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Italian Pages 252 [250] [250] Year 2010
Il presente studio approfondisce alcuni temi, solo in apparen za eterogenei, aventi in realtà quale filo conduttore la Storia delle religioni e il metodo ad essa proprio. Ci si sofferma dap prima sul peculiare rito dell'evocatio, importante meccanismo di regolazione del
sistema politeistico romano finalizzato
all'acquisizione di nuove divinità, comparandolo inoltre in pro spettiva storico-religiosa con l'analogo rito presente nella reli gione ittita. Problematica parallela e complementare all'evo catio è poi quella concernente il nome segreto di Roma. Seguono un saggio sul metodo storico-religioso che prende le mosse da un particolare episodico della narrazione liviana relativa all'assedio di Veio, un'indagine sulla cruciale fase di passaggio tra due "metodologie" nella formazione scientifica di Angelo Brelich, e, infine, una ricognizione del concetto di storicismo presente nel pensiero del medesimo illustre studio so. Giorgio Ferri si è laureato in Storia delle religioni all'Università di Roma "La Sapienza'; conseguendo poi il Dottorato di ricerca in Storia Antica in co-tutela presso l 'Università di Roma "Tor Vergata" e I'Universitat Erfurt (Germania), e perfezionandosi infine negli studi storico-religiosi press o 1:.:\cca demia dei Lincei di Roma. H a pubbl i cato articoli su Studi e
Materiali di Storia delle Religioni e su altre importanti riviste e miscella nee nazionali ed internazionali.
ISBN 978-88-7870-486-2
€ 20,00
9 788878 704862
MOS MAIORUM STUDI SULLA TRADIZIONE ROMANA
— 4 —
Collana diretta da Enrico Montanari
GIORGIO FERRI
TUTELA SEGRETA ED EVOCATIO NEL POLITEISMO ROMANO
BULZONI EDITORE
TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-486-2 © 2010 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]
Geniis parentum amicorum magistrorum
Macr. Sat. III 14, 2: Vetustas quidem nobis semper, si sapimus, adoranda est.
INDICE
Prefazione di Enrico Montanari...........................................................................
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Introduzione .......................................................................................................................
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CAPITOLO 1 L’evocatio romana ..........................................................................................................
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CAPITOLO 2 Evocatio romana ed evocatio ittita.....................................................................
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CAPITOLO 3 Il nome segreto di Roma .........................................................................................
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101
CAPITOLO 4 Il cunicolo di Veio o del metodo storico-religioso .................................
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129
CAPITOLO 5 Die geheime Schutzgottheit von Rom e Vesta: Angelo Brelich alla fine degli anni ’40 .................................................................................................
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161
APPENDICE Lo storicismo in Angelo Brelich ...........................................................................
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Bibliografia
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245
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Abbreviazioni
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Indice analitico
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Prefazione
PREFAZIONE
La curiosità indotta dal rito dell’evocatio – questo vetustissimus mos1 in base al quale la divinità del nemico veniva “evocata”, cioè chiamata a passare in campo romano – ha presto attirato l’interesse degli studiosi. Agl’inizi del secolo scorso, Georg Wissowa connetteva il rituale all’espansionismo militare romano, circoscrivendolo temporalmente ai primi tre secoli della Repubblica, e spazialmente ad un’area poco estesa, circostante la Città2. Egli tendeva inoltre a considerare il rito una particolare modalità di votum, mediante il quale il comandante romano s’impegnava a garantire l’obbligo per lo stato romano a subentrare nei doveri cultuali inerenti alla divinità nemica, nel caso in cui questa consentisse all’accoglimento nella Città3. Due lavori pubblicati verso la fine degli anni Quaranta ampliarono considerevolmente queste indicazioni, fornendo un contributo sostanziale ad una più compiuta definizione storico-culturale del fenomeno dell’evocatio, sia in quanto alla sua complessità, sia in rapporto all’estensione delle sue implicazioni ideologico religiose4. In dettaglio, il libro di Vsevolod Basanoff proponeva prospettive d’indagine che avrebbero polarizzato a lungo l’attenzione degli studiosi. Tra queste: 1. Una prima indicazione del rapporto tra evocatio di dèi stranieri e “nomi segreti” di Roma e della sua divinità tutelare (o delle sue divinità tutelari), con l’obbligo di tenerli nascosti – pena l’imputazione di perduellio –, onde evitare il rischio che i nemici di 1 2 3 4
Macr. Sat. III 9, 1. Wissowa 19122, 43 ss.; 374; 384. Ibid., 383 ss. Basanoff 1947; Brelich 1949a.
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Enrico Montanari
Roma venissero a disporre di una facoltà di evocare, a loro volta, gli dèi di Roma5. 2. La distinzione fra evocatio (rito religioso a carattere pubblico) ed excantatio (rito magico a carattere privato). Distinzione in origine meno percettibile (anche l’evocatio arcaica avrebbe comportato un opus operatum di carattere magico), ma col tempo sempre più marcata – soprattutto con l’antropomorfizzazione dei numina e l’erezione di templi ad essi dedicati – fin quasi a stemperare l’evocatio originaria in una sorta di excantatio non necessariamente collegata alla conquista della città nemica6. 3. La probabile risalenza dell’evocatio alla preistoria italica, ciò che non escludeva la possibilità di rinvenire riti analoghi in altri distretti indo-europei, come ad es. presso gli Ittiti7. Nella prospettiva dell’a., che su questo punto sarebbe stato seguito da studiosi illustri come G. Dumézil8 e J. Bayet9, viene indicata un’opposizione fondamentale fra i Semiti dell’Oriente Antico (in particolare Babilonesi e Assiri) e i popoli di lingua indo-europea (giusta la formulazione di A. Meillet); i primi, legati a una concezione “nazionale” imperméable all’evocatio, in quanto la divinité résidente sarebbe stata inscindibile dalla sorte del re e del suo popolo; i secondi, gli Indo-Europei, legati piuttosto ad “aristocrazie” e perciò in grado di riconoscere gli “dèi funzionali” altrui sulla base dei propri10. Appena due anni dopo la monografia di Basanoff, Angelo Brelich pubblicava un suo studio in tedesco sulla “divinità tutelare segreta di Roma”11, affrontando una tematica complementare e completiva, anche se gli interessi problematici e l’orientamento di fondo divergevano rispetto a quelli dello studioso russo-francese. In quell’epoca infatti, sebbene fosse già assistente di Raffaele Pettazzoni all’Università di Roma, Brelich condivideva ancora quasi del tutto l’imposta5
Basanoff 1947, 26-27. Ibid., 206. 7 Ibid., 197. 8 Dumézil 1954b, 48. 9 Bayet 1954, tr. it. 317, n. 29. 10 Basanoff 1947, 198. 11 Brelich 1949a. 6
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Prefazione
zione del suo maestro ungherese Károly Kerényi12. Fedele al principio secondo cui l’uomo, in tutta la sua struttura biologica e mentale, rappresenta la concretizzazione di una “idea primordiale” (Urbild) atemporale13, Kerényi aveva orientato alcune sue ricerche – condotte insieme con C. G. Jung – sui “fanciulli divini” come figure mitiche poste alle origini del cosmo, ma che conservavano un margine dell’indifferenziazione pre-cosmica14. Brelich sposta il suo interesse dal mito greco ad una religione “demitizzata” come quella romana, e perciò dall’origine del mondo divino all’origine della Città, considerata in sé come un “cosmo”. Egli cerca d’individuare il “nucleo d’idee” (Ideenkern) comune a tante differenti divinità, che le rende riconoscibili come numi tutelari segreti di Roma. La “intuizione di fondo” (Grundintuition) che guida la sua ricerca consiste nel fatto che la «divinità dalla quale tra origine la città – così come il cosmo ed ogni vita – dev’essere feconda, capace di generare incessantemente la vita. Trovandosi al confine della non-esistenza essa contiene il germe di ogni esistenza». Aggiunge l’a.: «La transizione continua dalla non-esistenza all’esistenza», ossia dal pre-cosmico al cosmico, «avviene secondo un processo di rigenerazione senza soluzione di continuità»15. Riguardo alla modalità di questo processo rigenerativo, Brelich parla di un mistero del genere, ossia del fatto che, «in modo inesprimibile e inconcepibile», tale divinità deve comprendere in sé entrambi i principi sessuali. «E se essa, per procreare, dev’essere naturalmente femminile, la sua eterna fecondazione si compie però dietro un velo di mistero»16. Nel libro, lo studioso propone una serie di possibili “divinità tutelari” recanti lo stesso nome ma “sdoppiato” nei due sessi (Ops Consiva e Consus, i “due” Pales, etc.), ovvero figuranti come dee poliadi femminili, che però presentano più o meno velatamente al loro fianco un principio maschile (Diana Nemorensis e Virbius, Iuno Sospita ed Hercules, Vesta e il fascinus (“fallo”) adorato dalle vestali). Come si vede, il problema di fondo 12 13 14 15 16
Montanari 2010. Magris 1975, 143. Jung - Kerényi 1941-1942. Brelich 1949a, 49-50 (sottolineatura nostra). Ibid., 60.
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Enrico Montanari
affrontato da Brelich – l’individuazione della (o delle) «divinità della propria origine» (Gottheit ihres Ursprungs) – che si conserva nel tempo come protettrice “segreta” del popolo romano – attinge a presupposti metastorici. Lo studio sulla geheime Schutzgottheit di Roma si pone appena all’inizio di un processo di revisione critica che porterà Brelich a riconoscersi pienamente nel diverso orientamento di Pettazzoni, di impronta storicistica: primo segno di questa iniziale revisione è il tentativo (riguardante soprattutto Vesta) di rivendicare una specificità romana alla formazione (anzi alla creazione) delle figure divine, fatte risalire «al 6° sec. a. C. circa»17. Col tempo, lo studioso si libererà delle categorie kerenyiane – fino al punto di rifiutare la stessa dialettica precosmico-cosmico –, e tenderà a concepire la formazione dei sistemi politeistici come svolgimenti e “riplasmazioni coerenti”, implicanti in origine istituti e figure meno complessi, di ambito semi-primitivo, applicabili ad es. alle culture indo-europee18. La prematura scomparsa (1977) gl’impedì di completare uno studio su Iuppiter e la formazione del politeismo romano, di cui restano pochi brani inediti19, e di dar corso alla definitiva rimozione del suo “evoluzionismo residuale” che comunque rimeditò fino alla morte20. Le ricerche specifiche condotte da Basanoff e da Brelich, pur nella loro complementarità, facevano emergere l’esigenza di una considerazione globale del fenomeno in questione. Studi più recenti hanno rivolto l’interesse da singoli istituti e figure divine al politeismo nel suo complesso, anche attraverso il confronto storico e morfologico coi monoteismi emergenti. È stata rilevata, pur nel sussistere di forme di “violenza” legate al sacro, una traducibilità culturale delle figure divine fra un politeismo e l’altro21; un dato che, riferito al campo romano, collega l’idea di appropriarsi di entità divine altrui con la possibilità che esse siano già in precedenza assimilabili sulla base di una interpretatio. 17 18 19 20 21
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Brelich 1979a, 40. Montanari 2010; Montanari 2001b. Su cui Calisti 2008. Brelich 1979a, 107. Assmann 1996; Stroumsa 2005; Assmann 2008.
Prefazione
Il presente volume recepisce e sviluppa gli orientamenti sin qui, pur sommariamente, esposti. Evocatio e nome-divinità “segreti” di Roma sono qui considerati sostanzialmente come due aspetti di uno stesso meccanismo di regolazione del politeismo romano. Più che di un rapporto precosmico-cosmico potrebbe parlarsi di un rapporto centro-periferia: l’evocatio implica il nome e la divinità segreti di Roma a scopo difensivo, quanto questi ultimi sono correlati all’evocatio in ragione della tendenza espansionistica della Città, che è costitutiva, poiché trova la sua prima espressione storica già in periodo monarchico come «la grande Roma dei Tarquinii» (Pasquali). Il sistema evocatio-nome/divinità segreti di Roma, pur assai antico, presuppone un’acquisizione matura del concetto di “città”, in senso giuridico-religioso ancor prima che territoriale. Un concetto che si definisce a Roma con caratteristiche originali, anche a livello linguistico: come dimostrò Benveniste22, il termine civis è all’origine del concetto di civitas (ed è quindi estensibile al di là di un territorio etnicamente definito), laddove, all’opposto, il termine polites deriva da polis (e resta definito dal territorio urbano originario). L’idea di una comunità originaria di cives indefinitamente espansibile è ben rappresentata nel libro sotto l’aspetto di simbolismo del “centro”. Non solo nome e divinità segreti di Roma costituiscono il nucleo di ogni irradiazione, ma le stesse evocationes deorum implicherebbero un analogo meccanismo. Ferri giunge a osservare che l’evocatio non era un rito banale né estremo: al contrario vi si faceva ricorso quando si aveva a che fare con una “capitale” (se non con una “cittàmadre”): Veio, Cartagine, Falerii, Volsinii (centro del nomen Etruscum). Si trattava di privare la città nemica del suo “centro” religioso senza il quale essa perdeva il suo “nucleo sacrale” (tenendo presente l’idea romana che ogni città si trovasse in alicuius dei tutela)23. Questa tematica introduce un problema connesso: quello del rapporto tra evocatio ed interpretatio degli dèi stranieri da parte romana. Può venire assimilato ciò che è traducibile in termini romani, ciò che è riconoscibile nell’ambito delle proprie categorie religiose in 22 23
Benveniste 1969, tr. it. I, 281. Macr. Sat. III 9, 2; Dumézil 19742, 425.
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Enrico Montanari
quanto non contrastante col mos maiorum. In questo senso un ambito che andrebbe approfondito è quello delle interpretationes arcaiche (e non solo del tempo di Cesare o di Tacito), relative a divinità fra loro similari (come ad es. Fortuna e Mater Matuta), che possono agevolare evocationes di dèi stranieri (come l’evocatio della Mater Matuta di Satricum ipotizzata da Coarelli)24. In questo senso, come rileva Ferri, quando la divinità evocata è femminile, viene spesso “interpretata” come Iuno, la più adatta allo scopo per la sua complessità e polivalenza (un caso per tutti la Mater, Sospes, Regina di Lanuvium, di cui Dumézil ha ben rilevato la plurifunzionalità)25: il che conferma la tendenza romana, fin dal VI sec. a. C., ad equiparare a Iuno divinità italiche e fenicio-puniche venerate in santuari vicini e coevi26. Certo, l’interpretatio non è se non una condizione dell’evocatio, che invece è un rito di acquisizione di divinità al pantheon romano (accanto ad altre modalità ricettive, come l’introduzione mediante consultazione dei libri Sibyllini27 o dell’oracolo delfico, ovvero attraverso vota di nuovi culti templari: cosa, quest’ultima diversa dall’evocatio (che non è una forma di votum (Wissowa), ma soltanto prevede un votum in una fase successiva all’evocatio in senso stretto). In proposito, un’ulteriore questione affrontata nel libro riguarda la natura dell’acquisizione divina per evocatio. Questa non sembra ammettere coercizione nei confronti di alcun dio. La divinità veniva sempre “accolta”, “compresa” in ambito romano. Contro l’opinione di Dumézil28, che riteneva che la Minerva di Falerii fosse stata “fatta prigioniera” (Minerva Capta) dai Romani, Ferri ritiene probabile che la dea, a Falerii, fosse già “avvinta” da catene secondo un uso attestato in Oriente (Artemis ad Efeso, Hera a Samo, Apollon a Tiro, etc.). Probabilmente di origini argive, essa era incatenata a Falerii per evitare che abbandonasse la città (secondo un’usanza diffusa presso le colonie doriche). Del resto a Roma, come
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Coarelli 1988, 246. Dumézil 1954a, 105 ss. Montanari 2001d, 151. Santi 2008. Dumézil 19742, 427.
Prefazione
attesta Ovidio29, la dea non è rappresentata in catene30. A parte ciò, la valenza rituale di capere (cfr. la formula “te, amata, capio”) indica meno costrizione che non ammissione a partecipare (si pensi al nome-radice d’agente, usato come secondo termine di un composto sotto la forma con apofonia -ceps: muni-ceps, parti-ceps, prin-ceps, “che prende parte come primo”, etc.). Inoltre, l’invito a passare in campo romano, nonostante la sua “seduttività”, poteva non venire accolto, sia perché il dio sfuggiva alle armi romani (ad es. il Dionysos “egiziano” dopo la battaglia di Azio)31, sia perché i Romani potevano trovarsi dinanzi una divinità intraducibile, come il “dio unico” degli Ebrei: la shekinah (“presenza” divina) non resta coinvolta nella distruzione del Tempio di Gerusalemme32. Per ultima, ma non ultima per importanza, merita menzione l’analisi comparativa con l’“evocatio” ittita, per la quale Ferri ha attinto a un corpus documentario assai più ampio di quello considerato da Basanoff e da Wohleb. Ciò gli ha consentito di ridimensionare considerevolmente il “concordismo” sostenuto dai suddetti studiosi, riducendo i connotati di somiglianza fra i riti evocatori romano e ittita (la città nemica “maledetta” dal re; l’integrazione – con diverse pretese di esclusività – degli dèi evocati nel pantheon nazionale; il carattere sempre divino degli esseri extra-umani invocati). Quanto al secondo punto focale della ricerca dell’a. – la divinità tutelare di Roma e la connessa tematica relativa al segreto –, occorre anzitutto rilevare l’accurata storicizzazione con cui vengono considerati gli studi di Brelich sulla geheime Schutzgottheit: con ciò, riteniamo, rispettando la volontà stessa del grande studioso e delle sue scelte posteriori alla fase “kerenyiana” della sua formazione. Un punto originale dell’analisi di Ferri consiste nel forte accento dato al rapporto fra la divinità tutelare e il luogo, indagato attraverso la figura del genius loci (un essere divino dai contorni indefiniti, legato al luogo ab initio). Il genius costituirebbe l’elemento “generale”, distinto rispetto al “particolare” rappresentato invece dalla divinità 29 30 31 32
Fast. III 835-848. Köves-Zulauf 1993, 159. Plut. Ant. 75. Stroumsa 2005, tr. it. 69 ss.
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Enrico Montanari
protettrice della Città. In certo modo, la divinità tutelare appare più artificiosa: è “eletta” a proteggere la Città sorta in un luogo già protetto dal genius. Anche Enea, quando giunge nel Lazio, “presenta” il luogo ai Penati di Troia, ma si rivolge anzitutto al genius loci33. Vi è un’intima coerenza nella costruzione dell’a.: proprio perché il genius loci è il primo a proteggere il luogo su cui sorge la Città, il suo segreto consiste nel non avere un nome. Nello specifico, esso è il genius urbis Romae, che «non ha un nome, ma ha contemporaneamente il nome della Città». Esso è comunque distinto dal nome della divinità tutelare (variamente riferito: Amor, Flora, Valentia, etc.): l’elaborazione della figura della dea Roma rifletterebbe il concetto genuinamente romano di genius “contenitore consapevole”. In questo modo Ferri recide il nodo gordiano delle molteplici interpretazioni tendenti a sollevare il velo circa il vero nome della divinità tutelare di Roma (ricordiamo in particolare l’ingegnosa spiegazione di Dumézil su Flora)34: uno studio speciale potrebbe essere dedicato alla serie di interpretazioni – non solo scientifiche, ma anche in chiave “esoterica” o “occultistica” – formulate, specialmente nel secolo scorso, sul nome e sulla divinità segreti di Roma! Rispetto a questa letteratura, l’opinione di Ferri va controcorrente. L’affaire relativa a Valerius Soranus, accuratamente studiata dall’a., attesta lo scrupolo con cui si proteggeva il nome segreto di Roma ancora nella tarda Repubblica: giusta l’ipotesi formulata dall’a., il nome coinciderebbe con una divinità speciale (il genius loci), qualificata dal nome stesso della Città. Ipotesi ardita: ma formulata da un giovane studioso che ha riconsiderato il problema nella sua globalità, senza trascurare l’aspetto simbolico del “segreto” e le sue implicazioni in una cultura, come quella romana, incline a liberarsi di miti e di misteri e a fornire un’immagine di sé il più possibile pubblica ed evulgata. Ci siamo soffermati su alcuni punti del libro suscettibili di evidenziare la stretta connessione fra elementi di regolazione di un pantheon in rapporto con l’insieme. L’interesse profondo del lavoro
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Aen. VII 120-122; 135 ss. Dumézil 19742, 280-281.
Prefazione
è, infatti, rivolto alle articolazioni specifiche del politeismo romano. È in questa direzione che Ferri si muove, con varie ricerche ben avviate, di cui questo volume costituisce la prima sintesi. Ci è particolarmente gradito pensare che l’a. si orienti secondo una direttrice di studi che ebbe Brelich come protagonista: e che un filone d’indagine sulla storia della religione romana, oggi minacciata di estinzione (almeno in Italia), possa ancora produrre ricercatori promettenti come l’autore di questo libro. Enrico Montanari
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Tutela segreta ed evocatio nel politeismo romano
INTRODUZIONE
Nel 1907 il Bouché-Leclerq, nell’articolo ad essa dedicato nel Dictionnaire des Antiquités curato da Daremberg e Saglio, definiva l’evocatio «uno dei capolavori della casistica pontificale»1. Ed in effetti, quanto sviluppato dai pontefici costituiva una modalità, se non delle più frequenti, sicuramente tra le più importanti e complesse di «regolazione» del politeismo romano2. All’indagine delle sue caratteristiche è destinato il primo capitolo del presente lavoro. Il rito era finalizzato essenzialmente all’approccio e all’appropriazione delle divinità, e con esse dei culti, di realtà urbane particolarmente importanti, con il conseguente accrescimento del numero delle divinità presenti a Roma. Tutto ciò avveniva sempre sotto la vigile supervisione e l’efficace azione «filtrante» del collegio dei pontefici, il consesso sacerdotale che aveva specifica competenza in casi di tale rilevanza. Il processo di accostamento e acquisizione della “nuova” divinità, insieme al suo culto, costituisce un interessante punto di vista su quel sistema religioso romano che, con una definizione solo apparentemente ossimorica e paradossale, potremmo definire allo stesso tempo «fisso» e «fluido»; ciò poiché, sotto l’egida della tradizione costituita dal mos maiorum, si dava una costante capacità di innovare e di adattarsi alle nuove situazioni: sed illa potius cogitetis quam multa in hac civitate novata sint è l’argomento che l’imperatore Claudio nel 48 d. C. oppone all’insofferente riluttanza dei senatori ad accogliere nelle loro file i primores della
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Bouché-Leclercq 1907, 573. Montanari 2008, 11.
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Giorgio Ferri
Gallia Comata3. Il mos maiorum «è ben più di un semplice indicatore di invarianza. È un concetto dinamico, che si esprime sia come veicolo di trasmissione di valori, sia come segno dell’identità quiritaria, sia come filtro dei processi acculturativi»4. Nel caso della celebrazione di un’evocatio, dopo aver «chiamato fuori» la divinità poliade, cui il rito era specificamente riservato, si procedeva dunque all’istituzione del culto a Roma. Già la scelta del sito destinato ad accogliere il tempio di talune divinità evocate5 – un esempio su tutti quello della Giunone Regina proveniente da Veio – dice molto sullo status di esse: l’Aventino, al di fuori del pomerium, entro il quale dimoravano invece le divinità romane o quantomeno italiche6. Accoglimento «condizionato», pertanto, il quale, nel momento in cui riconosceva la sostanziale similarità della figura divina evocata (in questo caso specifico verosimilmente una Uni etrusca non meglio nota, per Silvio Ferri congetturalmente Uni Turan)7 con un’altra già presente nel pantheon romano, pur ne sottolineava e ne fissava la «diversità» e l’«alterità», ubicandone il santuario nel luogo «altro» per eccellenza di Roma, al di fuori del confine sacro della città (la situazione muterà solo in età imperiale per iniziativa dell’imperatore Claudio)8. Già questo è un elemento assai esplicativo a proposito del funzionamento della cosiddetta interpretatio Romana, affidata ai pontifices: altre divinità «importate», riceveranno dei templi all’interno del pomerium perché considerate in diversa misura genuinamente romane: i Castores e Venus Erycina, solo per fare due esempi. La «diversità» delle altre divinità risulta evidente anche nel culto: rimanendo al caso di Giunone Regina, la gens etrusca cui era riservato
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CIL XIII 1668 = ILS 212. Cfr. Tac. Ann. XI 24, 7: omnia, patres conscripti, quae nunc vetustissima creduntur, nova fuere […] inveterascet hoc quoque, et quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit. Analisi dettagliata dell’episodio in Giardina 1997. 4 Montanari 2008, 10. 5 Per tutti i casi, cfr. Ferri 2010a. 6 Catalano 1978, 543-544. 7 Ferri 1956, 111. 8 CIL VI 930 = ILS 244; Gell. N. A. XIII 14, 4.
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Tutela segreta ed evocatio nel politeismo romano
il compito di venerare la dea nella sua dimora ancestrale rimane la stessa nella struttura ma viene romanamente «tradotta» nell’Urbe con un corpo di iuvenes delecti tra i milites, a seguito del tipico processo romano di «rivoluzione antigenetica»9; ci si rivolgerà alla dea in momenti di pericolo, soprattutto durante la seconda guerra punica, nel corso della quale si ritenne responsabile dei rovesci subiti la divinità «straniera» omologa a Giunone, la Tanit di Cartagine, interpretata a Roma – non a caso – come Giunone Celeste10. L’importazione di peregrina sacra era considerata fatto non eccezionale, ma anzi caratteristico del mos maiorum. Essa era effettuata sostanzialmente secondo due modalità: l’evocatio e la consultazione dei libri Sibyllini 11. Una polarità che, oltre al contesto – secondo Festo da una parte il bellico, dall’altra il pacifico – si è creduto in questa sede di poter riferire anche alla diversa tipologia di cause: «attiva» ed «esterna» (evocatio), «passiva» e «interna» (libri), con comune natura di «necessarietà» del nuovo culto ai fini della risoluzione della «crisi» (bellum o prodigium). Tuttavia il “sigillo” costituito dall’interpretatio Romana era sempre e comunque appannaggio dei pontefici12. Inoltre l’evocatio era meno frequente, ed usata solo nei confronti di città dallo status di «capitali», in senso politico, etnico o federale. Ma esistettero nell’Antichità dei riti ad essa paragonabili in altri momenti e ad altre latitudini? Comunemente l’unico viene individuato nella cosiddetta “evocatio” ittita, cui sono state dedicate delle ricerche da parte di un numero esiguo di studiosi, tra i quali spiccano Basanoff e Dumézil. In effetti, oltre alla comune ascendenza indoeuropea, possono riscontrarsi delle analogie di massima: entrambi, Romani ed Ittiti, sviluppano degli strumenti rituali finalizzati allo spostamento delle divinità. Tuttavia, come risulterà evidente nel secondo capitolo, le differenze sono più numerose dei punti di contatto, e ciò non fa che ribadire l’insuperata «tecnica» romana 9
Sabbatucci 1975. Ferri 2009c. 11 Paul. Fest. 268 L. Per tutte le problematiche relative ai libri Sibyllini, cfr. in questa stessa collana Santi 2008. 12 Liv. I 20, 6. 10
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Giorgio Ferri
nella continua gestione, revisione, accrescimento e perfezionamento del proprio pantheon, anche attraverso il rito. Si è parlato poco fa di «polarità» a proposito del binomio evocatiolibri. Ma ve n’è una ben più importante, legata alla riflessione, non solo religiosa, a proposito dell’«altro». Se infatti, evocando una divinità «esterna», si metteva in moto un processo di normalizzazione e interpretazione – ovviamente in senso «romano» – delle caratteristiche peculiari alla figura divina e al suo culto, ci si interrogava al contempo sulle proprie «difese» religiose dalla possibilità che un qualsivoglia nemico potesse procedere nello stesso modo ai danni di Roma. A questo proposito, i Romani ritenevano di avere due peculiarità rispetto agli altri: una divinità segreta e un nome segreto della città13. Problema complesso, che ha a che vedere – a nostro parere – fondamentalmente con la «rappresentazione» religiosa che i Romani davano di se stessi, vale a dire la spiegazione a posteriori del proprio successo e del vertice di potere raggiunto rispetto alle altre città vinte; tale problema tuttavia non potrà essere integralmente affrontato in questa sede14. Quanto è qui presente, invece – tema rispettivamente dei capitoli terzo e quinto – si riferisce per un verso all’indagine dell’affascinante problema riguardante il nome segreto di Roma, per l’altro all’approccio alla tematica concernente la divinità segreta dell’Urbe da parte di uno dei maggiori storici delle religioni italiani, Angelo Brelich. Tralasciando per il momento i contenuti di quest’ultimo, va notato come il primo offra una serie di spunti oltremodo interessanti e stimolanti. Il nome è un elemento fondamentale di identità nei confronti del mondo; accanto al nome noto, inoltre, è riscontrabile in numerose società l’esistenza di un nome segreto. Questo per il rapporto reale e sostanziale che si riteneva unisse il nome alla persona o alla cosa cui esso era conferito. Anche la città di Roma avrebbe avuto un nome arcano, la cui rivelazione, secondo alcuni autori, avrebbe portato alla condanna a morte di un tal Valerio Sorano, macchiato-
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Macr. Sat. III 9, 3. Si rimanda a Ferri 2010a.
Tutela segreta ed evocatio nel politeismo romano
si di una siffatta empietà. A parte la possibilità che questi abbia avuto o meno cognizione di tale segreto, risulta evidente come l’attribuzione di un tale crimine, ma soprattutto l’orribile sorte riservata al personaggio, possano far escludere che la questione fosse bollata come semplice curiosità antiquaria. Molti infatti si cimentarono nel penetrare l’arcano, ipotizzando per Roma più di un nome segreto: Flora, Eros, Amor… Non saremo certo noi a fornire la risposta inequivocabile al mistero15; si può ritenere però che i Romani di età storica, del periodo cioè dal quale provengono le nostre fonti, potessero ritenere che, se un tale nome segreto esisteva davvero, fosse gelosamente custodito dal pontifex maximus, allo stesso modo che il Palladio dalla decana delle Vestali. Analogo il ragionamento alla base degli argomenti dispiegati nel quarto capitolo. Si tratta cioè di verificare come gli storici che redassero le nostre fonti abbiano descritto, interpretato ed eventualmente modificato alla luce del loro punto di vista i dati che essi, a loro volta, leggevano negli autori che li avevano preceduti. In questo caso il tema portante è costituito dallo scavo del cuniculus per ordine di Marco Furio Camillo al termine del decennale assedio di Veio. Le varie tradizioni sono l’esito non solo di rielaborazioni, ma anche di stratificazioni e fusioni con elementi e paralleli, mitici e storici. Il «risultato» va letto sì in senso storico, ma anche mitico: «realia» e «mito» si (con)fondono e si uniscono, offrendo una «rappresentazione» di un dato evento, dalla quale trarre comunque preziose ed utili informazioni circa il momento storico in cui la tradizione è sorta, sulle ragioni conscie o inconscie sottese ad una tale elaborazione e sui possibili antecedenti e paralleli, siano essi, di nuovo, mitici o storici. La tradizione romana è allo stesso tempo «storia» e «mito». Essa, pur «caratterizzata dalla “demitizzazione”, è a sua volta a suo modo “mitogenetica”, produttrice di miti. Miti di tipo speciale, che potrebbero essere definiti “della Città” (…); ma pur 15 Simile la riflessione di Kerényi nella prefazione a Brelich 1949a, 7: «Se si sono premesse alcune parole esplicative alle seguenti argomentazioni, ciò accade esclusivamente per prevenire una possibile delusione. Non ci si aspetti dall’autore (…) l’inequivocabile e definitiva soluzione dell’enigma, qualcosa del tipo: questo era il nome divino segreto».
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sempre miti, per la loro peculiare capacità di raccontare una “sacra storia” eletta a modello di civiltà»16. La mitizzazione romana è operata nella storia17. Il quinto capitolo e l’appendice spostano il baricentro – parzialmente il primo, completamente la seconda (motivo per cui non la si è denominata “capitolo sesto”) – dalla religione romana alla storia degli studi. Entrambi riguardano due fasi importanti del percorso scientifico di Angelo Brelich, il successore di Raffaele Pettazzoni (dal 1958) alla cattedra di storia delle religioni dell’Università di Roma “La Sapienza”. Si indaga dapprima, nel capitolo quinto, sulla fase cruciale costituita dal «passaggio», alla fine degli anni ’40, da una «metodologia» all’altra, idealmente da Kerényi a Pettazzoni. Passaggio questo compiuto e consapevole a partire dalla metà degli anni ’50, con la condivisione dell’impostazione storicistica del secondo maestro, poi sempre difesa, con un fervore forse influenzato dai trascorsi kerényiani via via sempre più ingombranti perché condizionati da un irrazionalismo ormai coscientemente e definitivamente rifiutato. A questo proposito, chiude il presente lavoro un’appendice, volta ad un’analisi più approfondita di quale fosse il concetto di storicismo che si sviluppa gradualmente nel pensiero di Angelo Brelich ed è presente nei suoi lavori. Cosa lega un insieme di lavori apparentemente così eterogenei? In realtà il filo conduttore c’è, ed è ben definito. Trattare di un rito come l’evocatio porta, oltre che a rilevare possibili fenomeni analoghi (l’“evocatio” ittita), ad indagare, lo si è accennato sopra, in merito alle «garanzie» e alle «difese» religiose atte ad evitare il rischio di subire lo stesso da parte nemica. Spesso le nostre fonti associano l’evocatio con il «segreto» che avvolgeva il nome della divinità segreta di Roma o quello della città stessa, quasi fossero due facce della stessa medaglia. Già nella mia ormai lontana tesi di laurea dal titolo Problemi dell’evocatio (discussa nel 2005 presso l’Università di
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Montanari 2008, 10. Montanari 1990, 34.
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Roma “La Sapienza”) avevo affrontato in questo senso le due tematiche parallele. Fonte privilegiata e unica a trattare estesamente e peculiarmente l’argomento della divinità segreta di Roma era, sino a quel momento, il volumetto di Angelo Brelich intitolato appunto Die geheime Schutzgottheit von Rom, edito nel 1949 per i tipi della Rhein Verlag di Zurigo18. Lasciando da parte la trattazione del problema della divinità segreta alla luce degli studi più recenti e, più in particolare, dal nostro punto di vista19, quest’opera è interessante per mettere ben in evidenza un passaggio nodale nella formazione scientifica e nel percorso umano di un grande storico delle religioni. Brelich si trovava in quegli anni in una fase di pieno travaglio intellettuale, ancora in certa misura e sempre più titubante «kerenyiano», ma, allo stesso tempo, non ancora pienamente (pur se gradualmente sempre più) «pettazzoniano». La questione è dunque affrontata dallo studioso italo-ungherese alla luce di una serie di concezioni ancora debitrici dell’impostazione del vecchio maestro, quali «Grundintuition», «Grundelemente», «Ordnungsprinzip» «Idee an sich», «Existenz» e «Nicht-Existenz», e così via, tutte abbandonate di lì a pochi anni in favore di una prospettiva prettamente storicistica. Le “scorie” di questa fase passaggio e la progressiva e sempre più recisa presa di distanza da posizioni irrazionalistiche porteranno poi il Brelich ad una continua riaffermazione della necessità di non deviare mai e per alcun motivo dall’approccio storicistico allo studio delle religioni, criticando al contempo tutti quegli altri indirizzi che alla storia affiancavano o sovrapponevano più o meno scopertamente a priori o schemi precostituiti. La storia delle religioni studia sì fenomeni in sé «irrazionali», ma sempre rimanendo ancorata alla storia. Così facendo, essa costituisce una disciplina fondamentale per indagare le singole «storie», dunque le varie culture, considerando allo stesso momento il dato freddamente «annalistico» e quello «mitico» o «simbolico», ai fini
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Brelich 1949a. In Ferri 2010a.
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della ricostruzione del fenomeno religioso (e non solo) quale ci si presenta dinanzi al termine o nel corso del suo svolgimento storico. Il metodo storico-religioso è estremamente utile poiché di taglio «interdisciplinare», e perciò aperto ai contributi degli specialisti di settore (archeologi, storici dell’arte, linguisti, filologi, storici del diritto, epigrafisti, etc.); esso si dimostra inoltre assai proficuo ed è il più adeguato – ne è esempio ben più limpido e probante la monografia precedente di questa collana20 – a rilevare il significato di un «sistema di rappresentazioni» quale traspare dalla ricerca qui affrontata21. Questo tipo di indagine si è tentato specificamente di effettuare nei capitoli 3 e 4, affiancandolo al secondo “pilastro” del metodo storico-religioso: la comparazione22. Il trait d’union del presente lavoro è in definitiva uno: la storia delle religioni. A questa indagine se ne affianca e si integra un’altra, che vedrà la luce prossimamente per i tipi della Franz Steiner Verlag di Stoccarda23. Ulteriore punto di contatto ideale, se vogliamo, con Angelo Brelich, il quale divise la sua opera, concepita come unica, in due volumetti comparsi separatamente; così come il fatto che anch’essa costituiva la prima monografia di un certo spessore di un giovane studioso che si affacciava al mondo degli studi. Ma le analogie finiscono qui: il futuro – nostro e di tutti – è da scrivere, è ancora «segreto».
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Montanari 2009. Ibid., 17-18. 22 Cfr. Ferri 2010b. 23 Ferri 2010a: in essa ci si addentrerà più nello specifico nei casi tramandati o ipotetici di evocatio, nel peculiare rapporto del rito con Giunone e nella problematica della divinità segreta di Roma. Si rimanda inoltre ad essa per tutte le tematiche menzionate nella prefazione e non presenti in questo lavoro. Ringrazio infine sia il Prof. Enrico Montanari per la pubblicazione in questa sede, sia sin d’ora il Prof. Jörg Rüpke (Erfurt) per l’opportunità concessami di pubblicare la seconda parte della mia ricerca in Germania. 21
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CAPITOLO I L’evocatio romana
1. Il rito Con l’evocatio deorum1, i Romani letteralmente «chiamavano fuori» la divinità protettrice della città nemica assediata, pregandola di abbandonare la sua dimora e i suoi protetti e di accettare di trasferirsi a Roma, dove le sarebbero stati consacrati un culto e un tempio2, che avrebbe accolto la statua di culto3. Che il rito fosse destinato specificatamente alla divinità tutelare cittadina lo apprendiamo dalle fonti, oltre che dalla considerazione che il carmen evocationis, tramandatoci da Macrobio4, ad essa si rivolgeva e, infine, che il votum di un tempio sembra essere ad essa riservato, come appare evidente rispettivamente dai casi della Giunone Celeste di Cartagine e della Giunone Regina di Veio. Le fonti che parlano dell’evocatio non sono molto numerose. La più antica è Plinio, dal quale apprendiamo che l’evocatio era compiuta dai sacerdoti durante gli assedi di città e che la destinataria era la divinità tutelare della città, alla quale veniva votato un culto; tale sacrum inoltre era ancora operante nell’epoca in cui l’autore scrisse5. 1 Esiste infatti anche un’evocatio relativa all’esercito: cfr. Rüpke 1990, 70-75. Cfr. in generale Basanoff 1947; Pfister 1966; Alvar 1984; Berti 1990; Blomart 1997; Gustafsson 2000; Ferri 2006; Guittard 2007; Ferri 2010a. 2 Liv. V 21, 3; Dion. Hal. XIII 3, 3; Paul. Fest. 268 L; Plin. N. h. XXVIII 18; Macr. Sat. III 9, 8. 3 Müller 1931, 509. 4 Macr. Sat. III 9, 7-8. 5 Plin. N. H. XXVIII, 18: Verrius Flaccus auctores ponit quibus credatur in
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Livio dal canto suo, illustrando le fasi finali della conquista di Veio nel 396 a. C., narra dell’evocatio di Iuno Regina, la dea protettrice della città etrusca6. Il dittatore Furio Camillo votò un tempio alla dea, chiedendole se avrebbe voluto essere portata a Roma. Il primo contatto con la dea è quindi affidato al dittatore, anche se è ragionevole pensare, sulla base di Plinio, che nel rito giocassero un ruolo decisivo piuttosto i sacerdoti7, o al limite che, come avveniva nella devotio, essi dettassero al generale la formula da pronunciare8. Altra considerazione possibile a sostegno di ciò la presenza, nella rappresentazione liviana, di molti elementi presenti nelle leggende dei trasferimenti di culti in contesto pacifico (tra cui trasporto del simulacro del dio ed erezione di un tempio a Roma), in cui la partecipazione attiva dei sacerdoti è ben documentata9. Senza dubbio essi provvedono, a seguito della pronuncia del carmen evocationis,
obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis sacerdotibus evocari deum cuius in tutela id oppidum esset promittique illi eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in pontificum disciplina id sacrum, constatque ideo occultatum in cuius dei tutela Roma esset, ne qui hostium simili modo agerent. 6 Liv. V 21, 1-3: Tum dictator auspicato egressus, cum edixisset ut arma milites caperent, “Tuo ductu”, inquit, “Pythice Apollo, tuoque numine instinctus pergo ad delendam urbem Veios, tibique hinc decimam partem praedae voveo. Te simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor ut nos victores in nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua templum accipiat”; 22, 3-7: Cum iam humanae opes egestae a Veis essent, amoliri tum deum dona ipsosque deos, sed colentium magis quam rapientium modo, coepere. Namque delecti ex omni exercitu iuvenes, pure lautis corporibus, candida veste, quibus deportanda Romam regina Iuno adsignata erat, venerabundi templum iniere, primo religiose admoventes manus, quod id signum more Etrusco nisi certae gentis sacerdos adtrectare non esset solitus. Dein cum quidam, seu spiritu divino tactus seu iuvenali ioco “Visne Romam ire, Iuno?” dixisset, adnuisse ceteri deam conclamaverunt. Inde fabulae adiectum est vocem quoque dicentis velle auditam; motam certe sede sua parvi molimenti adminiculis, sequentis modo accepimus levem ac facilem tralatu fuisse, integramque in Aventinum aeternam sedem suam, quo vota Romani dictatoris vocaverant, perlatam, ubi templum ei postea idem qui voverat Camillus dedicavit. 7 Plin. N. h. XXVIII 18. Cfr. Ferri 2006, 225; infra. 8 Rawson 1973, 169; cfr. Fyntikoglou - Voutiras 2005, 154. 9 Rüpke 1990, 163.
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alla litatio degli exta per verificare la disposizione divina nei confronti dei Romani10. Il testo del carmen evocationis ci è giunto grazie a Macrobio. Lo scrittore, per sua stessa ammissione, attinse al quinto libro delle Rerum reconditarum di Sammonico Sereno11, a loro volta debitrici dell’opera di un certo Furio, verosimilmente Lucio Furio Filo, intimo amico di Scipione12. Questi fu forse anche uno degli auctores non specificati in cui Verrio Flacco trovò le notizie sull’evocatio riportate da Plinio13 ed utilizzate presumibilmente anche da Plutarco14 e Sammonico. Si è proposto anche il nome di Cornelio Labeone, esperto di Etrusca disciplina, vissuto nel III sec. d. C.15 Da questo o da altri testi molto probabilmente lo stesso Virgilio conobbe il rito dell’evocatio. Infatti sia il commento di Servio, sia la trattazione più esauriente di Macrobio, hanno come punto di partenza il medesimo passo virgiliano (Aen. II 351-352): Excessere omnes adytis arisque relictis / di, quibus imperium hoc steterat. Il vate mantovano poteva aver certamente rinvenuto un episodio analogo in Omero (ad es. Om. Il. XXII 213), ma non è da escludere una conoscenza più diretta del rito alla luce degli eventi relativi all’assedio di Perugia del 40 a. C., in cui fu con tutta probabilità evocata la
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Cfr.VIII 9, 1, sull’interpretazione delle viscere da parte di un aruspice prima di una battaglia; Dumézil 19742, tr. it.2 369; in part. per un confronto del ritus Romanus con l’extispicina etrusca, cfr. Schilling 1962; Guittard 1998b; Scheid 2007, 266. 11 Sul personaggio, in particolare nell’opera di Macrobio, cfr. Rawson 1973, 169. 12 Cfr. Engelbrecht 1902, 478-479; Münzer 1910b, 360; Basanoff 1947, 4; Guittard 1998b, 62; sulla cronologia, cfr. Peppe 1990. Furio Filo, nonostante l’amicizia con Scipione Emiliano, è però critico nei confronti dell’espansionismo romano, come appare nel III libro del De re publica di Cicerone, in cui si fa portavoce delle critiche di coloro che, come il filosofo Carneade, lo ritenevano contrario alla iustitia: cfr. Fontanella 2007, 143-144. 13 N. h. XXVIII 18; cfr. Köves-Zulauf 1972, 88. 14 Q. R. 61. 15 Guittard 1998b, 64.
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divinità tutelare della città, Iuno Perusina16. Di più, la conoscenza poteva essere di prima mano poiché responsabile dell’evocazione della dea fu Augusto in persona. Anche l’etrusco Mecenate poteva essere ben informato circa lo svolgimento dei fatti, la cui eco e la cui portata, già di per sé notevoli – basti ricordare come molti (antichi e moderni) parlino in proposito di simbolo della fine del nomen Etruscum – potevano rivestire un particolare interesse per Virgilio, orgoglioso della sua romanità ma ben consapevole allo stesso tempo delle origini etrusche della città nei pressi della quale era venuto al mondo17. Non sembra dunque giustificato nutrire eccessivi dubbi sulla storicità dell’evocatio verificatasi a Cartagine al termine della terza guerra punica18, così come è stato fatto tra gli altri dal Wissowa19, seguito da Latte20, Pfister21 e Gabba22, i quali, sulla base della mancanza di tracce del culto di Giunone Celeste a Roma prima di Settimio Severo, ritengono la tradizione sull’evocatio una leggenda tarda23. Anzitutto, Scipione si dimostrò scupoloso osservatore delle tradizioni religiose considerate come autenticamente romane24, avendo in questo campo degli illustri modelli: Lucio Emilio Paolo e Publio Cornelio Scipione, entrambi auguri, il secondo anche membro del collegio dei Salii25. Numerose cerimonie scandirono le varie fasi del conflitto: una delle più importanti fu la cosiddetta devotio hostium, la consecratio della città alle divinità infere26. Nello specifico, anche se le uniche testimonianze della celebrazione di un’evocatio di fronte a Cartagine sono tarde, e manca una menzione in un testimone oculare quale Polibio (la sua narrazione ci è giunta in 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26
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Cfr. Sordi 1993. Aen. X 198 ss.; cfr. Plin. N. h. III 130; Perret 1952, 7-8. Cfr. Picard 1954, 101. Wissowa 19122, 374. Latte 1960, 125, n. 2 e 346, n. 4. Pfister 1966, 1162. Gabba 1990, 233, n. 133. Motivi di perplessità anche in Rawson 1973, 169-172. Cfr. Rawson 1973, 164-166; Berti 1990, 71-72. Cfr. Plut. Aem. 3, 1 ss.; Liv. XL 42, 13; XXXVII 33, 7; Polyb. XXI 13, 10. Cfr. infra.
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frammenti, ma è alla base del testo di Appiano), ben attestata è invece la celebrazione del rito che consentiva di radere al suolo un centro urbano, e ciò era possibile solo se gli dèi lo avevano abbandonato, quasi sempre perché evocati. Vi sono poi ragioni più propriamente linguistiche, legate alle caratteristiche del carmen evocationis, così come ci è stato tramandato da Macrobio27. Per quanto sia stata avanzata la possibilità che esso possa costituire un nuovo assemblaggio da materiale preesistente, comunque antico28, sembra infatti ormai un dato acquisito quello relativo alla sua autenticità e arcaicità29. Carmen è qui inteso nel senso di «formula composta di certe parole ad un certo scopo»30, spesso a carattere ritmico31, anche se il passo successivo alla sfera del vaticinio, ma soprattutto del maleficio (excantatio) è assai breve32. Esso costituiva anzitutto la componente più importante del più complesso rituale dell’evocatio. Macrobio ne fornisce alcune definizioni: mos vetustissimus, Romanus, arcanus, multis ignotus e annoverabile tra gli occultissima sacra33. Si fa riferimento dunque ad un rito ritenuto molto antico, con la componente di indeterminatezza che ciò comporta (arcanus), ma allo stesso tempo con una marcata componente «attiva» di segretezza per evitare che altri ne facessero un uso potenzialmente dannoso, principalmente ai danni della stessa Roma34. Esso è ritenuto inoltre come autenticamente romano. Il carmen era quasi sicuramente custodito dai pontefici. Possiamo affermare ciò in primis per la menzione di una disciplina carminis
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Analisi dettagliata in Ferri 2010a. Versnel 1976, 387. 29 Engelbrecht 1902; Catalano 1965, 25, n. 41; Dumézil 19742, tr. it.2 369-370; Versnel 1976, 379 ss.; Coarelli 1988, 405-406. 30 Per tutti i significati, cfr. LTL s.v. Per vari esempi di carmina, cfr. Appel 1909, 8 ss. 31 Hickson Hahn 2007, 236. 32 Cfr. Fyntikoglou-Voutiras 2005, 154; Hickson Hahn 2007, 236. Sull’excantatio cfr. Basanoff 1947, 34-37; Ernout 1964; Baistrocchi 1987, 251-258; Rives 1995. 33 Sat. III 9, 1-2. Cfr. Orestano 1989, 31-32. 34 Cfr. Montanari 1994, 11; infra, cap. III. 28
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Romani con il quale i Romani evocavano gli dèi dalle città nemiche35. Il termine disciplina ha qui il valore di doctrina, scientia, sapientia, peritia, experientia; può averne anche uno più vincolante di leges civitatis36. Ci si riferisce dunque ai possessori di conoscenze tecniche specifiche in campo religioso, gli stessi che ai primordi della storia di Roma erano competenti anche in campo giuridico37: [ius civile] per multa saecula inter sacra caerimoniasque deorum immortalium abditum solisque pontificibus notum38. La conferma arriva da Plinio, secondo il quale l’evocatio era un sacrum ancora ben conosciuto al suo tempo e custodito in pontificum disciplina39. Il riferimento ai pontefici è rafforzato pure dalla doppia menzione che fa Servio, subito dopo aver parlato dell’evocatio, prima del ius pontificale (e di un rito analogo, l’exauguratio), poi della preghiera rivolta da loro a Giove Ottimo Massimo con la formula precauzionale sive quo alio nomine te appellari volueris (Serv. Ad Aen. II 351) L. Peppe riconosce nel carmen la lingua tipica di fine III sec. prima metà del II sec. a. C. innanzitutto per la grande somiglianza con la preghiera pronunciata da Scipione l’Africano a Lilibeo nel 204 a. C. (Liv. XXIX 27, 2-4): «Divi divaeque», inquit, «qui maria terrasque colitis, vos precor quaesoque, uti, quae in meo imperio gesta sunt geruntur postque gerentur, ea mihi, populo plebique Romanae, sociis nominique Latino, qui populi Romani quique meam sectam, imperium auspiciumque terra mari que secuntur, bene verruncentem eaque vos omnia bene iuvetis, bonis auctibus auxitis; salvos incolumesque victis perduellibus victores, spoliis decoratos, praeda onustos triumphantesque mecum domos reduces sistatis; inimicorum hostiumque ulciscendorum copiam faxitis; quaeque populus Carthaginiensis in civitatem nostram facere molitus est, ea ut mihi populoque Romano in civitatem Carthaginiensium exempla edendi facultatem detis». Quanto a quest’ultima, la datazione è stata effettuata sia sulla base di considerazioni linguistiche (ad es. l’uso del raro verruncare) sia di 35 36 37 38 39
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Serv. Ad Aen. II 244. TLL s.v. Liv. I 20, 5; cfr. North 1990, 563; Crifò 20003, 187 ss. Val. Max. II 5, 2. Plin. N. h. XXVIII 18.
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contenuto, come la presenza del sintagma populus plebesque, il cui unico precedente ricorre nei carmina Marciana. Egli propone quindi di datare il carmen devotionis all’avanzato III sec. e il carmen evocationis tra gli inizi del II sec. e il 146 a. C., sia pure con i possibili ammodernamenti morfologici40. Torniamo agli eventi di Veio. Avendo ricevuto una risposta positiva da parte della dea, tramite un cenno del capo o a voce, la statua di culto fu trasportata a Roma da una schiera di iuvenes di rango equestre ritualmente purificati e preparati a un compito così delicato: questo particolare fa pensare a un rituale trasposto in racconto episodico. In questo episodio è possibile riconoscere inoltre un momento importante del processo che porta la divinità tutelare della città ad abbandonare la sua sede ancestrale. Dopo il primo benestare della dea comunicato per mezzo degli exta, infatti, verosimilmente la riuscita della conquista confermava la sua disposizione positiva41. I Romani pertanto potevano sentire il bisogno di rendere grazie alla divinità direttamente di fronte alla sua statua di culto e contemporaneamente di rivolgerle una richiesta ulteriore per ottenere il permesso di rimuoverne il simulacro. Tutto ciò risulta più evidente nel racconto di Plutarco, che sposta l’accento sull’approccio alla divinità dopo la conquista della città: Camillo – i iuvenes qui appaiono come semplici technitai – solo ora sacrifica e prega la dea di volersi trasferire a Roma42. Lo storico greco corrobora la sua testimonianza appoggiandosi a Livio, che però come abbiamo visto non asserisce affatto che Camillo abbia posto la sua mano sul simulacro e abbia pregato la dea, la cui risposta sarebbe stata comunque confermata dai presenti43. Da Livio dipende Valerio Massimo, il quale non aggiunge alcun particolare degno di nota tranne la confusione dell’appellativo Regina con Matuta, la divinità alla quale in questa occasione fu votato
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Peppe 1990, 336-337. Rüpke 2004, 147. Plut. 6, 1. Plut. 6, 2.
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un secondo tempio o si restaurò il vecchio44. Sempre a proposito della presa di Veio, in Plutarco abbiamo la variante del sacrificio e dell’episodio dell’assenso dato dalla dea tramite la sua statua che hanno luogo dopo la presa della città etrusca45. Un’importante distinzione è quella che fa Festo quando, parlando del trasferimento dei peregrina sacra a Roma46, riferisce l’evocatio specificamente agli episodi bellici, precisamente gli assedi, mentre in tempo di pace i peregrina sacra erano fatti venire ob quasdam religiones, cioè per determinate ragioni d’ordine religioso. Il denominatore comune risiedeva nel fatto che entrambi venivano praticati a Roma allo stesso modo che nel paese dal quale provenivano. Una testimonianza rilevante è anche quella di Servio, dislocata in tre passi del suo commento all’Eneide. Nel primo47 la migliore comprensione del passo di Virgilio è affidata alla menzione di una
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Val. Max. I 8, 3: Captis a Furio Camillo Veiis milites iussu imperatoris simulacrum Iunonis Monetae, quod ibi praecipua religione cultum erat, in urbem translaturi sede sua movere conabantur, quorum ab uno per iocum interrogata dea an Romam migrare vellet, velle se respondit. Hoc voce audita lusus in admirationem versus est, iamque non simulacrum, sed ipsam caelo Iunonem petitam parlare se credentes laeti in ea parte montis Aventini in qua nunc templum eius cernimus, collocaverunt. 45 Plut. Cam. VI, 1-2: Διαπορθήσας δὲ τὴν πόλιν ἔγνω τὸ ἄγαλμα τῆς ῞Ηρας μεταϕέρειν εἰς ῾Ρώμην ὥσπερ ηὔξατο. Κὰι συνελθόντων ἐπὶ τούτῳ τῶν τεχνιτῶν, ὁ μὲν ἔθυε καὶ προσηύχετο τῆ θεῷ δέχεσθαι τὴν προθυμίαν αὐτῶν καὶ εὐμενῆ γενέσθαι σύνοικον τοῖς λαχοῦσι τὴν ῾Ρώμην θεοῖς. Τὸ δ’ἄγαλμά φασιν ὑποφθεγξάμενον εἰπεῖν, ὅτι καὶ βούλεται καὶ συγκατανεῖ. Λιούιος δέ φησιν εὔχεσθαι μὲν τὸν Κάμιλλον ἁπτόμενον τῆς θεοῦ καὶ παρακαλεῖν, ἀποκρίνασθαι δέ τινας τῶν παρόντων, ὄτι καὶ βούλεται καὶ συγκαταινεῖ καὶ συνακολουθεῖ προθύμως. 46 268 L: Peregrina sacra appellantur quae aut evocatis dis in oppugnandis urbibus Romam sunt conlata, aut quae ob quasdam religiones per pacem sunt petita, ut ex Phrygia Matris Magnae, ex Graecia Cereris, Epidauro Aesculapi: quae coluntur eorum more, a quibus sunt accepta. 47 Ad Aen. II 244: INSTAMUS TAMEN subaudiendum “quamquam sonitum dederunt, tamen instamus”. INMEMORES inprovidi, aut non memores oraculorum. Quidam inmemores “dementes” accipiunt, quoniam memoria in mente consistit. Sane si peritiam Vergilii diligenter intendas, secundum disciplinam carminis Romani quo ex urbibus hostium deos ante evocare solebant hoc dixit; erant enim inter cetera carminis verba haec, eique populo civitatique metum, formidinem, oblivionem iniciatis; unde bene intulit inmemores caecique furore, tamquam quos dei perdiderant.
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disciplina relativa al carmen con cui i Romani evocavano gli dèi dalle città; nel secondo48 si precisa che il motivo per cui prima dell’espugnazione delle città se ne evocavano le divinità tutelari era dato dalla volontà di evitare di commettere dei sacrilegi; l’ultimo passo49 ci informa invece di un’exoratio (supplica) durante la seconda guerra punica e, soprattutto, dell’evocatio di Iuno Caelestis che avrebbe avuto luogo alla fine della terza, in occasione della definitiva sottomissione di Cartagine ad opera di Scipione Emiliano (146 a. C.). La fonte più importante ed esauriente relativa all’evocatio è Macrobio50: il rito era un vetustussimus mos e un occultissimum 48
II 351: EXCESSERE quia ante expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia. Inde est quod Romani celatum esse voluerunt in cuius tutela urbs Roma sit, et iure pontificum cautum est ne suis nominibus dii Romani appellarerunt, ne exaugurari possent. Et in Capitolio fuit clipeus consecratus, cui inscriptum erat “genio urbis Romae sive mas sive femina”. Et pontifices ita precabantur: “Iuppiter optime maxime, sive quo alio nomine te appellari volueris”; nam et ipse ait [IV 576] sequimur te, sancte deorum, quisquis es. 49 XII 841: MENTEM LAETATA RETORSIT iste quidem hoc dicit; sed constat bello Punico secundo exoratam Iunonem, tertio vero bello a Scipione sacris quibusdam etiam Romam esse translatam. 50 Sat. III 9, 1-9: “Excessere omnes adytis arisque relictis / di, quibus imperium hoc steterat” et de vetustissimo Romanorum more et de occultissimis sacris vox prolata est. Constat enim omnes urbes in alicuius dei esse in tutela, moremque Romanorum arcanum et multis ignotum fuisse ut, cum obsiderent urbem hostium, eamque iam capi posse confiderent, certo carmine evocarent tutelares deos, quod aut aliter urbem capi posse non crederent, aut etiam, si posse, nefas aestimarent deos habere captivos. Nam propterea ipsi Romani et deum, in cuius tutela urbs Roma est, et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt. Sed dei quidem nomen non nullis antiquorum, licet inter se dissidentium, libris insitum et ideo vetusta persequentibus, quicquid de hoc putatur, innotuit. Alii enim Iovem crediderunt alii Lunam, sunt qui Angeronam, quae digito ad os admoto silentium denuntiat, alii autem quorum fides mihi videtur firmior, Opem Consivam esse dixerunt. Ipsius vero urbis nomen etiam doctissimis ignoratum est, caventibus Romanis, ne quod saepe adversus urbes hostium fecisse se noverant, idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur, si tutelae suae nomen divulgaretur. Sed videndum ne quod non nulli male aestimaverunt nos quoque confundat opinantes uno carmine et evocari ex urbe aliqua deos, et ipsam devotam fieri civitatem. Nam repperi in libro quinto rerum reconditarum Sammonici Sereni utrumque carmen, quod ille se in cuiusdam Furii vetustissimo libro repperisse professus est. Est autem carmen huius modi quo
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sacrum, che aveva luogo poco prima dell’ultimo assalto alla città assediata o perché i Romani ritenevano che altrimenti una conquista non sarebbe stata possibile o in ogni caso per non commettere un sacrilegio. Il rito si rivolgeva alla divinità tutelare della città, e l’autore precisa che tutte le città ne avevano una. Il principale motivo d’interesse del testo è dato dalla formula del carmen evocationis che l’autore asserisce di aver trovato nel testo di Sammonico Sereno, che avrebbe a sua volta attinto da un certo Furio (verosimilmente Lucius Furio Filo, come si è visto poc’anzi): in essa abbiamo la caratteristica formula “preventiva” sive deus sive dea51 al posto del teonimo, il votum di templi e giochi e il sacrificio con la conseguente consultazione degli exta. L’ultima fonte che possediamo, anche e soprattutto in ordine di tempo (75 a. C.), è l’iscrizione52 relativa alla presa di Isaura Vetus, un oppidum della Cilicia. Essa ci ripropone alcuni degli elementi caratteristici già emersi dall’esame delle altre fonti: circostanza la conquista di una città; destinataria la divinità tutelare di essa; votum; formula “preventiva” al posto del teonimo (in questo caso con grafia “arcaizzante”).
di evocantur cum oppugnatione civitas cingitur: “Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor venerorque veniamque a vobis peto, ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, loca templa sacra urbemque relinquatis, absque his abeatis, eique populo civitati metum formidinem oblivionem iniciatis, proditique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique populo Romano militibusque meis propitii sitis, ut sciamus intellegamusque. Si ita feceritis, voveo vobis templa ludosque facturum”. In eadem verba hostias fieri oportet auctoritatemque videri extorum, ut ea promittant futura. 51 Per la formula sive deus sive dea e le altre affini, cfr. Dumézil 19742, tr. 2 it. 53-56; Alvar 1985; Guittard 2002; Ferri 2006, 216-222; Ferri 2010a. 52 Serveilius C(aii) f(ilius) imperator, / hostibus victeis, Isaura Vetere / capta, captiveis venum dateis, / sei deus seive deast, quoius in / tutela oppidum vetus Isaura / fuit, [x] votum solvit: in Hall 1973; cfr. Le Gall 1976; Ferri 2010c.
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Le evocationes sulla cui esistenza possiamo pronunciarci con certezza sono quelle di Iuno Regina da Veio (396 a. C.), di Iuno Caelestis da Cartagine (146 a. C.) e della divinità tutelare di Isaura Vetus dalla sua città (75 a. C.); alla luce delle nostre conoscenze attuali solo verosimili sono quelle di Iuno Curitis da Falerii (241 a. C.) e di Vortumnus-Voltumna da Volsinii (265 a. C.)53 La celebrazione del rito aveva luogo poco prima che l’esercito sferrasse l’ultimo assalto alle mura, quando ormai la vittoria appariva certa54. La distinzione protettori-protetti, per cui la guerra non era mai «totale», bensì distingueva attentamente tra inquilini divini e umani del luogo da conquistare55, riflette il tipico atteggiamento religioso romano che «da una parte qualifica particolarmente questa religione, il cui carattere “tollerante” viene troppo facilmente collegato alla sua natura “nazionale”; e dall’altra costituisce l’espressione culminante di quella che può ben dirsi “l’ispirazione religiosa dell’imperialismo romano”, inteso però nella sua essenza di perenne superamento delle frontiere etniche»56. Quanto al termine evocatio, il sostantivo nella tradizione è presente in verità solo in Macrobio57, mentre nelle altre fonti troviamo esclusivamente la forma verbale evocare. Proprio una così scarsa attestazione del termine ha portato A. Blomart a sostenere che sarebbe preferibile parlare di «divinità evocate», piuttosto che di una «pratica dell’evocatio»58. Lo scopo principale alla base della celebrazione del rito era di ottenere il sostegno della divinità alla causa di Roma e, insieme con esso, il permesso di conquistare la città protetta, scansando il peri53
Ferri 2009b; Ferri 2010a. Macr. Sat. III 9, 2; Liv. V 21, 1; cfr. Dumézil 1985, 139. Plin. N. h. XXVIII 18 afferma invece che il rito aveva luogo ante omnia. 55 Cfr. Basanoff 1947, 141 ss. 56 Catalano 1965, 26-27. L’esempio più indicativo circa il carattere sovrannazionale della dinamica imperiale romana si ha nel discorso di Claudio del 48 d. C., conservato in parte nella Tavola di Lione, per cui cfr. Giardina 1997. 57 Sat. III 9, 5: ...idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur… 58 Blomart 1997, 100, n. 14; anche Rüpke 1990, 162, preferisce intitolare il paragrafo dedicato all’evocatio “deos evocare”. 54
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colo di commettere un sacrilegio col mantenere l’ostilità del dio del luogo59, senza il cui appoggio – o la cui neutralità60 – la conquista sarebbe stata praticamente impossibile61. Non è possibile infatti postulare in alcun modo che i Romani potessero ignorare l’ostilità di una divinità, ed evocarla o semplicemente spostarne la statua di culto senza averne ricercato il consenso. È il caso della divinità che spesso si cita per sostenere la possibilità di «catturare» un dio malgrado la sua volontà contraria: Minerva Capta. Pur non essendo la divinità tutelare di Falerii Veteres – ruolo spettante propriamente a Iuno Curitis62 – nello stesso anno della probabile evocazione di quest’ultima, il 241 a. C., essa, teste Ovidio63 fu portata a Roma. Va escluso però che si abbia a che fare con il caso di una divinità «prigioniera», e che dunque l’epiteto «Capta» le derivi da un’azione ostile da parte dei Romani. Contro questa interpretazione, di per sé linguisticamente ineccepibile, contrasta fondamentalmente la considerazione che il concetto di una divinità prigioniera costituirebbe un unicum nella storia antica. Tale concezione è da escludere a maggior ragione in riferimento ai Romani, ad un popolo cioè che vedeva nella sottomissione agli dèi il motivo principale del proprio successo64. Se fosse stato possibile
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Macr. Sat. III 9, 2; Serv. Ad Aen. II 351. Rüpke 1990, 164: «Untätigkeit». 61 Macr. Sat. III 9, 2; cfr. Rüpke 1990, 162; Gladigow 1992, 16. 62 Per un’esauriente ricognizione di entrambe le divinità e del loro culto a Falerii si rimanda a Ferri 2010a. 63 III 835-848: Caelus ex alto qua mons descendit in aequum, / hic, ubi non plana est, sed prope plana via, / parva licet videas Captae delubra Minervae, / quae dea natali coepit habere suo. / Nominis in dubio causa est. Capitale vocamus / ingenium sollers: ingeniosa dea est. / An quia de capitis fertur sine matre paterni / vertice cum clipeo prosiluisse suo? / An quia perdomitis ad nos captiva Faliscis / venit? et hoc signo littera prisca docet. / An quod habet legem, capitis quae prendere poenas / ex illo iubeat furta recepta loco? / A quacumque trahis ratione vocabula, Pallas, / pro ducibus nostris aegida semper habe! Cfr. LTL, s.v. 64 Hor. Carm. III 6, 5: Dis te minorem quod geris, imperas. L’essenza della pietas è il riconoscimento dell’assoluta superiorità della natura divina; cfr. Cic. 60
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prendere prigioniero un dio insieme alla sua statua, inoltre, non si vede perché delle decine di divinità «prese» solo una sarebbe dovuta essere caratterizzata da un epiteto allusivo ad un siffatto status. È più probabile che la Minerva di Falerii avesse già l’epiteto che la caratterizzava. Resta pertanto da capire come essa lo abbia ricevuto. In proposito, abbiamo creduto di poterne attribuire l’origine sì ad una «cattura», ma di tutt’altro tipo, e nient’affatto di carattere ostile, bensì propriamente religioso. Rimandando ad altra sede per una più dettagliata dimostrazione65, è possibile che Minerva a Falerii potesse essere già da tempo «avvinta» da catene o legami di altra sorta, secondo un uso ben attestato nel mondo greco e nel Vicino Oriente, come ad esempio Artemide ad Efeso, Era a Samo e Apollo a Tiro66; soprattutto la supposta origine argiva dei Falisci farebbe pensare all’assunzione di un uso più propriamente dorico, come attestano i casi dell’Artemide Orthia Lygodesma di Sparta e dell’Artemide Lyaia di Siracusa67. Le statue di culto erano legate per più motivi: per limitare o quantomeno tenere sotto controllo divinità considerate pericolose; per «liberare» la loro benevolenza in occasione della festa annuale loro dedicata68, comprendente spesso anche una processione; oppure, infine, per il timore che il dio potesse abbandonare i propri protetti69, anche a seguito di un’evocatio70: stesso principio per cui la Nike di Atene era rappresentata senz’ali, a significare che non avreb-
De nat. deor. I 45: praestans deorum natura hominum pietate coleretur; ibid. I 56: pie sancteque colimus naturam excellentem atque praestantem. 65 Ferri 2010a. 66 Su quest’ultimo, cfr. Diod. XVII 41, 7-8; Plut. Q. R. 61. Sull’argomento cfr. in generale Meuli 1975; Icard-Gianolio 2004, 468-471. Non mancano dei casi nella stessa Roma: la statua di Saturno legata da corde di lana (Macr. Sat. I 8, 5; Stat. Silv. I 6, 4; su Saturno, cfr. Brelich 19762, 83 ss.; sui Saturnalia, Sabbatucci 1988, 344-355); l’incatenamento del Palladio da parte di Elagabalo (HA III 4); la rappresentazione della Tyche di Costantinopoli avvinta da catene (Fonti in Meuli 1975, 1081). 67 Meuli 1975, 1044 ss. 68 Meuli 1975, 1043. 69 Schol. Pind. Ol. VII 95. Cfr. Ziehen 1949, 186. 70 Schwenn 1920-1921, 317; Meuli 1975, 1077.
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be mai dovuto abbandonare la città71. Probabilmente furono queste rappresentazioni ad influire sul mito, non viceversa72. Mantenere il risentimento di una divinità, inoltre, avrebbe comportato il rischio di turbare la tanto preziosa pax deorum, che i Romani si peritavano con cura e scrupolosità di conservare, anche in tempo di guerra. Quest’ultima, infatti, doveva essere necessariamente un bellum iustum per essere combattuta senza conseguenze sul piano divino e a ciò contribuivano in prima istanza i sacerdoti, come i fetiales73. Con l’abbandono della sua protezione divina, insieme ai sacra ad essa connessi, la città era di fatto «desacralizzata»74. È probabile che sia questo il presupposto di alcune testimonianze che, in apparenza, potrebbero far pensare invece ad una scarsa considerazione dei Romani per le entità divine locali75. La principale è quella per cui con la conquista tutti i loca sacra et religiosa cessavano di essere tali76: secondo la concezione romana, tuttavia, ciò è avvenuto proprio perché è venuta a mancare la protezione divina, e con essa il rischio di infrangere la pax deorum. Occasionalmente, dunque, i Romani potevano esibire disprezzo durante la conquista delle città, non solo delle vite umane, ma anche degli oggetti e degli edifici sacri77. Ciò tuttavia solo se si riteneva che il dio non vi avesse più nulla a che fare: si veda come, ancora nel IV secolo, Libanio lamenti in che modo la distruzione dei templi ancora “abitati” costituisse un enorme sacrilegio e privasse le campagne della propria «anima»78.
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Paus. III 15, 7. Schwenn 1920-1921, 319. 73 Le Bonniec 1969, 103; Rüpke 1990, 129, 147-151; North 1990, 571; Ferri 2010a, introduzione. 74 Verg. Aen. II 351-352; Serv. Ad Aen. II 351; Macr. Sat. III 9, 1 ss.; Hubaux 1958, 194; Le Gall 1976, 522. 75 Cfr. Dumézil 19742, tr. it.2 371-374; Rüpke 1990, 162; escluderei tuttavia tra queste motivazioni il caso appena citato di Minerva Capta. 76 Cfr. ad es. Dig. XI 7, 36. 77 Tac. Ann. I 51: Non sexus, non aetas miserationem attulit: profana simul et sacra et celeberrimum illis gentibus templum quod Tanfanae vocabant solo aequantur. 78 Lib. Or. 30 9; 42 ss. 72
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Ma vi erano anche altre ragioni alla base della pratica del rito. Così come il salvataggio dei sacra equivaleva al salvataggio della città stessa, come era accaduto per Roma medesima, «nuova Troia» (ri)sorta dai Penati salvati da Enea, o prima della battaglia di Salamina con la messa al sicuro della statua lignea di Atena, o, ancora, in occasione del sacco dei Galli con il trasferimento dei sacra e delle Vestali a Caere ad opera di Lucio Albinio, col privare la città conquistata del suo nucleo sacrale, quello da cui essa si sarebbe potuta continuamente rinnovare, si otteneva allo stesso tempo sia la vera e propria conquista della città sia di aumentare il «potere» divino dalla parte dei Romani79. Di più, è presumibile che l’evocatio avesse un grande effetto psicologico sull’esercito, motivandolo, dissipando qualsivoglia dubbio di poter incorrere nella collera divina, e lasciando dunque l’onere della conquista alle sole armi80. Queste ultime, comunque, a loro volta avevano già avuto modo di dare una chiara dimostrazione di potenza al dio, spesso spinto a favorire il più forte in battaglia, secondo una concezione diffusa nei popoli a spiccata vocazione bellica81. Infine, com’è naturale, un grande peso esercitavano le motivazioni di natura più squisitamente politica, soprattutto per le conseguenze che la celebrazione del rito comportava in termini di propaganda: allo straniero giunto nell’Urbe l’impressionante spettacolo delle decine di templi, sacelli e altari dava un segno tangibile di quanto non solo la forza delle armi, ma gli dèi stessi sostenessero la causa romana82. La consuetudine politico-religiosa romana di accogliere entità divine di paesi conquistati produceva un’amplificazione del proprio politeismo con effetto di unificazione politico-religiosa83, ma poteva indurre anche a considerazioni più scherzose, come quella della
79 Rohde 1963, 195; Pfister 1966, 1162; Funke 1981, 729 ss.; cfr. Sordi 1960, 49-52. 80 Alvar 1984, 145. 81 Rohde 1963, 195. 82 Cfr. Van Doren 1954, 497; Rohde 1963, 191-192, 196; Stambaugh 1978, 583-585. 83 Lanternari 2005, 10-11.
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Quartilla petroniana: Utique nostra regio tam praesentibus plena est numinibus, ut facilius possis deum quam hominem invenire!84 Oltre alle statue, poi, i templi custodivano pure numerose reliquie85. Ancora più profonda doveva farsi quella convinzione col riscontrare quante divinità straniere avessero “scelto” di dare il proprio appoggio soprannaturale ai Romani, alcune di queste a seguito di un’evocazione. La conseguenza era di certo il pensiero che la grandezza di Roma, più che per i meriti militari, fosse voluta dagli dèi medesimi: persuasi, Romulum auspiciis Numam sacris constitutis fundamenta iecisse nostrae civitatis, quae numquam profecto sine summa placatione deorum immortalium tanta esse potuisse 86. I Romani, pur rimanendo sempre fedeli alle proprie divinità87, allo stesso modo adoravano quelle di altre popoli, ricercandone sempre di nuove: dum undique hospites deos quaerunt et suos faciunt88. È anche accogliendo tutti i culti che essi pensavano di aver meritato la sovranità sul mondo89. A ben vedere, si potrebbe dire addirittura che la quasi totalità dei culti romani, con la sola possibile eccezione dei Penati portati da Troia, fu in realtà presa da altri popoli90. La considerazione di questa pietas «universale» sarà anche funzionale alla costruzione del concetto di Impero «ecumenico», che conferiva diritto di cittadinanza a dèi e uomini nella grande patria dell’orbis Romanus91. Gli autori cristiani ovviamente rovesceranno questa prospettiva in chiave polemica: Tertulliano negava che gli dèi importati da altre città – emblematicamente definiti numina victa da Minucio Felice92 – potessero essere messi in relazione con la gran84
Petr. Sat. 17 5. Stambaugh 1978, 586-587. 86 Cic. De nat. deor. III 5; cfr. Cic. Cat. III 19; Ael. Arist. A Roma 104; Fontanella 2007, 153. 87 Cic. Pro Flacco 69: sua cuique civitati religio, Laeli, est, nostra nobis. 88 Min. Fel. Oct. VI 3. 89 Ibid. VI 2-3. 90 Orlin 1997, 14. Sul riflesso dell’origine troiana sul piano sociale, cfr. Giardina 1997, 62 ss. 91 Turcan 1994, 31; cfr. North 1976, 11. 92 Oct. VI 3. 85
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dezza di Roma, visto che non erano stati capaci di difendere il proprio popolo. Egli asseriva inoltre che l’Impero era il risultato non della religiosità, bensì del suo opposto, la mancanza di scrupoli93. Un modello «mitico» dell’evocatio è il ratto del Palladio, senza il possesso del quale i Greci non avrebbero potuto conquistare Troia: il racconto dell’impresa compiuta da Ulisse e Diomede si trova nella c. d. Piccola Iliade94. La valenza del Palladio è accostabile anche alla difesa adottata dai Romani per non subire a loro volta un’evocazione: tenere scrupolosamente nascosto il nome della divinità tutelare segreta di Roma o del nome occulto della città stessa95. Vi è quindi una valenza «passiva» del rito insieme alla valenza propriamente «attiva» per cui si può parlare anche di volta in volta di «precauzione» o di «arma» a seconda della prospettiva in cui esso veniva celebrato96. Il rito è stato pure verosimilmente fonte d’ispirazione per diversi autori latini, soprattutto in età augustea, con un insistito e non casuale riferimento a Giunone97. Nell’evocatio è infatti in primissimo piano una divinità particolare: la divinità tutelare della città, ruolo che la consorte e sorella di Giove si trovò a rivestire spesso. Nella dialettica religiosa che si instaura al momento della conquista tale divinità gioca un ruolo estremamente rilevante per il suo peculiare legame con il luogo oggetto delle mire di conquista romane, legame che, di per sé già importante, in questa fase diventa centrale98. Secondo modalità che avremo modo di approfondire, si riteneva che
93 Cfr. Tert. Ad nat. II 17; Apol. XXV 15; cfr. Ambr. Ep. XVIII 30: Si ritus veteres delectabant, cur in alienos ritus eadem Roma successit? […] Quid, ut de ipso respondeam quod queruntur, captarum simulacra urbium, victosque deos, et peregrinos ritus, sacrorum alienae superstitionis aemuli, receperunt?; Aug. De civ. Dei I 2 ss.; Firm. Mat. De err. XV 3; Barnard 1990; Ames 2007. 94 Cfr. Schwenn 1920-1921, 317; Dumézil 1982; Briquel 1993 179-180; Burkert 2005, 273; cfr. anche Bruun 1972, 116, sull’evocatio come «mito». 95 Cfr. infra, cap. III. 96 Bruun 1972, 109; Rüpke 1990, 155 ss. 97 Sull’argomento in particolare e in generale su Giunone, cfr. Cousin 1943; Boyancé 1963, 35-36; Bloch 1972; Sordi 1972, 788; Bloch 1976; DuryMoayers - Renard 1981; Weigel 1982-1983; Feeney 1984; Della Corte 1985; Dumézil 1985, 143; Formicola 2005, 23 ss.; Ferri 2010a. 98 Rupke 1990, 120, 163; Ferri 2008, 44.
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questa tipologia di dèi dimorasse dall’inizio nel posto in cui era sorta la città e che anzi questa fosse nata grazie anche al suo benestare, oppure che fin da tempo immemorabile un dio avesse assunto la protezione del luogo con tutto quanto esso conteneva99. Una rappresentazione visiva efficace e diffusa in età ellenistica mostra queste divinità con la corona turrita, simbolo inequivocabile del confine materiale della città che esse contribuivano a difendere, o più semplicemente armate100.
2. Peregrina sacra L’importazione di culti stranieri, così come l’istituzione di nuovi, era considerata parte del mos maiorum, conformemente alle parole che Livio fa dire a Camillo all’indomani dell’incendio gallico: At etiam, tamquam veterum religionum memores, et peregrinos deos transtulimus Romam et instituimus novos101. Tale assunzione si poteva realizzare in vari modi, ripartiti in due contesti fondamentali, bellico e pacifico, secondo la distinzione effettuata da Festo: «sono chiamati peregrina sacra quelli portati a Roma dopo l’evocazione degli dèi durante gli assedi delle città, o quelli fatti venire a Roma in tempo di pace per determinate ragioni d’ordine religioso, come dalla Frigia quello della Grande Madre, dalla Grecia quello di Cerere, da Epidauro quello di Esculapio: essi vengono praticati nel modo di coloro, dai quali sono stati adottati»102. 99
Cfr. in generale Ferri 2010a. Per un esempio più “attuale” si pensi alla personificazione dell’Italia, rappresentata secondo questo modello, anche a significare la caratteristica politica principe della Penisola, da sempre terra di città, che le mura della corona servono appunto efficacemente a simboleggiare. 101 Liv. V 52, 10. Cfr. Catalano 1965, 23-24: «Nulla, nelle concezioni giuridico-religiose romane, impediva di rivestire di forme solenni atti giuridicoreligiosi che riguardassero divinità, persone, luoghi stranieri». Per un glossario delle parole relative ai trasferimenti cultuali, cfr. Blomart 1997, 103, n. 33. 102 Paul. Fest. 268 L: Peregrina sacra appellantur quae aut evocatis dis in oppugnandis urbibus Romam sunt conlata, aut quae ob quasdam religiones per pacem sunt petita, ut ex Phrygia Matris Magnae, ex Graecia Cereris, Epidauro 100
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L’espressione peregrina sacra si riferisce ad una categoria ben definita di dèi stranieri, che Festo distingue in due gruppi a seconda del contesto nel quale è avvenuto il trasferimento dei sacra: bellico, tramite un’evocatio, e pacifico, per determinate ragioni di ordine religioso. Tale motivo di distinzione non sembra però essere sempre sufficiente, e il per pacem sembra essere stato aggiunto solo in opposizione alla situazione in cui, stando alle fonti, veniva praticata normalmente l’evocatio, cioè in guerra. Il caso della Mater Magna, ad esempio, è legato indissolubilmente a vicende belliche: i Libri Sibillini indicarono l’accoglimento della dea frigia a Roma come rimedio alla situazione critica del 205 a. C.103 Secondo il Geiger il motivo di questa differenza consisterebbe nella minore o maggiore distanza del culto delle divinità assunte a Roma da quello destinato alle divinità statali: la seconda categoria comprenderebbe divinità extra-italiche adorate in modo diverso dal cerimoniale romano-italico104. Questa distinzione, tuttavia, non appare soddisfacente dato che, ad esempio, l’evocatio era praticata anche nei confronti di divinità non italiche105, e che i culti assunti passavano comunque attraverso il filtro del collegio dei pontefici, che provvedevano ad adattare il culto straniero al sistema religioso romano. A questo proposito, se la causa principale dell’assunzione di un culto straniero in tempo di guerra era costituita dall’evocatio106, in tempo di pace lo stesso valeva tendenzialmente (ma non esclusivamente) per i libri Sibyllini107. Non a caso, tutti gli esempi addotti da
Aesculapi: quae coluntur eorum more, a quibus sunt accepta. Sulle formule e le pratiche per importare gli dèi a Roma e in Grecia, cfr. Fustel de Coulanges 192328, 176-177. 103 Liv. XXIX 10, 4-5: Civitatem eo tempore repens religio invaserat invento carmine in libris Sibyllinis propter crebrius eo anno de caelo lapidatum inspectis, quandoque hostis alienigena terra Italiae bellum intulisset, eum pelli Italia vincique posse, si Mater Idaea a Pessinunte Romam advecta foret. 104 Geiger 1920, 1664. 105 Cfr. Hall 1973; Ferri 2009c; Ferri 2010c. 106 Non è pertanto in alcun modo condivisibile la posizione di Blomart 1997, che estende di fatto la definizione di evocatio a qualunque spostamento, concreto o solo giuridico, di divinità, nazionali o straniere, in pace e in guerra. 107 Su questi ultimi in generale, cfr. Santi 2008.
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Festo in proposito (Cibele, Cerere ed Esculapio) si riferiscono alla consultazione di essi. Oltre che dalla situazione contingente, tuttavia, era anche la causa a fare la differenza. Nel caso dell’evocazione possiamo parlare di causa «attiva» ed «esterna»: ci troviamo cioè nella fase della conquista, voluta e perseguita attivamente, contro un nemico straniero; quanto ai libri, la causa diventa «passiva» e «interna», nel senso che si deve far fronte ad una crisi improvvisa, non desiderata, potenzialmente dannosa, che ha avuto luogo entro i confini del territorio romano108. In entrambe le occorrenze, il nuovo culto era «necessario», ai fini della conquista da una parte, ai fini della risoluzione del momento di crisi dall’altra. Inoltre, comune era l’istituzione che apriva e chiudeva il processo di acquisizione del culto straniero, il Senato: quanto all’evocatio, esso evidentemente conferiva il nulla osta al generale cum imperio per procedere a celebrare il rito, qualora lo avesse ritenuto necessario109, insieme ad un sacerdote, che poteva essere un pontifex (se le due cariche non erano ricoperte dalla stessa persona)110; i Libri Sibillini, invece, erano consultati solo dopo che il venerando consesso aveva riconosciuto il prodigium come tale e aveva convocato i viri sacris faciundis111. Si può dunque forse parlare di «complementarità» tra decemviri e pontefici, come ha rilevato Sabbatucci112, ma con una certa cautela, limitatamente alle differenti cause e ai diversi contesti, in cui tuttavia i due collegi non rivestono la medesima importanza, visto che spetta sempre e solo ai pontifices il compito di normalizzare, adattare e fissare il nuovo culto nel tempo e nello spazio romani. 108
Cfr. in generale infra, cap. V. Camillo prima di partire per Veio pronuncia il votum ex senatus consulto (Liv. V 19, 6); manda una lettera al senato per la questione del bottino prima di procedere all’assalto alla città cum iam in manibus victoriam esset, urbem opulentissimam capi (Liv. V 20, 1): cfr. Macr. Sat. III 9, 2 [scil. Romani] cum obsiderent urbem hostium, eamque iam capi posse confiderent, certo carmine evocarent tutelares deos. Cfr. Orlin 1997, 63. 110 Come nel caso della presa di Isaura Vetus: cfr. Ferri 2010c. 111 Cfr. Orlin 1997, 61 ss. 112 Sabbatucci 1988a, 19. 109
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Entrambi presiedono all’accoglimento di culti «forestieri», ma l’applicazione dell’interpretatio Romana è sempre appannaggio dei pontefici: [scil. Numa] cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur113. Essi si riservavano un certo margine di libertà nella fissazione del nuovo culto: basti pensare al caso di Giunone Regina, in cui il culto, originariamente gentilizio, fu affidato a Roma a dei iuvenes114. Va ricordato anche ciò che accadde all’indomani della conquista di Capua, nel 211 a. C.: i Romani ammassarono un’ingente quantità di statue e la portarono a Roma; fu poi compito dei pontefici determinare quali dei simulacri fossero venerabili oggetti di culto e quali semplici rappresentazioni plastiche115. Al termine del processo di «romanizzazione» e fissazione delle caratteristiche del culto, vi era la ratifica ufficiale del Senato: ne quis templum aramve iniussu senatus aut tribunorum plebis partis maioris dedicaret116. Le divinità evocate, per quanto riconosciute a Roma come divinità ufficiali, rimanevano separate dalle altre divinità straniere entrate a far parte del pantheon romano per altre ragioni (come quelle economiche)117: solo esse, per quanto riguarda l’Italia, erano classificate come peregrina sacra delle città nemiche conquistate. I culti delle città prese senza un’evocatio potevano rimanere sul luogo118, o, se portate a Roma, erano talvolta oggetto solo di un culto privato119.
113
Liv. I 20, 6; cfr. Brelich 1966, 228-229. Non concordiamo dunque con Bouché-Leclercq 1907, 573, secondo cui i pontefici limiteranno al suolo italico la loro competenza in merito alle importazioni di culti, demandando ai Xviri s. f. il compito di occuparsi di quelli provenienti da fuori. 114 Van Doren 1954, 491-494; infra. 115 Liv. XXVI 34, 12: Signa statuas aeneas quae capta de hostibus dicerentur, quae eorum sacra ac profana essent ad pontificum collegium reiecerunt. 116 Liv. IX 46; cfr. Tert. Apol. 5; Preller 1978, 138. 117 Cfr. Merlin 1906, 140 ss. 118 Secondo Bouché-Leclercq 1907, 573, ciò accadeva sempre. 119 Arnob. III 38: Cincius pronunciat solere Romanos religiones urbium superatarum partim privatim per familias spargere, partim publice consecrare.
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Le divinità evocate invece venivano solitamente portate a Roma120, dove ricevevano, conformemente al votum solenne presente nel carmen evocationis, un culto pubblico e un tempio, ma al di fuori del pomerium121. J. Le Gall ritiene che un’alternativa alla costruzione di un tempio a Roma potesse essere il culto nel tempio del dio cui la divinità evocata era stata assimilata122. Tutto ciò non implica comunque che: 1) il culto della divinità scomparisse dal luogo di provenienza: tale convinzione erronea deriva dalla pratica usuale di rimuovere la statua di culto dalla città conquistata, ma, ancor di più, da una semplicistica equazione evocatio = distruzione della città di cui abbiamo in realtà una sola testimonianza, quella di Macrobio sull’evocatio della Caelestis di Cartagine (Sat. III 9), evocatio seguita da una cosiddetta devotio hostium. Poteva benissimo accadere che dopo un’evocatio il culto potesse continuare sul luogo d’origine, anche se ridotto da «centro» a «succursale» del culto stesso123. 2) Le statue delle divinità evocate fossero trasportate tutte a Roma: Blomart, ad esempio, adduce quale possibile discriminante lo status giuridico della città successivo alla conquista, per cui se questa diventava municipium romano, quindi territorio romano, il dio poteva continuare a dimorare in loco124. Sia G. Wissowa che M. Humbert parlano tra l’altro di «distruzione giuridica» conseguente all’evocatio125.
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Sempre, secondo Van Doren 1954, 490. Bouché-Leclercq 1907, 573. Catalano 1978, 543-544, circoscrive l’impossibilità di introdurre divinità entro il pomerio alle divinità non italiche. 122 Le Gall 1976, 523. Egli adduce l’esempio della Tanit di Cartagine, che avrebbe ricevuto un culto nel tempio di Giunone Regina sull’Aventino, finché il suo culto non fu importato ufficialmente a Roma da Elagabalo: sulla dea, cfr. Ferri 2009c. 123 Eisenhut 1963, 1328; Le Gall 1976, 524 n. 18. 124 Blomart 1997, 103. Sul controllo romano cfr. Tac. Ann. III 71, 1; Paul. Fest. 146 L. 125 Wissowa 19122, 48 e 520; Humbert 1978, 307. 121
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Nel testo di Festo non viene detto in che modo fosse tributato a Roma il culto alle divinità evocate. Plinio asserisce al riguardo solo che i Romani con l’evocatio promettevano alle divinità tutelari un culto uguale o più grandioso a Roma126. Al contrario, siamo edotti a sufficienza sul quae coluntur eorum more, a quibus sunt accepta dell’altro gruppo: Valerio Massimo afferma ad esempio che i Romani fecero venire da Elea una sacerdotessa di Cerere (Callifana o Callifena), anche se quella città non era ancora una civitas foederata, per adorare la dea conformemente ai riti greci originari127. Cicerone rileva enfaticamente come il carattere peculiare del culto non risiedesse solo nel fatto che esso fosse stato importato dalla Grecia, ma anche che fosse officiato da sacerdotesse greche, affermando inoltre che i Romani conferirono a queste sacerdotesse la cittadinanza romana proprio perché il culto era rivolto ai cives (Callifana fu la prima a riceverla, nel 98 a. C.)128 In ogni caso, è sicuro che il culto a Roma perdesse in modo più o meno sostanziale le sue caratteristiche originarie, tanto più che il carmen non era molto specifico in materia. Come si è detto, la definizione del culto a Roma era appannaggio del collegio dei pontefici: è plausibile che, conformemente alla libertà di movimento che si erano riservati con la promessa del carmen evocationis, non ci fosse uno stringente bisogno di osservare e mantenere il significato e i culti originari degli dèi evocati nel momento in cui questi erano accolti ufficialmente a Roma129. Le divinità evocate, inoltre, perdevano certamente l’importanza che avevano nel loro luogo di provenienza: oltre al fatto di rimanere in misura variabile delle “straniere” a Roma, non si può escludere che, con l’assenso ad essere evocate, esse avessero in qualche modo negato la propria essenza, con la conseguenza di un «abbassamento di status»130.
126 127 128 129 130
N. h. XXVIII 18: eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Val. Max. I 1, 1. Pro Balbo 55. Van Doren 1954, 493-494. Rüpke 1990, 163. Cfr. Min. Fel. Oct. XXV 6 ss.
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Una distinzione può essere offerta anche dalla collocazione del tempio di una divinità certamente evocata (Giunone Regina), di un’altra che quasi certamente subì la stessa sorte131, ma più in generale sede di numerose divinità straniere, vale a dire l’Aventino132. Esso ebbe sempre una carattere di «alterità» e «marginalità»: isolato dagli altri colli133 e di difficile accesso a causa della zona che lo separava dal Palatino134, secondo una tradizione diffusa sarebbe stato la sede dell’augurium di Remo che vi sarebbe anche stato sepolto135; Anco Marcio lo aggiunse alla città e lo popolò con i profughi di Tellene, Politorio e altre città venute in suo possesso136. In età storica fu lo scenario delle lotte tra patrizi e plebei, che ivi attuarono la celebre secessione, installarono il tempio della propria triade (Cerere, Libero e Libera) e, a seguito della lex Icilia de Aventino publicando del 456 a. C., ottennero il permesso di edificare case (oltre alla restituzione delle terre in precedenza occupate abusivamente)137. Il colle da pagus agricolo divenne quindi un quartiere plebeo dallo spiccato carattere mercantile138. Caratteristico in questo senso il culto tributato a Minerva nel tempio adiacente a quello di Diana dagli artigiani e successivamente dagli attori e dagli scribi139. Il colle perse tali caratteristiche in età imperiale, in cui si trasformò in quartiere aristocratico140. L’Aventino si trovava al di fuori del pomerium e costituiva appunto uno dei luoghi privilegiati per l’erezione degli edifici sacri votati a divinità straniere141. Già da lungo tempo vi si trovava il tempio de-
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Voltumna: cfr. Ferri 2009b. In generale, cfr. Merlin 1906; Andreussi 1993. 133 Strab. V 3, 7. 134 Varr. De l. L. V 43; Ov. Fasti II 391-392; Tib. II 5, 33-34. 135 Liv. I 6, 4; Ov. Fasti IV 811-818; Flor. Epit. I 1, 6; Serv. Ad Aen. VI 770; Dion. Hal. I 87, 3; Plut. Rom. 9 e 11; Carafa - D’Alessio 2006, 387-401. 136 Cic. De rep. II 18; Liv. I 33, 1. 137 Liv. III 31, 1; 32, 7; Dion. Hal. X 31, 1; 32, 1. 138 Cfr. Merlin 1906, 69-91; Coarelli 1997, 215-218. 139 Fest. 446 L; Andreussi 1993, 149. 140 Cfr. Coarelli 20033, 411. 141 Merlin 1906, 53-68; Catalano, 1978, 543-544; Andreussi 1993, 149 132
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dicato a Diana142, il più antico e il più importante costruito sul colle – detto perciò anche collis Dianae143, ma anche il luogo caratterizzava a sua volta la dea come Aventina o Aventinensis144– e risalente secondo la tradizione nientemeno che a Servio Tullio (altra caratteristica di “marginalità”: il re, figlio di una schiava, volle che il tempio ricevesse un culto particolarmente dagli schiavi, che il 13 agosto, detto anche dies servorum, non dovevano lavorare)145. Il re etrusco prese a modello il tempio di Artemide ad Efeso, santuario federale delle popolazioni ioniche146. Al suo interno era inoltre conservata le stele con il testo della lex Icilia147 e del patto tra Roma e le città latine148 (nell’area del santuario era probabilmente contenuto anche il testo di una lex arae Dianae che serviva da modello di regolamento per altri culti)149. Vi era inoltre il già citato tempio dedicato a Iuno Regina, risalente al 392/391 a. C.
3. Statue “parlanti” e politica Le divinità spesso comunicavano la loro volontà per mezzo del loro simulacro: le statue parlanti, a prima vista un fatto “folkloristico”, hanno in realtà rivestito una grande importanza politica. I Romani trovarono in queste rappresentazioni un mezzo adatto per nascondere la loro reale politica espansionistica nell’ambito dei trasferimenti ufficiali dei culti. Quest’idea era diffusa nella letteratura di età augustea e nelle rappresentazioni teatrali: erano gli dèi stessi che chiedevano di essere portati a Roma150.
142 In generale sul tempio, cfr. Merlin 1906, 203-226; Alföldi 1961; Vendittelli 1995. 143 Mart. VII 73, 1; XII 18, 3. 144 Fest. 164 L; Val. Max. VII 3, 1; Prop. IV 8, 29; Mart. VI 64, 13. 145 Fest. 432 L; Plut. Q. R. 100; Wissowa 19122, 350; Scullard 1981, 174. 146 Varr. De l. L. V 43; Liv. I 45, 2-6; Dion. Hal. IV 26. 147 Dion. Hal. X 32; Liv. III 31. 148 Dion. Hal. IV 26. 149 CIL III 1933; XI 361; XII 4333. 150 Cfr. ad es. Ov. Fast. IV 326; Liv. V 21, 8.
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Un celebre esempio è quello di Cibele, che fu portata a Roma nel 204 a. C., per vari motivi, tra i quali: la competizione tra patrizi e plebei, con le loro feste di Cerere e Flora; la politica estera di Roma che mirava ad espandersi verso l’oriente anatolico, il luogo da cui faceva derivare le proprie origini151; un pegno dell’alleanza del regno pergameno con Roma in funzione anti-macedone152. Al rifiuto del re Attalo di consegnare il simulacro della dea, essa stessa affermò di voler essere portata a Roma153. Con l’arrivo della Mater Magna si avvera quanto riportato dai Libri Sibillini154: nel 203 a. C. Annibale lascia l’Italia. Dopo essere stata ospitata nel tempio di Victoria, la pietra nera, la sacra immagine della dea, fu accolta tempio costruitole sul Palatino e dedicato nel 191 a. C.155 Un episodio simile è legato al dio Asclepio. Questi apparve in sogno ad uno dei Romani inviati a prenderlo, su ordine dei libri Sybillini, affermando che era suo volere seguirli a Roma156. Tale volontà fu resa in modo evidente il giorno seguente: il serpente del dio andò verso il porto e salì sulla nave romana, che lo avrebbe portato fino alla sede prescelta dell’isola Tiberina. Il motivo del trasferimento a Roma del dio della medicina va ricercato nella terribile peste del 292 a. C., diffusasi per di più durante un periodo di guerra contro i Sanniti: si doveva curare lo stato “malato” e attenuare i contrasti politici interni; esso va inoltre collegato simbolicamente all’alleanza offerta ai Romani da Demetrio Poliorcete dieci anni prima. Tale apertura verso la Grecia, politica e al tempo stesso culturale, si accompagna ad un’apertura sociale verso i plebei: la delegazione inviata ad Epidauro era guidata da Quinto Ogulnio Gallo, che, in qualità di tribuno, diede ai plebei, con una legge del 300 a. C., l’accesso alle cariche di pontefice e augure.
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Ov. Fast. IV 247-272; Erod. I 11, 3. Cfr. Coarelli 1990, 635-636. 153 Ov. Fast. IV 268 ss; Schmidt 1909, 5 ss. 154 Liv. XXIX 10, 4-6. 155 Sulla relazione tra l’arrivo di Cibele e la futura vittoria di Roma v. Liv. XXIX 10, 5-8; Ov. Fasti IV 255 ss; Herod. I 11, 3; sulla dimora di Cibele a Roma, Liv. XXXVI 36, 3-4. 156 Schmidt 1909, 31 ss.; Sabbatucci 1988a, 18-23. 152
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L’esempio più famoso di statua parlante in ambito romano è probabilmente quello di Giunone Regina, che manifestò la propria volontà con un cenno del capo o a voce, a seguito della domanda di uno dei iuvenes, seu spiritu divino tactus seu iuvenali ioco157: Visne Romam ire, Iuno?158. Nella propaganda augustea Giunone Curite è ben contenta di essere portata a Roma159, e lo stesso accade per Voltumna-Vortumno160. Fatti prodigiosi come la risposta del simulacro di Giunone o quello poco precedente del ratto degli exta161 vengono riportati da Livio perché presenti nelle sue fonti, senza che egli avverta il bisogno di confermarle né smentirle, perché maggiormente interessato a ciò che alle fabulae è opposto: le res, e con esse la considerazione del «verosimile» e la ricerca delle eventuali cause naturali162. È questo il risultato dell’incontro che si ha nello storico patavino tra il prodotto dell’azione sacerdotale romana, l’annalistica pontificale, e il genere letterario greco dell’historia: la «fondatezza» si fonde con l’«arte»163. Inoltre, quando si tratta di prodigia riconosciuti come tali dal senato, egli non solo non dubita che gli dèi possano manifestare la propria volontà tramite segni di vario tipo, ma critica la neglegentia
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Più interessante della prima motivazione fornita da Livio, l’ispirazione divina (in Dionigi si parla anche del desiderio di ricevere un omen: Dion. Hal. XIII 3, 3), è la seconda, riferita ad un iuvenalis iocus. Si è intravista nel termine iocus una «formula sacra» (Palmer 1974, 27-28); è possibile tuttavia che, laddove la destinataria del rito o della festa fosse Giunone, vi fosse il bisogno che i iuvenes esprimessero ritualmente la vitalità confacente al loro stato, come accadeva infatti nei Lupercalia per gli uomini e nelle Nonae Caprotinae per le donne (cfr. Sabbatucci 1988a, 53, 234), in conformità alla licentia tipica della iuventus romana, cui era riconosciuta una sorta di «facoltà di derisione» canalizzata in varie espressioni (Montanari 2005, 37). 158 V 22, 5; Palmer 1974, 28, è dell’avviso di dover sostituire a visne il termine heries («volontà»), ritenendo la frase come originariamente appartenente alla formula originale dell’evocatio. La parola sarebbe stata successivamente spiegata a partire dal nome della Hera greca. 159 Ov. Fast. VI 49-51. 160 Prop. IV 2, 3 ss. 161 Liv. V, 21, 8-9; cfr. Sordi 1993. 162 Cfr. Praef.; V 15, 2; 21, 9. Cfr. Feeney 2007, 138-140. 163 Cfr. Sabbatucci 1975, 63 ss.
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con cui ai suoi tempi non si provvedeva più a registrarli164; oggetto di polemica sono anche la superstitio e l’externa religio165. Il giudizio di Plutarco è simile. Egli non rigetta le testimonianze delle statue semoventi o parlanti: è necessaria cautela ed equilibrio nel giudizio, dice, senza abbandonarsi agli eccessi, vana credulità e superstizione da una parte, rifiuto e abbandono degli dèi dall’altra166. Vi è tuttavia una ragione importante per tenere in attenta considerazione tali avvenimenti fuori dal comune: la grandezza dei Romani non avrebbe mai potuto raggiungere tali vertici senza l’aiuto e il consenso degli dèi. Questo consenso non era tacito, ma comportava un continuo dialogo con la divinità: come poteva manifestare la propria ira e la rottura della pax deorum per il tramite di determinati prodigia, così essa poteva esprimere approvazione e soddisfazione con analoghi mezzi fuori del normale corso degli eventi. Per entrambi c’era la possibilità che medium privilegiato fosse la statua, a seconda del periodo storico e delle prospettive filosofico-religiose di volta in volta personificazione o solo dimora del dio, ma sempre e comunque ad esso legata in quanto oggetto consacrato al culto167; come si è visto, non mancavano neanche strumentalizzazioni politiche del ruolo dei simulacra168.
4. Frequenza dell’evocatio: rito «banale» o «estremo»? In tutti i casi di importazione di un nuovo culto, lo ripetiamo, bisogna distinguere il contesto in cui il trasferimento si è verificato: bellico, per cui esso sarà stato preceduto da un’evocatio, o in tempo di pace, senza che sia stato necessario ricorrervi. Pur non potendosi escludere a priori che il rito potesse essere usato per evocare le divinità anche al di fuori della conquista di una città, non abbiamo testimonianze certe in merito: in ogni caso trasferimento non coin164 165 166 167 168
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XLIII 13, 1 ss. Cfr. Stübler 1964, 100-101. XXV 1, 6-12; XXIX 14, 2; cfr. Stübler 1964, 101-102. Plut. 6, 2-4. Cfr. in generale Funke 1981; Icard-Gianolio 2004. Ferri 2006, 236-238.
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cide con evocatio169. Nonostante ciò, sebbene ci si aspetterebbe di trovare un cospicuo numero di evocationes nella tradizione, considerate le molte città conquistate dai Romani nel corso della loro espansione, in realtà le uniche di cui abbiamo notizia certa sono l’evocatio di Giunone Regina da Veio nel 396 a. C. e quella di Giunone Celeste da Cartagine nel 146 a. C. Fermo restando l’ambito guerresco, o, se vogliamo, la conquista170, il solo in cui possiamo porre la celebrazione del rito, le ipotesi che ci si prospettano sono opposte. Da un lato si è supposto che l’evocatio fosse «un rite banal du vieil arsenal religieux romain de la guerre», talmente consueto che non se ne fece menzione se non in casi eccezionali, come quelli riguardanti Veio e Cartagine171. Dall’altro, invece, si è ritenuta l’evocazione una pratica «estrema»172, circoscrivendone l’uso agli assedi particolarmente lunghi ed impegnativi contro nemici mortali173, oppure esclusivamente alle urbes fondate Etrusco ritu174. È possibile tuttavia un compromesso tra le due posizioni. Anzitutto, va escluso sia che ogni città conquistata abbia subito l’evocazione della propria divinità tutelare, sia che in tutta la storia romana ciò sia accaduto solo due volte o addirittura una, come ritengono gli autori che considerano il caso di Veio modellato su quello di Cartagine o viceversa175. Ciò per la semplice constatazione che, sebbene non si possa ipotizzare una meccanica successione evocatio-devotio, per la possibilità che gli dèi abbandonassero talvolta il luogo spontaneamente, pure Macrobio afferma che la seconda era possibile iam numinibus evocatis176, e sarebbe decisamente inverosimile che nella 169 Non è dunque in alcun modo condivisibile la posizione di Blomart 1997, 107. 170 Gustafsson 2000, 79. 171 Le Gall 1976, 524; cfr. Bruun 1972, 116; Alvar 1984, 144-145. 172 Bouché-Leclercq 1907, 573. 173 Orlin 1997, 61-62; cfr. Köves-Zulauf 1972, 89, n. 91. 174 Wissowa 19122, 374; Basanoff 1947, 196; tale limitazione geografica è però smentita dall’evocatio di Giunone Celeste da Cartagine e dall’iscrizione rinvenuta ad Isaura Vetus, per cui cfr. Ferri 2010c. 175 Ad es. Orlin 1997, 15, n. 13. 176 Macr. Sat. III 9, 9.
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lunga lista delle città devotae raccolta dall’autore tardo-antico, Stonios†, Fregellas, Gavios, Veios, Fidenas; haec intra Italiam, praeterea Carthaginem et Corinthum, sed et multos exercitus oppidaque hostium Gallorum Hispanorum Afrorum Maurorum aliarumque gentium quas prisci loquuntur annales177, solo due siano andate incontro a questo destino, tanto più che si può supporre con buona probabilità un’evocatio per città di volta in volta conquistate e distrutte (Volsinii), prese senza colpo ferire e poi distrutte (Falerii), conquistate con molta fatica, saccheggiate ma non distrutte (Veio), etc. Si può pertanto formulare l’ipotesi che, in occasione degli assedi, si evocassero gli dèi protettori della città con una certa frequenza, come Plinio leggeva in Verrio Flacco: Verrius Flaccus auctores ponit quibus credatur in obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis sacerdotibus evocari deum cuius in tutela id oppidum esset promittique illi eundem aut ampliorem apud Romanos cultum178, e che la decisione fosse presa caso per caso, alla luce delle particolari e contingenti motivazioni belliche o religiose. Le fonti ci hanno tramandato con certezza due sole evocationes, ma, almeno in qualche altro caso, se ne possono supporre altre. Non è da escludere anche che la città che veniva privata dei propri dèi dovesse essere di una certa importanza, una «capitale», centro di sistemi statali o federali di una certa rilevanza, e che lo stesso accadesse per la rispettiva divinità, con tutti i risvolti propagandistici che la conquista e il trasferimento del simulacro a Roma necessariamente comportavano. Forse un riflesso di questa situazione è adombrato in un passo di Ammiano Marcellino relativo agli eventi del 363 d. C.179 Dopo aver oltrepassato con l’esercito il fiume Abora a Cercusio e prima di giungere in Assiria, quasi all’apice della parabola ascendente della spedizione persiana, Giuliano arringa i propri soldati. Dapprima li incoraggia enumerando le vittorie romane contro i Persiani180; il discorso si allarga poi agli altri nemici affrontati dai Romani nei seco177 178
Ibid., 13. Plin. N. h. XXVIII 18 (sottolineatura nostra). Cfr. Köves-Zulauf 1972,
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Amm. Marc. XXIII 5. Ibid., 16-19.
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li precedenti. Gli esempi addotti in proposito dall’imperatore sono assai indicativi: plures absumptae sunt maioribus nostris aetates, ut interirent radicitus quae vexabant. Devicta est perplexo et diuturno Marte Carthago, sed eam dux inclytus timuit superesse victoriae. Evertit funditus Numantiam Scipio, post multiplices casus obsidionis emensos. Fidenas ne imperio subcrescerent aemulae Roma subvertit, et Faliscos ita oppressit et Veios, et suadere nobis laborat monumentorum veterum fides, ut has civitates aliquando valuisse credamus181. Esaminando attentamente le parole di Giuliano si possono fare delle considerazioni interessanti. Com’è noto, il suo interesse fu rivolto alla filosofia; pure, egli conobbe in modo approfondito la storia antica: i modelli a cui cercò di uniformare la sua condotta furono in primis Marco Aurelio, poi Alessandro Magno182. Tra tutti i possibili fatti esemplari, egli ne scelse cinque, il più recente dei quali risaliva a più di cinque secoli prima (la lontananza temporale è acuita dalla considerazione finale che solo con molta fatica si sarebbe potuto credere alla potenza di queste città nel passato): si trattava perciò di eventi oltremodo importanti, non sconosciuti verosimilmente agli stessi soldati, che da essi avrebbero dovuto trarre incoraggiamento e sprone a dare il meglio di sé in battaglia. La prima città menzionata è Cartagine, capitale-simbolo dell’Impero cartaginese: da essa, secondo la testimonianza di Macrobio, Scipione Emiliano evocò Giunone Celeste nel 146 a. C.183 Solo tredici anni dopo, nel 133, lo stesso generale romano conquistò Numanzia184, capitale dei Celtiberi, evocandone forse la divinità tutelare, poiché tra le città devotae elencate da Macrobio non riusciremmo a trovare un oppidum Hispanorum maggiormente “degno” di subire un’evocatio prima della devotio hostium185. Vi è poi Falerii, capitale dello stato falisco, da cui fu verosimilmente evocata nel 241 a. C. Giunone Curite186, indi Veio, simbolo e a suo tempo città più poten-
181 182 183 184 185 186
Ibid, 20. Cfr. ad es. l’epistola A Temistio 1. Ferri 2009c. Cfr. in generale Schulten 1936. Guittard 2002, 33. Cfr. Ferri 2010a.
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te del nomen Etruscum, privata da Furio Camillo nel 396 a. C. della sua dea, Giunone Regina. Abbiamo volutamente lasciato per ultima Fidene, poiché le vicende che la riguardano vanno viste nell’ottica dell’ostilità tra Roma e Veio. La città latina fu a lungo contesa dalle due storiche rivali per la sua posizione strategica; finalmente, dopo essersi ribellata ai Romani in favore dei Veienti, fu assediata e conquistata dai primi nel 426 a. C. Proprio per questo legame tra la storia di Veio e quella di Fidene, si può credere che gli eventi che riguardano la seconda possano aver costituito un modello per la prima, o, viceversa, che le circostanze che portarono alla conquista di Veio abbiano influenzato la costruzione del racconto riguardante Fidene: lo suggeriscono dei particolari ripetuti come gli aiuti portati in entrambi i casi dai Falisci, ma soprattutto l’espediente usato per venire a capo della resistenza della città assediata, vale a dire lo scavo di una galleria sotterranea in direzione della rocca187; inoltre, anche per Fidene è stata ipotizzata un’evocatio, riguardante Giunone Caprotina188. Certamente la città subì una devotio, almeno stando a Macrobio. A questo proposito, dopo che gli dèi sono stati evocati con successo e hanno abbandonato la loro dimora, si può procedere appunto a devovere la città, cioè a consacrarla alle divinità infere: alla distruzione “religiosa” della città, non più tale senza i propri dèi, segue dunque la distruzione fisica (che le due non si equivalgano è dimostrato in modo chiaro dal caso di Troia e di Roma, risorta questa dopo la distruzione e la messa in salvo dei sacra a Caere)189. Il rito della devotio è particolarmente celebre in relazione alle gesta dei Decii Mures, ma vi è una netta distinzione tra il rituale
187
Cfr. infra, cap. IV. Palmer 1974, 15. Altro argomento in comune è la menzione nelle fonti sia di una distruzione della città (Flor. I 6, 4; Eutr. I 19; Macr. Sat. I 11, 37) sia dell’esistenza sul sito di un insediamento privo di importanza in epoca imperiale (Cic. De leg. agr. II 96; Strab. V 320; Hor. Ep. I 11, 7; Iuven. VI 57; X 100; Plin. N. h. III 68). 189 Cfr. Bruun 1972, 113. 188
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riguardante il sacrificio del generale durante la battaglia – la devotio ducis – e la distruzione della città dopo la conquista – la devotio hostium, ma potremmo definirla anche devotio urbis – come ha ben messo in luce il Versnel190. Se infatti la figura del pronunciante e alcuni degli dèi destinatari del rito sono gli stessi, lo scopo è invece ben diverso: la prima riguarda la persona del generale e l’esercito nemico, la seconda il territorio nemico con tutto ciò che vi si trova all’interno, dagli edifici alla popolazione (il Versnel ipotizza che la d. ducis sia posteriore alla d. hostium, consistendo essa in due riti in origine separati: una devotio dell’esercito nemico più un’auto-consecratio del generale romano. Inoltre essa sarebbe stata praticata solo in pochi casi)191. Il magistratus cum imperio (dictator o imperator) invoca gli dèi inferi, Dis Pater, Veiovis e i Manes, chiedendo loro di infondere il terrore ai nemici e di distruggere sia questi che le loro proprietà, entrambe consacrate a quegli dèi; si chiede inoltre la salvezza del titolare dell’imperium e dell’esercito da lui comandato192. Il votum, una volta esaudito, verrà sciolto con il sacrificio di tre pecore nere. Vengono infine presi a testimoni Tellus e Iuppiter193. Come nel precedente carmen compaiono delle «formule precauzionali»: sive quo alio nomine fas est nominare, quem (quos) me sentio dicere194, quisquis e ubiubi, ma, a differenza di esso, l’individuazione dei destinatari è qui «pedissequa» ed «analitica»195. È molto interessante notare anche il cospicuo novero dei casi di città devotae riportato da Macrobio, secondo la testimonianza dei testi da lui consultati: Stonios [ma il testo è corrotto], Fregellas, Gabios, Veios, Fidenas, haec intra Italiam, praeterea Carthaginem et
190 Versnel 1976, anche per la differente valutazione del termine nella storia degli studi. Cfr. Winkler - Stuiber 1957; Rüpke 1990, 156-161; Montanari 1993b; Graf 2005, 262-265. 191 Versnel 1976, 407 ss. 192 Liv. VIII 9, 6-8. Cfr. Versnel 1976, 401 ss. 193 Cfr. Guittard 1980, 398-399; Guittard 1998a, 90-92. 194 Cfr. Engelbrecht 1902, 481; Hickson Hahn 2007, 240-241, sull’analoga forma «intendiamo», che sottolinea l’interesse del pronunciante ad evitare possibili fraintendimenti o errori. 195 Peppe 1990, 335.
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Corinthum, sed et multos exercitus oppidaque hostium Gallorum, Hispanorum, Afrorum, Maurorum aliarumque gentium quas prisci loquuntur annales. Molte città furono dunque devotae e distrutte, in Italia e fuori196. Visto che certamente per Cartagine e molto probabilmente per le altre città la devotio fu preceduta da un’evocatio, possiamo respingere la considerazione di Wissowa e Basanoff, secondo i quali la seconda fosse riservata alle urbes fondate Etrusco ritu, e circoscritta dunque alle città dell’Etruria e del Latium vetus; ciò risulta in modo chiaro dal caso dell’evocatio della divinità tutelare di Isaura Vetus197. Dal testo inoltre sembra di poter arguire che Scipione sia stato protagonista anche di un’altra devotio, quella di Numantia, la cui caduta nel 133 a. C. sancì la fine della resistenza dei Celtiberi e la definitiva sottomissione dell’Hispania198. Solo i dictatores e gli imperatores potevano votare sacralmente la città: tale puntualizzazione costituisce un’ulteriore conferma della notizia di Plinio secondo cui l’evocatio era di competenza dei sacerdoti, presumibilmente pontefici. Anche quando era compito del magistrato pronunciare la preghiera, egli lo faceva su suggerimento del sacerdote competente199. Inoltre, la distinzione di Macrobio ha senso solo se è un’altra persona a recitare il carmen evocationis; se fosse stato lo stesso generale a farlo, l’autore non avrebbe avuto bisogno di specificare che solo i dictatores e gli imperatores potevano pronunciare la formula della devotio, oppure avrebbe dato tale notizia all’inizio della trattazione: «Lo stesso troviamo a Roma [rispetto all’evocatio ittita]: secondo il passo sopra citato di Plinio, Verrio Flacco attribuiva basandosi sulle sue fonti l’evocazione ai sacerdotes e Macrobio, il quale non dice nulla al riguardo, lo presuppone tacitamente quando evidenzia in proposito che solo i dittatori e gli imperatori possono eseguire la devotio»200. Ancora, proprio la confusione che vigeva in merito ai due rituali in età tarda può indurre a ritenere che allora si credesse che fosse il solo generale a rapportarsi 196 197 198 199 200
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Cfr. Versnel 1976, 380 ss. Ferri 2010c. Astin 1967, 125 ss.; Gabba 1990, 230-231. Fyntikoglou - Voutiras 2005, 154, 166; cfr. Bouché-Leclerq 1907, 571. Wohleb 1927, 207; cfr. Ferri 2006, 215.
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alla divinità tutelare della città assediata, come accade già in Livio, nel cui racconto della presa di Veio è il solo Furio Camillo ad agire. Quanto al legame evocatio-devotio, non mi sembra corretto affermare che ad un’evocatio seguisse immancabilmente una devotio, reale, giuridica o simbolica201, o, viceversa, che ogni devotio fosse sempre preceduta da un’evocatio202. Possiamo affermare ciò alla luce del fatto che, da una parte, una città privata dei suoi dèi poteva non essere distrutta, come abbiamo visto nel caso di Veio, dall’altra per la presenza nelle fonti di casi di abbandono volontario di una città da parte dei propri dèi prima della conquista203. Inoltre diversi sono i destinatari: da una lato la divinità tutelare della città, dall’altro gli dèi inferi204. Si veda finalmente l’affermazione del Rüpke: «Nel contesto di questo rituale offensivo [l’evocatio] rientra anche la devotio di eserciti e città nemiche, che termina dopo la vittoria con la consecratio del territorio nemico. Dato che tuttavia questa devotio non mostra alcun interesse per i sacra nemici, essa non ha alcun legame concettuale con l’evocatio»205.
Tutte le città citate dall’imperatore Giuliano, dunque, comportarono difficoltà eccezionali per essere piegate, concretamente – l’assedio di Veio durò 10 anni, secondo la tradizione, così come il bellum Numantinum, ma anche Cartagine richiese notevoli e prolungati sforzi – o potenzialmente – la posizione munita di Falerii avrebbe portato ad un lungo assedio se gli abitanti non si fossero consegnati in fidem. Tutte le città furono inoltre devotae: sicuramente Veio, Fidene e Cartagine, con buona probabilità Numanzia e Falerii. L’ultima considerazione che si può fare riguarda la successione in cui
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Versnel 1976, 381; Peppe 1990, 342, n. 128; Blomart 1997, 101. Le Gall 1976, 524; corretta dunque la posizione di Köves-Zulauf 1972, 89, del quale non si può condividere tuttavia il carattere «magico» attribuito alla devotio: cfr. Montanari 1993b, 201. 203 Cfr. Schwenn 1920-1921, 312; Guittard 1989, 1243; Burkert 2005, 273. 204 Köves-Zulauf 1972, 89, n. 91. 205 Rüpke 1990, 164. 202
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Giuliano nomina le città: le prime due, in ordine cronologico, dovevano rispecchiare la situazione più familiare a quella dell’esercito al momento del discorso, cioè l’impiego in un teatro di operazioni assai lontano da Roma; le altre, più vicine all’Urbe, ma comunque esemplari, sono di nuovo elencate in ordine cronologico. Concludendo, l’imperatore scelse tra gli eventi del glorioso passato di Roma presumibilmente i più adatti a sortire nei soldati l’effetto psicologico desiderato: si trattava di città rappresentative, potenti, importanti, ma anche munite e apparentemente quasi impossibili da espugnare. I Romani del passato, invece, ce l’avevano fatta, certo anche con l’aiuto del proprio “arsenale” religioso, dapprima evocando la divinità tutelare e poi consacrando la città agli dèi inferi. Con l’aiuto dei sacerdoti che lo accompagnavano, tra cui degli aruspici, Giuliano, imperatore e pontefice massimo, sperava forse di fare lo stesso con la capitale del nemico, Ctesifonte206. Ma gli dèi vollero altrimenti.
5. Evocatio-interpretatio Un’ultima questione da esaminare in relazione all’evocatio è quella relativa alla c. d. interpretatio Romana. Una spiegazione chiara di cosa essa sia è fornita dal Wissowa: «Nella convinzione che le divinità degli altri sistemi religiosi differissero da quelle romane solo nel nome, ma che fossero in realtà essenzialmente identiche o affini ad esse, il Romano faceva uso dovunque nei paesi stranieri dell’intepretatio Romana (Tac. Germ. 43): egli cioè riconosceva, più o meno a ragione, i propri dèi in quelli stranieri, basandosi su singole somiglianze concettuali o cultuali, e dando a questi il nome di quelli, nome di cui gli abitanti delle province si appropriavano, nella stessa misura in cui si aprivano alla superiore cultura roma-
206
È indicativo in questo senso che nel paragrafo precedente Ammiano Marcellino si soffermi diffusamente sulle macchine ossidionali (murales machinae) in dotazione ai Romani.
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na»207. Non fa differenza se il nome indigeno del dio rimanga come epiteto vicino al romano, oppure scompaia: ad esempio, quando nelle fonti un dio britannico appare prima come deus Cocidius, poi come deus Mars Cocidius, poi infine solo come Mars, abbiamo semplicemente di fronte la stessa divinità, solo in tre momenti diversi della romanizzazione della provincia208. Gli scrittori si sono serviti ampiamente dell’interpretatio Romana. La pratica di essa, pur in sé non obbligatoria209, era così normale e diffusa che essi ne facevano uso senza sentire il bisogno di spiegare o motivare alcunché: ecco quindi che troviamo Mercurio e Apollo in Gallia210, Minerva in Britannia211, Cerere e Saturno in Africa212 e così via. Essenziale in ciò era il riconoscimento e il confronto dell’essenza e/o della funzione peculiare dell’essere divino: una divinità guerriera era identificata con Marte, etc.213 L’approccio all’“altro” poteva però essere diverso: diversamente da Tacito, Cesare applica sempre l’interpretatio Romana, traducendo il nome della divinità locale senza riportare mai il nome indigeno: Galli se omnes ab Dite patre prognatos praedicant 214; deorum maxime
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Wissowa 19122, 85 (trad. mia); cfr. in generale Wissowa 1918; Spickermann 1997; Ando 2008, 43-58. Nel passo citato Tacito si riferisce in particolare ad una divinità locale di nome Alcis: sed deos interpretatione Romana Castorem Pollucemque memorant. Ea vis numini, nomen Alcis. Cfr. Cic. De nat. deor. I 84: ... at primum, quot hominum linguae, tot nomina deorum: non enim, ut tu Velleius, quocumque veneris, sic idem in Italia Vulcanus, idem in Africa, idem in Hispania. 208 Cfr. Van Adringa 2007, 87-88. 209 Bikerman 1937-1938, 189. 210 Su Mercurio cfr. Plin. N. h. XXXIV 45; Tert. Apol. 9; Scorp. 7; su Apollo, Eumen. Paneg. VI 21, 7; 22, 1. 211 In qualità di dea di una fonte sacra: quibus fontibus praesul est Minervae numen (Solin. 22, 10). 212 Su Ceres Africana v. Tert. Ad uxor. I 6; De exhort. cast. 13; su Ceres e Saturnus insieme ad es. Tert. De pall. 4; De testim. an. 2; Passio SS. Perpet. et Felic. 18, 4. 213 Wissowa 1918, 12 ss. 214 De b. G. VI 18, 1.
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Mercurium colunt 215. Va notato come egli si produca nella denominazione latina delle divinità galliche agli inizi della conquista, e non dopo la sottomissione della Gallia. Le iscrizioni galliche (sempre in latino) confermano in una certa misura questa testimonianza. Spesso però esse aggiungono al nome divino romano un epiteto gallico che sembra contenere il nome indigeno dell’essere venerato: «ma proprio questi casi mostrano quanto l’interpretatio Romana fosse oscillante: varie volte accade, infatti, che lo stesso epiteto (cioè nome indigeno) accompagna ora l’una, ora l’altra delle divinità romane»216. Tali incertezze mostrano come gli esseri venerati dai Galli ovviamente non fossero identici alle divinità romane. Cesare si sofferma anche sugli dèi dei Germani: deorum numero eos solos ducunt, quos cernunt et quorum aperte opibus iuvantur, Solem et Vulcanum et Lunam, reliquos ne fama quidem acceperunt217. Come si vede, in quel momento storico la conoscenza di quelle divinità è molto scarsa. Dopo poco più di un secolo, invece, sarà abbastanza approfondita perché Tacito possa indentificare le singole divinità con Mercurio, Ercole, etc. Va detto, comunque, che queste identificazioni vanno viste non come eruditi tentativi di interpretazione, ma come la situazione di fatto dei normali rapporti dei Romani con questi popoli, venutasi a creare fin dai primi rapporti con essi. Inoltre, all’epoca dei primi rapporti con il mondo gallico e germanico, il processo dell’interpretatio Romana delle divinità di sistemi religiosi stranieri aveva già una lunga tradizione alle spalle in ambito mediterraneo218. Spesso era più importante un’impressione, anche superficiale, piuttosto che la comprensione dell’intima essenza di una divinità: 215 Ibid. 17, 1-2: Deorum maxime Mercurium colunt: huius sunt plurima simulacra, hunc omnium inventorem artium ferunt, hunc viarum atque itinerum ducem, hunc ad quaestus pecuniae mercatusque habere vim maxima arbitrantur. Post hunc Apollinem et Martem et Iovem et Minervam. De his eandem fere quam reliquae gentes habent opinionem: Apollinem morbos depellere, Minervam operum atque artificiorum initia tradere, Iovem imperium caelestium tenere, Martem bella regere. 216 Brelich 1966, 232. 217 De b. G. VI 21, 2; cfr. Brelich 1966, 236-238. 218 Spickermann 1997, 146 ss.
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ad esempio, quando il romano si trovava in una terra selvaggia e ricca di boschi e chiamava gli dèi locali Diana e Silvano, egli si basava su un’impressione, senza chiedersi se i nativi li intendessero allo stesso modo. Il soldato riteneva il dio invocato durante una battaglia una divinità della guerra, il mercante considerava un dio degli affari quello sotto la cui tutela gli indigeni ponevano i loro negozi. Il fatto che la divinità principale dei Galli e dei Germani abbia ricevuto il nome di Mercurio, evidenzia, secondo il Pârvan, che quelle terre furono frequentate prima dai mercanti che dai soldati219. Un altro elemento da tener presente è che il romano in terra straniera non ha alcun bisogno di accostarsi ad altre concezioni religiose: egli “porta” dovunque con sé i propri dèi, e con essi i concetti inerenti alla propria religione, come il comandante di una legione del Reno che eresse un altare I(ovi) o(ptimo) m(aximo) dis patris et praesidibus huius loci Oceanique et Reno220. Non si tratta, naturalmente, solo di un influsso unilaterale romano sulle province, ma di un vero e proprio scambio: ad esempio, accanto alla Romana vi era un’interpretatio Celtica. I veicoli più importanti in questo senso erano i mercanti e i soldati221. Nelle province non esiste di fatto una religione ufficiale, al di fuori del culto di Iuppiter Optimus Maximus e, più tardi, dell’imperatore: la vera religione di stato rimane legata alla città di Roma; la patina del nome romano ricopre un vasto spettro di concetti religiosi diversi. L’interpretatio non comporta quasi mai conseguenze sul piano del culto nelle province, ciò accade solo in casi sporadici e nelle province più romanizzate. La valutazione scrupolosa degli dèi e dei culti stranieri, elaborata nella pratica dell’evocatio, resterà sempre un principio dominante della politica religiosa di Roma, pur se sempre più confusa con l’applicazione dell’interpretatio Romana. Gli esempi non mancano, uno su tutti quello dell’introduzione del culto di Cibele a Roma, che venne rigidamente delimitato, codificato e depurato degli elementi 219
Pârvan 1909, 22 ss. CIL XIII 8810. 221 Cfr. ad es. Pârvan 1909, 37 ss.: gli stabilimenti commerciali sono stati particolarmente importanti nell’importazione dei culti orientali. 220
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più distanti dalla sensibilità religiosa romana222. Lo stesso avvenne per i culti di Attis e Mâ, poi assimilata a Bellona: entrambi passarono attraverso il “filtro” della tradizione pontificale che li rese «romani», eliminandone gli elementi giudicati troppo estranei223. Allo stesso modo, il culto del Sol invictus Elagabal venne condannato alla damnatio memoriae solo perché era rimasto straniero, mentre, al contrario, la figura del deus Sol invictus di Aureliano (in realtà un Baal siriano) verrà sottoposta ai principi elaborati secoli prima nell’ambito della pratica pontificale dell’evocatio, conoscendo pertanto una grande fortuna a Roma: il culto del dio sarà affidato ad un collegium publicum, composto da pontifices Solis; la sua immagine avrà caratteristiche greco-romane; sarà venerato infine come dominus imperii Romani. Secondo il Basanoff, l’accoglimento a Roma del culto orientale di Cibele, per quanto formalmente «nazionale»224, inteso all’inizio come un’eccezione, valse come precedente per gli altri, svuotando di fatto l’evocatio di gran parte della sua ragion d’essere: gli dèi venivano ormai accolti dopo la conquista di una provincia in modo essenzialmente pacifico225. In ogni caso, l’abitudine di confrontare la divinità straniera con gli dèi romani, il fatto religioso straniero con quello romano in occasione di ciascuna evocatio, si trasforma verosimilmente in una tradizione pontificale, sfumando e identificandosi gradualmente con la stessa interpretatio226. Si è supposto inoltre che, dopo la conquista dell’Italia e la seconda guerra punica, con l’importazione di decine di divinità, il pantheon romano fosse diventato così funzionale e geograficamente differenziato che da un parte era possibile un’interpretatio Romana della massima ampiezza. Dall’altra, invece, si è ritenuto che le divinità delle regioni più lontane (in senso geografico, ma soprattutto culturale) fossero conside-
222
Liv. XXIX; Ov. Fast. 297-328; Dumézil 19742, tr. it.2 420. Cfr. Basanoff 1947, 212-213. 224 Cfr. Dumézil 19742, tr. it.2 420: «grazie alla leggenda di Enea, né Venere [Ericina] né Cibele erano delle straniere». 225 Basanoff 1947, 207. 226 Ibid., 211-212. 223
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rate a tal punto “barbariche” da non essere integrabili227; ciò poteva essere una proiezione della chiusura all’ammissione di nuovi cittadini nello stesso periodo, proiettando la realtà sociale anche sul piano simbolico228.
227
Rüpke 1990, 164 e 257-258. Ibid., 164; cfr. North 1976, 11; Ando 2008, 58: «In its enigmatic status, interpretatio Romana resembles many of the other mechanisms with wich Romans and their subjects negotiated cultural difference, translation among them; it is likewise emblematic of the myriad problems besetting the study of cross-cultural contact in the ancient world». 228
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CAPITOLO II Evocatio romana ed evocatio ittita*
1. Gli studi comparativi sull’argomento Esistette un parallelo dell’evocatio romana? L’unico viene individuato dagli studiosi in un analogo rito della religione ittita. Prima di soffermarci più diffusamente sulle caratteristiche di quest’ultimo sarà opportuno riportare l’opinione di alcuni degli studiosi che hanno affrontato il tema, in primis quella del Basanoff, al quale si deve l’unica monografia di rilievo finora scritta sull’evocatio romana1. In essa l’autore dedica un capitolo, il sesto2, alla comparazione tra i due riti, riportando anzitutto il testo, tradotto da J. Friedrich nel 1925, giudicato in proposito come il più importante: «[col. II, 22] Mirate, per voi, dèi [23] della città nemica, ho posto [24] qui un ... vaso di birra mescolata (?), vi ho anche preparato [25] a sinistra delle tavole decorate. [26] E ho coperto (??) [Basanoff: «stabilito»] le strade con una stoffa bianca, una stoffa rossa [27] (e) una stoffa blu. [28] Ora queste stoffe fungano per voi da via, [29] ora camminate su di esse via di qua e siate favorevoli al re; [31/32] ma recatevi sempre più nel paese divenuto il vostro»3. * Il presente capitolo costituisce una sintesi, riveduta e corretta, di Ferri 2008. 1 Basanoff 1947. 2 Ibid., 141-152. 3 «KBo» VII 60; «AO» 25, 2, 22 ss.: «[Col. II, 22] Siehe, euch, den Göttern [23] der feindlichen Stadt, habe ich ein ...es Gefäss Mischbier (?) [24] hingestellt, auch habe ich euch geschmückte Tische [25] links hingestellt. [26] Und die Wege habe ich mit einem weissen Gewande, einem roten Gewande [27] (und) einem blauen Gewande überdeckt (??). [28] Nun sollen euch diese Gewänder Wege se/in/, [29] nun wandelt auf diesen davon [30] und wendet euch
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Il Basanoff afferma che la formula appena riportata dev’essere qualificata come un’evocatio e ne individua i punti in comune con l’evocatio romana: 1) il carmen evocationis è pronunciato in entrambi i casi dal sacerdote; 2) la formula di quella che lo studioso russo definisce devotio (meglio, una consecratio) è pronunciata dal re presso gli Ittiti, dal magistrato cum imperio presso i Romani4; 3) in entrambi i casi la recitazione del carmen è accompagnata da un sacrificio5. Il Basanoff ritiene poi di poter affermare che il rito svolgesse un ruolo più ampio presso gli Ittiti che presso i Romani. La formula ittita attirerebbe l’attenzione degli dèi soprattutto sulle offerte loro destinate e sull’apparato disposto per la loro accoglienza: vaso per le libagioni, tavoli decorati (probabilmente colmi di vettovaglie) e infine tre nastri colorati al fine di fungere da strada per lo spostamento delle divinità. Solo le ultime due frasi del testo chiarirebbero quello che ci si attende dagli dèi: «siate favorevoli al re; recatevi nel paese divenuto il vostro»6. Lo studioso russo rileva inoltre come non vi sia alcuna promessa per l’avvenire: sarebbe sufficiente l’esecuzione del rito, a seguito del quale gli dèi della città nemica andrebbero ad integrarsi nel pantheon nazionale; giuridicamente l’atto religioso si esaurirebbe in se stesso, nel rituale, non creando alcun nuovo vincolo. L’operazione si svolgerebbe nella forma del do ut des, propria dello scambio arcaico: l’elemento contrattuale, più sviluppato nel rituale romano, sarebbe assente, dovendosi ascrivere con ogni probabilità all’iniziativa dei pontefici7.
dem Könige gütig zu; [31/32] begebt euch aber wieder fort nach eurem Lande». La traduzione italiana di tutti i testi è mia. 4 Macr. Sat. III 9, 9; cfr. supra, cap. I, par. 4. 5 Basanoff 1947, 142. 6 Ibid. Il testo considerato da Basanoff, nella traduzione di J. Friedrich, ha come ultima frase: «begebt aber euch wieder fort nach eurem Lande» («recatevi di nuovo nel vostro paese»), per cui lo studioso è costretto a proporre una nuova traduzione, appunto: «ma recatevi sempre più nel paese divenuto il vostro». 7 Basanoff 1947, 143.
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Un’altra delle questioni che si pone il Basanoff è di sapere se vi sia un rapporto di discendenza tra l’istituzione ittita del II millennio a. C. e quella romana – che egli ritiene di poter datare nella sua forma rudimentale agli inizi del I – oppure se siamo di fronte a due fenomeni indipendenti la cui somiglianza è stata determinata da condizioni esteriori identiche o simili. Un elemento importante per dirimerla sarebbe dato dall’esame delle divinità evocate. L’assenza di invocazioni nella formula ittita si spiegherebbe facilmente, a parere del Basanoff, con la differenza concettuale tra le due formule: il carattere contrattuale di quella romana e il carattere rituale di quella ittita. Nel primo caso le parti in causa dovevano essere designate nominatim, pur se facendo ricorso alla formula sive deus sive dea; l’“evocatio” ittita, invece, non comportando un impegno futuro, obbligherebbe a ricercare nel rituale gli indizi per identificare le divinità8. Il punto di partenza sarebbe comune, ascrivibile alla comune provenienza indo-europea, ma il rito romano avrebbe conosciuto uno sviluppo più articolato dovuto all’elaborazione pontificale. Il Basanoff evidenzia poi come la riga 26 del testo di Boghazköi ci informi in maniera indiretta ma precisa sugli obiettivi del sacerdote ittita. Questi prepara tre strade per mezzo di tre nastri di stoffa: si aspetta quindi la venuta di almeno tre divinità. Ciascun nastro specificherebbe il carattere dei membri di questa triade: stoffa bianca, rossa, blu9. Questo insieme di tre colori ha valore religioso nell’antico Iran. In termini romani, avremmo qui un’evocatio di Iuppiter, Mars e Quirinus: gli Ittiti si rivolgerebbero agli dèi rappresentativi della società nemica nella pienezza delle sue attività e il rito, indipendentemente dalla sua origine, si baserebbe su una fondamentale rappresentazione indoeuropea nell’espressione simbolica, i colori, propria della regione indoeuropea vicina, l’Iran10. La differenza più importante che il Basanoff individua rispetto al rito romano è che gli Ittiti non conoscerebbero, nella loro “evocatio”, la divinità tutelare dell’urbs: essi farebbero appello, come si è visto,
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Ibid. Ibid., 144. 10 Basanoff 1947, 144; cfr. infra. 9
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alle divinità rappresentative del popolo socialmente organizzato in città, in termini romani del populus civitasque. Egli è comunque dell’avviso che gli Ittiti cuneiformi abbiano conosciuto una divinità simile a quella romana11. Un tale concetto non sarebbe però una loro creazione: l’oriente mesopotamico si distinguerebbe infatti per l’adorazione degli dèi che dimorano da sovrani nelle città reali12 e che partecipano del destino politico della loro città13. Basanoff riporta in proposito un testo relativo alla dea Ištar, «Regina di Ninive», importante rappresentante di questo gruppo divino14. Tale testo cuneiforme, tradotto anch’esso da J. Friedrich15, è stato definito dal Sommer evocatio generalis. La divinità è invitata a venire nel paese di Hatti, anche se potrà continuare a dimorare nei luoghi da cui è “evocata”: il Basanoff nota a ragione come questa sia tecnicamente una distinzione importante rispetto alle evocationes fin qui esaminate e una ragione contro la definizione di Sommer16. La dea è “evocata” da una lunga lista di città, situate in un territorio molto ampio (dalla Siria all’Armenia, dall’Asia Minore a Cipro)17, ma anche dai fiumi e dalle fonti18 e dai pastori di buoi e di pecore19. Nelle linee 19-23 si palesa ciò che ci si attende dalla dea: vita, salute, longevità, fertilità per la coppia reale e per i principi, maturazione dei frutti, moltiplicazione delle mandrie di animali e degli uomini. La dea deve al contrario privare gli abitanti dei luoghi indicati della salute, della vita, della fertilità, etc., in generale del suo favore e portarli con sé nel paese di Hatti20.
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Ibid., 146-49. Cfr. Dhorme 1910, 128: numerosi ex-voto offerti dai monarchi sono destinati a questo tipo di divinità, «mio re», di fatto il re della città. 13 Basanoff 1947, 146. 14 Dhorme 1910, 129. 15 «KBo» II 9, col. I; «AO» 25, 2, 20 ss. Il testo è intitolato: «Preghiera all’Ištar di Ninive di venire dai paesi stranieri nel paese di Hatti». 16 Basanoff 1947, 147. 17 Linee 1-13: «Vieni qui da Ugarit, da Dunanapa, da Alalcha, da Sidone, da Gachga, da Aladija, da Arzawa, da Mascha [...]». 18 Linea 14. 19 Linee 15-16. 20 Linea 25 fino alla fine; Basanoff 1947, 147. 12
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Il Basanoff ritiene di poter affermare che l’operazione nel suo complesso, il testo e il rito abbiano le caratteristiche di un atto magico, del tipo menzionato da Plinio: il fruges excantare e il malum carmen incantare delle XII tavole21. La presenza dell’Ištar di Ninive quale destinataria della preghiera comunicherebbe evidentemente all’atto una portata eccezionale, ma la sostanza rimarrebbe la stessa: un’“excantatio”, dove il demone impersonale è soppiantato da una grande dea sovranazionale22. Non vi sarebbe inoltre alcuna traccia di un qualsivoglia elemento contrattuale: come chi procede all’excantatio ordina, così i sacerdoti ittiti intimerebbero o implorerebbero la dea di piegarsi ai loro voleri. Ciò in realtà secondo lo studioso russo non risulta con chiarezza ma non avrebbe importanza per il problema dell’evocatio: se abbiamo a che fare con una preghiera, avremo un’“exoratio” in senso ampio; manca comunque la contro-prestazione, essenziale nell’evocatio. Non si tratterebbe neanche di un’“exoratio” del tipo rivolto alla Caelestis di Cartagine, essendo anche questo un atto bilaterale concluso con la dea tutelare della città nemica. In conclusione, Basanoff sostiene che il tratto comune alle due formule sia il fatto che entrambe si rivolgono agli dèi protettori della città del nemico23. In ciò gli Ittiti si distinguerebbero nettamente dai loro vicini semitici, che trattavano gli dèi delle città conquistate come sovrani vinti: il destino della città sarebbe stato in questo caso inseparabile da quello dei suoi abitanti, mortali ed immortali. I Romani e gli Ittiti, al contrario, distinguerebbero tra protettori divini e protetti umani, gli unici contro cui combattono: dei primi ci si vuole assicurare, tramite misure rituali, la benevolenza e delle relazioni conformi alla pax et venia. Tale atteggiamento comune ai due popoli, che non hanno mai avuto contatti tra loro, sembra provenire per lo studioso russo da una tradizione comune24.
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Plin. N. H. XXVIII, 17-18. Cfr. Basanoff 1947, 33-37; Ernout 1964. Basanoff 1947, 147-148. Ibid., 150-52. Ibid., 150.
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Del confronto tra “evocatio” ittita ed evocatio romana si è occupato in un breve articolo anche L. Wohleb25, che si è soffermato sugli stessi due testi già studiati dal Basanoff. Dopo aver riassunto in modo sintetico la tradizione romana relativa al rito, egli comincia il suo esame del rito ittita partendo dal primo testo e notando innanzitutto che il rituale ittita, al contrario dell’evocatio e della devotio romane, sembra aver luogo dopo la conquista della città. Ciò sarebbe evidente in particolare dalle parole del re, che pronuncia la seconda parte della formula (la “devotio”), come, ad esempio: «Vedete, la città mi era invisa!». Analogamente alla formula romana, invece, all’invito rivolto agli dèi nemici segue la maledizione dei nemici26. Per Wohleb, inoltre, l’espressione: «E rivolgetevi benignamente al re!»27 e il fatto che quest’ultimo pronunci in pompa magna28 la formula, indicherebbero che dell’“evocatio” si occupavano i sacerdoti, mentre la “devotio” sarebbe spettata al re. Sono d’accordo nel rilevare che qualcosa di molto simile aveva luogo a Roma29. Basandosi sulla traduzione di J. Friedrich dell’ultima frase, «Recatevi di nuovo nel vostro paese», Wohleb asserisce poi che non avremmo a che fare qui con un’“evocatio” in senso proprio, quanto piuttosto con un rito di riconciliazione: verrebbe a mancare infatti l’accoglimento degli dèi nemici nel pantheon dei conquistatori e ciò costituirebbe una difficoltà insormontabile nel raffronto del rito ittita con quello romano, oltre al contrasto che verrebbe a crearsi tra la prima e la seconda parte della formula ittita per cui gli dèi non possono recarsi di nuovo nel loro paese, votato sacralmente e dato in pascolo a Šeri e Ḫurri, i tori servitori di Tešub30. È da notare tuttavia 25
Wohleb 1927. Ibid., 207. 27 «KUB» VII 60, linea 30. 28 Wohleb 1927, 207: «in vollem Ornat»; in altre parole il re indossa le vesti ufficiali che esprimono in pieno la sua funzione regale. Cfr. «KUB» VII 60, linea 7’: «bekleidet sich der König nach Art des Königtums» («il re si veste conformemente alla dignità regale»). 29 Ferri 2006, 214-216. 30 Wohleb 1927, 208; questi nota inoltre come la “devotio” ittita, così come quella romana, vada intesa alla lettera e presupponga perciò che gli abitanti della città siano uccisi o presi prigionieri. 26
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che, oltre alla traduzione già vista del Basanoff, ne è stata data più recentemente un’altra, per cui tale impedimento in realtà non sussiste: «Allontanatevi poi dalla vostra terra!»31. Per quanto riguarda il secondo testo, la preghiera alla dea Ištar, Wohleb, così come il Basanoff, respinge l’interpretazione di Sommer che vi vedeva un’«evocatio in grande stile». Egli basa la sua asserzione fondamentalmente sull’espressione: «Se (sei) in mezzo a [...], o presso il dio-sole della terra [e] tra gli antic[hissimi dèi?], dunque raggiungici da lì»32; la dea è inoltre chiamata da tutti i luoghi in cui era adorata o poteva trovarsi33. Wohleb ritiene pertanto di poter affermare che questo testo ittita altro non è che una preghiera solenne alla dea: ella deve venire nel paese ittita, impartire benedizioni e condurre il nemico alla rovina (similmente a parecchi altri testi, alcuni dei quali verranno esaminati di seguito); egli ritiene probabile che la preghiera fosse rivolta all’immagine della dea, forse a quella che si trovava a Boghazköi, dove ella aveva un tempio e un culto. Anche Dumézil, infine, si è occupato della questione34, nel contesto dello studio dei colori associati alle tre funzioni della sua celeberrima teoria35. Egli accenna dapprima alla situazione in Iran, coincidente perfettamente con lo schema trifunzionale, con i colori bianco riferito ai sacerdoti (asrōnīh), rosso ai guerrieri (artēštārīh), blu agli allevatori-agricoltori (vastryōšīh); poi a quella indiana, che presenta oltre ai tre colori (la stessa parola varṇa significa «colore») bianco, rosso e giallo riferiti alle medesime classi (nel caso specifico brāhmaṇa, kṣatriya, vaiśya), un quarto colore, il nero, associato alla classe dei non-arya (śūdra)36.
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Haas - Wilhelm 1974, 237; cfr. infra. Wohleb 1927, 208: «Wenn du inmitten von [...] (bist), wenn beim Sonnengott der Erde [und] unter den uralt[en Gottern?], so komm von dort herbei». 33 Ibid., 209. 34 Dumézil 1954b. 35 Cfr. ad es. Dumézil 1958; Dumézil 1987a, 151-227. 36 Dumézil 1954b, 45; su una probabile situazione tripartita originaria anche in India, cfr. Dumézil 1958, tr. it. 36. 32
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Un’altra interessante attestazione trae il Dumézil dal più volte citato lavoro del Basanoff sull’evocatio romana37, notando dapprima come l’analisi dello studioso russo sia incompleta, poiché il testo esaminato mancava delle righe 32-35, che lo stesso Friedrich aveva rinunciato a tradurre38: in esse la sacerdotessa preposta al rito compie un sacrificio cruento di due montoni di ambo i sessi, particolare che avvicina una volta di più il rito ittita al romano39. Quanto al resto però, il Dumézil non fa che confermare le conclusioni del Basanoff relative alla parte precedente del testo: gli Ittiti concepivano gli dèi nemici come divisi in tre gruppi, per i quali erano approntati tre cammini di altrettanti colori, gli stessi delle classi sociali indo-iraniche, vale a dire bianco, rosso e blu, e ciò mostrerebbe quanto anche l’aristocrazia ittita dovesse alla tradizione indo-europea; inoltre la concezione semitica di «guerra totale» escludeva per quei popoli la possibilità di potersi valere di un rito come l’“evocatio”40. Il Dumézil sposa perciò la teoria di Basanoff per cui il simbolismo dei colori riporterebbe a una comune radice indoeuropea: gli Ittiti avrebbero dunque distinto delle classi di divinità rappresentative delle tre funzioni e avrebbero predisposto per loro delle strade del colore corrispondente. Il parallelo è riferito di nuovo all’antico Iran: secondo una tradizione «mazdeo-zurvanita» l’uniforme dei sacerdoti era appunto bianca, quella dei guerrieri rossa (o variopinta) e quella degli allevatori-agricoltori blu scuro41. Anche a Roma sarebbe rinvenibile un simbolismo analogo nei colori delle fazioni del circo romano, importanti specialmente in età imperiale e bizantina ma riferite da alcuni alle origini42. È interessante in proposito una speculazione di Giovanni Lido secondo il quale questi colori, nella sua epoca quattro, erano in origine tre (albati, russati, virides) in rapporto non solo con la triade Iuppiter, Mars
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Per tutti i riferimenti al Basanoff, cfr. supra. Dumézil 1954b, 47. Cfr. infra. Dumézil 1954b, 47-48. Dumézil 1958, tr. it. 36. Cfr. Dumézil 1954b, 49 ss; Dumézil 1958, tr. it. 36-37.
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e Venus (sotto le spoglie di Flora)43, dagli evidenti valori funzionali, ma anche con le tre tribù primitive dei Ramnes, Luceres e Titienses44, in cui Dumézil riconosce sia una suddivisione etnica (Latini, Etruschi, Sabini) che funzionale (uomini sacri-governanti, guerrieri professionisti, ricchi pastori)45, suddivisioni che sempre il Lido interpreta come parallele alle tribù funzionali degli Egiziani e degli Ateniesi antichi46.
2. Considerazioni preliminari: gli Ittiti e i loro dèi Prima di intraprendere il nostro esame dell’“evocatio” nel mondo ittita, sarà utile fare qualche considerazione preliminare sulla religione degli Ittiti, in particolare sui loro dèi e sul rapporto di questi con gli uomini47. Gli dèi astrali o celesti, i più importanti del pantheon, lasciavano occasionalmente le loro sedi per far visita ai loro protetti umani. Il motivo principale era costituito dalle preghiere degli uomini (in particolare del re e della regina), udite direttamente o tramite l’intercessione di altri esseri divini. Una volta discese sulla terra, le divinità raggiungevano il tempio più vicino al luogo dal quale erano state invocate – di norma un luogo elevato come una montagna – o quello loro dedicato nella città dalla quale erano state rivolte loro le preghiere. Il tempio riveste un ruolo fondamentale nella religione ittita: esso rappresenta per il dio quello che il palazzo rappresenta per il re, cioè il suo luogo di residenza e di riposo prediletto allorché discende dal cielo sulla terra. Era importante di conseguenza che la divinità riconoscesse facilmente dapprima la città verso la quale doveva dirigersi, il tempio, e, soprattutto, il suo idolo, ricettacolo per eccellenza dell’essere divino,
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Cfr. infra, cap. III. De mens. IV 30. 45 Dumézil 1958, tr. it. 37. 46 De magistrat. I 47. 47 Cfr. Lebrun 1980, 55 ss.; per l’inquadramento storico-geografico generale, cfr. De Martino 2003. 44
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suo luogo di riposo privilegiato nel tempio, in cui il dio poteva in tutta tranquillità ricevere gli omaggi, le offerte e le preghiere dei devoti. Il simulacro doveva quindi avere caratteristiche ben definite, ed è facilmente intuibile la particolare cura con cui veniva scolpito e decorato. La grande importanza delle statue di culto nel mondo ittita è molto simile a quella riscontrabile nel mondo romano48. Alla luce di ciò si comprende anche come la rimozione delle statue cultuali da parte del nemico costituisse un fatto estremamente grave, venendo a privare la città della dimora del dio e della possibilità di avere ulteriori rapporti con esso, in definitiva della protezione divina49. Per contro il vincitore assieme alle statue si assicurava una protezione divina supplementare. Non stupisce dunque che, in determinati momenti storici, nella lista delle divinità ufficiali possano figurare dèi considerati in precedenza come nemici50: gli Ittiti erano portati ad assumere nel loro pantheon ogni nuova divinità tutelare con la quale entravano in contatto, includendola nel culto di stato51. In epoca abbastanza remota, in ogni caso durante l’antico regno (1700-1450 a. C.), gli dèi ittiti vengono concepiti come animati dagli stessi sentimenti degli uomini52, capaci quindi di provare di volta in volta gioia, rabbia o fame, ammalarsi e persino morire, anche se solo temporaneamente data la loro immortalità53. L’uomo doveva pertanto ricercare tutti i mezzi possibili per renderseli propizi, come avrebbe fatto nel quadro delle relazioni intrattenute con i propri simili. La
48 A Roma tramite le statue gli dèi potevano spesso e volentieri manifestare la propria volontà, come ad esempio nel caso di Iuno Regina: cfr. supra, cap. I, par. 3. 49 La fine stessa del periodo dell’Impero propriamente detto (1180 a. C. circa), di cui perlopiù ignoriamo le cause (i famosi «popoli del mare»?), è marcata da un tale evento: la capitale Hattusa fu incendiata e saccheggiata e gli dèi presi prigionieri e portati via. Cfr. Lebrun 1980, 34. 50 Cfr. McMahon 1991, 5. 51 Ibid., 212; De Martino 2003, 89. 52 Cfr. ad es. il testo redatto sotto Tudhaliya IV, relativo ai doveri dei sacerdoti (traduzione parziale in Vieyra 1970, 511): «Est-ce que l’esprit des dieux diffère tellement de celui des hommes? Certainement pas! ...Ils ont exactement les mêmes réactions». 53 Lehman 1997, 250-251.
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collera e il rancore degli dèi potevano esercitarsi anche sui parenti e sui discendenti di chi li aveva offesi54. Per attirare l’attenzione del dio e farlo discendere sulla terra si ricorreva ad un rituale riservato agli dèi, il mugawar/mugeššar55 («invocazione», «evocazione rituale»), una particolare forma di preghiera necessaria al compimento dell’“evocatio” vera e propria, denominata talliyawar. Il rapporto tra i due elementi sembra essere simile a quello vigente nel rito romano tra carmen e rituale in senso più ampio: il primo costituisce un momento essenziale del secondo56, quello in cui ci si rivolge direttamente alla divinità, ma non lo esaurisce, vista la presenza di momenti altrettanto importanti come quelli del sacrificio e dell’atto di tracciare delle strade con gli ingredienti sacrificali e talvolta anche con dei nastri colorati. Tramite questo tipo di preghiera si cercava di ottenere che le divinità allontanatesi da Hatti, perché offese per qualche motivo, tornassero a proteggere il paese57. L’officiante recita un mito, la pronuncia del quale costituisce il supporto orale ed esplicativo degli atti rituali che seguiranno: in molti dei testi religiosi rinvenuti a Boghazköi, sia a carattere magico (SISKUR) che a carattere cerimoniale (EZEN), le locuzioni e le azioni rituali sono interpretabili solo in chiave mitologica58. L’efficacia dell’atto si basa sull’analogia: recitan-
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Peccato = waštul. Cfr. Vieyra 1970, 511: «Si, d’autre part, quelq’un provoque la colère d’un dieu, est-ce que le dieu se venge lui seul? Ne se venge-t-il pas aussi bien sur sa femme, ses enfants, ses descendants, ses parents, ses esclaves, hommes et femmes, son bétail, ses moutons, ses récoltes? Soyez donc très attentifs à la parole d’un dieu!». 55 Nome verbale derivato dal verbo mugai-, che oltre ad «invocazione», «evocazione rituale», indica talvolta il materiale usato per tali azioni. Cfr. Güterbock - Hoffner 1980, 324 ss.; per i testi v. Lebrun 1980, 436-437, 440-442. 56 Ciò si può supporre ad esempio per il testo «KUB» XXXVI 89 (Q nella nostra trattazione): abbiamo chiaramente a che fare con una preghiera evocatoria. Il termine talliyawar potrebbe essere citato, è vero, nelle lacune della tavoletta, ma è anche probabile che esso sia sottinteso, dato che il mugawar comporta inevitabilmente il talliyawar. Il termine appare invece in «KUB» XXX 60 + «KBo» XIV 70 I. 57 De Martino 2003, 103-104; Pecchioli Daddi - Polvani 1990, 94. 58 Pecchioli Daddi - Polvani 1990, 12.
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do il mito viene ricordato che, in tempi lontani, il mondo divino ha conosciuto una situazione analoga a quella all’origine della preghiera e si precisa come gli dèi abbiano a suo tempo ristabilito l’ordine. L’officiante deve poi “agire” sul dio, ritualizzando quelle circostanze risolutrici. All’origine dello stato di disordine, mitico o contemporaneo, potremmo dire della turbata pax deum, sta la collera di un dio che, scomparendo, ha paralizzato la sua sfera d’attività arrecando un grave danno alla comunità. Il problema da risolvere pertanto è quello di invenire deum atque illum emovere: i riti che seguono la recitazione del mito sono destinati appunto a captare l’attenzione del dio e a farlo uscire dal suo stato di collera. Si fa ricorso, in altre parole, all’“evocatio”, che può comprendere invocazioni, preghiere ed altre componenti quali l’utilizzo di essenze profumate e aromi, la preparazione di strade di lana colorata e offerte di vario tipo. La complessità e l’importanza di un siffatto rituale dimostrano inoltre che gli dèi ittiti non avevano le facoltà di ubiquità e onniscienza proprie al Dio cristiano, ad Ahura Mazda e agli dèi egizi59: da ciò anche l’importanza di un calendario festivo, da osservarsi con la massima scrupolosità se si voleva che le cerimonie e le preghiere raggiungessero l’essere divino. Gli dèi ittiti, proprio perché non onniscienti e quindi incapaci di sondare le coscienze, giudicavano e basavano il loro favore sull’elemento esteriore dell’atto religioso, che andava soggetto ad un’esecuzione estremamente meticolosa. Nulla poteva essere lasciato al caso, qualsiasi omissione, anche involontaria, poteva essere mal interpretata e ingenerare conseguenze sgradite cui si doveva porre immediato riparo; il sentimento costante d’in-
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Un’altra differenza importante è che gli dèi ittiti, come quelli sumerobabilonesi, avevano bisogno degli uomini per essere serviti: questi erano stati creati proprio a questo scopo. Tale clima di interdipendenza condiziona tutta la religio ittita, che presenta uno spiccato carattere contrattuale. Nessuna delle due parti aveva interesse a ledere l’altra: così come una mancanza da parte umana poteva significare la collera divina, il culto di un dio che non proteggeva adeguatamente i suoi fedeli poteva essere abbandonato in favore di quello di altre divinità. Cfr. Lebrun 1980, 64-68; sul concetto generale di cultus da colere cfr. Brelich 1979c, 157.
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sicurezza derivante da tale situazione portava l’uomo a rapportarsi alla divinità con grande umiltà. Un tale grado di religio, senz’altro accostabile a quella romana, così caratteristica, è evidente nei testi che esamineremo fra poco, in cui compaiono elenchi precisi e dettagliati di azioni, luoghi e ingredienti sacrificali.
3. Il corpus dei testi 60 I testi che riportano la pratica dell’“evocatio” ittita sono abbastanza numerosi. Molti di essi provengono da Kizzuwatna, cioè da un ambiente in cui è riscontrabile un considerevole influsso khurrita61. In tutti è presente l’atto rituale, costitutivo della talliyawar“evocatio”, di tracciare delle strade agli dèi con ingredienti sacrificali precisi. Il corpus dei testi è costituito da: A) «KUB» XV 3162: un rituale per evocare le divinità MAḪ e GUL-š, come pure Zukki e Anzili, officiato dal sacerdote specializzato63. B) «KUB» XV 34: un rituale per evocare gli «dèi dei cedri» maschili, gli dèi della terra dei cedri, da intendersi come la Siria del nord. C) «KBo» II 9: un rituale per evocare l’Ištar di Ninive da sette vie.
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Per i testi considerati cfr Haas - Wilhelm 1974. Tutte le traduzioni italiane sono mie. 61 L’influsso khurrita raggiunge il suo apice nel periodo dell’Impero propriamente detto (1400-1180 a. C. circa), in cui l’etnia khurrita occupa un posto predominante nelle classi dirigenti dell’Impero. I dignitari di corte e i sacerdoti, gli amministratori statali più importanti e gli scribi sono prevalentemente khurriti, originari quindi delle province del sud e del sud-est anatolico: tutto ciò ha ovviamente ripercussioni sul piano del culto, a detrimento degli antichi culti hatti. Cfr. Lebrun 1980, 31. 62 Il frammento di un testo simile si trova in «KUB» XXII 127. 63 Haas - Wilhelm 1974, 145: «Beschwörungpriester» («LÚAZU»). Il termine che designa l’“evocatio” è: «KASKAL-az ḫuittija», cioè: «attirare a sé da una strada».
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D) «IBoT» III 14864: un rituale per evocare il dio della tempesta del santuario di ḫamri e la Ḫebat, così come alcuni dèi della sua cerchia (kaluti-), come Šarruma, Tenu, i sette demoni65, Išu e Tijabendi. E) «VBoT» 24 III 4 sgg.: un rituale per attrarre la divinità tutelare dello scudo (DLAMA KUŠkuršaš)66. Sull’altro lato della tavoletta è riportato un rituale sacrificale per un’altra ipostasi del dio tutelare. L’officiante di entrambi è una sacerdotessa di nome Anniwijani.
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Tematicamente il testo più vicino è il «KUB» XXIX 4. Si è a lungo pensato che fossero le Pleiadi (come in qualche caso in Mesopotamia). Si tratta invece di demoni, in genere con valenza pericolosa. 66 D LAMA KUŠkuršaš non è altro che uno dei tanti LAMA presenti nella religione ittita, nei quali si può riconoscere mutatis mutandis un omologo del genius romano. Esso è in genere determinato da nomi di località: «di Ḫatti» (DLAMA URUḪATTI), «della campagna» (LÍL), etc. Si incontrano tuttavia numerosi altri LAMA: «del re» e «della regina» (le uniche persone ad avere un nume tutelare personale secondo le fonti in nostro possesso, più numerose per quanto riguarda i LAMA di divinità), «dello scudo» (come nel caso in questione), «dell’esercito» (tuzzijaš), «della battaglia» (zaḫḫijaš), «della lancia» (GIŠŠUKUR), ma anche «del prendere la mano», secondo una concezione che richiama di nuovo alla mente un’analoga realtà religiosa romana, quella degli indigitamenta, cioè la divisione e la competenza di una particolare divinità per ogni minimo aspetto della vita umana. Ciò è anche tipico della cultura luvia, che usa per esprimere questa moltitudine di genii il suffisso -ašši-: Ḫilašši (genio della corte), Taparrijašši (genio del governare), Ulilijašši (genio dei campi), etc. Tale realtà divina è stata “tradotta” in ittita rovesciando il pluralismo e facendo ricorso quale elemento unificatore ad un’entità divina, LAMA, precisata di volta in volta da un epiteto, come abbiamo visto poc’anzi. DLAMA mantiene in ittita il significato di «divinità tutelare», ma nel senso più ampio: le traduzioni nelle varie lingue moderne riportano tutte a tale concetto («Schutzgott», «tutelary deity», «dieu protecteur», «koruyucu tanri»). DLAMA in questa accezione tipologica è impiegato anche nelle festività in cui è necessario invocare tutte le divinità di questo tipo, come in quella dedicata appunto a tutte le divinità tutelari (KUB II 1): ANA ŠUMḪLA DLAMA ḫumandaš, «ai nomi di tutte le divinità tutelari», secondo un uso che richiama il romano dii deaeque omnes anche se in un senso meno inclusivo. Divinità simili se non coincidenti sono Inara e Ala. Su LAMA cfr. Archi 1975; Mcmahon 1991, 2-52, 211-216; sul genius romano, cfr. Dumézil 1983; Ferri 2010a. 65
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F) «KUB» VII 60: un rituale di evocazione degli dèi dalla città nemica appena conquistata67. G) «KUB» X 92: il frammento di un testo nel quale vengono approntate delle strade, chiaramente in preparazione dell’“evocatio” di dèi appartenenti tutti all’ambiente khurrita: insieme a Teššub, Ḫebat, Aa, gli «dèi patrii» e le dee, vengono evocati anche i maschili «dèi dei cedri», gli stessi citati nel testo B. H) «KUB» XXIX 4: un rituale del sacerdote NÍG.BA-DU, ossia di Ulippi. Il testo si distingue dagli altri citati in quanto il rito con cui si attira il dio su delle strade si svolge nel contesto del trasferimento della dea della notte dal vecchio tempio a quello appena costruitole68. Siamo a Šamuḫa69, a nord-est di Kizzuwatna, in un territorio che presenta forti influenze khurrite, verosimilmente alla fine del regno di Ḫattušilis III o all’inizio di quello di Tutḫalijas IV. I) «KUB» XVII 32: il frammento di un rituale che ha lo stesso scopo dei precedenti. L) «KUB» XXXV 84: il frammento di un rituale con passaggi luvii. M) «ABoT» 28-31 + «IBoT» II 113 + «KUB» XXX 38 + 38b + 738/b + 756/b + 1134/c + 1721/c + 2107/c, un rituale dei sacerdoti purapši Ammiḫatna, Tulpi e Mati di Kummanni per l’eventualità di una contaminazione del tempio, contenente il solito rito di attirare il dio su strade per mezzo di un’evocazione verbale. N) «KUB» XXXII 50: un frammento in cui sono presenti quasi solo termini riguardanti il sacrificio. O) «Bo» 2987: come il precedente. 67
V. infra. Oltre all’evocatio viene alla mente anche il rito romano dell’exauguratio, per cui cfr. Ferri 2006, 238-240. 69 Per la localizzazione cfr. Von Schuler 1965, 35. 68
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P) 284/n: un rituale di evocazione dell’Ištar di Ninive con ampie parti khurrite. Tutti i testi menzionati provengono da Kizzuwatna, da un ambiente cioè di cultura mista luvio-khurrita. Essi presentano dei tratti specifici che li fanno risaltare rispetto al “ritualis evocationis” di ambito propriamente centroanatolico-hatti, di cui riportiamo qui due esempi: Q) Il rituale di evocazione presente in «KUB» XXXVI 89 fa parte del consistente numero di pratiche evocatorie destinate a ricondurre un dio nelle proprie sedi cultuali. In questo caso lo scopo è quello di ottenere il ritorno dello scomparso dio della tempesta di Nerik70, la cui assenza ha causato la mancanza di pioggia e quindi una grave siccità. Il dio è evocato per il tramite delle divinità infernali. In questo testo («Vo» 20) incontriamo il verbum technicum talliyadu: «che evoca»71. La parola esatta è talliya-: «evocare»; verbi dal significato analogo sono mugai- (da cui mugawar) e šara ḫuittiya- («tirare»). Abbiamo inoltre un esempio di mugawar, con la recitazione da parte del sacerdote del mito del cambiamento del corso del fiume Maraššanta (l’Halys)72. R) Il rituale in «KUB» IV 1 mira ad ottenere il sostegno degli dèi prima di una campagna contro i Kaskei, che hanno distrutto le loro
70 Il dio della tempesta di Nerik (figlio del dio della tempesta di Hatti e della dea Sole di Arinna) sarà, insieme all’Ištar di Samuha, il dio tutelare di Ḫattušilis III (1283-1260 a. C.), nell’ambito di un recupero da parte di questo re degli antichi culti hatti (senza tuttavia che venissero meno forti influssi khurriti e soprattutto luvii). Ciò in ragione di una politica nazionalista e restauratrice successiva alla riconquista dei territori occupati in precedenza dai Kaskei e della ricostruzione delle città distrutte. Tra queste vi era proprio Nerik, importante centro situato a nord di Hattusa, vicino al paese dei Kaskei. 71 Cfr. Lebrun 1980, 435-436. Nei testi provenienti da Kizzuwatna abbiamo: ú-i-e-iš-ki-iz-zi = «evoca» (B I 34). 72 B, linee 12-20.
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sedi cultuali73. Comune a queste due “evocationes”, oltre all’offerta preliminare di cibi, è la mancanza di un atto rituale. Il rituale evocatorio è contenuto inoltre nelle diverse redazioni del mito della divinità scomparsa e ritrovata, il mito di Telipinu74. Nelle parti rituali gli ingredienti cultuali giocano un ruolo importante: essi hanno perlopiù la doppia qualità di ingredienti del sacrificio e di materia magica, e vengono spesso usati nella magia analogica75. Naturalmente è presente la prassi magica di tracciare delle strade agli dèi con gli ingredienti stessi76.
4. Caratteristiche dell’“evocatio” ittita Il testo che presenta più analogie con la pratica romana è il testo F: esaminiamolo più da vicino. Per prima cosa l’officiante, in questo caso una sacerdotessa denominata «l’anziana»77 presenta le offerte agli dèi: tre recipienti di adagu(r)ru78 e un recipiente contenente del
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Von Schuler 1965, 168-174. Telipinu o Telibinu è figlio del dio della tempesta Taru, mentre si ignora l’identità di sua madre; sua moglie sarà la dea Hattebinu (in entrambi i nomi si può notare l’elemento hatti -b/pinu che sta per «figlio»). È uno degli dèi hatti più celebrati, in ragione del mito del dio scomparso e ritrovato di cui è protagonista: tale racconto forniva una spiegazione del ciclo delle stagioni e, più specificatamente, della morte e del rinnovamento periodico della natura. In quanto dio della vegetazione, dell’agricoltura e dell’irrigazione dei campi, Telipinu era certamente un dio molto importante. Su Telipinu cfr. De Martino 2003, 104; sul pantheon ittita Lebrun 1980, 38-53. 75 Ad es. in «KUB» XVII 10 II 16-21 si legge: «Vedi, (qui) [è posto] un fico. [E] come [il fico] è dolce, così deve diventa[re] dolce anche [l’animo] di T[elipinu]! Come l’olivo [tiene] dentro di sé il suo olio, [come la vite ?] tiene dentro di sé il vino, così tu, Telipinu, devi serbare la bontà nella (tua) anima, dentro (di te)». 76 «KUB» XVII 10 II 28-30: «Vedi, Telipinu, ho asperso le tue vie con dell’olio fino. Ora va, Telipinu, sulla strada aspersa con l’olio fino!». 77 «SALŠU.GI». La figura di questa sacerdotessa è caratteristica dell’ambito cultuale luvio-khurrita. Cfr. De Martino 2003, 100; per altri testi in cui compare questa figura v. Haas - Wilhelm 1974, 19, n. 1. 78 Linea 2: «Drei adagu(r)ru-Opfergefäße überlässt sie». 74
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vino79. Ella prepara nove “strade” d’olio fino, nove di miele e nove di purea di cereali80; più in là pone tre stoffe di colori diversi, bianco, rosso e blu, che fungeranno da vera e propria strada per le divinità del nemico appena sconfitto81. Tra gli ingredienti necessari all’adempimento del rito vi sono il fuoco, che dovrà bruciare delle essenze profumate, un batuffolo di lana, una piuma d’aquila, la pietanza galaktar, la bevanda parḫuena82 e del legno83. La sacerdotessa si rivolge quindi agli dèi, dicendo: «Mirate, dèi della città nemica, ho posto per voi un recipiente cesellato colmo di birra; ho anche posto per voi dei tavoli da cui pendono a sinistra dei teli di stoffa; ho steso per voi delle strade con una stoffa bianca, una stoffa rossa (e) una stoffa blu; ora vi servano queste stoffe da strade! E andate su queste (strade), rivolgetevi benignamente al re! Allontanatevi poi dalla vostra terra!»84. Ella sacrifica poi una pecora agli dèi della città nemica e
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Linee 3-4: «Auf dem Ti[sch / stellt sie ein Gefäß (mit) Wein». Linee 6-8: «Nun [mach]t sie neun Wege / aus Feinöl, neun Wege aus Honig / (und) neun Wege aus Brei». La traduzione corrente nell’ambito degli studi orientali è «pappa». Non conosciamo il termine ittita: la parola è scritta sempre con la parola sumerica «BA.BA.ZA»; dal sumerico si ha il prestito in akkadico: «pappasu». Il significato è sempre lo stesso, cioè: «cereali bolliti». Ringrazio per la spiegazione il prof. A. Archi, docente di Ittitologia presso l’Università di Roma “La Sapienza”. 81 Linee 8-10: «Ferner [leg]t sie ein weißes Tuch, / ein rotes Tuch (und) ein blaues Tuch hin und breitet sie / den Gottheiten des Feindeslandes als Wege hin». 82 Galaktar e parḫuena, spesso nominate assieme, sono due ingredienti sacrificali usati per attirare e placare le divinità. Gli ingredienti del parḫuena sono: piselli, fagioli, vino, orzo, farina d’orzo e frumento. Cfr. Haas - Wilhelm 1974, 14, n. 2. 83 Linee 11-17: «Und vom Feuerbecken nimmt sie Feuer / und wirft, was an Duftendem gesammelt ist, / auf den Herd und es verbrennt als Weihrauch. / Dann hält die Alte mit der rechten Hand den Wollbüschel / eines Schafes, die Feder eines Adlers (und) die galaktar-Speise / des rechten parḫuena-Tranks der Götter, Holz [...]». 84 Linee 22-32: «Seht, euch den Göttern / der Feindesstadt stellte ich einen gravierten Bierkrug / hin; auch stellte ich euch links / gedeckte Tische hin; / ich breitete euch Wege mit einem weißen Tuch, einem / roten Tuch (und) einem blauen Tuch aus; / nun sollen euch diese Tücher Wege sein! / 80
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una pecora alle dee; il fegato e il cuore vengono bruciati e posti sul tavolo85. A questo punto il compito della sacerdotessa è finito: gli dèi hanno lasciato la città. Le subentra il re, il quale, vestito conformemente alla sua dignità regale, dopo aver libato del vino86, pronuncia una formula che il Basanoff qualifica come devotio, ma che è da ritenersi piuttosto una consecratio o un’exsecratio («maledizione»)87: «Vedete, la città mi era invisa! Allora ho chiamato il dio della tempesta88, mio signore89. E il mio signore dio della tempesta deve esaudire il mio desiderio e deve realizzare il mio desiderio. Allora egli me la consegna, e io l’ho distrutta. Quindi l’ho votata sacralmente. Fin quando vi saranno il cielo, la terra [e] gli uomini, nessuno dovrà popolarla in futuro; ora la città nemica, inclusi i campi, i pascoli, le aie (e) i giardini (dev’essere promessa) in […] al dio della tempesta mio signore;
Und auf diesen (Wegen) geht, / dem König wendet euch zum Heile zu! / Von eurem Lande ferner / tretet weg!». 85 Linee 32-38: «Sobald dann die Alte / diese Worte zu sprechen / beendigt hat, bringt sie den Göttern / der Feindesstadt ein Schaf als Blutopfer dar; ein Schaf / aber bringt sie den Göttinen der Feindesstadt als Blutopfer dar. / Und Leber (und) Herz [verbrenn]t man mit Feuer / und [stellt] es [auf] den Tisch der Gottheit». 86 Linee 5’-10’: «[Sob]ald sie die Götter der Feindesstadt auf dem Wege / (herbei)zurufen beendigt hat, / bekleidet sich der König nach Art des Königtums / und schreitet; dann libiert er (für) die Götter der Feindesstadt / entweder aus einem tapišana-Gefäß (mit) Wein / oder aus einem išpandu(wa)-Gefäß mit Wein». 87 Hor. Epod. XVI 36: Haec [...] exsecrata civitas. 88 Tešub. Con la khurritizzazione intensiva delle classi dirigenti viene a operarsi un sincretismo tra il gran dio della tempesta di Hatti (uno dei cui nomi era Taru) e il dio khurrita della tempesta, Tešub appunto. Nell’Anatolia centrale, particolarmente ad Hattusa, questi s’impone a spese delle antiche personificazioni del dio della tempesta. Tešub è il dio principale del pantheon ittita ufficiale. La sua sposa è Hebat, anch’essa di origine khurrita, assimilata alla dea Sole di Arinna. Cfr. Lebrun 1980, 43-45. 89 Il re ittita era il figlio spirituale del gran dio della tempesta, una sorta di figlio adottivo: ciò gli permetteva di diventare alla sua morte un dio a sua volta. Cfr. l’espressione «DINGIRlim-iš kiš-»: «divenire dio» applicata alla menzione della morte del re.
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e, dio della tempesta mio signore, i tuoi tori – Šeri (e) Ḫurri90 – (devono prenderla) come pascolo, e Šeri (e) Ḫurri vi devono pascolare in eterno. Colui che (tuttavia) la ripopola e (perciò) la toglie quale pascolo ai tori del dio della tempesta – a Šeri e Ḫurri – quello sarà nemico del mio signore dio della tempesta! E se qualcuno (ri)popola questa città nemica e se (vi è) (anche) solo [una] casa, o (vi sono) (anche solo) due case; (se) qualche fante e cavaliere la [popoleranno], così il mio signore [dovrà distruggere] questa singola casa o le [due] case, o i fanti [e i cavalieri]. Se […]»91. Questa “evocatio” è l’unica di quelle ittite conosciute direttamente riferibile alla conquista di una città e come tale è quella più spesso citata nell’ambito della comparazione con il rito romano92. Tuttavia nel rituale ittita non ha senso classificare le “evocationes” in base al luogo da cui gli dèi vengono evocati: una tale differenziazione è del tutto estranea al pensiero religioso che si manifesta nei rituali con-
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Šeri e Ḫurri sono i tori servitori di Tešub, in associazione al quale sono frequentemente nominati. È possibile che essi perpetuino l’antico culto del toro, che era peraltro l’animale sacro a Tešub; hanno inoltre il ruolo di intercessori per le preghiere rivolte al dio. Si è creduto di poter tradurre i loro nomi con «mattino» e «sera». 91 Linee 11’-38’: «Seht, / die Stadt war mir verhaßt! / Da rief ich den Wettergott, meinen Herren, an. Und der Wettergott mein Herr / soll mir den Wunsch erfüllen und ir den Wunsch verwirklichen. / Da liefert er sie mir aus, / und ich verwüstete sie. / Dann machte ich sie sakrosant. / Solange Himmel, Erde [und] Menschen (bestehen), / soll sie in alle Zukunft kein Mensch / besiedeln; jetzt (soll) / in […] die Feindesstadt mitsamt Feld, Flur, Dreschplatz / (und) Garten dem Wettergott meinem Herrn (versprochen sein); / und, Wettergott mein Herr, deine Stiere – / Šeri (und) Ḫurri – (sollen) sie als Weide (nehmen), / und Šeri (und) Ḫurri / sollen sie in Ewigkeit beweiden. / Wer sie (aber) wieder besiedelt / und sie (somit) den Stieren des Wettergottes – dem Šeri / und dem Ḫurri – als Weide / wegnimmt, der soll dem Wettergott, meinem Herrn, / ein Prozeßgegner sein! / Und wenn irgendein Mensch diese Feindestadt / (wieder) besiedelt und wenn (es auch) nur / [ein] Haus (ist), oder (auch nur) zwei Häuser (sind); (wenn) sie / irgendwelche Fußtruppen und Kavallerie be[siedeln], / so [soll] mein Herr dieses eine Haus / oder die [zwei] Häuser, oder die Fußtruppen [und die Kavallerie] / [vernichten]. Wenn […]». 92 Cfr. supra, par. 1; ciò mi è stato anche confermato dal prof. Archi.
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siderati93. Questo testo perciò sembra rappresentare un’eccezione piuttosto che la regola delle “evocationes” ittite, con le quali, come si è visto sopra, venivano evocati più frequentemente gli dèi del proprio pantheon, scomparsi per diversi motivi. Lo scopo del rito è quello di allontanare gli dèi della città appena conquistata affinché si integrino nel culto della capitale. Ad esso se ne accompagna un altro, una vera e propria consecratio, con il quale il re vota sacralmente la città ai tori sacri di Tešub, Šeri e Ḫurri, perché la usino in eterno come pascolo: come a Roma, quindi, l’“evocatio” sembra essere di competenza dei sacerdoti, la “devotio” lo è del detentore dell’imperium. Nonostante nel testo si parli solo dell’atto rituale compiuto dopo la presa della città nemica, è da presumere anche un’“evocatio” prima della battaglia, dato che alcuni dei testi citati, in particolare i primi due (A e B), contengono un’invocazione agli dèi perché lascino il paese dei nemici e che, in occasione dell’assedio di una città, gli dèi erano edotti della violazione del diritto in cui essi erano incorsi assieme alla popolazione94. Le offerte rituali agli dèi rivestono una maggiore importanza che nel rito romano, in cui gli exta hanno comunque ben altro significato95: alcune di esse, il miele, la purea, l’olio fino e il vino, anche se non sempre tutte e allo stesso modo, vengono impiegate per tracciare le strade che gli dèi dovranno percorrere durante il rito e di cui si dovranno anche cibare96. Altri ingredienti importanti sono: la lana rossa, il batuffolo di lana (in E III 9-13 sembra trattarsi del batuffolo di lana di un tipo preciso di pecora)97 e la piuma d’aquila: essa, così
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Cfr. Haas - Wilhelm 1974, 7, n. 1. Cfr. ad es. «KUB» IV 1 Dupl. XXXI 146 (R nella nostra trattazione), contenente un rituale compiuto prima dell’inizio di una campagna contro i Kaskei, di cui si è occupato E. Von Schuler (1965, 168-174). 95 Quello di «garanzia» (auctoritas) degli avvenimenti futuri: cfr. Macr. Sat. III 9, 9: In eadem verba hostias fieri oportet auctoritatemque videri extorum, ut ea promittant futura; Guittard 1998b, 64-65. Tale lettura è probabilmente preferibile a quella di Basanoff (1947, 37-40), che intende «garanzia» con le future offerte di viscere, cioè del culto a Roma. 96 B, 48-49: «I potenti dèi maschili dei cedri de[vo]no mangia[re] (e) bere le strade, devono mangiare (e) bere a sazietà». 97 «...un tavolo, un telo di stoffa, la pietanza galaktar (e) la bevanda parḫuena 94
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come l’ala e l’uccello, venendo agitata dall’officiante (l’«Opfermandant»), sia esso un dio o un uomo, ne assorbe le impurità, ed è da intendersi come pars pro toto, mostrando come “evocatio” e rito di purificazione siano strettamente connessi (così come l’uccello viene bruciato, al termine del rituale poi la piuma viene distrutta). Inoltre la stoffa denominata kureššar, anch’essa usata talvolta per fungere da strada per gli dèi98, un tipo preciso di pane (tūni-), e il fuoco. L’elemento centrale del rito è il tavolo. Negli altri testi compaiono anche altri elementi: pane azzimo99, pane lievitato, diversi tipi di verdure. Nei testi A e B il rito di evocazione tramite la stoffa kureššar è strettamente collegato al rito dell’attrazione tramite strade100; strade di stoffa vengono preparate anche nel testo E (in numero di quattro). Il testo B e il testo E presentano galaktar e parḫuena- nello stesso rapporto101. In quasi tutti i testi si può riconoscere, alla fine del rito, una sorta di “preghiera evocatoria”, nel momento in cui viene chiesto agli dèi di abbandonare i luoghi in cui hanno dimorato fino a quel momento102. Come si è detto, i luoghi da cui le divinità possono essere evocate non si limitano alle città, ma possono comprendere realtà
della divinità. Poi mi reco in un gregge, e strappo un batuffolo di lana alla pecora grassa (?), che rivolge gli occhi al sole». Esso è presente anche in vari altri testi, tra cui B I 12 e F II 14-17. 98 B I 21-25: «Quindi si stende dal tavolo di vimini la stoffa kureššar che funga da via; dinanzi alla stoffa kureššar si traccia una strada di purea; dalla strada di purea si traccia da una parte una via di miele, dall’altra una via di vino misto a olio fino». 99 A I 29: «Flachbrot»; ne viene spezzato uno per ognuna delle strade. 100 Cfr. A I 28: «Egli traccia strade con la purea, il miele, l’olio d’oliva e l’olio fino»; A I 33-34 «[poi] si provvede ad attirare le divinità. Esse si (at)tirano con la lana rossa (di una pecora grassa (?)), con il batuffolo di lana (di una pecora) e con una stoffa kureššar»; B I 21-25. 101 B I 11-13: « È posta la bevanda parḫuena degli dèi, la bevanda parḫuena d’orzo, la pietanza galaktar (e) una piuma d’aquila – legato (?) è il batuffolo di lana di una pecora grassa (?); E III 9-13; E IV 19-21: «La pietanza galaktar , la bevanda parḫuena (e) il batuffolo di lana di una pecora grassa (?) metto da parte per il dio tutelare dello scudo». 102 E III 37-45: «Avanti, avvicinati, dio tutelare dello scudo, sii benevolo e favorevole (?)! Abbandona l’ira, la collera e la rabbia! Come al contadino l’er-
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geografiche più ampie, come territori o paesi, o luoghi di altra natura, quali fonti, montagne, etc.103 Ciò è particolarmente evidente nel testo C, la grande “evocatio” dell’Ištar di Ninive, in cui l’elencazione dei luoghi è effettuata con grande accuratezza. Allo stesso modo che nei testi A e B, inoltre, la dea deve portare con sé salute, prosperità, etc. e toglierle ai nemici104. Il testo A evoca gli dèi da sette luoghi diversi: gli inferi, il fuoco, le fonti, il mare, i fiumi, le montagne e il cielo105. In ogni singola “evocatio” vengono impiegati la lana rossa, il
baccia (?) (con l’arare) è scomparsa, così appunto ti devono lasciare, dio tutelare dello scudo, l’ira la collera e la rabbia!». Cfr. Haas - Wilhelm 1974, 19. 103 B I 50-65: «Rivolgetevi allora, o dei, benignamente al re (e) alla regina. E voi, dèi maschili dei cedri da [d]ove (siete), sia in cielo, sia negli inferi, sia nelle montagne, sia nelle fon[ti], sia nel paese Mitanni, sia nel paese Kinza (Qadeš), nel paese Tunib, nel paese Ugarit, nel paese Zinzira, nel paese Tunanapa, nel paese Idarukatta, nel paese Gatana, nel paese Alalah, [nel paese Kin]aḫḫi (Kanaan), nel paese Amurru, nel paese Zituna (Sidone), nel paese Zunzura (Tiro), [nel paese Nuḫašš]e, nel paese Ugulzit, nel paese Arapḫa, nel paese Zunzurḫi. [Sia nel] paese Assur, nel paese Babylon, nel paese Šanḫara, nel paese Mizri (Egitto), [nel paese Alašš]ija (Cipro), nel paese Alzija, nel paese Papaḫḫi, nel paese Kummanni, [nel paese Ḫajaš]a (Armenia), nel paese Lulluwa, nel paese Arzawa, nel paese […], […], nel paese Talawa, nel paese Maša, nel paese […], nel paese Galkiša, [nel paese Kunt]ara, nel paese Ijalanti, nel paese Wiluša, nel paese [. . .], nel paese Luḫm, nel paese Šappuwa, nel paese […], [nel paese Partḫauin]a, nel paese Gašula, nel paese Ḫi[muwa]?, nel paese Lalḫa, [tornate] da tutt[e le terre], in cui allo stesso modo (siete), ora nel paese Hatti!». In A I 40 i nomi dei paesi sono riassunti invece in una formula generale: «Allora nomina tutte le terre». 104 B II 1: «Voltate quindi le spalle al paese del nemico e ai malintenzionati [che lo abitano]»; II 6-12: «Venite dunque nel paese Hatti, ordinato, buono (e) splendente e porta[te] vita, salute, lunga vecchiaia, discendenza – figli, figlie, [nipoti], pronipoti – amore degli dei, [lealtà?] degli dei, forza, n- (e) obbedienza e a[l re e alla regina] “alzate le mille ciglia”, rivolgetevi benignamente al re (e) alla regi[na]!». B II 17-25: «Elargite al re (e) alla regina vita, salute, lunga [vecchia]ia, discendenza – figli, figlie, nipoti, pronipoti – all’uomo virilità (e) forza (e) alla donna fecondità e amore (?). (Nel paese) portate, amore, lealtà (?), amore degli dei, benevolenza di fronte agli dei e elevazione (?) di fronte agli uomini, forza, armi sguainate, fertilità (e) prosperità; crescita [sviluppo, moltiplicazione] degli uomini, dei vitelli, delle pecore (e) del vino; e datele [alla coppia divina] fedeltà e obbedienza della fanteria (e) della cavalleria!». 105 A II 6 ss.; II 57 ss.; III 6-35; III 36-56; III 56-IV 6; IV 7-IV 24; IV 25-33.
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batuffolo e la stoffa-kureššar e al termine di esse ha luogo l’olocausto, dalla funzione catartica, di un numero variabile di uccelli e agnelli (di solito in numero di nove106, per vari scopi107). Lo stesso avviene nel testo B108, con alcuni particolari in più: conformemente alla natura degli dèi viene impiegato un ramo di cedro; gli dèi vengono evocati, come abbiamo visto sopra, anche da parecchie regioni diverse, comprese la Siria e l’Egitto e vengono ricondotti ad Hattusa insieme ad un accompagnamento musicale109; viene specificato che il tavolo su cui vengono posti gli ingredienti del rituale è di vimini. Nel testo D, a differenza di tutti gli altri, le strade approntate per gli dèi sono d’oro e d’argento: quest’ultimo ha nei testi khurriti dell’ambiente di Kizzuwatna una funzione catartica. Il rito presente in questo testo è incentrato sull’“evocatio” tramite strade. Gli atti rituali sono formulati in modo conciso e le particolarità dei riti presupposte. Questa “evocatio” è quella più legata all’ambiente cultuale khurrita: ciò è evidente non solo dai nomi delle divinità evocate, ma anche dai termini rituali e dalla mancanza degli ingredienti magici, questi ultimi da ascrivere alla sfera magica dei Luvii. Il nesso con le altre “evocationes” è dato dal rito del tracciare le strade e dalla successione delle vittime sacrificali. Il rituale d’evocazione è indirizzato agli dèi della regione ḫatti, portati via dai loro templi110, dalla città111,
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Come nove sono le strade, quindi le fonti, le fosse, i fiumi e di conseguenza gli uccelli sacrificati e i pani offerti nel testo A (III 8; II 10, 11, 23; III 58; II 23, 24, 58, 59; IV 30; II 27; III 59, 60). 107 A II 1-5: «Sulle nove strade brucia egli degli uccelli nel modo seguente: un u[ccello] lo brucia per ḫuwalzi (e) per talaḫulzi; un uc[ccello] per la via (e) per la saggezza; un agnello lo brucia per uniḫi e [per] ana[nešḫi]. E ugualmente per le divinità MAḪ- e Gulš- dell’uomo (così come) per Zukki (e) Anzili [bruci]a due uccelli e un agnello». 108 Per quanto riguarda i sette luoghi (fonti, mare, etc.): B III 20’; II 21’-22’; III 23’-47’; III 48’-55’; III 46’ ss.; IV 1’-26’; IV 27’-40’. 109 B IV 43’-44’: «Dinanzi (alla processione) (i musicisti) suonano uno strumento di Ištar, un’arpa (e) un tamburo galgaturi, così si portano i maschili dèi dei cedri a Tarnaluli». 110 D IV 4. 111 D III 27.
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dai campi e dai pascoli112 e dai fiumi113. Dal testo sembra trasparire che gli dèi verranno riportati in quei luoghi, tramite un «rituale di riconduzione» – se l’espressione appa uppijauwaš SISKUR, «das Ritual des Zurückschickens» (D IV 23), è intesa nel modo corretto. Lo scopo di questa “evocatio” non è chiaro, ma è certo che gli dèi vengono portati via dalla città. Un’altra particolarità del testo è la presenza di una tenda, verosimilmente quale dimora temporanea degli dèi. Il rito dell’“evocatio” tramite strade proviene in ogni caso senza dubbio da Kizzuwatna e da qui è stato poi introdotto nella capitale Hattusa. Esso sarà impiegato anche per divinità hatti-nordanatoliche come Telipinu, il dio hatti della vegetazione. Il rito è presente nel mito del dio, come si è poc’anzi osservato: le vie sono tracciate con dell’olio fino; vengono impiegati galaktar e parḫuena; in un testo parallelo del mito di Telipinu, che ha per tema la scomparsa del dio della tempesta di Kuliwišna, si nomina la stoffa kureššar. Una considerazione importante può farsi per una particolare espressione presente nella formula d’evocazione: «Ora venite via da quegli uomini malvagi»114. Il rituale ittita sembra qui avere un altro punto di contatto con quello romano: il sacerdote ittita è consapevole del fatto che il popolo che accoglierà gli dèi evocati è superiore a quello che è sul punto di perderli e tenta di persuadere il dio in tal senso115.
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D III 43. D III 43-59. 114 Ad esempio in A I 50, e B II 1; cfr. Lebrun 1980, 133, a proposito della preghiera (genere arkuwar: «perorazione, richiesta, giustificazione») di Arnuwanda e Ašmunikal al dio della tempesta di Nerik («KUB» XXXI 123) il cui tema principale è l’opposizione della malvagità dei Kaskei, che avevano distrutto la città, alla rettitudine della coppia reale, sempre rispettosa degli accordi con gli dèi: «Le thème principal développé dans l’argumentation est la mauvaise foi des Gasgas opposée à la droiture du couple royal respectueux, lui, des accords conclus. Que les dieux ne se laissent donc pas prendre au piège des Gasgas, qu’ils soient apaisés car tout rentrera bientôt dans l’ordre. Les divinités hittites doivent être persuadées que, pour elles, il n’existe rien de meilleur qu’au pays hittite!». Cfr. von Schuler 1965, 164. 115 B II 6-7: «Venite dunque nel paese Hatti, ordinato, buono (e) splendente». 113
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5. Conclusioni Analizzate così le caratteristiche dell’“evocatio” ittita, si tratta ora di metterle a confronto con quelle del rito romano, per capire la collocazione e il ruolo giocato da entrambi all’interno delle rispettive religioni. Nel mondo ittita, come a Roma, si è verificato un processo diffuso di assorbimento delle divinità straniere: nei testi ittiti si trovano moltissimi nomi di dèi, tanto che gli Ittiti stessi col riferirsi alle loro divinità parlavano dei «mille dèi di Hatti»116. Le nuove divinità venivano assunte con il loro nome originario, tanto che spesso non ne conserviamo i nomi ittiti117. Quello che sembra risultare dal precedente studio è però che gli Ittiti non abbiano riservato un rituale preciso al trasferimento delle divinità straniere, ma anzi che si siano serviti per lo scopo dei riti già in loro possesso funzionali all’invocazione dei propri dèi, il cui prototipo era il mito del dio scomparso, Telipinu. I motivi del ricorso all’“evocatio” nel mondo ittita sono vari: il dio è scomparso perché in collera con gli uomini; il dio deve essere trasferito dal nuovo tempio nel vecchio; gli dèi devono sostenere il popolo ittita prima di una campagna contro il nemico; il dio/gli dèi sono invitati a trasferirsi dal paese o dalla città nemica nel paese hatti. L’“evocatio” ittita è quindi una richiesta, di carattere prevalentemente rituale – il rito si esauriva in se stesso, senza generare o impegnare il contraente ad azioni successive118 – volta a captare l’attenzione del dio e a indurlo a spostarsi dalla sede in cui si trova, che è spesso celeste, ma anche da regioni o luoghi più circoscritti come fiumi o montagne: solo una volta si parla di una città nemica119. Per questo non vi è un’“evocatio” standard, anche perché col tempo lo stesso rito, inizialmente circoscritto al mugawar, cioè alla richiesta
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De Martino 2003, 89. Lehman 1997, 248. 118 Nella religione ittita è presente il corrispettivo del votum, il malduwar, avente anch’esso natura contrattuale e giuridica; non è tuttavia presente nei rituali evocatori sopra esaminati. 119 Cfr. Haas - Wilhelm 1974, 7, n. 1. 117
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rivolta alla divinità effettuata con la recitazione del mito, subisce delle forti influenze luvio-khurrite cui si deve l’aggiunta dell’atto di approntare le strade destinate allo spostamento degli dèi, il talliyawar. A differenza che a Roma quindi, il rituale non è rigidamente codificato. Vi sono degli elementi che ricorrono con più frequenza di altri: le offerte innanzitutto, variabili nel tipo e nel numero; la preparazione di strade, funzionali al movimento della divinità; infine l’invocazione pronunciata da un sacerdote. Ogni dio è potenzialmente “evocabile”, non solo la/le divinità della città, anche perché non sembra esservi un legame divinità-luogo forte come quello romano: il dio viene invitato a spostarsi, ma non ci si aspetta che esso abbia poi un legame vincolante o esclusivo con la sua nuova sede120. La mancanza di codificazione rispetto a Roma è evidente anche perché nel rituale ittita potremmo riconoscere tutti i distinti rituali romani funzionali allo spostamento o comunque a placare la divinità: l’evocatio, intesa sia in senso proprio, cioè ottenere che gli dèi nemici abbandonino la propria città – ma abbiamo visto come ciò accada in realtà una sola volta –, sia in senso lato, cioè «chiamare fuori» il dio dal luogo in cui si trova in quel momento; l’exauguratio, cioè lo spostamento rituale di un dio del proprio pantheon ottenuto con lo scioglimento121 dei vincoli sacrali del luogo; infine l’exoratio, cioè la più semplice supplica tramite preghiere per ottenere il favore divino – anche a discapito di altri. Parallela a ciò è la variabilità con cui i termini ittiti sono stati tradotti: «invocazione», «evocazione (rituale)» e «riconciliazione». Per quanto sia nota l’importanza della statua di culto nel mondo ittita, non sembra far parte del rituale il trasporto di essa, che non riveste alcun ruolo neanche nella manifestazione del consenso della divinità. A Roma è in preponderante evidenza la peculiare figura della divinità tutelare della città. Viene così enfatizzata una caratteristica importante del pensiero religioso romano: il legame dio-luogo122. Ci si rivolge alla divinità sotto la cui protezione la città è nata e può 120 Come nel caso già visto di Ištar di Ninive, in relazione al quale il Basanoff richiama anche il rito dell’excantatio. 121 Liberare: Cic. Leg. II 21; Liv. V 54, 7; Serv. Ad Aen. I 446. 122 Cfr. Rüpke 1990, 163; Bruun 1972, 109; Ferri 2010a.
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continuare ad esistere123; ottenutone il sostegno – o la neutralità124 –, senza il quale la conquista sarebbe risultata impossibile125, si evitava sì di commettere un sacrilegio, ma allo stesso tempo si privava la città del suo nucleo sacrale, quello da cui essa si sarebbe potuta continuamente rinnovare126 e senza il quale una città non poteva essere considerata tale127. Con l’evocatio la città veniva desacralizzata e privata delle sue difese soprannaturali, lasciando l’onere della conquista alle sole armi128 e la possibilità di una devotio hostium. Parallelamente, aumentava anche il “potere” divino dalla parte dei Romani129 e ciò si esprimeva in forma visibile nell’impressionante spettacolo delle decine di templi130 in cui si trovavano le statue di culto, rimosse e trasportate a Roma anche in seguito a un’evocatio: quest’ultima infatti era praticata solo in un contesto bellico131, mentre trasferimenti potevano avvenire anche in tempo di pace132. Tutto ciò si intende per le divinità non romane: la richiesta di trasferimento rivolta agli dèi del proprio pantheon ha luogo tramite un rito specifico, l’exauguratio133. L’evocatio romana ha inoltre uno spiccato carattere giuridicocontrattuale: il contraente, in cambio di ciò che richiede, si impegna,
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Esemplare in questo senso il discorso di Furio Camillo contro la proposta di abbandonare Roma per Veio dopo l’incendio gallico (Liv. V 51-52). In esso risalta il particolare legame che gli dèi hanno stabilito con il luogo in cui è sorta Roma: Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus; sacrificiis sollemnibus non dies magis stati quam loca sunt in quibus fiant. 124 Rüpke 1990, 164: «Untätigkeit». 125 Macr. Sat. III 9, 2; Rüpke 1990, 162. 126 Rohde 1963, 195. 127 Cfr. Liv. V 30 sulla volontà di una parte del popolo di abbandonare Roma per Veio nel 396 a. C.: nefas ducere desertam ac relictam ab dis immortalibus incoli urbem, et in captivo solo habitare populum Romanum et victrice patria victam mutari. 128 Alvar 1984, 145. 129 Cfr. Pfister 1966, 1160, 1162; Bruun 1972, 115; Rohde 1963, 194. 130 Cfr. Rohde 1963, 191-192, 196. 131 Al contrario Blomart 1997, 107. 132 Paul. Fest. 268 L. 133 Cfr. Ferri 2006, 238-240.
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con un votum, ad offrire alla divinità un culto a Roma, insieme a un tempio e talvolta dei giochi. L’offerta romana è costituita unicamente dagli exta, aventi carattere di «garanzia» di scioglimento del voto e necessari per venire a conoscenza della disposizione divina in merito alla proposta romana134. I due riti presentano notevoli differenze e possono essere paragonati unicamente se restituiamo al termine evocatio il suo valore etimologico di «e-vocare», cioè «chiamare da»: solo in questo modo possiamo definire “evocationes” l’insieme eterogeneo dei riti ittiti considerati, escludendo il valore tecnico che aveva invece a Roma il termine, caratterizzante un rito ben preciso. Se vogliamo ravvisare delle somiglianze quindi, esse sono individuabili esclusivamente a livello generale: in entrambi i casi l’“evocatio” è pronunciata dal sacerdote e hanno luogo un sacrificio e un’invocazione; nel caso peculiarissimo dell’“evocatio” da una città nemica entrambe distinguono tra protettori, gli dèi, e protetti, la popolazione: i primi vengono trattati con grande riverenza e vengono integrati nel pantheon nazionale. Va rilevato infine come in entrambi i sistemi religiosi al centro vi sia la divinità e il rapporto con essa. Una delle grandi prove addotte dal Dumézil sul fatto che nel mondo indoeuropeo la teologia occupi una posizione di assoluto rilievo appartiene proprio al mondo ittita: la lista degli dèi di Mitanni. In questo trattato di alleanza, risalente al 1380 a. C., il re ittita Supilulliuma e il re di Mitanni135, Matiwaza, invocano quali garanti dell’accordo tutti gli dèi riconosciuti dai loro due imperi. Fra gli dèi mitanni, accanto a divinità sconosciute o riconoscibili come locali o babilonesi, il secondo re invoca gli dèi protettori della società: Mitra-Varuna, Indra e Nasata, gli dèi delle tre funzioni che ritroviamo anche in India e in Iran136. L’antichità del
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Guittard 1998b, 64-65. A differenza del ramo orientale, emigrato verso l’Indo e il Punjab e successivamente autore degli inni vedici, questo ramo della popolazione indo-iranica si mosse verso Ovest, insediandosi presso l’Eufrate. Esso parlava un dialetto molto vicino a quelli definibili come «para-indiani»: cfr. Dumézil 1958, tr. it. 54. 136 Cfr. Dumézil 1958, tr. it. 54-57. 135
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documento ci mostra che questa teologia è anteriore alla redazione dei Veda e fa parte di una tradizione antichissima che verrà poi ereditata anche in Italia, dai Celti, dai Germani e dagli Scandinavi. Scriveva Cicerone nel De natura deorum (I 116): Est enim pietas iustitia adversum deos. Una definizione che gli Ittiti avrebbero sottoscritto in pieno.
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CAPITOLO III Il nome segreto di Roma*
1. Importanza del nome Accanto alla ricca tradizione circa l’etimologia e il significato del nome di Roma1, ve n’è un’altra riguardante il nome segreto della città stessa. L’esistenza di un nome non noto accanto a quello conosciuto a tutti si può riscontrare in varie società, dall’antichità fin quasi ai giorni nostri. Essa trae origine dalla concezione secondo cui il nome costituisce una parte integrante ed essenziale dell’individuo e, più in generale, dalla credenza che il rapporto tra parola e cosa non sia solamente astratto, ma reale e sostanziale2. Il nome «seleziona» l’individuo all’interno del gruppo3; il suo conferimento sancisce il momento dell’integrazione sociale4, così come
* Il presente capitolo è costituito dall’unione e dalla rielaborazione, riveduta e corretta, di Ferri 2007 e Ferri 2009a. 1 Sulle varie etimologie, solo a titolo esemplificativo, cfr. De Angelis 1937, 78-80; Colonna di Cesarò 1938, 365-374; De Angelis 1947, 8-13; Pelliccioni di Poli 1969, 5-10; Opelt 1965; Peruzzi 1969, 131-137; De Simone 2006. 2 Cfr. Gladigow 1975, 16: «Senza nome le cose non sono (...), dove c’è un nome, vi dev’essere anche la cosa indicata». La bibliografia sull’argomento è sterminata; si vedano tra gli altri: Colonna di Cesarò 1938, 341-345; De Angelis 1947, 14-18; Hirzel 19622, 9-27; Pelliccioni di Poli 1969, 10-11; Peruzzi 1969, 156-157. Vi è anche una valenza psicologica del nome: essere chiamati col proprio nome vuol dire uscire dall’anonimato, sentirsi ed «essere» una persona: cfr. Gladigow 1975, 18-19. 3 Gladigow 1975, 14-19. 4 Cfr. Brelich 1966, 33; Augé 1982, tr. it. 179-180. Tale integrazione avviene da parte del gruppo sociale, che così accoglie al suo interno il suo nuovo componente, e implica nello stesso momento l’accettazione da parte di quest’ultimo
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un «messaggio» su ciò che ci si aspetta o si augura al destinatario5. Si temeva che conoscere il nome autentico conferisse una sorta di potere sulla persona che lo portava, ed esso diventava pertanto «tabù»6. Per fare alcuni esempi, presso alcuni popoli il bambino alla nascita riceveva due nomi: quello vero, che avrebbe conosciuto solo una ristretta cerchia di parenti o addirittura i soli genitori, insieme a un altro da usare nei normali rapporti sociali7; il vero nome dei sacerdoti di Eleusi veniva scritto su lamine di bronzo che venivano poi gettate nel Golfo di Salamina e non poteva essere mai più pronunciato fino alla morte del possessore, neanche da quest’ultimo8; Iside, un tempo una donna mortale, sarebbe diventata una dea perché venuta a conoscenza del nome segreto di Rhâ, il dio del sole9; proprio perché era interdetto dire il vero nome del dio d’Israele gli Ebrei ne avrebbero perso il ricordo dell’esatta pronuncia10; in arabo Allah non vuol dire altro che «il dio»11. Per arrivare finalmente a Roma, sappiamo che, a livello privato, una pratica molto diffusa era la defixio, cioè la maledizione o la “fatdelle regole di comportamento in esso vigenti. Al contrario, la mancanza di un nome individuale sanciva uno status di esclusione, come avveniva ad esempio a Roma permanentemente per lo schiavo, considerato una res, e temporaneamente per l’uomo libero, fino cioè all’assunzione della toga virilis, momento in cui il giovane romano veniva iscritto con la sua piena formula onomastica negli elenchi della tribù: cfr. Suet. Nero, 7; C. Dio. LV 22, 4; Prop. IV 1, 131-132. Il Peruzzi (1969, 144 ss.) suppone che fosse consentito pronunciare il praenomen della donna solo nella cerchia dell’intimità domestica, e avanza un paragone con il vero nome della Bona Dea, interdetto agli uomini: cfr. Serv. Ad Aen. VIII 314; Cic. Har. resp. 17; Macr. Sat. I 12, 27; Lact. I 22, 10; Tert. Ad nat. II 9, 22; Serv. Ad Georg. I 21. 5 Cfr. Carafa - D’Alessio 2006, 431-433. 6 Sul significato e la valenza del segreto da un punto di vista sociologico, cfr. Simmel 1992. 7 Per questo, per gli esempi successivi, e in generale per il concetto di tabù, v. il cap. XXII di Frazer 2006; cfr. De Angelis 1947, 14-19; Pelliccioni di Poli 1969, 10-11; Gladigow 1975, 21 ss.; Gladigow 1981. 8 Paton 1891. 9 Gladigow 1981, 1212. 10 Gese 1975. 11 La questione è comunque più complessa, soprattutto per le fasi iniziali dell’Islam: cfr. Van Ess 1975.
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tura” nei confronti di una persona odiata, ad esempio un rivale in amore: il nome veniva scritto su una tavoletta di piombo insieme a tutte le disgrazie che si auguravano al destinatario del proprio risentimento12; talvolta, con un procedimento che può ricordare quello ben più noto del vudù, la si accompagnava ad una statuetta di cera, che veniva poi trafitta in vari punti con degli spilloni13. Tali pratiche non erano ristrette ad un ambito popolare o comunque numericamente ristretto14, né erano prese alla leggera o liquidate sbrigativamente come semplici superstizioni: vi erano apposite leggi nelle Dodici Tavole che mettevano in guardia dal praticare siffatti malefici15, non solo contro gli uomini, ma anche contro i campi, che così facendo, si pensava, si sarebbero riempiti di erbacce oppure non avrebbero dato frutto16. Possiamo dire quindi che: «il nome è esso stesso, per i Romani, una realtà con valore religioso (e quindi giuridico e politico)»17. Ad un livello più elevato esso era l’elemento essenziale per relazionarsi con il mondo degli dèi; si i Romani si rivolgevano all’essere divino in modo da non essere equivocati o fraintesi e tale scopo si servivano di formule «precauzionali» all’uopo elaborate18.
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Cfr. Audollent 1904; Appel 1909, 30-39; Gager 1992; Brodersen - Kropp 2004; Rüpke 2001, tr. it. 186-190; Graf 2005; Graf - Fowler - Nagy 2005. 13 La scrittura serve a fissare il maleficio, dato che l’«atto performativo», comprendente atti e formule di varia natura, avviene di nascosto, spesso al buio e senza testimoni; cfr. Rüpke 2001, tr. it. 189: «L’assenza di pubblico rafforza la necessità di rendere performativa la dichiarazione. Poiché ne è testimone tutt’al più il solo mago, occorre che l’azione sia, nei limiti del possibile, materializzata, messa per iscritto». Cfr. Ov. Amor. III 7, 29; Heroid. VI 91; Bologna 1978, 340: «La defixio implica l’intervento di un personaggio (di un tecnico) dotato di capacità e di poteri pericolosi, prima ancora che per i suoi effetti, per l’impiego di strumenti, in sé indifferenti, in un contesto anti-sociale ed anti-statale». 14 Plin. N. h. XXVIII, 19: Defigi quidem diris precationibus nemo non metuit. 15 Plin. N. h. XVIII, 17: Quid? Non et legum ipsarum in XII Tabulis verba sunt: Qui fruges excantassit, et alibi: Qui malum carmen incantassit? Cfr. Ernout 1964; Rives 1995. 16 Plin. N. h. XVIII, 41-43. 17 Catalano 1965, 226. 18 Come la formula sive deus sive dea, per cui cfr. Alvar 1985; Guittard 2002; Ferri 2006, 216-222; più diffusamente Ferri 2010a.
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Il pantheon romano comprendeva numerose divinità che non avevano un vero e proprio nome, ma erano qualificate dallo spiccato carattere «puntuale», vale a dire dall’essere l’entità operante in un ben determinato e circoscritto momento o luogo: in primis ricordiamo il genius19. Tuttavia ve n’erano molte altre: il dio che nel 390 a. C. aveva avvertito i Romani dell’appropinquarsi dei Galli fu chiamato Aius Loquens o Locutius20, perché l’unico dato sicuro che si possedeva su quella particolare divinità era la voce udita in quell’occasione21; il dio che presso Porta Capena si credeva avesse indotto Annibale a tornare sui propri passi e ad allontanarsi da Roma ebbe semplicemente il nome di Rediculus 22; divinità analoghe furono la Fortuna huiusce diei 23 e Bonus Eventus 24. Da Servio apprendiamo che nel diritto pontificale si evitava di chiamare gli dèi romani col proprio nome, perché le loro sedi cultuali non potessero essere spostate25; così avevano fatto più di una volta i Romani nei confronti degli dèi nemici, evocandoli dalle loro città26.
2. Il traditore dell’arcanum? La tradizione su Valerio Sorano In base alle considerazioni precedenti, è evidente come essere al corrente del nome segreto di Roma avrebbe consentito a chiunque
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Cfr. Dumézil 1983; Ferri 2010a. Cfr. Gladigow 1981, 1213: «ansagender Sprecher». 21 Liv. V 32, 6; 50, 5; 52, 11; Cic. De Div. I 101; II 69; Varr. ap. Gell. XVI 17, 2; Radke 1965, 59-60; Radke 1987, 181-182; Dumézil 19742, tr. it.2 55-56; Dubordieu 2003, 262 ss. 22 Paul. Fest. 282 L; Plin N. h. X 122. 23 Plut. Mar. 26 3; CIL I2 217; 219; 323; InscrIt XIII 2; 47; 178 ss.; 488; Coarelli 20033, 338. 24 Amm. Marc. XXIX 6, 19; Coarelli 1997, 826, n. 51. 25 Serv. Ad Aen. II 351: (...) et iure pontificum cautum est ne suis nominibus dii Romani appellarerunt, ne exaugurari possent; cfr. Paul. Fest. 94 L: indigetes dii quorum nomina vulgari non licet. Democrito (68 B 142 Diels-Kranz) riunisce in un solo concetto statua e nome, da cui s’inferisce la maggiore importanza del secondo: i nomi divini sono «simulacri parlanti». 26 Supra, cap. I. 20
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fosse venuto a saperlo, soprattutto se nemico, di mettere a rischio l’esistenza stessa della città, ed è per questo che andava tenuto il più possibile occulto: era proibito addirittura esserne a conoscenza27. Secondo alcuni autori, un certo Valerio Sorano avrebbe compiuto l’inaudita empietà di rivelare quel nome, e per questo sarebbe stato messo a morte. Questo personaggio suscita una serie di problemi ed interessanti riflessioni, circa la frequentazione di eminenti personalità quali Cicerone e Varrone, la probabile identificazione con il poeta Valerio Edituo, il significato e il contenuto dei pochi frammenti conservati della sua opera, etc., che non possono essere affrontati in questa sede28. Faremo qui cenno solo all’unico titolo conservato della sua opera, utile per affrontare la problematica della conoscenza da parte dell’erudito del nome segreto dell’Urbe. Plinio il Vecchio afferma, al termine della lettera dedicatoria della sua Naturalis Historia, rivolta all’imperatore Tito, che l’imperatore potrà trovare i temi che più gli interessa approfondire senza dover leggere tutta la sua opera, ma ricorrendo agli indici degli argomenti trattati. Egli sostiene di aver ripreso questo metodo da un lavoro di Valerio Sorano, di cui ci fornisce il titolo: Ἐποπτίδων 29. Alcuni riferi-
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Serv. Ad Georg. I 498: Nam verum nomen eius numinis, quod urbi Romae praeest, sciri sacrorum lege prohibetur. Si può ricordare anche l’attenzione posta nelle Tavole Eugubine (VIa 22-23) a non pronunciare il nome della città nell’invocazione a Iuppiter Grabovius: cfr. Pfiffig 1964, 104-106. 28 Per cui cfr. Ferri 2007. 29 Plin. N. h. Praef. 33: Quia occupationibus tuis publico bono parcendum erat, quid singulis contineretur libris, huic epistulae subiunxi summaque cura, ne legendos eos haberes, operam dedi. Tu per hoc et aliis praestabis ne perlegant, sed, ut quisque desiderabit aliquid, id tantum quaerat et sciat quo loco inveniat. Hoc ante me fecit in litteris nostris Valerius Soranus in libris, quos Ἐποπτίδων inscripsit. Brizzi 1982, 247, ipotizza in modo del tutto arbitrario che l’opera di Sorano sia potuta servire a Plinio come fonte per un’opera storica, che avrebbe avuto quindi «indirizzo soteriologico» e «strutturazione teosofica», di più: «Forse nell’episodio del nomen svelato è rifluito un sia pur minimo indizio circa l’orientamento storiografico di Plinio. Se così fosse, esso sarebbe apparentemente rivelatore di una concezione storicistica, secondo la quale il corso degli eventi risulta orientato verso un fine precostituito e determinato da una serie di leggi irrazionali, che esulano dalla realtà umana e storica».
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scono proprio a quest’opera l’atto che, secondo la tradizione, costò la vita al Sorano: la rivelazione del nome segreto di Roma30. Del sacrilegio parlano vari autori, il più antico dei quali è lo stesso Plinio: «(…) inoltre la stessa Roma, il cui altro nome è ritenuto sacrilego dire nei misteri cerimoniali, abolito per opportuna e utile sicurezza rivelò Valerio Sorano e subito dopo ne pagò il fio»31. Roma aveva quindi un alterum nomen, segreto a tal punto da non poter essere pronunciato neanche nelle parti tenute maggiormente nascoste delle cerimonie religiose e da essere stato abolito per opportuna e utile sicurezza nel senso che, probabilmente, laddove esistevano momenti o riti in cui anticamente questo nome era pronunciato, si intervenne su di essi per rimuovere ogni rischio. Ma a quale pericolo si sarebbe andati incontro se esso fosse stato divulgato? La risposta ce la fornisce sempre Plinio: «Verrio Flacco prende in considerazione degli autori i quali ritenevano che, in occasione degli assedi, i sacerdoti romani fossero soliti per prima cosa evocare il dio sotto la tutela del quale si trovava quella città e promettergli un culto uguale o più grande presso i Romani. E questo rito permane nella disciplina dei pontefici e per questo motivo si continua a tener nascosto sotto la tutela di quale dio si trovi Roma, affinché qualche nemico non possa comportarsi allo stesso modo»32. Il segreto che avvolgeva il nome della divinità tutelare di Roma era legato a doppio filo a quello riguardante il nome della città, tanto che i due venivano spesso confusi l’uno con l’altro (per alcuni erano identici)33. Macrobio, ad esempio, afferma dapprima che entrambi i
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Cfr. Büttner 1893, 123; Cichorius 1906, 61, 64, 67; Brelich 1949a, 20; Köves-Zulauf 1970, 353-354. 31 Plin. N. h. III 65: (...) superque Roma ipsa, cuius nomen alterum dicere arcanis caerimoniarum nefas habetur, optimaque et salutari fide abolitum enuntiavit Valerius Soranus luitque mox poenas. 32 Plin. N. h. XXVIII 18: Verrius Flaccus auctores ponit quibus credatur in obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis sacerdotibus evocari deum cuius in tutela id oppidum esset promittique illi eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in pontificum disciplina id sacrum, constatque ideo occultatum in cuius dei tutela Roma esset, ne qui hostium simili modo agerent. 33 Cfr. Köves-Zulauf 1970, 346 (e nn. 81-82): «(...) alles dafür spricht, daß die zwei Namen miteineinder völlig oder nahezu identisch waren. Auf jeden
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nomi venivano tenuti segreti per scongiurare il pericolo di un’evocatio: «Questo è anche il motivo per cui i Romani vollero che rimanesse ignoto il dio sotto la cui protezione è posta la città di Roma e il nome latino della città stessa»34, mentre poco più avanti sostiene che lo stesso pericolo venne scansato mantenendo segreto solo il nome della città: «Invece il nome della città è sconosciuto anche ai più dotti, poiché i Romani presero ogni precauzione: volevano evitare, in caso di divulgazione del nome tutelare, di dover subire, in seguito ad evocazione dei nemici, ciò che sapevano di aver fatto spesso nei confronti di città nemiche»35. Ancora, al paragrafo successivo, il testo del carmen che Macrobio ha reperito nell’opera di Sammonico Sereno si rivolge unicamente alle divinità tutelari cittadine: «Però bisogna stare attenti a non incorrere nell’errore commesso da alcuni, ritenendo che un’unica formula servisse per evocare gli dèi da una città e renderla maledetta»36. Ad ogni modo, rivelare uno dei due segreti avrebbe portato alla distruzione «sacrale» di Roma, equivalente alla distruzione fisica della città per un popolo che individuava nel favore degli dèi il motivo principale del proprio successo37. I Romani conoscevano bene la sorte cui andava incontro la città privata del proprio nucleo sacro Fall hängen die zwei Fragen, die zwei Fassungen miteinander engstens zusammen»; come ipotesi in Brelich 1949a, 9-10: «(...) così si presenta per ora la possibilità che qui non vi sia alla base una confusione, quanto piuttosto un’effettiva identità del nome della città con quello della sua divinità tutelare: in questo caso la differenza tra la città stessa e la sua divinità sarebbe risibile e impalpabile così come quella tra la città di Roma e la dea Roma in età ellenistica». È più verosimile tuttavia che i due nomi fossero invece concepiti come diversi: per tutta la problematica circa il rapporto tra i due segreti, cfr. Ferri 2010a. 34 Sat. III 9, 3: Nam propterea ipsi Romani et deum, in cuius tutela urbs Roma est, et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt. 35 Ibid. 5: Ipsius vero urbis nomen etiam doctissimis ignoratum est, caventibus Romanis, ne quod saepe adversus urbes hostium fecisse se noverant, idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur, si tutelae suae nomen divulgaretur. 36 Ibid. 6: Sed videndum ne quod non nulli male aestimaverunt nos quoque confundat opinantes uno carmine et evocari ex urbe aliqua deos, et ipsam devotam fieri civitatem. 37 Cfr. Cic. De har. resp. 19; Sall. Cat. 12, 3; Polib. VI 56, 6 ss.
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più prezioso, avendola essi inflitta più di una volta ad altre città con l’evocatio, cui poteva seguire talora anche una devotio38. Della fatale empietà di Valerio Sorano parlano anche Servio e Plutarco. Il primo fornisce molti dati preziosi e presenta più di una variante. Nel suo commento alle Georgiche la causa della morte dell’erudito di Sora è attribuita al palesamento del nome autentico della divinità tutelare di Roma, nome che era proibito addirittura conoscere: per l’empia azione egli, allora tribuno della plebe, fu crocifisso39. Siamo certi che Servio si riferisca al Sorano da un passo dello stesso autore, proveniente stavolta dal commento all’Eneide: «Infatti nessuno pronuncia il nome di quella città persino durante i riti. Infine un certo tribuno della plebe, Valerio Sorano, come sostiene Varrone e molti altri, osò pronunciare questo nome, cosicché alcuni dicono che sia stato arrestato dal senato e levato sulla croce, mentre altri che per paura della pena sia fuggito e, catturato in Sicilia dal pretore su ordine del senato, sia stato ucciso»40. Di nuovo un certo tribuno, che stavolta ha un nome, Valerio Sorano, osò pronunciare il vero nome di Roma41 e ciò gli costò la vita. La condanna a morte fu emessa dal Senato, e questo ci rende edotti una volta di più della gravità dell’atto, che metteva a repentaglio la sopravvivenza stessa della città al punto da richiedere l’intervento del più alto consesso di Roma, che giunge a comminare una pena d’inaudita durezza, la crocifissione, riservata agli individui di condizione servile42. Servio
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Supra, cap. I, par. 4. Serv. Ad Georg. I 498: Nam verum nomen eius numinis, quod urbi Romae praeest, sciri sacrorum lege prohibetur: quod ausus quidam tribunus plebis enuntiare in crucem levatus est. 40 Serv. Ad Aen. I 277: Urbis enim illius verum nomen nemo vel in sacris enuntiat. Denique tribunus plebei quidam Valerius Soranus, ut ait Varro et multi alii, hoc nomen ausus enuntiare, ut quidam dicunt, raptus a senatu et in crucem levatus est, ut alii, metu supplicii fugit et in Sicilia comprehensus a praetore praecepto senatus occisus est. 41 Ibid.; Solin. I 4: verum; Plin. N. h. III 65: alterum; Macr. Sat. III 9, 3: Latinum. 42 Basanoff 1947, 27, ritiene che il crimine di Valerio Sorano, che minava l’esistenza stessa della repubblica, si configurasse come una perduellio: cfr. 39
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fornisce in questo caso una variante: Valerio Sorano fu ucciso, stavolta in modo non meglio specificato, dall’allora (pro)pretore di Sicilia, in cui era fuggito per timore del castigo. Anche Plutarco afferma che la morte violenta di Valerio Sorano fu causata dalla sua empia pronuncia, stavolta del nome della divinità, ἄρρην εἴτε θήλεια, alla quale spettava la tutela della città di Roma, tutela che i Romani avevano paura di perdere a seguito di un’evocatio da parte del nemico: «Per quale motivo di quel dio, al quale in special modo spetta custodire e proteggere Roma, sia esso maschio o femmina, è proibito parlare e cercare di conoscere e nominare? Connettono questo divieto allo scrupolo religioso, raccontando che Valerio Sorano andò malamente in rovina per averlo rivelato. È possibile, come raccontano alcuni Romani, che ci siano invocazioni e incantamenti degli dèi per i quali, ritenendo che alcuni dèi dei nemici siano stati evocati e si siano stabiliti presso di loro, temevano di patire lo stesso da parte di altri»43. Giunti a questo punto, è opportuno soffermarsi sulla morte di Valerio Sorano, per cercare di individuarne le cause reali: egli in realtà
Ulp. Dig. XLVIII 4, 11: hostili animo adversus rem publicam ... animatus; Brecht 1937; Crifò 20003, 48, 142, 177, 190. 43 Plut. Q. R. 61. È certo inoltre che il medesimo autore si riferisca al Sorano in un altro passaggio (Pomp. 10): Έπὶ τούτους [i Mariani] Πομπήϊος ἀπεστάλη μετὰ πολλῆς δυνάμεως… Γάϊος δὲ Ὄππιος Καίσαρος ἑταῖρος ἀπανθρώπως φησὶ καὶ Κοΐντῳ Οὐαλλερίῳ χρήσασθαι τὸν Πομπήϊον. Έπιστάμενον γὰρ ὡς ἔστι φιλόλογος ἀνὴρ καὶ φιλομαθὴς ἐν ὀλίγοις ὀ Οὐαλλέριος, ὡς ἤχθη πρὸς αὐτόν, ἐπισπασάμενον καὶ συμπεριπατήσαντα καὶ πυθόμενον ὧν ἔχρῃζε καὶ μαθόντα, προστάξαι τοῖς ὑπηρέταις εὐθὺς ἀνελεῖν ἀπαγαγόντας («Contro costoro [i Mariani] fu mandato, con un grosso esercito, Pompeo… Gaio Oppio, l’amico di Cesare, sostiene che Pompeo si comportò in modo inumano anche con Quinto Valerio. Dice infatti che, sapendo che Valerio era un uomo colto e appassionato agli studi come pochi, quando gli fu condotto davanti, lo prese con sé e passeggiando con lui gli rivolse delle domande su questioni che gli interessavano; una volta che ebbe avuto risposta, ordinò ai suoi aiutanti di portarlo via e di ucciderlo immediatamente»). Un ultimo accenno alla sorte del nostro e al motivo che la determinò si trova in Lyd. De mens. IV 50: (…) καὶ λόγος ποινὰς ὑποσχεῖν τινὰ τῶν ἐν τέλει ποτὲ ἀνθ’ ὧν ἐπὶ τοῦ πλήθους τὸ τελεστικὸν ὄνομα τῆς πόλεως ἀναφανδὸν ἐθάρρησεν ἐξειπεῖν («e si dice che una volta un magistrato fu punito per aver osato rendere noto il nome iniziatico al popolo»).
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non conobbe alcun nome segreto, e la sua uccisione ebbe cause esclusivamente politiche. La motivazione religiosa fornì una comoda giustificazione e fu di certo sfruttata ad arte. Ma andiamo con ordine. Il nome segreto di Roma fu etiam doctissimis ignoratum per il timore già detto dei Romani di subire una distruzione «sacrale» della città44. Partendo dal presupposto che qualcuno a Roma lo conoscesse, esso non poteva trovarsi in un libro45 e non era sicuramente reperibile con una ricerca d’archivio, per quanto accurata e scrupolosa46. Si può ipotizzare anche un’altra via per cui si potesse giungere a questa conoscenza: quella religiosa. È certo che Valerio Sorano, nell’ambito della sua notevole dottrina, ebbe profonde conoscenze in campo religioso, sia di religione arcaica romana che di religione greca, e non solo delle parti influenzate dalla dottrina stoica47. Oltre ai suoi studi egli poté sicuramente profittare della carica di aedituus (dando per certa l’identificazione del Sorano con l’Edituo)48, potendo quindi verosimilmente avere accesso a risorse normalmente interdette ai profani49. Il Della Corte colloca la sacrilega enunciazione50 proprio nel contesto di quell’ufficio51.
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Macr. Sat. III 9, 5 è l’unico che associa questo nome all’evocatio. Nota giustamente il Della Corte (1935, 69) che, se così fosse stato, le Ἐπόπτιδες «avrebbero per ciò stesso subita la medesima sorte dei libri Sibillini e non sarebbero sopravvissute fino a Plinio». 46 Diversamente il Köves-Zulauf (1970, 345): «Zugleich war aber die so auf den Markt getragene Erkenntnis eine wissenschaftliche Leistung, Ergebnis seiner philologisch-altertumswissenschaftlichen Forschungsarbeit». 47 Cfr. in generale Ferri 2007. 48 Ibid. 49 Oltre a quanto già detto, si può pensare che essi ebbero naturalmente grande dimestichezza con i riti per il carattere stesso dell’ufficio ricoperto. Essi potevano talvolta anche avere un rapporto più «diretto» con gli dèi: cfr. Macr. Sat. II 3, 1: ut aedituus responsa numinis sui praedicat, ita ego quae memoria suggesserit refero dicta Catonis; Liv. XLIII 13, 4 ss.: in urbe Romana duo aeditui nuntiarunt, alter in aede Fortunae anguem iubatum a compluribus visum esse, alter in aede Fortunae Primigeniae, quae in colle est, duo diversa prodigia; si può ricordare infine come un aedituus svolga un ruolo importante nel mito di Acca Larentia: cfr. Plut. Rom. 5, 1-10; Id. Q. R. 35; Macr. Sat. I 10, 13-16. 50 Köves-Zulauf 1970, 345: «Redetabu», «Redesakrileg». 51 Della Corte 1935, 70. 45
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L’Alfonsi52 dal canto suo, prendendo le mosse dal passo di Giovanni Lido: «mentre evocare quello iniziatico [scil. nome] era permesso solo ai pontefici massimi durante i riti sacri»53, accetta l’integrazione del Mommsen al già visto passo di Plinio (N. h. III, 65), per cui: «Inoltre la stessa Roma, il cui altro nome è ritenuto sacrilego dire ‹se non› nei misteri cerimoniali»54. Anch’egli ritiene di conseguenza che l’empietà del Sorano non derivi dal contesto cerimoniale della supposta enunciazione, ritenuto invece plausibile, ma dal fatto che egli non fosse un pontefice: «Dunque ai soli pontefici era permessa tale enunciazione, e per di più solo nelle sacre cerimonie (…). La colpa del Sorano fu di avere enunciato lui, non pontefice, tale nome»55. Sul ruolo dei pontefici ci soffermeremo più avanti; ora va rilevato come il senso dell’affermazione di Plinio, seguendo Mommsen, risulti stravolto. Innanzitutto lo stesso Plinio dice che l’alterum nomen era stato abolitum56 per motivi di sicurezza; egli connette inoltre a questo episodio la menzione del culto di Angerona57. Inoltre, in uno dei passi di Servio già visti (Ad Aen. I 277) si sostiene che nessuno pronunciava il vero nome della città persino (vel) durante i riti, pos-
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Alfonsi 1949, 47. Lyd. De mens. IV 50: τὸ δὲ τελεστικὸν [ὄνομα,Ἔρως] μόνοις τοῖς ἀρχιερεῦσιν ἐξάγειν ἐπὶ τῶν ἱερῶν ἐπετέτραπτο. 54 (CIL I2 337) Superque Roma ipsa, cuius nomen alterum dicere ‹nisi› arcanis caerimoniarum nefas habetur. 55 Alfonsi 1949, 47. 56 Cfr. Serv. Ad Georg. I 498: verum nomen eius numinis (…) sciri sacrorum lege prohibetur. 57 Plinio N. h. III 65 prosegue: Non alienum videtur inserere hoc loco exemplum religionis antiquae ob hoc maxime silentium institutae, namque diva Angerona, cui sacrificatur a.d. XII kal. Ian., ore obligato obsignatoque simulacrum habet. Simile in tutto e per tutto a Plinio è Solino I 4-6: Traditur etiam proprium Romae nomen, verum tamen vetitum publicari, quoniam quidem quo minus enuntiaretur caerimoniarum arcana sanxerunt, ut hoc pacto notitiam eius aboleret fides placitae taciturnitatis, Valerium denique Soranum, quod contra interdictum eloqui id ausus foret, ob meritum profanae vocis neci datum. Inter antiquissimas sane religiones sacellum colitur Angeronae, cui sacrificatur ante diem XII k. Ian.; quae diva praesul silentii ipsius praenexo obsignatoque ore simulacrum habet. Cfr. anche Macr. Sat. III 9, 4. 53
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siamo supporre naturalmente i più importanti. Non convince in proposito la spiegazione sostenuta dall’Alfonsi: «[Servio] trascura il caso particolare dei pontefici e comunque riguarda un dato di fatto, non un’eventuale concessione»58. Sempre l’Alfonsi avanza un’insostenibile motivazione politica all’empio gesto del Sorano: questi, mariano e latino, all’indomani della vittoria di Silla presso Porta Collina, l’avrebbe compiuto per favorire la vittoria dei Mariani e degli alleati e, di più, per rompere un avito privilegio di casta ed estendere un diritto che avrebbe portato a una pari dignità dei Latini anche in campo religioso: «cessava così l’angusto orgoglio dell’aristocrazia anche nel terreno sacrale, per dare luogo a più profonde solidarietà religiose che affratellassero in Roma tutte le genti»59; Valerio Sorano «aveva saputo fare un’arma di battaglia della sua conoscenza dei segreti religiosi»60. G. Brizzi, rifacendosi a questa teoria, ritiene che non sia stata una coincidenza la successiva estensione da parte di Silla di alcuni privilegi fino ad allora limitati al pomerium di Roma a tutta l’Italia peninsulare61; le 58
Alfonsi 1949, 47-48. Alfonsi 1948, 88, seguito anche dal Köves-Zulauf (1970, 345): «Für ihn war dies eine politische Tat, praktische Konsequenz seines “lateinischen Nationalismus”: dadurch sollte ein Grudgeheimnis der Stadt Rom allen Italikern zugänglich gemacht werden». Per il Wissowa (19122, 69), Valerio Sorano avrebbe rivelato il nome segreto di Roma spinto da un atteggiamento da “libero pensatore” («freigeistig»). Un’enunciazione dal carattere politico fu quella di Diagora di Melo, che, dopo la pubblicazione del “decreto delle primizie” (IG I3 78) e il triste episodio della capitolazione di Melo, irrise e rivelò il contenuto dei Misteri Eleusini e fu per questo condannato a morte in contumacia, verosimilmente nel 415/4 a. C.: cfr. Wellmann 1903; Woodbury 1965. Sulle somiglianze con il caso, ben più famoso, di Alcibiade, cfr. Bremmer 1995, 75-78. 60 Alfonsi 1948, 89. 61 Cfr. Brizzi 1982, 239, n. 29 (con cui non concordiamo): «Non si verifica probabilmente, da parte di Silla, la creazione di un nuovo pomerium; tuttavia la smilitarizzazione dell’Italia è apparentemente effettiva. (…) Prima dello scontro decisivo alla Porta Collina, egli aveva stretto accordi con le popolazioni italiche (Liv. Per. 86), garantendo loro, forse con l’esclusione dei soli Sanniti, ciò che già avevano ottenuto sotto il regime mariano». Il Brizzi non nomina un’altra importante decisione di Silla che dal suo punto di vista potrebbe essere stata presa a seguito del gesto del Sorano: la limitazione dei poteri dei tribuni (cioè della carica ricoperta dal nostro Valerio). 59
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conseguenze del gesto del Sorano sarebbero state la presa di Roma da parte dei Mariani e, addirittura, lo scoppio delle guerre civili e il formarsi dei poteri «personali»!62 Lo «scudo sacrale» sarebbe stato ricostruito in seguito solo da Augusto63. Tutta questa teoria va respinta con decisione. A parte l’incongruenza cronologica, per cui nell’82, dopo le leges Iulia e Plautia Papiria (cui potremmo aggiungere la lex Pompeia destinata agli abitanti della Gallia Cisalpina) non aveva molto senso lottare per una cittadinanza di fatto già ottenuta, vanno fatte considerazioni di carattere più strettamente religioso. In altre parole: rivelare il segreto più importante legato al nucleo religioso originario di Roma avrebbe distrutto qualcosa di più di un semplice privilegio di casta, e cioè Roma stessa. Che interesse avrebbero avuto i Latini, che miravano sostanzialmente ad ottenere la cittadinanza romana e la conseguente pienezza dei diritti civili, a desiderare una tale catastrofe? Tanto più dopo anni di lotte sanguinose, per non parlare degli ormai secolari sacrifici in termini economici e militari compiuti per la causa di Roma. Nessuno inoltre si sarebbe permesso di sottovalutare l’importanza di un tale segreto, vivissimo e ritenuto operante ancora da Plinio: si può notare come, a differenza di Macrobio, l’erudito comasco si guardi bene dall’azzardare qualsivoglia ipotesi sul nome segreto di Roma o della sua divinità tutelare! Egli, per fare un altro esempio, è attento a non chiamare col proprio nome Tutilina, una divinità intorno al nome della quale vigeva un segreto molto meno assoluto e importante: Hos enim deos tum maxime noverant, Seiamque a serendo, Segestam a segetibus appellabant, quarum simulacra in circo videmus - tertiam ex his nominare sub tecto religio est 64. Il segreto rimane influente addirittura nel V sec. d. C.: Rutilio Namaziano attribuirà la caduta di Roma al tradimento dell’arcanum imperii da parte di Stilicone65; Claudiano teme che i barbari possano
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Brizzi 1982, 241. Ibid., 246. 64 N. h. XVIII 8. Per i termini precisi della questione cfr. Köves-Zulauf 1972, 80-85. 65 De red. II 41-42: Quod magis est facinus diri Stilichonis acerbum / proditor arcani quod fuit imperii. Le interpretazioni date all’affermazione di Rutilio 63
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impadronirsene66. Il concetto di arcanum imperii di certo non coincise con l’alterum nomen di Roma, e ciò è evidente soprattutto dall’uso che di arcanus fa Tacito67. Ciononostante, proprio in quanto esso fu verosimilmente meno importante dell’altro segreto, e di sicuro non altrettanto legato alle origini stesse della città, ma comunque ritenuto abbastanza importante, se rivelato, da causare la caduta dell’Impero, si può capire quanto sarebbe stato sommamente catastrofico ed esiziale pronunciare l’autentico nome dell’Urbe. Se torniamo poi alla notizia di Servio: urbis (…) verum nomen nemo vel in sacris 68 enuntiat, è comprensibile l’osservazione del Della Corte: «unico a contravvenire a questo divieto fu (…) il nostro Valerio»69. Ma ciò è semplicemente impossibile. Il segreto che avvolgeva il nome di Roma era accuratamente custodito dai pontefici, come si può desumere dal passo già visto di Plinio: Et durat in pontificum disciplina id sacrum [l’evocatio], constatque ideo occultatum in cuius dei tutela Roma esset… Chi altri poteva conoscere l’arcanum del vero nome di Roma se non coloro che detenevano la formula per evocare Namaziano sono varie. Boano 1948 ritiene che l’arcanum non sia altro che il nome segreto di Roma; per Castorina 1967, 243, arcanum è «proprio il cuore dell’impero, cioè Roma». Doblhofer 1972, 139, traduce: «…daß er zum Verräter am Geheimnisvollen Herzen des Reiches wurde». Mazzarino 1990, 208, n. 89, esclude che l’accusa rivolta a Stilicone fosse quella di adfectatio regni, giacché ai versi immediatamente successivi a quelli citati gli si attribuisce l’intenzione di distruggere il popolo romano: Romani generi dum nititur esse superstes, crudelis summis miscuit ima furor (De red. II 43-44). Rutilio pertanto lo incolperebbe solo della chiamata dei barbari: «per distruggere un popolo, si chiamano dei nemici; ma non si aspira a governare come imperatore su di esso» (Mazzarino adduce anche che la pretesa sarebbe stata ovviamente impossibile vista l’origine semibarbarica del magister utriusque militiae). Cfr. Cod. Th. IX 42, 22: Opes… quibus ille usus est ad omnem ditandam inquietandamque barbariem; Hier. Ep. 126, 17: scelere semibarbari accidit proditoris, qui nostris contra nos opibus armavit inmicos; Oros. VII 37, 1: barbaras gentes ille immisit, hic fovit. 66 B. Get. 100-103.: …procul arceat altus / Iuppiter ut delubra Numae, sedemque Quirini / barbaries oculis saltem temerare profanis / possit et arcanum tanti deprendere regni. 67 Cfr. Benario 1963. 68 Lyd. De mens. IV 50: ἐπὶ τῶν ἱερῶν. L’autore bizantino è l’unico autore della tradizione ad avere questa posizione. 69 Della Corte1935, 70.
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le divinità delle altre città? Abbiamo visto quanto i due segreti fossero solidali e legati tra loro70, tanto da generare spesso confusione, e costituissero per così dire due facce della stessa medaglia. Per tutte queste considerazioni è da escludere che altri sacerdoti avessero la possibilità di venire a conoscenza dell’arcanum nominis, di sicuro non un “sagrestano”, per quanto, poniamo, del tempio di Giove Ottimo Massimo!71 Valerio Sorano non poté conoscere né tantomeno divulgare l’autentico nome di Roma. Egli, «ein politisch engagierter Schriftsteller»72, fu ucciso per la sua appartenenza alla fazione mariana, all’interno della quale aveva militato e aveva combattuto per la causa dei socii, certo anche con tutte le armi che gli derivavano dalla sua profonda erudizione. Da tribuno egli assistette agli scelera di Silla e alla sconfitta ed eliminazione dei compagni. Anch’egli tentò di scappare, ma fu raggiunto e assassinato da Pompeo. Il pretesto73 fu costruito sulla notizia della sua presunta conoscenza ed enunciazione del nome segreto di Roma, creata ad arte forse partendo da un’interpretazione forzata di una frase contenuta nei suoi scritti o pronunciata in chissà quale occasione. Certo egli non poté difendersi da questa accusa, perché fu ucciso subito dopo il presunto sacrilegio (mox), quando doveva essere già fuggito da Roma e l’aura di giusta punizione per la fatale empietà ammantò agli occhi di molti la sua esecuzione. 70
Non sono d’accordo tuttavia con Köves-Zulauf 1970, 346, per cui essi rappresentavano: «zwei verschiedenen Fassungen – einer magischen und einer religiösen – desselben Redetabus». Per il medesimo autore (1972, 86-108) lo stesso sarebbe riferibile alle coppie evocatio-devotio (aspetto positivo: pronuncia della formula) e divinità segreta-nome segreto della città (aspetto proibitivo: obbligo del silenzio per prevenire un’evocazione). 71 Possiamo azzardare che il tempio in cui Valerio ricoprì la sua carica fosse quello di Giove se accettiamo la teoria già avanzata del Della Corte (1935, 69), secondo cui Lutazio Catulo nella sua carica di curator restituendi Capitolii si avvalse dell’aiuto di uno degli aeditui responsabili dei sotterranei del tempio, per l’appunto Valerio Sorano che, a maggior ragione, poteva pronunciarsi con cognizione di causa sull’etimologia della parola favisae. 72 Köves-Zulauf 1970, 345. 73 Köves-Zulauf 1972, 105, n. 167: «Vorwand»; egli, oltre alle motivazioni politiche, ritiene che il pretesto fu utile anche per scansare l’odium suscitato dall’aver ucciso una personalità così eminente.
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3. Alterum nomen urbis Romae Alcuni sostengono che ai suoi primordi Roma, circoscritta al solo Campidoglio, ebbe il nome di Saturnia74; altri che dalla forma regolare del perimetro tracciato da Romolo con l’aratro il sito fu detto Roma Quadrata75. Servio riporta la posizione degli autori che ritenevano il nome della città essere stato in origine Valentia: così i primi abitanti avrebbero denominato il luogo dalla vigoria di un re, forse il mitico Caco. Evandro, secondo la variante greca delle origini di Roma anche il mitico fondatore76 di Pallanteum, il nucleo originario della città da cui sarebbe derivato Palatium, l’antico nome del colle Palatino77, non avrebbe fatto altro al suo arrivo che tradurre quel nome in greco, la sua lingua, in cui la parola ῥώμη significa «forza», in latino appunto valentia, e questo sarebbe divenuto il nome della città78. Tale denominazione, dalla forte carica idealizzante, sarà considerata come decisamente appropriata per Roma, la città fondata dal figlio di Marte. Alcuni scrittori, tra cui Catone, Virgilio, Orazio e Livio avrebbero alluso al significato greco con espressioni tautologiche, quasi dei giochi di parole, quali robur Romanum o vis Romana, in cui 74
Ov. Fast. VI 31; Varr. De l. L. V 42; Fest. 430 L; Münter 1816 pensa anche a una provenienza da «satur» = «forte», «virile». 75 Verg. Aen. VIII 357-358; App. Ia 9. 76 Dion. Hal. I 79, 31 ss.; Varr. ap. Serv. ad Aen. VIII, 51; Ov. Fasti I 499 ss.; Liv. I 5; Paus. VIII 43, 2; etc. 77 Per le altre etimologie del nome del colle, v. Colonna di Cesarò 1938, 357-361. 78 Serv. Ad Aen. I 273: Ateius adserit Romam ante adventum Evandri diu Valentiam vocatam; sed post Graeco nomine Rhomen vocitatam; cfr. Fest. 266 M; Solin. I 1; Opelt 1965. Peruzzi 1969, 157, a proposito di Macr. Sat. III 9: et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt [scil. i Romani, per non correre il rischio di subire un’evocatio], ipotizza una ricostruzione diversa chiosando: «si noti Latinum nomen, cioè, a quanto pare, il nome imposto dai latini, all’atto della fondazione della città, al luogo che già si chiamava Roma con toponimo non latino, cioè prelatino». Un’ultima osservazione: tra le divinità cittadine italiche non accolte a Roma (Varr. ap. Tert. Apol. 24; Ad Nat. II 8), compare stranamente anche Valentia, in questo caso la dea di Ocriculum! Cfr. Wissowa 19122, 50, n. 2.
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l’aggettivo aveva la stessa valenza (per giocare un po’ anche noi con le parole) del sostantivo, cioè, appunto, «forza»79. Una posizione molto interessante è quella dell’erudito bizantino Giovanni Lido80, per cui Roma avrebbe avuto non due, ma addirittura tre nomi: il «politico», quello noto, Roma, il «sacro», Flora, comunicabile anch’esso senza rischi, e, infine, l’«iniziatico», quello propriamente segreto, Eros, per cui i Romani sarebbero stati pervasi da un “amore divino” per la città81. Il nome «sacro», Flora, secondo alcuni sarebbe stato affiancato da Costantino al nome noto della città da lui fondata sul Bosforo: Costantinopoli (o la sua Tyche) si sarebbe chiamata quindi anche Ἄνϑουσα, «la fiorente», nient’altro che la traduzione in greco di Flora82. Inoltre, tra le quattro squadre che correvano nel Circo Massimo, sempre Giovanni Lido ci riferisce che la verde era associata alla stessa Roma sotto il nome di Flora e che era considerato di cattivo auspicio che il carro di quel colore arrivasse per ultimo, quasi avesse perso la città medesima83. Quanto al nome «iniziatico», probabilmente l’erudito bizantino, col parlare di Eros e dell’amore che avrebbe pervaso ciascuno per la città, non fa altro che riferirsi, più o meno inconsapevolmente (visto 79
Liv. IV 61, 9; Tac. Ann. XIII 54, 2; Hor. Epod. 16 2; Verg. Aen. VI 771, 833 ss.; Claud. Stilich. I 34; Amm. Marc. XXXI 7, 11; Prud. C. Symm. II 640; Sen. Quaest. nat. VII 32, 2; cfr. Opelt 1965, 54-65, sui giochi di parole degli autori ostili a Roma. 80 De mens. IV 40. Per un’analisi di questa personalità e del suo rapporto con la tradizione, cfr. in generale Maas 1992. 81 Ciò inoltre avrebbe spiegato anche l’enigmatica denominazione della città quale Amarillide in Virgilio (Ecl. 1). Sabbatucci 1988a, 154, ritiene che, pur ammettendo che questa notizia sia un’invenzione, essa risponderebbe «all’esigenza di stabilire un legame tra Flora e la dea Roma, quindi tra Flora e Cibele, che alla dea Roma aveva dato il modello iconografico; risponde in sostanza all’esigenza di giustificare la collocazione della nascita di Roma nel mese di aprile», nel corso del quale entrambe le dee erano festeggiate con dei Ludi (Megalenses e Florales). 82 Per le fonti, cfr. Cracco Ruggini 1983, 242, n. 4; cfr. Frolow 1944, 61127; Stanley 1963, 242. Cfr. Plut. Rom. 3, 4: la figlia di Amulio che aiuta Rea Silvia ha nome Antho = anthos = fiore = Flora! 83 Cfr. Dumézil 1954b, 51-57.
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il periodo tardo in cui scrive), al nome di Roma letto al contrario, cioè Amor84. Tra l’altro, partendo da questa teoria Giovanni Pascoli compose nel 1911, in occasione del Natale di Roma e della ricorrenza del cinquantenario dell’Unità d’Italia, il bellissimo “Inno a Roma”85, nella cui prima versione si legge al v. 42: «FLORA – te chiama il cielo con sacro nome Flora»; mentre al v. 1: «Urbe AMOR – più non sia sacrilegio rivelare l’arcano nome». Il Pascoli stesso spiega in una nota, basandosi su Solino e Fozio: «Roma aveva tre nomi: Amor nei misteri, Flora in cielo, Roma in terra». La coppia Roma - Amor, a parere di alcuni, non avrebbe costituito altro che il binomio nome noto - nome segreto dell’Urbe86. Un’indicazione in proposito verrebbe dal tempio dedicato a Roma divinizzata e a Venere, edificato sulla Velia per iniziativa dell’imperatore Adriano che secondo la tradizione ne fu anche il progettista87. Com’è noto, questo tempio aveva una pianta molto singolare, era composto cioè di due templi gemelli giustapposti e con il muro di fondo in comune, circondati da un ampio portico. L’insieme costituiva il più grande edificio sacro di Roma dopo il tempio di Serapide sul Quirinale88. Le statue di Roma e di Venere, addossate alle pareti opposte del muro divisorio (rispettivamente nelle celle O ed E), avrebbero rappresentato dunque, come davanti a uno specchio, il nome noto, Roma, e quello segreto, Amor89. Il tempio verrà consacrato in un giorno particolare, il 21 aprile (con tutta probabilità del 128 d. C.), anniversario della fondazione
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Il Kantorowicz, dopo aver osservato che il gioco di parole ROMA - AMOR è molto antico, cita delle monete di età costantiniana in cui appare la dicitura ΕΡΩΣ: Kantorowicz 1957, 82, n. 99. 85 Contenuto in Pascoli 1954. 86 Cfr. Gregorovius 18763, 150, n. 1: «Die Beziehung von Roma und Amor ist alt und mystisch». 87 Turcan 1964; Cassatelli 1999. Cfr. Yourcenar 1951, tr. it. 157-158: «Roma, Amor: per la prima volta, la divinità della Città Eterna s’identificava con la Madre dell’Amore (...). Così, la potenza romana assumeva quel carattere sacrale, cosmico, quella forma pacifica e tutelare che io ambivo imprimerle». 88 Cfr. Coarelli 20033, 119-120. 89 Stanley 1963, 240; De Angelis 1947, 30. In generale sulle raffigurazioni di Roma, anche insieme a Venere, cfr. Di Filippo Balestrazzi 1997.
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della città, e la festa dei Parilia90, che ricorreva in quel giorno, fu rinnovata con il nome di Ῥωμαῖα 91. Questo dato contiene verosimilmente anche un’indicazione al genius urbis Romae, «nato» assieme alla città: Ateneo, un autore del terzo secolo, nel riferirsi al santuario adrianeo, afferma semplicemente che esso era dedicato alla Tyche di Roma92. Il valore simbolico del tempio è evidente anche nella denominazione successiva: Urbis templum 93, urbis Fanum 94, templum urbis Romae 95, templum Romae 96. Tale grandiosa costruzione fu realizzata dunque su impulso dello stesso imperatore che, con la ricostruzione del Pantheon, intese forse offrire un luogo di culto più grandioso anche alla divinità tutelare di Roma, una divinità talmente importante che, se fosse stata nota, come sostiene Plutarco, i Romani avrebbero corso il rischio di diventare monolatri: «I Romani tenevano nascosta la divinità responsabile della loro sicurezza per il desiderio che non solo quel dio, ma tutti, venissero onorati dai cittadini»! (Q. R. 61). Di grande interesse in proposito la notizia secondo cui già Agrippa nel 25 a. C. avesse consacrato il Pantheon a tutti gli dèi, ma in particolare a Marte e a Venere97. Da una parte avremmo quindi Roma e dall’altra Venere, la dea dell’amore, che, particolare interessantissimo, non aveva un nome nella lingua latina e non veniva nominata nei canti dei Salii, i sacer90
Lo Stanley (1963, 240) aggiunge che la disposizione delle statue poteva richiamare alla mente anche il simbolismo di Giano, immensi reparator aevi (Stat. Silv. IV 1, 11), forse alludendo anche all’aspetto dei Parilia quali principium anni: cfr. Johnson 1960, 109-119; Baistrocchi 1987, 334; Carafa D’Alessio 2006, 424-425. 91 Cfr. Pfister 1914, 1061-1063. 92 VIII 361; cfr. Mellor 1981, 1021-1023. 93 XVI 10, 14; cfr. HA Hadr. XIX; Cassiod. Chron. 142 M; Catalano 1978, 553. 94 Aur. Vict. Caes. 40. 95 Serv. Ad Aen. II 227. 96 Chronogr. a. 354 148 M. A sua volta Roma è templum totius mundi (Amm. Marc. XXVII 4, 13)! 97 C. Dio LIII 27, 2; Wissowa 19122, 77, n. 7; Schilling 1954, 334. Sulla scelta del luogo, cfr. Coarelli 1997, 21; in generale sul tempio, Ziolkowski 1999.
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doti di Marte: secondo un’ipotesi suggestiva la dea sarebbe stata invocata a Roma usando altri nomi, senza mai usare quello vero98. Unendo questa ipotesi con la precedente, sostituendo cioè Valentia a Roma e sottintendendo in ciò un riferimento al dio della guerra, otterremmo una rappresentazione carica di significati simbolici e metaforici: da una parte Roma-Valentia-Mars, dall’altra VenusAmor. Com’è universalmente noto, i Romani ritenevano di discendere da Marte, padre di Romolo, e da Venere, madre di Enea, dal cui figlio, Iulo, traeva il suo nome e la sua origine la gens Iulia, la famiglia dei «fondatori» dell’Impero, Giulio Cesare e Ottaviano Augusto99. È naturale pertanto che la coppia divina per eccellenza dello stato romano fosse rappresentata con frequenza100. Marte e Venere simboleggiavano alla perfezione il binomio forza/ violenza - clemenza/perdono101 spesso e volentieri presente nella
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Varr. De l. L. VI 33: Secundus [scil. mensis], ut Fulvius scribit et Iunius, a Venere, quod ea sit Aphrodite; cuius nomen ego antiquis litteris quod nusquam inveni, magis puto dictum, quod ver omnia aperit, Aprilem; Macr. Sat. I 12, 12: (Sed) Cingius in eo libro, quem de Fastis reliquit, ait imperite quosdam opinari Aprilem mensem antiquos a Venere dixisse, cum nullus dies festus nullumque sacrificium insigne Veneri per hunc mensem a maioribus institutum sit, sed ne carminibus quidem Saliorum Veneris ulla ut ceterorum caelestium laus celebretur. Cingio etiam Varro consentit, affirmans nomen Veneris ne sub regibus quidem apud Romanos vel Latinum vel Graecum fuisse; cfr. Wissowa 19122, 288289; De Angelis 1937, 87-88; De Angelis 1947, 30-31; Schilling 1954, 7-11; Pelliccioni di Poli 1969, 13-15. 99 Cfr. ad es. Verg. Aen. I 286-288: Nascetur pulchra Troianus origine Caesar, / imperium Oceano, famam qui terminet astris, Iulius, a magno demissum nomen Iulo; VI, 789-790: Hic Caesar et omnis Iuli progenies, magnum caeli ventura sub axem; Wissowa 19122, 292-293; De Angelis 1947, 31; Colonna di Cesarò 1938, 461-475; Schilling 1954, 301 ss. 100 Tra gli altri un gruppo scultoreo famoso dovette essere quello posto sul timpano del frontone del tempio di Marte Ultore: Stat Venus Ultori iuncta, vir ante fores (Ov. Trist. II 296); cfr. Wissowa 19122, 292-293; Schilling 1954, 331 ss. 101 Raccogliendo la bella suggestione del prof. P. Marpicati dell’Università di Roma “Tor Vergata” (che sentitamente ringrazio), sarebbe oltremodo affascinante pensare che tale concezione fosse presente alla mente di Lucrezio nella composizione del celeberrimo e problematico esordio del De rerum natura: è possibile che con l’elogio all’Aeneadum genetrix, il primo non rivolto alle Muse
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propaganda romana e così poeticamente cantato da Rutilio Namaziano: Auctores generis Venerem Martemque fatemur, Aeneadum matrem Romulidumque patrem. Mitigat armatas victrix clementia vires, convenit in mores nomen utrumque tuos. Hinc tibi certandi bona parcendique voluptas: quos timuit superat, quos superavit amat102. Inoltre, mentre Marte incarnava il «mezzo», potremmo dire, con cui i Romani giunsero a dominare un territorio immenso, vale a dire la loro indole bellicosa, Venere ne rappresentava l’«effetto», cioè in termini filosofici, l’Amore, la Pace e l’Armonia che Roma, quasi come un demiurgo, aveva istituito sulla Terra in confronto al Caos e alla Discordia che vi regnavano in precedenza103. Possiamo fare due ulteriori considerazioni in merito a Venere: anzitutto, il luogo che ospitava la statua di Angerona, la «custode» del nome segreto di Roma, era collocata dalla maggior parte degli autori nel tempio di Volupia104, dea della voluptas, cioè del piacere e della passione, tutti aspetti che si trovavano naturalmente sotto l’egida di Venere. Inoltre, per chiudere il cerchio relativo ai tre nomi di Roma, va rilevato come vi fosse più di un collegamento tra Venere e Flora: il culto di quest’ultima, di foggia greca, introdotto a Roma su indicazione dei Libri Sibillini nella seconda metà del III sec. a. C.,
o ad Apollo, egli si riferisse anche alla stessa Roma? Inoltre (vv. 29-40) la dea personifica la pace auspicata, invece della guerra incarnata da Marte: cfr. Cirino 1934, 14-15. 102 De red. I 67-72; cfr. Perv. Ven. 69-74. Non va dimenticato anche l’aspetto guerresco della Venere (Victrix) invocata tra gli altri sia da Pompeo che da Cesare per il sostegno nei fatti bellici: in età augustea la dea addirittura «prese le armi di Marte». Tale «fusione» è ravvisabile ad es. in due iscrizioni rinvenute in Umbria, in cui compaiono un Mars Cyprius e una Venus Martialis: CIL XI 5805, 5165; cfr. Schilling 1954, 338 (ma in generale 301 ss.); Wissowa 19122, 292; Schmidt 1997, 228. A Sparta la dea era raffigurata con la lancia (fonti in Funke 1981, 700-701) e in alcuni templi era adorata insieme ad Ares: Paus. II 25, 1. Tutto ciò naturalmente senza contare il più ovvio aspetto metaforico delle schermaglie amorose, presente nella letteratura di tutti i tempi: non è forse vero che omnia vincit Amor, et nos cedamus Amori (Verg. Buc. X 69)? 103 Cfr. ad es. Cicerone nel De re publica, con discussione in Pöschl 1936, 174; Klingner 1956, 565. Cfr. Plut. Fort. Rom. 317. 104 Eisenhut 1961; Radke 1965, 349.
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è stato riferito ad un’Afrodite Ἀνϑεία105; i Floralia del 28 aprile, anniversario della dedica del tempio, costituivano, insieme ai Vinalia dello stesso mese, la festa delle prostitute106. Flora e Venus mantengono la loro importanza fin quasi ai decreti teodosiani che sancirono la fine «legale» della pratica della religione tradizionale: nel 384 d. C. Simmaco, nella sua veste di console, restaura l’aedes Florae (o secondo altri il tempio di Venus Obsequens)107. Di nuovo le due dee spiccano nella descrizione fenomenologica del paganesimo contemporaneo fornita dall’Ambrosiaster proprio in Roma e nello stesso anno108. Secondo Prudenzio i seguaci della religione tradizionale consideravano Flora come la protettrice della città nei momenti di pericolo109. A margine di ciò, sarà interessante accennare brevemente anche alla fortuna che ha avuto il binomio Roma - Amor sia in poesia sia nella costruzione di numerosi giochi di parole, soprattutto palindromi110.
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Wissowa 19122, 197. Una tradizione tarda faceva di Flora un’altra Acca Larentia, cioè in origine una prostituta che avrebbe poi lasciato i suoi beni allo stato romano e che per questo sarebbe stata onorata di un culto: Lact. Inst. I 20, 6; Schol. Iuv. VI 250; Wissowa 19122, 197-198; Brelich 1949a, 37. Su Flora e sui Floralia, cfr. Ov. Fasti, IV 943 ss., V 183 ss., 277 ss., 327 ss.; Iuv. VI 249 ss.; Scullard 1981, 110-111. 107 Carm. c. pag. 112-114. Cfr. Cracco Ruggini 1979, 108-110. 108 Quaest. CXIV 9. 109 C. Symm. II 551-563. 110 Ad es.: Et necat eger amor non Roma rege tacente, / Roma reges una non anus eger amor. / Signa te, signa, temere me tangis et angis, / Roma tibi subito motibus ibit amor. / Area serenum me gere regem munere sacra / Solem arcas animos, imina sacra, melos. / Roma ibi tibi sedes - ibi tibi Amor; / Roma etsi te terret et iste Amor / Ibi etsi vis te non esse - sedes ibi / Roma tenet et amor. Cfr. Macé 1983. Segnalo in questa sede la recentissima relazione di S. Wheeler al XX Simposio Nacional de Estudios Clásicos (Cordoba 26 settembre 2008): Amor inversus: Roma from Propertius to Urban VIII, presumo ancora inedita. Ringrazio caldamente il Prof. J. Rüpke per averla portata alla mia attenzione. 106
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Nella Regio I di Pompei è stato rinvenuto un graffito che avrebbe alluso, oltre che a Roma - Amor, anche alla forma quadrata del solco tracciato da Romolo111: ROMA OIIM MIIO AMOR Nel componimento conosciuto come Versus Romae, datato alla seconda metà del IX sec., si legge un «antico oracolo», interpretato dall’autore a posteriori con la caduta dell’Urbe112: Hoc cantans prisco praedixit carmine vates: “Roma tibi subito motibus ibit amor”. Si noti come i nomi che ci interessano siano posti in posizione di massimo rilievo, cioè all’inizio e alla fine del verso centrale, il 12, non solo quindi l’“asse” del Versus, ma anche un numero dalla precisa valenza simbolica113. 111
CIL IV 8297; Della Corte 1929, 465, n. 200; De Angelis 1947, 29-30; Stanley 1963, 239. Sulla stessa falsariga un graffito rinvenuto nella caserma dei vigili di Ostia Antica, databile all’età di Adriano: ROMA OLIM MILO AMOR Uno schema dalla struttura analoga e per il quale non si è fornita ad oggi un’interpretazione univoca è il famoso e ben documentato «quadrato magico» costituito dal palindromo Sator Arepo Tenet Opera Rotas, per cui cfr. Guarducci 1991. 112 Stanley 1963; il verso è presente anche in Sid. Ap. Epist. IX 14, 4. 113 Il numero 12, riferito al numero degli uccelli visti da Romolo prima della fondazione, è alla base della predizione di Vettio sulla durata di Roma, calcolata basandosi sui libri rituales etruschi in dieci saecula, ciascuno di 120 anni, per un totale di 1200: Varr. ap. Cens. De die nat. 17, 15; cfr. Hubaux 1945,
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Ricorderemo infine le altre ipotesi circa il nome arcano di Roma, sicuramente meno affascinanti e più aleatorie di quelle appena illustrate, più che altro per sottolineare come la questione abbia attirato l’interesse e la curiosità di numerosi studiosi, dall’età romana fino all’epoca moderna: ecco quindi Quirium114, Romanessum, Tetrapolin, ma anche Amaryllyn, Cephalon, Florentia...115
4. La conoscenza del nome segreto L’ultima problematica da affrontare riguarda la persona cui sarebbe stato concesso di conoscere quel nome: qualcuno infatti, almeno nella valutazione successiva della tradizione, doveva conoscerlo, visto che la fondazione di una città, compreso il conferimento cap. 1; Dumézil 19742, tr. it.2 431-433; Carafa - D’Alessio 2006, 387-409. Una simile concezione fu anche alla base della volontà di alcuni di trasferire la popolazione a Veio dopo il saccheggio gallico, visto che il 390 a. C. segnava la fine di un «Grande Anno» di 365 anni: cfr. Hubaux 1958; Stanley 1963, 240-243; infra, append. III. Sulla scelta da parte di Adriano per la fondazione del tempio di Venere e Roma in base a queste concezioni, cfr. Turcan 1964, 49 ss.; in generale sui presupposti, le condizioni, le riflessioni legate alla durata e all’eternità di Roma, cfr. Turcan 1983. 114 Cfr. Prosdocimi 2009, 19-26, per cui Quirites sarebbe il nome “romuleo” della Roma Romulea, mentre Romani lo sarebbe della Roma posteriore. Cfr. ibid., 20, per cui vi sarebbe una fase in cui Roma esisteva nei fatti come luogo o nome ma non ancora come concetto politico e giuridico: «“esistenza” in questo senso non significa ‘esistenza di ‘cose’ fattuali – sia questa cosa una espressione topografica come il luogo di Roma, sia questa cosa il nome del luogo nella forma Roma – ma ‘esistenza’ di ‘cose’ come realtà strutturali politiche e concettualizzate di conseguenza. In questa prospettiva “inesistenza di Roma” significa “inesistenza della realtà politica espressa dal nome Roma”, dove Roma è identificata nella fase in cui Roma è urbs»; ibid., 23: «Il “nome segreto di Roma” significa inesistenza di Roma come nome e valore giuridico e/o politico, ovvero l’inesistenza ha prodotto il mito eziologico del “nome segreto”»; ibid.: «la dottrina del nome segreto di Roma non è altro che l’assenza del nome di Roma nelle fasi più antiche; assenza di nome politico e giuridico, naturalmente, non di un toponimo assurto a valore politico e giuridico in un determinato momento dello svolgimento istituzionale». 115 Colonna di Cesarò 1938, 378-381;
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del nome, è opera umana; per questo vi è una differenza sostanziale rispetto al nome della divinità segreta di Roma. È mia opinione comunque che si ritenesse che il nome occulto fosse accuratamente custodito dagli stessi sacerdoti che detenevano la formula, definita occultissimum sacrum116, per evocare le divinità, cioè i pontefici, gli stessi che nel ius pontificum erano così attenti a non impiegare i nomi propri delle divinità romane117. In proposito, un paragone che viene facilmente alla mente è quello con i famosi pignora imperii, custoditi in gran parte nel tempio di Vesta, gli oggetti sacri a quali era legata la sopravvivenza stessa della città di Roma. Il più importante era il Palladio, la statuetta di Atena proveniente da Troia118. Ebbene, possiamo annoverare tra di essi anche il nome segreto di Roma119. Il Palladio non poteva essere avvicinato da alcun sacerdote, neanche dal pontefice massimo: questi aveva accesso al tempio, ma non alla parte più recondita del penus120. Di più, è assai probabile che tra le Vestali solo alla virgo Vestalis maxima fosse permesso accostarsi al simulacro di Atena, come afferma Lucano: Vestalemque chorum ducit vittata sacerdos, Troia-
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Macr. Sat. III 9, 1-2. Serv. ad Aen. II 351. 118 Cfr. Groß 1935, 69-96; Ziehen 1949; Sordi 1982; Canciani 1987; Pellizzari 2003, 49-60. 119 Il concetto di pignus imperii implica l’idea di una protezione divina che assicura durata nel tempo, insieme ad un’altra di legittimazione a governare. Costantino ricercherà entrambi: ai vv. 9-10 del già citato Versus Romae è possibile cogliere un’allusione al nome ieratico di Costantinopoli, che così riceve un’ulteriore legittimazione al suo ruolo di Nova Roma: Costantinopolis florens nova Roma vocatur: / moribus et muris, Roma vetusta, cades; Costantinopoli “fiorisce” anche in quanto nuova Flora - Ἄνϑουσα! Cfr. Stanley 1963. Il nome è stato riferito allo stesso modo alla Tyche della nuova città sul Bosforo; valore analogo ha l’altra tradizione che menziona il trasferimento del Palladio, sempre ad opera di Costantino: cfr. Cracco Ruggini 1983. 120 Si ricordino le parole messe in bocca da Ovidio al pontefice massimo Cecilio Metello prima di lanciarsi tra le fiamme che avvolgevano il tempio di Vesta per metterne in salvo i sacra (Fasti VI 437-454): Ignoscite (...) sacra! Vir intrabo non adeunda viro. Sull’episodio, avvenuto nel 241 a. C., cfr. Brelich 1939, 30-41; Dumézil 19742, tr. it.2 288-289. Per la distinzione penus interior penus exterior, cfr. Giannelli 1914. 117
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nam soli cui fas vidisse Minervam121, chiosato da Servio: sed [scil. palladium] ab una tantum sacerdote videbatur122. Stabilita la tradizione circa il nome segreto, l’ipotesi più probabile è che i Romani credessero che lo stesso avvenisse per il nome segreto della città e che si ritenesse che esso fosse conosciuto dal solo sacerdote supremo, il pontifex maximus, tanto più che un segreto «della lingua», ben più difficile da conservare di una statua, che era sufficiente custodire in un luogo inaccessibile, sarebbe stato veramente al sicuro solo se a conoscerlo fosse stato un unico individuo per volta123. In questa direzione ci porta anche la notizia secondo cui il pontefice massimo pronunciava delle preghiere segrete prima di procedere al seppellimento della Vestale colpevole di incestum124. È possibile in proposito citare dei paralleli greci: a Tebe il segreto che avvolgeva l’ubicazione della tomba dell’eroina Dirce era custodito dall’ipparco in carica; quando questi era sul punto di ritirarsi, egli mostrava di notte al successore dove si trovava il sepolcro125. Analogo il caso della tomba di Edipo: nell’Edipo a Colono di Sofocle Teseo avrebbe dovuto rivelare solo all’approssimarsi della morte a una persona da lui prescelta126. Filottete patì atroci sofferenze per aver rivelato il luogo ove erano sepolte le ceneri di Ercole, venendo meno alla promessa fatta al semidio in punto di morte127. Epaminonda poté far rinascere Messene grazie al ritrovamento di un pignus (un’urna in bronzo contenente rotoli di stagno con un’iscrizione relativa all’iniziazione delle Grandi Dee, cioè ai misteri di Andania), scomparso il quale, secondo gli oracoli di Lico, sarebbe scomparsa anche la città: esso, fino alla «riscoperta» dell’oggetto misterioso, sarebbe stato sepolto di notte in gran segreto da Aristomene, l’eroe della seconda guerra messenica128.
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Phars. I 597-598. Ad Aen. II 166. Cfr. Gladigow 1993, 44; Gladigow 1998, 210. Guizzi 1968, 155. Plut. Gen. Socr. 578b; cfr. Bremmer 1995, 61-62. Soph. Oed. Col. 1530-2. Serv. Ad Aen. III 402; cfr. Diod. IV 38; Ov. Met. IX 299 ss. Paus. IV 20,4; 26,8. Cfr. Mastrocinque 1981, 13.
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Possiamo ipotizzare che si credesse che qualcosa di simile accadesse alla morte del pontefice massimo, con la differenza che la trasmissione doveva avvenire tramite un testo o un oggetto sacro accessibile al solo pontefice in carica, non solo per scongiurare il rischio di un’irreparabile perdita del nome segreto, che così comunque veniva conosciuto da una sola persona per volta, ma anche perché, com’è noto, il nuovo pontefice veniva eletto dopo la morte del predecessore. Spingendoci un po’ più in là, possiamo pensare che gli imperatori, che sin da Augusto saranno anche pontefici massimi, abbiano custodito questa fondamentale conoscenza e che anche su di essa abbiano fondato il loro potere, naturalmente in senso sacrale e «carismatico»129. Non conosciamo, né potremo mai scoprire il nome segreto dell’Urbe. Per citare le famose parole di Calaf nella Turandot di Giacomo Puccini quel nome «nessun saprà». Il mistero è rimasto. Possiamo pensare comunque che i Romani fossero convinti che, anche perché quel nome rimase segreto e non giunse mai ad orecchie ostili, il nome noto, o se si preferisce il primo dei tre, il «politico», Roma, poté assurgere a gloria imperitura, tanto da far dire a Rutilio Nama-
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Ciò ovviamente fino al «gran rifiuto» di Graziano, variamente posto tra il 375 e il 383 (bibliografia in Cracco Ruggini 1979, 4, n. 3): Zos. IV 36. È preferibile pensare ad una data più tarda, sicuramente successiva alla visita dell’imperatore a Roma del 376, dove i fedeli dell’antica religione costituivano ancora la maggioranza, visita caratterizzata invece da un clima distensivo nei confronti dell’aristocrazia dell’Urbe: cfr. Symm. Epp. I 13; III 43; Or. V 3; Aus. Grat. I 3; Cameron 1968; Pellizzari 2003, 70, n. 176. Dopo le misure antipagane del 382, dunque, si può ipotizzare che il nome segreto di Roma fosse messo per sempre al riparo dall’imperatore, ormai sacrilego (ci riferiamo ovviamente, lo si ripete per l’ennesima volta, non ai fatti storici, ma a come poté essere intesa e «aggiustata» questa tradizione da parte pagana): cfr. Baistrocchi 1987, 308, che ipotizza che gli ultimi seguaci della religione tradizionale avrebbero sepolto i pignora in luoghi segreti, affidandone la custodia e la continuazione dei riti al primogenito di alcune famiglie, che conserverebbero ancora oggi, almeno in parte, queste nozioni. L’autore non fornisce tuttavia prove a sostegno di questa ipotesi. Per amore di completezza, va detto che la tradizione circa il nome segreto di Roma è stata anche oggetto di trattazioni di tipo esoterico, che esulano completamente dai fini e dal taglio del nostro lavoro, e da cui però si sono tratti alcuni spunti: cfr. Horstmann 1979; Casalino 2003.
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ziano (De red. I 51-54): Te canimus semperque, sinent dum fata, canemus: sospes nemo potest immemor esse tui. Obruerint citius scelerata oblivia solem quam tuus ex nostro corde recedat honos. Ci sembra appropriato dunque concludere con l’ultima parte del già citato “Inno a Roma”, intitolata non a caso dal Pascoli “A Roma Eterna”: Spirito eterno, eterna forza, o Roma! Dopo il gran sangue, dopo l’oblìo lungo, e il fragor fiero e il pallido silenzio, e tanti crolli e tante fiamme accese da tutti i venti, tu col pie’ calcando le tue ceneri, tu le tue macerie, sempre più alta, celebri il più grande dei tuoi trionfi; che la morte hai vinta. Tu in faccia a tutti i popoli che a parte chiamasti del tuo diritto, ora apparisci nel primo fior di giovinezza ancora, meravigliosa, simile a Pallante, difesa intorno dal fulgor dell’armi, e con la spada; e pende sopra il mondo quella al cui lume accesero le genti tutte il lor lume, quella che a noi rompe l’ombra: o Roma possente, la possente tua più che il tempo lampada di vita.
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CAPITOLO IV Il cunicolo di Veio o del metodo storico-religioso
1. Il contesto storico Talvolta un singolo elemento narrativo, posto all’interno di un racconto serrato ed articolato, qual è quello del quinto libro dell’opera liviana, può a tutta prima non suscitare soverchio interesse, o addirittura passare inosservato. A ben vedere, tuttavia, esso può celare una sorprendente e ricca stratificazione di tradizioni, momenti narrativi e dati storici: è il caso del cuniculus di Veio, scavato nell’ultima fase del decennale assedio della città etrusca ad opera di Marco Furio Camillo1. Tale occasione sarà inoltre feconda di spunti per soffermarci sulla metodologia propria alla storia delle religioni. Giova anzitutto fare un piccolo passo indietro sugli eventi correlati alla presa di Veio2. La guerra contro il potente centro etrusco assume da subito dei tratti che possono definirsi «epocali» e «fatali». L’eccezionalità della situazione è sottolineata dalla natura dei prodigi che ebbero luogo in questo momento, il più importante dei quali fu di gran lunga quello relativo al livello particolarmente elevato raggiunto dalle acque dal Lago Albano, per cui si mandò un’ambasceria a Delfi per interrogare l’oracolo3. 1
Liv. V 19, 10-11; V 21 In generale su Veio, cfr. Ward-Perkins 1961; Pallottino 19847; sul territorio, Mansuelli 1986; sulla guerra tra Roma e la città etrusca, tra gli altri Hubaux 1958; Ferri 1960; Cancik 1995; Ferri 2010a; sulla cronologia, cfr. Sordi 1960, cap. I; Sordi 1965; in generale Mora 1999. 3 Liv. V, 15. Per una trattazione dettagliata dell’episodio, si rimanda a Ferri 2010a, al paragrafo dedicato a Giunone Regina. Laddove non vi è indica2
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L’evento, il quale, a seconda delle varianti, aveva solamente destato preoccupazione, oppure aveva provocato dei danni più o meno gravi dovuti allo straripamento e alla conseguente formazione di un fiume, era del tutto inconsueto, soprattutto dopo un’estate arida e in un periodo in cui solitamente i fiumi e laghi vedevano invece diminuire sensibilmente la loro portata4. Un vecchio aruspice aveva indicato nel drenaggio delle acque, secondo le prescrizioni desunte dall’Etrusca disciplina, avendo cura che non arrivassero al mare, il modo in cui i Romani avrebbero potuto volgere a loro vantaggio il prodigio5. Non solo, in caso contrario sarebbe stato impossibile prendere Veio o addirittura sarebbe stata Roma ad essere distrutta6. Il ritorno dell’ambasciata da Delfi conferisce piena credibilità alle affermazioni del senex haruspex catturato poco prima, confermandone le parole. L’oracolo aggiungeva però che i magistrati, eletti irregolarmente, avevano celebrato in modo non rituale le feriae Latinae e il sacrificio sul Monte Albano7. Si deposero dunque i tribuni militari, si presero nuovamente gli auspici e si diede inizio ad una fase di interregno8. La cattura dell’aruspice adombra verosimilmente il disperato bisogno che i Romani avevano in quel momento delle conoscenze religiose etrusche per procedere alla procuratio del prodigio e all’espiazione dell’errata celebrazione delle Ferie Latine. Proprio l’impossibilità di ricorrere all’Etrusca disciplina, d’altronde, costringe i Romani ad inviare un’ambasciata per consultare l’oracolo di Apollo, fatto tanto più eccezionale se si pensa che l’unica propriamente storica è quella di Fabio Pittore dopo la battaglia di Canne9. Entrambi gli elezione dell’autore nella citazione è da sottintendere un riferimento a Livio, mentre ove manchi l’indicazione dell’opera di Plutarco è da sottintendere una citazione dalla Vita di Camillo. 4 V 15-16; Plut. 3; Cic. De div. I 44, 100; Dion. Hal. XII 10, 11. 5 V 16, 9-11. 6 Cic. De div. I 44, 100; II 32, 69: si lacus Albanus redundasset isque in mare fluxisset Romam perituram; si repressus esset Veios. 7 V 17, 2-3; Plut. 4, 6. 8 V 17, 2-5. 9 Cfr. Sordi 1994; ve n’è anche una terza, la più antica, quella cioè cui presero parte i figli di Tarquinio il Superbo e Bruto: I 56, 5 ss.
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menti sono importanti e funzionali all’economia del racconto e non appare corretto eliminarne uno, anche perché la Pizia fornisce degli elementi in più10. Si era ormai al decimo anno di guerra ininterrotta. Tale durata è allo stesso tempo «epocale» ed «epica». È evidente infatti il parallelismo tra l’assedio di Troia e quello di Veio: dopo dieci anni11 Camillo, «novello Ulisse», grazie a uno stratagemma (il cuniculus come il cavallo) e assecondando il volere degli dèi, si impadronisce della statua di culto della divinità protettrice del luogo (Giunone Regina come il Palladio) riuscendo infine ad aver ragione dell’odiata città nemica; altri motivi analoghi sono costituiti dalla cattura dell’indovino (l’aruspice) e dai vari conflitti interni, sia tra «capi» che tra «ordini», prima del ricompattamento e dell’attacco finale12. Le vicende successive vedono giganteggiare la figura di Marco Furio Camillo, la cui elezione a dittatore determina una svolta decisiva nel corso degli eventi. Egli entra in scena nel momento in cui si è ristabilita la pax deorum, grazie al contemporaneo rinnovamento dei giochi e delle feriae Latinae e all’espiazione del prodigio del Lago Albano. Il suo intervento riporta dalla parte dei Romani la condizione essenziale per la vittoria, secondo l’ottica romana: il sostegno degli dèi13. Anzitutto, con un voto Camillo s’impegna, in caso di vittoria, a celebrare i ludi magni e a dedicare un tempio a Mater Matuta. Dopo aver sconfitto Falisci e Capenati si reca con l’esercito a Veio. Qui, tra le altre cose, ordina la costruzione di una galleria sotterranea in direzione della rocca14. Infine, presi gli auspici, prega Apollo Pizio, il cui responso oracolare ha confermato ai Romani il modus 10
Briquel 1993, 177. Inizialmente si pensa ad un anno solo (V 4, 11-12) ma si richiama ugualmente la guerra di Troia come esempio di assedio prolungato lontano dalla patria. Diod. XIV 82, 1 attribuisce alla guerra una durata di 11 anni. 12 Cfr. Dumézil 1982, 196 ss.: Agamennone-Achille, Agamennone-Tersite, Ulisse-Tersite, Camillo-Appio Claudio, patrizi-plebei. 13 Camillo è diligentissimus religionum cultor (V 50, 1). Cfr. Hubaux 1958, 74-92, 108 ss.; Stübler 1964, 49-55. 14 V 19, 10-11. Secondo Hubaux 1958, 114-115, è in questa iniziativa che Furio Camillo dimostrerebbe la sua originalità e la sua genialità, visto che le altre operazioni sono solo una continuazione di quelle dei predecessori. 11
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operandi per volgere a proprio vantaggio il prodigio del Lago Albano, e procede all’evocatio di Giunone Regina15. Tornando alle considerazioni iniziali, possiamo volgerci a questo punto a valutare la ricchezza di spunti adombrati dal riferimento al cuniculus, molto più numerosi di quanto si possa pensare a prima vista. Livio ne attribuisce lo scavo a Camillo, il quale divise gli uomini in sei squadre per completare più in fretta i lavori16. Più che gli ovvi riferimenti all’epos relativo alla guerra di Troia, mi sembra che ci si debba piuttosto muovere in direzione dell’ambito delle opere idrauliche17. Prima di affrontare questo problema però, va capito perché, rispetto a quello di Veio, sembra invero più importante lo scavo di un altro cuniculus, quello necessario alla procuratio del prodigium del Lago Albano. Come mai? A ben vedere lo specchio d’acqua in questione si trovava ad una distanza non trascurabile dal teatro degli eventi, tanto da creare una situazione di fatto diseguale: i Veienti, lontani ed assediati, non potevano fare alcunché per sfruttare la predizione dei libri fatales, tranne sperare che i Romani non ne venissero a conoscenza; questi ultimi, dal canto loro, avevano al contrario mano libera per eventualmente volgere a loro vantaggio il prodigio. Si è parlato in proposito di «incoerenza geografica»18, ipotizzando che si sia proiettato sulla vicenda un altro episodio19. Se questa osservazione è corretta, com’è probabile, vanno allora ricercati i motivi che portarono già in età piuttosto antica – Cicerone lesse la notizia negli annales 20 – a collegarla a quel particolare lago.
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Supra, cap. I. V 19, 10-11; Plut. 5, 3 aggiunge il particolare che Camillo giudicò che la natura del luogo e della pietra su cui si ergeva la città ben si prestavano ad un’opera del genere. 17 Cfr. infra. 18 Briquel 1993, 175. Mora 1999, 135-136, riferisce le vicende dell’assedio di Veio alla presa di Volsinii, anche se tra i tanti motivi proposti poco convincente risulta quello della prossimità della città etrusca ad un lago, in realtà non vicinissimo (circa 15 km), a meno che egli non identifichi Volsinii con Bolsena, teoria in sé tuttavia poco probabile: sull’ubicazione della città e l’identificazione ben più verosimile con Orvieto, cfr. Ferri 2009b. 19 D’Arco 1997, 95. 20 De div. I 44, 100. 16
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2. Paralleli mitici e storici Ci si può anzitutto chiedere se miti o episodi analoghi siano rinvenibili altrove. In proposito, il Dumézil ha confrontato la vicenda della procuratio del prodigio del Lago Albano con altre due tradizioni di matrice indo-europea, la persiana e l’irlandese21. Entrambe vedono l’opposizione vittoriosa degli dèi delle acque, rispettivamente Apam Napat e Nechtan, per il tramite della forza esplosiva dell’elemento loro proprio, ad un antagonista, Franrasyan e Boand. Un episodio simile esisterebbe anche per Roma, e si riferirebbe alla punizione del malvagio re di Alba Aremulus, Allodius o Amulius, verificatosi tra l’altro circa 365 anni prima di quello del Lago Albano22. Il diverso esito finale, per cui i Romani riescono a venire a capo del pericolo rappresentato dall’acqua, ha portato tuttavia il Briquel a proporre un parallelo più diretto, il racconto di Erodoto a proposito della presa di Babilonia da parte di Ciro23. Il Gran Re riesce a vincere l’opposizione del fiume Gyndes grazie ai lavori di canalizzazione eseguiti dai soldati: a seguito di una sorta di ordalia Persiani e Romani si assicurerebbero dunque l’appoggio della divinità dell’acqua. Manca però nell’episodio erodoteo l’eruzione delle acque, ma compare, a differenza dei paralleli proposti da Dumézil, la canalizzazione necessaria al loro corretto deflusso: i due elementi sembrano essenziali e sono presenti unicamente nel racconto romano. Che l’episodio romano possa trarre le proprie origini anche dal patrimonio mitico indoeuropeo risulterebbe anche da un’analisi linguistica: Nechtan e Nettuno derivano dalla stessa radice *Nept-24. Il dio romano delle acque ci porta a considerare però nuovi elementi, peculiari alla narrazione romana, il primo dei quali è il legame con la scansione temporale romana e con le valenze ad essa sottese. Il pe-
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Dumézil 1973, 21-89. Un evento prodigioso simile era stato dunque funzionale alla fondazione di Roma prima e alla sua rifondazione ad opera di Camillo un «anno di anni» dopo: Hubaux 1958, 140-142; cfr. Dumézil 1973, 67-68; Pasqualini 1996, 241; D’Arco 1997, 144-145. 23 Her. I 189-190; Briquel 1993, 173. 24 Dumézil 1976, tr. it. 25. 22
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riodo in cui si verifica il prodigio del Lago Albano è collocabile infatti perì tèn epipolèn toũ kuvòs cioè nel momento dell’anno in cui, con l’apparire della stella Sirio o Canis maior iniziava il periodo canicolare25, vale a dire nell’ultima decina del mese di luglio: proprio il momento dell’anno in cui ricorreva la festa di Nettuno, i Neptunalia, esattamente il 23 luglio26. Come ha ben messo in luce il Dumézil, al sorgere della Canicula la scienza agronomica associava una serie di lavori nei campi riguardanti le acque27. In proposito Palladio, alla fine del cap. VIII del suo Opus agriculturae, raccomanda: nunc etiam quae Iulio non occurrimus facere exsequamur. Finiti i lavori nei campi e nelle vigne, ma soprattutto profittando del basso livello delle acque, ci si deve occupare dunque sia delle opere di canalizzazione sia dello scavo dei pozzi, cui sembrano più propriamente consacrati i Furrinalia28. Tale scansione rifletterebbe quella dei due momenti in cui è divisa la risoluzione del prodigio del Lago Albano: all’inizio del periodo canicolare si pregava inizialmente per le acque correnti naturali, minacciate dalla siccità – oggetto principale dei Neptunalia – e ciò sarebbe evidenziato dal carattere esclusivamente religioso della procuratio, ottenuta con la corretta celebrazione delle feriae Latinae. Con la riparazione dell’offesa agli dèi in teoria tutto dovrebbe tornare a posto, ma non è quello che succede: i responsi divini ordinano che si provveda ad incanalare l’acqua del fiume originatosi dal lago. Qui pare adombrato il momento calendariale successivo, quello propriamente tecnico, in cui ci si occupava sia dell’incanalamento corretto delle acque, vitale per la tesaurizzazione e per l’irrigazione,
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Dion. Hal. XII 10, 11; Haebler 1899. È forse da pensare ad una proiezione nel passato della situazione successiva alla riforma cesariana del calendario. Il Prof. J. Rüpke mi ha infatti giustamente e gentilmente fatto notare che: «im republikanischen Kalender mit seiner starken Verschiebung durch die Schaltmonate fällt das häufig nicht in die letzte Juli-Dekade». 27 Dumézil 1976, tr. it. 28-31. 28 Ibid., 33-39. 26
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sia dello scavo di pozzi29, tutte operazioni effettuate sotto la protezione di Nettuno30. A complicare le cose c’è però l’affermazione di Plutarco, secondo il quale la crescita eccezionale delle acque del lago si verificò in autunno31: come conciliarla con Dionigi? E perché proprio l’autunno? Consultando il calendario romano, si incontra in questo periodo un’altra festa che ha a che fare con l’acqua: i Fontinalia del 13 ottobre. Fons era il dio delle fonti e delle sorgenti naturali: è probabile che Plutarco abbia associato a questo dato la crescita dell’immenso pozzo naturale costituito da lago, alimentato in effetti anche da sorgenti subalvee32, poiché nella sua epoca ormai Nettuno era piuttosto il dio del mare, mentre di Furrina non si sapeva ormai più nulla33. Rimane l’allusione al basso livello delle acque dei fiumi e dei laghi, ma è strano associarlo ad un periodo come l’autunno, anche se a seguito di un’estate particolarmente arida34. Giova allora tornare a Dionigi di Alicarnasso.
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Cfr. Dumézil 1976, tr. it. 36: quello relativo al Lago Albano sembra essere propriamente lo scavo di un pozzo in alto, come illustrato dal cap. X della già citata opera di Palladio. 30 Dumézil 1976, tr. it. 30. Forse inizialmente vi era una divisione di competenze tra Nettuno, per le acque naturali, e Furrina, per le acque sotterranee, in un equilibrio reso dalla congiunzione delle feste del 23 e del 25 luglio, poi rotto con la graduale assunzione da parte di Nettuno anche del secondo ambito, dovuta anche alla progressiva mutazione del dio nel Poseidone romano: Dumézil 1976, tr. it. 38. 31 Plut. 3, 2. 32 Dion. Hal. XII 11, 2. 33 Un collegamento tra le tre feste è di nuovo individuato da Dumézil 1976, tr. it. 239, n. 11, nei lavori agricoli: proprio nella seconda metà di ottobre, cioè a partire dai Fontinalia e probabilmente dai riti ad essi connessi, si procedeva a pulire i fossati e i ruscelli e ad aprire piccoli canali e rivoli (Colum. XI 2, 82). 34 Livio non dice in quale momento dell’anno il lago cominciò a crescere, affermando solo che lo fece sine ullis caelestibus aquis causave qua alia quae rem miraculo eximeret. Un rapporto tra i due periodi, canicola e autunno (ottobre), potrebbe essere dato dal fatto indicato nel Cat. cod. astr. I 171, per cui, per predire il tempo del secondo, si osservava il movimento e l’apparizione delle nuvole nel primo durante le 12 notti a partire dalla comparsa di Sirio (il 19 luglio). Per altri esempi, cfr. Gundel 1927, 346-347.
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Questi afferma che la stagione in cui il Lago Albano inizia a crescere in maniera incontrollata, all’inizio cioè del periodo canicolare, è la medesima in cui, a differenza di tutti gli altri laghi e fiumi, il Nilo fa lo stesso in Egitto35; fa lo stesso ma, anche se per gli antichi era un evento prodigioso, lo fa ogni anno: la stella particolarmente luminosa che i Greci chiamavano Σείριος, i Romani Canis maior e identificata dagli Egizi oltre che con Anubi, Iside e Seth, soprattutto con Sothis36, si riteneva provocasse con la sua comparsa l’esondazione del Nilo. L’importanza di questo evento per l’esistenza dell’Egitto era tale che i festeggiamenti per l’epifania della divinità coincidevano con l’inizio dell’anno nuovo, il 19 luglio; qualcosa di simile avveniva anche nell’India vedica e forse a Roma37. Nel nostro caso l’«inizio» apportato dallo straripamento del lago è quello che avverrà pochi anni dopo allo scoccare dell’«anno di anni», con la distruzione della città da parte dei Galli prima e la rifondazione della città ad opera di Camillo poi, principio di una nuova fase della storia di Roma38. Il paragone che abbiamo avanzato tra il Nilo e
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Dion. Hal. XII 10, 11; cfr. Hubaux 1958, 137-144. A partire da questi dati e basandosi sulle concezioni calendariali egiziane, Vernole 1997, 62-64, propone come chiave interpretativa del prodigio del lago il rifiuto romano dell’istituzione regale. 36 Gundel 1927, 320. Interessanti le fusioni che si generarono al contatto tra le diverse culture, tra cui Iside cavalcante o affiancata da un cane con una stella sulla testa, o la rappresentazione di un arciere con la testa di cane o di lupo. Per tutti i miti e le interpretazioni legate a Sirio, in generale Gundel 1927, 331 ss. 37 Gundel 1927, 334-339. Secondo l’autore Ovidio, parlando dei Robigalia (Fast. IV 901-942), la festa che ricorreva il 25 aprile, avrebbe confuso due fasi del percorso dell’astro, il tramonto tardivo ad aprile e la comparsa precoce alla fine di luglio: egli ipotizza quindi che il poeta di Sulmona possedesse una fonte che parlasse del sacrificio di un cane in luglio. Inoltre, aggiungiamo noi, una confusione poteva nascere anche dagli effetti sui frutti della terra: se in aprile il pericolo era la ruggine del grano, in estate riguardava le piante in generale, ma precipue ficus et vitis (Plin. N. h. XVII 222): i frutti di quest’ultima, ammalatisi, venivano detti uvae caniculatae. Interessante anche il fatto che un’altra delle fasi, la comparsa tardiva della stella, si collocasse tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, quindi propriamente all’inizio dell’anno calendariale. 38 Cfr. infra.
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il Lago Albano porta con sé anche un riferimento alle origini, riferite in Egitto al grande fiume che l’attraversava per intero, a Roma al luogo in cui un tempo si trovava la città-madre dell’Urbe, Alba Longa. Proprio a partire da Alba, qualcosa di più si può forse dire a livello topografico, osservando la disposizione dei luoghi dall’alto39. Se consideriamo il lago come groma e da questa facciamo partire i due assi perpendicolari tra loro, abbiamo approssimativamente un cardo che ha come capi ideali a NO Roma e a SE il tempio di Diana, mentre il decumanus presenta a NE il tempio di Giove Laziare e a SO il mare40. Ovunque fosse posta la città di Alba Longa, il cui sito era già sconosciuto ai Romani41, l’orientamento sarà stato più o meno lo stesso, almeno conformemente alla modalità romana di fondazione delle città, derivata anch’essa direttamente dall’Etrusca disciplina 42: secondo quest’ultima il decumanus era tracciato a partire dal punto in cui sorgeva il sole in quel periodo dell’anno, nel nostro caso approssimativamente coincidente con il solstizio d’estate. Tornando fra poco sulla valenza calendariale della data, rileviamo per ora come nella direzione del sole sorgente vi fossero da una
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Alla possibile obiezione che i Romani non avrebbero potuto rendersi conto di una tale disposizione, si potrebbe rispondere che il Monte Cavo è tranquillamente visibile da Roma e viceversa: cfr. Carandini 1997, fig. III (fotografia dal Cermalus). Inoltre in questo senso era molto progredita la scienza augurale, e per l’importanza assegnata alle direzioni dalle quali provenivano i signa ex caelo o ex avibus, e per la necessità di inaugurare correttamente i nuovi templi. Un esempio riguarda proprio l’auguraculum dell’arx capitolina, orientato e idealmente collegato a quello del Monte Albano (su cui probabilmente ve n’era un altro). Un altro auguraculum a Roma si trovava sul Collis Latiaris: cfr. Coarelli 20032, 280; Cancik 1985-1986, 252-253; Pasqualini 1996, 243; in generale sull’inauguratio, Catalano 1978, 467-478. 40 Sull’asse ideale tra i due templi federali dei Latini, cfr. Sabbatucci 1988a, 311. 41 Fonti in Pasqualini 1996, 228, n. 48; Carandini 1997, 533-538; quest’ultimo propende per la localizzazione a sud del lago sia alla luce delle evidenze archeologiche, sia conformemente alle indicazioni degli antichi, che ponevano l’antica città ai piedi del monte Albano, tra questo e il lago: tale ubicazione sarebbe anche la più adatta per la nostra ipotesi. 42 Fonti e discussione in Le Gall 1970.
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parte Iuppiter Latiaris 43, dall’altra il mare, con Lavinium e Sol Indiges 44. Con riferimento al prodigio riguardante il lago, forse la necessità di impedire che le acque del lago si mescolassero con quelle del mare45 aveva il valore simbolico di evitare il percorso inverso a quello compiuto dal progenitore Enea, nello svolgimento del quale esse avevano accompagnato e favorito, certo per intervento divino – il Tevere stesso è rappresentato nel racconto virgiliano come un dio, Tiberino46 – il viaggio e la penetrazione nell’entroterra dei superstiti di Troia: gli dèi indicavano che in caso di mancata riparazione il pericolo era quello di una sparizione dei discendenti del figlio di Anchise e Venere. Probabilmente in ciò si esprimeva anche una dicotomia AlbaLavinio, espressa da Iuppiter Latiaris ed Enea, identificato con il Sol Indiges lavinate47, risolta a favore del primo e della città fondata da Ascanio, o meglio la necessità di non invertire l’ordine «fatale» della storia, che vedeva dopo Lavinio-Indigete e Alba-Giove Laziare48 al passo successivo Roma e un Giove romano, prima associato a Marte e Quirino, poi a Giunone e Minerva, ma supremo su tutti gli dèi in quanto Ottimo e Massimo. Secondo un’altra ipotesi, la dialettica lago-mare potrebbe alludere sia a dei precedenti rapporti amichevoli tra Veio ed Alba, in epoca mitica e storica, sia alla necessità da parte romana, con l’impadronirsi delle tecniche idrauliche etrusche, di poter acquisire una relativa autonomia dal punto di vista agricolo, sganciandosi così dalle importazioni etrusche e impedendo i ricatti politici da parte della
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Sulla fisionomia originaria di questo Giove, cfr. Pasqualini 1996, 239242; Carandini 1997, 222. 44 Sull’identificazione tra i due, da riferire ad un’originaria contrapposizione, cfr. Sabbatucci 1988a, 258. 45 V 17, 9; Plut. 4, 3; Dion. Hal. XII 12, 16. 46 Aen. VIII 31-67. Altri esempi il Mincio (Aen. X 205-206) e Giuturna (Aen. XII 138-160, 869-886). 47 Cfr. Sabbatucci 1988a, 258; Carandini 1997, 539 ss. 48 Tra i due si pone Diana Aricina, il «prima» di Giove Laziare: cfr. Sabbatucci 1988a, 311-312. Cfr. Pasqualini 1996, 250, sulla collocazione calendariale delle feriae Latinae con il sacrificio a Iuppiter Latiaris prima della cerimonia del rinnovamento del foedus con Lavinio.
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plebe, che sulle carestie spesso appuntava le proprie rivendicazioni49. La crescita del lago andrebbe intesa come un «aumento» di potenza, così come accadde per la quadriga fittile di Veio50. Aver menzionato il solstizio d’estate ci consente anche di chiarire il significato del periodo che con esso si conclude e di dedurre ulteriori elementi utili alla lettura degli eventi di cui ci stiamo occupando. Camillo, il favorito di Mater Matuta, pronuncia prima di partire alla volta di Veio un votum ad essa indirizzato. Diremmo con uno scopo ben preciso: tutelare un «passaggio» che, a ben vedere, si rivela molteplice. Anzitutto la dea tutela il passaggio da una fase all’altra del giorno: così come la sua omologa vedica Uṣas protegge e accompagna il Sole, figlio della sorella Rātrī (la Notte), Matuta, nome divinizzato dell’«inizio del giorno»51 (la radice è la stessa di matutinus, il «primo mattino»)52, in occasione della sua festa, in cui le donne univirae si accompagnano ai figli delle proprie sorelle e avviene la cacciata rituale di una schiava dal tempio53, annuncia e prepara il passaggio tra due scansioni temporali più estese, quello cioè tra le due metà dell’anno, divise appunto dal solstizio d’estate54; la differenza salta subito all’occhio considerando che i mesi del secondo semestre non hanno nomi propri55. Secondo la scansione temporale ben evidenziata dal Dumézil, il periodo che va dai Matralia al giorno più lungo dell’anno costituisce una progressione cultuale, riflesso dello «sforzo rituale» che i Romani compivano di fronte all’incombente declino del sole56: nei Matralia, l’«aurora» del secondo semestre, «le donne romane incoraggiano,
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Pasqualini 2004; cfr. Ferri 1960. Cfr. infra. 51 Lucr. V 656. 52 Dumézil 1980, 188. 53 Analisi particolareggiata in Dumézil 1980; cfr. Piccirilli 1980. 54 Sabbatucci 1988a, 207. 55 Ibid., 183. 56 Dumézil 1980, 141 ss. Di contro alla possibile obiezione di un’eccessiva mobilità del solstizio d’estate prima della riforma calendariale di Cesare, cfr. Ibid., 194 ss.; lo stesso vale per il rapporto degli Agonalia dell’11 dicembre con il solstizio d’inverno: cfr. Koch 1986, 105-106, per la dialettica mater (Mater Matuta) - pater (Sol Indiges). Anche le Nonae Caprotinae sembrano far parte di 50
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spronano, danno forza all’Aurora la notte prima della crisi che il solstizio d’estate è in procinto d’aprire»57. L’elezione di Camillo, che si rivolge subito alla “sua” dea, determina anche il passaggio da una fase della guerra all’altra, dall’incertezza alla certezza: omnia repente mutaverat… Vari tipi di «passaggio», dunque; manca tuttavia il più importante, quello da una fase della storia di Roma all’altra, riflesso nella già menzionata concezione del «grande anno»: la dittatura di Camillo e i connessi fatti di Veio annunciano e preparano la cesura epocale costituita dalla catastrofe gallica, una sorta di seconda «cosmogonia» per Roma. A favorirla e a tutelare questa cruciale transizione sono dunque l’Aurora, ma anche Giunone, che, in quanto dea delle calende, ha un costante legame con gli inizi58. La “rottura” rappresentata da questa transizione è ben illustrata da Livio nelle prime righe del VI libro della sua opera: Quae ab condita urbe Roma ad captam eandem Romani sub regibus primum, consulibus deinde ac dictatoribus decemvirisque ac tribunis consularibus gessere, foris bella, domi seditiones, quinque libris exposui, res cum vetustate nimia obscuras uelut quae magno ex intervallo loci uix cernuntur, tum quid rarae per eadem tempora litterae fuere, una custodia fidelis memoriae rerum gestarum, et quod, etiam si quae in commentariis pontificum aliisque publicis priuatisque erant monumentis, incensa urbe pleraeque interiere. Clariora deinceps certioraque ab secunda origine velut ab stirpibus laetius feraciusque renatae urbis gesta domi militiaeque exponentur. Ebbene, l’ultimo personaggio nominato nel V libro e il primo nel VI è proprio Marco Furio Camillo. Egli, caput rei Romanae 59, sarà il protagonista e l’artefice del passaggio da un «grande anno» all’altro e dalla vecchia alla nuova fase della Repubblica, inaugurata dalle leggi Licinie-Sestie, che porterà alla formazione di una compatta nobili-
questo periodo e ne costituirebbero anzi la reale conclusione: cfr. Dumézil 1980, 241-256. 57 Dumézil 1980, 207. 58 Cfr. Brelich 1972. 59 VI 3, 1.
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tas (patrizio-plebea)60 e al conseguente superamento del «gentilizio» a favore dello «statale»61. Camillo difende e rifonda Roma: la città acquisisce una nuova giovinezza, grazie ai iuvenes, prima a Veio, poi sul Campidoglio, poi infine con l’ingresso di altri iuvenes nella classe dirigente; tutto ciò avverrà sotto l’egida di Mater Matuta, dea dell’Aurora, che preannuncia e prepara l’«inizio», di Iuno Regina, protettrice dei iuvenes, e di Concordia, che salda infine le due componenti della cittadinanza romana. Camillo è infatti l’«eroe culturale» istitutore della concordia: prima di lui e senza di lui essa non esiste62; la parificazione non sarebbe stata possibile senza il suo intervento63; alcuni gli attribuiscono la dedica del tempio a Concordia ai piedi del Campidoglio64. Di più, oltre alle Licinie Sestie e al tempio, nel 367 a. C. si verifica un ulteriore tassello nel processo di parificazione, stavolta nell’ottica della celebrazione dei ludi Magni: con l’aggiunta di un giorno ad essi, e a seguito del rifiuto da parte degli edili plebei di organizzarli, fu creata l’edilità patrizia («curule»)65. Alle elezioni provvide proprio Camillo nel corso della sua ultima dittatura66.
60 I Romani parlavano infatti solo di nobilitas, non essendovi bisogno di sottolineare il carattere composito del gruppo dominante. La rivalità e le distinzioni erano d’altronde poca cosa rispetto all’abisso che divideva tutti i nobili, plebei compresi, dalla gente comune (cfr. ad es. XXII 34, 7-8). All’antitesi tra patriziato e plebe si sostituì pertanto quella tra nobilitas e plebe: cfr. Cassola 1988, 480-481. 61 Cfr. in generale Sabbatucci 1975. 62 Vi sono parecchie altre azioni di Camillo in favore della concordia: esiliato dai patrizi, evita che la divisione della città in due, con i patrizi assediati a Roma e i plebei rifugiatisi a Veio, diventi definitiva; i due ordini ritrovano l’accordo dapprima richiamandolo in aiuto, poi si ricongiungono per opera dello stesso Camillo. Cfr. Sabbatucci 1988a, 248-250. 63 VI 42, 11. 64 App. Bell. Civ. I 26, 120; Plut. C. Gr. 17; Livio lo attribuisce invece a L. Opimio, nel 121, che avrebbe agito su ordine del senato: XXII 33, 7. Cfr. Dumézil 19742, tr. it.2 349-354. 65 Cfr. Sabbatucci 1975, 57-58: il senso di questa nuova e vera concordia è che essa è «connotata da una «soddisfazione» della plebe e da una «rivalutazione» del plebeo da parte patrizia». 66 I 42, 13 ss. Il fatto singolare è che Plutarco in proposito riferisce l’ag-
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3. Da Alba a Veio Tutte la digressione precedente, se da un lato fornisce numerosi elementi utili a comprendere le valenze mitiche del lago alle falde del quale Ascanio fondò Alba, ancora non ci ha fornito risposte circa il collegamento con la guerra tra Roma e Veio. A ben vedere infatti, sembra assai più probabile che lo specchio d’acqua originariamente coinvolto nella vicenda non fosse il Lago Albano. Ciò pur accettando le convincenti osservazioni avanzate di recente da un gruppo interdisciplinare di studiosi italiani a proposito delle emissioni di CO2 della zona dei Colli Albani, verosimile spiegazione «fisica» dell’innalzamento del livello delle acque del lago67, meno utili tuttavia per una lettura «mitica» della ricca stratificazione di temi ed elementi narrativi di varia provenienza dell’episodio che stiamo esaminando. Un indizio altamente indicativo circa la probabile “estraneità” del Lago Albano nella vicenda è che in questo caso, nonostante si riconoscesse la natura prodigiosa dell’evento, non si sia proceduto alla consultazione dei Libri Sibillini: mi sembra infatti che vada distinto il senso dell’espressione libri fatales nei paragrafi 14 e 15 del V libro di Livio68. Nel par. 14 si parla del rimedio che si era trovato alla pestilenza del 399 grazie alla consultazione dei libri fatali, da intendere quindi come i Sibillini. Nel par. 15, invece, il riferimento è ai libri fatales etruschi69, per una serie di motivi: anzitutto, il prodigio non è lo stesso, in questo caso quello relativo al lago; la menzione
giunta di un giorno alle Ferie Latine: tale confusione è, a parere del Sabbatucci, indice di un’intercambiabilità riferibile ad una graduale appropriazione delle Ferie Latine da parte dei Romani: Sabbatucci 1988a, 304 ss. Nel 367 a. C. vi fu anche un’altra parificazione a livello sacerdotale, quella dei viri sacris faciundis, che passarono da 2 a 10, metà patrizi e metà plebei. 67 Barberi - Funiciello - Giordano - De Rita - Carapezza 2002. Questo proficuo approccio interdisciplinare ha dato origine in tempi recenti ad una nuova disciplina, denominata «geomitologia», per cui cfr. Aversa - Fea - Torre 2006. 68 Cfr. Cancik 1995, 205, n. 34. Diversamente D’Arco 1997, 123; sulla distinzione cfr. Santi 2008, 111-112. Weigel 1982-1983, 182, n. 16, ipotizza un “coinvolgimento” dei libri Sibyllini per la procuratio del prodigio del Lago Albano sulla base del ricorso ad essi nel 399 a. C. in occasione del primo lectisternium. 69 Così tra gli altri Guittard 1989, 1244; Pasqualini 2004, 95.
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avviene dopo il vaticinio per ispirazione divina dell’aruspice etrusco, e il sic igitur del periodo successivo associa per la procuratio i libri alla disciplina Etrusca70; non vi è alcun’altra menzione dei libri Sibyllini né dei viri sacris faciundis in tutta la vicenda relativa al fatto prodigioso del Lago Albano; il ricorso ai libri avrebbe reso di fatto inutile il ricorso all’oracolo di Delfi. L’“assenza” dei Libri Sibillini va sottolineata, tanto più in un momento in cui era particolarmente avvertita la mancanza dell’apporto dell’aruspicina etrusca: il prodigio è quindi avvenuto esternamente al territorio di Roma71. Decisivo in tal senso un passo di Livio, in cui l’operazione denominata prodigia suscipere, l’assegnare cioè una valenza pubblica ai prodigi, presupponeva che essi non avessero avuto luogo né in privato loco, né in loco peregrino72. In questo caso c’è dunque bisogno di un esperto locale di cose religiose. Questo dato inoltre rimarca una volta di più la peculiarità «monarchica» della situazione instauratasi con la dittatura di Camillo (anche se di poco successiva): il ricorso agli haruspices per la procuratio prodigiorum era particolarmente frequente in età regia73, per la quale inoltre non è attestata alcuna consultazione dei libri 74. La consultazione degli aruspici fu sempre considerata in età repubblicana “aggiuntiva”75, mai ufficiale, e nonostante lo stesso senato potesse
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Cfr. Santi 2008, 52-53, sul diverso carattere della divinazione effettuata attraverso la consultazione dei libri Sibyllini. 71 L’Hubaux nota che, data la natura dei luoghi (lago nel cratere di un vulcano, nessun affluente, corona di monti ininterrotta intorno e ad una altezza di almeno 100 m rispetto al pelo dell’acqua) l’ultimo lago a poter straripare sarebbe stato proprio quello Albano. Ciò non solo non è vero perché in teoria fisicamente possibile per effetto delle emissioni di CO2, che avrebbero potuto effettivamente innalzare il livello delle acque, ma anche poco utile ai fini di una ricostruzione «mitica» dell’evento. 72 XLIII 13, 6. Per una «geografia» dei prodigi, cfr. Rosenberger 2005. 73 I 56, 5: Itaque cum ad publica prodigia Etrusci tantum vates adhiberentur. 74 Santi 2008, 69. Sulla fase precedente, cfr. ibid., 57 ss. 75 Si ricorreva ad essi particolarmente in occasione di eventi giudicati inesplicabili: cfr. Torelli 1986, 162.
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chieder loro un responsum76, esso, in quanto comunque proveniente da stranieri, era spesso accolto con diffidenza77, né in realtà le deduzioni dell’aruspicina erano considerate vincolanti78, al contrario della presa degli auspicia79. Tutto ciò per dire, lo ripetiamo, che il mancato ricorso ai libri e il bisogno di un aruspice sembrano indicare che il fatto religioso sia avvenuto fuori dal territorio romano, verosimilmente proprio all’interno di Veio, così come l’altro, il taglio degli exta, verificatosi chiaramente entro la città e nel quale è ancora un sacerdote etrusco a rivelare le modalità per la corretta esecuzione dell’atto rituale80. Tale impostazione è corroborata da un altro parallelo, ben rilevato dall’Hubaux: il prodigium della quadriga veiente81. Secondo il racconto di Plutarco, Tarquinio il Superbo aveva commissionato agli artigiani veienti una quadriga fittile da collocare sulla facciata del tempio di Giove Capitolino. Al momento di essere cotto l’artefatto, invece di ritirarsi come avveniva normalmente, si ingrandì a dismisura, diventando inoltre eccezionalmente duro. Gli aruspici interpretarono l’evento come un presagio di potenza per il possessore e consigliarono di non consegnare il gruppo statuario. Gli Etruschi però furono costretti infine a capitolare82. In questa narrazione vi sono una serie di elementi che potremmo agevolmente mettere in relazione con l’episodio della presa di Veio: il fatto avviene all’interno della città etrusca; come per il lago, vi è uno “straripamento” che porta qualcosa ad assumere dimensioni fuori della norma83, per di più in condizioni in cui ciò è ancora più stupe-
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Cic. De leg. II 21. Cic. De div. II 51; Ad fam. VI 18; Gell. N. A. IV 5. 78 Cic. De div. II 52. 79 Ibid. II 70 ss.; la violazione degli auspicia era punita con la morte: Cic. De leg. II 21; Polib. I 52, 2 ss.; Cic. De nat. deor. II 7. 80 Liv. V 21, 8-9. 81 Plut. Publ. 13 ; cfr. Hubaux 1958, 204 ss; Pasqualini 2004, 95. 82 Plut. Publ. 13 e Fest. 340 L collegano questo all’altro prodigium che infine convinse i Veienti a cedere: la precipitosa cavalcata verso Roma della quadriga vincitrice di una corsa tenutasi a Veio. 83 Tali eventi prodigiosi, come anche quello narrato in Cic. De div. I 18, sembrano avvenire sempre alla fine di un ciclo: cfr. Hubaux 1958, 208. 77
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facente: in una fornace, nella quale per il calore l’umidità dovrebbe evaporare, così come nel periodo dell’anno (la canicola) in cui di solito laghi e fiumi dovrebbero comportarsi allo stesso modo; l’interpretazione spetta agli esperti di cose religiose etruschi; alla fine i Romani riescono a volgere il prodigio a proprio vantaggio e ad impossessarsi di una statua, nuovo pignus imperii 84. Altri elementi dovrebbero farci riflettere. Se, come la critica è concorde nel ritenere, il prodigio del Lago Albano ha luogo nel 398/397 a. C., solo l’anno prima, sempre in estate, si era verificato un altro prodigium, una pestilenza85. In questo caso, poiché non si riuscivano a trovare né una causa né un rimedio al flagello, il senato ordinò la consultazione dei Libri Sibillini, che ebbe come esito la celebrazione del primo lectisternium. Il rito era destinato principalmente ad Apollo in quanto Medicus, la cui introduzione a Roma datava al 433 a. C.86 Ebbene, solo un anno dopo, per un altro evento prodigioso, inspiegabile, potenzialmente rovinoso, verificatosi in estate e per il cui rimedio riveste un ruolo essenziale Apollo, non si pensa affatto a sollecitare la lettura dei libri. Perché? Perché evidentemente non si ha a che fare con gli dèi del pantheon romano: c’è bisogno degli esperti di un altro sistema religioso. Anche quando si introdussero divinità straniere, il prodigium era avvenuto in territorio romano: l’introduzione di Cibele, ad esempio, è conseguente all’invasione dell’Italia da parte di un nemico straniero87.
84 A questo proposito Plin. N. h. XXVIII 4, cita il famoso episodio del rinvenimento di un teschio umano sul Campidoglio quale precedente di quello relativo alla quadriga: anche qui un indovino etrusco, Olenus Calenus (Hubaux 1958, 205, lo ritiene senza dubbio veiente), cercò di trasferire il carattere propizio del presagio alla propria nazione con l’inganno; cfr. Dion. Hal. IV 59-61. Si noti come, forse non a caso, Plinio menzioni la vicenda appena prima di trattare dell’evocatio. 85 V 13, 4-8. 86 Santi 2008, 134 ss. 87 XXIX 10, 4-5. Cfr. Catalano 1978, 544. Sui templi introdotti su indicazione dei Libri Sibillini, cfr. Orlin 1997, 97-115.
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Così come gli altri due, dunque, anche il prodigium del lago dev’essere avvenuto a Veio88. Un’ulteriore indicazione in tal senso potrebbe essere la notizia di Dionigi secondo cui all’indomani del prodigio del Lago Albano (noi diremmo di Veio) i Romani sacrificarono alle divinità del luogo e consultarono gli indovini indigeni89. L’insuccesso di queste operazioni è forse da riferire allo stato di turbata pax deorum vigente a causa dell’errata celebrazione delle Ferie Latine: riconciliatisi con i propri dèi, i Romani possono consultare gli indovini locali (l’aruspice) e ripetere i sacrifici agli dèi del luogo (in primis a Iuno Regina). Tutto questo avviene prima di interrogare la Pizia: allo strumento «locale», dunque, i Romani affiancano quello «internazionale», consultando l’oracolo delfico; i libri nella circostanza appaiono comunque inutili. Il primo medium, proprio per il suo carattere «locale», indica solo la procuratio relativa a Veio, mentre il secondo, oltre a confermarla, aggiunge anche l’indicazione relativa alle Ferie Latine perché, in quanto «internazionale», può estendere la propria ricognizione al territorio romano oltre che a quello etrusco90. Il riflesso di ciò potrebbe trovarsi anche nella preghiera di Camillo: egli ringrazia dapprima Apollo, che ha individuato e aiutato a superare tutte le problematiche iniziali, poi, sgombrato il campo da tutti gli impedimenti religiosi, si può finalmente rivolgere alla dea «particolare» di Veio, Giunone Regina91.
88 Allo stesso modo tutti gli altri prodigia verificatisi durante l’assedio, prima e dopo quello del lago, interessano solo l’area direttamente coinvolta dalla guerra romano-veiente: D’Arco 1997, 97, n. 18. 89 Dion. Hal. XII 10, 2. 90 In realtà nel solo C. Dio VI = Zon. VII 20 vi è una complementarità tra oracolo delfico ed aruspicina etrusca: entrambi avrebbero vincolato la presa di Veio al mancato mescolamento delle acque del lago con quelle del mare e indicato dei sacrifici da compiere per quell’evenienza. L’oracolo però non avrebbe rivelato a quale divinità e in che modo sacrificare, mentre l’aruspice sembrava essere a conoscenza di queste cose ma non le avrebbe rivelate: solo la cattura di quest’ultimo sblocca la situazione. 91 Non sono d’accordo con Hubaux 1958, 261, il quale nella sua interpretazione del gruppo acroteriale del tempio di Portonaccio, suppone che il collegamento tra le divinità possa essere dato dalla possibilità che il tempio di Giu-
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A ben vedere, potremmo correggere parzialmente la nostra precedente asserzione nella misura in cui in effetti sono coinvolti anche gli dèi romani, ma solo per quanto riguarda il sacrilegio delle Ferie Latine, per il quale non faremo fatica a riferire l’espiazione a Giove92, cui infatti erano dedicati i Ludi Magni che Furio Camillo promette di far celebrare prima di partire per Veio93. A posteriori inoltre, un ulteriore collegamento poté essere fornito dalla presenza sul Monte Albano di un tempio dedicato nel 168 a. C. dal pretore C. Cicereio a Giunone Moneta, il cui epiteto veniva talvolta confuso con quello di Giunone Regina e il cui culto fu associato a quello di Giove Laziare94. Proprio il riferimento ai tradizionali riti latini sembra essere l’elemento forte per cui è comprensibile una menzione del Lago Albano: i magistrati, eletti irregolarmente, non avevano celebrato nella maniera corretta le feriae Latinae e il sacrificio sul Monte Albano95. Se il legame della canalizzazione con il lago è vago e non meglio definito, stavolta esso è indiscutibile: il tempio di Giove Laziare era il tempio federale della Lega Latina, su cui Roma aveva imposto la propria egemonia. A repentaglio era quindi il risultato che Roma, sempre per volere degli dèi, stava faticosamente ma positivamente ottenendo. Vi era d’altronde un parallelo pienamente storico ben noto, riguardante la condotta di C. Flaminio, che aveva portato alla disfatta
none Regina fosse sormontato da una statua di Apollo. Dumézil 1980, 140, pensa ad uno schema Apollo-sole, Giunone-aurora (sulla base della forte affinità di quest’ultima con la Θesan delle lamine di Pyrgi). Cfr. Coarelli 1988, 244 ss. 92 Con ciò avremmo probabilmente un’altra indicazione circa la «fatalità» dell’elezione di Furio Camillo. Il camillus era infatti l’assistente cultuale del flamen Dialis: Fest. 82 L; cfr. Plut. Num. 7, 11. Altro riferimento a Giove in relazione a Camillo nell’episodio del trionfo che destò a Roma grande scandalo: V 23, 4-6. Sui rapporti Giove-Camillo, cfr. Dumézil 1980, 221-239. 93 V 19, 6. 94 XLII 7, 1; XLV 15, 10. 95 V 17, 2-3; Plut. 4, 6. Sulle feriae latine, cfr. in generale Pasqualini 1996; in part. per i ludi di Roma, Malavolta 1996. Un «duplicato» è sempre in Livio (I 31, 1-3): una voce proveniente dal bosco sacro sul Monte Cavo ammonisce gli Albani a compiere le sacre cerimonie secondo il rito patrio; l’espiazione è dovuta all’azione congiunta di un oracolo e degli aruspici.
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dell’esercito presso un altro lago, il Trasimeno: egli aveva trascurato i tradizionali obblighi religiosi dei consoli, tra cui la proclamazione delle Ferie Latine96. La vicenda del sacrilegio, avvenuta forse nello stesso periodo dell’assedio, ha probabilmente fornito una motivazione per legare due eventi accaduti a una certa distanza tra loro e apparentemente senza alcun nesso. Valga infine la considerazione che nel famoso discorso di Camillo per dissuadere i concittadini dall’empio proposito di trasferirsi a Veio, a proposito del prodigio del Lago Albano egli menziona quale remedium unicamente il rinnovamento dei sacrifici e la ripresa degli auspici, senza alcun riferimento allo scavo del canale97. Non sembra invero peregrino neanche escludere l’influenza di un altro possibile «modello» nella costruzione del racconto: mi riferisco all’emissario del lago di Nemi e al nesso “causale” di questo con il tempio di Diana Nemorensis98. È stato accertato infatti che il santuario, ubicato in zona piuttosto pianeggiante (località “Giardino”), non sarebbe potuto essere costruito senza l’abbassamento del livello del lago, ottenuto tramite la costruzione di un lungo canale di scolo99. Proprio tale elemento potrebbe aver fornito ulteriori tasselli all’elaborazione della leggenda del prodigio del Lago Albano: il «pericolo» rappresentato dalle acque non comporta una distruzione, ma, ancor più grave, l’impossibilità di erigere l’edificio sacro alla dea. Vi è poi la necessità di strappare all’acqua un’area finalizzata al bene comune, sacrale certo, ma anche probabilmente agricolo100. Questo dato, oltre a essere molto importante nella leggenda del Lago Alba-
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XXI, 63. Cfr. Clemente 1990, 50-52; Orlin 1997, 37. V 52, 9. 98 Su cui cfr. Coarelli 1987, 165-185. Sul tempio v. da ultimo Rasmus Brandt - Leander Touati - Zahle 2000. 99 Cfr. Morpurgo 1903; Ucelli 19502; Coarelli 1987, 167-168. 100 Cfr. Brelich 1949a, 27 ss. sul rex Nemorensis; Coarelli 1987, 174; ulteriore motivazione-necessità fu anche la bonifica dei terreni paludosi a causa delle oscillazioni del livello del lago dovute alla pioggia e alle sorgenti naturali. 97
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no, poteva essere anche frutto di una proiezione nel passato della (ri)acquisizione da parte dei plebei delle loro terre coltivabili sull’Aventino, detto anche collis Dianae101, poiché vi si trovava il tempio dedicato alla dea (come Aricina)102; nell’edificio sacro erano conservati tra l’altro il testo della lex Icilia103 e del patto tra Roma e le città latine104. Quest’ultimo è un altro fattore che poteva avvicinare la valenza dei due laghi e il significato religioso dei santuari ad essi collegati: in entrambi vi erano i due templi federali dei Latini; l’asse ideale che essi costituiscono era per i Latini il comune riferimento cosmico105; il natalis dei due templi a Roma cadeva alle idi, di agosto per Diana, di settembre per Giove. Infine, tutti e due gli specchi d’acqua saranno oggetto della costruzione di un emissario: per le caratteristiche tecniche il più antico, che dunque fu modello per l’altro, è quello del lago di Nemi106. Esso, costruito intorno al 500 a. C.107, prima dunque della dominazione romana, consta di un cunicolo scavato nella roccia lungo 1635 m e largo 80 cm, con un dislivello tra l’entrata e l’uscita di 12,63 m, che congiungeva il lago a Vallericcia, di là del cratere. Oltre a guadagnare un lembo di terra per la costruzione del santuario, l’opera aveva l’ulteriore doppio scopo di mantenere costante il livello del lago e di irrigare la valle: utilità indubbiamente (anche) agricola perciò, come nel caso del Lago Albano. Un dato da tenere nella massima considerazione è che da Vallericcia il canale prosegue a cielo aperto per circa 2100 m, per poi di nuovo interrarsi nel cosiddetto cunicolo aricino, lungo 610 m, e sfociare infine nel mare, dopo un percorso di circa 15 km, nei pressi di
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Mart. VII 73, 1; XII 18, 3. Cfr. Vendittelli 1995. 103 III 31; Dion. Hal. X 32. 104 Dion. Hal. IV 26; nell’area del santuario era probabilmente contenuto anche il testo di una lex arae Dianae che serviva da modello di regolamento per altri culti: CIL III 1933; XI 361; XII 4333. 105 Sabbatucci 1988a, 311. 106 Coarelli 1987, 167; cfr. Coarelli 1991; Devoti 2005, 26-34. 107 Coarelli 1987, 168. 102
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Ardea. La costruzione dell’emissario albano, dovendo evitare il mescolamento delle acque lacustri con il mare, poteva riferirsi forse alla necessità di un maggiore sfruttamento delle acque dolci del lago per l’agricoltura; tuttavia a livello religioso è possibile dire qualcosa di più notevole. Verificata la maggiore antichità del canale nemorense, è verosimile che il canale albano per giungere al mare avrebbe sfruttato il canale già presente, che vi sfociava presso Ardea. Qui però si trovava un tempio dedicato a Giunone Regina108: vi poté essere pertanto l’intenzione di non far giungere le acque alla dea omologa a quella di Veio, dalla quale vi era invece la pressante necessità di allontanarle, come sarà più chiaro tra poco. La costruzione dei canali nemorense e albano non sarebbe stata possibile senza la sapienza etrusca: gli Etruschi eccellevano nei lavori di canalizzazione delle acque, sia per la captazione dell’acqua piovana o delle sorgenti perenni, sia per l’irrigazione dei campi, sia infine per il drenaggio e la bonifica109. È possibile constatarlo ancora oggi visitando proprio il sito di Veio: a nord della città le valli sono solcate da chilometri di cunicoli per il drenaggio dei campi; un tunnel, lungo circa 600 m e profondo fino a otto, riversando l’acqua dal Fosso di Formello, lungo ben 4 km, al Fosso Piordo, assicurava un flusso regolare lungo i lati sud e ovest della città: nel Medioevo fu usato per azionare una macina, il c. d. «Mulino Etrusco»; la galleria di Ponte Sodo, lunga più di 70 m, attraverso un basso crinale convoglia le acque del Valchetta, l’antico Cremera, nel torrente Mordo, sul lato nord del pianoro, per eliminare un gomito in un punto in cui vi era rischio di inondazioni; un sistema di cunicoli convogliava le acque dalle falde freatiche della roccia a numerose cisterne110. I Roma108 Plin. N. h. XXXV, 115; cfr. Verg. Aen. VII 419; sulla localizzazione, La Rocca 1990, 830. Fu questo forse uno dei motivi della scelta da parte di Camillo della propria dimora ivi dopo l’esilio cui fu condannato nel 391 (V 31, 8; 43, 6)? 109 Cfr. Cristofani 1986, 116; Mansuelli 1986, 682; Ravelli - Howarth 1988: gli autori ritengono che la ragione sia in maniera preponderante la raccolta di acqua piovana, resa potabile dall’azione filtrante del terreno; in generale sui cuniculi nel mondo antico, Puchstein 1901. 110 Cfr. Ward-Perkins 1961, 47-52; Scullard 19772, 111; sulla diversa tipologia di tali cuniculi in base all’impiego e alle finalità, cfr. Ravelli - Howarth 1988, 58 ss. Gli Etruschi in generale erano particolarmente abili nello scavo
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ni si rivolgevano solitamente alla scienza etrusca quando si trattava di irrigazione di terre o di drenaggi di paludi111. Già il Pais aveva proposto di interpretare l’episodio del cunicolo di Veio ipotizzando che l’aruspice avesse indicato agli assedianti una condotta praticabile112. I cunicoli d’altronde, a sezione pressoché rettangolare con volta di forma baulata od ogivale, erano alti da 1,6 a 1,8 m e larghi da 60 a 70 cm, quindi di dimensioni agevoli – soprattutto per la statura media del tempo – per la manutenzione in generale113 e per il transito dei soldati nel nostro caso. Diversamente, lo scavo del tunnel, praticato sempre da valle a monte, aveva bisogno di un esperto sia per la tecnica sia per la direzione114. C’è da considerare anche un altro dato: la canalizzazione serviva ad alimentare i bacini lustrali, secondo l’esempio ancora visibile nell’area sacra del tempio di Portonaccio115. A partire da questi elementi relativi al racconto del prodigio del Lago Albano, si può forse ipotizzare un diverso svolgimento degli eventi. Anzitutto, verificato che il lago è coinvolto certamente solo per quanto riguarda l’irregolare celebrazione delle Ferie Latine, notiamo che in realtà l’aruspice etrusco non vi fa alcun riferimento: questi infatti rende i Romani
della pietra, com’è possibile constatare ancora oggi in un altro sito dell’Etruria meridionale, Caere, nella necropoli della Banditaccia: per accedere alle tombe, tutte scavate e intagliate nel tufo (alcune particolarmente grandiose, come le tombe “delle Colonne”, “dei Rilievi”, “degli Scudi e delle Sedie”, etc.) si percorreva una via profondamente incassata nel pianoro tra la città e la necropoli (c. d. “via degli Inferi”). 111 Plin. N. h. II 37; cfr. Bergamini 1991. 112 Pais 1928, 328 ss.; cfr. Mansuelli 1986, 682. 113 Cfr. Ward-Perkins 1961, 47-48; Ravelli - Howarth 1988, 59. La comunicazione tra il cunicolo e la superficie del terreno era assicurata da una serie di stretti pozzi distribuiti lungo il cunicolo a distanza tra di loro di 40-60 metri. Essi hanno sono una sezione rettangolare (1-2 mq); i piccoli gradini (pedarole) scavati ad altezze sfalsate sulle due pareti contrapposte tra loro più vicine consentivano un più comodo accesso al cunicolo. Sulla manutenzione degli acquedotti romani, cfr. Bruun 2000. 114 Sulla prima si ricordi la notizia di Cassio Dione sulle modalità tecniche di deflusso delle acque del Lago Albano, comunicate direttamente dall’aruspice; sulla seconda, cfr. infra. 115 Stefani 1953, 87 ss.; Scullard 19772, 112; Colonna 1986, 470.
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edotti della sola procuratio circa il corretto deflusso delle acque. Come ha acutamente messo in luce lo Hubaux, in proposito Livio usa sempre il verbo emittere, verbo tecnico relativo ai lavori idraulici di canalizzazione, cioè al deflusso tramite un emissarium116; anche Cicerone usa un termine tecnico, deductio117. Non si può in definitiva escludere che il racconto originario prevedesse che i Romani si fossero serviti di un cunicolo già esistente per risalire alla cittadella di Veio. Lo Scullard nota in proposito che la galleria tra Fosso di Formello e Fosso Piordo corre sotto il punto in cui è più probabile che si trovasse il campo romano (a NO), il solo relativamente piano dal quale la città poteva essere avvicinata, e che in questo punto le mura, erette verosimilmente in previsione di un attacco romano, erano costruite su alcuni cunicoli riempiti di terra e pietre118. Il ritardo di vari anni nell’impiego di questa soluzione, oltre che dallo sforzo richiesto, poteva derivare dalla sua rischiosità, da un crescente malcontento dell’esercito per la lunghezza delle operazioni e quindi da un tentativo che metteva da parte la prudenza fino ad allora usata, ma anche probabilmente dall’acquisizione di alcune conoscenze propriamente tecniche cui sembra alludere la vicenda dell’aruspice (anch’egli “tecnico” per eccellenza nelle faccende religiose): non si dimentichi che l’idraulica, in cui gli Etruschi furono maestri, aveva inizialmente anche chiari connotati religiosi119. Ottenute le informazioni necessarie da un etrusco disertore o catturato, i Romani possono procedere all’arditissima impresa. Un canale artificiale e sotterraneo, di circa 1350 m, è ancora visibile e funzionante presso l’attuale Castel Gandolfo: esso versa le acque del lago nel Fosso dei Preti presso la località le Mole, tra l’al-
116 Hubaux 1958, 127 ss. I passi di Livio sono: V 15, 4; 15, 11; 16, 9; 19, 1; 51, 6. Cfr. D’Arco 1997, 113. 117 Cfr. D’Arco 1997, 111. 118 Scullard 19772, 281. 119 Guittard 1989, 1245; Mansuelli 1998, 111, riportando la notizia di Plinio circa la grandiosa opera etrusca compiuta alle foci del Po (N. h. III 16) suppone che essa fosse stata preceduta da pratiche religiose secondo l’Etrusca disciplina.
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tro proprio in direzione del mare120. Sia che risalga all’VIII o al IV sec. a. C.121, esso è sicuramente opera della o influenzata dall’ingegneria idraulica etrusca, la più avanzata del tempo, sulla quale, come si è avuto modo di rilevare, i Romani fecero affidamento ogni qual volta ebbero bisogno di procedere ad operazioni abbastanza complesse di drenaggio o canalizzazione. Il canale serviva chiaramente ad utilitatem agri suburbani 122, cioè all’irrigazione dei campi sottostanti: I. D’Arco avanza quindi l’ipotesi che parlando di acque «che si mescolano a quelle salate del mare» ci si riferisse nient’altro alle acque che «vanno perdute, perché non utilizzabili, senza il canale, per l’agricoltura»123. In realtà già Cicerone, la nostra fonte più antica, mostra di ritenere che la canalizzazione avesse a che fare con la necessità di irrigare la campagna sottostante, piuttosto che con il destino delle due contendenti124, e in quest’ottica acquista ulteriore plausibilità anche l’accostamento effettuato da Dionigi con il Nilo: da una parte senza alcun tipo di intervento di tipo idraulico non si sarebbe potuta coltivare una vasta area, dall’altra il danno che da ciò poteva derivare alla comunità fu forse ingrandito trasferendo il fenomeno reale della piena del grande fiume egizio ad un episodio della saga romano-veiente, con l’ulteriore funzione «nobilitante» fornita dal richiamo al fiume sacro di una delle civiltà più raffinate del Mediterraneo. Il vaticinio fu forse «interessato», per ottenere l’autorizzazione divina ad un’opera avvertita come una violazione della natura125. Una “fusione” verosimile di conoscenze religiose e idrauliche è in Cassio Dione: l’aruspice non solo rivela che tipo di sacrifici andavano offerti e a quali divinità, ma indica anche il modo in cui costruire 120
D’Arco 1997, 111. Su tale “forbice”, cfr. Ravelli - Howarth 1988, 60; per alcuni tentativi di datazione, Baffioni 1959, 310; Vernole 1997, 55. 122 Cic. De div. II 32, 69. 123 D’Arco 1997, 116. 124 De div. II 32, 69. Val. Max. I 6, 3 invece parla di una deviazione delle acque del lago nella campagna circostante, ma non del modo in cui sarebbe dovuto avvenire. Anche in questo autore ritorna però l’indicazione che questa sarebbe stata la conditio sine qua non per conquistare Veio. 125 Bernardi 1979, 63. 121
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il tunnel sotterraneo per far defluire l’acqua del lago nella pianura sottostante126. Anche in Livio l’Etrusco prima tenta, non creduto, di descrivere minuziosamente la tecnica per il corretto deflusso dell’acque, poi è presente durante i lavori127. Ciò detto, uno dei fattori che portò a collegare lo scavo dei tunnel a Veio e al Lago Albano poté essere forse una relativa contemporaneità degli eventi128, relativa perché un’opera così impegnativa come la seconda non poteva essere sicuramente portata a compimento nel giro di un anno o due. Esplicativo in questo senso lo sforzo in termini di tempo e manodopera che fu necessario per scavare l’emissario del Lago Fucino ai tempi di Claudio: trentamila uomini vi lavorarono per undici anni!129 In ogni caso quello del lago costituiva l’esempio più impressionante – e prossimo, anche se ve n’era un altro di diverso tipo nella stessa Roma, la Cloaca Maxima130 – delle capacità degli Etruschi nel campo dei lavori idraulici, capacità di cui i Romani si trovano ad avere un gran bisogno per risolvere la situazione a Veio. Se si sono forniti numerosi argomenti per spiegare il motivo per cui si alla guerra tra Roma e Veio si collegò così strettamente il prodigio del Lago Albano, più difficile è invece stabilire quando i due elementi vennero saldati nello stesso racconto: ci si riferisce per lo più all’età graccana, forse con modifiche in età sillana131. Indicativa, a favore di un’età abbastanza tarda cui riferire il legame, l’assenza che del prodigio del lago si riscontra in Diodoro132.
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C. Dio VI = Zon. VII 60. V 15, 12; 17, 1. 128 D’Arco 1997, 95, 111. 129 Suet. Claud. 20, 2; cfr. Baffioni 1959, 114. 130 Cfr. Bauer 1993, che ne colloca la costruzione nel V sec. a. C. Sui rapporti con la statua di Vortumno, cfr. Ferri 2009b. All’epoca della monarchia etrusca sono riferibili anche le opere di drenaggio e di raccolta delle acque pluviali sul Palatino, cui sono riferibili un sistema di cunicoli e gallerie sotterranee e delle grandi cisterne: cfr. Tagliamonte 1999, 19. 131 D’Arco 1997, 134 ss.; più in particolare Lucio Calpurnio Pisone Frugi per Pasqualini 2004, 99 ss. 132 Diodoro sembra infatti essere per il IV sec. più fededegno di Livio e Dionigi: cfr. De Sanctis 19602, 41 ss. 127
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Resta a questo punto da precisare l’ipotesi da cui siamo partiti per la nostra digressione sul Lago Albano. Presentate infatti le nostre motivazioni circa lo spostamento del prodigio, resta da capire la cosa forse più elementare ma più importante. Perché a Veio è coinvolto un lago visto che non ce n’erano? Sopra abbiamo parlato, riferendoci a Veio, di un bacino lustrale; ebbene, il punto della città in cui il cunicolo va a sbucare è altamente indicativo: in aede Iunonis 133. Probabilmente in origine il racconto prevedeva che i Romani avessero portato il loro attacco in direzione del tempio della dea che aveva acconsentito a trasferire su di loro la sua protezione divina. Per il tramite dell’edificio sacro, che si trovava sull’arx della città134, ci si aspettava che la dea fornisse una guida e una prima protezione all’esito favorevole dell’assalto. Il cunicolo potrebbe essere stato allora quello di scolo del bacino lustrale del tempio della divinità poliade135, da cui si potrebbe inferire pure che esso fosse di notevoli dimensioni – il tempio di Giunone Regina era il più grandioso della città – e che vi fosse la necessità pratica di svuotarlo correttamente per non travolgere non solo i sol-
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V 21, 10; cfr. Plut. 5, 6: «presso il tempio di Giunone». In realtà poco più avanti lo stesso Plutarco afferma che i Romani per uscire dal cunicolo devono rimuovere le lastre del tempio: d’altronde è comprensibile che il sacrificio che avrebbe determinato la vittoria avvenisse davanti al tempio della dea più importante che, ormai convinta, favorisce l’orientamento dei Romani. 134 V 21, 10; cfr. V 19, 11. Alla luce delle convincenti osservazioni di Mario Torelli (Torelli 1982), l’arce non va identificata con l’angusto zoccolo denominato «Piazza d’Armi», settore abbandonato già nel corso del V sec., nel quale gli scavi hanno rinvenuto solo un santuario di dimensioni alquanto modeste: egli propone di riconoscerla pertanto nell’estremità sud dell’altopiano veiente e di individuare il tempio di Giunone Regina nella costruzione di dimensioni imponenti scavata parzialmente a suo tempo dal Lanciani, a poca distanza dalla quale fu rinvenuto un gigantesco scarico di terrecotte votive. Cfr. Colonna Michetti 1997, 160. 135 Certamente almeno nel caso di una dea che molto probabilmente fu evocata, Iuno Curitis da Falerii, vi è uno stretto legame con l’acqua: a Falerii il santuario di Contrada Celle presenta dei bacini alimentati da cuniculi, mentre a Roma il tempio della dea fu costruito ai margini della palus Caprae. Cfr. Basanoff 1947, 77; Comella 1986; Moscati 1990, 156 ss.
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dati, ma anche il campo a valle, canalizzando nel modo migliore le acque nella pianura sottostante. La grandezza di questo bacino, funzionale anche a posteriori allo sviluppo della «leggenda», ma in generale delle riserve idriche di cui Veio disponeva, fu forse ingrandita ulteriormente anche dalla considerazione della lunghissima e tenace resistenza della città etrusca136, magari accentuata ancor di più – ma siamo nel campo delle congetture – da episodi analoghi a quello famoso del lancio dei pani dall’arce capitolina sugli assedianti galli per mostrare l’abbondanza delle riserve di cui gli assediati ancora disponevano137 o dall’uso di getti d’acqua a scopo difensivo. Quest’ultimo elemento spiegherebbe anche l’inserimento e il possibile accostamento delle vicende della guerra alle vicende analoghe sia del passato «mitico» di Roma (Allodio o Amulio) sia indoeuropeo (Apam Napat e Nechtan)138. Questa ipotesi avrebbe anche il vantaggio di fondere, collegandoli ad un unico cuniculus, due episodi nella tradizione riferiti per forza di cose a due cunicoli diversi, quello del prodigio del Lago Albano, appena considerato, e quello del ratto degli exta. Essendo infatti attestato chiaramente per entrambi che da essi dipendeva la vittoria finale, si è visto in uno il duplicato dell’altro139: col riferirli entrambi ad un unico racconto, invece, essi non si escluderebbero a vicenda. In realtà, non si può escludere neanche che l’intero episodio non sia altro che un duplicato della presa di Fidenae140, avvenuta pochi anni prima ad opera di Quinto Servilio con il medesimo stratagemma, la costruzione cioè di una galleria sotterranea in direzione della rocca, favorita da continui attacchi per distogliere da essa l’attenzione dei difensori. Ciò è però ancor di più rivelatore della «costruzione»
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Dion. Hal. XII 15, 21. V 48, 4. Altra indicazione in tal senso potrebbe venire dall’episodio della presa di Fidene, di cui quello di Veio costituisce forse un duplicato «arricchito»: l’assedio senza un colpo di mano sarebbe stato inutile poiché gli assediati disponevano di enormi riserve di frumento. 138 Cfr. supra. 139 D’Arco 1997, 138. 140 IV 21-22. Cfr. De Sanctis 19602, 136-137. 137
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consapevole compiuta dall’annalistica romana, in cui fattori reali o verosimili ed espedienti letterari si fondono per dar vita ad un episodio maggiormente «epico» rispetto agli altri, proprio perché la presa di Veio fu d’importanza «epocale» e paragonabile solo a quella dell’altra città che appare più volte ad essa legata dalle sottili trame del fato: Roma, che infatti secondo alcune fonti fu presa dai Galli per mezzo di un cunicolo141.
4. Dal dato alla «rappresentazione» Tutta la precedente digressione incentrata sul cuniculus vuole avere l’intento di mostrare quanto all’elaborazione della tradizione siano funzionali allo stesso tempo sia gli elementi «mitici», sia i c. d. realia, e di come sia invero non solo metodologicamente non corretto, ma anche azzardato, voler escludere gli uni a favore degli altri e viceversa: ognuno di essi è valido nella misura in cui rivela gli intenti e i motivi che stanno alla base del loro impiego, più o meno consapevole, da parte di un determinato autore. La vulgata deforma e arricchisce gli eventi, ma lo fa anche a partire da elementi reali, che partecipano alla «costruzione» del racconto annalistico142. Più nello specifico nel caso in questione si vuol intendere, sia che il tunnel sia stato scavato davvero da Camillo a Veio in quel preciso momento o da qualcun altro altrove e in un’altra epoca (e poi magari solo utilizzato dai milites), sia che costituisca invece un espediente o un topos letterario143, che in realtà esso è allo stesso tempo sia l’una che l’altra cosa, perché ogni “mattone” ha contribuito a costruire la leggenda e ogni variante di essa è significante. A posteriori è per noi allo stesso modo interessante e utile indagare i motivi alla base dell’elaborazione del singolo autore, sia esso Livio o Dionigi: nel primo caso, ad esempio, lo storico romano si sofferma sulla costruzione del cunicolo perché forse maggiormente
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Cic. Pro Caec. 88; Phil. III, 20; Serv. Ad. Aen. VIII, 652. Cfr. Montanari 1990, 36 ss. De Sanctis 19602, 136.
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a conoscenza di questa tecnica e del suo impiego, anche a scopo non bellico, magari anche per osservazione diretta, mentre nel secondo lo storico greco è portato ad effettuare il paragone con la piena del Nilo alla luce della sua sensibilità e delle sue conoscenze144. Una fusione tra elementi letterari e reali poteva avvenire anche interamente nella storia: illuminante in questo senso l’episodio relativo a Catone, legato di Acilio Glabrione in Macedonia, che riesce ad aver ragione dell’esercito di Antioco grazie al ricordo dalle letture di scuola del sentiero tenuto dai trecento di Leonida145. La storia di Roma arcaica è anche «mito»: «il racconto annalistico dell’incendio gallico», ad esempio, «quand’anche si dimostrasse infondato sul piano evenemenziale, non perderebbe il suo carattere fondante, che è tipico di ogni vero mito: esso orienta, giustifica, costruisce la storia ulteriore»146. L’idea romana della storia, se confrontata con altre tradizioni, come quella etrusca, «dimostra quanto poco separabili siano, in sede di costruzione di una vulgata, i processi «storificanti» da quelli «mitizzanti» e soprattutto quanto ambedue siamo legati ad un «campo ideologico» di fondo che li impronta e per ciò stesso li distingue rispetto a dinamiche storiche di altre culture»147; la mitizzazione romana è operata nella storia148.
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Per le differenti impostazioni di Dionigi e Livio, cfr. Montanari 1976, 21
ss. 145
XXXVI, 16. Montanari 1990, 40; cfr. Martini 2004, 26-27: «Anche se certe narrazioni rimangono non dimostrate dal punto di vista dei realia e pur se dovessero restare tali nel futuro, ne va sottolineato il carattere «fondante» pari a quello del mito e, di conseguenza, la loro «validità» storica: la registrazione di un avvenimento da parte del Pontefice così come il racconto di un annalista, nel momento in cui entrano a far parte della tradizione storica e si inseriscono nel patrimonio culturale, diventano «fondanti» ed acquisiscono valore di «fatto». Sull’«archeologia delle rappresentazioni e dei comportamenti», cfr. Ampolo 1983, 12; sui «modelli di comportamento» e le modalità di autorappresentazione da parte della nobilitas repubblicana, Montanari 2005; Montanari 2009. 147 Montanari 1990, 33. 148 Ibid., 34. 146
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Si è parlato in proposito per Roma sia di «storificazione dei miti» che di «epopea»149: il passaggio dall’epopea alla storia può essere osservato facendo attenzione ai «cicli narrativi»150. In Livio ad esempio, i «cicli» riguardanti l’istituzione della censura e l’introduzione di concordia ad opera di Camillo, collocati inoltre in un periodo storico che alla transizione dalla storia all’epopea ben si presta – dalla prima repubblica all’incendio gallico –, sono scanditi secondo schemi che proprio da questo momento definiranno la trama narrativa delle gesta d’età repubblicana. Tra questi vi è lo schema fondamentale e originale della repubblica, il dissidio plebe-patriziato, insieme a numerosi altri151: «ogni elemento tende a perdere un valore oggettivo per divenire segno connotativo dell’unica realtà esistente: il processo evolutivo che attraverso la dialettica plebe-patriziato porta all’incremento di magistrature, di assemblee, di diritti, di divinità, della libertas, in una parola della res publica»152. L’epopea e la storia sono dunque commensurabili: «La seconda, come la prima, conserva le caratteristiche di un «discorso interno», che rimuove ogni alterità, ogni lontananza, ogni sfondo mitico»153; nella narrazione relativa al V e all’inizio del IV secolo «pratica fabulatoria e pratica storiografica appaiono interconnesse. In tal senso, ad es., Veio può interpretarsi, secondo la «storia», come un segno connotativo di un’anti-Roma, in cui l’elezione di un monarca sembra risolvere il conflitto fra consoli e ordines, proponendo uno pseudomodello di «concordia»; o, secondo l’epopea, come una nuova Troia la cui espugnazione farà vendetta dell’antico assedio. Allo stesso modo, Camillo può significare, secondo la storia, lo strumento promotore della concordia fra patrizi e plebei e, secondo l’epopea, il prodigioso favorito della Mater Matuta, il fatalis dux che muore in-
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Sabbatucci 1975, 18 ss. Ibid., 31-60. 151 Ad es.: impersonificazioni sostitutive delle parti in conflitto (i nemici di turno – Fidenati, Veienti, Volsci, etc. – che subentrano nel ruolo dei patrizi o dei plebei), localizzazioni extra-romane del conflitto (ad. es. Ardea) o della sua potenziale composizione (a Veio), etc. Cfr. Montanari 1986, 39. 152 Montanari 1986, 39-40. 153 Ibid., 40. 150
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vitto dopo aver esercitato l’imperium quasi come un re. Interpretazione o, se vogliamo, dimensione fabulatoria e dimensione storica possono anche essere reciprocamente funzionali: se, ad es., la storificazione spiega come una concatenazione religiosa di concetti porti a Camillo, in quanto risolutore delle discordie, la fabulazione spiega perché proprio Camillo debba essere il promotore di concordia (e non, come sarebbe più ragionevole ma certo meno epico, un accordo fra le parti)154. Naturalmente, «fabulazione e storificazione non devono essere intese come dimensioni irriducibili: non si tratta di cogliere lo storico nel leggendario (secondo i canoni della Quellenforschung positivista), ma di considerare, se mai, leggendaria tutta la produzione annalistica, non nel senso della sua irrealtà, ma in quello – caratteristico di un mito – della sua realtà di «racconto fondante», legittimato dalla natura religiosa della fonte narrativa: il collegio pontificale»155.
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Ibid., 40-41. Cfr. Cavallaro 1984, 637: «In conclusione: egli è il protagonista di un racconto ricco di falsificazioni, ma non privo, in certi casi, di ‘appigli’ concreti. Il grande L. de Beaufort, che nel 1738 fondò su basi solidissime la critica della leggenda di C., lo indicava, però, come un grand homme (…); e allo stesso, p. es., in una moderna trattazione critica, meritatamente celebre, C. viene presentato come «il più grand’uomo della sua gente e del suo tempo» (Münzer 1910a, 324). In un certo senso, la critica della leggenda, e il riconoscimento delle falsificazioni storiche che si sovrapposero a strati, giovano a intendere meglio la forma mentale degli storici romani, che vollero o accolsero quelle falsificazioni, pur mettendo in rilievo monumenti autentici come il titulus nominis Camilli». 155 Montanari 1986, 41. Sul ruolo cruciale dei pontefici romani nell’elaborazione dell’annalistica e di un orientamento culturale «attualistico» e «demitizzante», cfr. Sabbatucci 1975; Martini 2004. Impostazione opposta quella presente in Fraschetti 1976; Coarelli 1983, 6.
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CAPITOLO V Die geheime Schutzgottheit von Rom e Vesta: Angelo Brelich alla fine degli anni ’40
1. Cenni biografici Per introdurre il discorso, sarà opportuno dar conto brevemente della biografia di Angelo Brelich (d’ora in poi B.) negli anni precedenti la redazione delle opere oggetto della nostra trattazione1. B. nacque nel 1913 da padre fiumano e madre ungherese a Budapest, sotto la monarchia austro-ungarica, ma sin dalla fine della prima guerra mondiale ebbe cittadinanza italiana. Tutto il corso dei suoi studi si svolse in Ungheria: ebbe quali maestri alla facoltà di filosofia (corrispondente all’italiana lettere e filosofia) dell’università della capitale magiara András Alföldi, con il quale preparò in italiano una prima tesi di laurea (Aspetti della morte nelle iscrizioni sepolcrali dell’impero romano) e Károly Kerényi, che poi seguì a Pécs, e con il quale decise di laurearsi (nel 1937), redigendo una nuova tesi, stavolta in ungherese, avente come oggetto il trionfo romano2. Alla fase di preparazione della prima tesi risalgono le prime frequentazioni dell’Italia, ove, grazie a varie borse di studio, poté sog-
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In generale, cfr. Brelich 1979a; Bianchi 1987; Sabbatucci 1988b; Montanari 1993a. 2 A Triumphator. La prima tesi apparve comunque nel 1937 nelle «Dissertationes Pannonicae» (I. 7), collana diretta dall’Alföldi, destando un certo interesse tra gli studiosi: Franz Cumont in un suo soggiorno a Roma volle incontrare il promettente giovane.
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giornare tra gli anni 19353 e 1936 e poi nel 19384. Alla fine di questo anno Raffaele Pettazzoni lo farà assumere con la carica di “ff. assistente straordinario” presso la sua cattedra di storia delle religioni all’università di Roma5. Nel 1939 fu chiamato a prestare il servizio militare, che si prolungò a causa dell’entrata in guerra dell’Italia6. Riuscì a tornare a Roma, dopo varie e penose vicissitudini, solo nel 1945 (il 27 agosto); l’unico dato significativo da registrare sul versante scientifico in questo lasso di tempo è il conseguimento della libera docenza in storia delle religioni nel 19427. Il forzato e prolungato allontanamento dagli impegni scientifici costrinse il B. ad una fase di intensa attività, spesa in traduzioni, recensioni, ma soprattutto in uno studio febbrile volto a recuperare il tempo perso e a formarsi una base scientifica il più possibile solida e ampia. Il primo impegno di rilievo fu il primo corso da libero docente di storia delle religioni per l’anno accademico 1946-478. La peculiare posizione dei volumetti usciti nelle «Albae Vigiliae» nel percorso scientifico e umano del B. risulta in modo abbastanza schematico già dalla loro collocazione in Verità e scienza. Una vita,
3 In una lettera del 24 gennaio indirizzata a Pettazzoni, Kerényi si augura che il suo allievo possa diventare «ein Verbindungsoffizier zwischen italienischer und ungarischer Religionswissenschaft und Altertumswissenschaft». Cfr. Di Donato 2005, 15-20. 4 Il primo soggiorno in assoluto ebbe luogo nel 1931, anno in cui B. poté frequentare per un anno l’università per stranieri di Perugia, sempre profittando di una borsa di studio. 5 Il posto si liberò a seguito delle leggi razziali fasciste, che costrinsero Pettazzoni a licenziare la sua assistente incaricata, in quanto ebrea. 6 Gandini 2003, 193, 250-251. 7 Si veda la lettera inviatagli da Pettazzoni, nella quale questi gli fornisce una serie di consigli utili alla preparazione del concorso, riportata in Gandini 2004, 236. Un rapido cenno ad altri due eventi del periodo bellico: l’8 settembre 1943 B. fu catturato in Grecia dai tedeschi. Fuggito in Ungheria, fu nuovamente fatto prigioniero a Budapest il 19 marzo 1944. 8 Il titolo era «L’idea di Roma», così come poteva essere desunta dalla religione romana: «si trattava, cioè, di vedere come lo Stato romano manifestasse nella propria religione pubblica la coscienza che aveva di se stesso: impresa ambiziosa anzichenò» (Brelich 1979a, 35-36). Il corso conteneva i germi delle opere pubblicate nelle «Albae Vigiliae»: Brelich 1979a, 36.
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l’ultimo scritto dello studioso (del 1976), nel quale egli ripercorre le tappe salienti della sua vita e della sua carriera. Egli le pone nella sezione dal titolo “Prima”, in un paragrafo specifico, il penultimo, precedente non a caso quello denominato “Una difficile crisi”, dopo il quale si apre la sezione “Durante”: cioè esattamente tra la fase di studioso privo «di una precisa coscienza metodologica» e quella in cui, B. stesso afferma, «ho dato agli studi il meglio che potessi»9. Proprio queste due pubblicazioni, continua il B., «finirono per acuire al massimo la crisi in cui mi trovavo nei riguardi della mia professione: sin dal momento in cui andavano in stampa, mi davano un senso di nausea e di inutilità»10.
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Brelich 1979a, 21: «Dal punto di vista dell’attività scientifica, nella mia vita si possono distinguere più o meno nettamente tre grandi fasi: un lungo periodo in cui facevo già lo studioso, ma senza trovare la mia strada, e senza una precisa coscienza metodologica; un altro – circa un ventennio – è stato quello in cui ho dato agli studi il meglio che potessi; e, infine, la fase di graduale distacco dall’impegno scientifico. Perciò, l’«autobiografia» si articola da sé in tre parti: Prima, Durante e Dopo». 10 Brelich 1979a, 37; cfr. ibid., 41: «Come già accennato, i miei lavori inseriti nelle «Albae Vigiliae», sin da prima di essere pubblicati, consolidavano in me la convinzione di aver sbagliato strada, dedicandomi agli studi. Mi trovavo in una falsa posizione sia come assistente universitario, sia come studioso. Avrei voluto cercare una strada nuova (…) Ma dato che mi mancava ogni senso pratico, neanche riuscivo a immaginare in che modo potessi cercare, prima ancora di trovare, un lavoro diverso, né per l’incerto potevo rinunciare al modesto ma sicuro (nel 1950 passai «di ruolo», con effetto retroattivo di due anni circa)». Ciononostante la seconda metà degli anni ’40 fu per il B. un periodo di intenso lavoro, in cui, oltre ad articoli vari (ad es. Brelich 1948; Brelich 1949d; Brelich 1949-1950; ma anche Il cammino dell’umanità, concepito per la famosa «Collana viola» diretta da C. Pavese ed E. de Martino, che uscirà solo nel 1985, scritto però principalmente nel 1948: sulla genesi dell’opera e per l’epistolario tra Brelich e Pavese, cfr. Carandini 2005), si occupò anche di prefazioni (Brelich 1949c) e traduzioni (tra le altre quella di Jung - Kerényi 1941-1942).
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2. I contenuti Anzitutto, per quanto pubblicati in fascicoli separati, le due opere ne costituiscono invece una sola: «io, in realtà, li avevo concepiti e realizzati come un lavoro unico e solo; per esigenze dell’editore ne furono fatte due pubblicazioni apparentemente indipendenti: cosa cui avevo dato molto malvolentieri il mio consenso»11. Die geheime Schutzgottheit si apre infatti con una prefazione di Károly Kerényi, la quale, sebbene concernente quasi completamente la tematica di questa prima opera, intende presentarle tutte e due. Dopo aver speso alcune parole sul problema della divinità tutelare segreta, egli conclude: «A questo compito è dedicato principalmente il presente lavoro. Esso serve allo stesso tempo quale studio preparatorio per una ricerca dell’autore, già portata a compimento, riguardante una divinità tutelare di Roma nominata spesso e ciononostante non priva di mistero, Vesta – una ricerca, che costituirà il prossimo numero delle Albae Vigiliae»12. Quanto ai contenuti, Die geheime Schutzgottheit von Rom è costituita da 13 paragrafi. Dopo un primo in cui si citano le fonti fondamentali e vengono poste le prime questioni, il successivo si occupa della formula sive deus sive dea: essa si riferirebbe ad una divinità il cui sesso non è noto13. Ai parr. 3-4 ci si sofferma sulle figure del genius e di Fortuna, che appaiono al B. come «due variazioni della stessa idea»14. Si affronta poi (par. 5) il tema dell’androginia divina, messa sullo stesso piano dell’apparente mancanza o non conoscibilità del sesso di una divinità15; in quanto inconciliabile con le forme
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Brelich 1979a, 36. Brelich 1949a, 8. 13 In merito alla formula sive deus sive dea, cfr. Alvar 1985; Guittard 2002; Ferri 2006, 316-222; Ferri 2010a. 14 Brelich 1949a, 17. La traduzione di tutti passi dal tedesco è mia. Non si riporta il testo originale esclusivamente per motivi di spazio. Si è resa con la sottolineatura l’enfasi sulle parole conferita in originale dalla spaziatura tra le singole lettere. 15 Ibid., 18: «Una divinità dal sesso incerto! Come la si può interpretare? 12
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classiche della religione romana di età storica, la divinità androgina delle origini avrebbe avuto solo due possibilità di presentarsi alla coscienza religiosa dei Romani: o in modo indiretto, assumendo il doppio e variabile aspetto di dio o dea, o come divinità innominabile di sesso sconosciuto. I parr. 7-8 spostano il baricentro dell’osservazione da Roma alle città finitime, analizzando le figure di importanti divinità poliadi femminili che presentano più o meno velatamente al
Nei diversi sistemi storico-religiosi si danno più o meno espressamente tre risposte: 1. Il concetto di questa divinità è più antico di una mitologia antropomorfa: la divinità non ha ancora alcun sesso. 2. La divinità è un’astrazione divinizzata, formatasi in un periodo di dissoluzione della religione romana, non ha più alcun genere sessuale. 3. È una divinità androgina. Proviamo ad attenuare i forti contrasti tra le tre concezioni, o piuttosto quelli tra il terzo e i primi due punti di vista (questi ultimi, opposti in fatto di età attribuita all’idea, concordano nel definirla come non-mitologica). Non c’è mai stata un’epoca assolutamente pre-mitologica, tantomeno una del tutto post-mitologica; una facoltà mitopoietica, per quanto in misura limitata, si trova in ogni cultura così come in ogni individuo. Anche l’idea più astratta ha uno sfondo mitologico più o meno visibile o indefinito. D’altra parte ogni figura mitologica può trovare espressione in concetti astratti, che, senza corrisponderle, possono almeno abbozzare il suo “scheletro”; se le cose stessero diversamente, un’interpretazione dei miti sarebbe impossibile. Praticamente non esiste un’idea religiosa perfettamente “astratta” o “mitologica”: esse sono i poli ideali di un’infinita scala di gradazioni. In base a questa considerazione si può capire come, nella sfera delle idee divine – come anche in quella biologica – la mancanza di sesso significhi sempre un po’ anche bisessualità, così come anche l’adroginia indichi una certa libertà per quel che riguarda la reciproca delimitazione del genere. Pertanto una divinità senza sesso e una divinità androgina non sono concetti inconciliabili». Ibid. 19-20: «Parlando di concetti astratti si potrebbe dire che si tratta qui dei presupposti [Voraussetzungen] dell’esistenza, le divinità, dalle quali si trae origine. Ma i presupposti dell’esistenza sono, proprio come quelli della vita umana, contemporaneamente e indivisibilmente principio maschile e femminile. La divinità dell’origine riunisce in sé entrambi i principi: perciò anche le prime divinità delle speculazioni cosmologiche hanno spesso natura androgina, come per esempio il Phanes Erikapaios degli orfici. Tuttavia, indipendentemente da ogni speculazione e astrazione, una divinità delle origini androgina o di sesso indefinito rimane sempre presente nella coscienza religiosa classica, anche se quasi sempre solo sullo sfondo. Roma, che vuole legare la propria esistenza alle ultime e indistruttibili radici di ogni esistenza, ha come sua divinità per l’appunto questa divinità delle origini».
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loro fianco un principio maschile: Diana Nemorensis (e Virbius), Iuno Sospita (ed Hercules), per poi tornare a Roma con Acca Larentia e Flora (par. 9). Ai paragrafi 6 e 10-12 (divinità citate da Macrobio)16, si considerano tutte le divinità che presentano in gradi diversi questa fisionomia, ma anche un’indubbia importanza e stretti legami con la sopravvivenza dello Stato romano: Pales (e problema dei “due” Pales), Luna (e Sol), Ops Consivia (e Consus), Angerona17. L’ultimo paragrafo è dedicato a questioni metodologiche, sulle quali ci soffermeremo più avanti. Per quanto riguarda Vesta, la ricerca si presenta maggiormente estesa ed articolata, certo anche per il suo carattere monografico, per di più su una divinità di centrale importanza della religione romana, in merito alla quale, nonostante i numerosi interrogativi suscitati dalla sua figura, la tradizione è indubbiamente più cospicua. Vi è anzitutto una giustificazione della scelta di Vesta e una breve presentazione dei problemi affrontati, in primis quello delle origini: «non conosciamo nulla a proposito di un culto di Vesta che sia più antico del culto pubblico romano, sia in Roma che altrove»18. Si effettua una prima ricognizione su quanto la tradizione tramanda a proposito di Alba, Lavinio e della Sabina19, così come del culto privato, ma sempre con risultato insoddisfacente o negativo; B. fa poi una prima considerazione delle fonti sul più antico culto di Vesta, dividendole in merito al calendario, all’aedes e al sacerdozio. La prima questione affrontata in modo approfondito è quella relativa ai rapporti tra Giano e Vesta, suggerita sostanzialmente da due indizi: l’obbligo di nominare il primo all’inizio di ciascun sacrificio, la seconda alla fine20; il parallelismo tra le date delle rispettive festività: 9 gennaio (Agonium di Giano) e 9 giugno (Vestalia). Le due
16 Sat. III 9, 4. Altra divinità facente parte a pieno titolo della «categoria» delle divinità dal nome segreto protettrici dello stato romano sarebbe Bona Dea: Brelich 1949-1950, 5-6. 17 Per tutte le problematiche connesse a queste divinità, cfr. Ferri 2010a. 18 Brelich 1949b, 9. 19 Per le fonti, cfr. Koch 1958, 1720-1724. 20 Serv. Ad Aen. I 292.
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divinità non costituirebbero una coppia mitologica, bensì andrebbero inquadrate nella prospettiva del ciclo continuo dell’annum vertens: il 9 gennaio sarebbe dunque la prima festa dell’anno solare (in proposito Giano agirebbe non solo come dio degli inizi, ma anche in qualità di «Sonnengottheit»), principio, 15 giorni dopo il solstizio d’inverno, del periodo in cui il sole torna ad aumentare la sua presenza nel corso del giorno; dal canto suo, il 9 giugno si trova 15 giorni prima del solstizio d’estate, momento in cui il cammino del sole raggiunge il suo apice21. Altro punto importante è la particolare forma tonda dell’aedes Vestae. Tale pianta, di per sé non era esclusiva dell’edificio sacro alla dea, essendovene altri così costruiti; la vera peculiarità era costituita dal non essere esso un templum, vale a dire dal non aver ricevuto un’inauguratio. Il motivo di ciò, la mancanza cioè di una precisa suddivisione rituale del cielo e dello spazio sacro da parte degli auguri, sarebbe per il B. la seguente: «un tempio tondo chiaramente non orientato allude con questa evidente caratteristica negativa [negatives Merkmal] ad un’idea positiva [positive Idee], ad una realtà, che per questo non può essere chiamata cosmica, perché ad essa manca ancora il principio ordinatore [Ordnungsprinzip] del cosmo, e che non rappresenta le origini del cosmo, bensì la condizione [Bedingung], le premesse [Voraussetzungen] di ogni possibile origine. Tale risultato, ottenuto solo mediante la pianta e la particolare posizione dell’aedes Vestae in termini di diritto sacrale, si trova in sorprendente accordo con il risultato, cui ha portato la collocazione dei Vestalia nel più antico calendario romano»22. In altri termini, così come durante il solstizio d’inverno (poco prima dell’Agonium di Giano), l’orizzonte è assolutamente oscuro, completamente invisibile, al contrario, in occasione dei Vestalia, dunque del solstizio d’estate, l’orizzonte è assolutamente chiaro, completamente visibile. In entrambi i casi non vi sono divisioni: B. 21 Contro la possibile critica circa il fatto di non essere i Vestalia l’ultima festa prima del solstizio, B. ribatte che i Matralia dell’11 giugno si trovano in stretta connessione con essi e che le prime fanno comunque parte di un ciclo più ampio, che si apre il 7 e si conclude il 15: Brelich 1949b, 38-39. 22 Brelich 1949b, 46-47.
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ripete continuamente il concetto (ungeteilt) per ribadire il parallelismo tra l’indivisione del cielo in merito al tempio di Vesta e al periodo in cui cade la festa della dea. I primi risultati della ricerca sono così riassunti dal B.: «Nell’ambito di quegli elementi di base [Grundelemente] della vita cosmica, come il cielo, il sole, l’orizzonte, l’oscurità e la luce, l’idea di Vesta corrisponde ad una situazione precosmica quale premessa ad ogni ulteriore evento cosmico»23. Queste considerazioni portano a rilevare l’importanza nel culto di Vesta di taluni elementi “primordiali”, gli stessi al centro della speculazione della filosofia presocratica greca (le archaì): il fuoco, ovviamente, simulacro stesso vivente e cangiante della dea24, considerato dal B. principio maschile (il simbolo di Vesta sarebbe propriamente il focolare)25; l’acqua, sempre presente ed essenziale, allo stesso modo del fuoco, ai fini dei diversi atti rituali26; la terra: con la precisazione che le relazioni con le cosiddette divinità “ctonie” si esplicherebbero tutte nel segno dell’aspetto della fertilità, escludendo quello relativo alla morte. B. si sofferma poi sulla paradossale compresenza nella figura di Vesta dell’aspetto matronale e di quello verginale27. L’indagine si giova della comparazione con figure divine dallo status analogo: Fortuna ed Atena. Non si tratta però di rilevare un «parallelismo» o 23
Ibid., 48. Cfr. Ibid., 59-60: «Vesta, che – con Giano – simboleggia il contesto più ampio, l’ultima condizione e presupposto di ogni forma, sia essa cosmica, divina o umana, non può essere plasmata e formata essa stessa». 25 Le relazioni tra Vesta, il fuoco e il focolare sono così rese dal B.: «Vesta nell’antichità romana poteva avere quale simbolo il focolare; in questo focolare – che si trovava all’interno del tempio – doveva essere sempre presente il fuoco, ritenuto maschile nella mitologia; ad esso era rivolta l’indefessa cura delle sacerdotesse» (Ibid., 50). 26 Dunque Vesta «non è il fuoco, così come non è l’acqua, tuttavia entrambi gli elementi, originari ed onnipresenti, appartengono alla sua sfera» (Ibid., 52). 27 Per quanto riguarda quest’ultimo in particolare, B. respinge con forza la considerazione delle Vestali quali “statue viventi” della dea cui si consacravano: Brelich 1949b, 59. Guizzi 1968, 106, fa un parallelo con il flamen Dialis (citando Plut. Q. R. 111, a parere del quale tale sacerdote sarebbe «quasi una statua vivente»), per cui la virgo Vestalis riprodurrebbe nel comportamento e nell’aspetto esteriore la figura della dea. 24
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una «parentela», quanto piuttosto un carattere peculiare, presente in esse, e che però non ne esaurisce completamente la «figura»: «Atena-Minerva, Fortuna e Vesta hanno innumerevoli caratteristiche diverse e inconciliabili. Quando in taluni aspetti sussiste tra loro una sorprendente concordanza, ciò va spiegato alla luce di un determinato complesso di idee, che ha trovato nelle tre figure in tre modi diversi una relazione armonica con altri complessi di idee diversi tra loro. Il modo d’espressione complessivo di questo complesso d’idee – maternità virginale, rapporto con la città, connessione con una divinità (Efesto-Vulcano), quale padre di un fondatore o di un progenitore “solare” [scil. Servio Tullio ed Erittonio] – ci conducono ad un’idea di fondo [Grundidee], che inutilmente si tenterebbe di ridurre a forme astratte, come “origine” [Ursprung] o “presupposto” [Voraussetzung] dell’esistenza cosmica o allo stesso modo di esistenza statuale. Una tale idea astratta non ha alcuna ragion d’essere all’interno della religione, che al posto di idee ci offre figure divine, una diversa dall’altra»28. Vesta appare più volte, nella valutazione di B., quale «presupposto», «condizione» per l’esistenza di qualcosa, arché, «che tuttavia non costituisce né implica la realtà che dovrebbe procedere da essa. Ci basta spostarci sul piano della mitologia, per avvertire che una “condizione” [Bedingung] di questo tipo necessita di un “completamento” [Ergänzung], tramite il quale quella realtà sia concretamente attuata», “completamento” continuamente «richiesto» [benötigt] dalla dea: i Vestalia «richiedono» la parallela festa di Giano, così come i sacrifici l’invocazione di questo dio insieme alla dea; l’orizzonte circolare, presupposto di ogni orientamento, «richiede» il sole, principio di ogni orientamento, senza il quale il mondo non esisterebbe; il focolare è la condizione necessaria «richiesta» per l’accensione del fuoco, etc.29 Se pertanto la figura divina in oggetto è sempre concepita come dea, bisogna ricercare un «completamento» maschile. L’indagine porta a rilevare un’affinità con le figure di Vulcano (caratteri solari,
28 29
Brelich 1949b, 65. Sul rapporto Atena-Vesta, cfr. anche Pailler 1997. Brelich 1949b, 68.
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presenza in alcuni miti quale padre – anche attraverso la comparsa in forma di phallos presso un focolare – di fondatori regali: Servio Tullio a Roma, Caeculus a Praeneste)30 e Priapo. La risposta sarebbe fornita dal culto: in proposito il B. ricorda come, teste Plinio, tra i sacra publica Romana fosse adorato dalle Vestali anche un fallo (fascinus)31; non dunque un dio antropomorfo dal carattere più o meno spiccatamente fallico, ma un «elemento di base dell’esistenza» [Grundelement]: «accanto a Vesta, la dea verginale e matronale, il presupposto femminile dell’esistenza, dev’esserci dunque un dio, che non sia altro che il presupposto maschile, l’indispensabile elemento generatore: il dio anonimo, il “fascinus”»32. Vi è poi un excursus sui di penates, di cui riporteremo esclusivamente la conclusione più significativa: Vesta rappresenterebbe nel culto pubblico quello che i Penati rappresentano nel privato (funzionale a ciò sostanzialmente il nesso di entrambi con il focolare)33; proprio questo parallelismo porterà più tardi taluni a credere (come ad es. Tacito) che tra i sacra publica vi potessero essere anche i simulacri di queste divinità, mentre in realtà i veri (e unici) di penates publici erano quelli di Lavinium. B. si sofferma di seguito sui rapporti tra Vesta e l’asino: sacro alla dea, l’animale costituiva il motore della macina per ottenere la farina da cui produrre il pane; in occasione dei Vestalia venivano adornati di ghirlande sia gli asini che i mulini34. Le Vestali stesse badavano alla preparazione di una particolare farina, la mola salsa, elemento fondamentale di ogni sacrificio, con il quale si cospargeva la vittima (immolare). Ricavata dal farro, si preparava durante i Lemuria, secondo il B., in quanto feste dei morti, periodo in cui i confini tra «esistenza» [Existenz] e «non-esistenza» [Nicht-Existenz] si assottigliavano; era usata poi in occasione di tre feste, collegate sia alle «origini» che alla salus dello Stato romano: i Vestalia, i Lupercalia e
30
Ma anche parallelismo della coppia Vulcano-Vesta con Caco-Caca: Brelich 1949b, 69-70. 31 Plin. N. h. XXVIII 39. 32 Brelich 1949b, 73. 33 Al contrario Radke 1981, 363. 34 Cfr. Guizzi 1968, 120 ss.
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la festività in onore di Iuppiter Optimus Maximus. Infine, la meta, la parte centrale della mola, con la sua forma circolare e il movimento rotatorio cui era sottoposta, avrebbe costituito un simbolo «cosmico», come accadeva per le metae e i carri che correvano nel Circo Massimo35. In base alle considerazioni precedenti, B. afferma che Roma avrebbe voluto coscientemente ricondurre la sua origine a Vesta, «basarsi» su di essa. Il culto ne costituirebbe una conferma: partecipazione delle Vestali ai culti delle «origini» di Roma (Parilia, Ops Consivia, etc.), giorni prescelti per la preparazione della mola salsa, rapporto con il flamen Quirinalis (sacerdote del fondatore divinizzato), e così via. A sua volta pure il mito fornisce dei dati interessanti in merito: non quello della dea, però, che non ne ha, ma quello concernente le sue sacerdotesse. Naturalmente il primo esempio è costituito dalla figura di Rea Silvia o Ilia, Vestale per eccellenza, madre di Romolo e Remo insieme a Marte, anche se, per il B., tutto farebbe pensare ad un’antropomorfizzazione successiva di un originario compagno ignoto. In effetti una versione alternativa della nascita dei gemelli, riportata da Plutarco e riferita a Promathìon, contempla la presenza di un fallo, di una vergine, e un intervento di Vesta36, elementi analoghi a quelli sopra rilevati a proposito di Caeculus e Servio Tullio: «Dal parallelo di queste tre leggende, ciascuna avente numerose varianti, risulta con chiarezza, che la Vestale nella sua funzione mitologica diventa madre di un “fondatore di città” grazie ad un genitore fondamentalmente anonimo e al contempo divino. Appare inoltre dotata allo stesso tempo di caratteristiche contraddittorie tra loro: è vergine e madre, regina e schiava»37. In conclusione, quanto alla “composizione” della figura divina Vesta, applicabile ad ogni divinità38, B. afferma che tutti i tratti peculiari, anche presi tutti insieme, costituiscono solo una parte organica o un fattore costitutivo di una figura divina; solo dal complesso 35 36 37 38
Cfr. Brelich 1949a, 43. Plut. Rom. 2. Brelich 1949b, 100. Cfr. infra.
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della figura divina quel complesso di idee e i singoli tratti presi in sé acquisirebbero un significato funzionale. La figura divina sarebbe il prodotto di una fusione di elementi dell’esperienza religiosa propria ad un popolo. Per questo parlare di un culto di Vesta «indogermanico» o «mediterraneo» non avrebbe senso: esso risulta solo ed esclusivamente «romano». Elementi di quei contesti si ritroverebbero sì nella figura divina romana, ognuno con una nuova, particolare accentuazione e in scambievole nesso con i rimanenti. Il momento della nascita della dea Vesta sarebbe lo stesso in cui si sarebbero gettate le basi fondamentali della religione romana, riferito nella tradizione all’opera di Numa Pompilio e dagli studiosi al momento del primo sinecismo. Sarebbe anche il momento storico «in cui Roma inizia ad esistere in quanto unità politica e culturale relativamente autonoma; quel momento, nel quale per la prima volta diventa cosciente di se stessa, e questa consapevolezza è dal principio una consapevolezza religiosa. In questa consapevolezza religiosa Roma definisce la sua posizione nel mondo divino e si pone in contatto diretto con le inesauribili origini di esso. Da ciò è scaturito il culto di Vesta»39.
3. Aspetti metodologici Essenziale per comprendere la metodologia che impronta i lavori delle «Albae Vigiliae» è il tredicesimo paragrafo della geheime Schutzgottheit, con il quale B. fa il punto dei risultati emersi nella disamina contenuta nei paragrafi precedenti e prepara il terreno per l’indagine monografica su Vesta40. Sarà senz’altro utile soffermarvicisi, oltre che per avere un quadro chiaro del pensiero dello studioso alla fine
39
Brelich 1949b, 105. La composizione delle «figure divine» dall’agglutinarsi di «temi» (nuclei di tratti) di volta in volta diversi era «l’idea informatrice del lavoro concepito come unico: nella prima parte (= Schutz.) individuare il nucleo comune a tante differenti divinità, senza esaminare queste in tutta la loro complessità; nella seconda parte (Vesta), vedere concretamente come quel nucleo funzionasse nell’insieme di una completa e complessa «figura divina» (Brelich 1979a, 40, n. 10). 40
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degli anni ’40, pure per entrare meglio nel merito delle osservazioni e delle critiche rivoltegli dai membri della comunità scientifica. Nella religione romana perdurerebbe «l’intuizione di fondo di un garante divino dell’esistenza [kosmischer Garant der Existenz], della continuità e della prosperità di Roma. Una tale garanzia [Gewähr] è ricercata laddove tutta l’antichità e, possiamo aggiungere, ogni religione mitologica vedeva la chiave dell’intera esistenza: nelle origini [Ursprünge]. Per basarsi su principi perennemente solidi e vigorosi, la città deve avere gli stessi fondamenti – cioè le stesse origini – del cosmo stesso e sulle quali in generale si basa ogni esistenza»41. La città deve ricercare un continuo contatto con le fonti inesauribili della propria esistenza, e adempirebbe a ciò nel culto delle divinità delle sue origini, garanzia per il presente e per il futuro, per l’eternità, cioè per un incessante rinnovamento. Per questo motivo «la divinità dalla quale trae origine la città – così come il cosmo e ogni vita –, dev’essere feconda, capace di generare incessantemente la vita. Trovandosi al confine della non-esistenza [Nicht-Existenz], essa contiene il germe di ogni esistenza. La transizione continua dalla nonesistenza all’esistenza avviene secondo un processo di rigenerazione senza soluzione di continuità. Ma come ha luogo quest’ultimo? Questa è la domanda, la domanda finale sull’esistenza stessa, dinanzi alla quale sta il velo del mistero [Geheimnis]. Il mistero della divinità, che da sé rinnova incessantemente l’intera esistenza, deve apparire anche come mistero del genere [Geschlecht]: in modo inesprimibile e inconcepibile essa deve comprendere in sé entrambi i principi sessuali [Geschlechtsprinzipien]. E se essa, per generare, dev’essere naturalmente femminile, la sua eterna fecondazione si compie però dietro un velo di mistero»42. Tale sarebbe l’«intuizione di fondo» (Grundintuition), rispecchiata da diverse figure del pantheon romano: «Per quanto possano essere differenti tra loro, esse hanno nondimeno tratti comuni fissi. Particolari del loro culto o del loro mito le mettono costantemente in relazione più o meno evidente con l’esistenza della città, con il cosmo,
41 42
Brelich 1949a, 49. Ibid., 49-50.
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con la nascita o la fertilità in generale, con la morte, che è la nonesistenza, con un mistero e particolarmente con il mistero del sesso»43. A questo punto il B. cerca di prevenire le possibili obiezioni, più che ai risultati, soprattutto al metodo. La prima è quella relativa all’uso delle fonti, alla diversa importanza loro conferita (sia in riferimento all’autore sia all’età da cui provengono), e alla creazione di “affinità” [Verwandtschaft] tra le diverse figure divine non rinvenibili nelle testimonianze in nostro possesso. La seconda si appunta sui «mezzi risultati» conseguiti: si sarebbe dovuto scavare più in profondità e trattare in modo più esaustivo tutti gli aspetti delle diverse figure divine44. La premessa è in ogni caso che «il metodo è il cammino verso qualcosa; esso perciò nel suo dispiegarsi è definito dall’obiettivo cui tende. L’obiettivo della precedente indagine è stato di porre in evidenza quell’aspetto delle diverse divinità trattate – qualora ve ne fosse uno – che chiarisse il collegamento di queste ultime con le origini di Roma»45. La possibile replica alla prima obiezione è che l’indagine delle caratteristiche “secondarie” delle singole divinità è utile in quanto possibilmente tale per la lacunosità delle fonti. Più interessante è però quanto B. afferma subito dopo: «Per quanto riguarda la negligenza del criterio storico e l’utilizzo di informazioni eterogenee, si deve chiarire una volta per tutte cosa significhi “storia” quando non abbiamo a che fare con avvenimenti nettamente definiti nel tempo e nello spazio, ma con idee, intuizioni, sforzi intellettuali e spirituali. In quest’ambito non vi sono trasformazioni rettilinee; sopravvive sempre qualcosa del passato (…), e ciò che è stato acquisito di recente si adatta al vecchio nucleo. (…) Non vi è alcuna storia delle religioni fissata a un anno o a un secolo. Vi sono solo spostamenti di livello, oscillazioni d’intensità secondo le epoche, i luoghi, l’ambiente e infine secondo gli individui. Si può determinare il momento “stori-
43 44 45
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Ibid., 50. Ibid., 50-51. Ibid., 51.
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co” di un’idea religiosa – almeno in principio, poiché è molto difficile in pratica, considerata la frammentarietà del materiale –, sempre che esso coincida con il medesimo momento geografico, sociale e persino psicologico, ma non la si può seguire in una sola linea di sviluppo. Sullo sfondo della sempre varia e movimentata vita di un’idea, vi è sempre “la” idea in sé, integra, molteplice, distante, con tutto quello che è stato detto su di essa e che potrebbe ancora essere detto: senza di essa non si può capire la storia»46. Quanto alla formazione di questa idea, essa farebbe parte di «quelle idee di fondo, le manifestazioni delle quali nella religione romana abbiamo mostrato, all’epoca della formazione della religione romana e di Roma stessa appaiono già sviluppate»: e volendo ripercorrerne a ritroso lo sviluppo si uscirebbe dall’ambito della religione romana!47 D’altronde, per controbattere anche alla seconda obiezione, B. afferma che per i fini della sua ricerca, più che tracciare delle monografie delle singole divinità, è stato più importante dare rilievo ad un singolo aspetto di esse, alle quali – fatte salve le differenze e i tratti caratterizzanti – sarebbe collegato un preciso complesso di idee, oggetto appunto della sua ricerca. Da un tale metodo non comune di affrontare la religione romana discende che: «Invece di usare come base della nostra ricerca le “figure divine” nella loro struttura statica e palpabile, abbiamo cercato di presentare un nucleo di idee che si possa proiettare a figure divine di diverse origini e natura. Ci azzardiamo anche a credere che tali nuclei di idee abbiano una sorta di diritto di priorità di fronte alle “figure divine”. La figura di una divinità ci appare nient’altro che come un’organizzazione organica, un’associazione armonica, una formula di equilibrio tra più nuclei ideali di questo tipo»48. Da questa constatazione il B. fa derivare tre conseguenze: 1) «La “figura divina” [göttliche Gestalt] ci appare come qualcosa di secondario e quasi solo occasionale. Ciò non implica tuttavia alcuna posizione predeistica. Al contrario: i complessi d’idee [Ideen-
46 47 48
Ibid., 51-52. Ibid., 52. Ibid., 53.
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komplexe], quali si possono trovare nella struttura più intima delle figure divine, non hanno in generale altro aspetto che appunto di quelle figure divine, che risultano dalla loro combinazione. (…) Ma la figura stessa può e può anche non costituirsi da precisi complessi, cioè può comporsi da alcuni di essi o da altri: l’attività creatrice di una realtà umana storicamente definita opera in modo sovrano la propria selezione, e genera le figure divine dalla ricca miniera delle sue esperienze di fondo [Grunderfahrungen]»49. Il processo alla base prevede che sotto ogni idea storico-religiosa concreta vi siano elementi di base – esperienze umane originarie – «la cui formazione ha luogo indipendentemente dall’ambiente storico dell’idea religiosa: storicamente nel periodo di un’umanità primitiva, psicologicamente su un piano spirituale non caratterizzato da alcuna atmosfera culturale precisa. Quando l’uomo arriva al livello di una cultura definita – operando in maniera culturalmente produttiva –, le sue esperienze di fondo si associano, siano esse acquisite nella preistoria o nella sua società in quanto tale, in forma di idea storico-religiosa definita. Dal punto di vista della nostra ricerca ci interessa che le “figure divine” siano il frutto di una tale associazione creativa. Al contrario di ciò che è comune alle diverse figure divine – gli elementi essenziali – e a quello che si ritrova facilmente in diverse religioni, spesso anche indipendenti storicamente l’una dall’altra, la figura divina è un caratteristico prodotto dell’umanità storicamente definita, che personifica in questa divinità la sua intera Weltanschauung, i suoi interessi vitali e la sue aspirazioni spirituali. La selezione degli elementi che vanno ad associarsi e le forme e i modi in cui si combinano, hanno le proprie peculiarità a seconda delle diverse culture. Per il fatto tuttavia che ogni cultura ha una vita varia e movimentata, ne consegue che anche queste figure non rimangono ferme e immutate. Esse in sostanza si formano e si cristallizzano in quel grande momento storico nel quale una cultura trova il proprio tono e si mostra a suo modo a se stessa. Esse inoltre rimangono suscettibili di sviluppo e cambiamento nella misura in cui la cultura stessa si sviluppa e si trasforma. I loro elementi costi-
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Ibid., 53.
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tutivi rimangono immutati; allo stesso modo rimangono essenzialmente fissate le tendenze di fondo determinate da quel momento storico rivelatore, ma da una fase all’altra, da un ambiente all’altro, da una persona all’altra cambia la proporzione in cui questi elementi di fondo prevalgono o si ritraggono, e la forma e il modo in cui si riferiscono l’uno all’altro»50. 2) In base alla concezione della storia di una religione espressa in precedenza «siamo consapevoli che e per quale motivo nessuna figura divina si esaurisce in una formula. Genius, Fortuna, Pales, Ops Consivia, Diva Angerona etc. sono tutte “divinità tutelari della città” [Schutzgottheiten der Stadt]; ma allo stesso tempo ognuna di esse ha la propria figura, chiaramente differente dalle altre; allora il complesso d’idee che le trasforma in “divinità cittadine” [Gottheiten der Stadt] è nelle loro figure necessariamente associato ogni volta ad altri e diversi complessi d’idee. È perciò sbagliato voler ridurre una divinità ad un “significato” [Bedeutung] (allegoria) e dire che più o meno ogni divinità, in cui si presenta una coincidenza di morte e fertilità sia una forma di manifestazione della “Madre Terra”. Questo nucleo di idee “morte e fertilità”, inserito organicamente forse in più d’un complesso d’idee, si ritrova in più di una divinità»51. 3) Proprio in base a questi principi dunque «possiamo ora più di prima parlare con sicura precisione scientifica di “affinità” [Verwandschaft], di “relazioni” [Beziehungen] (ma non di “identità” [Identität]) tra diverse figure divine. Mentre finora queste parole avevano in sé qualcosa di vago, d’intuitivo e spesso d’arbitrario e lasciavano spazio a fraintendimenti ed esagerazioni, adesso sappiamo cosa può significare un’“affinità”: uno o più elementi costitutivi comuni. In questo modo e solo così si spiegano le “parentele”, le “relazioni d’amore”, le “amicizie” tra le divinità nella mitologia; solo così la coincidenza nel culto di feste, luoghi di culto, animali sacrificali, riti etc.»52 Quanto all’indagine futura delle singole figure divine, secondo il metodo sopra delineato: «nell’ambito di essa bisogna distinguere
50 51 52
Ibid., 53-54. Ibid., 54-55. Ibid., 55.
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una fase analitica da una storiografica. La figura divina si forma in un momento storico preciso nella sua forma, anche se non definitiva, di certo decisiva per tutti gli ulteriori sviluppi. Essa ha la sua mitologia per sempre immutabile e allo stesso modo il suo culto. (Cio avviene ad esempio per certe divinità della Grecia dell’età omerica e a Roma al tempo del calendario “di Numa”). Più tardi possono avere luogo degli aggiornamenti nella visione di questa figura divina, a seconda dei cambiamenti di sensibilità e delle condizioni delle singole fasi della storia di un popolo. Per capire tuttavia il significato e il peso di questi mutamenti, dobbiamo costantemente tenere presente quella figura nella forma originaria in cui è comparsa. Essa si mostra tuttavia solo ad un’indagine analitica, determinata a chiarire gli elementi costitutivi della figura, a studiare in quale rapporto reciproco stiano questi elementi nel “momento” della formazione della figura divina e quale peso si addica loro nella loro intima connessione53. Un’altra indagine storica dovrebbe interrogarsi sulle ragioni, il processo stesso e il momento di questa connessione e tentare di seguire i suoi ulteriori sviluppi»54. In conclusione, afferma il B., «La nostra ricerca ha avuto come unico scopo quello di esaminare la natura dell’elemento comune che ha reso diverse figure della religione romana adatte al ruolo di “divinità tutelare segreta di Roma”»55. Tale posizione metodologica verrà però progressivamente abbandonata ed anzi respinta con fermezza, per ancorare il proprio «metodo», secondo la prospettiva pettazzoniana, esclusivamente alla storia, escludendo qualsivoglia a priori (insieme al secondo “pilastro”:
53 Precisa il B. nell’ultima nota, contrassegnata da un asterisco: «Questo tipo di ricerca verrà condotto in un lavoro su Vesta, che vuol servire allo stesso modo quale esempio per i problemi qui trattati. Esso dunque prende le mosse dal problema implicito, quale sorta di funzione e significato l’elemento costitutivo della “divinità segreta della città” si possa ammettere nel complesso di una figura divina sfaccettata». 54 Brelich 1949a, 55-56. 55 Ibid., 56.
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l’uso della comparazione)56. Cruciali in questo senso saranno gli anni ’50: primo lavoro del «nuovo corso», per stessa ammissione del B., sono le Tre variazioni romane sul tema delle origini, del 195557, nel quale tuttavia permangono delle tracce del “vecchio” B. (centralità del tema delle «origini»). L’anno successivo avrà invece luogo il definitivo distacco dal primo maestro Kerényi, con una recensione molto critica dell’opera Umgang mit Göttlichem58. La strada era aperta per la fase più matura, nell’ottica della metodologia poi sempre seguita e difesa dal B. Si veda ad esempio la differenza che intercorre, a distanza di dieci anni, tra la valutazione precedente circa l’origine e la fisionomia delle figure divine e quella sullo stesso tema dispiegata nelle pagine de Gli eroi greci (1958). La priorità non spetterebbe alle figure in quanto tali, bensì esse sarebbero il risultato dell’aggregazione in misura variabile dall’insieme dei miti e dalle forme del culto ad essa riferite: «Alla domanda, se vi sia un modo di dimostrare che la figura sia una realtà precostituita rispetto agli elementi dei suoi miti e culti – che servirebbero soltanto ad “esprimerla” una volta che essa già esiste – la risposta non può che essere negativa: e la presunta anteriorità della figura non è soltanto indimostrabile, ma è anche nettamente confutata dal fatto che diversi miti e forme di culto caratteristici di una figura divina o eroica greca, si ritrovano non soltanto in connessione con altre figure della stessa religione greca, ma anche al di fuori di questa religione, risultando così più antichi di essa, nel suo insieme, e quindi delle sue “figure”»59.
56 Cfr. in generale Montanari 2010. Circa la comparazione nei lavori di B., cfr. Brelich 1960, 63-119; Montanari 2001b; Brelich 2002; Lancellotti 2005, 51-71; Ferri 2010b. Si veda inoltre il numero monografico dedicato al tema, a cura di G. Filoramo e N. Spineto, del periodico «Storiografia» (6, 2002). 57 Brelich 19762, 7; cfr. Brelich 1979a, 54-57. 58 Brelich 1956, 1-30; Brelich 1958, 364-365, Brelich 1979a, 62-64. In realtà tale recensione aveva un significato di “apertura”, piuttosto che di “rottura”, come ha ben messo in evidenza Spineto 2003, 399 ss., in base alle lettere contenute nell’epistolario di Kerényi. 59 Brelich 1958, 293.
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La “figura” sarebbe «una composizione di elementi (temi mitici e forme particolari del culto) che non le appartengono in esclusiva. Se vi è (…) una sensibile differenza tra un eroe e un altro, ciò dipende – alla luce dei fatti (…) e non delle teorie – dal diverso raggruppamento dei diversi elementi caratteristici della “religione eroica”. È evidente (…) che non intorno a tutti gli eroi si raggrupperanno tutti i temi mitici e tutte le forme possibili del culto eroico (…) ed è dall’illimitata variabilità del raggruppamento dei diversi elementi che dipende la possibilità della formazione di figure inconfondibili e personali»60. Riassumendo: «le singole figure eroiche sono altrettante “composizioni” organiche, non rigide, fatte una volta per sempre, ma, come si è visto, suscettibili di trasformazioni organiche, come un organismo vivente!); esse si formano (e possono, volta per volta, riplasmarsi) mediante la scelta, il maggiore o minore rilievo e il raggruppamento intorno a un centro unico, di determinati elementi costitutivi. Questi – i ricorrenti temi e forme del mito e del culto eroico – non sono tuttavia simili ad atomi privi di forma e dimensioni. Anche la di fuori della singola figura, infatti, essi si presentano in stretta correlazione, in sequenze sempre varie, ora più, ora meno ricche, ma sempre formate dagli stessi elementi: il che vuol dire che dietro la composizione organica della singola figura non sta un caos di atomi cui essa può attingere a piacere, ma un “materiale” già organico. In altri termini, dietro la struttura realizzata nella figura, vi è come una struttura virtuale, suscettibile di esser “concretata” in centinaia di forme differenti, ma sempre affini: dietro al singolo eroe sta l’“eroe” che, quindi, anziché essere un’astrazione, è una realtà organica, senza la quale le singole figure non potrebbero nemmeno costituir-
60 Ibid., 308. «Persino la “storia” delle singole figure, cioè la loro trasformazione nel corso della continua e organica trasformazione della tradizione religiosa nell’ambito di una civiltà viva e feconda di nuovi orientamenti, avviene per mezzo degli stessi principi d’organizzazione: alcuni elementi possono venir aggiunti o tralasciati, ma soprattutto diversamente accentuati, secondo le nuove esigenze, nell’insieme delle tradizioni relative a una figura che, in certi casi, può anche organizzarsi intorno a un nuovo centro ideale» (Ibid., 309).
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si»61. Concetti quali «Grundintuition», «Idee an sich», etc. sono ormai definitivamente messi da parte.
4. Accoglienza da parte della comunità scientifica Le opere apparse sotto l’egida del maestro Kerényi fecero compiere un notevole balzo in avanti al B. in termini di notorietà in seno all’ambiente scientifico: «quelle due pubblicazioni per numerosi anni successivi definirono la mia immagine di studioso agli occhi del mondo accademico italiano»62. Fatto in generale positivo, ma dannoso nell’immediato per il B., che muoveva i primi passi della sua carriera in Italia, nel solco di una tradizione che per molti versi si distaccava dall’impostazione ricevuta in Ungheria: «Comparse in tedesco63, in una collana diretta da Kerényi, esse mi collocarono fuori di ogni tradizione culturale, oltre che accademica, italiana. Malgrado la mia appartenenza all’Università di Roma, io contavo allora, più che mai, per straniero, per ungherese»64. Più in particolare quei lavori lo etichettavano come seguace di Kerényi: «e, tra che ero stato realmente allievo ed ero ancora amico suo, che le «Albae Vigiliae» erano dirette da lui, e che io avevo tradotto, per Einaudi, la Einführung di Jung-Kerényi, uscita in italiano nel 1948, questa convinzione generale era inevitabile»65.
61 Brelich 1958, 311-312. Tale impostazione è stata ripresa in tempi recentissimi ai fini dello studio della leggenda di Romolo e Remo: Carandini 2006, XIII ss. 62 Brelich 1979a, 36. 63 La traduzione di entrambe dall’italiano al tedesco è di V. von Gonzenbach. Finora non mi è stato possibile rintracciare il manoscritto in italiano. 64 Ibid., 36. Kerényi definisce B. nell’introduzione (Brelich 1949a, 7) più genericamente «un rappresentante assai responsabile del settore di ricerca sulla religione romana presso l’università di Roma». 65 Brelich 1979a, 37. Cfr. ad es. Lesky 1953, 83: «Das Vorgehen Br.s fügt sich in den Rahmen einer Methode, die sich in Arbeiten der jüngsten Vergangenheit, vor allem in solchen Kerényis, kund gemacht hat: eine Erscheinung wird aus den Bezügen, wie sie Geschichte und Ethnologie bieten, nach Mög-
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All’estero i volumetti «richiamavano l’attenzione degli specialisti: Vesta entrò nella bibliografia corrente (più di quanto avrebbero fatto più tardi i miei lavori più maturi), suscitò l’interesse di un Dumézil, nonché apprezzamenti e critiche di altri studiosi internazionalmente noti (p. es. C. Koch, H. J. Rose, ecc.); anche il per me, sul piano personale, indimenticabile Jean Hubaux fu condotto da quei lavori a cercare contatto con me»66. Sarà perciò interessante effettuare uno spoglio delle recensioni ai due lavori di B.67 4.1 Die geheime Schutzgottheit von Rom Particolarmente delicato il capitolo concernente l’accoglienza di Pettazzoni alle due opere68. Scrive in proposito B.: «Pettazzoni stesso che ne aveva letto anche il manoscritto, dimostrando interesse per alcune parti – ne prese le distanze, con una recensione (…) cortese e ponderata che, dopo apprezzamenti e critiche di fondo che ora mi sembrano giuste per l’essenziale (…), si concludeva con una specie di monito personale, elegantemente espresso, ma ugualmente indicativo di un incipiente deterioramento dei nostri rapporti (ottimi durante e immediatamente dopo la guerra): in sostanza, se io non mi adeguavo al suo indirizzo, la nostra stessa «collaborazione» accademica era in pericolo»69.
lichkeit herausgelöst und in der so geschaffenen Isolierung aus einem schöpferischen Momente der Religiosität des betreffenden Volkes intepretiert». 66 Brelich 1979a, 37. 67 Quanto al tema della divinità tutelare segreta di Roma, è in preparazione per i tipi della Franz Steiner Verlag di Stoccarda un volume che ne affronterà in modo più particolareggiato ed esauriente la figura e le problematiche ad essa connesse (Ferri 2010a). 68 Pettazzoni 1949. 69 Brelich 1979a, 36, che alla nota 6 commenta: «Si collocherebbe su un piano ad un tempo autobiografico e biografico una analisi più dettagliata della storia dei miei rapporti con Pettazzoni. (…) Qui mi pare opportuno notare che Pettazzoni era ben poco comunicativo in generale e soprattutto quasi mai parlava di argomenti scientifici, Egli non entrava con me in discussioni, non mi ha insegnato nulla: se – ma molto più tardi – ho capito il suo pensiero, ciò è avvenuto esclusivamente attraverso la lettura delle sue opere».
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In effetti l’esordio della recensione sembra oltremodo incoraggiante: «Il lavoro, condotto con lodevole impegno e fervore, e con adeguata conoscenza delle testimonianze antiche e degli studi recenti, è una nuova prova delle solide qualità ed attitudini dell’A. (…). Vi si trovano parecchie osservazioni interessanti e meritevoli di attenzione, specialmente quelle desunte dallo studio del calendario. La ricerca è necessariamente indiziaria, e parecchi indizi, che di per sé non sono molto probanti, ricevono luce dall’insieme»70. Tuttavia la valutazione muta repentinamente. Pettazzoni riporta dapprima la peculiare posizione di B. sul significato di «storia» in relazione ad «idee» ed «intuizioni»: «bisogna (…) intendersi una buona volta su ciò che significa ‘storia’ quando non si tratta di accadimenti determinati nel tempo e nello spazio, bensì di idee e di intuizioni»71, chiosando: «Le ‘intuizioni’ sono pel Br. i dati elementari che trovano bensì espressione concreta nelle figure divine ma esistono indipendentemente da queste. Le figure divine sono storicamente condizionate, e perciò diverse»72. Ecco il primo strappo, vale a dire l’individuazione, da parte di B., di una categoria non storicamente determinata: «Ma alla base di esse [scil. le figure divine] stanno le intuizioni elementari, trascendenti ogni determinazione storica, immutabili e immutate, per quanto variamente combinate ed articolate nelle singole figure divine»73. Pettazzoni non poteva non prendere le distanze da una siffatta impostazione del suo nuovo collaboratore ancora “kerényiano”: «Esiste dunque un mondo di idee religiose elementari fuori della storia? Non sono invece anch’esse, le intuizioni elementari, delle formazioni storiche, suscettibili di indagine storiografica? Non basta riconoscere, come fa il Brelich, che tale indagine è legittima in linea di principio (…). Qui si sarebbe voluto una maggiore coerenza: o la formazione storica, la linea di sviluppo, è soltanto delle figure divine, e allora non ha senso applicarla alle intuizioni elementari; oppure le intuizioni elementari sono esse stesse delle formazioni storiche, e allora 70 71 72 73
Pettazzoni 1949, 182. Ibid., 182. Egli traduce tutti i passi citati dal tedesco all’italiano. Ibid., 183. Ibid., 183.
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la indagine della loro formazione non solo è legittima, ossia facoltativa, ma è la sola legittima, ossia necessaria»74. Lo studioso persicetano, tuttavia, non conclude le sue stilettate qui, anzi piazza l’affondo: «La verità è che il Br. non crede alle linee di sviluppo disegnate secondo il vecchio metodo storico, bensì crede alle, anzi nelle, intuizioni elementari ricavate col metodo analitico»; indi nota quanto giovamento sarebbe derivato alla ricerca da un corretto impiego della comparazione: «Ma se questa fede non ha da essere puramente teologica (intendo nel senso platonico), se l’intuizione ricavata per analisi non ha da essere una semplice astrazione soggettiva, se ci dev’essere un criterio oggettivo per distinguere una intuizione elementare ed universale da una intuizione puramente personale del Brelich (…), questo criterio non può venire che dalla comparazione, cioè non da una teoretica, virtuale e presupposta preesistenza, ma da una constatata presenza presso popoli e civiltà diverse»75. Il difetto capitale del lavoro di B. era perciò di «avere deliberatamente trascurato l’indagine comparativa come inessenziale al suo assunto»76, prospettiva invece essenziale (insieme allo storici-
74 Ibid., 183; cfr. ibid. 185 (dopo aver sollevato una serie di questioni relative ai rapporti tra religione romana e mediterranea): «Ma questi sono problemi storici nel senso delle ‘superate’ linee di sviluppo; e come tali, il Br. crederà inutile prenderli in considerazione». Cfr. infra, appendice. 75 Pettazzoni 1949, 183. 76 Ibid., 184. Chiosa Camozzini 1950, 285: «Questa interpretazione della figura di Vesta [ma ci si riferisce più in generale ai principi individuati nell’opera precedente], che si scosta notevolmente da quanto si considera recepti in seguito soprattutto agli studi Wissowa, e della quale il momento essenziale (…) sembra il porre nel centro della religione romana un «garante divino dell’esistenza», è incorsa nella censura degli studiosi [si cita qui la recensione di Pettazzoni]. In particolare si rimprovera di aver trascurato l’indagine comparativa, che, permettendo l’identificazione di un «complesso mitico delle origini» presso popoli e civiltà diverse, avrebbe dato al lavoro garanzia di oggettività. Obiezione questa non trascurabile, ove si ritenga possibile una «sintesi storica in materia di scienza delle religioni» e non si tema di fare della teoretica astratta attribuendo identiche «intuizioni elementari» e comune linea di sviluppo a civiltà diverse». Cfr. anche Rose 1950, 158 (pur alla luce di una prospettiva, la «dinamistica», ugualmente criticabile: cfr. ad. es. Dumézil 19742, tr. it.2 33 ss.): «The monograph ends with some rather vague remarks of a psychological nature,
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smo) nella metodologia della scuola italiana (o più tardi “scuola di Roma”)77, alla quale lo stesso studioso italo-ungherese non tarderà a conformarsi e della quale anzi diventerà uno dei più convinti sostenitori e strenui difensori. Quasi a maramaldeggiare sul malcapitato allievo, Pettazzoni, sfodera poi una dotta enumerazione di esempi di «esseri primordiali creatori» dal carattere bisessuale. La chiusa è lapidaria e non lascia spazio ad interpretazioni: «Questa chiarificazione metodologica mi è sembrata necessaria verso un valente studioso che è anche il mio più prossimo collaboratore nel quotidiano lavoro accademico; necessaria nell’interesse stesso della nostra collaborazione, affinché questa sia, se è possibile, non soltanto formale, con vantaggio nostro reciproco e degli studi»78. Emilio Gabba rileva come l’ipotesi di B. appaia all’autore «come una di quelle idee o intuizioni, costanti e immutabili, sovrastanti alle singole figure divine nelle quali variamente prendono corpo: per altro, l’A. non fa tale idea, in sé e per sé, oggetto di ricerca storica, ma appunto prende in considerazione le figure divine per ricercare analiticamente i vari aspetti con i quali quella si è in queste concretizzata. A taluno tale principio di metodo (…) potrà sembrare discutibile»79. Tuttavia, lo studioso italiano si limita ad esporre i contenuti dal punto di vista dell’autore, senza criticarli in dettaglio. Nicola Turchi per prima cosa “etichetta” – e non poteva essere altrimenti – il B. come kerényiano “integrale”: «Egli è fedele al principio fissato dal suo maestro K. Kerényi secondo cui i «mitologemi ( = i temi mitici arcaici, suscettibili di trasformazione, che da più remoto passato si proiettano nell’avvenire) i quali esprimono in forma nar-
and throughout it is deficient in the necessary distinction between evidences from different dates and spheres of cultural influences». 77 Sulle “linee guida”, cfr. Pettazzoni 1959; Bianchi 1970, 3-171; Mastromattei 1982; Gasbarro 1988; Massenzio 1997, 518 ss.; Sabbatucci 2000; Brelich 2002. 78 Pettazzoni 1949, 185. 79 Gabba 1952, 135.
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rativa il contenuto delle figure divine, si svolgono sempre nei tempi fondamentali di ogni mitologia»80. Tale metodo «scarta a priori i motivi di carattere psicologico e storico, per basarsi sui temi mitici senza formalizzarsi se gli elementi relativi sono offerti da fonti di tempi e di tendenze diverse (…); tutto questo perché la storia è solo registrazione cronistica di fatti, ma deve tener conto delle intuizioni e aspirazioni del passato, sorte al di là di ogni particolare ambiente culturale, le quali non muoiono mai del tutto, ma per un’invisibile via sotterranea muovono (la mitologia è movimento) dalle più remote origini verso le visioni del più lontano avvenire»81. Così avverrebbe per la figura delle divinità segreta di Roma così come delineata dal B. (di tipo «cosmico», continuamente rigenerantesi e androgina): «Questa intuizione fondamentale collega il principio della vita storica di un popolo con il susseguente sviluppo perché l’idea non muore, pur se crollano le situazioni collegate con i diversi momenti storici di una religione»82. Le conseguenze tratte sono riassunte con efficacia come segue: «1) la figura di una divinità è secondaria rispetto al complesso d’idee che s’intravvede al fondo della sua fisionomia storica e che risulta da esperienze ataviche indipendenti da determinazioni storiche; 2) le varie figure divine conservano ciascuna il suo profilo perché i motivi che le hanno create dipendono dai diversi complessi di idee che le hanno suscitate pur avendo tutte uno stesso significato fondamentale (nel caso nostro quello di essere protettrici della città); 3) con maggior esattezza scientifica è possibile parlare di parentela (non di identità) delle figure divine in quanto la parentela importa la presenza di uno o più elementi fondamentali comuni»83. In conclusione, pur non entrando nel merito, Turchi bolla la visione della mitologia propria di questa “scuola” come «un po’ metafisica», ammonendo che «svincolare la mitologia dai postulati della
80 La citazione è tratta da Jung - Kerényi 1941-1942, nella traduzione italiana di Angelo Brelich del 1948. Non è tuttavia specificata la pagina. 81 Turchi 1949, 273. 82 Ibid., 274. 83 Ibid., 274.
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psicologia, dell’etnologia e della storia rende più difficile lo spiegarsi i complessi motivi che hanno suggerito un tema mitico»84. Georges Dumézil recensì i due volumetti nel 1950, sulla Revue de l’Histoire des Religions85. L’attività del promettente B. era già nota da anni all’eminente studioso francese, molto favorevolmente impressionato dall’articolo apparso circa 10 anni prima su «Studi e Materiali di Storia delle Religioni»: Il mito nella storia di Cecilio Metello86. Tale giudizio non muterà neanche dopo l’aspro contrasto, originato da opposte posizioni in campo scientifico ma degenerato con offese anche sul piano personale, che opporrà in seguito i due studiosi87; ed anzi, a quanto mi risulta, sarà l’unico articolo di B. citato da Dumézil nella sua Religione romana arcaica88. Così come aveva fatto Pettazzoni, egli rileva come punto essenziale della ricerca sia la determinazione analitica dei Grundelemente «qui, associés en dosages divers, constituent la formule des «Schutzgottheiten der Stadt», type susceptible de s’incarner, et qui s’est en effet incarné, a Rome et ailleurs, dans des figures divines nombreuses, à la fois analogues et diverses, telles qu’on peut passer de l’une à l’autre, insensiblement, par une sorte de glissement»89. Allo stesso modo di Pettazzoni, inoltre, Dumézil sottolinea la diversità di questa rispetto all’impostazione delle proprie ricerche; tuttavia, rispetto allo studioso persicetano, tale orientamento inver-
84 Ibid., 274. L’ultima critica (con cui concordiamo pienamente) è meramente “tipografica”: l’aver posto le numerose note in fondo piuttosto che a pie’ di pagina. 85 Dumézil 1950. 86 Brelich 1939; cfr. Dumézil 1950, 226-227; alla fine della recensione (ibid. 229) il giudizio assai positivo viene reso con parole indicative in tal senso: «En bref, l’auteur du Caecilius Metellus de 1938 tient ses promesses». Positiva anche la valutazione dello stesso B. in merito: Brelich 1979a, 31-32. 87 Cfr. Brelich 1968, con bibl. precedente. 88 Dumézil 19742, tr. it.2 288-289. B. è inoltre l’unico studioso italiano insieme ad Arnaldo Momigliano tra gli autori non francesi citati quali oggetto di un’opera sulla storia degli studi che egli aveva in progetto di scrivere ma che invece non realizzò. 89 Dumézil 1950, 228.
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so non agisce in senso esclusivo, bensì complementare: «à Rome en particulier, puisqu’il s’agit de Rome, je m’attache à determiner les structures théologiques où les diverses figures divines sont engagées comme éléments, et à trier, quand c’est possible, celles des structures qui paraissent être antérieures à Rome, dérivées de structures déjà indo-européennes; M. Brelich décompose chaque figure divine en éléments plus petits, qu’il n’étudie qu’à Rome même et dont chacun peut se retrouver dans plusieurs figures. Son projet me paraît aussi légitime que le mien et nos résultats devront s’ajuster»90. Il compatriota Jean Bayet nota in primo luogo che dell’oggetto della ricerca di B., la divinità segreta dal sesso indeterminato o androgina91, incarnazione di una «intuition originelle» di «cycle union sexuelle-procréation-naissance», dont dépendent la prospérité et l’avenir de la Cité», il lavoro in questione «est moins la preuve que le développement pour ainsi dire musical, par thème et variations»92. È certo legittimo, prosegue, «de chercher, au-delà d’apparences plastiques d’une précision d’ailleurs très inégale, des formes d’esprit plus anciennes qt qu’on peut sans trop d’inconvénients qualifier de «fondamentales»; tuttavia, dopo una serie di esempi in cui lo svolgimento storico sarebbe trascurato (Conso e i Consualia, corretto uso del testo di Marziano Capella), afferma: «Je me méfie des mots comme «Urintuition», «Grundelemente», tant qu’au moins on n’a pas,
90 Ibid., 228. Per l’impostazione di Dumèzil, cfr. Dumézil 1958; Montanari 2001c. 91 In realtà la categoria delle divinità androgine è pressoché assente nella religione romana. Sul tema cfr. Bertholet 1934; Zandee 1988; Brisson 1997; Tommasi Moreschini 1998; Tommasi Moreschini 2001. In contesto filosofico il motivo dell’androginia dà invece piuttosto la precedenza, quanto a importanza, contrariamente a quanto ipotizzato da B., alla componente maschile, distinguendo tra «la ‘debolezza’ o ‘patibilità’ caratterizzante l’elemento femminile, e, viceversa, la ‘forza’ rappresentata dall’elemento maschile: idea che trova applicazione anche nella filosofia (pitagorismo e stoicismo: ma anche nel platonismo e nella sua prosecuzione lungo tutta la tarda antichità), ove l’immagine della femminilità viene talora ad indicare ora la materia bruta, ora la fecondità e il movimento»: Tommasi Moreschini 2001, 18-19. 92 Bayet - Perret 1949, 374-375.
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couche après couche, décapé les figures divines des apports successifs des siècles»93. La prima critica di S. Weinstock è rivolta all’uso delle fonti: «B. does not distinguish between good and bad evidence but chooses what suits his purpose (which is to to reduce the divinities to little more than a sexual and astral function) and ignores the rest»94; osservazioni queste condivise, come si è visto sopra, dallo stesso autore nel suo ultimo saggio. Meno condivisibile è la congettura di Weinstock relativa alla datazione della “nascita” dell’idea di una divinità tutelare segreta di Roma. Sebbene si possa essere senz’altro d’accordo con il fatto che tale idea non sia antica come la città stessa (ma quante se ne potrebbero individuare in realtà?), le motivazioni appaiono quantomeno discutibili: «I prefer to think that it was not earlier than the second-first century B. C., inspired by the Eastern doctrine about god whose majesty no man can face nor pronounce his and about the unknown and invisible gods who remain mysterious to mankind for ever. The Romans (Q. Valerius of Sora and later Varro?), as often, simplified the doctrine and brought it down to earth by applying it to Rome and its possible fate»95. 93
Ibid., 375. L’ultimo capoverso della recensione (ibid. 376) è però di lode: il lavoro di B. è di «intérêt considérable». Cfr. Deroy 1950, 340 (a proposito di Vesta): «Tout cela doit être examiné dans le cadre de l’évolution historique. Le culte de Vesta n’est pas un bloc compact, sans histoire, où tous les indices ont la même valeur et sont à volonté imputables à toutes les époques». Egli poi conclude: «mèfions-nous, pour expliquer les cultes anciens, des constructions abstraites et des justifications hautement philosophiques même empruntées à des auteurs classiques. Les religions ne sont point des structures intellectuelles et irréalistes». 94 Weinstock 1950, 149. 95 Ibid., 149. Una risposta a tali posizioni è stata fornita da Köves-Zulauf 1972, 92-95. Dumézil 19742, tr. it.2 437, nota come già al tempo della seconda guerra punica (dedica ad un genius, forse il genius populi Romani o il genius urbis Romae: cfr. Ferri 2010a), «si siano moltiplicate e precisate le speculazioni poco coerenti sul nome segreto di Roma e sulla divinità protettrice che le è così intimamente congiunta da confondersi con essa stessa», chiosando poi a proposito della posizione di Weinstock: «Non possiamo precisare il momento in cui si formò la concezione della «divinità segreta di Roma». Latte, p. 125, n. 2, (…)
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Altra critica è al contenuto dell’«idea»: la formula si deus si dea, il punto di partenza della trattazione del B.96, non andrebbe annoverata quale prova, essendo essa solo una formula contenuta nel carmen evocationis; entrambi non avrebbero alcun riferimento alla divinità segreta. Quindi B. baserebbe i suoi argomenti su una congettura (per di più «to my mind not a good one»), sviluppandola con l’aiuto di genius, Fortuna, Diana e Iuno: «which is less than a conjecture: it is irrelevant evidence. In other words, B. pieces the ‘idea’ together out of alien matter and only then discusses the real evidence and fits it into the ready made scheme. This is a petitio principii»97. Ulteriore punto debole «the background and the methods of the argument. B. assumes that early Rome had its own philosopy, had theories about the four elements, the cosmos, the place of the sun in it and much more: he pays little attention to historical development of foreign influence»; né sarebbe accettabile il fatto di considerare Natale di Roma e Parilia come due aspetti dello stesso concetto sin dal principio98. Altra osservazione quella relativa all’impossibilità che Angeronalia e Consualia avessero fin dai primordi la loro valenza rispetto al cammino del sole a dicembre, poiché il solstizio sarebbe coinciso con il 21 del mese solo a partire dal calendario giuliano, e, di più, fino al 153 a. C. l’anno sarebbe terminato in febbraio99. segnala che St. Weinstock (…) crede di riconoscervi un segno orientale e non pensa che si tratti di un’immagine anteriore al primo secolo: scetticismo eccessivo; i legami di questa concezione con i rischi dell’evocatio, pratica assai antica, non possono essere cancellati ed attestano una maggiore antichità». 96 In proposito nota Lambrechts 1949, 502, che l’associazione e la spiegazione della formula con una divinità androgina è del tutto nuova, di contro a «beaucoup de savants» i quali «ont estimé (à tort semble-t-il) qu’il fallait y voir une survivance d’une époque primitive où les Romains ignoraient encore la forme anthropomorphique de la divinité et se la représentaient comme un vague numen asexuel». Anche Schweigert 1950, 448, rileva come essenziale questo punto: «Brelich’s point is important because it emphasizes the identification of the protective deity with the divinity of unknown or indefinite sex». 97 Weinstock 1950, 149. 98 Ibid., 149. Cfr. al contrario P. Carafa - M. T. D’Alessio, Commento ai testi in Carandini 2006, 422 ss. 99 Weinstock 1950, 150. Ma in assoluto la cosa più strana sarebbe «the assertion that the mules of the Moon and the horses of the Sun (…) raced in
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Weinstock conclude: «The author is a prisoner of his own philosopy of religion (often strangely reminiscent of Bachofen) which prevents him from applying the conventional methods of historical research: he may appeal to those who share his views but he will not convince the sceptic»100. Anche Agnes Kirsopp Michels è critica circa l’uso delle fonti da parte di B.: «In general one feels that Brelich’s originality on interpretation has been gained at the expense of a thorough consideration of the evidence, even sometimes evidence which he might have found useful»; tuttavia il difetto principale delle due operette è che «The ideas expressed seem to float in cosmic space, not to spring from the soil of Rome. One finds it difficult to associate Brelich’s picture on an almost metaphysical awareness of cosmic force with the characteristic concentration of the Roman on himself as the center of the universe, or to imagine the early Roman as concerned with the movements of the heavenly bodies except as a guide to his own seasonal activities»101. 4.2 Vesta Georges Dumézil sottolinea la differenza di Vesta rispetto all’altro lavoro sulla divinità segreta di Roma, concernente delle divinità: «trop mal connues, elles ne se laissent guère définir en elles-mêmes, ni comme éléments de structures théologiques, et les comparaisons, indo-européennes ou autres, sont sans prises sur elles»102. Tutt’altra musica per quanto concerne la seconda opera. I punti di accordo fondamentali rilevati dallo studioso francese con il suo punto di vista sono tre: «1° valeur fondamentale reconnue à la liaison antithétique the Circus Maximus which, with its cult of Sol and Luna, was an image of the cosmos» (ibid.). Per tutti i problemi relativi al calendario romano, cfr. Kirsopp Michels 1967; Brelich 1972; Sabbatucci 1988a; Rüpke 1995. 100 Weinstock 1950, 150. 101 Kirsopp Michels 1951, 264, che aggiunge: «The Roman had neither the curiosity not the perspective of the Greek whcih might have lead him to attempt an explanation of his world rather than its domination». 102 Dumézil 1950, 228.
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Janus-Vesta (commencements-fins); 2° polyvalence de Vesta, dont ni le feu de foyer, ni les caractères, en apparence opposés, de mater et de virgo, n’épuisent la nature; 3° cependant, importance particulière de ce que j’appelle les élements «de 3e fonction» : fécondité, prospérité»103. L’esordio di Weinstock è una considerazione quasi ironica: Vesta non è più una divinità del focolare «but that of the heavenly light, her festival being about the time of the summer solstice, her round temple an image of the round horizon»104. L’immagine della dea delineata dal B. è «unconvincing»: egli «refuses to take into account the private cult and the cult outside Rome»; particolarmente significativo inoltre il rifiuto di considerare i Penati come presenti e venerati nell’aedes Vestae105. Anche la trattazione dei rapporti Vestia-Hestia in B. sembra al Weinstock farraginosa. Fallace gli appare inoltre, 103
Ibid., 229. La forma circolare dell’aedes di Vesta è spiegata dallo studioso francese alla luce di una comparazione con l’India di età vedica: il fuoco chiamato gārhapatya, rappresenta sul terreno il sacrificante stesso, con i suoi rapporti familiari ed economici. Esso è l’origine e il sostegno del sacrificio da compiere, necessario per accendere gli altri due fuochi. Questo primo fuoco deve essere acceso mediante frizione o preso da un precedente fuoco sacrificale. Esso esprime «il vincolo con la terra, l’autenticità terrestre di colui che si rivolge agli dei; i liturgisti dicono che è «questo mondo», «la terra». Come tale, è rotondo». L’altro fuoco assiale, ad est rispetto al primo, porta con il suo fumo le offerte agli esseri divini: esso rappresenta «l’altro mondo», «il cielo»; come tale, essendo orientato secondo i punti cardinali, è di forma quadrangolare (vi è anche un terzo fuoco dal simbolismo meno chiaro e dalla forma semicircolare). Quanto al primo, va dunque notato che «fino a quando non si fanno intervenire i fenomeni celesti, sulla terra non vi è orientamento possibile e tutte le direzioni si equivalgono». Il fuoco di Vesta pertanto: «è precisamente il focolare di Roma e, come tale, una delle sue garanzie del suo vincolo sulla terra, della sua permanenza nella storia»; complementari e necessari ai riti vi sono poi gli altari (quadrangolari) dei luoghi di culto, tramite i cui fuochi temporanei si trasmettono le offerte agli dèi. Cfr. Dumézil 19742, tr. it.2 277-289. 104 Weinstock 1950, 150. 105 Ibid., 150: «it is generally accepted that the Penates were worshipped in the temple of Vesta. B. denies this (…), and in fact that it would mean a great simplification if we had to deal only with the temple of the Penates on the Velia». Sul tema cfr. Radke 1981; Thomas 1990.
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pur se legittimo rispetto ad alcuni dati (ad esempio l’invocazione durante i sacrifici), il forte accento sulla base calendariale del rapporto Giano-Vesta – festa del primo il 9 gennaio, 15 giorni prima del solstizio d’inverno; della seconda il 9 giugno, 15 giorni prima del solstizio d’estate – alla luce dell’argomento già avanzato che il calendario romano in origine non fosse solare. Ultima notazione negativa il non produrre prove a sostegno della teoria secondo cui il tempio tondo rappresentasse l’orizzonte circolare106. Dario Sabbatucci riprende alcune delle suggestioni avanzate dal B.107 Vesta sarebbe in tutto e per tutto al «centro»: il numero delle Vestali – sei, non dodici come altri raggruppamenti sacerdotali: flamini minori, Arvali, etc. – corrisponderebbe a quello dei mesi di mezzo anno: «la chiusura realizzata da Vesta divide l’anno a metà, il che pone la dea al centro dell’anno (…). Seguiamo l’immagine di un centro che per essere che per essere tale deve essere equidistante da una periferia: la periferia diventa circonferenza, come il giro d’orizzonte, come l’annualità (annus significa cerchio), come la forma del tempio di Vesta, che era appunto rotondo, diversamente dai templi delle altre divinità»108. Tale pianta sarebbe stata giustificata dagli antichi con la rotondità della terra (il giro d’orizzonte appena menzionato) con la quale veniva identificata Vesta; ma la dea era pure il focolare domestico, anch’esso rotondo e situato al centro della casa. Pertanto: «Vesta non era né terra né focolare, ma era una centralitàinteriorità cosmica che poteva essere rilevata nello spazio domestico
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Weinstock 1950, 150, che conclude tuttavia con una notazione positiva: «there is much learning and vigorous argument in this book». Dumézil 1950, 229, dal canto suo, pur non entrando nel merito, ritiene interessanti sia la teoria circa i tratti solari di Giano sia la nuova spiegazione fornita a proposito della pianta tonda del santuario di Vesta. In proposito, cfr. anche Deroy 1950, 340; Adams Holland 1951, 283; m 1958, 1727, che ritiene quelle di B. in proposito «sehr spekulative Überlegungen». Cfr. anche Radke 1965, 328 ss. (forma circolare allusiva della funzione originaria di mundus) e, più in generale, Scott 1999. 107 Pur non citandolo, secondo le linee-guida esposte dall’autore: Sabbatucci 1988a, 4. 108 Ibid., 205.
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(l’atrio e il focolare) così come nello spazio assoluto (il punto d’osservazione del giro d’orizzonte o come nel tempo (la lunazione di giugno considerata al centro del giro dell’anno»109. La dipendenza dallo studio di B. si palesa soprattutto nella nota relativa al giro d’orizzonte, il quale «veniva idealmente quadripartito nel corso dell’osservazione fatta dagli àuguri mediante due immaginari assi ortogonali (cardo e decumanus); il procedimento serviva a delimitare sacralmente uno spazio per renderlo adatto ad una manifestazione divina; questo spazio, detto templum, dava il nome di templi agli edifici che vi si erigevano per gli dèi. I templi erano tutti sottoposti al rito augurale, erano tutti «inaugurati»; ma non lo era il tempio di Vesta, secondo la tradizione: ciò significava che la sede della dea (e del fuoco sacro) doveva realizzare lo spazio primordiale o assoluto, cioè il giro d’orizzonte non sottoposto alla quadripartizione augurale»110. Il primo appunto mosso da Jean Bayet a B. è l’aver ignorato gli studiosi francesi: G. Dumézil, P. Grimal, J. Perret111. Lo sviluppo della trattazione gli appare alquanto confuso e troppo dipendente dalla speculazione filosofica greca; il paragrafo sulla valenza dell’asino, pur contenente degli spunti condivisibili, comprende pure però «échappées imaginatives dangereuses (sur la meule, son mouvement céleste, son symbolisme de fécondite?»112. Altri difetti: «La hantise d’idées-forces incontrôlables (l’héliocentrisme par exemple (…), l’arbitraire de certaines affirmations (comme l’origine hellénistique des temples ronds autre que celui de Vesta), les confusions et contradictions (Vesta est-elle précosmique ou cosmique?)» ma soprattutto «le refus larvé, mais constant, de rechercher les successions historiques et d’admettre la possibilité d’apports d’idéologies échelonnés (…). C’est toujours la question de la
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Ibid., 205. Ibid., 224, n. 73. 111 Bayet 1950, 452-453. Anche Dumézil 1950, 228-229, aveva rilevato a proposito di Giano la mancata presa in considerazione da parte di B. del suo studio Tarpeia: de Janus à Vesta, del 1947. 112 Bayet 1950, 453. 110
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méthode en matière d’histoire des religions : rapprochements et intuitions ne valent pas preuves»113. Nonostante l’impressione, specie a proposito del paragrafo finale relativo alla “mitologia di Vesta”, per cui l’autore «ne donne pas tojours l’impression que l’auteur a dominé la matière, une matière, il est vrai, complexe»114, tuttavia Robert Schilling nel complesso ritiene che «M. Brelich a mainte occasion, au cours de ces pages, de prouver son ingéniosité dans l’art des correspondances et sa virtuosité dans l’interpretation des textes»115. A parte appunti concernenti singoli dettagli, le critiche fondamentali si appuntano sul rapporto Giano-Vesta: anzitutto l’«originalità» romana di tale ordine, a detrimento del supposto carattere «cosmico»; ma soprattutto l’eccessiva importanza conferita alla corrispondenza 9 gennaio (agonium - Giano) - 9 giugno (Vestalia - Vesta). Nota lo Schilling: «il paraît étrange que le calendrier romain, qui souligne d’habitude les correspondances (…), ait été aussi discret dans ce cas particulier»116. In verità, allo studioso francese «le couple agonium du 9 janvier-Vestalia paraît répondre davantage à la conception philosophique de l’auteur qu’aux indications des fasti romains»117. A tal proposito, appare forzata la trasformazione di Giano in dio solare quando esso è invece «essentiellement le dieu de tous les commencements»118; allo stesso modo «Vesta se «solarise» pour les mêmes besoins de la cause, quand nous savons pourtant qu’elle concerne l’eau en même temps que le feu»119.
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Ibid., 453, che indica un altro modo «n’aborder les «complexes» qu’une fois assurées des «bases de départ» simples». Fatte salve tutte le osservazioni Bayet conclude comunque con un giudizio positivo. 114 Schilling 1951, 160. 115 Ibid., 161. 116 Ibid., 161-162. 117 Ibid., 162. 118 Ibid., 162: «Quoi d’étonnant si la première fête du mois de janvier appartient au dieu éponyme? L’explication «solaire» est inutile». 119 Ibid., 162, che conclude: «Je ne crois donc pas à l’arc-en-ciel cosmique que M. Brelich voudrait tracer entre l’agonium du 9 janvier et les Vestalia de juin».
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Globalmente, «la tendance philosophique de l’auteur semble parfois l’avoir entraîné trop loin»120. È il caso ad esempio del ruolo del somaro nei Vestalia, nel quale B. «voit simultainément dans le mouvement circulaire de l’animal autour du mouoin une allusion au mouvement cosmique et a l’acte sexuel (…) ; on a beau invoquer l’acception spéciale de mola : ce double symbolisme n’emporte pas l’évidence!»121. Il giudizio finale, nonostante l’apparenza, appare nella sostanza piuttosto negativo: «L’ouvrage de M. Brelich fait donc plus honneur à son ingéniosité spéculative qu’à sa rigueur scientifique»; egli ha tuttavia «le grand mérite de vouloir rendre raison des faits religieux, en essayant de pénétrer le monde des représentations sous-jacentes»122. Emilio Gabba, così come nella recensione al primo lavoro, si limita a prendere atto e ad enumerare, senza addentrarsi in critiche, le conclusioni di B., quali ad esempio il collegamento Giano-Vesta, il significato avanzato circa la forma circolare dell’aedes della dea che, lo si è visto, alluderebbe all’orizzonte, la relazione con i due elementi primordiali (il fuoco e l’acqua) e la presenza di un «principio maschile»: Volcanus, Priapus o l’anonimo fascinus123. Agnes Kirsopp Michels ritiene dal canto suo che il pilastro principale dell’interpretazione «cosmica» di Vesta (rappresentazione del cerchio dell’orizzonte durante il solstizio d’estate, quando il sole tocca l’apice del suo percorso annuale), il “calendario di Numa”, sia datato «on a somewhat subjective interpretation, to the period of the first synoikismos before its reform, marked by the introduction of the Capitoline cult, suppressed Rome’s official interest in cosmic life. He does not seem to realize, however, that a calendar which uses intercalation already shows lack of interest in such phenomena as
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Ibid., 162. Ibid., 162. 122 Ibid., 162, che conclude con una domanda: «Qui peut se vanter de posséder la clef authentique?». Chiude la recensione una serie di errata. 123 Gabba 1952, 136. 121
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the solstices, for the simple reason that the festivals are fixed only in their sequence, not in relation to particular events»124. Mary Beard, trattando lo status sessuale delle Vestali, cita B. quale sostenitore di un duplice ruolo sessuale delle sacerdotesse, contemporaneamente verginale e matronale: «Brelich for example, when discussing the position of Vesta herself (to which he closely relates the position of her priestesses) rightly rejects any exclusive solution (…). His own explanation of the paradox of the Vestals, however, has found little support, at least in his fullest form. For he tries to see the figure of the goddess within the cosmic sphere and he relates her own sexual ambiguity, and that of her priestesses, to her role as an almost mystical virgin mother of the precosmos»125. La studiosa inglese osserva poi che lo studio di B. poggia in larga parte su un’assimilazione, quella tra Vesta e Fortuna, in realtà insufficientemente attestata126; il secondo difetto che minerebbe seriamente le conclusioni di B. sarebbe la sua preoccupazione per il «cosmico». Tuttavia, «his study of individual elements of the cult, such as the opposition found there between fire and water, the procreative aspect of the flame and the associations of Vesta with aggressively male phallic deities, does make clear just how deeply sexual ambiguity runs through this whole area of Roman religion and belief»127.
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Kirsopp Michels 1951, 263. Un esempio in proposito sarebbe fornito dai Divalia: «If the Divalia on December 21st, for example, had been regarded as vitally connected with the winter solstice (although in the Julian calendar bruma falls on the 25th), the men who framed the calendar would have had to have kept it feriae conceptivae in order to ensure its celebration on the right day». Cfr. Adams Holland 1951, 283. 125 Beard 1980, 18. Per un carattere precipuamente matronale del sacerdozio si sono espressi invece Wissowa 19122, 158-159; Giannelli 1913, 27 ss. 126 Osservazione corretta questa, ma da limare nel senso che in realtà nel saggio di B. non è riservato uno spazio così rilevante all’approfondimento dell’affinità tra le due figure divine. 127 Beard 1980, 19; cfr. Martini 2004, 94, n. 47.
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5. Valutazione dell’autore Quasi trent’anni dopo B., ognora severo critico di se stesso, può sviscerare lucidamente i punti deboli delle sue due opere. In primo luogo: «le forzature ignorano ogni freno»; vi è presente la costante tentazione da parte dello studioso «di spremere fino in fondo il materiale e utilizzare anche i più lievi indizi; ma senza un sufficiente senso critico questa tendenza porta agli arbitri più assurdi»128. Secondo difetto: «come nei lavori del ’37, ancora il concetto dell’«antico» (die Antike!) – alimentato anche dalla dottrina altheimiana della sostanziale identità tra le divinità romane e quelle greche – mi spingeva a confronti e deduzioni illeciti129; non soltanto: ma, proprio come in Aspetti della morte, arrivavo al punto di cercare lumi per la religione romana nella … filosofia presocratica (Vesta, 48, 55) o di utilizzare allo stesso fine fatti relativi al culto di Zeus Karios o all’orfico Phanes … (Schutzg., 19 sg.)»130. Altro punctum dolens: «anche il continuo uso (d’origine kerényiana) di concetti come «solare», «lunare», «tellurico», «cosmico» – oltre a falsare il carattere stesso della religione romana – porta, data la genericità ed elasticità di quei concetti – a facili arbitrii»131. Infine, nota B., «diversi passi, diversi termini (Grundintuition, Idee an sich, ecc.) farebbero pensare a un deciso indirizzo irraziona-
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Brelich 1979a, 37-38, che aggiunge alla nota 7: «Basterà un solo esempio tra tanti, per far capire di che si tratta. In Vesta p. 72 (n. 181) a proposito del «mito» (ovidiano!) in cui Priapo tenta di violentare la dea, arrivo a ricordare un’isolata raffigurazione (siciliana!) di Priapo bifronte, alludendo ai ben noti legami tra Vesta e Ianus…». 129 Ibid., 38, nota 8: «Anche qui, un esempio per tutti: il presunto carattere «solare» di Hercules affermato in base ad alcuni elementi dei miti greci di Herakles: Schutzg., 35». 130 Ibid., 38. 131 Ibid., 38, che aggiunge (alla nota 9): «È facile p. es. sostenere la «solarità» e l’implicito carattere «celeste» di Pales, se basta per questo ricordare il suo epiteto Matuta e il fatto che la si pregava rivolti a est: Schutzg., 23». Cfr. per quanto riguarda questo e il punto precedente, Ibid., 37: «certi influssi di Kerényi (e forse ancora di più, di Altheim e della sua scuola) sono effettivamente presenti nei due lavori».
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listico. Ora, in retrospettiva, mi sembra, invece, che non si trattasse di questo, bensì dell’assenza di una qualsiasi presa di coscienza metodologica»132. «Se si fosse trattato» – prosegue – «di un preciso indirizzo metodologico – sbagliato quanto si vuole –, significherebbe che io mi fossi almeno posto il problema dei fini e dei mezzi dello studio delle religioni antiche: in realtà si trattava di qualcosa di molto più grave da parte di uno studioso di ormai 36 anni, cioè della mancanza completa di una riflessione di fondo, e – di conseguenza – del riecheggiamento spontaneo e passivo (e perciò certamente anche deformante) delle impostazioni del mio maestro e di coloro che egli stimava»133. Quanto però i fascicoli comparsi nelle «Albae Vigiliae» costituiscano un crocevia del cammino professionale di B. è evidenziato dal fatto che lo studioso stesso, terminata la disamina delle parti criticabili, pur tuttavia ne rilevi i pregi. Sebbene infatti egli individui la prima opera “matura” nelle Tre variazioni romane sul tema delle origini, apparse nel 1955 e già improntate all’impostazione metodologica facente capo a Raffaele Pettazzoni, non vi è neanche dubbio che ivi già si intraveda un deciso passo in avanti rispetto ai lavori precedenti, segnati o da una preparazione acerba o aventi per oggetto temi più o meno circoscritti. Inoltre B., lasciatisi alle spalle gli anni di andirivieni tra Italia e Ungheria, il periodo bellico e le incertezze relative alla ricerca di una sistemazione, poté giovarsi di uno studio per la prima volta continuativo e relativamente sereno.
132 Ibid., 38, che continua: «questa spiega anche certe ingenuità su cui nessuno mi ha fatto riflettere e di cui, da me, non mi rendevo conto: quando, p. es., parlo di divinità greche e romane, sembra quasi che io supponga la loro «realtà» obiettiva (an sich!) diversamente «espressa», soltanto, dalla religione greca e da quella romana (v. p. es. in Vesta 69 ss. su Hephaistos e Volcanus e i loro rapporti rispettivamente con Hestia e Vesta, su Hermes e Mercurius, ecc.)». 133 Ibid., 38-39, che conclude: «A questo punto non sarà forse inutile una piccola considerazione: a quell’epoca conoscevo già alcuni dei più aspri critici degli indirizzi di W. F. Otto, Altheim e Kerényi; ma ora, sempre in retrospettiva, posso anche comprendere se rifiutavo, istintivamente, gli atteggiamenti di un Nilsson o di un Rose. Solo che non era ancora venuto il tempo di rifiutarli da posizioni metodologiche consapevoli».
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Dunque, egli afferma, «al contrario di quanto si verificava sul piano metodologico, – sul piano della ricerca concreta i due lavori mostrano una mia notevole indipendenza: nessuna delle interpretazioni presentate – giusta o erronea che fosse – era suggerita dagli autori cui aderivo, nessuna era un semplice sviluppo o applicazione delle loro tesi»134. Nel lavoro «si stanno facendo strada alcuni problemi e alcuni approcci alla loro impostazione che soltanto molti anni dopo si matureranno nei miei studi»135. Si tratta in primo luogo di questioni riguardanti il politeismo: «Tutto il lavoro è pervaso, intanto, dall’intenzione di mostrare che le divinità (romane) sono entità complesse (…), cioè non si esauriscono in un’unica funzione (tipo: Consus, «dio dell’immagazzinamento del grano» …), non si spiegano in base a un codice unico (p. es. la «natura», il «cosmo», l’«economia», il «sesso», la «società), bensì hanno valenze multiple, contemporaneamente naturalistiche, cosmiche, economiche, sessuali, statali, ecc. In questo (…) avevo ragione contro le interpretazioni riduttiviste presenti in gran parte dei lavori sulla religione romana»136. Inoltre, «sia pur sempre limitatamente alla religione romana, affermo per la prima volta e in maniera sorprendentemente lucida, che non basta dire (come si usa o si usava) che una divinità è «affine» a un’altra o che tra le due vi sono «rapporti», ma che bisogna cercare la ragion d’essere delle affinità e dei rapporti»137. Altro punto fecondo di sviluppi, è, afferma il B., che «in quel lavoro io cercavo di mostrare come in tutte le divinità con cui la varia tradizione romana voleva ritrovare la «divinità protettrice segreta» della città vi fosse un nucleo
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Ibid., 39, che aggiunge (nota 39): «Non mi soffermerò su qualche preziosa scoperta singola (come soprattutto l’inutilizzabilità dell’argomento classico – l’assenza delle divinità della triade capitolina – per la datazione del calendario arcaico: Vesta, 21; o la possibilità di più «capodanni» in un sistema calendariale, ecc.), sulla larga conoscenza dei dati e, ormai, anche della bibliografia». 135 Ibid., 39. 136 Ibid., 39. Cfr. Lambrechts 1949, 502: «L’auteur a raison de rejeter la notion périmée d’areès laquelle les membres du pantheon avaient un caractère éminemment agricole et pratique ; il a raison de souligner leur nature «cosmique» en même temps que celui de principe tutélaire de la communauté romaine». 137 Brelich 1979a, 40.
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comune di tratti, per differenti che poi fossero quelle divinità, per tutto il resto, tra di loro. Cercavo, cioè, di individuare un «tema» – per dirlo con termine musicale – che fosse presente con vario rilievo e in varie elaborazioni, in quelle «composizioni» che sarebbero state le figure divine»138; ciò che ne deriva ed è da mettere in evidenza «è il tentativo stesso di problematicizzare la «figura divina»: quanto ero ormai distaccato – almeno in questo – da W. F. Otto e dallo stesso Kerényi!»139. Ulteriore nota lieta per il B. il fatto che «attribuivo a un preciso momento storico – quello della sistemazione del politeismo romano e della formazione di quella civiltà arcaica romana che, forse giustamente, facevo risalire al 6° sec. a. C. circa, – la creazione delle figure divine: sottolineo la parola creazione, perché è per la prima volta che affiora nella mia coscienza, in quel lavoro, l’aspetto creativo della religione, che sarà più tardi al centro del mio interesse di storico delle religioni»140. L’ultimo dettaglio di segno positivo, gravido di conseguenze per le future ricerche di B. è che in quel lavoro «per la prima volta, mi accorgo della variabilità di un «significante»; nello specifico che l’interpretazione data in questa sede delle varie figure divine oggetto della sua trattazione (divinità dal sesso incerto – sive deus sive dea –, divinità sdoppiata in maschio e femmina – i «due Pales – e divinità femminile con un paredro nascosto e segreto) quali «maniere d’espressione» allusive di un’«idea» inconfessata dell’androginismo divino, «sia giusta o errata, specie nel caso trattato, conta poco rispetto all’acquisizione, forse ancora neanche del tutto cosciente, di uno strumento analitico di cui in seguito mi servirò sia nello studio dei riti che in quello dei miti»141. La valutazione globale data dallo studioso a Die geheime Schutzgottheit e Vesta è insomma sostanzialmente positiva, se non altro per le prospettive aperte e il ruolo fondamentale ai fini della maturazione di una nuova metodologia: «riesaminando, dunque questi 138 139 140 141
Ibid., 40. Cfr. Brelich 1949c, 13-14. Brelich 1979a, 40. Ibid., 40. Ibid., 41.
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lavori che ero abituato a ricordare con disgusto e vergogna, oggi [scil. il 1976] resto sorpreso nel trovare in essi anche certi orientamenti che, più in là, si sarebbero dimostrare suscettibili di sviluppi e che – in retrospettiva – appaiono come segni di una continuità di problemi»142.
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Ibid., 41. Subito dopo vi è anche una considerazione che sembra rievocare talune riflessioni presenti ne Il cammino dell’umanità: «Ciò – sia detto tra parentesi – pone anche un problema cui vale la pena accennare: quanta parte dei risultati scientifici di ciascuno di noi si fonda – anziché sulla cognizione dei dati, sul metodo applicato, sui fini della ricerca – su una forma mentis determinata da fattori che ci sfuggono e che portiamo in noi attraverso e malgrado ogni maturazione del nostro pensiero e tutti i progressi del nostro studio? È una nota scettica o bisogna concluderne che perfino quanto è immutabile in noi stessi, fa parte solo della «materia prima» su cui operiamo creativamente?».
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APPENDICE Lo storicismo in Angelo Brelich*
1. Angelo Brelich e la “Scuola di Roma” Ad Angelo Brelich (d’ora in poi B.) toccò nel 1958 un compito assai gravoso: succedere a Raffaele Pettazzoni nella cattedra di storia delle religioni dell’Università di Roma “La Sapienza”. Pettazzoni era in quel momento uno dei più prestigiosi studiosi del settore a livello internazionale1: aveva in primis conferito dignità accademica alla disciplina in Italia, rivendicandone l’autonomia; aveva inoltre redatto opere di notevole respiro e profondità (I misteri: saggio di una teoria storico-religiosa, La confessione dei peccati e L’onniscienza di Dio, solo per citarne alcuni); di più, aveva fondato nel 1925 l’unica rivista dedicata allora alla materia in Italia (e ancora in attività), dal titolo Studi e Materiali di Storia delle Religioni 2. Tale unicità era peraltro condivisa dalla cattedra stessa, la prima stabile in Italia dedicata allo studio della religione in senso laico e scientifico, assegnata all’illustre persicetano nel 19243. Di conse* I miei più sinceri ringraziamenti al Prof. Enrico Montanari, docente di Storia delle Religioni presso l’Università “La Sapienza” di Roma – già assistente di Angelo Brelich –, al Prof. Giovanni Casadio e al Dott. Valerio Severino per la revisione del testo, i preziosi consigli e le doverose correzioni. 1 Cfr. Casadio 2005, 4045. 2 Sulla genesi e le vicende relative alla rivista, cfr. Brelich 1979d; per una rassegna esaustiva dei lavori ivi pubblicati da B. cfr. Chirassi Colombo 2005. A Pettazzoni si deve anche la fondazione del periodico internazionale Numen. 3 La prima cattedra in assoluto in Italia fu quella tenuta da B. Labanca a partire dal 1886, trasformata però solo due anni dopo in cattedra di Storia del
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guenza, egli aveva dovuto scontrarsi sia con l’ostilità della cultura laica del tempo, capeggiata da Benedetto Croce4, sia con l’orientamento confessionale della c.d. “Scuola di Vienna”, sia talora con il Vaticano, come accadde alla vigilia dell’VIII Congresso Internazionale di Storia delle Religioni, con sede a Roma – giudicato “non opportuno” –, ma poi tenutosi regolarmente nel 19555. Ciò detto, risulta evidente come la tradizione e i modelli con cui gli studiosi italiani del settore dovevano confrontarsi, escludendo ovviamente le realtà di altri paesi, si riducessero in gran parte alla figura del deus ex machina Pettazzoni. B. era risultato primo nel concorso per la cattedra davanti ad altri due studiosi di notevole caratura come Ernesto de Martino e Ugo Bianchi6. Lo studioso italo-ungherese cercò tuttavia di dimostrarsi all’altezza delle aspettative e dell’eredità, sicuramente ingombrante, del suo predecessore, seguendone le linee guida e sviluppandole ulteriormente, in uno sforzo incessante di definire le premesse, la fisionomia, i confini e i criteri metodologici propri alla storia delle religioni, e ciò anche più di Pettazzoni, per cui il metodo era piuttosto implicito nella ricerca7. I punti fondamentali che caratterizzano la concezione che lo studioso ebbe della disciplina, e di conseguenza della c. d. “Scuola Cristianesimo. La disciplina fu reintrodotta poi in Italia nel 1912 da Uberto Pestalozza, presso la Regia Accademia scientifico-letteraria di Milano. Dapprima libero docente, egli ebbe poi una cattedra stabile nel capoluogo lombardo a partire dal 1935. Cfr. Bianchi 1970, 26; Siniscalco 1996. 4 Cfr. Pettazzoni 1959, 4-5; Brelich 1979b, 126; Mastromattei 1982, 371372; Lanternari 1997, 9. 5 Cfr. Pettazzoni 1952; Giusti 1990; Lanternari 1997, 92-93; Xella 2005, 23-25. 6 Sul concorso, anche in funzione della personalità dei tre studiosi coinvolti, cfr. Xella 2005, 27-40. Esso portò all’istituzione di due nuove cattedre di storia delle religioni, a Cagliari (de Martino) e a Messina (Bianchi). 7 Brelich 1979b, 123; cfr. Lanternari 1979, 14; Nanini 2004, 5: «Brelich è, per certi aspetti, il vero fondatore della “Scuola Romana”, se non altro perché a lui appartiene il duro e oscuro lavoro di costruzione di un’identità in senso lato “storicistica” che, per quanto messa in dubbio – in primis da lui stesso –, rimane tutt’oggi come punto fermo nello studio scientifico della religione a livello nazionale e internazionale».
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di Roma”8, che ne seguì e cerca tuttora di seguirne le orme, sono fondamentalmente due: il primo è l’approccio prettamente storicistico, nel senso del «carattere irriducibilmente storico di ogni formazione religiosa»9; inoltre fondamentale è l’uso nella ricerca della comparazione storico-religiosa, sostenuta da un adeguato studio dell’etnologia10.
2. Cos’è la storia delle religioni? Ma cos’è esattamente la storia delle religioni? Come afferma B., essa «non è la storia dell’inesauribile varietà di comportamenti, idee, reazioni, sentimenti, credenze, esperienze religiosi»; tale concezione «confonderebbe la religione con la religiosità, trascurando l’essenziale aspetto istituzionale della prima»11. Ogni religione è composta infatti da un «complesso di istituzioni che (…) si conservano indipendentemente dalla sempre varia e mutevole religiosità degli individui». Non va trascurata l’importanza della tradizione e la funzione conservatrice che essa esercita, «a scapito di quell’aspetto innovatore che è tuttavia presente in ogni religione finché questa sia vitale e si manifesta in successive modifiche delle istituzioni», sempre però nel rispetto della tradizione, senza il quale si arriverebbe «all’eversione delle istituzioni e cioè alla morte di una religione, sotto la pressione di esigenze nuove e inconciliabili con essa»12. Quanto allo stesso concetto di religione, B. è dell’avviso che si possano chiamare «religioni» «quei complessi di istituzioni, credenze, 8
Brelich 2002; Nanini 2004, 6 ss. Brelich 2002, 141. 10 Cfr. Brelich 1960; Brelich 2002; Lancellotti 2005; Ferri 2009b. Quanto alla c. d. “Scuola di Roma”, tuttavia, non si devono considerare gli studiosi ad essa appartenenti come allineati dal punto di vista scientifico ad una sorta di manifesto o guidati da regole più o meno stabilite e vincolanti: si considerino ad esempio le notevoli differenze che sussisteranno sempre tra l’impostazione di Raffaele Pettazzoni e quella di Ernesto de Martino, per cui cfr. Montanari 2006. 11 Brelich 1960, 84; cfr. Brelich 1979b: 128. 12 Brelich 1960, 85. 9
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azioni, forme di comportamento e organizzazione mediante la cui creazione, conservazione e modifiche adeguate a nuove situazioni, singole società umane cercano di regolare e di tutelare la propria posizione in un mondo inteso come essenzialmente non-umano, sottraendone, investendo di valori e includendo in rapporti umani quanto ad esse appare d’importanza esistenziale»13. Naturalmente il nostro concetto di religione è esso stesso un prodotto storico occidentale e influenzato strutturalmente dal Cristianesimo14, le cui componenti principali – delle credenze, dei riti, un comportamento, un personale specializzato – non sono allo stesso tempo (tutte) presenti in un’altra “religione”, o non la esauriscono, oppure non si prestano neanche a confronti, se non al prezzo di inevitabili forzature15. Le credenze religiose hanno un ruolo fondamentale che «a differenza delle altre profane, consiste (…) nel garantire al gruppo umano il controllo su ciò che altrimenti apparirebbe incontrollabile, sottraendo la realtà alla sfera disumana della casualità e conferendole un significato umano»16. In questo tentativo di esercitare un controllo su tutto ciò che appare incontrollabile si ricorre spesso alla personalizzazione e all’antropomorfismo. Tali procedimenti favoriscono e consentono all’uomo di entrare in relazione più facilmente con gli esseri sovrumani, ma anche di comprendere meglio il mondo circostante: «esprimere in forme umane tutto ciò che circonda l’uomo e determina il suo destino, significa contemporaneamente due cose: il mondo, pur senza perdere nulla della sua sovrumana potenza e grandezza, appare più comprensibile, più trasparente, meno informe e mostruoso; allo stesso tempo l’uomo, ritrovando le proprie forme nel mondo non-umano, acquista non solo un maggior senso di sicurezza e confidenza con la realtà, ma anche una maggiore dignità, poiché riconosce sé stesso come simile agli dèi che reggono l’universo»17.
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Brelich 1966, 66. Ibid., 4 ss.; cfr. Brelich 1985, 202-203; Sabbatucci 2000, 286. 15 Brelich 1979c, 140 ss. 16 Ibid., 156. 17 Brelich 2007, 59; cfr. Sabbatucci 2000, 296: «gli dèi sono gli strumenti logici con cui una religione politeistica “pensa” la realtà». 14
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Anche il mito, «un racconto (…) che ha determinati caratteri di contenuto e forma», riveste un’importanza fondamentale in molti sistemi religiosi. Circa il contenuto, «il mito narra di eventi che presenta come svoltisi in un tempo antico, anteriore, generalmente, ai tempi di cui vive ancora il ricordo o di cui esiste una documentazione storica, ma soprattutto caratterizzato come diverso da quest’ultimo periodo»18. Tale “diversità” si riflette anche sui personaggi e sugli eventi, che spesso si verificano per la prima volta: il mito spesso «è la fondazione di una situazione di fatto»19, raccontando esso «l’origine di ciò che è ritenuto importante»20. Il significato essenziale dei miti è che essi «fondano le cose che non solo sono come sono, ma devono essere come sono, perché così sono diventate in quel lontano tempo in cui tutto si è deciso; il mito rende accettabile ciò che è necessario accettare (…) e assicura la stabilità delle istituzioni; provvede, inoltre, a modelli di comportamento». Il mito dunque «non spiega (…) le cose (…) ma le fonda, conferendo loro un valore»21. Tutte queste considerazioni, riflesso del costante impegno di B. alla valutazione del rapporto tra “religione” e “religioni”, lo portano senz’altro ad affermare che non esiste “la” religione: «è inaccettabile la posizione di coloro che considerano le religioni storiche come semplici varianti “della religione”, cioè, nei fatti come forme più o meno snaturate e deformate dell’unica vera religione determinata dalla realtà oggettiva trascendente»22. La religione «non è stata (e non è, dove esista e funzioni) – mai e in nessun luogo – un ‘dato di fatto’, né piovuto dal cielo per rivelazione né congenito alla natura umana né insito in una certa forma culturale, un dato di fatto di cui cambino solo, quasi secondariamente o casualmente, le forme superficiali, ma sempre e dovunque, come la cultura stessa, creazione
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Brelich 1958, 25, 383. Ibid., 27. Brelich 1966, 10. Ibid., 11; cfr. Brelich 1979c: 153-156. Ibid., 138.
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continua»23. Anche le c. d. “religioni universalistiche” non possono essere comprese al di fuori di determinate configurazioni culturali24.
3. Lo storicismo Veniamo al primo pilastro dell’impostazione metodologica condivisa da B. Si è parlato di processi storici: essenziale importanza acquista dunque lo studio della storia che prescinda da qualsivoglia scivolamento nell’arbitrario o nel metafisico. La storia delle religioni non deve allontanarsi dall’approccio storicistico: di qui le nette prese di posizione del B. nei confronti di quegli orientamenti che, contrariamente allo storicismo, deformerebbero la storia alla luce di schemi predefiniti o preconcetti e di quelli che, cosa ancor più grave, pretendono di basarsi su presupposti più o meno scopertamente fideistici o a priori astorici. B. nello specifico definisce lentamente un orientamento metodologico che definisce storicista, nel corso di una costante polemica nei confronti di posizioni di metodo, rispetto alle quali distingue le proprie per opposizione e negazione, stabilendo un nuovo orientamento sulla base di ciò che a suo avviso non si poteva più essere. Vediamo dunque verso quali posizioni il B. appuntò le sue critiche. Evoluzionismo. B. asserisce che «non si può non essere antievoluzionisti»25. Oggi non si ritiene più che l’intera umanità tenda verso un medesimo progresso, da raggiungere compiendo i medesimi “passi” sul sentiero dello sviluppo, né che tutte le civiltà debbano
23 Brelich 1969, 9; cfr. Lanternari 1997, 87: «per comprendere le radici di un fenomeno nelle sue componenti religiose non è possibile trascurare molti altri aspetti e problemi riferibili alle componenti extra-religiose»; Massenzio 1997, 520. 24 Brelich 1979f: 242-244. 25 Brelich 1979e: 214; per un’analisi della critica di B. all’evoluzionismo, cfr. Montanari 2001b, 52, 59-60; sull’evoluzionismo applicato allo studio delle religioni, cfr. Filoramo 1997, 500-503.
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essere giudicate su un sistema di valori ben definito26: ciò porta ad un giusto relativismo culturale che ha un senso solo ove non si contrabbandi per il tramite di esso «una falsa giustificazione di posizioni antistoriche», con l’asserire che se nessun valore è superiore agli altri, allora vuol dire che «nel mondo davvero non succede nulla, siamo sempre fermi al punto di partenza»27. Va escluso per quanto possibile il giudizio: «lo storico non giudica il corso della storia, ma cerca di comprenderlo: non dal di fuori (…) ma dall’interno della sua posizione storica che sola l’ha messo in grado di esercitare il suo mestiere». Per fare un esempio, nel postulare a priori che la preistoria greca non conoscesse l’istituzione iniziatica, si tornerebbe a degli schemi evoluzionistici «per i quali bastava constatare l’esistenza di un fenomeno culturale tra i popoli primitivi attuali», considerati “fuori dalla storia”, «per decidere che quel fenomeno era ‘preistorico’»28. Strutturalismo. Nello strutturalismo «sembra» al B. «assente ogni ipoteca religiosa». Esso «non si chiede, in realtà, come sia avvenuto il decisivo passo dalla “natura” alla “cultura”». In questo tipo di ricerche si intravede «il farsi della “cultura” nel suo creativo distaccarsi – ad ogni livello – da quel “dato” che sembra essere la “natura”». Tuttavia, al di sotto della varietà delle singole culture è supposta una trama strutturale unica: «tutte le combinazioni sono possibili – purché siano di quegli elementi (finiti!) di cui è composto il disegnobase». La storia si ridurrebbe di conseguenza ad essere simile ad un caleidoscopio «in cui gli stessi pezzetti di vetro si compongono in sempre nuove, ma non inesauribili, formazioni regolari»29. Monoteismo primordiale. B. rifiuta recisamente la teoria, sostenuta soprattutto dalla “Scuola di Vienna” facente capo a W. Schmidt, che postulava un monoteismo originale e primordiale (Urmonothei26
Brelich Ibid. 28 Brelich tanari 1993a; 29 Brelich
1979e, 215.
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1969, 44. Sui residui di evoluzionismo presenti in B., cfr. MonMontanari 2001b, 59-60. 1979e, 208.
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smus). Non solo essa è a suo avviso semplicemente «scientificamente indimostrabile»30, ma B., seguendo le orme di Raffaele Pettazzoni, afferma al contrario che la forma più caratteristica di religione, almeno per quanto riguarda le c.d. civiltà superiori – questo ci dicono i dati, e non una posizione aprioristica – sia in realtà politeista, mentre il monoteismo si sarebbe formato per opposizione e “rivoluzione” rispetto alla preesistente religione politeista, col negare l’esistenza di altre divinità al di fuori dell’unico dio31. Un tale monoteismo non è inoltre individuabile in alcun popolo tradizionale32. Fenomenologia. Pettazzoni, che fino alla morte non escluse che storia delle religioni e fenomenologia potessero instaurare un proficuo rapporto interdipendente33, ammoniva allo stesso tempo che l’orientamento fenomenologico, pur riconoscendo il valore strumentale della storia, «tende a trascendere la storia erigendosi a scienza religiosa in sé, distinta dalla storia. Ciò che manca alla fenomenologia religiosa, ciò che essa esplicitamente ripudia, è l’idea di svolgimento»; essa ignora che, secondo la celebre definizione pettazzoniana, «ogni phainómenon è un genómenon», vale a dire che «ogni evento ha dietro di sé un processo di sviluppo»34. B. fu decisamente più intransigente del maestro, opponendosi con forza alla pretesa della fenomenologia che la religione sia una categoria autonoma, innata e universale. Egli riconosceva alla disciplina una spiccata attenzione ai fatti storici, in ragione della quale solo le radici più lontane del fenomeno religioso erano ricondotte ad un’universale natura di homo religiosus; tuttavia «l’apparente impostazione laica (…) non era che il travestimento di comodo di una soggiacente teologia e il riconoscimento della storicità delle singole formazioni religiose non era che una concessione, con la precisa
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Brelich 1966, 3. Cfr. Pettazzoni 1959, 11; Filoramo - Prandi 1991, 76-77; Massenzio 1997, 521. 32 Brelich 1966, 18-19; cfr. Sabbatucci 2000, 149-167. 33 Pettazzoni 1959, 14; Montanari 2001a: 28-30. 34 Pettazzoni 1959, 10; cfr. Pettazzoni 1960, 25. Cfr. Kohl 1988, 244; Spineto 2002; Nanini 2003. 31
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funzione di sottrarne alla storia quelle “ultime radici”»35. B. allinea fenomenologia e teologia che, di conseguenza, si trovano unite sul fronte opposto dello storicismo, il quale, a sua volta, in questa opposizione si definisce in chiave laica. Analoghi i ragionamenti del collega Ernesto de Martino in proposito: l’orientamento fenomenologico, volendo superare l’Erklären, la spiegazione genetica di stampo positivistico, introduceva il Verstehen, la comprensione profonda e partecipata dell’interprete nei confronti dell’oggetto di studio36, valorizzando l’esperienza personale del “religioso”, che avrebbe una sua “realtà”; in sostanza si avrebbe «la ricerca intuitiva delle strutture della esistenza religiosa, colte dal fenomenologo nel calore e nella vibrazione del proprio Erlebnis, col metodo della divinazione e col criterio della evidenza»37. Il punto è che questo “religioso” non è neutro, ma spesso non è altro che Cristianesimo sotto mentite spoglie. Il giudizio storico è quindi influenzato e inficiato dalla fede dello studioso, e quindi non oggettivo38. Ma lo studioso, anche credente, dovrebbe prescindere dai giudizi di valore personali e valutare i fenomeni con la massima oggettività e il maggior distacco possibili, mantenendo rigidamente le distanze tra orizzonte religioso e orizzonte scientifico39. Homo religiosus. Il concetto di homo religiosus trae la sua ragion d’essere dalla convinzione che la religione sia un fatto universalmente umano, anche alla luce della considerazione che tutte le civiltà di cui possediamo una qualche cognizione, dalle più antiche alle più “primitive”, sono in possesso di una qualsiasi forma di religione. 35
Brelich 1979e, 208. Filoramo 1997, 512. 37 de Martino 1953-1954, 3-4; cfr. Massenzio 1997, 480-482. 38 Cfr. de Martino 1953-1954, 9: «il problema della genesi umana della esperienza della potenza divina resta fuori dall’orizzonte». 39 Cfr. de Martino 1953-1954: 10, per cui tale deprecabile interferenza di piani porterebbe ad un’inaccettabile ed immediata «identificazione della materia e della forma del capire». Rinunciando all’analisi del momento cruciale della genesi, «la fenomenologia parte dal rapporto uomo-Dio come da un dato, e cerca quindi di capirlo» (ibid. 13); cfr. de Martino 1957, 90. 36
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B. avanza una serie di puntuali confutazioni che danno voce allo storicismo. Egli sostiene ad esempio che «bisogna stare in guardia di fronte a una concezione ‘linnèa’, quale traspare, appunto dal termine homo religiosus: la ‘qualità’ religiosa deve essersi formata in qualche tempo, come tutte le altre ‘qualità’ e nulla proibisce che a un certo momento scompaia». Le qualità “universalmente umane” in realtà non esistono in senso assoluto, ma «possono considerarsi ‘a-storiche’ ai fini della concreta ricerca storica che non voglia divagare nel ‘pre-umano’ e nel teorico»40. Di più, «se è vero che noi non conosciamo alcuna civiltà storica (…) priva di qualsiasi forma di religione, non abbiamo tuttavia il diritto di estendere il valore di questa osservazione di fatto su epoche sconosciute del passato (…) o del futuro»41. D’altronde, «accogliendo la tesi della religione “innata”, si sposterebbe (…) lo studio delle religioni dall’ambito storico verso quello delle scienze naturali»42. Una volta caratterizzato il concetto di homo religiosus come realtà bio-psichica, «ecco che si può parlare di religione e delle religioni senza che tale materia debba sottoporsi alla critica storica»43. Psicologismo. Uno slittamento dello studio delle religioni dall’ambito storico verso quello delle scienze naturali si avrebbe anche in quello che è stato definito l’orientamento psicologistico44, nel quale «fattori e meccanismi insconsci, largamente comuni e tipici, in determinati stati di coscienza (…) rivestono forme espressive simboliche, ritenute a loro volta corrispondenti ai simboli mitologici: questi avrebbero di conseguenza anch’essi radici nell’“inconscio collettivo”». Lo psicologismo si contrappone allo storicismo nell’ordine
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Brelich 1956, 26-27; cfr. Brelich 1985, 204: «è da tener presente che «qualità umane» statiche e permanenti non esistono: tutte le manifestazioni umane sono sorte nel tempo come espressioni della fondamentale «tendenza» umana; una fase del divenire umano priva di religione non sarebbe meno pensabile di una fase senza il linguaggio o senza strumenti». 41 Brelich 1966, 3; cfr. Brelich 1979c, 139. 42 Ibid. 43 Sabbatucci 2000, 141. 44 Per cui cfr. Filoramo - Prandi 1991, 173-223; Filoramo 1997, 504-508.
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dell’alternativa di fondo tra psiche e cultura, alternativa riflessa sul metodo di studio della religione. Gli argomenti prodotti in nome dello storicismo e della storia sono, anche qui di diverso tipo. Ad esempio, con acutezza osserva il B. che «collettivo non equivale necessariamente a universale; che ‘archetipi’ possono avere una validità collettiva, ma limitata a determinate collettività»45. Così facendo si torna all’assunto irrinunciabile dell’appartenenza della religione alla storia, vale a dire alla cultura: «gli ‘archetipi’ così intesi sono culturalmente determinati e cioè, anziché agire come leggi naturali sull’attività creatrice umana, in ultima analisi ne dipendono, sono suoi prodotti storici»46. «La ‘storia’, intesa in senso stretto, limitato alla creatività esclusivamente umana (…) risulta dalle reazioni ‘culturali’ (…) alle reazioni psichiche universalmente umane». Ad esempio, la mortalità determina la storia umana in senso universale: «a questo fatto biologico l’uomo reagisce psichicamente, in conformità a leggi naturali psichiche, producendo l’‘archetipo’ corrispondente alla primaria esperienza della mortalità; ora, però, tale ‘archetipo’ entra nella storia soltanto attraverso la reazione creativa, culturale»47. Alla supposta pretesa dello psicologismo di isolare degli “archetipi” nelle religioni, sostenendone la validità universale, B. ribatteva che anch’essi risultavano “palesemente condizionati dalla storia”, come ad esempio la “Grande Madre”, inconcepibile, con i suoi connotati agrari, in una religione di cacciatori-raccoglitori48. Valga in definitiva la considerazione che «se (…) le credenze si spiegassero con le leggi della psiche umana, tutta l’umanità avrebbe le stesse credenze»49. Si può ammettere comunque che i fenomeni religiosi
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Brelich 1956, 23; cfr. Pettazzoni 1960, 36: «gli archetipi stessi sono una costruzione dell’uomo (e perciò sono anch’essi storicamente condizionati)». 46 Brelich 1956, 24; cfr. Pettazzoni 1960, 39: «Si è dimenticato che gli archetipi non hanno realtà fuori del pensiero umano che li concepisce. E il pensiero umano li concepisce traendoli fuori dalla sua esperienza vitale quotidiana»; de Martino 1957, 105-107. 47 Brelich 1956, 27-28. 48 Brelich 1979e, 207. 49 Brelich 1966, 7; cfr. Brelich 1979c, 139; Brelich 1979f, 249.
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siano frutto di un’elaborazione non “cosciente” del gruppo umano; è ovvio infatti che «la piena consapevolezza dell’origine umana di una qualsiasi credenza o istituzione religiosa sarebbe sufficiente di per sé a provocarne la scomparsa»50. Irrazionalismo. Nella sua recensione all’opera Umgang mit Göttlichem del suo primo maestro Károly Kerényi, il B. difende innanzitutto la razionalità della ricerca, di contro all’irrazionalità dell’orientamento metodologico kerenyiano, da cui prende nettamente le distanze. Tale presa di posizione di B., concepita in realtà come “apertura”51, portò però purtroppo ad un’insanabile rottura tra i due studiosi52. Uno dei punti contestati da B. si riferisce alla presunta “irrazionalità” del fenomeno: «l’irrazionalità di un fenomeno non deve minimamente influire sulla razionalità del suo studio e, viceversa, la razionalità dello studio non deve tendere a obliterare l’irrazionalità del fenomeno»53. Di qui la forte critica alla posizione di Kerényi secondo cui la storia delle religioni presupporrebbe una «qualità irriducibile», il «religioso», che verrebbe a trovarsi pertanto al di fuori della storia e per essere studiato necessiterebbe da parte dello storico delle religioni di una «propria religiosità» (eigene Religiosität), così come lo storico dell’arte dovrebbe avere in sé «qualcosa di artistico»54. Ma a differenza dell’arte, la religione, per Kerényi, col trascendere le opere in cui si concreta, presupporrebbe un «prima» (Bevor), un grado precedente al concretamento (vor-werkliche), che consisterebbe nel «nudo contatto con il divino», quest’ultimo presupposto in tutto ciò che è religioso, non solo quindi nei concreti fenomeni nei quali esso si esplica55.
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Brelich 1979c, 163. Spineto 2003, 400 ss. 52 Sui rapporti tra B. e Kerényi cfr. Brelich 1979a, 24-26, 62-64; Di Donato 2002; Spineto 2003; Montanari 2010. 53 Brelich 1956, 7. 54 Ibid., 11-12. 55 Ibid., 13-14. 51
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B. rifiuta la posizione del suo primo maestro secondo cui la religione non può aver tratto le sue origini «da qualcosa che non fosse religione»: «la religione, certo, non nasce dalla non-religione, ma può formarsi, per esempio, per via di specificazione e di cristallizzazione di istanze umane o culturali indistintamente religiose e non religiose». Per parlare di un Bevor della religione, «mi sembra che ci si debba riferire proprio a quella condizione indistinta: non per niente, fondamento di ogni qualsiasi religione è la separazione del sacro dal profano», separazione che «necessariamente presuppone un anteriore stato d’indistinzione e permette di ricercare i moventi e le condizioni culturali che rendono possibile o necessaria la sua attuazione»56. Il limite grave dell’irrazionalismo in ultima analisi «è quando si ferma, nell’interpretazione dei fenomeni religiosi, davanti all’‘irrazionale’ come ultima ‘spiegazione’, anziché di chiarire (…) i meccanismi dei bisogni e reazioni che, nelle singole civiltà, producono i fenomeni religiosi, anche se tali meccanismi restano ignoti al soggetto religioso»57. Il suo torto fondamentale «sta nella convinzione che all’esperienza sui generis” del “sacro”, irriducibile a ogni altra categoria dell’esperienza, “debba rispondere, anche in re, qualcosa di sui generis, il ‘sacro’ stesso, concepito (…) come obiettivamente esistente»58. In opposizione a tutti questi orientamenti dunque, il B. ribadisce e sottolinea come l’impostazione sottesa allo studio scientifico delle religioni debba essere rigorosamente storicistica. Il fatto di riconoscere qualcosa di immutato nell’umanità, anch’esso tuttavia «costituito storicamente in epoche estremamente remote», non deve far «recedere neanche di un passo dallo storicismo: l’indirizzo non dipende dalle teorie “ultime” che sono probabilmente piuttosto le sue
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Ibid., 17. Brelich 1966, 38. 58 Ibid., 65; cfr. de Martino 1957; Mastromattei 1982, 374: l’irrazionalismo opera quindi con un «atteggiamento fondamentalmente neo-platonico, per cui le forme concrete dell’esperienza religiosa troverebbero la loro più vera ed autentica collocazione in una sfera sottratta agli accadimenti ed alle circostanze in cui si sono realizzate le varie società umane». 57
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proiezioni e che restano (…) indimostrabili»59. In realtà non si è mai trovata una struttura unica che caratterizzi tutte e solo le religioni, ma se anche per assurdo la si trovasse, essa andrebbe comunque ricondotta esclusivamente alla storia60. Di qui la critica, a volte sottesa, a volte meno, anche a chi riteneva che lo storicismo costituisse solo «un’opzione filosofica, cioè un preconcetto (leggi: non meno ingiustificato e scientificamente compromettente dei preconcetti fideistici)», per cui il B. ribatteva che, comunque, «al mestiere dello storico l’“opzione” storicista” è “più confacente di ogni altra: lo storico, in quanto tale, cerca, ed esclusivamente, le ragioni storiche, cioè umane, di ogni formazione culturale (e perciò anche religiosa) e abdicherebbe al suo mestiere nel momento stesso in cui ammettesse la sola possibilità di un intervento di fattori sovrumani nella storia o fondasse giudizi su valori “assoluti” prestabiliti da Dio o chi per lui»61. Volendo spingerci ancora più in là: «anche se noi riteniamo che una determinata religione sia quella ‘giusta’ e le altre erronee, restiamo sempre davanti al compito storico di spiegare come in una civiltà si sia costituita o diffusa la ‘giusta’ religione, e come nelle altre (…) religioni ‘false’; a questa questione storica – non risponde – dal punto di vista scientifico – neppure la tesi della ‘rivelazione’,
59
Brelich 1979e, 212. Brelich 1966, 4; Brelich 1979f, 249; per le recenti riprese dell’orientamento fenomenologico, cfr. Xella 2003, 232-239. 61 Brelich 1979e, 207. Cfr. Lanternari 1997, 78: fenomenologia e teologia operano «assumendo i fatti religiosi nella loro astrazione, staccati dalla storia culturale, sociale, politica entro cui sono calati»; de Martino 1953-1954, 21: «la storia del sacro cede il luogo ad una più o meno dissimulata storia sacra»; de Martino 1957: 90: «con ciò la storia delle religioni entra in un non componibile dissidio con la teologia, fondata invece sull’opposta persuasione che all’inizio del processo ierogenetico non sia l’uomo storico, ma Dio»; Gasbarro 1988, 297: «ci possono essere in una cultura fenomeni etichettabili dallo storico come metastorici (…), ma una cosa è leggere questi fenomeni come manifestazioni-concretizzazioni di un noumeno ontologicamente o teologicamente presupposto come vero e reale, un’altra è guardare ad essi come ad invenzioni culturali completamente umane». Da ultimo (in particolare in riferimento all’impostazione di J. Wach) cfr. Rüpke 2007, 31. 60
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perché rimarrebbe sempre da chiedersi perché la rivelazione sia stata accolta da una parte dell’umanità e non da altre parti di essa». Pertanto: «dal punto di vista storico è irrilevante se una credenza sia ‘giusta’ o ‘sbagliata’»62; «anche lo storico credente, finché studia la storia delle religioni, deve sapere prescindere dalla propria fede, perché non appena introduce nell’interpretazione di un fatto religioso fattori sovrumani (…), egli rinuncia al mestiere dello storico, che è quello di cercare di rendere conto delle ragioni umane che hanno prodotto un fenomeno culturale, un evento, una situazione, ecc.»63. La religione va studiata nella storia e solo in essa. Da una parte perciò vi sono «coloro per i quali niente di essenziale è mai cambiato, può cambiare o deve cambiare il mondo; tutto è deciso sin da sempre», da quando, a seconda delle posizioni, Dio ha creato il mondo e l’uomo o comunque da quando quest’ultimo esiste; dall’altra parte «stiamo noi, stanno coloro per i quali la partita è aperta, per i quali c’è stata, c’è e ci sarà storia», per i quali «l’uomo di oggi non è proprio quello di sempre e nemmeno quello di una generazione fa e per i quali il domani dell’uomo dipende anche da ciò che sta già facendo»64. I due campi vengono ad essere pertanto uno «sia pur inconsciamente religioso o teologico e l’altro integralmente laico; uno sostanzialmente conservatore (…) e l’altro impegnato nel presente e aperto al futuro»65. E allora anche l’«opzione» diventa «storica»: «anche questa posizione genericamente umana mi appare inseparabile dalla posizione dello storico: preferisco d’aver “scelto” così,
62
Brelich 1966, 7. Brelich 1979f, 249-250; cfr. Pettazzoni 1959, 10: voler affiancare alla religione un altro valore oltre a quello culturale – quindi umano – assegnandole un “valore autonomo”, porterebbe a voltare le spalle all’idea di svolgimento, che è invece «al centro del pensiero storicistico»; Sabbatucci 2000: 128-129, «Fare storia delle religioni secondo l’insegnamento di Pettazzoni, significa accettare la sua problematica e il relativo metodo di ricerca, per cui storia religiosa e storia politica sono un tutt’uno: sono storia culturale». 64 Brelich 1979e, 209; cfr. tuttavia Casadio 2005, 4046: «In stark opposition to phenomenology and any other irrationalist approach, Brelich stresses the omnipresence of history as a factor of total explanation, a concept that in his illusory persuasiveness is clearly conditioned by a positivist mentality». 65 Brelich 1979e, 209-210. 63
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perché nello stesso poter scegliere trovo la giustificazione della mia posizione: non tutto è determinato sin da sempre, se io posso ancora scegliere. La storia sta, appunto, in scelte»66. Dunque perché storicismo? «Basta la semplice risposta: perché solo lo storicismo risponde ai fatti obiettivi»67. Ma allora quale storicismo? «Lo storicismo che noi contrapponiamo a ogni indirizzo antistorico, si fonda anzitutto sul fatto obiettivo del continuo (…) mutare delle culture e sul riconoscimento che esso dipende dalle forze creative delle società umane, che si esplicano nelle varie forme della conservazione e dell’innovazione. Questo storicismo prescinde da ogni presupposto metafisico (…) e si realizza nell’individuare i fattori che mettono in grado, di volta in volta, di procedere alla scelta di una soluzione culturale. Esso mira a comprendere la novità e la portata di ogni siffatta soluzione mediante il confronto con la situazione precedente e con altre soluzioni scelte in situazioni analoghe (…) da altre società: donde la sua dimensione comparativa da cui nessuna storiografia può prescindere sotto pena di esaurirsi in mera cronaca locale»68.
66 67 68
218
Ibid., 210. Ibid., 218. Ibid., 222.
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INDICE ANALITICO1
Adriano 118 aedituus 110 Afrodite Ἀνϑεία 122 Agonium 166 ss. Agrippa 119 Ahura Mazda 82 Aius Loquens/Locutius 104 Alba Longa 133 ss., 166 Albinio Lucio 43 Alcis 65 Alessandro Magno 59 Alföldi A. 161 Alfonsi L. 111 ss. Allodius/Amulius/Aremulus 133 Amarillide 117 n. 81 Ambrosiaster 122 Ammiano Marcellino 58, 64 n. 206 Amor 18, 24, 118 ss. Anco Marcio, 52 Angerona, 111, 121, 166 ss. Ἄνϑουσα 117, 125 n. 119 Annibale 54, 104 Appiano 33
1
Apollo 16, 41, 65, 130, Medicus 145, Pizio 131 Ardea 150 Ares 121 n. 102 Aristomene 126 Artemide 16, 41, 53 Ascanio 138 ss. Asclepio 54 Atena 43, 125, 168 ss. Atene 41 Attalo 54 Attis 68 Augusto 32, 113, 120, 127 Aureliano 68 Aurelio Marco 59 Aurora 139 ss. Aventino 22, 52 ss. Azio 17 Baal 68 Babilonia 133 Basanoff V. 11 ss., 23, 62, 68, 71 ss.
Per ovvi motivi non si riportano le voci Brelich A., evocatio e Roma.
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Bayet J., 12 188 ss. Beard M. 197 Bellona 68 bellum iustum 42 Benveniste E. 15 Bianchi U. 204 Blomart A. 39, 50 Boghazköi 73 ss. Bouché-Leclerq A. 21 Bona Dea 102 n. 4 Bonus Eventus 104 Briquel D. 133 Brizzi G. 112 Bruto 130 n. 9 Caco 116 Caeculus 170 ss. Caere 43, 60, 151 n. 110 Callifana/Callifena 51 Campidoglio 116, 141, 145 n. 84 Canne 130 Capua 49 carmen evocationis 29 ss. carmina Marciana 35 Cartagine 15, 29 ss. Cassio Dione 153 Castores 22 Catone 116 Cecilio Metello, 125 n. 120 Cercusio 58 Cerere 51 ss., 65 Cesare 16, 65, 120 Cicerone 51, 100, 105, 132 Ciro 133 civis 15 civitas 15 Claudiano 113
246
Claudio 21 ss., 41 n. 56, 154 Coarelli F. 16 Cocidius 65 Concordia 141 ss. consecratio 32, 89 Consus 13, 166 Cornelio Labeone 31 Cornelio P. Scipione Africano 34 Cornelio P. Scipione Emiliano 31 ss. Costantino 117, 125 n. 119 Costantinopoli 41 n. 56, 125 n. 119 Cremera 150 Croce B. 204 Ctesifonte 64 cuniculus 25, 129 ss. D’Arco I. 153 Dea Roma 18, 117 n. 81 defixio 102-103 dèi di Mitanni 99-100 Delfi 129 ss. Della Corte F. 110 ss. de Martino E. 204, 211 Demetrio Poliorcete 54 Democrito 104 n. 25 devotio (hostium) 30 ss., 57 ss., 76, 89, 98, 108 dialettica precosmico-cosmico 14 Diana 52 ss., 67, Aricina/Nemorensis 13, 137 ss., 166 Diodoro Siculo 154 Diomede 45 Dionigi di Alicarnasso 135 ss. di penates/Penati 18, 43 ss., 170 Dirce 126 disciplina 33 ss.
Indice analitico
Dumézil G. 12, 16, 23, 77 ss., 133 ss., 187 ss. Dionysos 17 Dis Pater 61 Edipo 126 Efeso 16, 53 Elagabalo 41 n. 56 Elea 51 Emilio L. Paolo 32 Enea 18, 43, 120, 138 Epaminonda 126 Epidauro 54 Era 16, 41, 55 Ercole/Hercules 66, 126, 166 Erittonio 169 Eros 24, 117 ss. Etrusca disciplina 130, 137 Etruscum nomen 15, 32, 60 Evandro 116 “evocatio” ittita 17, 23, 26, 71 ss. evoluzionismo 208-209 exauguratio 34, 97 ss. excantatio 12, 33, 75 exoratio 37, 97 exsecratio 89 exta 31, 35, 38, 55 n. 158, 91, 144, 156 Fabio Pittore 130 Falerii 15 ss., 39 ss. fascinus 13, 170 fenomenologia 210 ss. Ferie Latine 130 ss. Ferri S. 22 Festo 23 36, 46 ss. fetiales 42
Fidene 60 ss., 156 Filottete 126 flamen Quirinalis 171 Flaminio C. 147 Flavio Stilicone 113 Flora 18, 24, 54, 79, 117 ss. Floralia 122 Fons 135 Fontinalia 135 Fortuna 16, 164 ss., huiusce diei 104 Fozio 118 Friedrich J. 71 ss. Fucino 154 Furio M. Camillo 25, 30 ss., 98 n. 123, 129 ss. Furio L. Filo 31, 38 Furrina 134 Furrinalia 134 Gabba E. 32, 185, 196 Gallia Comata 22 genius 17 ss., 164 ss., loci 17 ss., urbis Romae 18, 119 Gerusalemme 17 Giano 119 n. 90, 166 ss. Giovanni Lido 78 ss., 117 ss. Giove/Iuppiter 61, 73, 78, Laziare 137 ss., Ottimo Massimo 34, 67, 115, 138, 171 Giuliano 58 ss. Giunone/Iuno 16, 22 ss., 45, 138, 140, Caprotina 60, Celeste 23, 29 ss., Curite 39 ss., 155 n. 135, Moneta 147, Perusina 32, Regina 22, 29 ss., 80 n. 48, 131 ss., Sospita 13, 16, 166 Graziano 127 n. 129
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haruspices 143 ss. Hattusa 80 n. 49, 95 Hercules 13 homo religiosus 211-212 Hubaux J. 144, 152 Humbert M. 50
Livio 30 ss., 116, 132 ss. Lucano 125 Lucrezio 120 ludi Magni 141, 147 Luna 166 Lupercalia 170
interpretatio 14 ss., 22, 64 ss. irrazionalismo 214-215 Isaura Vetus 38, 62 Iside 136 Ištar 74 ss. Iulia gens 120 ius pontificale 34
Mâ 68 Macrobio 29 ss., 106 ss., 166 Manes 61 Marte/Mars 65, 73, 78, 116 ss., 138, 171 Mater Magna/Cibele 47, 54, 67 ss., 145 Mater Matuta 16, 131, 139 ss. Matralia 139 ss., 167 n. 21 Mecenate 32 Meillet A. 12 Mercurio 65 ss. Messene 126 Minerva 52, 65, 138, Capta 16, 40 ss. Minucio Felice 44 “mitizzazione” romana 158 ss. Mommsen T. 111 monoteismo primordiale 209-210 Monte Albano 130 mos maiorum 16, 21 ss. mugawar 81 ss.
Jung C. G. 13, 181 Kerényi K. 13, 26, 161, 181 ss., 214 Kirsopp Michels A. 191 Kizzuwatna 83 ss. Lago Albano 129 ss. LAMA 84 Lanuvium 16 Latte K. 32 Lavinium 138, 166, 170 lectisternium 145 Le Gall G. 50 leges Liciniae-Sextiae 140 ss. lex Iulia 113 lex Plautia Papiria 113 lex Pompeia 113 Libanio 42 libri fatales 132, 142 libri Sybillini 16, 23, 47 ss., 121, 142 ss. litatio 31
248
Nemi 148 ss. Nerik 86 Neptunalia 134 Nettuno 133 ss. Nilo 136 153 Numanzia 59 ss. Numa Pompilio 172, 178
Indice analitico
Ogulnio Q. Gallo 54 Omero 31 Ops Consiv(i)a 13, 166 ss. Orazio 116 Ostia 123 n. 111 Ovidio 17, 40, 136 n. 37 Palatino 52 ss., 116 Palatium 11 Pales 13, 166 ss. Palladio (autore) 134 Palladio (simulacro) 25, 41 n. 56, 45, 125 ss. Pallanteum 116 Pantheon 119 Parilia 119, 171 Pascoli G. 118, 128 pax de(or)um 42, 56, 82, 131 Peppe L. 34 perduellio 11, 108 n. 42 peregrina sacra 23, 36, 46 ss. Perugia 31 Pettazzoni R. 12 ss., 26, 162, 182 ss., 203 ss. Pfister F. 32 pignora imperii 125, 145 Pizia 131, 146 Plinio 29 ss., 105 ss. Plutarco 35 ss., 109 ss., 135 ss., 171 Polibio 32 polis 15 polites 15 pomerium 22, 50 ss., 112 Pompei 123 Pompeo 115 pontifex maximus 25, 125 ss.
pontifices 21 ss., 34, 48 ss., 114, 125 Priapo 170 prodigia 48, 55, 130 ss. Promathìon 171 Prudenzio 122 psicologismo 212 ss. Puccini G. 127 Quirinale 118 Quirino/Quirinus 73, 138 Rea Silvia 171 Rediculus 104 Remo 52, 171 “riplasmazioni coerenti” 14 “rivoluzione antigenetica” 23 Robigalia 136 n. 37 Ῥωμαῖα 119 Roma Quadrata 116 Romolo 120 ss., 171 Rüpke J. 63 Rutilio Namaziano 113, 121, 127 Sabbatucci D. 193 ss. Sammonico Sereno 31, 38, 107 Samo 16 Satricum 16 Saturnia 116 Saturno 41 n. 56, 65 Scullard H. H. 152 Serapide 118 Šeri e Ḫurri 76, 90 ss. Servio 31 ss., 104 ss. Servio Tullio 53, 169 ss. Settimio Severo 32 shekinah 17
249
Giorgio Ferri
Silla 112, 115 Silvano 67 Simmaco 122 Siracusa 41 Sirio 134 ss. si(ve) deus si(ve) dea 38, 73, 164 Sofocle 126 Solino 118 Sol Indiges 138 Sol Invictus 68 Sparta 41, 121 n. 102 strutturalismo 209 Tacito 16, 65, 114 talliyawar 81 ss. Tanit 23 Tarquinio il Superbo 130 n. 9, 144 Tavole Eugubine 105 n. 27 Tebe 126 Telipinu 87, 95 ss. Tellus 61 Tertulliano 44 Teseo 126 Tešub 76, 89 ss. Tiberino 138 Tiro 16 Tito 105 Trasimeno 148 Troia 18, 43 ss., 125, 131 ss. Turchi N. 185 Tutilina 113 Tyche 41 n. 56, 117 ss.
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Ulisse 45, 131 Uni 22 Valentia 18, 116 ss. Valerio Edituo 105, 110 Valerio Massimo 35, 51 Valerio Sorano 18, 25, 104 ss. Varrone 105 Veio 15, 22, 25, 29 ss., 129 ss. Veiovis 61 Velia 118 Venus/Venere 79, 118 ss., Erycina 22 Verrio Flacco 31, 58 Versnel H. 61 Vesta 13 ss., 125, 164 ss. Vestalia 166 ss. Virbius 13, 166 Virgilio 31 ss., 116 virgo Vestalis maxima 125 ss. viri sacris faciundis 48, 143 Volsinii 15, 39, 58, 132 n. 18 Volupia 121 Vortumnus/Voltumna 39, 55, 154 n. 130 votum 11, 16, 29, 38, 50, 61 Vulcano 169 ss. Weinstock S. 189 ss. Wissowa G. 11, 16, 32, 50, 62, 64 Wohleb L. 17, 76 ss.