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Italian Pages 276 Year 1990
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Samonà, Carmelo Ippogrifo violento. Studi su Calderon, Lope e Tirso. (Strumenti di studio). ISBN 88-11-47271-7 1. Letteratura drammatica spagnola —: Studi Sat. 852
Carmelo Samonà
_Ippogrifo violento Studi su Calder6n, Lope e Tirso
Garzanti
Prima edizione: ottobre 1990
© Garzanti Editore s.p.a., 1990 Printed in Italy
Indice
Prefazione di Mario Socrate
SAGGIO DI UN COMMENTO A «LA VIDA ES SUENO» La prima scena, archetipo del dramma L'inizio de «La vida es sueno» I tempi della corsa e della caduta (vv. 1-8) Un monte che si leva fino al sole (vv. 9-16) Linee conclusive POESIA, TEATRO: UN INCONTRO DI FORME. L’ESPERIENZA
CULTISTA
NELL’ETÀ
DI LOPE
Il modello culterano Modi di assimilazione del culteranesimo nella comedia
L’imitazione gongorina Linee conclusive «LA PRUDENCIA EN LA MUJER» DI TIRSO DE MOLINA E I PROBLEMI DEL DRAMMA
CALDERÒN
STORICO
E IL CALDERONISMO
DELL’ISPANISTICA ITALIANA
Bibliografia essenziale
AGLI ALBORI
Prefazione
Nei pressi del suo congedo dall’attività accademica, dalla ricerca e dall’insegnamento universitari, Carmelo Samonà veniva progettando, quasi a compimento di così intenso esercizio, di raccogliere e riordinare i suoi saggi scritti nel tempo, i lavori sparsi, magari da rieditare e riconnotare in altra sede, disponendoli non solo lungo assi tematici o affinità d’insiemi, ma anche secondo un rilevabile percorso di studioso e di critico verso un proprio ideale allo stesso tempo di attenta riflessione teorico-metodologica e di scrittura, di stile colto.
Tanto più che con quel commiato intendeva soprattutto spostare al centro della propria attività quella scrittura creativa, quell’impulso pudico ma irriducibile che, disatteso e rinviato per decenni, aveva potuto infine trovare comunque più d’un varco luminoso. Reputati in sé conchiusi, a sé stanti, e affidati all’attenzione e agli interessi degli studiosi per ristampe accurate i primi suoi due volumi dedicati al Quattrocento iberico — un secolo particolarmente impervio in quella letteratura — con due titoli ancora imprescindibili nella bibliografia sull’argomento (Aspetti del retoricismo nella «Celestina», 1953; Studi sul romanzo sentimentale e cortese, 1960), Samonà ridisegnava i nuovi volumi sulle pagine rivolte agli altri suoi specifici campi di studio e di indagine: il Siglo de Oro e la letteratura del Novecento spagnolo e ispanoamericano. AI primo di questi volumi sul teatro secentesco iberico — che è il presente — seguiva, nel progetto, L’ed di Carlo 7
V, dai relativi capitoli della Storia della letteratura spagnola
(Sansoni/Accademia, 1973), e quindi una congrua cernita degli articoli di puntuale segnalazione letteraria e culturale che da qualche anno andava svolgendo per «la Repubblica» su testi di Spagna e d’America; non senza vagheggiare anche — sconfinando dalla propria disciplina, ma
non dalle sue dirette o indirette competenze — un altro, e non ultimo volume, con scritti di varia cultura, fra i quali si ritagliano nella memoria i tre interventi su Mozart, il ritratto di Buster Keaton e il saggio metodologico Sui rapporti fra storia e testo, pubblicato nel 1975 in «Belfagor». Il volume sul teatro del Siglo de Oro l’aveva consegnato per le stampe poco prima della morte e al suo assetto definitivo aveva stornato lembi del suo tempo, esile e indifeso,
per ultimi emendamenti e tagli e messe a punto, in attesa, a
prime bozze, d’una nota esplicativa. L’incipit calderoniano, Ippogrifo violento, araldicamente accampato a titolo sul frontespizio, pronuncia in metonimia non solo la materia, l’oggetto del libro ma insieme, in particolare nei primi tre studi, la preminenza del testo, più che in estensione, nelle pieghe riposte, nei raccordi, nei livelli, nei processi dinamici. Dei quattro saggi qui raccolti — scritti e pensati per occasioni diverse — quelli dedicati a testi teatrali di Calderon, di Lope e Tirso conservano sostanzialmente l’impianto e la stesura originaria. Ma tagli e aggiustamenti correttivi presenta l’ultimo saggio — il primo in ordine cronologico — Calderon e il calderonismo agli albori dell’ispanistica italiana, già soggetto a ripensamenti e revisioni sin dalla seconda stesura del 1959 e qui riaccolto, e quindi riallineato, anche a configurare senza pregiudiziali la zona di partenza o, meglio, le proprie premesse di ambito crociano in un itinerario critico, quello dell’ispanistica italiana con tutte le sue suggestioni ideologiche, e su cui più s'era incisivamente attardata nei primi lustri del dopoguerra l'influenza delucidativa del filosofo, anche in virtù del suo
impegno frontale nel campo specifico.
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D'altra parte per un testo di pensamento così forte come La vida es sueno, e di interpretazioni così fortemente ideologizzanti, la letterarietà e lo storicismo crociano in particolare si costituivano a punto di saldo appoggio per una lettura critica che — senza scartare gli apprezzabili apporti del passato — ricercasse allora, oltre i rinvenimenti dell’erudizione e della critica «storica», un più sgombro sentiero tra la vegetazione lussureggiante dello spirituali smo romantico di Farinelli, del suo universalismo allegorico, della sua tensione metacritica, nonché della scrittura
partecipativamente affettiva di critico-artista. Ma già quel saggio con tutte le sue ascendenze estetiche, colloca il giovane Samonà in un crocianesimo critico — se non ancora in un postcerocianesimo — pronto ad accogliere non solo i contributi diretti dell’insigne studioso, ma a sottolineare dialetticamente in positivo certe incongruenze e i limiti stessi di quel metodo e di quella scuola. E questo, per esempio, quando si sofferma ad apprezzare — nel caso appunto di Calderon — l’allentamento dei rigidi
criteri di demarcazione fra poesia e non poesia, sì da lasciar percepire un’inquietudine morale profonda; o ancora, quando non si arresta a rilevare l’interferenza etico-politica, d’eredità desanctisiana, che insieme al pregiudizio antibarocco si frappone fra il filosofo e la lettura disinteressata, «olimpica», della pagina di poesia, fino a compromettere l’intendimento del linguaggio del dramma calderoniano. E non s’arresta, per prendere quel distacco che gli consente di vedere in questo, ciò malgrado, un merito crociano: l’aver messo in luce, per rigore di metodo e coerenza logica, l’usura della cultura classicista e d’un vecchio laicismo ancora positivista, così da tracciare, oggettivamente, con più nitidezza il confine con gli studi calderoniani d’indirizzo cattolico. Il primo, in ordine di tempo, dei tre studi sul teatro, L’esperienza cultista nell’età di Lope (1964), segna l’ormai avvenuta indipendenza dall’insegnamento crociano, fin dal taglio del saggio, ben lontano dall’impianto monografico
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coi suoi giudizi di valore e le sue «designazioni» compendiative, e per giunta tutto volto a una tematica — l’analisi dei linguaggi, l’incontro di forme e di stili — bandita da quella didattica. Se queste pagine non sono ancora raggiunte dall’annuncio jakobsoniano sulla natura metalinguistica del linguaggio — da prenderne a suo tempo atto per il debito conto —, il metodo che le orienta è di scuola spitzeriana, ma non senza attenti ascolti della versione di Auerbach, delle sue
inflessioni storiche impresse alla critica stilistica. Non per nulla il periodo considerato è un momento di transizione del teatro iberico, 1610-1630, di cui si saggia tutta una campionatura, non antologica, d’incontri dello stile lirico gongorino, culterano, col dialogato //ano, semplice della comedia, col suo tessuto connettivo di fondo,
osservati nei loro modi laboriosi di assimilazione e adeguamento alla strutturazione drammatica, fino appunto a disporsi nel saggio in una esemplificazione sistematica. E qui sarà opportuno segnalare come il saggio non possa che divergere dai principi della letterarietà per seguire queste operazioni, fra innesti lirici e diegesi drammatica, nei precipui modi cui s’informano lungo le varie fasi evolutive della comedia testo e insieme spettacolo, ove il procedimento si può compiere solo con la coinvolta adesione del pubblico. Può così risultare per altre vie — qui sagacemente dimostrative — l’infondatezza dell’attributo di «popolarismo» per il teatro lopiano e dei suoi seguaci, secondo la formula convenzionale della critica idealistica. Il Saggio di un commento a «La vida es suefio» (1967) che, in apertura del presente volume, s’inoltra in un campo, come si è detto, così crucialmente frequentato e perlustrato nel tempo da vari e opposti versanti, si attesta operativamente sulla battuta iniziale del dramma, sedici versi,
ivi delimitandosi nell’indagine e allo stesso tempo, da quella soglia, tenendo lo sguardo su tutti i tre atti.
In una tale lettura l’invettiva di Rosaura («Hipégrifo 10
violento»), come il microtesto di una costellazione di simboli che si disegna per emblemi in questa prima enunciazione, poi, per via di nessi e corrispondenze, in presentia di riferimenti e non, paradigmaticamente, si espande e si dirama nel macrotesto del dramma in una costellazione dinamica, variata e riatteggiata, intensificando di senso i va-
lori dei simboli raccolti lungo tradizioni diverse, la classica, la giudaico-cristiana, la medievale.
Angolata in questo modo la simbologia calderoniana schiva — nonostante il suo inventariato patrimonio di fonti, ascendenze e riscontri — le più imperanti e esclusive propedeutiche a letture ideologizzate, a interpretazioni teologico-religiose, definitorie quanto precostituite. Samonà, appunto, per uscire da questi percorsi obbliganti e dedalei, si esime da un'impostazione del problema tutta all’interno dell’ispanistica e della sua storia culturale, quella che ha eletto questo dramma a suo luogo deputato, per portarsi a «prima» delle definizioni, delle «designazioni», partendo dal testo stesso, cioè, da dentro questa «struttura in progressione» e nell’atto del suo incesso, per muovere tra la selva dei simboli verso il cuore del testo. Lo studioso, diversamente dalla cultura laicista precedente, non scarta o censura il teologismo e la tematica
ideologica su cui si fissa di norma il catalogo dei simboli e dei tropi secondo i solerti approcci di scuola cattolica: li accoglie, anzi, come presupposti, per osservarli alla luce istantanea della prima scena, e poi nelle successive trame e relazioni, nel loro spostarsi e alterarsi di segno, fino agli sconfinamenti di campo. E ancora, in questa lettura del simbolo si possono già scorgere i modi mediati e personali in cui la poetica jakobsoniana della natura metalinguistica del messaggio s’insinua proficuamente nella riflessione critica di Samonà. Giacché l’intransitività del simbolo, come del discorso poetico nel suo insieme, la sua autonomia, viene qui vista
— ad arricchirsi di senso e di nessi — nella sua rappresentatività, nella determinazione della sede in cui si svolge, in def
quell’«arte visiva» che è il teatro, dove la parola è anche gesto e azione, parola illocutiva, esecutrice, cioè, della sua enunciazione. Da qui, attraverso la varietà storico-culturale dei materiali compositivi di tali simboli, la loro assunzione tematica, la loro ubicazione e le rispondenze nel processo operativo del dramma, il saggio può proporre indicativamente questo brano iniziale come chiave di lettura in un’ambiguità di senso, in una pluralità d’interpretazione complessiva, dove nell’esaltazione controriformista dell’ordine è
dato scorgere il palesarsi del dubbio, del turbamento, d’una crisi intima e storica incombente che trova il proprio sigillo nell’incalzante simbolo-metafora del «confuso labirinto». «La prudencia en la mujer» di Tirso de Molina (1967) costituisce un momento di passaggio, ma allo stesso tempo di esperimento diretto, nell’impegno, sempre aperto in Samonà, a recuperare ancora più a fondo e non tautologicamente il momento della storicità del linguaggio artistico, e di quello drammatico in particolare nella sua specifica semiosi. I primi stimolanti incontri col formalismo russo appaiono qui subito avvertiti e messi in opera anche se attraverso cauti filtri. Ciò che si pone al centro di queste riflessioni sul problema del dramma storico è la sua peculiare fattura, la natura dei materiali e la loro disposizione, osservati in una fase del genere, della comedia, o meglio nella fase critica d’un suo sottogenere, la comedia storica, di stampo lopiano. Sul suo deteriorarsi, sul suo ripetitivo consumo, Samonà sottolinea l’insorgere di altri assetti compositivi in cui la comedia storica si contamina tra comedia de aldea e comedia de enredo, di «cappa e spada». Così che se La prudencia en la mujer sembra perdere la sua canonica unità accentrata per smembrarsi in intrighi secondari, questi appariranno nella visuale samoniana in una nuova ricomposta organicità, come variazioni, atto
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per atto, dell’azione principale. È lungo una tale linea allora che, nel saggio su Tirso, acquista presenza e senso l’esemplarità di personaggi a dare struttura al dramma. Nel prosieguo dell’ideologia propria della comedia lopiana — l'esaltazione della monarchia contro il particolarismo del potere feudale —, nel prospettivismo della visione storica secondo il suo provvidenzialismo ex eventu, si colloca — nella lettura di Samonà — la figura centrale, la regina, la cui mansione d’incontro fra potere monarchico e popolo assolve nella struttura del dramma una funzione di unità nell'azione. Nel rapporto, appunto, fra storia principale e intrighi collaterali, ripartiti atto per atto, la caratterizzazione della regina, la sua virtù è, all’analisi dello studioso, «virtù sceni-
ca e spettacolare» in cui si esplicita l'animo del personaggio. In quest'opera di Tirso, come in altre comedias storiche ricordate in proposito, Samonà può a questo modo avvertire delle plurime direzioni di senso cui danno luogo
gli sviluppi di quel sottogenere teatrale, pronto a raccogliere l’eredità del dramma regio, la comedia storica medievale, corredata di scorci archeologici, ma fondamentalmente volta a illustrare il dramma politico coevo, attuale. Ancora impronte di Auerbach appaiono, d’altronde sempre fecondamente, su queste pagine; ma in esse già si opera un sostanziale svincolo dalla critica stilistica nel suo complesso. Procedendo per questa via, attraverso questi studi e oltre, lungo ben informate riflessioni, siandrà sempre più saggiando nell’impeccabile gesto critico, quello stile, quel linguaggio non d’artista, di vivida fantasia critica, raccordato e asindetico, colto, non accademico ma senza gratuite inosservanze: lo stile di chi responsabilmente s’interroga sull’intensa ricerca di teoria letteraria in corso, sulla produzione critica in rigoglio, e non si sottrae al compito di fare i conti con le principali istanze che esse impongono. Così, non concedendosi alle tecniche e alle eleganze operative dello strutturalismo, ma compreso delle pro16,
prietà del discorso letterario, cercherà proprio in punti nodali del dibattito lasciato aperto tra i vari tempi e le varie correnti di questa scuola un suo percorso determinato;
e lo delineerà teoricamente e metodologicamente — nel saggio sopra ricordato Sui rapporti fra storia e testo — in una zona d’incontro tra la «trasgressione» di Mukartovsky e il marxismo «linguistico» — fuori della linea De SanctisCroce-Gramsci — di Galvano della Volpe, per un intento critico che nell’analisi non elimini il soggetto, lo scrittore, e lo renda presente non tanto nella sua ideologia quanto in quel suo preciso momento concettuale. Non posto in coincidenza con l’ideologia del soggetto, è questo un momento dinamico e aperto di un processo creativo interno che su un codice precostituito di cultura, di serie, di genere esercita un nuovo atto di codificazione che schiude a nuovi significati. E io stimolo per una tale definizione del momento concettuale dell’autore porta Samonà a convenire sulla sondabilità di altri livelli dove quest’'operazione può controllarsi in una sua più riposta autonomia, e attendibilmente, quella del livello del profondo, col «ritorno del represso» (rendendo un diretto omaggio al lavoro teorico di Francesco Orlando). Ma per la nozione della coscienza dell’autore l’accento, almeno per inciso, batte sull’intenzionalità propria del testo nel suo compiersi, con le sue ragioni, le sue logiche che si dispiegano impreventivate su un’interna coerenza. Sono riflessioni di cui non è illecito segnalare le vive radici nei saggi sul teatro qui raccolti, già atteggiati e orientati comunque verso una tendenza che resterà costante nelle prove di saggista e di studioso di Samonà: la ricerca di più aperte e comprensive angolazioni critiche per porre e riproporre nuove o già tentate domande ai testi, in un orizzonte d’attesa che — in distinta e complementare storicità — è nuova consapevolezza del riguardante, del lettore e inedita comunicatività dell’oggetto, il testo dello scrittore, carico anche della sua storia critica, come pure dei suoi
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effetti posteriori nella cultura e nel linguaggio artistico. Di una tale ricerca sarà sicuro esito, vertice e summa del suo stile critico, l’ultimo suo saggio di ispanistica, che fa da introduzione al Ca/deròn, il bel volume da lui curato per la
triade garzantiana del Teatro del «Siglo de Oro». Mario Socrate
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Saggio di uncommento a «La vida es sueno»
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LA PRIMA SCENA, ARCHETIPO
DEL DRAMMA”
«La vida es suerio»: dimensione teatrale o di favola e rappre-
sentazione simbolica La prima scena della Vida es suerio è come un andito rischiarato da poca luce: guidandoci nel vivo dell’azione con calcolata lentezza, ne lascia intravedere gli oggetti, le forme, senza però rivelarli interamente. Il lettore non me-
no dell’eventuale spettatore si trova per qualche tempo sospeso fra attrattive diverse, incerto sull’identità delle cose e dei volti che gli vengono incontro. Egli potrà percorrere quel cammino affidandosi anche al significato primario delle parole: ma sarà come afferrare, lungo la via, delle
ombre. Pensiamo
ai primi cento versi del dramma.
Rosaura,
una donzella che veste i panni di un cavaliere misterioso, appare sullo sfondo di un orrido paesaggio. È sospinta da un’urgenza dolorosa di cui non dichiara il motivo: sappiamo solo che è «cieca e disperata», «senz’altra via che quella che /e danno le leggi del destino». Avventurandosi nel «confuso labirinto» di rocce in cui l’ha sbalzata, cadendo, * Le traduzioni dei brani citati riportate in nota senza riferimento bibliografico sono di Paola Ledda e David Urman, ai quali l’autore aveva affidato il compito, purtroppo ultimato dopo la sua morte. In una lettera con cui accompagnava l’invio in redazione dei materiali di questo libro, Samonà aveva espresso gratitudine per il lavoro svolto dai traduttori. Riteniamo giusto farne qui menzione.
LO,
il suo cavallo, giunge in prossimità di un tetro edificio che
le si rivela, da vicino, come il carcere di un prigioniero s0litario. Le è accanto il suo servitore, Clarin, ed entrambi esitano un poco, vinti dalla paura; infine, guidati da una fioca luce, si affacciano alla soglia del carcere e ascoltano,
non visti, il lungo lamento del prigioniero. Immaginiamo di cogliere per un momento i particolari di questa scena nel loro senso immediato: di confidare, cioè, nella loro coerenza più esterna. In questa prima fase, e in mancanza di altri punti di riferimento (poiché la leggenda biblica di Barlaam e Josafat o il racconto orientale del povero a corte nulla hanno a che vedere, ancora, con
quest’'inizio),! saremo ad avvertire subito nel testo echi della tradizione cortese e cavalleresca. Calderòn ha elaborato il suo dramma anche a livello, per così dire, di favola: in questa chiave l’inizio del primo atto non è molto dissimile da quello di un romanzo sentimentale del tardo Medioevo, e i gesti dei personaggi possono rammentare quelli di un Leriano o di un Arnalte. C’è, di comune, soprattutto il senso della verità nascosta: un cavaliere senza nome, un
dolore di cui non si conosce l'origine, la casualità dell’incontro durante un viaggio in cui il viandante ha smarrito la via, un edificio oscuro — carcere o torre — che risuona di
lamenti, uno sfondo naturale impenetrabile. È evidente che il drammaturgo barocco non ha rinun-
1 E sono, invece, com'è noto, i precedenti letterari dei due grandi temi della «favola drammatica»: quello del padre che fa segregare il proprio figlio per sfuggire a tremende profezie, e per il quale occorre rifarsi, appunto, alla leggenda cristiana di Barlaam e Josafat, ripresa in Spagna da Juan Manuel nel Libro de los Estados più tardi da Lope nella commedia Barlaan y Josafat, che è l'esempio più prossimo a Calderòn; e quello del povero a corte, ossia del regno fra due sonni, che era già nelle Mille e una notte e riappare in Spagna nel Conde Lucanor di Juan Manuel, in um'epistola latina di Luis Vives, di qui, forse, nella commedia E/ natural desdichado di Agustin de Rojas Villandrando e finalmente in Calderon. Un’eccellente rassegna delle fonti della commedia, e dei problemi relativi, sta nelle pagine introduttive all’edizione della Vida es suenio, curata da M. de Riquer, Barcelona 1961, pp. 14-25.
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ciato ad alcuni inconfondibili segni del mondo cortese per dar un volto ai suoi eroi. Ma non è che una prima dimensione: quella in cui ci muoviamo procedendo nella fioca luce della scena. Nello stesso tempo, attraverso le stesse immagini, il testo ci forza a guardare di là dagli oggetti sicuramente individuati. E dietro quei segni o ingredienti
vediamo che si nasconde, a un livello più profondo, una filigrana di simboli alla cui rivelazione non basta la semplice successione degli eventi, né il ricorso alle più plausibili fonti letterarie. In ogni gesto sentiamo l’imminenza di un’identità ulteriore; la favola e il teatro (0 meglio, quella parte di teatro che è messinscena della favola) propongono allo spettatore abiti cavallereschi, espedienti di sicuro effetto legati a vecchi ricordi di letture; ma il linguaggio è sempre ambiguo, non V'è quasi una parola che non sia una metafora enon rechi in sé la sorpresa di una seconda verità e il sospetto di una simbologia unitaria ed astratta. Su questo duplice piano — dimensione teatrale e di favola, e rappresentazione simbolica — riposa la struttura della Vida es sueio. E questo sembra essere da qualche tempo l’oggetto, o il presupposto ormai accettato, della maggior parte degli studi calderoniani.' Inserendo la com1 In particolare negli ultimi trent'anni la letteratura sulla Vida es suerio si è notevolmente arricchita e si è consolidata l’impostazione ideologico-strutturale, attenta, perciò, ai valori della simbologia. Va detto, però, che un risoluto orientamento sulla considerazione degli aspetti simbolici del teatro di Calderòn, e della Vida es suenio, era già nei vecchi contributi di E.M. Wilson, sia in quello più generale, The Four Ele-
ments in the Imagery of Calder6n (