Acerrima indago. Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C. [2 ed.] 9788892103313

Il carattere della repressione criminale nella tarda antichità è oggetto da tempo di vivaci discussioni. In questo studi

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Italian Pages IX,194 [209] Year 2016

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Premessa
INTRODUZIONE. PASSATO E PRESENTE DI DUE MODELLI PROCESSUALISTICI
CAPITOLO 1 -MODELLI: ORIGINI, DEFINIZIONI, IMPIEGO
CAPITOLO 2 - SI LEGES PUBLICAS INTERROGAMUS, ACCUSATOREM EXIGUNT. UNA VICENDA ESEMPLARE
CAPITOLO 3 - ASPETTI DEL PROCEDIMENTO PENALE DURANTE IL REGNO DI COSTANTINO
CAPITOLO 4 - LA DINASTIA DI COSTANTINO
CAPITOLO 5 - LA DINASTIA DI VALENTINIANO
CAPITOLO 6 - VERSO LA FINE DEL IV SECOLO
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
BIBLIOGRAFIA E INDICE DELLE ABBREVIAZIONI
INDICE DELLE FONTI
INDICE DEI NOMI
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Acerrima indago. Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C. [2 ed.]
 9788892103313

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Acerrima indago Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

In copertina: Frammento di statua colossale di Costantino, Roma, Musei Capitolini.

Antonio Banfi

Acerrima indago Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C. Seconda edizione

G. Giappichelli Editore – Torino

© Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0331-3

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

a Rodolfo

VI

Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

Indice-Sommario

VII

INDICE-SOMMARIO

pag. PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE

XI

INTRODUZIONE PASSATO E PRESENTE DI DUE MODELLI PROCESSUALISTICI 1. 2. 3.

Ragioni di un rinnovato interesse Un ribaltamento di prospettive Aspetti metodologici

1 3 11

CAPITOLO 1 MODELLI: ORIGINI, DEFINIZIONI, IMPIEGO 1. 2. 3.

Origini Definizioni L’iniziativa

15 17 25

CAPITOLO 2 SI LEGES PUBLICAS INTERROGAMUS, ACCUSATOREM EXIGUNT. UNA VICENDA ESEMPLARE 1. 2. 3. 4.

I crimini di Indicia Avvio del processo: metodi inquisitori Avocazione: rito accusatorio? Il significato della vicenda di Indicia

31 35 43 48

VIII

Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

pag. CAPITOLO 3 ASPETTI DEL PROCEDIMENTO PENALE DURANTE IL REGNO DI COSTANTINO 1. 2. 3.

4. 5. 6. 7.

Premessa Tracce di metodi inquisitori Degenerazioni dell’accusa: la calunnia 3.1. L’edictum de accusationibus 3.2. Automatismi 3.3. Pubblicità dell’accusa Un processo accusatorio? Incentivi all’accusa e procedure d’ufficio Delazioni e denunzie anonime Il procedimento criminale in età costantiniana

53 54 68 69 74 76 80 82 87 92

CAPITOLO 4 LA DINASTIA DI COSTANTINO 1. 2.

3.

Premessa La legislazione di Costanzo II e Costante 2.1. Inquisitio del giudicante 2.2. I libelli famosi 2.3. L’iniziativa processuale: violazioni di sepolcri 2.4. Segue: il falso nummario 2.5. La posizione dei funzionari di polizia La prassi giudiziaria nella testimonianza di Ammiano

97 98 98 100 102 105 107 109

CAPITOLO 5 LA DINASTIA DI VALENTINIANO 1.

2.

La legislazione di Valentiniano I e Valente (364-375) 1.1. Garantismo all’interno di un sistema inquisitorio? 1.2. Orientamenti inquisitori La politica giudiziaria di Valentiniano I e Valente nella testimonianza di Ammiano

119 120 128 133

Indice-Sommario

IX

pag. CAPITOLO 6 VERSO LA FINE DEL IV SECOLO 1.

2.

3.

Dalla morte di Valentiniano I all’ascesa di Teodosio il Grande (375-379) 1.1. L’accusa nei processi per crimen maiestatis 1.2. L’accusa nell’incidente di falso 1.3. Il giudice dominus del processo La legislazione di Teodosio (379-395) 2.1. La detenzione preventiva 2.2. Par condicio fra accusatore e accusato? 2.3. Carattere personale dell’accusa 2.4. «Garanzie» per l’imputato attraverso la decadenza e la criminalizzazione dell’accusa privata 2.5. L’accusa-denuncia dei privati al servizio della repressione penale 2.6. Accusa privata e indagini d’ufficio nella repressione dell’eresia Testimonianze da fonti non legislative

141 141 143 146 147 147 149 152 154 156 160 165

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

171

BIBLIOGRAFIA E INDICE DELLE ABBREVIAZIONI

175

INDICE DELLE FONTI

185

INDICE DEI NOMI

191

X

Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE

In questa nuova edizione gli interventi sul testo originario sono di scarsa importanza; importante, invece, è l’integrazione dei passi citati con la traduzione in lingua italiana. Nella prima edizione mi sono attenuto all’uso, consolidato presso gli studiosi di antichità, di pubblicare i testi citati nella sola lingua originale. Mi sono reso conto, poi, che la conoscenza delle lingue antiche è in declino, e che la mancanza delle traduzioni pregiudica la comprensione dello scritto, non solo da parte degli studenti, ma anche da parte di studiosi di discipline non antichistiche, che potrebbero essere interessati alla materia trattata. Se dunque le lingue antiche rischiano di diventare un fattore di isolamento per le discipline storiche del diritto, meglio procedere alla traduzione, pur sempre affiancata al testo originale. Inoltre, non si può negare che i testi della tarda antichità e in particolare quelli legislativi possono porre difficoltà non piccole a chi li voglia affrontare nella lingua originale. Nell’eseguire le traduzioni ho fatto del mio meglio per mantenere lo stile, talvolta involuto, della prosa tardoantica, almeno per quanto me lo hanno consentito i vincoli della lingua italiana corrente. In alcuni casi ho mantenuto in originale termini tecnici che mal si prestano ad essere tradotti e il cui significato è comunque, per lo più, chiarito nel testo. Sono consapevole che l’opera del traduttore è tutt’altro che neutra: infatti, chiarisco fin d’ora che le mie traduzioni sono per forza di cose il frutto di un lavoro interpretativo, e si accordano quindi con le tesi espresse nel volume. Lascio alla benevolenza del lettore di giudicare il risultato. Concludo ringraziando di cuore il prof. Ennio Amodio per le osservazioni e i suggerimenti relativi all’introduzione e al primo capitolo, e il prof. Giovanni Luchetti per le critiche e i consigli attinenti alla restante parte del volume. Milano, 17 marzo 2016

XII

Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

INTRODUZIONE PASSATO E PRESENTE DI DUE MODELLI PROCESSUALISTICI SOMMARIO: 1. Ragioni di un rinnovato interesse. – 2. Un ribaltamento di prospettive. – 3. Aspetti metodologici.

1. RAGIONI DI UN RINNOVATO INTERESSE Dopo la caduta del fascismo, il sistema di repressione penale non fu smantellato e ricostruito dalle radici, come pure ci si sarebbe potuto aspettare. Il Codice Rocco, entrato in vigore nel 1930, rimase intatto nell’ordinamento repubblicano per circa un decennio 1, benché esso fosse una limpida espressione dei principi del caduto regime: il processo penale, per come esso era stato disegnato dal Guardasigilli Rocco aveva, fra l’altro, chiaro carattere inquisitorio. Come ricorda Franco Cordero, nella visione di Rocco contraddittorio e garantismo dovevano essere estirpati perché in odore di democratismo; non solo, la stessa difesa andava estromessa e le sue attribuzioni sminuite, poiché essa sarebbe stata unicamente d’ostacolo all’onniscienza degli organi preposti. Anzi, richiedere spazio per la difesa avrebbe potuto essere interpretato come segno di sfiducia verso l’autorità ed il regime stesso 2. Rocco, del resto, diffidava dello stesso principio di presunzione d’innocenza, sicché non stupisce di trovare la difesa totalmente estromessa dalla fase istruttoria, i cui verbali erano purtuttavia largamente utilizzabili in dibattimento 3. Con l’avvento della Repubblica si moltiplicarono gli interventi correttivi sull’opera di Rocco, sia da parte del legislatore, che della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione; prese così forma il cosiddetto «garantismo inquisitorio» 4.

1

CORDERO (2006), p. 87.

2

CORDERO (2006), pp. 86-87.

3

ALESSI (2001), p. 195 ss.

4

CORDERO (2006), p. 87 ss.

2

Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

La «lunga durata» del Codice Rocco 5 si spiega con una serie di motivi, attinenti sia a una sorta di conservatorismo della dottrina, sia al moltiplicarsi di situazioni emergenziali, dal fenomeno mafioso al terrorismo, che finirono per frenare in modo significativo il dibattito sull’adozione di procedure di stampo accusatorio, per quanto se ne discutesse attivamente già dagli anni ’70 dello scorso secolo 6. È solo con gli anni ’80 che si delinea un generale orientamento favorevole all’adozione di una procedura accusatoria, che condurrà alla redazione del nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore il 24 ottobre 1989. Con il completamento del nuovo codice non si spense la riflessione – e con essa il dibattito politico – sui modelli processuali e sui benefici offerti da quello accusatorio: anche perché nel 1994 veniva firmato l’undicesimo Protocollo che modificava l’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, introducendo la rubrica intitolata «Diritto a un processo equo». Un evento, quest’ultimo, che contribuì ad aprire la strada alla riforma costituzionale del 1999, che portò all’inserimento nella Costituzione dell’art. 111, evidentemente ispirato a modelli procedurali di stampo accusatorio 7. Non è certo mia intenzione esplorare in questa sede le complesse vicende della storia della procedura penale in Italia e del relativo dibattito politico e dottrinale. A mio avviso esse meritano comunque di essere richiamate poiché contribuiscono a spiegare il perché di una rinascita, specialmente nell’ultimo ventennio, degli studi di diritto penale romano dedicati alla procedura e in particolare al tema dei caratteri dei modelli processuali prevalenti nell’esperienza giuridica romana. Il dibattito intorno al cosiddetto «giusto processo», le discussioni intorno alla riforma del processo penale e la crescente attenzione rivolta al modello accusatorio tradizionalmente proprio dei paesi di common law, sono tutti fattori che hanno certamente contribuito a riaccendere l’interesse degli storici del diritto per lo studio del processo penale romano 8, favorendo perfino comparazioni fra esperienza giuridica romana ed europea 9. Che ciò si sia verificato nonostante la notevole distanza concettuale che sepa-

5

L’espressione è di ALESSI (2001), p. 191.

6

Cfr. ad es. la l. 3 aprile 1974, n. 108, art. 2, c. 1: «Il Codice di Procedura Penale […] deve attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio». 7 Su questi punti mi limito a rimandare a AMODIO (2004), GRASSO, SICURELLA (2007), p. 220 ss.; SIRACUSANO et al. (2011), vol. 1, p. 42 ss. 8

Cfr. VENTURINI (2002), p. 195 ss.

9

Cfr. ad es. CERAMI et al. (2003).

Passato e presente di due modelli processualistici

3

ra l’odierna scienza processualpenalistica dal mondo giuridico romano 10, non stupisce. L’opera dello storico, e dunque anche quella dello storico del diritto, non può non essere condizionata dalle vicende dei suoi tempi e, del resto, la stessa riflessione ottocentesca sul processo penale romano, a partire da quella di Mommsen, risentiva del dibattito coevo sul rapporto fra forme di governo e riti processuali 11.

2. UN RIBALTAMENTO DI PROSPETTIVE Accade così che la recente storiografia romanistica si sia esercitata nel collocare le diverse forme assunte dalla procedura penale romana in questo o quel modello processuale, talora ribaltando opinioni consolidate. In effetti, fino a non molto tempo fa la communis opinio intravedeva un disegno piuttosto lineare nell’evoluzione della procedura penale romana: il processo comiziale (iudicia populi) era considerato come un tipo processuale tendenzialmente accusatorio, in qualche modo imparentato con analoghi modelli di origine greca, nei quali la collettività (ossia l’insieme dei cittadini dotati di pieni diritti politici e tendenzialmente coincidente con l’esercito) assumeva su di sé, fra le altre, la funzione giudicante 12. Il modello accusatorio, con le sue caratteristiche «arcaiche», derivato da una sorta di ordalia sublimata e per questo particolarmente adatto ad assicurare la partecipazione di tutta o parte della collettività all’esercizio della funzione giudiziaria, in forma di giuria 13, si sarebbe poi riproposto in forma pressoché pura attraverso le quaestiones perpetuae, caratterizzate dall’attribuzione al quivis de populo della facoltà di avviare il processo penale e di svolgervi in prima persona il ruolo processuale di accusatore 14, fatto salvo l’apparire, nel II secolo a.C. della procedura tipicamente inquisitoria delle quae-

10

Cfr. BASSANELLI SOMMARIVA (1986), p. 338 ss.

11

Cfr. BOTTA (1996), p. 18 ss.

12

Per i riferimenti bibliografici e alle fonti per quanto concerne iudicia populi, quaestiones extraordinariae e quaestiones perpetuae, mi limito a rinviare, fra gli altri, a SANTALUCIA (1998), p. 84 ss. Da notare, peraltro, che secondo Santalucia gli iudicia populi erano un processo con «carattere tipicamente inquisitorio»: tale giudizio si fonda sul fatto che il procedimento era promosso ex officio dal magistrato e sull’ampio uso di informatori (p. 84 e n. 46). Chi scrive non ritiene che questi aspetti del processo comiziale siano sufficienti a iscriverlo nel quadro del modello inquisitorio. Cfr. in proposito CERAMI et al. (2003), p. 24 ss. che ricorda come «il magistrato, inquirente ed accusatore, assumeva il ruolo di parte processuale in contraddittorio con l’accusato [...] il ruolo super partes del comizio, il contraddittorio fra accusato ed accusatore, la pubblicità degli atti conferivano al “rito” dei iudicia populi un carattere fondamentalmente accusatorio» (p. 25). 13

Vedi infra, p. 24 ss.

14

CERAMI et al. (2003), p. 79 ss.; STRACHAN-DAVIDSON (1912), vol. 1, p. 205 ss.

4

Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

stiones extraordinariae, sorta di tribunali speciali destinati alla gestione di situazioni emergenziali, caratterizzati dalla coincidenza della funzione inquirente e giudicante in capo al magistrato preposto alla quaestio 15. Infine, con la caduta della Repubblica e il progressivo affermarsi della procedura per cognitiones extraordinariae, si sarebbe assistito a una graduale affermazione, nel sistema di repressione penale, della procedura inquisitoria, avviata per lo più ex officio dalle autorità competenti. Un fenomeno che si riteneva fosse coerente con la burocratizzazione di un sistema giudiziario che si connotava come espressione di un potere verticale di derivazione imperiale, con l’adozione del rimedio dell’appello, e con le esigenze repressive e di controllo sociale tipiche di un sistema politico avviato verso l’affermazione, via via più esplicita, dell’autocrazia. Seguendo questa ricostruzione, il percorso evolutivo della struttura istituzionale dell’Impero, dal Principato – ancora, sia pur solo formalmente, almeno in parte rispettoso della tradizione politico-istituzionale di origine repubblicana – al dominato, avrebbe visto un parallelo rafforzamento delle procedure inquisitorie, in ossequio al principio per cui le forme in cui si esercita la sovranità, in quanto espressione dinamica della statalità 16, a partire dalla repressione penale 17, altro non sono se non lo specchio di una determinata concezione dello Stato e della cosa pubblica 18. Si potrebbe dunque dire che, secondo una dottrina già molto risalente, la vita del processo penale romano sarebbe iniziata nella sfera dell’accusatio, per terminare in quella dell’inquisitio 19, fatto salvo, in taluni casi, l’interesse dell’offeso all’esercizio dell’accusa, quest’ultima – tuttavia – da intendersi più come denunzia che come assunzione di un ruolo processuale 20. Spesso citate, a proposito dell’affermazione del modello inquisitorio già ben prima del dominato, sono alcune fonti di età severiana, a partire da un ben noto passo di Ulpiano, tratto dal libro settimo del De officio proconsulis e relativo ai compiti del governatore provinciale: Congruit bono et gravi praesidi curare, ut pacata atque quieta provincia sit quam regit. Quod non difficile optinebit, si sollicite agat, ut malis hominibus provincia careat eosque conquirat: nam et sacrilegos latrones plagiarios fures conquirere debet et prout 15

CERAMI et al. (2003), p. 28 ss.; SANTALUCIA (1998), p. 97 ss.

16

Cfr. BERTI (2007), p. 267 ss.

17

Su sovranità e repressione penale cfr. CORDERO (1986), p. 65 ss.

18

Si veda in proposito infra, p. 17 ss.

19

Cfr. già BINDING (1864), p. 3. Secondo un’abitudine diffusa, uso qui i termini inquisitio e accusatio come sinonimi di processo accusatorio e inquisitorio, pur sapendo che tale uso è assente dalle fonti giuridiche romane. 20

Cfr. LAURIA (1983), p. 294 ss.

Passato e presente di due modelli processualistici

5

quisque deliquerit, in eum animadvertere, receptoresque eorum coercere, sine quibus latro diutius latere non potest 21.

Il passo, in effetti, pare indicare che al governatore spettava non solo l’esercizio di un’attività di vigilanza e di polizia sul territorio da lui controllato (conquirere, coercere), ma anche il compito di perseguire i malfattori così individuati per via giudiziaria (et prout quisque deliquerit, in eum animadvertere) 22. Un altro testo, spesso citato, proviene dall’opera di Marciano De publicis iudiciis (libro secondo): Divus Hadrianus Iulio Secundo ita rescripsit et alias rescriptum est non esse utique epistulis eorum credendum, qui quasi damnatos ad praesidem remiserint. Idem de irenarchis praeceptum est, quia non omnes ex fide bona elogia scribere compertum est. Sed et caput mandatorum exstat, quod divus Pius, cum provinciae Asiae praeerat, sub edicto proposuit, ut irenarchae, cum adprehenderint latrones, interrogent eos de sociis et receptatoribus et interrogationes litteris inclusas atque obsignatas ad cognitionem magistratus mittant. Igitur qui cum elogio mittuntur, ex integro audiendi sunt, etsi per litteras missi fuerint vel etiam per irenarchas perducti. Sic et divus Pius et alii principes rescripserunt, ut etiam de his, qui requirendi adnotati sunt, non quasi pro damnatis, sed quasi re integra quaeratur, si quis erit qui eum arguat. Et ideo cum qui ¢n£krisin faceret, iuberi oportet venire irenarchen et quod scripserit, exsequi: et si diligenter ac fideliter hoc fecerit, collaudandum eum: si parum prudenter non exquisitis argumentis, simpliciter denotare irenarchen minus rettulisse: sed si quid maligne interrogasse aut non dicta rettulisse pro dictis eum compererit, ut vindicet in exemplum, ne quid et aliud postea tale facere moliatur 23.

21

D. 1.18.13 pr.: «un buono e accorto governatore deve prendersi cura, affinché la provincia che egli amministra sia tranquilla e ordinata. Cosa che potrà ottenere senza difficoltà, se egli si impegnerà per far sì che la provincia sia priva di delinquenti e si adopererà per ricercarli: egli, infatti, deve fare attentamente ricercare sacrìlegi, briganti, plagiari, ladri e castigarli conformemente alla gravità del loro delitto, e così pure deve punire coloro che li accolgono, in difetto dei quali un bandito non può rimanere a lungo nascosto». Sul de officio proconsulis si veda MANTOVANI (1994), p. 203 ss. 22 23

Cfr. SANTALUCIA (2011), p. 251.

D. 48.3.6: «Così il Divo Adriano in un rescritto a Giulio Secondo: già altre volte si è stabilito che non si deve credere alle lettere di coloro che inviano al governatore delle persone, quasi che fossero già da loro stessi condannate. Lo stesso vale per gli irenarchi, poiché si è accertato che non tutti compongono le loro relazioni secondo buona fede. Esiste anche un capitolo di mandati che il Divo Pio, all’epoca in cui governava la provincia d’Asia, promulgò in editto ordinando che gli irenarchi, qualora catturino briganti, li interroghino circa i loro complici e coloro che offrono loro rifugio; quindi inviino al giudizio del magistrato i verbali degli interrogatori, inclusi in lettere sigillate. Coloro, dunque, che sono inviati a giudizio con una relazione, devono essere nuovamente uditi, sia che siano inviati con lettere o condotti dagli stessi irenarchi. Così hanno stabilito per rescritto il Divo Pio e altri prìncipi, che si accerti da principio la posizione di coloro che sono sottoposti a inchiesta e che non devono esser considerati come già condannati, anche se qualcuno li

6

Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

Il passo descrive una procedura di repressione criminale nei confronti dei latrones, che per lungo tempo è stata interpretata come il segno dell’affermazione dei principi dell’inquisitio: infatti, gli irenarchi – funzionari dotati di compiti di polizia – ogni qual volta avessero catturato dei latrones erano tenuti a interrogarli de sociis et receptatoribus. Il rapporto di polizia, unitamente al testo delle dichiarazioni rese da costoro, doveva essere trasmesso al magistrato competente, il quale avrebbe poi provveduto ad avviare il procedimento penale nei confronti dei soggetti incriminati 24. A queste ed altre testimonianze, anche di carattere epigrafico e letterario 25, si aggiungeva una ben nota costituzione del 244 d.C.: Imperator Gordianus. Ea quidem, quae per officium praesidibus nuntiantur, et citra sollemnia accusationum posse perpendi incognitum non est. Verum falsis nec ne notoriis insimulatus sit, perpenso iudicio dispici debet. GORD. A. PROCULO. A. 244 PP.VIII ID.IAN.PEREGRINO ET AEMILIANO CONSS 26.

Anche questa costituzione è stata interpretata per lungo tempo come una testimonianza dell’affermazione di procedure inquisitorie: infatti i rapporti contenenti notizie di reato, usualmente denominati elogia, inviati dai funzionari ai présidi sono «notoriamente» – dice il testo – sottratte alle usuali formalità previste dall’accusa (citra sollemnia accusationum posse perpendi) 27. In questo quadro l’uso dei libelli inscriptionis redatti dal soggetto privato che avanzava l’accusa, uso che aveva caratterizzato la prima fase del processo criminale per cognitio extra ordinem, si sarebbe avviato a un rapido declino. All’inizio del dominato, un’altra costituzione segnala che perfino per il crimen iniuriarum, perseguito penalmente sin dalla quaestio de iniuriis di età sillana 28, l’esercizio dell’accusa tramite libello è divenuta ormai facoltativa:

accusa di un reato. Pertanto, quando si svolge la cognizione occorre ordinare all’irenarca di presentarsi e di esporre quanto egli ha scritto. Se egli farà ciò in modo diligente e fededegno, sarà meritevole di lode. Se invece egli agirà con scarsa prudenza e senza solidi argomenti, si assuma semplicemente l’assenza di ogni accusa da parte dell’irenarca. Ma, se risulterà che egli ha condotto malevolmente l’interrogatorio o ha riferito come dette cose non vere, che sia punito in modo esemplare, affinché nessuno osi poi far ciò, né altra cosa del genere». 24

Cfr. SANTALUCIA (2011), p. 252.

25

Sulle quali si veda SANTALUCIA (2011), p. 253 ss.

26

C.I. 9.2.7: «è noto che le notizie di reato trasmesse agli uffici del governatore possono dar luogo a giudizio anche in difetto delle formalità previste per l’accusa. Invero, una volta reso il giudizio, occorre anche valutare se l’accusa non sia stata costruita sulla base di falsi rapporti». 27

Cfr. SANTALUCIA (2011), pp. 256-257.

28

Cfr. SANTALUCIA (1998), p. 151 ss.

Passato e presente di due modelli processualistici

7

Imperatores Diocletianus, Maximianus. Si quis se iniuriam ab aliquo passum putaverit et querellam deferre voluerit, non ad stationarios decurrat, sed praesidalem, adeat potestatem aut libellos offerens aut querellas suas apud acta deponens. DIOCL. ET MAXIM. AA. EXEMPL. SACR. LITT. A XXX PP. SINE DIE ET CONSULE 29.

Infatti, la disposizione prevede che chi si fosse ritenuto vittima di iniuriae, avrebbe dovuto rivolgersi direttamente agli uffici del governatore, piuttosto che ai militari della guarnigione (non ad stationarios decurrat) e in quella sede avrebbe potuto scegliere se depositare un libello d’accusa (libellos offerens) oppure limitarsi a sottoscrivere apud acta una mera denunzia (querella). Il ricorso alla denunzia si sarebbe quindi generalizzato, determinando la progressiva scomparsa dei libelli; inoltre, la denunzia sporta presso gli uffici competenti avrebbe avuto l’unica funzione di attivare i meccanismi della repressione criminale, senza per ciò comportare l’assunzione – da parte del denunziante – del ruolo di accusator in senso proprio, ovverosia di parte processuale 30. A partire da questo momento, l’affermazione del modello inquisitorio, nel processo penale del basso Impero e della tarda antichità, si sarebbe generalizzata. Dunque, secondo tale rappresentazione per così dire «tradizionale» dell’evoluzione del processo criminale romano, se anche nelle fonti giuridiche dell’età più avanzata si continuò a parlare di accusatio, accusator, e così via, questa terminologia starebbe ad indicare essenzialmente la presentazione di una querela di parte 31, se non un generico atto informativo indirizzato al funzionario imperiale, affinché questi dia avvio motu proprio al procedimento penale. L’accusa popolare, quale fondamento del sistema di repressione penale, sarebbe invece progressivamente scomparsa 32, anche per l’effetto di una serie di provvedimenti, in particolare quelli per la repressione del crimen calumniae, che, di fatto, ne resero difficile ed anche assai rischioso l’esercizio 33. Tuttavia, nelle costituzioni anche di età assai tarda si può osservare una significativa persistenza del lessico proprio dell’antico sistema accusatorio: basti pensare alle norme contenute nel titolo primo del libro nono del Codice Teodosiano (de accusationibus et inscriptionibus) e nei titoli primo e secondo del libro nono del Codice di Giustiniano (qui accusare non possunt; de accusationibus et inscrip-

29 C.I. 9.2.8: «se qualcuno dovesse ritenere di aver subito iniuria da altri e volesse denunziare l’accaduto, non si rivolga agli stationarii, ma agli uffici del governatore, producendo un’accusa formale o facendo mettere agli atti la sua deposizione». Su questo testo cfr. FUHRMANN (2012), p. 214 ss. 30

Cfr. SANTALUCIA (2011), pp. 256-257.

31

Cfr. LAURIA (1983), p. 318 ss.; SCAPINI (1992), p. 148.

32

Cfr. BOVE (1962), p. 716; LAURIA (1983), p. 294 ss.

33

Cfr. ad es. SANTALUCIA (1998), p. 282 ss.; BIONDI (1954), pp. 504-505; ZANON (1998), p. 8 ss.

8

Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

tionibus) 34. Di ciò, oltre che della scarsità di riferimenti al procedimento inquisitorio 35, chi non crede alla persistenza del sistema accusatorio in età imperiale avanzata ha dato diverse spiegazioni. In primo luogo, si è detto, occorre tenere conto del conservatorismo che caratterizza il lessico del diritto romano, e allo stesso tempo dell’elevato grado di incoerenza tipico della legislazione tarda 36. Inoltre, si è anche osservato che i poteri del giudice, nell’avviare il procedimento d’ufficio, richiedono una regolamentazione assai meno complessa di quella necessaria quando il processo prenda avvio in seguito ad una formale accusatio: la preparazione, per così dire professionale, dell’inquirente fa sì che non siano necessarie quelle puntuali disposizioni che, invece, sono essenziali nel caso del quivis de populo che si fa accusatore 37. Infine, si è ipotizzato che la scarsità di riferimenti all’inquisitio nelle fonti sia dovuta anche al fatto che questo sistema, sebbene si fosse affermato nella prassi giudiziaria, faticava comunque ad essere pienamente accettato dalla coscienza del tempo, a causa del ruolo determinante che in esso svolgevano pratiche generalmente riprovate ma comunque essenziali al buon funzionamento del meccanismo repressivo, come ad esempio l’attività di delatori e informatori 38. A queste osservazioni si oppone chi, dall’analisi della legislazione, deduce al contrario la persistenza e la prevalenza del principio accusatorio. Infatti, a partire dalla fine degli anni ’80 dello scorso secolo, il paradigma ricostruttivo qui sintetizzato è stato messo vivacemente in discussione. Benché si rifaccia ad alcune tesi espresse sul finire del XIX secolo da Theodor Mommsen 39, è piuttosto recente la fortuna dell’indirizzo dottrinale stando al quale numerosi e significativi elementi del processo accusatorio sarebbero rimasti in vigore per tutta l’età imperiale, inclusa l’epoca più tarda. In questa nuova rappresentazione storiografica viene così a cadere la tradizionale contrapposizione fra un sistema più antico, essenzialmente fondato sulla pubblica accusa e dove è il quivis de populo che, in quanto accusator, mette in moto e contribuisce a gestire in qualità di parte processuale il meccanismo di repressione criminale, e uno più recente, azionato essenzialmente per iniziativa del funzio-

34

Cfr. ad es. PIETRINI (1996), p. 128 ss.; PERGAMI (2011), p. 161 ss.

35

Cfr. RIVIÈRE (2002), p. 299 ss.

36

Cfr. GIUFFRÈ (1977), p. 160; circa il carattere della legislazione tardoantica e le conseguenze di una produzione normativa spesso incoerente, si veda da ultimo MAROTTA (2012), p. 360 ss. 37

Cfr. FIORELLI (1958), p. 332; RIVIÈRE (2002), p. 299 ss.

38

Cfr. RIVIÈRE (2002), p. 299 ss.; PUGLIESE (1980), p. 307; CERAMI (1998), p. 124 ss.

39

Cfr. MOMMSEN (1899), p. 346 ss. Anche LEVY (1933), p. 232. Alle dispute sul carattere del processo penale romano fa cenno anche BINDING (1864), p. 3 ss. Cfr. anche LAURIA (1983), p. 318 ss.

Passato e presente di due modelli processualistici

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nario imperiale, da lui gestito e caratterizzato per lo più dal cumulo di funzione inquirente e giudicante 40. Per contro, si è recentemente sostenuto che la terminologia ed i principi del processo accusatorio avrebbero continuato a mantenere una posizione centrale nell’ordinamento giuridico romano ancora nell’avanzato quarto secolo 41 e che l’accusatio avrebbe comunque avuto un ambito di applicazione di gran lunga prevalente rispetto a quello riservato all’inquisitio 42. Ciò, secondo alcuni, anche perché l’apparato giudiziario imperiale, con il procedere del tempo e l’acuirsi di una situazione di crisi generalizzata, sarebbe stato sempre meno in grado di sostenere il compito di assicurare un’efficiente repressione penale ex officio, dovendosi pertanto affidare alla collaborazione dei singoli cittadini, demandando loro il compito di ricercare i criminali e di reperire i mezzi di prova 43. In questo quadro, i passi citati poco sopra sono stati riletti e hanno ricevuto interpretazioni che ne ribaltavano il significato. Di D. 1.18.13 pr si è data una lettura che scinde nettamente funzione amministrativa e giurisdizionale: il preside della provincia avrebbe certo dovuto attivarsi per la cattura dei delinquenti, ma le operazioni di polizia non sarebbero state in alcun modo prodromiche all’esercizio della giurisdizione, poiché – si è detto – avrebbe continuato ad applicarsi la usuale procedura accusatoria, avviata dall’accusa di un privato 44. La costituzione di Gordiano del 244 (C.I. 9.2.7) era già stata riletta a suo tempo da Arnaldo Biscardi, il quale affermava che dal testo non si poteva dedurre l’affermazione di alcuna procedura inquisitoria a scapito di quella accusatoria: l’intento del legislatore era di rendere possibile la persecuzione d’ufficio, per evitare che reati rimanessero impuniti, «pur rimanendo l’accusatio il cardine della repressione criminale» 45. Quanto a C.I. 9.2.8, la previsione della denunzia orale per le vittime di iniuria presso gli uffici del governatore, è stata ritenuta da alcuni come la prova della preferenza accordata dal legislatore a una procedura di stampo accusatorio, attivata dalla parte lesa, a scapito di un’eventuale procedimento di tipo inquisi40

A questo paradigma interpretativo possono a vario titolo iscriversi, fra gli altri, ARANGIORUIZ (1991), p. 325 ss.; GROSSO (1965), p. 413 ss.; BIONDI (1954), p. 503 ss.; BOVE (1962), p. 718; GIUFFRÈ (1977), p. 105 ss.; LAURIA, (1983/2), p. 208 ss.; PUGLIESE (1980), p. 306 ss.; LAURIA (1983), p. 294 ss.; CERVENCA (1989), p. 591 ss.; SCAPINI (1992), p. 146 ss.; SANTALUCIA (1998), p. 280 ss.; SANTALUCIA (2011), p. 249 ss.; RIVIÈRE (2002), p. 271 ss.; DE GIOVANNI (2007), p. 292 ss. 41

Cfr. PERGAMI (2011), p. 503 ss.

42

Cfr. PIETRINI (1996), p. 128 ss.

43

Cfr. ad es., sulla scorta di MOMMSEN (1899), p. 351 ss., PIETRINI (1996), p. 132 ss.

44

Così ZANON (1998), pp. 81-83; più prudente PIETRINI (1996), p. 41 ss., secondo la quale dal passo si potrebbe desumere la coesistenza della procedura accusatoria con quella inquisitoria. Personalmente condivido le osservazioni di SANTALUCIA (2011), p. 251. 45

Cfr. BISCARDI (1989), p. 236; anche GAROFALO (1992), p. 32 ss. e PIETRINI (1996), p. 46 ss.

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

torio, qual era quello che si sarebbe potuto svolgere se la denunzia fosse stata trasmessa a funzionari dotati di poteri di polizia 46. Analogamente, D. 48.3.6 che pure sembra ictu oculi disegnare una procedura di stampo nettamente inquisitorio (arresto dei colpevoli, invio di rapporti e verbali al giudice per l’avvio del processo), ha subito una ben diversa lettura: agli elogia inviati dagli irenarchi e da altri ufficiali dotati di funzioni di polizia si dovrebbe attribuire, infatti, un valore analogo a quello dei libelli d’accusa 47 e gli stessi ufficiali avrebbero successivamente dovuto – in giudizio – esercitare il ruolo di accusatori esponendosi, se del caso, a sanzioni analoghe a quelle previste per gli accusatori calunniosi 48. Come già autorevolmente affermato da Santalucia 49, una interpretazione che equipari il funzionario di polizia all’accusatore, immaginando lo svolgimento di un contraddittorio fra costui e l’imputato dinnanzi a un giudice «terzo e imparziale», non è fondata sui dati testuali, che anzi la smentiscono, poiché la presenza del funzionario in giudizio (iuberi oportet venire irenarchen et quod scripserit, exsequi) sembra chiaramente funzionale a fornire eventuali ulteriori informazioni utili al processo, non allo sviluppo di un contraddittorio, di cui non v’è cenno da alcuna parte 50. D’altro canto le sanzioni previste a carico dell’irenarca che abbia dolosamente trasmesso informazioni non fededegne (sed si quid maligne interrogasse aut non dicta rettulisse pro dictis eum compererit, ut vindicet in exemplum, ne quid et aliud postea tale facere moliatur), non hanno nulla a che vedere con il trattamento dell’accusatore calunnioso, ma si spiegano con la volontà di prevenire abusi da parte del personale incaricato di funzioni di polizia. Abusi, peraltro, ampiamente documentati dalle fonti 51. Emergono dunque, nel quadro della costruzione di un nuovo paradigma storiografico e interpretativo, scelte esegetiche talora anche ardite, ma non è questa la sede per discuterne ulteriormente. 46

Cfr. ZANON (1998), pp. 137-138.

47

NON

Cfr. MAROTTA (2003), p. 71 ss.; PIETRINI (1996), p. 46 ss. e specialmente p. 49, n. 70. ZA(1998), p. 115 ss.

48

ZANON (1998), pp. 119-120. Analoghe posizioni in GIGLIO (2009), p. 14 ss.

49

SANTALUCIA (2011), pp. 252-253.

50

Secondo Zanon, che si spinge a configurare un duplice onere della prova, gravante su accusa e difesa, «l’assunzione delle prove, essenzialmente orali, avviene [...] attraverso il contraddittorio fra irenarca e imputato sui quali grava l’onere di addurre gli elementi rispettivamente a carico e a discarico: l’organo giudicante sembra, invece, assistere al dibattimento fra le parti in posizione imparziale». ZANON (1998), p. 119. Ad avviso di chi scrive nulla di tutto ciò è ricavabile dal passo di Marciano. Sulla presunta terzietà del giudice, si veda anche GIGLIO (2009), p. 11 ss. 51 Si vedano ad esempio TORALLAS (2006), passim; BAGNALL (1989), p. 209 ss. In proposito può essere consultato anche BALDWIN (1963), passim. LOVATO (1994), p. 171 ss. Infra, p. 165 ss.

Passato e presente di due modelli processualistici

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3. ASPETTI METODOLOGICI Il presente studio è dedicato al processo penale romano nell’età di Costantino e dei suoi immediati successori, fino al termine del regno di Teodosio il Grande 52. Non sono pochi gli studiosi, a partire da Jacob Burckhardt 53, che hanno letto il regno di Costantino addirittura come un momento di svolta nella storia dell’Impero e di quella che si usava definire come la «civiltà occidentale» 54. È certo ragionevole pensare che in questo periodo a cesure, anche nette, si accompagnino fenomeni di continuità con il passato. Ma si tratta in ogni caso di un’epoca di trasformazione, nella quale anche il sistema di repressione criminale subisce rilevanti mutamenti. L’assunzione da parte del sovrano di un ruolo attivo, interno alla Chiesa – Costantino si proclamava episcopus externus 55 – nonché i suoi frequenti interventi in materia dottrinale ed in relazione a scismi ed eresie 56, sono tutti fattori che contribuiscono a definire le relazioni fra Stato e Chiesa secondo schemi destinati a produrre conseguenze per secoli. Come tenterò di argomentare più oltre, credo che tali relazioni – e in particolare il progressivo impegno da parte dello stato nella repressione di gruppi ritenuti di volta in volta eretici ed eterodossi – abbiano esercitato una qualche influenza sulla procedura penale utilizzata nel quarto secolo 57. Anche le innovazioni legislative introdotte da Costantino in materia di crimen calumniae, sembrano delineare una cesura rispetto al periodo precedente 58. Inoltre, nel volgere di quegli stessi anni, e in particolare durante il regno dei successori di Costantino, si può riscontrare una moltiplicazione dei processi per lesa maestà, un crimine che – come è stato giustamente osservato – funge da laboratorio di nuove tecniche repressive e da volano per la diffusione di procedure a carattere inquisitorio 59. È mia intenzione procedere all’analisi del periodo considerato avvalendomi delle categorie di processo accusatorio e processo inquisitorio, fidando nel fatto che esse possano giovare, se usate con cautela, a una migliore comprensione dei 52

È bene precisare che non sarà fatto oggetto d’esame, in questa sede, il processo fiscale.

53

BURCKHARDT (1936).

54

Cfr. in proposito DE GIOVANNI (2007), p. 9 ss.

55

Eus., Vita Const. 3.13; cfr. anche Socr., H.E. 1.8.

56

Sul punto cfr. BAUS, EWIG (2001), p. 5 ss. Mi permetto di rinviare anche al mio BANFI (2005), p. 61 ss. 57

Infra, p. 160 ss.

58

GIGLIO (2009), p. 1; infra, p. 68 ss.

59

SOLIDORO (2003), p. 71 ss.

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fenomeni storici descritti. Mariagrazia Bianchini ha ricordato non molto tempo fa che la contrapposizione fra il modello accusatorio delle quaestiones e la procedura inquisitoria della cognitio ha fatto il suo tempo 60. È un’osservazione ragionevole, poiché mette in guardia dall’affrontare l’analisi della procedura penale romana di età imperiale con eccessiva rigidità, con il rischio di inaridire il dato storico attraverso inquadramenti sterili, poiché sofferenti di dogmatismo. Va comunque osservato come nella dottrina romanistica relativa a questa materia si presentino alcuni fenomeni per certi versi paradossali: vi sono studiosi che, in contraddizione con le fonti o comunque in mancanza di sicura conferma, di volta in volta hanno evocato la terzietà del giudice, il contraddittorio fra le parti, l’equiparazione di pubblici funzionari con incarichi di polizia ad accusatori privati; in non poche occasioni l’impulso necessario per attivare la macchina processuale penale è stato considerato l’elemento principe per discriminare fra procedura accusatoria e inquisitoria, tralasciando del tutto l’effettivo ruolo delle parti in giudizio. La questione dell’iniziativa processuale, in buona parte della recente letteratura, ha finito per sovrastare ogni altra considerazione sul processo considerato nel suo complesso, con il rischio di alimentare equivoci. Talora, si ha perfino l’impressione che si sia data un’interpretazione meramente nominalistica delle fonti giuridiche, pretendendo di trovare conferma di una procedura accusatoria sulla base del numero dei riferimenti ad accusatores e accusationes, e viceversa sulla base della relativamente più scarsa presenza del termine inquisitio 61, senza porsi il problema di analizzare caso per caso che cosa ciascuno di tali termini volesse esattamente significare nel contesto specifico in cui esso era impiegato. Per tacere del fatto che non può certamente bastare l’uso di questo o quel termine, sia esso accusatio o inquisitio, a consentire all’interprete di identificare, fra le testimonianze pervenuteci, questo o quel modello processuale, tanto più che com’è ben noto, inquisitio significa inchiesta, esame, ricerca, disamina, e può in ultima istanza coincidere con cognitio 62; d’altra parte anche il termine accusatio e con esso i suoi derivati, è polisenso, potendo esso far riferimento sia all’accusatore che ricopre il ruolo di parte processuale, sia a chiunque genericamente «accusi» qualcun altro di qualche nefandezza; anzi i confini semantici fra accusator e delator sono spesso assai labili, come risulta già dalla prosa di Tacito, di cui si riporta a titolo di esempio questo breve e ben noto escerto: et quia Cornutus sua manu ceciderat, actum de praemiis accusatorum abolendis, si quis maiestatis postulatus ante perfectum iudicium se ipse vita privavisset. Ibaturque in eam

60

BIANCHINI (2011), p. 49.

61

Cfr. le osservazioni in proposito di BOTTA (2008), p. 6 ss.

62

BOTTA (2008), p. 7.

Passato e presente di due modelli processualistici

13

sententiam ni durius contraque morem suum palam pro accusatoribus Caesar inritas leges, rem publicam in praecipiti conquestus esset: subverterent potius iura quam custodes eorum amoverent. Sic delatores, genus hominum publico exitio repertum et ne poenis quidem umquam satis coercitum, per praemia eliciebatur 63.

Non si può certo dar torto ad Arnaldo Biscardi, che a suo tempo ricordava i rischi insiti nell’adozione di una terminologia di per sé equivoca: come paragonare il principio inquisitorio della cognitio extra ordinem, comunque lo si voglia definire e interpretare, con il processo inquisitorio del Medioevo e della Santa Inquisizione 64? Un recente articolo su questi temi ha voluto individuare degli «eccessi» nella dottrina relativa ad accusatio e inquisitio nel processo penale romano 65; in effetti, a chi scrive pare fuor di dubbio che il recente dibattito su questo tema sia stato caratterizzato in molti casi da una sorta di estremismo, con molti interpreti ostinatamente intenti ad attribuire la procedura penale romana, nelle sue varie manifestazioni storiche, a questa o quella categoria o modello. Il che è davvero paradossale, se si considera che usualmente i modelli processuali penali sono considerati come dei modelli ideali, solo raramente riscontrabili nella realtà, nella quale prevalgono per lo più modelli misti, ossia «tendenzialmente» accusatori o inquisitori. In effetti, tali problemi interpretativi nascono dalle stesse fonti a disposizione dello storico – e in particolare da quelle giuridiche – che facendo spesso ricorso a una terminologia in certo qual modo suggestiva per l’interprete moderno, favoriscono l’applicazione indiscriminata di categorie in realtà del tutto estranee al mondo antico. A ciò si aggiunge il fatto che, con rarissime eccezioni 66, gli autori moderni non si sono peritati di affrontare, non solo sotto il profilo terminologico, la questione di che cosa si intenda esattamente con processo accusatorio e inquisitorio, della applicabilità di tali categorie al mondo antico e dei rischi che tale operazione esegetica può comportare. Per questo motivo, ho inteso premettere alla discussione su quanto le fonti consentono di ricostruire circa il processo penale del quarto secolo, alcune con63

Tac., Ann. 4.30: «poiché Cornuto si era tolto la vita di sua mano, si discusse dell’abolizione dei premi per gli accusatori, nel caso in cui l’accusato di lesa maestà si fosse tolto la vita prima della conclusione del giudizio. Si era dunque sul punto di approvare tale disposizione, senonché Cesare, con durezza non conforme ai suoi modi usuali, si espresse pubblicamente in favore degli accusatori, sostenendo che le leggi avrebbero perso di efficacia e che lo Stato avrebbe rischiato la rovina: meglio sovvertire il diritto che rimuovere i suoi custodi. Così i delatori, razza d’uomini inventata per la pubblica rovina e mai abbastanza tenuta a freno dalle pene, furono ulteriormente sollecitati per via dei premi». 64

BISCARDI (1989), p. 241.

65

ADINOLFI (2009), passim.

66

Fra questi si segnala GIGLIO (2009), p. 3 ss.

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

siderazioni generali sui due modelli processuali, al fine di precisarne il significato e l’utilizzabilità come categorie esegetiche. Chi scrive è inoltre consapevole dei rischi posti da un’interpretazione esclusivamente concentrata sulle fonti normative, che per il periodo preso in esame sono per lo più raccolte nel Codice Teodosiano; come ha scritto un autorevole penalista con riferimento al mondo contemporaneo «esiste una procedura penale invisibile che non si può leggere nei manuali e nei repertori giurisprudenziali, ma si tocca con mano nella effettività della pratica giudiziaria» 67. È una considerazione che può essere estesa anche allo studio della storia giuridica del mondo antico e per questo motivo, nelle pagine che seguono, si tenterà di estendere lo sguardo a fonti diverse dalle costituzioni imperiali che, com’è ben noto, non sempre restituiscono un quadro effettivamente rispondente alla prassi seguita. Tanto più che, se si prende in considerazione la produzione legislativa dell’età di Costantino e dei suoi successori, si nota come essa sia spesso disorganica, asistematica e talora contraddittoria. Inoltre, è facile vedere come la produzione legislativa di un medesimo imperatore sia spesso priva di coerenza al suo interno, a causa di puntuali esigenze contingenti che prevalgono su quelle di sistema. Per queste ragioni, le testimonianze delle fonti non giuridiche sono specialmente utili per una ricerca sul carattere del processo penale al tempo dell’Impero cristiano. Nel complesso, si tratta certamente di una non piccola mole di fonti, che spesso pongono specifici problemi di interpretazione e la cui attendibilità deve essere sempre vagliata con prudenza 68. Ciò nonostante, è indubbio – credo – che le informazioni da esse trasmesse diano un contributo determinante allo studio delle forme processuali della tarda antichità, fornendo notizie sulla prassi seguita nelle capitali e nelle province e perciò utili a chiarire indirettamente significato, portata e effettiva applicazione delle costituzioni imperiali.

67

AMODIO (2002). Anche CORDERO (2006), p. 5: «esistono un diritto libresco e uno vivo, attuato da quanti esercitano i relativi poteri, nell’autonomia privata o in sfere pubbliche». 68

GAUDEMET (1978), passim.

CAPITOLO 1 MODELLI: ORIGINI, DEFINIZIONI, IMPIEGO SOMMARIO: 1. Origini. – 2. Definizioni. – 3. L’iniziativa.

1. ORIGINI Come già detto, i modelli processuali accusatorio e inquisitorio non sono stati elaborati come tali dal pensiero giuridico romano: le loro origini e il loro sviluppo, in quanto categorie concettuali, sono alquanto più recenti anche se ciò non impedisce – a parere di chi scrive – di utilizzare con giudizio queste ed altre categorie interpretative per l’analisi dell’esperienza giuridica romana. La «rivoluzione inquisitoria» data – com’è noto – al tredicesimo secolo, e dev’essere ricondotta all’effetto combinato dell’esigenza di reprimere la devianza religiosa e dell’accentramento amministrativo, in particolare sotto la monarchia francese. Le peculiari vicende storico-politiche dell’Inghilterra dopo la battaglia di Hastings (1066) e la conquista normanna, impediscono che fenomeni analoghi si affermino nell’isola, e pongono le premesse per l’adozione di un sistema accusatorio, che non a caso sarà definito dalla letteratura giuridica successiva come «stile inglese» 1. Nei secoli successivi i due modelli si consolidano ed evolvono, ma il dibattito teorico su di essi, che contribuisce alla loro definizione dottrinale, non pare cominciare prima del XVIII secolo, quando il pensiero illuminista investì in pieno il diritto penale e il diritto processuale penale imponendo una profonda trasformazione di entrambi 2. È certamente non secondario il ruolo che ebbe la vicenda (o se si preferisce lo scandalo) dell’affaire Calas, che con la sua atrocità e la tardiva assoluzione dell’imputato ormai già giustiziato fra mille sofferenze, gettò discredito sulla procedura vigente in Francia e fornì numerose e appuntite frecce all’arco di Voltai-

1

CORDERO (2006), p. 17 ss.; ALESSI (2001), p. 23 ss.

2

In proposito cfr. ad es. FOUCAULT (1993), p. 79 ss.

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

re 3. I sostenitori del vecchio sistema inquisitorio, sia detto per inciso, ne tentano invano la difesa, asserendo che esso sarebbe dotato di caratteri quasi scientifici, in opposizione al modello anglosassone, primitivo perché fa ricorso a una giuria di laici non edotti di diritto e perché – più in generale – ricorda troppo da vicino una sorta di duello ordalico razionalizzato e in certo modo sublimato 4. Le tesi di costoro alla fine soccomberanno almeno in parte al dibattito pubblico 5, e inizierà la stagione dei sistemi «misti» 6, con l’istruzione ispirata a principi inquisitori e la fase dibattimentale – alla quale assistono di volta in volta, a seconda del conservativismo del sistema penale delle singole nazioni 7, giurie o collegi misti – con caratteri tipicamente accusatori. Dall’istruzione al dibattimento, «si passa dall’oscurità al pieno giorno»: nell’istruzione prevalgono del tutto gli interessi repressivi, e dominano scrittura e segretezza, mentre nella fase dibattimentale «tutto è pubblicità, dibattiti orali, libera difesa e piena discussione» 8. In ogni caso, si sa bene che il modello inquisitorio, inteso in senso stretto, non scomparve affatto: in forma per così dire sterilizzata, depurata degli aspetti più atroci esso rimane ben presente nei sistemi di repressione penale europei del ’900, particolarmente là dove gli stati sono retti da sistemi politici autoritari. Progressivamente espulso dai sistemi processuali europei e sostituito da procedure variamente ispirate al modello accusatorio, rimangono, nel continente, numerose tracce del passato, di un modo di concepire il processo e la funzione giudicante che può appunto essere definito «continentale»: probabilmente, sia detto per inciso, ciò non è affatto un male. In ogni caso, a parte tali considerazioni, il dibattito dottrinale che prese avvio nel XVIII secolo, coinvolgendo considerazioni di carattere non solo giuridico, ma anche etico, filosofico e politico, aveva in certo modo contribuito a definire più chiaramente le caratteristiche dei due modelli. Su di essi si è poi variamente esercitata, nel corso del secolo passato, un’ampia dottrina dall’una e dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Senza alcuna pretesa di completezza, credo sia il caso di renderne in qualche modo conto, al fine di giungere a una definizione il più possibile accurata dei due modelli processuali: il che è d’altronde condizione necessaria per saggiarne successivamente l’applicabilità al mondo antico. 3

Sulla vicenda si veda CORDERO (2006), p. 40 ss.

4

Infra, p. 17 ss.

5

ALESSI (2001), p. 119 ss.; CORDERO (2006), p. 43 ss.

6

Cfr. ALESSI (2001), p. 165 ss.; CORDERO (2006), p. 65 ss.

7

CORDERO (2006), p. 75 ss.

8

CARNOT, De l’instruction criminelle, considerée dans ses rapports généraux et particuliers, Bruxelles 1830, citato da CORDERO (2006), p. 66.

Modelli: origini, definizioni, impiego

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2. DEFINIZIONI Chi osservi lo spettacolo del processo accusatorio, anche negli ordinamenti vigenti, può ancora, pur con qualche sforzo, riconoscervi le sue remote origini. In età remota, e tuttora presso alcuni gruppi «di interesse antropologico», è l’autotutela che assicura la ricostruzione dell’equilibrio spezzato dall’atto o dagli atti inflitti dall’offensore all’offeso: la vendetta, regolata da consuetudini condivise dal gruppo sociale è lo strumento nelle mani dell’offeso per questo scopo. È un mondo pregiuridico 9, a proposito del quale si usa parlare di azione dell’«agente socialmente autorizzato» 10. Nello stesso quadro culturale rientra il ricorso a una forma particolare di ordalia, capace di assicurare al contempo l’esercizio della violenza «regolata» da parte dell’offeso e il giudizio della divinità: si tratta del duello ordalico, particolarmente caro alle popolazioni di origine germanica e destinato ad avere un assai duraturo successo 11. Peraltro, secondo alcuni studiosi il duello giudiziario non sarebbe stato ignoto al mondo romano tanto che se ne potrebbero riscontrare le tracce nel famoso racconto liviano dell’episodio degli Orazi e dei Curiazi 12. Tutto ciò premesso, si usa riconoscere, nella struttura del processo accusatorio, una sorta di sublimazione o, se si vuole, di razionalizzazione del duello ordalico 13; l’intervento dell’autorità (regia, magistratuale) nelle procedure di risoluzione dei conflitti, avrebbe finito per condurre a un’astrazione dello scontro fisico, trasformato in contesa verbale fra le parti mentre il popolo, da spettatore del duello sarebbe divenuto giuria. All’autorità sovrana, il compito di assicurare il rispetto delle regole del gioco da parte dei contendenti nell’agone giudiziario. Il processo, del resto, si configura come scontro: non a caso, in lingua inglese il modello accusatorio è – assai più efficacemente – definito adversarial e proprio con riferimento alla degenerazione di taluni suoi aspetti, si è giunti a coniare la cosiddetta «teoria agonistica della giustizia» (sporting theory of justice) 14. Che si presti fede o meno a questo tipo di ricostruzione storico-antropologica, resta il fatto che il processo accusatorio si presenta secondo uno schema 9

Cfr. CANTARELLA (2011), p. 707 ss.

10

Il termine, com’è noto, fu coniato da Hoebel. Su questi temi e per la vasta bibliografia in materia, mi limito in questa sede a rinviare a CANTARELLA (1979), p. 74 ss. e CANTARELLA (2010), p. 190 ss. 11

In proposito cfr. CAVINA (2005), p. 27 ss.; ALESSI (2001), p. 10 ss.

12

Sul punto cfr. GROSSO (1965), p. 154 ss.; GROSSO (2000), passim; CANTARELLA (2010/2), p. 35 ss. Alquanto più prudente l’opinione di SANTALUCIA (2010), p. 368 ss. 13 14

CORDERO (2006), p. 97 ss.

Il termine risale a uno scritto di Roscoe POUND (1906), p. 395 ss. e fu da lui impiegato per una critica della procedura civile americana, fondata anch’essa su un modello adversary. Esso è comunemente riferito anche al processo penale accusatorio. Cfr. ad es. CERAMI et al. (2003), p. 96 ss.

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ternario, con le parti, accusa e difesa, poste su di un piano di parità (se non assoluta, almeno tendenziale) 15 e l’organo giudicante collocato in posizione terza e imparziale. A moderare lo scontro e assicurare il rispetto delle regole è preposto chi presiede la corte, coincida egli o meno con chi deve pronunziare il giudizio. Dall’architettura stessa del processo, oltre che da altri fattori, riconducibili all’esperienza storica, deriva tutta una serie di caratteristiche che – sommate fra loro – contribuiscono a definire il modello processuale accusatorio. Tenterò ora di esporle 16, non senza due avvertenze: in primo luogo, quando si descrivono i due modelli processualpenalistici, si espongono forme che per lo più, salvo forse rare eccezioni, non sono riscontrabili nella realtà storica: si tratta di tipi ideali che, come ha scritto Damaška, «si ritrovano di rado, e forse mai, nella realtà, ma sono utili a certe condizioni per analizzarla e renderla comprensibile» 17. In secondo luogo, va osservato che solitamente si usa definire i due modelli attraverso un’elencazione di caratteristiche distintive: essi appaiono così costituiti da un complesso insieme di elementi, che non è facile organizzare in modo coerente 18. In realtà, tali elencazioni sono per più versi problematiche e rischiano di divenire inutilizzabili o controproducenti se non si tenta di individuare quale sia in ultima istanza il «cuore» di ciascun modello, ossia che cosa effettivamente distingue – nelle loro concrete manifestazioni storiche – procedura accusatoria e inquisitoria, e che cosa effettivamente unisce fra di loro gli elementi sparsi che entrano nella descrizione di ciascun modello 19. Diversamente si rischia di non essere più in grado di applicare tali modelli alla realtà: parte del recente dibattito romanistico, come si dirà fra breve, potrebbe essere caduto proprio in questa trappola. 15

Naturalmente, le parti si trovano su di un piano di parità assoluta solo nel caso in cui siano entrambe sprovviste dei poteri propri dell’ufficio di magistrato o pubblico funzionario, il che può verificarsi solo là dove l’esercizio dell’accusa sia affidato al comune cittadino che agisce in quanto rappresentante dell’interesse collettivo alla repressione del reato, al di là della sussistenza o meno di un proprio interesse personale. È il modello delle quaestiones perpetuae. Per certi versi analoghe le qui tam actions, previste dall’ordinamento statunitense (cfr. DAMAŠKA (1991), p. 86 ss.). Là dove l’accusa è esercitata da un pubblico ufficiale, occorre prevedere altri strumenti atti a ridimensionare lo squilibrio di poteri: è il caso, ad esempio, del giudice per le indagini preliminari nell’ordinamento italiano. 16

Nell’esposizione delle caratteristiche dei due modelli processuali mi fondo essenzialmente su CORDERO (2006), p. 21 ss.; DAMAŠKA (1991), p. 48 ss.; FIELD, WEST (2003), p. 261 ss.; GOLDSTEIN (1974), p. 1009 ss.; MONACO (2003), p. 71 ss.; PARISI (2002), p. 193 ss. 17

DAMAŠKA (1991), p. 33.

18

DAMAŠKA (1991), p. 33.

19

DAMAŠKA (1991), p. 31: «quanto più ogni concetto abbraccia gruppi di tratti distintivi collegati in modo così superficiale, tanto più evidenti divengono le incertezze e le ambiguità delle premesse della contrapposizione».

Modelli: origini, definizioni, impiego

19

Tradizionalmente, il modello accusatorio – che dopo l’esperienza romana fiorisce nel mondo anglosassone, tanto da guadagnarsi il nome di «stile inglese» – si caratterizza per il ricorso a giurie popolari, investite del compito di pronunziare un verdetto non motivato. Si tratta tuttavia di un aspetto che, se pure è storicamente rilevante, non caratterizza di per sé la procedura accusatoria, che può ben darsi anche in assenza di giuria. Lo stesso può dirsi, credo, per la tendenza a un minor ricorso alla carcerazione preventiva, che è caratteristica tipica dei sistemi di common law, nei quali è consentito il ricorso al bail per garantire la presenza dell’imputato in giudizio. Gli elementi strutturalmente caratterizzanti tale tipologia processuale sono infatti altri e possono essere individuati come segue: in primo luogo si debbono menzionare tendenziale parità fra le parti, centralità del contraddittorio, terzietà del giudice. Le parti hanno un ruolo rilevante nello svolgimento della vicenda processuale, il che – se non sempre dà luogo a un vero e proprio «processo di parti», come accade ad esempio nel esperienza giuridica statunitense 20, comporta comunque un ridotto attivismo del giudice. Da questi primi elementi derivano alcuni corollari: il processo è prevalentemente orale, pubblico, l’imputato ha diritto di essere informato dell’esatta imputazione e delle prove a carico. Per effetto della combinazione di queste caratteristiche, si usa ritenere che il processo accusatorio assicuri il rafforzamento dei diritti dell’imputato 21, il che può tradursi in una minore «efficienza» repressiva 22. Per contro, il modello inquisitorio può essere per certi versi definito per differentiam rispetto a quello accusatorio. Sono elementi strutturalmente caratterizzanti in primo luogo l’attivismo del giudice, che nella sua forma estrema può tradursi nel cumulo in capo allo stesso soggetto della funzione inquirente e di quella giudicante 23, con il risultato di ridurre la vicenda processuale a una relazione binaria fra giudice e imputato 24: il primo posto in una condizione di attività, il secondo di sostanziale passività 25. 20

MONACO (2003), p. 82 ss.

21

Il che tuttavia può rivelarsi falso alla prova dei fatti. Il sistema penale statunitense, che ha caratteristiche fortemente accusatorie, ha visto ridursi consistentemente i diritti dell’imputato, a causa della progressiva trasformazione – nell’ultimo quarantennio – del ruolo e dei poteri della pubblica accusa e della mortificazione della figura del giudice. Non è indifferente, in questo quadro, il ruolo di istituti processuali che si sono rivelati utili a generare comportamenti ricattatori da parte dei procuratori, a partire dal patteggiamento (sentence bargaining e plea bargaining). Cfr. in proposito SIMON (2008), p. 41 ss. 22

Cfr. in proposito PACKER (1964), p. 9 ss.

23

Cfr. CERAMI et al. (2003), p. 27 ss.

24

Cfr. RADBRUCH (1961), p. 281; CORDERO (1981), p. 353.

25

Cfr. CORDERO (2006), p. 21 ss.

20

Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

Più in generale, nel modello inquisitorio il giudice interviene attivamente nell’acquisizione delle prove. Si segnalano, quindi, la mancanza di un vero e proprio contraddittorio, la ridotta possibilità dell’imputato di conoscere preventivamente l’esatta imputazione e le prove a carico. Il processo è tradizionalmente sottratto al controllo dell’opinione pubblica (non è pubblico o lo è solo parzialmente) e si fa frequente ricorso alla carcerazione preventiva 26. Gli elementi costitutivi dei due modelli processuali, sin qui rapidamente elencati, possono presentarsi nella realtà storica nei modi più vari, anche dando luogo a combinazioni dell’una e dell’altra tipologia processuale, sicché si potrà parlare di sistemi misti oppure «tendenzialmente» accusatori o inquisitori. Resta aperta la questione di individuare quale sia l’aspetto che distingue in modo strutturale i due modelli, derivante dall’architettura stessa della macchina processuale e che possa poi consentire di attribuire questa o quella procedura penale a una delle due grandi famiglie. Ad avviso di chi scrive, il problema può essere affrontato mirando al cuore del processo e agli scopi che con esso si intendono realizzare: senza volersi avventurare nell’arduo compito di definire che cosa sia il processo penale, si potrebbe ben convenire sul fatto che esso in buona sostanza sia (o sia anche) una macchina retrospettiva che guarda al passato, per accertare se determinati atti siano stati compiuti, da chi, e per quale ragione. I modi in cui tale macchina opera possono essere molto diversi a seconda del modello processuale al quale essa appartiene. Tuttavia, rivolgere lo sguardo ai singoli ingranaggi che la compongono, benché possa essere senz’altro cosa utile, non aiuta a individuare il «marchio di fabbrica» di ogni singola procedura storicamente individuata. Si verifica, insomma, qualcosa di simile a quel che descriveva Simmel relativamente alla conoscenza storica: «nella misura in cui noi (…) esercitiamo la funzione del conoscere, sempre più specializzante e sempre più precisa nel vedere, l’unità si scinde in pure discontinuità (…) fino a che il progredire della conoscenza non compie anch’essa la stessa scissione e con ciò la stessa devitalizzazione» 27. Se, come si diceva, il processo mira alla ricostruzione di eventi passati, sulla base di segni, indizi, prove, è proprio il modo in cui avviene tale ricostruzione che assicura una chiara differenziazione dei due modelli processuali: insomma, a parere di chi scrive la chiave risiede nella formazione della prova. Nel modello accusatorio, è ben noto, la prova si forma in contraddittorio at26

Vale la pena di osservare che la pubblicità può essere intesa in parte come garanzia per l’imputato, ma soprattutto come fatto di «democraticità» e conoscibilità per i cittadini in generale. Per questo motivo si potrebbe dire che la presenza o l’assenza di pubblicità del procedimento non sono tanto elementi sistematicamente costitutivi di un determinato sistema processuale, quanto, più in generale, l’espressione di modi diversi di intendere lo Stato e la società nel loro complesso. 27

SIMMEL (1987), p. 50.

Modelli: origini, definizioni, impiego

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traverso l’esame incrociato condotto – a battute alterne – dalle parti e non è consentito, in linea generale, che essa filtri dall’esterno all’interno del processo, per esempio attraverso la semplice acquisizione di verbali redatti nel corso dell’inchiesta o in fase istruttoria e che non risultino successivamente confermati dall’escussione del testimone 28. Tale principio informa tutto il processo e determina quel particolare modo di svolgere l’esame testimoniale (la testimonianza è la prova «principe» del processo penale) che si realizza attraverso il cosiddetto esame incrociato 29. La prova, insomma, si forma attraverso l’azione antagonistica delle parti: la tensione dialettica fra accusa e difesa si risolve così in una disamina specialmente accurata delle fonti di prova, la cui attendibilità è sottoposta a un vaglio particolarmente stringente che è frutto indiretto degli interessi confliggenti delle parti 30, a tutto vantaggio del giudice: egli, infatti, si troverà così agevolato nella formazione del proprio libero convincimento 31. Anzi, il frutto del vaglio derivante dall’attività competitiva delle parti sarà – secondo alcuni – qualitativamente migliore di quanto possa produrre una disamina o inchiesta condotta dal giudice in modo solitario 32. È anche per questo motivo che, di recente, si è voluto individuare il ruolo peculiare svolto nel processo accusatorio dalla cosiddetta prova retorica, intesa non tanto come mero esercizio di arti persuasive o psicagogiche da parte di soggetti ciascuno interessato a conquistare ad ogni costo la palma della vittoria processuale, ma come frutto di un’attività logico-argomentativa delle parti tendente «all’acquisizione non di una verità assoluta, ontologicamente concepita, ma all’accertamento del probabile o del verosimile» 33. Del tutto diverso quel che accade nel processo di stampo inquisitorio, dove alla interazione competitiva fra le parti si sostituisce la ragion critica del giudice, che si presume dotato degli strumenti e delle capacità che gli consentano non solo di raggiungere decisioni esatte, ma anche un perfetto vaglio delle prove: nel mondo inquisitorio al centro del processo è l’attività tendenzialmente solitaria del giudice, non certo la dialettica fra parti, e nel procedimento il fascicolo, nel quale possono rifluire elementi di prova raccolti all’esterno della vicenda processuale 34, ha un ruolo determinante. Del resto, lo stesso diritto d’appello – concesso in forma assai ampia specialmente nei modelli inquisitori, può essere inteso proprio come un rimedio ai rischi derivanti da tale attività solitaria. Come 28

CORDERO (2006), p. 607 ss.

29

CORDERO (2006), p. 666 ss.

30

FROEB, KOBAYASHI (2001), p. 267 ss.

31

CERAMI et al. (2003), p. 160 ss.

32

POSNER (2001), p. 346 ss.

33

CERAMI et al. (2003), p. 155. CANZIO (2010); DINACCI (2012), p. 8 ss.

34

Cfr., fra i tanti, DAMAŠKA (1991), p. 101 ss.

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

affermava Ulpiano, appellandi usus quam sit frequens quamque necessarius, nemo est qui nesciat, quippe cum iniquitatem iudicantium vel imperitiam recorrigat 35. In ogni caso, quanto accennato più sopra spiega perché si usi addirittura distinguere i due modelli processuali sotto il profilo epistemologico, quasi che essi siano depositari di due diverse concezioni della verità processuale 36. Nella rappresentazione tipica del procedimento inquisitorio, la macchina processuale mira allo svelamento di una verità esterna e preesistente, attraverso l’uso sapiente degli strumenti e delle tecniche poste a disposizione di chi svolge le indagini e del giudice, e grazie all’esercizio della ragion critica da parte del giudice stesso. Diversamente, nel processo accusatorio la ricerca della verità sembra orientarsi verso l’individuazione del verosimile e del probabile, poiché essa scaturisce dal conflitto fra le parti nel corso del dibattimento. Una verità, dunque, che si usa definire come relativa e non assoluta, in quanto fondata sulla verosimiglianza delle ipotesi avanzate dalle parti che – sottoposte al vaglio del contraddittorio – contribuiranno a informare il libero convincimento del giudice 37. Questo credo sia il vero discrimine fra i modelli processuali: la centralità o meno del contraddittorio fra le parti – principio dal quale discende, ovviamente, l’esigenza che le parti stesse siano poste in condizione di parità almeno tendenziale, al fine di competere equamente nell’agone giudiziario dinnanzi a un giudice terzo – e così pure la cosiddetta «oralità» del processo. Al contrario, non credo che si debba considerare come elemento sempre determinante per l’individuazione nella realtà storica della presenza dell’uno o dell’altro modello la questione del cumulo o meno delle funzioni. Infatti è ragionevole considerare come inquisitoria una procedura che prevede il cumulo della funzione inquirente e giudicante in capo a uno stesso soggetto, giacché il cumulo impedisce un effettivo contraddittorio; ma non è altrettanto ragionevole ritenere che là dove non si verifica appieno il cumulo, dando luogo a una vicenda perfettamente binaria, si sia davanti a sistemi di stampo accusatorio. Infatti, anche una configurazione triangolare, qualora le regole del processo non dovessero assicurare parità fra le parti ed anzi l’ordinamento dovesse contribuire a favorire una sorta di sinergia fra giudice e pubblica accusa, magari perché entrambi portatori, in senso lato, degli stessi interessi, potrebbe essere incompatibile con il modello accusatorio. È il caso, ad esempio, del modello processuale penale disegnato dal guardasigilli Rocco, nel quale il Pubblico Ministero era sì definito «parte», ma in realtà a tale ufficio erano attribuiti «i poteri tipici di un accusatore-giudice più che di una

35

D. 49.1.1 pr.: «non v’è nessuno che ignori quanto sia frequente il ricorso all’appello e quanto sia necessario, dal momento che esso consente di porre rimedio all’iniquità o all’imperizia dei giudici». Cfr. CERAMI et al. (2003), p. 14. Sul punto cfr. DAMAŠKA (1991), p. 101 ss. 36

Sulla questione della verità, cfr. RESTA (2004), p. 373 ss.

37

CERAMI et al. (2003), p. 95 ss.

Modelli: origini, definizioni, impiego

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parte in senso proprio, contrapposta all’accusato ed in posizione di parità rispetto a quest’ultimo» 38. In effetti, pare davvero difficile collocare la procedura penale nata in età fascista all’interno del modello accusatorio, poiché in quel contesto la prova si formava al di fuori del dibattimento e senza un reale contraddittorio fra le parti: sarà bene allora parlare di un modello misto (in ossequio alle sue radici che affondavano fino al Code d’instruction criminelle del 1811), ma tendenzialmente inquisitorio 39, se non proprio – come fa Franco Cordero – di un «temibile ordigno inquisitorio» 40. Tutto ciò premesso, è bene ricordare, anche ai fini di quanto si dirà in seguito, che modello accusatorio e modello inquisitorio possono anche essere distinti per aspetti estrinseci al diritto processuale e all’architettura del processo stesso, ma che attengono piuttosto agli scopi che il processo si prefigge 41 e al carattere del regime politico all’interno del quale esso opera: due aspetti fra loro strettamente connessi. Comunemente si suole affermare che il processo accusatorio, in quanto fondato sul contraddittorio fra parti, mira sostanzialmente alla «composizione» dei conflitti. Al contrario, il modello inquisitorio concepisce la giustizia penale come manifestazione di sovranità e mira ad un’attiva – se non addirittura proattiva – repressione del reato al fine di garantire la conservazione e la stabilità dell’ordine costituito 42. Nel primo modello le parti (eredi degli antichi offeso ed offensore) sono gli attori del processo centrato sui loro interessi confliggenti. Nel secondo opera lo Stato, eventualmente anche al fine di attuare i propri orientamenti politici 43, ma comunque con l’intento di assicurare una politica repressiva dei reati che sia la più efficace possibile, nel caso anche a scapito dei diritti e delle garanzie individuali. Parafrasando un famoso scritto di Packer, in un caso prevale l’attenzione per il «giusto processo» (due process model), nell’altro per il controllo delle condotte criminali (crime control model) 44. È anche per questo motivo che, nelle occasioni in cui lo Stato e la collettività tutta si sentono minacciate dall’azione di gruppi capaci di compiere reati associativi di grande pericolosità (eversione, terrorismo, ma anche criminalità organizzata), gli 38

MONACO (2003), p. 69.

39

MONACO (2003), p. 97 ss.

40

CORDERO (2006), p. 87.

41

Oppure, rectius, come ha osservato SATTA (1994), p. 11 ss., agli scopi che si è prefisso il legislatore nel disegnare il processo, che di per sé ha sempre come unico scopo il giudizio. 42

Cfr. AMODIO (2003), p. 19 ss.; GIUFFRÈ (1977), p. 165 ss.

43

Cfr. in proposito MONACO (2003), p. 81 ss.

44

PACKER (1964), p. 6 ss.

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

ordinamenti che hanno recepito una procedura di stampo accusatorio tendono a far ricorso a deroghe, se non a vere e proprie modificazioni della procedura vigente, adottando così l’indirizzo comunemente noto come «politica del doppio binario» 45. In fondo, si potrebbe essere tentati di interpretare in questo modo anche la comparsa ed il ricorso, in età repubblicana, alle quaestiones extraordinariae 46. In ogni caso, è uso ricondurre tale diverso atteggiamento nell’esercizio della repressione criminale e nella stessa concezione delle finalità del processo, a diversi modi di interpretare il ruolo dello Stato: così, si usa collegare il modello inquisitorio a regimi tendenzialmente autoritari e quello accusatorio a regimi tendenzialmente liberali 47. Di tale legame, fra modelli processuali e regimi politici, sono state fornite diverse interpretazioni; fra di esse, si segnala quella di M.R. Damaška. Secondo lo studioso statunitense il processo si riconnette alle forme del potere e all’ideologia politica; così, i modelli accusatorio e inquisitorio, che Damaška ridefinisce come modello paritario e modello gerarchico, corrispondono a diverse tipologie di Stato: lo Stato reattivo e lo Stato attivo 48. Nel primo caso, lo Stato si limita ad assicurare l’ordinata convivenza dei cittadini secondo il principio del lassez-faire: la giustizia, di conseguenza, è interpretata in primo luogo come risoluzione dei conflitti. Nel secondo, al contrario, lo Stato esercita un ruolo di guida verso la cittadinanza, assorbendo e dissolvendo al proprio interno la società: la giustizia diviene allora uno strumento di realizzazione di una sorta di «programma politico», o forse sarebbe meglio dire, di una certa visione della società, ma in ogni caso l’interesse dello Stato è in questo quadro assolutamente prevalente 49. Secondo Damaška, il modello gerarchico è più moderno, ossia più recente di quello paritario: le parti vengono private di effettivi poteri nella vicenda processuale, sulla quale proietta la sua ombra l’autorità dello Stato e il processo «può essere instaurato in modo autonomo, senza che sussista alcuna controversia o disputa interpersonale (…) oggetto del processo è quindi un problema riconosciuto come tale dallo Stato, che richiede attenzione e risposta da parte dei funzionari» 50. Al contempo, afferma Damaška, «una controversia interpersonale non è che un sintomo di una questione più ampia, i cui limiti

45

Cfr. CERAMI et al. (2003), p. 78. Recentemente, dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, se ne sono visti numerosi esempi in Europa. Oltreoceano si è invece tentata la via della costituzione di tribunali speciali composti da militari, destinati ad operare secondo una procedura indubbiamente lesiva dei diritti degli imputati, disegnata dal Military Commissions Act del 2006. 46

Su queste ultime mi limito a rinviare a SANTALUCIA (1998), p. 97 ss.

47

Cfr. ILLUMINATI (1988).

48

DAMAŠKA (1991), p. 41 ss.

49

DAMAŠKA (1991), p. 155; DEZZA (2004).

50

DAMAŠKA (1991), p. 265.

Modelli: origini, definizioni, impiego

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possono ben eccedere quelli della controversia che ne è il concentrato» 51. Naturalmente, l’interpretazione di Damaška è orientata verso la modernità, tanto che egli stesso, nella parte del suo studio dedicata alla ricostruzione storica, accantona esplicitamente il mondo romano e bizantino 52. Tuttavia, credo che – maneggiate con tutte le cautele del caso – le teorie di Damaška possano non essere inutili anche per lo storico del diritto antico. Come si cercherà di argomentare in seguito 53, l’impressione di chi scrive è che aspetti procedurali tipicamente inquisitori emergano, nel tardo Impero, specialmente in relazione ad atti criminosi che possono in qualche modo essere definiti come eversivi: in particolare il crimen maiestatis e la devianza religiosa. Ma, in ogni caso, credo che uno dei maggiori meriti di Damaška stia nell’avere tentato di analizzare, almeno sotto il profilo teorico, le commistioni e gli intrecci che possono verificarsi fra i due modelli, al variare della temperie politica o della forma di governo 54; Damaška, fra l’altro, osserva non solo che «forme processuali contenziose e inquisitorie sono ostinatamente intrecciate con incrostazioni gerarchiche e paritarie» 55, ma anche, e ciò è forse ancor più significativo, egli osserva che può accadere che «le vecchie forme subiscano, più o meno di nascosto, un adattamento al mutare dei bisogni (...) si utilizzano le parti private come strumento dello Stato attivo (...) il risultato di questi cambiamenti è che il processo comincia a servire obbiettivi di attuazione di scelte politiche, pur mantenendo esteriormente aspetti dello stile dello scontro» 56. Sono convinto che tali considerazioni possano essere utilmente estese all’esperienza giuridica romana e non solo alla tarda antichità. Ad esempio, anche i casi di quaestiones senatorie per maiestas sotto il regno di Tiberio, riferiti da Tacito 57, credo che possano essere ascritti a questo genere di commistioni, poiché di un procedimento contraddittorio hanno mantenuto la forma, ma perso la sostanza: basti pensare alle vicende di Libone Druso, Gaio Silio e Tizio Sabino 58.

3. L’INIZIATIVA Non sarà sfuggito al lettore che finora non si è fatto pressoché cenno alla questione dell’iniziativa, benché essa costituisca in buona sostanza il centro di 51

DAMAŠKA (1991), p. 266.

52

DAMAŠKA (1991), p. 69.

53

Infra, p. 98 ss.

54

DAMAŠKA (1991), p. 132 ss.

55

DAMAŠKA (1991), p. 132.

56

DAMAŠKA (1991), p. 164 ss.

57

Cfr. ad es. Tac. Ann. 2.27-32; Ann. 4.18-30; Ann. 4.69.

58

Cfr. in proposito RIVIÈRE (2002), p. 6 ss.; MAIURI (2012), p. 29 ss.

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

molte delle più recenti pubblicazioni romanistiche su questa materia. In realtà, non solo mi pare del tutto fuor di luogo affermare, come pure è stato fatto, che caratteristica discriminante del processo accusatorio è l’esercizio dell’accusa in giudizio da parte di un privato cittadino 59 – il che, sia detto per inciso, finirebbe per espellere da tale famiglia la quasi totalità delle più recenti incarnazioni di tale modello – ma più in generale ritengo che la questione dell’iniziativa, ossia dell’impulso che dà avvio al procedimento, presa in sé e per sé non sia affatto centrale rispetto ai problemi qui discussi. Per quanto sia evidente che l’azionamento di un procedimento penale d’ufficio corrisponde al riconoscimento di un interesse pubblico rafforzato alla repressione del reato, se ci si attiene ai modelli processuali per come essi sono stati più sopra delineati e discussi, non è centrale al fine di collocare una data procedura nell’una o nell’altra famiglia se ai fini di avviare il procedimento occorra un atto propulsivo proveniente da un privato o da un organo pubblico. Come ho già avuto modo di dire, ciò che conta è la natura contenziosa e contraddittoria della procedura. D’altra parte, è certo vero che se il procedimento è avviato d’ufficio da un soggetto in capo al quale si trovano a coincidere funzione inquirente e giudicante, non possiamo trovarci dinnanzi a una procedura accusatoria, visto che non può trovarvi luogo il contenzioso e alle parti è di necessità attribuito un ruolo particolarmente ridotto. Non è però vero il contrario: se l’atto propulsivo proviene da un privato o da un organo pubblico, ciò di per sé non consente di dir nulla sulla natura, inquisitoria o accusatoria, del procedimento. Ciò che realmente conta è se l’atto propulsivo è poi seguito dall’assunzione, da parte di chi l’ha compiuto, del ruolo di parte processuale, destinata a scontrarsi nel contraddittorio con la parte avversa. Perché, dunque, tanta attenzione circa il problema dell’iniziativa? La cosa è in realtà spiegabile con un dato di fatto risalente alle stesse fonti, e in particolare a quelle giuridiche: come si è in parte già accennato 60, da esse e da esse sole sembra assai difficile estrarre informazioni dettagliate sullo svolgimento effettivo della procedura. Lo stesso termine inquisitio, notoriamente non è particolarmente significativo di questo o quel modello processuale, in quanto con esso si intende assai genericamente «inchiesta» o perfino «ricerca» 61. Quello che ha indotto gli studiosi a focalizzarsi sulla questione dell’iniziativa, è invece l’esistenza di numerose disposizioni legislative dedicate all’esercizio dell’ac59

Cfr. PERGAMI (2011), pp. 173-174.

60

Supra, p. 11 ss.

61

Cfr. in proposito BOTTA (2008); ZANON (1998), p. 16 ss.

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cusa (accusatio) 62: da esse si è tratta la convinzione della sopravvivenza di parte dell’antica procedura accusatoria, che prevedeva – nel modello delle quaestiones perpetuae – il ricorso all’accusatore privato, intendendosi con ciò l’effettivo esercizio del ruolo di parte processuale per opera del quivis de populo. Allo stesso tempo, si è tentato di negare o ridimensionare l’esistenza di una procedura inquisitoria ponendo in discussione l’esistenza di procedure avviate d’ufficio 63: il che, però, anche ammesso e non concesso che sia vero, non è sufficiente, poiché, come si è detto in precedenza, non solo le procedure avviate d’ufficio possono essere considerate come inquisitorie. Viene in mente a questo proposito quanto scriveva uno dei campioni della «mentalità inquisitoria», Eliseo Masini: «il primo modo, nel quale si forma il processo si chiama per via di denunzia (tralasciando quel modo, ch’è per via di accusa, sì perché rare volte occorre, sì anco perché è quasi il medesimo) (...) il secondo modo è per via di inquisizione ed è quando non v’è alcuno accusatore o denunziante (...) ma corre fama e voce pubblica (...) che alcuna persona ha fatto o detto ...» 64. In ogni caso, sono ben consapevole dell’impossibilità di tracciare confini troppo netti e di redigere catalogazioni troppo rigide, che oltretutto risulterebbero alla fine inutili e inadatte ad apprezzare adeguatamente la realtà storica. Al contempo però credo, come tenterò in seguito di argomentare, che non si possa affermare, come fa buona parte della più recente dottrina, che in età tardo-antica, e in particolare nel IV secolo, la procedura di stampo accusatorio sia rimasta la procedura dominante, in particolare per alcuni reati. In proposito mi pare molto ragionevole quanto osservato a suo tempo da Garofalo, secondo il quale se non è vero che la pubblica accusa avrebbe subito un’inarrestabile decadenza nella cognitio extra ordinem «vero è che l’istituto dell’accusatio in sede di cognitio extra ordinem viene gradualmente ad essere ridimensionato nella sua portata endoprocessuale» 65. In effetti, a mio avviso le fonti assai raramente consentono di affermare che l’esercizio dell’accusa sia qualcosa di diverso dalla mera denunzia, funzionale ad

62

Cfr. RIVIÈRE (2002), p. 6 ss.

63

Cfr. ad es. GIGLIO (2009), p. 14: «il sistema processuale penale disposto nelle tre compilazioni prevedeva, per l’avvio di un procedimento criminale, l’esercizio dell’accusa da parte di un privato e solo in via incidentale, in relazione a un numero circoscritto di fattispecie criminose, era ammessa l’altra possibile procedura basata sulla denuncia esercitata da un’autorità municipale o da un ufficiale (...) anche l’attività dell’ufficiale di polizia o dell’autorità municipale (...) è comunque sempre da considerare come esercizio di un’accusatio (...) il governatore provinciale veniva a trovarsi comunque in posizione di terzietà, per svolgere una funzione di controllo e di garanzia (...) tant’è che gli si imponeva, quando il rapporto dell’ufficiale fosse stato carente, di interrompere la cognitio (...) l’esatto contrario di una procedura d’ufficio». 64

MASINI (1730), p. 14 ss.

65

Cfr. GAROFALO (1992), p. 31 ss.

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attivare la macchina della repressione penale, e – mi pare – tacciono pressoché del tutto a proposito di procedure contraddittorie, a meno che non si voglia forzarne il silenzio facendo dir loro cose che non dicono, anche sulla base di aspetti per certi versi estrinseci: è il caso della regolazione in materia di calumnia e di delazioni anonime, che – paradossalmente – fu dapprima sfruttata da Lauria per congetturare la scomparsa de facto delle procedure accusatorie – divenute troppo rischiose 66 – e poi da altri per sostenere, invece, la persistenza delle antiche regole 67. Ma di ciò si dirà più avanti. Nelle pagine che precedono si è tentato di dare una definizione dei due modelli processuali penali e di identificare che cosa li distingua sotto il profilo dell’architettura del procedimento, oltre che per quel che riguarda il carattere più complessivo della repressione penale che ciascun modello comporta. Si tratta di considerazioni in gran parte ispirate dal pensiero moderno e contemporaneo: mi è parso opportuno svolgerle proprio per evitare che si perpetuino ulteriori confusioni fra modelli propri della moderna scienza processualpenalistica e una terminologia latina che con essi ha poco, se non nulla, a che fare. In tal modo credo che sarà più agevole, oltre che più sicuro, tentare l’applicazione di tali categorie al mondo antico, nella convinzione che il problema della struttura (accusatoria o inquisitoria) del processo nella tarda antichità costituisca comunque, come ebbe modo di dire Sargenti, un problema centrale sotto il profilo storico-giuridico 68. L’analisi presentata nelle pagine che seguono, pur senza alcuna pretesa di essere esauriente o conclusiva, tenterà di far dire alle fonti, siano esse giuridiche o altre, quel che esse contengono, cercando di evitare che l’applicazione di categorie concettuali moderne all’antichità si traduca in uno snaturamento del dato storico. Contestualmente, ci si sforzerà di tenere adeguatamente in conto il dato storico, sottolineandone la ricchezza e la complessità: così, non potranno essere taciuti aspetti particolarmente problematici, quali sono, ad esempio, la non sempre chiara separazione fra funzione amministrativa e giurisdizionale e il ruolo di forme di repressione criminale esercitate direttamente da ufficiali dotati di poteri di polizia. In effetti, il processo penale di tipo inquisitorio necessita di apparati organizzativi e si usa ritenere che esso esprima un modello culturale proprio dei regimi assolutistici, richiedendo un certo grado di specializzazione ed appositi uffici che garantiscano un funzionamento efficiente dell’insieme del sistema di repressione penale. La comparsa di funzionari come curiosi, agentes in rebus, stationa66

LAURIA (1983), p. 309 ss.

67

Cfr. ad es. PERGAMI (2011), pp. 170-171.

68

Cfr. SARGENTI (2011), p. 1383.

Modelli: origini, definizioni, impiego

29

rii, curagendarii, è stata appunto ricollegata all’affermazione del metodo inquisitorio 69: è probabile che in ciò vi sia del vero, ma non è da escludere che in molti casi essi fossero invece funzionali all’esercizio di un controllo poliziesco che non necessariamente conduceva allo svolgimento di un processo a carico di chi avesse commesso reati, specie se non particolarmente gravi 70.

69

Cfr. ad es. BIONDI (1954), p. 505. Contra, ZANON (1998), p. 132 ss.

70

Infra, p. 165 ss.

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CAPITOLO 2 SI LEGES PUBLICAS INTERROGAMUS, ACCUSATOREM EXIGUNT. UNA VICENDA ESEMPLARE SOMMARIO: 1. I crimini di Indicia. – 2. Avvio del processo: metodi inquisitori. – 3. Avocazione: rito accusatorio? – 4. Il significato della vicenda di Indicia.

1. I CRIMINI DI INDICIA 1 In luogo di avviare immediatamente l’esame delle fonti relative al periodo di Costantino, per poi procedere con andamento cronologico, mi è parso opportuno premettere a tutto ciò il resoconto di un’assai singolare vicenda processuale, databile intorno al 380 d.C. 2. Questo perché i fatti che saranno fra breve esposti sono a mio avviso indicativi della temperie che si respirava sul finire del IV secolo in materia di processo criminale: perfino all’interno della Chiesa, tradizionalmente fedele a modelli processuali di stampo eminentemente accusatorio, si era diffusa l’inclinazione a ricorrere, nella prassi giudiziaria, a procedure più spicce ed evidentemente ritenute più efficaci sotto il profilo repressivo. A questo proposito, va osservato come il diritto canonico dei primi secoli, benché in rapidissimo sviluppo, sia ancora piuttosto acerbo e per molti versi costruito intorno al modello del diritto romano, specialmente per quel che riguarda il diritto processuale 3. Così come, secondo taluni, il pensiero cristiano e lo stesso diritto canonico influenzarono il diritto secolare, parimenti il diritto ca-

1 Di questa questione mi sono già occupato tempo fa in BANFI (2007). Le pagine che seguono riprendono in parte, modificandole profondamente e in particolare nelle conclusioni, le osservazioni da me esposte a suo tempo. 2 Il giudizio di Ambrogio è datato fra il 380 e il 396. Cfr. l’edizione a cura di Banterle, p. 111 n. 1. ZACCARIA (1840) p. 31 adotta la seguente cronologia: 335-338 nascita di Indicia, 371 principio della causa, 377 fine del processo. 3

Cfr. GAUDEMET (1958), p. 246 ss.; GAUDEMET (1957), p. 202 ss.

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nonico fu fortemente influenzato dall’evoluzione e dai mutamenti occorsi nella legislazione dello Stato. Per questo motivo, ritengo che il dibattito fra Ambrogio e Siagrio che illustrerò fra breve e del quale, purtroppo, ci è pervenuta direttamente la sola voce di Ambrogio, rifletta in realtà lo scontro fra due diversi modi di intendere la procedura penale, due differenti impostazioni che si ritrovano altresì nel diritto secolare e nella prassi seguita dai giudici dello Stato. Detto in altri termini, il conflitto fra il metropolita di Milano e il vescovo di Verona rispecchia, con ogni probabilità, mutamenti significativi nella prassi giudiziaria già occorsi in ambito secolare, dei quali si dirà nei capitoli successivi. La quinta e la sesta lettera conservate nell’epistolario di Ambrogio, consentono di ricostruire almeno in parte le vicende di un processo criminale canonico a carico di una donna veronese 4. L’imputata, Indicia, era una vergine consacrata (sacra virgo), che aveva preso i voti al tempo dell’episcopato di Zeno o Zenone 5, predecessore di Siagrio 6. Benché residente in casa propria e non in un monastero, essa faceva comunque parte di quel coetus – i cui confini all’epoca non erano ancora precisamente definiti – che si usa definire come clero 7. Indicia abitava dunque a Verona, insieme ad una sorella ed al marito di questa 8. Va notato che Indicia era in rapporti piuttosto stretti con la famiglia di Ambrogio, tanto da aver abitato per un certo periodo nella casa romana del vescovo insieme con la sorella di Ambrogio, Marcellina 9, il che è indice del fatto che la virgo apparteneva con ogni probabilità ai ceti più elevati della società veronese. Stando a quanto si può ricavare dallo scritto di Ambrogio, in una data incerta ma comunque di molto successiva al momento della commissione del presun-

4 Si tratta di documenti piuttosto noti a chi si è dedicato allo studio della giurisdizione ecclesiastica e del privilegio del foro. Cfr. ad es. MARTROYE (1929); BUŠEK (1941); GAUDEMET (1958), p. 234; VISMARA (1987), p. 59; CIMMA (1989), p. 125 ss.; BANFI (2005), p. 192 ss. Salvo qualche eccezione, essi non sono stati granché considerati negli studi sul processo penale tardoantico. Cfr. ad es. MOMMSEN (1899), pp. 346-347; PIETRINI (1996), p. 139 ss. e da ultimo LOSCHIAVO (2001) e (2015). 5 Ambr. Ep. 56.1: ... puellam Zenonis sanctae memoriae iudicio probatam, eiusque sanctificatam benedictione … «Una fanciulla che a suo tempo aveva ricevuto l’approvazione del fu San Zeno e santificata dalla sua benedizione». La numerazione adottata in nota è quella dell’edizione di Banterle. 6

Più precisamente Siagrio era il suo terzo successore. Cfr. l’edizione a cura di Banterle, p. 111

n. 1. 7

Cfr. GAUDEMET (1958), p. 98 ss.; ARJAVA (1998), p. 157 ss.

8

Ambr. Ep. 56.17.

9

Ambr. Ep. 56.21.

Si leges publicas interrogamus, accusatorem exigunt. Una vicenda esemplare

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to reato 10, costei fu accusata di stuprum e infanticidio. Dapprima si erano diffuse per la città dicerie (sparsi rumores) 11 secondo le quali Indicia, dopo aver violato il proprio voto di castità, aveva partorito di nascosto e quindi abbandonato o ucciso il neonato, il cui corpo non fu mai ritrovato: cum editus partus et expositus vel necatus (...) dissipatus sit per aures universorum 12. In un altro passo della medesima lettera, Ambrogio riferisce che l’accusa mossa contro Indicia sarebbe stata in effetti quella di aver partorito e sepolto il neonato (editum et obrutum partum), dunque dopo averlo ucciso, o avendolo così ucciso per soffocamento 13. In realtà le prime voci circa il delitto erano state diffuse ad arte da donne di spregevole condizione: cucurrisse mulieres viles ad monasterium, iactasse partum virginis et necem pignoris, de monasterio rumorem per populos sparsum 14.

Le voci sulle colpe di Indicia erano giunte all’orecchio del giudice ecclesiastico Siagrio, allora vescovo di Verona, per iniziativa del cognato della donna, Massimo 15. Sembra di capire che costui, che già non intratteneva buoni rapporti con Indicia, la quale pare si sforzasse di evitare ogni contatto con il cognato rifugiandosi in campagna, si fosse sentito colpito nella propria onorabilità dal comportamento che si diceva avesse tenuto la cognata. A quanto pare, fu proprio l’intento di riaffermare l’onorabilità della famiglia a spingerlo a dividere con un muro le case della moglie, da poco sposata, e della cognata e a troncare il rapporto di fratellanza fra le due sorelle 16. Tuttavia, a leggere il racconto di Ambrogio si ha l’impressione che fosse in gioco qualcosa di più dell’onorabilità di una famiglia veronese, per quanto di un certo rango: fra i nemici di Indicia, che avrebbero orchestrato la sua vicenda giudiziaria, sono menzionati degli eretici 17 e par di capire che lo stesso Siagrio, scrivendo ad Ambrogio, abbia giustificato il suo intervento evocando il rischio di una frattura nella comunità veronese dei fedeli: 10 Ambr. Ep. 56.1: post tot annos (...) in periculum reatus deducendam arbitrare. «Dopo tanti anni, hai ritenuto di doverla mettere sotto accusa». 11

Ambr. Ep. 56.4.

12

Ambr. Ep. 56.12: «essendo stata diffusa alle orecchie di tutti la vicenda del figlio partorito e esposto o ucciso». 13

Ambr. Ep. 56.18.

14

Ambr. Ep. 56.19: «donne di infima condizione erano accorse al monastero, avevano diffuso la notizia del parto della vergine e della morte del neonato, quindi la voce si era sparsa dal monastero fra la cittadinanza». 15

Ambr. Ep. 56.17.

16

Ibid.

17

Ambr. Ep. 56.1.

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iam illud praeclarum, quod scripsisti insinuatum tibi a quibusdam quod nequaquam tibi communicarent, si eam sine visitatione suscipiendam crederes. Ergo iudicandi accepisti formulam. Quales illi, qui volunt praescribere sacerdotibus quid sequi debeamus? 18

Del resto, il fatto stesso che la vicenda riguardi un monastero, lascia supporre che all’origine di tutta la questione vi fossero scontri o intrighi interni alla Chiesa ed alla società veronese, che oggi risulta purtroppo impossibile ricostruire 19. Peraltro, fatti del genere si verificavano con una certa frequenza: una lettera di Basilio testimonia di una vicenda per molti aspetti analoga a quella di Indicia, nella quale accuse di ogni sorta contro una vergine consacrata furono sparse per la città e si giunse perfino ad appendere i libelli contenenti le accuse sulle porte della chiesa cittadina 20. In ogni caso, per quanto riguarda i reati contestati ad Indicia, sotto il profilo canonistico le si poteva rimproverare la violazione del voto di castità; al reato contro i buoni costumi (mores) si aggiungeva l’omicidio 21. Come si è già accennato, dalle lettere ambrosiane non si riesce a comprendere esattamente quale sarebbe stato il destino riservato al neonato, poiché talora si parla di esposizione, altre volte di vero e proprio omicidio. In realtà le due fattispecie sono per più di un verso sovrapponibili. Infatti, l’uccisione manu propria del figlio da parte della madre, avrebbe configurato per il diritto secolare, sin dal tempo della lex Pompeia 22, il reato di par18 Ambr. Ep. 56.15: «è davvero notevole quanto hai scritto, ossia che taluni ti avrebbero fatto capire che avrebbero interrotto la comunione con te, qualora tu avessi deciso di difenderla senza sottoporla alla visita. Così hai adottato la procedura che ti veniva suggerita. Chi sono costoro, che ritengono di insegnare a noi sacerdoti come ci dobbiamo regolare?». 19

Ambr. Ep. 56.16: quos aiunt eo offensos favisse Maximo, quod ista virgo non circumeat domos nec eorum matronas salutet atque ambiat. «Dicono che erano d’accordo con Massimo coloro che si ritenevano offesi perché la vergine non frequentava le loro case né salutava e brigava con le loro matrone». 20

Bas. Ep. 289.

21

Contra, PROVERA (1964), p. 31, n. 29, che parla unicamente di «reato contro il buon costume». 22 D. 48.9.1 (Marcian. 14 Inst.): Lege Pompeia de parricidiis cavetur, ut, si quis patrem matrem, avum aviam, fratrem sororem patruelem matruelem, patruum avunculum amitam, consobrinum consobrinam, uxorem virum generum socrum, vitricum, privignum privignam, patronum patronam occiderit cuiusve dolo malo id factum erit, ut poena ea teneatur quae est legis Corneliae de sicariis. Sed et mater, quae filium filiamve occiderit, eius legis poena adficitur, et avus, qui nepotem occiderit: et praeterea qui emit venenum ut patri daret, quamvis non potuerit dare. «La legge Pompea sui parricidi dispone che se qualcuno abbia ucciso il padre, la madre, l’avo, l’ava, il cugino o la cugina paterna o materna, lo zio paterno o materno, la zia, il cugino o la cugina, la moglie, il marito, il genero, la suocera, il patrigno, il figliastro, la figliastra, il patrono, la patrona o ne abbia con dolo procurato il decesso sia sottoposto alla pena prevista dalla Legge Cornelia sui sicari. E così pure la madre che abbia ucciso il figlio o la figlia, sia colpita dalla pena prevista da quella legge, come an-

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ricidio. Nel periodo del quale in questa sede ci si occupa, l’infanticidio, inteso come omicidio del neonato da parte della madre subito dopo il parto 23, non costituiva ancora una figura di reato pienamente distinta dall’omicidio, come avverrà in epoca successiva 24; tuttavia, si era già nettamente delineata la tendenza a reprimere severamente atti che, nel mondo antico, costituivano una forma probabilmente assai diffusa di controllo demografico 25. L’uccisione della prole è repressa con speciale severità nell’età dell’Impero cristiano: una legge di Valentiniano del 374 punisce con la pena capitale chiunque – uomo o donna – uccida un infans 26. Ancora più significativa, un’altra legge del medesimo anno, con la quale la pena capitale era prevista anche per i genitori che avessero esposto i figli 27, pratica, questa, assai diffusa e che conduceva con elevata frequenza alla morte del neonato 28, tanto che anche un passo dalle Pauli Sententiae parificava l’esposizione all’uccisione per soffocamento 29. Come si vede, sia che Indicia avesse ucciso di sua mano il neonato, sia che lo avesse esposto, avrebbe rischiato la pena capitale; la giurisdizione secolare, tuttavia, non intervenne ed ebbe luogo soltanto il processo ecclesiastico presso il tribunale episcopale di Siagrio. Il che è probabilmente indice dell’elevato rango sociale dell’imputata, che si voleva sottrarre ai rischi che avrebbe comportato un processo dinnanzi ai tribunali dello Stato 30.

2. AVVIO DEL PROCESSO: METODI INQUISITORI Contro Indicia fu dunque iniziato, in data a noi ignota, un processo penale canonico. Presiedeva il tribunale Siagrio, vescovo di Verona, nel ruolo – non che l’avo che abbia ucciso il nipote: e infine anche colui che abbia acquistato del veleno onde darlo al padre, anche se non poté darlo». 23

Cfr. FIORE (1971), passim.

24

Cfr. GARLATI GIUGNI (2004), p. CLXVII ss.

25

Cfr. ENGELS (1980), p. 112 ss.; HARRIS (1982), p. 114 ss.

26

CTh. 9.14.1 = C.I. 9.16.7.

27

C.I. 8. 51.2 pr. Cfr. BIONDI (1954), p. 487; BIANCHI FOSSATI VANZETTI (1983), p. 212 ss.; SANTALUCIA (1998), p. 293; HARRIS (1994), p. 21 ss. 28

Cfr. HARRIS (1994); CUMONT (1982), p. 185 ss.

29

D. 25.3.4 (Paul II Sent.): necare videtur non tantum is, qui partum perfocat, sed et is, qui abiicit, et is qui alimonia denegat, et is qui publicis locis misericordiae causa exponit, quam ipse non habet. «Pare commettere omicidio non solo colui che soffoca il neonato, ma anche colui che lo getta via, colui che gli nega il nutrimento e colui che lo espone nei luoghi pubblici alla misericordia altrui, quella misericordia che proprio a lui manca». Cfr. FERRINI (1976), p. 381; BIANCHI FOSSATI VANZETTI (1983), p. 213 ss.; HARRIS (1994), p. 19. 30

Sul punto mi limito a rimandare al mio BANFI (2005), p. 192 ss.

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usuale – di giudice monocratico. La procedura adottata dal vescovo è per più versi singolare ed è caratterizzata da evidenti tratti inquisitori. In primo luogo, il processo prese avvio senza che vi fosse un vero e proprio accusator, costituitosi come parte processuale, e se pure vi fu chi trasmise la notizia di reato al tribunale episcopale, costui può essere definito accusatore solo in senso lato; fra l’altro egli non si sottopose ad alcuna delle formalità previste dalla tradizionale procedura di tipo accusatorio. Accusatore in senso lato era dunque Massimo, il cognato di Indicia che si era rivolto a Siagrio chiedendogli di intervenire con un’inchiesta muovendo dalle voci che circolavano in città. Non solo, lo stesso Massimo, insieme ad alcuni suoi sodali di cattiva fama, si era dato da fare, a quanto pare, per assicurare che le maldicenze riguardanti Indicia fossero il più possibile diffuse, anche confezionando lettere, verosimilmente anonime, nonché per procacciarsi testimoni che confermassero l’accusa 31. Ambrogio, peraltro, specifica assai chiaramente che il processo si avviò sine auctore criminationis, sine accusatore, sine professore delationis 32. Ciò significa che non vi fu alcun libellus redatto dall’accusatore – secondo l’uso che era proprio anche del processo penale canonico dei primi secoli. Inoltre, colui che aveva informato l’autorità ecclesiastica del delitto, non aveva adempiuto ad alcuna di quelle formalità che avrebbero permesso di perseguirlo in caso di accusa infondata o calunniosa. Questo è, credo, il significato delle parole di Ambrogio, dove auctor criminationis ed accusator possono essere intesi come sinonimi – la ridondanza ha finalità retoriche 33 – mentre professor delationis fa verosimilmente riferimento al mero delatore 34, il quale, nell’ottica di Ambrogio, avrebbe comunque dovuto essere assoggettato al compimento di taluni atti che ne assicurassero la perseguibilità 35. 31 Ambr. Ep. 56.4: denique, sparsis rumoribus, sed etiam epistulis compositis et destinatis, quaesivit acerbare invidiam delationis. «Infine, cercò di esacerbare l’odiosità dell’accusa non solo con la diffusione di voci, ma anche con la redazione di lettere». 56,17: quomodo ergo non accusator, qui affectum accusatoris iamdudum exercuit, qui sermone suo accusationem detulit, aures tuas implevit clamore et testes auditionis deduxit, cognitionem poposcit? «Dunque come si può non definire costui quale accusatore, dal momento che da tempo agiva con questo spirito, lui che aveva riferito l’accusa con le sue parole, aveva riempito le tue orecchie di schiamazzi, aveva prodotto i testi delle dicerie, aveva preteso che fosse aperta un’inchiesta?». 32

Ambr. Ep. 56.1: «senza un responsabile dell’incriminazione, senza accusatore, senza un autore della denuncia». 33

Cfr. LAURIA (1983), p. 145; PIETRINI (1996), p. 143.

34

Cfr. LOSCHIAVO (2001), p. 273. Contra, PIETRINI (1996), p. 144, secondo la quale si tratta di un altro sinonimo per indicare l’accusator. In effetti non può essere esclusa la possibilità che si tratti di sinonimi (cfr. in proposito SPAGNUOLO VIGORITA (1984), p. 31 ss.), visto che delator può ben essere inteso come sinonimo di accusatore calunnioso. 35

Cfr. SANTALUCIA (1998), p. 244 ss.; LOSCHIAVO (2001), p. 273.

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Secondo alcuni studiosi, la prima parte della frase di Ambrogio (auctor criminationis) indicherebbe l’accusatore nella procedura d’ufficio, distinto terminologicamente e concettualmente dall’accusator vero e proprio, parte processuale e figura propria della tradizionale procedura accusatoria 36; non mi pare, tuttavia, che vi siano altre fonti che confermino l’attendibilità di questa interpretazione. Semmai, si può osservare che nelle fonti giuridiche del tempo criminatio compare come sinonimo di accusatio 37. Comunque sia, è lo stesso Ambrogio ad affermare chiaramente, poche righe oltre, che nel processo erano stati ammessi huiusmodi accusatores, huiusmodi testes, qui neque accusare audebant neque delationis se nexu obligare 38. Il vescovo di Verona, dunque, aveva ritenuto che non vi fosse necessità di particolari formalità e tantomeno della presenza di un accusatore costituito in giudizio; avuta la notizia di reato attraverso una denunzia presentata oralmente 39, senza neppure adottare le cautele normalmente previste per evitare accuse temerarie o calunniose, egli aveva aperto d’ufficio l’inchiesta e, con una lettera, aveva chiamato in giudizio Indicia: negare non potuisti quod ad Indiciam scripseris quoniam Maximus seu impulsu aliorum seu dolore proprio crimen grave detulerit 40.

Come si dirà anche in seguito 41, la legislazione di età costantiniana è su questo punto piuttosto restrittiva e sembra per lo più vietare l’avvio di un processo sulla base di accuse presentate informalmente: ciò che si voleva evitare era, naturalmente, che si moltiplicassero le accuse temerarie o anonime, motivate da rancori personali 42. Tuttavia, si ha l’impressione che, una volta pervenuta la notitia criminis per il tramite di funzionari di polizia, il giudice fosse libero di procedere, anche ove questa fosse di origine anonima 43. Siagrio ritenne dunque di non esigere la presentazione formale dell’accusa, e ciò si spiega – credo – con la particolare gravità del crimine e con il clima di divisione all’interno della comunità cristiana veronese, cui si aggiungeva, eviden36

Cfr. SARGENTI et al. (1991), p. 33.

37

Cfr. ad es. CTh. 9.1.5; LAURIA (1983), p. 145.

38

Ambr. Ep. 56.2: «accusatori e testimoni di una tal fatta, che né avevano il coraggio di accusare formalmente, né di legarsi al vincolo della loro denuncia». 39

Ambr. Ep. 56.4: accusationem, quam (…) verbo detulerat. «L’accusa che aveva presentato oralmente». 40

Ambr. Ep. 56.18: «non hai potuto negare di aver scritto ad Indicia poiché Massimo – o perché spinto da altri o per proprio sdegno – aveva riferito di un grave crimine». 41

Infra, p. 69 ss.

42

Cfr. LOSCHIAVO (2001), pp. 272-273.

43

Cfr. SANTALUCIA (1998/2); BUŠEK (1941), p. 453 ss. Infra, p. 107 ss.

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temente, la personale convinzione del vescovo, che vi fossero in ogni caso elementi sufficienti per considerare non infondate le notizie riferite da Massimo. Il carattere inquisitorio della procedura adottata da Siagrio, che già risulta dall’assenza di una parte processuale gravata dall’onere di provare le accuse, traspare anche da alcuni ulteriori elementi. Contrariamente all’uso e a quanto disposto dal diritto canonico 44, Siagrio decise di condurre l’inchiesta e di giudicare in prima persona, senza istituire un tribunale collegiale: tu autem sine alicuius fratris consilio hoc iudicium tibi solus vindicandum putaris 45.

Non mi pare azzardato supporre che alla mancanza di collegialità, si sia accompagnata una minore pubblicità del processo. Vale la pena di rilevare, a questo proposito, che il processo penale canonico in quest’epoca doveva essere pubblico, come indica il caso, risalente al regno di Costantino, del giudizio reso a Roma da papa Milziade e alcuni altri vescovi, contro il quale i soccombenti sollevarono numerose obiezioni e lamentele rilevando fra l’altro che i giudici quodam loco se clausissent, et prout ipsi aptum fuerat, iudicassent 46. Vi è poi la questione della valutazione della persona che avanza l’accusa e dei testimoni. Il diritto canonico è particolarmente severo nel richiedere che i testimoni siano sottoposti ad attento esame per assicurarsi delle loro personali qualità e dell’assenza di inimicizia verso l’imputato 47: si intendeva, insomma, rafforzare le garanzie processuali degli accusati attraverso un esame dell’attendibilità dei testi anche alla luce della loro condizione sociale e personale. Una particolare attenzione doveva poi essere riservata a quei casi in cui ad essere accusato era proprio un ecclesiastico 48. Lo stesso accusatore avrebbe dovuto essere esaminato per verificarne la capacità ad intentare l’accusa, secondo criteri in parte derivati da quelli del diritto secolare 49; tale esame non fu svolto, poi-

44

Cfr. GAUDEMET (1958), p. 238 ss.; BUŠEK (1941), p. 448 ss.

45

Ambr. Ep. 56.1: «tu infatti hai ritenuto di riservare a te solo questo giudizio, senza il parere di alcun confratello». 46 Epist. Const. Aug. ad Aelafium, vicarium Africae, 40-45 (= Excerpta et scripta vetera ad Donatistarum historiam pertinentia, col. 785; Testi costantiniani, p. 13 ss.): «si erano rinchiusi da qualche parte e avevano giudicato come pareva a loro». 47

GAUDEMET (1958), p. 261 ss.

48

GAUDEMET (1958), p. 261 ss.

49

Cfr. ad es. il can. 2 del Concilio di Cartagine del 419 (PL, vol. 84, col. 227 c), dove si fa espresso richiamo al diritto secolare: Item placuit, ut omnes servi vel proprii liberti ad accusationem non admittantur, vel omnes quos ad accusanda publica crimina leges publicae non admittunt, omnes etiam infamiae macula aspersi, id est histriones ac turpitudinibus subjectae personae, haeretici etiam sive Pagani sive Judaei; sed tamen omnibus, quibus accusatio denegatur, in causis propriis accusandi

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ché nessuno assunse formalmente il ruolo di accusatore, ma neppure furono vagliati i testimoni. Scrive Ambrogio: huiusmodi accusatores, huiusmodi testes in tuo constituebas iudicio, qui neque accusare audebant neque delationis se nexu obligare (...). Si leges publicas interrogamus, accusatorem exigunt; si ecclesiae: Duobus, inquit, et tribus testibus stat omne verbum, sed illis testibus qui ante hesternum et nudius tertius non fuerint inimici, ne irati nocere cupiant, ne laesi ulcisci se velint. Inoffensus igitur affectus testium queritur, ita tamen ut accusator prius in medio procedat 50.

Siagrio ritenne di procedere in tal modo, benché fosse nota sia la turpe condizione di alcuni fra i testimoni d’accusa – Ambrogio li definisce iniqui, vili e così via 51 – sia la personale inimicizia di Massimo nei riguardi di Indicia 52. Perché, dunque, Siagrio non si comportò secondo gli usi consolidati del processo canonico? Ambrogio rimprovera al vescovo veronese di aver posto sotto inchiesta Indicia, nonostante la sua buona fama, quasi che le dicerie contro di lei licentiam non negandam. «Così pure si è stabilito che tutti i servi o i propri liberti non possano essere ammessi all’accusa, ossia tutti coloro che le leggi pubbliche privano della facoltà di accusare; ciò vale anche per tutti coloro che sono macchiati di infamia, ossia gli istrioni e tutte le persone turpi, gli eretici i pagani ed i giudei. Tuttavia a tutti coloro che sono privati della facoltà di accusare, non si deve negare tale possibilità quando si tratta di fatti che li coinvolgono direttamente». Il passo può essere messo a confronto con D. 48.2.8 (Macer 2 de publ. iud.): Qui accusare possunt, intellegemus, si scierimus, qui non possunt. itaque prohibentur accusare alii propter sexum vel aetatem, ut mulier, ut pupillus: alii propter sacramentum, ut qui stipendium merent: alii propter magistratum potestatemve, in qua agentes sine fraude in ius evocari non possunt: alii propter delictum proprium, ut infames: alii propter turpem quaestum, ut qui duo iudicia adversus duos reos subscripta habent nummosve ob accusandum vel non accusandum acceperint: alii propter condicionem suam, ut libertini contra patronos. «Comprenderemo chi ha la facoltà di accusare se avremo contezza di coloro che di tale facoltà sono privati. Infatti alcuni non possono accusare a ragione del sesso o dell’età, come la donna o il pupillo. Altri a causa del loro giuramento, come coloro che fanno parte dell’esercito. Altri ancora a causa della magistratura che ricoprono e della loro potestà, vigente la quale non possono essere legittimamente chiamati in giudizio. Altri a causa dei delitti da loro commessi, come gli infami, o per i loro guadagni illeciti, come ad esempio coloro che hanno sottoscritto l’accusa in due giudizi contro differenti imputati, o coloro che hanno ricevuto danaro per accusare o per non accusare. Altri a causa della loro condizione, come i liberti avverso i patroni». 50

Ambr. Ep. 56.2-3: «hai ammesso nel tuo giudizio accusatori e testimoni di una tal fatta, che né avevano il coraggio di accusare formalmente, né di legarsi al vincolo della loro denuncia (...). Se consultiamo le leggi secolari, esse richiedono un accusatore. Quelle della Chiesa dicono che ogni affermazione si fonda su due o tre testimoni. Testimoni però che ieri e l’altro ieri non si siano manifestati come ostili, né desiderosi di recare danno perché irati, né perché offesi vogliano ottenere vendetta. È necessario dunque un animo imparziale dei testimoni, purché l’accusatore si faccia avanti per primo». 51

Ambr. Ep. 56.19 ss.

52

Ambr. Ep. 56.17.

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costituissero di per sé un indice di colpevolezza, e non vi fosse necessità di indagare a fondo sull’origine delle maldicenze: ante iudicium praeiudicium feceris 53.

Anzi la stessa presunzione di innocenza pare nel caso in esame non essere stata tenuta in alcun conto dal giudice, che sembra considerare le voci pubbliche sufficienti a considerare l’accusa come pienamente dimostrata: etenim, cum audita praeveniunt, aurem obstruunt, animum occupant, ne probatio desideretur, ut rumor pro convicto teneatur crimine 54.

Il fatto è che Siagrio, data la gravità del crimine di cui si trattava, ritenne che l’interesse all’accertamento della verità fosse prevalente su ogni altra considerazione di carattere procedurale, e ciò, naturalmente, si volgeva a danno di colei che era oggetto di indagine: anche in questo si può forse intravedere un tratto tipico del processo inquisitorio. In ogni caso, che Siagrio si ispirasse a una procedura di carattere inquisitorio, è a mio avviso confermato dal modo in cui egli, svolgendo insieme funzione inquirente e funzione giudicante, si comportò nell’acquisizione delle prove. La notizia di reato, infatti, era stata sufficiente ad avviare il processo, ma le testimonianze raccolte non avevano consentito, a quanto pare, di giungere ad una qualche certezza; Il giudice, tuttavia, non si arrese davanti all’insufficienza di prove e decise di ordinare una sorta di visita medico-legale condotta da un’ostetrica. Il ricorso alla perizia mostra bene come l’intendimento del giudice fosse quello di realizzare appieno l’interesse all’accertamento della verità, ponendo di fatto l’accusata in una posizione di assoluta soggezione. Come scrisse lo stesso Siagrio ad Ambrogio, con l’intento di difendere il proprio operato, nisi inspecta fuerit, integritas periclitetur et incerto sui fluctuet 55: solo attraverso la perizia medica, dunque, si sarebbe potuto accertare senza alcun dubbio la veridicità o la falsità delle accuse. In realtà, il ricorso all’intervento dell’ostetrica per verificare la condizione di una donna, era cosa non eccezionale. Basti pensare al titolo quarto del venticinquesimo libro del Digesto, de inspiciendo ventre custodiendoque partu, e specialmente al lungo ed assai noto frammento di Ulpiano con il riferimento alla in-

53

Ambr. Ep. 56.1: «prima del giudizio, hai dato spazio ad un pregiudizio».

54

Ambr. Ep. 56.3: «infatti, quando le voci che circolano accusano per prime, chiudono le orecchie, si impadroniscono dell’animo tanto da non spingere alla ricerca di una prova, sicché una semplice voce viene presa per accusa di un crimine del tutto dimostrato». 55 Ambr. Ep. 56.7: «se non fosse stata visitata, la sua integrità avrebbe vacillato e sarebbe divenuta incerta».

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spectio ventris da parte di un collegio di tre ostetriche, prevista da un rescritto dei divi fratres nel caso in cui il marito sospettasse che la moglie fosse incinta di lui, ma quest’ultima lo negasse 56. Parimenti, il testo di CTh. 9.8.1, potrebbe lasciare intendere che vi fosse la possibilità di accertare attraverso una visita medica l’illibatezza della puella sottoposta a tutela e giunta all’età delle nozze 57. Inoltre, qualche riferimento all’uso di perizie mediche condotte da ostetriche, si può ritrovare nei papiri egiziani 58 che, più in generale, attestano un largo uso delle perizie medico-legali per fatti d’interesse della giurisdizione criminale 59. Lo stesso Ambrogio, che per più motivi si mostra fermamente contrario alla scelta di Siagrio, conferma che si trattava di una pratica relativamente comune in quell’epoca: egli cita il caso di una donna di condizione servile, sottoposta a ben due visite di questa natura senza che fosse possibile giungere ad accertarne con certezza lo stato 60. In un altro passo egli riferisce di donne imputate di crimini non meglio specificati, ma si può presumere analoghi a quelli attribuiti ad Indicia che chiedevano esse stesse di essere sottoposte a esami di questa natura, una volta che si trovavano prive di ogni altra prova a discarico: relinquamus [hoc] etiam illis, si quae gravibus appetitae calumniis, oppressae testimoniis, strangulatae argumentis, ad id confugiant, ut se offerant inspectioni, quo vel corporis probetur custodia 61.

56

D. 25.4.1 (Ulp. 24 ad Edictum).

57

Ubi puellae ad annos adultae aetatis accesserint et adspirare ad nuptias coeperint, tutores necesse habeant comprobare, quod puellae sit intemerata virginitas, cuius coniunctio postulatur. Quod ne latius porrigatur, hic solus debet tutorem nexus adstringere, ut se ipsum probet ab iniuria laesi pudoris immunem. Quod ubi constiterit, omni metu liber optata coniunctione frui debebit; officio servaturo, ut, si violatae castitatis apud ipsum facinus haereat, deportatione plectatur, atque universae eius facultates fisci viribus vindicentur, quamvis eam poenam debuerit sustinere, quam raptori leges imponunt. Contra, Gothofr., comm. ad loc. cit., secondo il quale l’approbatio della virginitas della puella poteva avvenire solo attraverso la testimonianza puellae parentum, vel contutorum aliorum, vel servorum. «Quando una giovane raggiunge l’età adulta e inizia ad aspirare al matrimonio, i tutori dovranno dimostrare che la verginità della giovane di cui si chiede il matrimonio non sia stata violata. Perché tale previsione non si estenda troppo, solo questo obbligo vincolerà il tutore: di dimostrarsi immune dalla violazione della sua castità. Quando ciò sarà accertato, libero da ogni timore egli stesso potrà godere della desiderata unione. Gli uffici tuttavia avranno cura – se il crimine di aver violato la castità della pupilla lo toccherà – di provvedere a che sia punito con la pena della deportazione e che tutte le sue proprietà siano confiscate. Tutto ciò nonostante il fatto che gli sarebbe spettata la pena che la legge prescrive per i rapitori di fanciulle». 58

TAUBENSCHLAG (1955), p. 518,

59

Cfr. TORALLAS (2004).

60

Ambr. Ep. 56.9.

61

Ambr. Ep. 56.14: «lasciamo tutto ciò a quelle che, colpite da gravi calunnie, schiacciate dai

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Comunque sia, pare evidente che il vescovo di Verona muoveva da una sorta di presunzione di colpevolezza: in difetto di prove sufficienti a dimostrare la colpevolezza di Indicia, anziché procedere all’assoluzione si ordinava l’ispezione corporale, cui l’imputata non si sarebbe potuta opporre senza che tale opposizione fosse considerata come un’ammissione di colpevolezza: nam, si umquam se visitandam abnuerit, secundum assertionem tuam de crimine confitebitur 62.

Comunque sia, l’iniziativa di Siagrio giunse alle orecchie di alcuni cittadini veronesi, verosimilmente informati dalla stessa Indicia, suscitando scalpore e proteste. Ambrogio, informato da costoro, che si erano recati a Milano per avvisarlo 63, ritenuto che il comportamento del vescovo di Verona non fosse conforme ai doveri di un giudice ecclesiastico, avocò a sé la causa, nella sua qualità di metropolita e dunque di giudice gerarchicamente sovraordinato 64. La decisione di ricorrere ad una perizia medico-legale aveva evidentemente esasperato ulteriormente gli animi di quella parte dei fedeli veronesi che ritenevano inaccettabile il modo nel quale Siagrio conduceva il processo. Molti interpreti – e fra questi io stesso, a suo tempo – ritengono che a fare scandalo sia stata non solo la questione della perizia, ma la procedura adottata dal vescovo nel suo insieme: una procedura di carattere eminentemente inquisitorio, in un’epoca nella quale il processo penale canonico aveva ancora per lo più carattere accusatorio. È certamente vero, a mio giudizio, che il modo di condurre il processo da parte di Siagrio possa essere ricondotto a una temperie inquisitoria: depongono in tal senso la mancanza di contraddittorio, l’attivismo del giudice nella ricerca delle prove, la compressione del diritto di difesa che sembra prefigurare l’inversione dello stesso onere della prova. Ambrogio adotterà una procedura assai più rispettosa dell’imputata, ma alla fin fine un accurato esame del suo operato rivelerà forse che egli non era quello strenuo difensore della procedura accusatoria ispirata al modello delle quaestiones perpetuae evocato da alcuni 65: egli era pur sempre un figlio del suo tempo.

testimoni, strangolate dalle prove, si offrono come ultimo rifugio all’ispezione, perché in tal modo si provi almeno la custodia del corpo». 62

Ambr. Ep. 56.9: «infatti, se mai vorrà rifiutare la visita, secondo quanto tu stesso hai affermato, confesserà così il suo crimine». 63

Ambr. Ep. 56.1.

64

GAUDEMET (1958), p. 255.

65

BUŠEK (1941), p. 452 ss.; CORDERO (1981), p. 351, n. 5.

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3. AVOCAZIONE: RITO ACCUSATORIO? La procedura adottata da Ambrogio, di primo acchito sembra diametralmente opposta a quella seguita da Siagrio. Ambrogio avocò a sé la cognitio della vicenda, per evitare che procedesse ulteriormente l’inquisitio avviata da Siagrio e soprattutto per sottrarre l’imputata all’umiliazione dell’esame medico-legale: liberavimus itaque te a cognitionis gravissimae necessitate, ne necesse haberes formulam mandatam exsequi 66.

Al principio di un’altra lettera inviata a Siagrio, anch’essa relativa alle vicende di Indicia, Ambrogio rimprovera garbatamente il collega osservando come la causa fosse stata istruita senza le necessarie formalità, che era mancato spazio alla difesa, e che in ogni caso la vicenda non avrebbe potuto risolversi con l’assoluzione dell’imputata se non – forse – a prezzo della sua dignità: itane oportuit inoratam atque inauditam virginitatis causam adiudicari, ut non possit absolvi? Hoc est, nisi sua iniuria 67.

Il processo riprese quindi il suo corso a Milano, ed il giudizio fu affidato ad un collegio di vescovi, diversamente da quel che era avvenuto a Verona 68. Fin dal principio si decise di tenere in gran conto la buona fama di Indicia, già probata dal giudizio di San Zenone, che ne aveva a suo tempo riconosciuto le virtù e la devozione, ponendo così un pregiudizio del tutto opposto a quello di Siagrio, il quale aveva ritenuto che essa, per le sole voci che giravano sul suo conto, fosse in periculum reatus deducendam 69. Si procedette quindi all’esame dell’accusatore e dei testimoni: si ritenne di dover interrogare con ogni cura Massimo (perurgendum arbitrati sumus) 70, il quale rifiutò comunque di assumere formalmente la posizione di accusator. Egli insisteva, tuttavia, nel riferire voci malevole a carico di Indicia:

66 Ambr. Ep. 56.15: «ti abbiamo dunque sollevato dal peso di un processo così grave, perché non dovessi attuare la procedura prescritta». 67 Ambr. Ep. 57.1: «davvero dunque era necessario che la causa della sua verginità, non formalmente esposta e senza che fosse udita la difesa, fosse giudicata in modo tale da non poter condurre ad assoluzione? Ossia, se non con sua offesa». 68

Ambr. Ep. 56.1.

69

Ambr. Ep. 56.1: «da mettere sotto accusa».

70

Ambr. Ep. 56.4: «abbiamo ritenuto di doverlo incalzare».

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ille accusationem, quam studio informaverat, verbo detulerat, deseruit professione; et tamen affectu urgebat, arte exsequebatur sed fugiebat nomine, quod diffideret probationi 71.

Il rifiuto di Massimo di adempiere alle formalità prescritte per chi avanzi un’accusa contribuì certamente a condurre all’assoluzione di Indicia ed alla condanna dello stesso Massimo quale calunniatore. Quanto ai testimoni d’accusa, essi furono sottoposti ad una minuziosa disamina: vennero interrogati in primo luogo due sodali di Massimo, Renato e Leonzio, che asserivano di essere stati testimoni del fatto criminoso. Nell’interrogatorio preliminare condotto da Ambrogio, costoro resero testimonianze divergenti 72 e, nel giorno fissato per il processo, non si presentarono all’udienza 73. Altri testimoni d’accusa non furono ascoltati dal tribunale, poiché l’esame preliminare delle loro persone aveva accertato che si trattava di soggetti vilissimae condicionis et detestabilioris nequitiae 74. Un’altra testimone si rese irreperibile una volta che fu chiaro che se si fosse presentata in giudizio le si sarebbero potute muovere contestazioni tali da condurre quasi certamente ad una sua condanna per crimina contra bonos mores 75. Fissato dunque il giorno del giudizio, il collegio giudicante, una volta riunitosi, constatò che mancava un accusatore e che nessun testimone a carico si era presentato (nullo accusante, nullis testimoniis perurgentibus) 76. Si aprì a questo punto la discussione intorno all’inspectio che era stata richiesta da Siagrio. Ambrogio aveva comunicato l’ordine di Siagrio alla sorella, Marcellina, con la quale Indicia aveva convissuto a Roma: in giudizio, Marcellina

71 Ambr. Ep. 56.4: «non volle farsi carico formalmente di quell’accusa che pure aveva ideato a bella posta e riferita a parole; ciò nonostante insisteva con veemenza e procedeva con astuzia, ma rifuggiva l’imputazione, poiché non era sicuro di poterla dimostrare». 72 Ambr. Ep. 56.19: tamen ubi in meo astiterunt iudicio, cum primo de origine causae quaererem, diversa et distantia prompsere, non locorum separati, sed mendaciorum divortio. «Quando si presentarono al mio giudizio, poiché in primo luogo li interrogavo sull’origine della causa, resero deposizioni diverse e inconciliabili, non perché separati da diversi luoghi, ma dalle menzogne». 73

Ambr. Ep. 56.20: die ipso, qui dictus est cognitioni, subtraxerunt se episcoporum conventui, licet etiam pridie subito se profecturos idem Renatus clamaverit. «Il giorno fissato per il processo, si sottrassero al collegio di vescovi, benché il giorno prima Renato avesse affermato che si sarebbero subito presentati». 74

Ambr. Ep. 56.20: «di infima condizione e ancor più detestabile malvagità».

75

Ambr. Ep. 56.20: aufugisset Theudule, non ignara obiciendi sibi facinoris, quod ante lectum Renati sola cubitavisset, ancilla praesto esset alia, quae stupro eiusdem Renati se diceret coinquinatam. «Teudule si diede alla fuga, ben sapendo che le sarebbe stato opposta la colpa di aver più volte dormito sola davanti al letto di Renato, essendovi a disposizione un’altra ancella, che si diceva contaminata da rapporti illeciti con lo stesso Renato». 76

Ambr. Ep. 56.21: «non essendovi accusatore alcuno, senza testimoni a carico».

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non solo si espresse contro la perizia medico-legale, ma riferì dell’eccellente condotta dell’imputata, assumendo così il ruolo di testimone a discarico 77. Furono raccolte anche altre dichiarazioni da parte di una certa Paterna, che benché non rese sotto giuramento, contribuirono a rafforzare nel collegio giudicante la convinzione della non colpevolezza di Indicia 78. Anche l’interrogatorio della nutrice di Indicia, che per condizione, età e vicinanza alla vergine era da considerarsi testimone particolarmente attendibile, confermò l’innocenza dell’imputata 79. La rapida conclusione alla quale giunse la cognitio rese persino superflua, a quanto pare, la conferma giurata delle dichiarazioni rese 80. Per questi motivi, il tribunale pronunziò sentenza di assoluzione per Indicia, condannando al contempo Massimo, e – più severamente – Renato e Leonzio: his moti, Indiciam inoffensi virginem muneris pronuntiavimus; Maximus autem et Renatum et Leontium ita involvit sententia, ut Maximo, si errorem emendaret, spes rediturus reservaretur, Renatus autem et Leontius excommunicati manenerent, nisi forte probata sui paenitentia et huius facti diuturna deploratione dignos se praeberent misericordia 81.

Tornando ora alla questione dell’inspectio, Ambrogio prese vivacemente posizione contro l’iniziativa di Siagrio: larga parte della quinta e della sesta lettera dell’epistolario ambrosiano, è costituita da argomentazioni di carattere giuridico e soprattutto morale intorno a questo punto. È opportuno considerare con una certa attenzione questo aspetto della controversia, in quanto da esso traspare nel modo più evidente come vi fosse una profonda divergenza di opinioni fra Ambrogio e Siagrio: una divergenza che sembra incentrata intorno alla procedura che si deve adottare nel processo pe77

Ambr. Ep. 56.21: at illa sancte inspectionem quidem recusavit, sed testimonium non declinavit. «Ella piamente si oppose all’ispezione, ma non rifiutò di testimoniare». 78

Ambr. Ep. 56.22.

79

Ambr. Ep. 56.23: nutricem quoque liberae condicionis interrogavimus, cui et status haudquaquam degeneri servitio onboxius libertatem vera fatendi daret et fides atque aetas ad veritatem astipularetur et officium nutricis ad cognitionem secreti. «Abbiamo interrogato anche la nutrice, di libera condizione, la cui condizione in alcun modo soggetta a ignobile servitù le dava la libertà di dire il vero; inoltre l’affidabilità e l’età erano per lei garanzia di veridicità e il compito di nutrice la poneva nella condizione di conoscere fatti segreti». 80 Ambr. Ep. 56.22: etsi quod iniurata diceret, fidei sacramento conferendum foret. «Anche se ciò che diceva senza aver prestato giuramento avrebbe dovuto essere confermato mediante giuramento». 81 Ambr. Ep. 56.24: «per queste ragioni, abbiamo assolto Indicia dall’accusa di aver violato il voto di castità. Massimo Renato e Leonzio sono stati così coinvolti dalla sentenza: a Massimo, se avrà emendato il proprio errore, è lasciata la speranza di ritornare. Renato e Leonzio rimarranno scomunicati salvo che con sincera penitenza e lungo pianto su questa vicenda, non si siano mostrati degni di misericordia».

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nale, e alle regole da seguire circa l’acquisizione delle prove. A questo proposito, è particolarmente significativo quanto afferma Ambrogio riguardo all’inspectio ventris. Secondo il metropolita, non era ammissibile che il giudice procedesse in questo modo: in primo luogo era necessario che il processo vedesse la presenza di un accusatore formalmente individuato come tale. Diversamente, si sarebbe favorito il moltiplicarsi di accuse calunniose, a tutto svantaggio degli imputati che sarebbero stati sottoposti a esami medico legali umilianti, pur in assenza di prove a carico: itane ergo liberum erit accusare omnibus, et, cum probatione destiterint, patebit ut genitalium secretorum petant inspectionem 82.

Questo è senz’altro il principale argomento di Ambrogio contro il ricorso a simili mezzi di acquisizione delle prove. Analogamente, nella seconda lettera indirizzata a Siagrio, Ambrogio osserva come una procedura quale quella adottata dal vescovo veronese rischiava di porre l’imputato in una condizione di grave svantaggio, tanto che, privo dell’ausilio delle leggi ecclesiastiche e di quelle secolari, sulla base di mere voci egli avrebbe potuto essere condotto alle peggiori umiliazioni: hanc igitur praerogativam detulisti integritati, huiusmodi honorificentiam, qua se lacessiri aut invitari gaudeant quae hoc munus recipiendum putant, ut amittant libertatem communis assertionis nec se iure tueantur vel sanctae legis vel publico, ut non accusatorem exigat, non arcersitorem urgeat, sed impudentiam solam induat ac sese proiciat ad iniuriam? 83

A queste considerazioni di carattere generale, se ne aggiungono altre, più specifiche. Infatti, l’inspectio ventris è non solo offensiva per chi la subisce, ma non è neppure da escludere il rischio che un esame di tal fatta possa pregiudicare l’integrità fisica di chi vi è sottoposto, realizzando con ciò la condizione che si intende accertare e che costituirebbe prova di colpevolezza: tale considerazione dovrebbe essere di per sé sufficiente ad impedirne l’uso come mezzo di prova. Ma v’è di più. Secondo Ambrogio, che cita in proposito una consolidata dottrina medica del tempo, l’esame fisico non consente di ottenere alcun valido elemento di prova: 82 Ambr. Ep. 56.5: «sarà dunque possibile per tutti accusare e – mancando le prove – si concederà loro di chiedere l’ispezione delle parti intime dei genitali?». 83 Ambr. Ep. 57.1: «hai dato questa prerogativa all’integrità, una onorificenza tale da attrarre e sollecitare con gioia coloro che pensano di potersi assumere tale onere: perdere la libertà di esprimersi liberamente, essere private dalla protezione del diritto, sia esso quello della Chiesa o quello dello Stato, sicché non sarà richiesto un accusatore, né qualcuno che chiami in giudizio, ma le si esporrà a mera impudenza e le si abbandonerà alle offese».

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quid, quod ipsi archiatri dicunt non satis liquido comprehendi inspectionis fidem et ipsis medicinae vetustis doctoribus id sententiae fuisse? 84

A questo proposito, Ambrogio cita il caso, a lui noto di persona, di una donna di condizione servile, sottoposta per ben due volte ad un simile esame per iniziativa del padrone, senza che si potesse giungere ad una conclusione certa, nonostante l’esperienza e l’autorevolezza dell’ostetrica che eseguì la seconda visita 85. La non affidabilità della perizia finisce per ritorcersi contro l’imputata, poiché anche in caso di esito positivo si potrà continuare a sostenere che l’ostetrica fosse incapace o corrotta 86. Sia detto per inciso, si tratta degli stessi argomenti utilizzati da Cipriano per vietare il ricorso all’inspectio, in un caso per certi versi analogo 87. Se dunque l’esame fisico non consente di giungere ad alcuna certezza, essa non giova in alcun modo all’accusata, della cui colpevolezza si potrà continuare a sospettare (quid profuit igitur eam inspici, cum damnatio maneat?) 88. Inoltre, non è ammissibile, scrive Ambrogio, che il rifiuto di sottoporsi ad un esame di tal fatta possa costituire ammissione di colpevolezza, secondo quanto asserito da Siagrio (si umquam se visitandam abnuerit, secundum assertionem tuam de crimine confitebitur) 89. Non è ammesso, stando ad Ambrogio, che il giudice investighi «sospetti e dubbi» (suspecta et dubia) 90 in mancanza di ulteriori elementi che corroborino l’accusa. Per reati di questa natura occorre far ricorso alle prove testimoniali (maiora examinandae veritatis documenta et testimonia) 91, tenendo conto, fra l’altro, del fatto che è molto difficile riuscire ad occultare una gravidanza indesiderata: quid enim est quod magis publicum sit quam offensa pudoris et defloratio virginitatis? 92

84 Ambr. Ep. 56.8: «che dire, del fatto che gli stessi medici affermano che gli esiti della visita non sono sufficientemente affidabili, un parere condiviso dai più antichi dottori di medicina?». 85

Ambr. Ep. 56.8.

86

Ambr. Ep. 56.9: nam, ut quisque voluerit, aut imperitiam medicam aut redemptam asseret. «Infatti, ciascuno potrà evocare a suo piacimento l’imperizia o la corruzione dell’ostetrica». 87 Cypr. Ep. 4.3.1: nec aliqua putet se posse hac excusatione defendi quod inspici et probari possit an virgo sit, cum et manus obstetricum et oculus saepe fallatur. «Nessuna creda di potersi difendere da accuse di tal fatta attraverso una ispezione che dimostri la propria verginità: infatti la mano e l’occhio dell’ostetrica spesso sono tratte in inganno». 88

Ambr. Ep. 56.9: «a che pro l’ispezione, dal momento che la condanna rimane?».

89

Ambr. Ep. 56.9: «se rifiuterà di farsi visitare, secondo le tue parole, in tal modo confesserà il proprio crimine». 90

Ambr. Ep. 56.11.

91

Ambr. Ep. 56.11: «documenti e testimonianze della verità».

92

Ambr. Ep. 56.11: «cosa infatti vi è di più pubblicamente evidente di una offesa al pudore e di una perduta verginità?».

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Cosa a maggior ragione vera per Indicia che, a motivo del suo ruolo nella comunità dei credenti, era oggetto di frequenti visite 93. In effetti, è proprio sulla base delle deposizioni favorevoli dei testimoni, del rifiuto di Massimo di assumere le responsabilità di accusatore e della mancata comparizione dei testimoni a carico, che il collegio presieduto da Ambrogio assolse Indicia dalle accuse, infliggendo al contempo severe condanne per calunnia.

4. IL SIGNIFICATO DELLA VICENDA DI INDICIA Fra gli studiosi (non molti in verità) che si sono interessati alla quinta lettera di Ambrogio, taluni hanno per lo più rivolto la loro attenzione ad una singola frase: si leges publicas interrogamus, accusatorem exigunt; si ecclesiae: Duobus (…) et tribus testibus stat omne verbum 94.

Una frase che confermerebbe che, all’epoca dei fatti, tanto il processo penale canonico, che quello di diritto secolare erano fondamentalmente improntati al principio accusatorio 95. Non mi sembra, però, che l’insieme della vicenda processuale di Indicia si presti a trarre una conclusione di questo genere. Da un canto, l’inquisitio di Siagrio dev’essere evidentemente annoverata, al pari di altre inquisitiones condotte da vescovi delle quali abbiamo notizia 96, come il frutto di un orientamento culturale e giuridico non più sensibile al richiamo delle tradizionali procedure accusatorie. A questo proposito, credo che Siagrio, nel privilegiare l’interesse all’accertamento della verità rispetto ai diritti dell’imputato, nell’operare attivamente nella ricerca delle prove e nel non concedere alcuno spazio al contradditorio non agisse in modo del tutto arbitrario: egli probabilmente si ispirava al modello processuale che si andava affermando presso i tribunali dello Stato, specialmente ove fossero in questione crimina di particolare pericolosità per l’ordine costituito 97. A questo proposito conviene ancora una volta richiamare come, dall’epistolario ambrosiano, sembri emergere un quadro più complesso di quel che si

93

Ambr. Ep. 56.12.

94

Ambr. Ep. 56.2: «se compulsiamo le leggi dello Stato, esse esigono un accusatore. Quelle della Chiesa dicono che ogni affermazione si basa su due o tre testimoni». 95

Cfr. ad es. MOMMSEN (1899), pp. 346-347; PIETRINI (1996), p. 139 ss.

96

Cfr. ad. es. Aug. Ep. 65; GAUDEMET (1958), p. 259.

97

Cfr. LAURIA (1983/2), p. 208 ss.

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potrebbe di primo acchito immaginare per un semplice caso di infanticidio: la menzione di gruppi di eretici fra i nemici di Indicia, e il cenno a una possibile frattura nella comunità ecclesiale, tale da condurre al rifiuto dell’autorità episcopale, sono indice del fatto che la vicenda aveva una rilevanza notevole e poneva a rischio l’unità e la pace dell’intera comunità. In un certo senso il comportamento di Siagrio, che evidentemente intendeva difendere l’ordine della comunità veronese, può essere accostato a quello del suo contemporaneo Massimino che, in quanto vicario dell’Urbe, conduceva le sue cognitiones secondo un’impostazione spiccatamente inquisitoria, con orrore di Ammiano che lo definiva ferreus cognitor 98. D’altra parte, non credo neppure che sia lecito, sulla base delle fonti, dipingere Ambrogio come strenuo sostenitore di un modello processuale accusatorio 99: il quadro è più complesso. A ben vedere, infatti, Ambrogio contesta a Siagrio essenzialmente due aspetti della procedura da lui adottata: in primo luogo l’aver prestato fede ad accuse non fededegne e non formalizzate. E in secondo luogo, l’aver tentato di ricorrere a mezzi di prova degradanti e non sicuri, trascurando la inconsistenza delle accuse e la mancanza di seri indizi a carico. Va osservato, che in particolare questo aspetto più stava a cuore ad Ambrogio, e infatti ad esso è dedicata buona parte della lettera quinta e la quasi totalità della sesta. Per quanto riguarda la questione dell’accusator, com’è stato giustamente osservato, in alcuni passi Ambrogio sembra quasi echeggiare la prosa ciceroniana, e richiamarsi al modello classico delle quaestiones perpetuae 100; tuttavia, questa rischia di essere solo un’impressione dovuta al lessico e ai modelli letterari adottati. In alcune occasioni Ambrogio afferma che Massimo non volle costituirsi come accusatore, perché non in grado di «provare» le sue accuse (fugiebat nomine, quod diffideret probationi ... liberum erit accusare omnibus, et, cum probatione destiterint ...) 101. In realtà non è affatto detto che la probatio di cui parla Ambrogio debba essere intesa come l’assunzione del ruolo di parte processuale, con l’accusatore gravato dall’onere della prova. Ambrogio potrebbe, più semplicemente, aver fatto riferimento all’inconsistenza delle accuse riferite da Massimo, che mancando di qualsiasi riscontro, avrebbero dovuto essere scartate in via preliminare. Del resto, la terminologia ambrosiana sul punto è equivoca, poiché egli scrive che il processo aveva preso avvio sine auctore criminationis, sine accusatore, sine

98

Amm. 28.1.40. Infra, p. 133 ss.

99

In ciò mi discosto da quanto sostenuto a suo tempo in BANFI (2007).

100 101

Cfr. LOSCHIAVO (2001), p. 273.

Ambr. Ep. 56. 4-5: «sfuggiva l’imputazione poiché non era certo di dimstrarla ... sarà consentito a tutti accusare e quando mancheranno le prove ...».

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professore delationis 102, e poco dopo insiste sul fatto che erano stati ammessi accusatori che neque accusare audebant neque delationis se nexu obligare 103. Come ha ben dimostrato Luca Loschiavo, Ambrogio in realtà, nel rivolgere i suoi rimproveri a Siagrio, non si basava solo sulla corrente legislazione secolare, che pure conosceva senz’altro egregiamente, ma anche sulla procedura – di origine giudaica – descritta nella Didascalia Apostolorum 104. La formalizzazione dell’accusa, secondo quanto previsto dalla Didascalia, intende porre un freno alle accuse temerarie o calunniose, ma non mi pare che si possa dire che essa corrisponda all’assunzione del ruolo di parte processuale: in fondo, nel testo ambrosiano l’accusator non pare molto diverso da un testimone d’accusa, il che è probabilmente da ricondurre a influenze del diritto ebraico 105. Infatti Ambrogio, sulla scorta della Didascalia, raccomanda un attento esame preliminare sia dell’«accusatore» che dei testi d’accusa – esame trascurato da Siagrio – ma in nessun modo suggerisce la necessità di una procedura in contraddittorio. Quanto detto fin qui può forse spiegare l’accostamento, in svariati punti del testo ambrosiano, dei termini accusator e delator 106. Ambrogio non rimproverava tanto a Siagrio di aver proceduto d’ufficio sulla base di mere notizie di reato, ma di non essersi preoccupato di verificare preliminarmente l’attendibilità di quelle notizie e di non aver adottato quei sollemnia 107 la cui funzione, sia per la Didascalia che per la legislazione Costantiniana 108, era di scoraggiare le accuse calunniose. Per quanto riguarda, poi, l’acquisizione delle prove in prima persona da parte del giudice, anche su questo punto pare difficile intravedere negli scritti di Ambrogio la difesa di una procedura schiettamente accusatoria. In effetti, egli rimprovera a Siagrio non tanto il fatto di aver proceduto attivamente a ricercare le prove, ma di aver ordinato una perizia medico-legale fallace, offensiva della dignità dell’imputata e in ogni caso non in grado di risolvere una volta per tutte la questione, tralasciando invece di acquisire altre informazioni che avrebbero assai più agevolmente potuto dimostrare l’innocenza dell’imputata senza violarne l’intimità. Ancora, altri due elementi sconsigliano di rappresentare la polemica fra Am-

102 Ambr. Ep. 56.1: «senza un responsabile dell’incriminazione, senza accusatore, senza un autore della denuncia». 103 Ambr. Ep. 56.2: «né avevano il coraggio di accusare formalmente, né di legarsi al vincolo della loro denuncia». 104

LOSCHIAVO (2001), passim.

105

Cfr. Ambr. Ep. 56.3, su cui LOSCHIAVO (2001), p. 274.

106

Ambr. Ep. 56.1-2; 19.

107

Cfr. Ambr. Ep. 56.2: ubi haec cognitionis sollemnitas? «Dove sono le formalità di questo processo?». 108

Infra, p. 68 ss.

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brogio e Siagrio come scontro fra i sostenitori di due diversi modelli processualpenalistici radicalmente diversi. In primo luogo, se Ambrogio si fosse davvero voluto attenere a una procedura accusatoria ispirata a quei modelli tradizionali cui la sua prosa sembra talvolta voler rinviare, una volta avocato il processo e verificata non – si badi – la desistenza, ma l’assenza di qualsivoglia accusatore e dunque la mancanza di una delle due parti processuali, avrebbe dovuto terminare il processo. Al contrario, Ambrogio, dopo aver interrogato Massimo (accusatorem exegimus) e averne constatato il rifiuto di assumere il ruolo di accusator 109, proseguì con la propria cognitio. Il fatto è che Ambrogio intendeva che fosse adottata ogni cautela per evitare di consentire a Massimo di innescare un processo infamante sulla base di mere voci motivate da ostilità personale, ma non pretendeva certo che egli assumesse il ruolo di parte processuale. Massimo, come afferma Ambrogio in un altro passo della lettera, era infatti il criminis delator 110, la cui funzione era quella di fornire agli organi competenti la notitia criminis. Notitia che avrebbe dovuto essere sottoposta a verifica almeno sommaria da parte di Siagrio, cosa che non era avvenuta. Infine, va osservato che lo stesso Ambrogio procede direttamente all’acquisizione delle prove. Dal suo resoconto non risulta in alcun luogo che l’audizione dei testimoni a discarico sia stata chiesta da Indicia. Marcellina, Paterna, e la nutrice, sono convocate a testimoniare per iniziativa del collegio giudicante, non su richiesta di parte, compiendo un’operazione – come ha ben scritto Loschiavo – «che sarebbe estranea ai compiti del iudex di un procedimento di tipo accusatorio, ma che trova invece paragoni sia nei poteri inquisitoriali del magistrato tardo-imperiale sia nella tradizione ebraica» 111. Naturalmente, è doveroso ricordare come l’interprete debba osservare qualche cautela nella lettura dell’epistolario ambrosiano: esso è infatti costruito sul modello di quello pliniano, è un’opera letteraria e dottrinale, certo non giuridica. Non è però giustificato l’atteggiamento di chi, per questo motivo, ne sminuisce l’attendibilità ai fini di una ricostruzione storico-giuridica 112. È noto, del resto, che Ambrogio – figlio del prefetto delle Gallie – studiò diritto e retorica, fece parte del consilium del prefetto al pretorio Anicio Probo e come consularis governò la Liguria e l’Emilia: dunque, se pure è consigliabile una certa cautela nell’interpretazione dei suoi scritti, si può essere sicuri del fatto che egli non fosse affatto digiuno di diritto 113. 109

Ambr. Ep. 56.4.

110

Ambr. Ep. 56.18.

111

LOSCHIAVO (2001), pp. 278-279.

112

Ad esempio PIETRINI (1996), p. 141.

113

Cfr. SARGENTI et al. (1991).

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Che pratiche e procedure di carattere inquisitorio fossero penetrate nella Chiesa del IV secolo d.C., è ben testimoniato da un’operetta anonima risalente al 370 circa, comunemente nota come Altercatio Heracliani. Nell’opera è contenuto il resoconto di un processo criminale intentato a tre laici e giudicato dal vescovo ariano di Sirmio, Germinio 114. Si trattò, pare di capire, di un processo per eresia, visto che i tre imputati risultano essere fedeli al credo niceno. Ma ciò che qui più interessa è che, pur trattandosi di un processo canonico, l’Altercatio riferisce che gli imputati erano detenuti in custodia cautelare 115 e che nel corso del processo furono sottoposti a tortura per ordine del vescovo 116, il quale non mancò di minacciare a loro carico addirittura la pena dell’esilio 117. A prescindere dall’effettiva attendibilità dell’Altercatio, opera di un ortodosso forse interessato a drammatizzare gli eventi, e dalle questioni che essa pone relativamente al foro ecclesiastico 118, è significativo come ne emerga una descrizione del processo canonico assai simile, nello svolgimento e negli strumenti, al processo secolare, analogamente a quanto si è visto per il caso di Indicia. Credo dunque che sia Ambrogio che Siagrio, testimonino, pur in modo differente, dell’affermarsi delle procedure inquisitorie sul finire del IV secolo. Entrambi sono figli del loro tempo, anche se l’uno si rivela giudice rigoroso e prudente, l’altro troppo spiccio e superficiale; entrambi risentono di un modo di concepire il procedimento penale che informa di sé, come ora si cercherà di dimostrare, anche l’Impero romano cristiano, a partire dal regno di Costantino.

114

Cfr. in proposito BANFI (2005), p. 206 ss. DOSSEY (2001), p. 105.

115

Alt. Her. p. 133: eduxerunt Heraclianum et Firmianum et Aurelianum de custodia coram omni plebe, episcopo sedente in cathedra cum omni clero coram omni populo et maioribus natu populi. «Trassero dal carcere Eracliano e Firmiano e Aureliano e li portarono davanti al popolo, mentre il vescovo sedeva sulla sua cattedra con tutto il clero, davanti a tutto il popolo e ai maggiorenti». 116

Alt. Her. p. 133: tunc percusserunt eum Iovinianus diaconus et Marinus lector. «Allora lo percossero il diacono Gioviniano e il lettore Marino». 117

Alt. Her. p. 147: et iureiurando iurabat, ut eum exilio deportaret. «Giurava e spergiurava che l’avrebbe fatto cacciare in esilio». 118

Da me discusse in BANFI (2005), p. 206 ss.

CAPITOLO 3 ASPETTI DEL PROCEDIMENTO PENALE DURANTE IL REGNO DI COSTANTINO SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Tracce di metodi inquisitori. – 3. Degenerazioni dell’accusa: la calunnia. – 3.1. L’edictum de accusationibus. – 3.2. Automatismi. – 3.3. Pubblicità dell’accusa. – 4. Un processo accusatorio? – 5. Incentivi all’accusa e procedure d’ufficio. – 6. Delazioni e denunzie anonime. – 7. Il procedimento criminale in età costantiniana.

1. PREMESSA L’epoca costantiniana è comunemente considerata un momento di svolta: senza trascurare i pur ovvi elementi di continuità, si tratta certamente di un periodo che segna una cesura con il passato, anche in conseguenza della conversione dell’imperatore e dell’attivismo di questi nelle faccende di fede 1. Al di là di questi aspetti, che in questa sede rilevano solo in parte, taluni interpreti sembrano quasi attribuire al sovrano cristiano una rinascita delle procedure accusatorie, anche attraverso una più stringente regolazione della calunnia e delle delazioni anonime 2. Peraltro, non si deve sottovalutare il fatto che la figura di Costantino è, per ovvie ragioni, oggetto di una rappresentazione ideologica, sul piano storico e dunque anche su quello storico-giuridico. Da un lato, il cristianissimo imperatore considerato come colui che avviò la cristianizzazione del diritto romano, infondendovi nuovi fondamenti etici e morali; dall’altro, non manca chi vede nel suo regno l’inizio di un periodo di cupa oppressione, di spietata repressione, in cui «l’autorità dello Stato paurosamente si afferma» 3. In realtà, per quanto concerne il carattere del processo penale, il quadro che emerge dalle fonti è, a giudizio di chi scrive, piuttosto complesso e di non facile interpretazione. 1

Cfr. DE GIOVANNI (2007), p. 186 ss.

2

Cfr. ad es. PIETRINI (1996), p. 96 ss.

3

LAURIA (1983/3), p. 249.

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Mentre si registrano segnali della diffusione di procedure di stampo inquisitorio, vi sono testimonianze che sembrano andare in altre direzioni: in tal senso, l’era di Costantino appare un periodo di transizione nel quale si confrontano indirizzi non del tutto omogenei. Nelle pagine che seguono, si tenterà di presentare un quadro il più possibile completo dei fatti, per come essi possono essere ricostruiti, attingendo – ove disponibili – anche a fonti di natura non strettamente giuridica. Per semplificare l’esposizione, ho raggruppato le testimonianze secondo che esse si iscrivano nel modello accusatorio o inquisitorio, attenendomi a quanto esposto più sopra circa gli aspetti qualificanti dell’uno e dell’altro modello.

2. TRACCE DI METODI INQUISITORI Un’assai nota costituzione costantiniana, datata al 320 4 e data in Serdica, afferma quanto segue: Imp. Constantinus A. ad Florentium Rationalem. in quacumque causa reo exhibito, sive accusator exsistat sive eum publicae sollicitudinis cura perduxerit, statim debet quaestio fieri, ut noxius puniatur, innocens absolvatur. Quod si accusator aberit ad tempus aut sociorum praesentia necessaria videatur, id quidem debet quam celerrime procurari. Interea vero exhibito non ferreas manicas et inhaerentes ossibus mitti oportet, sed prolixiores catenas, ut et cruciatio desit et permaneat fida custodia. Nec vero sedis intimae tenebras pati debebit inclusus, sed usurpata luce vegetari et, ubi nox geminaverit custodiam, vestibulis carcerum et salubribus locis recipi ac revertente iterum die ad primum solis ortum ilico ad publicum lumen educi, ne poenis carceris perimatur, quod innocentibus miserum, noxiis non satis severum esse cognoscitur 5.

La disposizione, che apre il titolo de custodia reorum del libro nono del Codi-

4 5

Sulla datazione cfr. SEECK (1919), p. 170.

CTh. 9.3.1 pr. = C. 9.4.1. «L’Imperatore Costantino Augusto al Rationalis Florenzio. In ogni causa, quando l’imputato è stato condotto davanti al giudice, sia che vi sia un accusatore, sia che egli sia stato condotto in giudizio per cura di pubblici ufficiali, subito deve aver luogo il processo, perché il colpevole sia punito e l’innocente assolto. Pertanto se l’accusatore risulterà assente o sembrerà necessaria la presenza di complici del delitto, si dovranno regolare queste faccende nel tempo più rapido. Nel frattempo, l’imputato non dovrà essere legato da manette di ferro strette sulle ossa, ma con catene più larghe, perché non vi sia sofferenza, pur permanendo una sicura custodia. Né in carcere dovrà soffrire le tenebre di una profonda prigione, ma dovrà essere vivificato da un po’ di luce; la notte, quando raddoppiano le esigenze di custodia, sarà ricondotto nei vestiboli del carcere e in luogo salubre. Al ritornare del giorno, sul far dell’alba, sarà portato alla luce del sole, affinché non sia ucciso dalle sofferenze del carcere, cosa miserevole per gli innocenti, non abbastanza severa per i colpevoli». Sulla costituzione cfr. DILLON (2012), p. 184 ss.; PAVÓN TORREJÓN (2003), p. 239 ss.

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ce Teodosiano, riguarda la durata della carcerazione preventiva, da abbreviarsi il più possibile, nonché il trattamento da riservarsi agli imputati, per i quali l’imperatore si premura di prevedere un regime non eccessivamente severo: Godefroy la definisce addirittura humanissima et christianissima lex 6. Della detenzione dei rei si dirà più avanti 7. Qui interessa soffermarsi sul cenno, contenuto nella costituzione, a una duplice procedura per l’attivazione del procedimento penale: dal testo si ricava infatti che il detenuto è stato posto in tale condizione in seguito all’intervento di un accusatore (sive accusator exsistat) o, in alternativa, per iniziativa dei pubblici uffici (sive eum publicae sollicitudinis cura perduxerit). Il testo non consente di comprendere esattamente quale sia il ruolo processuale dell’accusatore, del quale si dispone comunque la comparizione in giudizio al pari, sembra di capire, degli eventuali coimputati (si accusator aberit ad tempus aut sociorum praesentia necessaria videatur, id quidem debet quam celerrime procurari). Tuttavia, esso contiene un chiaro riferimento alla possibilità che il procedimento sia avviato in assenza di qualsivoglia iniziativa privata, e per questo motivo è stato generalmente considerato come una significativa testimonianza dell’adozione di procedure inquisitorie 8. Sulla base del destinatario della costituzione (il rationalis Florenzio) vi è chi ha ipotizzato che essa avesse ad oggetto, in origine, reati di natura tributaria 9, oppure il crimen falsi 10, deducendone che la possibilità di procedere d’ufficio contro sospetti criminali, sulla base di informazioni pervenute agli uffici per il tramite dell’autorità di polizia non sarebbe generalizzabile. In realtà, pur con tutte le cautele che è opportuno adottare nell’interpretazione delle costituzioni del Teodosiano, il cui testo, com’è noto, è ampiamente epitomato rispetto all’originale, non pare che tale interpretazione sia sufficientemente fondata. La costituzione infatti precisa in quacumque causa, il che potrebbe lasciare intendere che la disposizione fu composta con l’intento di assicurarle un’applicazione generale. Tuttavia, è anche vero che in quacumque causa potrebbe legarsi a statim debet quaestio fieri, e che quindi da essa non siano ricavabili informazioni significative riguardo all’ambito di applicazione delle procedure d’ufficio. Comunque stiano le cose, il testo conferma che era tutt’altro che inusuale che procedimenti penali prendessero avvio per iniziativa degli uffici competenti; 6

Gothofr. comm. ad loc. cit.

7

Infra, p. 165 ss.

8

Cfr. ad es. SANTALUCIA (1998), p. 281; PIETRINI (1996), p. 71 ss.; ADINOLFI (2009), p. 49 ss.; RIVIÈRE (2002), p. 289. 9

Cfr. LOVATO (1994), p. 178.

10

GIUFFRÈ (1977), p. 187; GAROFALO (1992), p. 33.

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né attribuirei significato alcuno – al contrario di altri interpreti – al fatto che il cenno all’accusator preceda quello alla procedura ex officio, quasi che ciò implicasse una graduatoria di procedure, dalla più alla meno usuale 11. Nessuna fonte, per quanto mi consta, consente di ritenere, come pure è stato affermato, che «la pubblica autorità si attiverà solo quando essendo venuta a diretta conoscenza della perpetrazione di un crimine non si presenti alcun accusatore per perseguirne l’autore» 12. Tanto più che si tratterebbe di una procedura per più versi insensata: quanto tempo avrebbe dovuto attendere l’autorità per attivarsi? Forse avrebbe dovuto essa stessa sollecitare degli accusatori? Sarebbe davvero curioso se – nell’attesa che l’autorità pubblica risolvesse i suoi dilemmi – l’indiziato del reato se ne fosse rimasto quieto, aspettando di vedere se i suoi destini sarebbero stati definiti dall’iniziativa di un privato o da un atto proveniente direttamente dai pubblici uffici. Dalla lettura della costituzione del 320 emerge, a mio giudizio, un secondo punto degno di qualche considerazione: il testo precisa che statim debet quaestio fieri, ut noxius puniatur, innocens absolvatur. Premesso che il termine quaestio non deve essere interpretato in questa sede come sinonimo di quaestio per tormenta, ma indica più semplicemente un’attività di inchiesta, pare evidente che – in assenza di accusator – quest’ultima non poteva che essere condotta in prima persona dal giudice, coadiuvato dal personale ausiliario e di polizia alle sue dipendenze. Ne risulta, dunque, un quadro che sembra escludere qualsiasi forma di contraddittorio e che demanda l’acquisizione delle prove all’attività dello stesso organo giudicante. Un altro testo costantiniano, che precede di poco meno di un anno quello ora considerato, consente di svolgere qualche ulteriore considerazione riguardo al ruolo delle parti e all’acquisizione delle prove. La costituzione è datata al 319, da Serdica 13, e recita quanto segue: Imp. Constantinus A. ad Ianuarinum P. U. Si post strepitum accusationis exortae abolitio postuletur, causa novae miserationis debet inquiri, ut, si citra depectionem id fiat, postulata humanitas praebeatur; sin aliquid suspicionis exstiterit, quod manifestus reus depectione celebrata legibus subtrahatur, redemptae miserationis vox minime admittatur, sed adversus nocentem reum, inquisitione facta, poena competens exseratur. DAT. VI. KAL. DEC. SERDICAE, CONSTANTINO A. V ET LICINIO C. CONSS. 14.

11

In tal senso si esprime ad es. PIETRINI (1996), p. 72.

12

PIETRINI (1996), pp. 72-73.

13

SEECK (1919), p. 169.

14

CTh. 9.37.1: «L’Imperatore Costantino Augusto a Ianuarino, Prefetto dell’Urbe. Se dopo lo strepito di una accusa che è stata sollevata, si richiede la desistenza, bisogna indagare le cause di questa nuova compassionevolezza, perché se essa è richiesta senza che siano intercorsi turpi ac-

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Il testo precisa che se nel corso di un procedimento l’accusatore intende ritirare le proprie accuse, occorre valutare (inquiri) se ciò avvenga a seguito di qualche illecito accordo o mercanteggiamento con l’imputato. Tale è infatti il significato di depectio, come conferma Ulpiano: depectus autem dicitur turpiter pactus 15. Nel caso in cui vi sia ragione di sospettare che la desistenza dell’accusatore (abolitio) sia appunto originata da qualche accordo illecito per sottrarre l’imputato ai rigori della legge, il processo dovrà continuare anche in assenza dell’accusator, affinché, completata l’inchiesta (inquisitione facta), il reo sia colpito dalla giusta sanzione. La costituzione circoscrive l’inefficacia dell’abolitio per l’estinzione del procedimento ai casi in cui essa sia stata determinata da accordi poco chiari fra imputato e accusatore. Ciò non toglie che dal testo emerga un attivismo del giudice che mal si concilia con il modello accusatorio: di certo, in questo caso, non si può parlare di «processo di parti», poiché sarà il giudice in prima persona a indagare sulle ragioni della desistenza dell’accusatore, e al giudice spetterà l’acquisizione delle prove nel caso in cui egli decida che il procedimento sia meritevole di proseguire fino a sentenza 16. D’altro canto, si inferisce dalla medesima disposizione che spetterà al giudicante di decidere se invece l’abolitio sia correttamente motivata e dunque possa condurre all’estinzione del procedimento. In tal senso, non pare fuor di luogo quanto affermato da Santalucia, secondo il quale il testo costantiniano testimonia del fatto che «la persecuzione dei crimini è considerata una funzione dello Stato, a cui l’accusatore non fa che dare l’impulso iniziale, senza che la sua desistenza possa influire sullo svolgimento del giudizio» 17.

cordi, la si conceda. Se invece vi sarà qualche sospetto che si intende sottrarre al rigore delle leggi un soggetto manifestamente colpevole attraverso accordi illeciti, quella voce pietosa, che è stata comprata, non sia ammessa, ma completato il processo il colpevole subisca la pena competente». Interpretatio. Si quem poenituerit accusare criminaliter et inscriptionem fecisse de eo, quod probare non potuerit, si ei cum accusato innocente convenerit, invicem se absolvant. Si vero iudex eum, qui accusatus est, criminosum esse cognoverit et inter reum et accusatorem per corruptionem de absolutione reatus convenerit, is, qui reus probatur, remoto colludio, poenam excipiat legibus constitutam. «Se qualcuno si pente dopo aver avanzato accusa criminale e di aver sottoscritto una imputazione che non è in grado di provare, e si accorderà con l’imputato innocente, si assolvano le parti reciprocamente. Se invece il giudice riconoscerà che l’accusato è colpevole e che un accordo corruttivo è stato raggiunto fra accusatore e imputato per giungere all’assoluzione, annullato l’accordo, il colpevole riceva la pena stabilita dalle leggi». Cfr. C.I. 9.42.2. 15

D. 3.6.3.2: «con depectus si intende un patto concluso in modo illecito» cfr. PIETRINI (1996),

p. 82. 16 Anche in considerazione di quanto detto circa CTh. 9.3.1 non mi pare corretto affermare che CTh. 9.37.1 costituirebbe un caso unico nel quale il giudice è gravato dal «pesante onere di ricercare le prove». Cfr. PIETRINI (2009), p. 151; DI CINTIO (2012), p. 36. 17

SANTALUCIA (1998), p. 282.

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L’accusatio, al di là della questione se essa consista nell’assunzione del ruolo di parte processuale o nel semplice impulso dato al procedimento criminale, sarebbe – in questo quadro – solo uno dei mezzi a disposizione per la realizzazione dell’interesse pubblico alla repressione della criminalità. All’incirca allo stesso periodo risale un’altra costituzione costantiniana, indirizzata a Massimo, Prefetto dell’Urbe e risalente al marzo del 320 18: Imp. Constantinus A. ad Maximum Praefectum Urbi. Cum in praeterito is mos in iudiciis servaretur, ut prolatis instrumentis, si ea falsa quis diceret, a sententia iudex civilis controversiae temperaret eoque contingeret, ut imminens accusatio nullis clausa temporibus petitorem possessoremve deluderet, commodum duximus, ut, etsi alteruter litigantium falsi strepitum intulisset, petitori tamen possessorive momentum prolatorum instrumentorum conferret auctoritas, ut tunc civili iurgio terminato secunda falsi actio subderetur. Volumus itaque, ut primum cesset inscriptio. Sed ubi falsi examen inciderit, tunc ad morem pristinum quaestione civili per sententiam terminata acerrima fiat indago argumentis testibus scripturarum collatione aliisque vestigiis veritatis. Nec accusatori tantum quaestio incumbat nec probationis ei tota necessitas indicatur, sed inter utramque personam sit iudex medius nec ulla quae sentiat interlocutione divulget, sed tamquam ad imitationem relationis, quae solum audiendi mandat officium, praebeat notionem, postrema sententia quid sibi liqueat proditurus. Ultimum autem finem strepitus criminalis, quem litigantem disceptantemque fas non sit excedere, anni spatio limitamus, cuius exordium testatae aput iudicem competentem actionis nascetur auspicium: capitali post probationem supplicio, si id exigat magnitudo commissi, vel deportatione ei qui falsum commiserit imminente. PROPOSITA VIII KAL. APRIL. IN FORO TRAIANI CONSTANTINO A. VII ET CONSTANTIO C. CONSS. 19.

18 19

Per la datazione cfr. SEECK (1919), p. 169.

CTh. 9.19.2: «L’Imperatore Costantino Augusto a Massimo, Prefetto dell’Urbe. In passato si seguiva tale uso nei tribunali, sicché quando erano prodotti dei documenti, se qualcuno ne sosteneva la falsità. Il giudice della lite civile si sarebbe astenuto dal giungere a sentenza, ma in tal caso, l’accusa criminale pendente, non sottoposta ad alcun vincolo temporale, avrebbe finito per tradursi in una beffa ai danni del petitore o del possessore. Per questa ragione, riteniamo opportuno che anche se uno dei litiganti avanza accusa di falso, ciò non di meno l’autorità dei documenti prodotti basti a conferire possesso temporaneo al possessore o al petitore, in modo che – conclusa l’azione civile- si dia luogo a una seconda azione per falso. Vogliamo dunque che in primo luogo non vi sia necessità di inscriptio. Ma quando ha luogo l’inchiesta per falso, allora – in conformità con l’antico costume, terminata con sentenza la controversia civile – abbia luogo un’indagine particolarmente vigorosa, basata su argomenti, testimonianze, comparazione di documenti e ogni altro indizio di verità. Né tale processo gravi sulle sole spalle dell’accusatore, né a lui sarà assegnata l’intera necessità della prova, ma il giudice dovrà essere neutrale fra le parti. Egli non divulgherà alcunché di ciò che pensa per via di sentenza interlocutoria, e condurrà l’esame come se si trattasse di un caso oggetto di relatio, che impone al giudice il solo compito di udire la causa e infine renderà noto nella sentenza il suo avviso. Infine, limitiamo al tempo di un anno la durata di un procedimento criminale: termine che né le parti né il giudice possono eccedere. Anno il cui inizio andrà computato dall’avvio dell’azione attestata presso un giudice competente. Dopo la

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La costituzione in esame disciplina i casi nei quali, nel corso di una lite civile e in particolare di un processo petitorio, una delle parti contesti in giudizio la genuinità delle prove documentali presentate dall’avversario. La procedura usuale prevedeva, per casi di tal genere, che si sospendesse la causa civile e avesse luogo un giudizio incidentale per crimen falsi. Innovando in materia, Costantino precisa che gli parve scelta migliore (commodum duximus) che avesse prima termine il giudizio civile, per essere seguito solo in un secondo tempo da quello criminale (ut tunc civili iurgio terminato secunda falsi actio subderetur). In questo quadro si dispone la non necessità della inscriptio, ossia dell’assunzione formale del ruolo di accusator da parte di chi aveva contestato la genuinità dei documenti presentati dall’avversario 20. Se si tratti di una esenzione limitata a casi di questa natura, mirante a liberare l’accusatore dalle conseguenze che gli sarebbero potute derivare in caso di accusa falsa o non dimostrata, o se invece la inscriptio dovesse essere al termine della controversia civile, non è possibile dire con certezza. Merita comunque di essere osservato che la costituzione si conclude prescrivendo la pena (capitale, o deportazione) a carico del falsario (ei qui falsum commiserit), senza far cenno alcuno alla poena reciproci che avrebbe dovuto colpire il falso accusatore 21. Neppure è del tutto chiara la ratio della norma che inverte l’ordine dei giudizi senza alcun vantaggio apparente, a meno che essa sia da identificarsi nella volontà di impedire le tattiche dilatorie delle parti che, avanzando l’accusa di falso, miravano ad allontanare nel tempo la decisione della controversia civile 22. Comunque stiano le cose, mi pare invece di particolare interesse l’ultima parte del testo. Esso chiarisce che, conclusasi la controversia civile (quaestione civili per sententiam terminata) dovrà svolgersi un’indagine estremamente approfondita (acerrima fiat indago) che dovrà fondarsi su argumentis testibus scripturarum collatione aliisque vestigiis veritatis. Né, prosegue il legislatore, spetterà all’accusatore l’onere della prova (nec accusatori tantum quaestio incumbat nec probationis ei tota necessitas indicatur). Quanto al giudice egli inter utramque personam sit iudex medius nec ulla quae sentiat interlocutione divulget. L’ultima frase è stata letta dagli interpreti in vario modo. Taluni vi hanno perfino intravisto una prefigurazione della contemporanea terzietà del giudice nel processo accusatorio (sit iudex medius) 23, altri hanno interpretato il passo

prova di colpevolezza, sia applicata a colui che ha operato il falso la pena capitale, se ciò richiede la gravità del fatto commesso, oppure la deportazione». Cfr. C.I. 9.22.22. 20

NON

Sull’uso del termine inscriptio invece di subscriptio, si veda PIETRINI (1996), p. 65 ss.; ZA(1998), p. 35 ss.; SANTALUCIA (1998), pp. 282-283.

21

Infra, p. 68 ss.

22

Cfr. PIETRINI (1996), p. 84.

23

Cfr. MARTINI (2003).

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come se esso disponesse la ripartizione dell’onere della prova tra accusato e accusatore, anche sulla scorta di altre costituzioni dei successori di Costantino, in materia di falso 24. Altri ancora hanno ipotizzato che l’accusatore avrebbe dovuto collaborare attivamente con il giudice nella ricerca delle prove 25, o che il giudice sarebbe stato lui stesso attivo in tale ricerca 26. Personalmente, pur conscio delle difficoltà interpretative che il passo presenta, ritengo più credibile quest’ultima ipotesi, anche se con qualche precisazione. In primo luogo l’ordine di svolgere un’acerrima indago che non tralasci alcun elemento atto ad acclarare la verità dei fatti (argomentazioni, testimonianze, raccolte di documenti scritti e «altri indizi della verità») sembra essere diretto proprio al giudice e non ad altri. D’altro canto, l’attivismo del giudice nella ricerca delle prove non esclude in alcun modo che le parti, all’occasione, potessero tentare di far valere presso di lui le proprie argomentazioni. Inoltre, se pure si vuole prospettare l’ipotesi, nonostante la reticenza del testo in esame, che l’onere della prova fosse ripartito fra le parti, ciò sarebbe perfettamente compatibile con quanto detto poc’anzi. Secondo alcuni, infatti, CTh. 9.19.2 anticiperebbe quanto stabilito da una successiva costituzione di Costanzo del 346: Impp. Constantius et Constans AA. Aurelio Mimenio. Quotiens scriptura aliqua profertur eaque ab eo, adversus quem facere videtur, suspecta dicitur, non solum is, qui de ea dubitat, falso conscriptam cogatur ostendere, verum etiam ille, qui eadem utitur, veritate subnixam probare cogatur. DAT. VI KAL. SEPTEMB. CONSTANTINOPOLI CONSTANTIO IIII ET CONSTANTE III AA. CONSS. 27.

In sostanza, già con Costantino si sarebbe affermato il principio per il quale sia l’accusatore che l’imputato erano gravati, in caso di accusa di falso, dall’onere di fornire al giudice elementi di prova; tale principio, finalizzato ad assicurare un efficace accertamento della verità dei fatti da parte del giudice, sarebbe poi stato ancor più chiaramente ribadito dai successori di Costantino 28. Ma se anche così fosse, e se dunque si dovesse assumere che entrambe le parti fossero tenute a fornire al giudice gli elementi a loro disposizione, ne emerge comunque che lo iudex medius di cui si parla nel testo costantiniano è tutto

24

Cfr. MARTINI (2003); PIETRINI (1996), p. 84 ss.; SOLIDORO (1998), p. 165 ss.

25

Cfr. SPAGNUOLO VIGORITA (1984), p. 58.

26

Cfr. PUGLIESE (1980), p. 327 ss.

27

CTh. 11.39.4: «Gli Imperatori Costanzo e Costante Augusti ad Aurelio Mimenio. Ogni qual volta è prodotto in giudizio un documento e di esso è messa in dubbio l’autenticità da parte di colui contro il quale esso è rivolto, non solo colui che dubita dell’autenticità sia tenuto a dimostrare il falso, ma anche colui che di tale documento si giova, sia obbligato a dimostrare che esso è fondato sulla verità». 28

ARCHI (1943), p. 678 ss.; PIETRINI (1996), pp. 85-86; SCHIAVO (2007), p. 170.

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fuorché il giudice terzo e imparziale tipico del modello accusatorio. La stessa natura di «parti» dei soggetti coinvolti ne esce snaturata: non è il contraddittorio fra portatori di interessi contrapposti che emerge da CTh. 9.19.2, bensì l’obbligo di chi è coinvolto nella vicenda processuale di fornire la propria collaborazione a un giudice attivamente impegnato nella raccolta delle prove e teso all’accertamento della verità senza tralasciare alcun vestigium veritatis. Insomma, non credo affatto che lo iudex di CTh. 9.19.2 sia figura da iscrivere nel quadro di un procedimento accusatorio. Certamente la disposizione costantiniana sembra essere, al pari di quella esaminata in precedenza e relativa all’abolitio, di non frequente applicazione: tuttavia altri indizi non consentono a mio giudizio di affermare, come pure è stato fatto, che l’intervento inquisitorio del giudice ha in questo periodo «natura sicuramente eccezionale» 29. A questo proposito, è opportuno considerare un’altra costituzione costantiniana, data ancora una volta a Serdica in un anno variamente collocato dagli interpreti, compreso fra il 320 e il 329 30: Imp. Constantinus A. ad populum. Si qua cum servo occulte rem habere detegitur, capitali sententiae subiugetur, tradendo ignibus verberone, sitque omnibus facultas crimen publicum arguendi, sit officio copia nuntiandi, sit etiam servo licentia deferendi, cui probato crimine libertas dabitur, cum falsae accusationi poena immineat. Ante legem nupta tali consortio segregetur, non solum domo, verum etiam provinciae communione privata, amati abscessum defleat relegati. Filii etiam, quos ex hac coniunctione habuerit, exuti omnibus dignitatis insignibus, in nuda maneant libertate, neque per se neque per interpositam personam quolibet titulo voluntatis accepturi aliquid ex facultatibus mulieris. Successio autem mulieris ab intestato vel filiis, si erunt legitimi, vel proximis cognatisque deferatur vel ei, quem ratio iuris admittit, ita ut et quod ille, qui quondam amatus est, et quod ex eo suscepti filii quolibet casu in sua videntur habuisse substantia, dominio mulieris sociatum a memoratis successoribus vindicetur. His ita omnibus observandis, et si ante legem decessit mulier vel amatus, quoniam vel unus auctor vitii censurae occurrit. Sin vero iam uterque decessit, soboli parcimus, ne defunctorum parentum vitiis praegravetur; sint filii, sint potiores fratribus, proximis atque cognatis, sint relictae successionis heredes. Post legem enim hoc committentes morte punimus. Qui vero ex lege disiuncti clam denuo convenerint, congressus vetitos renovantes, hi servorum indicio vel speculantis officii vel etiam proximorum delatione convicti poenam similem sustinebunt. DAT. IV. KAL. IUN. SERDICAE, CONSTANTINO A. VII. ET CONSTANTIO C. CONSS. 31.

29

PIETRINI (1996), p. 86.

30

Per la complessa questione della datazione del testo, mi limito a rinviare al mio BANFI (2012), con relativa bibliografia. 31 CTh. 9.9.1. (cfr. C.I. 9.11.1). «L’imperatore Costantino Augusto al Popolo. Se una donna è scoperta avere una relazione clandestina con un (suo) schiavo, sia soggetta a sentenza capitale e lo

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Non interessano in questa sede la ratio legis, né le ragioni che spinsero Costantino ad un intervento così deciso per impedire che si verificassero unioni fra donne libere e schiavi di loro proprietà 32. Piuttosto, va osservato come il legislatore abbia previsto una pluralità di modi in cui l’azione penale può essere avviata: a seguito di accusa da parte di chiunque (sitque omnibus facultas crimen publicum arguendi), d’ufficio, a seguito di informazioni ricevute dalle autorità dotate di poteri di polizia (sit officio copia nuntiandi), e infine perfino a seguito di denunzia da parte di un servo (sit etiam servo licentia deferendi), al quale sarà concessa la libertà se il crimine sarà stato accertato, e che sarà invece debitamente punito qualora l’accusa dovesse rivelarsi infondata (cum falsae accusationi poena immineat).

schiavo sia dato alle fiamme. Sia aperta a tutti la facoltà di accusare di questo pubblico crimine, gli uffici avranno ampia licenza di riferirne, sia data perfino a un servo la possibilità di denunzia. Servo al quale si darà la libertà una volta provato il crimine, ferma restando la minaccia della pena per falsa accusa. Se una donna si è sposata prima della presente legge, sarà divisa da tale consorzio, sarà privata non solo della casa, ma della vita della stessa provincia e così piangerà l’assenza del suo amato in esilio. I figli, che essa ha avuto da tale unione, privati delle insegne di ogni dignità, resteranno semplicemente liberi, senza poter ottenere a qualsiasi titolo alcunché – direttamente o per interposta persona – dei beni materni. Inoltre, l’eredità della donna, in caso di successione intestata, pervenga ai suoi figli, se ne ha di legittimi, o ai parenti più prossimi e ai cognati o a chiunque altro sia previsto dalla legge, in modo che qualsiasi bene in possesso dell’antico amante o dei figli con lui concepiti sia ricongiunto al patrimonio materno e possa quindi essere rivendicato dai menzionati successori. Queste disposizioni devono essere osservate anche nel caso in cui la donna o il suo amante sia premorto alla legge, affinché anche uno solo degli autori dell’illecito sia punito. Ma se entrambi sono morti, ne risparmiamo la discendenza, perché non portino il giogo dei vizi dei genitori. Saranno riconosciuti come figli e saranno preferiti ai fratelli, ai prossimi, ai cognati: siano dunque eredi di quanto lasciato. Dopo la promulgazione di questa legge puniamo con la morte coloro che commettono un tale crimine. Coloro che sono stati divisi per effetto di questa legge e tornano segretamente insieme e rinnovano l’unione proibita, che siano stati condannati grazie alla denunzia di uno schiavo, o grazie all’azione dei sempre vigili uffici o anche per delazione da parte dei prossimi, sosterranno anche essi simile pena». Interpretatio. Si qua ingenua mulier servo proprio se occulte miscuerit, capitaliter puniatur. Servus etiam, qui in adulterio dominae convictus fuerit, ignibus exuratur. In potestate habeat huius modi crimen quicumque voluerit accusare. Servi etiam aut ancillae, si de hoc crimine accusationem detulerint, audiantur: ea tamen ratione, ut si probaverint, libertatem consequantur, si fefellerint, puniantur. Hereditas mulieris, quae se tali crimine maculaverit, vel filiis, si sunt ex marito suscepti, vel propinquis ex lege venientibus tribuatur. «Se una donna libera si è unita segretamente al suo servo, sia punita con la pena capitale. Lo schiavo riconosciuto colpevole di adulterio con la propria padrona, sia arso vivo. Chiunque lo vuole abbia facoltà di accusare per questo crimine. Anche servi e ancelle, se riferiscono accuse relative a questo crimine, siano uditi in giudizio: in modo che se proveranno l’accusa otterranno la libertà, se avranno detto il falso saranno puniti. L’eredità della donna che si sia macchiata di un tal crimine, sia assegnata ai figli – se nati dal marito – o ai parenti secondo l’ordine stabilito dalla legge». 32 Su tutto ciò, inclusa la questione dell’appartenenza del servo, mi permetto di rinviare, ancora una volta, a BANFI (2012).

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È evidente, mi pare, che Costantino intendeva far sì che la repressione del crimine oggetto della sua costituzione fosse il più possibile efficace. Per questo motivo egli indica ben tre strade per l’avvio del procedimento penale. Di queste, due si lasciano verosimilmente iscrivere nel quadro di una procedura a carattere inquisitorio: la repressione attivata ex officio è da ritenersi priva di una parte costituita in giudizio nel ruolo di accusatore, e lo stesso deve dirsi per il caso della denunzia proveniente dallo schiavo che certo non potrà in alcun modo essere ritenuto un accusator nel senso pieno del termine: anzi esso potrà essere semmai considerato come una sorta di «collaboratore processuale». L’utilizzo del termine indicium potrebbe far pensare a un collaboratore coinvolto (ossia a una denunzia proveniente da parte dello stesso servo partecipe della relazione illecita), ma la cosa sembra assai poco probabile. In tal senso, per quel che vale, depone anche il testo dell’interpretatio: servi etiam aut ancillae si de hoc crimine accusatione detulerint, audiantur: ea tamen ratione, ut, si probaverint, libertatem consequantur, si fefellerint, puniantur 33.

È da notare che la costituzione ha effetti parzialmente retroattivi, e contiene anche una norma transitoria, che prevede sanzioni meno gravi per le coppie miste che abbiano intrapreso la loro relazione prima della pubblicazione della legge. Per costoro la pena capitale è sostituita dalla separazione della coppia attraverso il ricorso alla relegatio (tali consortio segregetur non solum domo, verum etiam provinciae communione privata, amati abscessum defleat relegati). Il testo non si segnala per chiarezza, ma è certo comunque che la coppia costituita prima della pubblicazione della legge doveva essere sciolta attraverso l’allontanamento reciproco dei componenti 34. Ora, nell’ultima parte di CTh. 9.9.1, dopo aver ribadito la pena capitale per coloro che commettano il reato post [hanc] legem, si precisa che in tale trattamento incorreranno anche coloro che – separati l’uno dall’altro per effetto della norma transitoria – si riuniranno congressus vetitos renovantes. Ancora una volta si precisa che costoro potranno essere sottoposti a processo criminale: a seguito di denunzia da parte di servi o da parte dei parenti piú prossimi o per intervento d’ufficio (servorum indicio vel speculantis officii vel etiam proximorum delatione convicti). Il testo in esame è per più versi singolare, non da ultimo perché esso sembra discostarsi, quanto a regolazione dell’accusa e dell’iniziativa del processo penale, dalla costituzione coeva conservata in CTh. 9.7.2 e relativa al crimen adulterii, con la quale si disponeva l’assoluta esclusione degli estranei – ossia di coloro che

33

Sulla collaborazione processuale cfr. CERAMI et al. (2003), p. 249 ss., e relativa bibliografia.

34

Su questo punto cfr. BANFI (2012), p. 483 ss.

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non fossero portatori di un interesse personale alla repressione del reato 35 – dall’esercizio dell’accusa. Di tale incongruenza si possono dare diverse spiegazioni: si potrebbe ad esempio citare la frequente contraddittorietà delle disposizioni legislative dell’epoca, che lungi dal conformarsi a un indirizzo politico-legislativo coerente e ben definito, spesso sembrano inseguire in modo più o meno disordinato le urgenze del momento 36. Non sono però certo che questa sia la spiegazione giusta per il caso in esame: come ho tentato altrove di argomentare 37, è molto probabile che il fine ultimo di CTh. 9.9.1 fosse quello di porre un freno ai comportamenti di alcune frange della comunità cristiana, che all’imperatore parevano minacciosi per la tenuta dell’ordine politico e sociale. Non è insomma da escludere che l’imperatore, per ragioni di opportunità dettate dall’esigenza di ridurre la mobilità sociale e di consolidare il prestigio delle élites dominanti, abbia deciso di colpire alcuni comportamenti diffusi proprio nelle comunità cristiane. Di qui, la decisione di allargare il più possibile il novero dei canali attraverso i quali poteva attivarsi il meccanismo della repressione criminale. In questo quadro, mi pare particolarmente significativo il riferimento all’officium, al quale viene attribuita copia nuntiandi: le parole stesse lasciano chiaramente intendere che non è previsto in alcun modo che gli ufficiali coinvolti nella trasmissione della notitia criminis dovessero essere successivamente coinvolti nel procedimento in qualità di parte processuale, come pure è stato da alcuni ipotizzato 38. Particolarmente significativo, a questo proposito, mi pare il riferimento all’indicium speculantis 39 officii, che pare doversi interpretare come un riferimento all’attività di vigilanza e prevenzione del crimine esercitata da funzionari dotati di poteri di polizia, ai quali spettava – appunto – di innescare il meccanismo della repressione penale in assenza di accusa o denunzia privata. In questo senso può forse essere letta anche CTh. 9.18.1, comunemente datata al 315 40, che recita quanto segue: Imp. Constantinus A. ad Domitium Celsum Vicarium Africae. Plagiarii, qui viventium filiorum miserandas infligunt parentibus orbitates, metalli poena cum ceteris ante cognitis suppliciis tenebantur. Si quis tamen eiusmodi reus fuerit oblatus, posteaquam super crimine patuerit, servus quidem vel libertate donatus bestiis primo quoque 35

Infra, p. 77 ss.

36

Sul punto, cfr. da ultimo MAROTTA (2012), p. 360 ss.

37

BANFI (2012).

38

È il caso di ZANON (1998), p. 115 ss. Su cui si vedano le osservazioni di SANTALUCIA (2011), p. 253. 39

Sul termine cfr. FORCELLINI (1965), vol. 4, p. 442.

40

Cfr. SEECK (1919), p. 432.

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munere obiiciatur, liber autem sub hac forma in ludum detur gladiatorium, ut, antequam aliquid faciat, quo se defendere possit, gladio consumatur. Eos autem, qui pro hoc crimine iam in metallum dati sunt, numquam revocari praecipimus. DAT. KAL. AUG. CONSTANTINO A. IV. ET LICINIO IV. CONSS. 41.

Della costituzione, mirante alla repressione di un genere particolare odioso di plagio, ossia i rapimenti di bambini, interessa specialmente il sintagma si quis tamen eiusmodi reus fuerit oblatus, dove il ricorso al verbo offerre sembra indicare la consegna del reo ai competenti uffici, il che, già secondo Godefroy, poteva riferirsi sia all’azione di un privato che all’arresto operato dalla forza pubblica (in particolare gli stationarii) 42. È evidente che in quest’ultimo caso non vi sarebbe stato alcun esercizio dell’accusa e che il processo si sarebbe svolto in assenza di accusatore, essendo la raccolta delle prove demandata al giudice e alle forze di polizia. Non mancano dunque le attestazioni, per il periodo costantiniano, dell’adozione di procedure tipicamente inquisitorie. Tuttavia, in più di un caso sembra emergere dalla legislazione costantiniana un quadro assai complesso – se non addirittura confuso: la stessa solidità lessicale della terminologia impiegata (accusator, delator, index, e così via) pare talora dubbia e lascia sospettare che i confini semantici fra i termini utilizzati siano in più di un caso assai labili. Basterà considerare, a titolo di esempio, la seguente disposizione – variamente datata fra il 318 e il 320 – relativa alla repressione dell’aruspicina: Imp. Constantinus A. ad Maximum. Nullus haruspex limen alterius accedat nec ob alteram causam, sed huiusmodi hominum quamvis vetus amicitia repellatur, concremando illo haruspice, qui ad domum alienam accesserit et illo, qui eum suasionibus vel praemiis evocaverit, post ademptionem bonorum in insulam detrudendo: superstitioni enim suae servire cupientes poterunt publice ritum proprium exercere. Accusatorem autem huius criminis non delatorem esse, sed dignum magis praemio arbitramur. PROPOSITA KAL. FEB. ROMAE CONSTANTINO A. V ET LICINIO CAES. CONSS. 43.

41

«L’Imperatore Costantino Augusto a Domizio Celso Vicario d’Africa. I plagiari, che infliggono ai genitori la miserevole perdita dei loro figli viventi, in precedenza erano passibili della pena dei lavori forzati in miniera insieme ad altri ben noti supplizi. In ogni caso se qualcuno è stato prodotto quale responsabile di un tal crimine, dopo che è stato riconosciuto colpevole, se è uno schiavo o un liberto, che sia dato alle bestie nel primo spettacolo pubblico. Se è un libero che sia dato ai ludi gladiatori, ma in modo che prima che possa fare qualsiasi cosa per difendersi, sia ucciso con la spada. Ordiniamo comunque di non richiamare mai indietro coloro che in precedenza sono già stati inviati in miniera per questo crimine». Cfr. anche C.I. 9.20.16. 42 43

Gothofr. not. ad h.l. Cfr. anche CENDERELLI (2011), p. 140.

CTh. 9.16.1: «L’Imperatore Costantino Augusto a Massimo. Che nessun aruspice varchi la soglia altrui, neppure per ragioni diverse dalla sua professione, ma sia respinta l’amicizia di tali uomini, per quanto antica. Che sia dato alle fiamme l’aruspice che accede all’altrui casa, e colui che

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Come si vede, la costituzione dispone la pena del rogo per gli aruspici che abbiano osato varcare la soglia di una casa privata per svolgervi le loro pratiche divinatorie. Parimenti, colui che si fosse reso responsabile di aver convocato l’aruspice in casa propria, suasionibus vel praemiis, sarebbe stato condannato alla pena della relegatio in insulam e alla confisca dei beni. Quanto alla ratio legis, è chiaro che l’imperatore intendeva colpire non la pratica di riti divinatori di per sé, ma il loro esercizio privato, e perciò segreto. Infatti si precisa che superstitioni enim suae servire cupientes poterunt publice ritum proprium exercere. Del resto, CTh. 9.16.1 è strettamente connessa alla costituzione successiva conservata nel Teodosiano, né è da escludere che si tratti di due versioni di una medesima disposizione: Imp. Constantinus A. ad populum. Haruspices et sacerdotes et eos, qui huic ritui adsolent ministrare, ad privatam domum prohibemus accedere vel sub praetextu amicitiae limen alterius ingredi, poena contra eos proposita, si contempserint legem. Qui vero id vobis existimatis conducere, adite aras publicas adque delubra et consuetudinis vestrae celebrate sollemnia: nec enim prohibemus praeteritae usurpationis officia libera luce tractari. DAT. ID. MAI. CONSTANTINO A. V ET LICINIO CONS. 44.

Si tratta comunque di disposizioni miranti a difendere la stabilità dell’Impero e a prevenire congiure di palazzo. Infatti, fra i soggetti interessati a ottenere responsi divinatori nel segreto delle proprie mura erano in primo luogo da annoverarsi coloro che intendevano prendere gli auspici in vista di un tentativo di impadronirsi del potere e più in generale tutti coloro che desideravano prevedere i destini dell’Impero e del suo reggitore per trarne un vantaggio personale 45. La legge in esame, dunque, lungi dall’essere motivata esclusivamente da questioni di carattere religioso, mira indirettamente alla salvaguardia dell’ordine costituito e alla repressione del dissenso politico. Proprio per questo motivo si dispongono dei premi a favore di coloro che si presteranno a svelare l’esercizio di tali pratiche: lo invitò a fare ciò con argomenti o promesse di danaro, che sia relegato in un’isola, dopo la confisca di tutti i suoi beni. Infatti coloro che desiderano praticare i propri culti possono eseguire i propri riti pubblicamente. L’accusatore di questo crimine non è un delatore, anzi crediamo che egli sia degno di essere ricompensato». Cfr. C.I. 9.18.3. Per la questione della datazione cfr. SPAGNUOLO VIGORITA (1984), p. 33; DESANTI (1990), pp. 137-138. 44 CTh. 9.16.2: «L’Imperatore Costantino Augusto al Popolo. Gli aruspici e i sacerdoti e coloro che si occupano di questo genere di cerimonie, noi vietiamo che abbiano accesso alle case private sia pure con il pretesto di una antica amicizia, e stabiliamo una pena contro costoro se vorranno violare questa legge. Chi fra voi ritiene che tali arti siano giovevoli, vada ai pubblici altari, ai templi e celebri le solennità proprie della sua tradizione: noi infatti non vietiamo che le cerimonie di una antica usanza siano esercitate alla luce del sole». Cfr. C.I. 9.18.3. 45 Sul punto cfr. LUCREZI (1996), p. 97 ss.; DE GIOVANNI (1989), p. 31 ss.; LIZZI TESTA (2002), p. 219 ss.; BAUDY (2006), p. 110 ss.

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Accusatorem autem huius criminis non delatorem esse, sed dignum magis praemio arbitramur.

Meno semplice comprendere cosa esattamente abbia inteso il legislatore affermando che chi si fosse fatto accusator di tale crimine non avrebbe dovuto essere considerato come un delator. È possibile che nel testo si possa intravedere un richiamo, dal sapore vagamente antiquario, ai praemia riservati agli accusatores vittoriosi nella cosiddetta clausola premiale delle leggi istitutive delle quaestiones perpetuae 46: la distinzione contenuta nel testo, fra accusator e delator, sarebbe in tal caso da interpretare come distinzione fra una figura, appunto, degna di essere premiata, e un mero informatore, immeritevole del godimento di particolari benefici. In ogni caso, secondo Spagnuolo Vigorita nell’involuta espressione costantiniana si deve anche intravedere una deroga alle regole vigenti in materia di accusa calunniosa o indimostrata: era interesse del legislatore favorire il più possibile le denunzie dei comportamenti vietati, e per questo motivo alla concessione di praemia – che si deve supporre fossero subordinati alla condanna degli accusati – si sarebbe accompagnata la certezza, per l’accusator, di essere esentato dai rischi che la stessa legislazione costantiniana aveva disposto che gravassero sul capo degli accusatori 47. Non è facile ricavare certezze dal succinto testo costantiniano, ma comunque stiano le cose, mi preme rilevare come l’accusator di cui si parla in CTh. 9.16.1 non sembri avere in alcun modo il ruolo di parte processuale: si tratta con tutta evidenza di un semplice denunziante, che riferisce la notitia criminis ai pubblici uffici, meritevole di ricompensa per la sua collaborazione alla repressione criminale. Del resto, è implicito nel testo della costituzione stessa che il comportamento del denunziante era passibile di essere considerato come quello di un semplice delatore, dal quale pare differenziarsi unicamente per la «qualità» delle informazioni fornite agli uffici competenti. Quanto appena detto si ricollega alla questione, tutt’altro che semplice, di stabilire cosa effettivamente si intendesse, in età costantiniana, con la parola accusator: il ruolo di tale figura nel procedimento penale muta secondo il significato attribuito al termine in questione.

46 47

Sulla questione cfr. CERAMI et al. (2003), p. 257 ss. e relative indicazioni bibliografiche.

Cfr. SPAGNUOLO VIGORITA (1984), p. 68 ss.; al contrario PIETRINI (1996), p. 112 ss., secondo la quale la costituzione mirava a evitare che fossero considerati meri delatori quei denunzianti che non assumevano la veste formale di accusatori attraverso il compimento dei relativi sollemnia. Lo scopo, sarebbe stato quello di sottrarre tali soggetti alle pene previste da CTh. 10.10.2, che tuttavia buona parte della dottrina considera come relativa alla delazione fiscale. Sul punto, infra, p. 69 ss.

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Si tratta di un punto determinante per potersi esprimere sul carattere del processo e sulla sua coloritura, più o meno marcata, in senso accusatorio o inquisitorio. Per meglio affrontare la questione, conviene premettere qualche considerazione relativa al trattamento delle accuse false e indimostrate nella legislazione costantiniana.

3. DEGENERAZIONI DELL’ACCUSA: LA CALUNNIA È ben noto come il sistema dell’accusa pubblica, aperta a chiunque, abbia innescato fin da epoca risalente fenomeni degenerativi particolarmente gravi, con la proliferazione di accuse infondate e calunniose. Se Cicerone auspicava la presenza nella civitas di un gran numero di accusatori per tenere a freno i criminali (accusatores multos esse in civitate utile est ut metu contineatur audacia) 48, già Quintiliano affermava, significativamente, che accusatoriam vitam vivere et ad deferendos reos praemio duci proximum latrocinio est 49. La degenerazione dell’accusa aperta al quivis de populo deve in effetti essere ricollegata all’azione combinata di due fattori: la presenza di premi riservati all’accusatore vittorioso, che favorivano la proliferazione di accusatori «di mestiere» desiderosi di arricchirsi a spese dei patrimoni dei condannati, e il passaggio dalla Repubblica al Principato, che ebbe la conseguenza di moltiplicare le accuse per crimen maiestatis, sporte da accusatori compiacenti contro i nemici politici del principe 50. Tacito è un buon testimone di tale fenomeno 51. Si resero pertanto necessari rimedi miranti a ridurre il fenomeno delle accuse false e calunniose: non è questo il luogo dove ripercorrerne la storia, dai primi esempi di età repubblicana, al senatoconsulto Turpilliano del 61 d.C., fino alle disposizioni legislative e alla giurisprudenza di età severiana 52. Ci si concentrerà invece sulle norme in materia di età costantiniana, la cui importanza per la comprensione del funzionamento del sistema di repressione penale dell’epoca è tutt’altro che secondaria.

48 Cic. Pro S. Roscio 56: «è bene che vi siano molti accusatori nella nostra Repubblica, perché l’audacia dei delinquenti sia frenata dal timore». 49 Quint. Inst. 12.7.3: «vivere una vita da accusatore e accaparrarsi i premi con le denunzie è qualcosa di molto vicino a un ladrocinio». 50

Cfr. FANIZZA (1988), p. 27 ss.; RIVIÈRE (2002), p. 55 ss.

51

Cfr. supra p. 25. Sul punto si veda MAIURI (2012), p. 171 ss.

52

Sul punto mi limito a rimandare fra i tanti a FANIZZA (1988), p. 43 ss.; GAROFALO (1992), p. 151 ss.; CENTOLA (1999).

Aspetti del procedimento penale durante il regno di Costantino

69

3.1. L’edictum de accusationibus Conviene in primo luogo esaminare l’edictum de accusationibus, comunemente datato fra il 319 e il 320 53. Del testo sono pervenute tre copie per via epigrafica 54, una delle quali ormai dispersa, ed alcuni paragrafi sono anche riportati in CTh. 9.5.1 e in C.I. 9.8.3: [E]xemplum sacri edicti. | ....ips.... probatum est plurimos non [s]o[lum] | fortunis ..... accusationes .... | [n]onnum[quam] .... eiusmodi causis tam e[o]s qui accus[an]||tur quam qui [ad test]imonium uoc[an]tur grauissimis uexatio[ni]|bus adfici. Un[de c]onsulentes [secur]itati prouinciarum no|strarum eiusmodi remedia prospeximus, ut accusator quidem | non omnimodo de iudicio repellatur, verum quicumque | intentionibus suis probationes ad[der]e confidit, habeat || adeundi iudicis liberam potestatem ac manifestis indici|is commissi reum detegat, ut pro qualita[te] factorum conpe|tenter in eum qui conuictus fuerit uindicetur. Quod si minime po|tuerit ea quae intentauerit conprobare, scire debet seueriori | [se] sententiae subiugandum. Sane si quis alicui maiestatis crimen || intenderit, cum eiusmodi obiectus minime quemquam priuile|gio dignitatis alicuius a strictiori inquisitione tueatur, sciat | se quoque tormentis esse subdendum, si aliis manifestis in|diciis atque argumentis accusationem suam non potuerit | conprobare, cum in eo, qui huius esse temeritatis deprehen||detur, illut quoque tormentis erui oporteat, cuius consilio at|que instinctu ad accusationem accessisse uideatur, ut ab omni|bus tanti commissi conscis uindicta possit reportari. | Delatoribus autem quot adeundi quoque iudicis tam statutis pa|rentum nostrorum quam etiam nostris sanctionibus inter||clusa sit facultas, omnibus cognitum est, cum eiusmodi homini|bus audientia non debeat commodari, quando quidem eos | pro tanti sceleris audacia poenae conueniat subiugari. | In seruis quoque siue libertis, qui dominos uel patronos ac|cusare aut deferre temptant, eiusmodi legem iuxta an||tiqui quoque iuris statutum obseruandam esse censuimus, ut | scilicet professio tam atrocis audaciae statim in admissi ipsius exor|dio per sententiam iudicis conprimatur ac denegata audientia pa|tibulo adfixus qui ad eiusmodi desperationem processerit, exem|plum ceteris praestet, ne quis in posterum audaciae similis exis||tat. | Sane ut undique uersum securitati innocentium consulatur, pla|cet etiam famosos libellos non admitti. Quos sine nomine | propositos si qui inuenerit, statim detrahere atque scin|dere uel igni debebit exurere. In quibus etiam iudicum ei||usmodi obseruantiam esse oportebit, ut, si forte ad se ta|lis libellus perlatus fuerit, igni eum praecipiat concremari, | cum eiusmodi scripturam ab audientia iudicis penitus o|porteat [sub-

53 Cfr. PIETRINI (1996), p. 97; LEPORE (2010), p. 43, SEECK (1919), p. 432. La subscriptio, tuttavia, indicherebbe anche per le copie su pietra la datazione al 314. Cfr. JOHNSON et al. (1961), p. 239. A proposito dell’editto si veda anche GIGLIO (2002), p. 205 ss. 54

CIL V.2781 = FIRA I.94.

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

mou]eri ; manen[te] contra eos inquisitione, | qui libellos eiusmodi proponere ausi fuerint, ut reperti || debitis t[emeri]tatis suae poenis subiciantur. | Super itaque omnibus tam ad praefectos nostros | quam etiam et praesides et rationalem et magistrum | priuatae scripta direximus, quorum exempl[ar]i alio edi|cto nostro [pr]odito, cuiusmodi legem statutumque || contineat, plenissime declaratur 55.

Come si può vedere, il lungo testo si apre con un’osservazione relativa ad accusati e testimoni, che si trovano ad essere afflitti da gravissimis vexationibus. Per questo motivo, l’imperatore – desideroso di prendersi cura della sicurezza delle provincie – dispone che gli accusatori non siano respinti dai tribunali: anzi, chi ritiene di poter dimostrare le proprie accuse si rechi pure dal giudice indicando il colpevole, in modo che al reo sia inflitta la giusta punizione. Segue, a 55

«Copia del sacro editto (...). È dimostrato che numerose persone, non solo per via delle loro fortune (...) accuse (...) talora (...) per ragioni di questo genere, sia coloro che sono accusati che coloro che sono chiamati a testimoniare sono sottoposti a gravissime vessazioni. Per questa ragione, desiderando prenderci cura della sicurezza delle nostre provincie, abbiamo escogitato tali rimedi: che chi intende accusare non sia in alcun modo respinto dai tribunali, anzi chiunque ritiene di poter portare prove a sostegno delle proprie accuse abbia piena libertà di adire i giudici e con chiari indizi del fatto smascheri l’imputato affinché egli, una volta condannato, sia punito conformemente alla gravità di quanto commesso. Se però egli non potrà in alcun modo giustificare le proprie accuse, sappia che sarà colpito da sentenza di particolare severità. In verità, se qualcuno accuserà di lesa maestà, poiché un’accusa di questo genere priva chiunque della protezione da un’inchiesta sotto tortura, a prescindere dal rango, sappia l’accusatore che egli stesso sarà dato ai tormenti se non potrà con manifesti indizi e argomenti giustificare le proprie affermazioni. Poiché da colui che è colto quale autore di una tale pazzia occorrerà, grazie alla tortura, fare emergere questo: per istigazione e suggerimento di chi egli risulta essersi spinto all’accusa, in modo che tutti i responsabili di un crimine tanto grande siano debitamente puniti. Per quanto concerne i delatori, è noto a tutti come tanto le leggi dei nostri predecessori, quanto le nostre, abbiano proibito a costoro di accedere ai tribunali. Poiché a uomini di questa fatta non deve essere concessa udienza ed anzi conviene che essi siano sottoposti a una pena corrispondente alla audacia di un crimine tanto grave. Stabiliamo anche che per quanto riguarda servi e liberti che tentano di denunziare o accusare i propri padroni o i propri patroni, che si osservi la legge conforme al dettato dell’antico diritto: ossia che la manifestazione di una così atroce audacia sia subito repressa, non appena essa si verifica, con sentenza del giudice e che, negata ogni udienza, colui che è giunto a tal punto di insania sia inchiodato al patibolo, fornendo così un esempio per gli altri, affinché non si verifichino in futuro atti di simile audacia. Invero, affinché in ogni luogo ci si prenda cura della sicurezza degli innocenti, ci piace anche di stabilire che i libelli diffamatori non siano ammessi. Se qualcuno rinverrà tali scritti anonimi, subito dovrà stracciarli, farli a pezzi o ardere fra le fiamme. A questo riguardo, anche i giudici dovranno comportarsi in tal modo, sicché se mai a uno di loro sarà fatto pervenire un libello di questo genere, egli ordini di arderlo fra le fiamme, poiché è opportuno che scritture di tal fatta siano del tutto rimosse dall’udienza di un giudice; si procederà invece ad inchiesta contro coloro che osarono proporre libelli di tal fatta, affinché una volta individuati siano sottoposti a pena corrispondente alla loro temerarietà. Pertanto abbiamo scritto circa queste materie ai nostri prefetti, ai governatori provinciali, al rationalis e al magister rei privatae, le cui copie, unite al nostro altro editto forniscono la più piena spiegazione di quale legge e disposizione esso contenga». Il testo riportato è quello dell’edizione di GIRARD, SENN (1977), pp. 499-501.

Aspetti del procedimento penale durante il regno di Costantino

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questo punto, un monito agli accusatori, che se non potranno ea quae intentaveri[n]t conprobare, saranno colpiti da dura sentenza di condanna. Il paragrafo successivo, è dedicato alle accuse per crimen maiestatis: poiché gli accusati di tale reato sono esposti alla tortura a prescindere dal rango e dalla dignità rivestita, lo stesso accusatore che non riesca ad accusationem suam conprobare subirà i medesimi tormenti, insieme a coloro che si siano prestati ad istigare l’accusa o in qualunque modo si siano resi complici del fatto. Il testo prosegue quindi con il divieto della delazione, ricordando le pene previste a carico dei delatori fiscali 56. I paragrafi successivi, infine, ribadiscono il divieto per servi e liberti di intentare accuse contro i propri padroni o ex padroni, con la previsione della pena capitale per chi si renda responsabile della violazione della norma. Segue l’ordine di non prendere in alcuna considerazione le denunzie anonime contenute nei famosi libelli, i quali debbono essere immediatamente distrutti, e di non dare in alcun modo luogo a procedimenti e indagini, salvo quelli diretti a individuarne e punire gli autori. La ratio legis, non v’è dubbio, è da individuarsi nella volontà di Costantino di assicurare il corretto svolgimento della repressione criminale, ponendo un freno alla proliferazione di accuse anonime, false o palesemente infondate. Il testo della disposizione contiene alcune affermazioni meritevoli di qualche ulteriore approfondimento esegetico. Il legislatore scrive che quicumque intentionibus suis probationes addere confidit, habeat adeundi iudicis liberam potestatem ac manifestis indiciis commissi reum detegat [...]. Quod si minime potuerit ea quae intentauerit conprobare, scire debet seueriori se sententiae subiugandum. Da queste frasi, si è in primo luogo dedotto l’ampliamento dell’applicazione delle pene previste per il crimen calumniae, dirette non più a colpire unicamente l’accusatore calunnioso in senso proprio, bensì a punire chiunque, dopo aver intentato l’accusa, si fosse visto smentito dalla successiva assoluzione dell’imputato 57. La previsione della poena reciproci anche per quest’ultima categoria di soggetti ha spinto non pochi interpreti a ritenere – non senza ragione – che fra gli effetti delle disposizioni costantiniane vi sarebbe stata una significativa riduzione della portata dell’accusa privata quale fattore d’impulso per l’attivazione della repressione penale: l’accusa è ormai divenuta pericolosa per chi la eserciti e anche per questo motivo è lecito supporre che procedure d’ufficio di carattere inquisitorio attivate dalla segnalazione di ufficiali dotati di compiti di polizia abbiano progressivamente rimpiazzato l’iniziativa dei privati. Si tratta, in effetti, di un provvedimento drastico, destinato a cambiare il vol-

56

Seguo in proposito l’interpretazione di RIVIÈRE (2002), p. 131 ss. Anche infra, p. 87 ss.

57

Cfr. in proposito, fra i tanti, LAURIA (1983), p. 309 ss.; LAURIA (1983/3), p. 262 ss.; SANTA(1998), p. 282 ss.; DE GIOVANNI (2007), p. 292 ss.; CENTOLA (1999), p. 117 ss.

LUCIA

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to del sistema di repressione penale: chiunque fosse venuto a conoscenza di un crimine si sarebbe ben guardato, di fronte al rischio di incorrere lui stesso in una condanna, dall’adire direttamente il tribunale. Meglio, semmai, informare dell’accaduto gli ufficiali di polizia, lasciando a questi il compito di approfondire la vicenda e – se del caso – di informare gli uffici giudiziari. Ci si potrebbe chiedere quali motivi abbiano spinto Costantino all’adozione di misure così restrittive: riservare un trattamento penale tanto severo all’accusatore le cui accuse si rivelassero non sufficientemente fondate, pare il segno di una certa quale esasperazione, dovuta al proliferare di procedimenti attivati da soggetti temerari 58. Al riguardo si potrebbero ipotizzare due spiegazioni: da un canto, l’epoca di Costantino è un periodo di scontri, anche assai vivaci, fra gruppi contrapposti all’interno della cristianità, che in non poche occasioni finiscono per sfociare in controversie di carattere giudiziario 59. D’altra parte, per consolidata tradizione i conflitti all’interno del palazzo imperiale e dei principali centri di potere, finivano sovente per tradursi in accuse di maiestas: il resoconto di Ammiano relativo ai successori di Costantino documenta tutto ciò in modo inequivocabile 60. Lo stesso Godefroy, osserva che Costantino con questa norma providere [… voluit] ne omnes passim in accusationem maiestatis irruerent e ne ricollega la genesi agli strascichi del conflitto con Massenzio 61. Se l’identificazione dei fatti alla radice della disposizione può essere errata (Godefroy infatti data la norma al 314, una datazione oggi per lo più rifiutata), credo che l’interprete ginevrino ne abbia comunque ben colto le ragioni profonde. D’altra parte, non è da escludersi che anche altro tipo di ragioni, di carattere economico e sociale, abbiano indotto Costantino a rendere rischioso l’esercizio dell’accusa. In tal senso sembra interpretabile CTh. 9.10.3, del 319 62:

58

Cfr. in proposito PIETRINI (1996), p. 96 ss.

59

Vedi infra, p. 87 ss.

60

Vedi infra, p. 109 ss.

61

Gothofr. comm. ad h.l.: «volle intervenire affinché tutti non si precipitassero ad avanzare accuse di lesa maestà». 62 «Il medesimo Augusto a Basso Prefetto dell’Urbe. Se qualcuno dovesse affermare che un fondo o ogni altra proprietà gli appartiene e ritiene che gli spetti la restituzione del possesso di quel bene, che agisca civilmente per il recupero del possesso, oppure dopo aver compiuto le necessarie formalità agisca per il reato di violenza, non ignaro del fatto che se non potrà giustificare l’accusa da lui avanzata subirà la medesima sentenza che avrebbe dovuto ricevere l’imputato. Ma se tralascerà di rivolgersi al giudice e agirà con violenza contro il possessore, ordiniamo che in primo luogo sia esaminata la causa per violenza e che in essa si stabilisca chi usò violenza contro il possessore, in modo che a colui che fu espulso siano restituiti i diritti del perduto possesso. Una volta ripristinato il possesso, che il destino dell’autore della violenza, destinato a meritata pena, sia

Aspetti del procedimento penale durante il regno di Costantino

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Iidem A. ad Bassum Pf. U. Si quis ad se fundum vel quodcumque aliud asserit pertinere, ac restitutionem sibi competere possessionis putat, civiliter super possidendo agat, aut impleta solennitate iuris crimen violentiae opponat, non ignarus, eam se sententiam subiturum, si crimen obiectum non potuerit comprobare, quam reus debet excipere. Quod si omissa interpellatione vim possidenti intulerit, ante omnia violentiae causam examinari praecipimus, et in ea requiri, quis ad quem venerit possidentem, ut ei, quem constiterit expulsum, amissae possessionis iura reparentur, eademque protinus restituta violentus, poenae non immerito destinatus, in totius litis terminum differatur, ut, agitato negotio principali, si contra eum fuerit iudicatum, in insulam deportetur, bonis omnibus abrogatis. Quod si pro eo, quem claruerit esse violentum, sententia proferetur, omnium rerum, de quibus litigatum est, media pars penes eum resideat, cetera fisci viribus vindicentur. PP. PRID. NON. OCT. ROMAE, CONSTANTINO A. V. ET LICINIO C. CONSS. 63.

Come si vede, si dispone che chi avesse da lamentare l’illecita occupazione di fondi o altro da parte di invasores, potesse decidere liberamente se agire civilmente per il recupero del possesso (civiliter super possidendo agat), oppure se assumere la veste di accusatore (impleta solennitate) intentando l’azione per crimen violentiae. Anche in questo caso, con parole del tutto simili a quelle contenute nell’edictum de accusationibus, Costantino ricorda che se l’accusatore non potrà comprobare il crimine commesso ai suoi danni, incorrerà nella poena reciproci. In questo caso l’interesse del legislatore a ridurre il numero di accuse presentate, ribadendone la pericolosità, sembra derivare dal fatto che in un periodo convulso sotto il profilo politico, economico e militare, andavano moltiplicandosi le occupazioni di terre e – allo stesso tempo – le false accuse da parte di individui desiderosi di spossessarne gli attuali occupanti.

posposto alla fine di tutta la lite, affinché, conclusa la questione principale, se sarà giudicato contro di lui, sia deportato in un’isola, e confiscati tutti i suoi beni. Se invece la sentenza è pronunciata in favore di colui che si è accertato aver esercitato violenza, di tutti i beni oggetto della controversia egli manterrà una parte pari alla metà, il resto sarà confiscato». SEECK (1919), p. 432. Cfr. C.I. 9.12.7. 63 Interpretatio. Si quis adversarium suum ita apud iudicem crediderit accusandum, ut se asserat violentiam pertulisse, ad probationem rei eum convenit attineri: quod si probare non potuerit, quem dixerat violentum, eandem poenam suscipiat, quam ille, quem impetit, convictus potuisset excipere. De reliquo haec lex praetermittenda est, quia in quarto libro sub titulo unde vi, quae tamen temporibus posterior inventa est, habetur exposita. «Se qualcuno riterrà di accusare il proprio avversario davanti al giudice, sostenendo di aver subito violenza, egli sarà tenuto a provare la colpevolezza dell’imputato. Pertanto se non potrà dimostrare che l’accusato ha esercitato violenza, subirà la medesima pena che avrebbe subito l’accusato dopo la condanna. Per il resto questa legge può essere tralasciata, poiché nel quarto libro, al titolo “unde vi” sono chiarite tutte le questioni che in tempi più recenti sono state oggetto di attenzione». Sulla costituzione e sui suoi rapporti con l’edictum de accusationibus, cfr. MARTINI (2003).

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3.2. Automatismi Tutto ciò premesso riguardo alle ragioni che potrebbero aver indotto Costantino a intervenire in materia di accusatio, si rendono necessarie alcune ulteriori considerazioni. Come si è poco sopra accennato, buona parte degli esegeti dell’edictum ne ricavano una sorta di automatismo: l’assoluzione del reus si sarebbe tradotta nella condanna dell’accusator senza alcun ulteriore accertamento da parte del giudice, configurando una sorta di responsabilità oggettiva sul capo dell’accusatore determinata ipso facto con l’assoluzione del reus. Ora, senza nulla togliere al fatto indiscutibile che le norme costantiniane rendono pericoloso l’esercizio dell’accusa, credo che il testo dell’edictum si presti ad essere interpretato in un modo leggermente diverso, che apre qualche spazio a un’attività di accertamento del giudice e dunque a una graduazione della responsabilità dell’accusatore. In realtà, la tesi dell’automatica traduzione dell’assoluzione dell’accusato in condanna dell’accusatore si fonda anche sul resoconto, contenuto nella Relatio 49 di Simmaco, relativo a un processo per crimen violentiae 64. Risulta dal testo, datato al 384/5 d.C., che Simmaco, allora investito della prefettura urbana di Roma, si era trovato a giudicare in un processo criminale avviato a seguito delle accuse sporte dall’agens in rebus Africano 65 avverso due notabili (clarissimi viri), Campano e Igino. La vicenda è piuttosto lontana nel tempo dalla normativa di cui ci si sta ora occupando, ma il caso descritto sembra ricadere nelle previsioni delle costituzioni costantiniane, e in particolare di CTh. 9.10.3, poco sopra esaminata. È del tutto probabile, infatti, che l’agens in rebus agisse come parte offesa e non nel suo ruolo di ufficiale, probabilmente in seguito all’occupazione di fondi nella città di Ariccia 66. Risulta dalla relatio che nel corso del processo non emersero significativi elementi di prova a carico dei due imputati (ubi partes sub examine constiterunt, multo luctamine patronorum decursa cognitio oratione magis quam probationibus redundavit) 67. I testimoni d’accusa, indicati da Africano nella persona di alcuni notabili di Ariccia, negarono il fatto (omnium convenit assertio nihil turbarum esse conflatum) 68. Vista la mala parata, Africano tentò prima di convocare un testimone 64

Sulla Relatio 49, si veda in particolare GIGLIO (1990).

65

Sugli agentes in rebus cfr. GIGLIO (1990), p. 589 ss.

66

Diversamente, ZANON (1998), pp. 100-101.

67

Symm. Rel. 49.2: «quando le parti giunsero all’esame del giudice, svoltosi il processo fra grandi scontri tra gli avvocati, alla fine esso risultò fondato più su discorsi che su elementi di prova». 68 Symm. Rel. 49.3: «le testimonianze di tutti furono concordi nell’affermare che non si era verificato alcun disordine».

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non compreso nella inscriptio (ad eludendum iudicium praesentia cuiusdam coepit exposci, quem non tenebat inscriptio) 69, e poi fece ricorso all’estrema misura di chiedere che l’accusa fosse fatta cadere (eo denique res rediit, ut a partibus Africani accusationis omissio desperatione peteretur) 70. Come ricorda Simmaco, il legislatore aveva previsto misure per tenere a freno l’accusatore temerario: provisum est enim ne quis temere in alieni capitis discrimen irrueret, ut se idem prius poenae sponsione vinciret 71. In effetti, il destino di Africano pareva segnato e avviato a subire la poena reciproci: supererat ut crimine non probato in accusatorem formidata reis poena transiret 72. Per questo motivo Simmaco si rivolge agli imperatori, con una consultatio ante sententiam 73, per chiedere clemenza per Africano, il cui comportamento poteva essere giustificato dalla giovane età e la cui persona richiedeva particolare considerazione per il comportamento meritevole dimostrato nell’esercizio delle proprie funzioni 74. A una prima lettura il racconto di Simmaco sembra effettivamente confermare che le accuse che non si fossero tradotte in condanna dell’avversario, avrebbero ribaltato sul capo dell’accusatore la pena prevista per il reus. Noi, purtroppo, non disponiamo dei gesta e della documentazione prodotta dalle parti che Simmaco trasmise a corte unitamente alla relatio. Tuttavia una lettura più accurata della Relatio mostra che lo sventurato Africano non si era trovato nella situazione di non riuscire a dimostrare la colpevolezza degli avversari. Sembra piuttosto emergere un quadro più grave, che appunto deporrebbe a favore della sua temerità: Africano non era riuscito a portare alcuna prova della sua accusa, che pertanto era risultata manifestamente infondata e priva di qualsivoglia elemento che la corroborasse. A questo proposito, è opportuno tornare al testo dell’editto costantiniano nel quale si legge che l’accusatore deve disporre di manifestis indiciis e che costui incorrerà in sentenza di condanna si minime potuerit ea quae intentaverit conprobare. Mi pare che non si possa tralasciare l’avverbio minime, come se fosse del tutto privo di rilevanza nel contesto.

69

Symm. Rel. 49.3: «con l’intento di eludere il giudizio iniziò a reclamare la presenza di un testimone che non era previsto nell’inscriptio». 70 Symm. Rel. 49.3: «la faccenda giunse a un punto tale che per disperazione fu chiesto dalla parte di Africano che l’accusa fosse fatta cadere». 71 Symm. Rel. 49.1: «è stato stabilito, per evitare che qualcuno metta temerariamente in pericolo la vita altrui, che egli debba prima vincolarsi alla pena reciproca». 72 Symm. Rel. 49.3: «vi erano dunque ampie ragioni perché, non essendo stato provato il crimine, la pena minacciata agli imputati si trasferisse in capo all’accusatore». 73

Cfr. GIGLIO (1990), p. 581.

74

Symm. Rel. 49.4.

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Se si vuole prendere alla lettera il testo, infatti, si potrebbe interpretarlo non nel senso che l’accusatore perdente sia immediatamente e per ciò stesso condannato, ma che la condanna graverà sul capo di colui che presenterà accuse del tutto destituite di fondamento. Se così stessero le cose, cadrebbe il presunto automatismo di cui si diceva più sopra, restando al giudice il compito di apprezzare, di volta in volta, gli elementi a fondamento dell’accusa e il grado di temerità dell’accusator. In tal senso mi pare deponga anche la parte dell’edictum relativa al crimen maiestatis, dove è certo ribadita la reciprocità di trattamento, ma sembra emergere una sorta di attività inquirente da parte del giudice. È scritto infatti che colui che aliis manifestis indiciis atque argumentis accusationem suam non potuerit conprobare sarà sottoposto alla quaestio per tormenta, e ciò, pare di capire, non solo a titolo di pena, per far subire all’accusatore temerario lo stesso trattamento subìto dall’imputato innocente, ma per accertare le eventuali complicità nella confezione della falsa accusa (illut quoque tormentis erui oporteat, cuius consilio atque instinctu ad accusationem accessisse uideatur, ut ab omnibus tanti commissi conscis uindicta possit reportari). In questo caso, dunque, si potrebbe ipotizzare che al giudice spettasse il compito di accertare la temerità dell’accusa, la quale non deriverebbe necessariamente dalla mera assoluzione dell’imputato, ma dalla mancanza di alia manifesta indicia atque argumenta; d’altro canto, allo stesso giudice, una volta accertato il carattere temerario dell’accusa, sarebbe spettato il compito di indagare – anche attraverso il ricorso alla tortura – circa le ragioni della falsa accusa e le eventuali complicità.

3.3. Pubblicità dell’accusa Un’altra questione che merita di essere considerata, riguarda la pubblicità dell’accusa. Per molto tempo si è sostenuto che l’evoluzione del processo penale nel tardo Impero sarebbe caratterizzata non solo dal progressivo spostamento da modelli accusatori a modelli di carattere inquisitorio, ma anche da una corrispondente riduzione della pubblicità dell’accusa, fenomeno a proposito del quale si è parlato – utilizzando una terminologia che sarebbe forse stato meglio evitare – di «privatizzazione» dell’accusa stessa. In sostanza, il regime dell’accusa sostenuta dal quivis de populo, sarebbe andato progressivamente scomparendo, con il risultato di affidare l’impulso per l’attivazione del procedimento penale agli uffici stessi o agli organi aventi funzioni di polizia, oppure – là dove fosse possibile – alla parte offesa, portatrice come tale di un interesse diretto, personale, alla repressione del crimine. Infine, la pericolosità intrinseca dell’accusa avanzata da soggetti privati, a seguito della legislazione costantiniana, avrebbe finito per privilegiare ulteriormente procedure d’ufficio a carattere inquisitorio relegando l’iniziativa privata e

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le eventuali procedure contraddittorie a un ruolo solo marginale 75. Queste tesi, sostenute in particolare da Lauria, per molto tempo hanno dominato la storiografia giuridica romanistica e godono ancora oggi di non poco credito 76. Tuttavia, come ha osservato Stefania Pietrini, un certo numero di costituzioni di Costantino utilizzano il sintagma crimen publicum per indicare azioni processuali penali esperibili dal quivis de populo 77. Basti pensare alla già citata CTh. 9.9.1 78, nella quale si legge fra l’altro l’inequivocabile frase sitque omnibus facultas crimen publicum arguendi. Nella stessa direzione, secondo Pietrini, sembrano andare altri due testi costantiniani. Si tratta, in particolare della notissima legge in materia di adulterio, del 326 79: Imperator Constantinus A. ad Evagrium Pf. P. Quamvis adulterii crimen inter publica referatur, quorum delatio in commune omnibus sine aliqua legis interpretatione conceditur, tamen, ne volentibus temere liceat foedare connubia, proximis necessariisque personis solummodo placet deferri copiam accusandi, hoc est patri vel consobrino et consanguineo maxime fratri, quos verus dolor ad accusationem impellit. Sed et his personis legem imponimus, ut crimen abolitione compescant. In primis maritum genialis tori vindicem esse oportet, cui quidem ex suspicione etiam ream coniugem facere, nec intra certa tempora inscriptionis vinculo contineri, veteres retro principes annuerunt. extraneos autem procul arceri ab hac accusatione censemus. nam etsi omne genus accusationis necessitas inscriptionis adstringat, nonnulli tamen proterve id faciunt et falsis contumeliis matrimonia deformant. PP. NICOMEDIAE VII. KAL. MAI., CONSTANTINO A. VII. ET CONSTANTIO C. CONSS. 80. 75

Cfr. ad es. di LAURIA (1983), passim. SANTALUCIA (1998), p. 281 ss.

76

Tanto che di recente un autorevole studioso ha letto, se ben comprendo, le disposizioni costantiniane in materia di calunnia come dirette essenzialmente a disciplinare l’esercizio dell’accusa da parte dei soggetti offesi. È il caso di DE GIOVANNI (2007), p. 291 ss. che scrive: «l’accusatio privata, quella esperita dalla vittima dell’illecito, è resa più pericolosa dal fatto che, sin dall’età costantiniana, il concetto di calumnia viene ampliato e le relative pene sono aggravate». 77

PIETRINI (1996), p. 63 ss.

78

Supra, p. 61 ss.

79

SEECK (1919), p. 176.

80

CTh. 9.7.2: «l’Imperatore Costantino Augusto a Evagrio Prefetto del Pretorio. Benché l’adulterio faccia parte dei crimini pubblici, la cui denuncia è concessa a tutti senza necessità di speciali interpretazioni della legge, perché non sia concesso a chi lo desidera di disonorare i matrimoni altrui, stabiliamo che la facoltà di accusare sia concessa unicamente alle persone più prossime e necessarie e cioè il padre o il cugino e specialmente al fratello consanguineo, che sono spinti all’accusa da un vero dolore. Ma anche per costoro stabiliamo per legge che abbiano il diritto di far cadere l’accusa per via di desistenza. In primo luogo il marito è bene che sia vindice del talamo nuziale, e infatti a lui antichi prìncipi consentirono di accusare anche sulla base di meri sospetti, senza essere vincolato da termini temporali sulla base dell’inscriptio. Stabiliamo che gli estranei siano tenuti ben lontani da questa accusa. Infatti, nonostante l’obbligo di inscriptio valga per ogni genere di accusa, ciò non di meno alcuni fanno ciò malvagiamente e lordano i matrimoni con false accuse». Cfr. C.I. 9.7.29. Interpretatio. In adulterio extraneam mulierem nullus accuset, sed propinqui, ad quorum notam pertinet, hoc est fra-

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

È ben noto che la concessione agli estranei della facoltà di sostenere l’accusa per il crimen adulterii risale alla lex Iulia de adulteriis coercendis: Extraneis autem, qui accusare possunt, accusandi facultas post maritum et patrem conceditur: nam post sexaginta dies quattuor menses extraneis dantur et ipsi utiles 81.

Ora, secondo Pietrini, dal testo costantiniano emergerebbe una «eccezione alla regola generale dell’accusa aperta a ogni cittadino» 82; in buona sostanza, secondo la studiosa, saremmo di fronte all’eccezione che conferma la regola. Eppure, a ben vedere, il testo non dice nulla di utile riguardo al numero dei crimina publica e alla quantità dei casi in cui la facoltà di agire era aperta a chiunque, anzi. Infatti si tratta di un caso in cui nonostante la natura pubblica del crimen (quamvis … inter publica referatur), l’accusa è ciò nondimeno ristretta esclusivamente a coloro che hanno un personale interesse alla repressione del reato, a causa del verus dolor che spinge i congiunti a reagire all’affronto subito. Da questo punto di vista, CTh. 9.7.2 sembra più rafforzare le tesi di chi ipotizza una riduzione del ricorso all’accusa pubblica, che smentirle. Vi è anche un altro testo costantiniano dal quale si è voluto ricavare la generalizzazione del principio della pubblicità dell’accusa: Imperator Constantinus A. ad Agricolanum. Cum ius evidens atque manifestum sit, ut intendendi criminis publici facultatem non nisi ex certis causis mulieres habeant, hoc est si suam suorumque iniuriam persequantur, observari antiquitus statuta oportet. Neque enim fas est, ut passim mulieribus accusandi permissa facultas sit; alioquin in publicis olim quaestionibus interdum aut admissa probatio est aut accusantis auctoritas. Patroni etiam causarum monendi sunt, ne respectu compendii feminas, securitate forsitan sexus in actionem illicitam proruentes, temere suscipiant. PP. V. ID. FEBR. PROBIANO ET IULIANO CONSS. 83.

ter germanus, frater patruelis, patruus et consobrinus, qui tamen ante inscriptionem, si accusata acquieverit, possunt per satisfactionem veniam promereri. Reliqui ab accusatione prohibentur. Maritis sane etiam ex suspicione accusare permissum est. «Nei casi di adulterio nessuno accusi una donna a lui estranea, ma solo i parenti prossimi, toccati da tale macchia, ossia il fratello germano, il fratello di parte paterna, lo zio paterno e il primo cugino, i quali possono prima dell’inscriptio, se l’accusata acconsente, accordare il perdono a seguito di un accordo. Tutti gli altri sono esclusi dall’accusa. Ai mariti inoltre è consentito accusare anche sulla base di semplici sospetti». La bibliografia su questo testo è amplissima. In questa sede mi limito a rinviare a FAYER (2005), p. 326 ss. 81 D. 48.5.4.1: «gli estranei, che non siano privati dell’esercizio dell’accusa, hanno facoltà di accusare, dopo il marito e il padre. Infatti, trascorsi sessanta giorni, sono concessi quattro mesi utili allo scopo agli estranei». 82 83

PIETRINI (1996), p. 65 ss.

CTh. 9.1.3: «l’Imperatore Costantino Augusto ad Agricolano. È precetto chiaro ed evidente che alle donne non è consentito di accusare per crimini pubblici, salvo casi tassativamente determinati, ossia se esse intendono perseguire l’iniuria da esse o dai loro subita e su questo punto si

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Costantino ribadisce quanto già disposto da una costituzione di Diocleziano e Massimiano del 293 84: alle donne è precluso l’esercizio dell’accusa pubblica, ed è loro concesso farsi accusatrici unicamente in quanto parti offese e dunque direttamente o indirettamente aventi interesse alla punizione di un reato commesso ai danni loro o dei loro congiunti. Ancora una volta, lo scopo perseguito dall’imperatore è di ridurre il numero delle azioni penali intentate in modo temerario. Infatti, Costantino si rivolge anche agli avvocati, ricordando loro il divieto di prestare assistenza ad azioni di tal genere, securitate forsitan sexus. Il testo si riferisce, come già vide Godefroy 85, al fatto che le donne non erano soggette alle previsioni del senatoconsulto Turpilliano ed erano sottratte all’obbligo della subscriptio 86, il che le avrebbe poste al riparo dalle pene previste per l’accusatore calunnioso. Al di là di ogni altra considerazione circa la politica giudiziaria di Costantino e il ruolo di contenimento delle liti temerarie attribuito agli avvocati 87, ancora una volta ci troviamo di fronte a una disposizione che riserva ai soli interessati la facoltà di esercitare l’accusa, il che sembra dimostrare un certo sfavore, da parte del legislatore, per il ricorso all’accusa pubblica, proprio in quanto fattore potenzialmente incentivante le liti temerarie 88. I dati a disposizione sono troppo scarsi per consentire di prendere una posideve osservare quanto anticamente statuito. Non è bene infatti che la facoltà di accusare sia concessa indiscriminatamente alle donne. D’altra parte alle volte in processi criminali pubblici è stata ammessa la loro testimonianza o la loro autorità come accusatrici. Gli avvocati devono essere ammoniti, di non patrocinare temerariamente e per avidità di danaro delle donne che, forse facendosi scudo del loro sesso, rischiano di cadere in azioni illecite». Interpretatio. Feminis nisi in sua suorumque causa quemquam accusare non liceat, quia susceptione alienarum causarum legibus prohibentur. Advocati etiam commonendi sunt, ne contra leges suscipiant in alienis causis feminas litigare cupientes. «Non sia consentito alle donne di accusare chicchessia, a meno che non si tratti di causa loro propria o dei loro congiunti, poiché le leggi impediscono loto di prendersi carico di cause altrui. Anche gli avvocati devono essere ammoniti perché non si prendano come clienti, in violazione delle leggi, donne desiderose di litigare su cause di estranei». 84

C.I. 9.1.12: De crimine quod publicorum fuerit iudiciorum mulieri accusare non permittitur nisi certis ex causis, id est si suam suorumque iniuriam persequatur, secundum antiquitus statuta tantum de quibus specialiter eis concessum est non exacta subscriptione. «Non è permesso alle donne accusare di crimini che danno luogo a giudizi pubblici, salvo in casi stabiliti, ossia se è perseguita l’iniuria propria o dei loro, infatti secondo antichi precetti soltanto in questi casi è loro concesso in via eccezionale di procedere in difetto di subscriptio». 85

Gothofr. comm. ad h.l.

86

D. 48.16.4 pr. (Pap. Resp. XV): Mulier, quae falsi crimen iniuriae propriae post interpositam denuntiationem desistens omisit, ex senatus consulto Turpilliano teneri non videtur. «La donna che dopo aver avanzato denunzia, desistendo lascia cadere la falsa accusa di aver subito iniuria, non è sottoposta alle previsioni del senatoconsulto Turpilliano». 87

Su ciò, BIANCHI RIVA (2012), p. 13.

88

Contra, PIETRINI (1996), p. 64.

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zione definitiva in merito alla questione della pubblicità dell’accusa e riguardo all’estensione del suo ambito di applicazione; credo però che le fonti finora esaminate delineino un quadro di politica legislativa non del tutto favorevole a tale istituto, pur nella mutevolezza che caratterizza la produzione normativa del tempo. Inoltre, pare verosimile che le severe sanzioni previste dall’edictum de accusationibus abbiano di fatto scoraggiato il ricorso all’accusa, con la probabile eccezione di coloro che a tale rischiosa iniziativa erano spinti dall’essere stati essi stessi, o i loro cari, vittime del reato.

4. UN PROCESSO ACCUSATORIO? Comunque stiano le cose riguardo alla reale diffusione di procedure accusatorie in epoca costantiniana, la lettura del testo dell’edictum sembra confermare, a prima vista, che esse erano almeno teoricamente praticabili. A questo riguardo interessa in particolare il ricorso ai termini probare o conprobare, riferiti all’accusator. La questione è particolarmente rilevante, poiché essa investe in pieno il problema del ruolo processuale rivestito dall’accusator. Se infatti si assume che questi fosse tenuto a dimostrare in giudizio la fondatezza delle proprie accuse, assumendo al contempo il ruolo di parte processuale, non vi sarebbe alcun dubbio: ci troveremmo di fronte a un modello di processo penale chiaramente caratterizzato in senso accusatorio. Ben diversamente starebbero le cose, se l’accertamento della temerità dell’accusa, meritevole di per sé di essere sanzionata al pari della calumnia dovesse spettare al giudice, non solo in quanto dalla sentenza da lui pronunziata sarebbero dipesi i destini dell’accusatore, ma più specificamente se la formazione della prova fosse rimessa all’attività di accertamento del giudice stesso, e non all’attività di una parte processuale gravata dall’onere di provare in contraddittorio le proprie accuse. A questo proposito, si può osservare come il testo di CTh. 9.10.3 89 sia sul punto piuttosto sintetico: la costituzione si limita ad affermare che all’accusatore spetta di comprobare il crimen obiectum. Ora, il termine comprobare o conprobare indicherebbe appunto la necessità di dimostrare la fondatezza dell’accusa, con il risultato di pervenire alla condanna dell’imputato. Secondo il Forcellini comprobare significa appunto coram aliis repraesentare et confirmare aliquid ut rectum, iustum, commodum, aptum 90. Più esplicito il testo del sopra citato edictum, nel quale si legge: quicumque intentionibus suis probationes addere confidit (...) manifestis indiciis commissi reum detegat (...) si minime potuerit ea quae intentaverit conprobare, ecc. 89

Supra, p. 73 ss.

90

FORCELLINI (1965), p. 739.

Aspetti del procedimento penale durante il regno di Costantino

81

Il testo sembra indicare che colui che aveva sporto l’accusa era tenuto a fornire le prove delle proprie affermazioni. Si comprende pertanto perché taluni studiosi abbiano ritenuto che procedure di stampo accusatorio fossero sopravvissute e soprattutto fossero la regola e non l’eccezione, nel tempo di Costantino. Tuttavia, se si accetta l’interpretazione svolta più sopra 91, dalla quale emergerebbe l’obbligo per l’accusatore non di provare le proprie tesi, ma piuttosto di dimostrare che esse non fossero del tutto destituite di fondamento, la questione potrebbe apparire in una luce diversa. Infatti, nelle altre parti dell’edictum de accusationibus non vi è nulla che induca ad ipotizzare che la normale procedura avesse carattere stricto sensu contenzioso e che avesse il proprio fulcro nel contraddittorio. Di norma, vale la pena ricordarlo, nel processo accusatorio la prova si forma nel contraddittorio, grazie allo scontro dialettico delle parti di fronte al giudice e la parte che sostiene l’accusa interviene in giudizio gravata dall’onere di provare le proprie affermazioni. Nel caso di specie, sembra che si possa intravedere qualcosa di diverso: ossia che, al fine di evitare la proliferazione di denunzie calunniose o infondate, la parte che si fa carico di proporre l’accusa o la denunzia è posta nella condizione di aver interesse a fornire elementi di prova a sostegno delle proprie affermazioni, non tanto al fine di ottenere la palma della vittoria in giudizio, bensì per evitare la minaccia incombente della poena reciproci. Io non credo che sia del tutto corretto assimilare una procedura del genere al modello accusatorio. Non sfuggirà infatti che la condizione personale di entrambe le parti, ciascuna a suo modo, è nelle mani dell’organo giudicante, sicché l’imputato potrà essere liberato, ma il denunziante potrà divenire contemporaneamente imputato, il che per più di un verso ricorda un sistema di carattere inquisitorio, nel quale la preminenza – per l’esito del procedimento – è del giudice, non certo delle «parti». Ancora, non è probabilmente corretto parlare in questa situazione di «onere della prova», poiché in certo qual modo entrambi i soggetti coinvolti, accusatore ed accusato, sembrano per motivi del tutto analoghi essere posti in una condizione tale da avere ogni interesse a sostenere la propria posizione processuale pur di scampare la condanna: l’accusatore, in questo quadro, è un potenziale imputato, a prescindere dalla natura calunniosa o meno dell’accusa. Il giudice si trova così ad esercitare la propria funzione al di fuori della competizione fra parti, per le quali, anzi, i confini dei rispettivi ruoli paiono divenire in certo qual modo labili: è un giudice sovrano, quello che ci troviamo dinnanzi, che mai potrà semplicemente assolvere, poiché alla sua pronunzia di assoluzione potrà corrispondere una condanna, e la partita giocata da chi vorrà presentarsi 91

Supra, p. 74 ss.

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

dinnanzi a lui non potrà mai concludersi con un mero mancato accertamento di colpevolezza dell’originario imputato, dovendo ad esso accompagnarsi l’accertamento dell’eventuale responsabilità dell’accusatore: accertamento che potrà darsi per concluso sulla base degli elementi emersi durante il procedimento, oppure potrà richiedere un supplemento di indagini, in casi particolari. D’altro canto, è certo vero che il giudice potrà vedere il suo compito facilitato proprio dall’interesse delle parti a provare le loro tesi; ciò però non consente di attribuire al giudice un comportamento passivo, di spettatore di quanto gli offrivano le parti, tanto più che secondo la lettura del testo da me proposta, l’accusatore non era affatto tenuto a provare le proprie tesi, ma piuttosto a dimostrare che esse non erano completamente prive di fondamento. I testi visti finora e lo stesso edictum non escludono affatto che il giudice potesse intervenire d’ufficio nell’acquisizione delle prove, esercitando una funzione di tipo inquirente, ed anzi in alcuni casi lo prevedono esplicitamente: è ciò che accade, ad esempio, nel caso del crimen maiestatis, dove l’accusa destituita di fondamento sembra dar luogo a una vera e propria inchiesta condotta dal giudice attraverso il ricorso alla quaestio per tormenta. Da più parti si è sostenuta – per quest’epoca – la trasformazione dell’accusa in mera trasmissione della notitia criminis agli uffici giudiziari 92. Credo che l’edictum de accusationibus possa essere considerato appunto come una tappa all’interno di questo processo di trasformazione, con l’accusator consegnato a un ruolo per certi versi ibrido, fra quello di parte processuale e quello di mero informatore.

5. INCENTIVI ALL’ACCUSA E PROCEDURE D’UFFICIO Qualunque sia il ruolo che si vuole attribuire in quest’epoca all’accusatore, non v’è dubbio che le severe previsioni dell’editto costantiniano debbono avere agito da potente disincentivo, riducendo non solo la propensione all’accusa temeraria, ma più in generale spingendo coloro che non erano direttamente interessati all’esercizio dell’accusa ad astenersi da essa. È probabile che, con il tempo, tutto ciò abbia finito per incrementare il numero di procedimenti avviati a seguito di indagini condotte da funzionari di polizia, eventualmente allertati da coloro che avevano notizie o nutrivano sospetti circa la commissione di reati e i loro autori. Al tempo stesso, esigenze di politica criminale potevano indurre il legislatore a sollecitare la presentazione di accuse da parte di privati, al fine di assicurare, attraverso il concorso di procedure ex officio e accuse sporte da privati, una più celere ed efficiente repressione di taluni fenomeni. Per il periodo costantiniano, 92

Supra, p. 3 ss.

Aspetti del procedimento penale durante il regno di Costantino

83

si è già visto in precedenza un esempio relativo all’aruspicina 93, ma in realtà ci sono noti altri casi di questo genere. Basterà considerare in primo luogo CTh. 9.21.2, del 318, una disposizione in materia di falso nummario: Constantinus A. ad Ianuarinum. pr. Quoniam nonnulli monetarii adulterinam monetam clandestinis sceleribus exercent, cuncti cognoscant necessitatem sibi incumbere huiusmodi homines inquirendi, ut investigati tradantur iudiciis, facti conscios per tormenta ilico prodituri ac sic dignis suppliciis addicendi. Accusatoribus etiam eorum immunitatem permittimus, cuius modus, quoniam dispar census est, a nobis per singulos statuetur. Servos etiam, qui hoc detulerint, civitate romana donamus, ut eorum domini pretium a fisco percipiant 94.

Come si vede, il testo è diretto a reprimere l’attività fraudolenta dei monetieri che coniano moneta adulterata, ossia ne alterano la composizione in metallo prezioso 95. 93

Supra, p. 65 ss.

94

«L’Imperatore Costantino Augusto a Ianuarino. Poiché alcuni impiegati della zecca con nascoste scelleratezze coniano moneta adulterata, tutti sappiano che su di loro incombe l’obbligo di indagare su questo genere di persone, affinché dopo essere stati investigati siano consegnati ai tribunali, perché rendano noti sotto tortura i loro complici nel fatto e poi siano dati agli opportuni supplizi. Concediamo anche immunità agli accusatori di costoro, la cui entità sarà da noi fissata caso per caso, in quanto il loro censo è alquanto diseguale. Doniamo anche la cittadinanza romana ai servi che denunzieranno fatti di tal genere, ma in modo che i loro padroni siano rifusi del loro prezzo grazie al fisco». Il testo procede come segue: Si quis autem militum huiusmodi personam susceptam de custodia exire fecerit, capite puniatur. Appellandi etiam privato licentia denegetur; si vero miles aut promotus huiusmodi crimen incurrerit, super eius nomine et gradu ad nos referatur. Si dominum fundi vel domus conscium esse probabitur, deportari eum in insulam oportebit, cunctis eius rebus protinus confiscandis; si vero eo ignaro crimen commissum est, possessionem aut domum debet amittere, in qua id scelus admissum est. Actor fundi vel servus vel incola vel colonus, qui hoc ministerium praebuit, cum eo qui fecit supplicio capitali plectetur, nihilo minus fundo vel domo fisci viribus vindicanda. Quod si dominus ante ignorans, ut primum repperit, scelus prodidit perpetratum, minime possessio vel domus ipsius proscriptionis iniuriae subiacebit, sed auctorem ac ministrum poena capitalis excipiet. «Se qualcuno dei militi lascerà che una persona di questo genere a lui affidata sfugga alla custodia, sia punito con la pena capitale. Si neghi anche il diritto di appello al privato cittadino; se poi un milite o qualcuno che ha ricevuto un avanzamento di rango sarà accusato di un tale crimine, si riferisca a noi circa il suo nome e grado. Se sarà dimostrato che il padrone di un fondo o di una casa è complice, lo si dovrà deportare in un’isola, e se il crimine è stato commesso a sua insaputa, il fondo da lui posseduto o la casa nella quale ha avuto luogo il reato saranno confiscate. L’amministratore del fondo, lo schiavo, il contadino o il colono che si resero complici di tale fatto siano colpiti da pena capitale insieme a colui che lo commise. In ogni caso il fondo o la casa siano confiscati. Ma se il padrone, dapprima ignaro, non appena scoprirà il fatto, denunzierà il crimine perpetrato, allora il fondo o la casa non saranno per nulla soggetti a confisca, ma l’autore e il complice del fatto saranno condannati alla pena capitale». Cfr. C.I. 7.13.2; 9.24.1. Sulla datazione, cfr. SEECK (1929), p. 167. 95

Sul punto cfr. CUBELLI (1992), p. 5 ss.

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Si tratta di una frode specialmente grave, in quanto coinvolge gli stessi operai della zecca. Proprio per questo motivo, e al fine di assicurare una più efficace repressione del fenomeno criminale, Costantino apre, come già in altre occasioni 96, una pluralità di percorsi per l’avvio del procedimento criminale. Da un canto si richiamano gli uffici competenti ad esercitare stretta vigilanza sui monetieri, sottoponendoli a indagini (inquirere), al fine di porre sotto processo e punire coloro che fossero scoperti (investigati) in tali attività fraudolente. Accanto all’azione tipicamente inquisitoria demandata alla pubblica autorità, è previsto un regime premiale a favore di chi voglia farsi accusator. L’imperatore promette infatti la concessione di esenzioni da pubblici servizi e tributi (immunitas) in forme e modi da stabilirsi caso per caso, a seconda del censo dei soggetti coinvolti. Infine, nel caso in cui la notitia criminis sia portata a conoscenza dell’autorità da parte di un servo, costui otterrà la piena libertà e la concessione della cittadinanza. Si vede, dunque, come in apparente contraddizione con altre disposizioni dello stesso Costantino, si cerchi di favorire l’accusa pubblica o la delazione da parte di schiavi, attraverso la concessione di premi. Una costituzione per certi versi analoga, è CTh. 9.1.4, del 325 97: Constantinus A. ad universos provinciales. Si quis est cuiuscumque loci ordinis dignitatis, qui se in quemcumque iudicum comitum amicorum vel palatinorum meorum aliquid veraciter et manifeste probare posse confidit, quod non integre adque iuste gessisse videatur, intrepidus et securus accedat, interpellet me: ipse audiam omnia, ipse cognoscam et si fuerit comprobatum, ipse me vindicabo. Dicat, securus et bene sibi conscius dicat: si probaverit, ut dixi, ipse me vindicabo de eo, qui me usque ad hoc tempus simulata integritate deceperit, illum autem, qui hoc prodiderit et comprobaverit, et dignitatibus et rebus augebo. Ita mihi summa divinitas semper propitia sit et me incolumem praestet, ut cupio, felicissima et florente re publica. PROPOSITA XV KAL. OCTOB. NICOMEDIAE PAULINO ET IULIANO CONSS.

Anche in questo caso, l’imperatore, rivolgendosi ad universos provinciales, 96 97

Cfr. supra, p. 61 ss.

«L’Imperatore Costantino Augusto a tutti i provinciali. Se vi è qualcuno, di qualsiasi luogo ordine o dignità esso sia, che ritiene di poter provare in modo veridico ed evidente che qualsiasi fra i miei giudici, comites, amici o palatini ha operato in modo non integro né giusto, si presenti coraggioso e sicuro e mi interpelli. Io udrò tutto, io gestirò il processo e se i fatti saranno dimostrati, io stesso mi vendicherò. Dica, sicuro e con piena coscienza: se dimostrerà i fatti, come ho detto, mi vendicherò di colui che fino a quel momento mi ha ingannato mostrando una falsa integrità. Invece, beneficerò colui che ha denunziato e dimostrato le accuse con dignità e sostanze. Così la somma divinità mi sia sempre propizia e mi mantenga incolume, come desidero, in uno Stato felicissimo e fiorente». SEECK (1919), p. 174. Sulla ratio legis di questo provvedimento e di CTh. 1.16.6, su cui infra, p. 86 ss., si veda AMARELLI (2005), p. 9 ss.; SLOOTJES (2006), p. 56 ss.

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promette premi di particolare rilevanza (accrescimento del patrimonio e della dignitas) per coloro che vorranno rivelare le malefatte eventualmente commesse nell’amministrazione della cosa pubblica. La costituzione è diretta in particolare a disciplinare la repressione delle malversazioni commesse ai gradi più elevati dell’organizzazione statale e include comites, palatini, amici. Ciò spiega sia l’entità dei premi previsti, che il coinvolgimento diretto del tribunale imperiale. Ancora una volta, le esigenze repressive inducono a stabilire incentivi all’accusa esercitata da privati: il che pare in questo caso specialmente ragionevole, considerata la minore probabilità che accuse di malversazione potessero emergere dall’interno della stessa amministrazione. La concessione dei premi è subordinata, come è ovvio, al fatto che l’accusa si dimostri fondata; a questo proposito si pone, ancora una volta, la questione del ruolo processuale dell’accusatore. Nel caso in esame, all’accusatore spetterà di prodere e comprobare: dunque denunziare il fatto e portare elementi di prova a sostegno delle accuse, tanto che solo chi sia fiducioso di poter provare i fatti veraciter et manifeste, potrà accedere intrepido e sicuro al soglio imperiale. In effetti, per quanto nell’epoca di Costantino, procedure di carattere inquisitorio siano attestate in modo chiaro e inequivoco (del resto, se ne è appena visto un esempio) 98, la legislazione in materia di processo penale si mostra in certo qual modo ondivaga, fortemente condizionata da esigenze del momento e perciò priva di unitarietà. In ogni caso, non stupisce che da CTh.9.1.4 emerga un ruolo particolarmente attivo dell’accusator. Premesso che è del tutto scontato il ruolo non passivo del giudice, a maggior ragione trattandosi dello stesso imperatore (ipse audiam omnia, ipse cognoscam), mi pare evidente che trattandosi di gravi accuse che avrebbero coinvolto perfino la cerchia degli amici del sovrano, fosse necessaria una certa cautela, e dunque essere particolarmente esigenti in fatto di prova. Ciò potrebbe spiegare l’evidente differenza di tono fra CTh. 9.1.4 e l’edictum de accusationibus: se infatti in quest’ultimo si fa cenno genericamente a probationes, manifesta indicia e si dispongono pene a carico di chi minime potrà dimostrare le proprie accuse, nel caso ora in esame potrà adire il soglio imperiale solo chi sarà certo di poter provare veraciter et manifeste le proprie affermazioni. Peraltro, anche se nel testo pervenutoci non v’è cenno a possibili sanzioni a carico dell’accusatore – cosa del tutto ragionevole, visto che il legislatore intende, con tono suadente, favorire l’esercizio dell’accusa – non v’è alcuna ragione di dubitare che i rischi gravanti sul capo di un eventuale falso accusatore, per di più dinnanzi al tribunale imperiale, sarebbero stati enormi. Tuttavia, si deve osservare come in una legge di qualche anno successiva, lo 98

Cfr. anche supra, p. 56 ss.

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stesso Costantino si rivolgesse ancora una volta ad provinciales esortando a denunziare le eventuali malversazioni da parte di funzionari senza fare il minimo cenno ad obblighi, vincoli o rischi di sorta gravanti sul capo di chi avesse voluto far pervenire eventuali notizie di reato: Iustissimos autem et vigilantissimos iudices publicis adclamationibus collaudandi damus omnibus potestatem, ut honoris eis auctiores proferamus processus, e contrario iniustis et maleficis querellarum vocibus accusandi, ut censurae nostrae vigor eos absumat; nam si verae voces sunt nec ad libidinem per clientelas effusae, diligenter investigabimus, praefectis praetorio et comitibus, qui per provincias constituti sunt, provincialium nostrorum voces ad nostram scientiam referentibus. PROPOSITA K. NOV. CONSTANTINOPOLI BASSO ET ABLAVIO CONSUL 99.

In questo caso si fa riferimento a querellae e perfino semplici voces, che sarà compito di prefetti e comites portare a conoscenza del soglio imperiale in modo che si possa dar luogo a una diligente indagine (diligenter investigabimus). È vero che si precisa che le voces dovranno essere veridiche e non costruite a bella posta; ma è a mio avviso innegabile che il tono della disposizione lascia intendere che si tratta del ricorso a procedure avviate sulla base di semplici informazioni, senza accusa solenne e senza la costituzione di accusatori in giudizio, e affidate allo stesso tribunale imperiale, al quale spetterà l’accertamento della veridicità delle informazioni ricevute. Detto altrimenti, le querellarum voces di cui si parla suonano più come lagnanze utili ad avviare una qualche forma di attività investigativa che come accuse in senso stretto 100, sicché il quadro che emerge da CTh. 1.16.6 sembra corrispondere a procedure di stampo sostanzialmente inquisitorio. Il che conferma ancora una volta la discontinuità delle politiche e della legislazione tardo-antica in materia di procedimento criminale, poiché urgenze contingenti sembrano spesso prevalere sull’esigenza – forse neppure percepita come tale – di coerenza e uniformità della produzione normativa.

99

CTh. 1.16.6 (cfr. C.I. 1.40.3), del 331: «diamo a tutti facoltà di lodare i più giusti e vigilanti fra i giudici con pubbliche acclamazioni, in modo che possiamo premiarli con un incremento dei loro onori. Al contrario quelli di loro che sono ingiusti e malvagi siano accusati da voci e lamentele affinché la potenza della nostra censura possa distruggerli. Infatti investigheremo con cura per accertare se le voci sono veridiche e se non sono diffuse a bella posta attraverso clientele. I prefetti al pretorio e i comites che sono stabiliti nelle provincie porteranno alla nostra conoscenza le voci dei nostri provinciali». Cfr. SEECK (1919), p. 181. 100 Contra, ZANON (1998), p. 47 ss.; SPAGNUOLO VIGORITA (1984), p. 51 ss. Si veda anche DE MARINI (1965), p. 313 ss.

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6. DELAZIONI E DENUNZIE ANONIME Conviene ora tornare al testo dell’edictum de accusationibus, un paragrafo del quale è dedicato alla questione della delazione. Il legislatore afferma, richiamandosi alla legislazione previgente, che ai delatori dev’essere negato accesso ai tribunali, non deve essere prestata loro audientia, e che anzi essi debbono essere convenientemente puniti. Nell’opinione di alcuni il divieto di delazione riguarderebbe proprio la delazione criminale: ne seguirebbe che, per effetto dell’edictum, la semplice trasmissione della notitia criminis agli uffici giudiziari, da parte di soggetti che si sottraevano alla formale assunzione delle responsabilità connesse all’esercizio dell’accusa, sarebbe stata severamente punita 101. Scopo del legislatore, secondo questa interpretazione, ancora una volta quello di evitare la proliferazione di accuse infondate; nelle parole di Stefania Pietrini, «se si fosse permesso di dare il via ad una procedura d’ufficio sulla base di una mera segnalazione, si sarebbero potute, di fatto, aggirare le rigide norme sulla promozione dell’accusa, giungendo, conseguentemente, a privarle di ogni efficacia» 102. In realtà, una parte niente affatto irrilevante della dottrina considera – a parere di chi scrive del tutto ragionevolmente – il paragrafo dell’edictum circa i delatori come relativo alla delazione fiscale, un tema peraltro estraneo al presente lavoro 103. Comunque, non mi pare convincente il ragionamento di chi ritiene che in assenza del divieto di delazione criminale sarebbero state vanificate le norme in materia di accusa. Tutto dipende, infatti, da quale connotazione si vuole attribuire al termine delator e da come si intende l’azione di questi soggetti. Certamente, sarebbe del tutto contraddittorio sanzionare l’accusatore che intenti accuse destituite di fondamento e allo stesso tempo consentire a chiunque di dar luogo ad un procedimento penale d’ufficio, avviato sulla base di «mere segnalazioni». D’altro canto, lo stesso Costantino aveva disposto quanto segue: Constantinus A. ad Maximum Pf. U. Quodam tempore admissum est, ut non subscriptio, sed professio criminis uno sermone ex ore fugiens tam accusatorem quam reum sub experiendi periculo de patria, de liberis, de fortunis, de vita denique dimicare cogeret. Ideoque volumus, ut, remota professionis licentia ac temeritate, ad subscriptionis morem ordinemque criminatio referatur, ut iure veteri in criminibus deferendis omnes utantur, id est ut, sopita ira et per haec spatia mentis tranquillitate recepta, ad supre101

Cfr. PIETRINI (1996), p. 96 ss.

102

Cfr. PIETRINI (1996), p. 106.

103

Cfr. ad es. SPANGNUOLO VIGORITA (1984), p. 41 ss.; RIVIÈRE (2002), p. 131 ss. Contra, CENTOLA (1999), p. 125 ss.

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mam actionem cum ratione veniant atque consilio. DAT. XI. KAL. IUN. SIRMIO. ACC. ROMAE, CONSTANTINO A. VII. ET CONSTANTIO C. CONSS. 104.

Dal testo si evince chiaramente come il legislatore intendesse evitare che un procedimento penale potesse prendere avvio da un sermo ex ore fugiens: le formalità relative alla subscriptio, in questo quadro, svolgono anche la funzione di assicurare che l’accusa sia sporta in modo meditato e non sull’onda di troppo rapide reazioni emotive 105. Tutto ciò non esclude che il sistema di repressione penale, anche in età costantiniana, avesse bisogno di fonti di informazione, possibilmente numerose e destinate non necessariamente a suscitare un immediato processo, ma eventualmente a dar luogo a indagini o a rafforzare la vigilanza degli organi competenti, là dove poteva apparire più opportuno. In effetti, conviene distinguere la figura del «denunziante» da quella dell’«informatore», al quale non spettava di portare l’impulso che attiva il procedimento penale, bensì più semplicemente di riferire notizie genericamente utili all’eventuale esercizio della repressione penale in tutte le sue possibili forme. Al di là della portata delle disposizioni dell’edictum, che come già detto debbono essere riferite, a parere di chi scrive, alla sfera fiscale e sulle quali perciò non mi soffermerò oltre, non mi paiono ingiustificate le osservazioni di Lauria, secondo il quale non si inibì quasi mai agli uffici competenti di tener conto delle delazioni 106; ben difficilmente la pubblica autorità avrebbe potuto privarsi di fonti d’informazione indubbiamente utili per il controllo della società e dei fenomeni criminali. D’altro canto, si è già visto più volte come il legislatore disegni più strade per dare impulso a dei procedimenti criminali: l’accusa da parte di privati, l’esercizio d’ufficio dell’azione penale e infine le denunzie da parte di schiavi, ai quali in più di un’occasione sono anche concessi dei premi 107. È certo vero, come ha osservato Rivière 108, che sul punto la legislazione è incostante, poiché tali denunzie talora sono incentivate, talaltra sono punite, ma è

104 CTh. 9.1.5, del 320: «l’Imperatore Costantino Augusto a Massimo Prefetto dell’Urbe. Un tempo fu concesso che non una subscriptio bensì l’accusa di un crimine sfuggita alle labbra nel corso di un discorso potesse mettere a repentaglio sia l’accusatore che l’imputato, a rischio di perdere la patria, i figli, le fortune, la propria vita. Per questa ragione vogliamo che – tolta di mezzo la licenza e la temerarietà di tali accuse – ogni accusa criminale sia presentata secondo il costume e l’ordine della subscriptio, affinché tutti nel denunciare crimini facciano riferimento all’antico diritto: ossia, quando la rabbia è sopita e la tranquillità d’animo recuperata grazie al tempo, allora giungano ad un’azione così grave, con ragionevolezza e senno». Cfr. SEECK (1919), p. 170. 105

Cfr. MOSSAKOWSKI (1996).

106

Cfr. LAURIA (1983), p. 298 ss.

107

Supra, p. 61 ss.

108

RIVIERE (2002), p. 323 ss.

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evidente che là dove il legislatore percepiva un’urgenza repressiva, esse potevano costituire uno strumento utile al servizio dell’apparato repressivo. Ad esempio, l’edictum de accusationibus contiene previsioni estremamente severe relative a servi e liberti che accusino i propri padroni o ex-padroni 109: tuttavia, tali previsioni sono contraddette in numerose occasioni, nel contesto di disposizioni più specifiche, concernenti singoli reati. Un caso meritevole di essere segnalato, oltre a quelli già visti in precedenza, è contenuto in CTh. 9.24.1, costituzione costantiniana del 326 relativa al ratto di vergini, nella quale, al quarto paragrafo, si stabilisce che: Si quis vero servus raptus facinus dissimulatione praeteritum aut pactione transmissum detulerit in publicum, latinitate donetur, aut, si latinus sit, civis fiat romanus: parentibus, quorum maxime vindicta intererat, si patientiam praebuerint ac dolorem compresserint, deportatione plectendis 110.

Ancora una volta sono disposti premi a favore di persone di condizione servile che rendano nota la commissione del reato nonché la mancata reazione da parte dei parenti della vittima. La questione è di particolare interesse in questa sede, poiché è del tutto evidente che la denunzia da parte dello schiavo non è in alcun modo assimilabile ad un’accusatio. A prescindere, infatti, dal valore attribuito a questo termine, che chi scrive, come più volte detto, è incline a interpretare come una trasmissione di notizie di reato sottoposta a particolari vincoli miranti a evitare la proliferazione di accuse calunniose o del tutto destituite di fondamento, pare evidente che la denunzia da parte del servus, sia posta su di un piano diverso rispetto all’accusa in sé e per sé: infatti il testo dice [qui] detulerit in publicum. Insomma, la denunzia da parte dello schiavo non è altro che una forma di delazione e le previsioni costantiniane dirette ad incentivarla sono, ancora una volta, un indice della complessità della legislazione in materia. Di certo, non pare che esse giovino a sostenere le tesi di chi proietta astrazioni accusatorie nella variegata realtà del IV secolo a.C. Diverso il discorso per quanto concerne le denunzie anonime, quelle di cui non è in alcun modo possibile individuare l’autore e che ovviamente costituiscono il principale strumento per l’abuso, a fini personali, del sistema giudiziario: con il duplice effetto di piegarlo ad interessi personali, magari non solo infondati, ma perfino illeciti, e di nuocere all’efficienza complessiva del sistema. 109 110

Supra, p. 69 ss.

«Se un servo renderà pubblico un crimine di ratto, fino allora rimasto dissimulato o lasciato correre per via di qualche accordo, gli sia donata la cittadinanza latina. Se è già latino, divenga cittadino romano: i genitori, che più di ogni altro avrebbero dovuto cercare giustizia, se hanno tollerato il fatto o represso il loro dolore, che siano colpiti da deportazione». SPECK (1919), p. 176. Cfr. C.I. 7.13.3. L’edizione di Mommsen reca l’anno 320. Sulla costituzione cfr. EVANS-GRUBBS (1989), passim.

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Persino un informatore o delatore dovrebbe essere ben noto all’autorità, sia essa quella di polizia o quella giudiziaria e dunque in qualche modo esposto al rischio di dover rendere conto del proprio operato. Ben altro il discorso per quel che riguarda i libelli famosi, composti per mano di anonimi, di cui infatti Costantino dispone nell’edictum la distruzione, premurandosi di precisare che essi dovranno essere distrutti, fatti a pezzi o bruciati da chi dovesse ritrovarli. Tali documenti non dovranno essere presi in considerazione dai giudici, i quali dovranno disporre che siano immediatamente dati alle fiamme (in quibus etiam iudicum eiusmodi obseruantiam esse oportebit, ut, si forte ad se talis libellus perlatus fuerit, igni eum praecipiat concremari). D’altro canto, nel caso in cui libelli famosi pervenissero agli uffici giudiziari, sarà compito dei medesimi uffici avviare un’inchiesta per identificarne e punire l’autore. Le disposizioni costantiniane in materia sono relativamente numerose e tutte di un certo interesse. Una prima, diretta al Vicario d’Africa, risale al 319 111: Imp. Constantinus A. ad Verinum Vicarium Africae. Si quando famosi libelli reperiantur, nullas exinde calumnias patiantur hi, quorum de factis vel nominibus aliquid continebunt, sed scriptionis auctor potius requiratur et repertus cum omni vigore cogatur his de rebus, quas proponendas credidit, comprobare; nec tamen supplicio, etiamsi aliquid ostenderit, subtrahatur. PP. IV. KAL. APRIL. KARTHAGINE, CONSTANTINO A. V. ET LICINIO C. CONSS.

Come si vede, il legislatore prescrive che le denunzie anonime redatte per iscritto non abbiano alcun tipo di conseguenza, se non l’avvio di un’inchiesta per conoscerne l’autore, il quale non potrà sottrarsi alle gravissime pene previste, neppure se potrà dimostrare l’attendibilità della denunzia stessa. Il fenomeno doveva avere una particolare diffusione in terra d’Africa, poiché una seconda costituzione costantiniana, diretta nel 315 a Eliano, proconsole d’Africa, raccomanda di non dar seguito alle denunzie contenute nei libelli e di lasciar liberi i soggetti ivi menzionati dopo averli severamente ammoniti a non commettere crimine alcuno e a non rendersi neppure sospetti agli occhi dell’autorità: Licet serventur in officio tuo et vicarii exemplaria libellorum, qui in africa oblati sunt, tamen eos quorum nomina continent metu absolutos securitate perfrui sinas solumque moneas, ut ab omni non solum crimine, sed etiam suspicione verisimili alieni esse festi-

111 CTh. 9.34.1: «l’Imperatore Costantino Augusto a Verino Vicario d’Africa. Se mai dovessero essere trovati dei libelli diffamatori, coloro le cui azioni o i cui nomi sono in essi contenuti non subiscano alcuna calunnia, ma piuttosto si ricerchi l’autore di tali scritti e una volta individuato lo si costringa con ogni severità a dimostrare i fatti che ha ritenuto di rendere pubblici. E comunque, anche se dimostrerà alcunché, non sia sottratto al supplizio»; SEECK (1919), p. 168. Sulla legislazione costantiniana in materia, si veda in particolare SANTALUCIA (1998/2), passim.

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nent. Nam qui accusandi fiduciam gerit, oportet comprobare, nec occultare quae scierit, quoniam praedicabilis erit ad dicationem publicam merito perventurus. PROPOSITA V KAL. MAR. CARTHAGINE CONSTANTINO A. VI ET CONSTANTINO C. CONSS. 112.

Colpisce il fatto che diverse costituzioni in materia di libelli famosi siano dirette alla provincia d’Africa: fatto che lascia sospettare che le denunzie anonime fossero in qualche modo connesse con lo scisma donatista 113. In ogni caso, Costantino ribadisce più volte il principio per cui l’accusatore deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni, senza nascondersi. Nel 320 egli ribadisce che ut accusatoribus patientia praebenda est, si quem persequi in iudicio volunt, ita famosis libellis fides habenda non est nec super his ad nostram scientiam referendum, cum eosdem libellos flammis protinus conducat aboleri, quorum auctor nullus existit 114. Ancora nel 328, è ripetuto il divieto, evidentemente non sempre ascoltato dagli uffici giudiziari, di prendere in considerazione i libelli: famosa scriptio libellorum, quae nomine accusatoris caret, minime examinanda est, sed penitus abolenda. Nam qui accusationis promotione confidat, libera potius intentione quam captiosa atque occulta conscriptione alterius debet vitam in iudicium devocare. PROPOSITA TYRO XII KAL. NOV. IANUARINO ET IUSTO CONSS. 115.

Da notare che i libelli famosi non costituiscono una mera notizia di reato o, più genericamente, una fonte d’informazione priva di autore, bensì un vero e proprio libello d’accusa che nomine accusatoris caret e che il legislatore si preoccupa di evitare che possa di per sé dar luogo a procedimento criminale: sarebbe stata una via troppo facile per coloro che desideravano orchestrare accuse calunniose ai danni dei loro nemici. 112 CTh. 9.34.2: «benché siano conservate presso i tuoi uffici e presso quelli del Vicario, copie di libelli che sono state fatte pervenire in Africa, in ogni caso tu dovrai garantire alle persone i cui nomi vi sono contenuti di godere piena sicurezza senza alcun timore. Soltanto li ammonirai di star ben lontani non solo da qualsiasi crimine, ma anche da ogni credibile sospetto. Infatti è opportuno che chi confida di poter accusare comprovi le sue accuse e non nasconda ciò che sa, giacché egli sarà così degno di lode e di pubblici onori». SEECK (1919), p. 163. Mommsen ne sposta in avanti la collocazione di alcuni anni. 113

Infra, p. 93 ss.

114

CTh. 9.34.3: «mentre occorre essere pazienti con gli accusatori, se desiderano perseguire qualcuno in giudizio, non deve invece attribuita alcuna fiducia ai libelli diffamatori, né si deve riferire a noi a proposito di essi, poiché è anzi opportuno che tali libelli privi di autore siano subito distrutti dalle fiamme». SEECK (1919), p. 170. 115

CTh. 9.34.4: «gli scritti contenuti nei libelli diffamatori, privi del nome dell’accusatore, non devono essere in alcun modo esaminati, ma subito distrutti. Infatti colui che confida di poter accusare dovrà chiamare in giudizio l’altrui vita per via di aperte accuse e non con scritti occulti e insidiosi». SEECK (1919), p. 178.

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7. IL PROCEDIMENTO CRIMINALE IN ETÀ COSTANTINIANA Quali conclusioni trarre da questa rapida carrellata della legislazione costantiniana? A giudizio di chi scrive, per certi versi si potrebbe essere tentati di respingere con fastidio l’applicazione di modelli interpretativi contemporanei, quali sono i modelli accusatorio e inquisitorio, alla realtà antica. Chi voglia adoperarli correttamente, tenendo conto della loro struttura complessiva senza limitarsi a identificazioni che rischiano di apparire fondate su accostamenti meramente nominalistici, rischia infatti di vedere frustrate le proprie aspettative, quasi che una realtà varia e multiforme rifiuti di farsi incasellare all’interno di troppo rigide definizioni. Volendo comunque tenere fede all’adozione di tali modelli come strumento d’indagine, nella convinzione che essi possano avere una loro utilità come guida analitica, l’interprete non può che limitarsi a descrivere un quadro complesso. Da un canto non mancano i riferimenti ad accusatio e accusatores, come da tempo ha riconosciuto la dottrina 116. D’altra parte, in molti casi sembra trattarsi di una terminologia per nulla sovrapponibile a quella comunemente utilizzata con riferimento al modello processuale accusatorio. L’accusatore, più che parte processuale, appare come un portatore di informazioni, talvolta motivato da interesse personale ad attivare il procedimento penale verso chi l’ha offeso: ma in ogni caso sembra avere del tutto ragione Rivière, quando afferma che le disposizioni di età tardo-antica mirano al controllo dei mezzi di informazione, piuttosto che a stabilire parità fra le parti 117. Tutto sommato l’accusatore sembra davvero essere solo un denunciante vincolato da particolari formalità miranti a ridurre una particolare forma di litigiosità temeraria in materia penale. In nessun luogo emerge con chiarezza un ruolo di parte, all’interno di un processo «di parti», che sia in qualche modo assimilabile all’antico modello delle quaestiones perpetuae. Il giudice sembra al contrario muoversi con una certa libertà, a prescindere dall’azione delle parti in causa: non a caso Costantino deve ribadire per ben quattro volte il rifiuto del ricorso ai libelli famosi per l’avvio di procedimenti penali e la loro immediata distruzione, evidentemente contrastando un consolidato atteggiamento degli uffici giudiziari, inclini ad attivarsi non appena venuti in possesso di informazioni ritenute sufficienti ad agire. Sempre in relazione ai libelli famosi non sarà sfuggito come spettasse proprio agli uffici giudiziari la ricerca dell’autore, con una procedura che pare del tutto

116

Supra, p. 7 ss.

117

RIVIÈRE (2002), p. 14.

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estranea al modello accusatorio della Roma repubblicana e della primissima età imperiale 118. Nessuna fonte ci mostra un giudice privo della funzione inquirente, e non rileva in proposito se e quanto i singoli giudici, in singoli casi, trovassero comodo, anche per effetto delle disposizioni in materia di calunnia, lasciare in buona misura alle parti lo sforzo di ricercare le prove. Insomma, non mancano affatto chiare attestazioni di procedure inquisitorie, alle quali è estraneo qualsiasi intervento delle parti coinvolte, in particolare quando si tratti di reati ritenuti particolarmente meritevoli di aspra repressione. Peraltro, che procedimenti inquisitori fossero non solo noti, ma ampiamente praticati ove le circostanze lo richiedevano, è cosa che emerge anche dalle fonti non giuridiche. Un esempio è offerto dalle vicende dello scisma donatista. Le origini dello scisma vanno ricondotte alla persecuzione di Diocleziano, tra il 303 ed il 305, che si svolse con particolare durezza in Africa 119. In quegli anni si manifestarono alcune tendenze estreme del cristianesimo africano, che avrebbero poi segnato alcune zone della provincia negli anni di Costantino. Molti cristiani denunziarono se stessi, in una sorta di ricerca del martirio; altri cercarono di sfuggire ai loro persecutori, nascondendosi o abiurando la loro fede. Comunque sia, le azioni di coloro che ricercavano in ogni modo la morte come martiri per mano dei loro persecutori furono duramente stigmatizzate da Mansurio, vescovo di Cartagine. Di qui la polemica e la divisione, fra coloro che si consideravano autentici milites Christi, e gli altri cristiani, considerati con disprezzo quali traditori (detti lapsi). Fonti di parte donatista accusarono Mansurio e il suo diacono Ceciliano di aver persino dato manforte ai persecutori e di aver angariato in ogni modo i fedeli desiderosi di martirio. Alla morte di Mansurio gli successe appunto Ceciliano, designato per la cattedra episcopale da Felice, vescovo di Aptungi. L’ordinazione di Ceciliano diede inizio allo scisma vero e proprio: i donatisti, guidati da Secondo, vescovo di Tigisi, accusarono lo stesso Felice di essere un traditore, non ne riconobbero la decisione ed insediarono come loro vescovo Maiorino. I vescovi donatisti riuniti in Concilio condannarono e scomunicarono Ceciliano; condanna, sia detto per inciso, che fu pronunciata in absentia dell’accusato. Da questo momento la parte donatista viene organizzandosi come una Chiesa vera e propria e si proclama unica depositaria della fede ortodossa nel territorio d’Africa. Con la condanna di Ceciliano avvenuta nel 311, ebbe inizio un conflitto anche sanguinoso, noto come causa Caeciliani, destinato a durare per decenni 120. In questo quadro sono noti diversi interventi di Costantino, spesso infruttuosi, miranti a risolvere la controversia e a sedare una volta per tutte gli animi degli in118

Contra, MANFREDINI (1981), p. 415.

119

HORST (1985), p. 179 ss.; BROWN (1975), p. 223 ss.

120

Su queste vicende mi permetto di rinviare al mio BANFI (2005), p. 22 ss.

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teressati. Non interessa certo in questa sede ripercorrere tutte le complesse vicende legate allo scisma; vale la pena però di osservare che Costantino fu alla fine costretto a far entrare in gioco la giurisdizione penale dello Stato, al fine di accertare una volta per tutte se Felice di Aptungi, che aveva ordinato vescovo Ceciliano, si fosse reso colpevole di crimini, come sostenevano i suoi avversari donatisti. Così Costantino scrisse a Vero, vicario d’Africa ordinandogli ut remotis necessitatibus publicis, de vita Felicis Autumnitani publice quaereretur 121. L’inchiesta può essere ricostruita grazie ai gesta proconsularia posti a mo’ di appendice dell’opera di Ottato di Milevi: difficile negarne l’evidente connotazione inquisitoria. Anche pochi estratti bastano a dare idea di come si svolse l’inchiesta, durante la quale furono sottoposte a tortura anche persone di dignità decurionale: Aelianus proconsul dixit: Quoniam fingis te non intelligere quod interrogaris, dicam apertius: Quis te ad magistratum Caecilianum misit? Ingentius dixit: Nemo me misit. (...) Aelianus proconsul dixit ad Officium: Apta illum. Cumque aptaretur, Aelianus proconsul dixit: Suspendatur. Cumque suspenderetur, Aelianus proconsul Caeciliano dixit: Quomodo ad te Ingentius venit? (...) Aelianus proconsul dixit: Constantinus Maximus semper Augustus et Licinius Caesares, ita pietatem Christianis exhibere dignantur, ut disciplinam corrumpi nolint, sed potius observari religionem istam, et coli velint. Noli itaque tibi blandiri, quod mihi dicas, decurionem te esse, ac propterea non possis torqueri. Torqueris, ne mentiaris, quod alienum Christianis esse videtur. Et ideo dic simpliciter, ne torquearis 122.

Da notare che nel procedimento in questione, dove è del tutto trasparente il cumulo di funzioni inquirente e giudicante in capo ad Eliano, che alla fine pronunzierà l’assoluzione di Felice, non è riscontrabile alcun accusatore. I gesta proconsularia riportano in conclusione la sentenza: 121

Acta purgationis Felicis Episcopi Autmnitani, in appendice a Opt. Milev. De Schismate Donatist. (= Excerpta et scripta vet Donatistarum era ad historiam pertinentia, col. 783 ss.): «affinché, lasciate da canto le incombenze pubbliche, si indagasse in processo secolare sulla vita di Felice di Aptungi». 122 Acta purgationis Felicis Episcopi Autmnitani. (= Excerpta et scripta vet Donatistarum era ad historiam pertinentia, col. 784): «il Proconsole Eliano disse: “poiché fingi di non comprendere ciò su cui sei interrogato, te lo dirò in modo più chiaro. Chi ti inviò dal magistrato Ceciliano?”. Ingenzio disse: “nessuno mi inviò”. Il Proconsole Eliano disse al suo ufficio: “preparatelo”. E quando fu predisposto il Proconsole Eliano disse: “che sia sospeso”. E quando fu sospeso il Proconsole Eliano disse a Ceciliano: “in che modo Ingenzio è venuto da te?”. Il Proconsole Eliano disse: «Costantino Massimo sempre Augusto e Licinio Cesari si degnano di mostrare una tale pietà nei confronti dei cristiani da non volere che tale disciplina sia corrotta, ma piuttosto desiderano che tale religione sia osservata e coltivata. Non cercare dunque di confortarti dicendomi che sei un decurione e che per questa ragione non puoi essere sottoposto a tortura. Sarai torturato affinché tu non menta, cosa che peraltro pare estranea ai cristiani. Pertanto parla apertamente, se non vuoi essere torturato». Cfr. anche Aug. Epist. 43.

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Aelianus proconsul dixit: Ex professione Caeciliani, qui acta falsata esse dicit, atque epistolae plurima addita, manifestum est qua voluntate haec gesserit Ingentius: et ideo recipiatur in carcerem. Est enim arctiori interrogationi necessarius. Felicem autem religiosum episcopum liberum esse ab exustione instrumentorum deificorum manifestum est, cum nemo in eum aliquid probare potuerit, quod religiosissimas Scripturas tradiderit, vel exusserit 123.

Va anche notato che Eliano afferma che nemo in eum aliquid probare potuerit, ma ciò non ha nulla a che vedere con la presenza di un soggetto al quale fosse demandato il compito di provare checchessia. È il giudice che, al termine degli interrogatori da lui stesso condotti, riconosce che le accuse mosse dai donatisti contro Felice erano prive di fondamento: di dialettica di parti, di contraddittorio, di accusatori costituiti in giudizio non v’è traccia alcuna. Inoltre, come si vede, il giudice dispone l’incarcerazione di uno dei soggetti convocati durante l’inchiesta, affinché sia sottoposto a ulteriori e più stringenti interrogatori. Si tratta, certo, di vicende di speciale gravità, che proprio per questo motivo meritavano di essere trattate in modo spiccio ed efficace. Ma in ogni caso è difficile negare che procedure inquisitorie avessero un ruolo importante nella repressione penale di età costantiniana: esse traspaiono perfino là dove taluni ritengono di intravvedere la conferma della persistenza di tradizioni accusatorie. Basti pensare agli autori dei libelli famosi, che devono essere individuati e perseguiti a cura degli uffici giudiziari, senza intervento di accusatori di sorta. Anche il testo di CTh. 9.40.1, del novembre 313, peraltro dedicata a regolare la somministrazione della pena capitale, non sembra indicare, là dove si riferisce al percorso seguito per giungere alla condanna, alcunché di compatibile con un modello processuale accusatorio, almeno per come esso è inteso dal pensiero contemporaneo. La condanna capitale, infatti, potrà essere irrogata a carico di chi sia stato riconosciuto colpevole di adulterio, omicidio, maleficio aut sua confessione aut certe omnium, qui tormentis vel interrogationibus fuerint dediti, in unum conspirantem concordantemque rei finem convictus sit et sic in obiecto flagitio deprehensus, ut vix etiam ipse ea, quae commiserit, negare sufficiat 124. 123

Acta purgationis Felicis Episcopi Autmnitani (= Excerpta et scripta vet Donatistarum era ad historiam pertinentia, col. 784): «il Proconsole Eliano disse: “a seguito delle affermazioni di Ceciliano, che dice che gli atti sono stati falsificati, e di numerose lettere che si aggiungono ad esse, è chiaro con quali intenzioni Ingenzio abbia gestito questa faccenda: pertanto sia recluso in carcere. È infatti opportuno sottoporlo ad interrogatorio più stringente. D’altro canto il vescovo Felice è certamente innocente dell’accusa di aver dato alle fiamme sacre scritture, poiché nessuno ha potuto provare alcunché contro di lui, rispetto all’accusa di aver consegnato o arso tali scritture”». 124 «O per sua confessione, o per le testimonianze di tutti i testimoni che sono stati sottoposti a tortura o interrogatorio, quando tali testimonianze sono concordanti e miranti alla medesima con-

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È certo possibile che Costantino fosse in certo qual modo di sentimenti conservatori rispetto alla politica giudiziaria e al disegno del processo penale. Ne è indice anche l’insistenza con la quale egli raccomanda la pubblicità delle udienze, insistenza che tradisce come la tendenza seguita nella più parte dei casi fosse indirizzata verso la segretezza, non a caso ritenuta uno dei caratteri qualificanti delle procedure inquisitorie 125. Ciò non toglie che negli anni del suo regno sembrano manifestarsi alcune tendenze destinate a rafforzarsi durante il regno dei suoi immediati successori.

clusione della questione, e colui che è stato colto sul fatto, così che egli assai difficilmente possa negare ciò che ha commesso». SEECK (1919), p. 161. Cfr. C.I. 9.47.16. 125 CTh. 1.12.1: Imp. Constantinus A. Aeliano Proconsuli Africae. Omnes civiles causas et praecipue eas, quae fama celebriores sunt, negotia etiam criminalia publice audire debebis tertia, vel ut tardissime quarta vel certe quinta die acta conficienda iussurus. Quae omnia legati quoque coercitione commoniti observabunt. «L’Imperatore Costantino Augusto a Eliano Proconsole d’Africa. Tutte le cause civili e soprattutto quelle che sono più celebrate per fama e così pure i processi criminali dovranno essere discussi pubblicamente e ordinerai che gli atti siano predisposti entro il terzo o al più tardi il quarto o quinto giorno. Osserveranno necessariamente tutte queste disposizioni anche i legati, che saranno ammoniti al riguardo». CTh. 1.16.6: Idem A. ad Provinciales. Praesides publicas notiones exerceant frequentatis per examina tribunalibus, nec civiles controversias audituri secretariis sese abscondant, ut iurgaturus conveniendi eos nisi pretio facultatem impetrare non possit, et cum negotiis omnibus, quae ad se delata fuerint, exhibuerint audientiam et frequens praeconis, ut adsolet fieri, inclamatio nullum, qui postulare voluerit, deprehenderit, expletis omnibus actibus publicis privatisque sese recipiant. Iustissimos autem et vigilantissimos iudices publicis adclamationibus collaudandi damus omnibus potestatem, ut honoris eis auctiores proferamus processus, e contrario iniustis et maleficis querellarum vocibus accusandis, ut censurae nostrae vigor eos absumat; nam si verae voces sunt nec ad libidinem per clientelas effusae, diligenter investigabimus, praefectis praetorio et comitibus, qui per provincias constituti sunt, provincialium nostrorum voces ad nostram scientiam referentibus. «Il medesimo Augusto ai Provinciali. I governatori conducano i processi pubblicamente, con i tribunali affollati di gente e quando devono giudicare di controversie civili non si nascondano nei secretaria, in modo che un litigante non possa chiedere di comparire davanti a loro in cambio di denaro. Quando avranno reso udienza per tutti i casi che sono stati portati davanti a loro e i frequenti richiami dell’araldo, come suole accadere, mostrano che non vi è più alcuno che intende intraprendere un’azione, dopo che tutti gli atti pubblici e privati sono stati completati, i giudici si ritirino pure. Diamo a tutti facoltà di lodare i più giusti e vigilanti fra i giudici con pubbliche acclamazioni, in modo che possiamo premiarli con un incremento dei loro onori. Al contrario quelli di loro che sono ingiusti e malvagi siano accusati da voci e lamentele affinché la potenza della nostra censura possa distruggerli. Infatti investigheremo con cura per accertare se le voci sono veridiche e se non sono diffuse a bella posta attraverso clientele. I prefetti al pretorio e i comites che sono stabiliti nelle provincie porteranno alla nostra conoscenza le voci dei nostri provinciali». Cfr. SANTALUCIA (1998), pp. 283-284; DILLON (2012), p. 121 ss.; DE GIOVANNI (2007), p. 294.

CAPITOLO 4 LA DINASTIA DI COSTANTINO SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La legislazione di Costanzo II e Costante. – 2.1. Inquisitio del giudicante. – 2.2. I libelli famosi. – 2.3. L’iniziativa processuale: violazioni di sepolcri. – 2.4. Segue: il falso nummario. – 2.5. La posizione dei funzionari di polizia. – 3. La prassi giudiziaria nella testimonianza di Ammiano.

1. PREMESSA Per il periodo immediatamente successivo alla morte di Costantino, lo studioso dispone di fonti assai ricche, anche di natura non strettamente giuridica: si tratta in particolare dei Rerum Gestarum Libri di Ammiano, che in numerose occasioni ci tramandano informazioni preziose relative all’esercizio della repressione penale, in particolar modo per quel che riguarda tutti quei reati che, a cominciare dal crimen maiestatis, erano ritenuti di particolare pericolosità per il soglio imperiale. Il mondo descritto da Ammiano è per più versi sanguinario e brutale, con rare eccezioni, fra le quali spicca il regno di Giuliano l’Apostata. Benché, come per ogni testo storico, sia necessaria cautela da parte dell’interprete, che deve essere conscio degli orientamenti e della posizione ideologica della propria fonte, non credo si possa minimizzare la portata delle informazioni trasmesse da Ammiano, che sembrano delineare una decisa prevalenza di pratiche e procedure che oggi definiremmo inquisitorie. Il che, del resto, è del tutto ragionevole: come già detto più sopra, è naturale che il modello processuale più adatto ad assicurare la difesa dell’ordine costituito si mostri in azione là dove – a torto o a ragione – si considera messa a rischio la stabilità del governo della cosa pubblica. D’altra parte, neppure è lecito, a mio avviso, declassare come irrilevanti le notizie fornite da Ammiano, in quanto esse sarebbero indice di una propensione ad agire contra legem da parte di Cesari e Imperatori 1: al contrario, la testimo-

1 Cfr. ad es. PIETRINI (1996), p. 120 ss. che parla in proposito di «abuso del diritto». In generale sulla testimonianza di Ammiano, cfr. RIVIÈRE (2002), p. 148 ss.

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nianza dello storico ci rivela quale fosse la prassi comunemente seguita, almeno per certe categorie di reati, e contribuisce così a colmare lo iato, che frequentemente affligge lo storico del diritto dell’antichità, fra previsioni normative e prassi effettivamente seguita nei singoli casi concreti. Della testimonianza di Ammiano si dirà ampiamente più oltre. Conviene ora iniziare con quanto le fonti giuridiche ci consentono di ricostruire riguardo al regno di Costanzo II e Costante.

2. LA LEGISLAZIONE DI COSTANZO II E COSTANTE 2.1. Inquisitio del giudicante Dei tre figli di Costantino, Costantino II, Costante e Costanzo, il primo ebbe vita assai breve, poiché fu sconfitto e ucciso da Costanzo nel 340 ad Aquileia, mentre Costante terminò la propria esistenza nel 350 a seguito della congiura di Magnenzio, a sua volta ucciso da Costanzo 2. Non stupisce dunque che buona parte della produzione normativa per noi rilevante sia appunto da attribuire a Costanzo, il cui regno fu segnato, com’è noto, dall’adesione dell’imperatore stesso all’arianesimo 3. Conviene cominciare l’analisi della produzione legislativa del periodo con la costituzione dell’ottobre del 338 indirizzata al Prefetto al Pretorio Leonzio 4: Imp. Constantius A. Domitio Leontio PP. Quos custodia delatae criminationis includit, intra unius mensis spatium audiantur inquisitione completa, ne, si delati criminis causam segnius iudicantis lenitudo distulerit, reciprocos poenae sortiatur incursus. DAT. XV KAL. NOVEMB. URSO ET POLEMIO CONSS 5.

La ratio legis è evidentemente da ricondurre all’esigenza di evitare che la carcerazione di soggetti sospettati di qualche crimine si protragga eccessivamente, il che avrebbe l’effetto di infliggere una vera e propria pena ai malcapitati senza processo alcuno. Doveva trattarsi, come si dirà più oltre, di un fenomeno piuttosto frequente e anche specialmente iniquo, viste le terribili condizioni delle 2

Cfr. PASSERINI (1989), p. 596 ss.

3

Sul punto cfr. BAUS, EWIG (2001), p. 36 ss.

4

Cfr. SEECK (1919), p. 186. Cfr. anche CUNEO (1997), p. 20.

5

CTh. 9.1.7: «l’Imperatore Costanzo Augusto a Domizio Leonzio, Prefetto al Pretorio. Coloro che si trovano in custodia per via di accuse criminali riferite contro di loro, siano uditi entro il termine di un mese, completata l’inchiesta, perché non capiti che, se la pigrizia del giudice dovesse differire la causa relativa al crimine che è stato denunciato, egli si trovi a dover subire la pena del reciproco».

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carceri dell’epoca tardo-antica 6. Tuttavia ciò che interessa in questa sede è il riferimento alla custodia di soggetti a seguito di una delata criminatio. Il testo è per più versi oscuro, ma sembra di capire che tali criminationes non siano da riferire ad accuse avanzate da privati, bensì a imputazioni formulate da funzionari dotati di poteri di polizia: come già osservava Godefroy, è probabile che gli incarcerati fossero inquisitione officialium apparitorum curiosorum elogiis sive notoriis delatos 7. La disposizione prescrive che il processo abbia luogo entro un mese dall’inizio della detenzione cautelare (intra unius mensis spatium audiantur), una volta completata l’inchiesta (inquisitione completa) a carico del detenuto. È lecito presumere che l’inquisitio di cui parla il testo sia proprio da riferire all’attività inquirente svolta in prima persona dal giudice, avvalendosi della eventuale collaborazione degli organi di polizia. Se le cose stanno così – e non si vede quale altra interpretazione possa darsi del testo – saremmo davanti a un processo riconducibile allo schema inquisitorio, in cui il giudice cumula la funzione inquirente e giudicante e nel quale non è visibile alcun gioco triangolare fra accusa difesa e giudice, secondo le regole del modello accusatorio 8. Taluni hanno ipotizzato, a mio avviso forzando la lettera del testo, che nella versione originale della costituzione fosse presente un riferimento all’accusatore, deducendone l’esistenza dal riferimento alla poena reciproci 9. Eppure come già aveva osservato Godefroy 10, è abbastanza evidente che la pena del reciproco non è minacciata all’accusatore o delatore che dir si voglia, bensì al giudice che si renda responsabile con la sua lenitudo di aver allungato la custodia cautelare oltre il termine fissato. Si è visto in precedenza come il ricorso a procedure inquisitorie non fosse inusuale già nel regno di Costantino; fatta salva la scarsa chiarezza del testo, che sembra esserci pervenuto severamente epitomato, ci si potrebbe comunque chiedere le ragioni di una così evidente apertura a pratiche inquisitorie (indagini e accuse da parte di pubblici ufficiali, detenzione preventiva, funzione inquirente in capo al giudice). Se la data della costituzione è effettivamente il 338, potrebbe aver avuto ragione Godefroy suggerendo di leggerla nel contesto dei torbidi verificatosi dopo la morte di Costantino, scomparso da pochi mesi 11.

6

Infra, p. 165 ss.

7

Gothofr. comm. ad h.l.: «denunziati a seguito di inchiesta di ufficiali, di apparitores, o per via di rapporti dei curiosi». 8

Contra, PIETRINI (1996), p. 149.

9

PIETRINI (1996), pp. 149-150.

10

Gothofr. comm. ad h.l.; anche BOTTA (2008), § 5.

11

Gothofr. comm. ad h.l.

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2.2. I libelli famosi Non deve stupire che proprio allo stesso anno risalga un’altra costituzione di Costanzo in materia di libelli famosi diretta ad Afros: Imp. Constantius A. ad Afros. Libellis quos famosos vocant, si fieri possit, abolendis inclytus pater noster providit et huiusmodi libellos ne in cognitionem quidem suam vel publicam iussit admitti. Non igitur vita cuiusquam, non dignitas concussa his machinis vacillabit; nam omnes huiusmodi libellos concremari decernimus. DAT. XIIII KAL. IUL. URSO ET POLEMIO CONSS. 12.

Il testo, che precede di soli cinque mesi CTh. 9.1.7 13, è probabilmente richiamato anche in un’altra costituzione del Teodosiano, indirizzata nello stesso torno di tempo a Celsino, erroneamente indicato come Prefetto al Pretorio e invece a quel tempo Proconsole d’Africa 14: Imp. Constantius A. Celsino PP. Innocentiam securitate firmantes et quorundam audaciam prohibentes edictum promulgavimus, ne quid occultis delationibus possit in hominum licere fortunas. DAT. PRID. ID. IUN. VIMINACIO URSO ET POLEMIO CONSS. 15.

I due brevi testi suggeriscono che Costanzo (che il Teodosiano indica come unico autore delle costituzioni) abbia inteso riprendere nel 338 le disposizioni costantiniane dell’edictum de accusationibus 16. Costanzo ribadisce infatti il divieto costantiniano di dare ingresso nei tribunali a libelli diffamatori di autore anonimo, e ne ordina senz’altro la distruzione. Il fatto che i testi preservati dal Teodosiano siano ambedue diretti in Africa ha fatto supporre, fin dai tempi di Godefroy, che l’occasio legis fosse da ricon-

12

CTh. 9.34.5: «l’Imperatore Costanzo Augusto agli Africani. L’inclito nostro padre ha disposto che i libelli detti diffamatori siano se possibile distrutti e ordinò che non fossero ammessi al suo tribunale né ad ogni cognizione pubblica. Infatti la vita di chicchessia non vacillerà per queste macchinazioni, né sarà scossa la dignità di alcuno. Pertanto stabiliamo di dare alle fiamme tutti i libelli di questa fatta». 13 SEECK (1919), p. 187. CUNEO (1997), p. 14 ss. Sulle disposizioni degli eredi di Costantino in materia di libelli famosi, si veda anche MANFREDINI (1981), p. 421 ss. 14

CUNEO (1997), p. 14 ss.

15

CTh. 10.10.4: «l’Imperatore Costanzo Augusto a Celsino Prefetto al Pretorio. Con l’intento di rassicurare gli innocenti e di vietare l’audacia di alcuni, abbiamo promulgato un editto perché nulla, basato su occulte delazioni, possa attentare alla fortuna degli uomini». Cfr. PIETRINI (1996), p. 112. 16 Su cui supra, p. 69 ss. In particolare il passo collocato nel libro decimo del Teodosiano, potrebbe essere ancora una volta riferibile al divieto di delazione fiscale.

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durre a qualche torbido verificatosi in quell’area 17. Effettivamente, proprio negli anni ai quali è riferibile la disposizione di Costanzo infuriava in Africa lo scisma fra ortodossi e donatisti, con fenomeni di radicalismo religioso che finivano per assumere aspetti eversivi e di resistenza armata, a partire dal movimento dei cosiddetti circumcelliones 18; che in quel contesto il conflitto religioso, secondo un uso frequente fin dai tempi di Costantino 19, potesse trasferirsi anche nelle aule dei tribunali attraverso il ricorso a false denunzie di provenienza anonima, non stupisce affatto, né stupisce che il legislatore avesse sentito l’esigenza di porre un freno a tale fenomeno. Da questo punto di vista, non vi è alcuna contraddizione fra CTh. 9.1.7, che sembra adombrare un’ampio ricorso a pratiche e procedure di stampo inquisitorio e il testo di CTh. 9.34.5 che ribadisce il divieto dei libelli famosi. Infatti, se era opportuno che la macchina repressiva potesse operare «a tutto campo» anche in assenza di impulsi provenienti da privati (per non parlare della costituzione in giudizio di privati come parte processuale gravata dell’onere della prova), a maggior ragione occorreva evitare che tale azione di controllo e repressione finisse per trovarsi in balia di false accuse brandite come armi da parte di individui e soprattutto gruppi contrapposti, animati dall’intento di risolvere i propri conflitti anche dottrinari sfruttando all’uopo le risorse e i mezzi della giurisdizione dello Stato. In ogni caso, come spesso doveva accadere nel periodo tardo-antico, il reiterato divieto di prendere in considerazione le accuse contenute nei libelli famosi non dovette sortire gli effetti sperati, se sempre Costanzo nel 355 20 dovette ribadire la proibizione rivolgendosi ad populum in questi termini: Imp. Constantius A. ad populum. Nemo prorsus de famosis libellis, qui neque aput me neque in iudiciis ullum obtinent locum, calumniam patiatur. Nam et innocens creditur, cui defuit accusator, cum non defuerit inimicus. DAT. PRID. KAL. NOV. MEDIOLANO ARBITIONE ET LOLLIANO CONSS. 21.

La recisa affermazione innocens creditur, cui defuit accusator è stata letta da alcuni come una prova della vigenza di procedure di carattere accusatorio 22; 17

Gothofr. comm. ad h.l.

18

BAUS, EWIG (2001), p. 153 ss. Cfr. Aug. Epist. 88.

19

Supra, p. 87 ss.

20

SEECK (1919), p. 201; CUNEO (1997), p. 278.

21

CTh. 9.34.6: «l’Imperatore Costanzo Augusto al popolo. Nessuno subisca calunnia a causa dei libelli diffamatori, che non hanno accesso né presso il mio giudizio, né presso altri tribunali. Infatti colui che non è perseguito da un accusatore deve essere ritenuto innocente, anche se certo non gli mancano i nemici». 22

Cfr. ad es. CUNEO (1997), p. 278; PIETRINI (1996), p. 131; MANFREDINI (1981), p. 422.

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non credo che sia questa l’interpretazione corretta da dare al testo, e ciò per due distinti motivi. Da un canto, il divieto dei libelli famosi non esclude in alcun modo l’intervento d’ufficio degli organi giudiziari, anche in assenza di accusatori costituiti in giudizio, come già si è detto e come si vedrà ancora fra breve. In secondo luogo, la costituzione di Costanzo va inserita nel contesto storico: non è un fatto di poco conto che l’imperatore precisi che i libelli non hanno ingresso non solo presso i tribunali di rango inferiore, ma neppure presso il tribunale imperiale (neque aput me neque in iudiciis ullum obtinent locum). Il riferimento al giudizio imperiale lascia supporre che la costituzione fu redatta in un momento particolare, in cui attività a vario titolo cospirative rischiavano di coinvolgere i vertici dell’Impero: pare molto verosimile l’ipotesi di Godefroy, che essa fosse in qualche modo collegata con i regolamenti di conti all’interno della corte imperiale dopo la morte di Costanzo Gallo, a proposito dei quali ci informa diffusamente Ammiano Marcellino 23. Di qui, l’esigenza di porre un freno a conflitti che rischiavano di porre a rischio la stabilità del governo imperiale, ribadendo il bando ai libelli di provenienza anonima. Comunque sia, la coesistenza di procedure d’ufficio e accusa privata è attestata, in modo del tutto analogo a quanto già si è visto per il regno di Costantino, anche per i suoi immediati successori.

2.3. L’iniziativa processuale: violazioni di sepolcri Riguardo all’iniziativa processuale, meritano di essere considerate alcune disposizioni in materia di violazione dei sepolcri. A Costanzo sono attribuite quattro costituzioni sull’argomento, conservate nel Teodosiano, che attestano l’interesse del legislatore per la repressione di un fenomeno che stava evidentemente assumendo dimensioni cospicue, e che deve essere ricondotto alle condizioni socio-economiche del tempo: molti si dedicavano a spogliare i sepolcri degli ornamenti sia per impadronirsene e per trasformarli in materiali da costruzione, sia per ricavare calce dai marmi, magari con la scusa delle loro origini pagane 24. Un primo intervento in questa materia è del giugno del 340, ed è attribuito a Costanzo, benché se ne possa verosimilmente assegnare la paternità a Costante 25. La costituzione ordina che chi fosse stato adprehensus nell’atto di demolire sepolcri venisse condannato ad metalla qualora avesse agito sine domini conscientia o alla più lieve pena della relegatio qualora avesse agito per ordine del dominus. Inoltre si dispone la confisca degli edifici nei quali fossero stati riutiliz23

Amm., Hist. 15.1-3. Infra, p. 109 ss.

24

MARANO (2011), p. 149 ss.

25

Cfr. SEECK (1919), p. 189; CUNEO (1997), p. 70 ss.

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zati i materiali asportati da sepolcri 26. Sul tema Costanzo e Costante intervengono nuovamente nel 349 con un lungo e articolato provvedimento 27 e in seguito Costanzo, insieme al Cesare Giuliano, risulta autore di una disposizione databile fra il 355 e il 356, nella quale si afferma quanto segue: Imp. Constantius A. et Iulianus Caes. ad Orfitium. Quosdam comperimus lucri nimium cupidos sepulchra subvertere et substantiam fabricandi ad proprias aedes transferre. Ii detecto scelere animadversionem priscis legibus definitam subire debebunt. PROPOSITA IN FORO TRAIANI CONSTANTIO A. VIII ET IULIANO CAES. CONSS. 28.

Le espressioni adprehensus e detecto scelere che si trovano nei testi ora visti sono in verità piuttosto generiche e non ci consentono di dire alcunché di sicuro riguardo al modo in cui si sarebbe potuti giungere alla condanna dei rei. Più interessante, a questo proposito, il testo dell’ultima costituzione di Costanzo relativa al crimen sepulchri violati, risalente agli anni 356-357 e indirizzata ad populum: Imp. Constantius A. ad populum. Qui aedificia manium violant, domus ut ita dixerim defunctorum, geminum videntur facinus perpetrare, nam et sepultos spoliant destruendo et vivos polluunt fabricando. Si quis igitur de sepulchro abstulerit saxa vel marmora vel columnas aliamve quamcumque materiam fabricae gratia sive id fecerit venditurus, decem pondo auri cogatur inferre fisco: sive quis propria sepulchra defendens hanc in iudicium querellam detulerit sive quicumque alius accusaverit vel officium nuntiaverit. Quae poena priscae severitati accedit, nihil enim derogatum est illi supplicio, quod sepulchra violantibus videtur impositum. Huic autem poenae subiacebunt et qui corpora sepulta aut reliquias contrectaverint. DAT. ID. IUN. MEDIOLANO CONSTANTIO A. VIIII ET IULIANO CAES. II CONSS. 29.

26

CTh. 9.17.1 (cfr. C.I. 9.19.2): si quis in demoliendis sepulchris fuerit adprehensus, si id sine domini conscientia faciat, metallo adiudicetur; si vero domini auctoritate vel iussione urgetur, relegatione plectatur. Et si forte detractum aliquid de sepulchris ad domum eius villamque pervectum post hanc legem repperietur, villa sive domus aut aedificium quodcumque erit fisci viribus vindicetur. «Se qualcuno sarà colto nell’atto di demolire sepolcri, se ha fatto ciò senza consapevolezza del padrone, che sia condannato ai lavori forzati in miniera. Se invece è stato spinto a ciò dall’autorità del padrone o da suo ordine, che sia colpito da relegazione. E se per caso dopo questa legge si troverà qualcosa che sottratto ai sepolcri è stato inserito nella sua casa o nella sua villa, la villa, la casa e comunque qualsiasi edificio siano confiscati». 27

CTh. 9.17.2 (cfr. C.I. 9.19.3).

28

CTh. 9.17.3: «l’Imperatore Costanzo Augusto e Giuliano Cesare a Orfizio. Sappiamo che alcuni uomini troppo avidi di danaro distruggono i sepolcri e trasportano il materiale edile alle loro abitazioni. Questi soggetti, una volta scoperto il loro crimine, dovranno subire la punizione prescritta dalle antiche leggi». Per la datazione cfr. CUNEO (1997), p. 285. 29

CTh. 9.17.4 (= C.I. 9.19.4): «l’Imperatore Costanzo Augusto al popolo. Coloro che violano gli edifici dei Mani, le case – per così dire – dei morti paiono compiere un crimine duplice: infatti spogliano i sepolti distruggendone le tombe e contaminano i vivi con le loro costruzioni. Pertanto

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La costituzione definisce dunque tre vie attraverso le quali può darsi impulso al processo penale: la querella di chi, direttamente interessato, agisce per difendere i propri sepolcri; l’accusa proposta da chiunque, a prescindere dall’interesse personale alla repressione dell’illecito, e infine il rapporto proveniente da funzionari dotati di poteri di polizia 30. Di tale pluralità di modi nei quali può prendere avvio il processo penale si sono visti altri esempi in precedenza 31. Vi è chi ritiene che CTh. 9.17.4 dimostri che il ricorso a procedure d’ufficio era ammesso solo per alcune fattispecie criminose specificamente indicate dalla legge. Si avrebbe così conferma del postulato che il sistema di repressione penale fosse rimasto ancorato a procedure rigidamente accusatorie, per il cui esplicarsi si rendeva necessaria e l’iniziativa privata e la costituzione in giudizio dell’accusatore come parte 32. Vi è chi ritiene perfino che anche nel caso della procedura d’ufficio non sarebbe venuta meno la distinzione fra funzioni inquirenti e giudicanti, sicché, come si vedrà anche in seguito, il funzionario al quale si doveva l’iniziativa non sarebbe stato il mero latore di una notitia criminis, ma avrebbe dovuto assumere un vero e proprio ruolo di parte 33. In realtà, come ha bene osservato Santalucia, nulla di tutto ciò è desumibile dalla costituzione di Costanzo 34: la menzione di diverse vie per attivare la macchina repressiva sembra ribadire l’importanza attribuita dal legislatore ad un’efficace repressione del reato, piuttosto che voler rimuovere supposti limiti alle procedure d’ufficio, dei quali non c’è peraltro traccia neppure in altre fonti. D’altra parte, va anche osservato che la costituzione ammette l’avvio del procedimento dopo che l’offeso abbia provveduto a querellam deferre. Per quanto non sia mai consigliabile ricorrere ad un’interpretazione troppo rigida sul piano lessicale dei testi giuridici tardo-antichi, la terminologia adottata sembra adombrare la semplice presentazione di una denunzia all’autorità, senza la necessità dei sollemnia tipicamente richiesti per l’accusatore 35. Se così stessero le cose, avremmo un’ulteriore conferma della trasformazione se qualcuno sottrarrà ai sepolcri pietre, marmi o colonne o qualsiasi altro materiale con lo scopo di usarlo per costruzioni, o per venderlo, che sia costretto a pagare dieci libbre d’oro al fisco: sia che sia stata sporta denunzia in giudizio da chi intende difendere i propri sepolcri, sia che chiunque altro abbia accusato, sia che siano giunte segnalazioni in tal senso dagli uffici. Pena che si aggiunge alla severità di quella già anticamente prevista, poiché in alcun modo si è derogato al supplizio stabilito per i violatori di tombe. Alla stessa pena saranno sottoposti coloro che trafugano corpi sepolti e reliquie». Per la datazione cfr. Godefroy, comm. ad h.l.; CUNEO (1997), p. 299. 30

Cfr. SANTALUCIA (1998/2).

31

Supra, p. 61 ss.

32

PIETRINI (1996), p. 73 ss.; ZANON (1998), p. 104.

33

ZANON (1998), p. 104. GIGLIO (2009/2), p. 5.

34

Cfr. SANTALUCIA (1998/2), p. 190.

35

ZANON (1998), p. 48 ss.

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della figura dell’accusatore da parte processuale in mero denunziante che – qualora si volesse incentivare la collaborazione dei privati nella repressione di determinati reati – poteva perfino essere esentato da quegli adempimenti la cui funzione era di porre un freno alla proliferazione di accuse calunniose e destituite di fondamento 36.

2.4. Segue: il falso nummario Se si esamina la produzione legislativa degli eredi immediati di Costantino, si riscontrano alcuni elementi di continuità con la legislazione costantiniana e fra questi la previsione di premi per coloro che si prestassero ad accusare i responsabili di falso nummario: Imp. Constantius A. Leontio PP. Praemio accusatoribus proposito, quicumque solidorum adulter potuerit reperiri vel a quoquam fuerit publicatus, illico, omni dilatione summota, flammarum exustionibus mancipetur. DAT. XII. KAL. MART. ANTIOCHIAE, PLACIDO ET ROMULO COSS. 37.

In verità, nella disposizione di Costanzo il termine accusator pare avere una valenza assai generica: infatti si dice che la pena del rogo dovrà colpire i falsari che siano stati «individuati» (quicumque … potuerit reperiri) o i cui nomi siano stati resi pubblici da chiunque. È possibile che il verbo reperiri faccia riferimento all’individuazione dei rei da parte di pubblici funzionari, come già suggeriva Godefroy 38. Le considerazioni appena svolte valgono anche per un’altra costituzione di Costanzo e Costante del 348 che, sempre a proposito di adulterazione della moneta dispone che si quis igitur post haec fuerit in hac machinatione deprehensus, capitaliter se fecisse cognoscat 39: dove deprehensus potrebbe indicare l’essere stato colto in flagranza di reato da pubblici funzionari. Al contrario, le parole vel a quoquam fuerit publicatus, contenute in CTh. 9.21.5 potrebbero riferirsi all’accusa da parte di privati; accusa però da intendersi in senso generico, come semplice trasmissione di notizie alle autorità competenti. Publicare, infatti, significa 36

Supra, 74 ss.

37

CTh. 9.21.5 (cfr. C.I. 9.24.2), del 343: «l’Imperatore Costanzo Augusto a Leonzio, Prefetto al Pretorio. Stabilito un premio per gli accusatori, chiunque si potrà individuare quale falsario di moneta, da chiunque sia stato denunziato, immediatamente e senza alcuna dilazione sia dato alle fiamme». Nel Codice Teodosiano è attribuita al solo Costanzo, mentre nel Codice di Giustiniano è erroneamente attribuita a Costantino. Cfr. CUNEO (1997), p. 118 ss. Sulle disposizioni di Costantino in materia, vedi supra, p. 93 ss. 38 39

Gothofr. not. ad h.l. Sulla terminologia della costituzione, cfr. RIVIÈRE (2002), p. 377.

CTh. 9.21.6: «se dunque, dopo tutto ciò, qualcuno sarà colto nell’esercizio di una simile macchinazione, sappia che ha commesso un reato capitale».

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in questo contesto svelare, rendere noto: l’intenzione del legislatore sembra dunque quella di incentivare, attraverso la previsione di premi, le denunzie a carico di falsari onde assicurare una più efficace repressione del crimine. Il ricorso a procedure inquisitorie parrebbe confermato da un’altra costituzione diretta a disciplinare diversi aspetti di politica monetaria. La prima parte del testo recita quanto segue: Imp. Constantius A. et Iulianus Caes. ad Rufinum PP. Quicumque vel conflare pecunias vel ad diversa vendendi causa transferre detegitur, sacrilegii sententiam subeat et capite plectatur. Portus enim litoraque diversa, quo facilior esse navibus consuevit accessus, et itineris tramites statuimus custodiri per idoneos officiales ac praepositos a praesidibus et nonnullis praeditis dignitate, ut cognita veritate provinciarum rectores obnoxios legibus puniant. Officia quoque inmenso periculo subiacebunt 40.

La datazione della costituzione, che reca i nomi di Costanzo e di Giuliano Cesare, è discussa, anche se pare certo che essa appartenga agli anni cinquanta del IV secolo 41. Come si vede il legislatore vieta in primo luogo di fondere (conflare) la moneta: come è stato osservato, si tratta di una proibizione innovativa, la cui ragione risiede essenzialmente nell’esigenza di tutelare l’immagine dell’imperatore impressa sulle monete, che sarebbe stata distrutta dalla fusione 42. Di qui la previsione della condanna capitale per sacrilegium. La stessa pena colpisce anche coloro che siano colti nell’atto di trasferire oltre confine valuta imperiale per farne commercio con l’estero. Vi è forse un nesso fra le due fattispecie oggetto di repressione: si potrebbe infatti supporre che la fusione delle monete potesse essere diretta al traffico di metalli preziosi. Comunque stiano le cose, merita di essere segnalato il fatto che il legislatore dispone l’istituzione di un servizio di sorveglianza dei porti, degli approdi, delle vie per idoneos officiales ac praepositos, con il compito di individuare i sospetti affinché i governatori provinciali possano processarli (cognita veritate) e punire i colpevoli 43. Gli stessi uffici pubblici sono minacciati di gravissime sanzioni in caso di omessa vigilanza. 40 CTh. 9.23.1 pr.: «l’Imperatore Costanzo Augusto e Giuliano Cesare a Rufino Prefetto al Pretorio. Chiunque sia scoperto fondere moneta o trasferirla in diversi luoghi con lo scopo di venderla, subisca sentenza per sacrilegio e sia colpito da pena capitale. Ordiniamo che i porti e i vari litorali dove è solito che vi sia più facile accesso per le navi e così pure i passaggi e le vie siano sorvegliati da idonei ufficiali e da persone incaricate dai governatori e dai dignitari, in modo che i governatori, una volta conosciuta la verità, puniscano i violatori delle leggi. Gli stessi uffici saranno soggetti a gravissimo pericolo». 41

Cfr. CUNEO (1997), p. 233 ss. e soprattutto DELMAIRE (2003), passim.

42

Cfr. Gothofr. comm. ad h.l.; SANTALUCIA (1994), p. 100 ss.; ALFÖLDI (2001), p. 308 ss.

43

Cfr. RIVIÈRE (2002), p. 293.

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Come si vede, nel quadro dipinto da CTh. 9.23.1 non v’è traccia di procedure accusatorie, anzi. Del resto, le stesse minacce agli officia affinché non tengano comportamenti omissivi – piuttosto frequenti nella legislazione del IV secolo – sono coerenti con l’adozione di procedure inquisitorie 44.

2.5. La posizione dei funzionari di polizia Alla metà degli anni cinquanta del IV secolo, risale un’altra disposizione di Costanzo, mirante a prevenire abusi da parte di individui dotati di poteri di polizia: Imp. Constantius A. ad Lollianum PP. Ii, quos curagendarios sive curiosos provincialium consuetudo appellat, proprio arbitrio quos esse reos putaverint, feralibus carcerum tenebris mancipare non dubitant. Memorati igitur curiosi et stationarii vel quicumque funguntur hoc munere crimina iudicibus nuntianda meminerint et sibi necessitatem probationis incumbere, non citra periculum sui, si insontibus eos calumnias nexuisse constiterit. Cesset ergo prava consuetudo, per quam carceri aliquos inmittebant. DAT. XI KAL. AUG. MEDIOLANO, ACC. XII KAL. SEPT. ARBITIONE ET LOLLIANO CONSS. 45.

Il legislatore deplora la leggerezza con cui funzionari dotati di compiti ispettivi o investigativi 46 procedevano a incarcerare individui sospetti di aver commesso qualche reato. Si tratta di abusi particolarmente deplorevoli poiché come risulta indirettamente dal testo della costituzione e come ben testimoniato da fonti papiracee e letterarie, alla detenzione che aveva funzione cautelare, spesso non seguiva da parte degli uffici, l’accertamento della colpevolezza, con il risultato di lasciar non di rado morire di stenti gli incarcerati senza che fossero stati colpiti da condanna alcuna. Di tale fenomeno si dirà più diffusamente oltre 47; per ora interessa osservare come il legislatore ordini a chiunque sia incaricato di compiti investigativi di riferire ai giudici competenti le notizie relative ai presunti crimini commessi da sospetti, con la precisazione che gli stessi funzionari sa44

Cfr. RIVIÈRE (2002), p. 372 ss.

45

CTh. 6.29.1 (cfr. C.I. 12.22.1): «l’Imperatore Costanzo Augusto a Lolliano Prefetto al Pretorio. Coloro che nell’uso dei provinciali sono chiamati curagendarii o curiosi non esitano a gettare a proprio arbitrio nelle ferali tenebre delle carceri, coloro che ritengono essere colpevoli. Pertanto i ricordati curiosi e gli stationarii e tutti coloro che svolgono questo genere di compiti, si ricordino che i crimini devono essere segnalati ai giudici e che su di loro incombe la necessità della prova e che se risulterà che hanno costruito calunnie ai danni di innocenti ciò non è per loro senza pericolo. Cessi dunque la perversa abitudine a causa della quale costoro spedivano chiunque in carcere». La costituzione è del 355. Cfr. CUNEO (1997), p. 267. 46

Sui curiosi, cfr. PURPURA (1973); ZANON (1998), p. 124 ss.

47

Infra, p. 165 ss.

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rebbero stati gravati dall’obbligo di dimostrare le proprie accuse e che essi stessi avrebbero rischiato sanzioni severissime, qualora queste si fossero rivelate calunniose. Ora, l’espressione sibi necessitatem probationis incumbere [meminerint] ha indotto alcuni ad affermare che i funzionari di polizia si sarebbero trovati a rivestire il ruolo di parte processuale, gravata dall’onere della prova nel corso del giudizio, il che attesterebbe ancora una volta la persistenza di procedure accusatorie affini a quelle del remoto processo criminale delle quaestiones 48. Dubito che questa interpretazione sia corretta. Infatti non si deve trascurare il fatto che la disposizione in questione intende reprimere gravi comportamenti abusivi da parte di funzionari i quali, per motivi illeciti, disponevano a proprio piacimento la reclusione in carcere di individui senza informare l’autorità giudiziaria: quando il legislatore si riferisce alla necessitas probationis è piuttosto evidente che non intende in alcun modo che i curiosi assumessero il ruolo di parte, quasi fossero dei pubblici ministeri ante litteram, bensì obbligarli a trasmettere agli uffici competenti le informazioni relative al reato, corredate dei dati necessari a renderne evidente la natura non calunniosa. Questa lettura pare tanto più convincente se si pensa– come giustamente ricorda Godefroy – che i curiosi godevano di pessima fama quanto a corruzione, nequizia e inclinazione all’abuso di potere 49. Il legislatore non intendeva certo vietare il ricorso alla detenzione, bensì evitare che essa fosse disposta direttamente dai funzionari, senza il vaglio dei tribunali. Proprio per questo motivo, la notitia criminis trasmessa agli uffici competenti doveva essere corredata di elementi almeno indiziari, onde evitare che continuassero ad aver luogo detenzioni ordinate sulla base di informazioni nulle o insufficienti 50. Chi scrive è dunque convinto che CTh. 6.29.1 confermi, anziché smentire, la diffusione di procedure di stampo inquisitorio: essa infatti mirava a regolare l’attività di funzionari la cui vigilanza e attività investigativa era funzionale all’esercizio della repressione penale ex officio da parte dei tribunali, ed aveva lo scopo di evitare la commissione di reati proprio da parte di coloro che dovevano collaborare al buon funzionamento della giustizia penale. Detto altrimenti: pretendere che chi, in qualità di ufficiale di polizia, trasmette notizie di reato a carico di chicchessia ne precisi il fondamento, e minacciare pene severe nei confronti di funzionari corrotti che costruiscono ad arte accuse a carico di innocenti, di

48

ZANON (1998), p. 129 ss.; PIETRINI (2009), p. 143; PIETRINI (1996), p. 80; GIGLIO (2009/2),

p. 5. 49 50

Gothofr., comm. ad h.l.

Cfr. PETRACCIA LUCERNONI (2001), p. 40; MEYER-ZWIFFELHOFFER (2011), pp. 104-105; GARCÍA SÁNCHEZ (1979), p. 41.

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per sé non è affatto un indizio della sopravvivenza di un sistema accusatorio 51. In realtà, il quadro che emerge dalla legislazione degli immediati discendenti di Costantino non sembra essere molto differente da quello riferibile al loro predecessore: procedimenti criminali attivati dall’intervento di privati, che comunque difficilmente si prestano ad essere inquadrati in un modello accusatorio, poiché l’accusator sembra non essere altro che un denunziante privo del ruolo di parte processuale, convivono con procedimenti attivati d’ufficio sulla base delle informazioni raccolte da parte dei funzionari di polizia. Le regole repressive in materia di denunzie scritte anonime, lungi dal costituire una prova della preminenza di procedure accusatorie, sembrano in questo contesto dirette più che altro a frenare quella che Cordero ha definito come «bulimia inquisitoria» 52 degli organi giudiziari e per evitare che la loro azione fosse strumentalizzata da individui e soprattutto da gruppi in conflitto fra loro: la legislazione in materia di libelli famosi, insomma non è altro che una conferma della diffusione di procedure inquisitorie 53. In definitiva, salvo rari casi, l’interesse privato dell’offeso sembra rilevante ai soli fini dell’attivazione della macchina repressiva, restando altrimenti subordinato all’interesse pubblico, ossia dello Stato e dell’imperatore a reprimere il crimine e in particolare determinate fattispecie ritenute come specialmente pericolose per l’ordine costituito. Di ciò fornisce un’importante testimonianza, come ora si vedrà, il racconto di Ammiano Marcellino.

3. LA PRASSI GIUDIZIARIA NELLA TESTIMONIANZA DI AMMIANO La parte rimastaci delle Storie di Ammiano riferisce, a partire dall’anno 353/4 di numerosi processi criminali, per lo più aventi coloritura politica. Le notizie trasmesse da Ammiano, che in più punti mostra una notevole attenzione per tali vicende processuali e per il carattere iniquo delle procedure seguite, sono in questa sede di particolare interesse. Esse infatti sembrano confermare che per alcuni reati la procedura normalmente adottata aveva carattere spiccatamente inquisitorio 54. Una prima serie di vicende processuali sono da ricondurre al governo di Co-

51 Sono applicabili al testo in esame le lucide considerazioni svolte da SANTALUCIA (2011), p. 252 ss. relativamente agli elogia degli irenarchi. 52

CORDERO (2006), p. 24 ss.

53

Cfr. SANTALUCIA (1998/2). Contra, MANFREDINI (1981), passim.

54

Sul resoconto di Ammiano cfr. RIVIÈRE (2002), p. 339 ss.; DEMICHELI (1985); NAVARRA (1994), p. 80 ss.

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stanzo Gallo, nipote di Costantino il Grande, che dopo l’usurpazione di Magnenzio (350) era stato elevato al rango di Cesare d’Oriente. Il primo paragrafo del libro XIV di Ammiano è appunto dedicato alla saevitia del Cesare. Lo storico riferisce del frequente ricorso a spie, che fabbricavano informazioni utili per colpire innocenti accusandoli di magia o di aspirare al regno (affectati regni vel artium nefandarum calumnias insontibus affigebant) 55. Il governo basato sulle leggi, dice Ammiano, fu trasformato in arbitrio bramoso di sangue (civili iustoque imperio ad voluntatem converso cruentam) 56. Scrive Ammiano: nec vox accusatoris ulla (licet subditicii) in his malorum quaerebatur acervis, ut saltem specie tenus crimina praescriptis legum committerentur, quod aliquotiens fecere principes saevi; sed quidquid Caesaris implacabilitati sedisset, id velut fas iusque perpensum, confestim urgebatur impleri 57.

Tali processi erano alimentati dal flusso di notizie raccolte da spie incaricate di raccogliere rumores per tutta Antiochia 58. Come si vede Ammiano lamenta l’assenza di un accusator in questi giudizi, evidentemente avviati d’ufficio sulla base delle notizie trasmesse dalla rete di informatori al servizio del Cesare: neppure, dice Ammiano, si fece ricorso ad accusatori prezzolati, secondo un costume già praticato da altri crudeli principi, e comunque si dava immediata esecuzione alla volontà del Cesare velut fas iusque perpensum. Il passo in esame sembra indicare che Ammiano ritenesse tali procedure del tutto contra legem, tanto che alcuni interpreti non hanno mancato di trarne elementi a favore della persistenza di procedure accusatorie: i processi ordinati da Gallo, insomma, sarebbero stati una novità contraria al diritto 59. Per quanto la repressione scatenata ad Antiochia dal Cesare sia stata straordinariamente crudele, non credo che sia questa l’interpretazione corretta del passo di Ammiano: già si è visto in precedenza che procedure ex officio e comunque di carattere inquisitorio sono ben attestate fin dal periodo di Costanti-

55

Amm. Hist. 14.1.2: «colpivano gli innocenti con calunnie, di volersi impadronire del regno o di aver praticato arti nefande». 56

Amm. Hist. 14.1.4: «il governo giusto e civile fu piegato ad una volontà sanguinaria».

57

Amm. Hist. 14.1.5: «in queste disgrazie, neppure si cercava alcuna voce di accusatore, nemmeno prezzolato, affinché tali crimini fossero almeno compiuti sotto l’apparenza di rispettare le leggi, cosa già talvolta praticata da principi malvagi. Al contrario, qualsiasi cosa si conformasse all’implacabilità del Cesare, subito ci si precipitava a portarla a compimento come se fosse stato qualcosa di giusto e ben ponderato». 58

Amm. Hist. 14.1.6.

59

Cfr. PIETRINI (1996), p. 120 ss.

La dinastia di Costantino

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no. Da questo punto di vista la narrazione di Ammiano non è che una conferma di quanto si è detto più sopra circa il progressivo affermarsi del modello inquisitorio, in particolare per la repressione di alcuni reati, ritenuti particolarmente pericolosi per la stabilità dell’Impero 60. Altra cosa è l’opinione espressa da Ammiano: al di là dell’esatto significato che egli attribuiva al termine accusator, che per forza di cose rimane per noi oscuro, sembra abbastanza evidente che nelle pagine dedicate ai processi intentati da Gallo Ammiano abbia come modello gli Annali di Tacito e in particolare le parti dedicate ai processi politici orchestrati durante il regno di Tiberio 61. Da questo punto di vista, credo che le affermazioni di Ammiano vadano lette in un contesto politico-ideologico e che se ne debba dunque ridimensionare la portata: d’altronde lo stesso Ammiano fa riferimento a un rispetto meramente formale della legalità, quando scrive del ricorso ad accusatori prezzolati, al soldo del principe, il che rende comunque difficile, per un interprete attento, parlare di procedure accusatorie in senso proprio. Non molto diversi, del resto, sembrano i metodi adottati dall’imperatore Costanzo. Sconfitto Magnenzio, dice Ammiano, Costanzo desideroso di togliere di mezzo i seguaci dell’usurpatore, insontium caedibus fecit victoriam luctuosam 62. Semplici rumores erano sufficienti per finire coperti di catene, et inimico urgente vel nullo, quasi sufficiente hoc solo, quod nominatus esset aut delatus aut postulatus, capite vel multatione bonorum, aut insulari solitudine damnabantur 63. Non era dunque necessario che un nemico personale si facesse carico di muovere le accuse contro i sospettati: per condurre a una fine inesorabile era sufficiente una menzione del proprio nome, o una semplice denunzia riferita agli organi competenti. Costanzo, inoltre, per la repressione dei seguaci di Magnenzio in Britannia si servì del notarius Paolo, che Ammiano assai significativamente definisce perquisitor malivolus e in altra occasione tartareus delator 64: è del tutto evidente dal testo ammianeo, che l’inviato imperiale agì cumulando nella sua persona la funzione inquirente e quella giudicante 65. In ogni caso la repressione contro coloro che erano sospettati di attentare al soglio imperiale durante il regno di Costanzo fu sempre implacabile:

60

Cfr. ROBINSON (2007), p. 130 ss.

61

Supra, p. 12.

62

Amm. Hist. 14.5.2: «con stragi di innocenti rese funesta quella vittoria».

63

Amm. Hist. 14.5.3: «si finiva condannati a morte, alla perdita dei beni o alla solitudine di un isola per iniziativa di un nemico qualunque, o anche senza questa, quasi che fosse sufficiente il solo fatto di essere stato nominato, denunciato o accusato». 64

Amm. Hist. 15.6.1; 19.12.1: «indagatore malevolo ... delatore infernale».

65

Amm. Hist. 14.5.6 ss.

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nec enim quisquam facile meminit sub Constantio, ubi susurro tenus haec movebantur, quemquam absolutum 66.

Tornando a Gallo, Ammiano ne stigmatizza il carattere violento e sospettoso, che finì per allontanare ogni giustizia dalle aule dei tribunali (e iudiciis fas omne discessit) 67 coinvolgendo innumerevoli innocenti in processi condotti senza il rispetto delle forme legali: nullo [...] sollemniter inquirente 68. Un caso esemplare è costituito dalla vicenda di Epigono ed Eusebio, risalente al 354. Ancora una volta si tratta di un processo per crimen maiestatis al quale presiedeva il magister equitum. Vi sono tre aspetti particolarmente significativi della vicenda: la puntuale verbalizzazione degli interrogatori, da parte di un gruppo di scribi, fatta per consentire una rapida informazione del Cesare – vero dominus del processo – circa lo svolgimento del procedimento69. L’impossibilità per gli imputati di difendersi in alcun modo: nec diluere obiecta permissi nec defensi periere complures 70. E infine la reazione di Eusebio, coinvolto nel processo per una semplice omonimia che, dice Ammiano, cumque pertinacius (ut legum gnarus) accusatorem flagitaret atque sollemnia, doctus id Caesar, libertatemque superbiam ratus, tamquam obtrectatorem audacem excarnificari praecepit 71. Il racconto, nella parte relativa alla fine di Eusebio è evidentemente costruito sulla base di una serie di topoi ideologico-letterari, tant’è che lo stesso Ammiano paragona la fine del filosofo Eusebio a quella, notissima, di Zenone di Elea che sputò la propria lingua in faccia al tiranno per non tradire i propri compagni: la narrazione, insomma, è tutta costruita sulla tradizionale contrapposizione della libertas del filosofo alla crudele arroganza del tiranno. In questo quadro il richiamo alle leggi e ai sollemnia da parte di Eusebio pare avere più che altro una connotazione polemica: in ogni caso non credo che il passo consenta di concludere che le leggi vigenti richiedessero per il crimen maiestatis la presenza di un accusatore costituito in giudizio 72. Anche ammesso che il resoconto di Ammiano sia preciso e non rifletta invece, com’è probabile, argomenti della propaganda contro Gallo, è evidente che 66 Amm. Hist. 14.5.9: «nessuno può facilmente ricordare l’assoluzione di qualcuno durante il regno di Costanzo, quando bastava un solo sussurro a dar luogo a fatti del genere». 67

Amm. Hist. 14.7.21: «la giustizia abbandonò del tutto i tribunali».

68

Amm. Hist. 14.7.21: «senza che nessuno conducesse le inchieste secondo le previste formalità».

69

Amm. Hist. 14.9.3.

70

Amm. Hist. 14.9.3: «perirono moltissimi senza che fosse stato loro concesso di ribattere alle accuse e senza aver potuto difendersi». 71 Amm. Hist. 14.9.6: «poiché insistentemente richiedeva un accusatore e il compimento delle previste formalità, in quanto conosceva le leggi, saputolo Cesare e avendo interpretato la sua libertà come segno di superbia, ordinò di scuoiarlo vivo in quanto audace denigratore». 72

Così PIETRINI (1996), p. 122 ss.

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Eusebio, privato di ogni difesa, non poteva che richiamarsi al rispetto di regole che avrebbero potuto consentirgli un minimo di attività difensiva in giudizio: detto in altri termini, il racconto di Ammiano riporta argomentazioni di parte, il che sconsiglia di trarne in modo reciso conclusioni generali circa la procedura criminale in vigore. D’altro canto, lo stesso racconto prova in modo inequivoco che nella prassi e per reati come il crimen maiestatis, lo stile inquisitorio aveva ormai preso il sopravvento. Com’è noto, Gallo terminò la propria esistenza sul finire del 354 dopo essersi rivelato un pericolo per lo stesso Augusto Costanzo. Ciò detto, risulta difficile per l’interprete riscontrare differenze significative fra il modo di amministrare la giustizia dei due cugini. Ammiano riferisce che amici e sodali di Gallo nullo perspicaciter inquisito, sine innocentium sontiumque differentia, alios verberibus vel tormentis afflictos exsulari poena damnarunt, quosdam ad infimam trusere militiam, residuos capitalibus addixere suppliciis. Le tombe, dice Ammiano, furono colmate di cadaveri e i cacciatori di voci (rumorum aucupes) si moltiplicarono, per la rovina di poveri e ricchi indiscrete 73. Sotto il regno di Costanzo, nessuno osava neppure rivelare i propri sogni, perché essi non fossero poi oggetto di malevole speculazioni, tali da dar luogo ad accuse 74; mentre gli agentes in rebus contribuivano a mantenere una capillare rete informativa, pronta ad informare il soglio imperiale di cospirazioni vere o presunte. A proposito di uno di costoro, Ammiano usa significativamente il termine funestus delator 75. Le attestazioni di processi e inchieste avviati sulla base di informazioni direttamente acquisite da funzionari di rango più o meno elevato sono particolarmente numerose 76, tanto più che lo stesso imperatore era avvezzo a avide scrutari haec et similia 77. Neppure vi è traccia, o quasi, nel racconto dello storico, delle disposizioni costantiniane in materia di crimen calumniae, che sembrano per lo più rimanere lettera morta. In occasione dei processi istruiti da Paolo nel 359, anzi, Ammiano precisa che fu data calumniae indulgentia plurimis 78: il che sembra adombrare la possibilità che con specifico provvedimento imperiale si allentassero i vincoli gravanti sugli accusatori. Troppo importante, evidentemente, la

73

Amm. Hist. 15.3.2-3: «senza che alcuno fosse stato sottoposto ad accurate indagini, senza far differenza fra colpevoli e innocenti, alcuni dopo esser stati fustigati e sottoposti a tortura furono condannati all’esilio, altri furono spediti nei ranghi più bassi dell’esercito, gli altri furono consegnati ai supplizi capitali». 74

Amm. Hist. 15.3.6.

75

Amm. Hist. 15.3.7 ss.: «funesto delatore».

76

Cfr. ad es. Amm. Hist. 15.5.5 ss.; 15.5.12; 15.5.13-14; 16.6.2-3; 16.8.3-6; 16.8.9; 18.3.1 ss.; 19.12.1 ss.; 19.12.13-16. 77

Cfr. Amm. Hist. 15.5.5: «investigare avidamente queste e consimili faccende».

78

Amm. Hist. 19.12.7: «a molti fu data immunità per il reato di calunnia».

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raccolta di informazioni e l’esigenza di mantenere sempre incombente la minaccia della vendicatrice spada imperiale, per dare spazio a procedure che avrebbero posto freno alle denunzie. Peraltro, Ammiano osserva che a favorire la moltiplicazione di tali processi era anche l’invidia e la rapacità dei cortigiani, desiderosi di arricchirsi con le spoglie dei condannati – fenomeno la cui origine è assai significativamente ricondotta da Ammiano al regno di Costantino: namque ut documenta liquida prodiderunt, proximorum fauces aperuit primus omnium Constantinus, sed eos medullis provinciarum saginavit Constantius 79.

Il che induce a ritenere che gli eccessi di Gallo e Costanzo non fossero cosa del tutto nuova nella prassi giudiziaria dell’Impero, ma piuttosto l’evoluzione e il consolidamento di fenomeni già manifestatisi negli anni precedenti. Del resto, lo stesso Ammiano riconosce che è cosa buona e giusta indagare con severità per reprimere congiure e cospirazioni ai danni del sovrano: et inquisitum in haec negotia fortius, nemo qui quidem recte sapiat reprehendet 80. Ciò che ripugnava ad Ammiano era in verità l’arbitrio e la sregolatezza che avevano caratterizzato quei processi 81. Infatti, nel ritratto che traccia di Costanzo, egli ne ricorda l’ossessione per le indagini contro supposti cospiratori (sine fine scrutando) 82, la crudeltà e la ferocia pari a quelle di Caligola, Domiziano e Commodo 83, l’inclinazione a prendere sospetti e indizi per prove e ad utilizzare smodatamente la tortura, che finiva per confermare ogni accusa, anche se dubbia o artificiosamente costruita 84. Il quadro descritto da Ammiano, insomma, pare confermare che almeno per i processi che coinvolgevano la maestà imperiale il ricorso a procedure inquisitorie era tutto sommato cosa ordinaria: quel che lo storico rimprovera a Costanzo sono gli eccessi, la mancanza di clemenza, la troppa crudeltà. A questo proposito, è degno di interesse quanto Ammiano riferisce riguardo alla politica giudiziaria di Giuliano, imperatore che lo storico stimava profondamente, a differenza dei suoi predecessori. Già come Cesare, dice Ammiano, Giuliano svolgeva ove possibile il ruolo di 79

Cfr. Amm. Hist. 16.8.12: «infatti, come hanno dimostrato documenti del tutto evidenti fu per primo Costantino ad aprire le fauci dei cortigiani, ma fu Costanzo a ingrassarli con le midolla dei provinciali». 80 Amm. Hist. 19.12.17: «nessuna persona di buon senso obietterebbe a che in faccende di questo genere si indaghi con maggiore durezza». 81

Amm. Hist. 19.12.18.

82

Amm. Hist. 21.16.8: «investigando senza sosta».

83

Amm. Hist. 21.16.8.

84

Amm. Hist. 21.16.9-10.

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giudice, comportandosi da indeclinabilis iustorum iniustorumque distinctor 85. Particolarmente significativo un episodio, databile al 359, che vide appunto Giuliano in qualità di giudice e che lo stesso Ammiano presenta come specialmente degno di lode: Numerium Narbonensis paulo ante rectorem, accusatum ut furem, inusitato censorio vigore, pro tribunali palam admissis volentibus audiebat, qui cum infitiatione defenderet obiecta, nec posset in quoquam confutari, Delphidius orator acerrimus, vehementer eum impugnans, documentorum inopia percitus, exclamavit: «ecquis, florentissime Caesar, nocens esse poterit usquam, si negare sufficiet?». Contra quem Iulianus prudenter motus ex tempore, «ecquis» ait «innocens esse poterit, si accusasse sufficiet?» 86.

Merita di essere osservato come Giuliano sembri tentare di marcare le differenze fra il modo in cui egli intendeva che fosse amministrata la giustizia, e i processi sommari avviati da Gallo e Costanzo, a partire dalla pubblicità del procedimento (palam admissis volentibus). Tuttavia, quanto ne emerge non è – ancora una volta – un processo accusatorio, ma un processo inquisitorio condotto con saggezza e senso dell’equilibrio. Si vede infatti che il giudice (Giuliano Cesare) è quanto mai attivo e l’impressione che si ricava dal testo è che proprio a lui spettasse la funzione inquirente, oltre a quella giudicante: audiebat inusitato censorio vigore, è frase piuttosto chiara, a questo riguardo. Non è chiaro quale fosse nel processo il ruolo dell’oratore Delfidio (Attio Tiro Delfidio), uomo di gran fama, figlio di un noto maestro di retorica (Attio Patera), professore lui stesso e poeta, discendente da un’importante famiglia di sacerdoti galli vicina all’eresia priscillianista e lui stesso ex membro di spicco della corte di Magnenzio 87. È possibile che il suo ruolo fosse proprio quello di difendere gli interessi degli abitanti della Narbonese, vessati dalle malversazioni di Numerio. Tuttavia, per quel che si può ricavare dal breve resoconto ammianeo, ne emerge un ritratto di accusatore abbastanza anomalo, poiché egli stesso difende convintamente una sorta di inversione dell’onere della prova: ecquis [...] nocens esse poterit usquam, si negare sufficiet?

85

Amm. Hist. 18.1.2: «inflessibile nel distinguere tra colpevoli e innocenti»; cfr. anche 22.7.3.

86

Amm. Hist. 18.1.4: «dopo aver ammesso tutti coloro che lo desideravano al tribunale, egli conduceva pubblicamente e con inusitato vigore censorio il processo a carico di Numerio, fino a poco prima governatore della Narbonense, il quale era accusato di furto. Poiché costui negava le accuse, e non si riusciva in alcun modo a confutarlo, allora Delfidio, valente oratore, attaccandolo duramente ed irritato dalla mancanza di documenti, esclamò: “chi mai, fiorentissimo Cesare, potrà essere riconosciuto colpevole, se basta negare?” Di contro gli rispose prudentemente Giuliano, “e chi mai” disse, “potrà essere riconosciuto innocente, se basta aver avanzato un’accusa?”». 87

Cfr. MAZZARINO (1989), p. 48 ss.; SIVAN (2004), p. 91 ss.

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La mentalità di Delfidio, rimbrottato da Giuliano – e anche il tono bonario del rimprovero è significativo – tradisce la mentalità di un’epoca, in particolare all’interno delle corti imperiali: è l’imputato a doversi discolpare delle accuse, non altri a doverle dimostrare! La replica di Giuliano, vivamente apprezzata da Ammiano, argomenta che secondo tale logica qualsiasi accusato sarebbe stato per ciò stesso colpevole: che le parole di Giuliano siano vere o costruite a bella posta poco importa, lo scopo è comunque di rimarcare la differenza con quanto accaduto con Gallo e Costanzo, autori di innumerevoli stragi di innocenti. D’altro canto, l’«accusatore» Delfidio pare quasi il precursore di tanta pubblicistica inquisitoria dell’età moderna 88. Peraltro, va osservato come il giudizio di Ammiano su Giuliano e sul suo modo di amministrare la giustizia, spesso convintamente elogiativo nella contrapposizione a Costanzo (lo definisce placabilis imperator et clemens) 89, non sia poi così uniforme come ci si potrebbe aspettare. Morto Costanzo, la repressione dei suoi accoliti non fu condotta in modo irreprensibile: il prefetto al Pretorio Secondo Saluzio, incaricato di presiedere ai processi, e gli altri funzionari destinati all’opera causas vehementius aequo bonoque spectaverunt 90. Ancora una volta innocenti furono condannati a seguito di procedure inique, tanto che alla morte di uno di costoro, dice Ammiano, ipsa mihi videtur flesse Iustitia, imperatorem arguens ut ingratum 91. Sembra quasi che, nell’interpretazione di Ammiano, Giuliano fosse egli stesso buon giudice, ma che ogni qual volta egli si affidava ad altri, l’insopprimibile propensione alla giustizia sommaria riprendesse vita. Personalmente, dice Ammiano, Giuliano detestava i calunniatori, che egli stesso aveva dovuto temere prima di diventare Cesare 92. Tuttavia, l’atteggiamento di Giuliano contro gli accusatori calunniosi, almeno nel racconto di Ammiano, appare più che altro ammantato di ironia filosofica: un individuo che insisteva per accusare di maiestas un ricco concittadino fu

88 Viene in mente in proposito Eliseo MASINI (1730), p. 304: «Qualunque volta il Reo non è per propria confessione, né per evidenza del fatto, né per legittima produzione dè Testimoni convinto, né in altra maniera si rende sospetto, o si ritrova diffamato di Eresia, o di altro delitto al Santo Uffizio appartenente; anzi per legittime e concludenti prove in contrario; e specialmente, se i Testimoni avranno rievocato il lor detto; rimane scolpato affatto; deve spedirsi con final sentenza favorevole». 89

Amm. Hist. 21.12.20: «imperatore buono e clemente».

90

Amm. Hist. 22.3.2: «giudicarono i processi più impetuosamente di quanto sarebbe stato giusto ed equo fare». 91

Amm. Hist. 22.3.7: «mi parve che avesse pianto la stessa Giustizia, rimproverando l’imperatore come ingrato». 92

Amm. Hist. 22.9.9.

La dinastia di Costantino

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prima ignorato e poi sbeffeggiato dall’imperatore 93, e non v’è traccia alcuna, nel racconto di Ammiano, di applicazione delle severe previsioni costantiniane in materia di calunnia e accuse indimostrate, come dimostra anche la vicenda di Delfidio, di cui si diceva poc’anzi. Buon giudice, dunque, l’imperatore, capace di seguire il principio per cui iudicium hoc est optandum et rectum, ubi per varia negotiorum examina iustum distinguitur et iniustum 94: mite e saggio, capace di amministrare la giustizia con equilibrio, senso della giustizia e spirito critico 95. Ma dal punto di vista delle strutture del processo, la lettura di Ammiano, da Gallo a Giuliano, non mostra differenze che non siano dovute alle inclinazioni personali di questo o quel reggitore. Il sistema della repressione penale, almeno per quel che riguarda le sue strutture di fondo e la reazione a quei reati che più di altri, a partire dal crimen maiestatis, potevano mettere a rischio il trono imperiale, pare sostanzialmente il medesimo. Un sistema sostanzialmente inquisitorio, nel quale ciò che sopravvive del ruolo e della funzione processuale dell’accusatore è del tutto strumentale all’esercizio di una capillare vigilanza da parte dell’autorità pubblica contro chi osasse attentare alla stabilità dell’ordine costituito.

93

Amm. Hist. 22.9.10-11: exemplumque patientiae eius in tali negotio, licet sint alia plurima, id unum sufficiet poni. Inimicum quidam suum, cum quo discordabat asperrime, commisisse in maiestatem turbulentius deferebat, imperatoreque dissimulante, eadem diebus continuis replicans, interrogatus ad ultimum, qui esset quem argueret, respondit municipem locupletem. Quo audito princeps renidens: «quibus indiciis» ait «ad hoc pervenisti?». Et ille «purpureum sibi» inquit «indumentum ex serico palio parat», iussoque post haec ut vilis arduae rei vilem incusans, abire tacitus et innoxius, nihilo minus instabat. Quo taedio Iulianus defetigatus ad largitionum comitem visum proprius «iube» inquit «periculoso garrulo pedum tegmina dari purpurea, ad adversarium perferenda, quem (ut datur intellegi), chlamydem huius coloris memorat sibi consarcinasse, ut sciri possit sine viribus maximis quid pannuli proficiant leves». «È sufficiente riportare questo solo esempio della sua pazienza in questo genere di vicende, benché ve ne siano molti altri. Un tale denunciava com grande agitazione uno dei suoi nemici, con il quale aveva uno scontro insanabile, sostenendo che quello aveva commesso il reato di lesa maestà. Poiché l’imperatore faceva finta di niente, e quello ogni giorno ribadiva le medesime accuse, alla fine interrogato su chi fosse colui che accusava, rispose che si trattava di un ricco concittadino. Sentito ciò il principe ridendo beffardamente “sulla base di quali indizi”, disse “sei pervenuto a una tale conclusione?”. “Si fa fare una veste purpurea” rispose “da un pallio di seta”. Dopo di che gli fu ordinato di ritirarsi in silenzio e incolume, benché, vile soggetto desideroso di accusare un pari suo di un grave reato, ma quello nondimeno insisteva. Allora Giuliano sopraffatto dalla noia, visto lì vicino il comes incaricato delle largizioni, gli disse “ordina che un paio di scarpe purpuree siano date a questo pericoloso chiacchierone, che le porti al suo nemico, quello che a quanto si capisce lui afferma essersi fatto cucire un manto di questo colore. In modo che comprenda a che giovano questi stracci insignificanti senza forze straordinarie”». 94

Amm. Hist. 22.10.3: «questo è un giudizio auspicabile e retto, quello in cui giusto e ingiusto sono distinti attraverso un accurato esame dei fatti». 95

Cfr. anche Amm. Hist. 22.11.4 ss.

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CAPITOLO 5 LA DINASTIA DI VALENTINIANO SOMMARIO: 1. La legislazione di Valentiniano I e Valente (364-375). – 1.1. Garantismo all’interno di un sistema inquisitorio? – 1.2. Orientamenti inquisitori. – 2. La politica giudiziaria di Valentiniano I e Valente nella testimonianza di Ammiano.

Morto Giuliano nel 363, nel corso della sfortunata campagna contro i Persiani, e terminato nel 364 anche il breve regno di Gioviano, le truppe innalzarono al soglio imperiale Flavio Valentiniano, che si associò nell’Impero il fratello Valente quale reggitore dell’Oriente. La nuova dinastia fu caratterizzata dal perdurare di forti tensioni religiose, specie nella pars orientis; infatti, mentre Valentiniano adottò in occidente una politica di cauta equidistanza rispetto alle controversie in materia di fede, Valente fu un attivo fautore dell’arianesimo, non alieno da dure persecuzioni. D’altro canto, in Occidente Valentiniano I si dimostra particolarmente attivo nella repressione di pratiche magiche e divinatorie, scatenando una serie di processi contro esponenti della corte, la cui supposta frequentazione delle arti magiche era considerata indizio di aspirare al trono e di cospirare contro il soglio imperiale 1. In questo contesto, l’equilibrio dimostrato da Giuliano nell’amministrare la giustizia pare nuovamente cedere il passo a un esercizio tanto spietato quanto spiccio della repressione penale, mentre gli indirizzi di politica legislativa non paiono differenziarsi significativamente da quelli della precedente dinastia.

1. LA LEGISLAZIONE DI VALENTINIANO I E VALENTE (364-375) Secondo alcuni studiosi, la legislazione di Valentiniano I e Valente offrirebbe significative conferme della persistenza di un rito accusatorio nel procedimento 1 Su questi aspetti del regno di Valentiniano e Valente mi limito a rinviare, fra gli altri, a BAUS, EWIG (2001), p. 65 ss.; SORACI (1971), passim; PERGAMI (1993), pp. I-LIV.

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criminale del IV secolo 2. A questo proposito, si è richiamata una nutrita serie di costituzioni imperiali in materia di denunzie anonime e di obblighi a carico degli accusatori. La questione merita di essere esaminata in qualche dettaglio.

1.1. Garantismo all’interno di un sistema inquisitorio? Già nel settembre del 365, una costituzione indirizzata al Vicario delle Spagne disponeva quanto segue: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Valerianum Vicarium Hispaniarum. Post alia: nullus ante carceris custodiae mancipetur, quam ab eo, qui in accusationem eius erupit, in codice publico sollemnia inscriptionis impleta sint. PRAELATA LITTERIS V.C. VICARII VI ID. SEP. VERONAE VALENTINIANO ET VALENTE AA.CONSS. 3.

Un altro frammento della medesima costituzione è conservato in CTh. 1.16.10: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Valerianum Vicarium Hispaniarum. Libellos iudicibus, postquam se receperint, vetamus offerri, ne super alienis causis vel statu pronuntient, quando ab officii conspectu atque ab oculis publicis recesserint. PRAELATA VI ID. SEP. VERONAE VALENTINIANO ET VALENTE AA.CONSS. 4.

Il primo frammento ordina che nessuno sia destinato alla custodia cautelare in carcere, prima che l’accusatore abbia compiuto i sollemnia di rito nell’apposito codex. Stando a Godefroy, si tratterebbe dei pubblici elenchi conservati a cura dei commentarienses, ossia i funzionari pubblici incaricati della gestione delle carceri 5. Altri ritengono invece che il riferimento riguardi la registrazione dell’accusa, necessaria per l’avvio della procedura criminale e richiesta per esigenze di pubblicità e di documentazione 6. 2

Cfr. in particolare PERGAMI (2011), p. 160 ss.

3

CTh. 9.3.4: «gli Imperatori Valentiniano e Valente Augusti a Valeriano Vicario delle Spagne. Dopo altro: nessuno sia dato alla custodia del carcere prima che da parte di colui che si è mosso per accusarlo siano state compiute le formalità dell’inscriptio in un codice pubblico». Per la datazione cfr. PERGAMI (1993), pp. 268-269. Sul testo cfr. anche DE BONFILS (1998), p. 99; KAISER (2007), p. 362. 4 «Gli Imperatori Valentiniano e Valente Augusti a Valeriano Vicario delle Spagne. Vietiamo di consegnare libelli ai giudici dopo che essi si sono ritirati, perché non si pronuncino sulle cause o sullo stato altrui essendosi ritirati dalla vista dell’ufficio e dagli occhi del pubblico». Interpretatio. Iudices, postquam se de consessu publico in domum suam receperint, libellos a litigatoribus non accipiant, nec sine officio suo de causis alienis vel de statu aliquid cognoscant. «I giudici, dopo che si sono ritirati dal pubblico consesso nelle proprie case, non ricevano libelli dai litiganti, né conoscano di alcunché circa le cause o lo stato altrui senza il proprio ufficio». Sul rapporto fra i due frammenti di costituzione, cfr. PERGAMI (1993), pp. 268-269. 5

Gothofr. comm. ad h.l.; sui commentarienses, cfr. di recente MINIERI (2011).

6

PERGAMI (2011), p. 164; ZANON (1998), p. 31.

La dinastia di Valentiniano

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Comunque stiano le cose (e le due interpretazioni potrebbero essere solo apparentemente divergenti), la ratio legis è abbastanza chiara: data la frequenza di casi, ai quali già si è fatto qualche cenno e di cui si dirà più ampiamente in seguito 7, in cui la custodia cautelare finisce per tramutarsi in una sorta di pena senza giudizio, il legislatore ha cura di ordinare che i detenuti siano debitamente registrati, con l’indicazione dell’accusa pendente a loro carico. Duplice, dunque, lo scopo: evitare che gli accusati scomparissero nelle tenebre delle carceri senza lasciar traccia e consentire di rivalersi, nel caso, contro accusatori falsi e calunniosi. Del resto, è evidente che si tratta, nel testo, di accuse mosse da privati, altrimenti si sarebbe fatto uso di una diversa terminologia, qualificando il reo come detectus, deprehensus e così via 8. Il secondo frammento superstite della costituzione del 365, dispone il divieto di offrire libelli d’accusa ai giudici (con questo termine si intendono, come già vide Godefroy, i rectores provinciarum) 9 in forma privata. Ciò per evitare che i giudici fossero influenzati da soggetti interessati o prendessero decisioni lontani dal pubblico e dal proprio officium, magari fra le mura di casa. Anche in questo caso, non è difficile capire quale fosse l’intento del legislatore: evitare che si sviluppassero commerci e trattative private, al riparo dagli occhi del pubblico e degli stessi componenti l’officium. Si trattava, insomma, di evitare i familiaria commercia cum iudicibus 10 e in sostanza di prevenire abusi e fenomeni corruttivi. Da questo punto di vista, pare del tutto antistorica l’interpretazione di CTh. 1.16.10, secondo la quale con essa si sarebbe vietato «ai giudici di accettare ulteriori elementi di accusa dopo la conclusione del pubblico dibattimento» 11, quasi che il postquam se receperint indicasse il ritirarsi in camera di consiglio del giudice: nulla di tutto ciò, il legislatore intendeva unicamente evitare commerci indebiti che coinvolgessero i giudici. Da questo punto di vista, la disposizione appena vista può essere accostata a CTh. 1.16.9, del settembre del 364 12:

7

Supra, p. 54 ss.; infra, p. 165 ss.

8

Cfr. ad es. CTh. 9.16.7: ne quis deinceps nocturnis temporibus aut nefarias preces aut magicos apparatus aut sacrificia funesta celebrare conetur. detectum atque convictum competenti animadversione mactari, perenni auctoritate censemus. CTh. 9.16.8: cesset mathematicorum tractatus. Nam si qui publice aut privatim in die noctuque deprehensus fuerit in cohibito errore versari, capitali sententia feriatur uterque. Neque enim culpa dissimilis est prohibita discere quam docere. 9

Gothofr. comm. ad h.l. DE GIOVANNI (2007), p. 296.

10

Gothofr. comm. ad h.l.: «traffici personali con i giudici».

11

PERGAMI (2011), p. 164.

12

PERGAMI (1993), p. 86.

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Impp. Valentinianus et Valens AA Have Artemi Karissime Nobis. Iudex sibi hanc praecipuam curam in audiendis ac discingendis litibus impositam esse non ambigat, ita ut non in secessu domus de statu hominum vel patrimoniorum sententiam ferat, sed apertis secretarii foribus, intro vocatis omnibus, aut pro tribunali locatus et civiles et criminales controversias audiat, ne congruae ultionis animadversio cohibeatur. Absit autem, ut iudex, popularitati et spectaculorum editionibus mancipatus, plus ludicris curae tribuat quam seriis actibus DAT. KAL. OCTOB. AQUILEIA DIVO IOVIANO ET VARRONIANO CONSS. 13.

Il testo ribadisce l’obbligo della pubblicità delle udienze, siano esse civili o criminali, con il correlativo divieto per il giudice di rendere sentenza nascosto fra le pareti di casa propria; il che sembra doversi spiegare con l’intento di evitare che giudici e rectores provinciarum sentenziassero al riparo da occhi indiscreti fondando le loro decisioni non sulla base del diritto e delle prove acquisite, ma del favore o disfavore che, per i motivi più vari e più o meno leciti, essi potevano nutrire nei confronti dei soggetti coinvolti nel giudizio 14. Insomma, se si prescinde da pur suggestive sovrapposizioni, indotte talora da mere assonanze di carattere lessicale fra procedura contemporanea e processo penale tardo-antico, si vede bene che i testi nulla dicono rispetto al «rito» adottato, a meno di non far loro violenza. In questo quadro vale la pena di considerare anche CTh. 9.1.8, risalente al medesimo periodo: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Maximinum Correctorem Tusciae. Non sinendum est, ut quisque negotii criminalis strepitu terreatur, nisi inscriptione conscribtus et exhibitionis iniuriam et rei condicionem sustineat. DAT XV KAL. DEC. REMIS, ACC. FLORENTIAE GRATIANO NOB.P.C. ET DAGLAIFO CONSS. 15. 13 «Gli Imperatori Valentiniano e Valente Augusti; salute Artemio a noi carissimo. Il giudice non dubiti del fatto che gli è stata imposta l’osservanza soprattutto di questa regola, nell’udire e decidere le liti: ossia che non renda sentenza sulla condizione degli uomini o di patrimoni ritirato in casa sua, ma giudichi le controversie civili e criminali con le porte del secretarium aperte, dopo aver chiamato tutti all’interno, o collocato di fronte al tribunale, in modo che non sia trattenuto dall’infliggere una congrua punizione. Non si verifichi poi che un giudice, preso dalla ricerca di popolarità e dall’organizzazione di spettacoli, presti più attenzione a divertimenti che a serie faccende». Interpretatio. Iudex hanc sibi praecipuam curam in audiendis litibus impendendam esse cognoscat, ut litigantium causas iugiter, adhibita aequitate, discutiat: sciturus, non se in secretis domus aut in quibuscumque angulis finitivam sententiam prolaturum, sed apertis domus suae ianuis intromissisque turbis, ut neminem lateat, quicquid secundum legum vel veritatis ordinem fuerit iudicatum. «Il giudice sappia che soprattutto questa regola deve osservare nel giudicare le cause, affinché discuta le cause dei litiganti in modo sempre equo: sapendo che non renderà sentenza finale nascosto in casa sua o in qualche angolo, ma avendo aperte le porte di casa sua, fatta entrare la folla affinché non resti nascosto ad alcuno ciò che fu giudicato secondo l’ordine delle leggi e della verità». 14

GRELLE (1993), p. 189; DE GIOVANNI (2007), p. 294; SANTALUCIA (1998), p. 283 ss.

15

«Gli Imperatori Valentiniano e Valente Augusti a Massimino Governatore della Tuscia.

La dinastia di Valentiniano

123

Il destinatario della costituzione è – assai significativamente – Massimino, che le fonti ricordano come uno dei più feroci e spietati esecutori della politica di repressione antisenatoria di Valentiniano I, figura sulla quale vi sarà modo di tornare anche in seguito 16. In modo per certi versi analogo a quanto visto poco sopra, il legislatore dispone che non si possa procedere alla tortura di un sospettato (tale è il significato della frase non ... terreatur negotii criminalis strepitu), in difetto della inscriptio da parte dell’accusatore e dunque prima che sia stata formalmente definita la condizione del soggetto come reo 17. Ancora una volta, la disposizione sembra mirare non a riaffermare supposte procedure giudiziali di tipo accusatorio, ma piuttosto a temperare possibili eccessi inquisitori, vietando che accuse trasmesse da privati, ma non formalmente registrate, potessero condurre gli accusati a patire tormenti e sofferenze che non di rado potevano rivelarsi letali. Anche CTh. 9.1.9, risalente al 366 e indirizzata al Prefetto dell’Urbe, sembra prefiggersi il medesimo obiettivo: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Valerianum PU. Non prius quemquam sinceritas tua ad tuae sedis examen iubebit adduci, quam solemnibus satisfecerit, qui nititur fidem doloris asserere, quum iuxta formam iuris antiqui ei, qui coeperit arguere, aut vindicta proposita sit, si vera detulerit, aut supplicium, si fefellerit. DAT. VII KAL. DEC. REMIS GRATIANO N.P. ET DAGLAIFO CONSS. 18.

Il testo dispone il divieto di avviare la causa penale in difetto del compimento delle formalità gravanti sul capo dell’accusatore, iuxta formam iuris antiqui: quelle formalità che consentiranno eventualmente di punire l’accusatore medesimo, se l’imputazione dovesse rivelarsi destituita di fondamento 19. Da notare che, con ogni probabilità, la costituzione si riferiva ad accuse per

Non deve essere consentito che chiunque sia terrorizzato dallo strepito di una accusa criminale, salvo che il suo nome sia stato iscritto per via di una inscriptio: allora sosterrà l’onta di essere portato in giudizio e la condizione di imputato». La disposizione è probabilmente del novembre 365. Cfr. PERGAMI (1993), p. 294. 16

Infra, p. 133 ss.

17

Cfr. Gothofr. comm. ad h.l.; BIONDI (1954), p. 504.

18

«Gli Imperatori Valentiniano e Valente Augusti a Valeriano Prefetto dell’Urbe.La tua sincerità non ordinerà che chiunque sia condotto alla tua sede per essere processato, prima che colui che tenta di dimostrare la veridicità del suo dolore abbia completato le formalità, poiché secondo il dettato dell’antico diritto a colui che ha dato inizio a un processo è data soddisfazione, se avrà riferito il vero, o un supplizio se ha detto il falso». Cfr. C.I. 9.46.7; per la datazione della disposizione, cfr. PERGAMI (1993), p. 340. 19

Secondo DI CINTIO (2011), p. 6, la costituzione avrebbe rinnovato gli «automatismi» risalenti all’epoca costantiniana. Nella stessa direzione, SCIORTINO (2008), p. 233 ss., CENTOLA (1999), p. 139, PIETRINI (1996), p. 153 ss.

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crimen adulterii, come prova il riferimento al dolor dell’accusatore e alla vindicta che egli avrebbe ottenuto, una volta provate le imputazioni: si tratta, infatti, di una terminologia tradizionalmente propria delle disposizioni in materia di adulterio. Se così fosse, ciò indicherebbe che, conformemente a un indirizzo inaugurato da Costantino, Valentiniano intendeva porre freno alle accuse per adulterio, che non solo si prestavano a favorire procedimenti temerari e a fungere da valvola di sfogo di odi e ostilità personali, ma avevano già dato prova di essere funzionali a scontri fra gruppi contrapposti di fedeli. A questo proposito, vale la pena di ricordare brevemente quanto accaduto all’epoca dello scisma fra Damaso e Ursino, entrambi eletti Papa da fazioni diverse dei religiosi romani. La vicenda produsse tumulti e disordini di notevole rilievo, tanto da finire per provocare l’intervento di Valentiniano 20. A prescidere da ciò, merita di essere notato che Damaso, malevolmente soprannominato dagli avversari «stuzzicaorecchi delle matrone» (matronarum auriscalpius) 21, finì per essere accusato di adulterio dai propri nemici 22. Sono note, a questo proposito, le tracce di un provvedimento di Valentiniano, risalente agli anni fra il 367 e il 368 23, che mirava a sottrarre al foro secolare le causae morum che coinvolgessero ecclesiastici: l’intento, evidentemente, era di spuntare le armi dei litigiosi chierici e di tenere la giurisdizione dello Stato al riparo da controversie rispetto alle quali il sovrano aveva sempre mostrato un certo prudente equilibrio. Non è da escludersi, dunque, che anche CTh. 9.1.9 debba essere interpretata in questo contesto. Nel quadro della legislazione di questo periodo in materia di procedimento criminale, meritano di essere considerati altri tre testi conservati nel Teodosiano, che con ogni probabilità facevano parte in origine di un’unica costituzione proveniente dalla cancelleria orientale, databile presumibilmente al novembre del 368 24: Impp. Valentinianus et Valens AA. et Gratianus A. ad Florianum Comitem. Post alia: ultra provinciae terminos accusandi licentia non progrediatur. Oportet enim illic criminum iudicia agitari, ubi facinus dicitur admissum. Peregrina autem iudicia praesentibus legibus coercemus. DAT. ID. NOV. MARCIANOPOLI VALENTINIANO ET VALENTE IIII AA. CONSS. 25.

20

Tutta la vicenda è da me discussa in BANFI (2005), p. 120 ss., con relativa bibliografia.

21

Coll. Avell. 1.1.10.

22

Cfr. BANFI (2005), p. 130 ss.

23

Cfr. BANFI (2005), p. 124 ss.

24

PERGAMI (1993), p. 411 ss. Cfr. anche ROBINSON (2007), p. 147.

25

CTh. 9.1.10: «Gli Imperatori Valentiniano e Valente Augusti e Graziano Augusto al comes Floriano. Dopo altro. La facoltà di accusare non ecceda i limiti della provincia; infatti il processo

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125

Impp. Valentinianus et Valens AA. et Gratianus A. ad Florianum Comitem. Post alia: nullus secundum iuris praescriptum, crimen, quod intendere proposuerit, exsequatur, nisi subeat inscriptionis vinculum. Etenim qui alterius famam, fortunas, caput denique et sanguinem in iudicium devocaverit, sciat sibi impendere congruam poenam, si, quod intenderit, non probaverit etc. DAT. V ID. NOV. CONSTANTINOPOLI VALENTINIANO ET VALENTE IIII AA. CONSS. 26. Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Florianum Comitem. Iam pridem adversus calumnias firmissima sunt praesidia comparata. Nullus igitur calumniam metuat. Contestatio vero, quae caput alterius contra iuris ordinem pulsat, depressa nostris legibus iaceat; intercidat furor famosorum, saepe ut constituimus, libellorum. Et cetera. DAT. V ID. NOV. MARCIANOPOLI VALENTINIANO ET VALENTE AA. CONSS. 27.

Come si vede, il primo frammento sancisce il divieto di avviare procedimenti criminali presso un foro diverso da quello competente in base alle regole ordinarie, secondo un principio peraltro spesso affermato anche dalle fonti canoniche e patristiche 28. Il secondo frammento, invece, ribadisce i principi già visti nel costantiniano edictum de accusationibus: la necessità dell’inscriptio da parte del privato che avanzi un’accusa e la minaccia di congrue pene nel caso che l’accusa stessa resti non provata 29. Da ultimo, il legislatore ribadisce il proprio intento di mantenere saldissimi presidi contro le calunnie, un pericolo che nessuno dovrà temere, poiché, dopo aver ricordato ancora una volta l’obbligo di procedere all’inscriptio per gli accusatori (contestatio vero, quae caput alterius contra iuris ordinem pulsat, depressa nostris legibus iaceat) si ripete con forza il bando dei libelli famosi. Il fatto che Valente abbia sentito l’esigenza di ribadire, in un testo che doveva in origine essere piuttosto ampio e articolato, tutta una serie di principi a salper un crimine deve tenersi dove si dice che il fatto sia stato commesso. Pertanto con le presenti disposizioni vietiamo tali giudizi peregrini». 26 CTh. 9.1.11: «Gli Imperatori Valentiniano e Valente Augusti e Graziano Augusto al comes Floriano. Dopo altro. Secondo i precetti della legge nessuno proceda ad agire per il crimine del quale intende accusare salvo che si sia sottoposto al vincolo di una inscriptio. Infatti, chi ha chiamato in giudizio la fama, le fortune, la vita e il sangue altrui, sappia che su di lui incombe una congrua pena, se non proverà le sue accuse». 27

CTh. 9.34.8: «Gli Imperatori Valentiniano e Valente Augusti e Graziano Augusto al comes Floriano. Già da tempo sono stati apprestati solidissimi presidi contro la calunnia. Nessuno dunque tema la calunnia. Qualsiasi attestazione che colpisce il capo altrui contro l’ordine del diritto, giaccia vanificata dalle nostre leggi. Perisca la follia dei libelli diffamatori, come spesso abbiamo stabilito. Eccetera». Secondo SHAW (2011), p. 435, la disposizione potrebbe essere connessa a eventi politici innescati dalla fine di Giuliano. 28

Cfr. Gothofr. comm. ad h.l.; cfr. Basil., Ep. 225. CONDORELLI (1997), p. 43.

29

Cfr. DI CINTIO (2011), p. 9 ss.

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vaguardia dell’equità processuale lascia supporre ancora una volta che l’osservanza della legislazione da parte dei funzionari che ne erano i destinatari fosse piuttosto scarsa, così da indurre a frequenti richiami e alla riproposizione dei medesimi precetti, anche a distanza di pochi anni. Ma, a prescindere dalla questione della prassi adottata dai tribunali e più in generale da tutti coloro che collaboravano al funzionamento della repressione penale, è bene ribadire ancora una volta che quanto appena visto non prova affatto che «il rito accusatorio fosse pratica diffusa in tutto l’Impero» 30. Si tratta infatti, come giustamente è stato detto, di norme miranti a regolare l’accusandi licentia 31 da parte dei privati: un fatto di per sé del tutto ragionevole anche in un contesto nel quale siano in uso procedure inquisitorie. I testi appena visti, peraltro, non dicono pressoché nulla circa le parti coinvolte in giudizio ed il ruolo ad esse spettante: ancora una volta, la locuzione si, quod intenderit, non probaverit riferita all’accusatore, potrebbe indicare, come già si è detto in precedenza per analoghe disposizioni 32, l’obbligo di presentare accuse suffragate da qualche elemento, che ne renda evidente la natura non calunniosa e non totalmente destituita di fondamento. In ogni caso, non traspare da quanto visto finora alcunché a sostegno di un supposto ruolo di parte processuale dell’accusatore nel procedimento criminale del tempo, almeno se si vuole utilizzare stricto sensu il termine. Ciò detto, non è comunque da sottovalutare il numero di provvedimenti concernenti la procedura criminale ascrivibili al regno di Valentiniano e Valente: l’impressione, in effetti, è che senza nulla togliere al carattere tendenzialmente inquisitorio della repressione penale – un dato confermato, come si vedrà più oltre, anche dalle fonti letterarie – si volesse comunque porre un freno agli eccessi ai quali, pare di capire, erano ormai avvezzi sia i più alti dignitari dell’Impero, che i gradi più bassi della gerarchia. Pur senza rinunciare ai vantaggi delle modalità inquisitorie, il legislatore appresta misure che dovrebbero ridurre i rischi per gli imputati: una sorta di garantismo inquisitorio 33. A questo proposito merita di essere considerata CTh. 9.34.7, ancora in materia di libelli famosi, risalente al 365 e data a Costantinopoli: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad edictum. Famosorum infame nomen est libellorum, ac si quis vel colligendos vel legendos putaverit ac non statim chartas igni consumpserit, sciat, se capitali sententia subiugandum. Sane si quis devotionis suae ac salutis publicae custodiam gerit, nomen suum profiteatur et ea, quae per famosum persequenda putavit, ore proprio edicat, ita ut absque ulla trepidatione accedat, sciens 30

PERGAMI (2011), p. 167.

31

PERGAMI (2011), p. 167.

32

PERGAMI (2011), p. 167.

33

Cfr. LENSKI (2002), p. 283 ss.

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quod, si adsertionibus veri fides fuerit opitulata, laudem maximam ac praemium a nostra clementia consequetur. DAT. XIIII KAL. MAR. CONSTANTINOPOLI VALENTINIANO ET VALENTE AA. CONSS. 34.

Si tratta di una disposizione di particolare interesse: essa infatti dispone la pena capitale a carico di chi non provveda immediatamente a dare alle fiamme i libelli, ma ardisca raccoglierli o anche solo leggerli. Secondo Godefroy, l’espressione si quis vel colligendos vel legendos andrebbe intesa come un riferimento a coloro che raccoglievano tali libelli, per lo più redatti da provinciali vessati e angariati dai funzionari imperiali, con l’intento di dar loro diffusione 35. In alternativa, e sulla scorta di precedenti disposizioni costantiniane 36, si potrebbe pensare che la disposizione minacciasse sanzioni agli stessi giudici che avessero ardito prendere in considerazione tali documenti anziché procedere alla loro immediata distruzione. Che i libelli in questione avessero ad oggetto, con ogni probabilità, malversazioni degli amministratori delle provincie, traspare dalla seconda parte di quanto rimastoci della costituzione, nella quale si invitano gli autori dei libelli a presentare di persona le proprie accuse che, se confermate, sarebbero state adeguatamente premiate. È comunque evidente che il divieto di redigere, propalare o acquisire in giudizio libelli diffamatori non prova di per sé la marginalità di procedure inquisitorie o avviate ex officio: semmai, si intendeva proprio evitare che le inclinazioni inquisitorie del sistema repressivo fossero sfruttate per propri fini da individui desiderosi di vendetta o speranzosi di concretizzare in tal modo le proprie ambizioni personali. Da questo punto di vista, pare significativo anche il dettato di CTh. 9.1.12, risalente al 375 e inviata da Valentiniano, nei suoi ultimi mesi di vita, al Praeses Sardiniae 37:

34 «Gli Imperatori Valentiniano e Valente Augusti ad edictum. È infame il nome dei libelli diffamatori e se qualcuno riterrà di raccoglierli o di leggerli e non avrà subito fatto consumare tali carte dal fuoco, sappia che egli sarà soggetto a sentenza capitale. Se qualcuno ha a cuore la sua devozione e la pubblica sicurezza, dichiari il suo nome e ciò che ha ritenuto di perseguire per via di scritti diffamatori lo proclami dalle sue labbra e pertanto si faccia avanti senza alcun timore, sapendo che se le sue affermazioni saranno sostenute da prove di veridicità, otterrà dalla nostra clemenza grandissima lode ed anche un premio». Cfr. C.I. 9.36.2. Per la controversa questione della datazione, si veda PERGAMI (1993), p. 163. Secondo PERGAMI (2011), p. 169 CTh. 9.34.7 sarebbe la norma a cui rinvia CTh. 10.10.10, del 365 e indirizzata ad Afros: in tantum humani generis inimicos arbitra aequitate persequimur, ut delatores pronuntiatos puniri gladio iusserimus. «A tal punto noi perseguiamo i nemici del genere umano con equità di giudice, da aver ordinato che coloro che sono stati riconosciuti come delatori siano puniti con la spada». A parere di chi scrive, invece, CTh. 10.10.10 non ha a che fare con i libelli famosi, ma è indirizzata a reprimere la delazione fiscale. Cfr. RIVIÈRE (2002), p. 138. 35

Gothofr. comm. ad h.l. Cfr. SHAW (2011), p. 435 ss.; LENSKI (2002), p. 88.

36

Supra, p. 87 ss.

37

Cfr. PERGAMI (1993), p. 647.

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Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. Laodicio Praesidi Sardiniae. Neganda est accusatis licentia criminandi, priusquam se crimine, quo premuntur, exuerint. Nam sanctionum veterum conditores adimendam licentiam omnibus censuerunt in accusatores suos invidiosam dicendi vocem. Nullam itaque obtineat in iudiciis auctoritatem periclitantium furor, qui si latius evagetur, ne ipse quidem cognitor tutus erit aut quaestionem securus agitabit, qui, exsequendo iuris severitatem, non potest illorum, quos punit, odium evitare. DAT. PRID. ID. AUG. CARNUNTI GRATIANO A. III ET EQUITIO V.C. CONSS. 38.

Il sovrano, con ogni probabilità nel rispondere a qualche dubbio sottopostogli dal governatore di Sardegna, ricorda che non è consentito prendere in considerazione le accuse eventualmente proposte dall’imputato a carico del proprio accusatore, prima che egli sia stato assolto. Da notare il monito contenuto nella seconda parte della costituzione: non si possono lasciare tali licenze agli imputati, poiché il furor periclitantium potrebbe andare anche oltre e dirigersi contro lo stesso giudice, che nel dar seguito alle severe prescrizioni del diritto non può sottrarsi all’odio di coloro che egli punisce. Si tratta, insomma, di elementari norme a difesa del buon funzionamento della macchina giudiziaria ed anzi si ha ancora una volta l’impressione che dietro la questione posta all’Imperatore si celi proprio quella bulimia inquisitoria di cui si diceva più sopra, ma della quale eleganter, come dice Godefroy 39, Valentiniano coglieva tutte le rischiose implicazioni 40.

1.2. Orientamenti inquisitori Ci si potrebbe chiedere il perché di tante disposizioni relative ad accuse e accusatori: la ragione, a mio giudizio, sta proprio nel fatto che in un contesto in 38 «Gli Imperatori Valentiniano, Valente e Graziano Augusti a Laodicio Governatore della Sardegna. La facoltà di accusare deve essere negata agli imputati, finché non si siano liberati dei crimini loro imputati. Infatti i fondatori degli antichi precetti hanno stabilito che sia tolta a tutti la facoltà di pronunziare voci malevole contro i loro accusatori. La follia di coloro che sono in pericolo non abbia dunque alcuna autorità nei giudizi, follia che se dovesse diffondersi oltre farebbe sì che neppure lo stesso giudice sia protetto e possa condurre sicuro il processo, lui che dando esecuzione alla severità del diritto, non può evitare di incorrere nell’odio di coloro che punisce». Cfr. C.I. 9.1.19. Interpretatio. Non credendum est contra alios eorum confessioni, qui in criminibus accusantur, nisi se prius probaverint innocentes: quia periculosa est et admitti non debet rei adversus quemcumque professio. «Non si deve credere alle affermazioni di coloro che sono accusati di crimini, da loro rivolte contro altri, a meno che prima non si siano dimostrati innocenti; poiché la dichiarazione accusatoria di un imputato rivolta contro chiunque é pericolosa e non deve essere ammessa». 39 40

Gothofr. comm. ad h.l.

Per una lettura della costituzione nel quadro dei processi scatenati da Massimino (su cui infra, p. 120 ss.), cfr. LIZZI TESTA (2004), p. 292 ss.

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cui andavano rafforzandosi procedure di carattere inquisitorio, occorreva regolare le denunzie private, ed eventualmente punirne gli autori, per evitare che troppi innocenti finissero la loro esistenza nelle carceri o subissero comunque le cruente pratiche di interrogatorio comunemente adottate dai tribunali. A questo proposito, vale la pena di considerare CTh. 9.37.2, indirizzata da Valentiniano al Prefetto al Pretorio Probo nel 369 41: Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Probum PP. Accusator, qui se laqueo legis adstringit, agnoscat, nullum sibi fore ad latebram abolitionis recursum, postquam aliquid iniuriae merito inscriptionis illatae tolerarit inscriptus, id est si vel carcerem sustinuerit vel tormenta vel verbera vel catenas, nisi forte ille, qui haec pertulit, contemnat et donet ipse, quod pertulit, ac par fuerit tam petitoris quam petiti in accipienda abolitione consensus. Prius tamen quam aliquis de quaestione liberetur, sequitur illud, ut plerisque criminibus ne consentientibus quidem partibus praestetur abolitio, ut sunt illa, in quibus aut violata maiestas, aut patria oppugnata vel prodita, aut peculatus admissus, aut sacramenta deserta sunt, omniaque ea, quae iure veteri continentur. In quibus iudex non minus accusatorem ad docenda, quae detulit, quam reum ad purganda, quae negat, debet urgere. DAT. PRID. ID. OCTOBR. TREVIRIS VALENTINIANO NOB. P. ET VICTORE V.C. CONSS. 42.

Intervenendo in materia di abolitio, il legislatore precisa che l’accusatore non potrà ritirare le proprie accuse qualora l’imputato abbia subìto, a seguito di queste, carcerazione, tortura e fustigazioni o il peso delle catene, a meno che sulla richiesta di abolitio concordi l’imputato stesso. Al tempo stesso, si precisa che per alcuni crimini non è consentita abolitio, neanche con il consenso dell’interessato. Fra tali crimini si annoverano, assai significativamente, il crimen maiestatis, la proditio, la diserzione e il peculato. A parere di chi scrive, si tratta di un testo particolarmente importante, sotto il profilo del carattere della repressione penale dell’epoca, e ciò per più motivi. Da un canto, la disposizione rende espliciti i rischi che doveva fronteggiare

41 42

PERGAMI (1993), p. 469.

«Gli Imperatori Valentiniano, Valente e Graziano Augusti a Probo Prefetto al Pretorio. L’accusatore, che si lega al laccio previsto dalla legge, sappia che non potrà far ricorso al rifugio della desistenza dopo che l’accusato avrà subito qualsiasi violenza per via dell’inscriptio che è stata avanzata contro di lui: ossia se avrà dovuto sopportare il carcere, tortura, frustate o catene. A meno che la persona che ha subito ciò lo consideri di poca importanza e condoni ciò che ha sofferto, e vi sia dunque pari consenso nell’accettare la desistenza sia dall’accusatore che dall’accusato. Tuttavia, prima che chiunque sia liberato da un processo criminale, occorre che sia rispettata la seguente condizione, poiché per numerosi crimini non può darsi desistenza neppure con il consenso delle parti: ad esempio la lesa maestà, l’attacco o il tradimento della patria, il peculato e la diserzione e tutti i casi previsti dall’antico diritto. In questi casi il giudice deve incalzare non solo l’accusatore a chiarire ciò che ha riferito, ma anche l’imputato a discolparsi di ciò che egli nega». Cfr. C.I. 9.42.3.

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un imputato, anche per crimini diversi da quelli, particolarmente gravi, per i quali non era in alcun modo prevista l’abolitio: carcerazione, tortura, percosse erano evenienze normali 43. Da questo punto di vista, la disposizione di Valentiniano può essere iscritta nel solco di una politica legislativa intesa a regolare le accuse avanzate da privati e a reprimere le accuse false o prive di fondamento. È significativo però, che per alcuni crimini specialmente lesivi della cosa pubblica o particolarmente pericolosi per il trono imperiale si dispone l’impossibilità dell’abolitio: e ciò non certo per assicurare alla giusta punizione l’autore di accuse false o infondate, ma per garantire che l’affare fosse esaminato a fondo dai tribunali, e che gli eventuali rei fossero puniti. Consentire l’accordo fra accusatore e imputato, per casi del genere, e ammettere così l’estinzione del processo, sarebbe stato troppo rischioso per gli interessi dello Stato 44. Infine, vale la pena di considerare con attenzione le ultime righe del testo, che contrastano in modo evidente con tanti poco calzanti paragoni fra rito accusatorio e procedura penale tardo-antica. Si dispone infatti, che per tutti i crimina per i quali non è consentita l’abolitio il giudice non minus accusatorem ad docenda, quae detulit, quam reum ad purganda, quae negat, debet urgere: insomma, al giudice spetta di condurre una vera e propria inchiesta, non limitandosi a richiedere all’accusatore di dimostrare le proprie accuse, ma anche esigendo prove a discarico dall’imputato. È, questo, un disegno chiaramente inquisitorio del ruolo del giudice, e che non si possa parlare di onere della prova a carico dell’accusatore è ben chiarito dalla previsione che il giudice richieda elementi di prova a propria discolpa da parte del reo. Mi pare evidente che in tale contesto non si può parlare di processo di parti, come pure è evidente il cumulo della funzione inquirente e giudicante in capo al giudice. Non stupisce che tale procedura sia raccomandata per reati quali la maiestas. Basti considerare CTh. 9.35.1: Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Olybrium PU. Nullus omnino ob fidiculas perferendas inconsultis ac nescientibus nobis vel militiae auctoramento vel generis aut dignitatis defensione nudetur, excepta tamen maiestatis causa, in qua sola omnibus aequa condicio est. Ii quoque citra consultationis modum subiciantur quaestioni, qui evidentibus argumentis subscriptiones nostras finxisse prodentur, qua in re ne palatini quidem nominis adsumptionem huius esse volumus quaestionis exortem. DAT. VIII ID. IUL. VALENTINIANO NOB. P. ET VICTORE CONSS. 45.

43

Infra, p. 165 ss.

44

ROBINSON (2004), p. 118. Cfr. anche SOLIDORO (2002), p. 36.

45

«Gli Imperatori Valentiniano, Valente e Graziano Augusti a Olibrio Prefetto dell’Urbe. Nessuno, senza che noi siamo stati prima informati e consultati, sia privato del suo grado

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La costituzione, indirizzata al Prefetto dell’Urbe Olibrio, dispone una sorta di «doppio binario» sancendo che per il crimen maiestatis, a differenza che per i reati di minore gravità, v’è par condicio per gli imputati: nessuno, per ragioni di dignità, carica o funzione potrà sottrarsi alla quaestio per tormenta. Lo stesso principio vale, precisa il testo, per coloro che abbiano confezionato false scritture imperiali, un reato evidentemente affine (se non identico) al crimen maiestatis. Va detto che tuttavia non mancano attestazioni di procedure inquisitorie estese al di là del crimen maiestatis, che pure doveva essere terreno particolarmente fertile per il loro sviluppo. A questo proposito, merita di essere considerata una costituzione erroneamente attribuita dagli estensori del Teodosiano a Costantino, ma in realtà ritenuta in modo unanime come risalente al 365: [Impp.Valentinianus et Valens AA. Secundo PP.] Ordinarii iudicis provinciarum rectoris seu vicaria potestas ut speculatrix debet prave gesta corrigere. Sed officiales vestrae celsitudinis et vicariae potestatis placet ab exactionibus amoveri et per provincialia officia atque rectores cunctos exigi titulos. Nam si exactio minime impleatur, ante tribunal nostrum exhibitus capitis fortunarumque omnium periculum sustinebit. [DAT. XIIII KAL. MAI. CONSTANTINOPOLI VALENTINIANO ET VALENTE AA. CONSS.] 46.

Come si vede, si dispone che chi si sia reso responsabile della mancata riscossione delle imposte sia deferito al tribunale imperiale ed esposto al rischio della pena capitale e della confisca dei beni. Ma ciò che in questa sede più interessa del testo, è il riferimento all’attività di monitoraggio e investigazione (ut speculatrix) attribuita agli officia dei giudici ordinari, dei rettori delle provincie e dei vicari, ai quali spetta di prave gesta corrigere. Analogo per certi versi e parimenti significativo, il dettato di CTh. 1.16.11, del 369, indirizzata al Prefetto al Pretorio Probo: nell’esercito o della difesa offerta dalla stirpe o dal rango al fine dell’applicazione della tortura, salvo che nei casi di lesa maestà, i soli nei quali vi è per tutti pari condizione. Siano sottoposti a processo sotto tortura e senza il vincolo della previa consultazione, coloro che sulla base di chiari argomenti risultano aver falsificato nostri documenti. In questi casi vogliamo che neppure il titolo di palatino possa esentare alcuno da questo tipo di procedimento». Cfr. C.I. 9.8.4. La costituzione è del 369. Cfr. in proposito PERGAMI (1993), p. 464. Sulle remote radici dell’aequa condicio, cfr. RUSSO RUGGERI (2002), p. 113. Secondo BARNES (1998), p. 244, la disposizione dev’essere comunque ricondotta all’attività repressiva di Massimino. 46

CTh. 1.16.5: «Gli Imperatori Valentiniano e Valente Augusti a Secondo Prefetto al Pretorio. La potestà dei giudici ordinari, dei governatori delle provincie, del Vicario deve, indagatrice, correggere gli atti malvagi. Ma piaccia rimuovere gli ufficiali della vostra eccellenza e della potestà vicaria dall’esercizio delle esazioni e che tutti i titoli siano esatti dagli uffici provinciali e dai governatori. E se una esazione non sarà affatto portata a compimento, il responsabile condotto davanti al nostro tribunale sosterrà pericolo di vita e di perdere tutte le sue fortune»; circa datazione e attribuzione della costituzione, cfr. PERGAMI (1993), p. 203. Cfr. anche PIETRINI (1996), p. 137 ss.

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Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Probum PP. Provinciis praesidentes per omnium villas sensim atque usitatim vicosque cunctos discurrant et ultro rimentur a singulis, quid unusquisque compulsor insolenter egisset aut cupide. Is enim, de quo aliqua ad nos querela pervenerit, ad ultimam poenam rapietur. DAT. KAL. APRIL. TREVIRIS VALENTINIANO N.P. ET VICTORE V.C. CONSS. 47.

In questo caso si richiamano i governatori provinciali ai loro compiti di governo e di amministrazione della giustizia, affinché visitino i luoghi da loro amministrati e investighino con cura (ultro rimentur) circa le eventuali malefatte degli esattori del fisco. Inoltre si precisa che questi ultimi saranno puniti con la pena capitale per l’eventuale abuso del loro potere: le querelae di cui parla l’ultima parte del testo sono infatti con ogni probabilità lagnanze raccolte presso i provinciali contro i compulsores, e non già contro gli stessi giudici, come già osservava Godefroy 48. In ogni caso, si vede bene come anche in questo ambito la macchina repressiva prenda avvio da semplici rimostranze dei provinciali (querelae) e dall’attività ispettiva e investigativa dei governatori provinciali 49. È certo vero che, nelle costituzioni del tempo, non mancano i riferimenti all’accusa mossa da privati per reati che offendevano la loro sfera personale. Ad esempio una disposizione di Valentiniano del 374 50, indirizzata al Prefetto al Pretorio Massimino interviene in materia di accuse per ratto a scopo di matrimonio, stabilendo la prescrizione del reato dopo cinque anni dall’atto criminoso: Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Maximinum PP. Qui coniugium raptus scelere contractum voluerit accusare, sive propriae familiae dedecus eum moverit seu commune odium delictorum, inter ipsa statim exordia insignem recenti flagitio vexet audaciam. Sed si quo casu quis vel accusationem differat vel reatum, et opprimi e vestigio atrociter commissa nequiverint, ad persecutionem criminis ex die sce-

47 «Gli Imperatori Valentiniano, Valente e Graziano Augusti a Probo Prefetto al Pretorio. I governatori delle provincie viaggino per tutte le città e i villaggi, e con misura e secondo l’uso corrente, indaghino con cura dai singoli se qualche esattore si è comportato in modo arrogante o avido. Colui riguardo il quale ci dovesse pervenire qualche lamentela sarà condotto alla pena capitale». Interpretatio. Iudices provinciarum operam dare debebunt, ut per singulos agros et loca sollicita inquisitione discurrant et per se, qualiter in solutione publici debiti cum possessoribus agatur, agnoscant. Cuius rei curam si implere neglexerint, querelam civium non dubitent in se severissime vindicandam. «I giudici delle provincie dovranno darsi da fare in modo da percorrere le varie proprietà ed i luoghi con attento spirito indagatorio e dovranno accertare in che modo si tratta con i possessori per quanto riguarda il pagamento dei debiti pubblici. Se rifiuteranno di dedicarsi a questo compito non dubitino che ci si vendicherà in modo severissimo su di loro». 48

Gothofr. comm. ad h.l.

49

Sulla politica fiscale di Valentiniano e sulla repressione delle frodi e degli abusi commessi dagli esattori, cfr. GIARDINA, GRELLE (1983), p. 249 ss.; SCHMIDT-HOFNER (2008), p. 69 ss. 50 SEECK (1919), p. 246; PERGAMI (1993), p. 638. Anche Gothofr. comm. ad h.l., la ascrive a Valentiniano.

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leris admissi quinquennii tribuimus facultatem. Quo sine metu interpellationis et complemento accusationis exacto, nulli deinceps copia patebit arguendi, nec de coniugio aut sobole disputandi. DAT. XVIII KAL. DEC. GRATIANO A. III ET EQUITIO CONSS. 51.

Evidente l’intento del legislatore: evitare che, trascorso troppo tempo dal fatto, fossero messi a rischio matrimoni ormai consolidati e dotati di prole. Quanto alla menzione dell’accusatio, ancora una volta, essa nulla dice rispetto al carattere del sistema processuale: è naturale che, per casi del genere, l’impulso alla macchina repressiva provenisse per lo più da soggetti direttamente interessati (in primo luogo, i parenti della rapita), ma ciò non implica affatto che a costoro spettasse stricto sensu l’esercizio dell’accusa in dibattimento. Del resto, il carattere tendenzialmente inquisitorio di un sistema penale può ben conciliarsi con il diritto delle parti offese di dare impulso alla macchina repressiva. Quanto visto finora sembra comunque indicare che strumenti e procedure di carattere inquisitorio si sono sviluppati e consolidati in due ambiti differenti e allo stesso tempo strettamente connessi: i reati la cui minaccia si indirizzava direttamente o indirettamente verso l’imperatore e la corte, e le malversazioni compiute – ai danni dei cittadini o della pubblica amministrazione – dai pubblici funzionari. Per quanto riguarda l’accusa «privata» essa sembra assumere i caratteri di mera denuncia (anche se non sine periculo) con funzione propulsiva di un procedimento non di parti, bensì saldamente nelle mani del giudice. Come vedremo, il resoconto di Ammiano conferma e arricchisce il quadro fin qui delineato.

2. LA

POLITICA GIUDIZIARIA DI STIMONIANZA DI AMMIANO

VALENTINIANO I

E

VALENTE

NELLA TE-

Delle politiche repressive, spesso spietate, adottate da Valentiniano in Occidente e da Valente in Oriente, testimonia ampiamente Ammiano, restituendo un quadro non meno fosco di quello da lui ricostruito per il periodo di Gallo e Costanzo. In questa sede non interessano tanto gli aspetti più strettamente politici 51

CTh. 9.24.3: «Gli Imperatori Valentiniano, Valente e Graziano Augusti a Massimino Prefetto al Pretorio. Colui che vorrà accusare di un matrimonio contratto a seguito del crimine di ratto, sia che egli sia mosso dal desiderio di difendere l’onore della propria famiglia, sia che abbia a cuore il comune odio dei delitti, dovrà perseguire questa enorme audacia subito, al suo esordio. Ma se per qualche ragione l’accusa e l’imputazione sono state ritardate e quanto orribilmente commesso non si è potuto punire, noi concediamo licenza di accusare per un tempo pari a cinque anni dall’atto criminoso. Trascorso questo termine senza timore di un procedimento e senza perfezionamento delle accuse, che a nessuno sia data facoltà di contestare il matrimonio o la discendenza della prole». Sulla costituzione si vedano ROBLEDA (1970), p. 211; EVANS-GRUBBS (2007), p. 57; LAIOU (1993), p. 142.

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di tali vicende, quanto le loro implicazioni per il carattere della procedura penale del tempo. Anche nel Teodosiano rimane traccia della particolare attenzione di Valentiniano per i reati di magia, stregoneria e simili, per i quali finirono imputati e condannati un buon numero di senatori. A questo proposito basterà considerare CTh. 9.16.10, risalente al 371: Impp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Ampelium PU. Quia nonnulli ex ordine senatorio maleficiorum insimulatione adque invidia stringebantur, idcirco huiusmodi negotia urbanae praefecturae discutienda permisimus. Quod si quando huiusmodi inciderit quaestio, quae iudicio memoratae sedis dirimi vel terminari posse non creditur, eos, quos negotii textus amplectitur, una cum gestis omnibus praesentibus adque praeteritis ad comitatum mansuetudinis nostrae sollemni observationi transmitti praecipimus. DAT. VIII ID. DEC. GRATIANO A. II ET PROBO CONSS. 52.

I timori per le arti magiche e occulte e per l’esercizio di pratiche divinatorie sono in quest’epoca originati da più motivi: da un canto perché esse possono essere utilizzate contro il soglio imperiale, per conoscerne in anticipo i destini o per accelerarne i medesimi. D’altra parte esse, malviste anche in ambito pagano, tanto che lo stesso Ammiano sembra approvarne la repressione 53, erano fortemente riprovate dalle comunità cristiane. Il che induce a ritenere che la repressione di questi comportamenti, certo funzionale in determinati momenti a togliere di mezzo gli oppositori del sovrano, in realtà fosse piuttosto diffusa anche al di là dei circoli più vicini al potere imperiale. Lo stesso Ammiano, infatti, testimonia della particolare asprezza del Prefetto dell’Urbe Aproniano nell’indagare su queste questioni che – dice lo storico, adottando una terminologia per noi significativa – magna quaeritabat industria. Comunque sia, la rappresentazione fornita da Ammiano del periodo in esame è per certi versi contrastante con l’impressione che si potrebbe ricavare dalla legislazione di Valentiniano e Valente: quella sorta di «garantismo inquisitorio» che si è creduto di riconoscere in una parte della produzione legislativa degli Augusti trova ben pochi riscontri nel racconto dello storico.

52

«Gli Imperatori Valentiniano Valente e Graziano Augusti ad Ampelio Prefetto dell’Urbe. Poiché alcuni appartenenti all’ordine senatorio sono stati colti dall’accusa di praticare malefici, permettiamo che tali faccende siano trattate dal tribunale della prefettura urbana. Ma se mai dovesse capitare un processo di tale natura, che la summenzionata sede ritiene di non poter dirimere o terminare, ordiniamo che coloro che sono coinvolti nella questione, insieme con tutti gli atti presenti e passati siano trasmessi al comitato della nostra mansuetudine con ogni osservanza». Per la datazione cfr. PERGAMI (1993), p. 562. Sulla portata e sul significato politico della costituzione cfr. LIZZI TESTA (2002), p. 241 ss.; DRIJIVERS et al. (2011), p. 47 ss. 53

Amm. Hist. 26.3.4.

La dinastia di Valentiniano

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Così, di Valente si dice che sotto il suo regno iura et leges facevano da schermo ad empi consigli, obbedendo i giudici alla volontà di un potere superbo e incline all’arbitrio 54. Di freni all’esercizio dell’accusa e di rischi gravanti sull’accusatore non v’è pressoché traccia, anzi. Caduto l’usurpatore Procopio (365), Valente si diede alla persecuzione dei suoi seguaci, raccogliendo notizie di ogni genere che consentissero di avviare processi spesso esiziali per gli imputati: nam ut quisque ea tempestate ob quamlibet valuerat causam, regio imperio prope accedens, et aliena rapiendi aviditate exustus, licet aperte insontem, arcessens, ut familiaris suscipiebatur et fidus, ditandus causibus alienis 55.

L’imperatore si mostrava pronto ad infierire, accogliente verso gli accusatori (criminantibus patens), ben lieto di ricevere funeste delazioni (funereas delationes). Non molto diverso il ritratto di Valentiniano I, che si segnala per stragi di individui di umili condizioni, così come di dignitari 56; inflessibile, dice Ammiano, anche nel rifiutare pur documentate ricusazioni di giudici per inimicizia: nonostante le buone argomentazioni avanzate, l’infelice imputato era inesorabilmente rinviato al giudice assegnatogli 57. Ma il culmine delle inclinazioni ferocemente repressive di Valentiniano è da collocare negli anni fra il 369 e il 372, quando un gran numero di cittadini e senatori romani furono coinvolti in processi per stuprum, adulterio e avvelenamento: eventi così atroci che lo stesso Ammiano afferma di esitare a raccontarli per un iustus metus 58. Strumento della repressione imperiale fu in quegli anni Massimino, allora Prefetto dell’Annona, che Ammiano definisce significativamente tartareus cognitor 59. Partendo da un singolo caso, che egli si trovò a giudicare come sostituto del Prefetto del Pretorio, Massimino credette di riconoscere, forse anche grazie ai mezzi d’indagine adottati e all’uso estensivo della tortura per ottenere informazioni, l’esistenza di un’ampia congiura, della quale informò Valentiniano, inducendolo così a prevedere (come già si è visto più sopra) l’estensione della 54

Amm. Hist. 26.10.10.

55

Amm. Hist. 26.10.11: «infatti in quei tempi, non appena qualcuno per qualsivoglia ragione si era avvicinato al regale imperio, consumato dall’avidità di impadronirsi dei beni altrui, anche quando si trattava di persone del tutto innocenti, era accolto come soggetto familiare e fidato, destinato ad arricchirsi con le cause avverso altre persone». 56

Amm. Hist. 27.7.5.

57

Amm. Hist. 27.8.8.

58

Amm. Hist. 28.1.2: «giusto timore».

59

Amm. Hist. 28.1.10: «giudice infernale».

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

quaestio per tormenta a tutti coloro che si trovassero coinvolti in processi di lesa maestà, a prescindere dalla loro dignità e rango 60. Fu così che Massimino si trovò ad essere incaricato da Valentiniano di condurre un’inchiesta particolarmente severa, con il ruolo di proprefetto, coadiuvato nella sua opera dal notarius Leone, che Ammiano definisce humani sanguinis avidissimum, al pari di Massimino 61. Si trattò, dice Ammiano, di processi assai spicci, condotti su base indiziaria, tanto che più che giustizia, ci si attendeva più semplicemente delle esecuzioni (iustitium esse, quod timebatur, non iudicium) 62. Si potrebbe essere tentati di liquidare questi fatti come mero indice di brutalità e di un esercizio della repressione penale tendente a sconfinare in pura e semplice coercizione, senza alcun rispetto del diritto e delle regole processuali. Così ragionando questi episodi diventerebbero insignificanti dal punto di vista storico-giuridico, per la questione che interessa in questa sede, ossia il carattere del procedimento penale. Non credo che sia questo il giusto modo di valutare fatti che segnalano invece la diffusione di procedure chiaramente identificabili come inquisitorie, sia sotto il profilo dell’iniziativa processuale che per i poteri esercitati dal giudice. Vale la pena, a questo proposito, di prendere in considerazione le vicende dell’aruspice Amanzio. Costui fu colpito da una denunzia anonima (occultiore indicio proditus) che lo coinvolgeva in faccende di magia. Portato in tribunale, fu sottoposto a tortura. Davanti al diniego di ogni responsabilità da parte sua, si dispose la perquisizione domiciliare, che consentì di reperire elementi di prova a suo carico. Ne seguì l’ampliamento dell’inchiesta che finì per coinvolgere diversi altri individui, e che condusse alla condanna di Amanzio all’esilio, con irritazione – pare – di Valentiniano, che l’avrebbe voluto condannato alla pena capitale 63. Non sfuggirà che in questa vicenda – che Ammiano considera esemplare – non vi sono accusatori di sorta, e che si tratta di un processo inquisitorio della più bell’acqua, nel quale informazioni pervenute agli uffici competenti consentono di avviare un’aspra indagine a carico del sospettato e dei suoi supposti sodali. Dello stesso Massimino, homo cum gemito nominandus, dice Ammiano quanto segue:

60

Amm. Hist. 28.1.10-11; cfr. anche 28.1.25. Supra, p. 117 ss.

61

Amm. Hist. 28.1.12: «bramoso di sangue umano». Sulle gesta di Massimino, cfr. Amm. Hist. 28.1.26 ss. 62

Amm. Hist. 28.1.15: «si temeva l’esecuzione, non il processo».

63

Amm. Hist. 28.1.19-23.

La dinastia di Valentiniano

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et reticulam de fenestra praetorii quadam remota, dicitur semper habuisse suspensam, cuius summitas quaedam velut damnosa colligeret, nullis quidem indiciis fulta, sed nocitura insontibus multis 64.

In altre occasioni, egli sguinzagliava per la città alcuni suoi apparitores, con il compito di dare notizia della severità estrema del giudice e di indurre i possibili sospettati a denunziare i loro complici, pur di aver salva la vita 65. Da questo punto di vista, Massimino, ferreus cognitor 66, si presenta come un perfetto giudice inquisitore, attivo, attento a raccogliere in prima persona informazioni, indizi, prove di qualsiasi provenienza purché utili, pronto a ricevere denunzie anonime e a promettere la salvezza a chi, per quanto coinvolto nel fatto criminoso, si rivelasse buon narrante svelando appieno la trama occulta e i propri complici. Promosso infine Prefetto del Pretorio, si adoperò perché i giudici a lui sottoposti perseverassero nella repressione con severità e asprezza pari a quella da lui dimostrata 67. Anche il viceprefetto Doriforiano, nominato per opera di Massimino, risulta aver svolto il suo compito di giudice secondo i peggiori canoni della procedura inquisitoria, con interrogatori notturni, ampio uso della tortura e avvalendosi della testimonianza degli schiavi contro il padrone 68. Quanto al regime dell’accusa privata, il testo di Ammiano sembra confermare come la procedura adottata fosse alquanto variabile e dipendesse essenzialmente da due fattori: le inclinazioni del giudice competente e la qualità dell’illecito. Così mentre Massimino e i suoi accoliti si dimostravano avidi di notizie, tanto da trascurare la repressione delle accuse calunniose, il Prefetto dell’Urbe Olibrio è descritto come calumniarum acerrimus insectator, e iustorum iniustorumque distinctor 69. Allo stesso tempo, però, il medesimo Ammiano, nella sua descrizione della città di Roma, riferisce come frequentemente i debitori si rivolgessero ad accusatori prezzolati, pronti ad accusare di veneficio i loro creditori, i quali non potevano liberarsi dell’accusa se non dopo aver rinunziato ad esigere i propri crediti 64

Amm. Hist. 28.1.36: «si dice che tenesse sempre sospesa una cesta proveniente da una finestra nascosta del pretorio, destinata a raccogliere informazioni pericolose che, benché non sostenute da indizi, erano destinate a nuocere a numerosi innocenti». 65

Amm. Hist. 28.1.37.

66

Amm. Hist. 28.1.40: «giudice ferreo».

67

Amm. Hist. 28.1.46 ss.

68

Amm. Hist. 28.1.54 ss.

69

Amm. Hist. 28.4.1: «inflessibile persecutore di calunnie e abituato a distinguere i giusti dagli ingiusti».

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

(reddita cautione): il che indica quanto poco fossero stretti i vincoli gravanti sull’accusatore e quanto poco essi fossero percepiti come rischiosi, almeno per un certo tipo di reati 70. Non molto diversa pare la situazione in Oriente, dove processi per veneficio o per l’esercizio di arti magiche e divinatorie paiono svolgersi in modo assai aspro, sulla base di voci e denunzie, in totale assenza di veri e propri accusatori: processi le cui dimensioni, per numero di imputati coinvolti, andavano crescendo assai rapidamente, anche in seguito alle rivelazioni degli accusati che, speranzosi di aver salva la vita grazie alla loro collaborazione, finivano per accrescere a dismisura il numero dei complici, con ogni probabilità finendo spesso per sottoporre all’inchiesta anche individui del tutto ignari e privi di colpe 71. Il risultato, dice Ammiano, era che le carceri pubbliche traboccavano di detenuti e neppure le dimore private erano sufficienti come luoghi ove confinare i sospettati 72. Di alcuni di questi processi Ammiano sembra essere stato in qualche modo testimone, e ne riferisce non senza un certo qual senso di orrore; l’Imperatore Valente si comportava in modo spietato, senza distinguere colpevoli e innocenti e taluni si scoprivano condannati ancor prima di sapere di essere indiziati (damnatos se quidam prius discerent quam suspectos) 73. Quanto al processo, esso si svolgeva con largo uso di interrogatori sotto tortura, cui erano sottoposti anche soggetti coinvolti da denunzie che non erano in alcun modo assimilabili ad accuse formalmente costituite 74. Gli stessi giudici conducevano l’inchiesta cercando di ottenere con ogni mezzo da ogni imputato le maggiori informazioni possibili. Il che, naturalmente, portava ad esiti paradossali, come nel caso di Pergamio, che cercando di salvarsi si mise a fare i nomi di migliaia di complici, tanto che – dice Ammiano – poco mancava che chiedesse che alcuni fossero fatti venire dal lontano Atlante (multa hominum milia quasi consciorum sine fine strependo fundebat, modo non ab extremo Atlante magnorum criminum arguendos poscens aliquos exhiberi) 75. Non ebbe fortuna: ritenuto mendace, fu messo a morte. L’intero processo si svolgeva secondo le volontà dell’imperatore, in totale assenza di dibattimento, e piuttosto come sequenza di interrogatori condotti sotto tortura dai giudici 76; i 70

Amm. Hist. 28.4.25.

71

Amm. Hist. 29.1.5-14.

72

Amm. Hist. 29.1.13.

73

Amm. Hist. 29.1.18: «si scoprivano condannati prima ancora che sospetti».

74

Amm. Hist. 29.1.23 ss.

75

Amm. Hist. 29.1.25: «pronunciava i nomi di migliaia di uomini come complici, strepitando senza sosta, e quasi richiedeva che fossero condotti in giudizio per essere esaminati alcuni individui dal lontano Atlante, come imputati di gravi delitti». 76

Amm. Hist. 29.1.33 ss.

La dinastia di Valentiniano

139

processi si risolvevano in masse di condannati, prima torturati e percossi, poi indirizzati – quasi fossero un gregge – al macello 77. Alle accuse di lesa maestà, si frammischiavano quelle di aver fatto ricorso ad arti magiche, tanto che si preferiva dare alle fiamme i propri libri, piuttosto che correre il rischio che, frammisti ad essi, venissero ritrovati documenti compromettenti, che spesso gli incaricati delle perquisizioni lasciavano nascostamente nelle case dei sospettati 78. Non diverso il racconto di Zosimo: Kaˆ oƒ me\n sukof£ntai d…ca pantÕv ¢necèroun kindÚnou, kathgore‹n ¢nagkazÒmenoi mÒnon, oƒ de\ krinÒmenoi nàn me\ n ™timînto qan£tou d…ca nom…mwn ™lšgcwn, o‰ de\ t¦v oÙs…av ¢pèluon, pa‹dav kaˆ guna‹kav kaˆ t¾n ¥llhn suggšneian ™sc£tV tÚcV katalipÒntev 79.

Peraltro, in Oriente ebbe modo di far conoscere la propria durezza di giudice un sodale di Massimino, Festino di Trento, che era stato nominato proconsole d’Asia. Costui adottò in Oriente le medesime pratiche che furono già di Massimino, comprimendo in ogni modo la difesa e procedendo a condanne severissime sulla base di meri indizi 80. In tutto ciò, osserva amaramente Ammiano, i giuristi (iuris professi scientiam), a causa dell’incoerenza e della discordanza delle stesse leggi tacevano come imbavagliati (velut vinculis ori impositis reticentes) e simili, nel loro prolungato silenzio, alle proprie ombre 81. Ancora una volta, conviene ripetere come occorra essere cauti nell’interpretare le notizie fornite da Ammiano, il quale nutriva, com’è evidente, propri e severi giudizi sia sulla persona dei regnanti che sulla loro politica giudiziaria. Ammiano giudica il suo come un tempo di corruzione e di perversione dei principi della giustizia e del diritto, cui fa eccezione il solo regno di Giuliano. Ciò non toglie che non vi sono particolari motivi di dubitare degli innumerevoli resoconti di procedimenti penali contenuti in quel che è rimasto delle Storie: essi chiariscono in modo incontrovertibile, credo, come procedure assai spicce e di carattere schiettamente inquisitorio fossero divenute ormai la regola là dove anche solo indirettamente era in questione la sicurezza dell’Impero e della persona dell’imperatore. 77

Amm. Hist. 29.1.40.

78

Amm. Hist. 29.2.4.

79

Zosim. Hist. 4.14.4: «i delatori si aggiravano senza rischio alcuno, il loro compito era unicamente di accusare; gli imputati erano messi a morte senza accuse presentate in modo legittimo, oppure erano privati delle loro sostanze e lasciavano mogli, figli, parenti, in condizioni di povertà estrema». 80

Amm. Hist. 29.3.22 ss.

81

Amm. Hist. 30.4.11.

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Se si somma il resoconto di Ammiano a quanto visto più sopra circa la produzione normativa dell’epoca, sembra emergerne un quadro nel quale del cosiddetto rito accusatorio non restano che aspetti meramente terminologici, mentre nella sostanza ampio spazio è lasciato all’attività inquirente dei giudici, con l’unico vincolo, spesso ricordato, di assicurarsi della eventuale punibilità degli accusatori calunniosi o temerari. Un vincolo che pare comunque ridurre la propria presa man mano che i reati oggetto di indagine si avvicinano minacciosamente al soglio imperiale, a difesa del quale anche delazioni anonime sembrano bene accette a giudici desiderosi di dimostrare il proprio zelo repressivo.

CAPITOLO 6 VERSO LA FINE DEL IV SECOLO SOMMARIO: 1. Dalla morte di Valentiniano I all’ascesa di Teodosio il Grande (375-379). – 1.1. L’accusa nei processi per crimen maiestatis. – 1.2. L’accusa nell’incidente di falso. – 1.3. Il giudice dominus del processo. – 2. La legislazione di Teodosio (379-395). – 2.1. La detenzione preventiva. – 2.2. Par condicio fra accusatore e accusato? – 2.3. Carattere personale dell’accusa. – 2.4. «Garanzie» per l’imputato attraverso la decadenza e la criminalizzazione dell’accusa privata. – 2.5. L’accusa-denuncia dei privati al servizio della repressione penale. – 2.6. Accusa privata e indagini d’ufficio nella repressione dell’eresia. – 3. Testimonianze da fonti non legislative.

1. DALLA MORTE DI VALENTINIANO I ALL’ASCESA DI TEODOSIO IL GRANDE (375-379) Valentiniano I terminò la propria esistenza nel 375 in Pannonia. Fu allora acclamato augusto dalle truppe Valentiniano II, fratellastro di Graziano. Lo stesso Graziano era stato proclamato augusto da Valentiniano I già dal 367 e si trovò così signore dell’Occidente, con l’esclusione delle provincie illiriche affidate a Valentiniano II. Fino alla morte di Valente, dunque, avvenuta nella famosa battaglia di Adrianopoli del 379, si ebbero nuovamente tre augusti, di cui uno in realtà sottoposto alla tutela della madre Giustina. Nel breve torno di questi anni, non poco turbolenti per la vita dell’Impero sotto il profilo politico e militare, si segnalano alcune costituzioni imperiali di un certo rilievo per il nostro argomento.

1.1. L’accusa nei processi per crimen maiestatis Una disposizione del 376, indirizzata da Graziano al Prefetto al Pretorio Massimino interviene ancora una volta in tema di crimen maiestatis 1:

1 Cfr. SEECK (1919), p. 246; Gothofr. comm. ad h.l. L’inscriptio riporta come destinatario Massimo, ma come vide anche Mommsen si tratta con ogni probabilità di Massimino.

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Imppp. Valens, Gratianus et Valentinianus AAA. ad Maximum PP. Cum accusatores servi dominis intonent, nemo iudiciorum exspectet eventum, nihil quaeri, nihil discuti placet, sed cum ipsis delationum libellis, cum omni scripturarum et meditati criminis apparatu nefandarum accusationum crementur auctores, excepto tamen appetitae maiestatis crimine, in quo etiam servis honesta proditio est: nam et hoc facinus tendit in dominos. DAT. ID. MART. VALENTE V ET VALENTINIANO AA. CONSS. 2.

È ribadito qui il principio del «doppio binario» in materia di lesa maestà, in perfetta continuità con quanto si è visto in precedenza: l’accusa mossa dai servi avverso i propri padroni è, secondo un indirizzo consolidato, inaccettabile, tanto che la costituzione dispone il rogo dei servi stessi e di tutti i libelli e delle scritture relative all’accusa. Ma a tale principio si applica un’eccezione per il crimen maiestatis, poiché in questo caso la proditio del servo è da considerarsi honesta 3. Allo stesso filone può essere ascritta un’altra costituzione, del medesimo anno, data a Treviri da Graziano 4: Imppp. Valens, Gratianus et Valentinianus AAA. ad Antonium PP. Galliarum. Decuriones sive ob alienum sive ob suum debitum exortes omnino earum volumus esse poenarum, quas fidiculae et tormenta constituunt. Quod quidem capitale iudici erit, si in contumeliam ordinis exitiumque temptetur. Maiestatis tantummodo reos et quae nefanda dictu sunt conscios aut molientes ex ordine municipali maneat tam cruenta condicio. Debitores vero et quos allectos aut susceptores memorant a summo usque ad infimum ordinem curiales exortes talium volumus esse poenarum. Habet severitas multa, quae sumat ad sanciendam publici officii disciplinam, ut abstineat tam cruentis 5.

2

CTh. 9.6.2: «gli Imperatori Valente, Graziano e Valentiniano Augusti a Massimo Prefetto al Pretorio. Qualora dei servi accusino i loro padroni, che nessuno attenda la conclusione del giudizio, non si indaghi, non si discuta la questione, ma insieme ai libelli della loro delazione, con ogni strumento del premeditato crimine e della inaccettabile accusa, che costoro siano arsi vivi, con l’eccezione del crimine di lesa maestà, per il quale anche la denunzia dei servi è da ritenersi onesta. Infatti, questo crimine può essere opposto ai loro padroni». Interpretatio. Servus dominum accusans non solum audiendus non est, verum etiam puniendus, nisi forte dominum de crimine maiestatis tractasse probaverit. «Il servo che accusi il padrone non solo non deve essere udito, ma punito, a meno che non dimostri di aver voluto accusare il padrone di lesa maestà». 3

Sul punto, cfr. RIVIÈRE (2002), p. 323 ss.; SOLIDORO (2002), p. 35.

4

SEECK (1919), p. 248.

5

CTh. 9.35.2. pr.: «gli Imperatori Valente, Graziano e Valentiniano Augusti a Antonio, Prefetto al Pretorio delle Gallie. Vogliamo che i decurioni siano esenti da tortura, sia che si tratti di debiti loro propri che altrui. Anzi, sarà passibile di pena capitale ogni atto tentato in spregio e vanificazione di questo ordine. In ogni caso, una condizione tanto cruenta permane per gli appartenenti all’ordine municipale quando siano imputati di lesa maestà o se siano imputati o complici di pratiche indicibili. Vogliamo che i debitori e gli esattori, appartenenti all’ordine dei decurioni – siano essi del più alto o di infimo grado siano immuni da tali pene. La severità ha molti strumenti

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La disposizione riguarda le immunità riservate ai decurioni, i quali sono sempre sottratti a tortura (fidiculae et tormenta), con la sola eccezione di due categorie di rei: i sospetti di crimen maiestatis e coloro che nefanda dictu sunt conscios aut molientes, ossia coloro che si siano resi responsabili di aver diffuso maldicenze contro l’imperatore o – secondo un’altra possibile interpretazione – siano sospetti di crimen magiae 6. Si conferma così che per i crimini che coinvolgono direttamente lo Stato e i suoi vertici supremi vigono regole speciali, dirette ad assicurare il massimo di controllo e di attività repressiva. In casi di questo genere non si può tralasciare alcuna utile fonte di informazione, incluse quelle riprovate e punite quando si tratti di crimini meno gravi.

1.2. L’accusa nell’incidente di falso Sempre allo stesso anno risale un’altra costituzione ascrivibile a Graziano 7, che per la sua importanza merita di essere esaminata nel dettaglio: Imppp. Valens, Gratianus et Valentinianus AAA. ad Maximinum PP. Damus copiam iurgantibus, si apud iudicem proferatur scriptura, de qua oritur aliqua disputatio, spatium ut habeat, qui perurgeat, profitendi, utrum de falso criminaliter, an de scripturae fide statuat civiliter experiri. Quod si expetens vindictam falsi crimen intenderit, erit in arbitrio iudicantis, an eum sinat etiam sine inscriptione certare. Iudicis enim potestati committi oportet, ut de eo, qui obiecta non probaverit, sumat propositum antiquo iure supplicium. Rationi quoque huius modi plenissime suffragatur antiquitas, quae nequissimos homines et argui voluit et coerceri legibus variis, cornelia de veneficiis, sicariis, parricidiis, iulia de adulteris ambitusve criminibus, ceterisve ita promulgatis, ut possit etiam sine inscriptione cognosci, poena tamen accusatorem etiam sine solennibus occuparet. De qua re et Divus Antoninus rescripsisse docetur, id in iudicis potestate constituens, quod nosmet in legibus iusseramus. Removebitur itaque istius lenitate rescripti praecepti superioris austeritas, ut, si quis deinceps tabulas testamenti, chirographa testationesque, nec non etiam rationes privatas vel publicas, pacta et epistolas vel ultimas voluntates, donationes, venditiones vel si quid prolatum aliud insimulare conabitur, habeat, praetermissis solennibus, accusandi facultatem, pro iudicis motu sententiam relaturus. Civiles autem inquisitiones inter utrasque confligentium partes aequali motu ingruit et recurrit humanitas, quum is, qui praeerit quaestioni, intentiones falsas aut conficta crimina ex legibus poenis competentibus possit ulcisci. PROPOSITA ROMAE XVI KAL. MAI. VALENTE V ET VALENTINIANO AA. CONSS. 8.

per consolidare la disciplina di un pubblico ufficio, così da potersi astenere da mezzi così cruenti». Cfr. C.I. 9.41.16. Cfr. ROBINSON (2007), p. 139 ss. 6

Cfr. Gothofr. comm. ad h.l.; LOTZ (2005), p. 152.

7

Cfr. Gothofr. comm. ad h.l.; SEECK (1919), p. 246.

8

CTh. 9.19.4: «gli Imperatori Valente, Graziano e Valentiniano Augusti a Massimino Prefetto

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Già in precedenza si è avuto modo di discutere una costituzione di Costantino relativa a cause incidentali di falso, materia ora novellata dalla disposizione di Graziano. Il legislatore dispone che qualora sorga controversia fra i litiganti sull’autenticità della documentazione prodotta in giudizio, a colui che muove l’accusa di falso spetti di decidere se l’accertamento dei fatti debba toccare alla sede civile o a quella criminale. Nel caso in cui egli decida di intentare una vera e propria accusa di crimen falsi, il giudice potrà consentire di agire anche in difetto di inscriptio 9. Ciò, tuttavia, non escluderà l’eventuale punibilità dell’accusator,

al Pretorio. Diamo licenza ai litiganti, nel caso in cui sia presentato al giudice un documento, circa l’autenticità del quale dovesse sorgere una qualche controversia, affinché colui che solleva la questione abbia facoltà di decidere se l’attendibilità del documento debba essere decisa in sede criminale, per il reato di falso oppure in sede civile. Ma se costui, determinato a ottenere vendetta, avanzerà l’accusa criminale di falso, sarà rimesso al giudice di decidere se consentirgli di stare in giudizio senza inscriptio. È bene infatti attribuire alla potestà del giudice di applicare la pena stabilita dall’antico diritto contro colui che non ha dimostrato le proprie accuse. L’antichità conferma pienamente questo modo di procedere, poiché si vollero processare e reprimere individui malvagi con varie leggi, come la Cornelia sugli avvelenatori e sui sicari, sui parricidi, la Giulia sui crimini di adulterio e di broglio e tutte le altre leggi promulgate in modo da poter dar luogo al processo anche senza inscriptio, ma ciò non di meno potendo colpire l’accusatore con una pena anche in difetto di formalità. Sulla questione risulta aver composto un rescritto anche il divo Antonino, stabilendo che fosse in potere dei giudici ciò che noi abbiamo disposto per legge. Pertanto, che l’austerità dei precedenti precetti sia rimossa dalla moderazione del rescritto, sicché se qualcuno vorrà in futuro contestare l’autenticità di tavole testamentarie, chirografi e attestazioni, titoli pubblici e privati, patti, lettere, ultime volontà, donazioni, vendite o qualsiasi altro documento sia stato prodotto in tribunale, abbia facoltà di accusare tralasciando le consuete formalità e ottenga una sentenza conforme agli atti del giudice. Nelle controversie civili l’umanità del giudice incombe in modo ricorrente e con egual moto su entrambe le parti in lite, in modo che colui che conduce il processo possa punire con le opportune pene ai sensi di legge tanto false accuse che provati crimini». Cfr. C.I. 9.22.23. Interpretatio. De falso potest et criminaliter et civiliter agi. Civiliter, quum aliquis quibuslibet scripturis non falsi crimen obiecerit, sed veritatem scripturae se velle quaerere dicit. Nam si ad iudicem venerit accusator, et falsi crimen intenderit, iudex tribuat accusatori spatium, ut deliberet, utrum criminaliter agere an civiliter velit. Qui si reversus ad iudicem in obiecto falsitatis crimine perseveraverit, in potestate iudicis erit, utrum inscriptionem celebrari velit, an obiectum crimen sine inscriptione discutere. Quod quum iudex de obiectione falsitatis audierit, seu inscriptione habita seu omissa, aut in accusatum, si falsitas approbatur, aut in accusatorem, si falso obiecerit, proferatur, ex lege sententia. «È possibile agire per falso sia per via civile che criminale. Civilmente, quando una persona in riferimento a date scritture non avanza accusa per crimine di falso, ma afferma di voler accertare la veridicità di quanto scritto. Infatti, se al giudice si presenterà un accusatore e accuserà di falso, il giudice gli dia modo di decidere se vuole agire per via civile o criminale. E se costui nuovamente insisterà, ritornato dal giudice, per accusare del crimine di falso, allora sarà in potere del giudice stabilire se vorrà che si dia luogo ad inscriptio o se vorrà che si discuta dell’accusa criminale in difetto di tale formalità. Pertanto, quando il giudice avrà completato il processo per falso, che vi sia stata o meno inscriptio, pronunci sentenza secondo la legge o contro l’accusato, se è risultato che ha commesso il falso, o contro l’accusatore se ha avanzato false accuse». 9

Su inscriptio e subscriptio cfr. supra, p. 59, n. 20.

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in conformità, dice il testo, con una lunga serie di antiche disposizioni 10. Dalla costituzione in esame alcuni studiosi hanno ricavato la convinzione che la mancanza dei sollemnia non valesse ad evitare l’eventuale condanna all’accusatore temerario, sicché – si dice – «sembra da escludere che il privato potesse avanzare una denuncia criminale senza assumere la posizione di parte processuale, con gli oneri e i rischi ad essa conseguenti» 11. La costituzione di Graziano proverebbe dunque la generalizzazione di una procedura accusatoria, così radicata da escludere la possibilità di mere denunzie di reato, giacché queste avrebbero avuto lo stesso valore di un’accusa formale, ed avrebbero comportato l’obbligo di costituirsi in processo come parte, subendo la pena del taglione in caso di sentenza sfavorevole. Fermi restando i dubbi già esposti più sopra a proposito del nesso tra i sollemnia e l’attribuzione del ruolo di parte processuale all’accusator, questa interpretazione non mi pare comunque convincente né aderente al testo della costituzione: anzi, a ben vedere, essa sembra fondata più sul testo dell’interpretatio visigotica che su quello della disposizione originale. Infatti, il legislatore dispone che qualora si opti per la sede penale, sarà a discrezione del giudice (erit in arbitrio iudicantis) consentire o meno a colui che denuncia il fatto di procedere senza inscriptio. L’inscriptio comportava, con ogni evidenza, la punibilità dell’accusatore, nel caso in cui le accuse si fossero rivelate calunniose o temerarie 12. Tuttavia, dice il testo, anche in difetto dei sollemnia, poena accusatorem occuparet: anche l’accusatore che non si sia costituito come tale, non sfuggirà per questo alle pene previste per l’accusa temeraria. Comunque, la scelta se procedere o meno alla punizione, sembra essere interamente nelle mani del giudice: ed è questo, credo, il punto per noi centrale. Il testo afferma infatti: iudicis enim potestati committi oportet, ut de eo, qui obiecta non probaverit, sumat propositum antiquo iure supplicium. Ora, si è già visto più sopra 13 come vi siano ragioni per dubitare di un semplice automatismo fra compimento dei sollemnia, mancata condanna dell’imputato e condanna dell’accusatore: è probabile che al giudice spettasse sempre un certo margine di apprezzamento, per consentirgli di distinguere l’accusa calunniosa o palesemente temeraria, dall’accusa in qualche modo giustificata, benché non pienamente provata.

10 I riferimenti contenuti nel testo di Graziano non paiono in realtà esatti. Cfr. Gothofr. comm. ad h.l.; ZANON (1998), pp. 59-60. Sulla disposizione di Graziano si vedano, fra gli altri, ARCHI (1947), p. 16 ss.; DE MARINI (1956), p. 139 ss. 11

Così ZANON (1998), p. 62.

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ARCHI (1947), p. 41.

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Supra, p. 74 ss.

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È indubbio che il compimento dei sollemnia esponeva di per sé chi avanzava un’accusa a un certo rischio. Del resto era proprio questo l’intento dei legislatori succedutisi a partire da Costantino: porre un freno alle accuse temerarie e non solo a quelle calunniose, rendendo la presentazione di accuse in sé e per sé pericolosa. Nel lasciare alla decisione del giudice se vincolare o meno l’accusatore ai sollemnia, Graziano sembra voler ampliare ulteriormente la discrezionalità del giudice: spetterà a questi decidere di volta in volta valutando le circostanze del caso, se agevolare o meno chi avanza l’accusa. Fermo restando il principio, chiaramente ribadito nel testo, che se dovesse poi emergere l’evidente temerità dell’accusa, per non parlare della sua natura calunniosa, il giudice infliggerà la pena, anche in difetto di inscriptio. Godefroy, nel suo commento, attribuisce a Graziano l’intento di rimediare all’eccessiva rigidità di taluni giudici, troppo inclini a pretendere il compimento dei sollemnia e a irrogare pene nel caso che l’accusa si fosse rivelata indimostrata 14: giudici, insomma, troppo propensi ad automatismi fondati su interpretazioni formalistiche del dettato normativo di origine costantiniana e poco disposti all’esercizio di quella discrezionalità che pur sarebbe loro spettata.

1.3. Il giudice dominus del processo Non è possibile ricostruire oggi l’esatta portata della costituzione di Graziano: essa è per più versi oscura, anche per il riferimento a un rescritto di Antonino a noi non pervenuto. Tuttavia, l’affermazione del principio di portata generale secondo cui, per usare le parole di Godefroy, poena ex legibus et potestate iudicis descendere potius debet, quam ex subscriptione 15, contrasta con le tesi di chi ritiene che ogni accusa, comunque presentata, si traducesse nell’assunzione di un vero proprio ruolo processuale. Recependo un indirizzo di politica giudiziaria che lo stesso legislatore definisce come non nuovo 16, Graziano demanda al giudice di valutare caso per caso se e quanta libertà concedere all’accusatore, e in ogni caso di decidere della sua punibilità. La costituzione concerne il crimen falsi, ma è lecito supporre che un simile indirizzo potesse essere esteso anche al di là di questo reato: non a caso, il

14

Gothofr. comm. ad h.l.

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Gothofr. comm. ad h.l.: «la pena deve derivare dalle leggi e dal potere del giudice, piuttosto che dalla subscriptio». 16

In tal senso sembrano doversi leggere i riferimenti alle antiche leges e al più recente rescritto del divo Antonino. Godefroy (comm. ad h.l.) parla in proposito di nova ratione sed ad ius vetus accomodata («nuovo criterio, ma acconciato a mò di diritto antico»).

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testo cita le antiche leges de veneficiis, sicariis, parricidiis, de adulteriis, de ambitu, e così via (ceterisve), lasciando intendere un più ampio campo di applicazione del principio della discrezionalità del giudice in materia di inscriptio e poena reciproci. In tal senso, la costituzione di Graziano può essere considerata come una conferma di quanto detto finora: l’accusatore, in quest’epoca, è sostanzialmente un denunciante che, nel caso di specie, agisce per un interesse personale alla repressione del reato. Il vincolo dell’inscriptio non mira a fare di lui una parte processuale, giacché egli si muove in un processo che non è di parti, ma è interamente nelle mani del giudice; l’inscriptio serve piuttosto a scoraggiare calunniosità e temerità. Comunque, non ogni accusa o denunzia dà luogo necessariamente a inscriptio: il giudice potrà infatti, se lo riterrà opportuno, non richiedere tale atto formale, riservandosi comunque di punire il falso accusatore qualora le circostanze lo consiglino. Graziano rende così esplicito un principio che si è già visto latente in tante costituzioni dei suoi predecessori: è il giudice il vero dominus del processo, e le «parti» sono a lui sottomesse.

2. LA LEGISLAZIONE DI TEODOSIO (379-395) La costituzione di Graziano appena esaminata sembra indicare l’intento di favorire l’esercizio dell’accusa da parte dei privati, rendendo meno rigidi i vincoli gravanti sull’accusatore e attribuendo alla discrezione del giudice di valutare caso per caso se esporre costui ai rischi dell’esito negativo dell’accusa. D’altra parte, altre costituzioni viste più sopra illustrano bene le gravi conseguenze alle quali erano esposti gli accusati: percosse, catene, carcerazione e tortura. Ciò contribuisce a spiegare l’aspetto per certi versi ondivago che caratterizza la legislazione tardo-antica in materia: a disposizioni che sembrano voler favorire la presentazione di accuse o denunzie da parte di privati, se ne accostano altre, dirette a frenare i possibili abusi ai danni degli accusati. Abusi che almeno in parte sono riconducibili all’orientamento inquisitorio e duramente repressivo degli uffici giudiziari. A questo secondo orientamento sembra ascrivibile la legislazione di Teodosio il Grande.

2.1. La detenzione preventiva Conviene iniziare da una costituzione di Teodosio Magno risalente al 380. In CTh. 9.2.3 si legge:

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Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Eutropio PP. Nullus in carcerem, priusquam convincatur, omnino vinciatur. Ex longinquo si quis est acciendus, non prius insimulanti adcommodetur adsensus quam sollemni lege se vinxerit et in poenam reciproci stilo trepidante recaverit. Eique qui deducendus erit ad disponendas res suas componendosque maestos penates spatium coram loci iudice aut etiam magistratibus dierum XXX tribuatur, nulla remanente aput eum qui ad exhibendum missus est copia nundinandi. Qui posteaquam ad iudicem venerit, adhibita advocatione ius debebit explorare quaesitum ac tamdiu pari cum accusatore fortuna retineri, donec reppererit cognitio celebrata discrimen. DAT. III KAL. IAN. CONSTANTINOPOLI GRATIANO V ET THEODOSIO I AA. CONSS. 17.

Il testo qui trascritto faceva in origine parte di una più ampia costituzione teodosiana in materia di carceri, di cui ci è pervenuto un ulteriore frammento in altro luogo del Teodosiano: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Eutropio PP. De his quos tenet carcer id aperta definitione sancimus, ut aut convictum velox poena subducat aut liberandum custodia diuturna non maceret. Temperari autem ab innoxiis austera praeceptione sancimus et praedandi omnem segetem de neglegentia iudicum provinciarum ministris feralibus amputamus. Nam nisi intra tricesimum diem semper commentariensis ingesserit numerum personarum, varietatem delictorum, clausorum ordinem aetatemque vinctorum, officium viginti auri libras aerario nostro iubemus inferre, iudicem desidem ac resupina cervice tantum titulum gerentem extorrem impetrata fortuna decem auri libris multandum esse censemus. DAT. III KAL. IAN. CONSTANTINOPOLI GRATIANO V ET THEODOSIO I AA. CONSS. 18.

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«Gli Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio Augusti a Eutropio Prefetto al Pretorio. Nessuno mai, prima della condanna, sia incatenato in carcere. Se qualcuno deve esser fatto venire da lontano, non si dia l’assenso alla richiesta dell’accusatore prima che egli, con mano tremante, si sia vincolato secondo la legge dando garanzia di esporsi alla pena del reciproco. A colui che deve essere condotto in giudizio sia dato il tempo di trenta giorni, in presenza del giudice del luogo o del magistrato, per sistemare le proprie cose e comporre i propri tristi penati, e non sia dato assolutamente modo a colui che è stato inviato per tradurlo di mercanteggiare sul punto. Costui, dopo che sarà giunto presso il giudice, con l’ausilio di un avvocato dovrà accertare quale legge è stata invocata contro di lui e finché il processo non è giunto a conclusione, sarà detenuto nelle medesime condizioni dell’accusatore». Cfr. C.I. 9.3.2. SEECK (1919), p. 253; BIONDI (1954), p. 512. 18 CTh. 9.3.6 (cfr. C.I. 9.4.5): «Gli Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio Augusti a Eutropio Prefetto al Pretorio. Stabiliamo con inequivocabile precetto circa coloro che sono detenuti in carcere che essi o condannati subiscano rapida pena, o – se devono essere liberati – non si macerino in prolungata custodia. Con severo precetto stabiliamo anche che ci si comporti con moderazione nei confronti degli innocenti e amputiamo dai guardiani delle carceri ogni raccolta di beni derivante da spoliazioni, per via della negligenza dei giudici delle provincie. Infatti, se il commentariense non renderà sempre noto, ogni trenta giorni, il numero dei detenuti, le loro imputazioni, la classe e l’età dei soggetti rinchiusi, ordiniamo che l’ufficio sia multato per venti libbre d’oro a favore del nostro erario. Il giudice pigro, e che porta con arroganza tanto titolo, ordiniamo

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Come si vede, Teodosio intende porre fine agli abusi connessi alla detenzione cautelare: il giudizio deve svolgersi celermente, in modo che i detenuti siano o assolti e subito liberati, oppure, se condannati, sottoposti alla pena stabilita. Dovranno cessare i riprovevoli comportamenti dei carcerieri, dediti a depredare i detenuti, così come la negligenza dei giudici. Gli ufficiali responsabili delle carceri dovranno inviare ogni trenta giorni un rapporto dettagliato circa i detenuti e i delitti dei quali sono sospettati, proprio al fine di assicurare che costoro siano sottoposti a processo. In caso di violazione di tale precetto, all’ufficio responsabile sarà inflitta una multa, e così pure al giudice competente, che sarà anche colpito dalla gravissima pena dell’esilio. L’intento di Teodosio era, con ogni evidenza, di evitare che la detenzione cautelare si trasformasse in una poena sine iudicio. In questo quadro vanno lette le ulteriori disposizioni contenute in CTh. 9.2.3, con la quale si vieta di porre in ceppi i detenuti prima della loro condanna 19 e si regolamenta la traduzione dei rei da sedi lontane da quella del processo: a costoro è concesso un lasso di tempo di trenta giorni per provvedere alle proprie cose, e soprattutto si dispone che la traduzione non possa avvenire in difetto del compimento, da parte dell’accusatore, di quei sollemnia che lo espongono al rischio della poena reciproci. L’accusatore dovrà esser ben conscio dei rischi ai quali egli si espone, ed infatti firmerà stilo trepidante, come dice efficacemente il testo.

2.2. Par condicio fra accusatore e accusato? Proprio per consentire l’eventuale punizione dell’accusatore mendace, sia l’accusato – al quale dovrà essere fornito un avvocato – sia l’accusatore saranno «trattenuti» fino alla conclusione del processo. La costituzione sembra quindi adombrare una sorta di par condicio fra accusatore e accusato, tanto da disporre la custodia o la sorveglianza di entrambi fino al termine del processo (... pari cum accusatore fortuna retineri, donec reppererit cognitio celebrata discrimen). Da questo punto di vista, CTh. 9.2.3 anticipa una costituzione del 409, di Teodosio II e Onorio, che ordina la custodia dell’accusatore al pari dell’accusato 20. che sia multato di dieci libbre d’oro ed esiliato, pur mantenendo le sue fortune». Cfr. ROBINSON (2007), p. 113 ss. 19

Tale è con ogni probabilità l’interpretazione corretta della frase nullus in carcerem, priusquam convincatur, omnino vinciatur. Godefroy, comm. ad h.l. ed altri interpreti sembrano invece inclinare verso un’assai meno convincente divieto assoluto di far ricorso alla detenzione cautelare. Su tutto ciò si veda LOVATO (1994), p. 197 ss. 20 CTh. 9.1.19 pr.: Accusationis ordinem iam dudum legibus institutum servari iubemus, ut, quicumque in discrimen capitis arcessitur, non statim reus, qui accusari potuit, aestimetur, ne subiectam

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Ora, tale par condicio potrebbe indurre a sovrapporre indebitamente istituti diversi fra loro: la parità delle parti nel rito accusatorio e la sottoposizione di accusatore e accusato ad analogo trattamento detentivo. Quest’ultimo non mira certo ad assicurare parità fra le «parti»: come ha egregiamente commentato Rivière, si tratta di un provvedimento che mira ad assicurare lo svolgimento di un’inchiesta completa ed accurata da parte del giudice: l’accusator «n’est plus le maître de la conduite du procès, il est à la disposition du juge, presqu’au même titre que d’autres moyen de preuves» 21. Nell’interpretazione di Rivière, la presentazione di una denunzia da parte di un privato avrebbe causato una sorta di «disordine» del sistema, attivando meccanismi di repressione penale che non si sarebbero arrestati se non con la condanna di qualcuno, fosse esso l’accusato o l’accusatore stesso 22. Come già detto 23, non credo alla tesi dell’automatismo, secondo la quale si sarebbe sempre giunti all’immediata condanna dell’accusatore in caso di assoluzione del reo; ciò premesso, mi pare comunque condivisibile l’opinione dello studioso francese, secondo la quale i provvedimenti repressivi della calunnia e delle false accuse non indicano, per quest’epoca, il persistere di strutture accusatorie, ma sono piuttosto il segno di un sistema sostanzialmente orientato in senso inquisitorio. Un sistema rispetto al quale sembra talvolta perdere di senso persino l’uso del termine «parti», considerata la piena subordinazione di queste al cognitor, vero sovrano della vicenda processuale. Naturale che, in questo contesto, fosse ancor più opportuno porre un freno alle accuse calunniose e temerarie, non da ultimo per evitare inutili sofferenze di innocenti. Non stupisce, dunque, che all’epoca di Teodosio risalgano numerose disposizioni miranti a regolare la materia delle accuse sporte da privati. Al 382 risale una costituzione, data a Costantinopoli, relativa alla desistenza dell’accusatore: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Floro PP. Fallaciter incusantibus, maxime post exhibitionem accusati, nullius iuris color velut derivata excusatione innocentiam faciamus. Sed quisquis ille est, qui crimen intendit, in iudicium veniat, nomen rei indicet et vinculum inscriptionis arripiat, custodiae similitudinem, habita tamen dignitatis aestimatione, patiatur, nec impunitam fore noverit licentiam mentiendi, quum calumniantes ad vindictam poscat similitudo supplicii. «Ordiniamo che si continui ad osservare il modo di accusare già da tempo stabilito dalle leggi; sicché, chiunque è chiamato a un giudizio capitale, non sia subito considerato quale imputato che può essere accusato, in modo che l’innocenza non sia data in balia di altri. Ma chiunque sia colui che accusa, venga in giudizio, indichi il nome dell’imputat, si sottoponga al vincolo dell’inscriptio e sia sottoposto ad analoga custodia, non senza riguardo per il suo rango. E sappia che la menzogna non resterà impunita, poiché un analogo supplizio attende i calunniatori». 21

RIVIÈRE (2002), p. 366.

22

RIVIÈRE (2002), p. 366 ss.

23

Supra, p. 74 ss.

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proficiat; non publica abolitio, non privata talibus prospiciat subveniatque personis, non specialis indulgentia, ne beneficium quidem eos generale subducat. Sciant cuncti praemeditentur, ante praecaveant, eam se rem deferre debere in publicam notionem, quae munita sit testibus, instructa documentis, signis ad probationem luce clarioribus expedita. DAT. XV KAL. IUN. CONSTANTINOPOLI ANTONIO ET SYAGRIO CONSS. 24.

Il tono del legislatore è particolarmente severo: agli accusatori mendaci, in particolare una volta che il reo sia stato exhibitus, con le sofferenze che ciò avrebbe per lui comportato, a cominciare dal carcere, non può essere in alcun modo concessa abolitio. Nessun accusatore temerario dovrà quindi sfuggire al rischio della pena del taglione e chiunque, prima di avanzare un’accusa, dovrà riflettere bene se dispone di argomenti sufficienti per sostenerla: testimoni, documenti, o almeno seri indizi. Teodosio intendeva, con ogni evidenza, ribadire il principio della responsabilità dei privati per le accuse da loro avanzate, ma il riferimento alla necessità che l’accusa fosse ben munita, come già vide Giuliani oltre centocinquant’anni fa, «era diretto a frenare l’audacia degli accusatori e non a fornire un criterio di verità ai giudici» 25. Al 383 è datata un’altra costituzione di Teodosio relativa al crimen calumniae: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Hellebico Comiti et Magistro utriusque militiae. Non est ratio, qua manifesti calumniatoris supplicium differatur. Nec enim patimur frequenter iterari, quae consistere prima actione non quiverint, atque alienam innocentiam securitatemque sine crimine, damnabili appetitione terreri. DAT. III KAL. IAN. CONSTANTINOPOLI MEROBAUDE II ET SATURNINO CONSS. 26.

Con essa, Teodosio ordina l’indifferibilità della pena a carico di coloro che siano stati ritenuti manifesti calunniatori: a costoro non dovrà essere consentito

24 CTh. 9.37.3: «Gli Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio Augusti a Floro Prefetto al Pretorio. Nessun cavillo giuridico o scusa da esso derivata soccorra coloro che accusano falsamente, soprattutto dopo che l’accusato è stato prodotto in tribunale. Nessuna desistenza pubblica o privata soccorra o protegga tali persone, nessuna speciale indulgenza in modo che anche una amnistia concessa a tutti non possa sottrarli alla pena. Sappiano tutti, ci pensino bene e si preoccupino prima, poiché essi debbono portare a pubblico processo solo questioni munite di testimoni, corredate di documenti, e pronte alla prova grazie a indizi più chiari della luce». Cfr. C.I. 4.19.25; 9.46.9. SEECK (1919), p. 259. 25 26

GIULIANI (1840), t. 1, p. 34.

CTh. 9.39.1: «Gli Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio Augusti a Ellebico, Comes e Comandante di entrambe le milizie. Non vi è ragione di differire la pena di un manifesto calunniatore. Né tolleriamo che siano continuamente rinnovate accuse che non hanno retto in prima istanza né che l’innocenza e la sicurezza altrui siano terrorizzate, in assenza di un crimine, da tali riprovevoli attacchi». SEECK (1919), p. 263. Da ultimo, in proposito, SCIORTINO (2008), p. 219 ss.

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di rinnovare le accuse che già sono risultate infondate, al solo scopo di procrastinare la pena che loro spetta.

2.3. Carattere personale dell’accusa Del tutto analoga, la ratio della seconda costituzione di Teodosio, conservata nel titolo de calumniatoribus del Codice Teodosiano e posteriore di due anni a quella appena vista: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Menandro Vicario Asiae. Nostris et parentum nostrorum constitutionibus comprehensum est, eos, qui accusationem alienis nominibus praesumpsissent, delatorum numero esse ducendos. Atque ideo calumniosissimum caput et personam iudicio irritae delationis infamem deportatio sequatur, quo posthac singuli universique cognoscant, non licere in eo principum animos commovere, quod non possit ostendi. DAT. VIII ID. MAI. CONSTANTINOPOLI ARCADIO A. I ET BAUTONE V.C. CONSS. 27.

La costituzione ordina che coloro che sporgono accuse per incarico di terzi, siano da considerare alla stessa stregua dei delatori fiscali 28, e per questo motivo debbano essere condannati alla deportazione. In effetti, anche in questo caso il legislatore intende porre fine a quegli escamotages, che evidentemente si erano diffusi proprio per timore delle disposizioni in materia di calunnia: il ricorso all’accusa alieno nomine mirava con ogni probabilità a far salvo, anche nel caso in cui le accuse si fossero rivelate destituite di ogni fondamento, sia colui che si era fatto carico di sporgere l’accusa, sia colui che gli aveva dato tale incarico. Il divieto di accusare se non proprio nomine, è del resto attestato anche da un’altra costituzione dello stesso anno, nella quale si ribadisce che accusari unumquemque per alterum non oportet 29. 27

CTh. 9.39.2: «Gli Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio Augusti a Menandro, Vicario d’Asia. Nelle costituzioni nostre e dei nostri avi è previsto che coloro che abbiano ritenuto di avanzare accuse in nome di altri siano da annoverare fra i delatori. E pertanto il loro calunniosissimo capo e l’infame loro persona, resa tale dal giudizio di una vana delazione, sia seguito dalla deportazione, in modo che dopo ciò i singoli e tutti sappiano che non è lecito turbare gli animi dei principi con ciò che non si può dimostrare». Cfr. C.I. 9.46.8. SEECK (1919), p. 267. 28

Concordo con l’interpretazione di RIVIÈRE (2002), p. 368, circa l’identificazione dei delatores con i delatori fiscali. Diversamente PIETRINI (1996), p. 158. Cfr. anche SPAGNUOLO VIGORITA (1984), p. 31. 29 CTh. 9.1.15: Concessum singuli universique cognoscant, non emendicatis suffragiis decretorum, sed lite suis nominibus instituta illustris et magnificae celsitudinis tuae adeundam potestatem, quoniam accusari unumquemque per alterum non oportet: videlicet ut iustitia et aequitate, qua notus es, in iudice punias, si innoxios verberavit, in officio, si fortasse conticuit, quod caedi decuriones innoxios non liceret. «I singoli e tutti sappiano che non si può accedere alla potestà dell’illustre e magnifica tua eccellenza per via di decreti ottenuti mendicando voti, ma con una lite istituita con i

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Che il principato di Teodosio si sia caratterizzato per una stretta legislativa in materia di accuse avanzate da privati, con l’intento di porre un freno ad abusi e prevaricazioni, è dimostrato in modo assai chiaro anche dal testo di CTh. 9.1.17, indirizzata al Prefetto al Pretorio Taziano nel 390: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Tatiano PP. Post alia: tunc convenit potentiores viros adesse iudiciis, cum eorum praesentiam criminalis per inscriptionem causa deposcat. DAT. XV KAL. MAR. MEDIOLANO VALENTINIANO A. IIII ET NEOTERIO CONSS. 30.

Il testo è, nella sua brevità, molto chiaro: anche i potentiores, ossia coloro che rivestono delle dignità e dunque sono titolati come illustres o spectabiles 31, devono essere presenti nel procedimento criminale, qualora così richieda l’inscriptio: la loro assenza non è ammessa. Si ribadisce in tal modo il divieto di accusare alieno nomine senza distinzioni di rango: regulariter nemo criminalem causam agit per procuratorem 32. Di conseguenza viene anche ribadito, sia pure indirettamente, il principio della responsabilità dell’accusatore temerario. La regola dell’obbligatorietà dell’inscriptio e della sottoposizione al rischio della poena reciproci, era già stata ribadita nel 383 33: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. ad Marinianum Vicarium Hispaniae. Qui vel internecivi exserit actionem vel crimen suspectae mortis intendit, non prius cuiuscumque caput accusatione pulset, quam vinculo legis adstrictus pari coeperit poenae condicione iurgare, ita ut etiam servos si quis crediderit accusandos, non prius ad miserorum tormenta veniatur, quam se accusator vinculo inscriptionis adstrinxerit. Appetendorum enim causa servorum aut dispendium facultatum est aut poena dominorum. DAT. VI KAL. IUN. PATAVI MEROBAUDE ITERUM ET SATURNINO CONSS. 34.

propri nomi, poiché non è concesso accusare chicchessia per mezzo di altri: con la giustizia e l’equità che ti caratterizzano punisci dunque il giudice che abbia fatto fustigare degli innocenti e così pure l’ufficio suo se esso ha taciuto il fatto che tale strage di decurioni innocenti non era lecita». Cfr. C.I. 9.2.14. Cfr. Gothofr. comm. ad CTh. 9.39.2; PIETRINI (1996), p. 157 ss. 30

«Gli Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio Augusti a Taziano Prefetto al Pretorio. Dopo altro; conviene che i potenti siano presenti in giudizio quando la loro presenza è richiesta dalla causa criminale per via dell’inscriptio». Cfr. C.I. 9.2.15. SEECK (1919), p. 277. 31

Circa i potentes o potentiores, cfr. SANTUCCI (2009).

32

Gothofr. comm. ad h.l.

33

CTh. 9.1.14; cfr. C.I. 9.2.13. Sui problemi posti dall’inscriptio della costituzione cfr. Gothofr. comm. ad h.l. Cfr. SEECK (1919), p. 262. 34

«Gli Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio Augusti a Mariniano Vicario di Spagna. Colui che avanza un azione per omicidio o avanza accusa per crimine di sospetto omicidio, non colpisca con tale accusa il capo di chiunque, prima di essersi legato al vincolo di legge; allora co-

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Il legislatore ordina che l’obbligo dell’inscriptio e la conseguente sottoposizione al rischio della pena del taglione valga anche per chi sporge accuse di omicidio nei confronti di schiavi altrui; in particolare si vuole evitare che costoro vengano sottoposti a interrogatorio sotto tortura prima che siano state completate le formalità dell’inscriptio. È certo, come osserva Godefroy, che il legislatore intendesse anche proteggere gli interessi del proprietario degli schiavi accusati, che nella migliore delle ipotesi, una volta assolti se li sarebbe visti restituire duramente provati dalla tortura ingiustamente subita 35. Non credo tuttavia, che questo fosse l’unico o il principale intento del legislatore: la disposizione sembra infatti inquadrarsi bene in un contesto di politica giudiziaria più generale, decisamente orientato alla repressione delle accuse calunniose o comunque temerarie e alla salvaguardia degli accusati da trattamenti che avrebbero potuto rivelarsi immeritatamente severi.

2.4. «Garanzie» per l’imputato attraverso la decadenza e la criminalizzazione dell’accusa privata È nel quadro delineato fin qui che si iscrivono le previsioni di CTh. 9.36.1, relativa ai termini di decadenza dell’azione penale: Imppp. Valentinianus Theodosius et Arcadius AAA Desiderio Vicario. Quisquis accusator reum in iudicium sub inscriptione detulerit, si intra anni tempus accusationem coeptam prosequi supersederit, vel, quod est contumacius, ultimo anni die adesse neglexerit, quarta bonorum omnium parte mulctatus aculeos consultissimae legis incurrat; scilicet manente infamia, quam veteres iusserant sanctiones. DAT. IIII ID. IUL. TREVIRIS ARCADIO A. I ET BAUTONE CONSS. 36.

mincerà l’azione sottoposto alla pari condizione della pena. Pertanto se qualcuno dovesse ritenere di accusare dei servi, non si giunga ai tormenti di questi miserabili, prima che l’accusatore si sia stretto con il vincolo dell’inscriptio. Una causa criminale contro i servi è infatti o una perdita di beni propri o una pena per i loro padroni». Interpretatio. Quicumque alium de homicidii crimine periculosa vel capitali obiectione pulsaverit, non prius a iudicibus audiatur, quam se similem poenam, quam reo intendit, conscripserit subiturum: et si servos alienos accusandos esse crediderit, se simili inscriptione constringat, futurum ut supplicia innocentum servorum aut poena capitis sui aut facultatum amissione compenset. «Chiunque persegue un altro con la pericolosa accusa capitale di omicidio, non sia udito dai giudici, prima che egli abbia posto per iscritto che egli si sottoporrà eventualmente alla stessa pena che egli minaccia al reo. E se avrà ritenuto di accusare servi altrui, si vincoli con analoga inscriptio in modo che possa compensare le sofferenze di servi innocenti o con la pena capitale o con la perdita delle sue fortune». Cfr. ROBINSON (2007), p. 148. 35 36

Gothofr. comm. ad h.l.

«Gli Imperatori Valentiniano e Teodosio e Arcadio Augusti a Desiderio, Vicario. Chiunque come accusatpre abbia portato in giudizio l’imputato per mezzo di una inscriptio, se entro il tempo di un anno egli avrà omesso di portare a compimento quanto iniziato, o – cosa ancor più irri-

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La costituzione di Teodosio, risalente al 385, pone il termine inderogabile di un anno per l’effettivo esercizio dell’azione criminale da parte di chi abbia confermato con l’inscriptio le proprie accuse avverso chichessia. Se l’accusatore non si sarà presentato in giudizio entro l’ultimo giorno dell’anno, computato a decorrere dall’inscriptio, costui dovrà essere punito con la confisca di un quarto dei beni e con la sanzione accessoria dell’infamia. Ancora una volta, scopo del legislatore era quello di evitare che si protraesse troppo a lungo la condizione di imputato di chi fosse stato colpito da accuse mosse da privati: condizione che, come si sa, si poteva facilmente tradurre in forme anche assai dure di detenzione. In altri termini, porre termini tassativi allo svolgimento del procedimento criminale, era in primo luogo funzionale alla riduzione della detenzione cautelare. D’altra parte, la costituzione in esame conferma quanto si è detto più sopra, relativamente a una sorta di par condicio fra accusatore e accusato: infatti, non solo è richiesta la presenza dell’accusatore in giudizio, ma la sua assenza è considerata quale vera e propria contumacia, il che – ancora una volta – sembra confermarne il ruolo non di parte, ma di soggetto sottoposto al cognitor. È questo un contesto, in cui l’orientamento del legislatore pare indirizzato alla costruzione di pur minime garanzie per gli imputati, garanzie che tuttavia non passano tanto attraverso l’attribuzione di diritti – come oggi potremmo aspettarci – quanto attraverso restrizioni a carico degli accusatori privati. In questo quadro, non poteva certo mancare la reiterazione delle proibizioni relative ai libelli famosi; è del 386 una disposizione in materia di Teodosio Magno, che ribadisce, aggravandoli, i divieti già sanciti dai predecessori: Imppp. Valentinianus Theodosius et Arcadius AAA. Cynegio PP. Si quis famosum libellum sive domi sive in publico vel quocumque loco ignarus offenderit: aut discerpat prius, quam alter inveniat, aut nulli confiteatur inventum, nemini denique, si tam curiosus est, referat, quid legendo cognoverit. Nam quicumque obtulerit inventum, certum est, ipsum reum ex lege retinendum, nisi prodiderit auctorem, nec evasurum poenam huius modi criminibus constitutam, si proditus fuerit cuiquam retulisse, quod legerit 37.

spettosa – ometterà di essere presente l’ultimo giorno dell’anno, egli incorrerà negli aculei di una legge ben meditata, multato della quarta parte di tutti i suoi beni, Restando ferma l’infamia, ordinata dagli antichi precetti.» Interpretatio. Quicumque inscriptione praemissa cuiuscumque criminis reum accusare voluerit, ab eo die, quo inscripsit, intra annum peragat propositam actionem. Qui si distulerit, infamis effectus, bonorum suorum quarta parte mulctabitur. «Chiunque, avendo presentato una inscriptio abbia voluto accusare di un qualsiasi crimine, entro un anno dal giorno nel quale ha compiuto l’inscriptio porti a compimento l’azione da lui proposta. Se ritarderà. Reso infame, sia multato della quarta parte dei beni». Cfr. C.I. 9.44.1. SEECK (1919), p. 266. Cfr. LOVATO (1994), p. 226. 37 CTh. 9.34.9 (Cfr. C.I. 9.36.2): «Gli Imperatori Valentiniano Teodosio e Arcadio Augusti a Cinegio, Prefetto al Pretorio. Se qualcuno, ignaro, si imbatterà in un libello diffamatorio, a casa,

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La costituzione stabilisce che chiunque si sia imbattuto in un libello, ha l’obbligo di distruggerlo prima che altri lo ritrovino. Inoltre dovrà tacere il proprio ritrovamento e mai riferire ad altri il contenuto del libello. Se informerà altri del ritrovamento, sarà processato come autore del crimen, salvo che non indichi l’autore dello scritto. Se poi oserà rivelare ad altri quanto gli è accaduto di leggere, sarà comunque sottoposto alle pene previste per gli autori di libelli diffamatori. Da notare che, agli occhi del legislatore, è tale il pericolo rappresentato dai libelli, che non fa alcuna differenza se essi siano stati ritrovati in casa, in pubblico o in quocumque loco: il che testimonia dell’assoluta e insuperabile avversione del sovrano per questo genere di scritti. Nel suo complesso, e a differenza di ciò che spesso si può osservare nella legislazione tardo-antica, si può ben dire che la produzione legislativa di Teodosio in materia di accusatio presenta una certa coerenza: essa dimostra la preoccupazione del legislatore per i possibili abusi derivanti dall’esercizio dell’accusa da parte di privati e nel suo complesso pare per lo più ispirata al favore nei confronti dei rei, con particolare attenzione per le sofferenze – eventualmente immeritate – cui costoro erano esposti. Peraltro tale attenzione – forse motivata anche da ragioni religiose – dà la misura del carattere niente affatto garantista del procedimento penale del tempo: duro, incerto nei tempi e nello svolgimento, largamente rimesso nelle mani del giudice.

2.5. L’accusa-denuncia dei privati al servizio della repressione penale Si è visto finora come le norme teodosiane prese in esame tendano di fatto a scoraggiare la presentazione di accuse da parte di privati. In un caso il tono del legislatore è tanto chiaramente minaccioso da tradursi immediatamente in un vero e proprio disincentivo all’esercizio dell’accusa: Sciant cuncti praemeditentur, ante praecaveant, eam se rem deferre debere in publicam notionem, quae munita sit testibus, instructa documentis, signis ad probationem luce clarioribus expedita 38. in luogo pubblico e in qualsiasi altro luogo, o lo faccia a pezzi prima che altri lo ritrovino, o a nessuno confidi di averlo ritrovato, e infine a nessuno, se è tanto curioso, riferisca ciò che ha appreso leggendo. Infatti se qualcuno farà esibizione del ritrovamento è certo che egli sarà tenuto per imputato ai sensi di legge, a meno che non renda noto l’autore, né sfuggirà alla pena stabilita per questi crimini se risulterà aver riferito ad altri ciò che ha letto». Interpretatio. Si quis chartulam famosam in cuiuscumque iniuriam vel infamiam in publico propositam viderit et legerit et non statim discerpserit, sed cuicumque, quae in ea legerit, fortasse retulerit, ipse velut auctor huius criminis teneatur. «Se qualcuno ha visto e letto una carta diffamatoria esposto al pubblico per ingiuriare e diffamare qualcheduno, e non la ha subito distrutta ma anzi ha eventualmente riferito ciò che vi ha letto ad altri, egli stesso sia ritenuto quale autore del crimine». SEECK (1919), p. 269. 38

CTh. 9.37.3. Vedi supra, p. 150.

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Le accuse dei privati sono tuttavia favorite quando si tratta di crimini che in quel momento storico erano ritenuti meritevoli di speciale attenzione da parte degli organi di repressione criminale. Un primo caso è previsto in CTh. 9.27.6, del 386, e riguarda la concussione perpetrata da giudici: Impppp. Gratianus, Valentinianus, Theodosius et Arcadius AAAA. edictum ad provinciales. Iubemus hortamur, ut, si quis forte honoratorum decurionum possessorum, postremo etiam colonorum aut cuiuslibet ordinis a iudice fuerit aliqua ratione concussus, si quis scit venalem de iure fuisse sententiam, si quis poenam vel pretio remissam vel vitio cupiditatis ingestam, si quis postremo quacumque de causa improbum iudicem potuerit adprobare, is vel administrante eo vel post administrationem depositam in publicum prodeat, crimen deferat, delatum adprobet, cum probaverit et victoriam reportaturus et gloriam. DAT. X KAL. IUL. CONSTANTINOPOLI HONORIO N.P. ET EVODIO CONSS. 39.

La disposizione intende evidentemente favorire le denunzie da parte di chi si sia imbattuto in giudici corrotti, a qualsiasi rango sociale egli appartenga, con l’avvertenza che se potrà dimostrare le proprie asserzioni contro l’accusato, sia questi ancora in servizio oppure no, oltre alla palma della vittoria potrà anche giovarsi di speciali premialità: tale, infatti, è il senso della gloria, di cui all’ultima riga del testo 40. Un maggiore spazio all’accusa da parte di privati è anche prevista per il caso di unioni illecite fra ebrei e gentili, che sono equiparate all’adulterio, ma per le quali, a differenza di quanto avviene per tale crimine 41, la facoltà di accusare è aperta a chiunque, senza restrizioni di sorta: Imppp. Valentinianus Theodosius et Arcadius AAA. Cynegio PP. Ne quis christianam mulierem in matrimonium iudaeus accipiat, neque iudaeae christianus coniugium sortiatur. Nam si quis aliquid huius modi admiserit, adulterii vicem commissi huius crimen obtinebit, libertate in accusandum publicis quoque vocibus relaxata. DAT. PRID. ID. MAR. THESSALONICAE THEODOSIO A. II ET CYNEGIO CONSS. 42. 39 «Gli Imperatori Graziano, Valentiniano, Teodosio e Arcadio Augusti. Editto ai provinciali. Ordiniamo, esortiamo, affinché se mai qualche dignitario, decurione, possessore di terre e infine anche colono o di qualsiasi altra classe fu in qualche modo concusso da un giudice, se sa che sono state rese sentenze dietro pagamento, se sa che una pena è stata condonata in cambio di denaro o inflitta per avidità dello stesso e più in generale se qualcuno può dimostrare che un giudice si è comportato in modo improbo in qualsiasi tipo di causa, costui o nel corso del suo mandato o dopo che egli lo ha deposto, denunci in pubblico, riferisca del crimine, dimostri la veridicità delle accuse; e quando le avrà dimostrate otterrà insieme alla vittoria, la gloria». Cfr. C.I. 9.27.4. SEECK (1919), p. 271. 40 Gothofr. comm. ad h.l. La costituzione si richiama implicitamente a precedenti costantiniani, cfr. DILLON (2012), p. 102 ss. 41

Supra, p. 77 ss.

42

CTh. 9.7.5: «Gli Imperatori Valentiniano Teodosio e Arcadio Augusti a Cinegio Prefetto al

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Al di là di queste disposizioni, tendenti in casi determinati ad allentare i vincoli previsti per l’accusa avanzata da privati, si trovano anche testi che evidenziano, per specifiche fattispecie, un’intento repressivo particolarmente marcato, che si accompagna, non a caso, all’adozione di procedure tipicamente inquisitorie. Già una costituzione di Valentiniano II del 383, intervenendo in materia di latrones, ordina che chiunque abbia consapevolmente dato rifugio a costoro, senza deferirli ai giudici competenti, sia – a seconda del proprio status personale – colpito da pene corporali o pecuniarie, mentre per gli actores e procuratores che abbiano commesso un tale delitto a insaputa del dominus, è addirittura prevista la pena del rogo: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. ad Flavianum PP. Post alia: latrones quisquis sciens susceperit vel offerre iudiciis supersederit, supplicio corporali aut dispendio facultatum pro qualitate personae et iudicis aestimatione plectatur. Si vero actor sive procurator latronem domino ignorante occultaverit et iudici offerre neglexerit, flammis ultricibus concremetur. DAT. III KAL. MAR. MEROBAUDE II ET SATURNINO CONSS. 43.

Dal testo emerge l’obbligo di consegnare (offerre) i rei agli uffici competenti, il che pare non avere nulla a che fare con il regime dell’accusa del quale si è discusso poc’anzi. Nel caso di specie, al contrario, sembra che si tratti della mera consegna o denunzia di un noto criminale, senza che il denunciante sia sottoposto ad alcuna formalità. Pretorio. Che nessun giudeo prenda in moglie una donna cristiana, né un cristiano prenda in moglie una giudea. Infatti, se qualcuno commetterà un atto di questo genere, tale crimine sia parificato a quello di adulterio, e sarà data libertà di accusare anche alle pubbliche voci». Cfr. C.I. 1.9.6. Interpretatio. Nec iudaeus christianam nec christianus iudaeam ducat uxorem. Quod si fecerit, cuiuslibet accusatione velut in adulteros vindicetur. «Né un giudeo sposi una cristiana, né un cristiano una giudea. Se lo farà sia punito al pari di un adultero a seguito dell’accusa di chiunque». SEECK (1919), p. 273. Cfr. in proposito DE BONFILS (2002), p. 169; DE BONFILS (2005), p. 121; BODDENS HOSANG (2010), p. 44 ss. 43

CTh. 9.29.2: «Gli Imperatori Graziano Valentiniano e Teodosio Augusti a Flaviano Prefetto al Pretorio. Dopo altro. Chiunque abbia consapevolmente accolto dei ladroni o abbia omesso di consegnarli ai tribunali, sia colpito da un supplizio corporale o dalla perdita di beni, sulla base della qualità della persona e della valutazione del giudice. Se un amministratore o un procuratore [di stato servile] ha tenuto nascosto un ladrone e non ha voluto consegnarlo al giudice, senza che il padrone lo sapesse, sia arso vivo da fiamme vendicatrici». Cfr. C.I. 9.39.1. Interpretatio. Si quis sciens in domo sua latronem susceperit aut eum occultare voluerit aut eum iudici tradere fortasse neglexerit, si ingenua et vilior persona est, fustigetur: si vero melior, damno ad arbitrium iudicis feriatur. Si vero actor aut procurator inscio domino hoc fecerit, incendio concremetur. «Se qualcuno ha consapevolmente accolto in casa sua un ladrone o ha voluto tenerlo nascosto o comunque si è rifiutato di consegnarlo al giudice, se è persona libera di bassa condizione, sia fustigato. Se di rango più elevato, sia multato secondo l’apprezzamento del giudice. Se però ha fatto ciò un amministratore o procuratore a insaputa del padrone, sia arso vivo». SEECK (1919), p. 261. Mommsen ipotizza la data del 391.

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A questo proposito, pare meritevole di attenzione anche un’altra costituzione di Teodosio, con la quale l’imperatore intervenne, nel 385, a regolare la repressione del crimen adulterii. Il legislatore afferma quanto segue: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Cynegio PP. In adulterii quaestione ab omni familia, non solum mariti, sed etiam uxoris, quae tamen tunc temporis domi fuerit, quo adulterium dicatur admissum, quaerendum est sine defensione cuiusquam. Idem volumus, et si forte mulier marito mortis parasse insidias vel quolibet alio genere voluntatem occidendi habuisse inveniatur. Parem etiam condicionem in interrogatione mancipiorum servari volumus, si forte maritus eo modo insectetur uxorem. DAT. III ID. DECEMB. CONSTANTINOPOLI ARCADIO A. I ET BAUTONE V.C. CONSS. 44.

In sostanza, nel caso di processi per crimen adulterii, al fine di ricostruire l’accaduto, è fatto obbligo di sottoporre alla quaestio per tormenta tutti, senza eccezioni, i servi che potrebbero essere a conoscenza dei fatti, sia che si tratti di servi di proprietà del marito, che della moglie. L’inchiesta, dunque, deve giungere, per crimini ritenuti particolarmente gravi, a conclusioni certe: tanto, più, dice il legislatore, che in casi del genere si potrebbe perfino sospettare che la moglie adultera avesse tramato per causare la morte del marito – o viceversa. Come ben si vede, sono casi, questi, nei quali nessuno spazio è attribuito all’azione di «parti», mentre il legislatore raccomanda al giudice, attivo ricercatore della verità, il compito di portarla alla luce facendo uso di tutti gli strumenti a sua disposizione.

44 CTh. 9.7.4: «Gli Imperatori Graziano Valentiniano e Teodosio Augusti a Cinegio Prefetto al Pretorio. Nelle inchieste per adulterio, occorre impiegare la tortura, senza immunità per alcuno, a tutti gli schiavi della casa che al momento in cui si dice che fu commesso adulterio, si trovavano in casa, sia quelli della moglie che quelli del marito. Parimenti vogliamo che si proceda in questo modo casomai risulti che la moglie stava apparecchiando insidie per il marito o abbia avuto intenzioni omicide di qualsiasi altro genere. Vogliamo che gli interrogatori degli schiavi si svolgano nella medesima maniera se per caso il marito abbia attaccato la moglie allo stesso modo». Cfr. C.I. 9.9.31; 9.16.8. Interpretatio. De adulterio uxorum mariti per tormenta familiae utriusque, hoc est suae et uxoris quaerere permittuntur; si tamen illo tempore, quo admissum dicitur, haec ipsa mancipia praesentia aut in eadem domo fuisse probantur. Similiter et si mortem sibi ab uxore adultera maritus paratam fuisse conqueratur, utriusque familiae discussione quaeri licet. Similiter etiam familiae utriusque poena quaerendum est, si maritus mortem uxori qualibet ratione paraverit. «È permesso al marito di investigare circa l’adulterio della moglie grazie alla tortura degli schiavi di casa di ambedue, ossia i suoi e quelli della moglie; se però risulta che al tempo in cui si dice che fu commesso il fatto questi stessi schiavi furono presenti o nella casa medesima. Similmente anche se risulterà che era stata preparata dall’adultera la sua morte, si deve indagare sugli schiavi di entrambi in questo modo. Parimenti gli schiavi di entrambi devono essere così interrogati se il marito ha predisposto in qualsiasi modo la morte della moglie». SEECK (1919), p. 269.

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2.6. Accusa privata e indagini d’ufficio nella repressione dell’eresia Frequente, poi, l’impiego di metodi inquisitori nella repressione dell’eterodossia religiosa: il che non è certo un caso, se si considera il fatto che l’imperatore è anche l’autore dell’Editto di Tessalonica. Già una costituzione del 376, ascrivibile a Graziano, aveva riservato al foro secolare le cause criminali in materia di religione, lasciando ai tribunali ecclesiastici i soli levia delicta 45. Senza entrare qui nella discussione circa l’effettiva portata della disposizione, credo che la questione debba essere considerata nel quadro della politica religiosa di Graziano prima e di Teodosio poi, che diedero un notevole impulso alla repressione dell’eresia da parte della giurisdizione secolare 46. Come già è stato suggerito da Volterra 47, l’affermazione della giurisdizione secolare intendeva assicurare la massima severità nella repressione dell’eresia. D’altronde, con l’editto di Tessalonica (380) e l’adozione del credo niceno come unica religione dell’Impero, si compiva un percorso già avviato con Costantino, che – salvo poche eccezioni e fra queste il regno di Valentiniano I –

45 CTh. 16.2.23. Imppp. Valens, Gratianus et Valentinianus AAA. Artemio, Euridyco, Appio, Gerasimo et ceteris episcopis. Qui mos est causarum civilium, idem in negotiis ecclesiasticis obtinendus est: ut, si qua sunt ex quibusdam dissensionibus levibusque delictis ad religionis observantiam pertinentia, locis suis et a suae dioeceseos synodis audiantur: exceptis, quae actio criminalis ab ordinariis extraordinariisque iudicibus aut illustribus potestatibus audienda constituit. DAT. XVI KAL. IUN. TREVIRIS VALENTE V ET VALENTINIANO I AA. CONSS. «Gli Imperatori Valente Graziano e Valentiniano Augusti ad Artemio, Euridico, Appio, Gerasimo e agli altri vescovi. Il costume proprio delle cause civili, deve essere adottato anche per le controversie ecclesiastiche. Sicché, se vi sono questioni attinenti all’osservanza della religione che derivano da qualche dissenso o da lievi delitti, siano discusse nei luoghi loro propri e dai sinodi della diocesi: con l’eccezione di tutto ciò che richiede un azione criminale, che dev’essere udita dai giudici ordinari e straordinari nonché dalle illustri potestà». Interpretatio. Quoties ex qualibet re ad religionem pertinente inter clericos fuerit nata contentio, id specialiter observetur, ut convocatis ab episcopo dioecesanis presbyteris, quae in contentionem venerint, iudicio terminentur. Sane si quid opponitur criminale, ad notitiam iudicis in civitate, qua agitur, deducatur, ut ipsius sententia vindicetur, quod probatur criminaliter fuisse commissum. «Ogni volta che dovesse nascere contenzioso fra i chierici circa qualche faccenda relativa alla religione, si osservi questa speciale procedura: convocati dal vescovo i presbiteri della diocesi, siano terminate con sentenza le contese che si sono generate. Tuttavia, se è avanzata una qualche accusa criminale, essa sia portata all’attenzione del giudice della citta nella quale si controverte, in modo che la sua sentenza punisca ciò che risulti dimostrato esser stato commesso in modo criminale». SEECK (1919), p. 248. 46

DI MAURO TODINI (1990), p. 141 ss. Ad esempio, risulta da Teodoreto che Graziano, sin dai primissimi tempi del suo regno, sarebbe intervenuto in via legislativa a favore dell’ortodossia (incarnata da papa Damaso): Theodoret., H.E. 5.2. Anche Sulpicio Severo riferisce di provvedimenti di poco posteriori alla legge della quale ora si tratta, con i quali si comminava l’esilio a carico di eretici priscillianisti: Sulp. Sev., Hist. Sacr. 2.47. 47

VOLTERRA (1999), p. 456 ss.

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aveva visto il trono imperiale sempre più coinvolto in questioni di fede. La lotta alla devianza religiosa – si trattasse di paganesimo, eresia o altre pratiche illecite come la magia e la divinazione – diveniva così obiettivo primario della macchina repressiva dello Stato: l’offesa religiosa, il sacrilegio, non solo costituivano crimini contro la vera fede, ma allo stesso tempo turbavano l’ordine dell’Impero e offendevano i suoi vertici. In tal senso, la severa repressione della devianza religiosa diveniva necessaria per la difesa dell’ordine costituito, non diversamente dalla repressione del crimen maiestatis o del tradimento. Non stupisce, quindi, che proprio in quest’ambito si possa osservare il rapido dispiegarsi di un arsenale di carattere inquisitorio, che contrasta solo apparentemente con il «garantismo» della legislazione teodosiana in materia di accuse sporte da privati. Un primo esempio è dato da una costituzione teodosiana, data a Costantinopoli nel marzo del 382, diretta a reprimere la devianza religiosa e parte di una lunga serie di disposizioni in haereticos 48: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Floro PP. Quisquis manichaeorum vitae solitariae falsitate coetum bonorum fugit ac secretas turbas eligit pessimorum, ita ut profanator atque corruptor catholicae, quam cuncti suspicimus, disciplinae legi subiugetur, ut intestabilis vivat, nihil vivus impendat illicitis, nihil moriens relinquat indignis, omnia suis non moribus, sed natura restituat aut proximis, si deerit legitima successio, melius regenda dimittat, fisci dominio deficiente agnatione sine fraude molitionis intellegat obligata. Haec de solitariis. Ceterum quos encratitas prodigiali appellatione cognominant, cum saccoforis sive hydroparastatis refutatos iudicio, proditos crimine, vel in mediocri vestigio facinoris huius inventos summo supplicio et inexpiabili poena iubemus adfligi, manente ea condicione de bonis, quam omni huic officinae imposuimus, a latae dudum legis exordio. Sublimitas itaque tua det inquisitores, aperiat forum, indices denuntiatoresque sine invidia delationis accipiat. Nemo praescriptione communi exordium accusationis huius infringat. Nemo tales occultos cogat latentesque conventus: agris vetitum sit, prohibitum moenibus, sede publica privataque damnatum. Ac summa exploratione rimetur, ut, quicumque in unum paschae die non obsequenti religione convenerint, tales indubitanter, quales hac lege damnavimus, habeantur. DAT. PRID. KAL. APRIL. CONSTANTINOPOLI ANTONIO ET SYAGRIO CONSS. 49.

48 49

Godefroy ne conta quindici, nel titolo quinto del libro sedicesimo del Teodosiano.

CTh. 16.5.9: «Gli Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio Augusti a Floro Prefetto al Pretorio. Chiunque fra i manichei fugge la compagnia dei buoni in ossequio alla falsità di una vita solitaria, e sceglie di appartenere alle segrete folle dei malvagi, in quanto profanatore e corruttore della fede cattolica, che tutti riveriamo, sia sottoposto alla disciplina della legge, sicché viva senza poter fare testamento, e nulla da vivo spenda a favore di tali illeciti soggetti, non lasci nulla morendo a soggetti indegni, restituisca tutto ai suoi eredi, che gli sono parenti per natura, non per costumi, o trasmetta i suoi beni ai parenti più prossimi, se manca una successione legittima, affinché meglio siano gestiti. In assenza di agnati, sappia che i suoi beni andranno al fisco, senza alcuna

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La disposizione, indirizzata al Prefetto al Pretorio Floro, ordina sanzioni a carico dei manichei, che sono privati della testamenti factio, se solitari 50. Per gli eretici che si aggregano in sette e comunità, come encratiti, saccofori, idroparastati, oltre alla privazione della capacità testamentaria è prevista anche la pena capitale. Più severa, dunque, la pena a carico di coloro che vivono in comunità organizzate e che per questo motivo rappresentano un pericolo maggiore agli occhi dell’autorità. A prescindere dalle pene comminate per tali crimini, interessa in questa sede il modo in cui si procede alla individuazione dei medesimi. Teodosio dispone che il prefetto designi degli inquisitores: come osserva Godefroy, è questa la più antica menzione di inquisitori destinati alla repressione dell’eresia 51. Ma al di là di pur suggestivi accostamenti, pare evidente che tali inquisitores non sono altro che funzionari o giudici imperiali incaricati di indagare e perseguire attivamente tali crimini. L’esigenza di assicurarsi della totale estirpazione di questo genere di devianza si traduce nell’ordine tassativo di dar libero accesso ai tribunali ai denunzianti, di accogliere informatori e delatori di ogni sorta senza che questi corrano alcun rischio derivante dalle accuse e dalle informazioni riferite (sine invidia delationis), nonché di astenersi da qualsiasi eccezione che possa condurre alla decadenza dell’accusa. Le riunioni di soggetti sospetti di devianza sono vietate in ogni sede e, infine, si dovrà indagare con estrema cura (summa exploratione rimetur) su coloro che si riuniscano per celebrare in modo non ortodosso il giorno della Pasqua, affinché anche costoro siano puniti come meritano. Mi pare particolarmente significativo come, nella costituzione in esame, l’accusa sporta da privati abbia un ruolo tutto sommato secondario: si interviene in materia unicamente prevedendo la rimozione delle eccezioni (praescriptiones communes) che avrebbero potuto impedirne il pieno svolgimento, mentre l’attenzione del legislatore sembra concentrata su di un sistema repressivo affidato fraudolenta macchinazione. Questo per quanto riguarda i solitari. Per il resto, coloro che sono detti con mostruosa denominazione encratiti, insieme con i saccofori e gli idroparastati, una volta condannati come tali in giudizio, traditi dal loro crimine, o individuati anche in una sola traccia di tali nefandezze, ordiniamo che siano colpiti dal sommo supplizio e da pena inespiabile, ferma restando quella condizione dei loro beni che abbiamo imposto per ogni faccenda di questo genere all’inizio della legge precedentemente promulgata [CTh. 16.5.7]. Pertanto la tua sublimità designi inquisitori, apra il foro, accolga informatori e denunzianti senza alcun odio per la delazione. Nessuno blocchi l’incardinarsi di tali accuse grazie alla prescrizione. Nessuno convochi simili segrete e occulte riunioni: siano proibite in campagna, siano proibite entro le mura, siano condannate che si svolgano in luogo pubblico o privato. E si indaghi con ogni attenzione, così che se qualcuno non vorrà riunirsi il giorno di Pasqua, obbediente alla religione, costoro siano considerati tali e quali gli individui che abbiamo condannato con questa legge». SEECK (1919), p. 259. Cfr. in proposito HUMFRESS (2008), p. 135 ss.; DE GIOVANNI (1980), p. 87. 50

Cfr. anche CTh. 16.5.7.

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all’attivismo di giudici e funzionari. A questo scopo si raccomanda di accogliere delazioni e informazioni, così come inequivocabili sono i riferimenti a explorationes e inquisitiones. Non si tratta qui solo di distinguere procedure ex officio da procedure attivate da privati: è evidente, credo, che in questo contesto e per la repressione di questi reati si pretende che gli uffici giudiziari si facciano carico delle indagini oltre che del giudizio, dedicando ogni sforzo alla raccolta di informazioni necessaria per assicurare un rapido e decisivo intervento contro gli eretici. Per quanto di tutta la produzione normativa dell’epoca di Teodosio, CTh. 16.5.9 sia forse il testo più esplicito, essa non costituisce di certo un unicum. Lo stesso spirito anima un’altra costituzione, ascrivibile a Valentiniano II, ma che Godefroy riteneva – credo non senza ragione – ispirata dallo stesso Teodosio 52: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Trifolio PP. Omnes diversarum perfidarumque sectarum, quos in deum miserae vesania conspirationis exercet, nullum usquam sinantur habere conventum, non inire tractatus, non coetus agere secretos, non nefariae praevaricationis altaria manus impiae officiis impudenter adtollere et mysteriorum simulationem ad iniuriam verae religionis aptare. Quod ut congruum sortiatur effectum, in specula sublimitas tua fidissimos quosque constituat, qui et cohibere hos possint et deprehensos offerre iudiciis, severissimum secundum praeteritas sanctiones et deo supplicium daturos et legibus. DAT. XVIII KAL. IUL. STOBIS D.N. THEODOSIO A. II ET CYNEGIO V.C. CONSS. 53.

La costituzione, la cui occasione è probabilmente da ricondursi a divisioni all’interno della chiesa d’Italia fra ariani e ortodossi, è per noi particolarmente significativa in quanto attribuisce alla vigilanza (specula) del Prefetto al Pretorio d’Italia, destinatario della disposizione, il compito di reprimere le eresie e di offrire alla severità dei giudici i soggetti individuati dai pubblici uffici (deprehensos). Dell’attivismo inquisitorio delle strutture repressive dello Stato avverso i responsabili di illeciti religiosi, sembra testimoniare anche una costituzione di Teodosio Magno del 392, con la quale si equiparano i seguaci del culto pagano ai rei di lesa maestà:

52 53

Gothofr. not. et comm. ad h.l.

CTh. 16.5.15, del 388: «Gli Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio Augusti a Trifolio Prefetto al Pretorio.Tutti coloro che fanno parte delle diverse e malvage sette, che sono mossi dalla follia di una miserabile cospirazione contro dio, che mai sia loro consentito riunirsi, tenere discussioni, condurre assemblee segrete, alzare impudentemente altari di una nefasta falsità per mezzo di empie mani, e simulare misteri a insulto della vera religione. Affinché ciò ottenga un conguo risultato, la tua sublimità designi persone fidatissime che vigilino, che possano bloccare tali persone e una volta arrestate consegnarle ai tribunali, destinati a pagare un supplizio severissimo a dio e alle leggi secondo i precedenti precetti». SEECK (1919), p. 275. Cfr. DE GIOVANNI (1980), p. 41.

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Imppp. Theodosius, Arcadius et Honorius AAA. ad Rufinum PP. Nullus omnino ex quolibet genere ordine hominum dignitatum vel in potestate positus vel honore perfunctus, sive potens sorte nascendi seu humilis genere condicione fortuna in nullo penitus loco, in nulla urbe sensu carentibus simulacris vel insontem victimam caedat vel secretiore piaculo larem igne, mero genium, penates odore veneratus accendat lumina, imponat tura, serta suspendat. Quod si quispiam immolare hostiam sacrificaturus audebit aut spirantia exta consulere, ad exemplum maiestatis reus licita cunctis accusatione delatus excipiat sententiam competentem, etiamsi nihil contra salutem principum aut de salute quaesierit. Sufficit enim ad criminis molem naturae ipsius leges velle rescindere, illicita perscrutari, occulta recludere, interdicta temptare, finem quaerere salutis alienae, spem alieni interitus polliceri. Si quis vero mortali opere facta et aevum passura simulacra imposito ture venerabitur ac ridiculo exemplo, metuens subito quae ipse simulaverit, vel redimita vittis arbore vel erecta effossis ara cespitibus, vanas imagines, humiliore licet muneris praemio, tamen plena religionis iniuria honorare temptaverit, is utpote violatae religionis reus ea domo seu possessione multabitur, in qua eum gentilicia constiterit superstitione famulatum. Namque omnia loca, quae turis constiterit vapore fumasse, si tamen ea in iure fuisse turificantium probabuntur, fisco nostro adsocianda censemus. Sin vero in templis fanisve publicis aut in aedibus agrisve alienis tale quispiam sacrificandi genus exercere temptaverit, si ignorante domino usurpata constiterit, viginti quinque libras auri multae nomine cogetur inferre, coniventem vero huic sceleri par ac sacrificantem poena retinebit. Quod quidem ita per iudices ac defensores et curiales singularum urbium volumus custodiri, ut ilico per hos comperta in iudicium deferantur, per illos delata plectantur. Si quid autem ii tegendum gratia aut incuria praetermittendum esse crediderint, commotioni iudiciariae, subiacebunt; illi vero moniti si vindictam dissimulatione distulerint, triginta librarum auri dispendio multabuntur, officiis quoque eorum damno parili subiugandis. DAT. VI ID. NOV. CONSTANTINOPOLI ARCADIO A. II ET RUFINO CONSS. 54.

54 CTh. 16.10.12: «Gli Imperatori Teodosio, Arcadio e Onorio Augusti a Rufino Prefetto al Pretorio. Nessuno, mai a qualsiasi ordine, genere, dignità appartenga, che sia dotato di potestà o ricoperto di onori, sia che sia un potente per sorte della nascita, sia che sia di umile condizione, stato e fortuna, in alcun luogo, in alcuna città sacrifichi una vittima innocente a immagini inanimate. Né, con più occulto sacrificio veneri il lare con il fuoco, il genio con il vino, i penati con aromi, non accenda luci, non ponga incensi, non sospenda ghirlande. Pertanto se qualcuno oserà immolare in sacrificio una vittima, o consultare i visceri spiranti, al pari del reo di lesa maestà, essendo lecita per tutti l’accusa, una volta denunciato ottenga l’opportuna sentenza anche se nulla ha indagato contro la salvezza dei principi o in relazione al loro destino. È infatti sufficiente per l’enormità del crimine il voler violare le stesse leggi della natura, indagare questioni illecite, rendere noti occulti segreti, tentare pratiche vietate, tentare di individuare la fine della vita altrui, promettere la speranza della morte di altri. Se qualcuno poi venererà con incenso simulacri fatti da mano umana e destinati a subire i segni del tempo e ridicolmente, temendo improvvisamente quanto da lui stesso rappresentato tenterà di onorare vane immagini appendendo bende agli alberi o erigendo un altare di zolle da lui scavate, o con l’offerta di un dono che per quanto umile ciò non di meno costituisce piena offesa alla religione, costui in quanto reo di aver violato la religione sarà punito con la perdita della casa o del terreno dove risulterà che abbia servito alla superstizione pagana. Infatti, tutti i luoghi nei quali risulterà che abbia fumato incenso, se risulterà che essi erano apparte-

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Due punti del lungo testo sono per noi particolarmente significativi: da un canto si ampliano il più possibile i canali dell’accusa sporta da privati (licita cunctis accusatione), dall’altro si ammoniscono giudici, defensores civitatum e anche i curiali, affinché esercitino vigilanza in materia, avvertendoli che la loro negligenza sarà punita in sede penale: essi dovranno riferire ai tribunali quanto sia giunto a loro conoscenza (per hos comperta in iudicium deferantur) affinché i colpevoli siano debitamente perseguiti. La politica teodosiana, incline a favorire strumenti inquisitori per la repressione della devianza religiosa, lascerà tracce evidenti anche nella legislazione dei suoi successori. Arcadio, ispirandosi dichiaratamente all’esempio del padre, morto in quello stesso anno, indirizzerà nel 395 una costituzione al magister officiorum prescrivendogli di investigare sulla presenza di eretici vel in scriniis vel inter agentes in rebus vel inter palatinos 55. E ancora, nel 396, lo stesso Arcadio ordinava al Prefetto al Pretorio di investigare omni studio sull’eresia eunomiana, espellendone gli esponenti dalle città onde impedire loro di provocare tumulti 56.

3. TESTIMONIANZE DA FONTI NON LEGISLATIVE Le fonti letterarie e papirologiche offrono una testimonianza particolarmente interessante circa l’effettivo funzionamento della repressione penale del IV secolo. Per quanto riguarda i reati comuni, Libanio presenta una significativa descrizione del destino degli accusati durante il regno di Teodosio. Nell’orazione De Vinctis, egli riferisce quanto segue: k¨n qumwqÍ tiv, eÙqÝv par¦ tÕn ¥rconta tršcei ka… fhsin Øbr…sqai kaˆ peponqšnai kakîv, Ð de\ ˜autÕn me\n oÜ, t¾n guna‹ka dš, Ð de\ toÚtwn me\n oÙdšteron, toÝv pa‹dav dš, kaˆ þ»mata pl£ttousi kaˆ plhg¦v kaˆ katarr»xantšv ti tÁv ™sqÁtov ™ke…n‚ kaˆ toàto

nenti a tali incensatori, noi stabiliamo che siano assegnati al nostro fisco. Se poi qualcuno tenterà di esercitare un tal genere di sacrifici in templi o santuari pubblici o in case e terreni altrui, se risulterà che ciò è avvenuto all’insaputa del padrone, l’autore sia costretto a pagare una multa di venticinque libbre d’oro, se è stato complice di tale scelleratezza che anche il padrone sia costretto a una pena pari a quella del sacrificante. Noi vogliamo che questi precetti siano custoditi dai giudici, dai difensori e dai componenti le curie delle singole città affinché subito quanto da loro scoperto sia trasmesso ai tribunali e i crimini da loro riferiti siano puniti. Se poi costoro riterranno di coprire tali atti per compiacenza o di tralasciarli per negligenza, saranno sottoposti all’ira dei giudici. Sapendo questi ultimi che se rinvieranno la pena per accondiscendenza saranno multati per trenta libbre d’oro, essendo anche i loro uffici esposti ad analoga sanzione». SEECK (1919), p. 280. Cfr. DE GIOVANNI (1980), p. 149. 55

CTh. 16.5.29: «presso gli archivi, gli agentes in rebus o i palatini».

56

CTh. 16.5.32: «investigare con ogni attenzione».

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

prosšqesan. Ð de\ ¢rnoÚmenÒv te kaˆ sesukofantÁsqai lšgwn kaˆ memnhmšnov grafÁv kaˆ nÒmwn pšmpetai deqhsÒmenov kaˆ taàta ™n ™gguhtîn ¢fqon…­. p£scousi de\ toàt’ ™pieikîv oƒ ¢sqenšsteroi par¦ tîn dunatwtšrwn 57.

Nell’orazione, risalente agli anni intorno al 380, Libanio descrive una situazione durissima per gli accusati. La carcerazione è usata largamente e in modo spiccio, né sembra che gli accusatori si preoccupino in alcun modo della minaccia della poena reciproci. Basteranno un paio di parole e i coloni che rifiutino di piegarsi alle pretese dei proprietari terrieri e che non vogliano vedersi trattare come veri e propri schiavi, saranno incatenati da un soldato, arrestati e buttati in prigione 58. Qualora qualcuno sia arrestato come ladrone o bandito, lo seguiranno in prigione una schiera di innocenti, colpevoli solo di averlo conosciuto: par’ oŒv de\ À œpion À œfagon À ™koim»qhsan, ›lkontai tripl£sioi poll£kiv tîn ™n ta‹v a„t…aiv Ôntwn oÙde\n e„dÒtev tîn ™gkeklhmšnwn À tÕ mhde\ n e„rg£sqai deinÕn ™ke…noiv À tîn pepragmšnwn oÙ meteschkÒtev 59.

Il risultato è che gli accusati terminano la loro esistenza in catene e i governatori si guardano bene dal convocare l’accusatore o dall’avviare un qualsivoglia processo 60. Scrive Libanio: qn»skousi g£r, ð basileà, qn»skousi to‹v te ¥lloiv kako‹v kaˆ meg…st‚ d», stenocwr…­, mur…oi 61.

Come si conclude la vicenda? I detenuti muoiono, il commentariense invia il suo rapporto, il governatore ordina il funerale. Quanto all’accusatore, non teme nulla: non sa neppure se l’accusato è ancora vivo o morto 62. Nel racconto di Libanio, non è per nulla difficile organizzare la carcerazione di qualcuno: basta

57 Lib. Or. 45.3: «qualcuno si adonta, si reca subito dal governatore e dice di aver subito abusi e violenze, se non lui stesso, sua moglie o se nessuno di loro due, i loro figli. Inventano insulti e percosse, lasciano cadere qualche lacrima sulle vesti e adducono anche questo fatto ai precedenti. L’accusato, benché neghi, affermi di essere stato calunniato, e nonostante i suoi appelli alla legge, è spedito in carcere, anche quando non gli manchino le sostanze per la cauzione. Questo è quanto subiscono normalmente i più umili per mano dei potenti». 58

Lib. Or. 45.5.

59

Lib. Or. 45.6: «saranno arrestate il triplo di persone, coloro che con costoro hanno bevuto, mangiato o dormito, anche se del tutto ignari delle accuse, salvo magari sapere che gli accusati non sono per nulla colpevoli e anche se costoro non hanno avuto alcuna parte nella vicenda». 60

Lib. Or. 45.8.

61

Lib. Or. 45.11: «costoro muoiono a migliaia, Sire, a causa dei mali che li affliggono e in particolare per colpa del sovraffollamento». 62

Lib. Or. 45.11.

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una falsa accusa, ma anche – significativamente – un breve discorsetto (þÁm£ ti kaˆ mikrÕn) 63. Nel pensiero di Libanio, si tratta di un fenomeno insostenibile e insopportabile: il carcere porta numerose persone alla morte senza che esse siano state giudicate colpevoli, e ciò è contrario a giustizia. Anche i più temibili criminali, infatti, devono essere processati 64. Ma non sono solo i sospettati ad essere incarcerati: tale destino attende anche gli stessi testimoni, a conferma di quanto si diceva più sopra circa la tendenza inquisitoria del sistema processuale dell’epoca 65. Così, anche costoro rischiano di morire prima che il processo abbia preso avvio 66. Vi è un motivo, dice Libanio, di questa deplorevole situazione: i governatori pongono scarsa attenzione all’amministrazione della giustizia penale, che alla sua estrema durezza affianca una terribile lentezza. Questo perché essi privilegiano le cause fiscali, ritenute di maggior importanza per il governo imperiale 67. Il risultato, in ogni caso, è che le leggi sono ridotte a meri impotenti pezzi di carta 68. Libanio è un retore, si sa, e si potrebbe sospettare una qualche esagerazione nel suo racconto: in realtà, se si considera quanto si è visto in precedenza, esso sembra del tutto fededegno. La narrazione di Libanio è per noi particolarmente significativa, poiché apre uno squarcio sulla prassi della repressione criminale all’epoca di Teodosio. Essa spiega la vera ratio di tante disposizioni relative ad accuse calunniose e temerarie: considerati i rischi gravissimi che avrebbero colpito l’accusato, occorreva tentare in ogni modo di ridurre al minimo il numero delle accuse infondate e assicurarsi che sugli accusatori gravasse una responsabilità adeguata rispetto alla condizione nella quale si sarebbe venuto a trovare, suo malgrado, l’accusato. D’altro canto, il racconto di Libanio dice anche che la pur reiterata legislazione in materia sembra aver avuto assai poco effetto: egli dipinge accusatori per nulla preoccupati di eventuali conseguenze, accuse presentate senza particolari formalità (è sufficiente un þÁm£ ti kaˆ mikrÕn per segnare il destino di un individuo) e così via. Si direbbe che, mentre per i casi più rilevanti e per i crimini più pericolosi per lo Stato si tenessero di norma veri e propri processi, nel caso dei crimini comuni la repressione di fatto passasse per lo più attraverso un’azione coercitiva extragiudiziale, spesso condotta direttamente dai funzionari dotati di poteri di 63

Lib. Or. 45.13.

64

Lib. Or. 45.14.

65

Supra, p. 149 ss.

66

Lib. Or. 45.15.

67

Lib. Or. 45.18 ss.

68

Lib. Or. 45.32-33.

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polizia. Già in epoca precedente è attestato il ricorso a misure disciplinari da parte dei proconsoli per i crimini più lievi 69, ma in questo periodo, il ricorso a tali procedure sembra assumere una connotazione particolarmente fosca: infatti tale potere disciplinare sembra essere esercitato direttamente da funzionari di basso rango, spesso autori di abusi, a quanto sembra non di rado tollerati dagli officia competenti. Questo quadro sembra confermato dalle fonti papiracee. Nell’Egitto tardoantico si possono distinguere due distinti procedimenti criminali: il primo è un procedimento di polizia, attivato da petizioni rivolte alle autorità competenti. Le petizioni potevano avere diversi contenuti: la richiesta che il caso fosse trasmesso alla corte competente, oppure che l’eventuale sospettato fosse tradotto dinnanzi alla corte competente, o ancora che fossero emesse ingiunzioni di vario tipo. Di frequente le petizioni chiedevano la carcerazione del sospettato 70 e non di rado si sollecitavano le autorità di polizia a compiere indagini per l’identificazione dei colpevoli. Spesso erano gli stessi funzionari di polizia a esaminare la questione, a convocare e udire i testimoni e a prendere le opportune decisioni, inclusa la detenzione per l’imputato. Eventualmente avrebbero anche potuto disporre il trasferimento del caso alla corte competente 71. Si tratta dunque di un procedimento particolare, affidato a soggetti privi di giurisdizione e dotati di poteri di polizia, che si può supporre fosse ampiamente praticato per i reati comuni, specie se non particolarmente gravi o commessi lontano dalle sedi dei tribunali 72. Per quanto riguarda, invece, i veri e propri processi criminali discussi presso il Prefetto, Taubenschlag osserva come in epoca romana classica essi fossero caratterizzati di regola da procedura contenziosa 73. 69 D. 48.2.6 (Ulp. 2 de off. proc.): levia crimina audire et discutere de plano proconsulem oportet vel liberare eos, quibus obiciuntur, vel fustibus castigare, vel flagellis servos verberare. «Il proconsole deve ascoltare e discutere dei lievi crimini e o liberare coloro che sono accusati, o castigarli con bastoni o far frustare i servi con fruste». 70

TORALLAS (2006), p. 102 ss. Sulle petizioni cfr. anche KELLY (2011), p. 75 ss.

71

TORALLAS (2003), p. 210 ss.

72

TAUBENSCHLAG (1955), p. 537-543; TAUBENSCHLAG (1972), p. 96 ss. Non è però sempre così, perché risulta attestato il ricorso a procedure di questa natura anche per casi di omicidio (BGU 1024). Cfr. TORALLAS (2003), p. 210. 73

TAUBENSCHLAG (1972), p. 101 ss.; 121 ss.; cfr. anche ANAGNOSTOU-CANAS (2000), p. 758 ss. Anche se già intorno al 200 d.C. un papiro attesta una procedura che pare avere carattere inquisitorio (così TAUBENSCHLAG (1955), p. 546). Si tratta del Pap. Col. VI 123, contenente £pokr…mata di Settimio Severo, e di cui interessano specia1lmente le righe 29-35: P . [r]Òkl‚ 'Apoll[w]n…ou. toÝv gegr[a]mmšnouv klhronÒmouv, kaˆ kan(*) aƒ diaqÁkai p[e]pl£sqai lšgwntai, tÁv n[o]mÁv oÙk œstin d…ka[i]on ™kblhqÁnai. front[…]sousin de\ oƒ t¦[v] d…kav ™pitetrammšnoi kalšsai toÝv eÙ[q]unomšnouv e‡ ge tÕ pr©gm£ ™stin ™n tÍ t£xei tîn diagnèsewn.

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Ciò premesso, la documentazione papiracea restituisce un quadro della repressione penale nell’Egitto tardo antico del tutto analogo a quello dipinto, per Antiochia, da Libanio. Recenti studi mostrano un frequente uso della violenza da parte dei pubblici ufficiali 74 e confermano appieno il ricorso alla carcerazione. I detenuti vivono in condizioni miserevoli, per un periodo la cui durata pare indefinita, e che di certo non è nota ai carcerati stessi. I papiri e gli ostraka attestano in modo massiccio, dal quarto secolo in avanti, la morte di detenuti in carcere, la fame patita, l’incatenamento e le torture subite. In numerose occasioni i detenuti lamentano di non conoscere neppure la ragione della loro condizione e sembrano poter contare solo sull’assistenza dei congiunti, o di credenti caritatevoli, per tentare di sopravvivere 75. In un papiro copto, lo scrivente detenuto, si rivolge ad un religioso con queste parole: «prego la vostra paternità che abbia pietà e invii [...] poiché sto morendo in prigione e non so perché» 76. Parole che, meglio di ogni altra descrizione, chiariscono quanto fosse disgraziata la condizione di chi – specie se di pochi mezzi – fosse incappato nelle maglie del sistema repressivo. Ciò contribuisce a chiarire il perché di tanta produzione normativa del IV secolo in materia di calunnia, accusa temeraria, durata dei procedimenti e trattamento dei detenuti: una produzione normativa che non ha nulla a che fare, vale la pena ribadirlo, con la natura del «rito» adottato, ma che intendeva (vanamente, par di capire) porre rimedio a storture profondamente radicate nel sistema di repressione penale.

«A Proclo figlio di Apollonio. Non è corretto che gli eredi designati, anche se l’autenticità del testamento è in questione, siano spossessati. Gli ufficiali responsabili dei processi si prendano cura di citare in giudizio gli accusati, se la materia rientra nell’ambito delle cognitiones». 74

Cfr. in proposito anche BAGNALL (1989), p. 212 ss.

75

Ampia documentazione in TORALLAS (2006); TORALLAS (2003); TORALLAS (1999).

76

BKU 144. Traduzione da TORALLAS (2003), p. 218.

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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Quali conclusioni trarre da quanto detto fin qui? Non è certo facile sintetizzare rapidamente i contenuti di una legislazione complessa e talora contraddittoria, il cui dettato talvolta non trova riscontro nella testimonianza di storici di primissimo rango, come quella di Ammiano Marcellino. Tuttavia, pur con ogni cautela dovuta allo stato delle fonti che, per quanto relativamente abbondanti, sono certamente frammentarie e pongono indubbie difficoltà interpretative, credo che si possano individuare alcuni punti fermi. In primo luogo si può osservare come la macchina della repressione penale tenda ad operare diversamente secondo il tipo di reato: si tratta, del resto, di un fenomeno ben noto anche ai nostri tempi. L’adozione di procedure differenziate, meno garantiste o comunque più severe, per l’accertamento della responsabilità di crimini specialmente gravi, in particolare quando essi siano associativi e minacciosi per la tenuta delle istituzioni dello Stato, è cosa tutto sommato ovvia. Anche se, va detto, l’assenza di una matura sensibilità giuridica in tema di repressione penale, che caratterizza quest’epoca, contribuisce ad accrescere la sensazione, nell’osservatore, che il legislatore allenti o stringa le proprie morse sulla collettività più per l’urgenza di eventi contingenti, che secondo indirizzi meditati di politica giudiziaria. Il che non toglie che, specie in alcuni casi, si possano osservare orientamenti legislativi ben definiti, da ricondurre alla particolare sensibilità di questo o quel sovrano: la legislazione di Teodosio, mirante a mitigare gli effetti delle accuse private sugli imputati, ne è un esempio evidente. Questo aspetto personale fa sì che al regno di diversi imperatori corrispondano indirizzi normativi in qualche misura diversi. In generale, l’impressione che si ricava dalle fonti è che procedure inquisitorie attivate ex officio siano diffuse e saldamente attestate per la repressione di crimini come la lesa maestà, l’esercizio di arti magiche, la devianza religiosa in genere. Giudici, governatori e funzionari sono invitati alla vigilanza in modo da assumere un atteggiamento attivo nella loro azione di contrasto. Il ricorso alle più varie fonti informative, incluse semplice voci e dicerie è anch’esso fenomeno ben attestato e pare in proposito del tutto ragionevole l’osser-

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vazione di Lauria, secondo il quale il ricorso a delatori e informatori, per quanto formalmente riprovato, fu in realtà di regola ampiamente praticato 1. Piuttosto, se vi è un punto circa il quale la legislazione del IV secolo si mostra costante ed omogenea, esso concerne i libelli famosi: l’ostilità verso questo tipo di scritti non è in contraddizione con gli spazi lasciati aperti per delatori e informatori. Questi ultimi, infatti, erano utili alla raccolta di informazioni e alle indagini eventualmente svolte da funzionari dotati di poteri di polizia e da parte degli stessi giudici. I libelli, invece, sono percepiti come uno strumento meramente diffamatorio, la cui particolare pericolosità sotto il profilo politico e del governo dell’Impero ne suggerisce la più drastica repressione: a questo proposito non va sottovalutato il fatto che si trattava di testi scritti, che avrebbero potuto essere diffusi e fatti circolare nascostamente, danneggiando la credibilità stessa delle istituzioni imperiali. È probabile, peraltro, che essi contenessero spesso accuse circa malversazioni e abusi commessi dagli alti funzionari dell’Impero nelle provincie. Per quanto riguarda le accuse sporte da privati, è lecito supporre che esse avessero larga parte nell’attivare il procedimento penale specialmente per i reati comuni, e là dove l’accusatore era portatore di un interesse personale alla repressione del reato, in quanto parte direttamente o indirettamente offesa. Talune sopravvivenze terminologiche, e specialmente le norme relative alla repressione della calunnia, poi estese alle accuse temerarie in genere, non devono indurre a parlare di sopravvivenza (e tanto meno di prevalenza) di un «rito» accusatorio per quest’epoca. In realtà, se si guarda alla struttura del processo e al ruolo del giudice, l’impressione che se ne ricava è della vigenza di un modello sostanzialmente inquisitorio: l’accusator, in questo senso, è una figura particolare di denunziante, che non assume il ruolo di «parte» proprio perché il processo non è, in quest’epoca, un processo di parti. La stessa repressione dell’accusa temeraria e l’introduzione di limiti per la desistenza da parte dell’accusatore, si inquadrano in una concezione inquisitoria, tendendo a porre rimedio agli eccessi che potrebbero derivare dal tipo di processo vigente. L’inasprimento della repressione della calumnia, fino a ricomprendere in essa l’accusa temeraria non mira a riaffermare la vigenza di antiche procedure ormai abbandonate. Si tratta di un fenomeno che non ha di per sé una coloritura tale che permetta di ascriverlo in via esclusiva a questo o quel modello processuale, giacché le sue motivazioni sono essenzialmente pratiche, indipendenti dall’architettura del processo. Da questo punto di vista, non credo che sia corretto parlare, per questo periodo, di una pluralità di modelli vigenti: il modello, nelle sue strutture più profonde, sembra essere uno solo, anche se presenta delle varianti a seconda dell’impulso che attiva il procedimento e del tipo di reato in esame. 1

LAURIA (1983), p. 298.

Considerazioni conclusive

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Confonde l’interesse dell’accusatore a dimostrare le proprie accuse – interesse sempre presente presso qualsiasi denunziante toccato direttamente dal reato, e reso più forte dall’esigenza di sfuggire le eventuali sanzioni per l’accusa temeraria – con l’onere della prova gravante sull’accusa, chi evoca il modello accusatorio. Ed è logicamente improponibile presentare il processo penale di quest’epoca secondo il classico schema triangolare accusa-difesa-giudice, con il giudice terzo e in posizione di recettività rispetto al gioco delle parti. Come già detto più volte, è il giudice a signoreggiare il processo e la previsione della detenzione dell’accusatore, fino a sentenza, ne è una prova, al pari dell’uso di detenere perfino i testimoni 2. Si è gà visto all’inizio, come lo stesso comportamento di Ambrogio, nella sua qualità di giudice ecclesiastico, che ictu oculi potrebbe dare l’impressione di ispirarsi ancora alle antiche procedure accusatorie, in realtà sia da esse piuttosto distante. Del resto, è del tutto evidente che in questo periodo il compito del giudice non è certo quello di giungere alla composizione di conflitti fra parti, ma di assicurare una severa repressione del crimine, facendosi così strumento dell’interesse dello Stato. Il ricorso alla tortura, come mezzo di acquisizione delle prove, è frequentissimo: nei processi descritti da Ammiano essa sembra anzi essere il principale strumento nelle mani del giudice per il raggiungimento della verità 3. In questo quadro è naturale che si dovessero escogitare delle cautele, per evitare che i soggetti colpiti da accuse temerarie patissero tormenti cruenti senza che di ciò si potesse tenere responsabile l’accusatore. L’accusatore, insomma, avvia una macchina dispensatrice di dolore e sofferenza che sarà poi molto difficile arrestare: di qui l’aggravamento della sua responsabilità. Per i crimini più gravi, si è già detto, sussurri o delazioni sarebbero stati sufficienti ad attivare il procedimento, con la cattura, detenzione e interrogatorio sotto tortura degli imputati. In certi casi si ha perfino l’impressione che – secondo un uso ben noto per l’età medioevale e moderna – l’imputato potesse sottrarsi alla condanna (o almeno alla condanna capitale) solo resistendo ai tormenti e tenendosi saldo nel negare quanto imputatogli 4. In conclusione, un’ultima breve considerazione: dopo quanto visto finora, ci si potrebbe interrogare sull’opportunità di applicare i moderni modelli processualpenalistici all’interpretazione dell’antichità tarda. Sono essi troppo intrinsecamente «moderni» per essere impiegati come canone interpretativo di un mon2

Supra, p. 149 ss.

3

Supra, p. 109 ss.

4

FOUCAULT (1993), p. 44 ss.

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

do così lontano? Non lo credo. Se usati cum grano salis, con l’accortezza di evitare indebite sovrapposizioni, rischiosi nominalismi e soprattutto prestando attenzione al cuore dei modelli medesimi, ossia all’intima architettura del processo, senza sopprimere al contempo in rigidi stilemi i fini dettagli che caratterizzano le procedure di ogni fase storica si può ben dire che essi si dimostrano altrettanto efficaci sia per la comparazione sincronica, che per quella diacronica: per la descrizione del presente così come per quella del passato.

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INDICE DELLE FONTI

FONTI GIURIDICHE ROMANE PREGIUSTINIANEE CODEX THEODOSIANUS 1.12.1 p. 96 1.16.5 p. 131 1.16.6 p. 84, 86, 96 1.16.9 p. 122 1.16.10 p. 120, 121 1.16.11 p. 132 6.29.1 p. 107, 108 9.1.3 p. 78 9.1.4 p. 84, 85 9.1.5 p. 37, 88 9.1.7 p. 98, 100, 101 9.1.8 p. 122 9.1.9 p. 123, 124 9.1.10 p. 124 9.1.11 p. 125 9.1.12 p. 127 9.1.14 p. 153 9.1.15 p. 152 9.1.17 p. 153 9.1.19 pr. p. 149 9.2.3 p. 147, 148, 149 9.3.1 pr. p. 54 9.3.4 p. 120 9.3.6 p. 148 9.5.1 p. 69 9.6.2 p. 142 9.7.2 p. 77, 78 9.7.4 p. 159

9.7.5 p. 157 9.8.1 p. 41 9.9.1 p. 61, 63, 64, 77 9.10.3 p. 72, 74, 80 9.14.1 p. 35 9.16.1 p. 65, 66, 67 9.16.2 p. 66 9.16.7 p. 121 9.16.8 p. 121 9.16.10 p. 134 9.17.1 p. 103 9.17.2 p. 103 9.17.3 p. 103 9.17.4 p. 103, 104 9.18.1 p. 64 9.19.2 p. 58, 60, 61 9.19.4 p. 143 9.21.2 p. 83 9.21.5 p. 105 9.21.6 p. 105 9.23.1 pr. p. 106, 107 9.24.1 p. 89 9.24.3 p. 133 9.27.6 p. 157 9.29.2 p. 158 9.34.1 p. 90 9.34.2 p. 91 9.34.3 p. 91 9.34.4 p. 91 9.34.5 p. 100, 101 9.34.6 p. 101 9.34.7 p. 126

186

Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

9.34.8 p. 125 9.34.9 p. 155 9.35.1 p. 130 9.35.2 p. 142 9.36.1 p. 154 9.37.1 p. 56, 57 9.37.2 p. 129 9.37.3 p. 151, 156 9.39.1 p. 151 9.39.2 p. 152, 153 9.40.1 p. 95 10.10.2 p. 67 10.10.4 p. 100 10.10.10 p. 127 11.39.4 p. 60 16.2.23 p. 160 16.5.7 p. 162 16.5.9 p. 161, 163 16.5.15 p. 163 16.5.29 p. 165 16.5.32 p. 165 16.10.12 p. 164 INTERPRETATIONES VISIGOTHICAE ad CTh. 1.16.9 p. 122 ad CTh. 1.16.10 p. 120 ad CTh. 1.16.11 p. 132 ad CTh. 9.1.3 p. 79 ad CTh. 9.1.12 p. 128 ad CTh. 9.1.14 p. 154 ad CTh. 9.6.2 p. 142 ad CTh. 9.7.2 p. 77 ad CTh. 9.7.4 p. 159 ad CTh. 9.7.5 p. 158 ad CTh. 9.9.1 p. 62 ad CTh. 9.10.3 p. 73 ad CTh. 9.19.4 p. 144 ad CTh. 9.29.2 p. 158 ad CTh. 9.34.9 p. 156 ad CTh. 9.36.1 p. 155 ad CTh. 9.37.1 p. 57 ad CTh. 16.2.23 p. 160

GIUSTINIANEE DIGESTA 1.18.13 pr. p. 5, 9 3.6.3.2 p. 57 25.3.4 p. 35 25.4.1 p. 41 48.2.6 p. 168 48.2.8 p. 39 48.3.6 p. 5, 10 48.5.4.1 p. 78 48.9.1 p. 34 48.16.4 pr. p. 79 49.1.1 pr. p. 22 CODEX 1.9.6 p. 158 1.40.3 p. 86 4.19.25 p. 151 7.13.2 p. 83 7.13.3 p. 89 9.1.12 p. 79 9.1.19 p. 128 9.2.7 p. 6, 9 9.2.8 p. 7, 9 9.2.13 p. 153 9.2.14 p. 153 9.2.15 p. 153 9.3.2 p. 148 9.4.1 p. 54 9.4.5 p. 148 9.7.29 p. 77 9.8.3 p. 69 9.8.4 p. 131 9.9.31 p. 159 9.11.1 p. 61 9.12.7 p. 73 9.16.7 p. 35 9.16.8 p. 159 9.18.3 p. 66 9.19.2 p. 103

Indice delle Fonti

9.19.3 p. 103 9.19.4 p. 103 9.20.16 p. 65 9.22.22 p. 59 9.22.23 p. 144 9.24.1 p. 83 9.24.2 p. 105 9.27.4 p. 157 9.36.2 p. 127, 155 9.39.1 p. 158

9.41.16 p. 143 9.42.2 p. 57 9.42.3 p. 129 9.44.1 p. 155 9.46.7 p. 123 9.46.8 p. 152 9.46.9 p. 151 9.47.16 p. 96 12.22.1 p. 107

FONTI GIURIDICHE MODERNE CEDU, art. 6 p.2 Cost., art. 111 p. 2 L. 3 aprile 1974, n. 108 p. 2

FONTI CANONICHE, PATRISTICHE ED ECCLESIASTICHE ALTERCATIO HERACLIANI LAICI MINIO EPISCOPO SIRMIENSI 133 p. 52 147 p. 52 AMBROSIUS Epistulae 56.1 p. 32, 33, 36, 38, 42, 43, 50 56.2 p. 37, 39, 48, 50 56.3 p. 40, 50 56.4 p. 33, 36, 37, 43, 44, 51 56.5 p. 56 56.7 p. 40 56.8 p. 47 56.9 p. 41, 42, 47 56.11 p. 47 56.12 p. 33, 48 56.14 p. 41 56.15 p. 34, 43 56.16 p. 34 56.17 p. 32, 33, 39 56.18 p. 33, 37, 51

CUM

GER-

56.19 p. 33, 39, 44 56.20 p. 44 56.21 p. 32, 44, 45 56.22 p. 45 56.23 p. 45 56.24 p. 45 57.1 p. 43, 46 AUGUSTINUS HIPPONENSIS Epistulae 43 p. 94 65 p. 48 88 p. 101 BASILIUS CAESARIENSIS Epistulae 225 p. 125 289 p. 34 COLLECTIO AVELLANA 1.1.10 p. 124

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

CONCILIUM CARTHAGINENSE VII [PL 84.227] can. 2 p. 38

SOCRATES SCHOLASTICUS Historia Ecclesiastica 1.8 p. 11

CYPRIANUS CARTAGINENSIS Epistulae 4.3.1 P. 47

SULPICIUS SEVERUS Historia Sacra 2.47 p. 160

EUSEBIUS CAESARIENSIS Vita Constantini 3.13 p. 11 ET SCRIPTA VETERA AD DONATISTARUM HISTORIAM PERTINENTIA [PL

EXCERPTA

43, 773 ss.]

col. 783 ss. p. 94 col. 784 p. 94, 95

THEODORETUS CYRRHENSIS Historia Ecclesiastica 5.2 p. 160

FONTI STORICHE E LETTERARIE

MARCUS TULLIUS CICERO Pro Sexto Roscio Amerino 56 p. 68 AMMIANUS MARCELLINUS Historiae 14.1.2 p. 110 14.1.4 p. 110 14.1.5 p. 110 14.1.6 p. 110 14.5.2 p. 111 14.5.3 p. 111 14.5.6 ss. p. 111 14.5.9 p. 112 14.7.21 p. 112 14.9.3 p. 112 14.9.6 p. 112 15.1-3 p. 102 15.3.2-3 p. 113 15.3.6 p. 113 15.3.7 ss. p. 113 15.5.5 ss. p. 113 15.5.12 p. 113 15.5.13-14 p. 113 15.6.1 p. 111 16.6.2-3 p. 102

16.8.3-6 p. 113 16.8.9 p. 113 16.8.12 p. 114 18.1.2 p. 115 18.1.4 p. 115 18.3.1 ss. p. 113 19.12.1 ss. p. 113 19.12.7 p. 113 19.12.17 p. 114 19.12.18 p. 114 19.12.13-16 p. 113 21.12.20 p. 116 21.16.8 p. 114 21.16.9-10 p. 114 22.3.2 p. 116 22.3.7 p. 116 22.7.3 p. 115 22.9.9 p. 116 22.9.10-11 p. 117 22.10.3 p. 117 22.11.4 ss. p. 117 26.3.4 p. 134 26.10.10 p. 135 26.10.11 p. 135 27.7.5 p. 135 27.8.8 p. 135

Indice delle Fonti

28.1.2 p. 135 28.1.10 p. 136 28.1.11 p. 136 28.1.12 p. 136 28.1.15 p. 136 28.1.19-23 p. 136 28.1.25 p. 136 28.1.26 ss. p. 136 28.1.36 p. 137 28.1.37 p. 137 28.1.40 p. 49, 137 28.1.46 ss. p. 137 28.1.54 ss. p. 137 28.4.1 p. 137 28.4.25 p. 138 29.1.5-14 p. 138 29.1.13 p. 138 29.1.18 p. 138 29.1.23 ss. p. 138 29.1.25 p. 138 29.1.33 ss. p. 138 29.1.40 p. 139 29.2.4 p. 139 29.3.22 ss. p. 139 30.4.11 p. 139 LIBANIUS Orationes 45.3 p. 166 45.5 p. 166

45.6 p. 166 45.8 p. 166 45.11 p. 166 45.13 p. 167 45.14 p. 167 45.15 p. 167 45.18 ss. p. 167 45.32-33 p. 167 MARCUS FABIUS QUINTILIANUS Institutio Oratoria 12.7.3 p. 68 QUINTUS AURELIUS SYMMACHUS Relationes 49.1 p. 75 49.2 p. 74 49.3 p. 74, 75 49.4 p. 75 PUBLIUS CORNELIUS TACITUS Annales 2.27-32 p. 25 4.18-30 p. 25 4.30 p. 13 4.69 p. 25 ZOSIMUS Historia Nova 4.14.4 p. 139

FONTI EPIGRAFICHE E PAPIROLOGICHE FONTI EPIGRAFICHE

FONTI PAPIROLOGICHE

CIL

BGU 1024 p. 168

V.2781 p. 69 FIRA I.94 p. 69

BKU 144 p. 169 P.Col. VI.123 p. 168

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INDICE DEI NOMI

ANTICHI Africano, Agens in rebus p. 74, 75 Amanzio, Aruspice p. 136 Ambrogio, Santo p. 31-52, 173 Ammiano Marcellino p. 49, 72, 97, 98, 102, 109-117, 133-140, 171, 173 Anicio Probo, Prefetto p. 51 Antonino Pio, Imperatore p. 144, 146 Aproniano, Prefetto p. 134 Arcadio, Imperatore p. 154, 157, 164, 165 Basilio Magno p. 34 Caligola, Imperatore p. 114 Campano, c.v. p. 74 Ceciliano, Vescovo p. 93-94 Celsino, Proconsole p. 100 Cicerone, Marco Tullio p. 68 Cipriano, Santo p. 47 Commodo, Imperatore p. 114 Costante, Imperatore p. 98, 102, 103, 105 Costantino I, Imperatore p. 11, 14, 31, 38, 52, 53-96, 97-102, 105, 109, 110, 114, 124, 131, 144, 146, 160 Costantino II, Imperatore p. 98 Costanzo II, Imperatore p. 60, 98-116, 133 Costanzo Gallo, Cesare p. 102, 110-117, 133 Damaso, Papa p. 124, 160 Delfidio, Attio Tiro p. 115-117 Diocleziano, Imperatore p. 79, 93 Domiziano, Imperatore p. 114 Doriforiano, Viceprefetto p. 137 Eliano, Proconsole p. 90, 94-96 Eusebio, Filosofo p. 112-113 Felice di Aptungi, Vescovo p. 93-95 Festino di Trento, Proconsole p. 139

Florenzio, Rationalis p. 54-55 Floro, Prefetto p. 150, 151, 161, 162 Gaio Silio p. 25 Germinio, Vescovo p. 52 Gioviano, Imperatore p. 119 Giuliano, Imperatore p. 97, 103, 106, 114117, 119, 125, 139 Giustina, Imperatrice p. 141 Gordiano, Imperatore p. 9 Graziano, Imperatore p. 124, 125, 128, 129, 130, 133, 134, 141-147, 148, 151, 152, 153, 157, 158, 159, 160, 161, 163 Igino, c.v. p. 74 Indicia, Veronese p. 31-52 Leone, Notarius p. 136 Leonzio, Prefetto p. 98, 105 Leonzio, Veronese p. 44-45 Libanio di Antiochia p. 165-169 Libone Druso p. 25 Magnenzio, Usurpatore p. 98, 110, 111, 115 Maiorino, Vescovo p. 93 Mansurio, Vescovo p. 93 Marcellina, Santa p. 32, 44, 51 Marciano, Elio p. 5, 10 Massenzio, Imperatore p. 72 Massimiano, Imperatore p. 79 Massimino, Prefetto p. 49, 122, 123, 128, 131, 132, 133, 135-137, 139, 141, 143 Massimo, Prefetto p. 58 Massimo, Veronese p. 33-52 Milziade, Papa p. 38 Numerio, Governatore della Narbonense p. 115

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

Olibrio, Prefetto p. 130, 131, 137 Onorio, Imperatore p. 149, 164 Ottato di Milevi p. 94 Paolo, Notarius p. 111, 113 Patera, Attio p. 115 Paterna, Veronese p. 45, 51 Probo, Prefetto p. 129, 131, 132 Procopio, Usurpatore p. 135 Quintiliano, Marco Fabio p. 68 Renato, Veronese p. 44-45 Saluzio Secondo, Prefetto p. 116 Secondo di Tigisi, Vescovo p. 93 Settimio Severo, Imperatore, p. 168 Siagrio, Vescovo p. 31-52 Simmaco, Quinto Aurelio p. 74-75 Sulpicio Severo p. 160 Tacito, Publio Cornelio p. 12, 25, 68, 111 Taziano, Prefetto p. 153

Teodoreto di Cirro p. 160 Teodosio I, Imperatore p. 11, 147-165, 167, 171 Teodosio II, Imperatore p. 149 Tiberio, Imperatore p. 25, 111 Tizio Sabino p. 25 Ulpiano, Eneo Domizio p. 4, 22, 40, 57 Ursino, Antipapa p. 124 Valente, Imperatore p. 119-138, 143, 160 Valentiniano I, Imperatore p. 35, 119-140, 141, 160 Valentiniano II, Imperatore p. 141, 142, 143, 148, 151, 152, 153, 154, 155, 157, 158, 161, 163 Vero, Vicario d’Africa p. 94 Zenone di Elea p. 112 Zeno(ne), Santo p. 32, 43 Zosimo, Storico p. 139

MODERNI Adinolfi, G. p. 13, 55 Alessi, G. p. 1, 2, 15, 16, 17 Alföldi, M.R. p. 106 Amarelli, F. p. 84 Amodio, E. p. 2, 14, 23 Anagnostou-Canas, B. p. 168 Arangio-Ruiz, V. p. 9 Archi, G.G. p. 60, 145 Arjava, A. p. 32 Bagnall, R.S. p. 10, 169 Baldwin, B. p. 10 Banfi, A. p. 11, 31, 32, 35, 49, 52, 61, 62, 63, 64, 93, 124 Banterle, G. p. 31, 32 Barnes, T.D. p. 131 Bassanelli Sommariva, G. p. 3 Baudy, D. p. 66 Baus, K. p. 11, 98, 101, 120 Berti, G. p. 4 Bianchi Fossati Vanzetti, M. p. 35 Bianchi Riva, R. p. 79 Bianchini, M. p. 12

Binding, C. p. 4, 8 Biondi, B. p. 7, 9, 29, 35, 123, 148 Biscardi, A. p. 9, 13 Boddens Hosang, F.J.E. p. 158 Botta, F. p. 3, 12, 26, 99 Bourne, F.C. p. 69 Bove, L. p. 7, 9 Brown, P. p. 93 Burckhardt, J. p. 11 Bušek, V. p. 32, 37, 38, 42 Calas, J. p. 16 Cantarella, E. p. 17 Canzio, G. p. 21 Carnot, J.F.C. p. 16 Cavina, M. p. 17 Cenderelli, A. p. 65 Centola, D.A. p. 68, 71, 87, 123 Cerami, P. p. 2, 3, 4, 8, 17, 19, 21, 22, 24, 63, 67 Cervenca, G. p. 9 Cimma, M.R. p. 32 Coleman-Norton, P.R. p. 69

Indice dei Nomi

Condorelli, O. p. 125 Cordero, F. p. 1, 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 21, 23, 42, 109 Cubelli, V. p. 83 Cumont, F. p. 35 Cuneo, P. p. 98, 100, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107 Damaška, M.R. p. 18, 21, 22, 24, 25 De Bonfils, G. p. 120, 158 De Giovanni, L. p. 9, 11, 53, 66, 71, 77, 96, 121, 122, 162, 163, 165 Delmaire, R. p. 106 De Marini Avonzo, F. p. 84, 145 Demicheli, A. p. 109 Desanti, L. p. 66 Dezza, E. p. 24 Di Chiara, G. p. 2, 3, 4, 8, 17, 19, 21, 22, 24, 63, 67 Di Cintio, L. p. 57, 123, 125 Dillon, J.N. p. 54, 96, 157 Di Mauro Todini, A. p. 160 Dinacci, F.R. p. 21 Dossey, L. p. 52 Drijvers, J.W. p. 134 Engels, D. p. 35 Evans-Grubbs, J. p. 89, 133 Ewig, E. p. 11, 98, 101, 120 Fanizza, L. p. 68 Fayer, C. p. 78 Ferrini, C. p. 35 Field, S. p. 18 Fiore, C. p. 35 Fiorelli, P. p. 8 Forcellini, E. p. 64, 80 Foucault, M. p. 15, 173 Froeb, L.M. p. 21 Fuhrmann, C.J. p. 7 Galati, A. p. 2 García Sánchez, J. p. 97 Garlati Giugni, L. p. 35 Garofalo, L. p. 9, 27, 55, 68 Gaudemet, J. p. 14, 31, 32, 38, 42, 48 Giardina, A. p. 132 Giglio, S. p. 10, 11, 13, 27, 69, 74, 75, 104, 108 Girard, P.F. p. 70

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Giuffrè, V. p. 8, 9, 23, 55 Giuliani, G. p. 151 Godefroy, J. de p. 55, 65, 72, 79, 99, 100, 102, 104, 105, 108, 120, 121, 127, 128, 132, 146, 149, 154, 161, 162 Goldstein, A.S. p. 18 Grasso, G. p. 2 Grelle, F. p. 122, 132 Grosso, G. p. 9, 17 Harris, W.V. p. 35 Hengst, L. p. 134 Hoebel, E.A. p. 17 Horst, E. p. 93 Humfress, C. p. 162 Illuminati, G. p. 24 Johnson, A.C. p. 69 Kaiser, W. p. 120 Kelly, B. p. 168 Kobayashi, B.H. p. 21 Laiou, A. p. 133 Lauria, M. p. 4, 7, 8, 9, 28, 36, 37, 48, 53, 71, 77, 88, 172 Lenski, N.E. p. 126, 127 Lepore, P. p. 69 Levy, E. p. 8 Lizzi Testa, R. p. 66, 128, 134 Loschiavo, L. p. 32, 36, 37, 49, 50, 51 Lotz, A. p. 143 Lovato, A. p. 10, 55, 149, 155 Lucrezi, F. p. 66 Maiuri, A. p. 25, 68 Manfredini, A.D. p. 93, 100, 101, 109 Mantovani, D. p. 5 Marano, Y.A. p. 10 Marotta, V. p. 8, 10, 64 Martini, R. p. 59, 60, 73 Martroye, F. p. 32 Masini, E. p. 27, 116 Mazzarino, S. p. 115 Meyer-Zwiffelhoffer, E. p. 108 Miceli, M. p. 2, 3, 4, 8, 17, 19, 21, 22, 24, 63, 67 Minieri, L. p. 120 Mommsen, T. p. 3, 8, 9, 32, 48, 89, 91, 141, 158 Monaco, G. p. 18, 19, 23

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Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C.

Mossakowski, W. p. 88 Navarra, M. p. 109 Packer, H.L. p. 19, 23 Parisi, F. p. 18 Passerini, A. p. 98 Pavón Torrejón, P. p. 54 Pergami, F. p. 8, 9, 26, 28, 119, 120, 121, 123, 124, 126, 127, 129, 131, 132, 134 Petraccia Lucernoni, M.F. p. 108 Pietrini, S. p. 8, 9, 10, 32, 36, 48, 51, 53, 55, 56, 57, 59, 60, 61, 67, 69, 72, 77, 78, 79, 87, 97, 99, 100, 101, 104, 108, 110, 112, 123, 131, 152, 153 Posner, R.A. p. 21 Pound, R. p. 17 Provera, G. p. 34 Pugliese, G. p. 8, 9, 60 Purpura, G. p. 107 Radbruch, G. p. 19 Resta, E. p. 22 Rivière, Y. p. 8, 9, 25, 27, 55, 62, 68, 71, 87, 88, 92, 97, 105, 106, 107, 109, 127, 142, 150, 152 Robinson, O.F. p. 111, 124, 130, 143, 149, 154 Robleda, O. p. 133 Rocco, A. p. 1-2, 22 Russo Ruggeri, C. p. 131 Santalucia, B. p. 3, 4, 5, 6, 7, 9, 10, 17, 24, 35, 36, 37, 55, 57, 59, 64, 71, 77, 90, 96, 104, 106, 109, 122 Santucci, G. p. 153 Sargenti, M. p. 28, 37, 51 Satta, S. p. 23 Scapini, N. p. 7, 9

Schiavo, S. p. 60 Schmidt-Hofner, S. p. 132 Sciortino, S. p. 123, 151 Seeck, O. p. 54, 56, 58, 64, 69, 73, 77, 83, 84, 86, 88, 90, 91, 96, 98, 100, 101, 102, 132, 141, 142, 143, 148, 151, 152, 153, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 162, 163, 165 Senn, F. p. 70 Shaw, B.D. p. 125, 127 Sicurella, R. p. 2 Simmel, G. p. 20 Simon, J. p. 19 Siracusano, D. p. 2 Sivan, H. p. 115 Slootjes, D. p. 84 Solidoro, L. p. 11, 60, 130, 142 Soraci, R. p. 119 Spagnuolo Vigorita, T. p. 36, 60, 66, 67, 86, 152 Strachan-Davidson, J.L. p. 3 Taubenschlag, R. p. 41, 168 Teitler, H. p. 134 Torallas Tovar, S. p. 10, 41, 168, 169 Tranchina, G. p. 2 Venturini, C. p. 2 Vismara, G. p. 32 Voltaire p. 15 Volterra, E. p. 160 West, A. p. 18 Zaccaria, F.A. p. 31 Zanon, G. p. 7, 9, 10, 26, 29, 59, 64, 74, 86, 104, 107, 108, 120, 145 Zappalà, E. p. 2

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Finito di stampare nel mese di maggio 2016 nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220