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Italian Pages 190 [200] Year 2016
Regole e garanzie nel processo criminale romano
In copertina:
Jacques-Louis David, La morte di Socrate, 1787.
Donato A. Centola - Francesco Fasolino - Pietro P. Onida Carlo Pelloso - Federico Procchi - Margherita Scognamiglio
Regole e garanzie nel processo criminale romano a cura di Laura Solidoro
G. Giappichelli Editore
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http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0474-7
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Indice
pag.
Alle origini del garantismo: note introduttive Laura Solidoro
1
L’accusa nel sistema processuale delle quaestiones perpetuae tra funzione civica, dimensione premiale e disciplina sanzionatoria Donato Antonio Centola
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Regole di giudizio e garanzie dell’imputato nel processo criminale romano: la presunzione di innocenza Francesco Fasolino
33
La responsabilità penale degli enti collettivi fra diritto romano e diritto moderno Pietro Paolo Onida
59
VI
Indice
pag.
Ai primordi del giudizio popolare: poena capitis e garanzie del civis nella prima età repubblicana Carlo Pelloso
83
Prime considerazioni su imperium magistratuale e garanzie del civis nello ‘Strafrecht’ mommseniano Federico Procchi
121
Principio di legalità e divieto di analogia: note sull'origine del principio nullum crimen sine lege Margherita Scognamiglio
137
Indice delle Fonti A cura di Paola Pasquino e Giovanbattista Greco
175
Indice degli Autori A cura di Paola Pasquino e Carlo De Cristofaro
185
Alle origini del garantismo: note introduttive Laura Solidoro La meravigliosa fluidità del fenomeno giuridico non smette di riservarci sorprese. Il diritto penale, che in un periodo protrattosi per circa due secoli è stato segnato dall’affannoso impegno nella messa a punto di un complesso ed organico sistema garantista, ci si presenta oggi in fase di profondo ripensamento, di fronte alla constatazione che un eccesso di garantismo individuale, in alcuni contesti, può vanificare, e di fatto vanifica, l’efficacia dell’azione repressiva. Tanto si è notato, per esempio, con riguardo alla inidoneità del processo accusatorio – osannato come uno dei baluardi della democrazia, ma notoriamente inadatto all’adeguato e accurato esame di fattispecie oltremodo complesse, riferibili ai cd. Maxiprocessi – a fronteggiare alcune insidiose forme di criminalità organizzata 1. Ci si affanna perciò, già da un certo numero di anni, ad individuare (e a circoscrivere) gli ambiti in cui le garanzie dell’imputato e una applicazione troppo rigida dell’idea che la pena debba avere funzione esclusivamente rieducativa – e non anche persuasiva, o deterrente – possono ostacolare l’applicazione delle sanzioni punitive. Così, si è avvertita l’esigenza di un’articolata disciplina intesa alla puntuale e rapida individuazione dei soggetti responsabili dell’illecito penale: si pensi all’intervento del legislatore in sede di riforma dei reati ambientali 2 o in materia di responsabilità amministrativa/penale delle persone giuridiche 3 per la repressione della c.d. criminalità d’impresa. Per altro verso, sono sopraggiunte alcune disposizioni o escogitazioni giurisprudenziali volte ad affrontare con maggiore severità le indagini e i processi in cui sia coinvolta la criminalità organizzata, che hanno in qualche misura incrinato e sacrificato il dogma del garantismo in nome e in vista dell’esigenza di difesa sociale, in settori 1 V. già G. Fiandaca, Criminalità organizzata e controllo penale, in Questione giustizia, 1991, 26 ss. 2 L. 22 maggio 2015, n. 68. 3 D.lgs. n. 231 del 2001.
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in cui si avverte più a rischio l’interesse pubblico salute, ambiente, sicurezza e ordine pubblico). Alla ricerca di nuovi e migliori equilibri è mirato pure un altro più generale movimento, attualmente in corso. Dopo la lunga primazia del positivismo, che ha individuato nella legge statale – e più precisamente nei codici – lo strumento di cernita e realizzazione dei diritti soggettivi, a determinare un ben differente assetto sono intervenuti il costituzionalismo prima e il diritto sovranazionale e transnazionale (ivi inclusi alcuni settori del c.d. soft law) poi. Come già da tempo si sottolinea, la sostituzione della tradizionale ‘gerarchia delle fonti’ 4 con la complessa figura del ‘sistema di fonti’ ha ingenerato una brusca inversione di tendenza rispetto al sistema legalista, per l’irrinunciabilità – implicata dal nuovo ordine giuridico globale – dell’accresciuto impegno tecnico e, quindi, dell’apporto creativo del giurista-interprete. Ciò ha dato luogo ad un prepotente ritorno al ‘diritto del giurista’, che non vede più nel giudice un mero esecutore della legge scritta, e segnatamente dei codici nazionali: da quando lo strumento-legge ha perso la sua plurisecolare posizione apicale all’interno della gerarchia delle fonti formatasi assieme allo Stato moderno, la moltiplicazione dei formanti dell’ordinamento giuridico, cui il giurista-interprete deve fare necessariamente riferimento per individuare la soluzione corretta del caso sottopostogli, ha comportato un allargamento di orizzonti e una concezione del diritto più ampia, nei contenuti, nelle scaturigini, negli ambiti spaziali di applicazione. Rispetto a questa significativa e rapida evoluzione, il diritto penale è rimasto inizialmente ‘protetto’ dai mutamenti, almeno in massima parte, per il principio garantista di legalità penale. Ma, attualmente, la folta giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nonché una serie di radicali riforme interne (si veda, tra le più recenti, quella realizzata con il d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, recante disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, che, apportando alcune modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, ha rimesso al prudente apprezzamento del giudice la valutazione sulla esiguità, o non, del fatto contestato all’imputato 5 hanno restituito alle valutazioni del giudice, anche nel campo del diritto penale 6, quel ruolo di spicco che le rivendicaIl mutamento di prospettiva è stato rilevato già da G. Zagrebelsky, Il sistema delle fonti del diritto, rist. Torino, 1991. 5 Amplius, A. di Tullio d’Elisiis, Non punibilità per tenuità del fatto e strategie processuali, Napoli, 2015. 6 Si veda ora AA.VV., CEDU e ordinamento italiano. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e l'impatto nell'ordinamento interno (2010-2015), Padova, 2016. 4
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zioni giusnaturaliste sembravano avere ridotto al minimo, e in via definitiva. La ‘giurisprudenzialità del diritto’, insomma, ha investito anche il settore penale. Sono perciò oggi sul tappeto due quesiti, che stanno animando appassionati dibattiti: il fenomeno del ‘giudice-legislatore’ consente di ritenere ancora condivisibile il principio-cardine dello Stato moderno, cioè la divisione dei poteri? E nello specifico ambito del diritto penale, si prospetta tuttora valido il principio nullum crimen, nulla poena, sine praevia lege, a fronte dell’innegabile, continuo fluire di un diritto penale giurisprudenziale e della comparsa del concetto di legalità penale europea? 7 Per quanto riguarda l’esperienza italiana, si può assumere come emblematico il dibattito accesosi intorno alla recente figura del ‘concorso esterno nell’associazione ex art. 416-bis c.p.’, che fino a poco tempo fa si reputava pressoché concordemente nato dalla riflessione della giurisprudenza. Ebbene, forse per arginare lo straripamento dell’apporto creativo del giudice penale, e l’inevitabile vulnus al dogma della riserva di legge, Cass, s.u, n. 2653 del 21 gennaio 2016 ha affermato che detta figura non è creazione giurisprudenziale, ma consegue dall’interpretazione dell’art. 110 c.p. e 416-bis c.p., così prendendo posizione sulla portata dei principi enunciati dalla Corte EDU a proposito del caso Contrada con la sentenza del 14 aprile 2015 (Contrada c. Italia, ricorso n. 66655/13) 8. L’asserzione farà sicuramente molto discutere, ma in questa sede ci preme sottolineate soltanto l’imbarazzo che attualmente suscita l’eventuale ammissione di una funzione creatrice e innovativa della giurisprudenza, in materia penale. La conseguenza tra i due profondi mutamenti – appena illustrati – che interessano il diritto penale odierno si rinviene, a mio parere, in un terzo fenomeno: il ritorno in auge dei principi, delle regole, dei criteri fondamentali caratterizzanti i diritti europei, o meglio la famiglia di civil law. Una volta incrinato il dogma della stretta riserva di regge nella materie penale, e tramontato il primato della legge nazionale nella gerarchia delle fonti, l’operatore del diritto, in primis il giudice, deve ispirarsi al nucleo più solido della nostra tradizione giuridica, per trovare la migliore soluzione possibile del caso concreto. Ed è appunto questa la tendenza riconoscibile nell’attività istituzionale e nel concreto operare della nostra Corte Costituzionale, che Paolo Grossi identifica e definisce come ‘l’invenzione del diritto’, beninteso nel significato del latino invenire, ossia cercare e trovare 9. G. Diotallevi, Creazione giurisprudenziale, irretroattività e legalità penale (art. 7 CEDU), in AA.VV., CEDU, cit., 591 ss., spec. 603 ss. 8 Sul caso Contrada si veda ora G. Diotallevi, Creazione, cit., 591 ss. 9 P. Grossi, Ordine/compattezza/complessità. La funzione inventiva del giurista, ieri ed oggi, Napoli, 2012. 7
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Di qui il rinnovato interesse per lo studio delle origini storiche di regole e principi generali, che investe anche il campo specifico del diritto penale, persino – provvidamente – al livello della migliore manualistica 10. La ritrovata centralità di questi antichi formanti dell’ordinamento giuridico (mores, consuetudo, exempla, regulae iuris e così via) si deve alla considerazione che essi, in quanto precipitato di una esperienza plurimillenaria, esprimono i più apprezzabili tra gli interessi della prassi sociale ed economica dei popoli. Lo storico del diritto, a questo punto, non può esimersi da una precisazione. Occorre raffreddare gli entusiasmi per il soft law e per il ‘diritto che nasce dal basso’, quando queste forme di pretesa giuridicità risultino devianti rispetto ai principi fondamentali (non soltanto strettamente giuridici, ma anche etici), sentiti come tali da una data società: non tutto ciò che è ‘reale’, ‘effettivo’, deve assurgere a regola giuridica. Viviamo, è vero, in un’epoca caratterizzata dal pluralismo dei valori. Ma bisogna ricordare che i ‘valori’, ancorché plurimi, sono soltanto quelli validati dal tempo e dallo spazio. In altri termini, va riaffermata l’opportunità di selezionare, nelle disparate istanze o pratiche circolanti nel sociale, quelle ritenute degne e meritevoli di protezione giuridica, assumendo quali criteri selettivi almeno l’ampiezza della condivisione e la lunghezza dei tempi. La validazione da parte del tempo e la diffusione nello spazio costituiscono peraltro la base tradizionale del riconoscimento giuridico di principi, regole e criteri cui attingere per la migliore realizzazione dei diritti soggettivi. Torniamo allora al mutevole scenario del diritto penale odierno, in cui si fronteggiano le due opposte esigenze già menzionate: le garanzie dell’imputato e l’efficacia dell’azione repressiva. E ciò unitamente ai rispettivi corollari. Per citarne soltanto alcuni: certezza del diritto e principio di legalità penale da un lato, ampiezza dei poteri del giudicante nella valutazione delle circostanze del reato e definizione di criteri idonei alla precisa individuazione del soggetto responsabile, sul fronte opposto. È forte l’aspirazione a realizzare il giusto dosaggio di questi ingredienti. Ma l’esperienza – specie quella giuridica – deve snodarsi attraverso periodi lunghissimi di decantazione, perché sia dato valutare in maniera equilibrata gli eventi, le scelte e le relative conseguenze. E perciò, non è certo un caso se il fitto dibattito circa la possibilità di conciliare detti principi e modalità operative – elementi tutti ugualmente consustanziali ai sistemi penali moderni, sebbene almeno sotto alcuni profili essi paiano incompatibili tra loro – si sia sviluppato una volta portato a compimento il lento processo di identificazione e tutela delle gaSi v. il richiamo ai precedenti storici e il taglio generale scelto, per consentire uno studio più critico, concettuale e sistematico della materia, da M. Santise, F. Zunica, Coordinate ermeneutiche di diritto penale, 2a ed., Torino, 2016. 10
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ranzie dell’imputato. Un iter che, come si evince appunto dal libro che qui introduco, si è snodato lungo un percorso di oltre duemila anni. In genere, nelle trattazioni sintetiche di storia del diritto penale si tende a collocare negli ultimi decenni del 1700 l’edificazione delle basi del diritto penale moderno, inteso – secondo quanto anticipato dal pensiero di Pufendorf e poi meglio articolato in Francia da Montesquieu e in Italia da Muratori e Beccaria – non più come vendetta, ma come riparazione proporzionale al danno inferto alla società 11. Alla Rivoluzione Francese si attribuisce poi l’ulteriore passo verso l’ideologia dell’uguaglianza e della libertà individuale, pure se nell’alveo di una perdurante concezione dello Stato assolutistico, dal momento che i giacobini – in questo non molto diversamente dai monarchi dell’ancien règime – miravano al controllo del diritto. Tali istanze si tradussero nella istituzione dei capisaldi dei diritto moderno, che ben conosciamo: il principio di legalità (nullum crimen sine lege), con cui si investiva lo Stato del compito di indicare tassativamente gli illeciti penali e le relative sanzioni; la difesa dei diritti soggettivi dell’imputato e dunque l’individuazione di un certo numero di garanzie necessarie nel processo penale; la razionalizzazione delle pene, ora disgiunte dalla crudeltà della vendetta e rapportate piuttosto ai criteri obiettivi della gravità del delitto e del danno inferto alla società. Tanto premesso, va però detto che troppo spesso si confonde il garantismo proprio dello Stato moderno di tipo democratico con il garantismo tout court. Quest’ultimo non è di certo un fenomeno sorto dal nulla, a fine Settecento. La diffusa riconduzione del primo garantismo soltanto all’avanzata età moderna si collega con un cospicuo filone storiografico, costola del pensiero liberale, che muove in opposizione a quanto bene aveva messo in evidenza Jean-Jacques Rousseau 12: l’esistenza di ben precise garanzie dei diritti individuali dei singoli cittadini, e segnatamente degli imputati nel processo criminale, già nell’ordine giuridico della repubblica romana 13. L’illuminista francese, con le sue affermazioni di sapore apodittico, senza dubbio esagerava la portata degli antichi istituti, come più avanti preciserò e come gli Autori di questo libro dimostrano in dettaglio. Ma il suo giudizio non era affatto privo di fondamento. Gli spunti offerti da Rousseau si dimostrarono, infatti, assai fecondi. Alla illustrazione puntuale del diritto penale Si legga, a titolo esemplificativo, P. Prodi, Per una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna, 2000, 428 ss. 12 Nel suo Discours sur l’économie politique (1754-1755). 13 Lo ricorda A. Metro nella relazione introduttiva a ‘Praesidia libertatis’. Garantismo e sistemi processuali nell’esperienza di Roma repubblicana. Atti del Convegno internazionale di diritto romano, Copanello 7-10 giugno 1992, a cura di F. Milazzo, Napoli, 1994, 8. 11
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e criminale romano (sostanziale e processuale), nell’ottica appena segnalata, si dedica, sul finire dell’Ottocento, un illustre liberale, lo storico e filologo tedesco Theodor Mommsen, la cui opera 14 si caratterizza nel complesso – sotto l’aspetto che qui interessa – per l’enfatizzazione e l’esaltazione della libertà individuale nella vicenda storica di Roma. Ne risulta che l’aspirazione al garantismo, oggi emblema di civiltà giuridica, non nasce ex novo nel pensiero giusnaturalista, ma trapela già dal diritto romano. Mommsen pone l’accento sulle prime garanzie individuali del cittadino nel diritto criminale romano 15 e sulla sensibilità dimostrata dall’antica scienza giuridica per i principi garantisti 16. L’inquadramento generale dello Strafrecht risente però marcatamente del metodo pandettistico allora imperante. Così, nella ricostruzione di Mommsen, l’esplicazione dei poteri di coërcitio del magistrato sostanzia un ‘giudizio di primo grado’. E si sottolinea come l’agire del magistrato venga limitato (‘depotenziato’, secondo la felice espressione di Masiello 17 attraverso la previsione della provocatio, che erode il potere magistratuale fino a ridurre il ‘giudizio di primo grado’ ad una sorta di ‘proposta di condanna’, in nome di un superiore principio di controllo da parte del populus 18. Provocatio ad populum e iudicium populi (quest’ultimo configurato alla stregua di un secondo grado di giudizio) vengono quindi presentati come ‘piena espressione della libertà civica romana’. Ancora in questa prospettiva, lo storico tedesco esalta l’introduzione delle quaestiones perpetuae, in quanto ispirate ad un modello accusatorio e caratterizzate da una procedura tendente alla parificazione di accusa e difesa e alla realizzazione dei primi elementi del principio del contradditorio 19. A Mommsen si è rimproverata di recente la ricerca forse troppo esasperata di una coerenza interna degli antichi istituti, nonché il ricorso a categorie troppo attualizzanti e, soprattutto, dai contorni troppo netti: si pensi, per esempio, al meccanismo delle quaestiones perpetuae, che, se da un lato realizzavano alcune forme di garanzia dell’imputato, per altro verTh. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899. Ampia trattazione in C. Venturini, Aspetti costituzionali e repressione penale nell’opera di Theodor Mommsen, in AA.VV., Tradizione romanistica e costituzione, diretto da L. Labruna, a cura di M.P. Baccari, C. Cascione, II, Napoli, 2006, 1623 ss. 16 V. ora P. Santini, Spunti di riflessione sull’ideologia dello ‘Strafrecht’mommseniano, in AA.VV., Homenaje al Professor Armando Torrent, a cura di A.M. Villar, A.C. González, S. Castán Pérez-Gómez, Madrid, 2016, 1051 ss., spec. 1057, con esauriente excursus storiografico. 17 T. Masiello, Mommsen e il diritto penale romano, Bari, 1995, 6. 18 Così P. Santini, Spunti, cit., 1059. 19 Ibid., 1057. 14 15
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so si configuravano alla stregua di un giudizio ‘di unico grado’ (e dunque in modo tale da inficiare il modello garantista), stante l’esclusione della possibilità di provocare. Ciononostante, nelle grandi linee, il disegno complessivo ancora oggi manifesta una forte tenuta. Successive ricerche hanno contribuito ad approfondire, puntualizzare, meglio precisare – e sotto qualche aspetto correggere – alcune approssimazioni e le numerose forzature riscontrabili nello Strafrecht mommseniano. Tra i primi studi italiani riconducibili ad una cauta revisione del modello mommseniano, sui temi che qui interessano, rilevano in particolare i contributi di Pugliese, Santalucia, Venturini: studiosi che, pure se con differenti metodi di indagine e approcci alle fonti, hanno contribuito a sminuire la portata del preteso garantismo romano, raffreddando – nella giusta misura (non sono infatti mancati successivi furori iconoclasti) – gli entusiasmi accesi da Mommsen sulle libertà repubblicane 20. Giovanni Pugliese è tra i primi studiosi a procedere ad una revisione critica della materia, affrontando il tema – pure se all’interno di una trattazione molto sintetica – nelle sue evoluzioni complessive e mettendo in evidenza le molteplici forme di garanzia, con opportuna distinzione tra l’età repubblicana e l’età imperiale 21. Per l’età repubblicana, lo studioso individua quale forma principale (ma non unica) di garanzia dell’imputato la provocatio ad populum e vede i primi elementi del principio di legalità penale nell’introduzione delle quaestiones perpetuae; al tempo stesso segnala come in circostanze particolari e straordinarie si giungesse alla sospensione delle garanzie costituzionali mediante senatus consultum ultimum e quaestiones extra ordinem. Fu attraverso questi due strumenti – sottolinea Pugliese – che tra II e I sec. a.C. le garanzie dell’imputato furono rese di fatto spesso inoperanti. Inoltre, diversamente da Mommsen e distaccandosi da inopportune prospettive attualizzanti, Pugliese rappresenta la provocatio non già come un appello o una impugnazione di sentenza pronunciata dal magistrato (dal momento che non si trattava necessariamente di un atto dell’accusato), bensì come «un principio, che vietava di giudicare un cittadino romano per un delitto capitale se non con un processo comiziale» 22. Alcuni anni dopo, Bernardo Santalucia e Carlo Venturini, esaminando profili ed eventi molto più specifici, in ambiti cronologici assai circoscritti, V. al riguardo anche l’efficace excursus di A. Metro, nella relazione introduttiva a ‘Praesidia’, cit., 69 s., 73, 83 ss. 21 G. Pugliese, Le garanzie dell’imputato nella storia del processo penale romano, in Temi Romana 18, 1969, 605 ss., ora in Id., Scritti giuridici scelti II, Diritto romano, Napoli, 1985, 605 ss. 22 G. Pugliese, richiamando i suoi precedenti studi, ribadisce questo concetto tra gli Interventi e repliche, in ‘Praesidia libertatis’, cit., 146. 20
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confermano la validità di queste tesi con nuove prove testuali ed ulteriori argomenti. Ne risultano precisati natura, limiti e portata della provocatio. Santalucia 23, in particolare, dimostra come, a seguito della terza legge Valeria de provocatione (300 a.C.) e fino al II sec. a.C., la garanzia del giudizio comiziale si riconosca con regolarità ai cittadini romani imputati per omicidio o per altri delitti capitali comuni. I delitti politici, invece, costruiscono una pagina a parte del diritto criminale romano. Il profilo politico dell’illecito concernente cittadini romani comporta, specie per i casi più gravi, l’aperta violazione del principio di provocatio e di iudicium populi: gli episodi più macroscopici sono le proscrizioni sillane e quelle del secondo triumvirato. Così, abbandonata la ricerca di un disegno assolutamente organico e coerente della realizzazione dell’istanza garantista, entra in crisi anche la tesi ottocentesca dell’esistenza di consolidate garanzie processuali in materia penale nella Roma repubblicana. E ciò in quanto l’abituale uso strumentale delle forme repressive – essenzialmente per motivazioni politiche contingenti – disegna una mappa assai frastagliata – se non addirittura disorientante – del percorso storico. La riflessione condotta da Santalucia 24 su un folto gruppo di testimonianze liviane consente di concludere – tra l’altro – che in territorio extraurbano ancora nel 211 a.C. il magistrato dotato di imperium poteva (si ripete, nel territorio militiae) mettere a morte un civis senza neppure consultare il senato (il giudizio senatorio era, tendenzialmente, l’unica garanzia per i cittadini romani coinvolti in reati politici fuori Roma). Per altro verso, emerge che le leges Porciae de provocatione ebbero un contenuto molto meno innovativo di quanto prima si credesse: in occasione di quaestiones condotte dai consoli (per decreto del senato) in materia militare tra il 314 e il 203 a.C., per sventare e reprimere insurrezioni da parte di comunità italiche, quando erano coinvolti i cittadini romani delle classi più elevate o che per ragioni politiche non pareva opportuno perseguire immediatamente in loco, di solito le commissioni senatorie inviavano gli accusati a Roma, affinché fossero giudicati dagli organi cittadini 25. Getta invece un’ombra sul preteso garantismo repubblicano la lettura del sesto libro delle Historiae di Polibio, che rivela un dato di estremo interesse, peraltro già segnalato da Pugliese: sebbene in tutti i casi di delitto capitale il senato dovesse ottenere l’autorizzazione preventiva dell’assemblea popolare per istituire validamente una quaestio, fino all’entrata in vigore della lex Sempronia de capite civis questa norma fu 23 B. Santalucia, ‘Longius ab urbe mille passuum’. Cittadini e ‘provocatio’ in Italia prima delle ‘Leges Porciae’, in AA.VV., ‘Praesidia libertatis’, cit., 63 ss. 24 Ibid., 69 s. 25 Ibid., 72 s.
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ripetutamente violata dal senato, che con frequenza affidava la repressione dei crimina nei quali fossero implicati cittadini romani a commissioni straordinarie (le quaestiones extra ordinem), senza consultare il popolo 26. Nel complesso, l’osservazione ravvicinata di un vasto novero di vicende processuali induce negli stessi anni Carlo Venturini 27 a «sottolineare come lo zelo garantistico che abbiamo ereditato dalle ricostruzioni del secolo scorso e, in particolare, dai postulati teorici ispiratori della ricostruzione mommseniana conduca ad enfatizzare alcuni dati ed a passarne sotto silenzio altri che hanno il torto, se esaminati senza pregiudizio, di far emergere un assetto non sempre nitido e soddisfacente sotto il profilo sistematico ma provvisto di ragionevole affidabilità storica». Alla luce di un riesame critico delle fonti condotto dallo studioso, la provocatio viene qualificata 28 come una reazione rispetto ad una specifica decisione del magistrato, e segnatamente come una richiesta di attivazione del controllo popolare su una misura sanzionatrice disposta dal magistrato. Nella prima età repubblicana essa si caratterizzava come un rimedio ex post, inteso a dare luogo ad un controllo, da parte dei comizi, sul concreto dispiegarsi dell’imperium magistratuale per gravi sanzioni (tra cui in primis la pena di morte) disposte a carico dei cives (Cic. rep. 2.54; 1.62) 29. Sul piano della operatività effettiva, poi, la provocatio – sottolinea Venturini – fu soggetta a una rapida obsolescenza. La reazione al venir meno della garanzia rappresentata dalla provocatio e dal successivo iudicium populi fu costituita dalla lex Sempronia de capite civis, con cui nel 123 a.C. si dichiarò illegittima l’istituzione di quaestiones capitali senza la sanzione del voto popolare. Tale disposizione non sarebbe però correttamente riconducibile all’alveo delle leges de provocatione: la legge Sempronia vietava radicalmente di quaerere iniussu populi de capite civis Romani e sostanziava dunque una misura preventiva (non un rimedio ex post), dal momento che subordinava la cognitio capitale dei magistrati nei confronti dei cives alla promulgazione di un intervento legislativo diretto ad autorizzarla 30. È evidente che da questa serrata critica, condotta sul finire del secolo scorso, la visuale ‘garantista’ del sistema repubblicano, così come presentata da Mommsen, non poteva che uscire sensibilmente ridimensionata. Al Ibid., 82 s. C. Venturini, Il ‘civis’tardo repubblicano tra ‘quaestiones’e ‘iudicia populi’, in AA.VV., ‘Praesidia libertatis’, cit., 85. 28 Ibid. 89 s. 29 V. in particolare C. Venturini, Processo penale e società politica nella Roma repubblicana, Pisa, 1996; Id., Aspetti costituzionali e repressione penale nell’opera di Theodor Mommsen, in AA.VV., Tradizione romanistica e Costituzione cit., II, 1623 ss. 30 C. Venturini, Il ‘civis’tardo repubblicano, cit., 90 s. 26 27
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tempo stesso, però, non si è mancato di rilevare 31 che in massima parte le contestazioni mosse al disegno mommseniano si sono fondate sull’adduzione di casi politici; ed è noto che ove entra in gioco la politica il confine e il rapporto tra giuridico e antigiuridico diventano labili e mutevoli. Questi casi, dunque, non consentono generalizzazioni o individuazione di regole. I delitti – anche latamente – politici, tra cui campeggiavano perduellio e crimen maiestatis, dettero luogo con estrema frequenza alla violazione delle prassi procedurali e delle istanze garantiste, e ciò non soltanto nel corso dell’età repubblicana 32. Considerazioni analoghe valgono in ordine all’esigenza di reprimere con rigore e rapidità reati non politici, ma di eccezionale gravità per la sicurezza o l’ordine pubblico, quali la diffusione dei culti bacchici, il brigantaggio e il veneficio reiterati 33. In queste circostanze del tutto particolari, i principi garantisti vennero obliterati (si pensi alle conseguenze del senatoconsulto de Bachanalibus e della istituzione delle quaestiones extra ordinem). Principi giuridici generali e applicazione pratica non di rado, insomma, presero strade differenti. Più recenti e meno numerosi sono gli studi che affrontano il tema in oggetto con riferimento al diritto criminale romano dell’età imperiale. Una prima, sintetica panoramica viene tentata da Giovanni Pugliese 34, il quale, all’interno del già citato studio inteso a ripercorrere le tappe salienti delle garanzie dell’imputato nella persecuzione criminale romana, evidenzia come i problemi tecnici relativi alla difesa dell’imputato abbiano incessantemente sollecitato il rafforzamento delle prime forme di garantismo, fino alla morte di Giustiniano, benché all’interno di un percorso tutt’altro che rettilineo. Tra il primo Principato e il regno di Costantino, l’incipiente garantismo repubblicano ci appare pesantemente soffocato dall’avvento delle cognitiones extra ordinem, caratterizzate dalla variabilità non solo del rito, ma anche della gravità della pena in relazione alla qualità della persona. In antitesi con le logiche garantistiche si pongono la disuguaglianza di trattamento tra honestiores e humiliores, la possibilità di una iniziativa d’ufficio (pur sopravvivendo l’accusa privata), e ancora la corruzione, le sperequazioni e infine la parzialità dei giudici, tutti fattori che connotano specialmente il III sec. d.C. Da parte di G. Pugliese, tra gli Interventi e repliche, in AA.VV., ‘Praesidia libertatis’, cit., 145 s. 32 Rinvio, sul punto, a quanto ho già esposto ne La disciplina della ‘lesa maestà’ tra Tardoantico e Medioevo, in L. Solidoro Maruotti, Profili storici del delitto politico, Napoli, 2002, 1 ss., anche in AA.VV., Diritto e giustizia nel processo. Prospettive storiche costituzionali e comparatistiche, Napoli, 2002, 361 ss. 33 Lo sottolinea già G. Pugliese, Le garanzie, cit., 611. 34 G. Pugliese, Le garanzie, cit., 612 ss. 31
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e, al suo interno, il periodo dell’anarchia militare. Forte e decisa ci appare la reazione costantiniana a questo degrado: improntata alla lotta alla corruzione e ai privilegi di alcune categorie sociali, allo sradicamento dell’arbitrio dei giudici e, al di sopra di tutto, alla ricerca della veritas, essa ha radici e finalità discutibili e tuttora discusse, che oscillano tra gli intenti demagogici e la sincera adesione agli ideali cristiani. Ma qualunque sia stato il vero movente della svolta, sta di fatto che tra Costantino e Giustiniano si tenta di ristabilire una certa regolarità e imparzialità nell’amministrazione della giustizia penale, sancendo la prevalenza della legge imperiale sugli altri precetti normativi e poteri pubblici. Intento, quest’ultimo, che realizza un sensibile riavvicinamento all’idea del principio di legalità penale, già affiorato nell’età repubblicana con le quaestiones perpetuae. La tendenza ad evitare eccessivi rigori nei confronti dell’accusato (tendenza da cui continua a restare esente il delitto politico) culmina con Giustiniano e con la sua regolamentazione della carcerazione preventiva – ispirata a criteri che forse non è errato definire ‘moderni’ – e con il significativo affidamento ai vescovi del compito di vigilare sull’applicazione della nuova disciplina. Nell’insieme, da questo ricchissimo quadro emergono già numerosi spunti di riflessione sulle tante forme di garanzia destinate a caratterizzare, molto più tardi, il processo penale moderno e scolpite nei noti brocardi formulati in lingua latina: nullum crimen sine lege, audiatur et altera pars, in dubio pro reo. All’indomani degli studi basilari appena citati, che hanno tracciato le direttive per ulteriori approfondimenti, si sono poi sviluppati altri filoni di ricerca. In particolare, al di fuori del garantismo in senso stretto, ma nella contigua area della tutela delle situazioni soggettive, si colloca il problema della definizione di regole concernenti la individuazione del soggetto responsabile della commissione dell’illecito penale. Per vero, sotto alcuni aspetti, la pressante esigenza della individuazione del responsabile si pone addirittura agli antipodi rispetto all’istanza garantista: infatti, se da una lato la ricerca di criteri tecnici idonei alla individuazione del responsabile vale ad evitare l’imputazione del fatto criminoso a persone da ritenersi estranee all’illecito da perseguire, sotto un differente profilo va considerato che la predisposizione di regole e criteri di imputazione della responsabilità serve a rendere più rapida ed efficace l’azione repressiva a scapito di altre valutazioni. Il tema, di assai vasta portata, abbraccia la questione della complicità, del mandato a delinquere, del rapporto tra incapace e avente potestà (o tutore), della responsabilità dell’ente immateriale per l’illecito commesso dalle perone fisiche. Si tratta di un esteso fascio di problematiche, riconducibili, nel loro complesso, tanto all’esigenza di non inficiare i profili di effettività
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dell’azione repressiva per la mancanza di individuazione del soggetto responsabile, tanto a scongiurare il rischio di addossare ad un soggetto da ritenersi ‘estraneo’ al fatto criminoso le conseguenze dello stesso. Nell’esperienza attuale, detta problematica rileva sopratutto a proposito del d.lgs. n. 231/2001 relativo alla responsabilità amministrativa (da molti ritenuta invece di natura penale) delle persone giuridiche 35. Il provvedimento, modellato sulle scelte effettuate da altri ordinamenti (statunitense, anglosassone, tedesco e olandese), nonché finalizzato a dare attuazione interna a convenzioni internazionali, si pone quale punto d’arrivo di un tortuoso percorso storico, che ha visto prima nel diritto romano del tardo Principato e dell’Impero l’affermazione del principio di responsabilità amministrativa e penale dell’ente, poi la sua recisa negazione nell’età medioevale e moderna, negazione efficacemente espressa con il brocardo societas delinquere non potest. È appunto al d.lgs. del 2001 che si deve (utilitatis causa, considerato che la surrogabilità delle persone fisiche nelle attività produttive priva la sanzione penale della sua efficacia dissuasiva) il superamento di questo principio e il ritorno alle logiche indicate dalla scienza giuridica romana. Resta infine da chiedersi perché, di fronte alle domande suscitate dal nostro presente, nel cercare una risposta avvertiamo l’esigenza di volgere lo sguardo dietro le nostre spalle, di tornare a riflettere sulle esperienze del passato. Come accennavo più sopra, nel pensiero contemporaneo la previsione normativa di un sistema organico di garanzie in favore dell’imputato viene considerata sinonimo ed emblema di civiltà giuridica. Eppure, oggigiorno, si invocano contemporaneamente sia il perfezionamento della tutela dei diritti soggettivi dell’imputato nel processo penale, sia gli opportuni temperamenti del garantismo, in ben circoscritti ambiti, rispetto ad una applicazione troppo indifferenziata dello stesso, in vista di una più efficace repressione del crimine, anche nell’ottica della realizzazione della funzione persuasiva e deterrente della pena. Questa apparente sconnessione, che in realtà consiste piuttosto nella ricerca di migliori equilibri a fronte della presa d’atto di nuove istanze, ci rivela, più in generale, che è in via di superamento il modello stesso del diritto penale dell’età moderna, come configurato sul finire del Settecento: esso si era riedificato – rispetto all’eredità romana – su due pilastri, ovvero il pieno riconoscimento dei poteri dello Stato nazionale, e per esso dello strumento-legge – da un lato, e, dall’altro lato, la corrispondenza dell’obbligo giuridico di non delinquere al ricorso alla coazione statale, all’uso della forza in caso di infrazione 36. Ma poi, la perdita di forza 35 36
Per le informazioni essenziali rinvio a M. Santise, F. Zunica, Coordinate, cit., 643 ss. V. sul punto P. Prodi, Per una storia della giustizia, cit., 425 ss., 429.
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precettiva e cogente delle leggi nazionali, le difficoltà di esecuzione delle condanne penali (per sovraffollamento delle carceri) e, per altro verso, la netta affermazione della funzione – quasi esclusivamente – rieducativa della pena hanno mutato il quadro originario, fino a stravolgerlo. L’opportunità di riflettere sulle varie tappe di questo cammino, e in particolare sulle prime forme di tutela del diritto alla difesa dell’imputato, sulle pecche di alcune delle soluzioni adottate nel passato, sulle pronte reazioni suscitate a quello che può essere parso un ‘eccesso di garantismo’, tale da ostacolare l’incisività delle repressione penale, o forse l’affermazione di forme arroganti di potere, va ricondotta, come sempre, alla funzione della storia in sé. La storia – è vero – è una palestra mentale, insegna a pensare, dandoci il senso dei tempi e degli spazi, consentendoci di osservare il nesso tra gli eventi e le loro conseguenze. Ma non solo. Certo, si può scegliere di studiare la storia come confinata nel passato. Oppure, senza indulgere in improbabili tentativi di modernizzazione, si può utilizzare l’esperienza passata come paradigma dell’attualità, assumendola quale strumento di lettura critica del presente 37: i fatti e le categorie di pensiero del passato possono servirci per comprendere più a fondo la realtà odierna. E mi sembra che l’impegno degli Autori che qui introduco si sia orientato in questo senso. Nel campo del diritto penale, poi, la riflessione storica assume una ulteriore valenza, in quanto questo settore del diritto costituisce da sempre la cassa di risonanza di tensioni e conflitti, dunque il terreno d’elezione per il disvelamento di problematiche sociali o politiche e, soprattutto, il luogo dove meglio si testano e si misurano gli eterni incontri-scontri tra estensione e limiti del potere punitivo, tra libertà della persona e preservazione dell’ordine pubblico, tra funzione rieducativa e finalità punitive o deterrenti della pena 38. Quanto alla materia specifica del garantismo, come il Lettore di questo libro potrà constatare, rispetto alle soluzioni tecniche adottate negli ordinamenti contemporanei si riscontra qualche somiglianza piuttosto generica, mentre assai più puntuale è la corrispondenza dei motivi di fondo (politici, civili, sociali) che hanno spinto a introdurre – o, viceversa, a limitare – le garanzie in favore dell’imputato.
V., con specifico riferimento al metodo di Mommsen, T. Masiello, Mommsen, cit., 18 e passim. 38 Lo sottolinea anche P. Santini, Spunti, cit., 1055. 37
L’accusa nel sistema processuale delle quaestiones perpetuae tra funzione civica, dimensione premiale e disciplina sanzionatoria Donato Antonio Centola Sommario: 1. Premessa. – 2. Principio accusatorio e praemia nelle quaestiones perpetuae. – 3. La disciplina sanzionatoria delle false accuse in alcune testimonianze di Cicerone. – 4. Riflessioni conclusive.
1. Premessa Come è noto, le corti giudicanti stabili in materia criminale (c.d. quaestiones perpetuae) 1 erano caratterizzate da una struttura accusatoria, dal momento che il processo non poteva prendere le mosse dall’iniziativa del magistrato che presiedeva la giuria, ma era promosso da qualunque cittadino di buona reputazione (non necessariamente la sola parte lesa) che esercitava l’accusa nell’interesse della collettività 2. Su tale tipo di processo si veda, con l’indicazione della principale letteratura, F. Gnoli, voce Diritto penale nel diritto romano, in Dig. disc. pen., IV, Torino, 1990, 43 ss.; B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma2, Milano, 1998, 103 ss.; V. Giuffrè, La repressione criminale nell’esperienza giuridica romana5, Napoli, 1998, 40 ss.; AA.VV., La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e persuasione, a cura di B. Santalucia, Pavia, 2009, 2 ss.; P. Garbarino, La repressione criminale, in AA.VV., Storia del diritto romano e linee di diritto privato2, a cura di A. Schiavone, Torino, 2011, 274 ss. e, ultimamente, B. Santalucia, La giustizia penale in Roma antica, Bologna, 2013, 55 ss. Su alcune problematiche riguardanti il valore semantico dei termini ‘quaerere’ e ‘quaestio’ si veda D. Mantovani, «Quaerere», «quaestio». Inchiesta lessicale e semantica, in Index, XXXVII, 2009, 25 ss. 2 Sul principio accusatorio cfr., per una prima indicazione, M. Lauria, voce Accusatio, in Noviss. dig. it., I, Torino, 1957, 188 s.; P. Fiorelli, voce Accusa e sistema accusatorio (dir. rom. e interm.), in Enc. dir., I, Milano, 1958, 330 ss. 1
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La funzione dell’accusator, infatti, non era quella di un semplice informatore, ma consisteva nel presentare e sostenere l’accusa in senso tecnico e si traduceva in un servizio finalizzato a promuovere, in nome e per conto della comunità politica, la punizione dei nemici della società civile. Uno dei profili di notevole interesse riguardanti questo sistema è rappresentato dalla degenerazione del principio accusatorio e dalla notevole diffusione delle false accuse. Ai fini del discorso che qui si intende svolgere, pertanto, risulta opportuno soffermarsi, in via preliminare, su alcune caratteristiche del procedimento dei tribunali permanenti; in seguito, sulle varie motivazioni personali che, spesso, hanno provocato un abuso del ius accusandi e, infine, sulla disciplina sanzionatoria prevista in caso di tale abuso.
2. Principio accusatorio e praemia nelle quaestiones perpetuae In merito alla procedura è evidente che le corti permanenti, riconoscendo al cittadino la legittimazione a promuovere personalmente l’accusa (la nominis delatio) contro il presunto colpevole, attribuivano ad un privato la possibilità di dare impulso al procedimento che non poteva, quindi, aver luogo d’ufficio. Questa particolare caratteristica ha rappresentato il presupposto Con riferimento ad alcuni profili dell’accusa nel processo delle quaestiones si veda D. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare. Dalla «quaestio» unilaterale alla «quaestio» bilaterale, Padova, 1989, 1 ss.; C. Venturini, Processo e società politica nella Roma repubblicana, Pisa 1996, 11 ss.; F. Botta, Legittimazione, interesse ed incapacità all’accusa nei publica iudicia, Cagliari, 1996, 1 ss.; C. Venturini, Il processo accusatorio romano tra punti fermi e problematiche aperte, in Sem. Compl., XIV, 2002, 195 ss. Sull’utilizzo dei modelli processuali accusatorio e inquisitorio con riguardo all’esperienza giuridica romana, oltre al fondamentale lavoro di M. Lauria, ‘Accusatio-Inquisitio’. Ordo – cognitio extra ordinem – cognitio: rapporti ed influenze reciproche, in AAN, LVI, 1934, 304 ss., ora in Studii e ricordi, Napoli, 1983, 277 ss., si veda, con l’indicazione della principale bibliografia, B. Santalucia, Accusatio e inquisitio nel processo penale romano di età imperiale, in Sem. Compl., XIV, 2002, 179 ss., ora in Altri studi di diritto penale romano, Padova, 2009, 313 ss., che qui si cita, F. Pergami, Accusatio-inquisitio: ancora a proposito della struttura del processo criminale in età tardoantica, in AAC, XVI, 2007, 595 ss., ora in Studi di diritto romano tardoantico, Torino, 2011, 349 ss.; S. Giglio, Il problema dell’iniziativa nella ‘cognitio’ criminale. Normative e prassi da Augusto a Diocleziano2, Torino, 2009, 1 ss. e, di recente, A. Banfi, Acerrima indago. Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C., Torino, 2013, 1 ss., in particolare 15 ss. Su alcuni interessanti aspetti del diritto penale romano cfr. L. Garofalo, Concetti e vitalità del diritto penale romano, in ‘Iuris vincula’. Studi in onore di Mario Talamanca, IV, Napoli, 2001, 73 ss., ora in Piccoli scritti di diritto penale romano, Padova, 2008, 95 ss., che qui si cita.
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tecnicamente necessario per la nascita e la diffusione delle accuse infondate. Strettamente connesso a tale aspetto è quello concernente l’assegnazione, in caso di vittoria, di ‘premi’ di diversa natura a favore dell’accusatore: una volta riconosciuto, infatti, al cittadino il diritto di esercitare l’accusa, bisognava, in tutti i modi, cercare di creare una serie di incentivi per l’esercizio della stessa. Con riferimento all’assegnazione dei ‘premi’, va rilevato che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non risulta esservi stata una norma che abbia disciplinato, in generale, tutta la materia, ma, molto probabilmente, sono state previste, dalle singole leggi istitutive delle corti permanenti, varie ricompense di diversa natura proprio in relazione alle differenti figure di reato perseguite. I vantaggi riconosciuti all’accusatore vittorioso (somme di denaro, cittadinanza, esenzione dal servizio militare, promozione nel rango senatoriale, ecc.), pur avendo un peso diverso tra loro nell’àmbito della repressione delle differenti figure delittuose, erano caratterizzati da una comune ratio, consistente nell’indurre i cittadini ad accusare qualora gli altri motivi alla base dell’accusa non fossero stati di per sé sufficienti a garantire che qualcuno, a conoscenza della commissione di un reato, si fosse fatto avanti 3. Tale dimensione premiale, dettata dalla necessità di coinvolgere, in maniera sempre più attiva, i cittadini nella repressione dei singoli reati, divenne, ben presto, un evidente incentivo per l’attività di coloro che, spinti dal desiderio di ottenere una serie di vantaggi personali, presentavano accuse infondate. Con riguardo alla disciplina premiale nel processo criminale romano, oltre a Th. MomRömisches Strafrecht, Leipzig, 1899, 509 ss., si veda, con la discussione delle principali fonti e letteratura, G. Luraschi, Il ‘praemium’ nell’esperienza giuridica romana, in Studi Biscardi, IV, Milano, 1983, 239 ss.; M.C. Alexander, Praemia in the quaestiones of the late republic, in Classical philology, LXXX, 1985, 20 ss.; L. Fanizza, Delatori e accusatori. L’iniziativa nei processi di età imperiale, Roma, 1988, 38 ss.; V. Mannino, Alcune considerazioni sulla competenza in tema di normazione premiale nell’antica Roma, in Il problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano, Atti del deuxième colloque de philosophie pénale Cagliari, 20-22 Aprile 1989, a cura di O. Diliberto, Napoli, 1993, 175 ss.; P. Cerami, La collaborazione processuale: le radici romane, in P. Cerami, G. Di Chiara, M. Miceli, Profili processualistici dell’esperienza giuridica europea. Dall’esperienza romana all’esperienza moderna, Torino, 2003, 249 ss.; M. Varvaro, «Certissima indicia». Il valore probatorio della chiamata in correità nei processi della Roma repubblicana, in AUPA, LII, 2008, 369 ss.; G. Camodeca, Delatores, praemia e processo senatorio de maiestate in un’inedita Tabula Herculanensis di età neroniana, in SDHI, LXXV, 2009, 381 ss.; C. Russo Ruggeri, Indices e indicia. Contributo allo studio della collaborazione giudiziaria dei correi dissociati nell’esperienza criminale romana, Torino, 2011, 3 ss.; M.F. Petraccia, Indices e delatores nell’antica Roma. Occultiore indicio proditus; in occultas delatus insidias, Milano, 2014, 7 ss. 3
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Oltre a queste caratteristiche delle quaestiones (natura accusatoria e assegnazione di ‘premi’), può essere ricordata, come un’imperfezione di tale sistema repubblicano, la possibilità riconosciuta all’accusatore di abbandonare il processo da lui iniziato, impedendo, in tal modo, al tribunale di poter emettere la sentenza 4. Questo particolare comportamento riconosceva al cittadino la libertà, una volta intentata l’accusa che sin dall’inizio egli sapeva infondata, di non continuare nell’esercizio della stessa quando si fosse reso conto di non avere alcuna speranza di vittoria. Appare, dunque, evidente che il processo dinanzi alle corti permanenti presentava in sé i presupposti sufficienti per la nascita del reato di calunnia 5: si riconosceva la libertà al singolo cittadino di proporre l’accusa; lo si premiava in caso di vittoria ed, inoltre, gli si permetteva, qualora non si fosse prospettato un esito del giudizio a lui favorevole, di abbandonare il procedimento già instaurato in conseguenza della sua iniziativa. Tale tipo di processo, così strutturato, divenne ben presto un sistema nel quale il cittadino, spesso, agiva, più che per tutelare gli interessi dell’intera collettività, per ottenere vantaggi personali. Se ci si limita, però, ad analizzare semplicemente le carenze della struttura accusatoria delle quaestiones si rischia di delineare un quadro parziale dell’intera problematica: queste cause, sia ben chiaro, sono state decisive, ma, di certo, non possono essere ritenute le uniche che hanno permesso una notevole, e sempre costante nel tempo, diffusione delle accuse calunniose. Un ruolo importante, pertanto, ai fini della comprensione delle ragioni che hanno provocato un abuso del ius accusandi, va riconosciuto ai motivi che spingevano il cittadino ad agire. Il discorso, tuttavia, è piuttosto complesso, poiché è opportuno ricordare che, tra le varie cause che potevano indurre il cittadino alla presentazione della delatio nominis, vi erano, da un lato, quelle dettate dalle finalità obiettive dell’accusa (si pensi, ad esempio, a colui che agiva rei publicae causa) e, dall’altro, quelle strettamente personali 6. Bisogna attendere l’età del principato, prima con l’Oratio Claudii de aetate recuperatorum et de accusatoribus coërcendis e dopo con il s.c. Turpillianum, per avere una regolamentazione della desistenza. 5 Su questo reato si veda, con l’indicazione delle principali fonti e bibliografia, J.G. Camiñas, La lex Remmia de calumniatoribus, Santiago de Compostela, 1984, 1 ss.; D.A. Centola, Il crimen calumniae. Contributo allo studio del processo criminale romano, Napoli, 1999, 1 ss.; A.M. Giomaro, Per lo studio della calumnia. Aspetti di ‘deontologia’ processuale in Roma antica, Torino, 2003, 9 ss.; A. Banfi, Acerrima indago, cit., 62 ss. 6 Cfr. l’elencazione dei principali motivi di accusa fatta da Cic. De off. 2.49-50. Sull’argomento si veda A.H.M. Jones, The Criminal Courts of the Roman Republic and Principate, Oxford 1972, 62 s.; G. Luraschi, Il ‘praemium’, cit., 275 ss.; M.C. Alexander, Praemia, cit., 20; D. Mantovani, Il problema d’origine, cit., 102 ss.; P. Cerami, La collaborazione processuale, cit., 255 ss. 4
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Quando questi due tipi di motivazioni coincidevano, il modello punitivo previsto dalle quaestiones funzionava nel migliore dei modi; nel momento in cui, invece, vi fosse stata una netta prevalenza delle ragioni personali su quelle obiettive del giudizio, tale modello, allora, cominciava a manifestare gli evidenti sintomi della sua imperfezione. Limitandoci a ricordare solo alcune tra le motivazioni personali più significative, una prima era rappresentata dal fatto che il cittadino poteva essere spinto a proporre l’accusa gloriae causa, cioè, per essere notato ai fini della carriera pubblica, politica o forense. Tale ipotesi si verificava, soprattutto, con giovani accusatori, i quali, in particolar modo se poco conosciuti, avevano tutto l’interesse ad acquistare notorietà grazie alle vittorie all’interno del foro 7. Su questo desiderio degli accusatori di mettersi in mostra per conseguire maggiore prestigio indirettamente ci informa, ad esempio, Cicerone nell’orazione a difesa di Aulo Cluenzio Àbito 8: Cic. Pro Cluent. 4.11: Atque ut intellegatis Cluentium non accusatorio animo, non ostentatione aliqua aut gloria adductum, sed nefariis iniuriis, cotidianis insidiis, proposito ante oculos vitae periculo nomen Oppianici detulisse, paulo longius exordium rei demostrandae petam […].
L’oratore, infatti, ricorda che Cluenzio fu indotto ad accusare Oppianico non per il gusto di accusare o il desiderio di mettersi in mostra o di ottenere gloria (come avveniva, quindi, per altri accusatori), ma a causa di offese gravissime. Un’altra valida ragione, per agire nel processo per quaestiones, era costituita dagli eventuali rapporti di inimicizia, odio, rivalità personale, esistenti con l’imputato oppure dai legami di amicizia, clientela o da ulteriori vincoli, intercorrenti tra l’accusatore ed un altro cittadino, in base ai quali il primo si impegnava ad accusare per fare un piacere al secondo. Il civis, inoltre, poteva prendere l’iniziativa anche al fine di conseguiSulla giovanissima età degli accusatori cfr., ad es., Cic. Brut. 43.159. Per una ‘lettura’ di questa orazione, con interessanti osservazioni, si vedano le edizioni (con trad. it.) curate da G. Pugliese, L’orazione per Aulo Cluenzio Abito, Milano, 1972, rist. 1992, e da V. Giuffrè, Imputati, avvocati e giudici nella «pro Cluentio» ciceroniana, Napoli, 1993. Su alcuni aspetti dell’orazione si veda, inoltre, G. Pugliese, Un nuovo esame della ciceroniana «pro Cluentio», in Labeo, XL, 1994, 248 ss; V. Giuffrè, «Nominis delatio» e «nominis receptio», in Labeo, XL, 1994, 359 ss; B. Santalucia, Cicerone e la nominis delatio, in Labeo, XLIII, 1997, 404 ss.; Ancora in tema di nominis delatio, in Labeo, XLIV, 1998, 462 ss., ora entrambi in B. Santalucia, Altri studi di diritto penale, cit., 202 ss. e 221 ss.; V. Giuffrè, Una singolare coerenza di Cicerone tra il De inventione e la Pro Cluentio oratio, in AA.VV., La repressione criminale nella Roma repubblicana, cit., 251 ss.; M. Scognamiglio, Tra retorica e diritto. Alcuni esempi di interpretazione delle leges iudiciorum publicorum nelle orazioni di Cicerone, in AA.VV., La repressione criminale nella Roma repubblicana, cit., 265 ss. 7 8
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re i vantaggi (riconoscimenti di natura civile o, soprattutto, attribuzioni di somme di denaro) previsti in suo favore, in caso di condanna dell’accusato; oppure, egli, dietro pagamento, metteva al servizio degli altri la propria disponibilità ad accusare terze persone. È facile immaginare, dunque, che in questi casi l’abusare del ius accusandi doveva essere un valido mezzo per poter guadagnare, con grande rapidità, denaro e cariche. Basti ricordare, ad esempio, la vicenda dell’accusa di parricidium contro Sesto Roscio (nobile cittadino umbro d’Ameria), promossa (da Erucio) al fine di sottrargli il patrimonio, a proposito della quale ci informa, ancora una volta, Cicerone; non essendo infatti possibile assassinare Sesto Roscio, a causa della straordinaria protezione di cui godeva, si pensò di ricorrere a qualche accusatore di mestiere: Cic. Pro S. Rosc. Amerin. 10.28: Nam postquam isti intellexerunt summa diligentia vitam Sex. Rosci custodiri neque sibi ullam caedis faciendae potestatem dari, consilium ceperunt plenum sceleris et audaciae, ut nomen huius de parricidio deferrent, ut ad eam rem aliquem accusatorem veterem compararent, qui de ea re posset dicere aliquid, in qua re nulla subesset suspicio […].
Cicerone, inoltre, in un altro passo dell’orazione, richiama l’attenzione sul vero motivo (il denaro) alla base dell’accusa contro S. Roscio: Cic. Pro S. Rosc. Amerin. 19.54-55: […] Quid est aliud iudicio ac legibus ac maiestate vestra abuti ad quaestum atque ad libidinem, nisi hoc modo accusare atque id obicere, quod planum facere non modo non possis, verum ne coneris quidem? Nemo nostrum est, Eruci, quin sciat tibi inimicitias cum Sex. Roscio nullas esse; vident omnes qua de causa huc inimicus venias; sciunt huiusce pecunia te adductum esse […].
In base a quanto fin qui detto, appare chiaro che tutte queste ragioni personali, combinate con il sistema processuale delle quaestiones, hanno provocato un abuso del ius accusandi. Tuttavia, le varie motivazioni personali e alcune caratteristiche del processo per quaestiones, pur se risultano di grande utilità per capire perché sia sorto il crimen calumniae, non ci permettono di comprendere fino in fondo come mai tale crimen continuò a diffondersi sia nella repubblica sia nelle epoche successive. Occorrerebbe, allora, cercare di comprendere quale legame esisteva tra il ruolo degli accusatori e, in particolare, dei calunniatori e il contesto storico, sociale e politico nel quale questi soggetti esercitavano la loro attività. Una prima considerazione da fare è che la figura dell’accusator non è stata
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caratterizzata, sin dall’inizio, da una concezione negativa; ma essa, proprio per la sua valenza civica che ne aveva connotato l’istituzione, in origine era vista con particolare favore ed, inoltre, era considerata utile per la tutela degli interessi della collettività 9. Un’altra importante riflessione è data dal fatto che le ragioni, anche personali (ad eccezione di quelle strettamente economiche), che inducevano il cittadino ad accusare non furono sempre considerate, quando esisteva il procedimento per quaestiones, con disfavore, poiché esse garantivano certamente una maggiore tenacia in colui che presentava l’accusa, il quale, motivato dal desiderio di ottenere vantaggi personali, svolgeva la propria attività con notevole determinazione e, soprattutto, minori sarebbero stati i rischi di un eventuale accordo, tra l’accusator e l’imputato, volto a garantire l’impunità di quest’ultimo. Tale atteggiamento positivo, diffuso nel contesto sociale nei primi tempi dell’attività degli accusatori, ben presto scomparve, lasciando spazio ad un generale e crescente senso di disprezzo manifestato verso gli stessi in concomitanza del verificarsi, sempre più frequente, di abusi del ius accusandi.
3. La disciplina sanzionatoria delle false accuse in alcune testimonianze di Cicerone Dopo aver esaminato, dunque, i diversi elementi che hanno contribuito alla diffusione delle false accuse, occorre adesso soffermarsi sulla relativa disciplina sanzionatoria. Alla luce delle varie fonti riguardanti l’argomento, gli studiosi hanno proposto diverse ipotesi che, grosso modo, possono così sintetizzarsi: il marchio a fuoco della lettera ‘K’ sulla fronte del calunniatore, la privazione del ius accusandi, l’infamia, la sottoposizione del calumniator alla stessa pena che A proposito dell’utilità della funzione svolta dagli accusatori di un certo interesse è quanto afferma Cicerone nella orazione Pro S. Roscio Amerino (20.55-56): Accusatores multos esse in civitate utile est, ut metu contineatur audacia; verum tamen hoc ita est utile, ut ne plane illudamur ab accusatoribus […] Quare facile omnes patimur esse quam plurimos accusatores, quod innocens, si accusatus sit, absolvi potest, nocens, nisi accusatus fuerit, condemnari non potest; utilius est autem absolvi innocentem quam nocentem causam non dicere […]. Tuttavia, Cicerone, dopo aver paragonato gli accusatori alcuni alle oche altri ai cani, afferma, a proposito dei secondi, che essi devono agire solo contro coloro che meritano il loro attacco e, soprattutto, quando la colpa di qualcuno sarà verosimile: Simillima est accusatorum ratio. Alii vestrum anseres sunt, qui tantum modo clamant, nocere non possunt, alii canes, qui et latrare et mordere possunt. Cibaria vobis praeberi videmus; vos autem maxime debetis in eos impetum facere qui merentur. Hoc populo gratissimum est. Deinde, si voletis, etiam tum cum veri simile erit aliquem commisisse, in suspicione latratote; id quoque concedi potest […] (20.57). 9
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sarebbe toccata al reo, da lui ingiustamente accusato, in caso di condanna dei giudici e, infine, una serie di nuove pene previste nell’àmbito della cognitio extra ordinem. A proposito di tale disciplina, dunque, risulta evidente che non si può certamente parlare di un singolo castigo inflitto ai calunniatori, ma di un sistema repressivo molto complesso e caratterizzato, pertanto, dall’esistenza di più pene, notevolmente differenti tra loro, tutte create per sanzionare il reato di calunnia. Con riferimento a questo aspetto è opportuno organizzare il discorso seguendo il criterio cronologico, che tenga conto, quindi, delle diverse epoche della storia romana e dei differenti contesti processuali, politici e sociali, all’interno dei quali collocare la problematica della repressione del crimen calumniae. È evidente, ad esempio, che una pena prevista nell’età della repubblica poteva non essere più valida durante il principato o nel tardoantico, a causa delle mutate condizioni politiche e sociali, o ancora, facendo un esempio inverso, è fuor di dubbio che l’introduzione delle forme processuali della cognitio extra ordinem, durante il principato e il loro successivo e definitivo affermarsi, nel tardo impero, hanno inevitabilmente provocato alcune rilevanti novità nell’àmbito dell’originario sistema repressivo del crimen sorto nell’età repubblicana. Nelle pagine che seguono, pertanto, cercheremo di tracciare un quadro delle varie pene previste contro i calumniatores, con particolare riferimento all’età repubblicana (marchio della ‘K’, privazione del ius accusandi e infamia); non occupandoci, invece, di quelle introdotte in maniera stabile nelle epoche successive (applicazione della medesima punizione prevista per l’accusato in caso di condanna 10 e pene comminate nell’àmbito della cognitio extra ordinem). Incominciamo con quella che si ritiene essere la più antica: il marchio a fuoco della lettera ‘K’ sulla fronte del condannato, che troverebbe una conferma, secondo l’orientamento di una parte degli studiosi, in un noto passo di Cicerone: Cic. Pro S. Rosc. Amerin. 20.57: […] Sin autem sic agetis, ut arguatis aliquem Per quanto riguarda questo principio, indicato con diverse espressioni (‘taglione’, ‘poena reciproci’, ‘ritorsione’ o ‘riflessione della pena’), qualche autore, come ad esempio J.G. Camiñas, La lex Remmia, cit., 98 ss., ha ritenuto di poterlo individuare già nell’epoca repubblicana (cfr. Plaut. Persa vv. 67 ss.; Cic. Pro Cael. 19.47; Cic. in Q. Caecil. 21.71). Va avvertito, tuttavia, che tale principio, con specifico riferimento alle accuse infondate, viene comunque affermato in modo decisivo a partire da Costantino (cfr. CTh. 9.10.3 = CI. 9.12.7); sul punto si veda, con l’indicazione della precedente letteratura, D.A. Centola, La poena reciproci, in Società e diritto nella tarda antichità, a cura di L. De Giovanni, Napoli, 2012, 105 ss. 10
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patrem occidisse neque dicere possitis aut quare aut quo modo, ac tantum modo sine suspicione latrabitis, crura quidem vobis nemo suffringet, sed, si ego hos bene novi, litteram illam cui vos usque eo inimici estis ut etiam Kal 11 omnis oderitis, ita vehementer ad caput adfigent, ut postea neminem alium nisi fortunas vestras accusare possitis.
In questo testo l’Arpinate, impegnato nel difendere Sesto Roscio dall’ingiusta accusa di parricidio, fa riferimento a quella che doveva essere nell’età repubblicana la punizione prevista per i calunniatori. Egli, infatti, afferma che, nell’ipotesi in cui vi siano accuse di parricidio destituite di fondamento, agli accusatori, come castigo, non devono essere spezzate le gambe, ma sulla loro fronte è impressa la lettera ‘K’, affinché costoro non possano accusare più nessuno se non la loro ‘mala sorte’. Alcuni studiosi, accogliendo fedelmente il racconto di Cicerone, sostengono che la prima pena per reprimere il crimen calumniae fosse l’impressione della ‘K’ sulla fronte dei calunniatori 12. Gli unici autori, invece, che hanno manifestato un parere decisamente contrario sono Strachan-Davidson 13 e Levy 14. Il primo, ritenendo che la pena fissata per i falsi accusatori fosse semplicemente l’infamia (con la conseguenza di una serie di incapacità), afferma che il passo di Cicerone, facente riferimento al marchio della ‘K’, potrebbe trovare una spiegazione se supponiamo che quella lettera fosse inserita, nella lista del pretore, vicino al nome delle persone dichiarate infames e che, inoltre, l’espressione ‘ad caput adfigent’sia stata utilizzata dall’oratore semplicemente in senso metaforico dell’infamia, la cui consapevolezza doveva essere stampata sul viso dell’uomo così disonorato 15. Secondo Strachan-Davidson, inoltre, è molto probabile che la cattiva interpretazione di Cic. Pro S. Rosc. Amerin. 20.57, in tempi più antichi e in quelli più recenti, abbia contribuito alla diffusione del mito del marchio da imprimere sulla fronte del colpevole. Levy, dopo aver ricordato quella che in base all’opinione dominante saQuesta integrazione, non accolta in tutte le varie edizioni dell’opera, può considerarsi interessante poiché, come è ricordato in una delle edizioni dove è proposta (quella dei ‘Classici latini Utet’), il giorno delle Kalendae era il giorno delle scadenze dei debiti, di cui non di rado gli accusatori erano pieni. 12 In questo senso, ad esempio, si veda G. Pugliese, Diritto penale romano, in V. Arangio-Ruiz, A. Guarino, G. Pugliese, Il diritto romano. La costituzione-caratteri, fonti, diritto privato – diritto criminale, Napoli, 1980, 298 e J.G. Camiñas, La lex Remmia, cit., 106 ss. 13 J.L. Strachan-Davidson, Problems of Roman Criminal Law, 2, Oxford, 1912, 137 ss. 14 E. Levy, Von den römischen Anklägervergehen, in Gesammelte Schriften, 2, KölnGraz, 1963, 380 ss. 15 J.L. Strachan-Davidson, Problems of Roman Criminal Law, 2, cit., 140. 11
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rebbe stata l’evoluzione della disciplina sanzionatoria in tema di accuse temerarie, sostiene che nell’età della repubblica i calunniatori furono puniti solamente con la perdita del c.d. ‘onore civile’ (‘bürgerliche Ehre’), che avrebbe comportato la privazione sia del ius accusandi sia di altri pubblici diritti (ad esempio l’elettorato attivo e passivo) 16. Per quanto concerne, più in particolare, il racconto di Cicerone (Pro S. Rosc. Amerin. 20.57), Levy ne prende le distanze affermando categoricamente che la pena del marchio è una ‘favola’ 17. L’autore, infatti, ritiene di poter dimostrare l’inesistenza di tale pena, evidenziando che, se è vero che all’epoca di Costantino era vietato il marchio sulla fronte 18, a maggior ragione la sua applicazione non doveva essere possibile durante l’ultimo secolo della res publica, ‘periodo altamente civilizzato’ (‘hochzivilisierte Periode’) 19. Riprendiamo le mosse dalla testimonianza di Cicerone: Cic. Pro S. Rosc. Amerin. 20.57: […] Sin autem sic agetis, ut arguatis aliquem patrem occidisse neque dicere possitis aut quare aut quo modo, ac tantum modo sine suspicione latrabitis, crura quidem vobis nemo suffringet, sed, si ego hos bene novi, litteram illam cui vos usque eo inimici estis ut etiam Kal omnis oderitis, ita vehementer ad caput adfigent, ut postea neminem alium nisi fortunas vestras accusare possitis.
Il primo aspetto che si deve affrontare, ai fini del discorso che qui si sta svolgendo, è la verifica di un eventuale collegamento tra la ‘K’ e il termine calumnia. Sul punto non sembra che possano essere sollevati serî dubbî, poiché alcune significative testimonianze affermano che la ‘K’ va considerata, più che come una semplice lettera, come una nota con la quale si è soliti fare riferimento alla calumnia, al caput, alle calendae, a Caeso (cognome e prenome romano) o a Carthago: Velius Long. De orthogr. (K. 7.53.5): Hinc supersunt ex mutis k et c et q, de quibus quaeritur an scribentibus sint necessariae. Et qui K expellunt, notam dicunt esse magis quam litteram, qua significamus kalumniam kaput kalendas: hac eadem nomen Kaeso notatur. Terent. Scaur. De orthogr. (K. 7.14.12): k quidam supervacuam esse litteram iuE. Levy, Von den römischen Anklägervergehen, cit., 382 ss. E. Levy, Von den römischen Anklägervergehen, cit., 381: «Die Strafe der Brandmarkung ist eine Fabel». 18 Cfr. CTh. 9.40.2. 19 E. Levy, Von den römischen Anklägervergehen, cit., 381. 16 17
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dicaverunt, quoniam vice illius fungi satis c posset. Sed retenta est, ut quidam putant, quoniam notas quasdam significaret, ut Kaesonem et kaput et kalumniam et kalendas. Dosith. Ars gram. (K. 7.385.8): k littera consonans muta notae tantum causa ponitur, cum aut kalendas sola significat aut Kaesonem aut kaput aut kalumniam aut Karthaginem. Diomed. Ars gram. (K. 1.424.28): k consonans muta supervacua, qua utimur, quando a correpta sequitur, ut kalendae kaput kalumniae.
Altre fonti, inoltre, testimoniano che in origine il termine era kalumnia: [Lex Iulia Municip.] Tab. Heracleen. l. 120 (FIRA 12.149): […] quemve | k(alumniae) praevaricationis caussa accussasse fecisseve quod iudicatum est erit […]. Lex [Rubria] de Gallia Cisalp. l. 9 (FIRA 12.171) 20: […] postulaverit, idque non k(alumniae) k(aussa) se facere iuraverit […]. Valer. Prob. 5.11: NKC = n[on] k[alumniae] c[ausa]. Gloss. 5.29.33: Kalumnia iurgium litis. Gloss. 5.79.19: kalumnia per k scribendum quod est iurgium litis.
Evidenziato lo stretto rapporto tra la ‘K’ e la parola calumnia, bisogna, adesso, verificare se Cicerone, nel momento in cui richiama l’attenzione su questa lettera, si riferisca all’effettiva esistenza di una pena del marchio, prevista per i calunniatori, oppure intenda indicare metaforicamente la ‘condizione disonorevole’ nella quale venivano a trovarsi coloro che erano stati condannati per calumnia. A tal proposito, va notato che nell’espressione ‘ad caput adfigent’ il termine ‘caput’ potrebbe indicare (più che il capo in senso letterale) la capacità giuridica, sulla quale si sarebbero prodotti gli effetti negativi della condanna per calunnia 21. Questa lettura troverebbe una La legge (databile tra il 49 a.C. e il 42 a.C.) riguardava, probabilmente, l’organizzazione giudiziaria nella Gallia Cisalpina. È incerto se i frammenti della nostra lex possano essere identificati o meno con la lex Rubria de praefecto pro duoviro o de damno infecto (plebiscito di un tribuno M. Rubrius a cui si allude alla lin. 20 della lex Gallia Cisalpina). Sul punto si veda, per un primo riferimento, G. Rotondi, Leges publicae populi romani, Milano 1912, ristampa 1990, 435 s. e 494 ss. 21 Non va dimenticato, infatti, che il termine caput, soprattutto nelle fonti giuridiche in senso stretto, presenta una notevole varietà di significati: sul punto si veda H.E. Dirksen, voce Caput, in Manuale latinitatis fontium iuris civilis Romanorum, 1837, 115 ss., dove, nell’àmbito della varie accezioni, si ricorda quella di ‘iura hominis circa libertatem et civitatem’ e di ‘universitas iurium circa familiam liberi hominis’. 20
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conferma nel fatto che, in Pro S. Rosc. Amerin. 20.57, l’intero discorso di Cicerone, non solo quindi quella parte riguardante il marchio sulla fronte, è caratterizzato dall’utilizzo di paragoni e metafore. Di estremo interesse risulta, infatti, quanto afferma Cicerone immediatamente prima di menzionare la pena della lettera ‘K’: Cic. Pro S. Rosc. Amerin. 20.57: Simillima est accusatorum ratio. Alii vestrum anseres sunt, qui tantum modo clamant, nocere non possunt, alii canes, qui et latrare et mordere possunt. Cibaria vobis praeberi videmus; vos autem maxime debetis in eos impetum facere qui merentur. Hoc populo gratissimum est. Deinde, si voletis, etiam tum cum veri simile erit aliquem commisisse, in suspicione latratote; id quoque concedi potest […].
L’oratore paragona gli accusatori, alcuni, alle oche; altri, ai cani, ricordando, a proposito dei secondi, che essi hanno il compito di agire solo contro quelli che meritano il loro attacco e, soprattutto, quando la colpa di qualcuno sarà verosimile. Il paragone di alcuni accusatori ai cani, inoltre, è ancora presente nelle affermazioni successive quando egli, prima di attirare l’attenzione sul marchio della ‘K’, dichiara che nessuno spezzerà le gambe (crura quidem vobis nemo suffriget) a quei determinati accusatori la cui azione non è giustificata da alcun sospetto. In questo caso, molto probabilmente, l’Arpinate ha presente la consuetudine in base alla quale ogni anno venivano spezzate ad alcuni cani le gambe, poiché, secondo la leggenda, quando si era verificato l’assalto dei Galli solo le oche del Campidoglio avevano salvato Roma mentre i cani dormivano 22. Il richiamo alla lettera ‘K’ in senso metaforico, pertanto, ben si inserirebbe nello schema seguito da Cicerone nel passo considerato, nel quale non mancano, quindi, i paragoni e le metafore; risultando, invece, non in armonia con la portata dell’intero discorso la tesi secondo la quale Cicerone, dopo essersi espresso in tal modo, abbandoni il piano metaforico per spiegarsi in maniera completamente diversa. Il significato allegorico del riferimento di Cicerone alla ‘K’, inoltre, potrebbe essere ulteriormente confermato dalla mancanza di testimonianze di età repubblicana in merito a tale pena 23. Sul punto cfr. Liv. 5.47.3 ss. Secondo alcuni autori qualche traccia, riconducibile indirettamente a tale pena, sarebbe possibile trovare in fonti di epoca successiva: cfr. Plin. Paneg. 35.3 e Papin. 1 de adult. D. 22.5.13; sul punto si veda ad esempio J.G. Camiñas, La lex Remmia, cit., 108 ss. Va sottolineato, tuttavia, che, seppur si voglia ammettere l’esistenza del marchio della lettera ‘K’, non ci sono comunque pervenute prove circa la sua effettiva applicazione. Si veda in questo senso, ad esempio, Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 494 s.; E. 22 23
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Da quanto fin qui detto, risulterebbe, allora, credibile l’ipotesi secondo cui Cicerone, nel richiamare il marchio della ‘K’, abbia parlato in modo metaforico per indicare la ‘condizione disonorevole’, nella quale si venivano a trovare coloro che erano condannati per calunnia. Quella stessa condizione che Cicerone in un passo di un’altra arringa (Pro Cluentio) definisce, in modo più esplicito, ignominia calumniae: Cic. Pro Cluent. 31.86: […] nec elabi alio accusatore poterat Albius nec sine ignominia calumniae relinquere accusationem Cluentius.
Connesse a tale stato dovevano essere, probabilmente, alcune incapacità e limitazioni. Di estremo interesse risulta quanto afferma, ancora, Cicerone nella parte finale di Pro S. Rosc. Amerin. 20.57: […] ut postea neminem alium nisi fortunas vestras accusare possitis, dove l’Arpinate, scherzando sui calunniatori che non avrebbero potuto in seguito accusare se non la loro ‘mala sorte’, pone l’accento sulla privazione del ius accusandi. Il divieto si giustifica considerando il particolare status ‘disonorevole’ del calunniatore e trova un’altra spiegazione (logica) anche nel fatto che costui, nell’agire in maniera infondata, aveva necessariamente abusato del ius accusandi: bisognava, dunque, vietare che potesse di nuovo ripetere un siffatto comportamento 24. Quello che va sottolineato è che questa privazione aveva una notevole efficacia, soprattutto, in un ordinamento caratterizzato da un sistema processuale di tipo accusatorio. Il divieto, infatti, risulta essere in vigore non solo durante l’età repubblicana, ma, secondo quanto si può desumere da una testimonianza di Ulpiano, anche nel principato: Ulp. 2 de adult. D. 48.2.4: Is, qui iudicio publico damnatus est, ius accusandi non habet, nisi liberorum vel patronorum suorum mortem eo iudicio vel rem suam exequatur. Sed et calumnia notatis ius accusandi ademptum est, item his, qui cum bestiis depugnandi causa in harenam intromissi sunt, quive artem ludicram vel lenocinium fecerint, quive praevaricationis calumniaeve causa quid fecisse iudicio publico pronuntiatus erit, quive ob accusandum negotiumve cui facessendum pecuniam accepisse iudicatus erit. Costa, Crimini e pene da Romolo a Giustiniano, Bologna, 1921, 61; Cicerone giureconsulto, II.1, Il diritto e il processo penale, Bologna, 1927, 116. Cfr. pure B. Santalucia, Diritto e processo, cit., 180 s. nt. 253, secondo il quale, con riferimento alla pena della ‘K’, «sembra poco probabile, dati gli usi romani, che essa abbia ricevuto concreta applicazione». 24 Sul punto si veda E. Levy, Von den römischen Anklägervergehen, cit., 382 ss.; G. Pugliese, Diritto penale, cit., 298; J.G. Camiñas, La lex Remmia, cit., 104 ss.; F. Botta, Legittimazione, cit., 246 nt. 41; A.M. Giomaro, Per lo studio della calumnia, cit., 82 ss.
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A differenza, quindi, del marchio della lettera ‘K’, a proposito del quale può essere manifestata qualche riserva, per ciò che concerne il divieto del ius accusandi non possano essere sollevati serî dubbî sulla sua effettiva vigenza durante sia l’età repubblicana sia quella successiva. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, però, non è possibile stabilire con certezza se esso sia stato, o meno, introdotto esplicitamente dalla lex Remmia de calumniatoribus del primo secolo a.C., poiché quasi tutte le fonti, nelle quali è citata questa legge, non ci forniscono alcuna indicazione precisa sull’argomento 25. L’unico labile indizio, a favore dell’ipotesi secondo cui la legge Remmia avrebbe introdotto tale divieto, può forse essere ricavato, ancora una volta, dalla Pro S. Roscio Amerino di Cicerone. Non va sottaciuto, infatti, che l’Arpinate, prima di fare riferimento alla ‘condizione disonorevole’ del calunniatore e al conseguente divieto di esercizio del diritto d’accusa, richiama l’attenzione sulla lex Remmia: Cic. Pro S. Rosc. Amerin. 19.55: Nemo nostrum est, Eruci, quin sciat tibi inimicitias cum Sex. Roscio nullas esse; vident omnes qua de causa huc inimicus venias; sciunt huiusce pecunia te adductum esse. Quid ergo est? Ita tamen quaestus te cupidum esse oportebat, ut horum existimationem et legem Remmiam putares aliquid valere oportere.
L’oratore, rivolgendosi ad Erucio, ricorda che il suo desiderio di guadagno doveva essere limitato dal pensiero che un qualche valore avevano pure la existimatio dei giudici e la legge Remmia 26. In un primo momento, si potrebbe, quindi, ipotizzare che sia la ‘condizione disonorevole’ sia la privazione del ius accusandi, a cui si riferisce in séguito Cicerone, rientrino nella disciplina prevista dalla lex Remmia. Se, però, si considera che tale status ‘disonorevole’, come meglio vedremo nelle pagine seguenti, esisteva già prima della legge Remmia, allora, l’unica ipotesi plausibile rimane quella secondo cui la nostra legge avrebbe vietato l’esercizio del diritto d’accusa. Occupiamoci, adesso, brevemente della c.d. infamia, che, secondo l’opinione di alcuni autori sarebbe stata un’altra delle pene previste contro i 25 In proposito non sono di ausilio, infatti, Papin. 1 de adult. D. 22.5.13: Quaesitum scio, an in publicis iudiciis calumniae damnati testimonium iudicio publico perhibere possunt. Sed neque lege Remmia prohibentur […]; Marcian. lib. sing. ad s. c. Turp. D. 48.16.1.2: Calumniatoribus poena lege Remmia irrogatur; 48.16.1.3: […] si vero in evidenti calumnia eum deprehenderit, legitimam poenam ei irrogat; 48.16.1.4: […] et quamvis nihil de poena subiecerit, tamen legis potestas adversus eum exercebitur […]. 26 Si noti la contrapposizione fatta da Cicerone tra la existimatio dei giudici (19.55) e la ‘condizione disonorevole’ in cui si veniva a trovare il calunniatore (20.57).
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calunniatori 27. Si può subito notare che le diverse espressioni (infamia, ‘perdita della civica onorabilità’, mancanza di existimatio, ignominia), adoperate dagli studiosi per indicare questa particolare pena, denotano la carenza, nelle fonti, di una definizione precisa: se il concetto generale di infamia, infatti, sembra non presentare difficoltà, quello più strettamente tecnico è ben lungi dall’essere precisato 28. Per indicare, pertanto, la particolare situazione nella quale veniva a trovarsi colui che era stato condannato per calunnia in età repubblicana bisogna accontentarsi di fare riferimento ad un concetto di infamia in senso lato, che abbiamo definito con l’espressione ‘condizione disonorevole’, cui si collegavano una serie di limitazioni. Oltre a quello di esercitare il ius accusandi, infatti, si possono, ad esempio, ricordare, come ulteriori significativi divieti: quello di postulare pro aliis e di accedere al decurionato. Il primo fu, molto probabilmente, sancito dal pretore in un suo editto di cui è possibile trovare testimonianza, ancora durante il principato, in un testo attribuito dai compilatori a Giuliano (dov’è riportato l’elenco degli infames fissato in tale editto) 29: Iulian. 1 ad ed. D. 3.2.1: Praetoris verba dicunt: ‘Infamia notatur’ qui ab exercitu ignominiae causa ab imperatore eove, cui de ea re statuendi potestas fuerit, dimissus erit: qui artis ludicrae pronuntiandive causa in scaenam prodierit: qui lenocinium fecerit: qui in iudicio publico calumniae praevaricationisve causa quid fecisse iudicatus erit […].
Sul divieto di accesso al decurionato ci informa una clausola della lex Iulia municipalis, che considera, tra gli altri esclusi, anche il calunniatore: Si veda ad esempio Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 494; E. Costa, Crimini, cit., 61; Cicerone giureconsulto, cit., 116; G.F. Falchi, Diritto penale romano. (Singoli reati), Padova, 1932, 198; E. Levy, Von den römischen Anklägervergehen, cit., 382 ss.; U. Brasiello, La repressione penale in diritto romano, Napoli, 1937, 548; T. Spagnuolo Vigorita, Secta temporum meorum, Palermo, 1978, 132, 136; G. Pugliese, Diritto penale, cit., 298; J.G. Camiñas, La lex Remmia, cit., 111 s.; A.M. Giomaro, Per lo studio della calumnia, cit., 177 ss. 28 Sull’argomento, oltre al fondamentale lavoro di M. Kaser, Infamia und ignominia in den römischen Rechtsquellen, in ZSS, LXXIII, 1956, 220 ss., si veda U. Brasiello, voce Infamia, in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1962, 641 ss.; A. Mazzacane, voce Infamia (diritto romano e intermedio), in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, 382 ss. Per un primo riferimento sul tema si veda, inoltre, M. Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, Torino, 2011, 165 ss. Di recente, con particolare riguardo all’infamia dell’attore, cfr. E. Bianchi, Appunti minimi in tema di infamia dell’attore nel regime pretorio, in Teoria e storia del diritto privato, VI, 2013, 1 ss. = www.teoriaestoriadeldirittoprivato.com. 29 Cfr. O. Lenel, EP3, § 16, 77 ss. 27
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[Lex Iulia municip.] Tab. Heracl. l. 120 s. (FIRA 12.149): […] K(alumniae) praevaricationis caussa accussasse fecisseve quod iudicatum est erit […].
Al termine del discorso sulla ‘condizione disonorevole’, nella quale si trovava il condannato per calunnia, può, con molta cautela, essere proposta qualche nuova riflessione, prendendo spunto dall’importante istituto del iusiurandum calumniae, con cui l’accusatore dichiarava solennemente di non presentare l’accusa calumniae causa. Siffatto giuramento, vigente già all’età dei Gracchi, risultava essere un requisito necessario, nella procedura delle quaestiones, ai fini della receptio nominis da parte del pretore (e di conseguenza per l’instaurazione dell’intero processo) 30. L’aspetto che va comunque sottolineato è il suo carattere religioso, poiché esso consisteva in una dichiarazione solenne con la quale si invocavano gli dèi a testimonianza della verità delle proprie affermazioni 31. In stretta relazione con tale aspetto è la problematica concernente i rimedi adottabili contro colui che, dopo aver giurato, fosse condannato per calunnia. Al riguardo, è possibile ipotizzare che il comportamento dell’accusatore che non avesse rispettato il iusiurandum, oltre a porre quest’ultimo in contrasto con la divinità, doveva essere considerato riprovevole sul piano morale e sociale. Il calumniator veniva così a trovarsi in una particolare ‘condizione disonorevole’ (che ben poteva giustificare l’applicazione di significativi divieti) non solo per essere stato dichiarato colpevole nell’àmbito del iudicium calumniae (non si dimentichi, infatti, che i condannati nei iudicia publica diventavano infami), ma soprattutto perché non aveva mantenuto fede al giuramento prestato. Nell’età della repubblica, pertanto, il iusiurandum calumniae ha, forse, svolto un ruolo molto più importante di quanto si possa credere nella disciplina sanzionatoria contro le false accuse: il suo mancato rispetto, infatti, ha posto le basi per poter configurare quel particolare status ‘disonorevole’, al quale, solamente alcuni anni dopo forse grazie anche ad interventi normativi (si pensi ad esempio alla lex Remmia), furono connesse una serie di limitazioni. 30 Come è testimoniato dalla lex repetundarum Tabulae Bembinae, cfr. lin. 19 (FIRA 12. 89 s.): De nomine deferundo iudicibusque legundeis. Quei ex h. l. pequniam ab a[ruorsario petet, … is eum, unde petet, postquam CDLuirei ex h. l. in e]um annum lectei erunt, ad iudicem, in eum annum quei ex h. l. [factus] erit, in ious educito nomenque eius deferto; sei deiuraverit calumniae causa non po[stulare, is praetor nomen recipito facitoque […]. 31 La parola iusiurandum, infatti, si ricollega all’accezione originaria di ius nel senso di ‘formula religiosa che ha forza di legge’ da cui è derivato iusiurare con il significato di ‘pronunciare una formula sacra’ (cfr. A. Ernout-A. Meillet, voce Ius, in Dictionnaire étymologique de la langue latine, 19674, 329).
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4. Riflessioni conclusive La disciplina punitiva del reato di calunnia, dalla lettura delle fonti in nostro possesso, è apparsa contraddistinta da un lato dal iusiurandum calumniae, la cui violazione avrebbe ridotto il calumniator in una particolare ‘condizione disonorevole’ e, dall’altro, da una serie di divieti e limitazioni (strettamente connessi a tale stato), tra i quali il più importante era costituito da quello di esercitare il ius accusandi: quest’ultimo (forse introdotto dalla lex Remmia), come ben si intende, era giustificato dal fatto che l’accusatore temerario aveva necessariamente abusato del diritto di accusa. Nonostante quest’articolata regolamentazione, tuttavia, continuarono i fenomeni degenerativi del sistema accusatorio, forse perché non tutti avevano interesse ad eliminare la categoria dei calumniatores. Nel periodo repubblicano e specialmente in quello successivo ci troviamo di fronte ad un’ambigua posizione tenuta dai ceti dirigenti, i quali, da una parte, manifestavano la volontà, forse più in modo apparente che concreto, di eliminare la piaga degli accusatori di mestiere e, dall’altra, avevano alcuni validi motivi perché tali persone continuassero la loro turpe attività. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla confisca del patrimonio dei cittadini condannati, che, certamente, rappresentava un’importante fonte per rimpinguare le casse dello stato o, ancora, si consideri la possibilità, per coloro che governavano la res publica, di mettere fuori gioco personaggi, per loro scomodi, attraverso la proposta di una falsa accusa presentata direttamente o per mezzo di terze persone 32. Appare, infatti, chiaro che il calunniatore, spesso desideroso di far carriera e di arricchirsi in breve tempo, poteva facilmente essere strumentalizzato. A questo riguardo, ad esempio, è interessante l’episodio narrato da Cicerone sul tentativo di uccisione del giurista Q. Mucio Scevola ad opera del console C. Fimbria (sanguinario ‘partigiano’ di Mario): costui, desideroso di uccidere Scevola, organizzò un attentato durante i funerali di C. Mario. In séguito, Fimbria, avendo saputo che il giurista era sopravvissuto all’imboscata, decise di ricorrere all’accusa per conseguire lo stesso risultato: Cic. Pro S. Rosc. Amerin. 12.33: […] Cum ab eo quaereretur quid tandem accusaturus esset eum, quem pro dignitate ne laudare quidem quisquam satis commode posset, aiunt hominem, ut erat furiosus, respondisse: «quod non totum telum corpore recepisset» […].
32 Basti ricordare, ad esempio, le degenerazioni del sistema accusatorio durante il periodo delle proscrizioni sillane.
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In un altro passo della medesima orazione, Cicerone, inoltre, mette in guardia i giudici delle quaestiones perpetuae dal fatto che alcuni cittadini potevano perseguire, attraverso il processo criminale, gli stessi scopi illeciti ottenuti con la commissione dei crimina: Cic. Pro S. Rosc. Amerin. 3.8: […] nonne cum multa indigna, tum vel hoc indignissimum est, vos idoneos habitos per quorum sententias iusque iurandum id assequantur, quod antea ipsi scelere et ferro adsequi consuerunt?
Sul finire dell’età repubblicana, dunque, si creò un rapporto molto stretto tra i vari gruppi, che erano di volta in volta al potere, e certi accusatori di mestiere, in modo da garantire ai primi il controllo del ‘dissenso politico’; ai secondi non solo ‘premi’ economici, ma anche riconoscimenti di varia natura, cariche ed onori. Con l’affermarsi del principato tale particolare sistema contraddistinto da una sorta di ‘giustizia lucrativa’, lungi dallo scomparire, divenne, invece, sempre più consolidato, provocando così un’inevitabile proliferazione delle accuse calunniose. È appena il caso di avvertire, tuttavia, che la piaga degli abusi del ius accusandi non sarà debellata neanche con il venir meno del processo delle quaestiones, ma continuerà a diffondersi per lunghi secoli fino alla tarda antichità – sia pure in contesti storici e sistemi processuali molto differenti – al punto da costringere l’imperatore Costantino ad intervenire ancora nel tentativo di scoraggiare le accuse avventate 33.
Sul punto si veda, per un primo riferimento, S. Pietrini, Sull’iniziativa del processo criminale romano (IV-V secolo), Milano, 1996, 96 ss.; Y. Rivière, Les délateurs sous l’empire romain, Roma, 2002, 131 ss.; S. Giglio, PS. 5.13.15, edictum de accusationibus e giurisdizione criminale nel tardo impero romano, in SDHI, LXVIII, 2002, 205 ss.; C. Russo Ruggeri, L’«edictum de accusationibus» di Costantino e i delatori, in Studi in onore di Antonino Metro, a cura di C. Russo Ruggeri, V, Milano, 2010, 425 ss. e, di recente, A. Banfi, Acerrima indago, cit., 62 ss. 33
Regole di giudizio e garanzie dell’imputato nel processo criminale romano: la presunzione di innocenza Francesco Fasolino Sommario: 1. La recentissima normativa europea sulla presunzione di innocenza. – 2. Il principio in dubio pro reo tra esigenze di difesa sociale e tutela della libertà individuale. – 3. Le antiche origini della regola in dubio pro reo. – 4. La prima affermazione ufficiale della regola. – 5. Applicazione del principio nel tardo antico. – 6. La presunzione di innocenza come regola di giudizio e di trattamento.
1. La recentissima normativa europea sulla presunzione di innocenza Lo scorso 12 febbraio 2016, è stata adottata definitivamente la “Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea in data 11 marzo 2016, n. L 65. Si è chiuso così un lungo percorso iniziato con il monitoraggio delle modalità attraverso le quali la presunzione in esame veniva concretamente applicata nelle legislazioni degli Stati membri dell’Unione Europea, i cui esiti sono confluiti, nel 2006, in un apposito “libro verde sulla presunzione di non colpevolezza”. Vera e propria “pietra angolare” della cultura giuridica moderna 1, la presunzione di innocenza è sancita dall’art. 6, § 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) nonché dall’articolo 48.1 della Carta UE dei diritti fondamentali, oltre che da numerosissime convenzioni e strumenti internazionali; essa fa, peraltro, parte delle tradizioni costituzionali di tutti gli Stati membri, ed è presente in numerosissime legislazioni nazionali extraeuropee. 1 Per un’approfondita trattazione del tema della presunzione di innocenza tra teoria e prassi, cfr. P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, Torino, 2008.
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La presunzione di innocenza costituisce uno degli elementi essenziali della più generale nozione di “equità processuale” per lo standard della Convenzione come interpretata dalla Corte europea per i diritti dell’Uomo (“standard CEDU”), che la configura come una sorta di cerniera fra i contenuti generali del diritto al “giusto processo” e la disciplina degli specifici diritti dell’accusato. Il principio, declinato dalla Convenzione e dalla Corte di Strasburgo, ha innanzitutto una portata processuale quale regola di giudizio, l’art. 6, § 2 sancendo che “ogni persona accusata di un reato è presunta innocente”, ma è al contempo anche regola di trattamento dell’accusato (“… fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”): non a caso, la Corte ha affermato che il principio in esame richiede, tra l’altro, che i giudici non debbano approcciare il caso con il pre-giudizio della fondatezza delle accuse, che l’onere della prova gravi sull’accusa e che il dubbio giovi all’accusato. Facendo tesoro delle varie pronunce della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, la direttiva UE 2016/343 punta, quindi, ad uniformare le legislazioni dei vari Paesi membri con l’intento dichiarato di “rafforzare il diritto a un equo processo nei procedimenti penali, stabilendo norme minime comuni relative ad alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo” e mira a “rafforzare la fiducia degli Stati membri nei reciproci sistemi di giustizia penale e, quindi, a facilitare il riconoscimento reciproco delle decisioni in materia penale”. La presunzione di innocenza, in tale prospettiva, viene articolata attraverso alcuni profili specifici che ne rappresentano dirette esplicazioni, incidendo sostanzialmente sulle garanzie dell’imputato: l’onere della prova, il diritto al silenzio ed alla non autoincriminazione, il divieto di presentare in pubblico l’imputato come colpevole, il divieto di adottare misure coercitive in chiave colpevolista prima della decisione definitiva, il diritto a presenziare al processo, sono, infatti, tutti ambiti concreti in relazione ai quali si misura la tenuta democratica del sistema penale e l’effettività del diritto ad un equo processo. La presunzione in parola ha per obiettivo quello di evitare che un soggetto, prima di essere giudicato responsabile del fatto penalmente illecito contestato, possa essere ritenuto colpevole o anche solo possa essere trattato come tale. In questo senso, rappresentando un corollario logico del fine razionale assegnato al processo, essa attesta un’indiscutibile preferenza ontologica nei confronti dell’innocenza, che si traduce nella convinzione secondo cui il processo penale ha una specifica funzione cognitiva volta alla dimostrazione, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato. La direttiva, dunque, obbliga gli Stati membri dell’Unione ad adeguarsi a quanto in essa previsto, ed in particolare obbliga tutti i Paesi a considerare
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la presunzione di non colpevolezza come un pilastro essenziale del diritto all’equo processo, valido per tutte le legislazioni penali. Con questo provvedimento, in definitiva, si pongono le basi perché il processo penale diventi sempre più effettivamente il luogo ove si accerta un fatto penalmente rilevante nel pieno rispetto delle garanzie individuali. Peraltro, facendo un significativo passo avanti rispetto alla stessa lettera della Convenzione europea, che, per la terminologia utilizzata, veniva intesa, in passato, in modo meno ampio, la Direttiva chiarisce (artt. 2 e 3) che i principi in essa richiamati valgono sin dal momento stesso in cui prende avvio un’indagine penale nei confronti di una persona fisica e debbono essere applicati fino a quando la decisione non diventa definitiva col passaggio in giudicato della sentenza che decide sulla responsabilità penale dell’imputato. Di particolare interesse è, poi, considerare le varie declinazioni che, secondo il legislatore europeo, la presunzione assume. Innanzitutto, per quanto concerne l’onere della prova, l’art. 6 obbliga gli Stati membri ad assicurare in concreto che l’onere di dimostrare la colpevolezza competa all’accusa e non alla difesa. Questo profilo individua una delle caratteristiche e delle garanzie essenziali del processo penale, laddove fissa l’oggetto dell’accertamento e il ruolo dei protagonisti: è all’accusa, invero, che spetta di provare i fatti penalmente rilevanti contestati alla persona imputata e nessuna inversione dell’onere dimostrativo può ritenersi legittima, cosi come non possono trovare spazio presunzioni di qualsiasi natura e specie. Un’immediata e diretta conseguenza della regola sancita in tema di onere della prova è fissata nel richiamato par. 2 dell’art. 6, secondo il quale il “dubbio” deve essere sempre valutato a favore della persona indagata o imputata: viene così ribadito a chiare lettere il principio dell’in dubio pro reo, che già, peraltro, trovava applicazione nel sistema processuale penale dei Paesi membri con riferimento specifico alle modalità di articolazione del giudizio. Ed invero, la consapevolezza del carattere solo probabile di qualunque genere di prova e la preoccupazione per la fallibilità di ogni giudizio umano rappresentano le ragioni più profonde del principio in dubio pro reo, teso a garantire che nessun innocente venga punito ingiustamente. Secondo tale principio, infatti, tutte le volte che non si raggiunge, nel processo, la certezza circa la colpevolezza dell’imputato, questi deve essere assolto dall’accusa rivoltagli; esso si pone, invero, principalmente, come regola di giudizio, che assume rilievo nel momento in cui il giudice è chiamato a valutare le prove e, in relazione ad esse, a pronunciarsi sulla colpevolezza, o meno, dell’imputato 2. Cfr. al riguardo, L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 2002, 83 s.: l’A. sottolinea che «è necessaria la prova – cioè la certezza, sia pure soggettiva – non dell’innocenza ma della colpevolezza, non tollerandosi la condanna ma richiedendosi 2
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Conseguentemente, come si è accennato, nell’ambito della direttiva, la presunzione di innocenza viene anche considerata come regola di trattamento, con particolare riferimento alle misure coercitive ante iudicium. In questa prospettiva, l’art. 5 vieta che gli indagati e imputati possano essere presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica, consentite soltanto se necessarie per ragioni di sicurezza, di tutela del processo o per impedire la fuga. La Direttiva, rimarcando la stretta correlazione esistente tra i due ambiti, si conclude con il riconoscimento del fondamentale diritto dell’imputato a essere presente al proprio processo: la possibilità di celebrare il processo in assenza dell’imputato è ammessa ma solo a condizione che egli sia stato informato in tempo del processo e delle conseguenze della sua mancata partecipazione: ciò in quanto, evidentemente, si ritiene che la partecipazione diretta dell’imputato al processo rappresenti la modalità essenziale per esercitare i propri diritti ed in particolare per difendersi al suo interno, e come tale debba essere garantita.
2. Il principio in dubio pro reo tra esigenze di difesa sociale e tutela della libertà individuale Anche nell’ordinamento giuridico italiano è espressamente sancita la presunzione d’innocenza, seppur espressa attraverso una perifrasi negativa, mentre invece non ritroviamo una formulazione espressa dell’antico principio dell’in dubio pro reo: tuttavia, il 2° comma dell’art. 27 della Costituzione, stabilendo che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, prescrive indirettamente al giudice la regola di giudizio da adottare nei casi dubbi, lasciando, così, trasparire l’opzione per un ben determinato modello di processo penale in ordine a quanto concerne la ricerca della verità e gli strumenti predisposti al fine di evitare l’errore giudiziario. Come è stato esattamente osservato 3, la regola in dubio pro reo rappresenta una norma di chiusura del cd. “modello del diritto penale minimo”, quello tipico dello Stato di diritto e, dunque, di un ordinamento in cui il potere penale è rigidamente limitato e vincolato dalla legge sotto il profilo sia sostanziale che processuale; tale canone, intimamente informato agli ideali l’assoluzione in caso di incertezza. L’incertezza è infatti risolta da una presunzione legale d’innocenza a favore dell’imputato, proprio perché la sola certezza che dal processo si pretende riguarda i presupposti delle condanne e delle pene, e non quelli delle assoluzioni o delle non-pene». 3 L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., 81 ss.
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di certezza e di razionalità, si inserisce nel più ampio criterio del favor rei, che esige interventi potestativi e valutativi di esclusione o, quantomeno, di attenuazione, della responsabilità penale tutte le volte che sussista un’incertezza circa i presupposti cognitivi della pena. Il principio in dubio pro reo, in uno con altri come la presunzione di innocenza dell’imputato fino alla sentenza definitiva, di cui il primo rappresenta la proiezione processuale, così come l’onere della prova a carico dell’accusa, il contraddittorio tra le parti come metodo per la ricerca della verità, l’imparzialità e la terzietà del giudicante rispetto alla questione da decidere, il libero convincimento del giudice, fondato ed argomentato, però, iuxta alligata et probata, si iscrive nell’ambito di quelle garanzie processuali che connotano tipicamente la struttura accusatoria del processo penale. Tale regola, così come, per un verso, l’obbligo di assoluzione in caso di incertezza sulla verità fattuale e, per altro verso, l’analogia in bonam partem, l’interpretazione restrittiva delle fattispecie penali e quella estensiva delle circostanze esimenti o attenuanti in caso di incertezza sulla verità giuridica, rappresentano tutti, in altri termini, i cardini di un impianto sistematico-normativo, ma prima ancora concettuale, teso a garantire il giusto equilibrio tra libertà del cittadino ed autonomia del giudice, da un lato, e razionalità ed equità delle decisioni giudiziarie, dall’altro, mirando a far sì che la discrezionalità del giudicante sia diretta non ad estendere, ma ad escludere o a ridurre l’intervento penale tutte le volte che esso non sia fondato su sicuri argomenti cognitivi. Sono evidenti, del resto, le strette interrelazioni tra il principio in esame e le concezioni storicamente affermatesi in tema di prova. Non bisogna dimenticare, infatti, che nella storia del processo penale, le teorie sulla prova si sono avvicendate alla luce dell’antinomia prova legale – libero convincimento del giudice, nello sforzo di individuare i metodi e gli strumenti attraverso i quali il processo potesse, al contempo, ricercare la verità e garantire dall’errore. Sotto questo profilo, un sistema di prove legali si proponeva come un metodo grazie al quale il giudice poteva conoscere la verità nel processo attraverso la previsione astratta e precostituita di prove, vincolanti non solo nella fase della loro acquisizione e formazione ma, soprattutto, nel momento della loro valutazione. Fu proprio quest’ultimo, come è noto, il criterio metodologico che i giuristi medioevali, a partire dal XIII secolo, adottarono per scongiurare il pericolo che uno strapotere riconosciuto ai giudici si risolvesse in arbitrium iudicis. Per converso, l’Illuminismo reagì aspramente, criticando quei prontuari di regole e norme e le infinite tipizzazioni di prove, che, si riteneva,’imbrigliassero’ il giudice fino a ridurlo ad una sorta di automa, il cui unico
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compito si riduceva all’applicazione meccanicistica del disposto legislativo al caso concreto. Ben presto, tuttavia, ci si rese conto che la soluzione non poteva essere neppure quella di concedere al giudice piena autonomia nel valutare le prove, con l’evidente e concreto rischio che il principio di libertà di convincimento si concretizzasse in forme irrazionali di decisioni, giungendo così all’eccesso opposto. La constatazione che questi due antitetici approdi epistemologici siano, comunque, riconducibili all’ambito della concezione moderna di prova, dimostra le evidenti contraddizioni a cui il legislatore, prima, e il giudice, poi, vanno incontro qualora si tenti di trasferire il metodo scientifico alla pratica giudiziaria, giungendo a concepire il ragionamento probatorio come un sillogismo di tipo dimostrativo. L’essenza del processo risiede, infatti, in una razionalità che non ha, e non può avere, carattere deduttivo-dimostrativo: ‘provare’ non significa ‘dimostrare’, inseguendo a tutti i costi l’idea di una presunta verità oggettiva, reale, o formale, o ipotetica, in una sorta di ‘tracotanza epistemica’ che pretende di possedere tale verità; vuol dire, invece, assumere quella razionalità argomentativa e critica fondata sul confronto dialettico tra persone che dialogano e si mettono in discussione, trovandosi sullo stesso piano, con i medesimi poteri e identiche prerogative. Alla luce di tali considerazioni, l’analisi del canone dell’in dubio pro reo consente di appurare il modo concreto in cui interagiscono i termini che costituiscono il binomio ‘protezione della società – difesa dell’accusato’ che è stato, e continua ad essere, il principale nodo nevralgico di ogni sistema giuridico di repressione criminale. Se, infatti, l’esigenza di scoprire i reati è dettata dal bisogno di proteggere la società contro la delinquenza, al contrario, il riconoscimento dei casi nei quali il reato non è stato commesso risponde alla necessità, anch’essa fondamentale, di preservare il cittadino innocente dal pericolo di una condanna ingiusta; equilibrio, questo, tutt’altro che agevole da raggiungere e garantire perché le istanze di difesa sociale, evidentemente, appaiono più efficacemente tutelate proprio attraverso quei mezzi che impediscono od ostacolano la difesa dell’accusato; viceversa, la difesa di quest’ultimo pare assai meglio realizzata con strumenti che impediscono od ostacolano la protezione della società. Ed è proprio sotto tale specifico riguardo che il principio dell’in dubio pro reo esplica la sua funzione più pregnante, coniugando tali contrapposte esigenze e contribuendo, in definitiva, a fissare un punto di equilibrio, pur se storicamente mutevole, tra le caratteristiche inquisitorie e quelle accusatorie del sistema penale.
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3. Le antiche origini della regola in dubio pro reo Si ritiene comunemente che, nella tradizione giuridica europea, la regola della presunzione d’innocenza ed il principio in dubio pro reo, che della prima, come si è detto, costituisce la proiezione nel campo processuale, siano stati affermati soltanto a partire dall’età dell’Illuminismo, quel movimento riformatore che, durante il XVIII secolo, minò le basi dell’Ancien Régime e la struttura politica, socio-economica e giuridica di cui esso era espressione 4. In realtà, se è fuor di discussione che il principio di cui ci stiamo occupando abbia avuto la sua piena concettualizzazione in quel particolare periodo storico e in quella formidabile temperie, come conseguenza della profonda ‘rivoluzione’ culturale e di pensiero che lo caratterizzò e da cui emerse, tra l’altro, l’esigenza di introdurre nel processo penale la tutela delle libertà individuali fino ad allora negate, ridefinendo, così, radicalmente i rapporti tra lo Stato, il suo potere punitivo e i cittadini, d’altro canto, non è possibile però trascurare l’evidenza del dato storico per il quale le sue origini, ad un’analisi più attenta e scevra da stereotipi concettuali, sembrano, invece, doversi far risalire a molti secoli prima, cioè all’ordinamento giuridico di Roma antica, e, più precisamente, all’ultima fase della Repubblica (I sec. a.C.). La più risalente ipotesi di applicazione del principio in dubio pro reo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, sembra, infatti, potersi ravvisare in un passo dell’orazione Pro Roscio Amerino di Marco Tullio Cicerone, che come è noto, fu pronunciata nell’anno 80 a.C., in difesa di un giovane nobile di Ameria, accusato del gravissimo crimine di parricidio. Dietro l’accusa vi erano interessi torbidi di personaggi influenti dell’epoca, tra cui Lucio Cornelio Crisogono, potente liberto del dittatore Silla, i quali miravano ad impossessarsi delle vaste proprietà terriere di Sesto Roscio padre, facendo ricadere sul figlio, unico erede legittimo, la responsabilità dell’omicidio del genitore 5. L’allora giovane avvocato Cicerone, non ancora trentenne e agli esordi Nello stesso ordine di idee anche V. Giuffrè, Legalità, terzietà, presunzione di innocenza a Roma Antica, in Id., Divagazioni intorno al diritto romano, Napoli, 2014, 29 ss., secondo il quale ritenere le garanzie formali massime del cittadino come consustanziali all’esercizio del magistero punitivo è una sorta di ‘effetto ottico’ dovuto al nostro habitus mentale. 5 Con riferimento all’accusa nel processo delle quaestiones si veda D. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare. Dalla «quaestio» unilaterale alla «quaestio» bilaterale, Padova, 1989, 1 ss.; C. Venturini, Processo e società politica nella Roma repubblicana, Pisa 1996, 11 ss.; F. Botta, Legittimazione, interesse ed incapacità all’accusa nei publica iudicia, Cagliari, 1996, 1 ss.; C. Venturini, Il processo accusatorio romano tra punti fermi e problematiche aperte, in Sem. Compl., XIV, 2002, 195 ss. 4
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della sua carriera forense, ovviamente non tralascia alcuna strategia per garantire al suo assistito la migliore difesa possibile. In particolare, dalla lettura del testo dell’orazione, si evince come egli fa ricorso dapprima ad una serie di luoghi comuni sul parricidio che troveranno successivamente ampia diffusione nella declamazione delle scuole di retorica: dal fatto che si tratta di un crimine estremo, al quale non si può credere con leggerezza; che esso rappresenta un misfatto contro natura, connotato da tratti di empietà e disumanità tali da far assimilare il parricida ad un monstrum o ad un portentum; alla tesi che parricida non si diventa all’improvviso, potendosi giungere ad un tale delitto solo dopo una sorta di lungo “tirocinio” criminale; per finire con l’evidenziare la stretta connessione fra parricidio e squilibrio mentale 6. Proprio a questo punto del suo discorso, però, l’oratore inserisce abilmente un exemplum, traendolo da un caso della cronaca recente, probabilmente ancora vivo nella memoria dei giudici: Cic. Pro Sex. Roscio Amerino 64: non ita multis ante annis aiunt T. Caelium quendam Terracinensem, hominem non obscurum, cum cenatus cubitum in idem conclave cum duobus adulescentibus filiis isset, inventum esse mane iugulatum. Cum neque servus quisquam reperiretur neque liber ad quem ea suspicio pertineret, id aetatis autem duo filii propter cubantes ne sensisse quidem se dicerent, nomina filiorum de parricidio delata sunt. Quid poterat tam esse suspiciosum? Neutrumne sensisse? Ausum autem esse quemquam se in id conclave committere eo potissimum tempore cum ibidem essent duo adulescentes filii qui et sentire et defendere facile possent? 65: Tamen, cum planum iudicibus esset factum aperto ostio dormientis eos repertos esse, iudicio absoluti adulescentes et suspicione omni liberati sunt. Nemo enim putabat quemquam esse qui, cum omnia divina atque humana iura scelere nefario polluisset, somnum statim capere potuisset, propterea quod qui tantum facinus commiserunt non modo sine cura quiescere sed ne spirare quidem sine metu possunt.
«Non molti anni prima – racconta dunque Cicerone – un certo Tito Celio di Terracina, uomo di condizione tutt’altro che umile, dopo aver pranzato se ne andò a dormire nella medesima stanza da letto con i suoi due figli adolescenti; la mattina dopo venne trovato strangolato. Nessuno schiavo, nessun uomo libero sembrava sospettabile per quel delitto, e d’altra parte i due figli, che pure dormivano accanto al padre, affermavano di non aver sentito nulla in quel momento; così, i figli furono accusati di parricidio. Nulla poteva essere altrettanto sospetto e altrettanto incredibile: possibile mai che nessuno dei due avesse sentito nulla? Dunque, qualcuno aveva osato 6 M. Lentano, Concessum est rhetoribus ementiri. Quattro esempi di come nasce un tema declamatorio, in Annali Online di Lettere – Ferrara, Voll. 1-2 (2011), 133 ss.
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introdursi in quella stanza sapendo perfettamente che vi erano i due giovani figli e che questi avrebbero potuto facilmente accorgersi di qualcosa e difendere il padre?» Tutto sembrava inevitabilmente andare in direzione della condanna dei due fratelli, senonché, «non appena i giudici accertarono che, una volta aperta la porta, i giovanetti erano stati trovati immersi nel sonno, essi li assolsero immediatamente scagionandoli da ogni sospetto. Si riteneva, infatti, impossibile che qualcuno potesse violare attraverso un crimine indicibile tutte le norme divine e umane e poi prendere sonno come se niente fosse, dato che anzi chi compie un tale delitto non solo non riesce a riposare senza cadere preda dell’angoscia ma non può neppure respirare senza provare paura». Come è evidente, i giudici, posti di fronte al dubbio, in loro instillato dall’atteggiamento tenuto dai figli, trovati a dormire serenamente accanto al padre che, secondo l’accusa, avevano appena ucciso, in mancanza di altre prove certe, ritennero di dover assolvere i ragazzi nei cui confronti vi erano soltanto dei sospetti, peraltro generati esclusivamente in via congetturale dalle medesime circostanze oscure dell’accaduto. Cicerone, è vero, non invoca espressamente, a tale riguardo, il principio in dubio pro reo ma ne dà, tuttavia, un’applicazione concreta; del resto, sia, da un lato, il fatto che egli non ritiene necessario soffermarsi sulla ratio di tale regola in relazione al caso di specie, sia, dall’altro, la considerazione che, trattandosi di una delle sue prime orazioni, egli sarebbe stato indotto, con ogni probabilità, a far ricorso, per la maggiore efficacia della sua strategia difensiva e per una maggiore sicurezza sua e del suo assistito, a principi e regole di sicura e consolidata tenuta, inducono a ritenere che l’applicazione del canone in dubio pro reo non dovesse rappresentare di certo una novità per coloro ai quali l’oratore si rivolgeva. Difficilmente, infatti, io credo, Cicerone, da avvocato alle prime esperienze, ma desideroso di affermarsi, in un processo così delicato e complesso, sia per la gravità dell’accusa mossa al suo assistito, sia per l’intervento, contro quest’ultimo, di potenti personaggi da dietro le quinte, avrebbe messo a rischio il buon esito del suo patrocinio utilizzando tattiche difensive che, se correlate all’invocazione di principi innovativi o, comunque, poco diffusi e noti, probabilmente non avrebbero sortito alcun effetto positivo sui giudici, rischiando addirittura di essere controproducenti rispetto all’obiettivo finale di far scagionare l'imputato. Detto in altri termini, tutto lascia deporre per ritenere che la scelta difensiva del giovane Cicerone non fosse avventata ma, anzi, poggiasse su una già sperimentata, se non addirittura consolidata, regola di giudizio, che doveva trovare normalmente applicazione nei processi, in base alla quale non poteva considerarsi raggiunta la certezza circa la colpevolezza dell’accusato
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laddove, nel corso del giudizio, emergessero circostanze tali da dare ragionevolmente adito a fondati dubbi in ordine alla reale dinamica dei fatti ed alla effettiva responsabilità dei presunti colpevoli. Nulla però ci consente, allo stato attuale delle nostre conoscenze, di ipotizzare una possibile epoca cui tale regola potrebbe farsi ulteriormente risalire nel tempo: in mancanza di qualunque concreto indizio, infatti, soltanto a titolo di mera congettura si può ritenere che fossero in qualche modo funzionalmente tra di loro connessi il processo accusatorio dinanzi alle quaestiones 7, strutturalmente predisposto per la verifica della fondatezza di una imputazione, e la regola della presunzione di innocenza, sostanzialmente speculare al principio di fondo intorno al quale tale modello processuale è preordinato e in base al quale resta in ogni caso a carico di chi intenta l’accusa dimostrarne il relativo fondamento 8, con la conseguenza che, in caso contrario, ogni qual volta non si raggiunga un grado di certezza sufficiente per la condanna, si debba necessariamente pronunciare l’assoluzione 9. Il fatto però che, come è stato sottolineato da qualche autore 10, i retori abbiano “cannibalizzato” quel testo ciceroniano, riutilizzandolo in misura 7 Su tale tipo di processo si veda, con indicazione della principale letteratura, F. Gnovoce Diritto penale nel diritto romano, in Dig. disc. pen., IV, Torino 19904, 43 ss.; B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma2, Milano, 1998, 103 ss.; V. Giuffrè, La repressione criminale nell’esperienza giuridica romana5, Napoli, 1998, 40 ss.; AA.VV., La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e persuasione, a cura di B. Santalucia, Pavia, 2009, 2 ss.; P. Garbarino, La repressione criminale, in AA.VV., Storia del diritto romano e linee di diritto privato2, a cura di A. Schiavone, Torino, 2011, 274 ss. e, ultimamente, B. Santalucia, La giustizia penale in Roma antica, Bologna, 2013, passim. 8 Sull’utilizzo dei modelli processuali accusatorio e inquisitorio nell’esperienza giuridica romana, oltre al fondamentale lavoro di M. Lauria, ‘Accusatio-Inquisitio’. Ordo – cognitio extra ordinem – cognitio: rapporti ed influenze reciproche, in AAN, LVI, 1934, 304 ss., ora in Studii e ricordi, Napoli, 1983, 277 ss., si veda, con indicazione della principale bibliografia, B. Santalucia, Accusatio e inquisitio nel processo penale romano di età imperiale, in Sem. Compl., XIV, 2002, 179 ss., ora in Altri studi di diritto penale romano, Padova, 2009, 313 ss.; F. Pergami, Accusatio-inquisitio: ancora a proposito della struttura del processo criminale in età tardoantica, in AARC, XVI, 2007, 595 ss., ora in Studi di diritto romano tardoantico, Torino, 2011, 349 ss.; S. Giglio, Il problema dell’iniziativa nella ‘cognitio’ criminale. Normative e prassi da Augusto a Diocleziano, Torino, 20092, 1 ss. e, più di recente, A. Banfi, Acerrima indago. Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C., Torino, 2013, 1 ss., in particolare 15 ss. 9 Sul concreto funzionamento del processo dinanzi alle quaestiones e sulle deviazioni riscontrabili fra principi ispiratori e prassi, cfr. B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma2, cit.; V. Giuffrè, La repressione criminale nell’esperienza romana, Napoli, 1998, 24 ss.; Id., Repressione criminale e garanzie del cittadino, in AA.VV., Poder politico y derecho en la Roma clásica, Madrid, 1996, 39 ss. 10 M. Lentano, Concessum est rhetoribus ementiri, cit., 133 ss.
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massiccia e recuperandone largamente motivi, svolgimenti, topoi e spunti narrativi 11, lascia comunque intendere, a mio avviso, che se la vicenda riferita da Cicerone fu ritenuta efficace come exemplum etico o come possibile modello per la declamazione di scuola, ciò evidentemente avvenne anche perché essa concerneva l’applicazione di un criterio di giudizio che si imponeva, nell’ambito dello schema del processo accusatorio, quantomeno, per una sua radicata ed intrinseca valenza logica, se non anche per una più antica risalenza. Tuttavia, non è soltanto nella pro Roscio Amerino che Cicerone ebbe modo di occuparsi del principio della presunzione di innocenza. Ed invero, come è stato rilevato 12, tale problematica viene posta “in modo ellittico e sfumato, ma chiaro“ da Cicerone nell’esordio di un’altra sua , pure celeberrima, orazione, la Pro Cluentio, pronunciata dinanzi alla quaestio de sicariis et veneficiis nell’anno 66 a.C., in difesa del discendente di una facoltosa ed influente famiglia di equites di Larino, Aulo Cluenzio Abito, accusato di aver ucciso per avvelenamento il suo patrigno 13. In essa l’oratore fa riferimento, criticandola, ad una prassi secondo la quale le giurie giudicanti pretendevano che fosse il difensore dell’imputato a scagionarlo dalle accuse rivoltegli, confutandole integralmente: Pro Cluentio 1.3: Sed in hac difficultate illa me res tamen, iudices, consolatur, quod vos de criminibus sic audire consuestis ut eorum omnium dissolutionem ab oratore quaeratis, ut non existimetis plus vos ad salutem reo largiri oportere quam quantum defensor purgandis crimibus consequi et dicendo probare potuerit: de invidia autem sic inter vos disceptare debetis ut non quid dicatur a nobis, sed quid oporteat dici consideretis. Agitur enim in criminibus A. Cluenti proprium periculum, in invidia causa communis.
11 Si pensi, ad esempio, a Valerio Massimo 8.1, absol. 13, il quale riporta l’episodio in maniera pressoché identica: cum parricidii causam fratres Caelii dicerent splendido Tarracinae loco nati, quorum pater T. Caelius in cubiculo quiescens, filiis altero cubantibus lecto erat interemptus, neque aut servus quisquam aut liber inveniretur, ad quem suspicio caedis pertineret, hoc uno nomine absoluti sunt, quia iudicibus planum factum est illos aperto ostio inventos esse dormientes. Somnus innoxiae securitatis certissimus index miseris opem tulit: iudicatum est enim rerum naturam non recipere ut occiso patre supra vulnera et cruorem eius quietem capere potuerint. 12 V. Giuffrè, Legalità, terzietà, presunzione di innocenza, cit. 34 ss. In senso analogo si veda anche Id., Notazioni storico-giuridiche sulla “Pro Cluentio” ciceroniana, in Atti del Convegno nazionale di Larino sulla “Pro Cluentio” ciceroniana: 4-5 dicembre 1992; si veda anche Id., Imputati, avvocati e giudici nella pro Cluentio ciceroniana, Napoli, 1993. 13 Per approfondimenti si rinvia a Cicerone, Difesa di Cluenzio, saggio introduttivo di E. Narducci; traduzione e note di M. Fucecchi. Milano, 2004; V.M. Patimo, La Pro Cluentio di Cicerone: introduzione e commento dei par. 1-81, Nordhausen, 2009.
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Cicerone attribuisce tale abitudine mentale ad una sorta di assuefazione indotta nei giudicanti dagli stessi avvocati difensori, i quali, malaccortamente, per una sorta di eccesso di zelo, anziché limitarsi ad esigere dalla controparte la prova dell’accusa, cercando di confutare i dati, gli indizi e le argomentazioni da essa addotte, ma invece si affannavano a provare essi stessi l’innocenza del proprio assistito (sic audire consuestis ut eorum omnium dissolutionem ab oratore quaeratis); di talchè si era ingenerata nei giudicanti, ormai assuefatti a questo modo di operare dei patrocinatori, la (errata) convinzione che essi avrebbero in qualche modo largheggiato in generosità (largiri) verso l’accusato laddove avessero preso in considerazione elementi a sua discolpa non portati in giudizio dal difensore. L’oratore, pertanto, cercando di reagire nei confronti di tale prassi, sostiene che i membri delle giurie non avrebbero fatto altro che il loro dovere qualora si fossero preoccupati della salus del reus anche quando il difensore non fosse riuscito, attraverso le sue argomentazioni difensive, a dimostrarne in positivo l’innocenza (dicendo probare). In altri termini, Cicerone sottolinea quanto la prassi invalsa nei tribunali rappresentasse un vero e proprio capovolgimento del ruolo che le parti avrebbero dovuto svolgere nel processo con riferimento all’onere della prova e ne invoca la sua corretta applicazione 14. Si tratta, evidentemente, di un sottile ma fermo richiamo che l’Arpinate fa ai principi che dovrebbero presiedere alla corretta impostazione e allo svolgimento del giudizio nell’ambito del processo criminale: secondo Cicerone, dunque, non (dovrebbe) spetta(re) al difensore di dare la piena dimostrazione dell’innocenza dell’imputato, dovendo egli, al contrario, solamente confutare, contestare e sminuire le argomentazioni e i fatti addotti dall’accusa, evidenziandone tutte le insufficienze ed incongruenze. Se pure non viene espressamente affermata la presunzione di innocenza dell’imputato è, tuttavia, fuor di dubbio che per Cicerone (e, dunque, è lecito ritenere, nell’opinione del ceto forense della fine della Repubblica), è Con riguardo al passo preso in esame, una lettura diversa (definita “incolore” dal Giuffrè, Legalità, terzietà, presunzione di innocenza, cit. 35) è stata proposta da G. Pugliese, Un nuovo esame della ciceroniana “pro Cluentio”, in Labeo 40 (1994), 249 s., secondo cui il discorso di Cicerone non sarebbe stato diretto a far valere il principio della presunzione di innocenza bensì a distinguere, tecnicamente, tra confutazione dell’accusa intentata, per la quale occorreva dare dimostrazione della inesistenza del crimine, e confutazione di una voce pubblica ostile all’accusato (invidia), in relazione alla quale i giudici avrebbero dovuto considerare non solo quanto provato dall’avvocato ma anche tutto quello che egli avrebbe potuto dire per far emergere la verità, trattandosi, nel primo caso, di tutelare l’interesse del solo accusato, nel secondo, invece, di salvaguardare un interesse dell’intera collettività a non far prevalere ostilità tendenziose contro i propri membri. 14
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la colpevolezza dell’accusato a dover essere provata in giudizio, e non certo la sua innocenza. Si tratta, del resto, di principi che trovarono compiuta elaborazione anche nella letteratura non giuridica degli inizi del I secolo d.C.: Seneca, infatti, in un passo delle epistole a Lucilio (Ep. 81.26) non esitava ad affermare che: «quemadmodum reus sententiis paribus absolvitur, et semper quicquid dubium est humanitas inclinet in melius»: la prevalenza, nel caso di dubbio, deve dunque sempre, secondo il filsosofo, essere data alla decisione maggiormente favorevole per l’accusato perché è ciò che si esige in base all’humanitas, da intendersi, come vedremo meglio tra breve, non come atteggiamento sentimentalistico di compassione bensì come criterio meta-giuridico di decisione, idoneo a superare le rigidità (e le iniquità) del diritto tradizionale.
4. La prima affermazione ufficiale della regola Contrariamente all’opinione sin qui dominante 15, le origini della regola in dubio pro reo possono, dunque, farsi senz’altro risalire ad un epoca ancora precedente rispetto al primo Principato nella quale, gli studiosi – non molti, per la verità – che si sono interessati di tale argomento, hanno tradizionalmente ritenuto di poter rinvenire la prima manifestazione del principio in esame 16. Agli inizi del secondo secolo dopo Cristo, infatti, si colloca temporalmente quella che ne costituisce la prima affermazione ufficiale, testualmente rinvenibile in un rescritto dell’imperatore Traiano (98117 d.C.), tramandatoci dal giurista Ulpiano, in un ampio brano tratto dal settimo libro del suo de officio proconsulis, 17 e successivamente raccolto dai compilatori in D. 48.19.5. Il passo in questione è il seguente: Alla quale, peraltro, anche io avevo ritenuto di aderire in una prima fase delle mie ricerche sul tema: cfr. F. Fasolino, Alle origini del principio in dubio pro reo, in Scritti per Alessandro Corbino, vol. 2, Lecce, 2016, 567 ss. 16 M.A. de Dominicis, Ancora sulla formula dubitativa, in Archivio Penale, 1965, I, 535 s., ad integrazione e rettifica di quanto, invece, il medesimo Autore aveva sostenuto in Brev. Pauli Sententiarum IV, 12, § 5 e l’origine romano-cristiana del principio «in dubiis pro reo», in Archivio Penale, 1962, I, 411 ss.; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit. (nt. 1), 92 nt. 25 e 643 nt. 12; A. López Pedreira, Algunas reflexiones acerca de la presunción de inocencia en el ámbito penal romano, in Fundamenta iuris, a cura di Pedro Resina Sola, Almeria, 2013, 373 ss. 17 Sull’opera de officio proconsulis cfr. per una analisi approfondita, A. Dell’Oro, I libri de officio nella giurisprudenza romana, Milano, 1960; D. Mantovani, Il ‘bonus praeses’ secondo Ulpiano. Studi su contenuto e forma del ‘de officio proconsulis’, in BIDR 96-97 (1993-94), 204 ss. 15
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Absentem in criminibus damnari non debere divus Traianus Iulio Frontoni rescripsit. sed nec de suspicionibus debere aliquem damnari divus Traianus Adsidio Severo rescripsit: satius enim esse impunitum relinqui facinus nocentis quam innocentem damnari. Adversus contumaces vero, qui neque denuntiationibus neque edictis praesidum obtemperassent, etiam absentes pronuntiari oportet secundum morem privatorum iudiciorum. Potest quis defendere haec non esse contraria. Quid igitur est? Melius statuetur in absentes pecuniarias quidem poenas vel eas, quae existimationem contingunt, si saepius admoniti per contumaciam desint, statui posse et usque ad relegationem procedi: verum si quid gravius irrogandum fuisset, puta in metallum vel capitis poenam, non esse absentibus irrogandam.
Dopo aver affermato, in un rescritto indirizzato ad un tal Giunio Frontone, che non è possibile condannare l’accusato che risulta assente nel processo criminale, il principe, nell’ambito di un altro rescritto, indirizzato stavolta ad un certo Adsiduo Severo, si esprime nettamente nel senso che neppure si può essere condannati sulla base di semplici sospetti: in tale ipotesi, infatti, come si dice espressamente nel testo, è sicuramente «preferibile che il colpevole di un delitto rimanga impunito, piuttosto che un’innocente venga ingiustamente condannato» (satius enim esse impunitum relinqui facinus nocentis quam innocentem damnari). Il brano, poi, continua illustrando la disciplina da applicare nelle ipotesi in cui gli imputati siano assenti ovvero contumaci, prescrivendo che, conformemente a quanto viene praticato nel campo del processo civile, contro costoro sia consentito comunque comminare sanzioni di tipo patrimoniale ma non pene gravi quali la condanna ai lavori forzati ovvero quella a morte 18, potendosi, tuttavia, giungere sino alla relegatio in insulam nei confronti di colui che nonostante le diverse intimazioni ricevute, si rifiuti di presenziare al processo 19. Il canone per il quale, in caso di dubbio, si deve decidere nel senso favorevole all’imputato viene, quindi, posto per la prima volta formalmente in sede di cognitio extra ordinem, attraverso una statuizione normativa dell’imperatore; tuttavia, essa aveva una portata ancora, per dir così, embrionale, valendo, secondo il preciso tenore della costituzione imperiale, esclusivamente per il caso in cui a carico dell’accusato sussistessero delle mere suspiciones 20. 18 Per approfondimenti sul processo nei confronti degli assenti e dei contumaci, cfr. L. Fanizza, L’assenza dell’accusato nei processi di età imperiale, Roma, 1992. 19 Si tratta di una disciplina che trova corrispondenza e si integra con quanto disposto in altri passi del Digesto, e precisamente in D. 48.17.5.2; D. 48.16.4.5; D. 48.17.1, nonché in una costituzione dell’imperatore Gordiano, C.9.2.6. 20 In tal senso già M.A. de Dominicis, Brev. Pauli Sententiarum IV, 12, § 5 e l’origine romano-cristiana del principio «in dubiis pro reo», cit., 413. Interessante è notare come la ratio del rescritto di Traiano a giustificazione della regola abbia una precisa corrispondenza nella
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Non poca importanza, ai fini di questa indagine, avrebbe poter sapere se la frase satius enim esse impunitum relinqui facinus nocentis quam innocentem damnari fosse già contenuta nel testo del rescritto imperiale rivolto ad Adsiduo Severo ovvero se essa, come io propendo a credere, debba attribuirsi allo stesso Ulpiano che, nel riportare il rescritto nella sua opera, avrebbe così inteso enunciare la ratio sottesa alla volontà imperiale. Il principio in esame va, in ogni caso, sicuramente ad inserirsi nell’alveo del progressivo recepimento di quelle tendenze umanitarie di matrice stoica che caratterizzarono fortemente l’humus culturale del secondo secolo d.C. e di cui vi sono numerose testimonianze sia nella legislazione imperiale che nella riflessione dei giuristi, i quali non di rado fanno leva proprio sulle aperture della normazione per dare forza alle loro prese di posizione innovative rispetto alla tradizione 21: basti pensare, ad esempio, alle disposizioni con cui l’imperatore Adriano dispone che l’efficacia della prova testimoniale debba essere considerata diversamente a seconda della personalità e delle qualità morali dei testi (D. 22.5.3.2-4, Call. 4 de cognit.), oppure ai divi fratres, Marco Aurelio e Lucio Vero, che stabiliscono che la confessione non sia di per sé sola sufficiente ma debba essere correlata con le altre prove (D. 48.18.1.27, Ulp. 8 de off. proc.), o ancora, alle norme con cui Antonino Pio sancì che i contumaci non fossero giudicati colpevoli per tale sola ragione, conservando la possibilità di essere difesi da altri al loro posto (D. 48.3.6.1, Marcian. 2 de iud. publ.). Lo stesso Traiano 22, del resto, proprio in riferimento alle modalità della repressione criminale, interviene altre volte ad orientare l’attività dei giudici verso il riconoscimento di maggiori garanzie nei confronti degli imputati: basti pensare alla disposizione con la quale l’imperatore vietò che venissero fatte all’imputato domande capziose o suggestive durante l’interrogatotrattatistica medievale di diritto canonico: Tancredus, nel suo Ordo iudiciarius, infatti, ebbe a scrivere «sanctius est nocentem dimittere quam innocentem condemnare»; ma il medesimo principio fu ribadito anche da Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae (Quaestio 60, art. 4): «Ubi non apparent manifesta indicia de malitia alicuius, debemus eum ut bonum habere, in meliorem partem interpretando quod dubium est. Melius est quod aliquis frequenter fallatur habens bonam opinionem de aliquo malo homine, quam quod rarius fallatur habens malam opinionem de aliquo bono; quia ex hoc fit iniuria alicui, non autem ex primo». 21 Cfr. A. Palma, Humanior interpretatio. Humanitas nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino, 1992. 22 Il medesimo imperatore, peraltro, in più di una lettera raccolta nell’Epistolario intercorso tra lui e Plinio mostra tutta la sua propensione verso una equilibrata e moderata azione di repressione criminale; basti considerare le indicazioni che egli in Ep. 10.97.1 da al suo governatore circa il trattamento da riservare ai seguaci della religione cristiana: cfr. a tale riguardo, R. Teja, “Conquirendi non sunt. Trajano, Plinio y los cristianos”, in Trajano emperador de Roma, a cura di J. Gonzalez, Roma, 2000, 481 ss.
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rio, che ci è nota, di cui sappiamo, sempre grazie ad Ulpiano, attraverso D. 48.18.1.21 (Ulp. 8 de off. procons.): Qui quaestionem habiturus est, non debet specialiter interrogare, an Lucius Titius homicidium fecerit, sed generaliter, quis id fecerit: alterum enim magis suggerentis quam requirentis videtur. et ita divus Traianus rescripsit.
Il giurista di Tiro, probabilmente, con l’espressione satius enim esse impunitum relinqui facinus nocentis quam innocentem condemnari, intese sintetizzare un principio che si era andato via via consolidando, ricevendo una sanzione ufficiale proprio a partire dall’età traianea, e che aveva portato 23, nel terzo secolo d.C., quando egli appunto scrive, a ritenere ormai necessaria, per poter pronunciare la condanna, l’acquisizione di prove effettive e certe in ordine alla colpevolezza dell’imputato. Ed è proprio questa regola che Ulpiano vuole rimarcare nell’opera da cui è tratto D. 48.19.5 pr., il de officio proconsulis, specificamente rivolta ad orientare i governatori delle province nell’esercizio concreto delle loro funzioni, in primis l’amministrazione della giustizia. Lo spunto contenuto nel rescritto traianeo fu, quindi, ampiamente elaborato dai giuristi, che, come è noto, proprio a partire dall’epoca del Principato, dovettero confrontarsi con i problemi nuovi posti da un assetto istituzionale, politico e sociale radicalmente diverso da quello dell’epoca repubblicana. A tal fine, come ha acutamente messo in luce la dottrina più recente 24, il frequente ricorso a criteri interpretativi quali l’humanitas, la benignitas, la civilitas, la clementia, quali valori di portata universale, rappresentò una consapevole opzione metodologica grazie alla quale la giurisprudenza seppe fronteggiare le numerose e complesse problematiche poste dalla recente formazione di un impero a carattere multietnico e transnazionale. È in questa prospettiva che può allora comprendersi il senso in cui, in età adrianea, Giuvenzio Celso figlio, in D. 1.3.18 (Cels., 29 dig.), giungeva ad affermare che «benignius leges interpretandae sunt», optando così per un ben determinato modello di interpretazione della legge, chiaramente ispirato al M.A. de Dominicis, Ancora sulla formula dubitativa, in Archivio Penale, 1965, I, 535 s., ad integrazione e rettifica di quanto, invece, il medesimo Autore aveva sostenuto in Brev. Pauli Sententiarum IV, 12, § 5 e l’origine romano-cristiana del principio «in dubiis pro reo», in Archivio Penale, 1962, I, 411 ss.; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit. (nt. 1), 92 nt. 25 e 643 nt. 12; A. López Pedreira, Algunas reflexiones acerca de la presunción de inocencia en el ámbito penal romano, in Fundamenta iuris, a cura di Pedro Resina Sola, Almeria, 2013, 373 ss. 24 A. Palma, Humanior interpretatio. Humanitas nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, cit.; Id., Benignior interpretatio. Benignitas nella giurisprudenza e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino, 1997, passim. L. Garofalo, L’humanitas nel pensiero della giurisprudenza classica, in Diritto e Storia, n. 4, 2005. 23
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favor rei. Ai fini dell’individuazione della voluntas legis, il giurista invoca, dunque, l’applicazione di un criterio che attribuisce ampia discrezionalità all’interprete, consentendogli di superare il dato letterale senza rimanere imbrigliato negli schemi di una suptilis ratio; la benignitas, quindi, come valore etico, viene ad orientare l’interprete verso quella, tra le varie soluzioni possibili, maggiormente idonea a soddisfare l’esigenza di giustizia sostanziale in riferimento al singolo caso concreto 25. E, tuttavia, si badi bene, non si tratta di mero umanitarismo, ispirato ad un criterio soggettivo di benevolenza; piuttosto, vi è il consapevole utilizzo di un criterio ermeneutico di adeguamento in chiave evolutiva dell’ordinamento: interpretare benigne, in altri termini, significa ricercare, fuori da ogni apriorismo logico-razionalistico e da ogni formalismo ermeneutico, e tenuto conto delle specifiche circostanze del caso, quegli elementi che rendano possibile e giustifichino una soluzione tesa a raggiungere l’equilibrio fra il bisogno di effettiva protezione della società e una adeguata difesa dell’accusato 26. Proprio ponendosi nella medesima prospettiva, del resto, Gaio, in D. 50.17.56 (3 de legatis ad ed. urb.), sosterrà il principio secondo cui, nel dubbio, vanno sempre preferite le soluzioni maggiormente benevoli: Semper in dubiis benigniora praeferenda sunt.
Benché il passo provenga da quella parte del commentario del giurista in cui egli trattava dei legati, e dunque intendeva, con ogni probabilità, stabilire una regola di interpretazione funzionale alla conservazione degli effetti di tali disposizioni testamentarie, non può non ravvisarsi un’intima corrispondenza tra il principio in esso contenuto, volutamente generalizzato dai compilatori giustinianei, e le ragioni sottostanti al rescritto di Traiano che abbiamo appena esaminato. La regola per la quale, nelle questioni incerte, deve preferirsi l’interpretazione maggiormente improntata a benevolenza, vale tanto in materia di interpretazione dei negozi quanto – direi, anzi, a maggior ragione – con riguardo all’applicazione della legge penale, dovendosi preferire, in quest’ultimo caso, la soluzione più favorevole all’accusato e dunque, chiaramente, quella che comporta la sua assoluzione. In Gaio la benignitas viene utilizzata quale criterio di orientamento delle decisioni del giurista, in coerenza con una tradizione interpretativa che assuIn tal senso, cfr. A. Palma, Benignior interpretatio, cit., 76 ss. Cfr. P. Cerami, La concezione celsina del ius. Presupposti culturali e implicazioni metodologiche. I. L’interpretazione degli atti autoritativi, in AUPA, 38 (1995), 95. 25 26
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me la nozione di utilità come finalità precipua della interpretatio benevola 27: la benignitas esprime, quindi, un’esigenza di ordine etico e sociale, formulata non in termini di astratto umanitarismo compassionevole ma quale concreto criterio interpretativo finalizzato all’utilitas communis 28. Analogamente, il giurista Paolo, proprio con specifico riferimento al processo criminale, sintetizzerà a chiare lettere il principio in base al quale deve essere orientata l’interpretazione delle norme in tale ambito, affermando, in D. 50.17.155.2 (Paul. 65 ad ed.): In poenalibus causis benignius interpretandum est.
La portata di tale regola appare dunque molto ampia, riguardando essa il complessivo iter del giudizio di accertamento dei reati: nel concetto di interpretazione della legge rientra, senza alcun dubbio, anche tutto quanto concerne la valutazione delle prove raccolte, che deve anch’essa avvenire benigne, e dunque, in caso di incertezza, condurre alla assoluzione dell’imputato. Attraverso la regola in dubio pro reo, l’interesse collettivo alla difesa sociale trova il suo concreto punto di equilibrio con l’esigenza di garantire l’individuo dall’ingiustizia: per scongiurare quest’ultima, allora, nel singolo caso concreto, è sicuramente meglio, come era stato affermato (da Ulpiano?) in occasione della decisione assunta dall’imperatore Traiano, che un colpevole resti impunito, piuttosto che un innocente venga ingiustamente condannato. Tra il secondo secolo e il terzo secolo d.C., giungono così a piena maturazione quelle tendenze umanistiche ed universalistiche, di derivazione prevalentemente stoica, che favorirono un ripensamento dell’apparato della tradizione interpretativa da parte dei giuristi romani in chiave innovatrice dell’ordinamento; nella mutata realtà dell’impero universale, il ricorso a criteri quali la benignitas, l’humanitas, la clementia, e simili, consente di raggiungere e preservare un ragionevole equilibrio tra gli opposti interessi della conservazione dell’ordine sociale, da un lato, e della necessità di proteggere l’innocente, dall’altro 29. Concetto questo che portato alle sue massime conseguenze, ispirerà poi la regola del favor rei enunciata da Gaio e poi raccolta in D. 50.17.125. A tale riguardo, si rinvia all’interessante studio di R. Quadrato, Favor rei ed aequitas. La regula di D. 50.17.125, in Nozione, formazione, e interpretazione del diritto. Dall’età romana alle concezioni moderne. Ricerche dedicate al Professor Filippo Gallo, II, Napoli, 1997, 171 ss., ora in R. Quadrato, Gaius dixit: la voce di un giurista di frontiera, Bari, 2010, 179 ss. 28 A. Palma, Benignior interpretatio, cit., 86; P. Cerami, La concezione celsina, cit., 95 ss. 29 In tale contesto, la benignitas ispira anche un atteggiamento di maggiore clemenza nell’applicazione della sanzione nei confronti del reo e, in generale, di temperamento della 27
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5. Applicazione del principio nel tardo antico Alla luce di quanto si è venuto sin qui dicendo in ordine alle finalità e alle ragioni profonde per le quali i giuristi dell’età del Principato fecero ricorso a criteri metagiuridici, utilizzandoli quali fattori ermeneutici di contemperamento tra l’interesse della collettività e quello dei singoli, non può, a mio avviso, ritenersi più condivisibile l’opinione di chi 30 – pur avendo avuto innegabilmente il merito di aver posto per primo in evidenza la necessità di ristabilire, da un punto di vista storico-giuridico, la antica risalenza delle origini del principio in dubio pro reo, collocandole, per l’appunto, nell’ordinamento giuridico romano – muovendosi nel solco di una teoria a lungo dominante circa i rapporti tra diritto romano e cristianesimo 31, ha sostenuto che l’affermazione del canone in dubio pro reo dovrebbe attribuirsi a concezioni postclassiche e giustinianee, sulle quali avrebbero avuto una determinante influenza i principi della religione e dell’etica cristiana. Orbene, se non vi è dubbio che, in epoca post-classica, la regola in esame viene ampiamente ribadita, e si connota, come vedremo tra breve, anche per una marcata ispirazione di stampo religioso, essa, tuttavia, come si è detto, ha una matrice storica ed ideologica ben diversa, affondando le sue più antiche radici, quantomeno, già nell’ultimo secolo dell’età repubblicana, e successivamente venendo a maturazione nella temperie culturale e filosofica che caratterizzò, tra il I e il III secolo d.C., l’impero romano, ormai cosmopolita e multietnico, incidendo significativamente sui canoni ermeneutici adottati dai giuristi. Il principio in dubio pro reo venne, dunque, riaffermato con rinnovato vigore in età postclassica (IV e V sec. d.C.), anche per influenza del «favor miserorum», di ispirazione cristiana, invocato di frequente sia in riferimento al momento legislativo che, più in generale, per quanto concerneva l’applicazione del diritto. In un passo, molto interessante sotto diversi punti di vista 32, severitas legum. Si pensi a quanto in proposito scrive Ermogeniano: Interpretatione legum poenae molliendae sunt potius quam asperandae (1 ad epitomarum, D. 48.19.42); oppure a quanto afferma Marciano, in (2 de publ. iudic.) D. 48.19.11 … plane in levioribus causis proniores ad lenitatem iudices esse debent, in gravioribus poenis severitatem legum cum aliquo temperamento benignitas subsequi. Per approfondimenti, si rinvia a A. Palma, Benignior interpretatio, cit., 90 ss. e 148 s, nonché a F. Fasolino, Osservazioni in tema di certezza del diritto e della pena nell'ambito del sistema di repressione criminale tra IV e V sec. d.C., in Koinomia, 40, 2016, 195 ss. 30 M.A. de Dominicis, Ancora sulla formula dubitativa, cit., 536 s., nt. 3. 31 Il riferimento è, ovviamente, a B. Biondi, Il diritto romano cristiano, III, Milano, 1954, 183 ss. 32 M.A. de Dominicis, Brev. Pauli Sententiarum IV, 12, § 5 e l’origine romano-cristiana del principio «in dubiis pro reo», cit., 411 ss.
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delle Pauli Sententiae, così come tramandateci dalla lex Romana Wisigothorum 33, sotto il titolo de manumissionibus, possiamo, infatti, leggere: Paul. Sent. 4.12.5: Communem servum unus ex sociis vinciendo futurae libertati non nocebit; inter pares enim sententia clementior severiori praefertur: et certae humanae rationis est favere miserioribus, prope et innocentes dicere quos absolute nocentes pronuntiare non possunt.
Con riguardo all’ipotesi, dunque, che uno dei comproprietari abbia posto in catene il servo comune, mentre l’altro decide di liberarlo mediante la manumissio, l’autore del frammento conclude che la sanzione punitiva cui è soggetto lo schiavo non preclude che questi possa conseguire la libertà: ciò perché inter pares enim sententia clementior severiori praefertur. Questa soluzione è sembrata, a qualche autore 34, stridere fortemente con quello che era il diritto vigente in età classica (e dunque anche con quello di Paolo, cui in apparenza il Breviarium è attribuito): la manomissione, infatti, per essere efficace, richiedeva necessariamente la concorde e contestuale volontà di entrambi i condomini, il che del resto troverebbe conferma in un altro passo delle Pauli Sententiae, precisamente in 4.12.1, dove viene ribadita la regola classica secondo cui se uno solo dei condomini compiva la manomissione, la sua quota andava ad accrescere quella dell’altro condomino non consenziente 35. In realtà, se si tiene presente quanto si è detto sopra circa le ragioni fondanti del ricorso da parte dei giuristi a principi metagiuridici quali la benignitas, l’humanitas, la clementia etc., non può destare meraviglia la frase inter pares enim sententia clementior severiori praefertur; né tanto meno, essa da sola, può di certo costituire la prova che nella fattispecie in esame non saremmo di fronte ad un autentico testo del giurista Paolo, bensì ad «un elaborato apocrifo da attribuirsi a qualche tardo anonimo autore occidentale» 36. Se resta, infatti, indubitabile che nel diritto classico la manumissio, per essere valida, richiedeva la volontà concorde e contestuale di entrambi i 33 Sulle Pauli Sententiae, ancora essenziali le considerazioni di E. Levy, Pauli Sententiae, A Palingenesia of the Opening Titles as a Specimen of Research in West Roman Vulgar Law, Itaca-New York, 1945. 34 M.A. de Dominicis, Brev. Pauli Sententiarum, cit., 412 s. 35 Servum communem unus ex dominis manumittendo Latinum facere non potest nec magis quam civem Romanum cuius portio eo casu quo, si proprius esset, ad civitatem Romanam perveniret, socio adcrescit. Ma anche in Ulp. Epit. 1, 18: Communem servum unus ex dominis manumittendo partem suam amittit; eaque adcrescit socio, maxime si eo modo manumiserit, quo, si proprium haberet, civem Romanum facturus esset. 36 Così, invece, M.A. de Dominicis, Brev. Pauli Sententiarum, cit. (nt. 14), 413 s.
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condomini, tanto è vero che, come si è detto, era previsto che, nel caso essa fosse stata posta in essere da parte di uno solo di essi, avesse luogo l’accrescimento del diritto in capo all’altro, la nuova regola si giustifica e si comprende in quanto evidente espressione del favor libertatis che, per influenza tanto del Cristianesimo quanto, ancor prima, dell’etica stoica, impregna il diritto dei secoli IV e V, in Occidente, non di rado giungendo a ribaltare le antiche norme all'atto della loro concreta applicazione. Prima e più ancora che la nuova disciplina postclassica in materia di manomissione del servo comune, quello che qui rileva è proprio quella parte del passo in cui, facendo appello alla humana ratio, si sostiene, senza tentennamenti, che in caso di due possibili decisioni, l’una a favore e l’altra contro l’imputato, debba sempre preferirsi la prima: et certae humanae rationis est favere miserioribus 37, prope et innocentes dicere, quos absolute nocentes pronuntiare non possunt. Non poteva esserci un’affermazione più chiara e netta della necessità di ritenere innocenti coloro che non possono essere dichiarati con assoluta certezza colpevoli.
6. La presunzione di innocenza come regola di giudizio e di trattamento La prevalente dottrina è oggi pressoché concorde nell’attribuire alla regola in esame, espressione, come si è detto, del più generale principio della presunzione d’innocenza, la duplice valenza di regola di trattamento processuale dell’imputato e di regola giudizial-probatoria. Spunti in tal senso sembrano potersi rinvenire anche nell'ordinamento giuridico romano. A tal proposito, è sufficiente ricordare la celeberrima massima di Paolo: ei incumbit probatio qui dicit non qui negat (Paul. 69 ad ed., D. 22.3.2): sancire che l’onere della prova incombe su colui che afferma, cioè, in termini processual-penalistici, su colui che accusa, significa sostenere che il rischio della mancata prova grava sull’accusatore; ne deriva, quindi, che se costui non riesce a dimostrare la colpevolezza, non ci può essere condanna e il convenuto (rectius, l’accusato) va assolto. Risulta chiaramente, pertanto, come presunzione d’innocenza e onere della prova a carico dell’accusa siano due facce della stessa medaglia e siano entrambe strettamente interconnesse con il medesimo principio, quello dell’in dubio pro reo: è la colpevolezza, infatti, che deve essere dimostrata e che forma oggetto del giudizio, non l’innocenza, che, al contrario, fin dall’inizio è presunta. 37 L’espressione favere miserioribus ritorna in diverse costituzioni imperiali raccolte nel codice teodosiano: CTh. 8.15.5 (a. 365); 8.17.1 (a. 396); 9.1.14 (a. 383).
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Ma il canone in esame va anche preso in considerazione sotto l’altro aspetto prima accennato, quello della regola di trattamento 38. Dire che l’imputato è presunto innocente comporta, infatti, l’obbligo di trattarlo come tale; il che significa, in primis, non ammettere, o comunque limitare fortemente, la carcerazione preventiva che nulla altro è che una privazione della libertà senza un previo giudizio. Ed è per questo che la storia della detenzione cautelare dell’imputato in pendenza di giudizio appare strettamente connessa a quella del principio dell’in dubio pro reo, nel senso che alle vicende della prima sono intimamente connesse le tappe di affermazione ed applicazione del secondo. In epoca repubblicana, per la quale, come si è detto, non si rinvengono prove circa l’esistenza del canone di cui ci occupiamo, se non per l’ultimo secolo a.C., la carcerazione preventiva, come è noto, rappresentava, invero, la regola: il privilegio di non subirla era riconosciuto solo agli accusati di delitti politici e alle persone di rango elevato o di buona fama. Il potere di accusare e mettere in carcere rientrava nell’imperium dei magistrati che ne erano muniti ed era sostanzialmente discrezionale; accadeva, quindi, che le persone di rango inferiore e gli stranieri di regola subissero la carcerazione in attesa del giudizio. Per l’età del Principato, le finalità della custodia cautelare dell’imputato ci sono attestate dal celebre passo di Ulpiano contenuto in D. 48.19.8.9: carcer ad continendos homines, non ad puniendos haberi debet: nell’ottica del giurista, la funzione dell’arresto preventivo è dunque tipicamente cautelare o, comunque, processuale (ad continendos homines) e non già quella di anticipazione della pena, come invece avverrà in prosieguo di tempo 39. Con l’avvento del Dominato, l’orientamento in materia di amministrazione della giustizia penale cambiò profondamente. Le varie costituzioni in materia di processo penale succedutesi a partire da Costantino mirarono ad assicurare, in vario modo, la libertà, la giustizia, la gratuità dei processi ed a limitare i privilegi dovuti alla posizione sociale dell’accusato. La carcerazione preventiva venne ad essere regolamentata, anche se in maniera non organica, attraverso disposizioni imperiali che non sembra 38 L’interconnessione tra il profilo giudizial-probatorio e quello concernente il trattamento dell’accusato è, come già ricordato, sottolineata anche nella recente Direttiva UE 2016/343; cfr. supra pp. 34 ss. 39 Cfr. G. Pugliese, Le garanzie dell’imputato nella storia del processo romano, in Temi romana 18 (1969), 605 ss.; ora in Scritti giuridici scelti, II, Diritto romano, Napoli, 1985, 605 ss. Di recente, sul tema delle funzioni della pena, cfr. F. Lucrezi, Ne peccetur, quia peccatum est: sulle ragioni della pena nel mondo antico, in Minima de poenis, a cura di F. Lucrezi, Napoli, 2015, 59 ss.
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azzardato ritenere conseguenziali, oltre che ai nuovi principi di ispirazione cristiana, anche alle nuove regole affermatesi circa la presunzione di innocenza del reo 40. Interessante, ai fini della nostra analisi, è una disposizione di Costantino, del 316 o 317, contenuta in C.Th. 9.1.1: Imp. Constantinus A. ad Octavianum comitem Hispaniarum. Quicumque clarissima dignitatis virginem rapuerit vel fines aliquos invaserit vel in aliqua culpa seu crimine fuerit deprehensus, statim intra provinciam, in qua facinus perpetravit, publicis legibus subiugetur neque super eius nomine ad scientiam nostram referatur nec fori praescriptione utatur.
L’imperatore, dunque, stabilì che non bisognava fare differenza tra coloro che avevano una dignitas e coloro che ne erano privi: tutti indistintamente potevano pertanto essere incarcerati e giudicati nel luogo dove era stato commesso il delitto, senza poter fruire della praescriptio fori che permetteva di essere giudicati nel luogo della propria residenza. Lo stesso Costantino, poi, dispose, in CTh. 9.3.1, dell’anno 320, che il processo, sia che l’accusa fosse intentata da un privato, sia che provenisse dalla publica sollecitudo, dovesse svolgersi subito dopo l’esibizione dell’arrestato (reo exhibito), e dunque dopo la sua incarcerazione; inoltre vietò che a questi, in attesa del giudizio, fossero imposti i ferri o che la detenzione avvenisse in luoghi oscuri o insalubri (interea vero exhibito non ferreas manicas et inhaerentes ossibus mitti oportet […] Nec vero sedis intimae tenebras pati debebit inclusus, sed usurpata luce vegetari et, ubi nox geminaverit custodiam, vestibulis carcerum et salubribus locis recipi). Valentiniano e Valente, nel 365, in CTh. 9.2.2 stabilirono che se l’accusato eccepiva di avere una carica o rivestire una dignità, la questione doveva essere riferita all’imperatore o ai prefetti del pretorio, i quali avrebbero deciso quale trattamento applicare. Fu solo nel 380, con Graziano, Valentiniano II e Teodosio che si giunse addirittura a vietare la carcerazione preventiva, come si evince da C.Th. 9.2.3: nullus in carcerem, priusquam convincatur, omnino vinciatur. Sul tema della carcerazione, cfr., per approfondimenti, M.A. Messana, Riflessioni storico-comparative in tema di carcerazione preventiva, in AUPA, 1991; A. Lovato, Il carcere nel diritto penale romano: dai Severi a Giustiniano, Bari, 1994; M.G. Bianchini, Cadenze liturgiche e calendario civile tra IV e V secolo. Alcune considerazioni, in AARC, VI, 1986, 257 ss., ora in Ead., Temi e tecniche della legislazione tardoimperiale, Torino, 2008, 250 ss.; L. Di Cintio, Note sui contenuti della ‘Interpretatio’: divinazione e custodia carceraria, in RDR, VIII, 2008, 16 ss.; L. Minieri, I ‘commentarienses’ e la gestione del carcere in età tardoantica, in TSDP, IV, 2011. 40
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Qualora l’accusato dovesse essere tradotto da lontano al luogo del processo, la disposizione imperiale non soltanto ne subordinò l’accompagnamento al preventivo compimento dei solemnia accusationis da parte dell’accusatore (che lo esponevano al rischio di subire, nel caso l’accusa risultasse infondata, la stesa pena prevista per il reato ipotizzato) ma prescrisse, inoltre, ai magistrati di accordare all’accusato trenta giorni di tempo ad disponendas res suas componendosque poenates: nell’ipotesi in cui il carcere preventivo restava eccezionalmente ammesso, infatti, si doveva comunque consentire all’accusato di avere un tempo minimo, sufficiente a disporre delle proprie cose. Non sappiamo quale fu l’effettiva applicazione che ricevettero queste norme nella pratica. Quando Giustiniano, nel 529, ritornò sul tema, l’arresto preventivo era nuovamente ammesso, e l’imperatore si limitò a disciplinarlo, ponendo delle restrizioni. A tal fine, in CI. 9.4.6, egli stabilì il divieto di incarcerare senza ordine di un funzionario della capitale appartenente alla categoria degli illustres, dei clarissimi e degli spectabiles e, nelle province, di un magistrato o di un defensor civitatis. Fu concessa la possibilità della libertà provvisoria mediante fideiussori agli accusati di un crimen non passibile di morte; in mancanza di prestazione di garanzie, fu stabilita la durata massima di sei mesi dell’arresto preventivo, salvo il caso in cui sussistessero sin dall’inizio gravi indizi di colpevolezza. Nel caso di crimine capitale, invece, se l’accusa proveniva dall’organo pubblico non poteva farsi ricorso a fideiussori ed il processo doveva concludersi entro sei mesi; in caso di accusatio intentata da un privato era ammessa la fideiussione e, in mancanza, l’accusato restava in carcere ma il processo doveva decidersi entro un anno al massimo. Era inoltre previsto un sistema di garanzie, imperniato sulla sorveglianza attribuita ai vescovi, che appariva in grado di garantire l’osservanza in concreto delle norme imperiali. Se forse è inappropriato parlare a tale riguardo di una sorta di habeas corpus ante litteram 41, certamente, però, ci troviamo di fronte, nell’età che va da Costantino a Giustiniano, ad un complesso di regole le quali, nel limitare il ricorso alla carcerazione preventiva, sembrano sottintendere la presunzione dell’innocenza dell’accusato non disgiunta, peraltro, da un sentimento di umanità nei suoi confronti. In conclusione, l’analisi del lungo arco temporale che va dal I sec. a.C. al VI sec. d.C. pone in luce come il principio in dubio pro reo nell’ordinamento giuridico romano, pur non essendo, per lo più, oggetto di una esplicita elaborazione concettuale, ricevette costante applicazione, assurgendo a vero 41 Così invece, G. Pugliese, Le garanzie dell’imputato nella storia del processo romano, cit., 605 ss.
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e proprio canone giuridico a partire dall’età traianea, come rivelano il suo evidente riconoscimento come regola giudizial-probatoria, in primis, ma anche, e conseguentemente, a decorrere dall'epoca costantiniana, come regola di trattamento nei confronti di coloro che erano accusati della commissione di un crimine.
La responsabilità penale degli enti collettivi fra diritto romano e diritto moderno Pietro Paolo Onida Sommario: 1. Premessa. – 2. Il problema della responsabilità penale degli enti collettivi nella dottrina romanistica ottocentesca. – 3. Superamento del filtro della persona giuridica e impostazione del problema della responsabilità degli enti collettivi. – 4. Per il riconoscimento della responsabilità penale degli enti collettivi nel diritto romano: le fonti. – 5. Societas delinquere non potest.
1. Premessa Negli ultimi decenni la dottrina ha dedicato una grande attenzione al problema della responsabilità penale degli enti collettivi 1. Le ragioni di tale attenzione, che comunque si inserisce in un dibattito particolarmente Adotto una terminologia non indenne da osservazioni critiche ma largamente impiegata ormai dalla dottrina penalistica proprio con riferimento al tema del presente contributo: si può segnalare qui per questa terminologia, senza alcuna pretesa di completezza, oltre al Convegno tenutosi in Sardegna, a Nule, il 30 novembre 2002, su “La responsabilità da reato degli enti collettivi”, G. De Vero, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2001, 1127 ss.; Id., La responsabilità dell’ente collettivo dipendente da reato: criteri di imputazione e qualificazione giuridica, in AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, a cura di G. Garuti, Padova, 2002, 3 ss.; G. De Simone, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa degli enti: la ‘parte generale’ e la ‘parte speciale’ del d.lg. 8 giugno 2001, n. 231. La responsabilità dell’ente collettivo dipendente da reato: criteri d’imputazione e qualificazione giuridica, ibidem, 57 ss.; F. Santi, La responsabilità delle società e degli enti, Milano, 2004; A. Cosseddu, Responsabilità da reato degli enti collettivi: criteri di imputazione e tipologia delle sanzioni, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 18, 1-2, 2005, 1 ss.; M.A. Pasculli, La responsabilità “da reato” degli enti collettivi nell’ordinamento italiano, Bari, 2005; R. Guerrini, La responsabilità da reato degli enti, Milano, 2006; M. Riverditi, La responsabilità degli enti: un crocevia tra repressione e specialprevenzione, Napoli, 2009. 1
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acceso, almeno negli ultimi due secoli, e mai completamente sopito, sono molteplici. Si può certo fare riferimento, per l’Italia, a una circostanza puntuale: vale a dire al fatto che col d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, sia stata introdotta nel nostro sistema la responsabilità a carico degli “enti forniti di personalità giuridica” e anche delle “società e associazioni”, pure se prive della personalità giuridica (art. 1). È però evidente, al di là della emanazione di tale disciplina, che alla base dell’interesse con cui si guarda, in Italia e al di fuori di essa, al tema della responsabilità degli enti collettivi, vi sia anche qualcos’altro che non la puntuale disciplina. Si può allora osservare che la dottrina ha finito per fare proprio il sempre più diffuso convincimento secondo il quale lo strumento della “persona giuridica” sia stato utilizzato troppo spesso come uno “schermo protettivo” per eludere le conseguenze di un comportamento di per sé illecito. Si deve anche considerare quanto possano avere inciso, nel favorire la introduzione della responsabilità degli “enti collettivi”, quelle vicende, che con formula ormai forse un po’ logora si definiscono con il termine di “globalizzazione”: basti pensare a come, in un contesto in cui gli scambi commerciali sono stati enormemente favoriti, siano invece aumentati, a tacere d’altro, i rischi per la tutela della salute e dell’ambiente, le disparità sociali e la perdita di importanza della stessa sovranità nazionale a favore di quelle forme di concentrazioni economiche dalla cui azione sono scaturiti gravi attentati alla sicurezza dei cittadini. Tutte queste ragioni ora richiamate non colgono, però, che una piccola parte della realtà. Il rafforzamento delle istanze volte a introdurre la responsabilità penale degli enti collettivi è invero un segnale importante della odierna crisi della nozione stessa di Stato, dello Stato-persona giuridica anzitutto, con la connessa soluzione tecnica della rappresentanza giuridica, e quindi delle tradizionali garanzie relative alla partecipazione dei cittadini alla gestione della res publica e conseguentemente alla tutela dei diritti fondamentali. È il fallimento della nozione stessa di delega rappresentativa, che come l’istituto della rappresentanza sul piano privatistico postula la sostituzione della volontà del rappresentato con quella del rappresentante, trasformando quest’ultimo da servo in padrone, secondo quella visuale che già magistralmente aveva descritto Max Weber nel tracciare la diversità tra la concezione moderna della rappresentanza e la sua (pretesa) corrispondente idea nella antichità 2. 2 È noto che secondo Max Weber, sarebbe possibile individuare due tipi di rappresentanza: quella degli antichi e quella dei moderni. Quest’ultima caratterizzata dal fatto che i rappresentanti sarebbero presentati come “padroni” (“Herr”) e non come “servitori” (“Diener”) dei rappresentati, come avveniva per la rappresentanza degli antichi: si veda M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie (hrsg v. J. Winckelmann), Tübingen, 1976, 172 ss.
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A fronte del prevalere, nei due secoli passati, di una concezione del mondo in cui le relazioni umane sono state spesso forzosamente riportate entro i limiti di una visione puramente economicistica, i cui effetti negativi ancora perdurano, si registra oggi un rinnovato bisogno del diritto come strumento per costruire queste stesse relazioni in termini di bonum et aequum. Il modello della persona giuridica, come soluzione moderna che è giunta fino ai nostri giorni, per risolvere la questione fondamentale per la scienza giuridica della considerazione unitaria della attività compiuta da una collettività organizzata, nel postulare per definizione con la rappresentanza la sostituzione della volontà, conduce alla creazione di un soggetto altro dalle persone fisiche. La soluzione antica al medesimo problema è la societas, la quale non solo non postula la sostituzione delle volontà, ma addirittura richiede lo snodo di volontà di soggetti diversi che cooperano fra loro in vista di un obiettivo comune ai soci 3. È in questo scontro tra due modelli, i quali implicano nella soluzione della questione sopra richiamata tecnologie profondamente differenti, oggi però caratterizzate da una forte contaminazione dovuta alla sempre più invadente presenza della persona giuridica, che innestandosi sul contratto di società, ha finito per far dimenticare l’altra soluzione possibile, è in questo scontro tra due soluzioni, dietro le quali si cela una differente visione del modo stesso di concepire le relazioni umane, che si possono individuare le ragioni di una sempre più crescente attenzione per il tema della responsabilità degli enti collettivi. Tema che costituisce, invero, una importantissima chiave di lettura del modo stesso di concepire i processi di formazione della volontà all’interno di una collettività. La previsione di una normativa, a livello nazionale e sovranazionale, in tema di responsabilità degli enti collettivi rivela la esigenza di consentire un controllo ex post, che operi in fase di sanzione giudiziale, vista la rinuncia oggi così diffusa anche fra i giuristi a individuare mezzi che consentano ai cittadini di superare lo schema della persona giuridica per riappropriarsi dei meccanismi di formazione e espressione della volontà all’interno di una collettività organizzata. La impossibilità o la ridotta possibilità per i cittadini di partecipare direttamente all’iter di formazione della volontà pubblica, nell’ambito dello Stato e degli altri enti collettivi fortemente condizionati dal modello della persona giuridica, come accade per le odierne società commerciali, ha portato a una riflessione più aperta sul tema della responSi veda, per i due modelli di soluzione della questione richiamata nel testo, G. LobraDell’homo artificialis – deus mortalis dei Moderni comparato alla societas degli Antichi, in AA.VV., Giovanni Paolo II. Le vie della giustizia. Itinerari per il terzo millennio, a cura di A. Loiodice-M. Vari, Roma, 2003, 161 ss. 3
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sabilità e, dunque, a una esigenza di controllo delle modalità operative degli enti, in particolare di quelli dotati appunti di personalità giuridica. Una valutazione della responsabilità penale degli enti collettivi richiederebbe una indagine, alla quale possiamo qui solo accennare, volta a individuare il quadro delle differenze e delle affinità all’interno delle diverse forme associative conosciute a Roma. Ciò permetterebbe, anzitutto, di evitare di cadere nella trappola della persona giuridica, categoria questa alla quale la dottrina romanistica sembra particolarmente legata, nonostante, come è noto, essa non appartenga affatto alla esperienza giuridica romana, ma abbia avuto origine, come pare, in una prima elaborazione grazie a Sinibaldo dei Fieschi, divenuto poi Papa col nome di Innocenzo IV 4. Ma anche una valutazione delle differenze e delle affinità all’interno dell’agire umano collettivo permetterebbe di distinguere le diverse ipotesi, che tradizionalmente vengono dalla dottrina annoverate entro il quadro comune delle forme associative. In questo contributo si è evitato di parlare di societas e si è preferito parlare, in ossequio alla dottrina penalistica, di enti collettivi. L’impiego del termine societas, con il quale nella scienza giuridica romana si indica un contratto con caratteri unici, che costituisce a sua volta un modello più ampio per la costruzione di relazioni umane improntate a una fraterna cooperazione 5, avrebbe richiesto di separare le diverse ipotesi di responsabilità delle società contrattuali dalle varie forme associative che pur richiamandosi al contratto di società non ne assumono la specifica dimensione negoziale. Il termine societas, con la pluralità di significati 6, rivela comunque una sua unitarietà in forza della considerazione della tendenza dell’uomo a unirsi in gruppi coi suoi simili per il perseguimento di un obiettivo comune. È così in fondo anche per quel brocardo societas delinquere non potest, al quale il Peppe ha dedicato in tempi recenti pagine molto belle, riuscendo a dimostrare come esso sia una elaborazione risalente agli ultimi due secoli della nostra storia giuridica 7. Si veda per tutti G. Lobrano, La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: ‘persona giuridica e rappresentanza’ e ‘società e articolazione dell’iter di formazione della volontà’. Una ìpo-tesi (mendeleeviana), in Diritto@Storia, 10, 2011-2012, spec. § 4. 5 Si veda P.P. Onida, Fraternitas e societas: i termini di un connubio, in Diritto@Storia, 6, 2007. 6 Lo ha ricordato da ultimo P. Garbarino, Brevi note su ‘societas criminis’, in Diritto@ Storia, 11, 2013. 7 Si veda in particolare L. Peppe, «Societas delinquere non potest». Un altro brocardo se ne va, in Labeo, 48, 2002, 370 ss. (= in Persone giuridiche e storia del diritto, a cura di L. Peppe, Torino, 2004, 143 ss.; e in L. Peppe, Uso e ri-uso del diritto romano, Torino, 2012, 73 ss.); Id., La responsabilità penale della persona giuridica tra attualità e passato, in Studi in onore di A. Metro, IV, Milano, 2010, 491 ss.; Id., A responsabilidad penal da pessoa juridica. 4
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Nelle pagine seguenti vedremo di esporre solo una prima ipotesi di ricerca, la quale richiederebbe naturalmente approfondimenti maggiori di quanto qui sia possibile. Una impostazione storico-giuridica della presente ricerca non sarà volta a una semplice ricostruzione antichistica, ma a individuare un filo rosso di quella razionalità che oggi ha condotto verso la ammissione della responsabilità degli enti collettivi, senza però una adeguata riflessione sulle opzioni ideologiche alla base di tale scelta. Sarà necessario, invece, nel corso della esposizione affrontare anzitutto alcune questioni di tipo dogmatico per rimuovere quelle incrostazioni concettuali moderne (connesse all’uso della persona giuridica) che impediscono la comprensione dei meccanismi legati alla responsabilità penale degli enti collettivi.
2. Il problema della responsabilità penale degli enti collettivi nella dottrina romanistica ottocentesca Il tema della responsabilità penale degli enti collettivi è centrale nella dottrina romanistica ottocentesca. Si direbbe che la Pandettistica, proprio nel momento in cui provava nei confronti della persona giuridica una sorta di idolatria, avvertisse anche la esigenza di non limitarne l’ambito operativo e la sua capacità. La esclusione della capacità penale della persona giuridica finiva per essere costruita sulla base della constatazione che essa mancasse di quelle qualità fisiche, che al di fuori del diritto penale, per altri ambiti del diritto, aveva invece permesso alla dottrina di elaborare quel processo di astrattizzazione alla base della stessa nozione di persona giuridica. La scienza giuridica romana aveva impiegato il termine persona con una valenza concreta, che ne aveva impedito per lungo tempo la estensione al di là del mondo degli uomini. Spezzare la identità tra persona e uomo apriva necessariamente al superamento di quelle barriere entro le quali i filosofi greci, con riflessi importanti anche sui giuristi romani, avevano collocato la identità del genere umano 8. Non è certo un caso che il problema della responsabilità penale degli enti collettivi fosse considerato dalla dottrina peUna resenha de prospectivas e problemas, in Revista da Escola Superior da Procuradoria Geral do Estado de São Paulo, 2, 2011, 257 ss.; Id., La responsabilità, in particolare penale, della persona giuridica tra radici romane e scienza giuridica europea del 1800, in E. Chevreau-D. Kremer-A. Laquerrière-Lacroix, Carmina Iuris. Mélanges en l’honneur de M. Humbert, Paris, 2012, 645 ss. (= Id., Uso, cit., 89 ss.). 8 Si veda P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, 2ª ed., Torino, 2012, 17 ss.; Id., Prospettive romanistiche del diritto naturale, Napoli, 2012, 13 ss.
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nalistica ottocentesca, condizionata dalla invadenza della astrazione connessa alla persona giuridica, in connessione con il problema della responsabilità giuridica degli animali non umani. Non stupisce che lo sforzo maggiore per escludere la responsabilità della persona giuridica debba farsi risalire al Savigny, il quale ha influenzato enormemente in materia sia la dottrina civilistica sia la dottrina penalistica. È noto che il Savigny operò in un contesto scientifico in cui già altri si erano opposti alla idea della responsabilità degli enti collettivi 9. Egli ricondusse la interpretazione della questione della responsabilità degli enti collettivi entro il problema della struttura della persona giuridica. Quella stessa persona giuridica, che per l’illustre studioso era da concepire come una finzione e quindi come una entità astratta che poteva operare solo attraverso il ricorso alla rappresentanza con cui si riconduceva la volontà di persone fisiche all’ente collettivo, non poteva esprimere una propria volontà in ambito penale. La concezione della persona giuridica come finzione nel Savigny è, però, assai lontana dalla teoria medievale ad opera della dottrina canonistica, in particolare di Sinibaldo dei Fieschi. Se in quest’ultimo la teoria della persona ficta vel raepresentata rinviava alla raffigurazione mentale della persona giuridica, nel Savigny l’impiego della finzione gli permetteva di porre uno iato tra la teoria relativa alla volontà della persona giuridica nel diritto civile e la teoria della volontà di essa nel diritto penale. La responsabilità penale della persona giuridica doveva essere così esclusa perché, come il Savigny osservava, “Il diritto penale si riferisce all’uomo naturale, come essere pensante, volente e senziente. Ora la persona giuridica non è nulla di tutto ciò, ma solamente un ente avente un patrimonio, e perciò si trova completamente fuori del dominio del diritto penale. La esistenza reale di essa sta nella volontà di determinati individui, la quale è destinata a rappresentarla, e che in forza di una finzione viene ad essa imputata come volontà propria. Ma di una tale rappresentanza, mancante della volontà del rappresentato, può tenersi conto solamente nel diritto civile, giammai nel diritto penale” 10. Secondo il Savigny “ciò che si ritiene delitto delle persone giuridiche non è che il delitto di coloro che ne sono membri o che le governano, ossia individui singoli, persone naturali. Punire per un delitto la persona giuridica sarebbe 9 Lo ricorda F. D’Urso, Persona giuridica e responsabilità penale. Note storico-giuridiche a proposito di recenti riforme, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 29, 2000, 518 ss. 10 F.C. von Savigny, System des heutigen Römischen Rechts, II, Berlin, 1840, trad. it. Sistema del diritto romano attuale, II, Torino, 1888, 314 ss. Sulla impostazione di Savigny si veda G. Chiodi, Delinquere ut universi. Scienza giuridica e responsabilità penale delle universitates tra XII e XIII, in Studi di Storia del diritto, 23, 3, 2001, 92, nt. 5; F. D’Urso, Persona giuridica, cit., 518 ss.
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violare un principio fondamentale del diritto penale, quello dell’identità tra condannato e delinquente” 11. È noto invece che contro la tesi di Savigny, il Gierke, in perfetto accordo con la sua idea di una persona giuridica come entità “reale”, sostenne la tesi della responsabilità penale di essa 12. Non credo che sia corretto sostenere come fa il D’Urso, che il Gierke fallì nel suo intento di riaffermare la responsabilità penale della persona giuridica, a causa del fatto di “avere legato l’ammissibilità (anche storica, si noti) della responsabilità penale ad una precisa teoria di stampo civilistico sulla personalità giuridica” 13. A chi tenga bene a mente il processo di estensione della categoria di persona dall’ambito concreto dell’essere umano a quello astratto della persona giuridica non farà meraviglia considerare che Theodor Mommsen, come anche altri studiosi, avesse considerato il problema specifico della responsabilità penale degli enti collettivi nel medesimo contesto sistematico in cui si occupava della responsabilità penale degli animali. L’illustre Maestro aveva così ritenuto di potere affermare che gli animali, come gli uomini, siano da considerare soggetti all’“ordinamento” e quindi suscettibili di pena: “Das Thier wird durchaus behandelt als gleich dem Menschen der socialen Ordnung unterworfen; es macht sich strafbar, wenn es in unerlaubter Weise abweidet” 14. Si trattava di una concezione che secondo il Mommsen traeva origine nella antica economia di Roma, all’interno della quale “personalità” e “imputabilità” degli animali domestici si spiegavano in un ambito familiare ove erano previste forme di “punizione domestica” e il sistema delle azioni nossali. Lo stesso Ferrini, autore come è noto, al pari del Mommsen, di studi sistematici sul diritto penale romano, mostrava di considerare il problema della responsabilità degli enti collettivi in un quadro volto, come già lo studioso tedesco, a precisare i termini soggettivi del reato. Il Ferrini escludeva, al contrario del Mommsen, che si potesse parlare di una responsabilità penale degli animali. Ma come il Mommsen, il Ferrini avvertiva l’esigenza di un accostamento sistematico in forza di quella necessaria riconsiderazione della nozione di persona che veniva ora sottoposta a tutto un processo di estensione. Così il Ferrini, dopo avere rilevato che “L’elemento soggettivo del reato non può quindi trovarsi che nell’uomo singolo, ossia in quell’ente F.C. von Savigny, System, II, cit., 94, trad. it. Sistema II, cit., 85 ss. O. von Gierke, Das deutsche genossenschaftsrecht, I-IV, Berlin, 1881; rist. an. Graz, 1954, 834; si veda anche 66 ss. 13 F. D’Urso, Verso una novità ‘antica’: la responsabilità penale della persona giuridica, in Quaderni costituzionali, 4 (2002), 835 ss. 14 Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, 834; si veda anche 66 ss. 11 12
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che riunisce intelligenza e volontà”, osservava che “Gli animali non possono commettere reato”, salvo però notare che in ragione di “antichissime vedute, si è mantenuta nel diritto romano l’azione dei danni recati contra naturam dai quadrupedi domestici” 15. In entrambi gli autori, la categoria di persona, da strumento per la identificazione della condizione umana sul piano filosofico-giuridico, era estesa o anche agli altri esseri animati o persino ad altri enti astratti sulla base della fictio di cui qualche secolo prima si era avvalso Sinibaldo dei Fieschi. Secondo il Mommsen la capacità penale era da escludere per quei “soggetti giuridici ai quali non fosse applicabile il concetto di moralità”. Ciò secondo il Mommsen accadeva anzitutto per “le comunità di persone”, anche nel caso in cui ad esse lo Stato avesse concesso la “capacità giuridica”. Il Mommsen riteneva così che nel sistema giuridico romano vi fosse una divergenza tra la disciplina di tali comunità sotto il profilo del “diritto patrimoniale”, in quanto ad esse si riconosceva una capacità a produrre attività giuridica che era considerata direttamente come “propria della corporazione”, e il piano invece del diritto penale, con riferimento al quale l’attività giuridica doveva essere riferita ai singoli individui che avevano “operato in comune”. Il Mommsen sembrava in tal modo tenere separata la sfera del diritto penale in senso stretto da quelle sanzioni che riguardavano le ipotesi che egli preferiva definire nei termini di “colpa religiosa o sacrale e colpa internazionale”. Con riferimento alle quali ipotesi, a Roma, non si sarebbe fatto ricorso a un processo vero e proprio e a una pena vera, ma si sarebbe fatto rinvio semplicemente alla adozione di misure che rientravano nella “collera degli dei” e alla guerra. Anche in tali ipotesi, i romani si accontentavano di attribuire determinati eventi a carico di certi individui e a dare corso alla estradizione, in modo da applicare il diritto romano salvo il caso che la parte avversa non impiegasse l’uso delle armi con il che si dichiarava guerra. Se così non fosse avvenuto si applicava a tale comunità una multa in denaro o una cessione di territorio o si stabiliva addirittura la dissoluzione della comunità avversa. Molto importante che tali atti erano di carattere amministrativo e solo in qualche caso legislativo. Ad ogni modo la comunità poteva essere costretta a restituire l’indebito arricchimento verificatosi a seguito di un atto realizzato da parte di qualche suo componente 16. Nell’affrontare il tema dell’“elemento soggettivo del reato”, il Ferrini osservava, all’interno del suo celebre trattatello di Diritto penale romano 15 C. Ferrini, Diritto penale: esposizione storica e dottrinale, in Enciclopedia del diritto penale italiano, dir. da E. Pessina, Milano, 1906, 25; 59-61. 16 Th. Mommsen, Römische Strafrecht, I, cit., 73 (= Id., Le droit pénal romain, I, cit., 84), cap. VI.
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dedicato alla esposizione delle “Teorie generali”, con riferimento al problema della responsabilità penale, che “Anche le persone giuridiche come tali non possono commettere delitto; bensì i singoli che le costituiscono e le rappresentano 17”. Con riferimento al problema della ammissibilità dell’actio doli contro i municipes, di cui parla Ulpiano in D. 4,3,15,1 (su cui ritorneremo a breve) il Ferrini affermava che “Contro il comune non si dà actio doli, perche la persona giuridica del comune è come tale incapace di dolo; mentre contro i “singoli consiglieri comunali che abbiano fatto o votato la proposta delittuosa può certamente intentarsi l’azione”. Il “principio” che impone di non concedere l’actio doli contro il municipio e di ammetterla, invece, contro i “singoli consiglieri comunali” non precludeva la possibilità di agire contro gli stessi municipes per ottenere la restituzione. Il Ferrini confermava la sua tesi anche nel suo più poderoso Trattato sul diritto penale romano in cui presentava la “Esposizione storica e dottrinale”. Il Ferrini escludeva che gli “enti collettivi”, come lui stesso li definiva, fossero “capaci di reato e di pena”. Ancora una volta precisava che “Possono bensì essere colpevoli e punibili i singoli, che li rappresentano o li costituiscono”. Così se un comune commette una truffa saranno punibili solo i decurioni che col loro voto o col loro intervento abbiano partecipato, salvo l’obbligo del comune di restituire l’eventuale arricchimento. L’illustre studioso proseguiva richiamando il fatto che l’editto quod metus causa, di cui parla ancora Ulpiano, in D. 4,2,9,2, “in quanto tende a togliere efficacia agli atti conchiusi in seguito a violenza o minaccia”, si applicava sia nei confronti della singularis persona, sia nei riguardi del populus, della curia, del collegium o di altri corpora. Come d’altra parte, egli notava ricordando Pomponio in D. 43,16,4, si applicava l’interdetto possessorio unde vi. Il Ferrini si dedicava quindi a porre in evidenza le differenze tra una analisi condotta sul piano giuridico in senso stretto e la analisi di quei “provvedimenti di ordine politico”, con cui si colpiva una intera città nel caso di “defezione” o anche una “moltitudine” 18. In sintesi, si può osservare che nella impostazione del Mommsen e del Ferrini vi è il rifiuto evidente della concretezza dell’ente collettivo e la esaltazione della attività di coloro che siano chiamati a rappresentarlo. L’astrazione è quindi completa: da un lato si riconosce la estensione della categoria di persona oltre il suo ambito naturale, con gli enti collettivi, e dall’altro si ammette che la persona non esista se non attraverso gli uomini che la “costituiscono” e la “rappresentano”. È questa impostazione astratta che per lungo tempo ha fatto velo e ha impedito alla dottrina di considerare il tema 17 18
C. Ferrini, Diritto penale romano. Teorie generali, Milano, 1899, 125. C. Ferrini, Diritto penale romano. Esposizione, cit., 59 ss.
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della responsabilità dell’ente collettivo nel quadro della questione più ampia dei processi di formazione della volontà.
3. Superamento del filtro della persona giuridica e impostazione del problema della responsabilità degli enti collettivi Nelle pagine precedenti si è visto come la posizione della dottrina romanistica, in tema di responsabilità penale dell’ente collettivo, fosse diversificata e tenesse conto anche del piano concreto della realtà storica, in cui si registrano episodi relativi a provvedimenti di natura giuridica e di ordine politico con i quali era ‘sanzionato’ il comportamento di intere città o di collegia o di altri gruppi collettivi. La influenza della nozione di persona giuridica in questa dottrina è però evidente. Ed è questo il lascito più importante per la odierna dottrina. È sulla base della dottrina ottocentesca che oggi si sostiene di solito che nella esperienza giuridica romana la responsabilità degli enti collettivi non fosse conosciuta 19. È questo, invero, un modo abbastanza singolare di procedere, perché così facendo si è operato attraverso una sorta di inversione dell’onere della prova. La dottrina, anziché limitarsi a escludere a priori tale responsabilità, avrebbe dovuto più utilmente chiarire le modalità attraverso le quali, all’interno di un sistema giuridico qual è quello romano, che non conosceva la rappresentanza 20, potesse operare la responsabilità. La dottrina, specularmente, avrebbe dovuto anche trarre la logica conseguenza del fatto che la natura concreta degli enti collettivi in Roma non possa essere compresa attraverso lo schema della persona giuridica e il connesso istituto della rappresentanza: mi riferisco, naturalmente, al fatto che l’azione contra ius compiuta da coloro che operavano per conto dell’ente, ma in nome proprio, avrebbe potuto vincolare soltanto essi stessi e non anche l’ente collettivo. Negli ultimi anni, dopo gli studi del Catalano e del Lobrano 21, la ‘concretezza’ del populus romano e delle altre strutture associative è un dato ormai In linea con l’impostazione richiamata nel testo vi è stato in dottrina chi, come G. Chiodi, Delinquere, cit., 91 ss., addirittura ha escluso che la scienza giuridica romana neppure si sia mai posta il problema. 20 Si veda per tutti, con rinvii alla letteratura, G. Lobrano, La alternativa, cit., spec. § 3. 21 Sul rifiuto della “nozione astratta di Stato” si veda P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino, 1965; Id., Populus Romanus Quirites, Torino, 1974, 1 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino, 1990, 169 ss., da cui è tratta la formula tra virgolette ora richiamata; G. Lobrano, La alternativa, cit., specialmente sub § 2. 19
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maturo e acquisito in dottrina. Si possono agevolmente rifiutare quindi le tesi di chi, in passato, sosteneva che la ‘astrazione’ fosse stata una conquista importante della scienza giuridica romana, senza la quale non si sarebbe neppure potuto raffigurare la collettività nella sua unità 22. Una volta abbandonata la astrazione connessa al modello della persona giuridica, il quale postula inevitabilmente la rappresentanza giuridica nei termini di sostituzione della volontà del rappresentato con quella del rappresentante, il problema della responsabilità degli enti collettivi nella esperienza giuridica romana sarebbe potuto essere più utilmente inquadrato attraverso la prospettiva di quella natura societaria del popolo, senza la quale non sarebbe possibile concepire concretamente il popolo stesso come unità dei cives, secondo la formula populus Romanus Quirites e le Istituzioni di Gaio e di Giustiniano: populi appellatione universi cives significantur: Gai. 1,3 e Inst. 1,2,4. Ciò non è però avvenuto e in dottrina ancora oggi, con riguardo al problema della responsabilità degli enti collettivi, la astrazione è un velo che continua a impedire di comprendere la struttura e la natura dell’ente collettivo nella impostazione che vi assegna la scienza giuridica romana. È così ancora assai comune l’orientamento dottrinale secondo cui solo con la astrazione sarebbe possibile concepire la unità giuridica dell’ente. Si è venuta introducendo nella discussione relativa al problema generale degli enti collettivi nel diritto romano, con risvolti particolarmente significati per quanto attiene anche al problema specifico della loro responsabilità, una equivalenza fondata su elementi non omogenei: alla unità del gruppo non si è contrapposto l’elemento corrispondente della molteplicità ma la astrazione. Si è in altri termini considerato che una collettività umana possa porsi di fronte al mondo esterno come unità, rispetto alla molteplicità dei suoi componenti, solo attraverso il ricorso alla persona giuridica. Così anche l’Orestano finiva col porsi in linea con quelle stesse concezioni di cui il Savigny e il Mommsen erano i più importanti teorizzatori. L’Orestano, autore peraltro molto attento al problema delle categorie giuridiche impiegate per descrivere la esperienza giuridica romana, richiamando parole del Betti 23, osservava come nella esperienza giuridica romana si sarebbe verificato un Si veda infra le due note seguenti. E. Betti, Diritto romano, I, Padova, 1935, 74, il quale nella seconda edizione del suo manuale, del 1942, parlerà di “lento e faticoso processo verso l’astrazione e di paziente elaborazione dottrinale”, proseguendo coll’osservare che “Al termine di questo processo, la giurisprudenza classica è riuscita ad avvertire chiaramente l’indipendenza della unità e identità permanente della corporazione di contro alla pluralità e al continuo mutarsi de’ suoi membri e il netto distacco fra rapporti giuridici facenti capo alla corporazione e rapporti giuridici che fan capo ai singoli componenti”. 22
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“lento e faticoso processo di astrazione e di unificazione” 24. Processo che non si sarebbe concluso neppure in età giustinianea, in quanto, ancora per tale età, vi sarebbe stata una oscillazione fra una concezione “collettiva” e una “astratta”. In questo contesto, non stupisce che la dottrina sia stata a lungo fortemente caratterizzata da una apparente schizofrenia fra l’atteggiamento tenuto con riferimento al problema della considerazione della natura della persona giuridica e l’atteggiamento tenuto, invece, con riguardo al problema della responsabilità penale di essa. Riconoscere la natura fittizia della persona giuridica doveva condurre la dottrina ad escluderne la responsabilità penale, giacché altrimenti si sarebbe lasciato uno spazio per una concezione concreta delle strutture associative, la cui cancellazione era invece indispensabile in funzione della costruzione della equivalenza, propria della Pandettistica, tra la nozione di Stato e quella di diritto. Basti qui ricordare, anzitutto, come l’idea espressa dal Mommsen della formale equivalenza tra diritto e Stato – “il Diritto romano come tutti i diritti è fondato sullo Stato” – sinteticamente presentata all’inizio del suo Abriss des römischen Strafrecht al culmine della sua riflessione scientifica, traccia i binari lungo i quali si ritiene corra la volontà dei cives nel sistema giuridico romano 25. Affermazione questa che nell’illustre giurista fa il paio e si sorregge con la altrettanto celebre equivalenza con cui, nel Römisches Strafrecht, qualche anno prima si pone la identità tra popolo e Stato: populus ist der Staat 26. Sul piano del diritto pubblico la grande costruzione mommseniana mortifica lo spazio riservato alla partecipazione dei cittadini all’interno delle assemblee del popolo per distogliere l’attenzione dai rappresentati e concentrarla sui magistrati rappresentanti. L’agire pubblico si sostanzia quindi per il Mommsen nell’agire del magistrato ritenuto rappresentante dello Stato 27. Per studiare allora la responsabilità penale degli enti collettivi occorrerebbe sganciarsi dalla logica entro la quale si è finora dibattuta la dottrina. Bisognerebbe superare il filtro della persona giuridica, con il connesso istituto della rappresentanza, e ricostruire i processi di formazione e articoR. Orestano, Il problema delle fondazioni in diritto romano, Torino, 1959, 166; Id., Il problema delle persone giuridiche nel diritto romano, Torino, 1968, 157. 25 Th. Mommsen, Abriss des römischen Strafrecht, Leipzig, 1893. Sopra l’opera del Mommsen si veda G. Lobrano, Civitas e Urbs nella lezione romanistica di Giorgio La Pira, in Diritto@Storia, 4, 2005, sub II § 3ª; Id., La alternativa, cit., sub § 2. 26 Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, 3 ed., III 1, Leipzig, 1887, 3. 27 Si veda G. Lobrano, Per la Repubblica: ‘rifondare la Città con le leggi’. Dal Codice civico al Codice civile attraverso le Assemblee di Città, in AA.VV., Città e Diritto. Studi per la partecipazione civica. Un “Codice” per Curitiba, Napoli, 2015, 15 ss. 24
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lazione della volontà all’interno dei gruppi collettivi. Processi che hanno grande rilevanza non solo sotto il profilo della attività negoziale, ma anche sotto il profilo della riconducibilità di un evento illecito all’ente collettivo. Superare questo filtro significa soprattutto ammettere che nella esperienza giuridica romana esista una tecnologia molto sofisticata, la societas, il cui modello permette ai cives di entrare unitariamente in contatto col mondo esterno. Non vi è contrasto, se ci libera dallo schema della persona giuridica, fra la concretezza degli universi cives e la loro organizzazione in un corpus societario unitario.
4. Per il riconoscimento della responsabilità penale degli enti collettivi nel diritto romano: le fonti Il punto di partenza per la analisi delle fonti in merito al problema della responsabilità degli enti collettivi, con l’avvertenza che si è fatta nelle pagine precedenti sul necessario superamento del filtro interpretativo della persona giuridica, può essere un testo assai celebre di Ulpiano: D. 4,3,15 (Ulp. 11 ad ed.): Sed et ex dolo tutoris, si factus est locupletior, puto in eum dandam actionem, sicut exceptio datur. 1. Sed an in municipes de dolo detur actio, dubitatur. Et puto ex suo quidem dolo non posse dari: quid enim municipes dolo facere possunt? Sed si quid ad eos pervenit ex dolo eorum, qui res eorum administrant, puto dandam. De dolo autem decurionum in ipsos decuriones dabitur de dolo actio. 2. Item si quid ex dolo procuratoris ad dominum pervenit, datur in dominum de dolo actio in quantum ad eum pervenit: nam procurator ex dolo suo procul dubio tenetur. 3. In hanc actione designari oportet, cuius dolo factum sit, quamvis in metu non sit necesse.
Si tratta di una fonte frequentemente citata in dottrina a sostegno della tesi secondo cui la responsabilità degli enti collettivi fosse del tutto assente nella esperienza giuridica romana 28. Il giureconsulto comincia col considerare il problema se sia possibile oppure no concedere contro i municipes l’actio doli. Qui l’impiego del termine municipes rinvia certamente alla pluralità dei cittadini, dai quali risulta però la unità del municipio stesso. La soluzione da lui prospettata sembrerebbe inizialmente quella negativa, perché egli respinge l’idea che i municipes possano nel loro complesso commettere dolosamente una qualche attività 29. 28 29
G. Chiodi, Delinquere, cit., 91 ss. Per la letteratura principale si rinvia a A. Bricchi, Amministratori ed actores. La re-
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Tuttavia, l’impiego di quel dubitatur, con cui Ulpiano chiude il quesito, lascia trasparire come egli fosse ben consapevole che altri giuristi si erano posti il medesimo problema della concessione dell’actio doli contro i municipes. Il problema non era quindi peregrino e lo stesso Ulpiano vi faceva cenno perché evidentemente taluno fra i giureconsulti aveva sostenuto l’ammissibilità del ricorso all’actio de dolo contro il municipio 30. Lo sviluppo stesso del discorso di Ulpiano conferma tale congettura. Il giureconsulto riconosce che sia ammissibile esercitare l’azione contro i decuriones evidentemente in quanto essi sono parte del municipio stesso. Sembrerebbe già qui essere ammessa una responsabilità del municipio. Ma non solo: egli, nel proseguire la analisi, ammette che contro i municipes sia possibile esercitare una azione reipersecutoria per l’id quod ad eos pervenit, per l’arricchimento dovuto al dolo degli amministratori. Quella di Ulpiano era dunque una soluzione articolata, la cui complessità riesce difficile cogliere attraverso lo schermo della persona giuridica, con riferimento alla quale si ritiene che la volontà del rappresentato sia sostituita da quella del rappresentante. Così, evitando il velo della persona giuridica, possiamo dire che le ragioni della diversità di trattamento tra la attività realizzata dai decurioni e quella realizzata dagli amministratori siano da rinvenire nella diversità di legami e di poteri all’interno delle relazioni fra municipio e amministratore, da un lato, e municipio e decurioni, dall’altro. Solo in parte mi sembra che allora colga nel segno la osservazione di un autorevolissimo romanista quale l’Impallomeni, il quale intervenuto sulla questione in uno scritto specificamente dedicato al tema della persona giuridica, riteneva che la diversità di trattamento tra l’attività realizzata dai decurioni e l’attività posta in essere invece dagli amministratori del municipio potesse spiegarsi con il fatto “che i municipes, a differenza dei decuriones, non agirebbero direttamente, ma tramite amministratori e quindi non potrebbero essere tenuti con una azione penale per il fatto altrui”. L’angolo visuale dal quale egli si poneva, quello della persona giuridica, induceva l’illustre romanista padovano ad aggiungere: “Sembra tuttavia che anche così si tenda a confondere e a identificare il comportamento dei membri con quello dell’ente, contraddicendo in parte ai principi ispiratori ai quali è stato sopra accennato” 31. Ci sembra di poter egualmente sostenere che mentre gli amministratori dovevano operare secondo l’incarico ricevuto, con la conseguenza che, in quanto esterni al municipio, assumevano su di loro le conseguenze di un travisamento dell’orsponsabilità nei confronti dei terzi per l’attività negoziale degli agenti municipali, in Gli statuti municipali, a cura di L. Capogrossi Colognesi-E. Gabba, Pavia, 2006, 360 ss. 30 Così da ultima anche A. Bricchi, Amministratori, cit., 361. 31 G.B. Impallomeni, Persona giuridica, in Noviss. dig. it., Torino, 1965, 1030-1031.
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dine ricevuto, i decurioni operavano come parte del municipio, il quale era perciò vincolato automaticamente verso l’esterno. Ma il punto essenziale sul quale occorre riflettere è che attraverso il discorso di Ulpiano emerge la necessità di pensare il rapporto tra l’ente collettivo e gli amministratori in termini diversi da quelli della sostituzione della volontà. Una volta liberati dallo schermo della persona giuridica, possiamo chiederci le ragioni per le quali Ulpiano, con il quesito retorico con cui rifiuta l’idea che i municipes possano complessivamente commettere dolo – quid enim municipes dolo facere possunt? – escluda la concessione della azione 32. Ora, in un contesto in cui Ulpiano stesso riconosce come fra i giuristi romani si dubitasse della riconducibilità o meno di una attività dolosa alla responsabilità del municipio, mi sembra che egli non intendesse mettere l’accento su una impossibilità ‘fisica’ del municipio ad attuare un comportamento doloso, ma volesse richiamare l’attenzione sulla incapacità del popolo a pensare per se stesso un tale comportamento. Non sembra quindi si possa sostenere che Ulpiano avrebbe escluso la possibilità che i municipes potessero compiere una azione dolosa, in quanto la possibilità di compiere il “dolo sia proprio solo di singoli individui del genere umano”. A parte la possibilità di una societas criminis 33, è evidente che egli qui era consapevole del fatto che tra i giuristi romani la possibilità di compiere dolo, da parte del municipio, fosse discussa. È allora probabile che la affermazione di Ulpiano non corrispondesse a una valutazione giuridica in senso stretto, da condurre sul piano del possesso o meno di una qualità fisica, ma fosse ispirata a una valutazione di tipo filosofico-politico con cui egli voleva escludere la circostanza che ciò che la comunità decidesse fosse da considerare di per se stessa una azione illecita. Sulla base di queste prime elementari osservazioni non diremmo, come invece sostiene il Chiodi, che il “Corpus iuris civilis lascia insoluta la questione delle universitates di essere soggetti attivi del reato” 34. Al contrario, già da una prima lettura del frammento di Ulpiano, sembra che il problema della responsabilità dell’ente collettivo fosse ricondotto, al di la del velo della persona giuridica, al suo aspetto essenziale: quello della volontà unitaria Si tratterebbe secondo M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, Milano, 1973, 281 nt. 106, di una di quelle ipotesi a proposito delle quali l’Orestano parlava di una concezione “totalistica”: la concessione dell’azione per il Brutti avveniva nei riguardi della “collettività dei municipes, individuata “totalisticamente”. Si veda anche la traduzione del frammento di Ulpiano riportata in Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae, testo e traduzione, I, 1-4, a cura di S. Schiapani, Milano, 2005, 303, ove si legge: “Quale dolo, infatti, possono commettere i cittadini del municipio nel loro insieme”? 33 Si veda da ultimo P. Garbarino, Brevi note, cit. 34 G. Chiodi, Delinquere, 91. 32
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della collettività e quindi dello snodo di volontà tra ente collettivo e soggetti preposti alla amministrazione. Altro problema, rispetto a quello relativo alla impossibilità del municipio di compiere attività dolosa, concerne la identificazione del tipo di attività giuridica compiuta dagli amministratori. Saremmo portati a ritenere che si tratti di una attività negoziale, ma niente osta, visto il silenzio di Ulpiano, che il problema preso qui in esame si ponesse non solo per l’attività negoziale, ma anche per una qualsiasi altra attività giuridica, anche materiale, posta in essere dagli amministratori. Connesso al problema ora accennato è la questione se la attività posta in essere dagli amministratori dovesse essere realizzata, come si chiede il Chiodi, “autonomamente o in base ad una autorizzazione o delibera dei municipes”. Nonostante la “laconicità” della fonte è chiaro che se per “autonomamente” si intende al di fuori dell’incarico ricevuto, saranno stati gli stessi amministratori a dovere rispondere per il proprio operato. Nel caso in cui gli amministratori avessero operato in conformità all’incarico, alla responsabilità di essi si sarebbe dovuta aggiungere quella del municipio, limitata però all’arricchimento. Si può concludere, sulla base del frammento ora preso in esame, che per Ulpiano la responsabilità del municipio fosse quindi possibile. Essa era limitata e degradava in ultima considerazione nei termini dell’arricchimento per la semplice ragione che, qualora i municipes avessero trattenuto quanto era entrato presso le casse municipali a causa del dolo degli amministratori, essi stessi avrebbero manifestato di essere disposti ad approvare il comportamento degli amministratori. La responsabilità del municipio, in definitiva, non derivava quindi da una azione esclusiva dei municipes, ma da una attività realizzata anche con il concorso della volontà degli amministratori 35. La esistenza della responsabilità dell’ente collettivo nel sistema giuridico romano trova ulteriore conferma in un frammento di Ulpiano, egualmente tratto dal suo commento all’editto, ove egli ammette che i municipes possano essere convenuti con l’actio quod metus causa per ottenere la restituzione di ciò che sia stato acquistato in forza di metus: D. 4,2,9,1 (Ulp. 11 ad ed.): Animadvertendum autem, quod praetor hoc edicto generaliter et in rem loquitur nec adicit a quo gestum: et ideo sive singularis sit persona, quae metum intulit, vel populus vel curia vel collegium vel corpus, huic edicto locus erit. Sed licet vim factam a quocumque praetor complectatur, eleganter tamen Pomponius ait, si quo magis te de vi hostium vel latronum vel populi tuerer vel liberarem, aliquid a te accepero vel te obligavero, non debere me 35
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Non pare pertanto possa accogliersi la tesi opposta di A. Bricchi, Amministratori, cit.,
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hoc edicto teneri, nisi ipse hanc tibi vim summisi: ceterum si alienus sum a vi, teneri me non debere, ego enim operae potius meae mercedem accepisse videor.
Ulpiano comincia coll’osservare che il pretore non si preoccupava di indicare chi avesse determinato il metus, ma si limitava appunto “in termini generali” a prevedere la ipotesi in sé. Per tale carattere di generalità l’editto era quindi applicato non solo nell’ipotesi in cui il metus fosse stato causato da un singolo individuo, ma anche nel caso in cui fosse stato determinato da un ente collettivo, quale il popolo, un consiglio municipale, un collegio o una corporazione. Secondo la Bricchi il passo attesterebbe la incapacità dell’ente collettivo di essere considerato responsabile 36. L’autore del metus sarebbe cioè stato “irrilevante” per Ulpiano e il pretore avrebbe potuto con l’impiego della in integrum restitutio permettere alla vittima di agire o di resistere in giudizio per pretendere la restituzione. Si spiegherebbe perché, in tale ottica, si sarebbe fatto ricorso all’editto quod metus causa limitatamente al “vantaggio” della “estorsione” compiuta da un amministratore o da un terzo. Vediamo subito come questa esegesi del frammento non possa essere accolta. Punto di partenza per la esegesi del frammento può essere la osservazione del Peppe secondo cui il frammento attesta la “consapevolezza della distinzione tra persona fisica e ciò che non lo è”. Il testo esprimerebbe una “contrapposizione” tra la singularis persona e la “persona formata da più individui in un insieme”, quali il populus, la curia, e gli “aggregati” privati o quasi. Vi sarebbe quindi una contrapposizione fondata sul “criterio discretivo” della distinzione fra “singolare/collettivo”. In altri termini potremmo dire che il frammento attesta la percezione della unità concreta del gruppo accanto alla molteplicità dei suoi cittadini. Il frammento sembra attestare una responsabilità dell’ente collettivo. Ulpiano lo afferma espressamente rilevando come l’editto si applichi sia se il metus sia stato indotto da una persona singolarmente, sia se indotto da un ente collettivo. Il giureconsulto parla qui di corpus, che è un termine chiave nel linguaggio giuridico romano per descrivere una nuova unità, la quale si distingue, ma non si contrappone a quella della persona singularis 37. Se con quest’ultima espressione si vuole indicare un uomo visto nella concretezza A. Bricchi, Amministratori, cit., 362 ss. Bizzarra mi sembra l’affermazione di N. De Crescenzio, Sistema del diritto civile romano, 1, Napoli, 1869, 92 ss., secondo il quale “Che Ulpiano in quest’ultimo passo (scil. D. 4,2,9,1) per populus, curia, collegium, corpus non voglia intendere università, persone morali, si comprende dalle parole singularis persona; ed infatti non è dubbio che molti membri di una università, o tutti ancora, possono commettere un delitto; ma resta sempre il principio che queste persone individualmente saranno imputabili delle loro azioni”. 36 37
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dell’agire giuridico, il riferimento al corpus non introduce una opposizione rispetto alla persona fisica 38, ma consente di distinguere tra un individuo e una unità prodottasi naturalmente in forza dell’interesse dell’uomo a vivere coi suoi simili in una società 39. Certamente un ente collettivo non poteva prefissarsi un comportamento illecito come scopo sociale, perché ciò avrebbe significato porsi al di fuori del diritto, con le conseguenze che si sarebbero verificate sul piano della sua stessa permanenza. Si può qui ricordare, ad esempio, che la struttura, come risulta in D. 47,22,3 pr., si sarebbe dovuta sciogliere. Ciò comportava, naturalmente, che coloro che avevano l’amministrazione del gruppo collettivo erano senz’altro tenuti a perseguire scopi leciti, in quanto, se così non avessero fatto, non avrebbero ottemperato ai limiti dell’incarico stesso loro attribuito. La volontà degli amministratori non sostituiva quella dell’ente, come accade per le persone giuridiche e fisiche che si avvalgono della rappresentanza, la quale postula la sostituzione della volontà del rappresentato con quella del rappresentante. Tale volontà contribuiva a definire tutto un processo di cooperazione in riferimento al quale essi potevano essere chiamati a rispondere direttamente in quanto avessero attuato un comportamento illecito e contrario alla struttura associativa. Molto importante mi sembra ricordare quanto notava già il De Robertis, che “ai presidenti usciti di carica si richiede il giuramento: «se collegium remque hoiusce … recte administravisse … neque se adversus hanc legem fecisse scientem dolo malo in suo magisterio» 40. Lungo la scia tracciata con il frammento di Ulpiano sopra riportato in tema di metus si può anche ricordare come il medesimo giurista ammettesse la possibilità che i municipes potessero essere destinatari di un interdetto unde vi al fine di restituire un fondo occupato dagli amministratori: D. 43,16,4 (Ulp. 10 ad ed.): Si vi me deiecerit quis nomine municipum, in municipes mihi interdictum reddendum Pomponius scribit, si quid ad eos pervenit.
Il problema centrale è ancora una volta, nella citazione che Ulpiano fa di Pomponio, quello della responsabilità dei municipes per l’illecito compiuto. Una “situazione”, che, come ha osservato lo Stolfi, “sembra trovare un ricoDi contrapposizione parla invece R. Orestano, Il problema delle persone giuridiche, cit., 9, nt. 5. 39 Si veda S. Tafaro, Persona, città, famiglia e matrimonio: dal diritto romano ad oggi, in Persona. Revista electrónica mensual de derechos existenciales, 48, 2005. 40 F. Maria De Robertis, Storia delle corporazioni e del regime associativo nel mondo romano, II, Bari s.d., 289, nt. 133. 38
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noscimento proprio a partire da Pomponio” 41. Il testo si inseriva all’interno di quelli che riguardavano l’ipotesi di azioni intentate contro le civitates 42. I problemi erano quindi quelli della responsabilità della civitas per il caso della deiectio da parte di un soggetto che agiva in nome del municipio con violenza; la concessione di una difesa interdittale e la concessione della tutela in dipendenza di un arricchimento patrimoniale della civitas 43. È tutto un processo di analisi che in Pomponio, per come è ripreso da Ulpiano, richiama un movimento di pensiero con forti ascendenze filosofiche in merito alla classificazione di quei corpora ex distantibus in cui appare la visione del giurista volta a cogliere in aggregati a base personale situazioni unitarie 44. Quella astrazione, che nelle pagine precedenti si è voluta ripetutamente criticare, ha portato a dimenticare come nella esperienza giuridica romana, contro il meccanismo della sostituzione della volontà, si confermi la idea della articolazione della volontà, secondo un iter decisionale che proprio nelle actiones adiecticiae qualitatis mostra la sua evidenza. Per lungo tempo, in dottrina, il meccanismo di tali azioni è stato mortificato con la considerazione che il pater familias avrebbe formulato uno iussum destinato al terzo. Lo iussum sarebbe stato cioè una sorta di autorizzazione per il terzo in modo che il pater familias avrebbe adempiuto gli obblighi derivanti dal contratto stipulato dal sottoposto 45. Oggi in dottrina si ritiene che il meccanismo delle azioni adiettizie sveli una tecnologia caratterizzata dal fatto che la volontà si forma mediante la costruzione di una catena societaria che dal pater familias passa al sottoposto, filius o servus, per giungere al terzo. Spezzare lo snodo di volontà che conduce la collettività alla realizzazione di una attività giuridica proiettata verso l’esterno, per sostenere che lo iussum sia un mero ordine o una autorizzazione al terzo, costituisce, sul piano del diritto privato, una procedura speculare a quanto avviene con il Savigny sul piano del diritto pubblico.
41 E. Stolfi, Studi sui «Libri ad edictum» di Pomponio, II, Contesti e pensiero, Milano, 2001, 127 ss. 42 Si veda B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo, 1979, 564, nt. 44. 43 Sui dubbi relativi alla genuinità del testo non “certo insuperabili” si veda ora E. Stolfi, Studi, cit., 128, nt. 212. 44 Si veda molto bene in tal senso E. Stolfi, Studi, cit., 126 ss. 45 Sul punto si veda ora: G.C. Seazzu, A proposito della formazione complessa della volontà: appunti in tema di iussum e negozi con il terzo, in: AA.VV., Città e diritto. Studi per la partecipazione civica, un codice per Curitiba, a cura di D. D’Orsogna-G. Lobrano-P.P. Onida, Napoli, 2015, 231 ss.
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5. Societas delinquere non potest Ci si è chiesti da più parti quale sia il significato della espressione del brocardo societas delinquere non potest contro il quale è stato invece invocata l’affermazione societas delinquere et puniri potest. Leo Peppe ha dimostrato come il preteso brocardo in realtà abbia una origine moderna 46. Esso non può quindi più essere invocato per sostenere la tesi che nel diritto romano fosse assente la responsabilità penale degli enti collettivi. Il riferimento al preteso brocardo societas delinquere non potest è però molto importante in quanto parte di una riflessione scientifica più ampia con cui si è voluto rimuovere la idea della responsabilità penale dei gruppi intermedi. Nella dottrina penalistica si è fatto spazio la tesi secondo cui gli enti collettivi furono riconosciuti come soggetti sul piano del diritto penale a seguito della grande teorizzazione realizzata nell’ambito delle persone giuridiche dalla dottrina canonistica, in particolare da Sinibaldo dei Fieschi, per il quale impossibile est, quod universitas delinquat e ancora universitas nihil potest facere dolo 47, la universitas non potest accusari, nec puniri 48. È opinione variamente condivisa in dottrina quella secondo cui, mentre nel diritto romano non sarebbe stata prevista una responsabilità penale dell’ente, nel Medioevo tale responsabilità sarebbe invece stata introdotta in “conseguenza dell’identificazione operata tra associazioni e membri persone fisiche”, caratteristica dei popoli germanici. Gli sviluppi successivi vedono i giuristi dividersi sulla questione della responsabilità penale degli enti collettivi. Pensiamo anzitutto ai Commentatori e a Bartolo con la previsione: universitas potest delinquere, et contra eam potest procedi 49. E a Prospero Farinacci, con l’esclusione invece della responsabilità penale. Fino alla elaborazione della dottrina del “delitto corporativo” 50. Non è dunque un caso che il relatore al decreto legislativo n. 231/2001, lo ha osservato Adriana Cosseddu 51, abbia richiamata, sulla base di tali L. Peppe, ‘Societas’, cit., 370 ss. (= Id., Persone, cit., 143 ss.; = Id., Uso, cit., 73 ss.). Innocentii Quarti (Sinibaldo dei Fieschi), Super libros Decretalum, Francofurti 1620, c. 52,X,V,39, nr. 1-2, citato da A. Cosseddu, Responsabilità, cit., 9. 48 Super libros quinque, cit., c. 14, X, II, 1, nr. 2; 57, X, II, 20, nr. 5; 30, X, V, 3. Si veda A. Cosseddu, Responsabilità, cit., 8 ss. e nt. 16. 49 Si veda Bartoli A Saxoferrato, Tractatus super constitutione ad reprimendum, in Consilia, Quaestiones, et Tractatus, Lugduni 1550, f. 96 v (col. 2). 50 Prosperi Farinacci, Praxis, et theoricae criminalis, Partis primae, tomus primus, Lugduni 1613, in Quaest. 24, n. 107-111 e n. 115. 51 A. Cosseddu, Responsabilità, cit., 10. 46 47
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premesse scientifiche, la teoria organica della persona giuridica, la quale, immaginando di potere intravedere in essa non più una finzione ma un organismo, ritiene appunto di potere parlare di una rappresentanza organica in forza della quale imputare alla persona anche gli atti delittuosi per il principio di immedesimazione organica. La responsabilità degli enti collettivi si è andata configurandosi nel nostro sistema sulla base di una riflessione dottrinale accompagnata da esperienze processuali relative a fatti accaduti in contesti economici riconducibili a esercizio di imprese, con la emersione di una responsabilità di amministratori e di sindaci per la violazione di obblighi di impedimenti di delitti (art. 40 cpv. cp.). Alla configurazione di una condotta omissiva si è aggiunta nel tempo la previsione della esistenza di un dolo, che si è voluto individuare nella sussistenza di indizi di rischio o di segnali che gli organi di controllo della impresa avrebbero potuto e dovuto prendere in considerazione 52. Si è poi messo in rilievo il fatto che soltanto l’art. 197 del codice penale sembrava richiamare, nel nostro ordinamento, il valore storico di una polemica ormai sopita accennando alla responsabilità civile in via sussidiaria per gli illeciti compiuti dagli amministratori della persona giuridica. Molto efficacemente il D’Urso ha parlato in proposito di una “novità ‘antica’” 53. Occorre riconoscere che l’atteggiamento in materia della dottrina appare soffrire di schizofrenia. Da un lato si giustifica la impossibilità di ammettere sul piano storico-giuridico la responsabilità penale della persona giuridica con il fatto che in passato sarebbe mancata “una nozione precisa e sicura di persona giuridica” 54. E dall’altro si tende a porre in rilievo la necessità che sia garantita la connessione tra colpevolezza e possesso di requisiti psico-fisici che evidentemente la persona giuridica non può possedere e che invece sono considerati una attestazione importante della ‘modernità’ del diritto penale. Il rifiuto di quella che con formula non sempre perspicua si definisce come “responsabilità penale collettiva” trova oggi una giustificazione nell’obiettivo di una costruzione del diritto penale moderno 55. È in nome della esigenza di rinnovare la impostazione della questione della responsabilità degli enti collettivi che la dottrina considera oggi la urgenza di individuare soluzioni connesse alla sempre più invadente presenza dei rapporti economici, unitamente alla crisi dello Stato e alle povertà derivanti dalla globalizzazione. Ciò non al fine di fare opera di antichistica, A. Cosseddu, Responsabilità, cit., 3 ss. F. D’Urso, Verso una novità, cit., 825 ss. 54 F. D’Urso, Verso una novità, cit., 825. 55 C.F. Grosso, Responsabilità penale, in Noviss. dig. it., XV, Torino, 1968, 713. 52 53
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ma di compiere quella inversione dell’onere della prova nella analisi della questione che alcuni invocano da tempo. Vale a dire: affrontare la questione della responsabilità penale degli enti collettivi in modo da chiarire i motivi per i quali oggi potrebbe essere opportuno conservare la regola espressa dal brocardo societas delinquere non potest, anziché spiegare le ragioni in base alle quali una societas possa essere considerata responsabile sul piano penale. La considerazione della responsabilità penale come responsabilità personale negli ultimi due secoli, dopo l’affermazione del principio societas delinquere non potest, ha impedito di ammettere la responsabilità collettiva 56. Secondo una idea variamente condivisa in dottrina il problema della responsabilità collettiva si sarebbe ri-manifestata nella dottrina odierna in connessione con la sempre maggiore importanza delle “forme associative” nella nostra società. Si è osservato che “la legislazione e i giuristi del diritto comune si riferivano non proprio alla persona giuridica, ma all’universitas, ossia ad una collettività organizzata, anzi talmente organizzata che essi la definivano poi anche persona, per esprimere appunto l’idea di un’entità autonoma, unitaria, distinta giuridicamente dalle sue parti componenti” 57. In realtà, il principio societas delinquere non potest si afferma nel momento in cui tra la fine del Settecento e i primi del secolo successivo si presenta la esigenza di rimuovere lo ius universitatum e di innestare nel sistema la idea della persona giuridica. A differenza delle corporazioni che si richiamano al modello della società, la persona giuridica, per la cui esistenza si comincia a prefigurare la necessità della autorizzazione, diviene perfettamente funzionale alla creazione di un diritto statuale. Ecco allora che la persona giuridica non può delinquere perché ciò non corrisponderebbe ai suoi scopi o perché essa niente altro è che una finzione, che non può intaccare il principio secondo cui il diritto penale è relativo alla condotta dell’uomo. La finzione non opera più come tecnica giuridica raffinatissima per trovare una soluzione confacente all’uomo ma opera come espressione della alterità e della astrazione della persona giuridica 58. La responsabilità della persona giuridica diviene quindi contraria alla sua stessa idea. La tesi della responsabilità penale in Sinibaldo dei Fieschi si scontra con la affermazione del carattere di persona ficta. Coerentemente, come è stato osservato, egli afferma che la pena della scomunica nei confronti delle universitates sia da escludere, poiché esse non corrispondono a persone vere e proprie: universitas, sicut est capitulum, populus, gens et huiusmodi nomina F. D’Urso, Verso una novità, cit., 828. F. D’Urso, Verso una novità, cit., 831. 58 F.C. von Savigny, Sistema del diritto romano attuale, II, cit., 313 ss. 56 57
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sunt iuris et non personarum 59. Ne emerge il rischio che la pena inflitta alla universitas comporti la ingiustizia che si palesa nel riferirsi anche a coloro che ancora non sono venuti a esistenza ma che nascendo faranno poi parte della universitas. È lo spettro della responsabilità oggettiva … Si è così riconosciuto man mano nella dottrina il fatto che l’art. 27 della Costituzione non neghi in assoluto la possibilità di estendere la responsabilità alle persone giuridiche 60. Desta particolare interesse il fatto che oggi l’illecito penale possa divenire “fonte di addebito” non solo per gli enti dotati di personalità giuridica, ma anche per “società e associazioni” prive di personalità 61. È solo uno dei tanti esempi della invasività della persona giuridica a scapito della societas. Occorre resistere a tale imposizione di un modello con il recupero di una nozione quella di societas che nella storia ha permesso di conservare vecchie garanzie e di introdurne di nuove.
F. D’Urso, Verso una novità, cit., 838. G. Pecorella, Societas delinquere potest, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1977, 366 ss. 61 A. Cosseddu, Responsabilità, cit., 1 ss. 59 60
Ai primordi del giudizio popolare: poena capitis e garanzie del civis nella prima età repubblicana Carlo Pelloso Sommario: 1. La provocatio ad populum e la libertas repubblicana. – 2. Il sistema di T. Mommsen e gli apporti di C.H. Brecht: provocatio ad populum e appello. – 3. La ricostruzione di A. Heuß, J. Bleicken e W. Kunkel: la provocatio ad populum come rimedio fattuale. – 4. Le tesi di B. Santalucia e di L. Garofalo: la provocatio ad populum come ricorso contro gli abusi del magistrato. – 5. Le tesi di D. Mantovani e di E. Tassi Scandone: la provocatio ad populum e il iussus populi come norma incriminatrice. – 6. Repressione criminale in Roma arcaica: re, popolo e magistrati come autorità giudicanti. – 7. La provocatio ad populum contro atti magistratuali di coërcitio. – 8. Sulla natura della provocatio ad populum in età proto-repubblicana. – 9. Sul ius del cittadino al processo popolare nelle riforme decemvirali. – 10. Provocatio ad populum ed ἔφεσις εἰς τὸ δικαστήριον: un confronto tra la lex Valeria del 509 a.C. e la riforma solonica del 594 a.C.
1. La provocatio ad populum e la libertas repubblicana La tradizione che affiora nelle opere ciceroniane e nei dati storiografici sui primi secoli di Roma, con enfasi e genericità, presenta la provocatio ad populum non solo come patrona della stessa civitas, ma altresì come vindex, praesidium e arx della libertas, valore inseparabile dall’ideologia repubblicana 1. Ma, a parte tali suadenti declamazioni, in cosa consistette davvero, tanto 1 Cfr. Cic. de orat. 2.199; Liv. 3.45.8, 3.55.4, 3.56.5-8; Dion. Hal. 6.58.2. Sulla connessione libertà-res publica-provocatio, v. J. Bleicken, Staatliche Ordnung und Freiheit in der römischen Republik, Kallmünz, 1972, 32 ss.; J.-L. Ferrary, Le idee politiche a Roma nell’epoca repubblicana, in Storia delle idee politiche economiche e sociali, diretta da L. Firpo, I, L’antichità classica, Torino, 1982, 763; C. Venturini, Processo penale e società politica nella Roma repubblicana, Pisa, 1996, 82 e 290; B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma2, Milano, 1998, 29 ss., 39; G. Valditara, Saggi sulla libertà dei romani, dei cristiani e dei moderni, Soveria Mannelli, 2007, 27, 36 s., 43, 57 s.; E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’. Repressione criminale e garanzie costituzionali nella Roma repubblicana, Napoli, 2008, 108; M. Jehne, Die Geltung der Provocation und die Konstruktion der
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al livello di ‘procedura criminale’, quanto al livello di ‘costituzione’, il ius – a tutela fondamentale della libertà sia del singolo sia della collettività – di invocare il popolo come proprio giudice supremo? I dati a disposizione non si segnalano certo per esaustività, coerenza, e sistematicità. L’opera di esegesi degli storici del diritto antico, dunque, assume sovente i connotati di una congetturale palingenesi che – a fronte dei silenzi, delle oscurità, delle contraddizioni delle fonti – imprime anche eccessiva modernità e finitezza a forme giuridiche (di pensiero, di organizzazione, di disciplinamento) che invero risultano, nella loro arcaica ‘alterità’ rispetto all’oggi, sfumate e sfuggenti. Una previa rassegna dottrinale che, pur nella sua rapidità e con semplificazioni, permetta al lettore di comprendere l’articolata frammentazione dello status quaestionis, non costituirà una inutile premessa al tentativo di un personale contributo teso alla perimetrazione concettuale e operativa di quell’istituto che, affondando le sue profonde radici nello strato più remoto del diritto romano, si stabilizza dopo la caduta del regno primitivo a baluardo e pilastro della libera res publica, così come per Atene l’ἔφεσις εἰς τὸ δικαστήριον 2 di solonica creazione rappresenta il primo e fondamentale passo verso l’affermarsi, tra quinto e quarto secolo a.C., di quel peculiare sistema giudiziario che indurrà Aristotele a proclamare – con tutta la forza propria di uno strenuo contraddittore del suo calibro – che il popolo, κύριος della yÁfoj, ossia dominus del voto, è consequenzialmente κύριος della πολιτεία, ossia dominus della res publica 3.
römischen Republik als Freiheitsgemeinschaft, in Geltungsgeschichten: über die Stabilisierung und Legitimierung institutioneller Ordnungen, hrsgg. G. Melville und H. Vorländer, Köln, 2002, 55 ss.; I. Cogitore, Le doux nom de liberté. Histoire d’une idée politique dans la Rome antique, Bordeaux, 2011, 36; V. Arena, ‘Libertas’ and the Practice of Politics in the Late Roman Republic, Cambridge, 2012, 48 ss.; in particolare, v., sull’uso politico e propagandistico dell’istituto della provocatio (in una con quello dell’auxilium tribunizio), L. Thommen, Das Volkstribunat der späteren römischen Republik, Stuttgart, 1989, 236, nonché J.M. Ribas Alba, Tribunos de la plebe, ‘provocatio ad populum’ y ‘multitudo’. Una reflexión sobre los límites del poder político en Roma, in Foro, IX, 2009, 89 ss. Per una recente messa a punto circa il concetto giuridico (e non giusnaturalistico) di libertas, v. E. Stolfi, Concezioni antiche della libertà. Un primo sondaggio, in BIDR, CVIII, 2014, 139 ss. 2 Un cenno di comparazione in questo senso si trova già in R. Martini, Roma e Atene. Note comparatistiche in ‘campo costituzionale’, in Tradizione romanistica e Costituzione, a cura di L. Labruna, I, Napoli, 2006, 417 ss.; cfr., da ultimo, sui mezzi di attuazione della libertà repubblicana, ossia provocatio e appellatio, N. Spadavecchia, ‘Libertas tuenda’. Forme di tutela del cittadino romano in età repubblicana, Bari, 2016, passim. 3 Arist. Ath. Pol. 9.1: cfr., per tutti, M. Ostwald, From Popular Sovereignty to the Sovereignty of Law, Berkeley-Los Angeles, 1986, 14 s., 70 s.
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2. Il sistema di T. Mommsen e gli apporti di C.H. Brecht: provocatio ad populum e appello Non si può che partire, con riguardo alle tesi fiorite nel secolo diciannovesimo, dall’autorità del Mommsen. La ricostruzione della giustizia criminale romana messa a punto dall’eminente studioso del diritto penale e pubblico 4 con riguardo alla prima fase della storia repubblicana si impernia sull’idea di imperium quale fattore di genesi dello Stato nonché quale fondamento di ogni potere punitivo: se l’imperium è un potere magistratuale autarchico e supremo, l’esercizio di poteri di indole sanzionatoria da parte di uffici minori della civitas (come quello dei questori) è solo il riflesso di una delega; e se l’imperium è, in tutte le sue declinazioni, un potere proprio dei sommi magistrati, allora la giustizia popolare repubblicana non può che essere il risultato – in conformità ad un supposto ‘principio di legalità’ – di una eccezione che conferma, in definitiva, la regola più antica rappresentata dalla giustizia magistratuale in unica istanza. Poste tali premesse, il processo comiziale si delinea nel pensiero di Mommsen come un processo esclusivamente di secondo grado e l’ordinaria provocatio ad populum è presentata come ‘Berufung’ (ossia ‘appello’) del cittadino alla cittadinanza intera. Essa assume i connotati di un atto, posto in essere dal destinatario della misura sanzionatoria de capite irrogata sul terreno della giurisdizione dal magistrato, diretto all’instaurazione di una istanza di giustizia ulteriore amministrata dalle centurie, oppure anche dalle tribù in epoca predecemvirale. Il processo dinanzi al popolo, dunque, radicato in virtù di un atto ibrido, in quanto sia ‘mezzo di gravame’ sia ‘domanda di grazia’, si atteggia a giudizio discrezionale e non rescissorio, in quanto culminante esclusivamente in un provvedimento confirmatorio o caducatorio – ma mai modificativo – del provvedimento capitale in prime cure. Anzi, ad avviso dello studioso, l’introduzione, ai primordi dell’età repubblicana, della provocatio ad populum avrebbe determinato, nel campo della repressione criminale, l’inizio di una autentica prassi costituzionale – diretta alla sterilizzazione di potenziali dissidi tra popolo e suprema magistratura patrizia – costituita dall’esclusione del consolato dall’esercizio della giurisdizione e dalla contestuale ‘rappresentanza forzata’ dei questori. Cfr. T. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, 31, 41 s., 56, 151, 163, 477 s.; Id., Römisches Staatsrecht3, I, Leipzig, 1887, 110, 137, 141, 163 s.; Id., Römisches Staatsrecht3, II, Leipzig, 1887, 117, 539 s.; Id., Römisches Staatsrecht3, III, Leipzig, 1888, 302, 351 s., 354. Cfr., conformemente, P.F. Girard, Histoire de l’organisation judiciaire des Romains, I, Paris, 1901, 113; E. Costa, Cicerone giureconsulto, Bologna, 1927, 2, 132; J. Lengle, Römisches Strafrecht bei Cicero und den Historiken, Leipzig - Berlin, 1934, 7; J.L. Strachan-Davidson, Problems of the Roman Criminal Law, rist. an., Amsterdam, 1969, 140; A.H.M. Jones, The Criminal Courts of the Roman Republic and Principate, Oxford, 1972, 3, 11, 26, 34 s. 4
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Sotto non secondari aspetti si discosta dal quadro mommseniano l’ipotesi ricostruttiva proposta, alla fine degli anni Trenta del ventesimo secolo, dal Brecht 5: se rimane ferma l’identificazione tra l’istituto repubblicano della provocatio e il mezzo di impugnazione descrivibile come appello, i rapporti tra iudicatio e coërcitio vengono radicalmente ridefiniti. Anzitutto si nega la corrispondenza biunivoca tra processo comiziale e processo instaurato a seguito di provocatio. Sul terreno della coercizione (terreno, tuttavia, reputato idoneo a ricomprendere tanto provvedimenti di natura disciplinare, quanto provvedimenti di carattere autenticamente giudiziari), infatti, la pronuncia dei sommi magistrati, espressione del loro imperium, è priva del crisma della incontrovertibilità, potendo infatti essere impugnata dal condannato (tanto per reati comuni, quanto per condotte di insubordinazione) e, quindi, confermata o meno dal giudice popolare. Sul terreno della iudicatio, di contro, è concepibile un tipo di processo che – irrelato al giudizio di appello dinanzi il popolo – viene instaurato su iniziativa dei magistrati privi di imperium (come sin da tempi antichissimi i questori, benché sollecitati dai consoli, nonché come in epoca più recente i tribuni e gli edili) e, previa anquisitio, si conclude con una sentenza popolare che, in via definitiva, concerne la richiesta, promossa dall’accusa, di irrogazione della pena. In altre parole, per il Brecht, il processo comiziale non è da identificarsi ‘tout court’ nel processo per provocatio: il primo, infatti, massimamente in concomitanza con l’entrata in vigore delle XII Tavole, imita nelle forme il secondo e con questo convive per poi sostituirlo in toto.
3. La ricostruzione di A. Heuß, J. Bleicken e W. Kunkel: la provocatio ad populum come rimedio fattuale Durante gli anni del secondo conflitto bellico mondiale, lo studio di Heuß 6 mina alle basi la dottrina di Mommsen e supera la proposta di Brecht, negando, in primo luogo, la connessione ancestrale tra giurisdizione criminale, da una parte, e imperium, dall’altra. La prima viene associata, in 5 Cfr. C.H. Brecht, Zum römischen Komitialverfahren, in ZSS, LXIX, 1939, 261 ss.; v., similmente, G. Grosso, Monarchia, ‘provocatio’ e processo popolare, in Studi in onore di P. De Francisci, II, Milano, 1956, 3 ss.; Id., ‘Provocatio’ per la ‘perduellio’, ‘provocatio sacramento’ e ordalia, in BIDR, LXIII, 1960, 213 ss.; Id., Lezioni di storia del diritto romano, Torino, 1965, 148 ss., 177. 6 Cfr. A. Heuss, Zur Entwicklung des Imperiums der römischen Oberbeamten, in ZSS, LXIV, 1944, 114 ss., che mutua notevolmente da K. Latte, The Origin of the Quaestorship, in TAPA, LXVII, 1936, 24 ss.
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chiave diacronica ed evoluzionistica, alla vendetta; il secondo viene ridotto a semplice ‘comando militare’. Inoltre, per l’autore, il processo instaurato a seguito di provocatio non è modello del iudicium populi, bensì – a tutto concedere – il contrario: già in epoca regia, infatti, da quel processo in cui i quaestores accertano dinanzi al popolo l’elemento soggettivo dell’omicidio, nonché presiedono la fase esecutiva della ‘vendetta privata’ si origina un processo – nel prosieguo di tempo destinato alla generale repressione capitale dei reati comuni – che si fonda sulla anquisitio magistratuale e culmina in un provvedimento popolare, in assenza di qualsivoglia provocatio. Di contro, la provocatio – secondo Heuß estranea al terreno proprio della giurisdizione – si configura come una prassi giuridica repubblicana (ancorché di matrice nobiliare) che, assestatasi in forma definitiva solo nel 300 a.C. grazie alla lex Valeria Corvi e confermata, nel 123 a.C., dalla lex Sempronia de capite civis (ossia una volta tendenzialmente stabilizzatosi completamente il quadro ordinamentale repubblicano), risulta volta a contrastare – almeno sino alla guerra annibalica – soltanto le estrinsecazioni non militari della coërcitio esercitata dai magistrati cum imperio 7. Sviluppando alcuni spunti già presenti nella ricostruzione di Heuß, Bleicken 8 dà corpo ad un sistema che non solo espunge la provocatio dai confini della iudicatio e della repressione dei reati comuni, ma altresì ne nega per i primi duecento anni di storia repubblicana la natura di ‘rimedio giuridico’. La provocatio, infatti, viene descritta dall’autore in termini di rivoluzionaria forma archetipica dell’ausilio dei tribuni della plebe contro gli abusi del potere magistratuale patrizio e, dunque, in termini di a-formale ‘chiamata in aiuto’ diretta contro atti di coercizione e tendente a un plebis scitum qualificabile come privilegio. Secondo lo studioso, di poi, è con la prima autentica lex de provocatione (ossia quella del 300 a.C.) che si consolida definitivamente uno status quo già parzialmente delineatosi a partire dalle XII Tavole (che, 7 In tendenziale adesione all’impostazione di Heuß, cfr. R.A. Bauman, The ‘lex Valeria de provocatione’ of 300 B.C., in Historia, XXII, 1973, 34 ss.; v., inoltre, J.A.C. Thomas, The Development of Roman Criminal Law, in LQR, LXXIX, 1963, 229; J.J. de Los Mozos Touya, La ‘provocatio ad populum’ como garantia jurídica del ciudadano romano y manifestación de cohesión social, in Helmantica, XLV, 1994, 177 ss. Ancora più radicale è J.D. Cloud, ‘Provocatio’. Two Cases of Possible Fabrication in the Annalistic Sources, in ‘Sodalitas’. Scritti in onore di A. Guarino, Napoli, 1984, 1365 ss.; Id., The Origin of ‘provocatio’, in Revue de Philologie, LXXII, 1998, 27 ss.: secondo l’autore, la lex Porcia sarebbe il solo provvedimento de provocatione fededegno. 8 Cfr. J. Bleicken, Kollisionen zwischen ‘Sacrum’ und ‘Publicum’, in Hermes, LXXXV, 1957, 455 ss.; Id., Ursprung und Bedeutung der Provocation, in ZSS, LXXVI, 1959, 356 ss.; Id., Das Volkstribunat der klassischen Republik. Studien zu seiner Entwicklung zwischen 287 und 133 v. Chr.2, München, 1968, 110 ss.
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tra l’altro, riservano implicitamente al comizio centuriato ogni cognizione capitale): i tribuni – che prima solo orientano i giudizi popolari a tutela della intera comunità romana – sono riconosciuti come magistrati competenti, al livello di accusa, nella repressione dei reati politici sanzionati con pena capitale (perduellio); di conseguenza, il potere coercitivo dei magistrati cum imperio viene, seppur indirettamente, compresso dalla nuova competenza tribunizia e la provocatio – divenuta oramai inutile entro la sfera della persecuzione dei crimina politici – continua a svolgere il suo ruolo di ‘chiamata in aiuto’ con limitato riguardo alle multe pontificali 9. Le successive ricerche del Kunkel – nel generalizzato clima di sfiducia circa l’autenticità delle prime due leges de provocatione del sesto e del quinto secolo a.C. – attuano un ripensamento dalle fondamenta dei rapporti intercorrenti tra potere magistratuale, giudizio popolare e provocatio. Quest’ultima, nella visione dello studioso, si impone come mezzo politico di lotta rivoluzionaria, ossia come strumento (non cogente) di forza plebea che si contrappone, di fatto, agli abusi perpetrati dal potere coercitivo della magistratura patrizia investita dell’imperium; dal 300 a.C. in poi il giudizio apud populum (ricomprensivo della provocatio stessa) è concepito come la sola sede di cognizione e repressione dei reati politici, a fronte della perdita da parte dei consoli del loro potere coercitivo anche capitale. I reati comuni, di contro, vengono perseguiti mediante forme processuali capitali di carattere privatistico tese alla sospensione o alla sterilizzazione dell’esercizio della vendetta da parte del gruppo familiare del soggetto asseritamente leso (forme entro cui i questori vengono inquadrati o come inquirenti o, in alternativa, addirittura come giudici) 10. 9 Sul punto, v., altresì, le tesi – che risultano non in ridotta parte tributarie del pensiero del Bleicken – di: A. Magdelain, ‘Jus’, ‘Imperium’, ‘Auctoritas’. Etudes de droit romain, Rome, 1990, 539 ss. (corrispondentemente a De la coercition capitale du magistrat supérieur au tribunal du peuple, in Labeo, XXXIII, 1987, 139 ss.); J. Martin, Die Provokation in der klassischen und späten Republik, in Hermes, XCVIII, 1970, 74; L. Amirante, Sulla ‘provocatio ad populum’ fino al 300, in Iura, XXXIV, 1983, 1 ss.; M. Humbert, Le tribunat de la plèbe et le tribunal du peuple. Remarques sur l’histoire de la ‘provocatio ad populum’, in MEFRA, C, 1988, 468 ss. 10 Cfr. W. Kunkel, Untersuchungen zur Entwicklung des römischen. Kriminalverfahrens in vorsullanischer Zeit, München, 1969, 28 ss., 36 ss., 48 ss. (v., inoltre, in adesione, B. Schmidlin, Das Rekuperatorenverfahren, Freiburg, 1963, 146, 149; C. Lovisi, La peine de mort au quotidien, in La mort au quotidien dans le monde romain, Paris, 1995, 25 s.); R.-M. Rampelberg, Les limites du pouvoir répressif capital de la haute magistrature de la Loi Valeria de 449 au début du IIIème siècle, in Cahiers Glotz, VI, 1995, 247 ss.; piena persuasività alla tesi di Kunkel è attribuita da R.A. Bauman, Crime and Punishment in Ancient Rome, London - New York, 1996, 10, 43; tendenzialmente in senso conforme, cfr. A.W. Lintott, Violence in Republican Rome, Oxford, 1968, 12, 24, 92 ss., 106 ss., 161; Id., ‘Provocatio’.
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4. Le tesi di B. Santalucia e di L. Garofalo: la provocatio ad populum come ricorso contro gli abusi del magistrato Una rilettura della giustizia penale durante il periodo compreso tra il polo della instaurazione della repubblica (fissato tradizionalmente nel 509 a.C.) e quello della redazione delle XII Tavole (451-450 a.C.) in chiave di opposizione tra iudicatio popolare ed esercizio del potere d’imperio della suprema magistratura è stata proposta, in Italia, dal Santalucia 11, nonché dal Garofalo 12. Per il primo, la provocatio, sconosciuta come ius in epoca regia, con la caduta dei Tarquini, assurge legislativamente – e ciò in conformità a una From the Struggle of the Orders to the Principate, in ANRW, I.2, 1972, 227 ss.; Id., ‘Provocatio’ e ‘Iudicium Populi’ dopo Kunkel, in La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e persuasione, a cura di B. Santalucia, Pavia, 2009, 15 ss. 11 Cfr. B. Santalucia, Studi di diritto penale romano, Roma, 1994, 8 ss., 146 ss., 234 ss. (in corrispondenza di un saggio e due voci enciclopediche già editi, ossia: Il processo nelle XII Tavole, in Società e diritto nell’epoca decemvirale. Atti del convegno di diritto romano (Copanello 3-7 giugno 1984), Roma, 1988, 235 ss.; Processo penale [diritto romano], in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987, 318 ss.; Pena criminale [diritto romano], in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 734 ss.); Id., Diritto e processo, cit., 7 ss., 20 ss., 29 ss., 36 ss., 40 ss., 47 ss.; Id., Altri studi di diritto penale romano, Padova, 2009, 12 ss., 117 ss., 139 ss., 163 ss. (in corrispondenza di quattro saggi già editi, ossia: Dalla vendetta alla pena, in Storia di Roma, a cura di A. Momigliano e A. Schiavone, I, Torino, 1988, 427 ss.; Alle origini del processo penale romano, in Iura, XXXV, 1984, 47 ss.; Sacertà e processi rivoluzionari plebei: a proposito di un libro recente, in Studi per G. Nicosia, VIII, Milano, 2007, 255 ss.; Sulla legge decemvirale ‘de capite civis’, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di M. Humbert, Pavia, 2005, 401 ss.); Id., La giustizia penale in Roma antica, Bologna, 2013, 19 ss., 23 s., 25 ss., 30 ss., 39 ss. Cfr., per una connessione stretta tra provocatio e coërcitio magistratuale, L. Rodriguez-Ennes, Algunas cuestiones en torno a la ‘verberatio’, in RIDA, LXIX, 2012, 177 ss.; Id., ‘Verberatio’ y ‘provocatio ad populum’, in Direito romano: poder e direito, Coimbra, 2013, 811 ss. 12 Cfr. L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio dei ‘iudicia populi’, Padova, 1989, passim; Id., Sulla condizione di ‘homo sacer’ in età arcaica, in SDHI, L, 1990, 223 ss. (nonché in Appunti sul diritto criminale nella Roma monarchica e repubblicana3, Padova, 1997, 1 ss., e in Studi sulla sacertà, Padova, 2005, 13 ss.); Id., La competenza a promuovere ‘iudicia populi’ avverso donne, in SDHI, LII, 1986, 451 ss. (nonché in Appunti, cit., 89 ss.); Id., In tema di ‘provocatio ad populum’, in SDHI, LIII, 1987, 355 ss. (nonché in Appunti, cit., 43 ss.); Id., ‘Aediles’e ‘iudicia populi’, in Idee vecchie e nuove sul diritto criminale romano, a cura di A. Burdese, Padova, 1988, 45 ss. (nonché in Appunti, cit., 121 ss.); Id., Ancora sul processo comiziale ‘de capite civis’ (A proposito di un recente studio), in SDHI, LIV, 1988, 285 ss. (nonché in Appunti, cit., 167 ss.); Id., Il pretore giudice criminale in età repubblicana?, in SDHI, LVI, 1990, 366 ss. (nonché in Appunti, cit., 241 ss.); Id., Il pretore giudice criminale in età repubblicana? In margine a una risposta, in SDHI, LVII, 1991, 402 ss. (nonché in Appunti, cit., 287 ss.).
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tradizione storiografica ritenuta sostanzialmente affidabile – a suprema garanzia civica, di natura eminentemente patrizia, contro gli abusi e gli arbitri dell’esercizio del potere consolare di coërcitio esplicantesi come declinazione dell’imperium: è solare come, da tali premesse, si neghi – e in modo reciso – la natura di giudizio di secondo grado al processo popolare così radicato 13. La suprema magistratura della libera res publica, derivando il proprio potere da quello (militare) del rex etrusco, risulta priva di qualsivoglia potere giurisdizionale (sia al livello di accusa, sia al livello di giudizio), atteso che già sul finire del settimo secolo a.C., in caso di omicidio, si afferma per via di prassi, sulla base di originarie concessioni graziose del monarca, un’autentica sfera di repressione di esclusiva competenza dell’assemblea curiata, dinanzi alla quale viene celebrato un processo di iniziativa dei questori (i cui poteri di istruzione e di promozione dell’accusa tra l’inizio della repubblica e le XII Tavole sarebbero stati estesi agli illeciti capitali anche di indole politica, mentre in seguito ristretti ai crimini comuni). Tale sistema viene in parte confermato e in parte innovato dai decemviri attraverso plurime disposizioni che attribuiscono (sia a patrizi, sia a plebei) il ius provocationis: e ciò, tra l’altro, attraverso una norma incriminatrice (filo-patrizia) che vieta ai tribuni della plebe l’uccisione dell’homo indemnatus (ossia del cittadino non condannato alla pena di morte a seguito di regolare processo), nonché attraverso la norma (filo-plebea) sulla competenza de capite civis, la quale, pur ribadendo l’esclusiva competenza capitale del popolo, determina il passaggio dalle curie alle centurie del potere giudicante. Il sistema concepito dal Garofalo si presenta, sotto diversi profili, analogo a quello elaborato dal Santalucia, ancorché macroscopiche divergenze di pensiero emergano diffusamente. Lo studioso confida, infatti, nella verisimiglianza delle plurime e singole ipotesi di provocationes in età regia; configura la provocatio proto-repubblicana come rimedio contro gli abusi del magistrato che minacci il cittadino di messa a morte; ritiene il processo comiziale e quello per provocatio coevi; assume che il console in età repubblicana, privato del potere giudiziale capitale, ben difficilmente avrebbe lasciato soltanto ai questori il potere di promuovere l’accusa criminale; sostiene che i questori – magistrati di origine antichissima con funzioni credibilmente già istruttorie e, in principio, di sola designazione regia 14 – dal 509 a.C. al 477 Cfr. G. Pugliese, Appunti sui limiti dell’‘imperium’ nella repressione penale, Torino, 1939, 6 ss., 23 ss., 32, 36 s.; cfr., similmente, E.S. Staveley, ‘Provocatio’ during the Fifth and Fourth Centuries B.C., in Historia, III, 1956, 414 ss. 14 Cfr., nello stesso senso, P. de Francisci, ‘Primordia civitatis’, Roma, 1959, 618 ss.; G. Grosso, ‘Provocatio’ per la ‘perduellio’, cit., 218; F. De Martino, Storia della costituzione romana2, I, Napoli, 1972, 285; v., altresì, C. Venturini, Sanzione di crimini e principio di 13
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a.C. sarebbero stati nominati dal popolo, caso per caso, su iniziativa dei consoli con competenza al livello di instaurazione e di istruzione del processo popolare capitale. Ad avviso dell’autore, inoltre, dinanzi alle centurie già prima delle XII Tavole (e su sollecitazione della plebe) si sarebbero svolti alcuni processi; la disposizione decemvirale sul divieto di mettere a morte l’homo indemnatus sarebbe rivolta a tutti (magistrati patrizi, cittadini, tribuni, edili); la provocatio non solo verrebbe ribadita come ius civico (implicandosi la incompetenza magistratuale con riguardo a provvedimenti irroganti sanzioni capitali, laddove la norma de capite civis, implicitamente, escluderebbe la competenza delle curie), ma addirittura potenziata, divenendo opponibile non più solo a fronte di provvedimenti consolari, ma anche avverso i tribuni della plebe 15.
5. Le tesi di D. Mantovani e di E. Tassi Scandone: la provocatio ad populum e il iussus populi come norma incriminatrice Sul solco della tesi che riconnette il ‘cardine del sistema repubblicano’, ossia la provocatio ad populum, alla coërcitio, può essere situato anche il pensiero del Mantovani 16. Secondo lo studioso, infatti, le res capitales sarebbero colpevolezza nell’assetto decemvirale: alcuni rilievi, in Forme di responsabilità in età decemvirale, Napoli, 2008, 123 s. 15 Cfr., quanto alla opponibilità della provocatio anche ai tribuni, R. Lambertini, Aspetti ‘positivo’ e ‘negativo’ della ‘sacrosancta potestas’ dei tribuni della plebe, in D@S, VII, 2008, § 3; P. Cerami, Diritto al processo e diritto ad un ‘giusto’ processo: radici romane di una problematica attuale, in Diritto romano, tradizione romanistica e formazione del diritto europeo, a cura di L. Vacca, Padova, 2008, 40 e nt. 21; C. Pelloso, Sacertà e garanzie processuali in età regia e proto-repubblicana, in Sacertà e repressione criminale in Roma arcaica, a cura di L. Garofalo, Padova, 2013, 128 s. e nt. 99; contra, cfr. G. Niccolini, Il tribunato della plebe, Milano, 1932, 71 s.; R. Fiori, ‘Homo sacer’. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli, 1996, 496 s.; A. Magdelain, ‘Jus’, cit., 514 (in corrispondenza del saggio Remarques sur la ‘perduellio’, in Historia, XXII, 1973, 405 ss.); E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’, cit., 216; in senso contrario parrebbe esprimersi pure B. Santalucia, Diritto e processo, cit., 42. 16 Cfr. D. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare. Dalla ‘quaestio’ unilaterale alla ‘quaestio’ bilaterale, Padova, 1989, 9 ss.; Id., Il pretore giudice criminale in età repubblicana, in Athenaeum, LXXVIII, 1990, 19 ss.; Id., Il pretore giudice criminale in età repubblicana: una risposta, in Athenaeum, LXXIX, 1991, 611 ss. (sulla locuzione ‘iniussu populi’ interpretata nel senso di ‘in assenza di un previo provvedimento legislativo’, v., similmente, C. Lovisi, Contribution à l’étude de la peine de mort sous la république romaine [509-149 av. J.-C.], Paris, 1999, 291 s.; per una parziale condivisione, ossia solo sul piano teorico, v. C. Venturini, Pomponio, Cicerone e la ‘provocatio’, in Nozione, formazione e interpretazione
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condotte illecite previamente qualificate come tali dalle leges (o iussus populi): con riguardo ad esse, in epoca predecemvirale i questori (in sostituzione dei consoli) e, in età successiva, i pretori (poi coadiuvati da tresviri e iudices) sarebbero stati investiti di una funzione di ‘giurisdizione’ in senso ampio (iudicatio), concretata entro un processo pubblico (di unica istanza) gestito da loro integralmente, a partire dalla fase di promozione dell’azione penale sino alla pronuncia e all’esecuzione della sentenza definitiva. Di contro, in assenza di norme incriminatrici, da un lato il iudicium populi a grado unico (ossia, secondo la norma decemvirale de capite civis, il giudizio dinanzi al comizio centuriato), ad instaurazione tribunizia, si imporrebbe come sola via per la repressione capitale di illeciti di natura politica (rimanendo esclusi dalla competenza i reati comuni), dall’altro la provocatio ad populum (ribadita nel codice decemvirale) si atteggerebbe a vera ‘eccezione di incompetenza’ contro provvedimenti magistratuali capitali (formalmente di coercizione, ma nella sostanza di giurisdizione), non necessariamente declinazioni dell’imperium e – per l’appunto – concernenti materie non coperte da una lex incriminatrice. Pur riconnettendo l’originaria provocatio (interpretata come autentico ‘appello’ i cui fondamenti monarchici sarebbero di indole schiettamente religiosa) all’esclusivo terreno della iudicatio de capite civis, invero, molto mutua dalla ingegnosa ricostruzione proposta dal Mantovani il più recente tentativo di risistemazione della intera materia operato dalla Tassi Scandone 17. Da un lato, la studiosa ipotizza, a fronte dei limiti imposti dalla prima lex Valeria del 509 a.C. (ribaditi e intensificati nelle XII Tavole dalle disposizioni in tema di provocatio e dal divieto di interficere l’homo indemnatus), una generale iudicatio bipartita funzionalmente tra magistrati (per materie coperte da iussus, ossia da previe norme incriminatrici) e comizi centuriati (per materie estranee alla copertura legislativa); dall’altro, nel pensiero dell’autrice, il ricorso da parte del cittadino alla provocatio ad populum presuppone l’esistenza di una norma incriminatrice che attribuisce altresì al magistrato potere giudicante capitale (ius dicere, animadvertere), così che le due sfere di esercizio di iudicatio risultino, in definitiva, equilibrate e non eterogenee; infine, viene proposta un’audace rilettura della celebre norma decemvirale de capite civis non in termini di ‘norma sulla competenza esclusiva del comizio centuriato come giudice criminale’, bensì in termini di ‘norma sulla competenza legislativa esclusiva delle centurie in materia capitale’ 18. del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Professor F. Gallo, II, Napoli, 1997, 527 ss., 530 e nt. 8). 17 Cfr. E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’, cit., 39 ss., 61 ss., 105 ss., 153 ss. 18 Contro il tentativo della studiosa, dunque, di inficiare alla base la tesi dell’esclusiva competenza giudiziale in materia capitale delle centurie dopo le XII Tavole, cfr. C. Pelloso,
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6. Repressione criminale in Roma arcaica: re, popolo e magistrati come autorità giudicanti Una volta illustrate nei precedenti paragrafi le principali posizioni espresse in letteratura, intendo proporre una prima osservazione circa l’assunta competenza unica del popolo romano a far tempo dal 509 a.C. in materia di repressione capitale di illeciti di rilevanza pubblica. Senza soffermarmi sulla oramai pacifica infondatezza di quell’orientamento che, programmaticamente, svaluta (se non annichilisce addirittura) i dati afferenti alla tradizione storica in merito alle più antiche leges Valeriae de provocatione 19, il tenore del più antico provvedimento legislativo in materia non sembra formulato affatto nel senso di una riserva, in via esclusiva, ai comitia del popolo e, corrispondentemente, di un difetto di potere magistratuale de capite civis. Cicerone 20, Valerio Massimo 21 e Dionigi d’Alicarnasso 22, a quanto mi Sacertà, cit., 123, nt. 93; N. Spadavecchia, Gli enigmi della ‘provocatio ad populum’, in Politica antica, II, 2012, 195 s.; nonché, per ulteriori note critiche, v. N. De Luca, ‘Praesidium libertatis’: le ‘leges Valeriae de provocatione’, in Index, XXXVIII, 2008, 89 ss. 19 Sulla storicità della legge, rimando alle ampie e persuasive argomentazioni di E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’, cit., 39 ss.; v., inoltre, L. Garofalo, Appunti, cit., 50 s., 65, 84, 177; B. Santalucia, Diritto e processo, cit., 31. Contro un atteggiamento ipercritico, in generale, v. R. Develin, ‘Provocatio’ and Plebiscites, in Mnemosyne, XXXI, 1978, 55; L. Rodriguez-Ennes, La ‘provocatio ad populum’ como garantia fundamental del ciudadano romano frente al poder coercitivo del magistrado en la época republicana, in Studi in onore di A. Biscardi, IV, Milano, 1983, 73 ss.; Id., Nuevas perspectivas en torno a la evolución histórica de la ‘provocatio ad populum’, in Recueils de la Societé J. Bodin, XLVI, 1989, 12 ss. Scettici in merito all’autenticità della lex Valeria del 509 a.C. sono M. Humbert, Le tribunat de la plèbe, cit., 433, 457, nonché C. Venturini, Variazioni in tema di ‘provocatio ad populum’, in Index, XXXVII, 2009, 79 s.; Id., Processo penale e società politica, cit., 80 s.; prestano fede alla norma sulla provocatio inclusa nelle XII Tavole, U. Brasiello, Sulle linee e i fattori dello sviluppo del diritto penale romano, in Scritti Jovene, Napoli, 1954, 450; H. Siber, Römisches Verfassungsrecht in geschichtlicher Entwicklung, Lahr, 1952, 45 ss.; considerano come prima lex autentica quella del 449 a.C., F. De Martino, Storia, I, cit., 313; F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma, I.1, Napoli, 1984, 124 s.; P. Zamorani, Plebe genti esercito. Una ipotesi sulla storia di Roma (509-339 a.C.), Milano, 1987, 348 s. 20 Cic. rep. 2.31.53: Publicola legem ad populum tulit eam quae centuriatis comitiis prima lata est, ne quis magistratus civem Romanum adversus provocationem necaret neve verberaret (v., inoltre, Cic. rep. 1.40.62, acad. pr. 2.5.13). Va precisato che il tratto ‘neve verberaret’ si riferisce alla fustigazione non quale sanzione autonoma, ma quale misura accessoria al supplizio capitale: v., per tutti, G. Pugliese, Appunti sui limiti dell’‘imperium’, cit., 16 ss. 21 Val. Max. 4.1.1: legem etiam comitiis centuriatis tulit, ne quis magistratus civem Romanum adversus provocationem verberare aut necare vellet. 22 Dion. Hal. 5.19.4: ἐάν τις ἄρχων Ῥωμαίων τινὰ ἀποκτείνειν ἤ μαστιγοῦν ἤ ζημιοῦν εἰς χρήματα θέλῃ, ἐξεῖναι τῷ ἰδιώτῃ προκαλεῖσθαι τὴν ἀρχὴν ἐπὶ τὴν τοῦ δήμου κρίσιν, πάσχειν δ’
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risulta dal tenore delle loro esposizioni, sono quanto mai chiari su un punto: la provocatio ad populum – secondo la prima lex proposta in materia, agli albori della repubblica, da P. Valerio Publicola 23 – non assurge a ricorso, cui il civis ha ius, contro l’esercizio da parte del console di un potere sanzionatorio a monte inesistente; essa è, tutto al contrario, configurata come rimedio che – se e solo se viene invocato e fatto valere dal cittadino 24 – sospende l’efficacia e l’esecutività di un provvedimento capitale – vuoi anche aggravato dalla fustigazione come misura accessoria – emanato dal console in conformità, ed entro i limiti, di una sfera di potere a lui, invero, ἐν τῷ μεταξὺ χρόνῳ μηδὲν ὑπὸ τῆς ἀρχῆς, ἕως ἄν ὀ δῆμος ὑπὲρ αὐτοῦ ψηφίσεται; Dion. Hal. 5.70.2: τὰς τῶν ὑπάτων γνώμας ἀκύρους ἐποίησε, μὴ τιμωρεῖσθαι Ῥωμαίων τινὰ πρὸ δίκης, ἐπιτρέψας τοῖς ἀγομένοις ἐπὶ τὰς κολάσεις ὑπ᾽ αὐτῶν προκαλεῖσθαι τὴν διάγωωσιν ἐπὶ τὸν δῆμον, καὶ τέως ἄν ἡ πληθὺς ἐνέγκῃ ψῆφον ὑπὲρ αὐτῶν σώμασί τε καὶ βίοις τὸ ἀσφαλὲς ἔχειν. Lo storico continua in questi termini: τὸν δὲ παρὰ ταῦτά τι ποιεῖν ἐπιχειροῦντα νηποινὶ τεθνάναι κελεύων; ma la notizia ricavata circa l’attribuzione dello status di sacer al magistrato che non rispetti la provocatio ad populum deve ritenersi scarsamente attendibile: v. L. Garofalo, Il processo edilizio, cit., 81, nt. 26 s.; R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 105 s., 476 e nt. 1094; contra v. S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, I, Milano, 1981, 145 e nt. 53; da segnalare che anche Liv. 3.55.4-5, con riguardo alla parte della lex Valeria Horatia del 449 a.C. con cui si vieta la creazione di magistrature sine provocatione, attesta la caduta in sacertà del violatore del precetto: v. F. De Martino, Storia della costituzione romana2, II, Napoli, 1973, 312 s.; L. Garofalo, Appunti, cit., 21, nt. 82; R. Pesaresi, Studi sul processo penale in età repubblicana. Dai tribunali rivoluzionari alla difesa della legalità democratica, Napoli, 2005, 67, 111 (cfr., altresì, Cic. rep. 2.31.54). Sulla estensione della provocatio anche a multe, solo S. Tondo, Profilo, I, cit., 145, ritiene fededegna la versione di Dionigi, laddove secondo la communis opinio (v., per tutti, B. Santalucia, Studi, cit., 167), le multe – per l’esattezza quelle superiori a 30 buoi e 2 pecore, corrispondenti a 3020 assi di aes signatum – furono oggetto di provocatio solo in epoca posteriore (con le leges predecemvirali Aeternia Tarpeia e Menenia Sextia): cfr. Cic. rep. 2.35.60; Paul.-Fest. voce ‘Peculatus’ (Lindsay 232, 233, 268, 269); Paul.-Fest. voce ‘Ovibus duabus’ (Lindsay 220); Paul.-Fest. voce ‘Maximam multam’ (Lindsay 129); Gell. 11.1.3. 23 Cfr., sulla storicità del personaggio, R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 340 ss., 347 ss.; Id., ‘Sodales’, ‘Gefolgschaften’ e diritto di associazione in Roma arcaica (VIII-V sec. a.C.), in ‘Societas’-‘Ius’. ‘Munuscula’ di allievi a F. Serrao, Napoli, 1999, 125 ss.; Id., La convocazione dei comizi centuriati: diritto costituzionale e diritto augurale, in ZSS, CXXXI, 2014, 174 s. 24 A mente del rilievo espresso nel testo (per cui l’efficacia della provocatio risulta subordinata non ad una invocazione libera e a-formale, ma al rispetto di certune ritualità – io credo – indefettibili entro il sistema arcaico romano), ritengo che venga in parte superata l’obiezione mossa dal Venturini alla corrente di pensiero che instaura un nesso invincibile tra provocatio e giudizio popolare, configurando la prima come causa – di applicazione tendenzialmente generalizzata – del secondo, pretendendo di assegnare alla provocatio (quale ‘bypass’), in altre parole, una «pressoché automatica operatività in dipendenza della sua semplice invocazione da parte del cittadino medesimo, posto di fronte alla prospettiva di subire, in caso di silenzio, l’immediato esplicarsi ai propri danni della coërcitio magistratuale» (C. Venturini, Pomponio, cit., 549), «non essendo pensabile la rinunzia dell’interessato ad un diritto suscettibile di sottrarlo ad un non lieto destino» (Id., Variazioni, cit., 83).
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attribuita e implicitamente riconosciuta anche dopo il passaggio dal regnum alla res publica. Dionigi, peraltro, risulta – fermi taluni innegabili anacronismi, quale la opponibilità della provocatio anche a provvedimenti multatici – ancora più preciso rispetto agli autori latini. Lo storico, oltre a riprodurre il testo della lex Valeria del 509 a.C., specifica, confortato in ciò dalla versione dello stesso Plutarco, che quest’ultima legge comiziale, lungi dall’abolire alla radice il potere di sanzione capitale dei supremi magistrati patrizi, semplicemente rese i provvedimenti posti in essere discrezionalmente dai consules ‘non definitivi’, ossia ‘controvertibili’, in quanto assoggettabili, a tramite della provocatio, ad un’autentica ἔφεσις al popolo riunito con funzioni giudicanti, ossia – secondo la lessicografia greca – ad una ‘traslazione del giudizio’ da un tribunale a un altro 25. Inoltre – ‘du côté des juristes’– Pomponio, nella parte del suo manuale dedicata alla storia delle magistrature per come conservataci dai giustinianei, conferma che agli inizi della repubblica, una volta exacti i reges, venne emanata una lex, ancorché non qualificata espressamente come Valeria 26, con cui si stabilì il diritto civico di elevare provocatio contro i consoli, di talché questi ultimi non potessero in caput civis Romani animadvertere senza che il popolo Romano si fosse prima espresso mediante il suo iussus giudiziale incontestabile (iussus, ovviamente, suscitato grazie alla istanza del cittadino destinatario della misura repressiva) 27. Cfr., altresì, Dion. Hal. 6.58.2, 7.41.1; Plut. Publ. 11.3; Plut. Comp. Sol. Publ. 2.1. Cfr., paradigmaticamente, Harp. voce œfesij; Diogen. Paroem. 4.70.1. 26 Cfr. L. Garofalo, Il processo edilizio, cit., 16, nt. 25; Id., Appunti, cit., 65, 84, 270, 298. 27 Pomp. l.s. ench. D. 1.2.2.16: factum est ut ab eis provocatio esset neve possent in caput civis Romani animadvertere iniussu populi. Il passo del giurista classico, secondo B. Santalucia, Studi, cit., 18, riecheggerebbe i termini originali della lex Valeria del 509 a.C. (contra, cfr. C. Venturini, Pomponio, cit., 527 ss.; Id., Variazioni, cit., 70 s.). Quanto alla struttura sintattica, vero è che mediante la congiunzione ‘neve’ si può introdurre una conseguenza logica (cfr., ad esempio, Liv. 3.55.4-5): Pomponio verrebbe, quindi, a dire che per i consoli non è lecito ‘in caput civis Romani animadvertere iniussu populi’ solo in quanto e solo se è stata efficacemente opposta ‘ab eis provocatio’. Invero, neppure Pomp. l.s. ench. D. 1.2.2.23 milita contro la tesi della permanenza post reges exactos di un potere capitale dei consoli: et quia, ut diximus, de capite civis Romani iniussu populi non erat lege permissum consulibus ius dicere, propterea quaestores constituebantur a populo, qui capitalibus rebus praeessent: hi appellabantur quaestores parricidii, quorum etiam meminit lex duodecim tabularum. Grazie alla parentetica ‘ut diximus’, Pomponio rimanda ai contenuti di D. 1.2.2.16, sicché è lecito concludere nel senso, anche per tale contesto, di una menzione da parte del giurista di un divieto solo relativo. V., inoltre, Lyd. mag. 1.26, su cui, ex plurimis, J.D. Cloud, ‘Parricidium’: from the ‘lex Numae’ to the ‘lex Pompeia de parricidiis’, in ZSS, LXXXVIII, 1971, 19 ss.; Id., Motivation in Ancient Accounts of the Early History of the Quaestorship and its Consequences for Modern Historiography, in Chiron, XXXIII, 2003, 99 ss.; C. Venturini, Pomponio, cit., 25
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In altre parole, secondo l’unanime ricostruzione degli autori antichi – oratori, storici, giuristi –, nel primo anno di libera res publica non viene previsto legislativamente il divieto assoluto di fustigare e mettere a morte (verberare e necare), con conseguente annichilimento di un corrispondente potere della suprema magistratura, bensì si scolpisce il più limitato e relativo divieto di proseguire nell’esecuzione suprema a seguito dell’esercizio da parte del cittadino, destinatario della misura sanzionatoria di fonte magistratuale, del ius di provocare. Tale lettura delle fonti è, peraltro, corroborata da talune debolezze che connotano la tesi avversa che nega, già a far tempo dai primordi dell’era repubblicana, qualsivoglia potere di carattere giudiziale in ambito criminale in capo alla suprema magistratura patrizia, titolare di un potere direttamente derivato da quello regio e, quindi, esercitato in continuità con l’ultima fase della monarchia, durante la quale si sarebbe posta «accanto alla giurisdizione del popolo, la coërcitio del re» 28. Se, da un lato, è da seguire la corrente di pensiero che tende a valorizzare le non poche fonti comprovanti, già per l’età regia, taluni episodi di esercizio da parte dei comizi curiati della iudicatio criminale (pur in forme verisimilmente 532 s.; J. Caimi, Burocrazia e diritto nel ‘De magistratibus’di Giovanni Lido, Milano, 1984, 160 ss.; G. Urso, Cassio Dione e i magistrati. Le origini della repubblica nei frammenti della storia romana, Milano, 2005, 40, nt. 8. 28 Così, recisamente, B. Santalucia, Studi, cit., 23; più sfumata, ma comunque analoga, la posizione di L. Garofalo, Appunti, cit., 174 s. Cfr., sul potere giudicante consolare di derivazione regia, D. 1.2.2.16; v., inoltre, Pol. 6.11.12; 6.12.9; Cic. rep. 2.32.56; Dion. Hal. 4.76.1, 4.84.5, 5.1.2, 7.35.5, 10.1; Liv. 2.1.7, 8.32.3; Val. Max. 4.1.1; sul punto, cfr. A. Bernardi, Dagli ausiliari del ‘rex’ ai magistrati della repubblica, in Athenaeum, XXX, 1952, 3 ss.; A. Giovannini, Il passaggio dalle istituzioni monarchiche alle istituzioni repubblicane, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica: in memoria di F. Castagnoli, a cura di M.A. Levi, Roma, 1993, 75 ss.; v., inoltre, K. Girardet, Die Entmachtung des Konsulates im Übergang von der Republik zur Monarchie und die Rechtsgrundlagen des augusteischen Prinzipats, in ‘Pratum Saraviense’: Festschrift für P. Steinmetz, hrsgg. W. Görler und S. Koster, Stuttgart, 1990, 89 ss.; G. Urso, The origin of consulship in Cassius Dio’s Roman History, in Consuls and ‘Res Publica’. Holding High Office in Roman Republic, edited by H. Beck, A. Duplà, M. Jehne, F. Pina Polo, Oxford, 2011, 47. A sostegno della competenza della suprema magistratura patrizia a ‘giudicare’ in ambito criminale durante la più antica fase repubblicana non è invece invocabile l’impiego della designazione iudices in alternativa a consules e praetores: vero è, infatti, che solo in epoca più tarda tale sostantivo si afferma, in connessione al potere di iudicare alicui, ossia di accusare (Liv. 26.3.8, 43.16.11; cfr., per tutti, B. Santalucia, Diritto e processo, cit., 49, nt. 8), per indicare i consoli (cfr. Cic. leg. 3.3.8; Varro l.L. 6.88; Liv. 3.55; Gell. 11.18.8; Plin. nat. hist. 18.3.12; Non. voce ‘consulum et praetorum’ [Lindsay 23]; Paul.-Fest. voce ‘Porta praetoria’ [Lindsay 249]): sul punto, v., ampiamente, G. Urso, Cassio Dione e i magistrati, cit., 20 ss.; cfr., inoltre, C. Pelloso, ‘Giudicare’ e ‘decidere’ in Roma arcaica. Contributo alla contestualizzazione storico-giuridica di ‘Tab.’ 1.8, in Il giudice privato nel processo civile romano, a cura di L. Garofalo, I, Padova, 2012, 62 ss.
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solo embrionali) per concessione graziosa del re 29, dall’altro, nulla nei testi mi pare idoneo a dimostrare il graduale affermarsi di una ‘consuetudine’ consistente nel riservare regolarmente al popolo la competenza di decidere de capite civis, con corrispondente e contestuale abrogazione, rebus ipsis et factis, di siffatto potere in capo al rex e, per il console, originaria inesistenza dello stesso. Anzitutto, in tal senso non sembra così determinante il dato archeologico della pavimentazione pre-repubblicana, ai piedi dell’arce capitolina, di uno spazio destinato a riunioni del popolo: e ciò in quanto tale dato, a parte segnalare la arcaicità di possibili riunioni di tal fatta, nulla dice di preciso circa supposte generali funzioni – di carattere deliberativo – esercitabili originariamente dalle curie (ovvero dal popolo in ordine sparso) presso il Comizio 30. Né, del resto, è così pacifico che la celeberrima sigla calendariale Per un ‘processo popolare’ instaurato a seguito di provocatio (contro pronuncia regia o duumvirale), v. Cic. rep. 1.40.62, 2.31.54; Cic. Tusc. 4.1.1; Sen. ep. 108.31; Liv. 1.26.6-8; Schol. Bob. 64 (Hildebrandt); Val. Max. 8.1 absol. 1; Fest. voce ‘Sororium tigillum’ (Lindsay 380); Auct. vir. ill. 4; per un processo popolare instaurato addirittura in assenza di provocatio, cfr. Cic. Mil. 3.7; Val. Max. 6.3.6; Dion. Hal. 3.22.3-6, 4.4.7, 4.5.3, 4.84.2-3, 5.4.1-3; Zon. 7.6; Enn. ann. 131 ss. (amplius, cfr. L. Garofalo, Appunti, cit., 45 ss., 81, 173 ss. e nt. 23 ss.; E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’, cit., 36 ss.; v., inoltre, B. Santalucia, Studi, cit., 29 ss., 151 s.; Id., Altri studi, cit., 20 ss.; Id., Diritto e processo, cit., 25 s., secondo cui in epoca regia il processo comiziale affermatosi per prassi sarebbe sempre prescindente dalla provocatio). Da Liv. 1.49.4, invece, non mi pare sia evincibile con chiarezza alcuna rottura da parte di Tarquinio il Superbo della ‘prassi’ in questione, atteso che il riferimento alla assenza di consilia, sempre che il sostantivo sia indicativo dei comizi curiati e non dei consessi più ristretti dei patres: cfr., nel primo senso, F. De Martino, Storia, I, cit., 204 e nt. 4, nonché L. Garofalo, Appunti, cit., 85, nt. 32, 128, nt. 36, 176, nt. 34; più dubbioso, invece, B. Santalucia, Studi, cit., 27 e nt. 61, che non specifica affatto l’esatto ruolo che, in ambito di repressione delle res capitales, il popolo avrebbe giocato e il re etrusco avrebbe disatteso. 30 Cfr., per i problemi topografici, strutturali, cronologici, con differenti visioni sul punto, P. Carafa, Il Comizio di Roma dalle origini all’età di Augusto, Roma, 1997, 75 ss., 84, 96 ss., 114, 120; Id., I contesti archeologici dell’età romulea e della prima età regia, in Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, a cura di A. Carandini e R. Cappelli, Milano, 2000, 69; P. Carafa, Il Volcanal e il Comizio, in Workshop di Archeologia Classica, II, 2005, 139 s.; F. Coarelli, voce ‘Comitium’, in ‘Lexicon Topographicum urbis Romae’, I, Roma, 1999, 309 ss.; Id., Il Comizio dalle origini alla fine della Repubblica, in PdP, XXXII, 1977, 166 ss.; Id., Il Foro Romano, I, Roma, 1983, 119 ss.; C. Ampolo, Il problema delle origini di Roma rivisitato: concordismo, ipertradizionalismo acritico, contesti, I, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, V.1, 2013, 262 ss.; M. Humm, Le ‘Comitium’ du ‘Forum’ Romain et la réforme des tribus d’Appius Claudius Caecus, in MEFRA, CXI, 1999, 625 ss.; Id., Il Comizio del Foro e le istituzioni della repubblica romana, in La città com’era, com’è e come la vorremmo. Atti dell’Osservatorio Permanente sull’Antico, a cura di E. Corti, Firenze, 2014, 69 ss.; Id., Espaces comitiaux et contraintes augurales à Rome pendant la 29
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Q.R.C.F. (quando rex comitiavit fas) rimandi – come invece si è sostenuto sulla scorta della lectio facilior dei codici seriori del de lingua Latina di Varrone (6.31) – ad un’assemblea comiziale fatta convocare dal re con scopi di giurisdizione criminale dopo il compimento di un sacrificio 31: pur facendo propria tale lectio, infatti, ben Varrone può aver interpretato l’acronimo in questione come allusivo della ‘formula rituale’ (ius) che il re (nella sua veste di sacerdote, ossia come rex sacrorum) deve ‘pronunciare solennemente’ (dicare) nei pressi del sito del Comizio (e non dinanzi l’adunanza comiziale: ad Comitium), in contesto sacrificale (e non dopo il sacrificio: sacrificio) 32. période républicaine, in Ktema, XXXIX, 2014, 315 ss. Per una differenziazione tra contio e comitia, v., per tutti, W. Botsford, The Roman Assemblies. From their Origin to the End of the Republic, New York, 1909, 139 ss. 31 Cfr., sulla sigla, da ultimi, M. Fiorentini, La città, i re e il diritto, in La leggenda di Roma, a cura di A. Carandini, III, La Costituzione, Torino, 2011, 291; G. Aricò Anselmo, Antiche regole procedurali e nuove prospettive per la storia dei ‘comitia’, Torino, 2012, 262, 335 ss.; E. Bianchi, Il ‘rex sacrorum’ a Roma e nell’Italia antica, Milano, 2010, 201 ss. A fronte della lectio facilior di Varr. l.L. 6.31, in virtù del codice LI, 5 (‘eo die rex sacrificio ius dicat ad Comitium ad quod tempus est nefas, ab eo fas: itaque post id tempus lege actum saepe’), secondo il Blumenthal, il passo, nel tratto che qui più interessa, correrebbe così: rex sacrificio ius dicat. Ex sacrificio sarebbe un complemento di tempo, di cui il copista del manoscritto, per aplografia, avrebbe omesso la preposizione, mentre il verbo impiegato dovrebbe spiegarsi come imperfetto indicativo di dicere e non di dicare (cfr. A. von Blumenthal, Zum römischen Religion der archaischen Zeit, in Rhein. Mus., LXXXVII, 1938, 271 ss.; analogamente, v. B. Santalucia, Studi, cit., 15 ss.; Id., Diritto e processo, cit., 26 ss., che, tuttavia, ritiene dicat congiuntivo presente di dicere; cfr., inoltre, R. Santoro, Il tempo e il luogo dell’‘actio’, in AUPA, XLI, 1991, 296 ss., 300 ss.; M. Fiorentini, La città, i re e il diritto, cit., 304). Anche a non voler aderire ad altre – comunque problematiche e poco fidanti (cfr. P. Cipriano, ‘Fas’e ‘nefas’, Roma, 1978, 116 ss.) – letture di Varr. l.L. 6.31 (sacrificiulus dicat / sacrificulus dicat in luogo di sacrificio ius: e ciò sulla base dell’editio princeps di Pomponio Leto e di Fv, manoscritto monachense di Petrus Victorius e Iacobus Diacetius: cfr. G. Goetz - F. Schoell, ‘M. Terentii Varronis de lingua Latina quae supersunt’, Leipzig, 1910, a.l.), già solo per l’eccesso di correzioni richieste, ritengo poco plausibile che il comitiare indicasse, in origine, la condotta da parte del rex consistente non solo nel ‘tenere un comizio’, bensì anche nel presiedere un comizio per la celebrazione di un ‘processo criminale’ (ius dicere): tale tesi presuppone sia l’aggiunta di prima di sacrificio e di tra dic e at, sia il singolarissimo impiego, trovando esso conforto solo in Cic. Brut. 318, di ex con l’ablativo per esprimere l’idea della posteriorità. 32 Ove si aderisse alla tesi avversata nel testo, sarebbe giocoforza ritenere che il comizio con funzione di iudicium populi avesse luogo in tempo nefasto. Di poi, se si compara l’acronimo Q.R.C.F. con l’altra sigla calendariale Q.St.D.F. (‘quando stercus delatum fas ab eo appellatus quod eo die ex Aede Vestae stercus everritur’), si evince che dicat (come everritur) non è congiuntivo presente di dicere, ma indicativo presente di dicare; ius, quale oggetto del dicare (come stercus è oggetto del deferre/everrere da parte delle Vestali), riferendosi Varrone direttamente alla figura del rex sacrorum (come fanno Festo e Paolo Diacono), non può richiamare la ‘giurisdizione criminale regia’, ma verisimilmente qualche ‘formula rituale’
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In secondo luogo, non va taciuto che, entro una mole variegata di dati tra loro concordanti e tendenzialmente univoci 33, la percezione romana – nella tarda repubblica e nel principato – del rex primitivo con riguardo al momento della creazione e dell’applicazione del diritto appare nitida. A tal riguardo, il supremo magistrato monocratico dell’età primitiva viene descritto da Pomponio come il titolare di una manus (o potestas) indistinta e generalissima, esercente una gubernatio rivolta ad omnia, di talché, in questa prospettiva, ogni eventuale giudizio popolare non potrebbe che intendersi, in età regia, che come singola graziosa concessione 34. Nel de re publica di Cicerone, inoltre, il rex, da una parte, è elevato a custode stesso della interpretatio del ius; dall’altra, è definito quale arbiter e disceptator unico, competente a definire le controversie con pronuncia sul merito in ogni materia, ossia come colui che, tanto per fattispecie di diritto privato, quanto per fattispecie di natura pubblica, è il solo legittimato a ‘iura dare’ 35. Per di più, se durante la monarchia etrusca pare riscontrarsi il consolidamento di una prassi consistente nell’affidamento da parte del rex a suoi ausiliari del controllo della fase introduttiva e di impostazione delle liti private 36, stando al resoconto di Dionigi, la presidenza della fase istruttoria e decisionale (in ogni tipo di processo) rimane appannaggio del solo monarca sino a quando Servio, per primo, permette ai patres di pronunciarsi, in qualità di giudici, su pretese di indole privata, tuttavia continuando egli a riservarsi la cognizione relativa a tutti gli illeciti di indole pubblica 37. (v., tra i linguisti, G. Devoto, I problemi del più antico vocabolario giuridico romano, in Atti del Congresso di Diritto Romano [Bologna e Roma, 17-27 Aprile 1933], Pavia, 1935, 23 ss.; E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II, Potere, diritto, religione, trad. it., Torino, 2001, 367 ss.). Va segnalato, infine, che il sostantivo Comitium al singolare viene impiegato molto probabilmente in senso toponomastico e non come allusivo dell’assemblea, come è invece per comitia (Paul.-Fest. voce ‘Comitium’ [Lindsay 38]; Varr. l.L. 5.155; v. F. Grelle, voce ‘Comitia’, in Noviss. dig. it., III, Torino, 1959, 602; cfr., inoltre, la voce ‘Comitium’, in T.L.L., III, Lipsiae, 1906-1912, 1802). 33 Sulla iudicatio regia, a titolo di esempio, con propensione a prestare fede alle notizie evincibili dalle fonti, cfr. M. Kaser, Das altrömische ‘Ius’. Studien zur Rechtsvorstellung und Rechtsgeschichte der Römer, Göttingen, 1949, 35 ss.; C. Gioffredi, Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche romane, Roma, 1955, 72 ss.; R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino, 1967, 160. 34 Pomp. l.s. ench. D. 1.2.2.1; Pomp. l.s. ench. D. 1.2.2.14. 35 Cic. rep. 5.2.3; Liv. 1.8.1, 1.41.4-5, 30.32.2; Hor. carm. 3.43; Virg. Aen. 1.507, 5.758, 7.246; Virg. georg. 293; Prop. 3.11.46, 4.11.18; Ov. Fasti 2.492, 3.62; Ov. metam. 14.805, 14.823, 15.597; Phaedr. 4.13.8. 36 Cic. rep. 2.21.38; Liv. 1.41.4-5. 37 Dion. Hal. 4.25.2, 4.36.2, 10.1.2. Su tutto ciò, v., amplius, C. Pelloso, ‘Giudicare’ e ‘decidere’, cit., 97 ss., nt. 64 ss. Ovviamente tale esclusività non è contraria a che il rex, quale
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Infine, va enfatizzato, tra i plurimi dati qui rilevanti, quello relativo al primigenio caso di provocatio ad populum che le fonti attestano per l’epoca regia 38. Essa si rivolge, infatti, contro l’atto, posto in essere dagli augiudice unico e supremo, si potesse avvalere, in ambito criminale, anche di ‘collaboratori’ (cfr., per tutti, A. Giovannini, Les origines des magistratures romaines, in Mus. Helv., XLI, 1984, 21 ss.), come – ad esempio – i quaestores in materia di repressione dell’omicidio: cfr. B. Santalucia, Diritto e processo, cit., 21 s.; L. Garofalo, Appunti, cit., 71 ss.; R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 387 s.; R. Stewart, Public Office in Early Rome, Ann Arbor, 1998, 29 s., 69 s.; A. Lintott, The Constitution of the Roman Republic, Oxford, 1999, 133 ss.; J.D. Cloud, Motivation in Ancient Accounts of the Early History of the Quaestorship, cit., 99 ss.; V. Dementyeva, The Functions of the Quaestors of Archaic Rome in Criminal Justice, in D@S, VIII, 2009; P. Kołodko, The Genesis of the Quaestorship in the Ancient Rome. Some Remarks, in LR, III, 2014, 269 ss. 38 Liv. 1.26.5 ss.: tamen raptus in ius ad regem. Rex ne ipse tam tristis ingratique ad volgus iudicii ac secundum iudicium supplicii auctor esset, concilio populi advocato ‘Duumuiros’ inquit, ‘qui Horatio perduellionem iudicent secundum legem facio’. Lex horrendi carminis erat: ‘Duumuiri perduellionem iudicent; si a duumuiris provocarit, provocatione certato; si vincent, caput obnubito; infelici arbori reste suspendito; verberato vel intra pomerium vel extra pomerium’. Hac lege duumuiri creati, qui se absolvere non rebantur ea lege ne innoxium quidem posse, cum condemnassent, tum alter ex iis ‘Publi Horati, tibi perduellionem iudico’ inquit. ‘I, lictor, colliga manus’. Accesserat lictor iniciebatque laqueum. Tum Horatius auctore Tullo, clemente legis interprete, ‘Provoco’ inquit. Itaque provocatione certatum ad populum est … Non tulit populus nec patris lacrimas nec ipsius parem in omni periculo animum, absolveruntque admiratione magis virtutis quam iure causae (v., altresì, Auct. vir. ill. 4; cfr., inoltre, Cic. rep. 2.31.54; Cic. Tusc. 4.1.1; Sen. ep. 108.31). La tradizione attestata in Livio non è univoca e concorre con quella del processo comiziale per perduellio e con quella del processo duumvirale per parricidium (v., da una parte, Cic. Mil. 3.7; Schol. Bob. 64 [Hildebrandt]; Val. Max. 6.3.6, 8.1 absol. 1; Zon. 7.6; dall’altra, Fest. voce ‘Sororium tigillum’ [Lindsay 380], in una con Flor. 1.1.3.7). Per la inautenticità, cfr. T. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 918, nt. 1; C.H. Brecht, ‘Perduellio’. Eine Studie zu ihrer begrifflichen Abgrenzung zum römischen Strafrecht bis zum Ausgang der Republik, München, 1938, 131, 149, 189; W. Kunkel, Untersuchungen, cit., 22, nt. 50, 43, nt. 102; A. Magdelain, ‘Jus’, cit., 502, 508, 559, 568 (v., altresì, Id., ‘Jus’, cit., 559, 568 [in corrispondenza del saggio ‘Provocatio ad populum’, in Estudios en homenaje al Prof. Juan Iglesias, Madrid, 1988, 407 ss.]); nonché J.D. Cloud, The Origin of ‘provocatio’, cit., 27; F. Bellini, ‘Delicta’ e ‘crimina’ nel sistema quiritario, Padova, 2012, 113. Sulla verisimiglianza della narrazione liviana, v. B. Liou-Gille, La ‘perduellio’: les procès d’Horace et de Rabirius, in Latomus, LIII.1, 1994, 6. V., inoltre, G. Crifò, Alcune osservazioni in tema di ‘provocatio ad populum’, in SDHI, XXIX, 1963, 290; A. Watson, La mort d’Horatia et le droit pénal archaïque à Rome, in RHD, LVII, 1979, 5 ss.; Id., The Death of Horatia, in CQ, XXIX, 1979, 436 ss.; G. Grosso, ‘Provocatio’ per la ‘perduellio’, cit., 213 ss.; L. Garofalo, Il processo edilizio, cit., 8, nt. 3 s.; D. Briquel, Sur le mode d’exécution en cas de parricide et en cas de ‘perduellio’, in MEFRA, XCII, 1980, 97 e nt. 44; C. Venturini, Per una riconsiderazione della ‘provocatio ad populum’. A proposito della ‘lex Valeria’ del 300 a.C., in Index, XXXVI, 2008, 355, nt. 40; sul punto, v., inoltre, J.P. Brisson, Mythe, histoire et droit dans le procès d’Horace (Tite Live, 1.26), in Hommages à H. Bardon, Bruxelles, 1985, 55 ss. Sulla eccezionalità del giudizio popolare in età regia – a
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siliari regi detti duumviri, di iudicatio, ossia di solenne proclamazione del crimine – connotato, data la sua concreta estrinsecazione, dalla notorietà – di perduellio, figura variamente interpretata in letteratura come ipotesi di ‘alto tradimento’, di ‘sovvertimento dell’ordine interno costituito’, di ‘atto di guerra in tempo e in luogo di pace’ 39: il princeps Horatius – di ritorno in patria vittorioso contro i campioni di Alba Longa – si imbatte ante portam Capenam nella propria sorella; quest’ultima, ritenuta rea di piangere la morte di un avversario, viene colpita fatalmente dall’Orazio che per tale caedes manifesta (quale atrox facinus considerato lesivo di interessi super-individuali e super-gentilizi) 40 viene dedotto dinanzi al tribunale di Tullo Ostilio; il rex promuove – in luogo di un suo giudizio – il ‘misterioso’ procedimento duumvirale, consistente nella solenne proclamazione, da parte di due ausiliari regii nominati per l’occasione, della perduellio 41; indi l’Orazio, così iumente dell’episodio dell’Orazio – si sofferma persuasivamente U. Coli, ‘Regnum’, in SDHI, XVII, 1951, 126. 39 Sul crimine di perduellio e sulle forme della sua persecuzione (con non univoca interpretazione in letteratura), cfr. – ex plurimis – P. de Francisci, ‘Primordia civitatis’, cit., 276; U. Brasiello, voce ‘Crimina’, in Noviss. dig. it., V, Torino, 1960, 2; C. Gioffredi, I principi del diritto penale romano, Torino, 1970, 10; E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma. Origini e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma, Milano, 2012, 262 s.; W. Blake Tyrrell, The ‘Duumviri’ in the Trial of Horatius, Manlius and Rabirius, in ZSS, XCI, 1974, 107 ss., 122 ss.; G. Sabbatini, Appunti di preistoria del diritto romano, Torino, 2012, 217; D. Briquel, Sur le mode d’exécution en cas de parricide et en cas de ‘perduellio’, cit., 97 ss.; Id., Formes de mise à mort dans la Rome primitive. Quelques remarques sur une approche comparative du problème, in Du châtiment dans la Cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique, Roma, 1984, 225 ss.; G. Grosso, ‘Provocatio’ per la ‘perduellio’, cit., 213 ss.; A. Magdelain, ‘Jus’, cit., 499 ss.; B. Santalucia, Studi, cit., 11, 78, 152 ss. e ntt. 23 ss.; Id., Diritto e processo, cit., 14, 22 ss., 54, 76, 78. 40 Cfr., sul punto, Y. Thomas, ‘Parricidium’. I. Le père, la famille et la cité (La ‘lex Pompeia’ et le système des poursuites publiques), in MEFRA, XCIII, 1981, 685. 41 Alcuni hanno ritenuto l’episodio narrato da Livio nel senso di una benigna ed eccezionale sussunzione regia della fattispecie concreta nella figura della perduellio, invece che in quella ordinaria dell’omicidio, così da rendere praticabile la via, altrimenti non tale, della provocatio (cfr. G. Crifò, Alcune osservazioni in tema di ‘provocatio ad populum’, cit., 290 s., sulla scorta di C.H. Brecht, ‘Perduellio’, cit., 125 ss., 133 ss., 139 ss., 148 ss., nonché di T. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 528, nt. 1; v., inoltre, similmente, E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’, cit., 120, 129 ss., 143 s., 149 ss.). Altri hanno considerato la perduellio un capo di accusa invocabile contro l’Orazio a seguito dell’assoluzione a diverso titolo, ossia ‘sororicidio’, per il medesimo fatto (cfr. R.A. Bauman, The ‘duumviri’ in the Roman criminal law and in the Horatius legend, in Historia, XII, 1969, 1 ss.). In verità, la tesi dell’integrazione prima facie dell’omicidio e, quindi, della applicabilità della lex Numae non ritengo sia seguibile a fronte della nozione di liber sostenuta, anzitutto, da L. Garofalo, L’‘homo liber’ della ‘lex Numae’ sull’omicidio volontario, in ‘Philia’. Scritti per G. Franciosi, a cura di F.M. d’Ippolito, II, Napoli, 2007, 1031 ss. (nonché in Piccoli scritti di diritto penale
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dicatus in conformità al tenore rigorosissimo e implacabile della legge regia rilevante nel caso di specie (lex, per l’appunto, horrendi carminis) 42, solo in virtù di una clemente interpretazione, di cui il rex stesso si rende autore, idonea a superare il testo delle disposizioni applicabili, ‘provocat’ 43; il poporomano, Padova, 2008, 5 ss.): se homo liber è l’essere umano direttamente appartenente al popolo-esercito, allora tale non era la sorella dell’Orazio, di talchè la fattispecie di illecito emergente dalla disposizione numana non risulta integrata nel caso particolare. Vero è, comunque, che la stessa integrazione degli estremi della perduellio da parte dell’Orazio con il flagrante cagionamento della morte della sorella non è, comunque, pianamente e immediatamente intelligibile. Alcuni hanno inteso l’uccisione perpetrata da Orazio già di per sé come lesiva della intera civitas, in quanto o usurpazione delle prerogative di un pater (cfr. A. Watson, The Death of Horatia, cit., 436 ss.) o usurpazione del potere regio stesso (cfr. W. Rein, Das Criminalrecht der Römer von Romulus bis auf Justinianus, Leipzig, 1844, 467; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford, 1965, 114 s.; J.E. Gaughan, Murder was not a Crime. Homicide and Power in the Roman Republic, Austin, 2010, 13; A. Giovannini, Les origines des magistratures romaines, cit., 21 ss.). Altri, considerando il locus commissi criminis come ‘spazio pomeriale’, hanno ritenuto Orazio «coupable de traiter sa soeur en ennemi public, en hostis, alors que la paix a été arrêtée entre les deux villes» (B. Liou-Gille, La ‘perduellio’, cit., 27; v., analogamente, O. Karlowa, ‘Intra pomoerium’ und ‘extra pomoerium’, in Festgabe F. von Baden, Heidelberg, 1896, 63 ss., 68; per una connotazione di tipo militare della trasgressione imputabile all’Orazio, v. R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I6, Leipzig, 1907, 257, nt. 159; E.T. Merrill, Some Remarks on Cases of Treason in the Roman Commonwealth, in CPh, XIII, 1918, 34). 42 Sui problemi riguardanti il momento della emanazione della lex horrendi carminis (prima o in occasione del caso occorso all’Orazio?), sulla sua efficacia (particolare o generale?), nonché sulla sua natura (concernente anche la nomina dei duumviri o solo la iudicatio?), v., ampiamente, C.H. Brecht, ‘Perduellio’, cit., 139 ss. 43 Secondo B. Santalucia, Osservazioni sui ‘duumviri perduellionis’ e sul procedimento duumvirale, in Du châtiment dans la Cité, cit., 439 ss. (nonché in Id., Studi, cit., 35 ss.) esiste una distinzione tra perduellio flagrante e non flagrante, l’una forma di reato essendo repressa mediante il procedimento duumvirale (autoritario, sommario e non gravabile), l’altra mediante ordinario giudizio comiziale (Id., Studi, cit., 11, 48, 78, 152 ss., e ntt. 23 ss.; Id., Diritto e processo, cit., 14, 22 ss., 54, 76, 78; cfr., conformemente, sulla natura del processo duumvirale, C. Venturini, Variazioni, cit., 78 e nt. 33). A fronte di ciò, lo studioso assume che il riferimento alla provocatio ad populum a duumviris nella ‘lex horrendi carminis’ sia una aggiunta posteriore (laddove C.H. Brecht, ‘Perduellio’, cit., 139 ss., riteneva il blocco di disposizioni – ancorché innestato con falsificazione dall’annalistica nel racconto dell’Orazio – nel suo complesso veridico); aggiunta che poco si armonizzerebbe, da un lato, con la contestuale graziosa concessione regia di cui Livio discorre, dall’altro, coi silenzi emergenti da diverse fonti (Cic. Rab. perd. 13; Cic. rep. 2.31.54) e che, per l’appunto, indurrebbe a concludere per un esito procedimentale apud duumviros non ulteriormente controvertibile (per la definitività della pronuncia duumvirale in forza della lex horrendi carminis, v. J. Bleicken, Ursprung, cit., 333 ss.; W. Kunkel, Untersuchungen, cit., 22 e nt. 51; W. Blake Tyrrell, The Duumviri, cit., 107 ss.; B. Liou-Gille, La ‘perduellio’, cit., 11 ss.). Tale spiegazione della compresenza nella narrazione liviana, da un lato, del riferimento alla provocatio nella lex regia e, dall’altro, della
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lo, presso il quale si svolge la certatio processuale tra iudicatus e magistrati, infine, assolve definitivamente l’eroe di guerra. A mente di tutti questi dati, insomma, nulla pare escludere che i consoli abbiano mutuato dal rex generali poteri tanto ‘inquirenti’ 44 quanto ‘giudicanti’ anche de capite civis 45. Quindi, si appalesano sia l’erroneità per eccesso della interpretatio benigna del rex a fondamento dell’attivazione da parte dell’Orazio della provocatio ad populum, non credo essere appagante: non vedo, infatti, la necessità di ritenere non autentico in parte (ossia con limitato riguardo alla clausola di previsione della provocatio stessa) il tenore della lex horrendi carminis (v. C.H. Brecht, ‘Perduellio’, cit., 139 ss., 143 ss., il quale, sostenendo l’autenticità della legge ‘tout court’, considera il riferimento alla interpretatio del rex e alla sua clemenza inappropriato e segnale della falsificazione annalistica: se la legge fosse da ritenere emanata prima del caso dell’Orazio, non vi sarebbe alcun autentico intervento grazioso regio; se la legge fosse da ritenere emanata in occasione del processo all’Orazio, non vi sarebbe alcuna interpretazione). A ben vedere, infatti, l’esatta menzione, nel citato testo legislativo, non è di una ‘provocatio al popolo’, bensì di una ‘provocatio senz’altro’ dalla pronuncia solenne dei dummviri. Ergo, il richiamo da parte di Livio alla clemenza interpretativa e alla autorità di Tullo Ostilio (auctore … clemente interprete) – tutt’altro che impreciso o inopportuno – mi pare suscettibile di essere letto come allusivo di una ‘interpretazione innovativa e integrativa’ del testo della legge (già in vigore prima del caso di specie) nel tratto già consacrante la provocatio (applicabile in ipotesi di ‘fatto certo’ sussumibile già di per sé nel tipo della perduellio) in riferimento al verbum ‘provocare’. Quest’ultimo, insomma, slitterebbe per la prima volta (cfr. Liv. 8.83.3; Cic. Mil. 3.6), anche semanticamente, verso l’istituto implicante la instaurazione del giudizio dinanzi al popolo, da una primitiva e, ad ora, non esattamente perimetrata accezione (cfr., per ‘provocare’ nel senso di ‘sfidare’ a duello ordalico i duumviri, G. Grosso, ‘Provocatio’ per la ‘perduellio’, cit., 213 ss.; per l’originaria valenza di ‘sfidare’ del verbo in questione, cfr. J.D. Cloud, The Origin of ‘provocatio’, cit., 31 ss.). Se, in altre parole, si ritiene autentico il riferimento alla provocatio nella legge applicata da Tullo Ostilio e, al contempo, si ritiene verisimile il benigno intervento interpretativo del re ai fini della promozione di un giudizio popolare, allora sia ne consegue che la legge in parola non può essere una disposizione particolare emanata per l’occasione e introduttiva di una procedura tutta nuova (in questi termini, v. C. Lovisi, Contribution à l’étude de la peine de mort, cit., 269), sia non è necessario vedere nell’auctoritas del re vuoi un intervento processuale ad adiuvandum (cfr. A. Watson, The Death of Horatia, cit., 442), vuoi uno strumento attraverso cui si radica la certatio dinanzi al popolo (cfr. A. Pesch, ‘De perduellione, crimine maiestatis et memoria damnata’, Aachen, 1995, 88). Sulla questione della provocabilità della iudicatio duumvirale cfr., con altre argomentazioni, R. Pesaresi, Studi, cit., 168, nt. 132. 44 Cfr. Plut. Publ. 3-7; Zon. 7.12 (ma v., altresì, Liv. 2.5.5-8; Dion. Hal. 5.8-13; Val. Max. 5.8.1); Dion. Hal. 5.57.2-4 (su cui cfr. C. Maynz, Esquisse historique du droit criminel de l’ancienne Rome, Paris, 1882, 572, nt. 3, 585, nt. 12); Cassiod. var. 6. 45 V. Cic. rep. 1.40.62, 2.31.53; Cic. acad. pr. 2.5.13; Val. Max. 4.1.1; Dion. Hal. 5.19.4, 5.70.2, 6.58.2, 7.41.1; Plut. Publ. 11.2; Pomp. l.s. ench. D. 1.2.2.16; cfr., inoltre, Dion. Hal. 5.72.1-2; Liv. 2.8.2; Flor. 1.9.4; Auct. vir. ill. 15. A contraddizione della tesi che riconnette la provocatio ad populum al solo terreno della coërcitio magistratuale (tesi avversata radicalmente in tempi recenti da E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’, cit., 113 s., 118 s.), vanno ricordati anche Cic. rep. 2.31.54 e Liv. 3.33.10.
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tesi che ascrive ai comizi, con riguardo a crimini capitali, una competenza giudiziale esclusiva sin dai primordi dell’era repubblicana, sia l’erroneità per difetto della tesi che circoscrive il potere giudicante dei magistrati ai reati di indole non politica. Siffatti poteri, tuttavia, vengono de iure compressi inesorabilmente – alle soglie della libera res publica Romanorum – dalla prima legge de provocatione attraverso il riconoscimento generale (e ora non più subordinato, caso per caso, a provvedimenti graziosi) del ius provocationis, di modo che – come precisa Pomponio – in capo ai supremi magistrati patrizi, solo il potere coercitivo (non capitale), come quello cautelare, rimangono in toto autonomi, ossia esenti da controllo popolare ex post 46.
7. La provocatio ad populum contro atti magistratuali di coërcitio In età proto-repubblicana, la provocatio né si impone come il fondamento di ogni processo popolare (ben potendo il console o rimettere direttamente egli stesso la causa ai comizi o designare ad hoc un questore per l’istruzione e la conduzione del processo apud populum) 47, né è 46 Pomp. l.s. ench. D. 1.2.2.16: solum relictum est illis, ut coërcere possent et in vincula publica duci iuberent. Pomponio, quindi, neppure nella parte finale del celebre frammento, supporta l’inesistenza originaria di un potere giudicante de capite civis in capo ai consoli e, di conseguenza, l’esistenza dell’esclusivo potere di coërcitio e di imposizione del vinculum publicum (contra, cfr. L. Almirante, Una storia giuridica di Roma. I re, la città, Napoli, 1985, 93 s.; B. Santalucia, Altri studi, cit., 137; Id., Diritto e processo, cit., 31; v., inoltre, L. Garofalo, Appunti, cit., 77 ss.): il periodo in questione, invero, pare precisare quanto subito poco prima scritto dal giurista, ossia che a seguito (e solo a seguito) dell’invocazione della provocatio, i consoli non possono senza iussus del popolo animadvertere in caput civis. 47 Cfr. Tac. ann. 11.22.4 (diretta designazione consolare dei questori); D. 1.2.2.23 (costituzione popolare dei questori): sulla conciliabilità delle due fonti, v. L. Garofalo, Appunti, cit., 71 ss.; Id., Il processo edilizio, cit., 20 s. (ma, come mette in luce D. Mantovani, Il pretore, cit., 32, nt. 46, tale soluzione implica di necessità che il popolo si pronunci due volte con riguardo alla medesima res capitalis, a prescindere dalla gravità del reato). Inoltre, v. Calp. Pis. ann. fr. 37 (Peter); Cic. rep. 2.27.49, 2.35.60; Liv. 2.41.11, 4.15.4; Dion. Hal. 8.77-78, 8.82.4-5, 8.87.2; Diod. 11.37.7; Val. Max. 6.3.1 b; Flor. 1.26.7; Dio Cass. 5.19 (processo questorio per perduellio del 485 a.C. contro Spurio Cassio, in alternativa alla versione del giudizio domestico [Val. Max. 5.8.2; Plin. nat. hist. 34.9.15; Liv. 2.41.10; Dion. Hal. 8.79]); Liv. 3.13.1-3, 3.24.3-7, 3.25.1-3, 3.29.6; Dion. Hal. 10.7.1-4, 10.8.4 (processo questorio del 459-458 a.C. contro Marco Volscio Fittore per falsa testimonianza). Sul potere questorio di emanare sentenza in ambito criminale, v. D. Mantovani, Il pretore, cit., 33; Id., Il pretore giudice criminale in età repubblicana: una risposta, cit., 616, nt. 26; contra, v. L. Garofalo, Appunti, cit., 241 ss.; v., inoltre, C. Pelloso, ‘Provocatio ad populum’ e poteri magistratuali dal processo all’Orazio superstite alla morte di Appio Claudio decemviro, in SDHI, LXXXII, 2016, nt. 57 (in corso di pubblicazione).
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tesa a paralizzare esclusivamente atti di natura giudiziale del magistrato. Se il primo punto può ritenersi oggi pressoché incontroverso 48, quanto al secondo profilo, meritano di essere rammentati – in quanto recentemente letti nel senso di una conferma della ‘provocabilità’ dei soli atti giudiziari 49 – i due unici casi di provocatio esplicitamente registrati per l’epoca compresa tra la caduta del regno e il decemvirato legislativo. Nel 495 a.C., durante le tumultuose manifestazioni di protesta organizzate da plebei e nexi, un civis, considerato unus insignis dux seditionis, ‘provoca al popolo’ contro l’ordine di arresto (verisimilmente prodromico alla fustigazione e alla messa a morte) emanato imperio consulari da Appio Claudio 50, il quale ultimo – l’anno successivo e in altro contesto – sia non esita ad ascrivere all’istituto della provocatio l’origine di quell’intollerabile malum consistente nella paralisi dell’efficacia delle misure coercitive dei consoli, sia invita in senato alla creazione della magistratura straordinaria del dittatore – i cui atti di coercizione sono, per l’appunto, sottratti alla provocatio – al fine di procedere senza impedimento alle necessarie operazioni di leva 51. Nel 473 a.C., a fronte della minaccia sabina si decreta una chiamata generale alle armi; il plebeo Publilio Volerone, tuttavia, diserta in quanto ritiene di essere stato erroneamente inquadrato come soldato semplice invece che come centurione; i consoli, di conseguenza, inviano i littori ad arrestarlo; Volerone, non sortendo alcun effetto il suo appello ai tribuni, provocat ad populum (oltre a implorare altresì, come extrema ratio, la fides plebis) 52, seppur infruttuosamente: ma ciò non Sul punto v., per tutti, J. Bleicken, Kollisionen, cit., 471 ss. E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’, cit., 124 ss., 134 ss. 50 Cfr. Liv. 2.23.15: Appius, vehementis ingenii vir, imperio consulari rem agendam censebat; uno aut altero arrepto, quieturos alios; Liv. 2.27.12: cum circumstaret cotidiana multitudo licentia accensa, arripi unum insignem ducem seditionum iussit. Ille cum a lictoribus iam traheretur provocavit; nec cessisset provocationi consul, quia non dubium erat populi iudicium, nisi aegre victa pertinacia foret consilio magis et auctoritate principum quam populi clamore. Per l’arresto come misura coercitiva a fronte di sedizione, v., per tutti, T. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 562. 51 Cfr. Liv. 2.29.11: Ap. Claudius, et natura immitis et efferatus hinc plebis odio, illinc patrum laudibus, non miseriis ait sed licentia tantum concitum turbarum et lascivire magis plebem quam saevire. Id adeo malum ex provocatione natum; quippe minas esse consulum, non imperium, ubi ad eos qui una peccaverint provocare liceat. ‘Agedum’ inquit, ‘dictatorem, a quo provocatio non est, creemus; iam hic quo nunc omnia ardent conticescet furor. Pulset tum mihi lictorem qui sciet ius de tergo vitaque sua penes unum illum esse cuius maiestatem violarit’; v., inoltre, Liv. 2.18.8, 3.20.8, 4.13.11; Dion. Hal. 5.75.2, 6.58.2; Plut. Fab. 9.1; Plut. C. Gr. 18.1; Pomp. l.s. ench. D. 1.2.2.18; Fest. voce ‘Optima lex’ (Lindsay 216); Lyd. mag. 1.37; Zon. 7.13 (cfr., per tutti, F. De Martino, Storia, I, cit., 447). Cfr., inoltre, circa la non provocabilità degli atti di imperium dei decemviri (attinenti all’arruolamento degli iuniores), Liv. 3.41.7. 52 Cfr., sulle invocazioni di aiuto alla massa, A. Lintott, Violence in Republican Rome, cit., 11 ss.; Id., The Constitution of the Roman Republic, cit., 33. 48
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in quanto la provocatio è de iure inefficace contro provvedimenti di indole coercitiva, bensì in quanto, essendo la lex Valeria del 509 a.C. imperfecta, l’esercizio da parte di un plebeo del ius provocationis, de facto (ossia sul piano della effettività), può incontrare insuperabili ostruzionismi 53. Che la provocatio sia opponibile ad atti tanto giudiziali quanto coercitivi pare ricavarsi anche dal lessico pomponiano 54. La lex Valeria del 509 a.C., come noto, vieta ai consoli di ‘animadvertere in caput civis’ (o – il che è lo stesso – di ‘ius dicere de capite civis’) in assenza di un iussus populi: se quest’ultimo è un ‘provvedimento particolare ex post di natura giudiziale’ e non una ‘previa norma legislativa incriminatrice’ 55, allora l’attività del conLiv. 2.55.4-8: ad Voleronem Publilium de plebe hominem quia, quod ordines duxisset, negaret se militem fieri debere, lictor missus est a consulibus. Volero appellat tribunos. Cum auxilio nemo esset, consules spoliari hominem et virgas expediri iubent. ‘Provoco’ inquit, ‘ad populum’ Volero, ‘quoniam tribuni civem Romanum in conspectu suo virgis caedi malunt quam ipsi in lecto suo a vobis trucidari’. Quo ferocius clamitabat, eo infestius circumscindere et spoliare lictor. Tum Volero et praevalens ipse et adiuvantibus advocatis repulso lictore, ubi indignantium pro se acerrimus erat clamor, eo se in turbam confertissimam recipit clamitans: ‘Provoco et fidem plebis imploro. Adeste, cives; adeste, commilitones; nihil est quod expectetis tribunos quibus ipsis vestro auxilio opus est’; v., inoltre, Dion. Hal. 9.39.2. Nel senso espresso nel testo v. N. Spadavecchia, ‘Provocatio’ e ‘appellatio’ nel sistema delle garanzie civiche di Roma repubblicana, in Ricerche a confronto. Dialoghi di antichità Classiche e del Vicino Oriente, a cura di A. Bussetto e S.C. Loukas, Rende, 2015, 221. Sulla natura ‘sussidiaria’ della provocatio rispetto all’auxilium tribunizio (e, dunque, sulla sua distinzione, ancorché i due istituti siano talora nominati in coppia, come in Liv. 3.45.8, 3.53.4, 3.56.14, 3.65.5, 3.67.9, nonché Liv. 8.33.7, 37.51.4), v., per tutti, T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, I, cit., 277; v., contra, M. Bianchini, Sui rapporti fra ‘provocatio’ ed ‘intercessio’, in Studi in onore di G. Scherillo, I, Milano, 1972, 97, 99 ss.; M. Humbert, Le tribunat de la plèbe, cit., 459; L. Amirante, Sulla ‘provocatio’, cit., 10. A tal proposito va messo in luce, con B. Santalucia, La giustizia penale, cit., 30, come non debba affatto sorprendere se i consoli impunemente violassero il diritto civico di provocare al popolo: infatti, ancora la terza lex de provocatione del 300 a.C. (Liv. 10.9.3-5) qualificava solo come improbe factum siffatta trasgressione magistratuale (ma v., altresì, per una perfetta identificazione tra sacer e improbus, R. Pesaresi, ‘Improbe factum’. Riflessioni sulla ‘provocatio ad populum’, in ‘Fides’, ‘humanitas’, ‘ius’. Studii in onore di L. Labruna, VI, Napoli, 2007, 4197 ss.). Sull’origine ‘patrizia’ dello strumento della provocatio, cfr. Liv. 3.58.1-6 (nonostante 3.56.1, 13), 1.26.5-6, 8.30.2-8.32.10, 37.51.3-5, 40.42.8-10 (su cui, per tutti, cfr. A. Heuss, Zur Entwicklung, cit., 80, 107); dunque, per la tendenza a respingere la caratterizzazione delle leges Valeriae in senso filo-popolare e a credere la provocatio misura di auto-tutela di una parte soltanto della nobilitas indipendentemente dalle ‘lotte di classe’, v. A. Giovannini, ‘Consulare imperium’, Basel, 1983, 26, nt. 66; B. Santalucia, Diritto e processo, cit., 30 s.; L. Rodriguez-Ennes, La ‘provocatio ad populum’, cit., 82; L. Garofalo, Appunti, cit., 58, 84; F. La Rosa, I Valerii e le istituzioni repubblicane, in Quaderni Catanesi, XIX, 1988, 74 ss. 54 Pomp. l.s. ench. D. 1.2.2.16, 23. 55 V., per tutti, L. Garofalo, Appunti, cit., 241 ss., 287 ss., le cui notazioni critiche con53
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sole subordinata a tale iussus non può includere tanto la fase inquirente quanto la sommaria cognizione giudiziaria. Se così fosse, infatti, sarebbe d’uopo ipotizzare l’obbligo per il console di una richiesta di autorizzazione preliminare, fermo poi il diritto da parte del civis interessato, dopo l’emanazione nei suoi confronti del provvedimento sanzionatorio capitale, di suscitare nuovamente l’intervento del popolo: il che manifesta una macchinosa farraginosità procedimentale assai poco plausibile. Se, dunque, la provocatio è un rimedio dalla duplice natura e se, nella versione di Pomponio, il iussus menzionato non si identifica in una ‘previa autorizzazione’, è ben plausibile che l’animadvertere e il ius dicere vietati si limitino a descrivere una ‘concreta attività sanzionatoria’ 56 di cui si tace, tuttavia, la natura della fonte, la quale può essere un provvedimento emanato dal console sia come ‘amministratore’, sia come ‘giudice’ 57.
8. Sulla natura della provocatio ad populum in età proto-repubblicana Se il sistema proto-repubblicano delineato nelle pagine precedenti è corretto, allora la provocatio ad populum si atteggia a mezzo di opposizione sospensivo dell’efficacia esecutiva di un provvedimento consolare de capite con cui il civis o censura l’eccesso di potere che vizia un atto di natura discrezionale, o lamenta l’ingiustizia di una sentenza condannatoria concernente crimini tanto comuni, quanto politici. La provocatio ad populum, dunque, non è un ‘autentico appello’, innanzitutto in quanto l’atto contro cui essa si invoca non sempre presenta i caratteri di una ‘autentica sentenza’. Tuttavia, non è questo il solo argomento che induce a escludere tale – non inconsueta in letteratura – sovrapposizione. A ben vedere, infatti, non è dato rinvenire un ulteriore requisito imprescindidotte sulla scorta di Pol. 6.14.6, Plaut. aul. 700, pseud. 1232, truc. 819, in una con la tradizionale interpretazione dell’ablativo iniussu populi – che si trova nel liber singularis Enchyridii di Pomponio in relazione alla trattazione delle limitazioni imposte ai consoli dalla lex Valeria del 509 a.C. –, sembrano tali da poter considerare persuasiva la communis opinio identificante il iussus in un provvedimento giudiziale. 56 Cfr. C. Gioffredi, Diritto e processo, cit., 188 ss.; Id., I principi del diritto penale romano, cit., 14 s., 45, ove si qualifica come impropria la locuzione ius dicere se connessa alla sfera criminale e ove si comprime il significato di animadvertere a ‘punire’; contra, v., sulla scorta di E. Levy, Die römische Kapitalstrafe, Heidelberg, 1931, 6, nt. 1, C. Venturini, Pomponio, cit., 529; E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’, cit., 6 s. e nt. 13, 110 ss.; v., altresì, C. Pelloso, ‘Giudicare’ e ‘decidere’, cit., 97 ss. e ntt. 64 ss., 100 ss. 57 Sulla sottile linea di confine tra coercizione e giurisdizione magistratuale, soprattutto con riguardo all’epoca antica, cfr. C. Venturini, Variazioni, cit., 73; J.D. Cloud, The Origin of ‘provocatio’, cit., 43.
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bile per poter discorrere propriamente del ‘mezzo di impugnazione’ in parola, sia esso concepito come una revisio prioris instantiae, sia esso concepito come una prosecutio prioris instantiae (la prima, quale modello di revisione – o di riesame – del giudizio già svoltosi in prima istanza, da cui deriverebbe per il giudice di secondo grado solo la cognizione delle questioni già trattate e delle prove già esperite; la seconda, quale modello di continuazione – o di riapertura o rinnovazione – del precedente grado di giudizio, da cui discenderebbe la sottoponibilità al giudice di seconde cure anche di nuove eccezioni e di nuove prove, ferma restando l’improponibilità di nuove domande) 58. È chiaro – e ciò emerge da quanto sappiamo circa le modalità di instaurazione del giudizio criminale comiziale – che l’invocazione al popolo non produce alcun effetto devolutivo, bensì si atteggia ad atto di natura unicamente sospensiva. In altre parole, è solo il magistrato che, dotato di ius agendi cum populo, ha il potere di convocare i comizi e, quindi, di introdurre la causa dinanzi al popolo a seguito della provocatio di civis laico; la sentenza che conclude il iudicium populi, del resto, lungi dall’essere l’atto finale di una fase giudiziaria rescissoria idoneo a modificare o a sostituire il provvedimento magistratuale controverso, si limita ad autorizzare o meno (iussu / iniussu), a fronte di una richiesta che solo può provenire dal magistrato, l’esecuzione capitale del civis provocante 59.
9. Sul ius del cittadino al processo popolare nelle riforme decemvirali Su tale assetto esercita un notevole impatto innovatore – tanto a livello di principi, quanto a livello operativo – il ‘micro-sistema’ criminale scolpito dalle XII Tavole nel divieto generale di interficere l’homo indemnatus, nel divieto rivolto al magistrato di ferre de capite civis (ossia di instaurare il Sulla configurazione dell’appello e sulla contrapposizione tra ‘Revisionsprinzip’ e ‘Berufungsprinzip’, v. J.W. Planck, Lehrbuch des deutschen Civilprozessrechts, II, München, 1896, 453 ss.; H. Walsmann, Die Auschlussberufung, Leipzig, 1928, 7 ss.; P. Calamandrei, Appendice alla voce Appello, in Opere giuridiche, VIII, Napoli, 1965, 452 ss.; V. Tavormina, Impugnazioni sostitutive e impugnazioni rescindenti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 653; Id., Contributo alla teoria dei mezzi di impugnazione delle sentenze, Milano, 1990, 81; sull’appello quale mezzo di gravame devolutivo, v., per tutti, A. Bonsignori, L’effetto devolutivo dell’appello, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1974, 1331 ss. 59 Cfr., per tutti, F. De Martino, Storia, I, cit., 425. La provocatio è dunque presupposto, ma non immediato atto introduttivo, del giudizio popolare: solo se il magistrato accoglie la ‘sfida’ del civis che provocat e, quindi, ha luogo la certatio tra le due parti (cfr. Cic. leg. 3.6; Liv. 1.26.6, 8, 40.42.9), il popolo si pronuncia autorizzando o meno la proposta condannatoria del magistrato. Oltre a ciò, va senz’altro ricordato come la provocatio possa provenire anche da soggetti terzi rispetto al cittadino destinatario del provvedimento magistratuale (cfr., in termini generali, Ulp. 2 appellat. D. 49.1.6.). 58
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processo, condurre l’istruttoria, presiedere l’assemblea, proporre la pena da irrogare) se non al maximus comitiatus (ossia al comizio delle centurie), nonché nelle plurime disposizioni che ribadiscono ed estendono il diritto civico alla provocatio ad populum 60. Quanto alla prima norma, il riferimento in negativo alla damnatio suggerisce che lo scopo perseguito dal decemvirato legislativo è l’abolizione della messa a morte senza un ‘previo processo (comiziale)’ culminante in una ‘sentenza di condanna’ (ossia il divieto di messa a morte da parte di un magistrato, giusta l’esercizio di coërcitio). Quanto alla seconda, se essa è effettivamente qualificabile come ‘norma sulla competenza’, altrettanto vero è che essa, formulata talora, nelle fonti, solo nel senso di escludere per le res capitales ogni proposta magistratuale a un organo giudicante diverso dal comizio centuriato 61, senza la coesistente norma sull’homo indemnatus non sarebbe, di per sé sola, idonea a vietare l’uccidibilità del cittadino a seguito di atto diverso, per propria natura, dalla sentenza di condanna emanata dal popolo (iussus populi) 62. Le due norme, insomma, vanno giustapposte e considerate sinotticamente come parti di una sistema in cui, da un lato, si proibiscono provvedimenti magistratuali sia coercitivi, sia (ancorché implicitamente) giudiziali de capite; dall’altro, si proibiscono Salv. gub. 8.5: interfici … indemnatum quemcunque hominem etiam duodecim Tabularum decreta vetuerunt (cfr., altresì, Aug. civ. Dei 1.19; Dion. Hal. 3.22.3); Cic. Sest. 30.65: cum … XII Tabulis sanctum esset ut neque … liceret, neque de capite nisi comitiis centuriatis rogari (cfr., inoltre, per una esplicita competenza giudiziale de capite civis riservata ai soli comizi centuriati, emergente dall’uso del verbo iudicare o statuere, Cic. Sest. 34.73: de capite … iudicari … nisi comitiis centuriatis; Cic. rep. 2.36.61: de capite civis Romani nisi comitiis centuriatis statui vetaret); Cic. leg. 3.19.44: tum leges praeclarissimae de duodecim Tabulis tralatae duae, quarum altera … altera de capite civis rogari nisi maximo comitiatu vetat; ferri de singulis nisi centuriatis comitiis noluerunt; Cic. leg. 3.4.11: de capite civis nisi per maximum comitiatum … ne ferunto (cfr., altresì, Pol. 6.14.6; Plaut. aul. 200, truc. 819, pseud. 1232); Cic. rep. 2.31.54: ab omni iudicio poenaque provocari licere indicant XII Tabulae conpluribus legibus. Per un approfondimento su tale micro-sistema decemvirale, mi permetto di rinviare a C. Pelloso, Sacertà, cit., 121 ss.; Id., ‘Provocatio’, cit., § 7. 61 Che la norma de capite civis sia da interpretare come norma che, mutando rispetto all’epoca pre-decemvirale, consente al magistrato di proporre condanne capitali al solo ‘comitiatus maximus’ è sostenuto – sulla scia di T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III, cit., 357 s. e nt. 3 – da B. Santalucia, Altri studi, cit., 163 ss.; di recente, anche G. Aricò Anselmo, Antiche regole procedurali, cit., 155 ss., perviene indirettamente a ribadire la tesi tradizionale. Sulla competenza delle curie in età pre-decemvirale, cfr. B. Santalucia, Diritto e processo, cit., 40 ss., 44; v., di contro, L. Garofalo, Appunti, cit., 52 s., 72 s., 180; D. Capanelli, Appunti sulla ‘rogatio agraria’ di Spurio Cassio, in Legge e società nella repubblica romana, a cura di F. Serrao, I, Napoli, 1981, 44. 62 Così, persuasivamente, D. Mantovani, Il pretore, cit., 25; sul rapporto tra le due norme v. A. Guarino, Il dubbio contenuto pubblicistico delle XII Tavole, in Labeo, XXXIV, 1988, 327 e nt. 27; L. Garofalo, Il processo edilizio, cit., 47, nt. 7. 60
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provvedimenti giudiziali de capite emessi dalla assemblea curiata e da quella tributa 63. Ergo, l’ulteriore ‘set’ di norme decemvirali concernenti la provocatio ad populum 64 dà forma a un istituto che risulta, rispetto al regime pregresso, dotato di efficacia ben più penetrante: a fronte della norma sull’homo indemnatus, la provocatio si atteggia a mezzo di opposizione contro atti magistratuali, non più solo consolari, ma addirittura tribunizi 65, posti in essere per ‘difetto di potere’; in forza della norma de capite civis, essa si può rivolgere al solo comizio centuriato 66. Per una rassegna di processi capitali (tanto tribunizi quanto questori) radicati dinanzi le centurie, di processi multatici radicati dinanzi la plebe, nonché per l’assenza di processi capitali apud plebem, v. C. Pelloso, Sacertà, cit., 111 ss., 123 s. (per i secoli dal quinto al terzo a.C.); Id., ‘Provocatio’, cit., ntt. 79 ss. (con specifico riguardo a episodi da collocarsi tra la fine del terzo e la fine del secondo secolo a.C.). E ciò contro il pensiero di E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’, cit., 186 (la quale, come noto, sostiene che la norma decemvirale in parola sancisca una riserva legislativa e non giudiziale), nonché R. Pesaresi, Studi, cit., 106 ss., 110 ss. (che tenta di fondare la tesi dello svolgimento di processi capitali dinanzi il concilium plebis anche dopo le XII Tavole); v., inoltre, sulla asserita persistenza di competenza plebea de capite civis anche dopo le riforme decemvirali, Y. Rivière, Éléments pour une relecture de la procédure tribunicienne, in RHD, XCI, 2013, 3 ss., 41 ss. (le cui ricostruzioni sono contraddette in C. Pelloso, ‘Provocatio’, cit., ntt. 81 ss.). Sulla eccezionalità del caso (Liv. 3.56.1-13, 3.57.1-6), risalente all’anno 449 a.C., che vide Appio Claudio Decemviro, sia accusato de capite civis dinanzi le tribù da Virginio, sia inutilmente invocante l’ausilio tribunizio e il giudizio del popolo, v., più estesamente, da ultimo, C. Pelloso, ‘Provocatio’, cit., § 7. 64 Il rapporto, entro il codice decemvirale, tra norma de capite civis e norme sulla provocatio è sì stretto, ma non tanto da poter condividere l’assunto secondo cui solo attraverso il ius provocationis il cittadino può ottenere una pronuncia sul suo caput dell’assemblea delle centurie (così, esplicitamente, A. Guarino, Il dubbio contenuto, cit., 328 s.; implicitamente, R. Pesaresi, Studi, cit., 106 ss.); né del resto è corretto ritenere che l’una è doppione dell’altra (cfr. D. Mantovani, Il pretore, cit., 25), in quanto sia il processo comiziale de capite non necessariamente presuppone una provocatio, sia la prima (quale divieto rivolto al magistrato) modifica rispetto al passato il comizio competente, mentre la seconda attribuisce al civis un diritto intensificato rispetto al precedente assetto. Del tutto implausibile la fantasiosa ricostruzione proposta da R.E. Mitchell, Patricians and Plebeians. The Origin of the Roman State, Ithaca, 1990, 168 ss., 177 ss., secondo cui la norma de capite civis – irrelata alla provocatio – si iscriverebbe nel contesto della giurisdizione pontificale dinanzi i comizi curiati (v., in merito, K. Hackl, Gab es eine ‘provocatio ad populum’ auch im Zivilprozess?, in Mélanges F. Sturm, I, Liège, 1999, 179 ss.). 65 L. Garofalo, Il processo edilizio, cit., 13 s., 49, 53 ss. 66 È a questo secondo stadio che alcune leges scritte, per una costituzione ideale e virtuale, da Cicerone paiono ispirarsi: in Cic. leg. 3.3.6 (ove, in un periodare stringato e allusivo, si dà vita ad uno zeugma stilistico e concettuale non pienamente conforme al diritto repubblicano), i magistrati sono detti ‘essere titolari’ del potere coercitivo di multare, di incarcerare, di fustigare, potere comunque sterilizzabile, a seguito della provocatio del trasgressore, vuoi dalla intercessio del collega, vuoi dal popolo (cfr. T. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 474; B. Santalucia, Diritto e processo, cit., 38 e nt. 27; L. Garofalo, Appunti, cit., 218 s.; C. 63
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Se si confrontano la lex Valeria del 509 a.C. e il precetto decemvirale sulla provocatio, poco muta solo da un punto di vista ‘pratico’, essendo scarsamente plausibile – anche in epoca precedente al 451-450 a.C. – la rinunzia dell’interessato all’esercizio di un diritto suscettibile di sottrarlo all’esito più infausto; è invece al livello di ‘ideologia’ che il divario tra i due regimi si mostra assai notevole. Una cosa è prevedere che i magistrati non possano mettere a morte se alla minaccia di esecuzione il cittadino fa formale opposizione; un’altra è stabilire che il magistrato non abbia affatto il potere di mettere a morte il cittadino. Nel primo caso non si comprime sostanzialmente il potere coercitivo e giudiziario de capite, che è esistente a monte, ma sterilizzabile a valle con la provocatio; nel secondo si determina una effettiva duplice riduzione di detto potere, il quale ultimo viene decurtato di modo che né sul piano della iudicatio, né sul piano della coërcitio, risulta ammissibile l’irrogazione della sanzione suprema: l’inesistenza del potere magistratuale, a monte, viene così denunziata a valle a mezzo della provocatio ad populum. Attraverso la riscrittura decemvirale di tale istituto sono definitivamente gettate le più solide basi della libertas del sistema repubblicano che vede il populus Romanus come appartenente solo a sé stesso, il singulus come in potestate illius e il magistratus come mandatario della civitas di cui assume ed esercita il ruolo: se la libertas, quindi, si identifica positivamente nell’appartenenza di ogni singolo individuo al populus, essa negativamente consiste nell’esclusione di ogni vestigium del regnum, in cui non v’è res publica come res populi, quale è, appunto, l’ascrizione ai magistrati di iudicatio e coërcitio capitali 67. Libertas che, di conseguenza, è considerata tale da comportare Venturini, Pomponio, cit., 556 ss.), laddove essi non sono qualificati come titolari del potere giudiziario di sanzionare penalmente, sicché debbono chiamare il popolo a tal scopo. In Cic. leg. 3.3.10 e 3.12.27 (passi parimenti di difficile valutazione rispetto alla terminologia e agli istituti del diritto criminale repubblicano: cfr. J. Kunkel, Untersuchungen, cit., 20 ss.), ove i magistrati sono detti titolari solo di auspicium e di iudicium mentre il popolo è titolare della potestas alla quale si provoca, non si ascrive affatto a questi giurisdizione criminale (cfr., paradigmaticamente, A. Magdelain, ‘Ius’, cit., 157; E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’, cit., 114 ss.), ma solo il potere di promozione dell’accusa, attraverso la proposta di una sentenza (cfr. L. Garofalo, Appunti, cit., 79, nt. 24), o il potere di tenere i comizi (cfr. B. Santalucia, Diritto e processo, cit., 38, nt. 29). 67 Cfr. D. 49.15.7.1; Varr. l.L. 9.6; Cic. off. 1.124; Cic. de orat. 2.167; Sen. ep. 14.7; v., inoltre, Cic. rep. 1.25.39 e Tac. ann. 1.1.1. Quanto all’etimologia di liber, in connessione non solo all’idea di ‘appartenenza’, ma pure di ‘crescita’, cfr. A.A. Semioli, ‘Liber’, ‘Libera’ e *