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista. Atti del convegno torinese 4-5 maggio 1978 in onore del Prof. Silvio Romano, Milano 1981, 89 ss. Diversamente A. SCHIAVONE, L’enigma di Gaio, rec. A.M. HONORÉ, Gaius, Oxford 1962, in Labeo, 10, 1964, 445 nt. 82, per il quale la trattazione della storia degli istituti in Gaio deriverebbe solo da «un compiacimento letterario».

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delle fonti del diritto, tutta giocata sul dualismo legislatori/norme (PT. 1.2), la proteoria sulla condizione dei dediticii, alla quale il manuale dedicava solo un breve cenno (PT. 1.5.3), la lunga e dotta digressione in materia di manomissioni, del tutto assente nel ¸htÕn, dove l’antecessor fornisce ai suoi lettori minuziose informazioni sulle forme di manomissione civili e pretorie esistenti in Roma (PT. 1.5.3), la bella ed efficace lezione su adgnatio e cognatio inserita tra le pieghe del discorso sugli impedimenti matrimoniali in PT. I. 10 e ripetuta in PT. 1.15 a proposito della tutela legittima, la dettagliata descrizione dell’emancipatio (PT. 1.12.6), la storia dell’origine dei fedecommessi e dei codicilli contenuta in PT. 2.23 e 25, etc. Tuttavia, non è solo o tanto il più accurato approfondimento delle vicende storiche ciò che a mio avviso maggiormente contraddistingue, sotto questo aspetto, la concezione didattica teofilina quale traspare nella Parafrasi rispetto a quella che emerge dal manuale imperiale. Non si deve dimenticare, infatti, che le Institutiones erano il nuovo testo ufficiale della scuola, avente per di più valore legislativo, un testo voluto da Giustiniano a conclusione del suo progetto riformista e rivolto ai giovani che si affacciavano agli studi giuridici ut liceat vobis – l’imperatore scrive loro – prima legum cunabula non ab antiquis fabulis discere, sed ab imperiali splendore appetere et tam aures quam animae vestrae nihil inutile nihilque perperam positum, sed quod in ipsis rerum optinet argumentis accipiant 62. Ed è principalmente in quest’ottica, dunque, che in esse l’impe62 Cfr. const. Imperatoriam § 3, sul quale v. l’ultimissimo lavoro di R. KNÜTEL, Constitutio Imperatoriam § 3: fabulis o tabulis?, in IURA, 62, 2014, 1 ss.; ma, sempre tra i contributi più recenti, cfr. anche G. FALCONE, ‘Legum cunabula’ e ‘antiquae fabulae’ (cost. Imperatoriam 3), in Studi in onore di Antonino Metro (a cura di C. Russo Ruggeri), II, Milano 2010, 283 ss.

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ratore volle che breviter exspositum est et quod antea optinebat et quod postea desuetudine inubratum ab remedio imperiale illuminatum est. Come si evince chiaramente da queste affermazioni, la trattazione del diritto antico e del suo divenire storico serviva, dunque, a Giustiniano fondamentalmente ad illuminare i giovani sullo splendor imperiale, aveva cioè soprattutto uno scopo ideologico e propagandistico: si dava conto delle soluzioni giuridiche risalenti anche – ed anzi direi – principalmente al fine di consentire ai Iustiniani novi di meglio valutare ed apprezzare la posizione prescelta dall’imperatore ed i suoi interventi innovativi, quelle novae leges cioè in conformità alle quali avrebbero dovuto poi, ciascuno nel settore affidatogli, rem publicam gubernare 63. Ora, lo scopo propagandistico certo non è assente nella Parafrasi. Teofilo, d’altronde, era un uomo del suo tempo e per di più era uno stretto e fedele collaboratore di Giustiniano, che aveva fattivamente partecipato alla realizzazione dell’intero progetto legislativo, condividendo con l’imperatore le scelte fondamentali, prima fra tutte quella di intervenire autoritativamente sui testi giurisprudenziali classici superando i limiti ed i criteri automatici di utilizzazione dei iura introdotti dalla legge di Valentiniano III e Teodosio II. Inoltre, si consideri che il progetto del manuale prese vita quando i Digesta erano ormai stati ultimati o erano comunque avviati a termine e che dunque le Institutiones, cui non a caso l’imperatore espressamente attribuì valore di legge e nelle quali non a caso volle rivolgersi ai giovani in prima persona, possono considerarsi il momento conclusivo e di sintesi di quella rivoluzione legislativa avviata da 63

Sulla prospettiva giustinianea, quale emerge dalle parole dell’imperatore, v. il minuzioso commento di M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano, II. 2, cit., 59 ss.

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Giustiniano nel 528 col Novus Codex, oltre che – come è stato esattamente notato – un «momento di riflessione e di presa di coscienza sull’apparato giuridico precedentemente compilato» 64. Ciò che spiega perché anche nella Parafrasi l’antecessor non si sottragga al compito di esaltare le soluzioni imperiali richiamate e che lui stesso talvolta aveva magari contribuito a determinare 65, sottolineando di volta in volta e spesso con enfasi retorica le ragioni che avevano orientato le scelte giustinianee: l’humanitas 66, la benevolentia 67, la verecundia 68, l’aequitas 69, la semplicitas 70, la necessità di eliminare norme indegne per i nuovi tempi 71, incivili 72 o frutto di calliditas 73 o empietà 74, ovvero, ancora, di 64 Così R. LAMBERTINI, Introduzione allo studio esegetico del diritto romano3, Bologna 2006, 121. 65 Si pensi, ad esempio, ad I. 1.6.7 in cui, direttamente nelle Istituzioni, si abolì il principio per cui un minore di 20 anni non poteva manomettere. Ora, il fatto che nel corrispondente passo della Parafrasi Teofilo si mostri molto aspro verso questo regime, definendo la norma katagšlastov (ridicola) e sottolineandone la ¢top…a (assurdità), e la foga con cui conduce la trattazione possono forse spiegarsi in considerazione del carattere didattico del discorso, che lo porta «a calcare le tinte per meglio attrarre l’attenzione dei suoi uditori», come sostiene ad esempio R. BONINI, Corso di diritto romano. Il diritto delle persone nelle Istituzioni di Giustiniano. I titoli III-X, cit., 91. Ma non può escludersi, a mio avviso, che esso tradisca invece la paternità dell’innovazione, nel senso che sarebbe stato appunto proprio l’antecessor a suggerirne il cambiamento all’imperatore. 66 Cfr., ad esempio, PT. 2.6 pr.; 2.9.1; 3.2.7; 3.6.10. 67 PT. 2.19.6. 68 PT. 2.18.3. 69 PT. 2.19.6. 70 PT. 2.23.7. 71 PT. 3.12.1; 3.20.34. 72 PT. 2.20.34. 73 PT. 4.1.8. 74 PT. 3.3.4.

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chiarire oscurità 75 o ambiguità 76 o di sopperire agli inconvenienti derivanti dalla subtilitas 77 o dalla scrupolositas 78 della giurisprudenza o da mancanze legislative 79. Di tutto questo Teofilo da ampiamente conto – ripeto – tanto nelle Istituzioni, quanto – e forse ancor più – nella Parafrasi. Tuttavia, a parte e oltre l’intento propagandistico che, come uomo dell’imperatore, Teofilo non poteva non aver condiviso, altro sembra essere stato lo scopo che il Maestro si proponeva di raggiungere attraverso gli excursus storici premessi alla trattazione degli istituti, uno scopo più nobile e più profondo: quello di addestrare cioè i giovani futuri giuristi, proprio attraverso la conoscenza del complesso divenire del diritto, alla problematicità e relatività del fenomeno giuridico, in modo da metterli in condizione di comprendere e valutare non solo le novità intervenute, ma anche l’apporto del passato che di quelle novità comunque costituiva la genesi e la giustificazione. Uno scopo scientifico, dunque, essenzialmente 80. E, d’altronde, di questa sua concezione didattica che attribuiva alla storia una funzione scientifica autonoma Teofilo ci ha lasciato nella Parafrasi alcune inequivocabili testimonianze, prima tra tutte quella contenuta in PT. 2.10.1, laddove, accingendosi a commentare il corrispondente brano istituzionale che introduceva l’esposizione dei primi genera testamen75

PT. 3.1.16; 3.6.10. PT. 3.29.3; 4.1.7. 77 PT. 4.13.10. 78 PT. 2.20.36. 79 PT. 3.11.7. 80 Sulla «funzione scientifica autonoma» della storia nella «concezione didattico-giuridica degli artefici delle Institutiones» cfr. le pregnanti osservazioni di R. LAMBERTINI, Introduzione allo studio esegetico del diritto romano, cit., 122. 76

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torum con la frase sed ut in nihil antiquitas penitus ignoretur 81, significativamente aggiunge un’interessante e personale osservazione sulla storia. Si legga, infatti: PT. 2.10.1 `/Ina d\e mhd\en ¹m‹n tîn p£lai politeuomšnwn ¥gnwstwn Ï, e„ kaˆ ¹ toÚtwn ¥gnoia oÙdšna fšrei k…ndunon, ¢ll’oân prÕv ƒstorˆan ka… tÕ maqe‹n, pîv kat¦ micrÕn proiÒntov ºme…fqh toà crÒnou, e„pe‹n oÙk ¥topon 82. La stessa considerazione, peraltro, viene ribadita anche in PT. 2.25 pr. a proposito dell’origine dei codicilli, dove – sottolinea nuovamente Teofilo – œsti dš oÙk ¥topon perˆ tÁv ¢rcaiogon…av tîn CODICILLON dialecqÁnai 83.

Ebbene, non credo che l’antecessor potesse essere più esplicito di così. Al di là dell’utilità pratica che ne poteva derivare, la trattazione della storia degli istituti e dell’evoluzione che il loro regime giuridico aveva subito nel tempo avevano dunque per Teofilo un valore in sé, che non poteva essere che un valore scientifico: e perciò appunto non era affatto assurdo trattarne. Un’affermazione – questa – che tradisce chiaramente una concezione della storia in cui 81

V. I. 2.10.1 Sed ut nihil aintiquitatis penitus ignoretur, sciendum est olim quidem duo genera testamemntorum in usu fuisse … 82

Murison: In order that none of the old practicemay be unknown to us, although ignorance of these is not attended by any danger, yeti t will not be inappropriate, for the sake of information and with a view to understanding how change gradually came about in process of time, to mention them. Ferrini: Ut vero nihil eorum quae olim optinebant ignoretur, quamvis eii usdem ignorantia nullum periculum praeseferat, tamen ad historiam cognoscendam atque ad discendum quomodo paullatim temporis progressu res sit mutata, id tractare haud absurdum videtur. 83 Murison: it is not out of place to remark on the origin of codicils. Ferrini: neque absurdum est quaedam de codicillorum origine tractare.

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il passato ed il presente, come è stato esattamente notato, non appaiono in contrapposizione tra loro, ma convivono in un rapporto armonico nel quale il primo finisce per fornire al secondo la giustificazione della sua stessa esistenza 84. E d’altronde, che, più ancora e al di là dell’intento propagandistico, la trattazione della storia fosse per Teofilo finalizzata soprattutto ad uno scopo scientifico e di formazione culturale, non dissimile da quello che ancora oggi noi tendiamo a realizzare con l’insegnamento della storia del diritto, è dimostrato dal fatto che le vicende pregresse non sono mai trascurate, neanche quando non vi erano stati interventi giustinianei innovativi da segnalare o esaltare 85. Un’ulteriore «esortazione alla storia», inoltre, può intravedersi, come è stato forse non a torto da alcuni segnalato 86, in quel poscritto alla chiusa del § 3 dell’Imperatoriam 87 in cui l’antecessor, nel tradurre e commentare l’affermazione con cui Giustiniano sottolineava come adesso i giovani fossero stati messi nella condizione di leggere da subito le costituzioni imperiali, giungendo l’inizio e la fine 84 Così G. LUCHETTI, Nuove ricerche sulle Istituzioni di Giustiniano, Milano 2004, 256; ma su questa preziosa precisazione teofilina, vista alla luce della condanna alle antiquae fabulae contenuta in Imperatoriam § 3, cfr. anche G. FALCONE, ‘Legum cunabula’ e ‘antiquae fabulae’, cit., 297. 85 Sul punto v. anche R. LAMBERTINI, Introduzione allo studio esegetico del diritto romano, cit., 122. 86 Cfr. C.A. MASCHI, Punti di vista per la ricostruzione del diritto classico (da Adriano ai Severi) attraverso una fonte bizantina, Trieste 1947, 17. Contra, v., però, P. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, in Studi Biondi, I, Milano 1965, 12 ss. 87 Va ricordato, tuttavia, che di recente si è dubitato che Teofilo abbia scritto la traduzione dell’Imperatoriam e si è ipotizzato che essa sia stata aggiunta alla Parafrasi successivamente (così J.H.A. LOKIN-ROOS MEIJERING-B.H. STOLTE-N. VAN DER WAL, Theophili Antecessoris Paraphrasis Institutionum, cit., XVI).

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delle leggi ad essi direttamente dalla voce dell’imperatore, significativamente aggiungeva: PT. `H di£taxiv 3 ... sunt…qetai g¦r tÕ parÕn sÚntagma ™k basilikÁv fwnÁv proo…mion Øp£rcon tÁv tîn nÒmwn didaskal…av kaˆ met¦ t¾n ¢n£gnwsin tÁv tîn palaiîn ™kqšsewv ¢n£gkh tÕn nÕmouv paideuÒmenon tÍ tîn diat£xewn ¢nagnèsei ™autÕn ™pidoànai 88.

Osservando che chi insegnava diritto doveva procedere alla lettura delle costituzioni imperiali dopo la lettura dell’interpretazione delle vecchie norme Teofilo, dunque, avrebbe anche qui implicitamente inteso sottolineare – secondo la a mio avviso condivisibile proposta cui si accennava – il carattere funzionale dello studio della storia, nel senso che la conoscenza e l’interpretazione delle norme pregresse sarebbe stata appunto considerata indispensabile ai fini della comprensione della normativa imperiale. Una concezione – questa – che d’altronde traspare anche da PT. 2.23.1, laddove, nell’introdurre la trattazione dei fedecommessi, ancora una volta inserisce nel testo una considerazione preliminare assai significativa, e cioè che tšwv dš skop»swmen perˆ tÁv ¢rcaiogon…av aÙtîn, occorre cioè per prima cosa esaminare la loro origine: con ciò fornendoci un’ulteriore chiarissima attestazione della visione che l’antecessor aveva della docenza e del ruolo propedeutico e fondamentale che in essa assegnava alla storia degli istituti 89. 88 Ferrini: Praesens enim quoque compendium a principali voce componitur, quod proemium quodammodo legum est eruditionis; et lectione veterum prudentiae absoluta, necesse est iuris studiosum legendis constitutionibus operam navare. 89 Ma, per una analoga priorità riservata all’etimologia delle parole, cfr. infra, 68.

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5. Si è già detto che la voluta sinteticità del nuovo manuale istituzionale ufficiale e forse anche il poco tempo avuto a disposizione per redigerlo avevano costretto i compilatori a contenere al massimo gli excursus storici e la trattazione degli istituti, a ridurre all’essenziale gli esempi (indispensabili in un testo destinato alla didattica elementare, quale esso era) ed a selezionare gli argomenti ed i profili di cui occuparsi: ciò che aveva inevitabilmente comportato che parte della storia e della disciplina degli istituti risultava omessa o solo rapidamente accennata, alcuni aspetti tralasciati o troppo brevemente riassunti, molti esempi trascurati, col risultato che non sempre l’esposizione consentiva ai giovani bizantini digiuni di nozioni giuridiche una facile e chiara comprensione del dettato istituzionale. Ebbene, anche dal punto di vista qui considerato, il lavoro di traduzione e commento effettuato da Teofilo nella Parafrasi si rivela di grandissima importanza, giacché è soprattutto grazie alle numerose rielaborazioni, proteorie, aggiunte, digressioni ed esemplificazioni apportate allo scarno testo latino che gli studenti furono messi in grado di conoscere più dettagliatamente la storia e la regolamentazione degli istituti trattati, di intendere appieno attraverso appropriati ed accattivanti esempi la portata di certe norme e di penetrare il significato di alcuni aspetti oscuri o di alcune affermazioni alquanto equivoche contenuti nel manuale. Un’opera di integrazione – questa per tal via compiuta dall’antecessor nella Parafrasi – che gli ha permesso di completare e rendere del tutto intelligibile quell’insegnamento di cui era stato sì magna pars, ma che – a causa delle succitata brevità e sinteticità del manuale giustinianeo – non aveva potuto svolgere con l’approfondimento che un docente del suo calibro e della sua esperienza di certo sapeva essere necessario, soprattutto in riguardo a studenti di primo anno. Ecco allora che egli “approfitta”, come si è detto, di que-

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sta “occasione d’oro” offertagli dalla traduzione delle Institutiones effettuata con la Parafrasi, non solo per rendere comprensibile ai giovani grecofoni il testo latino, ma anche e soprattutto per colmare le inevitabili lacune storiche, dogmatiche e contenutistiche in esso presenti, per fornire chiare e significative esemplificazioni e per spiegare il reale significato di certe ellittiche dichiarazioni: in buona sostanza, appunto, per portare a pieno compimento quell’opera di docenza e di formazione culturale dei Iustiniani novi che attraverso la redazione del nuovo manuale egli – e, per il suo tramite, Giustiniano – si era proposto di raggiungere. Ora, come è noto, la Parafrasi è tutta piena di esempi di quest’attività di integrazione e completamento compiuta da Teofilo sul testo latino. Mi limito, perciò, a segnalarne solo alcuni, tra quelli che ritengo più significativi, per lo più riguardanti peraltro proprio quella parte “preminente” del diritto la cui materiale stesura è con buona probabilità, come si è detto, da imputare proprio a Teofilo. Assai illuminante in questa direzione credo sia, innanzi tutto, la lettura dell’ampia rielaborazione di I. 1.2.3-12 in materia di fonti del diritto cui Teofilo procede nei corrispondenti brani della Parafrasi. Non mi interessano in questa sede le tante discussioni che il brano in questione ha sotto più profili suscitato in dottrina 90: qui consideriamolo solo nella prospettiva che stiamo valutando. Ebbene, riallacciandosi alla distinzione tra diritto scritto e non scritto di cui al § 3, divenuta ormai la chiave di volta del sistema delle fonti 91, e venendo al diritto scritto, l’antecessor si allontana subito dallo 90 Per tutti, v. P. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 22 ss. 91 Essa risale, come è noto, a Ulpiano (D. 1.1.6.1), ma è forse già implicitamente presente nella contrapposizione tra leges e mores in Gai 1. 1 ed emerge anche nella riflessione di altri giuristi (v., ad esempio, D. 1.2.2.12).

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scarno dettato imperale proponendosi di insegnare agli studenti quanti erano presso i romani i legislatori, chi erano e come si chiamavano le norme che producevano. Quindi procede ad una estesa rivisitazione del testo latino, tutta giocata sul dualismo organo-fonte, offrendo agli studenti una dettagliata e più accurata descrizione degli organi che producevano diritto e delle norme da essi emanate, una descrizione intrisa peraltro di molte spiegazioni etimologiche, di altrettante definizioni e di chiarimenti storici e dogmatici, sia pure non sempre del tutto corretti e veritieri 92. Ecco: è questo, a mio modesto avviso, un primo significativo campione del modo in cui Teofilo perfezionò, in sede di Paragraf¾, quell’insegnamento già sinteticamente impartito nelle Institutiones. Consapevole che non facilmente un giovane bizantino avrebbe potuto comprendere, attraverso le concise informazioni contenute nel ¸htÕn, il complesso sistema delle fonti dell’ordinamento giuridico romano nel suo divenire storico, Teofilo non si sottrasse al compito di lavorare incisivamente sul testo in sede di commento, fornendo agli studenti quelle notizie aggiuntive e quelle ulteriori spiegazioni etimologiche e storiche utili a farli penetrare in un mondo di nomi e di concetti a loro ormai per lo più sconosciuti. Non meno significativa, sempre nell’ottica qui considerata, è poi la lunga digressione rispetto a I. 1. 5. 3 dedicata ai dediticii, con buona probabilità derivante da Gai 1. 1315 93. Riallacciandosi al ¸htÕn, che accennava ad una libertà inferiore acquistata ex lege Aelia Sentia da alcuni servi 92 Cfr., ad esempio, il discorso di cui al § 5 sul compromesso realizzato da Ortensio, sul quale rimando, per tutti, a P. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 23 ss. 93 Così già C. FERRINI, I commentari di Gaio e l’indice greco delle Istituzioni, in Opere, I, Milano 1929, 85 s. (= Byzantinische Zeitschrift, VI, 1897, 734 s.).

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manomessi, che fiebant dediticiorum numero 94, Teofilo infatti si distacca all’improvviso dal brano latino ed introduce nel testo una corposa digressione dedicata agli schiavi resisi colpevoli di uno dei casi turpi previsti dalla legge Aelia Sentia, in base alla quale appunto, se poi venivano manomessi, diventavano peregrini dediticii. Nel passo, da tempo additato come l’emblema della visione storiografica teofilina, Teofilo peraltro non solo provvede a decifrare quell’accenno alla legge, ai dediticii ed alla loro pessima condizione contenuto nel ¸htÕn (che in effetti, così come scritto, risultava del tutto incomprensibile per i suoi giovani lettori), ma non si sottrae al compito di segnalare loro (plausibilmente sulla scia del lungo insegnamento tenuto su Gaio) anche l’origine e l’etimologia della denominazione degli schiavi manomessi ex lege Aelia Sentia, chiamati dediticii – egli spiega infatti agli studenti – sull’esempio di quei peregrini che, sconfitti dai romani, si consegnarono loro, ricevendo in cambio della vita appunto la qualifica di dediticii quia victi se dediderunt 95. Anche in questo caso credo sia evidente l’intento del Maestro di completare e rendere decifrabile quella breve riassuntiva esposizione della previa triplice condizione dei libertini alla quale il brano istituzionale, funzionalizzato soprattutto ad esaltare gli interventi imperiali attraverso cui si ripristinò l’unica e semplice libertà prevista ai primordi, aveva solo fatto un rapido cenno. Alla stessa finalità, d’altronde, certamente tendeva anche la lunga proteoria che Teofilo aggiunse alla chiusa del § 3 di I. 1.5. 94 I. 1.5.3 Libertinorum autem status tripertitus antea fuerat: nam qui manumittebantur, modo maiorem et iustam libertatem consequabantur et fiebant cives Romani, modo minorem et Latini ex lege Iunia Norbana fiebant, modo inferiorem et fiebant ex lege Aelia Sentia dediticiorum numero. 95 Sull’etimologia della parola, derivante da Gai 1. 14, cfr. infra, 60.

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Forse accortosi che quei riferimenti all’età del manomesso, alla proprietà del manumissore e ai modi di manumissione contenuti nel finale di I. 1.5.3 96 sarebbero stati del tutto inaccessibili per coloro che, come gli studenti bizantini, non conoscevano la disciplina della lex Aelia Sentia, non riportata nel ¸htÕn 97, l’antecessor si cimenta in una lunga e dotta lezione, tutta impostata sull’antitesi natura-legge, in cui, dopo aver spiegato come a Roma esistessero un’età legittima ed una naturale, una proprietà legittima ed una naturale ed una manumissione legittima ed una naturale, riferisce dettagliatamente agli studenti come si svolgevano i vari modi di manumissione previsti dal ius civile e dal diritto onorario e la circostanza per cui un tempo, per acquistare la cittadinanza romana, occorreva che ricorressero appunto i tre requisiti, l’essere il servo maggiore di trent’anni, che il padrone avesse su di lui la proprietà legittima e che il servo venisse manomesso vindicta, testamento o censu. 96 Cfr. I. 1.5.3 … et dediticios quidam per constitutionem expulimus, quam promulgavimus inter nostras decisiones, per quas sugerente nobis Triboniano viro excelso questore antiquis iuris altercationes placavimus: Latinos autem iunianos et omnes quae circa eos fuerit observantiam alia constitutione per eiusdem quaestoris suggestionem correximus, quae inter imperiales radiat sanctiones, et omnes libertos nullo nec aetatis manumissi nec dominii manumissoris nec in manumissionis modo discrimine habito, sicuti antea observabatur, civitate romana donavimus: multis additis modis, per quos possit libertas servis cum civitate romana, quae sola in presenti est, praestari. Sulle costituzioni attraverso cui Giustiniano avrebbe abolito la condizione dei deditici e la latinità iuniana, pervenuteci in CI. 7.5.1 e 7.6.1 ed espressamente qualificate come decisiones, v., per tutti G. LUCHETTI, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano 1996, 17 ss., e C. RUSSO RUGGERI, Studi sulle Quinquaginta decisiones, cit., 30 e 50 s. 97 Le Istituzioni imperiali, infatti, pur rifacendosi a Gai 1.17-20, omettono tutta la parte del testo gaiano relativo alla normativa introdotta dalla lex Aelia Sentia per la manomissione dei servi minori di trent’anni ed al consilium: su ciò v. C. RUSSO RUGGERI, Gaio, la Parafrasi e le ‘tre anime’ di Teofilo, cit., 205.

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Vale la pena di leggere questa bella lezione teofilina: PT. 1.5.3 Kaˆ toÝv m\en dediticius di£taxiv ¢ne‹le toà qeiot£tou basilšwv ¢ntigrafe‹sa prÕv suggestiona ¢pÕ Tribounianoà toà Øperfuest£tou quaestoros ta‹v decisiosi sunariqmoumšnhn ¤v ™xefènhse t¦v tîn ¢rca…wn diakr…nwn ¢mfibol…av. ToÝv d\e latinus iunianus kaˆ p©san ¼tiv ™p’aÙto‹v Ãn parafulak¾ toà aÙtoà suggereuontos ™ndoxot£tou quaestoros tÁv polite…av ™x»lase di’˜tšrav diat£xewv, ¿n ™kl£mpousan ™stˆn „de‹n metaxÝ tîn basilikîn diat£xewn, éste p£ntav ¢peleuqšrouv pol…tav eŒnai þwma…ouv, mhdemi©v oÜshv diafor©v perˆ t¾n ¹lik…an toà ™leuqeroumšnou ½ t¾n despote…an toà ™leuqeroàntov ¼ tÕn prÒpon tÁv ™leuqer…av, kaq£per ™ful£tteto kaˆ prÒpalai. t… d\e toàtÒ ™stin ¢nagka‹on e„pe‹n. œce d\e taàta æv ™n proqewr…a. œsti par¦ þwma…oiv œnnomov ¹lik…a kaˆ fusik¹ ¹lik…a, œnnomov despote…a kaˆ fusik¾ despote…a, œnnomov trÒpov ™leuqer…av kaˆ fusikÕv trÒpov ™leuqer…av. kaˆ fusik¾ mšn ™stin ¹lik…a ¹ ¼tton tîn tri£konta ™niautîn, œnnomov d\e ¹ Øp\er toÝv tri£konta: oÙc Óti t¾n me…zona tîn l’ ™niautîn ¹lik…an ¹ fÚsiv ¢gnoe‹, p©sa g¦r ¹lik…a fusik¾. ¢ll’™peid¾ Ð nÒmov „dikîv ™mn»sqh tÁv Øpšr t¦ tri£konta œth, di¦ toàto eŒpon aÙt¾n œnnomon. œstin, èv eŒpon, fusik¾ despote…a kaˆ œnnomov despote…a. kaˆ ¹ m\en fusik¾ lšgetai in bonis kaˆ Ð despÒthv bonitarios, ¹ d\e œnnomov lšgetai ex iure quiritium, toutšstin ™k toà dika…ou tîn politîn þwma…wn (quirites g¦r oƒ þwma‹oi ¢pÕ Romulu, ™x oá t¾n ¢rcaiogon…an ™sc»kasin), Ð d\e despÒthv ex iure quiritarios. e„ dš tiv ¢mfotšrav œsce t¦v despote…av ™lšgeto pleno iure dominus, toutšsti tele…‚ dika…‚ despÒthv, æv œcwn ¢mfotšrav t¾n œnnomon kaˆ t¾n fusik»n. œsti kaˆ œnnomov trÒpov ™leuqer…av kaˆ fusikÕv trÒpov ™leuqer…av. kaˆ Ð œnnomov trÒpov ™g…neto kat¦ tre‹v trÒpouv vindicta censu testamento. kaˆ vindicta Ãn ¹ ™pˆ toà ¥rcontov ginomšnh ™leuqer…a. ™lšgeto

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d\e vindicta quia vindicabatur mancipium in naturalem libertatem, ™peid¾ ™xedike‹to kaˆ ¢nštrece tÕ ¢ndr£podon e„v t¾n fusik¾n ™leuqer…an. ½ ¢pÕ vindiciu tinÕv, Öv ên o„kšthv ™piboul¾n ™somšnhn kat¦ tÁv þèmhv ™m»nuse kaˆ ºleuqerèqh dhmos…aÄ ØpÕ þwma…wn. kaˆ e„v tim¾n toÚtou p£ntev oƒ ™p… ¥rcontov ™leuqeroÚmenoi ™lšgonto vindicta ™leuderoàsqai. TÕ d\e censu prošbaine toàton tÕn trÒpon. kÁnsov Ãn sanˆv ½toi c£rthv, œnqa þwma‹oi ¢pegr£fonto t¦v o„ke…av perious…av ™p… tù ™n kairù polšmou kat¦ tÕ mštron tÁv „d…av Øpost£sewv œkaston e„sfšrein. ™n toÚt‚ oân tù k»ns‚ e‡pote o„kšthv kat¦ kšleusin despÒtou ˜autÕn ™leÚqeron enšgrayen, ¢phll£tteto tÁv doule…av. Testamento d\e, ¹n…ka tiv ™n diaq»kV tÕn ‡dion o„kšthn ºleuqšrwsen. fusikoˆ d\e trÒpoi ™leuqer…av Ãsan tre‹v. inter amicos per mensam per epistulam. kaˆ inter amicos m\en ¹n…ka f…lwn parÒntwn ºleuqšroun tin£. per mensam, Óte sunestiaqÁnai moi ™pˆ ™leuqer…av dÒsei prosštatton tù o„kštV. per epistulam, ¹n…ka Ônti aÙtù ™n ˜tšraÄ cèraÄ di'™pistolÁv ™pštrepon di£gein ™n ™leuqer…aÄ. ™peid» soi taàta proteqeèrhtai Óra loipÕn tÕ proke…menon. ¹n…ka tr…a Ÿnnoma sundr£mV ™pˆ tù ™leuqeroumšn‚ o„kštV, éste aØtÕn kaˆ Øperbebhkšnai tÕn triakostÕn ™niautÕn kaˆ Ÿcein ™p’aÙtù tÕn despÒthn t¾n œnnomon despote…an, toutšsti tÕ ex iure quiritium, ºleuqeroàto d\e kaˆ Ð o„kšthv À vindicta À censu À testamento, p£qov d\e m¾ Øpškeito, p¢ntwv Ð ™leuqeroÚmenov ™g…neto pol…thv þwma‹ov. e„ d\e p£qouv m¾ ÙpÒntov, oÙ sunšdrame t¦ tr…a œnnoma, À g¦r Ð o„kšthv Ãn ™l£ttwn tîn tri£konta À Ð despÒthv bonitarios mÒnon Ãn, oÙk e‹ce d\e kaˆ œnnomon despote…an, À ™g…neto ¹ ™leuqer…a per mensam À per epistulam À inter amicos, ½toi dÚo ™sq’Óte ™nšlipe t¦ œnnoma À kaˆ t¦ tr…a, Ð ™leuqeroÚmenov ™g…neto latinos iunianós. p£qouv d\e Øpokeimšnou p£ntwv ™g…neto dediticios. ¢ll¦ taàta m\en kat¦ tÕ palaiÒn: s»meron d\e, ™peid¾ monoeid»v ™stin ¹ ¢peleuqerÒthv, æv e‡rhtai, Ñ ™leuqeroÚmenov p£ntwv

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g…netai pol…thv þwma‹ov, oÙ diaferomšnwn ¹mîn oÜte perˆ despote…av oÜte perˆ trÒpou ™leuqer…av oÜte perˆ ¹lik…av 98.

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Murison: Ferrini: The class of dediticii, then, was abolisched by a constitution of our most sacred Emperor, which he issued on the suggestion of Tribonianus, the eminent quaestor, and which features among the decisions, which he publisched settling the conflicting views of the old jurist. The Latini Iuniani, too, and all the provisions relating to them, the Emperor, on the suggestion of the said illustrious quaestor, abolisched by another constitution, which may bee seen shining brightly among the imperial constitutions. The resulti is that all freedman are Roman citizen without any distinction in respect to the age of the person manumitted, or to the ownership of the manumissor, or to the mode of manumission, in exact accordance with the earlier usage. Now what this means, it is necessary to explain. And, as a preliminary consideration, take this: the Romans recognize a legal age and a natural age, legal ownerschip and natural ownership, a legal mode of manumission and a natural mode of manumission. And natural age is the age under thirty years, and legal age is the age over thirty years; not that nature takes no note of the age over thirty years – for every age is natural –, but because the statute specifically mentions the age over thirty years, I have therefore called it legal. There is also, as I have said, natural ownership and legal ownership. And natural ownership is called ownership in bonis, and the owner is called bonitarian owner, while legal ownership is called ownership ex iure Quiritium, that is, by the law of the Roman citizens (for the Romans are called Quirites from Romulus, from whom theu derived their origin), and the owner is called ex iure Quiritarios. And if a man had ownership in both kinds, he was calles pleno iure dominus, that is, owner in full right, as having both the legal and the natural ownership. There is also a legal mode of manumission and a natural mode of manumission; and the legal mode was exercised in three ways: vindicta, censu and testamento. The mode vindicta was the manumission performed in the presence of the magistrate. It was called vindicta, quia vindicabatur mancipium in naturalem libertatem, because the slave was recovered by vindication and reverted to his natural freedom; or from a certain Vindicius, who, when he was a slave, revealed a plot that was hatching against rome and was manumitted by the Romans by an act of state: and it was in honour of him that all slaves manumitted before a magistrate were said to be manumitted vindicta. The mode censu was conducted as follows. The census was tablet or sheet of paper on which the Romans made an entry of the property they possessed, the object being that in time of war each should contribute in proportion to his means. Whenever then a slave at the

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instance of his master entered himself as a freeman in this census, he was released from slavery. The mode testamento is when a man manumits a slave of his own in his will. The natural modes of manumission, again, were three: inter amicos, per mensam and per epistulam. Inter amicos, when I manumitted a slave in the presence of friends; per mensam, when I directed the slave to recline at table with me, intending thereby to grant him freedom; per epistulam, when the slave was in another place and I by letter gave him permission to live in freedom: Now that you have learned these preliminary matters, mark the further exposition of the point before us: when three legal requirements concurred in the case of a slave that was to be manumitted – namely, that the slave himself had passed his thirtieth year; that his master had the legal ownership of him, that is, ownership ex iure Quiritrium; and, further, that the slave was manumitted either vindicta or censu or testamento and there had been no punishment for misdoing, then absolutely the manumitted slave became a Roman citizien. Buti f, supposing there had been no punishment for misdoing, the three legal requirements did not concur – for either the slave was under thirty, or his master was only bonitariam owner without the legal ownership as well, or the manumission had taken place per mensam or per epistulam or inter amicos, or perhaps two or even three of legal requirements were wanting –, then the manumitted slave became a Latinus Iuninianus. But if there had been punishment for misdoing, then absolutely he became a dediticius. But this was the law in former times; nowadays, on the other hand, the condiction of freedmen being, as has been said, uniform, a slave on manumission absolutely becomes a Roman citizien, for we make no distinction on the score either of ownership or of mode of manumission or of age. Ferrini: Et dediticios quidem constitutio sacratissimi principis sustulit, quam Triboniano viro excelso quaestore suggerente rescripsit, et inter suas decisiones promulgavit, veterum dirimens altercationes. Latinos autem iunianos et omnem quae circa eos fuerat onservantiam, eodem suggerente gloriosissimo quaestore, alia constitutione abrogavit, quam inter principales constitutiones radiantem videre est, ut nempe omnes liberti cives essent romani, nullo discrimine neque aetatis manumissi, neque dominii manumissoris, neque in manumissionis modo habito, sicuti antea observabatur. Quid autem id sit dicendum est. Ante omnia id perspectum habeas. Est apud romanos aetas legitima et aetas naturalis, legitimum dominium et dominium naturale, modus legitimus manumissionis et naturalis modus manumissionis. Et naturalis quidem aetas est quae minor est annis XXX: legitima quae maior est anno trigensimo. Non quia aetatem XXX annis maiorem natura ignoret, cum omnis aetas naturalis sit, set quia lex eius aetatis specialem fecerit mentionem, quae trigensimo anno maior sit, ideo legitima aetas ea est vocata. Est igitur, sicut dixi, naturale dominium et legitimum dominium. Naturale autem dicitur in bonis, et dominus bonitarius; legitimus autem dicitur ex iure Quiritium, idest civium

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Ebbene, io credo che si tratti di uno dei passi della Parafrasi di maggior rilievo al fine di comprendere ed apprezzare appieno la portata ed il valore dell’insegnamento di Teofilo e di quel lavoro di perfezionamento della scarna lezione contenuta nel dettato istituzionale compiuto dal Nostro. Non intendo qui ritornare sul controverso problema delle fonti da cui l’antecessor avrebbe tratto la minuziosa descrizione dei modi manumissionis fornita nel luogo citaromanorum (Quirites enim dicuntur Romani a Romulo, unde originem duxerunt) dominus vero ex iure quiritario. Si quis autem utrumque haberet dominium, pleno iure dominus dicebatur, utpote qui utrumque legitimum et naturale haberet dominium. Est et legitimus manumittendi modus et naturalis manumittendi modus. Et legitimus modus trifariam fiebat, vindicta censu testamento. Et vindicta manumissio est quae apud magistratum fit. Dicebatur autem vindicta, quia vindicabatur mancipium in naturalem libertatem, vel a Vindicio quodam. Qui, cum servus esset, coniurationem adversus rempublicam futuram indicio detexit, et a Romanis publice est manumissus: in cuius honorem omnes qui apud magistratum manumitterentur, vindicta manumissi dicebantur. Censu autem manumissio ita procedebat. Censu erat tabula seu charta, ubi Romani facultates suas profitebantur, ut belli tempore pro modo sui quisque patrimonii inferret. In hoc igitur censi si servus iussu domini semet liberum scripsisset, a servitute liberabatur. Testamento autem, cum quis servus suum in testamento liberaret. Naturales autem manumittendi modi tres erant, inter amicos per mensam per epistulam. Et inter amicos quidem, cum, amicis praesentibus, quendam manumitterem. Per mensam, cum libertatis dandae gratia servum mecum in convivio adesse iuberem. Per epistulam, cum servo alibi terrarum degenti per epistulam in libertate morari concederem. Cum haec tibi perspecta sint, vide quid inde sequatur. Cum tria haec in manumissi servi persona concurrerent, ut maior esset annis XXX, et in legitima domini proprietate, i. e. ex iure Quiritium, manumitteretur autem vindicta aut censu aut testamento, neve in ulla esset turpitudine, omnino servus civis romanus fiebat. Sin autem, in nulla turpitudine eo versante, tria illa non concurrerent, erat enim servus minor annis XXX, aut in bonis tantum domini, aut per mensam vel per epistulam vel inter amicos manumissio fiebat; vel duo forte vel etiam tria iuris requisita desiderarentur, manumissus latinus iunianus fiebat. Si vero in turpitudine quadam servus versaretur, dediticius fiebat. Set haec quondam optinebant; hodie autem cum una sit libertatis species, uti dictum est, manumissus omnimodo civis romanus fit, nullo discrimine habito in dominio vel modo manumissionis vel aetate.

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to, descrizione del tutto assente sia nel ¸htÕn 99 che nelle Istituzioni di Gaio, che in 1.17 si limitava solo ad enumerare le tre forme di manumissione iustae ac legitimae 100: già altrove, infatti, ho avuto modo di occuparmene e di avanzare la congettura secondo cui Teofilo si fosse qui servito di quei tre libri de manumissionibus di Gaio dei quali nei Digesta ci sono pervenuti cinque frammenti, libri che l’antecessor avrebbe letto e utilizzato durante gli anni di insegnamento precedenti alla riforma giustinianea o – forse più plausibilmente – che ebbe modo di visionare in occasione della sua partecipazione ai lavori del Digesto 101. Comunque sia, ciò che mi preme evidenziare in questa sede è che anche in questo caso il maestro costantinopoliano non si accontentò di tradurre ai discenti i sintetici riferimenti al regime della lex Aelia Sentia da lui stesso plausibilmente fatti nel manuale imperale, ma si preoccupò di fornire ai lettori una chiara e minuziosa rendicontazione di quali fossero le forme di manumissione presenti a Roma, di come si svolgessero e della legislazione che ne aveva disciplinato i requisiti. Un’esposizione – questa – che, per 99 Che in proposito si limita a fornire un variegato elenco che comincia peraltro con il modo più recente di manumissione introdotto dalla legislazione imperiale, cioè la manumissio in sacrosanctis ecclesiis: cfr. I. 1.5.1 Multis autem modis manumissio procedit: autem enim ex sacris constitutionibus in sacrosanctis ecclesiis aut vindicta aut inter amicos aut per epistulam aut per testamentum. Sed et aliis multis modis libertas servo competere potest, qui tam ex veteribus quam nostris constitutionibus introducti sunt. 100 V. Gai 1.17 Nam in cuius persona tria concurrunt, ut maior sit annorum triginta, et ex iure Quiritium domini, et iusta ac legittima manumissionibus liberetur, id est vindicta aut censu aut testamento, is civis romanus fit; sin vero aliquid eorum deerit, Latinus erit. Si ricordi, peraltro, che in Gaio manca qualunque accenno alle manumissioni pretorie, cui forse si accennava però nel mancante § 21. 101 Cfr. C. RUSSO RUGGERI, Gaio, la Parafrasi e le ‘tre anime’ di Teofilo, cit., 201 ss.; ma sulla questione v. anche infra, 61 ss.

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estensione e esaustività, non credo fosse tanto o solo finalizzata ad illuminare gli interventi giustinianei che abolirono la latinità iuniana ed i dediticii ripristinando l’unica e semplice libertà delle origini, quanto soprattutto a far conoscere e comprendere agli studenti bizantini, lontani ormai anni luce da quelle realtà, la complessità dell’esperienza giuridica romana, dove appunto – come cerca di spiegare loro in premessa – non esistevano un’unica età, un’unica proprietà ed un unico modo di manomettere, con la conseguenza che gli effetti della manumissione erano diversi a seconda dell’età del manomesso, dell’essere il padrone proprietario legittimo del servo e del modo con cui la manumissio era stata effettuata. Un’esposizione, quindi, che, aggiungendosi al ¸htÕn ed integrando le brevi indicazioni ivi fornite, evidenzia ancora una volta lo spessore complessivo dell’insegnamento teofilino e lo scopo scientifico e di formazione culturale che il Maestro con esso certamente si proponeva, più di ogni altra cosa, di realizzare.

6. A volte l’intervento integrativo e chiarificatore di Teofilo sul testo latino si concretizzava nella proposizione di alcuni accattivanti esempi, utilizzati appunto al fine specifico di svelare agli studenti la reale portata di alcune spesso non facilmente decifrabili affermazioni contenute nel ¸htÕn. È questo, ad esempio, quanto il Nostro fa in: PT. 1.4.1 `O d\e tiktÒmenov eÙgen¾v ™¦n ™n ¢gno…a tÁv o„ke…av douleÚsh tÚchv, e„ta ™leuqerwqÍ, oÙdem…an Øpost»setai perˆ t¾n eÙgšneian bl£bhn ™k toà ™leuqerwqÁnai. Toàto g¦r poll£kiv ta‹v basilika‹v e‡rhtai diat£xesi, t¾n kat¦ tÕ perittÕn dodomšnhn ™leuqer…an prÒkrima m¾ poie‹n tÍ eÙgene…a. kaˆ pîv sunba…nei tÕn eÙgenÁ ™leuqerwqÁnai, e†pwmen æv ™pˆ qšmatov. e‹con

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™gë šleuqšran tina guna‹ka prÕv Øphres…an. Tštoken aÛth: ™niausia‹on lÒgou c£rin katalipoàsa tÕ tecqšn ™teleÚthse: Sunšbh k¢m\e teleutÁsai micrÕn Ûsteron. Ð ™mÕv clhronÒmov eØrën ™n tÍ ™mÍ perious…a tÕ paid…on ™nÒmisen eŒnai doàlon, ka… aÙtÕ d\e tÕ paid…on t…leion gegonÕv t¾n o„ke…an ºgnÒei tÚchn. Ð d\e nÒmov e„dëv tÕ ¢lhqšv ™k tÁv toà klhronÒmou ¢gno…av ka… tÁv aÙtoà toà paid…ou pl£nhv oÙk ½meiyen aÙtù t¾n eÙgšneian. Ð ™mÕv peiraqeˆv klhronÒmov eÙno…a ˜autoà ºleuqšrwsen: ¹ kat¦ tÕ perittÒn, çv eŠrhtai, prosteqe‹sa ™leuqer…a di¦ t¾n yeudÁ doule…an t¾n ™x ¢lhqe…av oÙk ºd…khsen eÙgšneian 102.

102 V. Morison: If a freeborn man, in ignorance of his real condition, serves as a slave and afterwards is set free, he will not suffer any prejudice in respect of his free birth from the fact of his being set free. For it has been often laid down by the imperial constitutions that the superfluous grant of freedom does not prejudice free birth. And how it comes that a free man is set free, let us explain by an illustration. I had a free women in my service as a slave; she bore a child; she died leaving the child say a year old; a little later, as it chanced, I too died; my heir, finding the child among my effects, took him to be a slave; and the child himself, when he became a man, remained ignorant of his real condition. But the law, knowing the truth, made no change in the child’s freeborn condition because of the ignorance of the heir and of his own mistake. My heir, led by benevolence set him free: the superfluous grant of freedom, through the false supposition that he was a slave, did not, as been said, prejudice his true freeborn condition. Ferrini: Qui ingenuus est natrus, licet suae condicionis ignarus servierit ac postea fuerit manumissus, nullum ex manumissione incommodum sentiet. Id enim saepius principalibus constritutionibus cautum est, ingenuitati scilicet manumissionem non officere, quae supervacuae facta sit: Et quomodo contingit ut liber homo manumittatur? Exemplo rem illustremus. Habebam liberam quandam mulierem quae ministrabat mihi. Quae cum peperisset, anniculum, verbi gratia, puerum relinques decessit. Paullo post ego quoque decessi. Heres autem meus cum in hereditate puerum invenisset, putavit eum servum esse, et ipse puer cum adolevisset, suam condicionem ignorabat. Set ius, cui veritas nota est, propter heredis ignorantiam et ipsius pueri errorem eius ingenuitatem non mutavit, licet heres meus benivolentia motus

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Studi su Teofilo

Rispetto alla concisa formulazione del ¸htÕn, che riportava il principio (stabilito in molte costituzioni imperiali) per cui l’ingenuità acquistata con la nascita non poteva essere pregiudicata dal fatto di essere stati in servitù e poi manomessi, giacché natalibus non officere manumissionem 103, Teofilo propone una sostanziosa ed assai interessante rielaborazione del brano latino, una rielaborazione che, a scanso di equivoci, comincia proprio da una fondamentale ed indispensabile precisazione: e cioè che la fattispecie cui si fa riferimento nel testo è quella di chi, nato ingenuo, fosse stato poi in servitù nell’ignoranza della sua condizione (™n ¢gno…a tÁv o„ke…av tÚchv) e fosse stato in seguito liberato. Si badi bene: non è questo un chiarimento superfluo o di scarso valore. La generica formulazione del ¸htÕn, infatti, avrebbe potuto portare a credere che la ingenuità acquisita con la nascita fosse intoccabile, nel senso che nessun evento successivo potesse comunque comprometterla: ciò che avvenne, in effetti, pochi anni dopo a seguito della pubblicazione della Novella 78 104. Nel 533, tuttavia, le cose non stavano ancora così: l’uomo libero che si era venduto per denaro e fosse stato poi manomesso diventava, ad esempio, libertino 105. Opportunamente, dunque, Teofilo eum manumiserit: libertas enim supervacuo data, uti dictum est, propter falsam servitutis opinionem, ingenuitatis veritatem non laedit. 103 V., I. 1.4.1 Cum autem ingenuus aliquis natus sit, non offici tilli in servitute fuisse et postea manumissum esse: saepissime enim constitutum est natalibus non officere manumissionem. Le costituzioni qui richiamate sono quelle inserite poi nel titolo XIV del VII libro del Codex repetitae praelectionis sotto la rubrica ‘de ingenuis manumissis’. 104 Sulla quale v. R. BONINI, Corso di diritto romano. Il diritto delle persone nelle Istituzioni di Giustiniano, cit., 61 s. 105 V., D. 1.5.21 (Mod. 7 reg.) Homo liber, qui se vendidit, manumissus non ad suum statum reveritur, quo se abdicavit, sed efficitur libertinae condicionis. Ed analogo regime sarebbe certamente valso anche per il caso di chi avesse barattato la libertà per piaceri carnali, se non fosse stata nel frat-

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sottolinea al lettore che si stava qui parlando in realtà della falsa servitù (yeudÁ doule…a), della servitù cioè di chi non sapeva di essere nato libero, commentando peraltro significativamente, nel finale del brano, che la manumissione fatta senza che ce ne fosse bisogno non poteva in alcun modo minare la ingenuità di chi in effetti non era mai stato veramente schiavo (¹ kat¦ tÕ perittÒn, çv eŠrhtai, prosteqe‹sa ™leuqer…a di¦ t¾n yeudÁ doule…an t¾n ™x ¢lhqe…av oÙk ºd…khsen eÙgšneian). Ciò puntualizzato, restava da chiarire come potesse accadere che un ingenuo veniva manomesso. Ecco allora che, dopo avere provocatoriamente rivolto ai suoi studenti la domanda, l’antecessor si offre di spiegarlo loro con l’esempio della donna libera a servizio che, una volta partorito, morì. Morto anche il padrone, l’erede credette erroneamente che il bimbo, che ignorava anch’egli la sua reale condizione, fosse uno schiavo. Ma la legge, che sapeva la verità, per l’ignoranza dell’erede e l’errore dello stesso bambino non mutò – conclude Teofilo – l’originaria condizione di ingenuo, neanche quando l’erede, mosso da benevolenza, lo manomise. Certo, è questo un racconto che per fantasiosità può considerarsi degno di una moderna telenovela: non c’è dubbio però che deve avere affascinato non poco i giovani lettori e deve essere rimasto ben impresso per molto tempo nella loro mente, insieme alla regola che si proponeva di esemplificare. Un altro emblematico caso di intervento chiarificatore compiuto da Teofilo sul testo base anche attraverso pregnanti esempi è costituito da PT. 1.12.5. tempo abolita con la costituzione di cui a CI. 7.24.1 la disposizione del sc. Claudiano che sanzionava questo comportamento con la perdita della libertà e del patrimonio (v. I. 3.12.1).

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Chiudendo il discorso dei soggetti in potestà con l’esame, nel titolo 12, dei modi quibus ius potestatis solvitur, Teofilo, seguendo il ¸htÕn, passa a considerare, tra gli altri casi, quello della prigionia bellica del padre, cui era dedicato il § 5 di I. 1.12 106. E qui, dopo aver spiegato la disciplina del postliminium e della fictio legis Corneliae (non menzionata, però, nel testo), in base alle quali, tornato il padre dalla prigionia, il figlio restava nella sua potestà e, morto il padre in prigionia, il figlio diventava invece paterfamilias, prosegue affermando che ¢ll¦ zhtoàmen ™k po…ou crÒnou dokî tÁv ØpexousiÒthtov ¢pall£ttesqai. pÒteron ™x oá ™l»fqh À Àx oá ™teleÚthse par¦ to‹v polem…oiv 107. E per meglio far comprendere l’importanza del quesito e le ragioni che giustificavano la soluzione insegnata nel manuale, propone agli studenti un esempio che richiama un po’ alla mente la parabola del figliol prodigo: un padre, che aveva due figli e due mila aurei di patrimonio, venne fatto prigioniero. Il primo figlio, spouda‹ov, riuscì a raddoppiare i mille aurei paterni con i suoi commerci; il secondo invece, che era þ£qumov, non lucrò niente. Morto il padre in prigionia e dovendosi i figli dividere l’eredità, il figlio negligente affermava che gli effetti della morte dovessero decorrere ex nunc e, dunque, che gli spettassero 1500 dei tremila aurei costituenti ora il patrimonio del de cuius; 106

I. 1.12.5 Si ab hostibus captus fuerit parens, quamvis servus hostium fiat, tamen pendet ius liberorum propter ius postliminii: quia hi, qui ab hostibus capti sunt, si reversi fuerint, omnia pristina iura recipiunt. Idcirco reversus et liberos habebit in potestate, quia postliminium fingit eum qui captus est semper in civitate fuisse: si vero ibi decesserit, exinde, ex quo captus est pater, filius sui iuris fuisse videtur. 107 Murison: … but what we want to know is the moment when I am held to be released from his power: is it the moment when he was taken prisioner or the moment when he died in the hands of the enemy? Ferrini: illud vero ambiguitur ex quo tempore ab eius videtur potestate liberari: utrum a tempore quo captus est, an ab eo, quo apud hostes decesserit.

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ma l’altro ribatteva che il padre doveva considerarsi morto al momento della cattura e, dunque, che i mille aurei guadagnati fossero solo suoi: ka… taÚth m©llon peiqÒmeqa tÍ gnémh, afferma il Maestro, concludendo un excursus che, ora sì, aveva davvero consentito ai lettori di comprendere appieno il regime del postlminium e della regola per cui si vero ibi decesserit, exinde, ex quo captus est pater, filius sui iuris fuisse videtur consacrata nel ¸htÕn.

7. Assai interessante è, sempre nella prospettiva qui considerata, il breve ma intenso intervento parafrasico compiuto da Teofilo su I. 1.13.5 in materia di tutela. Si leggano: 1.13.5 sed si emancipato filio tutor a patre testamento dato fuerit, confirmandus est ex sententia praesidis omnimodo, id est sine inquisitione.

e PT. 1.13.5 E„ d\e EMANCIPATO paidˆ katale…yei pat¾r ™p…tropon, oÙk œrrwtai m\en ¹þ dÒsiv kat¦ t¾n politik¾n ¢kr…beian di¦ tÕ lelšcqai mÒnoiv Øpexous…oiv TESTAMENTARIUS ™pitrÒpouv d…dosqai. Ð d\e pra…twr ½toi ¥rcwn, t¾n toà teleàt»santov gnémhn ¢naplhrîn, t¾n toiaÚthn CONFIRMATEUEI ½toi bebaio‹ dÒsin SINE INQUISITIONE, toutšstin oÙk ™pizht»sav pÒteron eÜporov À tîn dunamšnwn t¦ toà nšou dioike‹n ™sti pr£gmata, ¢rcoÚshv aÙtù prÕv teleiot£thn toÚtwn par£stasin tÁv toà teleut»santov martur…av 108. TESTAMENTARION

108 Murison: But if a father leaves a testamentary guardian to an emancipated son, the appointment is not valid according to the civil law, because it has been laid down that testamentary guardians are given to dependents alone; but the praetor, or the governator of a province, fulfing

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Il brano delle Institutiones si ricollegava al precedente § 3, in cui era affermata la possibilità per il padre di nominare un tutore nel testamento ai figli impuberi in potestà 109. Rispetto a questo insegnamento, la concisa affermazione di cui al § 5 circa la nomina di un tutor testamentarius al figlio emancipato e la conferma sine inquisitione della stessa da effettuarsi da parte del preside poteva generare in effetti non pochi dubbi interpretativi nei giovani lettori bizantini. Proprio facendosi interprete di questi possibili dubbi, il docente interviene efficacemente sul testo in sede di commento, cominciando a chiarire agli studenti che se il padre lasciava un tutore nel testamento al figlio emancipato oÙk ›rrwtai mšn ¹ dÒsiv kat¦ t¾n politik¾n ¢kr…beian di¦ tÕ lelšcqai Øpexous…oiv mÒnoiv testamentaríus ™pitrÒpouv d…dosqai, e cioè che di stretto diritto la dazione non avrebbe dovuto considerarsi valida, poiché si era detto che si potevano lasciare tutori per testamento solo ai discendenti in potestà 110. In questo caso, tuttavia, il pretore o il preside della provincia dovevano dare ugualmente esecuzione alla volontà del testatore e conthe intention of the deceased, confirms such an appointment sine inquisitione, that is, without holding an inquiry as to whether the guardiani s a man of means or is capable of managing the ward’s affairs, the testimony of the deceased sufficing to him as conclusive proof on these point. Ferrini: Sin autem emancipato filio pater in testamento tutorem relinquat, non valet quidem datio secundum iuris suptilitatem, quia dictum est iis tantum qui sui iuris sint tutores in testamento relinqui posse: praetor vero aut praeses provincae defuncti voluntatem adimplet atque eiusmodi dationem sine inquisitione confirmat, nihil inquires an locuples sit an pupilli res administrare possit, cum ei ad plenissimam probationem defuncti sufficiat iudicium. 109 I. 1.13.3 Permissum est itaque parentibus liberis impuberibus, quos in potestate habent, testamento tutores dare. 110 Sulla nullità della datio tutoris del figlio emancipato, che poteva però essere confermata dal pretore, v. D. 26.3.1.1 (Mod. 6 exc.) e D. 27.1.32 (Paul 4 quaest.). Su questi testi, per tutti, cfr. L. DESANTI, De confirmando tutore vel curatore, Milano 1995, 69 ss.

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fermare la dazione senza indagare se il tutore fosse ricco o potesse amministrare i beni del pupillo, bastando come prova piena il giudizio espresso dal defunto 111. Come si vede, dunque, qui il Maestro si sofferma a svelare l’apparente contraddizione tra i due citati paragrafi del titolo XIII delle Institutiones, segnalando peraltro agli studenti anche la ratio che sottintendeva all’estensione operata in riferimento ai figli emancipati della possibilità concessa al padre di nominare un tutore testamentario, estensione giustificata appunto dalla presenza di una chiara voluntas testatoris, che il pretore o il preside dovevano limitarsi a confermare senza poter compiere al riguardo alcuna indagine preliminare, essendo sufficiente appunto in tal senso il giudizio del padre. Una disposizione – questa – chiaramente ispirata dunque al favor testamenti e all’aspirazione a far prevalere sempre e comunque la voluntas ivi espressa dal de cuius. Un’ulteriore conferma dello spessore degli interventi effettuati da Teofilo sul testo latino ci proviene, inoltre, da PT. 1.14.1. Il brano, che si occupa in particolare del caso del servo dato come tutore nel testamento, inizia ricalcando la lezione contenuta nel ¸htÕn, secondo la quale poteva essere dato un proprio servo come tutore nel testamento accordandogli però la libertà. Tuttavia, se il servo era stato dato come tutore senza la libertà, si riteneva che la libertà gli fosse stata concessa tacitamente in via diretta e che dunque egli divenisse rettamente tutore 112. A questo punto, però, 111 Sulla concezione giustinianea della conferma divenuta ormai una sorta di ‘atto dovuto’ v. in specie L. DESANTI, De confirmando tutore vel curatore, cit., 191. 112 I. 1.14.1 Sed et servus proprius testamento cum libertate recte tutor dari potest. Sed sciendum est eum et sine libertate tutorem datum tacite et libertatem directam accepisse videri et per hoc recte tutorem esse. Plane si per errorem quasi liber tutor datus sit, aliud dicendum est. Servus autem alienus

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ricollegandosi a quel riferimento alla libertà diretta presente nelle istituzioni imperiali (™leuqer…a dirécta), il parafraste si allontana dal ¸htÕn ed introduce una ampia digressione sul caso, non trattato nel manuale, in cui la libertà fosse stata disposta mediante una disposizione fidecommissaria. Dopo avere distinto tra la liberazione diretta, che produceva effetti immediatamente dalla morte del testatore, e la liberazione fidecommissaria, che richiedeva invece un intervento successivo del pupillo, Teofilo si sofferma innanzitutto a ricordare agli studenti le diverse formule che potevano essere adoperate nel testamento per compiere rispettivamente un’istituzione di erede, un legato, la dazione di un tutore o della libertà, un fedecommesso o infine una libertà fidecommissaria, riportando peraltro per ciascuna di esse appropriati esempi. Ciò chiarito, il Maestro torna ad occuparsi del caso in cui la liberazione dello schiavo nominato tutore fosse contenuta in una disposizione fidecommissaria, caso che presentava non poche problematicità. Il pupillo istituito erede, infatti – ricorda il Maestro –, non poteva manomettere il servo tutore, perché la lex Aelia Sentia vietava al minore di vent’anni di manomettere lo schiavo, tranne che non ci fosse una iusta causa manumissionis e ci fosse l’approvazione del consiglio. E se anche si fosse voluto pensare che nel caso in specie esisteva una iusta causa, come qualcuno pure riteneva, sarebbe sorto un ulteriore problema, giacché sarebbe stato in tal caso necessario il consenso del tutore: ma come poteva dare il consenso chi non era ancora tutore, ma era servo? Teofilo non risponde espressamente alla domanda, ma pure inutiliter datur testamento tutor. Sed ita ‘cum liber erit’utiliter datur. Proprius autem servus inutiliter eo modo datur tutor.

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è evidente che vuole evidenziare come una tale manumissione fosse tecnicamente impossibile. E sempre con una domanda rivolta agli studenti, una domanda alla quale ancora una volta non poteva che darsi una risposta negativa, affronta il caso in cui fosse stato dato come tutore nel testamento uno schiavo creduto per errore un uomo libero, caso per il quale non sarebbe stato possibile presumere la tacita volontà del testatore di volerlo manomettere: come poteva rinvenirsi tale volontà in chi credeva che fosse un uomo libero? – chiede infatti in conclusione Teofilo. Ebbene: anche questa esposizione credo necessiti di pochi commenti. C’è da interrogarsi, semmai, sul perché Teofilo abbia avvertito il bisogno di soffermarsi così dettagliatamente con gli studenti su un’eventualità che tecnicamente non era idonea a produrre alcun effetto giuridico e che perciò – plausibilmente per motivi di spazio – non era stata presa in considerazione nel manuale. E la risposta non può essere che una: benché irrilevante, la fattispecie presentava interessanti profili interpretativi, assai utili peraltro ad addestrare i giovani al ragionamento giuridico. Ed è appunto fondamentalmente a questo scopo, a sollecitare cioè lo spirito critico dei giovani e la loro capacità di riflettere sulle questioni giuridiche, che l’antecessor ritenne opportuno intrattenersi con loro anche su ipotesi che non potevano avere alcuna rilevanza giuridica. La qual cosa non può d’altronde destare meraviglia da parte di un Maestro che, come si è visto, dichiarava importante lo studio e la conoscenza della storia al di là dall’utilità pratica che ne potesse derivare. Allo stesso modo – si deve a mio avviso pensare – anche ragionare sull’interpretazione di certe fattispecie era per Teofilo sempre e comunque proficuo, indipendentemente dal rilievo che esse potessero avere sul piano pratico.

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8. Da non sottovalutare, al fine di apprezzare appieno lo spessore dell’insegnamento di Teofilo, sono poi alcuni interventi millimetrici operati dal Nostro sul testo latino, interventi millimetrici che, però, svolgono quasi sempre una indispensabile funzione chiarificatrice, evidenziando peraltro l’attenzione quasi meticolosa che il Maestro metteva nell’esposizione degli argomenti. Un primo interessante esempio in questo senso può essere costituito da quell’aggiunta al dettato di I. 1.4 pr., che definiva l’ingenuo come is, qui statim ut natus est liber est. Rispetto a questa lezione Teofilo sente il bisogno di precisare che è ingenuo chi è nato libero e non ha mai sperimentato il giogo della servitù 113. Può sembrare un’aggiunta ridondante, ma non è così. Noi già sappiamo, infatti, che l’uomo libero che si vendeva per denaro e veniva poi manomesso diventava in realtà libertino 114: per conservare l’ingenuità non bastava, dunque, essere nati liberi, ma occorreva appunto – come precipuamente sottolinea Teofilo – non essere mai stati in stato di servitù. Ancora: in PT. 1.3.1, commentando la definizione di libertà accolta nel ¸htÕn 115, a sua volta derivata da un noto passo delle Istituzioni di Fiorentino 116, ed accingendosi a spiegare quei generici riferimenti alla vis e al ius quali fattori che impedirebbero la naturale facoltà dell’uomo di fare ciò che vuole ivi contenuti, Teofilo specifica che la forza 113

PT. 1.4 pr. kaˆ eÙgen»v ™stin Ð eÙqšwv ¤ma tù tecqÁnai ™leÚqerov ín ka… m»pw toà zugoà tÁv doule…av geus£menov ... 114 V. retro, 48. 115 Cfr. I. 1.3.1 et libertas quidem est, ex qua etiam liberi vocantur, naturalis facultas eius, quod cuique facere libet, nisi si quid aut vi aut iure prohibetur. 116 D. 1.5.4 pr. (9 inst.) Libertas est naturalis facultas eius quod cuique facere libet, nisi si quid vi aut iure prohibetur.

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che limitava la libertà era quella che inibiva di fare ciò che non era vietato dalla legge (b…a mšn ™peid» boulÒmenon œsq’Óte mš ti pr©xai Ó to‹v nÒmov oÙk ¢phgÒreutai, diakwlÚei tiv „scÚi me…zoni bias£menov 117): con ciò sottintendendo che la forza messa in atto per ostacolare il compimento di un atto illecito non sarebbe stata giuridicamente illegittima e non avrebbe dovuto considerarsi dunque una limitazione di libertà. Non è un’osservazione da poco, ma una precisazione assai opportuna, che circoscrive e riconduce soprattutto al piano giuridico quella generica indicazione fatta nel testo latino. Anche a proposito delle limitazioni alla libertà derivanti dal ius, Teofilo, per spiegare agli studenti la forza inibitrice prodotta dalla minaccia delle sanzioni giuridiche, si avventura in un paragone che ha suscitato non poche perplessità tra gli studiosi 118, quello cioè del servo che è impedito a comportarsi secondo il proprio capriccio dal timore del padrone 119. Io, francamente, non ci vedo niente di così scandaloso: anzi, credo che l’antecessor non potesse trovare un esempio più calzante per far comprendere agli studenti l’effetto intimidatorio che in entrambi i casi portava l’uomo a comportarsi correttamente. Sempre nell’ottica qui considerata è interessante, per 117 Murison: … Force, when it happens that a man, by the exertion of superior strength, hinders me from doing someting that I wish to do and that is not forbidden by the laws…; Ferrini: volentem enim aliquid agere, quod iure non vetetur. Prohibet me quidam interdum vi potiore impediens. 118 V., ad esempio, P. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 42 s. 119 PT. 1.3.1 ... nÒmw dš Óte timwriîn ¢peila‹v eŠrgomai pr£ttein § boÚlomai. o„k„th g¦r poie‹n ti kat¦ gnémhn kaˆ despÒtou dšov ™mpod…zei. (Morison: Law, when I am restrained by threats of penalties from doing what I wish. For, in the case of a slave, there i salso fear of his master that hinders him from acting as he has a mind).

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finire, anche quell’aggiunta alla definizione di libertino come colui qui ex iusta servitute manumissus est fornita in I. 1.5 pr. Ebbene, Teofilo non si accontenta della spiegazione fornita nel manuale, ma nel corrispondente passo della Parafrasi sottolinea agli studenti che occorre aggiungere anche ‘œnnomov’, nel senso che libertino è chi è stato manomesso da una servitù non solo giusta, ma anche legitima. E ne spiega la ragione: con dika…av – afferma infatti il Maestro – si vuole escludere chi è in servitù nell’ignoranza della sua condizione; con œnnomov si allude invece al fatto che la servitù, che non esisteva in natura, venne introdotta dalla pratica delle guerre 120. Ma cosa voleva dire in realtà il parafraste con quel riferimento alle guerre? Ora, se, al di là della traduzione letterale, cerchiamo di capire il senso del discorso teofilino, io credo che non ci possano essere dubbi 121: la servitù è legittima perché introdotta dal diritto delle guerre e, dunque, è conforme a quelle norme che, in quanto parte del ius gentium, sono rispettate da tutti i popoli. 120

PT. 1.5 pr. ... ¢peleÚqerÒv ™stin Ð ™k dika…av doule…av ™leuqerwqe…v: prÒsqev dš kaˆ ™nnÒmou. oÙkoàn ¢peleÚqerÒv ™stin Ð ™k dika…av kaˆ ™nnÒmou doule…av ™leuqerwqe…v. prÒsketai tù Órw dika…av †na ™xšlw tÕn ™n ¢gno…a tÁv o„ke…av douleÚonta katast£sewv, ™nnÒmou d\e prosetšqh di¦ tÒ t¾n fÚsin oÙk e„dšnai toÝv doÚlouv ¢ll¦ taÚthn eØrÁsqai ™k tÁv tîn polšmwn ™pino…av. (Murison: … A freedman is one that has been set free from true slavery. Add also: ‘and legal’. A freedman, accordingly, is one that has been set free from true and legal slavery, ‘true’ is inserted in the definition in order that I may exclude a man that serve sas a slave in ignorance of his real condition. ‘Legal’is added because nature knows nothing of slavery, which is a device introduced from the concept of war. Ferrini: … libertinus est qui ex iusta servitute manumissus est. Adde et ‘legitima’. Est igitur libertinus qui ex iusta legitimaque servitute est manumissus. Additum est definitioni ‘iusta’ ut eum eximam qui ignorantia suae condicionis servit. ‘legitima’ vero quia natura servos non novit, servitus enim ex bellorum inventione introducta est). 121 Assai critico sul passo il P. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 44 s.

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9. Gli esempi di rielaborazioni, proteorie, digressioni, ampi interventi chiarificatori o millimetriche ma non meno pregnanti precisazioni potrebbero continuare all’infinito: l’opera di Teofilo ne è piena in tutti i quattro libri. Ma credo che questo breve ma significativo campione sia tutto sommato sufficiente ad illuminarci sul metodo e sullo spessore dell’insegnamento del nostro antecessor quale impostato nelle Institutiones e perfezionato nella Parafrasi: un metodo ed un merito che, a dispetto delle tante ingenerose critiche ricevute, io credo sinceramente non abbiano in realtà niente da invidiare, quanto a finalità, efficacia e completezza, a quelli che ancora oggi caratterizzano i moderni insegnamenti. Ad ulteriore riprova del livello dell’opera di docenza compiuta da Teofilo credo vada segnalata, però, anche la particolare attenzione che l’antecessor dedica alle etimologie delle parole, presenti in gran numero tanto nel manuale imperiale quanto, e direi soprattutto, nella Parafrasi. Ora, non c’è dubbio che il fascino per le etimologie non può essere stato ereditato da Teofilo che dai giuristi classici, i quali – come è noto – se ne servivano sovente nei loro scritti a fini didattici e scientifici, ed in specie da Gaio, che è certamente l’autore con cui il Nostro ebbe maggiore familiarità (se non altro per avere insegnato per lunghi anni proprio sul manuale del giurista antoniniano) e nelle cui opere peraltro esse sono presenti in numero proporzionalmente molto maggiore rispetto agli altri veteres auctores 122. Ed è appunto proprio l’abitudine a studiare ed a lavorare sulle Institutiones di Gaio e su innumerevoli altri 122

Per le numerose etimologie riferite da Gaio, il cui numero appunto «exceeds all the Roman jurist» v., infatti, tra gli ultimi, O. STANOJEVIĆ, Gaius and Pomponius, Notes on David Pugsley, in RIDA, 44, 1997, 343; ma cfr. anche L. CECI, Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino 1892, (rist. Roma 1966), 123 s.

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testi classici (alludo qui ai tanti libri utilizzati per i corsi universitari dei vari anni, a tutti gli altri su cui aveva impostato nel tempo la sua formazione professionale e, per ultimo, a quelli consultati in occasione della compilazione dei Digesta e delle Institutiones), dunque, ad avere plausibilmente trasmesso al Nostro quella scrupolosità verso l’origine delle parole che caratterizza il suo insegnamento: una scrupolosità che, peraltro, rispondeva anche ad una precisa finalità didattica, fornire cioè agli studenti un primo valido ausilio per il buon intendimento del termine e dell’istituto a cui esso si riferiva. Ebbene, talvolta la derivazione dell’informazione etimologica proprio dall’insegnamento condotto sul manuale gaiano appare di tutta evidenza. Basti qui ricordare, a titolo meramente esemplificativo, l’etimologia di dediticii quia vincti se dediderunt contenuta in PT. 1.5.3 e chiaramente tratta da Gai 1.14; quella del mutuum fornita in I. e PT. 3.14 pr., così appellato – dice Teofilo – quia ita a me tibi datur ut ex meo tuum fit, spiegazione assai simile al quia quod ita tibi a me datum est, ex meo tuum fit di cui a Gai 3.90; o, ancora, il condicere est denuntiare prisca lingua di I. e PT. 4.6.15 che richiama testualmente Gai 4.17b; o, infine, le etimologie delle actiones exercitoria, institoria e tributoria fornite in I. e PT. 4.7.2 e 3 pienamente corrispondenti a quelle di Gai 4.71 e 72. In tanti altri casi, tuttavia, l’origine della spiegazione dell’etimologia della parola offerta da Teofilo non è affatto così scontata e, soprattutto, induce a presumere una personale ricerca condotta dal Nostro in questa direzione, evidenziandone l’ampia base culturale non limitata peraltro presumibilmente alle sole fonti giuridiche. Particolarmente emblematico in questo senso è, ad esempio, il caso di:

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PT. 1.5.3 … ™legeto d\e vindicta quia vindicabatur mancipium in naturalem libertatem, ™peid¾ ™xedike‹to kaˆ ¢nštrece tÕ ¢ndr£podon e„v t¾n fusik¾n ™leuqer…an. ¿ ¢pÕ Vindicíu tinÕv, Öv ín o„kšthv ™piboul¾n ¾somšnhn kat¦ tÁv rèmhv ™m»nuse kaˆ ºleuqerèqe dhmos…a ØpÕ rÕma…wn.

Il brano qui considerato fa parte della lunga proteoria che Teofilo, come si è già detto, aggiunse alla chiusa del § 3 di I. 1.5, plausibilmente al fine di rendere intellegibili agli studenti quei vaghi riferimenti all’età del manomesso, alla proprietà del manumissore ed ai modi di manummissione ivi contenuti e del tutto incomprensibili per chi non conosceva il regime della lex Aelia Sentia, non riportato nel ¸htÕn 123. Ebbene, dopo avere ricordato l’esistenza a Roma di un’età legittima ed un’età naturale, di una proprietà legittima ed una naturale e di una manumissione legittima ed una naturale, l’antecessor passa ad illustrare i modi legittimi di manumissione esistenti a Roma, vindicta, censu e testamento, e, a proposito della manumissio vindicta, fornisce un’interessante informazione, e cioè che essa era così chiamata o quia vindicabatur mancipium in naturalem libertatem o dal nome di Vindicio, lo schiavo che nel 509 a.C. denunciò la congiura contro la neonata repubblica e che dai Romani fu in premio pubblicamente manomesso 124.

123

V. retro, 38 ss. Del brano teofilino si è recentemente occupato S. SCIORTINO, Studi sulle liti di libertà nel diritto romano, Torino 2009, 55 ss., per il quale Teofilo confermerebbe che la manumissione di cui aveva beneficiato Vindicio avrebbe dato il nome alla manumissio vindicta per il fatto di essere intervenuta pubblicamente e non perché era stata pronunciata una vindicatio in libertatem. 124

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Come è stato esattamente notato 125, è assai probabile che la notizia qui riferita da Teofilo derivi da Livio, che la riferisce infatti in 2.5.10 126, dato che Pomponio, che pure ne dà conto nel liber singularis enchirridii, denomina in realtà lo schiavo Vindex e non Vindicius 127. Ebbene: io sinceramente non ho grandi difficoltà a credere che Teofilo possa avere attinto l’informazione direttamente da Livio. Che un Maestro del suo livello, imbevuto di dottrina classica ed appassionato cultore della storia possa avere letto in prima persona un classico come i libri ad Urbe condita di Livio dovevano ancora essere non mi sembra infatti un’idea particolarmente azzardata: anche perché, francamente, sono convinta che anche allora, come d’altronde oggi, un docente non avrebbe potuto in realtà insegnare la storia del diritto senza conoscere le vicende politiche, sociali, economiche che avevano determinato una certa disciplina degli istituti o ne avevano giustificato la trasformazione. Tuttavia, se proprio si preferisce pensare ad una fonte derivata, è con molta verosimiglianza Gaio il canale da cui Teofilo ha estratto l’informazione riferita nel luogo qui considerato. Come ho già avuto altrove modo di ricordare 128, infatti, due noti e discussi passi del De magistratibus di Giovanni Lido e che Lido dichiara estratti dal commen125

Cfr. P. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 54 ss. 126 Cfr. Liv. 2. 5. 10 Ille primum dicitur vindicta liberatus. Quidam vindictae quoque nomen tractum ab illo putant: Vindicio ipsi nomen fuisse. Post illud observatum, ut qui liberati essent, in civitate accepti viderentur. 127 Cfr. D. 1.2.2.24 (Pomp. l. sing. Ench.) … utpote, cum Brutus, qui primis Romae consul fuit, vindicias secundum libertatem dixisset in persona Vindicis Vitellorum servi, qui proditionis coniurationem iudicio suo detexisset … 128 Cfr. C. RUSSO RUGGERI, Gaio, la Parafrasi e le ‘tre anime’ di Teofilo, cit., 209 ss.

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tario di Gaio alle XII Tavole dimostrano senza ombra di dubbio che Gaio conosceva Livio e lo aveva utilizzato appunto nel suo commento al testo decemvirale 129. Una circostanza – questa – ulteriormente confermata peraltro dal confronto tra l’incipit della storia liviana e l’introduzione della suddetta opera gaiana, quel famoso ‘Facturus’ iniziale che certo non casualmente accomuna le due opere; oltre che dalla considerazione del senso della storia che connota gli scritti gaiani, storia di cui per molti sarebbe stato un profondo conoscitore 130, che rende ancora più credibile appunto l’utilizzazione da parte del giurista antoniniano dei libri liviani 131. Posta allora la probabile derivazione gaiana, si è ipotizzato da parte del De Francisci che la notizia sull’etimologia della manumissio vindicta sarebbe stata ricavata da Teofilo proprio dal commento gaiano alle XII Tavole, non 129 Si tratta precisamente di Lyd. mag. I. 26 (Caius igitur, iurisconsultus, in libro, quem inscripsit ad legem XII tabularum haec ait: «Cum autem aerarium populi romani auctius esse coepisset: ut essent qui ei praessent, costituti quaestores: dicti ab eo, quod conquirendae et conservandae pecuniae causa creati erant. Et quia de capite civis Romani non licebat magistratibus ius dicere; propterea constituebantur quaestores parricidii, quasi quaesitores iudicesque eorum, qui cives occidissent»); e I. 34 (Caius, jurisconsultus, post quaestorum magistratum de decemvirati secundum versionem explicat. «Magna autem perturbatione legum, quippe quae scriptae non essent, in repubblica e discordia magistratuum plebisque coorta, communi senatus populique voluntate omnes magistratus sublati, et decem tantum viris cura civitatis mandata est». Hi, teste historia, Athenas miserunt Spurium Postumium, Aulum Marcium et Publium Sulpicium: qui dum ibi per triennium commorantur, donec reliquas etiam Atheniensium leges decem tabulis collegissent; plebs decem viros rei publicae praefuturus creavit …). Su questi passi, nell’ottica qui considerata, v. P. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 55 ss. 130 Sul senso della storia che connota l’opera gaiana v. quanto già osservato retro, 27, alla nt. 61. 131 Cfr. C. RUSSO RUGGERI, Gaio, la Parafrasi e le ‘tre anime’ di Teofilo, cit., 211.

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consultato però direttamente dal Parafraste, ma attraverso le Res cottidianae, che a loro volta avrebbero attinto al suddetto materiale gaiano 132. Io ho già espresso in proposito la mia opinione ed avanzato una diversa proposta interpretativa 133: e cioè che l’informazione fornita in PT. 1.5.3 sia stata tratta dall’antecessor, più che dal commento alle XII Tavole, da quei tre libri de manumissionibus che Gaio specificamente dedicò alla materia e di cui ci sono pervenuti nei Digesta cinque frammenti, quattro dei quali inseriti peraltro in sedes materiae 134. Libri che Teofilo avrebbe letto o utilizzato durante gli anni di insegnamento precedenti la riforma giustinianea 135 o che ebbe modo di visionare in occasione della sua partecipazione ai lavori dei Digesta, dato che – come si è detto – i compilatori di sicuro consultarono anche quest’opera gaiana per la redazione dei titoli del libro quarantesimo dedicati appunto all’argomento. 132 P. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 59. 133 Cfr. C. RUSSO RUGGERI, Gaio, la Parafrasi e le ‘tre anime’ di Teofilo, cit., 211 ss. 134 Si tratta in specie di D. 27.10.17, D. 40.1.25, D. 40.2.25 e D. 40.9.29, tratti dal I libro Qui vindicta manumittere manumittique possint e D. 40.4.57, tratto dal III libro ad legem Aeliam Sentiam. 135 Si consideri, peraltro, che si trattava di un’opera sicuramente destinata alla didattica, come tutte le opere gaiane, anche se probabilmente ad una didattica superiore. Ed anzi, proprio l’esistenza di questo corso monografico sulle manumissioni consente forse di spiegare anche il silenzio che si rintraccia al riguardo nelle Institutiones di Gaio, il quale, almeno a voler condividere la (a mio avviso nel complesso convincente) spiegazione a suo tempo avanzata dal Quadrato (R. QUADRATO, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio. Omissioni e rinvii, Napoli 1979, 10 ss.) in riferimento a molte delle omissioni gaiane, non si soffermò in quella sede a descrivere le forme di manomissioni proprio perché queste ultime formavano oggetto, in realtà, di una trattazione autonoma, da approfondire con gli studenti in successivi, più avanzati corsi.

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Comunque sia, che la fonte sia stata direttamente l’opera liviana, secondo l’ipotesi a mio avviso più plausibile, i libri de manumissionibus di Gaio, come può anche pensarsi in alternativa, o il commento gaiano alle XII Tavole, come riteneva il De Francisci, è evidente comunque, per ciò che interessa in questa sede, che il Parafraste non si limitò a riferire agli studenti quelle etimologie che la lunga esperienza didattica condotta sulle Istituzioni gaiane gli aveva permesso di acquisire, ma impreziosì l’insegnamento con nuove spiegazioni etimologiche, frutto con buona probabilità di una più vasta e personale indagine condotta su varie fonti giuridiche e forse anche (perché no?) extragiuridiche. D’altronde, il sospetto che, per l’insegnamento che si apprestava a fornire ai Iustiniani novi nelle Institutiones e, ancor più concretamente, nella Parafrasi, l’antecessor abbia utilizzato non solo e non tanto le Istituzioni gaiane e le altre opere della letteratura isagogica citate da Giustiniano nel § 6 della costituzione Imperatoriam 136, ma tutti gli altri libri che nel corso di una vita dedicata allo studio ed alla scuola avevano contribuito a procurargli quella indubbia professionalità e quel prestigio di cui godeva nell’ambiente del tempo, cui vanno aggiunte le altre innumerevoli opere che dovette visionare in occasione dei lavori di compilazione del Codice e dei Digesta (alcune delle quali peraltro ormai sconosciute anche ai più eruditi giuristi dell’epoca e scovate da Triboniano negli archivi privati o in collezioni 136 Per la compilazione del manuale imperiale, infatti, come è noto, oltre alle Institutiones e alle Res cottidianae di Gaio, furono utilizzate anche le Istituzioni di Ulpiano, Fiorentino, Marciano e Paolo, oltre ad altre opere ancora (v. const. Imperatoriam § 6). Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano fondamentale rimane C. FERRINI, Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano, in BIDR, 13, 1901, 101 ss. (= Opere, II, Milano 1929, 307 ss.).

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private 137, credo sia più che legittimo e ha trovato, infatti, diverse conferme negli studi recenti 138. Da ultimo, ad esempio, e proprio in riferimento alle etimologie, un interessante riscontro a quanto qui ipotizzato si trova in un contributo di una giovane e brillante studiosa palermitana, Francesca Terranova, apparso sull’ultimo volume dei Subseciva groningana 139. L’autrice si occupa in specie di PT. 2.10 pr., in cui Teofilo, sulla scia del corrispondente passo delle Istituzioni 140, spiega agli studenti l’etimologia della parola testamentum, che deriverebbe da testatio mentis 141. Una etimologia – que137 Così v. Tanta 17 … antiquae autem sapientiae librorum copiam maxime Tribonianus vir excellentissinus praebuit, in quibus multi fuerant et ipsis eruditissinis hominibus incogniti, … 138 Tra questi cfr., ad esempio, A.S. SCARCELLA, The personality of Theophilus and the sources of the Paraphrase: a contribution, in Subseciva Groningana. Studies in Roman and Byzantine Law, IX, 2014, 121 ss. 139 Cfr. F. TERRANOVA, The Órov ½toi ™tumolog…a of testamentum and the problem of sources in the Paraphrase of Teophilus, in Subseciva Groningana. Studies in Roman and Byzantine Law, IX, 2014, 243 ss. 140 I. 2.10 pr. Testamentum ex eo appellatur, quod testatio mentis est. Il brano istituzionale, come si vede, è molto più conciso del corrispondente passo della Parafrasi, rispetto al quale peraltro manca sia la precisazione iniziale sulla necessità di indicare preliminarmente l’etimologia della parola, sia la spiegazione finale offerta dall’antecessor: su ciò v. F. TERRANOVA, The Órov ½toi ™tumolog…a of testamentum, cit., 248 s. 141 PT. 2.10 pr. PrÕ tîn ¥llwn ¢nagka‹on e„pe„n tÕn tÁv diaq»khv Óron ½toi ™tumolog…an. ¹ diaq»kh par¦ ‘Rwma…oiv lšgetai TESTAMENNTUM, ™nteàqen dexamšnh t¾n ™tumolog…an QUOD TESTATIO MENTIS EST ™peid¾ martur…an œcei tÁv toà teleut»santov diano…av. Murison: First of all, it is necessary to state definition or etymology of testamentum, the Roman word for a will. Testamentum is so called quod testatio mentis est (because it is a solemn declaration of intention), for it contains a solemn declaration of the intention of the deceased. Ferrini: In primis proponenda est definitio sive ™tumolog…an. Testamentum dicitur apud Romanos inde vocis originem ducens quod testatio mentis sit, testimonium enim defuncti voluntatis in se continet.

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sta – che giustamente la Terranova ritiene con buona probabilità derivare da Ulpiano 142, che a sua volta però plausibilmente l’avrebbe mutuata da Servio Sulpicio Rufo, al quale Aulo Gellio infatti nelle Noctes Atticae rimproverava di avere sostenuto (forse neanche per primo!) che la parola testamentum fosse composta da due termini, mens e contestatio: suggerendo così un’interpretazione che, benché del tutto falsa 143, non appariva tuttavia – conclude l’antiquario – né fuori luogo né sconveniente quasi mentis quaedam in hoc vucabolo significatio 144. Ebbene, proprio confrontando queste considerazioni finali fatte da Gellio con la chiusa di PT. 2.10 pr., laddove Teofilo aggiunge che ™peid¾ martur…an œcei tÁv toà teleut»santov diano…av, e cioè che il testamento contiene la testimonianza della volontà del defunto, è forte la suggestione – giustamente suggerita, sia pure con cautela, dall’autrice – di pensare che l’antecessor potesse aver letto le riflessioni di Gellio ed avere attinto dunque proprio dalle Noctes Atticae, consultate prima manu, l’etimologia risalen142

Cfr. Tit. Ulp. 20.1 Testamentum est mentis nostrae iusta contestatio, in id solempnitewr facta, ut post mortem nostram valeat. 143 Che mentum sia una forma terminale che non ha nulla a che fare con la mens è d’altronde comunemente riconosciuto: tra gli ultimi, v. M. MIGLIETTA, Giurisprudenza romana tardorepubblicana e formazione della regula iuris, in SCDR, 25, 2012, 212 s. nt. 47. 144 V. Gell. 7. 12. 1-4 Servius Sulpicius iureconsultus, vir aetatis suae doctissimus, in libro de sacris detestandis secundo, qua ratione adductus ‘testamentum’ verbum esse scripserit, non reperio. Nam compositum esse dixit a mente contestatione. Quid igitur ‘calciamentum’, quid ‘paludamentum’, quid ‘pavimentum’, quid ‘vestimentum’, quid alia mille per huiuscemodi formam producta, etiamne ista omnia composita dicemus? Obrepisse autem videtur Servio, vel si quis est, qui id prior dixit, falsa quidem, sed non abhorrens neque inconcinna quasi mentis quaedam in hoc vocabulo significatio rell. Sul brano cfr., da ultimo, F. TERRANOVA, The Órov ½toi ™tumolog…a of testamentum, cit., 252 ss. ed ivi precedente letteratura.

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te a Servio accolta in I. e PT. 2.10 pr. 145. In alternativa, non si può escludere, però, che Teofilo possa avere letto personalmente l’opinione espressa nei libri de sacris detestandis da Servio, magari traendola da una di quelle due epitomi dei Digesta di Alfeno Varo che contengono in gran parte il pensiero serviano e che i compilatori utilizzarono in luogo dell’originale ricordato nell’Index Florantinus 146. Comunque sia, anche da un diverso punto di vista il brano della Parafrasi che stiamo qui considerando contiene spunti di estremo interesse ai nostri fini. Mi riferisco a quella avvertenza iniziale, non contenuta nel ¸htÕn, con cui Teofilo si preoccupa di precisare ai suoi studenti come sia necessario, prima di ogni altra cosa, fornire la definizione o l’etimologia della parola testamentum. Una priorità – questa – identica a quella che, nell’introdurre il discorso sui fedecommessi in PT. 2.23.1, riservava, come si è visto 147, alla trattazione della loro origine e che la dice lunga sul valore che sia la storia degli istituti che l’etimologia delle parole avevano nell’ambito del suo insegnamento e sulla metodologia cui l’antecessor si ispirava. Una metodologia che forse non a torto la Terranova, in specifico riferimento alle etimologie, ipotizza possa aver desunto e recepito proprio da Ulpiano 148, e in particolare da quel frammento delle Insitutiones ulpianee (sulle quali pure – non si dimentichi – fu condotto il nuovo manuale) che i compilato-

145

Così v. F. TERRANOVA, The Órov ½toi ™tumolog…a of testamentum, cit., 264 s. 146 Su ciò v., per tutti, M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli 1984, 91. 147 Cfr. retro, 34. 148 F. TERRANOVA, The Órov ½toi ™tumolog…a of testamentum, cit., 254 ss.

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ri collocarono peraltro in apertura del primo titolo del primo libro dei Digesta, e in cui il giurista avverte – come è noto – in via preliminare che iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat 149. Un’ulteriore testimonianza che sembrerebbe avvalorare l’idea dell’utilizzazione da parte di Teofilo di una più vasta varietà di fonti, forse anche extragiuridiche, è costituita dal passo delle Istituzioni e dal sostanzialmente corrispondente passo della Parafrasi in cui il Nostro fornisce l’etimologia del termine postliminium. Si leggano, infatti: I. 1.12.5 … dictum est autem postliminium a limine et post, ut eum, qui ab hostibus captus in fines nostros postea pervenit, postliminio reversum recte dicimus. Nam limina sicut in dominibus finem quendam faciunt, sic et imperii finem limen esse veteres voluerunt. Hinc et limes dictus est quasi finis quidam et terminus. Ab eo postliminium dictum, quia eodem limine revertebatur, quo amissus erat. Sed et qui victis hostibus recuperatur, postliminio rediisse existimatur. PT. 1.12.5 … e‡rhtai d\e POSTLIMINION A LIMINE ET POST, toutšstin ¢pÕ toà oÙdoà kaˆ toà met¦ taàta. tÕn g¦r ØpÕ tîn polem…wn lhfqšnta e„v dš toÝv Órouv toÝv `RwmaikoÝv met¦ taàta paragenÒmenon kalîv lšgomen Øpostršfein di¦ toà POSTLIMINIU. kaˆ g¦r oƒ oÙdoˆ ésper ™n ta‹v o„k…aiv tšlov e„sˆn aÙtîn tîn o‡kwn, oÞtw kaˆ toà `Rwmaikoà kr£touv oÙdÕn ½toi Óron oƒ palaioˆ ¹boul»qhsan eŒnai. ™nteàqen kaˆ LIMEN ™lšcqh, æsaneˆ tšlov ti kaˆ Órov. ™nteàqen kaˆ POSTLIMINION çnom£sqh, ™peid¾ di¦ toà aÙtoà oÙdoà Ùpostršfei di’oá kaˆ ¢pèleto lhfqeˆv ÙpÕ tîn polem…wn. oÙ mÒnon d\e Ð diafugën

149

D. 1.1.1 pr. Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat. Est autem a iustitiam appellatum: nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi.

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toÝv polem…ouv À Øp’aÙtîn ¢feqe…v œcei tÕ POSTLIMIÕll¢ g¦r kaˆ Ð nikhqšntwn tîn polem…wn Øf’¹mîn ¢nalhfqe…v 150.

NION,

Ebbene, proprio a proposito dell’etimologia della parola postliminium, ci è pervenuta una interessante testimonianza di Cicerone. Si legga, infatti, Cic. Top. 8.36: Multa igitur in disputando notatione eliciuntur ex verbo ut cum quaeritur postliminium quid sit (non dico, quae sint postliminii; nam id caderet in partitionem, quae talis est: postliminio redeunt haec, homo, navis, mulus clitellarius, wquus, equa quae frena recipere solet); sed cum ipsius postliminii vis quaeritur et verbum ipsum notatur. In quo Servius noster, ut opinior, nihil putat esse notandum, nisi post, et liminium illud productionem escaevola autem, sse verbi vult, ut finitimo, legitimo, aeditimo, non plus esse timum, quam in meditullio tullium. Scaevola autem, P. filius, iunctum putat esse verbum, ut sit in eo et post et limen; ut quae a nobis alienata, cum ad hostem pervenerint, ex suo tamquem limine exierint, hinc ea cum redierint post ad idem limen, postliminio redisse videantur 151.

150 Murison: Now postliminy is so called a limine et post, that is, from the threshold (limen) and afterwards (post). For we properly say that a man prisoner by the enemy that a man returns. Buti t is not only a man that has escaped from the enemy or has been let go by them that enjoys postliminy, but also a man that is recovered by us on a victory over the enemy. Ferrini: dictum est autem postliminium a limine et post. Nam eum qui ab hostibus caputs in fines romanorum postea pervenit recte dicimus postliminium reversus. Limina enim sicut in aedibus finem quendam domus faciunt, ita romani imperii finem veteres esse voluerunt. Hinc et limen dictus est, quasi finis quidam et teminus. Ab eo postliminium dictum, quia eodem limine revertebatur, quo amissus erat qui ab hostibus captus fuerat. Non solum vero qui hostes fugerit vel ab eis fuerit dimissus postliminio utitur, set is quoque, qui victis hostibus, a nobis reciperatur. 151 Sul passo ciceroniano, nell’ottica qui considerata, cfr., per tutti, L. CECI, Le etimologie dei giureconsulti romani, cit., 70 e 81 e, tra i più recen-

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Come risulta chiaramente dalle affermazioni di Cicerone, dunque, Servio Sulpicio Rufo riteneva che il termine postliminium sarebbe derivato da post, mentre liminium sarebbe stata solo una produzione terminale della parola, come finitimo, legitimo, etc. Diversa sarebbe stata invece, sempre secondo Cicerone, l’opinione espressa al riguardo da Quinto Mucio Scevola, per il quale la voce postliminium era composta da due componenti verbali, post e limen; ut quae a nobis alienata, cum ad hostem pervenerint, ex suo tamquem limine exierint, hinc ea cum redierint post ad idem limen, postliminio redisse videantur: un’opinione che Cicerone sembra in effetti preferire, come dimostra proprio la finale esemplificazione fornita dall’oratore 152. Ora, non c’è dubbio che l’etimologia riportata da Teofilo nelle Istituzioni e nella Parafrasi corrisponda sostanzialmente a quella sostenuta da Scevola, che considerava postliminium un verbum iunctum, derivante da post e limen: anche se – è stato giustamente segnalato 153 – l’ordine delle voci che la compongono appare nelle fonti bizantine invertita rispetto a quello indicato da Scevola: e limine et post. Ma allora, posta la probabile origine muciana dell’etimologia di postliminium insegnata dall’antecessor ai suoi studenti nelle Institutiones e nella Parafrasi, resta da chieti, M.F. CURSI, La struttura del ‘postliminium’ nella Repubblica e nel principato, Napoli 1996, 106 s. 152 In tal senso v. M.F. CURSI, La struttura del ‘postliminium’ nella Repubblica e nel principato, cit., 106 nt. 5. 153 Cfr. M.F. CURSI, La struttura del ‘postliminium’ nella Repubblica e nel principato, cit., 107, per la quale i compilatori avrebbero voluto così facendo confermare il valore temporale di post. L’autrice sottolinea inoltre l’interessante parallelo tra il limen domestico e il limes dell’impero contenuto nel brano istituzionale.

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dersi: da dove il Maestro bizantino l’ha tratta? Le risposte ipotizzabili sono tante: anche perché Cicerone non specifica l’opera in cui Quinto Mucio Scevola avrebbe espresso l’opinione ivi riferita. Una prima ipotesi è che essa fosse contenuta in quel liber singularis orwn che appare citato nell’Index Florentinus e del quale ci sono pervenuti nel Digesto sei frammenti 154: ipotesi non inverosimile, dato che si tratta sostanzialmente di un libro di definizioni 155, all’interno del quale non è improbabile dunque che il giurista possa avere specificato anche qualche etimologia. Se così è, si potrebbe pensare allora che Teofilo abbia tratto l’informazione prima manu proprio dalla suddetta opera muciana, che, come membro della commissione, aveva avuto modo di consultare. Può darsi invece che, come proponeva il Lenel 156, l’etimologia della parola postliminium sia stata specificata da Quinto Mucio in uno di quei libri XVIII iuris civilis che non sono stati direttamente utilizzati nei Digesta, ma che conosciamo soprattutto attraverso il commentario ad Q. Mucium di Pomponio e altri libri iuris civilis, oltre che da ulteriori varie fonti 157: un’idea – questa – verso la quale spinge in effetti la considerazione che in essi Quinto Mucio si occupò certamente anche del postliminium, come dimostrano soprattutto i numerosi passi del trentasettesimo libro del commentario pomponiano ad Q. Mucium dedica-

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Cfr. O. LENEL, Palingenesia, I, Leipzig 1889, 762 s., Q. Mucius 45-50. Per tutti, v. M. BRETONE, Storia del diritto romano8, Bari 2001, 185. 156 O. LENEL, Palingenesia, I, cit., 762, Q. Mucius 42, per il quale appunto il giurista avrebbe espresso l’opinione che stiamo qui considerando proprio nei libri iuris civilis. 157 Cfr. O. LENEL, Palingenesia, I, cit., 757 ss., Q. Mucius 1-44. 155

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ti all’argomento 158. Nel qual caso la congettura più probabile è che Teofilo possa aver appreso l’idea muciana proprio dall’opera di Pomponio, anch’essa letta plausibilmente in occasione della compilazione dei Digesta. Per finire, non si può a priori escludere a mio avviso neanche l’ipotesi che l’antecessor possa avere letto personalmente l’opera ciceroniana, desumendo direttamente da essa l’etimologia di postliminium riferita dall’oratore. E in questo senso un non trascurabile indizio potrebbe forse provenire dall’osservazione della sostanziale assonanza che anche qui, come nel caso dell’etimologia di testamentum, si può riscontrare tra la esemplificazione finale fornita da Cicerone (ut quae a nobis alienata, cum ad hostem pervenerint, ex suo tamquem limine exierint, hinc ea cum redierint post ad idem limen, postliminio redisse videantur) e la spiegazione offerta nelle Istituzioni e nella Parafrasi (ab eo postliminium dictum, quia eodem limine revertebatur, quo amissus erat), quell’immagine cioè del ritorno dallo stesso confine dal quale si era partiti che accomuna le nostre fonti. Di più non credo sinceramente si possa dire al riguardo. Comunque sia, ciò che è certo, però, è che anche in questo caso l’insegnamento di Teofilo, quale fornito dall’antecessor nelle Istituzioni e nella Parafrasi, tradisce senza ombra di dubbio lo spessore culturale che lo pervade ed evidenzia chiaramente una personale conoscenza delle fonti, giuridiche e forse anche extragiuridiche, che va ben oltre la letteratura isagogica. La qual cosa, non mi stanco di ribadire, non può d’altronde destare alcuna meraviglia considerata la lunga e prestigiosa carriera di insegnamento e di studi, condotti proprio sui testi classici, che il profes158 Cfr. D. 49.15.3, D. 49.15.5 e D. 50.7.18; ma v. anche D. 49.15.4 (Mod. 3 reg.).

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sore di Costantinopoli aveva alle spalle, e l’opportunità, offertagli dalla partecipazione alle commissioni incaricate di redigere il Codex, i Digesta e le Institutiones, di visionare e leggere numerose altre opere, specie giurisprudenziali 159: molte delle quali peraltro – non si dimentichi – erano all’epoca ormai sconosciute anche ai più eruditi e furono portate a conoscenza e messe a disposizione dei compilatori da Triboniano, che le aveva da tempo privatamente collezionate 160. Ciò che rende a mio avviso del tutto comprensibile e perfettamente credibile il fatto che la cultura pregressa di Teofilo e, ancor più, le innumerevoli informazioni giuridiche, storiche ed etimologiche acquisite in seguito alle tante letture di recente effettuate specie per la compilazione dei Digesta, anche se non concretamente utilizzate per la redazione dell’opera, potessero comunque riemergere in sede di insegnamento ed essere messe a profitto a beneficio dei giovani studenti bizantini allo scopo di 159

Cfr. C. RUSSO RUGGERI, Gaio, la Parafrasi e le ‘tre anime’ di Teofilo, cit., 197 ss. 160 V. Tanta 17 … antiquae autem sapientiae librorum copiam maxime Tribonianus vir excellentissinus praebuit, in quibus multi fuerant et ipsis eruditissinis hominibus incogniti, … Non tutti però, come è noto, ritengono che i libri messi a disposizione da Triboniano provenissero dalla sua biblioteca privata: H. KRÜGER, Die herstellung der Digesten Justinians und der Gang der Exzerption, Münter im Westfalen 1922, 3, ad esempio, pensava che si trattasse dei libri della facoltà di diritto di Costantinopoli, mentre A. CENDERELLI, Digesto e Predigesti, Riflessioni e ipotesi di ricerca, Milano 1983, 50 s., ipotizzava che fossero i libri scoperti negli archivi del Palazzo che Triboniano frequentava come quaestor e come membro della commissione del I Codice. Da come si esprime Giustiniano in Tanta 17, io sinceramente preferisco credere che i libri forniti da Triboniano fossero proprio i libri dallo stesso privatamente collezionati. Tuttavia, per quanto interessa ai fini qui considerati, anche ammesso che il quaestor si fosse solo limitato a procurare i libri degli archivi o della facoltà di diritto, ciò non sminuirebbe di molto il valore della testimonianza, giacché rimarrebbe comunque confermato il dato che era stato proprio Triboniano a rintracciare ed a fornire alla commissione la maggior parte degli scritti utilizzati poi per i Digesta.

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completare e rendere ancora più intellegibile l’esposizione degli istituti giuridici fatta nelle Institutiones e, soprattutto, nella Parafrasi.

10. In conclusione, credo sia opportuno accennare, sia pure in estrema sintesi, anche alla struttura linguistica ed agli strumenti retorici e didattici attraverso i quali l’antecessor costantinopoliano, sulla scia del metodo di insegnamento ormai consolidatosi nelle scuole del tempo, riuscì a realizzare quell’opera di trasposizione linguistica e di recupero culturale insieme che è appunto fondamentalmente la Parafrasi. Come è noto, da tempo i linguisti, e tra questi in particolare Giuseppina Matino 161, hanno segnalato «la vitalità» dell’opera, considerandola un documento di eccezionale importanza non solo per gli studi di diritto romano, ma anche «per la storia della lingua e della società tardoantiche nei territori dell’Impero orientale» 162. L’indagine filologica, ed in specie i nuovi studi di sociolinguistica 163, hanno infatti evidenziato nell’opera una struttura linguistica e stilistica composita volutamente stratificata, che dimostra chiaramente la cosciente preoccupazio161 L’autrice che ha di recente più di altri studiato la struttura linguistica delle opere dei commentatori bizantini, ed in specie della Parafrasi di Teofilo: cfr. G. MATINO, Lingua e pubblico nel tardo antico. Ricerche sul greco letterario dei secoli IV-VI, Napoli 1986; Problemi di natura letteraria e di struttura linguistica nella ‘Parafrasi’ delle Institutiones di Teofilo Antecessor, cit., 283 ss.; Lingua e letteratura nella produzione giuridica bizantina, cit., 80 ss. 162 Così cfr. G. MATINO, Problemi di natura letteraria e di struttura linguistica nella ‘Parafrasi’ delle Institutiones di Teofilo Antecessor, cit., 310. 163 Su cui fondamentale resta G. BERRUTO, La sociolinguistica, Bologna 1979.

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ne del Maestro bizantino di adeguare il linguaggio in funzione del messaggio che di volta in volta si proponeva di trasmettere ai suoi studenti e del fine che intendeva raggiungere 164. Va tenuto presente, inoltre, che le diverse forme espressive utilizzate dal Parafraste nel suo lavoro di traduzione e commento del dettato primigenio risentono a loro volta della veste retorica e degli abbellimenti linguistici di cui l’autore ammanta il discorso: ed è noto il ruolo di fondamentale importanza che la retorica svolse nell’insegnamento e nella produzione letteraria della società tardoantica. Proprio l’accorta dosatura dei mezzi retorici, usualmente impiegati «per impressionare il senso estetico del lettore e richiamare l’attenzione su una particolare idea», appare infatti lo strumento più efficace di cui l’antecessor si servì funzionalmente a fini didattici per assicurarsi che ai suoi lettori giungessero i messaggi che si proponeva di tramettere loro. E così, ad esempio, l’intento encomiastico e propagandistico traspare chiaramente dalla struttura del discorso nei numerosi brani di chiara impronta panegiristica in cui si inneggia alla figura o all’opera dell’imperatore, che si caratterizzano per una più accentuata retorizzazione, con esaltazione ed amplificazione di concetti, precisazioni, puntualizzazioni, etc. Un linguaggio più semplice, colloquiale, quasi simile al linguaggio parlato, è usato invece nelle numerose proteorie introdotte al fine di effettuare una preliminare chiarificazione dell’istituto trattato e nelle tante paragrafai, nelle quali si riscontra peraltro il frequente ricorso ad interrogative, domande e risposte, finti dialoghi, bruschi passaggi dal discorso diretto a quello indiretto: tutti espedienti – 164 G. MATINO, Problemi di natura letteraria e di struttura linguistica nella ‘Parafrasi’ delle Institutiones di Teofilo Antecessor, cit., 290 ss.

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questi – volti a vivacizzare (proprio attraverso il dislivello stilistico con essi volutamente realizzato) anche le parti più tecniche del corso ed a catturare in tal modo l’interesse e l’attenzione degli studenti. Sempre per ciò che concerne l’aspetto linguistico, è stata sottolineata anche una certa disinvoltura da parte di Teofilo nell’uso della sintassi, che sarebbe a sua volta espressione di una concezione innovatrice, moderna, delle norme classiche, «reinterpretate secondo le nuove esigenze strumentali e propagandistiche»: alludo, ad esempio, alla libertà nella costruzione dei verbi e nell’uso dei tempi e dei modi che si riscontra nella Parafrasi. Quanto al lessico teofilino, esso si caratterizza soprattutto per il frequente ricorso a vocaboli tratti dall’uso corrente, oltre che – ovviamente – a termini propri del patrimonio giuridico: cosa che, d’altronde, non può destare meraviglia, considerata la derivazione dell’opera dall’insegnamento svolto in aula dall’antecessor. E, a proposito del lessico, non si può non ricordare soprattutto la massiccia e costante presenza nel testo di un elevatissimo numero di termini e di espressioni giuridiche latini o di parole latine con desinenza greca, secondo un uso non infrequente nel VI e nel VII secolo d.C. 165. Come è noto, infatti, l’inserimento in un testo greco di termini giuridici latini era uno degli espedienti a cui i bizantini del tempo facevano ricorso tutte le volte in cui si trovavano a dover trattare una questione giuridica secondo il diritto romano: problema non di facile soluzione, dato che la lingua greca non aveva un adeguato corrispondente patrimonio tecnico-giuridico e non sempre era possibile trovare dunque inequivoche equivalenze tra i termini giuridici pro165 Cfr. J.H.A. LOKIN-ROOS MEIJERING-B.H. STOLTE-N. VAN DER WAL, Theophili Antecessoris Paraphrasis Institutionum, cit., XXIII.

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pri delle due lingue. È dunque fondamentalmente per questa ragione pratica che, più che ricorrere alla traslitterazione o alla traduzione in greco del vocabolo latino, si preferiva spesso lasciare il vocabolo nella sua lingua originaria 166. Ora, non c’è dubbio che questo è certamente anche uno dei motivi che giustificano l’uso dei termini giuridici latini da parte di Teofilo. Tuttavia, l’elevatissima percentuale di latinismi presenti nel lessico giuridico teofilino rispetto ad altre opere del suo tempo induce a mio avviso a sospettare che, oltre a questa ragione di ordine eminentemente pratico, anche – ed anzi forse direi soprattutto – altro possa aver indirizzato l’antecessor costantinopolitano verso questa scelta. Una scelta che a mio avviso nasconde infatti anche qui la precisa volontà di non disperdere, a beneficio degli studenti bizantini, la conoscenza di quelle formulazioni originarie e di quell’ineguagliabile vocabolario linguistico tecnico che i romani erano riusciti a creare in campo giuridico: di consentire cioè ai giovani futuri giuristi del VI secolo di acquisire non solo il patrimonio delle idee e delle esperienze in cui aveva eccelso la scienza giuridica romana, ma anche quel tecnicismo terminologico che l’aveva caratterizzata e che ancora oggi impronta di sé il linguaggio giuridico moderno. E sintomatica in questo senso credo possa apparire, a titolo esemplificativo, già la lettura del titolo dedicato alle fonti del diritto, in cui i nomi degli organi e degli atti che producevano diritto sono tutti fedelmente riportati in lingua latina (lex, plebiscita, senatus consulta, decretum, edictum, responsa prudentium, sententia, opinio, magistratus populi romani, praetor urbanus e peregrinus, aediles curules, iuris consulti, etc.), anche quando – si badi bene – non sarebbero mancati termini cor166 Cfr., per tutti, C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico, cit., 74 ss.

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rispondenti per la traduzione greca. Ma anche l’uso costante nel testo dei termini propri della lingua giuridica latina (come ad esempio adgnatus, cognatus, emancipatus, consobrinus, postumus, legitimus, testamentarius, familiae emptor, necessarius, procurator, furti concepti, oblati, prohibiti, non exhibiti, manifestum, nec manifestum, etc.), e delle sue espressioni tecniche più tipiche (come in fraudem creditoris, vitae necisque potestas, cum o sine tutoris auctoritatis, deportatio in insulam, capitis deminutio, rei publicae causa, mortis causa, inter vivos, improbus intestabilisque, exheredationa inter ceteros o nominatim, damni infecti, in dando, in facendo, si navis ex Asia venerit, praescriptis verbis, etc.) credo manifesti apertamente l’intenzione dell’antecessor costantinopoliano di arricchire la cultura giuridica dei suoi discenti anche attraverso la conoscenza di quel patrimonio di parole e di formulazioni proprie del linguaggio giuridico che aveva anch’esso non poco contribuito all’affermazione della grandezza di Roma nel campo del diritto 167.

167 Nella stessa ottica, d’altronde, può forse spiegarsi anche la circostanza che siano state lasciate rigorosamente in latino tutte le rubriche dei titoli dei quattro libri: un fatto – questo – probabilmente finalizzato soprattutto ad agevolare lo studente nell’individuazione della corrispondenza con i titoli del manuale, ma che non può escludersi tendesse anche a favorire la memorizzazione a fini culturali di quelle basilari espressioni giuridiche latine.

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II THEOPHILUS AND THE STUDENT PUBLISHER: A RESOLVED ISSUE? * 1. The invitation I received from my colleagues in Groningen and from Giuseppe Falcone to take part in this research project was an opportunity to return to a topic, the Paraphrase of Theophilus, on which for some time I have been nurturing “unhealthy” ideas, or at least, ideas which are against the general trend, starting with those regarding the magna quaestio, in other words the question of the origin and formation of the text of the Paraphrase. This is a problem whose definition is clearly preliminary to any other, because it is evident that any further assessment, such as for example that regarding the controversial relationship between the Paraphrase and the Institutes of Gaius, may be take different forms depending on whether we consider that it may be directly or indirectly attributed to that vir illustris magister iurisque peritus 1 to whom the * In Subseciva Groningana. Studies in Roman and Byzantine Law, IX, 2014, 99 ss. 1 This is how Justinian referred to Theophilus in § 9 of the constitution Tanta. Const. Haec quae necessario (§ 1) referred to him as vir clarissimus comes sacrii nostri consistorii et iuris in hac alma urbe doctor, with an allusion also to the honorary post of member of the consistorium held by the Master; while in const. Summa (§ 2) he is defined as vir illustris ex magistro, since he held the honorary post of magister officiorum. On the position

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Emperor had entrusted the teaching of law, mainly carried out in fact precisely on the Institutes of Gaius, and whom he then called to be a member of the commissions appointed to draft the first edition of the Code, the Digesta and the new institutional manual 2; or if we instead think that this is an adaptation (implemented by an unknown hand) of the new Latin text of the Institutes of a work in Greek on Gaius deriving from the Berytus scholastic tradition, as Ferrini thought 3; or, for example, that it was the work of a successor of Theophilus who had continued the course in a different way, as suggested most recently for example by Goria 4. Now, as is known, it was above all Ferrini who forcefully denied that the Greek Paraphrase of Justinian’s Instiof the antecessor as it emerges from the introductory constitutions of the Corpus iuris, cf. the recent J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione. Dalla legislazione di Giustiniano ai Basilica cum scholiis, in J.H.A. Lokin and B. H. Stolte, [ed.] Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici, Pavia 2011, 122 ff.: but, more specifically, on the career of Theophilus, cf. J.H.A. LOKIN, Die Karriere des Theophilus Antecessor. Rang und Titel im Zeitalter Justinians, SG I (1984) 43 ff. and, most recently, the preface to the new edition of the Paraphrase edited by J.H.A. Lokin, Roos Meijering, B.H. Stolte and N. Van der Wal, Theophili Antecessoris Paraphrasis Institutionum, Groningen 2010, XXI, from which the work will henceforth be quoted. 2 According to J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, (note 1, above), 123, moreover, the fact that in the const. Tanta, in addition to stressing the titles with which he already qualified Theophilus in the other constitutions, Justinian has added laudabiter optimum legum gubernationem extendentem, would demonstrate that the antecessor had then been appointed to be «responsabile dell’insegnamento giuridico a Costantinopoli». 3 Among the various contributions collected in the 1st volume of the Opere, Milano 1929, cf., in particular, C. FERRINI, Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni, 105 ff. [= AG 37 (1886) 353 ff.]. 4 Cf. F. GORIA, Contardo Ferrini e il diritto bizantino, in D. Mantovani, [ed.], Contardo Ferrini nel I centenario della morte. Fede, vita universitaria e studio dei diritti antichi alla fine del XIX secolo, Milano 2003, 127.

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tutes could be attributed to Theophilus. Apart from the presence of some contradictions between the Paraphrase and the Index of the Digesta also attributed to Theophilus 5 (contradictions that scholarship however over time has contributed to clarifying 6, the many errors present in the work that would seem to be incompatible with the reputation and authority that surrounded the antecessor 7 and the short time taken to complete the work, the main argument adopted by the famous Roman scholar for contesting Theophilus’authorship of the work is that the codes of the Paraphrase which name Theophilus as the author of the text are all later than the 11th century, while the earlier references merely quote the Paraphrase without however never naming its author 8. This is a conviction that Ferrini obstinately maintained even after the finding of two scholia to the Paris manuscript 1364 dating back to the mid6th century 9, scholia which attributed without hesitation 5

On which, cf. C. FERRINI, Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni, (note 3 above), 118 ff. 6 For example, regarding the inclusion of the aurigae among the infamous in the Paraphrase, contradicted by Sch.ad 2. 28. 1, cf. G. NOCERA, Saggi esegetici sulla Parafrasi di Teofilo, in RISG, n.s. XII (1937), 39 f. and, more recently, J.H.A. LOKIN, Theophilus Antecessor, in TRG 44 (1976) 340. 7 Cf. in particular C. FERRINI, Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni, (note 3 above), 117 and notes 2 and 3. 8 In particular, both Stefano and the Epitome of Prochirus use passages from the Paraphrase without however quoting either the work or the author, but simply stating them to be excerpts from the Institutiones: see C. FERRINI, ‘Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni’, (note 3 above), 112 ff. 9 This dating is acknowledged by C. FERRINI himself, Scolii inediti allo Pseudo-Teofilo contenuti nel manoscritto Gr. Par. 1364, Memorie Ist. Lomb. III s., IX (1886) 13 ff. [= Opere I, (note 3 above), 140 ff.], who however, at first, had instead maintained that they were much more recent and con-

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the Paraphrase to Theophilus, and in which, moreover, the identification of Theophilus with the antecessor from Constantinople could not be in any way doubted, given the reference it contains to the Index of the Digesta 10. Moreover, apart from the sensational refutation that these scholia represented for the very premise of Ferrini’s theory, also the circumstance whereby in the Byzantine tradition passages from the Paraphrase were quoted without indicating the author does not seem to me in itself to be a crucial argument for excluding the attribution of the work to Theophilus. The fact that contemporaries or in any case the Byzantine legal school referred mainly to the Greek Institutiones without mentioning the name of Theophilus could in fact be explained in my opinion by the fact that this must have been a unique work in its time and in its genre. This was therefore a work that, by virtue of this uniqueness, was so universally known among those working in the law that it was considered almost superfluous to specify its authorship. In other words, the situation was like that of the Divine Comedy for Italians, who are used to referring to it without necessarily specifying its author, since the link between the Divine Comedy and Dante is so strong that it does not require further specification: the Divine comedy is and may not be other than Dante’s. And in the same way, perhaps, Theophilus was in the Byzantine scholastic tradition equally identified with his work, temporary with the Basilici [cf. Prolegomeni, in Opere I, (note 3 above), 59]. 10 This is in particular Sch. ad 2. 1. 8 ™kpoioàsi d taàta oƒ o„konÒi kaˆ oƒ ™p…skopoi, êv fhsi qeÒfilov; and, above all, ad 2. 18. 1 oÚk ¢kribîv Ð qeÒfilov toÝv ¹niÒcouv ¢t…mouv ™fh ... kaˆ aÙtÕv g¦r Ð qeÒfilov ™n tù o„ke…ù indici tîn prètwn oÙ lšgei toÝv ¹niÒcouv a„scr¦ ½ ¨tima prÒswpa.

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in the sense that the Paraphrase was and could only be by Theophilus, whether his authorship was specified or not 11. To this we can add that the consideration of the content of the scholia on which Ferrini bases his opinion makes the omission seem to be entirely natural, in the sense that it is not clear for example why Stephanus or Prochirus 12, in quoting passages of the Paraphrase on the most varied topics, declaring them to be excerpts of the Institutiones (on some occasions even word for word, as in the case of PT 4. 4. 8 on the lex Cornelia de iniuriis, in fact referred to literally by Stefano 13), should have every time also mentioned the author. And moreover, the very fact that, in citing sic et simpliciter the Institutiones, there was usually an allusion to the Paraphrase, shows the fame that this work must have achieved among the contemporaries, so much so as to have in fact become the “prototype” of the Institutes, even more than the Latin text. And in this perspective is the supposition most recently stressed by Goria not perhaps unlikely, whereby the Greek scholia on the Paraphrase «potrebbero far concludere che già nel secolo VI il testo della Parafrasi fosse utilizzato didatticamente in sostituzione del dettato originale delle istituzioni» 14. 11

In this sense, cf. the observation already made in Teofilo e la spes generandi, in Iura 58 (2010) 172, n. 12. 12 For the scholia of Stephanus and Prochirus quoted in by way of example by the author, cf. C. FERRINI, Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni, (note 3 above), 113 ff. 13 V. `Ermhne…a Bas. Hb. I, 381, on which C. FERRINI, Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni, (note 3 above), 114. 14 Cf. F. GORIA, Contardo Ferrini e il diritto bizantino, (note 4 above), 127; but that the Paraphrase had become «il referente di qualsiasi citazione» of the Justinian text is underlined also by G. CAVALLO, La circolazione di testi giuridici in lingua greca nel mezzogiorno medioevale, in M. Bellomo, [ed.], Scuole di diritto e società nel mezzogiorno medioevale d’Italia, Catania 1987, 114 and by E. GOMEZ ROYO, Introducción al derecho bizantino, in

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Whatever the case, after the discovery of the scholia to the Paris manuscript and the scaling-down over time of the other arguments as a result of scholarship, we can say that today (apart from some rare, albeit authoritative, exceptions 15 nobody in fact any longer believes in the existence of a Pseudo-Theophilus, who would have adapted on the imperial manual a comment in Greek of Gaius drafted in the school of Berytus, as hypothesised by Ferrini 16. Seminarios Complutenses de derecho romano, VIII (1996), 172, which observes that the prestige of Theophilus as a teacher was such that «no sólo desplazó casi por completo las obras de los restantes antecessores en el campo docente, sino que tambièn su obra relegó en oriente el texto original». In this sense, cf., lastly, also G. MATINO, Problemi di natura letteraria e di struttura linguistica nella ‘Parafrasi’ delle Institutiones di Teofilo Antecessor, in Talar…skov, Studia greca Antonio Garza sexagenaro a discepulis oblata, Napoli 1987, 283 f. 15 Cf., for example, A. D’EMILIA, Note esegetiche intorno ad alcune definizioni contenute nella Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, in Annali di Storia del diritto, 5-6 (1961-62), 156 f., which insists above all on the errors in the Paraphrase, and, more recently, C.A. CANNATA, Qualche considerazione sui ‘nomina transcripticia’, in Studi per Giovanni Nicosia, II, Milano 2007, 171 n. 7. 16 In this direction, cf., amongst the many, G. SEGRÉ, Sulla questione se la Parafrasi greca alle Istituzioni giustinianee abbia avuto per fondamento il testo dei commentari di Gaio, Il Filangieri 12, 1 (1887), 735 n. 6 [= Scritti giuridici II, Roma 1938, 1 n. 6]; K.E. ZACHARIÄ VON LINGENTHAL, Aus und zu den quellen des römischen rechts, in SZ 19 (1889), 257; C. APPLETON, Histoire de la compensation en droit romani, in NRHD 19 (1895) 500 f.; H. PETERS, Die oströmischen Digestenkommentare und die Enstehung der Digesten, Leipzig 1913, 46 n. 132; B. KÜBLER, Gheschichte des römischen Rechts, Leipzig 1925, 434 ff.; see ‘Theophilos’, REPW V. A2, Stuttgard 1934, 2142 ff.; G. NOCERA, Saggi esegetici sulla parafrasi di Teofilo, RISG, n.s. 12 (1937) 39 ff.; L. WENGER, Die Quellen des römischen Recht, Wien 1953, 682 ff.; B. SANTALUCIA, Contributi allo studio della Parafrasi di Teofilo, in SDHI 31 (1965), 173 nt. 5.; U. ROBBE, Su la Universitas, in Ricerche storiche ed economiche in memoria di C. Barbagallo, I, Napoli 1967 (publ. 1979), 628 nt. 101; H.G. SCHELTEMA, L’einsegnement de droit des Antécessores, (Bizantina Neerlandica, S. B, Studia, Fasc. I), Leiden 1970, 18; J.H.A. LOKIN, Theophilus Antecessor, (note 6 above), 339 ff.; H.L.W. NELSON, Überlieferung, aufbau und Stil von Gai Institutiones, Leiden 1981,

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Meanwhile, incredible success has been enjoyed in scholarship, to the point of making it an indisputable pillar, by the idea proposed by Reitz 17, but in fact dating back some time and still today unanimously and enthusiastically accepted, whereby the Paraphrase was not drafted personally by Theophilus, nor even conceived by him for publication, but derived from a collection of lessons held by the master on the imperial Institutes that a student is thought to have diligently transcribed and then published 18. Moreover, along these lines it has been further 271; E. GOMEZ ROYO, Introducción al derecho bizantino, (note 14 above), 170 f.; G. FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, Palermo 1998, 278 nt. 132; F. GORIA, Contardo Ferrini e il diritto bizantino, (note 4 above), 125 f.; R. LAMBERTINI, Introduzione allo studio esegetico del diritto romano3, Bologna 2006, 138; J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, (note 1 above), 124 ff. On this question, see, most recently, also the observations contained in the recent Groningen edition of the Paraphrase (Theophili Antecessoris Paraphrasis Institutionum, (note 1 above), XVIII ff.). 17 W.O. REITZ, Theophili Antecessoris Paraphrasis Graeca Institutionum Caesarearum, I, Hagae Comitis 1751, XXVII; II, 1175, 1249. 18 For this opinion, cf., amongst others, P.B. DEGEN, Bemerkungen über das Zeitalter und die Institutionen Paraphrase des griechischen Rechtslehrers Theophilus, Luneburg 1809, 27 ff.; J.A.B. MORTREUIL, Histoire du droit byzantin o du droit romain dans l’empire d’orient, depuis la mort de Justinien jusqu’à la prise de Costantinipole en 1453, I, Paris 1843, 123 f.; K.E. ZACHARIÄ VON LINGENTHAL, rev. of Mortreuil, Histoire, Kritische Jahrbucher für Deutsche Rechtswissenschaft, 16 (1844), 798; C. APPLETON, Histoire de la compensation, (note 16 above), 505; H. PETERS, Die oströmischen Digestenkommentare, (note 16 above), 46 and nt. 132; L. WENGER, Die Quellen des römischen Recht, (note 16 above), 683; P. DE FRANCISCI, Vita e studi a Berito tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, Roma 1912, 9 f.; Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, in Studi Biondi, I, Milano 1965, 1 ff.; H.G. SCHELTEMA, SG, IV: Die Istitutionenparaphrase Theophili, TRG 36 (1963), 92 and L’enseignement de droit des Antécesseurs, (note 16 above), 17 ff.; R. SIMON, rev. of Scheltema, L’einsegnement de droit des Antécessores, (note 16 above), TRG 39 (1971), 483; P.E. PIELER, Byzantinische Rechtsliteratur, in H. Hunger, Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner, II, München 1978, 419 f.;

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hypothesised, by Scheltema and other authoritative scholars of the Paraphrase (Simon, Pieler, Van der Wal-Lokin, and Troianos, to mention but a few 19), that the work was the result of the combination, by the student publisher, of two different notebooks of lessons, corresponding to the two phases of teaching into which the course on the Institutes was organised: an initial phase corresponding to the translation of the Latin text and some proqewr…ai, and a second phase containing instead the paragraf» of the translated text, based on exemplifications, questions and answers between the teacher and the students, historical and dogmatic excursus etc. According to this interpretation, then, the student would have put together the lessons regarding a given topic that the master had discussed at various times, moreover reworking in an impersonal form the dialogues taking place during the lessons between the master and the students, and from this combination and reworking would have created the single discourse that today we read in relation to the various titles of the work. I will not linger on this last variation of the opinion considered here, since I believe that Giuseppe Falcone, in his fine work on the formation of the text of the Paraphrase, has already effectively and sufficiently demonstrated its weakness, providing perceptive observations on the arguments ofG. MATINO, Problemi di natura letteraria, (note 14 above), 288; N. VAN WAL-J.H.A. LOKIN, Historiae iuris graeco-romani delineatio2. Les sources du droit byzantin de 300 à 1453, Groningen 1985, 41; E. GOMEZ ROYO, Introducción al derecho bizantino, (note 14 above), 171; S. TROIANOS, `Oi phseg tou buzantinou dikaiou, Atene-Komotini 1999, 92; G. FALCONE, La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, TRG 68 (2000), 417. 19 Cf. the works and passages quoted in the previous note. The proposal made by Scheltema and the other scholars mentioned above is also shared by G. MATINO, Problemi di natura letteraria, (note 14 above), 288 ff. DER

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fered by Scheltema 20. On the other hand, as I have already had an opportunity to observe, an objective and unbiased reading of the text of the Paraphrase is in my opinion sufficient to highlight the uniformity and linearity of the discussion, in which the presence of proqewr…ai and of historical and dogmatic excursus, the repetitions of interpretive propositions (or of other similar stylistic forms) and the frequent recourse to exemplifications are simply the tools of the trade of the teacher, in other words the expedients with which the Master aimed to ensure that his discourse was complete and lively. They are, moreover, the same tools we still use today, when, introducing a concept, we collocate it dogmatically and run through its history; or when, to attract the attention of the students, we provocatively direct questions at them without expecting an answer; or when, to aid the memorisation of certain topics, we use common and meaningful examples 21. Even amended in this way, I however have to confess that it is the very idea of the student taking shorthand notes from the lessons of the professor and then editing their publication – an idea, as mentioned, still today unanimously shared – which for some time has failed to fully convince me. This conjecture, as is known, is fundamentally based on the observation whereby the overall progress of the treat20

Cf. G. FALCONE, La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, (note 18 above), 418 ff., whose arguments are also shown in detail in the Groningen edition of the work (Theophili Antecessoris Paraphrasis Institutionum, cit., XV ff.). The opinion of the scholar from Palermo, agreement with which I have already expressed in Teofilo e la spes generandi, (note 11 above), 173 f., has recently also been accepted by J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, (note 1 above), 126. 21 On this, cf. C. RUSSO RUGGERI, Teofilo e la spes generandi, (note 11 above), 173 f.

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ment suggests an oral exposition of the topics as they are one by one dealt with by the teacher. Confirmation of this would seem to be given by the continuous recapitulations found in the text (¢nakÒluqa), the frequent repetitions, the references to topics already completed or to be completed, the alternation of Greek and Latin technical expressions, the diversity of verb forms, the many lexical and stylistic irregularities, the continuous questions, etc. All these are clues which would in fact seem to betray the oral origin of the exposition, whose written version which has reached us is nothing other than a transcription made by a student at the lessons given by the teacher in the classroom. However, this common reconstruction, which moreover, by depriving the Paraphrase of its academic pedigree, has also made it possible to reassess the importance of the numerous textual problems, by attributing many of the mistakes and, above all, the many lexical and stylistic irregularities found in the text, to the poor student 22, has, as I said, for some time left me somewhat perplexed. In fact, let’s start by saying that I find it hard to believe that a young Byzantine student, who certainly would not have owned, as a modern-day students do, a recorder, would have been able to transcribe with such meticulous precision and in such a complete and detailed way, without ever missing a sentence, the extremely detailed and articulated exposition of the legal institutes made by the teacher in the lesson, and above all – I believe this should be particularly stressed – the extremely large number of 22 Above all in the past, significant comments along these lines have been seen in Degen, Bemerkungen, (note 18 above), 58 ff. and P. DE FRANCISCI, Vita e studi a Berito tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, (note 18 above), 10, nt. 2.

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technical Latin words and expressions of which the discourse was full 23, words and expressions which surely could not have been familiar to a young Greek speaker with extremely limited knowledge of Latin 24 and who was moreover experiencing his first contact with law and legal language. What I would like to say, in other words, is that the theory of the transcription of the text of the Paraphrase, as it has been given to us, by a student, first of all does not seem to me compatible with the knowledge of an average Byzantine student just starting his legal studies, who certainly would not have had the familiarity with legal language or the adequate grasp of Latin that the Paraphrase presupposes. Unless, obviously, we imagine that the teacher dictated the text, something which in practice may actually have happened as far as regards the Latin text 25. However, it is not reasonable to believe that this happened for the translation and comment of such texts, given that (apart from any other consideration) it would have taken an extremely long time. Moreover, we should also consider that the system of 23 On the massive use by Theophilus of technical terms in Latin or Latin with Greek roots, see recently G. MATINO, Lingua e letteratura nella produzione giuridica bizantina, in Spirito e forme della letteratura bizantina (Quaderni dell’Accademia Ponteniana, 47), Napoli 2006, 80 f. and C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico. Introduzione al lessico giuridico greco, in J.H.A. Lokin and B. H. Stolte, [ed.] Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici, (note 1 above), 76. 24 On the poor knowledge of Latin by Byzantine students, which moreover precisely in that period is thought to have reached its lowest level, cf., most recently, J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, (note 1 above), 121; but in the same place, cf. C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico, (note 23 above), 71 ff. 25 On the practice of dictating texts by teachers, cf. R. SIMON, Aus dem Kodexunterricht des Thalelaios, SZ 86 (1969), 336 ff., which underlines amongst other things that the const. Omnem (§1) itself mentioned that libros a voce magistra studiosi accipiebant.

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writing used at the time, on papyrus or parchment, using a calamus or goose quills, continuously dipped in ink and substituted and which, to erase the inevitable mistakes, required the use of a damp sponge 26, is unlikely to have made it possible to keep pace with such a detailed and technical oral exposition. This holds true even if we suppose that the student publisher made use of shorthand, taught in Rome from a primary school age 27. Basically, we have all been students and know from personal experience how difficult it is, even with a good pen, to keep pace with the voice of the teacher; imagine how difficult it would have been with a calamus and inkpot! And if last of all we consider the teaching methods adopted in the period in question, in other words the fact that in Byzantine schools the students did not merely passively attend lessons, but performed an active role, asking questions, discussing and raising objections – as some testimonies, such as for example the account of the life of Severus written by Zacharias Scholasticus 28, suggest –, the possibility that a student, actively engaged with the teacher and with his colleagues in discussing the interpretation and comment on the text, could at the same time produce such a faithful and com26

On the systems of writing used, especially in schools, see, recently, Fernando J. DE LASALA, Compendio di Storia della scrittura latina. Paleografia latina, Roma 2010, 35 ff.; but cf. also, among the others, A. PETRUCCI, Breve storia della scrittura latina, Roma 1992, 36 ff. 27 For the various types of abbreviations widespread in Rome, starting with the Tironian notes, cf. the representative example of G. CENCETTI, Paleografia latina, Roma 1978, 156 ff. 28 In which it clearly emerges that the «corsi dovevano consistere non solamente in spiegazioni date dal maestro, ma in veri e propri esercizi degli studenti sulle fonti, tanto che Zaccaria usa la parola pr£xiv per designare appunto la partecipazione degli studenti alla lezione» [cf. P. DE FRANCISCI, Vita e studi a Berito tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, (note 18 above), 9].

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plete transcription of everything that was said during the lesson, becomes even more unlikely 29. This does not however mean – I would like to stress – ruling out completely the possibility that Byzantine students may have taken notes, something that in fact is extremely likely to have happened. But it is one thing to maintain that they used to take notes in lessons on the fundamental concepts expressed by the master, to then revise them at home and rework them in their own words for the purposes of study, perhaps using for this purpose also notebooks that would subsequently be passed on to colleagues in the years below them (as we know Severus for example did 30; it is quite another to theorise a contextual, complete “recording” of the teacher’s words, then reviewed in an impersonal way for the purposes of publication, as in fact it is thought the student of Theophilus did. This theory, I repeat, at least in my opinion, is difficult to reconcile with what we know of the linguistic and cultural knowledge of the young Byzantines and of the contemporary systems of writing and methods of teaching. Apart from all this, however, it is true that the style of 29 Also C. FERRINI, Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni, (note 3 above), 108 f., moreover, commenting on a manuscript note found in Treckell’s papers and reported by W.O. REITZ, Theophili Antecessoris I, (note 17 above), XXVII, doubted that collecting the lessons of the teacher was a custom in line with the approach adopted in Byzantine schools, in which students in fact took part actively in the lesson. On the dialectic between teacher and students that distinguished the method of teaching in use in law schools in the 5th century, see P. COLLINET, Histoire de l’ècole de droit de Beyrouth, Paris 1925, 248 f. 30 According to the testimony of Zacharias, who expressly said that the young students, returning home, used to repeat the lessons of the master and that Severus had also collected a large number of notebooks full of notes left as Øpomn»mata to colleagues, cf. in particular P. DE FRANCISCI, Vita e studi a Berito tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, (note 18 above), 9 f.

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the work is discursive, almost colloquial, with continuous recapitulations, interrogatives, and exemplifications, etc. However, we cannot fail to consider nor should we underestimate above all the circumstance that the Paraphrase is not a collection of academic discourses, but a work created in the school and for the school, conceived for students and aimed at students, students moreover of the first year, who needed to be taught the basic rudiments of law 31: and I believe that everyone can see how much difference there is, starting with style and approach, between the treatment of a topic in a scientific or academic work and the basic treatment aimed at a public of readers just starting to study law. For the latter, it is indispensable not only to use prose which is as simple and effective as possible, but also to make recourse, where necessary, to frequent recapitulations, in order to help the reader follow the thread of the discourse, and to useful repetitions, aimed at encouraging the learning and memorisation of the most important concepts, as well as to digressions, aimed at providing clarification and information, in addition to dogmatic and historical contextualisation. Moreover, the agile, colloquial style, the presence of historical excursus, the unfolding of the discourse through anacolutha, repetitions and exemplifications, the use of antithesis and comparisons, digressions, classifications through dichotomies, trichotomies etc. and the instrumental use of rhetorical devices are not peculiarities of the Paraphrase, but characterise, albeit to a different extent, more or less all isagogic literature, starting with the Istitutes of Gaius 32 31 As has been stressed above all by C. FERRINI, Delle origini della Parafrasi greca delle istituzioni, (note 3 above), 109. 32 On the discursive style of Gaius’ Institutes, of which the work conserves many traces, a fundamental work is H. DERNBURG, Die Institutionen

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up to the Istitutes of Justinian themselves 33, which, albeit official in nature, in their stylistic simplicity and use of the first person plural clearly betray the purely didactic aims of the work and the preoccupation with managing to attract the still inexperienced minds of the students 34: as moreover Justinian himself specifies in § 2 of title I of Book I, where he mentions the need for notions to be transmitted to first-year students in a light, simple way, so as not to induce them to abandon their studies or subject them to undue fatigue 35. Nor is there any lack in the impedes Gaius ein Collegienheft aus dem Iahre 161 nach Christi Geburt, Halle 1869, 33 ff.; but cf. also F. CASAVOLA, Gaio nel suo tempo, in Atti del Simposio romanistico, Napoli 1966, 7 [= Labeo 12 (1966) 13] and R. QUADRATO, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio. Omissioni e rinvii, Napoli 1979, 1 ff. 33 Along these lines, see also J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, (note 1 above), 125, which in fact show how these characteristics «hanno contraddistinto lo stile tecnico del manuale classico in generale, un genere letterario che sostanzialmente ha le sue origini nel metodo educativo dei Sofisti». 34 Moreover, we should not underestimate the fact that manuscripts were certainly not easy to read, especially if compared to our typographical models. This explains why «nelle culture manoscritte … i testi scritti spesso mantenevano lo schema dell’oralità, che ne facilitava il recupero mnestico» [cf., in particular, W.J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna 1986, 171 f.; but on the relationship between orality and writing, see also M. BELLOMO, Legere, ripetere, disputare, in Aspetti dell’insegnamento giuridico nelle università medioevali. Le ‘quaestiones disputatae’, I, Reggio Calabria 1974, 13 ff. now in Medioevo edito e inedito, I, Scholae, Universitates, Studia, Roma 1997, 53 ff.]. 35 Cf. I. 1. 1. 2 His generaliter cognitis et incipientibus nobis exponere iura populi romani ita maxime videntur posse tradi commodissime, si primo levi ac simplici, post deinde diligentissima atque exactissima interpretatione singola tradantur, alioquin si statim ab initio rudem adhuc et infirmum animum studiosi moltitudine ac variegate rerum oneraverimus, quorum alterum aut desertorum studiorum efficiemus aut cum magno labore eius, saepe etiam cum diffidentia, quae plerumque iuvenes avertit, serius ad id perducamus, ad quod lenire via ductus sine magno labore et sine ulla diffidentia maturius perduci potuisset. Along the same lines, see also I. 2.20.3.

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rial manual of (albeit concise) frequent recapitulations 36, continuous references to the past history of the Institutes (olim) 37, analogies and contrapositions (item and ex diverso) 38, the rhetorical use of questions 39, references 40 etc.: all things which clearly in this case we cannot minimally doubt originated from a scriptura reportata! Certainly, in the Paraphrase, the presence of the men36

Cf., among many passages, I. 1.26.2, 2.5.6, 3.6.11. Cf. merely by way of example, I. 1.5.3, 1.8.1, 1.11.1, 2.9.1, 2.10.1, 2.14 pr., 2.20.2, 2.20.25, 2.22 pr., 2.23.1, 2.25 pr., 3.2 pr.-4, 3.7 pr.-2, 3.15.1, 3.21 pr., 4.4.7, 4.8.7, 4.10 pr., 4.11 pr.-1, 4.15.8, 4.18. 38 Cf., for example, I. 1.10.5, 1.11.3 and 1.11.7. 39 Examples of the many questions found in the text include I. 1.4 pr. ex his et illud quaesitum est, si ancilla praegnans manumissa sit, deinde ancilla postea facta peperit, liberum an servum pariat? I. 1.6.7 Cum enim antiquitas huiusmodi aetati et pro aliis postulare concessit, cur non etiam sui iudicii stabilitas ita eos adiuvare credat, ut et ad libertates dandas servis suis possint pervenire? I. 1.12.4 quis enim patiatur patrem quidam posse per emancipationis modum suae potestatis nexibus filium relaxare, imperatoriam autem celsitudinem non valere eum quem sibi patrem elegit ab aliena eximere potestate? I. 1.14.5 Quid si nepotes sint, an appellatione filiorum et ipsis tutores dati sunt? I. 1.26.2 Quid si patronus? I. 2.10.5 quid enim, si septem anuli una sculptura fuerint? I. 3.8.2 unde quaerebatur, si eum cui adsignaverit postea emancipaverit, num evanescat adsignato? Sed placuit evanescere, quod et Iuliano et aliis plerisque visum est. I. 3.11.3 Quid ergo si quis intestatus decedens codicillis libertates dederit neque adita sit ab eo intestato hereditas? I. 3.11.5 Si is, qui in integrum restitui potest, abstinuit se ab hereditate, an, quamvis potest in integrum restitui, potest amitti constitutio et addictio bonorum fieri? Quid ergo, si post addictionem libertatem conservandarum causa factam in integrum sit restitutus? I. 3.11.6 quid ergo, si vivus dedit libertates vel mortis causa et, ne de hoc quaeretur, utrum in fraudem creditorum an non factum sit, idcirco velint addici sibi bona, an audiendi sunt? I. 4.2 pr. quis enim magis alienam rem invito domino contrectat, quam qui vi rapit? I. 4.8.7 …quis enim patitur filium suum et maxime filiam in noxam alii dare, ut paenae per corpus pater magis quam filius periclitetur, cum in filiabus etiam pudicitiae favor hoc bene excludit? 40 See, for example, I.1.12 pr., 1.12.8, 2.1.11, 2.5.6, 2.9.6, 2.13.7, 3.2.1, 3.6.11, 3.9 pr., 3.19.13, 3.24.1, 3.27.6, 4.1 pr., 4.6.19, 4.6.23, 4.6.33 e, 4.6.34, 4.6.39, 4.7 pr., 4.8.5, 4.10.2, 4.15.6; 4.17.4. 37

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tioned peculiarities is definitely more accentuated. This however does not seem to be entirely unnatural, if we consider that it was not only the translation of the official text 41, but also and above all a comment on it, unravelling and explaining it to the students in all its most recondite implications, in the simplest, most comprehensive and effective way possible. This in fact explains the need to 41 The introduction of a new method of teaching, which envisaged the prior translation of the Latin text, should be dated, according to J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, (note 1 above), 121 f., to 533 AD, and is justified by the fact that the knowledge of Latin by Greek-speaking students had reached its lowest level precisely at that time. However, we cannot fail to note that the poor mastery of Latin among young Byzantines was a phenomenon which had already existed for some time, a phenomenon which the eastern legal schools were bound to have realised, and which leads us to believe that the need to ensure the exact comprehension of the Latin sources to study would have been felt even before 533 AD, and that, therefore, the practice of proceeding with the prior translation of the texts was in fact already widespread among teachers of law in the 5th century. If this is true, it means that the antecessores may well have simply adopted and officialised a teaching method which had for some time been used in the eastern schools. Moreover, a confirmation, albeit indirect, of this can be found in my opinion in the existence of significant elementary isagogic literature in Greek in the pre-Justinian era [on which, for example, in the perspective considered here, see G. MATINO, Lingua e letteratura nella produzione giuridica bizantina, (note 23 above), 66 f.], which in fact demonstrates how the use of Greek was considered an absolute necessity in practice and teaching. On the law schools operating in the East before Justinian, and on the language and teaching methods adopted by 5th-century masters of law, cf. in any case, more generally, among the many, P. COLLINET, Histoire de l’ècole de droit de Beyrouth, (note 29 above), 207 ff.; J.A.B. MORTREUIL, Histoire du droit byzantin, (note 18 above), 258 ff.; H. PETERS, Die oströmischen Digestenkommentare, (note 16 above), 60 ff.; P. DE FRANCISCI, Vita e studi a Berito tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, (note 18 above), 3 ff.; H.G. SCHELTEMA, L’einsegnement de droit des Antécessores, (note 16 above), 11 ff.; P.E. PIELER, Byzantinische Rechtsliteratur, (note 18 above), 404 f.; N. VAN DER WAL-J.H.A. LOKIN, Historiae, (note 18 above), 21 f.; E. GOMEZ ROYO, Introducción al derecho bizantino, (note 14 above), 159 ff.

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make continuous digressions on themes outside the sedes materiae, the pro-theories, the recourse to effective exemplifications, the Master’s insistence on summarising or repeating notions already explained, to help the reader keep track of the thread of the discourse and to facilitate its memorisation, the rhetorical use of the interrogative form to liven up the exposition and attract the attention of the students, etc. From a different perspective, we also need to take into account the fact that the institutional course from which the Paraphrase derived was held by Theophilus sometime between late 533 and the first half 534, that this was in other words the first course held on the new Imperial Institutiones, whose publication – as is known – took place on 21 November 533 with the constitution Imperatoriam 42. We know with certainty, in fact, that Theophilus, who Justinian had called to take part in the commissions appointed to draw up the first edition of the Code, the Digesta and the Institutiones 43 and who was certainly at work in December 533, as appears in § 9 of the Constitution Tanta 44, did not in fact collaborate on the drafting of the 42 That the Paraphrase originates from the course of lessons held by the antecessor in 533-534 is today moreover commonly recognised among scholars. Among the most recent, cf. H.J. SCHELTEMA, SG, IV: Die Institutionenparaphrase Theophili, (note 18 above), 92 and L’enseignement de droit des Antécesseurs, (note 18 above), 18; P.E. PIELER, Byzantinische Rechtsliteratur, (note 18 above), 420; N. VAN DER WAL-J.H.A. LOKIN, Historiae, (note 18 above), 41 and 125; G. FALCONE, Il metodo di compilazione, (note 16 above), 312 nt. 246; J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, (note 1 above), 125. 43 As is seen clearly in the constitutions Haec quae necessario (§1), Summa (§ 2), Tanta (§ 9) and Imperatoriam (§ 9). 44 See, in fact, what the Emperor states in const. Tanta § 9: Quae omnia confecta sunt per … Theophilum virum illustrem magistrum iurisque peritum in hac splendidissima civitate laudabitur optimum legum gubernationem ex-

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second edition of the Code, since he was not mentioned in the constitution Cordi, with which on 17 November 534 the reperita praelectio of the Code was in fact published. This is a circumstance for which various explanations have been provided, such as for example that he may have been relieved of his duties due to the excessive independence of his works in relation to the prohibition on commentaries introduced in the Deo Auctore and in the Tanta-Dšdwken, as Amelotti thought 45; or perhaps due to the onset of an illness, academic commitments or a change in fortunes, as proposed by Lenel 46, or a voluntary return to teaching, according to the idea of De Francisci 47, but which we should instead believe was due with all likelihood to the sudden death of the antecessor, as seems to be demonstrated above all by the fact that also the Index of the Digesta remained unfinished, interrupted at the books de rebus 48. Moreover, that the course from which the Paraphrase was taken is the first and, as said, plausibly the last and only course tendentem. On the ideological value of the words used here by Justinian, that he would have entrusted to the antecessores the task of revealing with their activity the excellent government of the laws, cf., most recently, interesting notes of G. FALCONE, Premessa per uno studio sulla produzione didattica degli antecessores, in J.H.A. LOKIN and B.H. STOLTE, [ed.] Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici, (note 1 above), 151. 45 Cf. M. AMELOTTI, Giustiniano interprete del diritto, in L. Migliardi Zingale, [ed.], Scritti giuridici, Torino 1996, 691 nt. 12. 46 V. O. LENEL, Miszellen (Zur Enstehung der Digesten), SZ 34 (1913) 376. 47 Cf. P. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, (note 18 above), 8 f., for which precisely the drafting, together with the Paraphrase, of the Index of the Digesta, would lead us to think that Theophilus lived for at least some years after the compilation of the iura and that his death is not prior to 536. 48 And precisely at D. 17.2: on Theophilus’ Index to the Digest, cf., by way of example, H.J. SCHELTEMA, L’einsegnement de droit des Antécessores, (note 16 above), 30 f.

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held by Theophilus on the Imperial Institutiones in 533/534, is also confirmed by the observation that there is no trace in it of any law subsequent to the Institutes 49, especially of that introduced by the Novellae 50, nor is there any involuntary allusion of the repetita praelectio of the Code 51: a fact which is difficult to explain if not by the death of the teacher, or any case by an event that from that moment onwards prevented him from working. Otherwise, we imagine that he would have provided for updating his work, as well as completing the Index of the Digest 52. 49 Cf., for example, the constitution quoted in C. 6.23.31 del 534, not quoted in PT. 2.10, or the constitution referred to at C. 6.58.15, also from 534, of which there is no trace in PT. 3.2.4. 50 Merely by way of example, cf. PT. 2.22, which does not take account of Nov. 1 of 535; PT. 1.10.12, which does not consider the changes made by Nov. 12.1; PT. 1.16.1, which ignores Nov. 22.8; PT. 2.18.6, which does not envisage the increase of legitimacy introduced by Nov. 18.1; PT. 1.4 and 1.5, clearly not updated compared to Nov. 78 which declares all libertines to be naive. 51 In § 2 of the Proem, containing the paraphrase of const. Imperatoriam, only the Code of 529 is in fact mentioned; moreover, in PT. 2.16.14, Theophilus mentions a constitution of 531 (CI. 7.37.3) saying that it had been issued recently, and in PT. 3.19.14 he mentions a law that no longer appears in the second edition of the Code. On this, see recently J.H.A. LOKIN-T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, (note 1 above), 124 and notes 44 and 45. 52 Moreover, the circumstance that the text of the Paraphrase which has reached us through the manuscripts of the 11th century does not contain mentions of law subsequent to the Digesta leads us to believe that the common archetype from which such manuscripts surely derive (as would seem to demonstrate also the constant lack of Title 1 of Book I) was a far earlier book, plausibly put aside after the compilations produced in the period of the Macedonian Renaissance and then rediscovered and divulged in the Constantinople school reopened by Constantine IX Monomachos (as perhaps not wrongly hypothesised by C. FERRINI, Delle origini della Parafrasi greca delle istituzioni, (note 3 above), 113 ff.). On the rebirth and reorganisation of legal studies taking place in Constantinople in the course

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Let us assume this, and also take into account the doubts raised by the fact that the linguistic and cultural knowledge of young Byzantine students and the systems of writing and the methods of teaching at the time seem incompatible with the idea that a student could have made a full, simultaneous transcription of the words of the teacher during the lessons. In addition, let us consider the purpose of the work, namely for elementary teaching, and compare its technical style with that of other institutional manuals. Let us also remember that the course of lessons on the recently finished text on which the Paraphrase was clearly based took place in the few months separating the publication of the Institutiones from that of the second edition of the Code. In the light of all this, I believe the most plausible hypothesis is that the Paraphrase is nothing other than a collection of lessons prepared for the students in writing during the course. I am convinced, therefore, that the discursive tone, the language used, the recapitulations, the questions, the exemplifications and all the other particularities mentioned before which characterise the Paraphrase, derive in other words not from the transcription by one of the students of the lessons, but more simply from the fact that these were lecture notes, jottings, an outline – call it what you will – for the lessons, that the teacher prepared on a daily basis as part of his teaching activity, with their oral exposition to his students in mind. These are notes that Theophilus would then, at the end of the course, have rapidly connected and published with the aim of immediately providing his inexpert students with of the 11th century, cf., for all, P. LEMERLE, Cinq études sur le XI siècle byzantin, Paris 1977, 193 ff. and W. WOLSKA-CONUS, L’ècole de Psellos et de Xiphilin sous Costantin Monomaque, Travaux et Mémoires, 6 (1976), 238 ff. and L’ècole de droit et l’enseignament du droit á Byzance au XI siècle: Xiphilin et Psellos, Travaux et Mémoires, 7 (1979), 8 ff.

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an initial, albeit hurried work of reference on which to study the recently finished Latin manual, perhaps with the intention (that his sudden death prevented him from realising) of revising and polishing everything subsequently or in a second edition, amending the text, also in light of the first course, to eliminate the numerous faults that it contained due to the lack of time available to rework and reorganise it. And precisely these faults, in fact, allow us in my opinion to discard another of the theories, although theoretically possible, namely that these were lecture notes taken by students that the teacher would then have “revised”, according to a custom not infrequent also in the modern age. If in fact Theophilus really merely limited himself to correcting the notes taken lessons by students with a view to their publication, we should believe that he would certainly have provided (and this he would definitely have found time to do!) for eliminating the mistakes and the lexical and stylistic irregularities they contained. In fact, their presence can only be explained by virtue of the hurriedness with which they were probably organised and published. But we could also conjecture that this collection of notes was reorganised and published after the death of the antecessor, by one of his assistants, who thus intended to make this last inheritance of the Master available to the students 53. And moreover, precisely the probable sudden death of Theophilus, which would have occurred before the publication of the second edition of the Code, and thus presumably in around mid-534, I believe allows us to rule out with a certain confidence the theory 53 We in fact know for certain that the official professors were helped by private teachers, mentioned, for example, in CTh. 14.9.3 pr. regarding the ban on using public halls. On these assistants, cf. for all, F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana (trans. Nocera), Firenze 1968, 492.

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that the text may have been drafted once the lessons had finished. Instead, it is extremely likely that the Paraphrase comes from an outline of the lessons that the Master gradually wrote during the course. On the other hand, I do not think there is anything scandalous in supposing that Theophilus may have prepared a written outline of the lessons that he was about to give to 1st year students on the Imperial Institutes. And it seems that there have already been some signs of rethinking in recent scholarship: I am alluding in particular to Giuseppe Falcone, who, in his work on the formation of the text of the Paraphrase, imagined that Theophilus actually took into class the notes of the lessons held in previous years on Gaius 54; and recently, in a contribution on the didactic production of the antecessores, he hypothesises even more clearly the use by Theophilus of a previous written draft of the lessons held on Gaius’manual, wondering moreover, albeit with some doubt, whether we could «attribuire agli antecessores l’iniziativa di affidare i contenuti dell’insegnamento ad un testo scritto» 55: thus implicitly demonstrating that he believes at least in the abstract possibility that the antecessores used to write down their comments to use them during the course and then revise them with a view to publication. Moreover, as we know, 54

G. FALCONE, La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, (note 18 above), 430 nt. 36, which states in fact that «sembra legittimo supporre che Teofilo avrà portato con sé a lezione anche gli appunti che gli erano serviti per i corsi precedenti (relativi, cioè, alle Institutiones gaiane) e – perché no? – magari anche una copia dello stesso manuale di Gaio». 55 Cf. G. FALCONE, Premessa per uno studio sulla produzione didattica degli antecessores, (note 44 above), 154. Moreover, we should also mention the fact (stressed by Falcone, op. loc. cit.) that also N. VAN DER WAL, Les commentaires grecs du code de Justinien, Gravenhage 1953, 19, had not initially ruled out the idea that it had been the antecessores themselves who wrote the commentaries to use them as an outline for the course.

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the issue is not new or limited to Theophilus. It has also been suggested that the works of the other antecessores, as well as the libri iuris civilis by Sabinus 56, the Institutes of Gaius 57, and the Ulpian regulae 58, were not published by their authors, but were transcriptions of lessons made by students or in any case notes reviewed and published after the death of the teacher. This are theories – for example in the case of Gaius, particularly supported by Schulz – which have had little following in scholarship 59 or which are now being superseded (such as those regarding, for example, Julian 60 and Stephanus 61. Returning to Theophilus, I said that I do not believe 56 Cf. F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, (note 53 above), 277 f., who rules out that Sabinus could have published such a fragmentary work, which he sees as nothing other than a collection of lesson notes published after the death of the teacher. 57 Cf. F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, (note 53 above), 286. 58 Along these lines, see the recent proposal by F. MERCOGLIANO, Un’ipotesi sulla formazione dei «Tituli ex corpore Ulpiani», Index 18 (1990), 185 ff.; but, by the same author, also see Tituli ex corpore Ulpiani. Storia di un testo, Napoli 1997 e Una ricognizione sui Tituli ex corpore Ulpiani, AARC 14 (2003), 407 ff. 59 While agreeing on the fact that the work originates in oral teaching, scholarship in fact agrees that the Institutiones were the notes, or rather the course of lessons, that the master would later have summarised and published. For all, cf. F. CASAVOLA, Gaio nel suo tempo, (note 32 above), 7. 60 See, for example, regarding the Epitome Iuliani, the recent position adopted by W. KAISER, Die Epitome Iuliani. Beiträge zum römischen Recht im frühen Mittelalter und zum byzantinischen Rechtsunterricht, Frankfurt 2004, 179 f., for whom the course of lessons held on Justinian’s Novellae, from which the work is thought to have originated, was published directly by the Master. 61 On the Index of the Digesta of Stephanus, cf., in this perspective the recent observations by G. FALCONE, Premessa per uno studio sulla produzione didattica degli antecessores, (note 44 above), 154 ff. regarding sch. 2 ad Bas. 28. 1. 8 regarding the topic of the sponsalia.

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there is anything scandalous in hypothesising a written draft of the lessons by the antecessor. Lessons, as we all know, cannot be improvised, and any conscientious teacher will carefully study the topics to be dealt with during the lessons, generally preparing notes or, according to preference, at least writing down an outline or list of main points. As far as I’m concerned, I have no difficulty in admitting that when I was first asked to teach the course on the Institutes, I scrupulously prepared the lessons, trying to read as much as I could, above all on the themes furthest from my research interests, and to then set them down in writing, preparing notes which I still keep today and consult not infrequently. And these notes, also in their organisation and style, were conceived – even before they were written down – in function of their use by students. This meant filling them with examples, theoretical premises, historical and dogmatic excursuses, provocative questions, and references to topics that I perhaps had not had the time to deal with: just as I imagine Theophilus had done 62. It is clear that one then lives on the interest, in the sense that as the years pass, you end up making to the original lesson plans structural changes suggested by experience in the field and update topics in the light of innovations or works you have read during your own research. But this “living on the interest” could hardly have applied in 534 to Theophilus, who, used for some time to holding the first-year course on the manual by Gaius, found himself that year suddenly 62

Moreover, although it may seem questionable to apply modern experience to the ancient world, I frankly believe that, while considering the different contexts, from the point of view considered here no substantial differences have actually been introduced. In this direction, moreover, see already H. DERNBURG, Die institutionen des Gaiust, (note 32 above), 55 ff., who, regarding Gaius’ commentary, and referring precisely to the situation in German universities, imagined lecture notes, a sort of Collegienheft.

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having to teach on a new text, a text that he himself had admittedly contributed to drafting, but which displayed a large number of innovations, not only of a legislative nature, compared to the book by Gaius. This new text, moreover, was written in Latin, and it was therefore as a preliminary measure necessary to produce an accurate translation of it to be presented to the Greek speaking students. We may reasonably imagine the Master did not improvise this during the lesson, so much the more so if we consider that Greek did not possess correspondingly wide-ranging technical language 63. Moreover, we should not forget, this was a text that had also been given legislative value and came into force on 30 December 533 together with the Digesta 64. This also involved the further, not insignificant problem of ensuring that the institutes were dealt with in the same way as they were in the Digesta (a not insignificant problem, if we think, for example, of the section regarding the distinction between ius naturale, ius civile and ius gentium 65, in which Theophilus, who however shows a clear tendency towards Gaius’dichotomy and the homologation between ius naturale and ius gentium 66, on various occasions betrayed in the 63 On the difficulties encountered in this regard by the Justinians because of the lack of an equivalent technical lexis in Greek and on the solutions adopted in this regard, cf. in particular G. MATINO, Lingua e letteratura nella produzione giuridica bizantina, (note 23 above), 67 and C.M. MAZZUCCHI, Il contesto culturale e linguistico, (note 23 above) 74 ff. 64 See const. Tanta § 23. 65 Cf. PT 1. 2. 66 See, for example, PT 1.2.1 ... ½ g¦r ™qnikoÝv t…qhsin, oÞv kaˆ fusikoÝv katacrhstikîv ¢pokaloàmen; PT. 1.2.1 lastly … Ösa d\e Ð fusikÕv Àtoi ™qnikÕv lÒgov metaxÝ p£ntwn ¢nqrèpwn ™fhàre, taàta par¦ p©sin œqnesi qul¦ttetai kaˆ IURISGENTIA prosagoreÚetai; PT. 2.1 pr. tin¦ g¦r fusik‚ ^ dika…‚ Ìtoi IURISGENTIO, æv pro@iÒntev f»some; PT. 2.1.11 … tinîn m\en g¦r pragm£twn ginÒmeqa despÒtai fusikù nom…m‚ (Öper, kaq¦ e‡rhtai, IURISGENTION). On the relations

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text, however moves cautiously, not being able in any case to ignore the Ulpian tripartition accepted in the Digesta and reproduced in the Institutes and in the Paraphrase itself 67. Obviously, the long and tested experience gained over the years on the Institutes of Gaius and perhaps, as Falcone hypothesises, the use of material on Gaius which he had already prepared, definitely made the task easier. But the Imperial Institutes, although above all based on the same approach as the manual by Gaius, were in reality something completely different, not only because of the wide variety of sources used 68, the changes in the system of many of the institutes dealt with and, last but not least, the massive work of updating performed by the compilers. This involved an immense number of legislative updates, including in particular, as is known, those from Justinian legislation, not only because this contributed in a crucial way to the renewal of the vetus ius, but also because of the clear propagandistic and ideological aspect of the text 69. If there is not then any doubt that his familiarity with Gaius between ius naturale and ius gentium in the Paraphrase of Theophilus, a fundamental work remains C. FERRINI, Natura e diritto nella Parafrasi greca delle Istituzioni, RIL, 18, 1885, 857 ff. [= Opere I, (note 3 above), 71 ff.]: but see also P. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, (note 18 above), 15 ff. 67 As pointed out by G. FALCONE, Il metodo di compilazione, (note 16 above), 322 and nt. 275 (but see also 316 ff.). 68 Apart from the Institutes of Gaius and the Res Cottidianae, there were in fact consulted, as is known, the Institutes of Ulpian, Florentinus, Marcian and Paulus, in addition to other various works. In this matter, see particularly C. FERRINI, Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano, BIDR 13 (1901), 101 ff. (also in Opere II, Milano 1929, 307 ff.). Also hypothesising the use of intermediary sources from the 5th century school of Beirut we find P. COLLINET, La genése du Digeste, du Code et des Institutes de Justinian, Paris 1952, 279 ff. 69 As has been well clarified by G. LUCHETTI, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano 1966, 575 ff.

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certainly served Theophilus, in addition to helping him organise the historical and dogmatic excursus, also and above all, I believe, for the contribution it had given to his cultural formation, it is equally certain that the treatment of the new Institutes had in any case to be revised profoundly. If I can be permitted to make a comparison with events closer to our times, I believe that the experience gone through by Theophilus in late 533 can be in a certain sense equalled to that undergone by Italian scholars of criminal procedure in 1988, when the new Code replaced the old Rocco Code. Teachers of criminal procedure had been accustomed for years to teaching on the Rocco Code, and also for them there is no doubt that the cultural grounding acquired precisely on the procedural system previously in force and the old notes they had, presumably continued to represent the main core also of the new courses. But I challenge anyone to maintain that they did not have to reorganise from scratch the topics to be dealt with in the lessons, due to the many innovations introduced in the system of procedure, and plausibly had to prepare an outline on the basis of which to teach their new courses. In my humble opinion, Theophilus acted in the same way. Therefore, during that first year teaching the new institutional text just published, he would have written down the content of the lessons to be held in class, preparing notes. These notes, I repeat, were conceived of, even before being committed to writing, in function of their didactic use and their oral exposition to the students, which explains the presence of questions, recapitulations, exemplifications and all those other expedients aimed at livening up the course and encouraging learning and memorisation. They would probably have been produced over time, we may even say on a daily basis, in other words as the

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course progressed, as the many references contained in the text to things already said or to be said lead us to believe. Lastly and above all, these were notes which, as I said above, Theophilus himself, while aware of the many shortcomings in the text due to the few months available to write it, would have in any case in my opinion rapidly revised, collected and published at the end of the course with the aim of providing his young, inexperienced students with an initial point of reference, albeit provisional and hurried, on which to base their study of the new Latin text. This would perhaps have been done in the hope (made vain by his sudden death or in any case by an event that prevented him from that moment onwards from working) that he would have the time, once the course was finished, to revise and harmonise the entire text and resolve its contradictions, lexical and stylistic irregularities and presumably also the inevitable mistakes resulting from its hurried composition, in a new edition of the work. But we cannot rule out, as I have said, that this outline of the lessons, following the sudden and unexpected death of the antecessor, may have been published by one of his assistants, with the intention of preserving the teachings of the Master, for the benefit of the students. Of course, this conjecture, while it explains, by virtue of the speed with which the work came to light, the linguistic and stylistic faults and many irregularities attributed to the Paraphrase, only partly justifies the mistakes in the exegesis of the ῤητὸν found in the text, which would not have been compatible with the image of vir illustris ex magistro et iuris doctor in hac alma urbe that Justinian gives us of Theophilus. Some of them were serious mistakes, such as for example that recently reported by Cannata in PT 3. 21 regarding the transcriptio a re in personam, constructed by Theophilus in a dialogue form inconceivable

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in an accounting code 70; or that relative to the servitus oneris ferendi for some time highlighted in PT 2. 3. 1, in which Theophilus seems to have confused the mention of urban servitus contained in the ῤητὸν with a reference to the ratio of servitus in general 71. But, apart from the fact that we need in my opinion to resist the temptation of measuring the Paraphrase with an abstract institutional model, postulated in its perfection and completeness, and not to forget that this was, as has been said, simply a grammar of law, it is above all true that, on reflection, not even the idea that the Paraphrase derives from transcription by a student of oral lessons held by the teacher would justify the aforementioned mistakes, since, while admitting this possibility, the authorship of the content, and therefore also of the errors it contains, is in any case to be attributed to Theophilus. Unless we think, obviously, that the student did not simply transcribe faithfully the words of the teacher as they were pronounced during the lesson, as we usually believe, but personally reworked them, sometimes encountering misunderstandings due to his imprecise perception of them 72. This, however, is not easy to believe or demonstrate, above all when, as happens for example regarding the servitus oneris ferendi, the mistake is repeated a number of times during the text 73. This means 70

Cf. C.A. CANNATA, Qualche considerazione sui ‘nomina transcripticia’, (note 15 above), 171 f., which underlines rightly that here «l’autore è certamente fuori strada». 71 On this confusion, already highlighted by the leading editors and ancient scholarship, see recently G. FALCONE, Il metodo di compilazione, (note 16 above), 272 ff., to which I refer for a list of the previous literature. 72 Such as, for example, maintained by Degen in reference to PT. 2.3.1, in Bemerkungen, (note 16 above), 60 f. 73 As pointed out by G. FALCONE, Il metodo di compilazione, (note 16 above), 274, who, after observing that the mistake is also repeated in PT.

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that we should perhaps resign ourselves to the idea that those mistakes were effectively committed by the antecessor. This however is not at all irreconcilable, at least in my humble opinion, with the reputation that the Master had earned himself, since, although he was a magister clarissimus et iuris peritus, Theophilus was nevertheless a man, and like all men, could also be imprecise and misunderstand, especially when dealing with institutes by now fallen into disuse (as plausibly happened in fact with the nomina transcripticia, mentioned only in an historical reference in the ῤητὸν 74 and of which there is no trace in the Digest 75 or those subjects somewhat unfamiliar to him. We should also in fact consider that in the months immediately prior to this, in particular with the publication of the Digesta and of the Institutiones, classical Roman law, on which – through Gaius and the works of other jurists – the cultural formation of the teacher and jurist was fundamentally based, had undergone profound changes. Although he was admittedly partly responsible for them, insofar as 2.2.3 when defining urban servitus, concludes that «l’errore di Teofilo, dunque, esiste ed è grave». 74 Cf. I. 3.21 pr. Olim scriptura fiebat obligatio, quae nominibus fieri dicebatur: quae nomina hodie non sunt in usu … 75 As is known, in fact, the compilers of the Corpus Iuris not only failed to insert into the collections all the texts relative to the nomina transcripticia, but also cancelled any further reference to the institute, except perhaps that contained in D. 34.3.31: on the issue, see, recently, C.A. CANNATA, Qualche considerazione sui ‘nomina transcripticia’, (note 15 above), 171. The bizarre interpretation in terms of dialogue of the transcriptio a re in personam provided by Theophilus in PT. 3.21 may thus plausibly explained by the fact that «i nomina transcripticia – insieme con l’uso di tenere i libri contabili familiari con i quali tali negozi erano connessi – erano desueti ormai da secoli, con ogni probabilità già dalla fine dell’epoca classica. Egli cercava dunque di interpretare quanto trovava in Gaio, arrivando così a costruire l’expensilatio come una specie particolare di stipulatio (novatoria) scritta» (cf. C.A. Cannata, 172).

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he was a member of the commissions that had drafted the first Code, the Digest and the Institutes, he had not necessarily worked personally on them, given the plausible division of the immense work among the members of the commissions. What I want to say, in other terms, is that many of the mistakes or equivocations with which the Paraphrase is full, may in reality be justified due to at times inadequate in-depth study and organisation by Theophilus. This in turn with all likelihood can be explained by the fact that in the few months separating the publication of the Digesta and the Institutiones from the completion of the Paraphrase, the Master did not have sufficient time to analyse (especially in the light of the compilation of the iura which had just come into force) all the institutes dealt with. This is what we should believe took place, for example, precisely in the second of the cases I mentioned above, in other words the equivocations with regard to the institutional text and the many references contained in the Digest to the servitus oneris ferendi in title 2 of Book II, whose treatment in the Institutes – according to Falcone’s convincing theory – was dealt with by Dorotheus 76 and in commenting on which Theophilus would probably, again according to Falcone, have been conditioned by the lack 76 Cf., in fact, G. FALCONE, Il metodo di compilazione, (note 16 above), 390 ff., who, starting with an intuition of HONORÉ, Tribonian, Oxford 1978, 189 ff., hypothesises that Theophilus and Dorotheus dealt with the exposition of the classical material, while Tribonian would have provided for updating the text in the light of the postclassical and Justinian legislative innovations. As far as regards the division of the work between Theophilus and Dorotheus, this would have been organised by subject, with the former drafting the parts on persons and universal succession, the latter the parts regarding the res, obligations and inheritance. Adopting this interpretation, then, Theophilus would be attributed with Book I (except for § 7) and some titles of Books II and III (in particular, II. 10-24 and III. 1. 11).

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of any reference to the servitus oneris ferendi in the text of Gaius 77. This is why I feel that the Paraphrase did not derive from the transcription of the lessons by a student who then dealt with its publication, but from the lessons given on the new institutional manual by Theophilus in 534, and commented on in writing and published by Theophilus himself. This, then, in conclusion, is my “unhealthy” idea on the formation of the text of the Paraphrase that I mentioned in the foreword, an interpretation that I advance with great caution and modesty in the hope of being able to verify how plausible it is. Of course, I am aware that this is only a hypothesis which cannot be proved, but only supported by criteria of likelihood or, even better, that good sense, «virtù indispensabile a chi pratica le nostre discipline quanto scarsamente diffusa», to which our sorely missed Maestro Mario Talamanca effectively used to appeal 78. It is this good sense, perhaps more than anything else, that in fact makes it in my opinion difficult to believe, above all in the light of what we know of the level of knowledge of the Byzantine students and of the systems of writing and methods of teaching used at that time, that a young Byzantine student, still lacking legal notions and with a limited knowledge of Latin, could have taken shorthand notes with such precision and completeness on such a detailed, complex treatment in such technical legal language, moreover containing a plethora of Latin expressions and quotations, such as the Paraphrase is. What appears more reasonable – also considering the merely di77 Cf. G. FALCONE, Il metodo di compilazione, (note 16 above), 275 and nt. 124. 78 M. TALAMANCA, I clienti di Q. Cervidio Scevola, BIDR III (2000/ 2001), 42-43, 541 f.

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dactic purpose of the work, similar features in other similar institutional works and the chronological correspondence of the course held by Theophilus with the months when the work was conceived and finished – is the proposal advanced here, namely that it was the antecessor himself who outlined, albeit hurriedly, the contents of the new course he was teaching on the Imperial Institutiones, then publishing them at the end of the course with the aim of providing students with an initial basic text to help them study the Latin manual which had just been completed.

III GAIO, LA PARAFRASI E LE “TRE ANIME” DI TEOFILO * 1. Benché non manchi di suscitare ancora una certa attrattiva, si può dire che è ormai, se non superata, certamente in via di superamento la congettura, risalente al Ferrini 1 ma che ha mietuto entusiastici consensi da parte di tanti autorevoli studiosi, secondo la quale Teofilo, nel redigere la Parafrasi greca delle Institutiones giustinianee, avrebbe utilizzato un kat¦ pÒdav delle Istituzioni di Gaio o comunque uno scritto greco di commento al manuale gaiano proveniente dalle scuole di Berito o di Costantinopoli 2. * In SDHI, LXXVIII, 2012, 197 ss. 1 Tra i vari contributi raccolti nel I volume delle Opere, Milano 1929, v., in specie, La Parafrasi di Teofilo ed i Commentari di Gaio, 15 ss. (= Rendiconti, II s., 16, 1883, 56 ss.); La Glossa torinese delle Istituzioni e la Parafrasi dello Pseudo-Teofilo, 51 ss. (= Rendiconti, II s., 17, 1884, 714 ss.); Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni, 132 ss. (= AG, 37, 1886, 353 ss.); I commentari di Gaio e l’indice greco delle Istituzioni, 81 ss. (= Byzantinische Zeitschrift, VI, 1897, 734 ss.). 2 In tal senso v., tra gli altri, SEGRÉ, Sulla questione se la Parafrasi greca alle Istituzioni giustinianee abbia avuto per fondamento il testo dei commentari di Gaio, in Il Filangieri, 12, 1 (1887) 735 ss. [= Scritti giuridici, II (Roma 1938) 1 ss.]; ARANGIO-RUIZ, La compilazione giustinianea e i suoi commentatori bizantini (da Ferrini a noi), in Scritti Ferrini, Milano 1946, 90 ss. [ora in Scritti di diritto romano, IV (Napoli 1974) 10 ss. ]; MASCHI, La Parafrasi

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Questa tesi, che si basava fondamentalmente sulla considerazione dei numerosi luoghi in cui il Parafraste attingeva chiaramente a Gaio, anche là dove Giustiniano se ne discostava, e dell’esiguità del tempo impiegato per redigere l’opera – fatti non altrimenti spiegabili, secondo l’interpretazione qui considerata, se non ipotizzando l’utilizzazione di un preesistente modello già tradotto in greco e già contenente uno svecchiamento del testo classico tale da consentire appunto a Teofilo una rapida ed aggiornata conclusione del lavoro 3 –, rimasta per lungo tempo assolutagreca delle Istituzioni attribuita a Teofilo e le glosse a Gaio, in Scritti Ferrini, Milano 1946, 321 e Punti di vista per la costruzione del diritto classico (da Adriano ai Severi) attraverso una fonte bizantina, in Annali triestini, 16 (1947) 79 ss.; CHIAZZESE, Introduzione allo studio del diritto romano3, Palermo 1948, 463 s.; COLLINET, La genése du Digeste, du Code et des Institutes de Justinien, Paris 1952, 295 ss.; D’EMILIA, Note esegetiche intorno ad alcune definizioni contenute nella Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, in Annali di Storia del diritto, 5-6 (1961-62) 139 e nt. 12; DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, in Studi Biondi, I (Milano 1965) 1 ss.; SANTALUCIA, Contributi allo studio della Parafrasi di Teofilo, in SDHI 31 (1965) 171 ss.; ROBBE, Su la Universitas, in Ricerche storiche ed economiche in memoria di C. Barbagallo, I (Napoli 1967, ma pubbl. 1979) 628 ss.; SIMON, rec. a Scheltema, L’einsegnement de droit des Antécessores, in TR 39 (1971) 483; SITZIA, De actionibus. Edizione e commento, Milano 1973, 100 nt. 103; NELSON, Überlieferung Aufbau und Stil von Gai Institutiones, Leiden 1981, 272 ss.; BONA, Contardo Ferrini tra storia e sistematica giuridica, in Nuovo Bollettino Borromaico, 20 (1982) 98 s.; GIODICE-SABATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi fra Augusto e Vespasiano, Bari 1993, 48; GORIA, Contardo Ferrini e il diritto bizantino, in Contardo Ferrini nel I centenario della morte. Fede, vita universitaria e studio dei diritti antichi alla fine del XIX secolo (a cura di D. Mantovani), Milano 2003, 126 ntt. 49-51; LAMBERTINI, Introduzione allo studio esegetico del diritto romano3, Bologna 2006, 138. 3 Sulla esatta natura di questo archetipo, se cioè fosse una semplice traduzione greca del testo latino o un commentario, non vi è peraltro assoluta chiarezza in dottrina: tant’è che – giustamente – si preferisce appunto parlare in proposito di ‘preesistente modello’ o di scritti greci di commento a Gaio (v., in tal senso, in specie SANTALUCIA, Contributi allo studio della Parafrasi di Teofilo, cit., 173 nt. 6 e FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, Palermo 1998, 307 nt. 237). Alla utilizza-

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mente dominante, è oggetto oggi, come dicevo, di una forte revisione critica, grazie soprattutto al contributo determinante offerto dalla scuola di Groningen (e in specie dal Van der Wal e dal Lokin 4) e da Giuseppe Falcone 5, alle cui opinioni ho già avuto peraltro modo di aderire 6. Infatti, a parte la giusta osservazione del Falcone per cui di questa presunta rivisitazione in greco del testo di Gaio non c’è in realtà alcuna traccia concreta, per cui l’ipotesi resta a livello meramente congetturale 7, non si può non considerare, infatti, che Teofilo aveva tenuto fino al 533 i corsi di insegnamento di I anno proprio sulle Institutiones di Gaio. Senza voler negare né sottovalutare l’apporto dell’attività interpretativa svolta dalle scuole di Berito e di Costantinopoli nel V secolo 8 e della quale è anzi zione delle Res cottidianae pensava, invece, soprattutto l’ARANGIO-RUIZ, La compilazione giustinianea, cit., 91 s. (ma v. anche AMELOTTI, Appunti su Giustiniano e la sua compilazione2, II, Torino 1983, 112). 4 Cfr. VAN DER WAL-LOKIN, Historiae iuris graeco-romani delineatio2, Les sources du droit byzantin de 300 à 1453, Groningen 1985, 125. 5 FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 306 ss. e La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, in TR 68 (2000) 430 nt. 36. Per altre critiche già mosse in epoca precedente all’ipotesi ferriniana rimando a SANTALUCIA, Contributi allo studio della Parafrasi di Teofilo, cit., 172 nt. 3. 6 Cfr. RUSSO RUGGERI, Teofilo e la spes generandi, in IURA 58 (2010) 170 ss. 7 Così FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 307. 8 Sulle scuole giuridiche presenti in Oriente prima di Giustiniano cfr., per tutti, MORTREUIL, Histoire du droit byzantin o du droit romain dans l’empire d’orient, depuis la mort de Justinien jusqu’à la prise de Costantinipole en 1453, I, Paris 1843, 258 ss.; PETERS, Die oströmischen Digestenkommentare und die Enstehung der Digesten, Leipzig 1913, 60 ss.; DE FRANCISCI, Vita e studi a Berito tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, Roma 1912, 3 ss.; SCHELTEMA, L’einsegnement de droit des Antécessores, (Bizantina Neerlandica, S. B, Studia, Fasc. I), Leiden 1970, 11 ss.; PIELER, Byzantinische Rechtsliteratur, in H. Hunger, Die hochsprachliche profane

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plausibile pensare che anche Teofilo abbia tenuto conto (cosa che però – vorrei sottolineare – è assai diversa dal sostenere la dipendenza della Parafrasi da un preciso archetipo proveniente da quelle scuole), il fatto che il manuale gaiano abbia imperniato di sé tutta l’opera di Teofilo è, io credo, un’evenienza quasi inevitabile. Giustamente, dunque, il Van der Wal ed il Lokin si sono richiamati alla forza dell’abitudine, che avrebbe talora portato il Parafraste, avvezzo ad impostare il proprio insegnamento sul testo gaiano, a confrontarsi con questa fonte piuttosto che con il ¸htÕn 9: non c’è dubbio infatti che i numerosi prestiti gaiani che si rinvengono nel testo della Parafrasi, e dei quali non c’è traccia nel manuale imperiale, siano la naturale, logica conseguenza della diretta ed approfondita conoscenza che l’antecessor aveva della fonte classica, dell’abitudine a svolgere l’insegnamento di I anno proprio su quel testo, forse pure – come suggerisce il Falcone – dell’utilizzazione del precedente materiale su Gaio di cui disponeva 10 e, infine ma non da meno, dell’influenza che ineLiteratur der Byzantiner, II, München 1978, 404 s.; VAN DER WAL-LOKIN, Historiae, cit., 21 s.; GOMEZ ROYO, Introducción al derecho bizantino, in Seminarios Complutenses de derecho romano, VIII (1996) 159 ss. 9

Cfr. VAN DER WAL-LOKIN, Historiae, cit., 125. Alla familiarità dell’antecessore con la fonte classica si richiama anche il Falcone, che addirittura ipotizza appunto l’utilizzazione da parte di Teofilo di una stesura scritta delle lezioni tenute in precedenza sul manuale gaiano (così cfr. FALCONE, La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, cit., 430 nt. 36, dove l’autore già affermava che «sembra legittimo supporre che Teofilo avrà portato con sé a lezione anche gli appunti che gli erano serviti per i corsi precedenti (relativi, cioè, alle Institutiones gaiane) e – perché no? – magari anche una copia dello stesso manuale di Gaio»; e, più recentemente, Premessa per uno studio sulla produzione didattica degli antecessores, in Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici (a cura di J.H.A. Lokin e B.H. Stolte), Pavia 2011, 154, in cui, ancora più esplicitamente, congettura appunto la redazione di una stesura integrale o di un brogliaccio delle lezioni tenute anteriormente all’entrata in vigore 10

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vitabilmente tutto ciò aveva comunque esercitato sulla sua formazione culturale. Come ho già avuto modo di osservare, a me sembra anzi che la presenza di queste tracce possa considerarsi addirittura un fatto del tutto fisiologico, nel senso che, al contrario, apparirebbe ben strano che Teofilo, nell’apprestarsi ad insegnare per la prima volta ai suoi studenti le Institutiones sul nuovo manuale appena finito di compilare, fosse riuscito a liberarsi ex abrupto del condizionamento culturale e dell’esperienza acquisiti durante i corsi di I anno condotti sul testo gaiano 11. Tanto più che non credo che egli avesse effettivamente bisogno di servirsi della mediazione di un modello gaiano in lingua greca, dato che plausibilmente già da tempo la traduzione agli studenti grecofoni del testo latino (index) costituiva la prima fase su cui si incentrava di norma l’insegnamento 12: il che della riforma degli studi, stesura che Teofilo avrebbe tenuto presente nello svolgimento della nuova didattica. 11 RUSSO RUGGERI, Teofilo e la spes generandi, cit., 171 s. 12 Non appare, infatti, del tutto condivisibile l’opinione espressa di recente da LOKIN-VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione. Dalla legislazione di Giustiniano ai Basilica cum scholiis, in Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici (a cura di Lokin e Stolte), Pavia 2011, 121 s., per i quali l’introduzione di un nuovo metodo di insegnamento, che prevedeva appunto la previa dettatura della traduzione greca del testo latino, risalirebbe al 533 d.C. e si giustificherebbe col fatto che la conoscenza del latino da parte degli studenti grecofoni aveva raggiunto proprio allora il livello più basso. Senonché, non si può non rilevare come la scarsa padronanza del latino tra i giovani bizantini fosse un fenomeno presente nella realtà già da parecchio tempo, un fenomeno del quale le scuole giuridiche orientali non potevano non aver preso atto: il che induce a credere che l’esigenza di garantire l’esatta comprensione delle fonti latine da studiare fosse stata avvertita ancor prima del 533 e, dunque, che la prassi di procedere alla previa traduzione dei testi fosse di fatto già diffusa tra i maestri di diritto del V secolo. Se così è, ciò significa che plausibilmente gli antecessores si limitarono in proposito a recepire ed ufficializzare una metodologia d’insegnamento da tempo ormai sperimentata nelle scuole orientali. Del resto, una sia pure indiretta conferma in questa direzione può rav-

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vuol dire che egli doveva padroneggiare assai bene anche la versione greca del manuale gaiano, chissà quante volte ripetuta e magari dettata a lezione 13. Tra l’altro, non va dimenticato il fatto che Teofilo aveva materialmente partecipato alla compilazione del nuovo manuale, essendo stato chiamato insieme a Triboniano e Doroteo a far parte della commissione ad hoc istituita, e, dunque, che aveva avuto anche un’ulteriore recentissima occasione per approfondire ancora di più lo studio del manuale classico, che costituì – come è noto – la base principale sulla cui falsariga furono (con i necessari aggiornamenti e le necessarie modifiche) redatte le Institutiones imperiali: e magari – perché no? – anche l’occasione per confrontarsi su di esso con Doroteo e Triboniano, anche alla luce delle altre molteplici opere consultate per la redazione del nuovo testo 14 e – soprattutto – dell’ultimanda compilazione dei iura. Ed è anzi assai probabile a mio avviso che anche da questo recente e diverso contatto con Gaio, visto nell’ottica di una sua attualizzazione, e magari visarsi a mio avviso nell’esistenza di una non irrilevante letteratura elementare di tipo isagogico in lingua greca in epoca pregiustinianea (sulla quale v., per tutti, nell’ottica qui considerata, MATINO, Lingua e letteratura nella produzione giuridica bizantina, in Spirito e forme della letteratura bizantina (Quaderni dell’Accademia Ponteniana, 47, Napoli 2006, 66 s.), che dimostra appunto come nella prassi e nell’insegnamento l’adozione della lingua greca fosse ormai considerata una necessità imprescindibile. 13 Sulla pratica della dettatura dei testi da parte dei docenti già in epoca anteriore alla riforma degli studi cfr. SIMON, Aus dem Kodexunterricht des Thalelaios, in ZSS 86 (1969) 336 ss., che sottolinea tra l’altro come la stessa cost. Omnem (§1) ricordi che libros a voce magistra studiosi accipiebant. 14 Per il quale furono visionate, come è noto, non solo le Institutiones e le Res cottidianae di Gaio, ma le Istituzioni di Ulpiano, Fiorentino, Marciano e Paolo, oltre ad altre opere ancora (v. const. Imperatoriam § 6). Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano fondamentale rimane FERRINI, Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano, in BIDR 13 (1901) 101 ss. (= Opere, II, Milano 1929, 307 ss.).

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appunto dalla lettura delle altre fonti utilizzate e dal confronto con le idee espresse su questo o su quel tema dagli altri commissari, egli abbia potuto attingere nuovi spunti per le lezioni che si accingeva a cominciare sull’aggiornato testo istituzionale 15. L’ipotesi di un preesistente scritto in greco che avrebbe fatto da tramite tra Gaio e Teofilo è, dunque, anche a mio avviso un’idea assolutamente artificiosa. Per fare un esempio a noi più vicino, sarebbe un po’ come pensare che i molteplici riferimenti alla disciplina previgente contenuti nei manuali di procedura penale apparsi in Italia dopo il 1988 siano stati tratti, ad esempio, da un riassunto delle precedenti edizioni condotte sul Codice Rocco e circolante tra gli studenti o gli addetti ai lavori e non derivino, come invece sicuramente è, dalla personale esperienza acquisita dagli autori proprio grazie all’insegnamento tenuto su quei corsi e dall’influenza che ne è derivata sulla loro formazione culturale.

2. Ciò posto, credo si debba fare però in proposito qualche ulteriore osservazione, che in un certo senso va oltre la specifica questione dell’utilizzazione diretta o indiretta del manuale gaiano. Infatti, a parte la certa ed approfondita conoscenza delle Institutiones di Gaio che gli derivava dalla pratica didattica condotta con gli studenti di I anno proprio su quel testo, non va sottovalutata la circostanza che Teofilo teneva anche gli insegnamenti degli anni successivi su testi diversi 15 Che le Institutiones rappresentino «un momento di riflessione e di presa di coscienza sull’apparato giuridico precedentemente compilato» è osservato anche dal LAMBERTINI, Introduzione allo studio esegetico del diritto romano, cit., 121.

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dalle istituzioni gaiane 16 e, inoltre e soprattutto, che egli era comunque un illustre accademico ed un iuris peritus, come attesta Giustiniano nella costituzione Tanta e nelle altre costituzioni introduttive del Corpus iuris 17: il che significa che l’antecessor certamente possedeva una vasta cultura di base, che gli proveniva dagli anni di insegnamento e di studio condotti sui testi giuridici classici. Proprio come i professori di oggi, la cui preparazione non si fonda ovviamente solo sul libro o sui libri su cui svolgono la didattica, ma sulle molteplici letture che, nel corso di una vita dedicata alla ricerca e all’insegnamento, hanno contribuito alla loro formazione professionale. D’altra parte, il fatto stesso che l’imperatore gli avesse affidato l’insegnamento del diritto e che lo avesse voluto poi nelle commissioni incaricate di redigere il I Codice, i Digesta e le Institutiones costituisce la prova più evidente dell’esperienza e dell’autorevolezza che in materia erano riconosciute all’antecessor, esperienza ed autorevolezza che a loro volta non potevano che derivargli dai risalenti ed approfonditi studi compiuti sugli scritti giuridici antecedenti: come peraltro conferma lo stesso Giustiniano nel § 1 della costituzione Omnem, laddove ricorda come i maestri si premurassero di studiare per conto loro l’antica giurisprudenza al fine di possederne una conoscenza più ampia di quella degli studenti 18. 16 Come è noto, l’organizzazione degli studi giuridici per il periodo anteriore alla riforma giustinianea ci è conosciuta principalmente attraverso le poche informazioni fornite da Giustiniano nel § 1 della const. Omnem; ma interessanti spunti sono offerti anche dal racconto della vita di Severo fatta da Zaccaria lo Scolastico, su cui v. DE FRANCISCI, Vita e studi a Berito, cit., 3 ss. 17 Cfr. infatti le parole con cui Giustiniano apostrofa Teofilo nelle costituzioni Haec quae necessario (§ 1), Summa (§ 2), Imperatoriam (§ 3), Tanta-Dšdwken (§§ 9 e 11), Omnem (§ 9) e Cordi (§ 2). 18 Cfr. const. Omnem (§1): … vel ipsi magistri legum aliquid ex his perlegere festinabatis, ut sit vobis aliquid amplius discipulorum peritia.

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Già questa constatazione sarebbe sufficiente, a mio avviso, a comprendere come, nell’apprestarsi a tradurre e commentare le Istituzioni imperiali, Teofilo non avesse potuto fare a meno di attingere, oltre che alle Istituzioni gaiane, anche al vasto patrimonio culturale che certamente possedeva e che plausibilmente gli era già servito peraltro anche per impostare l’insegnamento su Gaio. Ancora una volta – non si può fare a meno di ripetere – esattamente come succede oggi a noi, quando, nell’affrontare un dato argomento in un corso istituzionale, non possiamo fare a meno di partecipare agli studenti ciò che fa parte ormai inscindibilmente del nostro retroterra culturale e, magari, anche i risultati delle nostre ricerche o di altre più recenti letture. Ma a Teofilo – non si dimentichi – era successo qualcosa di più, qualcosa che assai raramente e non a tutti i professori capita nella vita: un’esperienza per certi versi ‘unica’, quella cioè di venire chiamato, nel 529 d.C., a far parte della commissione incaricata di redigere il nuovo Codice e, soprattutto, nel 530 d.C., della commissione alla quale Giustiniano affidò il compito di effettuare una raccolta di iura che salvasse dall’oblio, aggiornandoli, gli scritti dei giuristi classici; oltre che, come si è detto, della commissione preposta alla redazione delle Institutiones imperiali. Ora, queste particolarissime esperienze, tutte avvenute peraltro negli anni immediatamente precedenti la redazione della Parafrasi 19, non possono non avere naturalmente influito sul 19 Secondo una congettura assai verosimile e comunemente condivisa, il corso istituzionale dal quale sarebbe stata tratta la Parafrasi si svolse con buona probabilità nel 533-534 d.C. e cioè, in sostanza, contemporaneamente al completamento e all’adozione del nuovo manuale e contemporaneamente al completamento e alla pubblicazione dei Digesta, avvenuta il 16 dicembre del 533 con la c. Tanta-Dšdwken (in tal senso v., tra gli altri, SCHELTEMA, Subseciva, IV, cit., 92 e L’enseignement de droit des Antéces-

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lavoro di commento che il Parafraste si accingeva a compiere. La partecipazione ai lavori di predisposizione del Codice e, ancor più, dei Digesta, infatti, lo avevano costretto innanzi tutto ad un’attenta e sistematica lettura delle costituzioni imperiali e delle opere giurisprudenziali dalle quali andava selezionato il materiale da inserire nelle nuove raccolte; e, successivamente, ad un’opera di aggiornamento delle fonti prescelte, che dovevano altresì essere opportunamente modificate per essere rese al passo con i tempi. E se pure condivise il compito con gli altri commissari, non c’è dubbio che la mole delle leges e – ancor più – dei frammenti giurisprudenziali visionati da ciascuno di essi dovette essere comunque notevolissima. Ora, è evidente che queste recenti ‘avventure’ in cui era stato coinvolto dovevano aver procurato a Teofilo un grosso arricchimento del proprio patrimonio culturale, nel senso che gli avevano fornito un’ulteriore, specialissima occasione di leggere non solo un rilevantissimo numero di fonti giuridiche del periodo classico (molte delle quali sicuramente per la prima volta!) riguardanti i più svariati campi del diritto, ma anche le tante testimonianze dell’età tardo-antica che avevano in parte modificato il regime in seurs, cit., 18; PIELER, Byzantinische Rechtsliteratur, cit., 420; VAN DER WAL-LOKIN, Historiae, cit., 41 e 125; FALCONE, Il metodo di compilazione, cit., 312 nt. 246; LOKIN-VON BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, cit., 125). Una serie di indizi (quali la mancata partecipazione di Teofilo alla redazione del II Codice, il fatto che l’altra sua opera, l’Indice del Digesto, sia rimasta tronca ai libri de rebus ed il silenzio sulle innovazioni legislative emanate in data successiva alle Institutiones) fanno pensare infatti con una certa fondatezza che l’antecessor sia morto prima dell’avvio della repetita praelectio del Codice e, dunque, presumibilmente non oltre la metà del 534 (per questa prevalente opinione e per altre interpretazioni avanzate al riguardo, rimando comunque agli autori citati in Teofilo e la spes generandi, cit., 172 s. nt. 14, cui si aggiunga ora LOKIN-VON BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione, cit., 123 s.).

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esse previsto e sulla cui base doveva poi essere effettuato l’aggiornamento del materiale inserito nel Codice e nel Digesto. Ma anche la redazione del nuovo manuale istituzionale, nel quale la regolamentazione giuridica assunta dagli istituti venne sinteticamente esposta in un testo specificamente finalizzato alla didattica, ma che era entrato in vigore con forza di legge insieme ai Digesta il 30 dicembre del 533, deve aver costituito come si è detto per l’antecessor (che alla predisposizione di quel manuale contribuì in modo – a quanto pare – determinante 20) un’ulteriore fonte di conoscenza e di riflessione. Teofilo, dunque, quando iniziò il suo primo anno di insegnamento sulle Institutiones imperiali, era appena uscito da questi avvenimenti ed aveva ben presente, quindi, almeno un buon numero dei testi delle costituzioni imperiali e dei responsa dei giuristi classici nella loro versione originaria e nella versione in cui erano stati inseriti, una volta interpolati, nel Codice e nei Digesta; oltre che la summa che degli istituti era stata fatta nel manuale istituzionale. Ebbene, se si tiene conto di queste circostanze, io credo si possa ragionevolmente ipotizzare che, nel commentare lo spesso scarno dettato delle Istituzioni giustinianee, il Parafraste abbia abbondantemente attinto non solo a Gaio 20 Sul punto v., per tutti, la bella indagine del FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., il quale, accogliendo un’intuizione dell’HONORÉ, Tribonian, Oxford 1978, 189 ss., ha ipotizzato che Teofilo e Doroteo avessero curato l’esposizione del materiale classico, mentre Triboniano avrebbe provveduto all’aggiornamento del testo alla luce delle innovazioni legislative postclassiche e giustinianee. Quanto alla divisione del lavoro tra Teofilo e Doroteo, essa sarebbe avvenuta per materie: il primo avrebbe redatto le parti relative alle persone e alle successioni universali, il secondo le parti riguardanti le res, le obbligazioni e le successioni. Accedendo a questa interpretazione, dunque, a Teofilo andrebbero attribuiti il I libro (tranne il § 7) ed alcuni titoli del II e del III libro (in specie, II. 10-24 e III. 1-11).

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e al patrimonio culturale già acquisito nei lunghi anni di studio e di docenza condotti su quello e sugli altri testi utilizzati per l’insegnamento (che – va ribadito – non riguardava solo il I anno!), ma anche e soprattutto al bagaglio di conoscenze che gli era derivato appunto dalle esperienze appena concluse e, in maniera particolare, dalla partecipazione alla compilazione dei Digesta: che nella Parafrasi, cioè, convergano in realtà le tre “anime” di Teofilo, il docente, il iuris peritus, il compilatore, che essa sia cioè, in altri termini, la risultanza delle tre esperienze di vita e di lavoro vissute dall’antecessor. Se così è, è evidente allora che il problema non è tanto o solo quello dell’utilizzazione (diretta o indiretta) del manuale di Gaio – che, come si è detto, fu con buona probabilità costantemente tenuto presente nella sua versione originale non solo per la forza dell’abitudine, ma anche e soprattutto per l’influenza ed il naturale condizionamento che aveva prodotto sulla sua formazione culturale –, ma, più in generale, del retaggio che sulla Parafrasi hanno lasciato la cultura pregressa dell’autore e, in special modo, il suo coinvolgimento nei lavori di compilazione delle principali parti del Corpus iuris. Ed io credo che, soprattutto nelle proteorie e in sede di paragraf», Teofilo si sia spesso ispirato soprattutto alle opere dei giuristi classici, lette (o rilette) in occasione dei Digesta (e talora magari poi neanche inserite nella raccolta!). D’altra parte, che dietro la Parafrasi ci sia del materiale classico non confluito nelle Institutiones è un fatto indubbio ed anche da tempo generalmente ammesso 21: come ho già avuto modo di dire, sono convinta tuttavia che il fe21 In questa prospettiva v., ad esempio, per tutti, MASCHI, Punti di vista per la costruzione del diritto classico, cit., 79 ss.

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nomeno sia molto più ricorrente di quanto si creda o di quanto appaia a primo acchito 22.

3. Una prima testimonianza assai significativa nella prospettiva qui considerata ci proviene ad esempio dal titolo V del I libro, dedicato ai libertini, e in specie da quel § 4, non presente nel ¸htÕn, aggiuntovi (secondo Ferrini) da Teofilo. Ora, come è noto, dopo avere definito i libertini 23, sulla scia di I. 1.5 pr. e Gai 1.11, e chiarito, riproducendo sostanzialmente D. 1.1.4 di Ulpiano 24, cos’è la manomissio22 Per un interessante brano sull’adozione in cui la trattazione di Teofilo tradisce le conoscenze acquisite in materia presumibilmente proprio in occasione della redazione dei Digesta cfr. già RUSSO RUGGERI, Teofilo e la spes generandi, cit., 170 ss. 23 Cfr. PT. 1.5 pr. E„r»kamen t…nev e„sˆn eÙgene‹v: e‡pwmen kaˆ toÝv ¢peleuqšrouv. ¢peleÚqerÒv ™stin Ð ™k dika…av doule…av ™leuqerwqe…v: prÒsqev dš kaˆ ™nnÒmou. OÙkoàn ¢peleÚqerÒv ™stin Ð ™k dikaˆav kaˆ ™nnÒmou doule…av ™leuqerwqe…v. prÒsketai tù Ór‚ dika…av †na ™xšlw tÕn ™n ¢gno…a tÁv o„ke…av douleÚonta katast£sewv, ™nnÒmou d\e prost…qetai di¦ tÕ t¾n fÚsin oÙk e„dšnai toÝv doÚlouv, ¢ll¦ taÚthn eØrÁsqai ™k tÁv tîn polšmwn ™pino…av (Diximus quidam sint ingenui; iam est ut de libertinis dispiciamus. Libertinus est qui ex iusta servitute manumissus est. Adde et legitima. Est igitur libertinus qui ex iusta legitimaque servitute est manumissus. Additum est definitioni iusta ut eximam qui ignorantia suae condicionis servit: legittima vero quia natura servos non novit, servitus enim ex bellorum inventione introduca est). L’aggiunta di œnnomov dika…a a doule…a, che il DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 44 s. considerava una nota marginale scritta da un lettore tardo, può ben essere invece una riflessione del parafraste, volta a sottolineare ancora una volta l’origine della schiavitù dallo ius gentium. 24 V. D. 1.1.4 (Ulp. 1 inst.) Est autem manumissio de manumissio, id est datio libertatis: nam quamdiu quis in servitute est, manui et potestati suppositis est, manumissus liberatur potestate. Quae res a iure gentium originem sumpsit, utpote cum iure naturali omnes liberi nascerentur nec esset nota manumissio, cum servitus esset incognita: sed posteaquam iure gentium servitus invasit, secutum est beneficium manumissionis. Et cum uno naturali

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ne, nei restanti §§ – a parte una lunga digressione sui dediticii chiaramente tratta da Gai 1.13-15 25 – Teofilo segue per lo più il ¸htÕn, a sua volta in parte derivato da Gai 1.17-20, ma – è importante sottolineare – del tutto mutilato delle parte relativa alla disciplina introdotta dalla lex Aelia Sentia per la manomissione dei servi minori di trent’anni ed al consilium 26. A questo punto, però, ricollegandosi alla chiusa del § 3 delle Istituzioni (nella quale, dopo aver ricordato le costituzioni con le quali sugerente Triboniano erano state eliminate la condizione dei dediticii e la latinità iuniana, si sottolineava come Giustiniano avesse dunque concesso a tutti i liberti la cittadinanza romana, senza distinzione né dell’età del manomesso, né della proprietà del manomissore, né del modo di manomissione 27), Teofilo introduce una lunga proteoria, che si sviluppa in un quarto paragrafo che nominee appellaremur; iure gentium tria genera esse coeperunt: liberi et his contrarium servi et tertium genus liberti, id est qui desierant esse servi. 25 Rispetto a Gaio risulta espunta la frase ut ferro aut cum bestiis depugnarent, ormai inattuale dopo i divieti dei ludi gladiatori introdotti da Costantino e dai suoi successori [v. CTh. 15.12.1 (= CI. 11.44.1) e 2, e 9.40.11]. 26 Cfr. PT. 1.5.1-3. 27 Cfr. I. 1.5.3 … et dediticios quidam per constitutionem expulimus, quam promulgavimus inter nostras decisiones, per quas sugerente nobis Triboniano viro excelso questore antiquis iuris altercationes placavimus: Latinos autem iunianos et omnes quae circa eos fuerit observantiam alia constitutione per eiusdem quaestoris suggestionem correximus, quae inter imperiales radiat sanctiones, et omnes libertos nullo nec aetatis manumissi nec dominii manumissoris nec in manumissionis modo discrimine habito, sicuti antea observabatur, civitate romana donavimus: multis additis modis, per quos possit libertas servis cum civitate romana, quae sola in presenti est, praestari. Sulle costituzioni attraverso cui Giustiniano avrebbe abolito la condizione dei deditici e la latinità iuniana, pervenuteci in CI. 7.5.1 e 7.6.1 ed espressamente qualificate come decisiones, v., per tutti LUCHETTI, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano 1996, 17 ss., e RUSSO RUGGERI, Studi sulle Quinquaginta decisiones, Milano 1999, 30 e 50 s.

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non ha un corrispondente nel ¸htÕn: una proteoria che il Maestro verosimilmente ritenne necessario esplicitare allo scopo di rendere intelligibili agli studenti quei sintetici accenni all’età, al dominium ed ai modi di manomissione inseriti nel testo istituzionale ed in effetti non facilmente comprensibili per chi non conosceva il regime previsto dalla lex Aelia Sentia, non riportato – come si è appena detto – nelle istituzioni imperiali. Si legga: PT. 1.5.4 Kaˆ toÝv m\en dediticíus di£taxiv ¢ne‹le toà qeiot£tou basilšwv ¢ntigrafe‹sa prÕv suggestíona ¢pÕ Tribounianoà toà Øperfuest£tou koia…storov ¿n ta‹v decisíosi sunariqmoumšnhn, ™xefènhse t¦v tîn ¢rca…wn diakr…nwn ¢mfibol…av. ToÝv d\e latínus iunianùs kaˆ p©san ¼tiv ™p’aÙto‹v Ãn parafulak¾ toà aÙtoà suggereúontos ™ndoxot£tou koia…storov tÁv polite…av ™x»lase di’˜tšrav diat£xewv, ¿n ™kl£mpousan ™stˆn „de‹n metaxÝ tîn basilikîn diat£xewn, éste p£ntav ™leuqšrouv pol…tav eŒnai þwma…ouv, mhdemi©v oÜshv perˆ diafor©v t¾n ¹lik…an toà ™leuqeroumšnou ½ t¾n despote…an toà ™leuqeroàntov ¼ tÕn prÒpon tÁv ™leuqer…av, kaq£per ™ful£tteto kaˆ prÒpalai. t… d\e toàtÒ ™stin ¢nagka‹on e„pe‹n. œce d\e taàta æv ™n proqewr…a. œsti par¦ þwma…oiv œnnomov ¹lik…a kaˆ fusik¹ ¹lik…a, œnnomov despote…a kaˆ fusik¾ despote…a, œnnomov trÒpov ™leuqer…av kaˆ fusikÕv trÒpov ™leuqer…av. kaˆ fusik¾ mšn ™stin ¹lik…a ¹ ¼tton tîn l ™niautîn, œnnomov d\e ¹ Øper tîn l, oÙc Óti t¾n me…zona tîn l ™niautîn ¹lik…an ¹ fÚsiv ¢gnoe‹, p©sa g¦r ¹lik…a fusik¾: ¢ll’™peid¾ Ð nÒmov „dikîv ™mn»sqhtÁv Øpšr t¦ l œth, di¦ toàto eŒpon aÙt¾n œnnomon. œstin, èv eŒpon, fusik¾ despote…a kaˆ œnnomov despote…a. kaˆ ¹ m\en fusik¾ lšgetai in bonis kaˆ Ð despÒthv bonit£riov, ¹ d\e œnnomov lšgetai ex iure quiritium, toutšstin ™k toà dika…ou tîn politîn rwma…wn (quirites) g¦r oƒ þwma‹oi ¢pÕ þwmÚlou, ™x oá t¾n ¢rcaiogon…an ™sc»kasin, Ð d\e despÒthv ex iure quiritario. e„

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dš tiv ¢mfotšrav œsce t¦v despote…av ™lšgeto pleno iure dominus, toutšsti tele…w dika…w despÒthv, æv œcwn ¢mfotšrav t¾n œnnomon kaˆ t¾n fusik»n. œsti kaˆ œnnomov prÒpov ™leuqer…av kaˆ fusikÕv trÒpov ™leuqer…av: kaˆ Ð œnnomov trÒpov ™g…neto kat¦ tre‹v trÒpouv vindicta censu testamento. kaˆ vindicta Ãn ¹ ™pˆ toà ¥rcontov ginomšnh ™leuqer…a. ™lšgeto d\e vindicta quia vindicabatur mancipium in naturalem libertatem, ™peid¾ ™xedike‹to kaˆ ¢nštrece tÕ ¢ndr£podon e„v t¾n fusik¾n ™leuqer…an. ½ ¢pÕ vindiciu tinÕv, Öv ên o„kšthv ™piboul¾n ™somšnen kat¦ tÁv þèmhv ™m»nuse kaˆ ºleuqerèqh dhmos…a ØpÕ þwma…wn. kaˆ e„v tim¾n toÚtou p£ntev oƒ ™p… ¥rcontov ™leuqeroÚmenoi ™lšgonto vindicta ™leuderoàsqai. TÕ d\e censu prošbaine toàton tÕn trÒpon. kÁnsov Ãn sanˆv ½toi c£rthv, œnqa þwma‹oi ¢pegr£fonto t¦v o„ke…av perious…av ™p… tÕ ™n kairù polšmou kat¦ tÕ mštron tÁv „d…av Øpost£sewv œkaston e„sfšrein. ™n toÚt‚ oân tù k»ns‚ e‡pote o„kšthv kat¦ kšleusin despÒtou ˜autÕn ™leÚqeron ¢pšgrayen, ¢phll£tteto tÁv doule…av. testamento d\e, ¹n…ka tiv ™n diaq»kV tÕn ‡dion o„kšthn ºleuqšrwsen. fusikoˆ d\e trÒpoi ™leuqer…av Ãsan tre‹v: inter manicos per mensam per epistulam. kaˆ inter amicos m\en, ¹n…ka f…lwn parÒntwn ºleuqšroun tin£. per mensam, Óte sunestiaqÁna… moi ™pˆ ™leuqer…av dÒsei prosštatton tù o„kštV: per epistulam, ¹n…ka Ônti aÙtù ™n ˜tšraÄ cèraÄ di’ ™pistolÁv ™pštrepon di£gein ™n ™leuqer…aÄ . ™peid» soi toàta proteqeèrhtai Óra loipÕn tÕ proke…menon. ¹n…ka tr…a Ÿnnoma sundr£mV ™pˆ tù ™leuqeroumšn‚ o„kštV, éste aØtÕn kaˆ Øperbebhkšnai tÕn l ™niautÕn kaˆ Ÿcein ™p’aÙtÕn tÕn despÒthn t¾n œnnomon despote…an, toutšsti tÕ ex iure quiritium, ºleuqeroàto d\e kaˆ Ð o„kšthv À vindicta À censu À testamento, p£qov d\e m¾ Øpškeito, p¢ntwv Ð ™leuqeroÚmenov ™g…neto pol…thv þwma‹ov. e„ d\e p£qouv m¾ ÙpÒntov, oÙ sunšdrame t¦ tr…a œnnoma, À g¦r Ð o„kšthv Ãn ™l£ttwn tîn l À Ð despÒthv bonit£riov mÒnon Ãn, oÙc e‹ce d\e kaˆ œnnomon despote…an, À ™g…neto ¹ ™l-

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euqer…a per mensam À per epistulam À inter amicos, ½toi dÚo ™sqÒte ™nšlipe t¦ œnnoma À kaˆ t¦ tr…a, Ð ™leuqeroÚmenov ™g…neto latînos iunianós: p£qouv d\e Øpokeimšnou p£ntwv ™g…neto dediticios. ¢ll¦ taàta m\en kat¦ tÕ palaiÒn: s»meron d\e, ™peid¾ monoeid»v ™stin ¹ ¢peleuqerÒthv, æv e‡rhtai, Ñ ™leuqeroÚmenov p£ntwv g…netai pol…thv þwma‹ov, oÙ diaferomšnwn ¹mîn oÜte perˆ despote…av oÜte perˆ trÒpou ™leuqer…av oÜte perˆ ¹lik…av 28.

28 Et dediticios quidem constitutio sacratissimi principis sustulit, quam Triboniano viro excelso quaestore suggerente rescripsit, et inter suas decisiones promulgavit, veterum dirimens altercationes. Latinos autem iunianos et omnem quae circa eos fuerat onservantiam, eodem suggerente gloriosissimo quaestore, alia constitutione abrogavit, quam inter principales constitutiones radiantem videre est, ut nempe omnes liberti cives essent romani, nullo discrimine neque aetatis manumissi, neque dominii manumissoris, neque in manumissionis modo habito, sicuti antea observabatur. Quid autem id sit dicendum est. Ante omnia id perspectum habeas. Est apud romanos aetas legitima et aetas naturalis, legitimum dominium et dominium naturale, modus legitimus manumissionis et naturalis modus manumissionis. Et naturalis quidem aetas est quae minor est annis XXX: legitima quae maior est anno trigensimo. Non quia aetatem XXX annis maiorem natura ignoret, cum omnis aetas naturalis sit, set quia lex eius aetatis specialem fecerit mentionem, quae trigensimo anno maior sit, ideo legitima aetas ea est vocata. Est igitur, sicut dixi, naturale dominium et legitimum dominium. Naturale autem dicitur in bonis, et dominus bonitarius; legitimus autem dicitur ex iure Quiritium, idest civium romanorum (Quirites enim dicuntur Romani a Romulo, unde originem duxerunt) dominus vero ex iure quiritario. Si quis autem utrumque haberet dominium, pleno iure dominus dicebatur, utpote qui utrumque legitimum et naturale haberet dominium. Est et legitimus manumittendi modus et naturalis manumittendi modus. Et legitimus modus trifariam fiebat, vindicta censu testamento. Et vindicta manumissio est quae apud magistratum fit. Dicebatur autem vindicta, quia vindicabatur mancipium in naturalem libertatem, vel a Vindicio quodam. Qui, cum servus esset, coniurationem adversus rempublicam futuram indicio detexit, et a Romanis publice est manumissus: in cuius honorem omnes qui apud magistratum manumitterentur, vindicta manumissi dicebantur. Censu autem manumissio ita procedebat. Censu erat tabula seu charta, ubi Romani facultates suas profitebantur, ut belli tempore pro modo sui quisque patrimonii inferret. In hoc igitur censi si servus iussu domini semet liberum scripsisset, a servitute liberabatur.

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Come si vede, dunque, Teofilo spiega agli studenti come a Roma ci fosse un’età legittima ed un’età naturale, una proprietà legittima ed una naturale, una manomissione legittima ed una naturale. L’età legittima – egli dice – era quella superiore ai trent’anni, naturale quella inferiore; la proprietà legittima corrispondeva al dominium dei Quirites romani, quella naturale all’in bonis; la manomissione legittima era quella che avveniva vindicta, testamento e censu, la naturale inter amicos, per mensam e per epistulam. Quindi riferisce dettagliatamente agli studenti come si svolgevano i vari modi di manomissione summenzionati e la circostanza per cui un tempo, per acquistare la cittadinanza romana, occorreva che ricorressero i tre requisiti dell’essere il servo maggiore di trent’anni, che il padrone avesse su di lui una proprietà legittima e che il servo fosse manomesso vindicta, testamento o censu. Ebbene, non mi soffermo su questa originale contrapposizione natura-legge utilizzata da Teofilo (con qualche evidente forzatura 29) per impostare la sua lezione, né sulla Testamento autem, cum quis servus suum in testamento liberaret. Naturales autem manumittendi modi tres erant, inter amicos per mensam per epistulam. Et inter amicos quidem, cum, amicis praesentibus, quendam manumitterem. Per mensam, cum libertatis dandae gratia servum mecum in convivio adesse iuberem. Per epistulam, cum servo alibi terrarum degenti per epistulam in libertate morari concederem. Cum haec tibi perspecta sint, vide quid inde sequatur. Cum tria haec in manumissi servi persona concurrerent, ut maior esset annis XXX, et in legitima domini proprietate, i. e. ex iure Quiritium, manumitteretur autem vindicta aut censu aut testamento, neve in ulla esset turpitudine, omnino servus civis romanus fiebat. Sin autem, in nulla turpitudine eo versante, tria illa non concurrerent, erat enim servus minor annis XXX, aut in bonis tantum domini, aut per mensam vel per epistulam vel inter amicos manumissio fiebat; vel duo forte vel etiam tria iuris requisita desiderarentur, manumissus latinus iunianus fiebat. Si vero in turpitudine quadam servus versaretur, dediticius fiebat. Set haec quondam optinebant; hodie autem cum una sit libertatis species, uti dictum est, manumissus omnimodo civis romanus fit, nullo discrimine habito in dominio vel modo manumissionis vel aetate. 29 Specie in riferimento all’età, per la quale lo stesso Parafraste si

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sostituzione della prospettiva ius civile-ius praetorium chiaramente attuata dal Maestro in riferimento alla proprietà ed alle manumissioni. Ai nostri fini è un’altra la questione che interessa e riguarda in specie la meticolosa descrizione che dei modi manumissionis Teofilo fornisce agli studenti e che non è presente né nel þhtÕn (che al riguardo contiene un elenco eterogeneo che comincia con il più recente modo di manomissione introdotto dalla legislazione imperiale, la manumissio in sacrosanctis ecclesiis 30) né soprattutto nelle Istituzioni gaiane, che in 1. 17 si limitano ad enumerare le tre antiche forme di manomissione iustae ac legitimae 31 e nelle quali non c’è alcun cenno peraltro alle manomissioni praetoriae, cui però verosimilmente si accennava nel mancante § 21 32. Ma allora, da dove ha tratto Teofilo le informazioni utilizzate per sviluppare la sua proteoria sulle manumissioni? Informazioni, peraltro, molto dettagliate e per di più infarcite di spiegazioni etimologiche? Escluso che possa aver ricavato queste notizie dalle preoccupa di specificare, a scanso di equivoci, di avere chiamato legittima l’età superiore ai trent’anni non perché la natura l’ignorasse, ma perché specificamente prevista dalla legge, proponendo così chiaramente una definizione del tutto convenzionale. 30 Cfr. I. 1.5.1 Multis autem modis manumissio procedit: autem enim ex sacris constitutionibus in sacrosanctis ecclesiis aut vindicta aut inter amicos aut per epistulam aut per testamentum. Sed et aliis multis modis libertas servo competere potest, qui tam ex veteribus quam nostris constitutionibus introducti sunt. 31 V. Gai 1.17 Nam in cuius persona tria concurrunt, ut maior sit annorum triginta, et ex iure Quiritium domini, et iusta ac legittima manumissionibus liberetur, id est vindicta aut censu aut testamento, is civis romanus fit; sin vero aliquid eorum deerit, Latinus erit. 32 A meno di non pensare, ovviamente, che tutto ciò fosse stato esposto proprio in quei 24 versi dei §§ 21 e 22 che nel Codice veronese sono sfortunatamente mancanti: ma si tratta di un’ipotesi non facile da dimostrare.

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scarne trattazioni presenti nei Tituli ex corpore Ulpiani 33 e nell’Epitome Gai 34 e posto d’altronde che la considerevole presenza di parole ed espressioni latine nel testo della Parafrasi fa pensare ad una fonte classica 35, un indizio di una certa importanza ci è fornito proprio da quell’accenno che Teofilo fa, a proposito della manumissio vindicta, all’etimologia della parola vindicta, che deriverebbe – egli dice – o dal fatto che vindicabatur mancipium in naturalem libertatem o dal nome di Vindicio, lo schiavo che denunciò la congiura contro la futura repubblica nel 509 a.C. e che dai Romani fu in premio pubblicamente manomesso. Una notizia – quest’ultima – che, come ha esattamente evidenziato il De Francisci 36, deriva con buona probabilità da Livio 2. 5. 10 37, dato che Pomponio, che pure la riferisce nel liber singularis enchirridii, denomina in realtà lo schiavo Vindex e non Vindicius 38. 33

Cfr. Tit. Ulp. 1.6-10 Cives Romani sunt liberti, qui legitime manumissi sunt, id est vindicta aut censu aut testamento, nullo iure impediente. Vindicta manumittuntur apud magistratum populi romani, velut consulem praetoremve vel proconsulem. Censu manumittebantur olim qui lustrali censu Romae iussu dominorum inter cives Romanos censum profitebantur. Ut testamento manumissi liberi sint, lex duodecim tabularum facit., quae confirmat ... hodie autem ipso iure liberi sunt ex lege Iunia, qua lege Latini fiunt nominatim inter amicos manumissi. 34 Ep. Gai 1.1.2 Cives Romani sunt, qui his tribus modis, id est testamento aut in ecclesia aut ante consulem fuerint manumissi. Latini sunt, qui aut per epistulam aut inter amicos aut convivii adhibitione manumittuntur. Cfr. anche Fr. Dosith. 5. 35 Così esattamente DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 52. 36 Cfr. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 54 ss. 37 Cfr. Liv. 2. 5. 10 Ille primum dicitur vindicta liberatus. Quidam vindictae quoque nomen tractum ab illo putant: Vindicio ipsi nomen fuisse. Post illud observatum, ut qui liberati essent, in civitate accepti viderentur. 38 Cfr. D. 1. 2. 2. 24 (Pomp. l. sing. Ench.) … utpote, cum Brutus, qui

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Sempre in questa prospettiva, vanno ora considerati due noti e discussi passi del De magistratibus di Giovanni Lido 39, che Lido dichiara estratti testualmente dal commentario di Gaio alle XII Tavole, ma la cui attribuzione a Gaio è invero assai controversa in dottrina, dato che uno di essi, I. 26 relativo alla questura, in realtà corrisponde quasi alla lettera ai §§ 22 e 23 di D. 1. 2. 2, tratto dal liber singularis enchirridii di Pomponio 40. Non è questa la sede, ovviamente, per entrare nel merito di una così intricata questione, se cioè si sia trattato di un errore di Lido, che avrebbe distrattamente citato Gaio, indicato nell’inscriptio del primo frammento di D. 1. 2, in luogo di Pomponio, al quale risale invece il lungo secondo frammento, secondo la primis Romae consul fuit, vindicias secundum libertatem dixisset in persona Vindicis Vitellorum servi, qui proditionis coniurationem iudicio suo detexisset … 39 Si tratta precisamente di Lyd. mag. I. 26 (Caius igitur, iurisconsultus, in libro, quem inscripsit ad legem XII tabularum haec ait: «Cum autem aerarium populi romani auctius esse coepisset: ut essent qui ei praessent, costituti quaestores: dicti ab eo, quod conquirendae et conservandae pecuniae causa creati erant. Et quia de capite civis Romani non licebat magistratibus ius dicere; propterea constituebantur quaestores parricidii, quasi quaesitores iudicesque eorum, qui cives occidissent»); e I. 34 (Caius, jurisconsultus, post quaestorum magistratum de decemvirati secundum versionem explicat. «Magna autem perturbatione legum, quippe quae scriptae non essent, in repubblica e discordia magistratuum plebisque coorta, communi senatus populique voluntate omnes magistratus sublati, et decem tantum viris cura civitatis mandata est». Hi, teste historia, Athenas miserunt Spurium Postumium, Aulum Marcium et Publium Sulpicium: qui dum ibi per triennium commorantur, donec reliquas etiam Atheniensium leges decem tabulis collegissent; plebs decem viros rei publicae praefuturus creavit …). 40 Cfr. D. 1.2.2.22-23 (Pomp. L. sing. Ench.) Deinde cum aerarium populi auctius esse coepisset, ut essent qui illi praeessent, constituti sunt quaestores dicti ab eo quod inquirendae et conservandae pecuniae causa creati errant. Et quia, ut diximus, de capite civis Romani iniussu populi non erat lege permissum consulibus ius dicere, propterea quaestores constituebantur a populo, qui capitalibus rebus praeesent: hi appellabatur quaestores parricidii, quorum etiam meminit lex duodecim tabularum.

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tesi risalente ma che ancora oggi non manca di consensi 41; se Lido si sia servito di un manuale apocrifo sulle magistrature composto in età postclassica e circolante in due redazioni, una attribuita a Gaio ed una a Pomponio, come ipotizza il D’Ors 42; se Pomponio abbia utilizzato il commentario alle XII Tavole di Gaio 43 o se entrambi abbiano attinto da una fonte comune, come a me sembra tutto sommato più plausibile pensare 44. Comunque sia, ai nostri 41 In tal senso cfr., infatti, già HEFFTER, Bemerkungen in nebenstunden, II. Zu Johannes Lydus de magistratibus, in Rhein. Mus. für jurisprudenz, 2 (1828) 121 ss.; DIRKSEN, Die historische Glaubwürdigkeit der Berichte des Johannes Lydus, in dessen Schrift de magistratibus reipubl. Rom., in Vermischte Schriften, Berlin 1841, 51 ss.; KRUEGER, Geschichte der Quellen und Litteratur des Römischen Rechts, München und Leipzig 1912, 54 nt. 4; ma si pronunciano a favore dell’errore di Lido, in epoca più recente, anche il CAIMI, Burocrazia e diritto nel de magistratibus di Giovanni Lido, Milano 1984, 172 ss. e ALBANESE, Brevi note di diritto romano, II, I. Sull’introduzione di Gaio al suo commento delle XII Tavole, in AUPA 43 (1995) (ora in Scritti giuridici, III, Palermo 2006, 19 ss., da cui cito). A me sembra, tuttavia, che la circostanza che altrove Lido citi in modo del tutto appropriato Pomponio (v., ad esempio, mag. I. 48) renda in realtà quest’opinione assai poco credibile: in tal senso cfr., d’altronde, già D’ORS, Varia Romana, IV: La citas de Gayo en Juan Lido, in AHDE 21-22 (1951-52) 1277 e BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli 1984, 223. 42 Cfr. D’ORS, Varia Romana, IV: La citas de Gayo en Juan Lido, cit., 1276 ss., sulla cui congettura v., però, le osservazioni del BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 222 s. 43 Come proponeva il NIEBUHR, Römische Geschichte, II, Berlin 1830, 8, per il quale Pomponio avrebbe redatto un’epitome del commento gaiano alle XII Tavole utilizzata poi dai compilatori per D. 1.2.2. 44 Ad esempio, il De potestatibus di Giunio Graccano, come ipotizzato dal NIEBUHR, Römische Geschichte, II, cit., 8. All’uso di modelli comuni da parte di Gaio e Pomponio pensava, sia pure in alternativa all’errore di Lido, anche il NOERR, Pomponius oder Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen, in ANRW II. 15, Berlin-New York 1976, 512 s. nt. 70. Sui complessi rapporti tra Gaio e Pomponio, per i quali si è addirittura arrivati a pensare ad una identificazione, v. comunque, da ultimo, CAIMI, Una citazione da Pomponio in Lyd. Mag. I, 48, in Diritto e società nel mondo romano, I, Como 1988, 121 ss.; PUGSLEY, Gaius or Sextus Pomponius, in RIDA

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fini è importante segnalare che, a differenza del passo sulla questura che coincide sostanzialmente con i §§ 22 e 23 di D. 1.2.2, de magistratibus I. 34 sul decemvirato legislativo si discosta non poco dal corrispondente § 24 del succitato frammento pompoiano 45 e senza ombra di dubbio riecheggia invece Livio, e in specie 3.31.8 46, laddove lo storico ricorda la decisione di inviare ad Atene un’ambasciata, della quale sono riportati persino, e nello stesso ordine fornito da Livio, minuziosamente i nomi dei componenti 47. Basandosi proprio su questi passi il De Francisci ha credo convincentemente dimostrato che Gaio conosceva dunque Livio e lo aveva utilizzato in specie nei suoi libri ad legem XII Tabularum: una circostanza – questa – che trova peraltro a mio avviso un’ulteriore inequivocabile conferma dal confronto tra l’incipit della storia liviana e l’in41 (1994) 353 ss.; STANOJEVIĆ, Gaius and Pomponius, Notes on David Pugsley, in RIDA 44 (1997) 333 ss. 45 Cfr. D. 1.2.2.24 (Pomp. l. sing. Ench.) Et cum placuisset leges quoque ferri, latum est ad populum, uti omnes magistratu se abdicarent, quo decemviri constituti anno uno. Che la somiglianza tra il brano pompoiano e quello gaiano riportato da Lido sia assai vaga è sottolineato anche dal DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 57 e dal CAIMI, Burocrazia e diritto nel de magistratibus di Giovanni Lido, cit., 162. 46 Cfr. Liv. 3.31.8 … cum de legibus conveniret, de latore tantum discreparet, missi legati Athenas Sp. Postumius Albus, A. Manlius, P. Sulpicius Camerinus, iussique inclitas leges Solonis describere et aliarum Graeciae civitatium instituta, mores iuraque noscere. Notizie sull’ambasciata ci sono fornite invero anche da Dionigi d’Alicarnasso (Ant. Rom. 10.51.5), Orosio (hist. 2.13.1-2), Sant’Agostino (Civ. 2.16) e Zonara (Ep. Hist. 7.18), ma senza l’indicazione del nome dei legati inviati in Grecia. 47 Così cfr., in specie, DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 57. Su Lyd. mag. 34 v., di recente, anche ALBANESE, Brevi note di diritto romano. II, cit., 21 ss. e MARAGNO, Pomponio, l’ambasceria in Grecia e la glossa di Accursio tra istoria e fabula, in Annali dell’Università di Ferrara, ns. 24 (2010) 181 nt. 22.

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troduzione del commento gaiano alle XII Tavole, quel famoso ‘Facturus’ iniziale che certo non casualmente accomuna le due opere 48; oltre che dalla considerazione di quella passione per la storia del diritto chiaramente evidenziata, come è noto, da Gaio 49 e che rende appunto assai credibile l’utilizzazione da parte del giurista di un classico della storia di Roma quali erano appunto i libri ad Urbe condita di Livio. Ebbene, da questa conoscenza il De Francisci ha desunto la conclusione per cui anche la definizione della manumissio vindicta e le altre notizie storiche che si ritrovano in PT. 1.5.4 sarebbero state tratte da Teofilo dal commento gaiano alle XII Tavole: che però non sarebbe stato consultato direttamente dal Parafraste, ma ricavato dalle Res cottidianae, che a loro volta avrebbero attinto al materiale gaiano 50. Può darsi che le cose siano andate come immagina il De Francisci: ma io della vicenda mi sono fatta, in vero, un’altra idea. Premesso che è in effetti assai probabile che la fonte da 48

Cfr. Liv. I. praef. Facturusne operae pretium sim, si a primordio nobis res populi Romani perscripserim …; e D. 1.2.1 (Gai 1 ad l. duod. Tab) Facturus legem vetustarum interpretationem necessarium prius ab urbis initiis repetendum existimavi, … Su questi brani, nell’ottica qui considerata, v. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 58. 49 Sul senso della storia che connota l’opera gaiana, storia di cui Gaio sarebbe stato peraltro un profondo conoscitore, v., per tutti, MACQUERON, Storia del diritto ed arcaismo in Gaio, in Gaio nel suo tempo. Atti del simposio romanistica, Napoli 1966, 77 e GALLO, La storia in Gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista. Atti del convegno torinese 4-5 maggio 1978 in onore del Prof. Silvio Romano, Milano 1981, 89 ss. Diversamente SCHIAVONE, L’enigma di Gaio, rec. a HONORÉ, Gaius, Oxford 1962, in Labeo 10 (1964) 445 nt. 82, per il quale la trattazione della storia degli istituti in Gaio deriverebbe solo da «un compiacimento letterario». 50 Così cfr. DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, cit., 59.

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cui Teofilo ha tratto le notizie sulla manumissio vindicta sia proprio Gaio, come induce a credere peraltro, oltre appunto alla verosimile conoscenza che Gaio aveva dell’opera liviana, anche la predilezione di Gaio per le etimologie (presenti in effetti nella sua opera in numero proporzionalmente molto maggiore rispetto agli altri giuristi 51), non si può non considerare tuttavia – per quanto più da vicino ci interessa – che il giurista antoniniano fu anche autore, tra l’altro, di tre libri de manumissionibus, di cui ci sono pervenuti nei Digesta cinque frammenti, quattro dei quali peraltro inseriti in sede materiae 52. Ma se Gaio dedicò al tema delle manomissioni un’apposita attenzione, tanto da formarne oggetto di un commentario a se stante, l’idea più plausibile, a mio sommesso avviso, è che sia proprio da quest’opera, e non già dal commento alle XII Tavole o da una sua mediazione attraverso le Res cottidianae, che Teofilo abbia ricavato le informazioni riportate nel § 4. Tanto più che si trattava di un’opera che analizzava sì la materia in modo molto dettagliato, a giudicare almeno dalle sottili questioni affrontate nei frammenti pervenutici, ma che – come tutti gli altri commentari gaiani – era comunque di certo destinata alla didattica 53, sia pure ad una didattica 51

Per le numerose etimologie riferite da Gaio, il cui numero appunto «exceeds all the Roman jurist» v., infatti, tra gli ultimi, STANOJEVIĆ, Gaius and Pomponius, cit., 343; ma cfr. anche CECI, Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino 1892, 123 ss. 52 Si tratta in specie di D. 27.10.17, D. 40.1.25, D. 40.2.25 e D. 40.9.29, tratti dal I libro Qui vindicta manumittere manumittique possint e D. 40.4.57, tratto dal III libro ad legem Aeliam Sentiam. 53

L’idea per cui tutte le opere di Gaio fossero state scritte per la scuola è sostenuta con vigore specie dal CASAVOLA, Gaio nel suo tempo, in Atti del Simposio romanistico, Napoli 1966 [= Labeo 12 (1966) 11 ss. ]. Assai interessanti in proposito sono però anche le osservazioni del BRETONE, In margine al dibattito gaiano, in Labeo 12 (1966) 67 s., il quale sottolinea co-

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superiore 54, e dunque non poteva non contenere a beneficio degli studenti una preliminare chiarificatrice descrizione dei principali modi manumissionis. E peraltro, proprio l’esistenza di questo corso monografico consente forse di spiegare anche il silenzio che si rintraccia al riguardo nelle Institutiones di Gaio, il quale, almeno a voler condividere la (a mio avviso nel complesso convincente) spiegazione a suo tempo avanzata dal Quadrato in riferimento a molte delle omissioni gaiane 55, non si soffermò in quella sede a descrivere le forme di manomissioni proprio perché queste ultime formavano oggetto, in realtà, di una trattazione autonoma, da approfondire con gli studenti in successivi, più avanzati corsi. Quanto a Teofilo, che certo quelle notizie da qualche parte deve pure averle tratte, è a mio avviso assai plausibile – come dicevo – che le abbia ricavate appunto proprio dai libri de manumissionibus di Gaio, opera che magari egli aveva già letto o utilizzato durante gli anni di insegnamento precedenti la riforma giustinianea, ma che forse più verosimilmente ebbe modo di visionare in occasione della sua partecipazione ai lavori dei Digesta, visto che – come si è detto – i compilatori sicuramente consultarono ed impiegarono anche quest’ulteriore commentario gaiano per me l’autore delle Institutiones si presenti tuttavia in una luce diversa nelle sue altre opere. 54 Che anche in età antoniniana l’organizzazione degli studi a Roma prevedesse un programma distribuito in vari livelli, da un livello elementare ad una fase di approfondimento, è opinione assai diffusa tra gli studiosi: in tal senso, tra gli altri, cfr. LIEBS, Rechtsschulen und Rechtsunterricht im Prinzipat, in ANRW, II. 15, Berlin-New York 1976, 220 s. e nt. 134, 297; CASAVOLA, Gaio nel suo tempo, cit., 11 ss.; FREZZA, Responsa e Quaestiones. Studio e politica del diritto dagli Antonimi ai Severi, in SDHI 43 (1977) 203 ss.; QUADRATO, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio. Omissioni e rinvii, Napoli 1979, 15 nt. 63. 55 Cfr. QUADRATO, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio, cit., 10 ss.

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la redazione dei titoli del libro quarantesimo dedicati appunto all’argomento. Comunque sia, che la fonte di Teofilo siano stati i libri de manumissionibus di Gaio, come a me sembra più plausibile, il commentario gaiano alle XII Tavole, come ipotizzava il De Francisci, o al limite il liber singularis enchirridii di Pomponio, come potrebbe anche volersi pensare sulla base di D. 1.2.2.24, è in ogni caso evidente – a me sembra – che il commento al Titolo V del I libro delle Istituzioni imperiali dimostra inequivocabilmente come nella Parafrasi sia confluita appunto, come si è detto, tutta la personalità scientifica dell’antecessor, che non si limitò a esporre, magari sulla scia delle Istituzioni gaiane che ben conosceva, il þetÕn, ma l’arricchì di tutto il restante bagaglio culturale acquisito durante i lunghi anni di studio e di docenza e che le ultime importantissime esperienze professionali vissute avevano enormemente accresciuto.

4. Ebbene, quanto ora osservato a proposito del § 4 del titolo de libertinis trova conferma in numerosi altri luoghi della Parafrasi. Assai interessanti in quest’ottica sono, ad esempio, anche i §§ 23. 1 e 25 pr. del II libro delle Istituzioni imperiali e della Parafrasi sull’origine dei fedecommessi e dei codicilli. Come è noto, infatti, mentre Gaio in 2.285 si limita solo ad accennare alla preistoria dei fedecommessi, ricordandone l’antica accessibilità ai peregrini 56, ed omette del tutto la trattazione dei codicilli 57, sia le Istituzioni giustinia56 Cfr. Gai 2.285 Ut ecce peregrini poterant fideicommissa capere; et fere haec fuit origo fideicommissorum. 57 Sul silenzio gaiano intorno ai codicilli, peraltro nominati incidentalmente in 2.70a, v. in specie METRO, Studi sui codicilli, I, Milano 1975, 15

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nee che la Parafrasi si soffermano invece esaurientemente sulla storia dei fedecommessi e dei codicilli, sottolineandone il determinante intervento augusteo e – per ciò che concerne i codicilli – anche l’episodio di Lucio Lentulo, che avrebbe occasionato il loro riconoscimento, ed il contributo fornito in proposito da Trebazio e Labeone. Si leggano, infatti: I. 2.23.1 Sciendum itaque est omnia fideicommissa primis temporibus infirma esse, quia nemo invitus cogebatur prestare id de quo rogatus erat: quibus enim non poterant hereditates vel legata relinquere, si relinquebant, fidei committebant eorum, qui capere ex testamento poterant: et ideo fideicommissa appellata sunt, quia nullo vinculo iuris, sed tantum pudore eorum qui rogabantur continebantur. Postea primus divus Augustus semel iterumque gratia personarum motus, vel quia per ipsius salutem rogatus quis diceretur, aut ob insignem quorundam perfidiam iussit consulibus auctoritatem suam interponere. Quod quia iustum videbatur et populare erat, paulatim conversum est in adsiduam iurisdictionem: tantusque favor eorum factus est, ut paulatim etiam praetor proprius crearetur, qui fideicommissis ius diceret, quem fideicommissarium appellabant. I. 2.25 pr. Ante Augusti tempora constat ius codicillorum non fuisse, sed primus Lucius Lentulus, ex cuius persona etiam fideicommissa coeperunt, codicillos introduxit. Nam cum decederet in Africa, scripsit codicillos testamento confirmatos, quibus ab Augusto petiit per fideicommissum, ut faceret aliquid: et cum divus Augustus voluntatem eius implesset, deinceps reliqui auctoritatem eius secuti fideicommissa praestabant et filia Lentuli legata, quae iure non debebat, solvit. Dicitur Augustus ss., che avanza la congettura che l’omissione sia del tutto accidentale e si spieghi a causa della mancanza di un foglio del manoscritto, foglio nel quale avrebbe trovato posto appunto la trattazione dei codicilli.

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convocasse prudentes, inter quos Trebatium quoque, cuius tunc auctoritas maxima erat, et quaesisse, an possit hoc recepi nec absonans a iuris ratione codicillorum usus esset: et Trebatium suasisse Augusto, quod diceret utilissimum et necessarium hoc civibus esse propter magnas et longas peregrinationes, quae apud veteres fuissent, ubi, si quis testamentum facere non posset, tamen codicillos posset. Post quae tempora cum et Labeo codicillos fecisset, iam nemini dubium erat, quin codicilli iure optimo admitterentur.

ed i corrispondenti passi della Parafrasi: PT. 2.23.1 Tšwv d\e skop»swmen perˆ tÁv ¢rcaiogon…av aÙtîn. ¢nupÒstata p£lai p£nta ØpÁrce t¦ fideicómmissa: oÙdeˆv g¦r ¥kwn taàta katšbalen ™ke…noiv oŒv ºxièqh parasce‹n. ™peno»qe d\e ™nteàqen t¦ fideicómmissa. sunšbaine poll£kiv þwma‹on teleut©n œconta suggene‹v peregrínus. oŒv oÙd\e klhronom…an oÙd\e lhg£ta katalimp£nein ™xÁn di¦ tÕ diafÒrou polite…av eŒnai. ™k£lei to…nun oâtov rwma‹Òn tina, Öv ºdÚnato aÙtù legšsqai klhronÒmov ™k diaq»khv eÜnoun Ônta kaˆ pistÕn ™sÒmenon, kaˆ aÙtÕn m\en œgrafe klhronÒmon, ºx…ou d\e aÙtÕn ™ktÕv tÁv diaq»khv, éste À p©san t¾n klhronom…an À mšrov aÙtÁv À kaˆ þht¦ pr£gmata tùde tù peregrínù ¢pokatastastÁsai, kaˆ ™n tÍ toà scriptu klhronÒmou ¢pškeito ™xous…a, pÒteron boÚletai taàta dànai À oÜ. oÙdeˆv g¦r nÒmou sÚndesmov Ãn Ð toàto poie‹n aÙtÕn ¢nagk£zwn, ¢ll’™k mÒnhv tÁv p…stewv kaˆ a„doàv tîn paraklhqšntwn ½rthto taàta. ¢mšlei kaˆ ™nteàqen fidecómmissa proshgoreÚqh toutšsti t¦ tÍ p…stei katapisteuqšnta. ¢ll¦ taàta m\en kat¦ toÝv palaiot£touv crÒnouv. met¦ d\e taàta prîtov Aúgustos Ð basileÝv ¤pax kaˆ dˆv parakinhqeˆv di¦ tÕ car…en tîn, oŒv taàta katelšleipto, peregrínwn dhlad¾ Ôntwn (Ãn g¦r ™sq’Óte aÙt‚ gnérima) t¦ toiaàta prÒswpa À kaˆ timÁv ¥xia di¦ t¾n prosoàsan aÙto‹v pa…deusin À kaˆ ›terÒn ti

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pleonškthma kaˆ, ™peid¾ poll£kiv kat¦ tÁv aÙtoà swthr…av Ðrkwqšntev, toà Órkou katefrÒnhsan oƒ klhronÒmoi À di¦ meg…sthn ¢pist…an (™sq’Óte g¦r ºxièqh tiv ploÚsiov ín penicro‹v paisˆ kaˆ sfÒdra nšoiv À kaˆ geghrakÒsi toà teleut»santov goneàsin ¢pokatastÁsai, e’ita t¾n p…stin paršbh). to‹v Øp£toiv oân ™kšleuse t¾n o„ke…an aÙqent…an qe‹nai mšshn kaˆ katanagk£sai tÕn ¢xiwqšnta poi»sasqai t¾n ¢pokat£stasin. Toàto d\e d…kaion nomisq\en kaˆ car…en pantˆ tù d»m‚ kat¦ mikrÕn e„v iurisdictíona metetr£ph kaˆ e„v ¢n£gkhn kaˆ tosaÚth gšnomen ™p… to‹v fidecommíssois spoud¾ Óti proiÒntov toà crÒnou kaˆ praétor „di£zwn ™pˆ ¢pait»sei tîn fideicommísson ™ceiroton»qh, Ð legÒmenov fideicommissários 58.

58 Et in primis de eorum origine dispiciamus. Olim quidem infirma omnia fideicommissa erant; nemo enim invitus ea iis praestare cogebatur, quibus rogatus fuerat. Origo autem fideicommissorum haec fere fuit. Saepius contigebat civem romanum mori, qui cognatus peregrinos haberet, quibus neque hereditates neque legata relinquere licebat, cum alius essent civitatis. Instituebat ergo civem romanum quendam sibi benevolum, qui testamento heres fieri posset, cuius fides sibi esset probata; rogabatque eum extra testamentum ut vel omnem hereditatem vel eius partem vel certas res illi peregrino restitueret. In scripti autem heredis arbitrio erat utrum solveret necne, cum nullum esset iuris vinculum, quo ad hoc adstringeretur; set fide tantum atque pudore eius qui rogabatur haec continebantur. Et ideo fideicommissa appellata sunt. Set haec quidam olim optinebant. Postea primus divus Augustus semel iterumque eorum gratia motus est, quibus talia essent relicta, forte quia eiusmodi personae notae ei erant, aut forte honore dignae propter doctrinam vel alium commodum, vel quia saepius quidam per ipsius salutem iurabant et iusiurandum contemnebant, aut ob insignem perfidiam, veluti si quis dives rogatus esset defuncti liberis pauperibus et adhuc teneris, vel senio confectis parentibus restituere, et is fidem non servaret. Itaque iussit consules auctoritatem suam interponere eumque, qui rogatus fuisset, ad restituendum cogere. Quod quia iustum videbatur et omnino populare erat, paullatim in iurisdictionem et iuris necessitaem conversum est, tantusque favor fideicommissorum factus est, ut processu temporis etiam praetor proprius, qui fideicommissis tantum ius diceret, crearetur, quem fidecommissarium appellabant.

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PT. 2.25 pr. E‡pwmen loipÕn perˆ codicíllwn. Codicíllos dš ™stin ™llipoàv ™n diaq»kh gnémhv testátoros ¢napl»rwsiv. ”Esti d\e oÙk ¥topon perˆ tÁv ¢rcaiogon…av tîn codicíllon dialecqÁnai. Pro tîn Augústu crÒnwn ¹ tîn codicíllon po…hsiv oÙk Ãn ™n cr»sei: prîtov d\e Lúcios Lentûlos toÚtouv ™xhàre, kaˆ e„v polite…an ½gagen: Ð g¦r Lentûlos ™n RèmV diaqšmenov œgraye klhronÒmon t¾n „d…an qugatšra kaˆ Aúguston tÕn basilša, kaˆ ˜tšrouv: eiŒpe d\e ™n tÍ diaq»kV oÛtwv: ™£n tina poi»sw met¦ taàta codícillon, „scurÕv œstw», toutšstin econfirmáteusen ™sÒmenon codícillon. ‘Ekdhm»sav ™pˆ t¾n Afrik¾n, eŒta mšllwn ™ke‹ teleut©n, ™po…hse codícillon, ™n ú codícill‚ ºx…wse tÕn Aúguston, merikÕn Ônta klhronÒmon aÙtoà, poiÁsa… ti, oŒon kataskeu£sai tinˆ o„k…an À kaˆ ›terÒn ti toioutÒtropon pr©xai, katšlipe d\e kaˆ fideicómmissa kaˆ lhg£ta tisˆn Ñnomastˆ ¢pÕ tÁv o„ke…av qugatrÒv. Met¦ d\e t¾n toà Lentúlu teleut¾n tÁv diaq»khv ¢nagnwsqe…shv prosenecqšntov d\e kaˆ toà codicíllu, Aúgustos Ð basileÝv ¢pepepl»rwsen ™x o„ke…ou prosépou t¦ boulhqšnta tù Lentúl‚, kaˆ oƒ loipoˆ d\e sugklhronÒmoi, tÕn Aúguston mimhs£menoi, paršscon t¦ fideicómmissa: kaˆ ¹ Lentúlu d\e qug£thr t¦ par’aÙtÁv Ñnomastˆ kataleifqšnta lhg£ta prosépoiv lamb£nein m¾ dunamšnoiv katšbale. kaˆ toÚtwn oÛtw parakolouqhs£ntwn, lÒgov tÕn qeiÒtaton Aúguston sugkalšsasqai toÝv tÒte sofoÝv, ™n oŒv kaˆ Trebátion, oÛtinov kat’™ke‹non tÕn crÒnon ™pˆ paideÚsei nÒmwn Ãn ¹ aÙqent…a meg…sth, zhtÁsa… te, parÒntwn tîn nomikîn, e„ de‹ toàto decqÁnai tÕ toà codicíllu, kaˆ e„ tîn nomikîn oÙk ¢fšsthke logismîn. Taàta to…nun ™rwt»santov toà Augústu, lšgetai tÕn Trebátion e„pe‹n tù Augúst‚, crhsimètaton kaˆ ¢nagka‹on e’inai tÕ tîn codicíllwn `Rwma…oiv, di¦ t¦v meg£lav kaˆ makr¦v ¢podhm…av, a†tinev sunece‹v Ãsan par¦ to‹v palaio‹v di¦ toÚv ¢nakÚptontav polšmouv: †na, ™£n tiv diaq»ken m¾ dÚnhtai poiÁsai, ¢porîn tîn e„v toàto

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™pithde…wn, codícillon poi»sV. Met’œke…nouv oân toÝv crÒnouv ÐpÒte kaˆ Labeën Ð nomikÕv codicíllus poi»sav ™teleÚthsen, oÙdenˆ gšgonen ¢mfisbht»simon, œnnomon œcein sÚnstasin toÝv codicíllus 59.

Ora, non interessa ai nostri fini la controversa questione della veridicità delle notizie riportate nei passi istituzionali qui considerati 60. Qualche cosa da dire avrei invece a proposito della loro paternità, ed in specie della paternità del principium del titolo 25 del secondo libro delle istitu59 Restat ut de codicillis dispiciamus. Codicilli sunt imperfectae voluntatis testatoris in testamento expressae supplentum. Neque absurdum est quaedam de codicillorum origine tractare. Ante Augusti tempora ius codicillorum in usu non erat; set primus Lucius Lentulus eos introduxit, atque in usum vocavit. Nam cum Lentulus Romae testaretur, filiam suam heredem instituit, et divum Augustum et alios quosdam. Dixit autem in testamento: «si quos postea codicillos confecero, rati habeantur»: idest futuros codicillos confirmavit. Deinde cum Africam petiisset, ibique decederet, codicillos fecit. Quibus codicillis rogavit Augustum, quem sibi ex parte heredem instituerat, ut aliquid faceret, veluti ut alicui domum extrueret, aut aliud id genus. Reliquit etiam fideicommissa et legata quibusdam nominatim a sua filia. Post vero Lentuli mortem testamento perlecto et codicillis allatis, divuus Augustus ex sua persona Lentuli voluntatem adimplevit ceterique heredes Augusti exemplum secuti fideicommissa praestaverunt. Et Lentuli filia legata a se nominatim relicta personis, quae ea capere non possent, solvit. Quae cum ita subsecuta essent, dicitur divus Augustus convocasse prudentes, inter quos Trebatium quoque, cuius tunc temporis auctoritas in iuris scientia maxima erat, et quaesisse, iis praesentibus, an usus codicillorum recepi oporteret, neque a iuris ratione absonans esset. Cum haec Augustus quaesisset, dicitur Trebatius Augusto suasisse optimum atque necessarium Romanis codicillorum usum esse propter magnas ac longas peregrinationes, quae apud veteres ob exorientia undique bella frequentes erant; ut si quis testamentum facere non posset, cum eorum copia non essent, quae ad hoc necessaria sint, codicillos faceret. Post quae tempora cum et Labeo iurisconsultus codicillos fecisset, iam nemini dubium erat, quin codicilli optimo iure admitterentur. 60 Su cui v., per tutti, GUARINO, Pauli de iure codicillorum liber singularis, in ZSS 62 (1942) 252 ss.; Isidoro di Siviglia e l’origine dei codicilli, in SDHI 10 (1944) 318 ss.; METRO, Studi sui codicilli, cit., 18 ss.; JOHNSTON, The Roman Law of Trusts, Oxford 1988, 27 ss.; GIODICE-SABATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi, cit., 49 ss.

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zioni imperiali. Premesso che, in riferimento al problema del metodo di compilazione delle Istituzioni giustinianee, considero assai convincente l’ipotesi avanzata da Falcone di una distribuzione del lavoro tra Teofilo e Doroteo avvenuta ratione materiae e della compilazione da parte di Teofilo delle parti relative alle persone e alle successioni universali 61, devo dire che qualche perplessità mi suscita invece l’imputazione a Doroteo del titolo de codicillis sostenuta dall’amico palermitano, ed in particolare l’argomento principale addotto a sostegno di questa opinione, e cioè il travisamento che, in PT. 2.25.3, Teofilo avrebbe operato rispetto al corrispondente passo delle Istituzioni, a sua volta tratto da D. 29.7.6.1 di Marciano 62 (in pratica Marciano avrebbe detto che nei codicilli non era necessaria la scrittura e la sottoscrizione 63, le Istituzioni che non erano necessarie le sollemnitates ordinationis 64, la Parafrasi che non era necessario nessun ordine nella scrittura, dove t£xiv sarebbe appunto – secondo il Falcone – la travisata traduzione di ordinatio 65. 61

Cfr. FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 305 ss. 62 Secondo FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 388 ss., infatti, Teofilo avrebbe inteso la parola ordinatio come t£xiv, «tant’è che, per spiegarne la portata, richiama la differenza con il testamento, per il quale è, invece, richiesto che la hereditatis institutio sia disposta per prima. Evidentemente non dovette essere lui il compilatore che, avendo sott’occhio il passo di Marciano, lo ha modificato così come leggiamo in J.». 63 Cfr. D. 29.7.6.1 (Marc. 7 inst.) Codicillos et plures quis facere potest et ipsius manu neque scribi neque signari necesse est. 64 Cfr. I. 2.25.3 Codicillos autem etiam plures facere potest: et nullam sollemnitatem ordinationis desiderant. 65 V. PT. 2.25.3 Kaˆ ›na kaˆ polloÝv dun£meqa poie‹n codicíllus. Codicíllwn genomšnwn, oÙdem…an ™pizhtoàmen t£xin ™pˆ tÍ toÚtwn

grafÍ, ésper ™pˆ tÁv diaq»khv lšgomen prohge‹sqai t¾n œnstasin

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A mio modesto avviso, infatti, in I. 2.25.3, sostituendo con l’espressione sollemnitas ordinationis lo specifico riferimento alla scrittura e alla subsignatio contenuto nel brano marcianeo, il compilatore giustinianeo non ha solo diversamente riportato o riassunto le parole di Marciano 66, ma ne ha operato un ampliamento, una generalizzazione, nel senso che ha inteso sottolineare come per i codicilli non occorressero non solo la scrittura e la sottoscrizione, come precisato da Marciano, ma appunto più in generale tutte le solemnitates, cioè le formalità, usualmente necessarie per la ordinatio, cioè la formale confezione dei testamenti. D’altra parte, se è vero – come sottolinea l’autore – che il termine ordinare appare adoperato da Teofilo in tutta la trattazione delle successioni per alludere all’assetto formale del negozio 67, è vero anche che esso non è usato solo in riferimento alla scrittura o alla sottoscrizione, ma più in generale per alludere a tutti i requisiti formali imposti per la validità del testamento: e particolarmente significativo in tal senso mi sembra anzi I. 2.10.14, nel quale l’antecessor parla di ordinare iure civili testamentum proprio a proposito dei testamenti sine scriptis, per la perfezione dei quali – egli dice – è necessario enunciare la propria volontà di fronte a sette testimoni 68. (Et unum et multos facere possumus codicillos. In faciendis autem codicillis nullum requirimus ordinem in scriptura eorum: sicuti in testamento dicimus praecedere institutionem). 66 Così FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 389, per il quale «con l’espressione ‘sollemnitas ordinationis’ il compilatore di J ha riassunto il più esplicito riferimento marcianeo ai requisiti formali della scrittura e della subsignatio da parte del disponente». 67 FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 389. 68 Cfr. I. 2.10.14 Sed haec quidem de testamentis, quae in scriptis conficiuntur. Si quis autem voluerit sine scriptis ordinare iure civili testamentum,

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Ma se già nelle Istituzioni si era ampliato e generalizzato il testo marcianeo, non appare allora affatto strano se nella Parafrasi, commentando il ¸htÕn, Teofilo abbia potuto far riferimento, a titolo esemplificativo, a quella t£xiv, cioè a quell’ordine, a quella sequenza che, a differenza che nel testamento che doveva necessariamente iniziare con l’istituzione di erede, non era richiesta invece nella scrittura dei codicilli; oltre che – non va dimenticato – alla sufficienza di cinque testimoni, come egli aggiunge subito dopo nelle battute finali del testo 69. Ed anzi proprio questo finale riferimento ai testimoni, non più sette come Teofilo aveva specificato in I. 2. 10.14 a proposito dei testamenti sine scriptis iure civili ordinati, ma appunto in questo caso cinque, riferimento che sarebbe fuori luogo nel contesto del discorso se non inteso appunto come un ulteriore aggiuntivo esempio della diversità esistente in proposito tra codicilli e testamenti, fa pensare a mio avviso che l’espressione oÙdem…a t£xiv non sia in realtà la travisata traduzione di nulla ordinatio, ma costituisca più semplicemente l’esemplificazione di una di quelle sollemnitates non più necessarie per l’ordinatio del negozio alle quali si faceva generico riferimento nel brano istituzionale. D’altra parte, anche ammesso – come è anche possibile – che il titolo 25 sia stato aggiunto in un secondo momento 70, se davvero Triboniano, in sede di revisione dell’opera, si fosse accorto che l’istituto dei codicilli era stato omesseptem testibus adhibitis et sua voluntate coram eis nuncupata sciat hoc perfectissimum testamentum iure civili firmumque constitutum. 69 Cfr. PT. 2.25.3 … kaˆ Óti mÒnoi pšnte m£rturev ¦rkoàsin (… et quinque testes tantum sufficiunt). 70 Dato che in effetti dei codicilli non si fa alcuna menzione in I. 2.9.6, in cui vengono enumerati gli istituti che saranno trattati prima delle obbligazioni (così FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 390).

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so, come ipotizza Falcone 71, apparirebbe comunque assai strano che ne avesse affidato la compilazione a Doroteo e non a colui che, ratione materiae, era naturalmente competente a trattarlo, se non altro per avere già consultato e letto tutte le fonti utilizzate sull’argomento. E se si tiene conto dei tempi stretti in cui le Institutiones vennero alla luce, una scelta così irrazionale diventa ancora più incomprensibile. A mio sommesso avviso, dunque, non solo il brano delle Institutiones sulla storia dei fedecommessi, ma anche quello sull’origine dei codicilli potrebbe essere stato redatto da Teofilo. Ciò posto, e venendo a quanto più specificamente interessa in questa sede, resta da chiedersi: da dove Teofilo ha tratto le notizie riportate nel manuale imperiale e, ancora più dettagliatamente, nella Parafrasi? Sono state avanzate varie ipotesi. Il Ferrini, ad esempio, pensava a Gaio (e in particolare alle Res cottidianae) per 2.23.1 ed alle Istituzioni di Marciano per 2.25 pr., soprattutto in ragione del collegamento con il successivo § 1, che sarebbe di sicura origine marcianea 72. Il Quadrato congettura invece una derivazione di questi passi dai libri de fidecommissis di Gaio, un’opera in due volumi specificamente dedicata ai fedecommessi e la cui esistenza spiegherebbe anzi, per l’autore, il silenzio che si rinviene a proposito dell’origine dei fedecommessi e dei codicilli nelle Istituzioni, nel senso che l’argomento sarebbe stato omesso in quanto poi trattato dal giurista antoni71 V. FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 390. 72 Cfr. FERRINI, Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano, cit., 376 s. L’origine marcianea di I. 2.25 pr. è sostenuta anche dal NEGRI, La clausola codicillare nel testamento inofficioso. Saggi storico-giuridici, Milano 1974, 305.

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niano in un corso monografico superiore 73. Il Bretone, infine, seguito dalla Giudice-Sabatelli, sostiene l’origine pomponiana dei brani in oggetto, che sarebbero stati tratti dal liber singularis enchirridii o, forse più plausibilmente, da quei cinque libri sui fedecommessi di cui Pomponio fu anche autore, magari consultati non direttamente ma tramite la mediazione delle Istituzioni di Marciano 74. Ebbene, io credo si debba distinguere. Per ciò che concerne il principium del titolo 25 del II libro delle Istituzioni e della Parafrasi, devo dire che l’ipotesi di una derivazione pomponiana è certamente quella più suggestiva: lo stile espositivo, il gusto del racconto storico, l’accenno all’auctoritas di Trebazio potrebbero essere in effetti indizi di un testo «di spiriti pomponiani», per usare le parole del Bretone 75. D’altra parte, se si considera che, nel commentare la generica incapacità di ricevere eredità o legati cui aveva accennato nella prima parte di I. 2.23.1 a proposito della preistoria dei fedecommessi, Teofilo nella Parafrasi sviluppa in modo puntuale il lapidario cenno fatto nelle istituzioni gaiane ai peregrini 76, l’idea che possa essere stato in effetti Gaio, e in specie proprio quei due libri fidecommissorum scritti dal giurista antoniniano e nei quali presumibilmente quella sintetica indicazione sull’origo dell’istituto veniva approfondita, la fonte da cui l’antecessor trasse al73

Cfr. QUADRATO, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio, cit., 60 s. V. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 271 ss., la cui opinione è condivisa dalla GIODICE-SABATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi, cit., 38 ss. 75 BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 272. 76 Che la versione di Teofilo sia del tutto coincidente con l’insegnamento di Gai 2.285 è sottolineato in specie dalla GIODICE-SABATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi, cit., 46 ss. 74

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meno le informazioni utilizzate in sede di commento risulta forse più verosimile 77. Tanto più che anche il brano istituzionale, ed anzi più in generale tutto il titolo XXIII del II libro del manuale giustinianeo, è di probabile derivazione gaiana, come il Ferrini, che aveva un orecchio particolarmente sensibile a cogliere i caratteri del linguaggio gaiano, ha da tempo evidenziato 78. Non è da escludere, dunque, a mio sommesso avviso, che l’antecessor abbia in realtà consultato ed utilizzato più fonti classiche, e in particolare appunto proprio le due summenzionate opere dedicate all’argomento, cioè i libri fidecommissorum di Gaio e Pomponio: come d’altronde – e scusate se faccio sempre lo stesso paragone, ma non credo sinceramente che al riguardo possano davvero esistere sostanziali differenze, nonostante i 1.500 anni che ci separano – siamo soliti fare anche noi quando, trovandoci a dover trattare ex professo un tema, ci premuriamo di leggere tutto ciò che di specifico c’è in materia. E peraltro, proprio la pluralità delle fonti utilizzate ed una non sempre attenta armonizzazione tra esse potrebbe forse spiegare quella “sfasatura” che alcuni autori hanno creduto di intravedere tra i due testi delle Istituzioni qui considerati, 77

D’altronde, la derivazione gaiana di I. 2.23.1 è, pur con diverse varianti, da più parti sostenuta [v., ad esempio, tra gli altri, MASCHI, Fedecommessi. Contratti reali. (Omissioni nel manoscritto veronese delle Istituzioni di Gaio), in Studi in onore di E. Volterra, IV, Milano 1971, 685 ss., che ha addirittura ipotizzato che il testo delle Istituzioni giustinianee derivasse da un manoscritto delle Istituzioni di Gaio più integro e nel quale sarebbe stata conservata la parte relativa all’origine dei fedecommessi mancante nel veronese]. Ad una matrice gaiana pensa anche LUCHETTI, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano 1996, 319 nt. 280. 78 Non si dimentichi, tra l’altro, che anche il principium e i §§ successivi derivano sicuramente da Gaio, e in specie da Gai 2.246 s. e 248 ss. (così FERRINI, Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano, cit., 376 e MASCHI, Fedecommessi. Contratti reali, cit., 689).

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dove in I. 2.23.1 l’origine dei fedecommessi sarebbe ricondotta allo iussum di Augusto, che avrebbe ordinato ai consoli di interporre la loro autorità, mentre in I. 2.25 pr. il riconoscimento dell’istituto sembrerebbe collegato invece al noto episodio di Lentulo, ex cuius persona etiam fideicommissa coeperunt 79. Una sfasatura tuttavia che, se pure si può giustificare in ragione della diversità delle fonti visionate, non necessariamente è a mio avviso indice di una inconciliabilità tra i due racconti, dato che la vicenda di Lentulo fu probabilmente solo l’occasione materiale a seguito della quale, grazie anche all’apporto di autorevoli giuristi come Trebatio e Labeone, il princeps iussit ai consoli l’auctoritatis interpositio 80. Il che significa, in altri termini, che l’inciso che in I. 2.25 pr., plausibilmente tratto come tutto il § da Pomponio, riconduce alla persona di Lentulo l’introduzione dei fedecommessi non necessariamente contrasta con la derivazione augustea affermata nel brano di matrice gaiana, ma potrebbe più semplicemente essere inteso nel senso che fu appunto Lentulo, con la sua materiale iniziativa, a fornire ad Augusto l’occasione definitiva da cui prese il via il processo che portò al formale riconoscimento dei fedecommessi successivamente operato dal princeps 81. E se si tiene conto poi che anche in I. 2.23.1 il compilatore fa un esplicito riferimento alla gratia 79 Sul contrasto che apparirebbe tra i due testi v., per tutti, GUARINO, Pauli de iure codicillorum liber singularis, cit., 252 ss.; Isidoro di Siviglia e l’origine dei codicilli, cit., 322; METRO, Studi sui codicilli, cit., 25 ss.; JOHNSTON, The Roman Law of Trusts, cit., 27 ss.; GIODICE-SABATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi, cit., 49 ss. 80 Che l’episodio di Lentulo, comunque lo si voglia intendere, non può considerarsi comunque del tutto inventato è peraltro generalmente riconosciuto (v., per tutti, METRO, Studi sui codicilli, cit., 27). 81 Per un analogo tentativo di armonizzazione tra i due testi v. GIODICE-SABATELLI, La tutela giuridica dei fedecommessi, cit., 53 s.

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personarum (alla considerazione cioè delle persone) che avrebbe spinto Augusto ad intervenire (… postea primus divus Augustus semel iterumque gratia personarum motus …) 82, credo risulti assai verosimile l’idea che Lentulo altro non fosse se non appunto una (forse l’ultima o la più autorevole 83) di quelle persone che si erano rivolte ad Augusto cui si allude nel brano istituzionale. E il fatto che Teofilo nella Parafrasi non riproduca l’inciso ex cuius persona etiam fideicommissa coeperunt presente nelle Istituzioni 84 è forse da ascrivere alla sensibilità del Maestro, che, in sede di commento, può aver temuto che la fattuale indicazione della persona che avrebbe avviato la vicenda che sfociò nel riconoscimento dei fedecommessi riportata nel manuale dalla fonte classica potesse appunto disorientare i giovani studenti, che poco prima avevano studiato che era stato l’intervento autoritativo di Augusto a sancirne la vincolatività sul piano giuridico. Comunque sia, e tornando al profilo che interessa in questa sede, sia che si voglia pensare ai libri fidecommissorum di Gaio, come propone il Quadrato, sia che si preferi82

Riferimento che Teofilo ha mantenuto anche nel corrispondente passo della Parafrasi, nel quale anzi specifica che si trattava o di persone note al princeps o di persone honore dignae propter doctrinam vel alium commodum. 83 La dottrina tradizionale identifica Lentulo con L. Cornelius Lentulus, il console del 3 a.C. che plausibilmente morì come proconsole d’Africa nel 4 d.C. (cfr. PIR, II2, 1384, 336 ss.): ma contro questa ipotesi cfr. CHAMPLIN, Miscellanea testamentaria, in ZPE 62 (1986) 249 ss. e SPAGNUOLO VIGORITA, Le nuove leggi. Un seminario sugli inizi dell’attività normativa imperiale, Napoli 1992, 158 nt. 60. 84 Questa omissione è segnalata in specie da FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 388 s., che ipotizza che Teofilo avrebbe utilizzato nelle istituzioni la fonte classica «senza avvedersi, per la fretta, di quella notizia in essa contenuta in posizione incidentale e accorgendosi, poi, del contrasto con I. 2.23.1 solo in sede di parafrasi».

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sca pensare al liber singularis enchirridii o ai libri fidecommissorum di Pomponio, come ipotizza il Bretone, sia che si ritenga, come a me sembra più probabile, che Teofilo abbia consultato entrambe queste opere (e, più in specie, Gaio per I. e PT. 2.23.1 e Pomponio per I. e PT. 2.25 pr.), non c’è dubbio comunque che nella trattazione relativa all’origine dei fedecommessi e dei codicilli effettuata nelle Istituzioni e nella Parafrasi ancora una volta si manifesta tutta la personalità scientifica dell’antecessor e lo spessore culturale che, a dispetto di quel che ne pensano i tanti denigratori di Teofilo, pervade pur nella sua semplicità e nei suoi limiti tutta la Parafrasi.

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IV TEOFILO E LA SPES GENERANDI * 1. È noto che, sostenuta per primo dal Ferrini 1, ha avuto largo seguito in dottrina l’idea che Teofilo, nel redigere la Parafrasi greca delle Istituzioni di Giustiniano, avrebbe ampiamente utilizzato un kat¦ pÒdav delle Istituzioni di Gaio o comunque una o più paragrafa… del manuale del giurista antoniniano 2. I numerosi luoghi in cui il Parafraste * In IURA, 58, 2010, 169 ss. 1 Tra i vari contributi raccolti nel I volume delle Opere, Milano, 1929, v., in specie, La Parafrasi di Teofilo ed i Commentari di Gaio, 15 ss. (= Rendiconti, II s., 16, 1883, 56 ss.); La Glossa torinese delle Istituzioni e la Parafrasi dello Pseudo-Teofilo, 51 ss. (= Rendiconti, II s., 17, 1884, 714 ss.); Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni, 132 ss. (= AG, 37, 1886, 353 ss.); I commentari di Gaio e l’indice greco delle Istituzioni, 81 ss. (= Byzantinische Zeitschrift, VI, 1897, 734 ss.). 2 Tra gli altri, cfr., SEGRÉ, Sulla questione se la Parafrasi greca alle Istituzioni giustinianee abbia avuto per fondamento il testo dei commentari di Gaio, in Il Filangieri, 12, 1, 1887, 735 ss. (= Scritti giuridici, II, Roma, 1938, 1 ss.); ARANGIO-RUIZ, La compilazione giustinianea e i suoi commentatori bizantini (da Ferrini a noi), in Scritti Ferrini, Milano, 1946, 90 ss. (ora in Scritti di diritto romano, IV, Napoli, 1974, 10 ss.); MASCHI, La Parafrasi greca delle Istituzioni attribuita a Teofilo e le glosse a Gaio, in Scritti Ferrini, Milano, 1946, 321 e Punti di vista per la costruzione del diritto classico (da Adriano ai Severi) attraverso una fonte bizantina, in Annali triestini, 16, 1947, 79 ss.; CHIAZZESE, Introduzione allo studio del diritto romano3, Palermo, 1948, 463 s.; COLLINET, La genése du Digeste, du Code et des Institutes de Justinien, Paris, 1952, 295 ss.; D’EMILIA, Note esegetiche intorno ad alcune definizioni contenute nella Parafrasi greca delle Istituzioni giustinia-

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attinge chiaramente alle Istituzioni gaiane, anche là dove Giustiniano se ne discosta, e la esiguità del tempo impiegato per la compilazione della Parafrasi si spiegherebbero, infatti – secondo questa interpretazione –, solo ipotizzando la presenza di un modello preesistente 3, già tradotto in greco e già contenente uno svecchiamento del testo classico, tale da consentire appunto a Teofilo una rapida ed aggiornata conclusione del lavoro. Questa tesi, che per lungo tempo – come dicevo – è rimasta dominante in dottrina, è stata oggetto in tempi più recenti di serrate critiche, specie da parte di Van der Wal, di Lokin 4 e, negli anni a noi più vicini, di Falcone 5. nee, in Annali di Storia del diritto, 5-6, 1961-62, 139 e nt. 12; DE FRANCISCI, Saggi di critica della Parafrasi greca delle Istituzioni giustinianee, in Studi Biondi, I, Milano, 1965, 1 ss.; SANTALUCIA, Contributi allo studio della Parafrasi di Teofilo, in SDHI, 31, 1965, 171 ss.; ROBBE, Su la Universitas, in Ricerche storiche ed economiche in memoria di C. Barbagallo, I, Napoli, 1967 (pubbl. 1979), 628 ss.; SIMON, rec. a Scheltema, L’einsegnement de droit des Antécessores, in TR, 39, 1971, 483; SITZIA, De actionibus. Edizione e commento, Milano, 1973, 100 nt. 103; NELSON, Überlieferung aufbau und Stil von Gai Institutiones, Leiden, 1981, 272 ss.; BONA, Contardo Ferrini tra storia e sistematica giuridica, in Nuovo Bollettino Borromaico, 20, 1982, 98 s.; GORIA, Contardo Ferrini e il diritto bizantino, in Contardo Ferrini nel I centenario della morte. Fede, vita universitaria e studio dei diritti antichi alla fine del XIX secolo (a cura di D. Mantovani), Milano, 2003, 126 ntt. 49-51. 3 Sulla esatta natura di questo archetipo, se cioè fosse una semplice traduzione greca del testo latino o un commentario, non vi è peraltro assoluta chiarezza in dottrina: tant’è che – giustamente – si preferisce appunto parlare in proposito di ‘preesistente modello’ o di scritti greci di commento a Gaio (v., in tal senso, in specie SANTALUCIA, Contributi allo studio della Parafrasi di Teofilo, cit., 173 nt. 6 e FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, Palermo, 1998, 307 nt. 237). Alla utilizzazione delle Res cottidianae pensava, invece, soprattutto l’ARANGIO-RUIZ, La compilazione giustinianea, cit., 91 s. (ma v. anche AMELOTTI, Appunti su Giustiniano e la sua compilazione2, II, Torino, 1983, 112). 4 Cfr. VAN DER WAL-LOKIN, Historiae iuris graeco-romani delineatio2, Les sources du droit byzantin de 300 à 1453, Groningen, 1985, 125. 5 FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 306 ss. e La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, in TR, 68,

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Per quanto mi concerne, devo dire che sono anch’io fermamente convinta che un kat¦ pÒdav o uno scritto greco pregiustinianeo che commentasse il manuale gaiano non siano, in realtà, mai esistiti. Infatti, intanto, come esattamente sottolinea il Falcone 6, va innanzi tutto considerata la circostanza che tracce concrete dell’esistenza di questa presunta rivisitazione postclassica in greco del testo gaiano non ne sono state ad oggi rinvenute: il che significa che l’ipotesi resta comunque ad un livello meramente congetturale, proprio come quella del Predigesto 7. Inoltre, e direi soprattutto, non si può non tener conto del fatto che Teofilo era un professore universitario e che aveva tenuto fino al 533 d.C. i corsi di insegnamento di primo anno proprio sulle Institutiones di Gaio. Che il manuale gaiano abbia imperniato di sé tutta l’opera di Teofilo è dunque, io credo, un fatto quasi inevitabile. Già il Van der Wal ed il Lokin si erano giustamente richiamati alla forza dell’abitudine, che avrebbe talora portato il Parafra2000, 430 nt. 36. Per altre critiche mosse in età più risalente all’ipotesi ferriniana rimando a SANTALUCIA, Contributi allo studio della Parafrasi di Teofilo, cit., 172 nt. 3. 6 FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 307. 7 In una pregevole tesi di dottorato dedicata proprio alla Parafrasi di Teofilo, che ho avuto modo di leggere di recente in occasione della mia partecipazione alla commissione per gli esami finali del dottorato a Pavia, l’autore, il dott. Marco Molinari, prospettava un interessante parallelismo appunto tra l’ipotesi ferriniana del kat¦ pÒdav gaiano e la nota teoria del Predigesto avanzata oltre cent’anni fa dall’HOFMANN, Die compilation der Digesten Iustinians, Kritische Studien von Dr. Franz Hofman, Wien, 1900, 89 ss.; suggerendo peraltro la condivisibile congettura secondo cui anche l’idea dell’utilizzazione da parte di Teofilo di un archetipo postclassico possa ricondursi agli indirizzi interpolazionistici propri della dottrina del tempo, secondo la spiegazione fornita, per la genesi delle teorie del Predigesto, dal MANTOVANI, Cent’anni dalla morte di Hofmann. Duecento dalla nascita di Bluhme, in Labeo, 43, 1997, 428 ss.

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ste, avvezzo ad impostare il suo insegnamento sul testo gaiano, a confrontarsi con questa fonte piuttosto che con il ¸htÕn 8. Ma io concordo pienamente anche con l’amico e collega palermitano che, con l’acutezza e la concretezza che lo caratterizzano, richiamandosi alla familiarità dell’antecessore con il testo gaiano, immagina materialmente che Teofilo doveva plausibilmente aver portato con sé a lezione gli appunti degli anni precedenti «e – perché no? – magari anche una copia dello stesso manuale di Gaio 9»: proprio come faremmo – mi viene da aggiungere – oggi noi, se ci trovassimo a dover reimpostare un corso di insegnamento per il quale è stato introdotto un libro di testo rivisto ed aggiornato. Una supposizione – questa di Falcone – che a mio avviso non solo non ha nulla di incredibile, ma appare anzi estremamente probabile e che consente di giustificare appieno le numerose tracce gaiane rinvenute nel testo della Parafrasi, la presenza delle quali è dunque la naturale, logica conseguenza della diretta ed approfondita conoscenza che Teofilo aveva della fonte classica e dell’abitudine a svolgere l’insegnamento proprio su quel testo 10. Si può dire anzi che tale presenza possa considerarsi addirittura un fatto fisiologico, nel senso che, al contrario, apparirebbe ben strano se Teofilo, nell’apprestarsi ad insegnare per la prima volta ai suoi studenti le Institutiones sul nuovo manuale appena finito di compilare 11, fosse davve8

Cfr. VAN DER WAL-LOKIN, Historiae, cit., 125. Così in specie in La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, cit., 430 nt. 36. 10 Quanto alle tracce del modello originario dell’opera teofilina e dell’epoca in cui sarebbe stato composto che il SANTALUCIA, Contributi, cit., 171 ss. ha creduto di trarre da PT. 3.1.15 e 3.3.5, v. le osservazioni di FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 307 ss. 11 Sulla probabile contemporaneità tra il completamento e l’adozione del nuovo testo e la redazione della Parafrasi cfr. infra, 167, nt. 22. 9

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ro riuscito a liberarsi ex abrupto del bagaglio culturale e dell’esperienza acquisiti durante i corsi condotti sul testo gaiano. Tanto più che non credo che egli avesse effettivamente bisogno di servirsi della mediazione di un modello gaiano in lingua greca, dato che, già da tempo, la traduzione agli studenti grecofoni del testo latino (index) costituiva la prima fase su cui incentrava il suo insegnamento: il che vuol dire che egli padroneggiava assai bene anche la versione greca del testo di Gaio, chissà quante volte ripetuta e magari dettata a lezione. E queste osservazioni valgono – è opportuno precisare – tanto che si ritenga che la stesura e la pubblicazione della Parafrasi siano opera di Teofilo 12, tanto che si acceda all’opinione, oggi assolutamente prevalente, per cui sarebbe stato uno studente a raccogliere le lezioni tenute dal professore durante il suo primo corso sulle Institutiones imperiali, lezioni delle quali avrebbe poi curato la pubbli12 Il problema della paternità teofilina dell’opera nasce, come è noto, principalmente dal fatto che, eccettuati due scolii del manoscritto di Parigi del 1364 risalenti al VI-VII secolo d.C. [su cui v. FERRINI, Scolii inediti allo Pseudo-Teofilo contenuti nel manoscritto Gr. Par. 1364, in Memorie Ist. Lomb., III s., IX, 1886, 13 ss. (= Opere, I, cit., 140 ss.)], il nome di Teofilo non ricorre nelle citazioni della Parafrasi contenute nella tradizione bizantina, ricomparendo solo nei manoscritti a partire dall’XI secolo. Senza entrare ovviamente nel merito di una questione che non può essere affrontata in questa sede che incidentalmente, devo dire che questa circostanza non mi sembra tuttavia determinante al fine di escludere in assoluto l’attribuzione della Parafrasi a Teofilo. Il fatto che i contemporanei o comunque la scuola giuridica bizantina citassero per lo più semplicemente la Parafrasi senza menzionare il nome dell’autore potrebbe infatti spiegarsi, a mio avviso, con la considerazione che doveva trattarsi di un’opera unica nel suo tempo e nel suo genere, un’opera che dunque, proprio per questa sua unicità, era così universalmente nota tra gli operatori del diritto da non essere ritenuto necessario esternarne l’attribuzione (per intenderci, come sarebbe per noi, ad esempio, sul piano letterario, un’opera come I promessi sposi). Sulla questione cfr., comunque, tra gli altri, ROBBE, Su la Universitas, cit., 625 ss.; NOCERA, Saggi esegetici sulla Parafrasi di Teofilo, in RISG, n.s. XII, 1937, 39 ss.; GORIA, Contardo Ferrini e il diritto bizantino, cit., 125 ss.

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cazione 13 (forse dopo la morte dell’antecessor 14). E valgono – è il caso di aggiungere – tanto che si ritenga che si trattasse di un unico quaderno, in cui lo studente-editore avrebbe trascritto in modo continuo il discorso del maestro, tanto che si acceda alla nota tesi dello Scheltema, secondo il quale invece la Parafrasi deriverebbe dalla cucitura di due diversi quaderni di lezioni, corrispondenti alle due diverse fasi in cui veniva modulato l’insegnamento 15: una 13 Questa congettura, che si fonda principalmente sull’osservazione delle numerose incongruità presenti nell’esposizione, risale al REITZ, Theophili Antecessoris paraphrasis greca institutionum caesarearum, I, Hagae Comitis, 1751, XXVII; II, 1175, ma è ancora oggi, come si è detto, comunemente accolta e ribadita: tra gli ultimi, cfr. FALCONE, La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, cit., 417 e nt. 1 (cui rimando per la citazione della precedente letteratura) e GORIA, Contardo Ferrini e il diritto bizantino, cit., 127 nt. 55. 14 Avvenuta plausibilmente nel 534 d.C., secondo quanto la dottrina ha creduto doversi dedurre da vari indizi (quali, tra gli altri, la mancata partecipazione di Teofilo alla redazione del II Codice, il fatto che l’Indice al Digesto sia rimasto fermo ai libri de rebus, il silenzio sulle innovazioni successive alle Istituzioni): in tal senso v., per tutti, FERRINI, Delle origini, cit., 117, PETERS, Die Oströmischen Digestenkommentare und die Enstehung der Digesten, Leipzig, 1913, 212 ss. e, in tempi più vicini, ALBANESE, Premesse allo studio del diritto romano, Palermo, 1978, 64. Più di recente, tuttavia, l’AMELOTTI, Giustiniano interprete del diritto, in Scritti giuridici (a cura di L. Migliardi Zingale), Torino, 1996, 691 nt. 12, ha prospettato l’ipotesi che Teofilo sia stato allontanato per l’eccessiva indipendenza delle sue opere in rapporto ai divieti ai commentari introdotti nella Deo auctore e nella TantaDšdoken. Quanto al corso di insegnamento dal quale sarebbero state tratte le lezioni confluite nella Parafrasi, l’idea dominante è che si svolse nel 533534 d. C. (in tal senso, tra gli ultimi, LOKIN, Theophilus Antecessor, in TR, 44, 1976, 344; VAN DER WAL-LOKIN, Historiae, cit., 41 e 125; FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 312 nt. 246). 15 Così, in specie, SCHELTEMA, Subseciva, IV: Die Istitutionenparaphrase Theophili, in TR, 36, 1963, 92 e L’enseignement de droit des Antécesseurs (Bizantina Neerlandica, S. B, Studia, Fasc. I), Leiden, 1970, 17 ss.; ma l’opinione dello studioso olandese è condivisa, tra gli altri, da SIMON, rec. a Scheltema, L’einsegnement de droit des Antécessores, cit., 483; PIELER, Byzantinische Rechtsliteratur, in H. Hunger, Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner, II, München, 1978, 419 s.; VAN DER WAL-LOKIN, Historiae, cit., 41.

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prima, dedicata alla traduzione del testo latino (index), ed una seconda, volta a commentare il testo tradotto (paragraf») anche attraverso premesse (proqewr…ai), ricostruzioni storiche (par£tipla), esempi (qematismo…) ed il frequente ricorso a domande e risposte (™rwtapokr…seiv) che riprodurrebbero in modo impersonale il dialogo effettivamente avvenuto a lezione tra il maestro e gli studenti 16. Un’ipotesi – questa – che la dottrina è oggi per lo più propensa a rigettare, e io credo senz’altro a ragione. Anche in questo caso, infatti, condivido in pieno le puntuali osservazioni con cui il Falcone ribatte alle argomentazioni dello studioso groningano 17. Ma, ancor più, credo francamente che già una spassionata (anche superficiale!) lettura del testo della Parafrasi sia sufficiente ad evidenziare l’uniformità e la linearità della trattazione, nella quale la presenza di proqewr…ai e di excursus storici e dogmatici, il ripetersi di proposizioni interrogative (o di altre similari forme stilistiche), il frequente ricorso ad accattivanti esemplificazioni (alcune delle quali sembrano addirittura riprodurre la trama di moderne telenovelle 18) altro non sono se non gli strumenti del mestiere di professore, gli espedienti cioè attraverso i quali Teofilo tendeva ad assicurare completezza 16

Cfr. SCHELTEMA, L’enseignement de droit des Antécesseurs, cit., 9 ss. FALCONE, La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, cit., 417 ss. 18 Si pensi, per fare solo uno dei tanti possibili esempi, al caso prospettato in PT. 1.4.1, dove, nel commentare l’affermazione saepissime enim constitutum est natalibus non officere manumissionem contenuta nel ¸htÕn, spiega agli studenti come poteva essere possibile che un ingenuo venisse manomesso ricorrendo all’esempio della donna libera a servizio che, dopo avere partorito, era morta. Per caso, subito dopo era morto anche il padrone e l’erede, avendo trovato tra le cose ereditarie il bimbo anch’egli ignaro della sua condizione, pensò che fosse uno schiavo. Ma la legge, che sa la verità, non mutò al bambino la sua reale condizione neanche quando l’erede, mosso a benevolenza, lo manomise (sul passo v., tra gli ultimi, LUCHETTI, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano, 1996, 3 nt. 2). 17

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e vivacità al discorso 19: essi sono, d’altronde, gli stessi strumenti che adoperiamo ancora noi a lezione, quando, nell’introdurre la trattazione di un istituto, lo inquadriamo dogmaticamente e ne ripercorriamo la storia; o quando, per attirare l’attenzione degli studenti, rivolgiamo loro provocatoriamente una domanda; o quando, per facilitare la comprensione di certi argomenti, ricorriamo agli esempi più significativi. Comunque sia – per ritornare al profilo che maggiormente interessa in questa sede –, dicevo che le opinioni appena ricordate non intaccano la validità delle osservazioni fatte a proposito dell’esistenza di un presunto kat¦ pÒdav del manuale gaiano e della sua utilizzazione da parte di Teofilo. Che Teofilo abbia redatto di suo pugno la Parafrasi o che si tratti di uno o più quaderni di lezioni raccolti e pubblicati in un momento successivo da uno studente non sposta nulla, infatti, quanto alla paternità dei contenuti e dello stile dell’opera, che vanno in ogni caso riferiti al Parafraste 20. Il quale, proprio per la profonda conoscenza che aveva del testo gaiano e per l’abitudine ad insegnare appunto su quel testo, lo ha – credo, come si è detto, fisiologicamente – tenuto costantemente presente anche nell’accingersi ad iniziare la nuova esperienza didattica sulle Istitutiones imperiali. E ciò tanto più che – non si 19

In tal senso v., più specificamente, la puntuale indagine del FALCOLa formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, cit., 421 ss. Vanno segnalate, tuttavia, le recenti osservazioni fatte in proposito dal GORIA, Contardo Ferrini e il diritto bizantino, cit., 127 s., il quale si interroga sulla possibile esistenza di uno stacco fra l’esposizione orale di Teofilo e il testo della tradizione manoscritta a noi pervenuto, ipotizzando che esso possa derivare da una redazione effettuata in un momento successivo da parte di un collaboratore o successore di Teofilo che avesse continuato con metodo parzialmente diverso l’insegnamento. 20 Come d’altronde comunemente riconosciuto: da ultimo, cfr. FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 312. NE,

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dimentichi – egli aveva materialmente partecipato alla compilazione del nuovo testo istituzionale, facendo parte con Triboniano e Doroteo della commissione ad hoc istituita, e, dunque, aveva avuto un’ulteriore recentissima occasione per approfondire ancora di più lo studio del manuale classico, che costituì – come è noto – la base sulla cui falsariga furono (con i necessari aggiornamenti e le necessarie modifiche) redatte le Istituzioni giustinianee. Ed è anzi a mio avviso assai probabile che anche da questo recente e diverso ‘contatto’ con Gaio egli abbia potuto attingere altri spunti per le lezioni che si accingeva a cominciare sull’aggiornato testo didattico. È questa – io credo – la spiegazione più lineare e più naturale dei tanti luoghi in cui c’è chiaramente traccia del manuale gaiano nell’opera di Teofilo. Pensare ad una traduzione greca pregiustinianea del testo classico o comunque a ‘preesistenti modelli’ prodotti nelle scuole di Berito o di Costantinopoli che avrebbero fatto da tramite tra Gaio e Teofilo è un’ipotesi a mio avviso assolutamente artificiosa, soprattutto in assenza di tracce concrete di questa presunta mediazione orientale.

2. Ciò premesso, a me sembra si possano tuttavia fare in proposito alcune considerazioni più generali, che cioè vadano oltre la specifica questione dell’utilizzazione diretta o indiretta del manuale gaiano. Infatti, a parte la certa ed approfondita conoscenza di Gaio che gli derivava dalla pratica didattica condotta proprio su quel testo, non va sottovalutata la circostanza che Teofilo era comunque – come si è detto – un professore universitario e quindi, come tale, certamente possedeva una sua cultura di base, che gli proveniva da anni ed anni di studi condotti soprattutto sui testi giuridici classici.

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Proprio come i professori di oggi, la cui preparazione non si fonda ovviamente solo sul libro (o sui libri) su cui svolgono la didattica, ma sulle molteplici letture che, nel corso di una vita dedicata alla ricerca e all’insegnamento, hanno contribuito alla loro formazione professionale. D’altronde, il fatto stesso che Teofilo fu chiamato da Giustiniano a far parte delle commissioni incaricate della compilazione del I Codice, del Digesto e delle Institutiones costituisce la prova più evidente dell’esperienza e dell’autorevolezza che in materia erano riconosciute all’antecessor 21, esperienza ed autorevolezza che a loro volta non potevano che derivargli dai risalenti ed approfonditi studi compiuti sugli scritti giuridici antecedenti. Già questa constatazione sarebbe sufficiente, a mio avviso, a comprendere come, nell’apprestarsi a tradurre e commentare le Istituzioni imperiali, Teofilo non avesse potuto fare a meno di attingere al vasto patrimonio culturale che possedeva. Ancora una volta – non si può non ripetere – esattamente come succede oggi a noi, quando, nell’affrontare un dato argomento a lezione, non possiamo fare a meno di partecipare agli studenti ciò che fa parte ormai inscindibilmente del nostro retroterra culturale, e magari anche i risultati delle nostre ricerche o di altre più recenti letture. Ma a Teofilo – non si dimentichi – era successo qualcosa di più, qualcosa che assai raramente e non a tutti i professori capita nella vita: un’esperienza per certi versi ‘unica’, quella cioè di venire chiamato, nel 529 d.C., a far parte della commissione incaricata di redigere il nuovo Codice e, soprattutto, nel 530 d.C., della commissione alla quale Giu21

Come attestano, peraltro, le parole con cui Giustiniano apostrofa Teofilo nelle costituzioni Haec quae necessario (§ 1), Summa (§ 2), Cordi (§ 2), Deo auctore (CI. 1.17.1) e Tanta 9.

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stiniano affidò il compito di effettuare una raccolta di iura che salvasse dall’oblio gli scritti dei giuristi classici; oltre che, come si è detto, della commissione preposta alla redazione delle Institutiones imperiali. Ora, queste particolarissime esperienze, tutte avvenute peraltro negli anni immediatamente precedenti la redazione della Parafrasi 22, non possono non avere ‘naturalmente’ influito sul lavoro di commento che il Parafraste si accingeva a compiere. La partecipazione ai lavori di predisposizione del Codice e, ancor più, dei Digesta, infatti, lo avevano costretto innanzi tutto ad un’attenta e sistematica lettura delle costituzioni imperiali e dei responsa giurisprudenziali dai quali andava selezionato il materiale da inserire nelle nuove raccolte; e, successivamente, ad un’opera di aggiornamento delle fonti prescelte, che dovevano altresì essere opportunamente modificate per renderle al passo con i tempi. E se pure condivise il compito con gli altri commissari, non c’è dubbio che la mole delle leges e – ancor più – dei frammenti giurisprudenziali visionati da ciascuno di essi dovette essere comunque notevolissima. Ora, è evidente che questa recente ‘avventura’ in cui era stato coinvolto doveva aver procurato a Teofilo un grosso arricchimento del proprio patrimonio culturale, nel senso che gli aveva fornito un’ulteriore, specialissima occasione di leggere non solo un rilevantissimo numero di fonti giuridiche del periodo classico (molte delle quali probabilmente per la prima volta!) riguardanti i più svariati campi 22

Non si dimentichi infatti che, come si è detto, il corso istituzionale da cui sarebbe stata tratta la Parafrasi si svolse con buona probabilità nel 533534 d.C. e, dunque, in sostanza, «contemporaneamente al completamento e all’adozione, per la prima volta, del nuovo manuale» (così FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., 312) e contemporaneamente al completamento e alla pubblicazione dei Digesta, avvenuta il 16 dicembre del 533 con la c. Tanta-Dšdoken.

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del diritto, ma anche le tante testimonianze dell’età tardo antica che avevano in parte modificato il regime in esse previsto e sulla cui base doveva poi essere effettuato l’aggiornamento del materiale inserito nel Codice e nel Digesto. Ma anche la redazione del nuovo manuale istituzionale, nel quale la regolamentazione giuridica assunta dagli istituti venne sinteticamente esposta in un testo specificamente finalizzato alla didattica, ma che aveva anche valore legislativo, deve aver costituito per l’antecessor (che alla predisposizione di quel manuale contribuì in modo – a quanto pare – determinante 23) un’ulteriore fonte di conoscenza e di riflessione. Teofilo, dunque, quando iniziò il suo primo anno di insegnamento sulle Institutiones imperiali, era appena uscito da questi avvenimenti ed aveva ben presenti, quindi, i testi delle costituzioni imperiali e le opinioni dei giuristi classici nella loro versione originaria e nella versione in cui essi erano stati inseriti, una volta interpolati, nel Codice e nei Digesta. Ebbene, se si tiene conto di queste circostanze, io credo si possa ragionevolmente ipotizzare che, nel commentare lo spesso scarno dettato delle Istituzioni giustinianee, il Parafraste abbia abbondantemente attinto non solo al proprio personale patrimonio culturale o alla propria persona23 Sul punto v., da ultimo, FALCONE, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, cit., che, accogliendo un’intuizione dell’HONORÉ, Tribonian, Oxford, 1978, 189 ss., ha ipotizzato che Teofilo e Doroteo avessero curato l’esposizione del materiale classico, mentre Triboniano avrebbe provveduto all’aggiornamento del testo alla luce delle innovazioni legislative postclassiche e giustinianee. Quanto alla divisione del lavoro tra Teofilo e Doroteo, essa sarebbe avvenuta per materie: il primo avrebbe redatto le parti relative alle persone e alle successioni universali, il secondo le parti riguardanti le res, le obbligazioni e le successioni. Accedendo a questa interpretazione, dunque, a Teofilo andrebbero attribuiti il I libro (tranne il § 7) ed alcuni titoli del II e del III libro (in specie, II. 10-24 e III. 1.11).

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le esperienza didattica, ma anche e soprattutto al patrimonio di conoscenze che gli era derivato appunto dalle esperienze appena concluse e, in particolare, dalla partecipazione alla compilazione dei Digesta. In altri termini, il problema non è a mio avviso tanto o solo quello dell’utilizzazione (diretta o indiretta) del manuale di Gaio – che, come si è detto, fu con buona probabilità costantemente tenuto presente nella sua versione originale se non altro per la forza dell’abitudine –, ma, più in generale, del retaggio che sulla Parafrasi di Teofilo ha lasciato il coinvolgimento dell’autore nei lavori di compilazione delle principali parti del Corpus iuris. Ed io credo che, soprattutto in sede di paragraf», Teofilo si sia spesso ispirato specialmente alle opinioni dei giuristi classici, lette (o rilette) in occasione dei Digesta (e talora magari poi neanche inserite nella raccolta!). D’altra parte, che dietro la Parafrasi ci sia del materiale classico non confluito nelle Institutiones è un fatto indubbio ed anche generalmente ammesso 24. Sono convinta tuttavia che il fenomeno sia forse più ricorrente di quanto si creda o di quanto appaia a primo acchitto, nel senso che, anche laddove Teofilo sembri avanzare una propria personale spiegazione o esprimere una personale opinione, non è affatto detto che l’interpretazione proposta non tragga origine da uno spunto classico, che il Parafraste avrebbe recepito e sviluppato. Ed è appunto proprio su uno di questi casi che, a titolo esemplificativo, dobbiamo ora volgere la nostra attenzione.

24

Basti pensare, per fare solo un esempio, a PT. 2.20.17, costruito su D. 33.7.8: cfr. MASCHI, Punti di vista per la ricostruzione del diritto classico, cit., 10 nt. 7 e 109 ss.

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3. Un significativo esempio di una paragraf» in cui l’interpretazione prospettata da Teofilo trova un chiaro addentellato nelle fonti classiche ci è fornito infatti, a mio avviso, da PT. 1.11.9, brano che è opportuno innanzi tutto riportare nella sua interezza: PT. 1.11.9 “Ekthn koinwn…an adrogatìonos ka… adoptìonos d…dwsin ¹m‹n Ð eÙnoàcov. Œce taàta æv ™n proqewr…aÄ.. `O eÙvoàcov Ônom£ ™sti genikÕn, tšmnetai d\e eˆv tr…a: tîn g¦r eÙnoÚcwn oƒ mšn e„sˆ sp£donev oƒ d\e kastr£toi oƒ d\e qlib…ai. kaˆ sp£donev e„sˆn o†tinev di£ ti p©qov ½ yàzin ™nocl»sasan to‹v gon…moiv mor…oiv paidopoie‹n kwlÚontai, toÚtou dš ¢pallagšntev paidopoioàsin. qlib…ai dš o†tinev ØpÕ tÁv trofoà ¼ tÁv mhtrÕv tucÕn œkqliyin tîn didÚmwn Øpšsthsan. kastr£toi dš e„sin ™v’ ðn gšgonen ™ktom¾ tîn gennhtikîn mor…wn. ™peid» soi taàta proteqeèrhtai Óra loipÕn tÕ proke…menon. ‘Ezht»qh e„ ¥ra eÙnoàcov dÚnatai uƒoqete‹n. kaˆ lšgomen Óti Ð mšn kastr£tov kaˆ Ð qlib…av oÙ lamb£nousin e„v qšsin oÙdš aÙtezoÚsion par¦ basilšwv, oÙdš ØpezoÚsion par¦ ¥rcontov. OŒv g¦r ¹ fÚsiv ºrn¾sato tÕ paidopoie‹n, toÚtoiv kaˆ Ð nÒmov kat¦ pÒda bad…zwn tÁv fÚsewv: ¢nšlpista g¦r aÙto‹v t¦ t¾v paidodo‹av. Ð dš sp£dwn ™peid¾ toàton ™lpˆv e„kÕv toà p£qouv ¢pallagšnta dÚnasqai paidopoie‹n, e„v qšsin l»yetai kaˆ ØpexoÚsion kaˆ aÙtexoÚsion. ¢ll’Ð sp£dwn labën ØpexoÚsin e„v qšsin oÙc ›xei toàton in potestate: p£ntwv g¦r Ð lambanÒmenov ™xwtikÒv ™stin. Pîv g¦r Ð sp£dwn p£ppov eŒnai prÕv patrÕv ½ prÕv mhtrÕv dunestai; e„ m¾ ¥ra tiv e‡ph tÕn sp£dona m¾ mÒnon ™ke‹non eŒnai tÕn ™x ¢rcÁv m¾ dunhqšnta paidopoiÁsai, ™lp…zonta dš, ¢ll¦ g¦r kaˆ ™ke‹non, Óv p£lai mšn ºdÚnato paidopoie‹n teleuta‹on d\e di¦ tÕ sumb©n aÙtù p©qov perišsth e„v tÕ m¾ dÚnasqai paidopoie‹n.

Il paragrafo è tratto dal titolo XI del I libro, dedicato

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all’adozione, e traduce e commenta il corrispondente passo delle Institutiones imperiali, nel quale era affrontato specificamente il tema della capacità di adottare di coloro che non potevano generare: I. 1.11.9 Sed et illud utriusque adoptionis comune est, quod et hi, qui generare non possunt, quales sunt spadones, adoptare possunt, castrati autem non possunt.

Il succinto testo istituzionale, come è noto, ricalca a sua volta sostanzialmente la versione gaiana (pervenutaci peraltro, oltre che nelle Istituzioni, anche attraverso il Digesto 25), alla quale però i compilatori aggiunsero l’inciso finale castrati autem non possunt. Si legga, infatti: Gai 1.103 (= D. 1.7.2.1) Illud vero utriusque adoptionis comune est, quod et hi qui generare non possunt, quales sunt spadones, adoptare possunt.

La regola riferita da Gaio nel luogo succitato è poi riaffermata, pressoché negli stessi termini, anche in: Tit. Ulp. 8.6 Hi qui generare non possunt, velut spado, utroque modo possunt adoptare. Idem iuris est in persona caelibis.

Nello stesso senso, inoltre, si esprimono: D. 1.7.40.2 (Mod. 1 diff.) Spado adrogando suum heredem sibi adscirere postest nec ei corporale vitium impedimento est

e 25

E precisamente in D. 1.7.2.1 (Gai 1 inst.).

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Gai Ep. 1.5.3 Spadones autem, qui generare non possunt, adoptare possunt: et licet filios generare non possint, quos adoptaverint, filios habere possunt.

Ebbene, come è noto, secondo un’interpretazione avanzata per primo dal Bonfante ma che ancora oggi è prevalentemente ribadita in dottrina, la lettura delle fonti surriportate evidenzierebbe che, mentre in diritto classico e postclassico l’incapacità di procreare non avrebbe avuto alcun rilievo in ordine alla capacità di adottare, che era riconosciuta indistintamente a tutti coloro che non potevano generare (e, dunque, tanto allo spado che al thlibia ed al castratus), Giustiniano avrebbe invece per la prima volta enucleato la categoria dei castrati, precludendo loro la possibilità di adottare 26. Questa opinione si basa su varie argomentazioni. La principale deriva dall’osservazione per cui il termine spado, secondo quanto è dato apprendere da una nota testimonianza ulpianea inserita nel titolo XVI del cinquantesimo libro del Digesto 27, era, nelle fonti del periodo imperale, una generalis appellatio: il che indurrebbe a credere che, in 26 Così, tra gli altri, BONFANTE, Corso di diritto romano, I, Diritto di famiglia, Milano, 1925 (rist. 1963), 41; Di una influenza orientale nel diritto romano, in AG, 17, 1929, 6; LONGO, Corso di diritto romano, Diritto di famiglia, Milano, 1946, 40; ARCHI, L’«Epitome Gai», Studi sul tardo diritto romano in Occidente, Milano, 1937, 163; BRANCA, s. v. Adozione, in ED, I, Milano, 1958, 581; SCIASCIA, Eunucos, castratos e spadones no direito romano, in Varietà giuridiche. Scritti brasiliani di diritto romano e moderno, Milano, 1956, 116; CASTELLO, Sull’età dell’adottante e dell’adottato, in AUGE, 1968, 345; KURYLOWICZ, Adoptio prawa rzymskiego. Rozwoj i zmiany w okresie poklasycznym i justyniánskim, Lublin, 1976, 155 ss.; DALLA, L’incapacità sessuale in diritto romano, Milano, 1978, 163 ss. e Note minime di un lettore delle Istituzioni di Giustiniano, Libro I, Torino, 1998, 148 ss.; ALBANESE, Le persone nel diritto privato romano, Palermo, 1979, 236 e nt. 133; DALLA-LAMBERTINI, Istituzioni di diritto romano3, Torino, 2006, 120 ss. 27 Cfr. D. 50.16.128 (Ulp. ad l. Iul. et Pap.) Spadonum generalis appellatio est: quo nomine tam hi qui natura spadonum sunt, item thlibiae thlasiae, sed et si quod aliud genus spadonum est, continetur.

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assenza di espresse distinzioni, anche nelle istituzioni gaiane, così come nell’Epitome Gai, nei Tituli ulpianei ed in Modestino, la voce non poteva che essere stata utilizzata nel suo significato più ampio 28. L’irrilevanza sul piano del diritto privato dell’incapacità di procreare dei castrati si spiegherebbe, inoltre, almeno secondo una parte della dottrina, anche in considerazione della marginalità del fenomeno dell’evirazione, che avrebbe riguardato solo casi sporadici di lesioni riportate da nobili guerrieri in campo, sui quali l’ordinamento non avrebbe avuto ragione alcuna di infierire 29. Già nel 1990, occupandomi di queste testimonianze in occasione di uno studio sull’adozione, ho avuto modo di esprimere forti perplessità su questa ricostruzione 30: perplessità che, a distanza di diciannove anni – devo dire – non solo non sono venute meno, ma si sono addirittura rafforzate, anche alla luce delle osservazioni che mi sono state fatte in proposito 31. Innanzi tutto va ribadito che appare errato il presupposto storico su cui talune di queste interpretazioni poggiavano: come è stato ormai sufficientemente dimostrato, infatti, la pratica dell’evirazione non era affatto un fenomeno marginale o secondario, ma costituiva anzi «una realtà con cui l’ambiente e il diritto (dovevano) confrontarsi» 32. L’abitudine, importata dall’oriente, di circondarsi di eunuchi, soprattutto a fini di libidine e di commercio, si era infatti 28

Così in specie, da ultimo, DALLA, Note minime di un lettore, cit., 150. In tal senso cfr., in specie, BONFANTE, Di una influenza orientale, cit., 15 e ARCHI, L’«Epitome Gai», cit., 166 s. 30 Cfr. RUSSO RUGGERI, La datio in adoptionem, I, Origine, regime giuridico e riflessi politico-sociali in età repubblicana ed imperiale, Milano, 1990, 293 ss. 31 Alludo in specie a DALLA, Note minime di un lettore, cit., 150, sulle quali cfr. infra, 175. 32 Così esattamente DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 130. 29

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ampiamente diffusa nella prassi dell’età imperiale, finendo per dar vita ad un tertium genus hominum 33, che costituiva ormai una componente di rilievo nella vita del tempo. Una componente della quale anche sotto il profilo giuridico non si poteva non tener conto, e non solo sul piano del diritto penale 34, ma anche su quello privatistico, dato che l’immissione – attraverso il commercio – di questi semiviri (che da schiavi, quali erano di norma, potevano anche diventare liberi e cittadini) non poteva non aver posto problemi anche in ordine alla loro capacità, soprattutto se considerata in rapporto alle altre forme di patologia sessuale, che, pur incidendo sulla capacitas generandi, non toglievano a chi ne era affetto la parvenza di uomo 35. E se si considera il forte disprezzo e l’ostilità che l’ambiente sociale dimostrava verso gli eunuchi, risulta più ragionevole pensare che anche il diritto, che dell’humus popolare è la più fedele espressione, avesse risposto con una limitazione di capacità, anziché con un’apertura difficilmente comprensibile sotto il profilo sociologico 36. Venendo poi agli aspetti più strettamente esegetici e, in specie, all’idea per cui si deve presumere che il termine spado, nei testi giuridici classici, sarebbe stato sempre adoperato – in assenza di altre distinzioni – nell’accezione generale testimoniata da Ulpiano, va detto che anche questa argomentazione è decisamente smentita dalle fonti, dove la voce appare ampiamente ed inequivocabilmente utilizzata anche nel significato più specifico di natura spadones, per 33 Secondo la nota definizione di Alessandro Severo riportata in Historia Augusta, Alex. Sev. 23. 7. 34 Sui divieti di castrazione introdotti sul piano criminale a partire da Domiziano cfr. DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 71 ss. 35 V. DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 29 ss. e 130 ss. 36 Cfr. RUSSO RUGGERI, La datio in adoptionem, I, cit., 304 s.

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indicare cioè gli impotenti in contrapposto agli evirati 37. D’altra parte, vero è che Ulpiano attesta che spadonum generalis appellatio erat: tuttavia, a parte il fatto che non va sottovalutata la circostanza che la surriferita definizione ulpianea era funzionalizzata alla lex Iulia et Papia 38, vero è anche che il significato specifico del termine era comunque quello di natura spadones: e i giuristi appunto, come ho detto, si servirono certamente tanto dell’una che dell’altra accezione. È solo il complessivo contesto argomentativo in cui la voce fu adoperata e il confronto con quanto eventualmente può trarsi dalle altre fonti pervenute in materia, dunque, a mio avviso, ciò che può consentire in concreto di capire il significato con cui quel dato giurista, in quella specifica testimonianza, ha usato la voce spado. Il che non significa affatto – io credo – voler presuntivamente prospettare «una distinzione dove non c’è» o voler retroagire una posteriore precisazione per stabilire una interpretazione diversa (come mi si è accusato di fare 39), ma, più pragmaticamente, demandare all’esegesi il compito di individuare il valore da attribuire al termine nell’ambito della problematica specificamente affrontata nel testo preso in considerazione. Ora, tra i brani più significativi in cui la voce spado è 37 La rilevanza della distinzione tra spadones e castrati in ordine alla capacità di diritto privato in epoca classica è, d’altronde, da tempo sottolineata: per tutti, cfr. CHIAZZESE, Confronti testuali. Contributo alla dottrina delle interpolazioni giustinianee, in AUPA, 17, 1933, 446 ss. e GIARO, rec. a Kurylowicz, cit., in BIDR, 21, 1979, 191. Anche il DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 121 ss., che pure è tra i più fedeli assertori dell’interpretazione surriportata, riconosce tuttavia la polivalenza del vocabolo. 38 L’idea prevalente in proposito è che la legge esentasse gli spadones dalle pene del celibato (così DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 256 ss.): da qui la necessità di chiarire appunto a chi essa si riferisse in concreto con tale termine. 39 Cfr. in specie DALLA, Note minime di un lettore, cit., 150.

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certamente adoperata nel suo significato più specifico, va citato soprattutto un frammento tratto dal III libro ad Sabinum di Ulpiano, cioè proprio del giurista che, come si è appena detto, fu l’autore della definizione di cui a D. 50.16.128. In esso, infatti, il giurista severiano – a proposito della capacità di istituire erede un postumo da parte di coloro che non potevano generare – distingue espressamente tra lo spado ed il castratus, ricordando solo per il primo la capacità concessagli di adottare. Si legga: D. 28.2.6 pr. (Ulp. 3 ad Sab.) Sed est quaesitum, an is, qui generare facile non possit, postumum heredem facere possit, et scribit Cassius et Iavolenus posse: nam et uxorem ducere et adoptare potest: spadonem quoque posse postumum heredem scribere et Labeo et Cassius scribunt: quoniam nec aetas nec sterilitas ei impedimento est. 1. Sed si castratus sit, Iulianus Proculi opinionem secutus non putat postumum heredem posse instituere, quo iure utimur. 2. Hermaphroditus plane, si in eo virilia prevalebunt, postumum heredem instituere poterit.

Il testo, la cui genuinità – in passato più volte e sotto più profili contestata 40 – è oggi comunemente riconosciuta 41, si rivela estremamente interessante ai nostri fini. Infatti, intanto, su un piano più generale, esso conferma quanto abbiamo poco prima logicamente supposto, e cioè che il problema della capacità di coloro che non potevano generare era fortemente avvertito sul piano giuridico, e sotto più profili. Ancora, la testimonianza conferma che la voce spado era adoperata, pure da parte di chi ne aveva precisa40 Cfr., tra gli altri, BONFANTE, Di una influenza orientale, cit., 9 ss.; CHIAZZESE, Confronti testuali, cit., 448 ss.; ARCHI, L’«Epitome Gai», cit., 166 ss.; ROBBE, I postumi nella successione testamentaria romana, Milano, 1937, 176 ss. 41 In tal senso, per tutti, v. DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 152 ss.

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to il significato generale, anche per alludere ai soli natura spadones, come si evince chiaramente dall’accenno iniziale a coloro qui generare facile non possunt e dal successivo riferimento alla sterilitas 42. Ma, infine e soprattutto, essa attesta che non solo Ulpiano, ma già prima anche Cassio, Proculo, Labeone, Giavoleno e Giuliano, alle cui dottrine il giurista severiano espressamente si richiama, distinguevano chiaramente tra i castrati e gli spadoni, riconoscendo solo a questi ultimi la capacità di nominare erede un postumo, così come quella di uxorem ducere e di adoptare 43. Ma se già Cassio, Proculo, Labeone, Giavoleno e Giuliano, come poi Ulpiano, nel discutere della capacità degli spadones, si riferivano senza ombra di dubbio unicamente ai natura spadones, perché escludere che anche in Gaio, così come in Modestino, nell’Epitome Gai e nei Titoli ulpianei la voce possa essere stata adoperata nella stessa ac-

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Che il termine spado non potesse qui avere il significato di generalis appellatio è d’altronde comunemente riconosciuto (v., per tutti, ARCHI, L’«Epitome Gai», cit., 170). 43 Non credo, infatti, si possa condividere sul punto l’ipotesi del CHIAZZESE, Confronti testuali, cit., 446 ss., per il quale il disconoscimento ai castrati della capacità di adottare sarebbe stato affermato per la prima volta da Proculo, la cui opinione, accettata da Giuliano, sarebbe poi prevalsa in età adrianea. Che già anche Labeone e Cassio, seguito da Giavoleno, nel riconoscere agli spadones la capacità di adottare, di uxorem ducere e di postumum heredem facere, escludessero i castrati si evince, infatti, implicitamente dalla circostanza che le loro affermazioni si riferivano chiaramente ai soli natura spadones. L’opinione di Proculo, specificamente riguardante invece i castrati, dunque, non fu espressa a mio avviso in contrapposizione a quella dei sabiniani, ma ne costituì più semplicemente un completamento. D’altra parte, che non ci sia stato in proposito alcun contrasto tra le due scuole della giurisprudenza classica è dimostrato dal fatto che, come esattamente ha sottolineato l’ARCHI, L’«Epitome Gai», cit., 170, Ulpiano cita per entrambe le opinioni surriferite il nome di giuristi di scuole opposte (Cassio e Labeone, per quella sugli spadones, e Proculo e Giuliano, per quella sui castrati).

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cezione? E ciò tanto più se si considera che Gaio, a ben vedere, cita chiaramente gli spadones per inciso a mero titolo esemplificativo, nell’ambito della più generale categoria di coloro qui generare non possunt 44: categoria che, soprattutto se si ritiene comprendesse tutti coloro che non avevano la capacità di procreare per cause patologiche di varia natura ma non anche per la causa fisiologica dell’età avanzata 45, da altro non sarebbe costituita, in definitiva, se non appunto dagli spadones in senso lato. Ma, se così è, che senso avrebbe avuto – io continuo a chiedermi – adoperare poi la voce, in via esemplificativa, nella stessa omnicomprensiva accezione 46? L’argomento determinante contro l’idea per cui sarebbe stato per la prima volta Giustiniano, innovando rispetto al regime classico, a negare la capacità di adottare ai castrati è tuttavia costituito, a mio avviso, dalla circostanza per cui il brano gaiano venne inserito nei Digesta nella sua versione originaria e, per di più, in sedes materiae, nel titolo VII, cioè, del I libro ‘De adoptionibus et emancipationibus et aliis modis potestas solvitur’. E nello stesso titolo venne collocato, altresì, il frammento tratto dal primo liber 44 Così come fanno anche i Tituli ulpianei: Hi qui generare non possunt, velut spado ... 45 Così espressamente DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 172, sulla base della considerazione che questa anzi, già nella prassi pontificale, era una condizione favorevole all’adozione. 46 Per ciò v. quanto già osservato in La datio in adoptionem, I, cit., 304. Quanto all’idea per cui la decisione di riservare ai soli natura spadones la capacità di istituire erede un postumo non andrebbe collegata al problema della capacità di adottare, ma al principio secondo cui placet omnem masculum posse postumum heredem scribere (avanzata dal DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 158), va detto che questa interpretazione contrasta con ciò che a chiare lettere è affermato nel testo, nel quale Ulpiano adduce espressamente la motivazione tratta da (e condivisa con) Cassio e Giavoleno] per cui nam et uxorem ducere et adoptare potest.

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differentiarum di Modestino, relativo alla capacità di adrogare e sibi heredem adscirere dello spado. Una circostanza, questa, in presenza della quale bisognerebbe chiedersi – vorrei a mia volta rispondere al Dalla 47 – perché mai nei Digesta Giustiniano non «abbia ritenuto indispensabile una precisazione, apparsa superflua a Gaio» 48. Ora, se davvero – come usualmente si crede – la limitazione della capacità di adottare dei castrati fosse una novità dell’età giustinianea, è da presumere che i commissari avrebbero modificato i testi classici pervenuti in materia e selezionati per il Digesto, quanto meno – come fecero i compilatori delle Istituzioni – aggiungendo un’avversativa

47 Il quale mi obietta che bisognerebbe chiedersi come mai Giustiniano, nelle Istituzioni, abbia ritenuto indispensabile una precisazione apparsa superflua a Gaio (così DALLA, Note minime di un lettore, cit., 150). 48 Quanto a CI. 5.62.1 e D.27.1.15 pr., la circostanza che Severo ed Antonino avessero negato allo spado l’esenzione dalla tutela non significa affatto che il castrato avesse invece senz’altro diritto all’esenzione, come il DALLA, Note minime di un lettore, cit., 150, ipotizza che io, prospettando al riguardo una distinzione che non c’è, avrei ritenuto. Ciò non vuol dire tuttavia concludere necessariamente che il termine spado sia stato qui usato – come è pure possibile – nella sua portata più ampia, dato che, trattandosi di un rescritto volto a risolvere un caso concreto, esso poteva anche in teoria essere indirizzato specificamente ad un natura spado, senza che ciò comportasse l’implicita esclusione dal diniego dei castrati. Sempre il DALLA, op. loc. cit., mi chiede poi come mai, a proposito del matrimonio, Ulpiano in D. 23.3.39.1 non dia per scontato che i castrati non abbiano capacità, ma, in modo antitetico a Gaio, distingua tra i castrati e gli spadoni. Sennonché, a parte il fatto che il parallelismo non può a mio avviso essere fatto tra Ulpiano e Gaio, ma semmai tra testimonianze dello stesso autore (e in questa prospettiva non vedo differenze, ad esempio, tra D. 23.3.39.1 e D. 28.2.6 pr.-2), non si ometta di considerare che qui Ulpiano non si stava occupando ex professo della capacità matrimoniale degli spadoni, ma, più specificamente, della concreta possibilità di esperire l’azione dotale in presenza di un’unione con uno spado e che è appunto in quest’ottica che il giurista, nell’affermare che la dotis actio andasse negata al castrato e concessa a chi castratus non erat, sottolinea l’esistenza – in questo secondo caso – del matrimonio.

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finale. Tanto più che il loro inserimento nella versione originaria non può essere considerato una svista, data la collocazione di entrambi i brani in sede materiae. L’unica alternativa per spiegare come mai la novità appare esplicitata nelle Istituzioni e non nel Digesto è pensare, coma fa appunto il Dalla, che essa sia stata voluta e realizzata direttamente dai compilatori delle Institutiones 49; oppure, forse più plausibilmente, che Giustiniano si sia determinato ad escludere i castrati da coloro ai quali era riconosciuta la capacità di adottare dopo la redazione dei Digesta ed abbia sensibilizzato in questo senso i compilatori del manuale. Ipotesi certo teoricamente possibili, dato il valore legislativo che le Institutiones, come tutte le altre parti del Corpus iuris, avevano. Sennonché – a parte il fatto che, trattandosi di un’innovazione che avrebbe inciso su una materia assai delicata modificando peraltro una presunta secolare tradizione di ‘apertura’, non è pensabile che essa possa imputarsi all’autonoma iniziativa dei commissari, e che (ammesso che sia stata introdotta invece per volontà di Giustiniano) sarebbe comunque più logico ipotizzare che l’imperatore avesse provveduto al riguardo attraverso l’emanazione di un’apposita costituzione o, se non altro, attraverso una forma meno concisa e sbrigativa –, anche quest’ipotesi va a mio avviso decisamente scartata, giacché, se così fosse stato, non solo e non tanto gli stessi compilatori del manuale, ma soprattutto Teofilo ne avrebbero di certo dato conto nella sua Parafrasi. Non si dimentichi, infatti, che Giustiniano era intervenuto pesantemente sul regime dell’adozione, della quale 49 Così DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 180, per il quale sarebbero stati gli spunti classici a fornire ai compilatori delle Istituzioni l’occasione per introdurre una distinzione che ben s’inseriva nel panorama dell’adozione giustinianea.

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aveva riformato, specie con le costituzioni inserite in CI. 8.47(48).10 e 11, tanto gli effetti giuridici che il procedimento 50; e che sia le Institutiones che la Parafrasi si soffermano a lungo, nei corrispondenti titoli, a celebrare le molte novità introdotte in materia dall’imperatore 51. Se davvero dunque anche la limitazione di capacità dei castrati fosse stata una novità imputabile a Giustiniano, e per di più introdotta proprio in occasione delle Institutiones, non c’è dubbio che già i compilatori del manuale, ma – ripeto – ancor più il Parafraste (che, come ora vedremo, rielabora incisivamente lo scarno dettato del ¸htÒn) l’avrebbero di certo esplicitato. A maggior ragione poi se fosse vera l’ipotesi recentemente prospettata, secondo cui la compilazione del primo libro delle istituzioni imperiali sarebbe da attribuire proprio a Teofilo 52, che in questa eventualità sarebbe stato dunque anche l’autore materiale dell’aggiunta effettuata – per volere di Giustiniano e su suggerimento di Triboniano – rispetto al testo gaiano nel § 9 del ¸htÒn. Né credo si possa condividere quanto più di recente è stato ulteriormente osservato dal Dalla, e cioè che l’ampia disamina riservata da Teofilo al problema è già di per sé un sintomo dell’intervento giustinianeo, essendo questo l’atteggiamento tipico dell’antecessor di fronte alle innovazioni imperiali 53: una semplice lettura della Parafrasi è sufficiente a smentire, infatti, questa affermazione. Tutto ciò considerato, a me sembra che la soluzione più verosimile resti dunque quella già prospettata a suo tem50

Per queste innovazioni mi permetto di rinviare a RUSSO RUGGERI, La datio in adoptionem, II, Dalla pretesa influenza elleno-cristiana alla riforma giustinianea, Milano, 1995, 213 ss. 51 Cfr. in specie I. 1.11.2 e PT. 1.11.2. 52 Sostenuta, come si è detto, di recente, dal Falcone (su cui v. retro, 168, nt. 23). 53 Cfr. DALLA, Note minime di un lettore, cit., 150.

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po, e cioè che l’inciso castrati autem non possunt sia stato introdotto nel manuale imperiale a puro scopo di chiarificazione 54. E se si tiene conto della destinazione didattica dell’opera, risulta perfettamente comprensibile il fatto che Teofilo (o chi per lui), nel riferire la regola classica secondo cui et hi, qui generare non possunt, quales sunt spadones, adoptare possunt, già recepita peraltro nel suo tenore originario nei Digesta, abbia sentito il bisogno di esplicitare agli studenti di primo anno ancora digiuni di diritto che essa riguardava tuttavia solo i natura spadones, giacché castrati autem non possunt. Un’aggiunta, dunque, finalizzata a puri scopi didattici e meramente esplicativa di una preclusione di capacità già comunque deducibile, sia pure e contrario, dal brano gaiano, chiaramente riferito ai soli natura spadones, e peraltro comunemente affermata già dai primordi del principato (come confermano le opinioni di Cassio, Proculo, Labeone, Giavoleno e Giuliano ricordate da Ulpiano in D. 28.2.6 pr.-2); un’aggiunta che, inoltre, potrebbe forse anch’essa, chissà, essere stata ispirata (sempre ammettendo che l’autore del brano sia stato Teofilo) proprio dalla lettura, avvenuta in occasione dei lavori del Digesto, delle discussioni che in proposito si erano avute tra i giuristi classici, quali si evincono appunto, come si è appena detto, dal brano del giurista severiano. 4. Ma veniamo ora a PT. 1.11.9. Si tratta di un paragrafo assai interessante, nel quale Teofilo procede ad un’ampia e articolata rielaborazione del breve dettato del ¸htÒn, alla cui traduzione antepone una proqewr…a ed aggiunge una lunga paragraf» 55. 54

Cfr. RUSSO RUGGERI, La datio in adoptinem, I, cit., 299 ss. Sul commento teofilino v., per tutti, DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 180 ss. 55

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Il tema è innanzi tutto inquadrato come il sesto punto in comune esistente tra l’adozione e l’adrogazione. Quindi, dopo aver premesso che il termine eunuco è generale e comprende gli spadoni, i castrati e i thlibiae, ed aver definito le tre categorie di soggetti, il Parafraste accenna ad un dubbio intervenuto circa la capacità di adottare degli eunuchi (™peid» soi taàta proteqeèrhtai Óra loipÕn tÕ proke…menon. ‘Ezht»qh e„ ¥ra eÙnoàcov dÚnatai uƒoqete‹n), distinguendo dunque tra i castrati e i thlibiae, che non erano ammessi all’adozione né di un paterfamilias per imperatorem né di un sottoposto apud magistratum, e gli spadones, che potevano invece sia adottare che adrogare. Ma il Parafraste – ed è questo il punto che più interessa ai nostri fini – non si ferma a ribadire, sia pure attraverso una più ampia esposizione, la regola riportata nel ¸htÒn, ma si avventura a fornire una spiegazione della diversità di regime surriferita, la cui ratio sarebbe da ricercare – egli dice sostanzialmente – nella spes generandi, che al castrato ed al thlibia sarebbe definitivamente preclusa, a differenza dello spado, che conservava invece la speranza di guarire dalla malattia che lo affliggeva recuperando così la capacità di procreare. Ciò posto, aggiunge ancora che allo spado, tuttavia, non era concesso di compiere un’adoptio plena, giacché non avrebbe potuto in ogni caso essere stato ascendente materno o paterno dell’adottato, a meno di non ritenere che sia tale non solo colui che non era in grado di generare all’inizio, ma ne avesse comunque la speranza, ma anche chi un tempo era in grado di generare, ma da ultimo, per una malattia che gli era capitata, risultasse incapace di generare 56. 56

Per il DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 183 s., innovando rispetto al diritto classico, si sarebbe creato «un nuovo significato di spado, inteso come impotente curabile, in grado potenzialmente di avere figli, e si fa di

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Come si vede, dunque, nel procedere (dopo averlo inquadrato e tradotto) alla paragraf» del testo istituzionale, Teofilo chiarisce dunque agli studenti anche quale era il criterio discriminante che giustificava il diverso trattamento riservato ai castrati ed ai thlibiae in confronto agli spadoni, criterio individuato appunto, come si è detto, nella speranza di generare, che a questi ultimi, nonostante l’impedimento attuale, non sarebbe comunque preclusa. Un’interpretazione – questa – alla cui base c’è peraltro l’esplicita considerazione dell’impotenza come di una malattia potenzialmente curabile, che non privava dunque coloro che ne erano affetti della prospettiva di poter un giorno concepire un figlio; prospettiva che invece ovviamente non avevano coloro che, avendo subito il taglio o lo schiacciamento degli organi genitali, per natura non potevano più generare e ai quali, dunque, anche la legge lo negava. Ebbene, c’è da chiedersi a questo punto: si tratta di una personale e nuova interpretazione di Teofilo, come generalmente si crede? O Teofilo ha tratto spunto per la sua paragraf» da quanto aveva avuto modo di visionare al riguardo negli scritti della giurisprudenza classica? La risposta – io credo – ci è fornita dalle fonti e innanzi tutto dalla lettura di D. 28.2.6 pr.-2, il testo surriportato di Ulpiano su cui abbiamo già avuto modo di intrattenerci e questo dato la ragione della contrapposizione ai castrati. Ma il motivo profondo, ispiratore del diritto precedente quando questo ha ritenuto di servirsene, sta non tanto nella spes generandi che a rigore può essere negata anche ai non castrati, quanto nella caratteristica menomazione di questi ultimi, fatti per non essere uomini, marchiati dall’infamia subita, considerati una terza specie di uomini. In rapporto ad essi una discendenza è più che mai un’offesa alla natura». Questo nuovo significato del termine, peraltro, non sarebbe stato «felice», visto che di speranza di generare in riguardo agli spadoni si può parlare solo in modo astratto: e le incertezze dello stesso Teofilo sul nuovo significato assegnato al termine emergerebbero proprio dalla parte finale del brano, che sarebbe appunto l’«indice delle difficoltà connesse all’assunzione del criterio della speranza di procreare».

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che in questa sede ci interessa soprattutto per la frase iniziale con la quale il giurista severiano introduce il quaesitum, an is, qui generare facile non possit, postumum heredem facere possit. Non mi soffermo sulla genuinità della frase e, in specie, dell’avverbio facile in essa contenuto, che – in passato da alcuni messa in discussione 57 – è oggi comunemente (e a mio avviso giustamente) riaffermata 58. Ciò che mi interessa qui sottolineare è invece come Ulpiano, includendo gli spadones insieme ai vecchi tra le persone che non potevano facilmente generare 59 e, soprattutto, proprio specificando quel facile, mostri con chiarezza di considerare la patologia che affliggeva tali soggetti come un impedimento non assoluto, un impedimento da cui deriverebbe cioè una difficoltà più che una impossibilità di generare e che lascerebbe aperta di conseguenza la speranza di poter un giorno concepire dei propri figli. Che questa sia l’idea di Ulpiano si evince peraltro anche da quanto egli afferma in: D. 21.1.6.2 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.) Spadonem morbosum non esse neque vitiosum verius mihi videtur, sed sanum esse, sicuti unum testiculum habet, qui etiam generare potest.

Certo, nel passo in questione, tratto dal primo liber ad edictum aedilium curulium, Ulpiano stava chiaramente valutando la situazione dello spado nell’ottica della vendita 57 Il facile era espunto in specie dal CHIAZZESE, Confronti testuali, cit., 449 e dall’ARCHI, L’«Epitome Gai», cit., 167 nt. 21. 58 Cfr. DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 156. 59 Che la categoria delle persone qui facile generare non possunt fosse costituita dagli anziani e dagli spadoni si deduce dal successivo riferimento all’aetas e alla sterilitas (quoniam nec aetas nec sterilitas ei rei impedimento est) contenuto nel brano (v. DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 156).

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degli schiavi e della possibilità del venditore di intentare l’azione redibitoria. Ma l’affermazione per cui lo spado sarebbe da ritenere un uomo sano, non affetto da vizi né da morbi, è comunque a mio avviso assai indicativa della concezione di fondo che il giurista aveva dell’impotenza maschile, che non toglieva all’uomo comunque la sua normalità 60. D’altra parte, Ulpiano segue sul punto sostanzialmente l’insegnamento di Labeone e Cassio, seguito da Giavoleno, i quali, nell’affermare che l’anziano e lo spadone potessero postumum heredem scribere, così come uxorem ducere ed adoptare, motivavano la loro opinione con l’osservazione per cui al compimento di questi atti nec aetas nec sterilitas impedimento est: con ciò dimostrando di presupporre anch’essi che la sterilità, proprio come l’età, era uno stato patologico in un certo senso rientrante nell’ordine naturale delle cose, e dunque (almeno potenzialmente) temporaneo e relativo, che non toglieva in assoluto la speranza di procreare. Assai più esplicito in questo senso è poi: D. 28.2.9 (Paul 1 ad Sab.) Si quis postumos, quos per aetatem aut per valetudinem habere forte non potest, heredes instituit, superius testamentum rumpitur, quod natura magis in homine generandi et consuetudo spectanda est quam temporale vitium aut valetudo propter quam abducatur homo a generandi facultate.

Il caso qui discusso da Paolo è quello di un testamento in cui fossero stati istituiti eredi dei postumi che per età o per malattia non si potevano avere naturalmente come fi60

In questo stesso senso, sempre di Ulpiano, v. anche D. 21.1.38.7 e 21.1.14.3, su cui cfr., per tutti, DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 146 ss. e 149).

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gli 61. Il giurista, nell’affermare che superior testamentum rumpitur, motiva questa sua decisione osservando che nell’uomo bisogna guardare infatti più alla naturale attitudine a procreare che all’esistenza di difetti temporanei o di malattie che possono togliergli la facoltà di generare. Ebbene, cominciamo col dire che, pur senza menzionarli in modo espresso, Paolo, proprio come Labeone, Cassio e Ulpiano, nel riferirsi a coloro che forte non possono generare figli, accomuna chiaramente i natura spadones agli anziani 62. E questa vicinanza è già di per sé sintomatica. Ma, ancor più significativa è la esplicita qualificazione della patologia come valetudo e l’osservazione per cui essa, come il temporale vitium derivante dall’età, era da ritenere un’eventualità che rientrava nella normalità della natura e che non toglieva dunque a chi ne era affetto l’attitudine naturale a generare. Una qualificazione ed un’osservazione assai interessanti ai fini dell’indagine che stiamo qui conducendo, in quanto confermano che la considerazione della sterilità come di una malattia, che sta alla base dell’interpretazione teofilina, era già ampiamente presente nelle fonti classiche 63. In questo stesso senso significativo è, inoltre: D. 1.6.6 (Ulp. 9 ad Sab.) Sed mihi videtur, quod et Scaevola probat, si constet maritum aliquandiu cum uxore non concupisse infirmitate interveniente vel alia causa, vel si ea valetudine pater familias fuit, ut generare non possit, hunc, qui in domo natus est, licet vicinis scientibus, filium non esse. 61

Sul brano v., per tutti, DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 159 s. Come si desume, ancora una volta, dal riferimento all’aetas e alla valetudo. 63 Proprio la motivazione presente nel testo induce peraltro anche il DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 160 a riconoscere che la regola non poteva valere per i castrati e, dunque, che il brano in questione si riferiva ai soli natura spadones. 62

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Il brano, relativo in specie al problema del disconoscimento di paternità, interessa in questa sede per il riferimento, tra le altre cause che legittimavano l’impugnativa, all’impotenza dell’uomo, espressamente qualificata, ancora una volta, come una valetudo a causa della quale il pater familias generare non potest 64. Di valetudo si parla anche in: D. 24.1.61 (Gai 11 ad ed. prov.) vel senectutem aut valetudinem aut militiam satis commode retineri matrimonium non possit 65:

Anche nel succitato luogo gaiano, riguardante lo scioglimento del matrimonio per cause non imputabili ai coniugi, è infatti assai probabile che, come giustamente ha suggerito il Dalla, la voce valetudo indicasse specificamente l’incapacità sessuale dell’uomo derivante da stati patologici 66, incapacità che, come quella causata dalla vecchiaia, consentiva appunto di sciogliere bona gratia il matrimonio. 64 Quanto alla differenza tra l’infirmitas e la valetudo richiamate da Ulpiano (che si rifà espressamente a Scevola), credo anch’io che, con la prima, il giurista intendesse alludere a qualunque stato morboso che impediva il rapporto con la moglie, con la seconda alle patologie riguardanti in specie la sfera sessuale (così DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 154 s.). Non condivido invece l’affermazione per cui con il termine valetudo si sarebbe qui indicato «un vero e proprio stato di incapacità permanente» (DALLA, op. loc. cit., 154), giacché si tratta di una conclusione che il tenore del testo non mi sembra francamente possa giustificare. 65 Il brano va letto, nel Digesto, in collegamento con un precedente passo di Ermogeniano (D. 24.1.60.1 Divortii causa donationes inter virum et uxores concessae sunt: saepe enim evenit, uti propter sacerdotium vel etiam sterilitatem,) e con un successivo responso, sempre di Ermogeniano (D. 24.1.62 et ideo bona gratia matrimonium dissolvitur). Su queste testimonianze, v, in specie, DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 251 ss. 66 Così DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 253.

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Non necessariamente diversa a mio avviso è poi, sul punto, l’opinione di Modestino, laddove sottolinea che il corporale vitium da cui era affetto lo spado non gli impediva adrogando suum heredem sibi adscirere. Vero è infatti che lo stesso giurista, accedendo alla tesi dei veteres iurisperiti 67, precisa, nel nono libro differentiarum, che il vitium è un perpetuum corporis impedimentum, a differenza del morbum che avrebbe carattere temporaneo 68. Tuttavia non si dimentichi che la distinzione tra morbum e vitium era stata, come è noto, assai discussa e controversa tra i giuristi 69 e che, per di più, essa aveva ormai assunto, all’epoca del Nostro, un valore più filologico che pratico 70: a parte il fatto che essa era per lo più finalizzata all’editto edilizio ed alle problematiche legate alla possibilità da parte del venditore di intentare l’azione redibitoria per i vizi occulti della merce acquistata. Considerato il diverso contesto in cui il termine vitium è invece adoperato in D. 1.7.40.2, io credo si possa sostenere che esso non fosse stato qui usato nello specifico significato attribuitogli dall’autore a proposito dei vizi della compravendita, ma più in generale per alludere al difetto, all’imperfezione corporale di cui era affetto lo spado: a meno di non ipotizzare, come prospetta il Dalla – ma non credo sia, in effetti, francamente pensabile! – che col termine spado Modestino intendesse alludere solo al castratus, 67 Quale risulta da Gell. Notes Atticae, IV. 2.1-10 e 13-14, su cui v., per tutti, DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 138 ss. 68 Cfr. D. 50.16.101.2 (Mod. 9 diff.) Verum est morbum esse temporalem corporis inbecillitatem, vitium vero perpetuum corporis impedimentum (su cui v. DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 142). 69 Cfr., ad esempio, quanto afferma Ulpiano in D. 21.1.1.7 (1 ad ed. aed. cur.). 70 Così già ARANGIO-RUIZ, La compravendita in diritto romano, Napoli, 1956, 363; ma in tal senso v. anche DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 142.

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la cui menomazione determinava appunto un perpetuum corporis impedimentum 71. D’altra parte, il fatto stesso che Modestino sottolinei che il vizio corporale dello spado ei impedimento non erat fa pensare che non doveva trattarsi di un impedimentum perpetuum ed assoluto. E se si considera, per finire, la provenienza anche di questo brano dai libri differentiarum, mi sembra assai plausibile l’ipotesi a suo tempo prospettata dal Chiazzese 72 secondo cui la differenza qui sottintesa (o forse, chissà, espressamente trattata ma poi omessa dai compilatori in sede di inserimento del brano nel titolo VII del I libro del Digesto) fosse proprio quella tra gli spadones, ai quali il vizio corporale non era appunto d’impedimento all’adrogazione, ed i castrati, ai quali invece la menomazione avrebbe ostato. Venendo, per finire, all’Epitome Gai, l’epitomatore aggiunge alle affermazioni contenute in Gai 1.103 una chiusa in cui, come ha giustamente sottolineato il Dalla, tradisce chiaramente tanto le ragioni dei dubbi avanzati che quelle delle scelte effettuate in proposito 73. Infatti, dopo aver sostanzialmente riportato l’insegnamento gaiano per cui spadones autem, qui generare non possunt, adoptare possunt 74, conclude osservando come essi, sebbene non possano generare figli, possano tuttavia avere come figli coloro che hanno adottato (et licet filios generare non possint, quos adoptaverint, filios habere possint). Una precisazione – quest’ultima – 71

Cfr. DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 175. V. CHIAZZESE, Confronti testuali, cit., 452; ma, contra, v. già ARCHI, L’«Epitome Gai», cit., 164 nt. 18 e DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 175. 73 Cfr. DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 178. 74 Anche se, come ha in proposito rilevato il DALLA, L’incapacità sessuale, cit., 177, rispetto a Gaio appare modificata la prospettiva: mentre Gaio in 1.103 si riferiva, infatti, genericamente a coloro qui generare non possunt, tra i quali richiamava a titolo esemplificativo gli spadones, l’epitomatore prende in considerazione direttamente gli spadoni, qui generare non possunt. 72

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assai significativa, soprattutto se letta in relazione a quanto si premette in 1. 5 pr., e cioè che adoptio similitudo naturae est, ut filium quis habere possit, quem non generavit, in quanto conferma indirettamente l’idea (in modo particolarmente esplicito, come si è visto, espressa da Paolo, ma implicitamente sottintesa anche dagli altri giuristi qui richiamati) per cui lo stato patologico che affliggeva questi soggetti e che impediva loro di procreare figli faceva parte, tutto sommato, della normalità della natura, della quale l’adoptio era appunto una similitudo 75. Un’idea – questa dell’impotenza intesa come valetudo che non toglie l’attitudine naturale alla procreazione – che costituisce a mio avviso, come si è visto, il comune denominatore di tutte le opinioni espresse in riguardo agli spadones dai giuristi classici, sia di quelle riguardanti in specie la loro capacità sul piano delle relazioni personali (matrimonio, divorzio, adozione, disconoscimento di paternità, testamento e possibile istituzione di un postumo), che di quelle relative ad altre problematiche. Tutto ciò considerato, riprendiamo adesso le fila del nostro discorso e torniamo alla domanda da cui abbiamo preso le mosse: nell’affermare, in sede di paragraf», che l’impotenza che affligge gli spadones è una patologia (p©qov) che non toglie la speranza di generare e nell’individuare appunto nella spes generandi il criterio che giustificherebbe il diverso regime giuridico previsto, quanto all’adozione, tra gli spadones ed i castrati, Teofilo ha avanzato una nuova e personale interpretazione o ha tratto spunto da quanto aveva avuto modo di leggere in materia sui testi dei giuristi classici? Ebbene, io credo che la risposta che ci proviene dalla considerazione dei responsa giurisprudenziali fin qui visionati non lasci spazio a dubbi di sorta: Teofilo ha sicura75 Ma in tal senso è sintomatico anche l’accostamento che si ha in Tit. Ulp. 8.6 tra lo spado e il caelibis.

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mente attinto proprio dalle fonti classiche quanto meno il presupposto della sua teoria, l’idea cioè per cui la sterilità è uno stato patologico (valetudo) che non incide comunque sulla naturale attitudine a procreare dell’uomo. Non a caso, d’altronde, i giuristi – come si è visto – avvicinavano di norma l’incapacità di generare dello spado a quella causata dall’aetas, entrambe da considerare appunto eventi rientranti nella normalità della natura, che più che una impossibilità determinavano una difficoltà a concepire e, dunque, non toglievano in assoluto la speranza di procreare. Una concezione – questa – che Ulpiano, anzi, esplicita in modo particolarmente chiaro nel momento in cui, come si è visto, riferendosi agli spadoni e agli anziani, li apostrofa appunto come coloro, qui facile generare non possunt. Che Teofilo abbia ricavato proprio da questi motivi classici l’idea poi sviluppata in PT. 1.11. 9 è, dunque, a mio avviso, una congettura assai probabile. D’altra parte, un chiaro indizio del fatto che, dietro la paragraf» teofilina, ci sia la lettura del materiale giurisprudenziale dell’età imperiale verosimilmente visionato proprio in occasione della compilazione dei Digesta, è dato dal quel riferimento ai dubbi che si sarebbero avuti in ordine alla capacità di adottare degli eÙnoàcov (‘Ezht»qh e„ ¥ra eÙnoàcov dÚnatai uƒoqete‹n) contenuto nel testo, dubbi ai quali non si fa alcun cenno né nel ¸htÕn né in Gai 1. 103, e che dunque il Parafraste non può che aver appreso aliunde. E considerato che egli era appena uscito da quell’esperienza unica costituita dalla partecipazione ai lavori di spoglio e di selezione del materiale classico da inserire nei Digesta, l’ipotesi che abbia avuto notizia del quaesitum attraverso la lettura diretta dei responsa prudentium, e che proprio dalla considerazione delle opinioni avanzate al riguardo dai giuristi abbia tratto lo spunto per il suo commento al ¸htÕn, rimane, io credo, in definitiva, la più plausibile.

INDICE DELLE FONTI

AUGUSTINUS De civitate Dei 2. 16

137 nt. 46

CICERO Topica 8. 36

7. 6. 1 70

CODEX IUSTINIANUS Constitutio Haec quae necessario 1 81 nt. 1 98 nt 43 122 nt. 17 166 nt. 21 Constitutio Summa 2

1.17. 1 5. 62. 1 6. 4. 4 6. 23. 31 6. 58. 15 7. 5. 1

81 nt. 1 98 nt 43 122 nt. 17 166 nt. 21

Constitutio Cordi 2 122 nt. 17 166 nt. 21

7. 24. 1 7. 37. 3 8. 47(48) 10 8. 47 (48) 11 11. 44. 1

166 nt. 21 179 nt. 48 6 100 nt. 49 100 nt. 49 39 nt. 96 128 nt. 27 39 nt. 46 128 nt. 27 49 nt. 105 100 nt. 51 181 181 128 nt. 25

CODEX THEODOSIANUS 9. 40. 11 128 nt. 25 14. 9. 3 pr. 102 nt. 53 15. 12. 1 128 nt. 25 15. 12. 2 128 nt. 25

DIGESTA IUSTINIANI Constitutio Deo Auctore 2 4 nt. 12 12 8 nt. 23

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Constitutio Omnem 1 91; 120 nt. 13 122 ntt. 16 e 18 2 11 nt. 29 25 nt. 57 122 nt. 17 7 22 nt. 53 9 122 nt. 17; 166 nt. 21 Constitutio Tanta 9 15 ntt. 35 e 36 81 nt. 1 98 ntt. 43 e 44 122 nt. 17 11 11 nt. 29 12 nt. 32 25 nt. 58 122 nt. 17 12 4 nt. 11 17 66 nt. 137 74 nt.160 20a 21 nt. 51 21 8 nt. 23 9 nt. 24 21 nt. 52 23 106 nt. 64 Constitutio Dedoken 9 122 nt. 17 11 11 nt. 29 122 nt. 17 12 12 nt. 31 21 8 nt. 23; 9 nt. 24 11 nt. 29 122 nt. 17 1. 1. 1

69 nt. 149

1. 1. 4 1. 1. 6. 1 1. 2 1. 2. 1 1. 2. 2 1. 2. 2. 12 1. 2. 2. 22 1. 2. 2. 23 1. 2. 2. 24

1. 5. 2 1. 5. 4 pr. 1. 5. 21 1. 6. 6 1. 7 1. 7. 2. 1 1. 7. 40. 2 17. 2 21. 1. 1. 7 21. 1. 6. 2 21. 1. 14. 3 21. 1. 38. 7 23. 3. 39. 1 24. 1. 60.1 24. 1. 61 24. 1. 62 26. 3. 1. 1 27. 1. 1. 1 27. 1. 15 pr. 27. 1. 32 27. 10. 17 28. 2. 6 pr.-2

127 e nt. 24 36 nt. 91 135 138 nt. 48 136 nt. 43 36 nt. 91 135 e nt. 40 137 135 e nt. 40 137 62 nt. 127 134 nt. 38 137 e nt. 45 141 17 nt. 43 56 nt. 116 48 nt. 105 187 178; 190 171 e nt. 25 171; 189 99 nt. 48 189 nt. 69 185 186 nt. 60 186 nt. 60 179 nt. 48 188 nt. 65 188 188 nt. 65 52 nt. 110 5 nt. 14 179 nt. 48 52 nt. 110 64 nt. 134 139 nt. 52 176; 179 nt. 48; 182 184

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Indice delle fonti

28. 2. 9 29. 7. 6. 1 33. 7. 8 34. 3. 31 40. 1. 25 40. 2. 25 40. 4. 57 40. 9. 29 49. 15. 3 49. 15. 4 49. 15. 5 50. 7. 18 50. 16 50. 16. 101. 2 50. 16. 128

186 147 e nt. 63 169 nt. 24 111 nt. 75 64 nt. 134 139 nt. 52 64 nt. 134 139 nt. 52 64 nt. 134 139 nt. 52 64 nt. 134 139 nt. 52 73 nt. 158 73 nt. 158 73 nt. 158 73 nt. 158 172 189 nt. 68 172 nt. 27 176

DIONYSIUS HALICARNASSEUS Antiquitates romanae 10. 51. 5

1. 14 1. 17 1. 17-20 1. 103

2. 70a 2. 246 2. 248 ss. 2. 285 3. 90 4. 17b 4. 71 4. 72

36 nt. 91 127 17 nt. 45 37; 128 38 nt. 95 60 45 e nt. 100 133 e nt. 31 39 nt. 97 128 171 190 e nt. 74 192 141 nt. 57 152 nt. 78 152 nt. 78 141 e nt. 56 151 nt. 76 60 60 60 60

(AULUS) GELLIUS Noctes Atticae 134 nt. 34 191 172; 190

FRAGMENTA DOSITHIANA 5

1. 1 1. 11 1. 13-15

137 nt. 46

EPITOME GAI 1. 1. 2 1. 5 pr. 1. 5. 3

GAIUS Institutiones

134 nt. 34

4. 2. 1-10 4. 2. 13-14 7. 12. 1-4

189 nt. 67 189 nt. 67 67 nt. 144

INSTITUTIONES IUSTINIANI Constitutio Imperatoriam Proem. 2 48; 27

196

3

5

6 7 9 1. 1. 2 1. 2. 3 1. 2. 3-12 1. 2. 12 1. 3. 1 1. 4 pr. 1. 4. 1 1. 5 1. 5 pr. 1. 5. 1 1. 5. 3

1. 6. 7

Studi su Teofilo

100 nt. 51 12 nt. 30 14nt. 34 16 ntt. 39 e 40 28 nt. 63; 33 e nt. 84 122 nt. 17 11 nt. 29 19 nt. 48 27 65 e nt. 136 120 nt. 14 24 nt. 56; 25 nt. 59 98 nt. 43 19 nt. 48 95 nt. 35 36 36 16 nt. 41 56 nt. 115 56 96 nt. 39 48 nt. 103 53 nt. 112 141 58; 127 45 nt. 99 133 nt. 30 13 nt. 32 17 nt. 45 37; 38 e nt. 94 39 e nt. 96 40 ss.; 61 96 nt. 37; 128 nt. 27 30 nt. 65

1. 8. 1 1. 10. 5 1. 11. 1 1. 11. 2 1. 11. 3 1. 11. 7 1. 11. 9 1. 12 pr. 1. 12. 4 1. 12. 5 1. 12. 8 1. 13. 3 1. 13. 5 1. 14. 1 1. 14. 5 1. 26. 2 2. 1. 11 2. 5. 6 2. 9. 1 2. 9. 6 2. 10 pr. 2. 10. 1 2. 10. 5 2. 10. 14 2. 13. 7 2. 14 pr. 2. 20. 2 2. 20. 3 2. 20. 25 2. 22 pr. 2. 23. 1

96 nt. 39 96 nt. 37 96 nt. 38 96 nt. 37 181 nt. 51 96 nt. 38 96 nt. 38 171; 181; 182; 192 96 nt. 40 96 nt. 39 50 e nt. 106; 69 96 nt. 40 52 e nt. 109 51; 52 53 nt. 112 96 nt. 39 96 ntt. 36 e 39 96 nt. 40 96 ntt. 36 e 40 96 nt. 37 96 nt. 40 149 nt. 70 66 nt. 140 68 32 nt. 81 96 nt. 37 96 nt. 39 148 e nt. 68: 149 96 nt. 40 96 nt. 37 96 nt. 37 95 nt. 35 96 nt. 37 96 nt. 37 34 96 nt. 37

Indice delle fonti

141; 142; 150; 151 152 nt. 77 153 154 nt. 84 155 2. 23. 12 13 nt. 32 2. 25 pr. 96 nt. 37 141; 142;146 150 e nt. 72 151; 153; 155 2. 25. 1 150 2. 25. 3 147 e nt. 64; 148 3. 2 pr.-4 96 nt. 37 3. 2. 1 96 nt. 40 3. 6. 11 96 ntt. 36 e 40 3. 7. pr.-2 96 nt. 37 3. 7. 3 6 e nt. 17 3. 8. 2 96 nt. 39 3. 9 pr. 96 nt. 40 3. 11. 3 96 nt. 39 3. 11. 5 96 nt. 39 3. 11. 6 96 nt. 39 3. 12. 1 49 nt. 105 3. 14 pr. 60 3. 15. 1 96 nt. 37 3. 19. 3 96 nt. 40 3. 21 pr. 96 nt. 37 111 nt. 74 3. 24. 1 96 nt. 40 3. 27. 6 96 nt. 40 4. 1 pr. 96 nt. 40 4. 2 pr. 96 nt. 39 4. 4. 7 96 nt. 37 4. 6. 15 60 4. 6. 19 96 nt. 40 4. 6. 23 96 nt. 40 4. 6. 33e 96 nt. 40

4. 6. 34 4. 6. 39 4. 7 pr. 4. 7. 2 4. 7. 3 4. 8. 5 4. 8. 7 4. 10 pr. 4. 10. 2 4. 11 pr.-1 4. 15. 6 4. 15. 8 4. 17. 4 4. 18

197 96 nt. 40 96 nt. 40 96 nt. 40 60 60 96 nt. 40 96 ntt. 37 e 39 96 nt. 37 96 nt. 40 96 nt. 37 96 nt. 40 96 nt. 37 96 nt. 40 96 nt. 37

LIBANIUS Argumenta orationum Demosthenicarum Epistulae 951

3 nt. 7

Orationes 2. 43. 44

3 nt. 7

LYDUS De magistratibus populi romani 1. 26 1. 34

1.48

63 nt. 129 135 nt. 39 63 nt. 129 135 nt. 39 137 136 nt. 41

198

Studi su Teofilo

Epistulae 45

LIVIUS Ab urbe condita Praef. 1 2. 5. 10 3. 31. 8

138 nt. 48 62 e nt. 126; 134 e nt. 37 137 e nt. 46

1 7. 1 12. 1 18. 1 22. 8 66. 1. 2 78

100 nt. 50 7 100 nt. 50 100 nt. 50 100 nt. 50 7 48 100 nt. 50

OROSIUS Historiae adversum paganos 2. 13. 1-2

SCHOLIA AD BASILICA Ed. Scheltema – HolwerdaVan der Wal 2 ad 28. 1. 8

NOVELLAE IUSTINIANI

137 nt. 46

419. 8-9

3 nt. 7

PROCOPIUS

Anectota 20. 17

3 nt. 5

PROCOPIUS GAZAEI Epistulae et Declamationes

104 nt. 61

SCRIPTORES HISTORIAE AUGUSTAE

Alex Sev. 23.7

174 nt. 33

THEOPHILUS ANTECESSOR Paraphrasis Institutionum Constitutio Imperatoriam 2 100 nt. 51 3 34 1. 2

PRISCIANUS De metris fabularum Terentii

3 nt. 6

1. 2. 1 1. 2. 3 1. 2. 3-12 1. 2. 5 1. 2. 12 1. 3. 1 1. 4 1. 4 pr. 1. 4. 1

28 106 nt. 65 106 nt. 66 36 36 37 nt. 92 16 e nt. 43 56 57 nt. 119 100 nt. 50 56 e nt. 113 46 s. 163 nt. 18

Indice delle fonti

1. 5 1. 5 pr. 1. 5. 1-3 1. 5. 3

1. 5. 4 1. 6. 7 1. 10 1. 10. 12 1. 11 1. 11. 2 1. 11. 9 1. 12. 5 1. 12. 6 1. 13. 5 1. 14. 1 1. 15 1. 16. 1 2. 1 pr. 2. 1. 11 2. 2 2. 2. 3 2. 3. 1 2. 6 pr. 2. 9. 1 2. 10 2. 10 pr. 2. 10. 1 2. 16. 14 2. 18. 3 2. 18. 6 2. 19. 6

49 100 nt. 50 58 nt. 120 127 e nt. 23 128 nt. 26 17 nt. 45 18 nt. 46 28; 40 ss.; 60; 61; 64 127; 129 ss. 138 139; 141 30 nt. 65 28 100 nt. 50 170 181 nt. 51 170; 192 17 nt. 45 49; 69 28 51 53 28 100 nt. 50 106 nt. 66 106 nt. 66 112 111 nt. 73 110 e nt. 72 30 nt. 66 30 nt. 66 100 nt. 49 66 e nt. 141 67; 68 31; 32 100 nt. 51 30 nt. 68 100 nt. 50 30 ntt. 67 e 69

2. 20. 17 2. 20. 34 2. 20. 36 2. 22 2. 23 2. 23. 1 2. 23. 7 2. 25 2. 25 pr. 2. 25. 1 2. 25. 3 3. 1. 15 3. 1. 16 3. 2. 4 3. 2. 7 3. 3. 4 3. 3. 5 3. 6. 10 3. 11. 7 3. 12. 1 3. 14 pr. 3. 19. 14 3. 20. 34 3. 21 3. 29. 3 4. 1. 7 4. 1. 8 4. 4. 8 4. 6. 15 4. 7. 2 4. 7. 3 4. 13. 10

199 169 nt. 24 30 nt. 72 31 nt. 78 100 nt. 50 28 34; 68; 141; 143 s. 150; 155 30 nt. 70 28; 149 32; 141; 145 s.; 150 151; 155 150 147 e nt. 65; 149 nt. 69 160 nt. 10 31 nt. 75 100 nt. 49 30 nt. 66 30 nt. 74 160 nt. 10 30 nt. 66 31 nt. 75 31 nt. 79 30 nt. 71 60 100 nt. 51 30 nt. 71 109 111 nt. 75 31 nt. 76 31 nt. 76 30 nt. 73 85 60 60 60 31 nt. 77

200

Studi su Teofilo

SCHOLIA AD THEOPHILUM

8. 6

ad. 2. 1. 8 ad. 2. 18. 1 ad. 2. 28. 1

20. 1

84 nt. 10 84 nt. 10 83 nt. 6

171 191 nt. 75 67 nt. 142

TITULI EX CORPORE ULPIANI

ZONARAS Epitome Historiarum

1. 6. 10

7. 18

134 nt. 33

137 nt. 46

Indice delle fonti

201

202

Studi su Teofilo

Finito di stampare nel mese di febbraio 2016 nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220